Temi e problemi dell'evoluzione storica del diritto pubblico romano 9788892105638

"Sono un vecchio professore universitario in pensione, dichiarato emerito, gravato del Cavalierato di Gran Croce, e

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Italian Pages XI,268 [284] Year 2016

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sommario
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Le origini dell'identità europea e il loro portato formativo
I - La monarchia
II - Formazione e sviluppo della respvblica
III - Giurisprudenza repubblicana forme del processo ed editto: tribunali delicta privata e crimina pvblica
IV- La crisi della respvblica
V- Il principato
VI - Produzione del diritto e giurisprudenza nel principato
VII - I vangeli di Augusto e la via di Cristo nell'impero romano: alle "radici" pagane dell'Europa
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Temi e problemi dell'evoluzione storica del diritto pubblico romano
 9788892105638

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Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

In copertina: Recto e verso di un denario di Traiano con ritratto dell’imperatore e personificazione della Iustitia e Abundantia assisa.

Felice Costabile

Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0563-8

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

In più d’un quarto di secolo di docenza universitaria di ricerca e di edizioni scientifiche non ho mai scritto un testo didattico. Dopo la morte di mio padre Paolo, dedito per settant’anni all’insegnamento liceale ed autore del manuale di storia Esperienza Umana adottato nei decenni a livello nazionale sento non più rinviabile questo tardivo adempimento verso i miei studenti. Cresciuto in una casa dalle pareti foderate di volumi nell’epoca dell’indiscusso prestigio dell’istruzione pubblica vedevo mio padre affrontare la fatica quotidiana del suo magistero personificazione dell’etica del lavoro nell’Italia del dopoguerra sempre pronto ad aiutare i giovani che volessero affrancarsi dal bisogno – com’egli aveva fatto – attraverso lo studio. Nel trarre ora da lui l’ultimo esempio dedico a mia madre Elvira questo libro scritto nell’anno del nostro dolore. 29 settembre 2010

Paolo Costabile

(Lamezia Terme 5 marzo 1919 - Reggio Calabria 21 dicembre 2009)

SOMMARIO pag.

LE ORIGINI DELL’IDENTITÀ EUROPEA E IL LORO PORTATO FORMATIVO 1. Il valore identitario della conoscenza storica 2. Critica delle fonti: moderne metodologie della ricerca e loro origine storiografica 3. Lo studio del diritto romano per la formazione dei giuristi

1 2 11

I LA MONARCHIA I.1. Fonti per la ricostruzione della storia istituzionale arcaica I.2. La fondazione di Roma e la monarchia latino-sabina. L’organizzazione della città: senatus, gentes, curiae, tribus. Tradizione e indagini archeologiche Il “concentramento storico” I.3. La civiltà etrusca arcaica e la sua influenza su Roma I.4. La monarchia etrusca: i due Tarquini e Servio Tullio. La potestas, l’imperium ed i suoi simboli. Le riforme “serviane” I.5. Fine della monarchia etrusca e primordi della respublica: tradizione romana e critica storica

15 17 17 24 28 34

II FORMAZIONE E SVILUPPO DELLA RESPVBLICA II.1. Gli organi assembleari e le loro funzioni (elettorale, legislativa, giurisdizionale) II.1.1. Struttura e funzioni elettorale e legislativa dei comitia centuriata e tributa e dei concilia plebis tributa II.1.2. Il senato in età repubblicana

39 44

II.2. Formazione e sviluppo delle istituzioni repubblicane attraverso il conflitto patrizio-plebeo. La “democrazia compensativa”

46

39

VIII

Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

pag. II.2.1. II.2.2. II.2.3. II.2.4.

Le prime due secessioni plebee: la dimensione “compensativa” Il Decemvirato e le XII Tavole Nuovo equilibrio sociale e politico nella seconda metà del V secolo Emancipazione della plebe dopo la vittoria su Veio e l’invasione gallica: dinamiche sociali, politiche e diplomatiche del IV secolo II.2.5. Civitas optimo iure e sine suffragio: espansionismo e sistema federativo romano II.2.6. Ordinamento delle coloniae e dei municipia

46 51 52

56 58

II.3. Ordo certus gerendorum honorum e magistrature extra ordinem. Potestas e imperium. Collegialità e intercessio II.3.1. Caratteri delle magistrature II.3.2. Poteri e funzioni delle magistrature repubblicane II.3.3. Le singole magistrature del cursus honorum La questura L’edilità Il tribunato della plebe La pretura, il ius gentium e l’editto pretorio Il consolato: imperium domi e militiae La censura

59 59 61 63 63 63 64 64 66 67

II.4. La conquista della Magna Grecia, l’esordio dell’impero mediterraneo nel III secolo e la formazione dell’ordo equester

69

53

III GIURISPRUDENZA REPUBBLICANA. FORME DEL PROCESSO ED EDITTO: TRIBUNALI DELICTA PRIVATA E CRIMINA PVBLICA III.1. Ius publicum e ius privatum. Nozioni processuali

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III.2. Il processo pubblico, le quaestiones perpetuae e i crimina

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III.3. I vari tipi di reati Furtum, iniuria, calumnia, vis, parricidium, falsum, crimen ambitus Crimen maiestatis, peculatus, concussio e repetundae

78 78 79

III.4. La giurisprudenza repubblicana (cavere, agere e respondere): diritto e processo privato

80

III.5. L’evoluzione storica dell’editto

81

III.6. Il processo privato (iudicia privata): legis actiones e formulae

84

III.7. Il processo formulare

86

Sommario

IX pag.

IV LA CRISI DELLA RESPVBLICA L’IMPERO E L’ELLENISMO IV.1. L’espansione e le conseguenze dell’incontro di Roma con la civiltà greca

93

IV.2. La trasformazione della società romana

96

IV.3. La politica graccana (133-122 a.C.) IV.3.1. Le tre questioni: riforma agraria, corruzione nel governo delle provincie, estensione della cittadinanza IV.3.2. La valutazione politica dell’opera dei Gracchi nella storiografia antica e moderna

97 97 100

L’AGONIA DELLA REPUBBLICA IV.4. Da Silla a Cesare IV.4.1. Dal consolato straordinario di Mario alla dittatura di Silla sino al bellum civile. La concessione della civitas Romana ai socii IV.4.2. La dittatura e la riforma costituzionale sillana IV.4.3. Pompeo, Cesare e il primo triumvirato. Riforme istituzionali dell’imperium e lotta fra optimates e populares

106 106 109 111

IV.5. La dittatura cesariana IV.5.1. Riforma dello Stato e programmi IV.5.2. Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare IV.5.3. Le virtutes del dictator ed il pensiero politico della tarda repubblica IV.5.4. Libertas, imperitia multitudinis e regnum nel giudizio ciceroniano su Cesare

115 115

IV.6. Il secondo triumvirato ed Ottaviano-Augusto

130

IV.7. La concezione greca della demokratía, la respublica oligarchica romana e le oligarchie finanziarie nelle democrazie moderne

135

118 126 128

V IL PRINCIPATO V.1. Le riforme istituzionali di Augusto e gli interventi nel diritto pubblico e privato V.1.1. Augusto: restitutio reipublicae o respublica amissa? Il consolato I comizi e la destinatio

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X

Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

pag. Il senato e la sua nuova attività normativa e giurisdizionale Il processo cognitorio ed il controllo della giurisprudenza Il governo delle provincie V.2. Ideologia e mistica augustea V.2.1. Propaganda politica augustea e reazione. Alessandro, Pericle, Catone: i modelli del Grande Camaleonte V.2.2. Il dibattito moderno sulla natura “giuridico-costituzionale” del principato augusteo e l’opinione degli antichi V.2.3. L’attesa messianica ed i Vangeli di Augusto Figlio di Dio e Salvatore del genere umano. La reazione del “buon senso romanoitalico”: Augusto da divi filius a feminae filius V.3. La successione imperiale: l’impero fra ideologia della libertas e dispotismo V.3.1. La successione fra elezione formale e scelta dinastica e i modelli politici del principato Tiberio: l’ineluttabilità dell’impero Caligola: la tendenza alessandrina e la titolatura imperiale Claudio: amministrazione ed ecumenismo imperiale Nerone: il ritorno della concezione alessandrina e la captatio del consenso popolare L’anno dei tre imperatori e l’avvento dei Flavi. Vespasiano (69-78) fra restitutio reipublicae augustea, auctoritas e charisma Flavi Tito (78-81) e Domiziano (81-96): l’autocrazia illuminata e il conflitto col senato Nerva e Traiano (96-117): espansionismo “cesareo” e restitutio reipublicae augustea. I provvedimenti in favore dell’Italia e dei municipia Adriano (117-138): l’ellenismo e le province. La politica giudiziaria e la “codificazione” dell’editto Gli Antonini (138-193): la filosofia di governo del saeculum aureum ed i prodromi della crisi Le gerarchie sociali nella vita cittadina: Decuriones, Augustales, populus. Le procedure elettorali per l’Augustalità. La trasformazione degli honores in munera L’ingerenza del principe nell’amministrazione tributaria I Severi (193-235). Quod principi placuit legis habet vigorem: l’accentuazione dell’autocrazia e la provincializzazione dell’impero ecumenico L’età della crisi: da Diocleziano al IV secolo. Il dominato e la Tetrarchia, le riforme amministrative e la “fuga dei curiali”

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Sommario

XI pag.

VI PRODUZIONE DEL DIRITTO E GIURISPRUDENZA NEL PRINCIPATO VI.1. Gli interventi normativi del principe VI.1.1. La cancelleria imperiale VI.1.2. I vari tipi di costituzioni imperiali Gli edicta I mandata I rescripta I decreta VI.1.3. Il consilium principis e l’attività normativa

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VI.2. Concezioni del diritto e giurisprudenza VI.2.1. Relativismo e giusnaturalismo: ius naturale e ius civile VI.2.2. I “generi” della letteratura giuridica VI.2.3. Vicende e caratteri della produzione giurisprudenziale. Giuristi e “scuole” in età classica VI.2.4. La fine della giurisprudenza e l’età postclassica. I codices VI.2.5. La Compilazione giustinianea, la trasmissione del diritto romano e la ricostruzione del diritto classico

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VII I VANGELI DI AUGUSTO E LA VIA DI CRISTO NELL’IMPERO ROMANO: ALLE “RADICI” PAGANE DELL’EUROPA VII.1. Continuità e trasformazione della società romana dal paganesimo al cristianesimo VII.1.1. Le fonti neotestamentarie e la critica storica VII.1.2. La Giudea romana e il processo di Gesù VII.1.3. La comunità giudeo-cristiana da Tiberio a Nerone VII.1.4. I processi contra Christianos e la coerenza giuridica di Traiano VII.1.5. Altre testimonianze processuali. Celso ed il confronto tra paideia classica e dottrina cristiana nel II secolo VII.1.6. Porfirio, le persecuzioni del III secolo e la politica religiosa di Diocleziano VII.1.7. L’ideale della libertas religionis nel II-III secolo VII.1.8. Formazione dell’idea di pluralismo religioso e di libertà di coscienza nel pensiero politico pagano del IV secolo e intolleranza della Civitas Dei cristiana VII.2. L’eredità degli antichi

225 225 228 233 235 246 250 253

255 265

XII

Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

«Bisogna evitare che arrivi un maestro elementare che improvvisamente si voglia mettere a proclamare la necessità dell’istruzione obbligatoria per i popoli soggetti … perché conoscenze del genere permetterebbero a qualche cervello più provveduto di acquistare una qualche conoscenza della storia e di giungere così a concepire idee politiche che, comunque, sarebbero sempre contrarie al nostro dominio. È molto meglio … offrire alla gente materia di svago, che non renderla capace di raggiungere da se stessa conoscenze di ordine politico, economico e così via. Non bisogna quindi mai commettere l’errore di raccontare ai popoli assoggettati … cose riguardanti la loro storia precedente, mentre invece conviene di ammannire loro, attraverso la radio, musica, musica, musica, perché la musica allegra suscita la gioia del lavoro. E se la gente, così, avrà la possibilità di ballare molto, tutti ne saranno felici, come ci ha insegnato l’esperienza … Il sistema delle vie di comunicazione … è l’unico campo nel quale noi possiamo pensare di provvedere ad una “istruzione” delle popolazioni soggette». Discorso a mensa di ADOLF HITLER del 1941 raccolto dallo stenografo Pikker: cfr. I. MONTANELLI (a cura di), Terzo Reich. Storia del Nazismo, III, Sadea Ed., Firenze 1966 [trad. it. da H. HUBER-A. MÜLLER, Das Dritte Reich, K. Desch Cop. 1964], p. 1158-9.

LE ORIGINI DELL’IDENTITÀ EUROPEA E IL LORO PORTATO FORMATIVO SOMMARIO: 1. Il valore identitario della conoscenza storica. – 2. Critica delle fonti: moderne metodologie della ricerca e loro origine storiografica. – 3. Lo studio del diritto romano per la formazione dei giuristi.

1. Il valore identitario della conoscenza storica. Con le parole poste in epigrafe Adolf Hitler terminava un discorso a mensa con i suoi generali nel 1941, quando il Reich nazista sembrava inarrestabile ed era all’apice della conquista. Il Führer progettava allora, nel segreto della cerchia dei generali dell’Alto Comando, il futuro dell’Europa asservita. I suoi discorsi venivano diligentemente stenografati e – grazie alla scoperta, a guerra finita, di questi resoconti – possiamo oggi conoscere ciò che sarebbe dovuto restare riservato ai “Signori della Guerra”, che si apprestavano a dominare il mondo sulla base di quei princìpi. Non può negarsi a Hitler l’intelligenza di aver capito in cosa risieda l’identità profonda di un popolo: nella conoscenza della storia e della sua civiltà. A tal fine egli avrebbe voluto distruggere quella conoscenza nei popoli soggetti, per riservarla al solo popolo tedesco. Al momento del suicidio Hitler non avrebbe mai potuto sperare che, pur avendo perso la guerra totale, il suo proposito di distruzione dell’identità storica dei popoli europei sarebbe stato realizzato da quei popoli stessi. Le riforme della scuola italiana e dell’Università dal 1968 al 2010 sono riuscite a conseguire la banalizzazione e la distruzione di un sistema di trasmissione del sapere – non solo umanistico – che, con varie trasformazioni in ogni epoca, aveva dato prova di sé in Europa per mezzo millennio: ciò è avvenuto attraverso la trasformazione della scuola pubblica in un ufficio di collocamento dei partiti politici sulla base del “voto di scambio”; ma anche tramite il potenziamento della scuola privata (al 63% cattolica), scarsamente interessata alla selettività per incrementare le rette, potenziamento attuato con vari incentivi, che ne hanno aggirato dolosamente il divieto costituzionale di finanziamento pubblico. Alla fine di un percorso durato mezzo secolo, e gestito all’epoca da Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito Repubblicano, Movimento Sociale Italiano etc., e nel nuovo millennio da iniziative dei governi di ogni colore, si è così realizzato in Italia – e in minor misura anche in altri paesi europei – ciò che a Hitler non riuscì con le popolazioni “subumane” dei paesi da lui occupati, fra

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Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

i quali dal 1943 si annoverava anche quell’Italia, che aveva opportunisticamente rinnegato il fascismo. Del valore identitario e formativo della conoscenza storica era consapevole non solo Hitler, ma anche uno dei più alti filosofi dell’Idealismo del Novecento, Benedetto Croce, che la valutava ovviamente in termini morali antitetici a quelli nazisti: «… L’uomo respira nella storia ed è tutt’uno con essa, e … se per un istante, per un solo istante, ne fosse tratto fuori, morrebbe esso ed il mondo tutto, ché tutto, nella sua realtà, è storia in moto … Ed ecco perché noi teniamo viva la coscienza del passato: perché è il nostro passato e dobbiamo continuarlo … Ed ecco perché pensare e conoscere la storia ci è indispensabile» 1. Del monito di Benedetto Croce sulla necessità della conoscenza storica dovrà tener conto anzitutto allo studente, di norma privato non per sua colpa di un’istruzione liceale adeguata. Egli troverà in queste pagine materia non appiattita sulle stoltezze ministeriali dei burocrati, nelle cui mani è caduto l’impianto dell’insegnamento superiore italiano, ma un’esposizione concepita per sollecitarne impegno e studio non tanto diligente quanto intelligente, e per promuoverne formazione e crescita intellettuale. Che dovrà essere meta anche dei giovani docenti – giovani rispetto all’autore di questo libro – nella consapevolezza che tutti noi, prima di essere insegnanti, siamo stati studenti. Questo libro cerca, infatti, di far fronte alla crisi epocale dell’istruzione senza nascondere, com’è d’uso, che noi professori universitari condividiamo senza dubbio la responsabilità del suo degrado con governi, che da decenni si sono rivelati incapaci di affrontare il problema. Si sono profuse e fuse nella trattazione specialistica del diritto nozioni della storia, della cultura e del pensiero politico romano, che un tempo erano patrimonio comune di chi affrontava diciottenne gli studi universitari. Anche la familiarità con le immagini del mondo romano è scomparsa nelle nuove generazioni non più istruite dal Liceo: per questo si è fornito un apparato iconografico con relative didascalie, che gioveranno molto all’apprendimento della materia per chi saprà farne uso. Senza questo tessuto connettivo, la conoscenza del fenomeno giuridico risulterebbe decontestualizzata dalla società ed astratta dalla realtà storica che lo produsse. Il docente stabilirà liberamente se esigere anche lo studio di quelle parti, che sono scritte in corpo piccolo e che è secondario imparare ma è necessario leggere, e che trattano tematiche specifiche ma chiarificatrici. Tuttavia, almeno la loro lettura supporterà l’apprendimento di quel quadro generale, nel quale va collocata la storia del diritto pubblico romano.

2. Critica delle fonti: moderne metodologie della ricerca e loro origine storiografica. «Come la storiografia moderna è ancora in gran parte quale la formarono i greci, così la maggior parte di quegli avvenimenti sono da noi pensati come li pensa1

B. CROCE, Filosofia e storiografia, Bari 1949, p. 93.

Le origini dell’identità europea e il loro portato formativo

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rono gli antichi, e sebbene qualcosa vi sia stato aggiunto e diversa luce rischiari il tutto, il lavoro degli storici antichi si serba nel nostro: vero “acquisto in perpetuo”, come Tucidide intendeva che fosse l’opera sua» 2. Queste parole di Croce all’esordio della sua Teoria e storia della storiografia restano tuttora valide, benché l’avanzamento degli studi, l’affinamento del metodo critico, le specializzazioni del sapere abbiano determinato un enorme progresso delle capacità e delle possibilità d’indagine. Pur tuttavia, nella ricostruzione della storia politica, i progressi non hanno superato ma piuttosto aggiornato il fondamento metodologico che, già nel V secolo, era stato genialmente posto da Tucidide. A lui si deve la prima concezione prammatica 3 della storia, poi seguita da Polibio – primo autore, greco, di una storia di Roma come storia universale – e dagli stessi storici romani. Alla concezione prammatica, frutto di una concezione razionalistica e scientifica nell’osservazione dei fatti, non interessava il pittoresco, che maggiormente aveva attratto l’opinione pubblica e la fantasia popolare: le leggende e le credenze religiose, gli interventi della divinità, di cui i logografi greci – e perfino, sia pur con distacco critico, lo stesso Erodoto 4 – avevano intessuto le loro narrazioni. Tucidide concentra invece l’analisi storica sui fatti (in greco prágmata) politici, siano essi i conflitti d’interesse, le guerre o le battaglie, il perseguimento dell’egemonia e delle strategie del potere, l’azione di governo. L’arte medica del suo tempo aveva distinto per la prima volta, nello studio e nella diagnosi della malattia, la causa (aitía) dal sintomo (sýntomon), che ne è solo la manifestazione, la spesso ingannevole apparenza (phainómenon). In un’epoca che concepiva la scienza unitariamente, questa perenne acquisizione (ktema es aei) del sapere umano fu da Tucidide trasposta alla specificità dell’indagine storica, individuando la differenza fra la causa recondita (aitía o prophasis segreta) dell’agire politico e la sua giustificazione (próphasis dichiarata), per lo più finalizzata a nascondere l’interesse reale, l’unico reale movente: l’utile (sýmpheron), ritenuto inconfessabile all’opinione pubblica. Come il medico non acquisterà una vera conoscenza della malattia se non saprà individuarne la causa, lasciandosi ingannare dall’apparenza del sintomo, la cui cura non guarirà il paziente, così lo storico non perverrà ad una vera comprensione dell’azione politica, se non saprà distinguerne la causa dalla rappresentazione strumentale che, a scopo per lo più moralistico o di propaganda, ne viene normalmente esibita. In quello stesso V secolo che esaltava l’uso dell’analisi razionale in ogni campo dello scibile e delle attività umane, il sofista Protagora dimostrava inoltre che l’uomo costituisce la misura di tutte le cose: la sofistica negava così l’esistenza di quei 2

B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, Bari 19547, p. 177. 3 Pragma / pragmatos significa in greco “fatto”. 4 Cicerone definì Erodoto “padre della storia”. «Ma Talete ed Erodoto, a dir vero, sarebbero da chiamare, piuttosto che “padri” della filosofia e della storia, “figli” del nostro interessamento per lo svolgimento attuale di queste discipline» (da CROCE, Teoria e storia della storiografia, Bari 19547, p. 174). Tucidide, vissuto nel V sec. a.C. nell’Atene di Pericle, fu autore della Guerra del Peloponneso, che vide l’oligarchica Sparta e la democratica Atene contendersi l’egemonia sulla Grecia fra il 431 e il 404 a.C.

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Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

principi etici tradizionali, che il mondo greco aveva fino ad allora considerati assoluti, quali fondamenti della religione e della polis. La critica razionalista infrangeva la metafisica ed i fondamenti morali della polis, il mondo dei valori convenzionali e della religione popolare, posti in discussione dalla potenza sovvertitrice della logica anche nel pensiero di Socrate. Il relativismo ed il soggettivismo sofistico concorrevano a porre i fondamenti filosofici della differenza fra l’essere e l’apparire: da questi fermenti della filosofia come della diagnostica clinica Tucidide sviluppava una nuova concezione ed un nuovo metodo storiografico, identificando nell’interesse o utile la causa ultima, il “motore” dell’azione politica, e pertanto riconosceva nel nesso di causalità il cardine, su cui ruota nell’analisi storica la comprensione profonda degli avvenimenti politici. Proprio l’interesse costituisce, nella concezione tucididea di immutabilità della natura umana, l’elemento di “prevedibilità” della storia. Ma con tale prevedibilità può interferire la tyche, fattore immanente, l’imponderabile insito nella natura e nella storia, che condiziona o perfino sconvolge la razionalità delle scelte umane 5. Questa sorte cieca, questo caso accidentale o fortuito di Tucidide conserva in Polibio di Megalopoli lo stesso nome di Tyche, ma acquista una connotazione trascendente e si configura come una Prónoia o Providentia divina, che ha predestinato Roma alla conquista del mondo per il bene dell’umanità. Polibio, vivendo nell’Urbe come ostaggio diplomatico nel “circolo” degli Scipioni, di fronte alle vastissime e inarrestabili conquiste romane del III-II secolo concepisce per la prima volta una storia universale: si interroga allora su come ai Romani sia riuscito ciò in cui fallirono i Diadochi, i sovrani che si spartirono l’impero ecumenico di Alessandro Magno dopo la sua morte nel 323 a.C., senza mai riuscire, nonostante incessanti guerre per l’egemonia, la perduta unità. Polibio osserva i fatti con occhio tucidideo e crede di riconoscere nell’assetto politico-costituzionale romano (politeia) la ragione della capacità di conquista. Egli ragiona secondo categorie politiche tradizionali della mentalità greca, sistematizzate e indagate storicamente da Aristotele, ma ben più antiche di lui nel pensiero greco. Esso aveva categorizzato tre forme di governo nella storia delle poleis e tre corrispettive degenerazioni: la monarchia, che degenerava in tirannide, l’aristocrazia, che degenerava in oligarchia 6, la democrazia 7, che degenerava in oclocrazia. Secondo Polibio la costituzione repubblicana di Roma avrebbe contemperato le tre forme migliori di governo proprie dell’esperienza storico-politica della civiltà greca: il potere monarchico sarebbe stato rappresentato dai consoli, i magistrati al 5 Così la “peste” di Atene, di cui rimase vittima Pericle nel 429, fu l’elemento imprevedibile che determinò la morte dello statista che aveva voluto e concepito la strategia di guerra (iniziativa attica sul mare e resistenza passiva sulla terra). L’evento imponderabile era già allora spiegato con la massa di popolazione inurbatasi a seguito della devastazione delle campagne da parte degli Spartani. Il recente ritrovamento archeologico di fosse comuni ha accertato che si trattò di colera e non di peste. 6 Aristocrazia: da kratos, potere, e aristos, migliore, il “governo degli aristoi”, il governo dei migliori; oligarchia: da kratos, potere, e oligos, poco, dunque il “governo degli oligoi”, il governo dei pochi. 7 Democrazia: da kratos, potere, e demos, popolo: dunque il “governo del popolo”; oclocrazia: da kratos, potere, e ochlos, folla: dunque il “governo della folla irrazionale”.

Le origini dell’identità europea e il loro portato formativo

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vertice dello Stato romano, il potere aristocratico dal senato, la ristretta assemblea degli anziani (senatus da senior) della nobilitas patrizio-plebea, il potere democratico dalle assemblee popolari (comizi centuriati e tributi, le assemblee votanti organizzate per centurie o per tribù). Poco dopo la morte di Polibio la crisi delle istituzioni repubblicane e le conseguenti guerre civili non posero in crisi l’espansionismo imperialistico romano, dimostrando la fallacia della sua analisi. Ma comunque Polibio stesso osservava che i Romani avevano da tempi remoti quell’assetto politico, mentre solo negli ultimi 60 anni si erano repentinamente impadroniti del mondo. Dunque per lui solo la Providenza divina poteva spiegare il “miracolo” dell’inarrestabilità dell’impero. In realtà lo Storico di Megalopoli non apprende gran che della lezione tucididea di esegesi della realtà politica, ed infine deve fare ricorso al Trascendente perché non sa “leggere” né trovare una spiegazione degli avvenimenti nei fatti stessi. Dionigi d’Alicarnasso, che scrisse la sua storia delle origini di Roma (Rhomaiké Archaiologhía) durante le guerre civili e la pubblicò all’inizio del principato augusteo, dopo il 27 a.C., non poteva ormai riconoscere nell’architettura costituzionale repubblicana la spiegazione della stabilità del sistema e, con maggiore acume storiografico e politico, ne ravvisò la vera grandezza nella capacità di conciliare i conflitti d’interesse fra le classi sociali. La sua analisi dell’istituto della clientela, che legava il patronus ai clientes con un rapporto di reciproco interesse, coglie un aspetto fondamentale del “paternalismo”, attraverso cui la nobilitas soddisfaceva i bisogni della plebe e ne riceveva in cambio sostegno politico. Ma egli coglie anche tale rapporto nella sua più tarda dimensione internazionale, quando clientes erano interi popoli assoggettati, quale causa di integrazione graduale dei popoli conquistati, dapprima nella stessa penisola italiana (Latini, Italici, Greci Italioti) e poi oltremare (Greci Sicelioti e Greci delle poleis elleniche e dei regni ellenistici dalla Macedonia, all’Asia, alla Siria e infine all’Egitto conquistato da Augusto). Dionigi d’Alicarnasso riconosce all’egemonia romana una capacità assimilatrice sulla base della giustizia e nel rispetto delle nazionalità provinciali, certo idealizzata e in sintonia con la propaganda politica augustea, ma tuttaltro che infondata ed anzi presaga di una tendenza della politica romana, che si realizzerà soprattutto nei tre secoli successivi. Ma neanche il razionalismo di questa analisi induce Dionisio a rinunciare alla spiegazione provvidenzialistica del favore degli dei accordato ai Romani per loro pietas e la loro religio, motivo predominante nei libri ab Urbe condita del suo contemporaneo Tito Livio. «Anche i più alti storici antichi … non poterono liberarsi mai dal preconcetto che la storia debba essere rivolta a un fine di edificazione e, massime, d’insegnamento: effettiva eteronomia, che allora sembrava autonomia. In ciò consentivano essi tutti: Tucidide, che si proponeva di narrare gli avvenimenti passati per augurarne i futuri …; Polibio, che ricercava le cause dei fatti perché se ne facesse l’applicazione ai casi analoghi …; Tacito, che, conforme al suo interessamento, piuttosto che sociale e politico, moralistico, stimava suo fine precipuo raccogliere i fatti insigni per virtù e per vizio» (Benedetto Croce) 8. 8

B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, Bari 19547, p. 107-108.

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Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano

Ma fu duemila anni dopo Tucidide, quando la sua opera pervenne alla conoscenza degli umanisti italiani e fu tradotta in latino da Lorenzo Valla, che lo storico dell’Atene periclea trovò nel Nicolò Machiavelli della Firenze medicea un teorico della mens politica, che condivise pienamente, applicandolo all’esegesi della Ragion di Stato dell’epoca sua, l’idea centrale dell’interesse della respublica come finalità e giustificazione ultima dell’agire del Principe: e quell’imponderabile che in Tucidide fu per Pericle la “peste” che lo portò alla morte all’inizio della guerra del Peloponneso, in Machiavelli furono per Cesare Borgia le circostanze impreviste nella pur prevista morte del padre, papa Alessandro VI. Ma se per Macchiavelli, sull’orma di Tucidide, il Principe – equivalente di quel pròtos anér (leader) che Tucidide riconosceva in Pericle – agiva nell’interesse pubblico, Francesco Guicciardini, scevro dal pur prammatico idealismo del Machiavelli, declinò in dimensione individualistica e personalistica la genesi tucididea dell’interesse, ravvisando nel particulare, nell’interesse personale e non nell’utilitas publica, la causa dell’agire dello statista. Non possiamo seguire Tucidide e Polibio nel loro meccanico determinismo, fondato su una troppo rigida e consequenziale concezione della immutabilità della natura (physis), per cui al ripetersi di determinate circostanze i popoli come gli individui risponderebbero in ogni tempo allo stesso modo, fino a giungere ad una concezione “ciclica” della storia, che troverà nei “corsi e ricorsi” di Vico la sua formulazione moderna. A tale concezione sfuggono infatti le peculiarità degli accadimenti politici, che derivano da complessità di circostanze e individualità dell’indole umana. La storia non è dunque magistra vitae in senso meccanicistico: essa non si ripete né v’è un’automatica prevedibilità dell’azione politica, che derivi dalla cognizione del passato. Eppure, benché la storia sia imprevedibile per la complessità dei fattori che la determinano, la sua conoscenza è tuttavia l’unica che possa fondare un’adeguata esperienza politica. Nel Settecento, Vico non supera la concezione antica, ciclica e “organica” della storia, per la quale un popolo segue le vicende di un organismo vivente, caratterizzandosi per una gioventù, una maturità e una vecchiaia fino all’estinzione, né arriva ancora a formulare o a concepire il principio di etnogenesi nello studio storico della formazione delle nationes, ma egli è, per converso, il fondatore della critica delle fonti nel senso moderno. «L’incrinatura del fronte compatto delle fonti antiche [nella tradizione sulla storia romana arcaica] è stato merito insigne di Giovanni Battista Vico … quel che conta è il vigore, se non proprio il rigore, con cui Vico ha sottoposto nelle sue opere, culminando nella Scienza nuova, le narrazioni antiche ad una lettura critica. Mettendo a nudo le profonde contraddizioni intercorrenti tra la rappresentazione esteriore dei fatti che le antiche storie ci mandano e, viceversa, la logica interna degli episodi, delle sequenze, sopra tutto delle istituzioni di cui quelle stesse storie fanno testimonianza, egli ha aperto il varco ai metodi di indagine della storiografia contemporanea» (Antonio Guarino) 9.

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A. GUARINO, Studi di diritto costituzionale romano, a cura di C. Cascione, I, Napoli 2008, p. 40.

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Se Vico esaminò criticamente le fonti per la storia monarchica e repubblicana più risalente, la tradizionale rappresentazione tirannica degli imperatori romani da parte di Tacito e i calunniosi rumores contro di loro recepiti da Svetonio furono sottoposti al vaglio di due “storici” molto sui generis, Napoleone I e suo nipote Napoleone III: si comprendono ovviamente le ragioni politiche che portarono i due imperatori francesi a riabilitare i Cesari calunniati dalla storiografia senatoria, ma non deve disconoscersi l’acume ed il rigore con cui essi ne proposero la rivalutazione. I due Napoleone, accomunati solo dal nome e dalla parentela, aspiravano ad eguagliare la grandezza politica e militare di Cesare, il secondo dei quali senza esser riuscito ad attingervi. Durante l’esilio a S. Elena, Napoleone ebbe tutto il tempo, nel corso del 1819, di scrivere il suo Précis des guerres de César, pubblicato postumo solo 17 anni dopo: l’Autore, cui certo in materia non sarebbe facile negare una certa competenza guadagnata sul campo – è il caso di dirlo – di battaglia, manifestò il suo scetticismo circa la pretesa aspirazione al titolo di rex da parte di Cesare, il quale aveva assunto il titolo pur sempre repubblicano di dictator, osservando sardonicamente che i Romani i re erano abituati a vederli attendere nell’anticamera dei governatori provinciali. Napoleone III, invece, nel 1865 giudicò giovevole alla sua immagine politica iniziare la pubblicazione di una Histoire de Jules César, che fu anche tradotta in varie lingue, ma che poi furono altri ad ultimare l’anno seguente. I due Napoleone suscitarono infine interessi di studio che spinsero la critica storica alla riabilitazione degli imperatori romani calunniati da Tacito 10.

L’influenza delle opere dei due Napoleone fu determinante nello stimolare la nascita e lo sviluppo della storiografia specialistica dell’Otto e del Novecento, a partire dal tedesco Theodor Mommsen (1817-1903). Questi diede uno straordinario sviluppo alla specializzazione del sapere storico, segnando il definitivo abbandono dell’enciclopedismo del Settecento: abbracciò così da solo storia politica e storia del diritto, epigrafia e numismatica. E tuttavia egli fu di volta in volta storico, giurista, epigrafista e numismatico, ma non fuse in una sola concezione né in una sola opera le sue poliedriche conoscenze: la sua Storia di Roma (Römische Geschichte) prescinde dal diritto pubblico, cui è riservato invece il suo Römisches Staatsrecht (il “diritto dello Stato romano”), né gli immensi apporti del Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), raccolta sistematica di tutte le iscrizioni dell’impero romano, o della numismatica, a lui dovuti sono trasfusi nelle opere di storia politica e costituzionale. Mommsen fu la maggiore espressione nell’Ottocento – e quanto a metodologia e acribia spesso il fondatore in senso moderno – delle discipline specialistiche dell’Alter-tumswissenschaft, la scienza dell’antichità: egli portò l’epigrafia e la numismatica ad affrancarsi dall’erudizione antiquaria, senza per questo cessare di essere storico politico e storico del diritto. Ma nel contempo egli non volle o non seppe fondere queste quattro forme del sapere specialistico, cui si dedicò con pubblicazioni scientifiche nettamente distinte, per cui appare caposcuola del criterio di specializzazione della scienza contemporanea e insieme involontario responsabile della frantumazione dell’unità della scienza sul mondo antico. 10

Cfr. L. BRACCESI, Roma bimillenaria. Pietro e Cesare, Roma 1999, p. 158-163.

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Con l’ampliarsi dello scibile già nella prima metà del Novecento, e poi con la crisi del sistema d’istruzione europeo dopo la seconda guerra mondiale, tale modus operandi finì col diventare il limite forse più grave nella formazione umanistica: la divisione ed il frazionamento del sapere, o, in termini più brutali, l’ignoranza del contesto storico e il deficit della cultura di base da parte dello specialista di un determinato settore. Se fino all’Ottocento era possibile che lo storico fosse insieme anche archeologo, storico dell’arte, numismatico, epigrafista, papirologo, giurista, oggi sempre più difficilmente una sola persona può possedere tutte o più fra queste forme di sapere specialistico, anche perché ciascuno di essi si suddivide in settori estesi ed approfonditi. L’accrescersi e lo specializzarsi del sapere scientifico e delle tecnologie hanno moltiplicato le discipline, cui lo storico deve ricorrere per assolvere al suo compito d’interpretazione e critica delle fonti, ricostruzione e valutazione degli avvenimenti, dei fatti e dei comportamenti politici. Cosicché anche nel campo della storia esistono oggi diverse “storie”, dalla storia dell’arte – per esempio – a quella della filosofia o della religione. La storia del diritto è certo fra queste la più vicina alla storia politica e per molti aspetti le due arrivano perfino a coincidere, ma il fenomeno giuridico rimane incomprensibile se decontestualizzato dalla più globale storia tout court, cioè la storia della civiltà di un popolo, della cui vita è una delle espressioni. Benché lo storico debba oggi avvalersi quasi necessariamente dell’ausilio di professionisti di altre discipline, egli non dovrà mai perder di vista che per lui queste diverse forme del sapere sono ausiliarie e strumentali alla ricostruzione storica complessivamente intesa. Dunque la storia si configura come una scienza multidisciplinare e interdisciplinare nello stesso tempo.

Nel nostro campo, Mommsen, nel Römisches Staatsrecht 11, la forma giuridica che regolava i poteri pubblici e la condizione del civis, configurava lo Stato di diritto come autonomo soggetto, baricentro deliberativo del potere. Nel XIX secolo la “casualità” dell’evoluzionismo darwiniano aveva demolito la visione teleologica o finalistica della storia e lo stesso creazionismo nel dominio delle scienze naturali, aprendo la prospettiva della moderna biologia: parimenti, nel campo delle scienze umane, il teleologismo della concezione storiografica romana – per cui in chiave pagana il dominio di Roma era il fine della storia, e in versione cristiana lo era l’evangelizzazione favorita dall’ecumene imperiale – finiva demolito dagli esordi di quella che sarà più tardi detta la moderna visione “casualistica” della storia. Crollavano così concezioni e certezze millenarie consolidate, e l’irrazionalità del caso, pur con le sue dinamiche della selezione naturale, prendeva il posto di una ormai inesistente Provvidenza divina. In questa generale crisi di crescita del sapere si avvertiva fortemente l’esigenza di “salvare” uno spazio, sia pure umano e non più divino, alla ragione ed al criterio di razionalità. Così il diritto pubblico finì con l’apparire alla dottrina dell’epoca, sull’orma del Mommsen, come la sola scienza della norma eretta a coerente sistema logico, organico prodotto della razionalità, contrapposto all’irrazionalità e mutevolezza del divenire storico. Il sapere sistematico del diritto pubblico si ergeva perciò, nella 11 TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, apparso a Leipzig nel 1888 e in seconda edizione nel 1899, e ristampato a Graz e Basel nel 1952.

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concezione dello Staatsrecht, come teoricamente autonomo dalla storia e ad essa tanto superiore quanto più quella era espressione della casualità, questo invece della causalità. Una tale visione incorreva spesso nel pericolo di astrazione e di formalismo, costruendo sistematiche, suggestionate dal modello bismarkiano del secondo Reich, che mostrano il limite di comprensione degli elementi strutturali nell’assetto degli interessi economici della società romana rispetto ai cambiamenti delle forme costituzionali. Mommsen, proteso a riconoscere le impercettibili categorie formali della “costituzione” romana, giunse così a fraintendere quale «testimonianza la più grandiosa dell’idea di diritto» quel «potere costituente straordinario» 12 del triumvirato di Pompeo, Cesare e Crasso, che del diritto della respublica costituiva il funereo epitaffio. Il materialismo storico, annunziato da Ettore Ciccotti all’inizio del Novecento, fu rappresentato nell’Italia del secondo dopoguerra da Francesco De Martino con la sua Storia della Costituzione romana 13: l’opera supera la concezione mommseniana, astrattamente giuridica, dello Staatsrecht, apportando come acquisizione irrinunciabile la considerazione dei fattori economici e dei conflitti sociali determinanti per l’ordinamento statale e per la formulazione del diritto pubblico dello Stato romano, fino a negare la riducibilità della storia a sistema 14. Ma il materialismo storico non ha saputo «tener separato il momento diagnostico [dell’indagine] dalla consapevolezza che gli antichi ebbero della effettiva connessione dell’economia con i modelli istituzionali» 15 (Federico D’Ippolito): cosicché leggi riconosciute nella moderna esperienza storica dalla scienza economica, sviluppatasi a seguito della rivoluzione industriale nella società capitalista della Gran Bretagna del XIX secolo, sono state trasposte nel mondo romano. Nel quale si è pertanto creduto di poter riconoscere una dialettica sociale ed una “lotta di classe” proprie della visione marxista, ma sostanzialmente estranee all’antichità, che del sistema produttivo ebbe solo una conoscenza empirica, né dai fenomeni economici seppe trarre leggi, sulle quali fondare una scienza dell’economia. La moderna metodologia della storia, diversamente da quella grecoromana, indaga la genesi del patrimonio ideale e istituzionale, le strutture sociali ma anche mentali, attraverso cui guardiamo e interpretiamo il mondo contemporaneo come quello antico da cui traiamo origine 16: 12

MOMMSEN, Röm. Staatsrecht, II.1, p. 702 ss. La Storia della Costituzione romana fu stampata a Napoli in 6 volumi in prima edizione dal 1952 al 1972 ed in seconda dal 1972 al 1990. 14 F. DE MARTINO, Considerazioni su alcuni temi di storia costituzionale romana, in Diritto, economia e società nel mondo Romano, a cura di F. D’Ippolito, IV, Napoli 2003, p. 89 ss. 15 F. D’IPPOLITO, Le «costituzioni» di Francesco De Martino, in L. LABRUNA (dir.)-M.P. BACCARI-C. CASCIONE (cur.), Tradizione romanistica e Costituzione, I.1, Napoli 2006, p. 296. 16 Già Erodoto e Tucidide, i “padri della storia”, posero a fondamento della ricerca il problema delle fonti di cognizione come strettamente connesso a quello della loro attendibilità. Oggi questo problema si misura tanto con il cammino delle scienze umanistiche quanto con lo sviluppo tecnologico. Come negli accertamenti giudiziari si deve ricostruire lo svolgimento degli eventi dalle tracce che il loro verificarsi ha lasciato, e che bisogna saper cercare con competenze e strumenti specifici, così 13

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da qui la crescente consapevolezza della relatività e dei condizionamenti del nostro punto di osservazione, ma anche – comparativamente – l’opportunità di acquisire conoscenza della soggettività del nostro modo di pensare e di essere. L’imprevedibilità delle circostanze, come anche la personalità dei protagonisti, interagiscono con fattori accidentali determinando esiti inattesi, che escludono ogni predestinazione trascendente o immanente 17. Se gli uomini perseguono finalità di potere, benessere etc., ciò non comporta che la storia come tale abbia un fine precostituito né una meta assoluta. Ed inoltre la Relatività einsteiniana ha dato nuova contestualità al relativismo storico nell’ambito del sapere: lo storico che si proponeva di scoprire la “verità”, magari sine ira et studio, ha lasciato il posto allo storico che indaga non una inesistente “verità oggettiva”, ma la percezione soggettiva di un fatto, e naturalmente lo svolgersi dell’accadimento, attraverso le informazioni che possono recuperarsi. Dopo le tragiche esperienze della prima e ancor più della seconda guerra mondiale, si avvertì prepotentemente nel pensiero europeo il risorgere del problema teleologico della storia e del postulato etico nei sistemi politici. Croce riassunse allora magistralmente lo spirito della storiografia antica scrivendo che «un fine era tuttavia necessario prefiggere alla storia, e quello vero non si era ancora rinvenuto, e il fine insegnativo fungeva quasi da metafora del vero …». Cosicché egli, in una tipica visione idealistica, credeva di trovare una risposta nel configurare quale esigenza degli “uomini morali” la concezione etico-politica della storia, «risolvendo e unificando in essa così la storia della Civiltà come dello Stato» 18. Nonostante l’esigenza etica crociana, oggi però non può disconoscersi che la storia non ha un fine né umano né tantomeno divino, e il progresso morale a me sembra una variabile dipendente dalle scelte dell’uomo, dallo sviluppo o dal regresso della sua sensibilità deontologica rispetto al valore “vita”, dalla prevalenza del valore “individuo” sui valori “collettività” e “famiglia”, o viceversa, e dalle diverse realtà, come quelle economica, sociale, politica o religiosa, che contingentemente condizionano quella variabile. avviene anche nell’indagine storica. E come nei primi la prova scritta può avere, per ciò che espressamente dichiara, un valore inequivocabile, così nella seconda la scrittura è convenzionalmente assunta come discrimine fra preistoria e storia. Ma i moderni mezzi d’investigazione hanno fatto superare questa tradizionale distinzione: i reperti della cultura materiale acquisiti dallo scavo archeologico sono per noi, oggi, non meno concludenti dei documenti scritti. E del resto questi ultimi possono non rispondere alla realtà degli avvenimenti, ma piuttosto alla rappresentazione che il redattore del documento ha inteso darne. Donde il quesito della credibilità della testimonianza scritta, da verificare sia con il criterio della coerenza logica, sia con la ricerca di fonti d’informazione alternative che consentano un sistema di confronti incrociati, e per converso la cautela nella valutazione quante volte sia impossibile accedervi, tanto da ammettere in tal caso perfino una apoché o sospensione del giudizio. 17 Exempli causa: P. MACRY, Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2010; ID., Appunti per una fenomenologia del crollo, in Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, Napoli 2010; A. SKED, Grandezza e caduta dell’impero asburgico, Bari 2010; R. DARNTON, Diario Berlinese 1989-1990, Milano 2010. 18 B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, Bari 19547, p. 189-190 e p. 322.

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3. Lo studio del diritto romano per la formazione dei giuristi. Il diritto appartiene, in tutte le moderne società occidentali, alla sfera del sapere specialistico, oggetto d’insegnamento a livello universitario. In Roma antica, invece, il diritto, nelle sue formule e forme elementari e orali, apparteneva fin dall’età arcaica alla sfera della conoscenza popolare ed era strettamente connesso alla religione. Ius in latino, prima ancora che “diritto”, designa una salsa o un brodo, che amalgamava varie componenti alimentari, costituendo come un legante, quale il diritto è fra i consociati della civitas (ius civile) o fra gli uomini e gli dei (ius sacrum). Come ancora oggi il nome dimostra nelle lingue neolatine, la stessa idea di “legame” è alla base del sostantivo “religione” (religio), l’insieme dei riti e delle formule che consentono la comunicazione fra uomini e dei. Sapienza specialistica e riservata in origine al ceto sacerdotale, e massimamente al collegio dei pontefici, era invece non solo quella del diritto in sé, inteso come complesso di norme e di formule regolanti la vita dei consociati, ma ancor più quella della giurisprudenza. Com’è ovvio, non furono i Romani gli inventori del diritto: Egiziani, Babilonesi ed altri popoli orientali (si pensi al c.d. “Codice di Hammurabi”), infine i Greci, conobbero forme evolute di diritto ben prima che il populus Romanus si formasse. Ma solo i Romani, per ragioni storiche che esamineremo, furono i creatori di quella interpretazione del diritto (interpretatio iuris) da parte di esperti (iuris periti o prudentes), cui si dà il nome di giurisprudenza (iurisprudentia). Ora, se il diritto è espressione degli interessi e degli assetti politici, economici, sociali e familiari di una comunità, è chiaro che lo storico non può prescindere dalla conoscenza del complesso contesto che lo produce. Pertanto lo storico del diritto romano non potrà limitarsi alla conoscenza tecnica di esso, ma dovrà essere consapevole dell’universo religioso, delle idee politiche e filosofiche, delle realtà e dei conflitti sociali che a quel diritto sottendono. Parimenti, l’operatore del diritto ed il giurista moderno dovranno avere consapevolezza della rispondenza sociale, degli interessi politici, delle convenzioni, anche delle tradizioni, di cui il diritto contemporaneo è espressione o dai quali è – nel bene e nel male – condizionato. Molte ipocrisie ancor insite nel nostro sistema normativo sono specchio di una società, che tarda ad evolversi rispetto ad altri più dinamici modelli europei meno o affatto condizionati da pregiudizi o poteri religiosi tipici della nostra situazione nazionale dominata dalla Chiesa Cattolica. Lo studio storico del diritto costituisce, sotto questo punto di vista, una sorta di laboratorio o camera di osservazione dell’interazione fra società e diritto e, come tale, può fornire comparativamente il senso della relatività e convenzionalità dei valori morali, sociali e politici, che nel diritto trovano codificazione fino al mutare, più o meno rapido, graduale o traumatico, dell’assetto che li ha prodotti e disciplinati in un dato momento storico. Tuttavia il diritto, in quanto complesso di norme – in Roma antica – orali, consuetudinarie e scritte posto dalla comunità “statale” (ius a civitate positum, perciò “diritto positivo”), costituisce un sapere tecnico, dal quale scaturisce inoltre una vera e propria sapientia specialistica, quella dell’interpretatio iuris. Pertanto lo studio storico del diritto dovrà fornire, in più del semplice studio della storia politica, un ba-

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gaglio di cognizioni, metodi di ricostruzione e lettura delle fonti propri della disciplina. Questa formazione si svolge a livello universitario, ma presuppone basi acquisite ben prima. Fino agli anni Sessanta dello scorso secolo, in Italia, e più generalmente in Europa, la base dello studio storico del diritto come della formazione del giurista moderno era fornita dal liceo classico, la sola maturità che consentisse allora d’iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza. Successivamente furono anche ammesse dapprima la maturità scientifica, poi la magistrale ed infine fu “liberalizzato” l’accesso all’università, in aperta violazione del più elementare buonsenso in una società caratterizzata dal sapere specialistico. Progressivamente e contemporaneamente fu demolito il tradizionale sistema di istruzione umanistica, risalente come origine prima appunto all’Umanesimo e al Rinascimento, con scadimento qualitativo anche nell’insegnamento delle materie tecniche e scientifiche. La trasformazione dell’istruzione superiore e universitaria da sistema elitario a sistema di massa ha purtroppo provocato come conseguenza l’abbassarsi del livello qualitativo in contemporanea con la sua espansione sociale. Ma i livelli di massa sono, comunque, in Italia alquanto sottodimensionati rispetto alla media europea: si tratta di un’infima percentuale della popolazione – appena il 9-10% – iscritta all’università. Non molto più della metà degli iscritti perviene infine a conseguire il titolo di laurea. Ed a questa percentuale si arriva per il notevole incremento causato dallo scadimento della soglia selettiva nel sistema universitario. Nello specifico dell’area giuridica, il problema formativo è che gli studenti che scelgono di divenire giuristi od operatori del diritto non sono adeguatamente forniti, a livello scolastico, del sapere di base presupposto dall’insegnamento universitario: forme di sapere che non sono ovviamente quelle specialistici del mondo del diritto, oggetto appunto della docenza accademica, ma quelle assai più elementari della lingua italiana, della storia, dell’economia, della filosofia, delle scienze e delle tecnologie, che un tempo erano correttamente dati dall’istruzione scolastica. L’“ultimo piano” del palazzo del sapere, il piano della giurisprudenza, viene così costruito su piani sottostanti alquanto traballanti e su fondamenta tutt’altro che solide: l’insegnamento universitario non può in sé e per sé supplire al deficit scolastico, nonostante lodevoli ma patetici tentativi ormai invalsi per disperazione di corsi preliminari subito prima dell’inizio dell’anno accademico. In questa desolante realtà di crisi del sapere in un paese di antica tradizione e alta industrializzazione, si colloca anche il degrado del sapere giuridico. L’abnorme produzione di una selva di leggi nazionali e locali redatte con errori linguistici, oscurità tecniche, illogicità e contraddizioni ha sommerso il sistema codicistico. I principi ed i metodi di interpretazione del diritto sono sconosciuti ai più e la sapienza giurisprudenziale romana, che quei metodi ha fondato, resta generalmente perfino esclusa dall’insegnamento universitario. La giurisprudenza romana riassunta nei Digesta giustinianei si leggeva nell’Ottocento in traduzioni italiane ottime e diffuse per l’epoca, e vi facevano ricorso magistrati e avvocati, ma oggi può leggersi solo in traduzioni moderne di altre lingue europee e perfino in cinese, ma in italiano l’impresa è appena iniziata negli ultimi anni, e non sempre con adeguata

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competenza. L’Italia, il paese – non la nazione – dove la giurisprudenza nacque, non ha superato e ha dimenticato i fondamenti della scienza di interpretazione del diritto. Per questa ragione, non solo è scaduto il livello d’istruzione degli studenti italiani, ed in generale europei, ma – com’è ovvio – anche quello dei docenti (che non sono altro che ex studenti). Basti pensare che oggi pochi professori universitari accedono alle lingue, il latino ed il greco, in cui il diritto romano era espresso. In sostanza, sotto il pretesto della specializzazione delle discipline, si cela l’abisso d’incompetenza e d’ignoranza, per il quale il conoscitore di una tecnica specialistica non sa nulla all’infuori di essa. Va detto tuttavia che nel 2004 una legge statale ha “vincolato” al più alto numero di crediti gli insegnamenti storico-filosofici della Facoltà di Giurisprudenza (diritto romano, storia del diritto medievale e moderno, filosofia del diritto): segno evidente e positivo che, una tantum, il Legislatore italiano ha voluto rimediare al pressappochismo ed all’ignoranza dell’intero corpo accademico di questo settore, che aveva provocato la forte riduzione, e spesso la scomparsa, degli insegnamenti in quaestione. Essi sono stati così riconosciuti nella loro funzione formativa di base, a livello nazionale, e sottratti autoritativamente all’arbitrio dell’autonomia delle singole università. Tuttavia non v’è corso né lezione che possa sensatamente colmare per intero le lacune, di cui lo studente generalmente può essere stato vittima nel percorso scolastico. È necessaria una collaborazione fra docente e discenti, che si fondi sulla frequentazione assidua delle lezioni, nonché sulla integrazione con lo studio individuale dei testi liceali trascurati, quante volte richiami e riferimenti dei libri universitari risultino oscuri. Così se un cenno alla filosofia stoica o epicurea, a personaggi come Tucidide, Polibio, Cicerone o Tacito, o – ancor più in altre discipline – alla concezione liberale o marxista dello Stato, alla Rivoluzione francese, alla filosofia kantiana, risultino più oscure dell’equazione einsteiniana, lo studente dovrà chiedere spiegazioni al docente a fine lezione, o attrezzarsi a ricercare tali argomenti sui suoi testi liceali o – perché no? – su internet. La speranza è che alla fine del quinquennio di Giurisprudenza lo studente conosca i principi ed i metodi dell’interpretatio iuris, elementi basilari del sapere giuridico, perché soggetti ad un’evoluzione e a cambiamenti molto più lenti di quelli che interessano il diritto positivo espresso nei codici e nelle leggi.

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“Svolgimento” grafico su di un unico piano delle quattro facce iscritte del parallelepipedo detto Cippo del foro romano, con prescrizioni sulla sacralità del luogo, nel quale il rex ed il kalator, il suo araldo, compiono alcuni atti con bovini (ioumenta). Il cippo è abitualmente datato alla fine del VI sec. a.C. Nella scrittura bustrofedica (che alterna una linea destrorsa ed una sinistrorsa) sono evidenziate in nero le parole PECEI (recei: dativo arcaico di rex), e KALAT OPEM (kalatorem).

I LA MONARCHIA SOMMARIO: I.1. Fonti per la ricostruzione della storia istituzionale arcaica. – I.2. La fondazione di Roma e la monarchia latino-sabina. L’organizzazione della città: senatus, gentes, curiae, tribus. Tradizione e indagini archeologiche. Il “concentramento storico”. – I.3. La civiltà etrusca arcaica e la sua influenza su Roma. – I.4. La monarchia etrusca: i due Tarquini e Servio Tullio. La potestas, l’imperium ed i suoi simboli. Le riforme “serviane”. – I.5. Fine della monarchia etrusca e primordi della respublica: tradizione romana e critica storica.

I.1. Fonti per la ricostruzione della storia istituzionale arcaica.

Fig. 1. Cippus antiquissimus.

Fig. 2. Graffitto REX.

Fino al IV secolo a.C. la società romana fu caratterizzata da una trasmissione prevalentemente orale degli avvenimenti. Nella civitas arcaica anche i negozi giuridici del diritto privato (contratti, testamenti etc.) erano orali e non scritti. Solo molto più tardi si sarebbe introdotto l’uso della scrittura con valore tuttavia solo probatorio (cioè di prova in caso di contestazione o di impossibilità, per morte, irreperibilità, lontananza o altro, di escutere i testimoni), restando alle parole il valore costitutivo (cioè il valore di porre validamente in essere l’atto giuridico). In tale realtà l’uso della scrittura era eccezionale. Una lex regia della prima metà del VI secolo (il cippus antiquissimus), con la menzione di un rex, forse addirittura Lucio Tarquinio, Prisco o il Superbo, e del suo kalator (araldo), fu scoperta nel 1899 secolo nel foro romano, iscritta su un parallelepipedo di tufo: essa costituisce dunque una prova della storicità della carica regia, unitamente ad una tazza con il graffito «REX» sul fondo, ritrovata proprio nell’edificio della reggia arcaica del-

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lo stesso foro. Ma, normalmente, le consuetudini consacrate dalla tradizione degli antenanati (i mores maiorum), costituivano le leggi non scritte che regolavano i comportamenti sociali. La memoria era un’arte, che veniva tramandata pubblicamente. Stando a Cicerone (De oratore II 12, 52) e a Servio, autore di un Commento all’Eneide (I, 373), il pontefice massimo avrebbe annualmente esposto una tavola imbiancata dove, sotto il nome dei consoli di ciascun anno, erano segnalati gli eventi naturali, politici, bellici, degni di memoria. A fine anno la tavola veniva riposta nel tabularium e se ne approntava un’altra, uso che sarebbe proseguito fino al 114 a.C., quando morì P. Mucio Scevola, ultimo pontefice massimo ad adempiere a tale funzione. Certamente sono mitiche altre fonti, nelle quali in età successiva i Romani riponevano piena fiducia, come i Commentarii di re Numa Pompilio, che si volevano esposti in tabulae dealbatae fin dai tempi di Anco Marcio 1. Ma nell’incendio gallico di Roma del 390 a.C. questa documentazione, se pure era realmente esistita, perì per intero. La ricostruzione mnemonica che ne sarebbe stata fatta fu ritenuta più tardi dagli stessi Romani ben poco attendibile e viziata dal desiderio dei “ricostruttori” di nobilitare le proprie origini facendole risalire ai primordi. Solo alla metà del V secolo si ebbe il primo corpus di leggi scritte, le XII Tavole, anch’esse comunque distrutte sessant’anni dopo nell’incendio gallico e tramandate “a memoria” più o meno fedelmente. Comunque, si suppone che già nel IV secolo a.C. una raccolta scritta degli eventi antichi sia stata in qualche modo compilata e diffusa, perché sul finire del III e nel II secolo già i primi annalisti recepiscono una tradizione sull’età monarchica sufficientemente omogenea da far presumere l’esistenza di una vulgata ormai prevalente. Furono costoro i primi storici di Roma, a partire dal III secolo a.C., che anno per anno trascrivevano gli avvenimenti memorabili, ma con interessate manipolazioni operate sulla tradizione orale in funzione dell’appartenenza di ciascuno all’una o all’altra famiglia patrizia. Gli annalisti sposarono la versione antiplebea e filopatrizia della storia arcaica di Roma, che si trovavano confezionata nelle fonti cui potevano attingere, e cui apportavano, con scarso scrupolo storico, quei cambiamenti, che ritenevano necessari alle finalità politiche delle famiglie di appartenenza. Essi disponevano degli Annali Massimi dei Pontefici (Annales Maximi Pontificum), redatti e tenuti dal collegio pontificale con l’annotazione annuale degli eventi rilevanti, e ne conservarono la struttura annuale, per cui le loro opere ebbero difficoltà già di per sé strutturali a riconoscere i nessi di causalità fra eventi i cui effetti si dispiegavano non in uno ma in diversi anni: per questo l’annalistica fu alquanto scevra dall’analisi e dalla spiegazione dei fatti politici. Alla seconda annalistica appartennero Licinio Macro ed Elio Tuberone, che scrissero nella prima metà del I secolo a.C., attingendo ai libri lintei, così detti perché scritti su lino, del tempio di Giunone: ma il tempio fu inaugurato nel 344 e la critica storica è divisa sul fatto che i libri ivi conservati fossero più antichi. È comunque certo che l’annalistica recepì la tradizione orale e attinse ad una “storia codificata” infarcita di elementi poco attendibili o interamente inventati. Ma per supplire a “vuoti” storici della memoria, o per interesse politico, o ancora per “razionalizzare” alla luce dell’esperienza con1

Livius I, 32.

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temporanea dati dell’antichità che apparivano incomprensibili perché appartenenti ad una realtà storica o politica non più esistente, l’annalistica non si fece scrupolo di alterare anche le informazioni di cui disponeva. Fra queste vi furono le liste dei magistrati annui, ma quelle dal 509 al 390, data dell’incendio gallico, erano state “ricostruite”. Solo dal 304, quando fu edile Cneo Flavio, questi espose liste magistratuali, come poi, nel 187 a.C., fece anche Marco Fulvio Nobiliore: ma la loro certezza non risale a prima del 390. La redazione più completa giunta fino a noi risale all’incirca al 30-29 a.C., grazie all’opera di T. Pomponio Attico, amico e corrispondente di Cicerone. I Fasti consolari e trionfali, cioè le liste dei consoli e dei generali vittoriosi in guerra, furono da lui redatti per incarico di Ottaviano ed iscritti nel suo arco trionfale sulla via sacra, eretto per la vittoria di Azio. Quanto alla narrazione sulla monarchia latino-sabina, essa fu in gran parte costruita dagli annalisti recependo una più antica tradizione, talvolta anche imbarazzante, come quando rappresentava Romolo come fratricida, rapitore e violentatore di donne: ma non per il fatto di essere più antica dell’annalistica tale tradizione è necessariamente vera. Essa fu probabilmente elaborata, come vedremo, durante la monarchia etrusca, per screditare l’elemento latino e accreditare come civilmente più progredito il dominio etrusco su Roma nel VII-VI secolo. La monarchia latinosabina fu in definitiva “costruita” dagli annalisti con caratteri di “democraticità” opposti all’autocrazia attribuita alla monarchia etrusca. Il cui avvento a Roma, certamente dovuto ad una occupazione militare, fu per quanto possibile presentato, a tre o quattro secoli di distanza, come pacifico, per non ferire l’orgoglio nazionale romano. Ma la conoscenza sia pure parziale anche di fonti etrusche e le scoperte archeologiche ci mettono in grado di valutare le differenze storiche fra le due tradizioni, romana ed etrusca, sulla dinastia dei Tarquini e su Mastarna-Servio Tullio.

Paradossalmente, non furono gli annalisti, ma i poeti a ricercare per primi le cause della grandezza romana. La prima opera “storica” non fu infatti storiografica, ma epica: il Bellum Punicum di Nevio, poema composto nella seconda metà del III secolo a.C., fondeva le mitiche origini di Roma, sul modello dell’epos omerico, alla storia recente, ravvisando nella pietas e nella osservanza della Romana religio la causa del favore divino e del successo militare. La prima opera in prosa furono invece gli Annali di Fabio Pittore, scritti però in greco, nei quali gli avvenimenti erano esposti anno per anno sull’esempio dei già ricordati Annales Maximi Pontificum, cui Fabio Pittore ed i suoi successori certamente attinsero.

I.2. La fondazione di Roma e la monarchia latino-sabina. L’organizzazione della città: senatus, gentes, curiae, tribus. Tradizione e indagini archeologiche. Il “concentramento storico”. L’origine di Roma è connessa nella leggenda al ciclo di Enea, il principe troiano figlio di Venere, che sarebbe vissuto nel XII secolo. Egli perse la moglie Creusa nell’incendio d’Ilio ma ne trasse in salvo il vecchio padre Anchise, il figlioletto Ascanio detto Iulo, e il Palladio, la sacra statua di Minerva (o Atena) venerata nella città distrutta: sbarcato in Italia sulla costa laurentina

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dopo varie peripezie, sarebbe stato infine ospitato dal re Latino e sepolto a Lavinium (oggi presso Pratica di Mare), la città da lui fondata in ricordo della seconda moglie, Lavinia. Lì dal IV secolo a.C. sorse un heroon, nel quale i Romani credevano fermamente fosse sepolto Enea, ma che è in realtà la ben più recente tomba protostorica di un capo del VII secolo, della cui identità s’era perduto il ricordo, non però la continuità del culto e della venerazione. Se si pretendeva che Enea avesse fondato Lavinium, Ascanio-Iulo avrebbe fondato Alba Longa e dato così origine alla dinastia, i cui ultimi re, Amulio e Numitore, sarebbero appartenuti alla gens Silvia: il secondo sarebbe stato il nonno di Romolo e Remo, i gemelli “figli della vergine”, la vestale Rea Silvia, e di dio (Marte). Ella infatti li avrebbe concepiti senza conoscere uomo, per “intervento” o piuttosto “opera” divina (nel caso, “opera” del dio Marte), mito per il quale possono addursi diversi esempi arcaici nella stessa Italia antica, ma che in Oriente raggiunge, in età ellenistica, il suo più celebre rappresentante in Alessandro Magno, che si voleva figlio di Olimpiade e di Zeus (con Filippo II relegato al ruolo di padre putativo), ed avrà successo non certo minore nel cristianesimo. La tradizione colloca, secondo la cronologia varroniana, al 21 aprile del 753 a.C. la fondazione di Roma da parte di Romolo, il quale avrebbe derivato dal suo il nome della città. Ma la tradizionale scienza etimologica ritiene che sia Romolo a derivare da Roma: l’eroe eponimo sarebbe stato escogitato proprio perché del nome Roma s’ignorava l’origine ed il significato. Alcuni Autori, come Plutarco, conservano memoria che ruma significasse mamma (cioè “mammella”): e oggi la linguistica ha dimostrato come Romulus derivi dall’etrusco ruma*, nel significa appunto di “mammella”, che potrebbe evocare la morfologia del colle Palatino o dell’ansa del Tevere 2. All’eroe eponimo la tradizione assegnava anche l’istituzione delle tre tribù (tribus) originarie che, sulla base di superficiali assonanze, si credette corrispondessero a tre distinti elementi etnici della primitiva civitas: i Ramnes ai Romani, i Tities ai Sabini del re Tito Tazio correggente di Romolo dopo il ratto delle Sabine, i Luceres agli Etruschi, nella cui lingua il rex si diceva fosse chiamato luchume (latino lucumo) ed i cui monarchi della dinastia dei Tarquini – in realtà ben più tardi – portavano il praenomen personale di Lucius, dal che si traeva la falsa etimologia. Ma già 2

In effetti l’albero di fico sotto il quale si voleva fossero stati allattati dalla lupa i gemelli era venerato con il nome di ficus ruminalis, aggettivo che si connette all’idea della linfa di quella pianta, che ha colore del latte e consistenza del lattice. Ne deduco che gli Etruschi ebbero a che fare con il mito della fondazione di Roma: tuttavia non possiamo capire se prendendo parte realmente al primo insediamento già nell’VIII secolo, o piuttosto elaborando la leggenda durante l’occupazione etrusca della città nel VII-VI. Infatti i Tarquini, che si impadronirono del regnum dal 616 al 509 secondo la cronologia tradizionale, potrebbero aver composto un mito di fondazione, il quale non smentiva l’innegabile latinità della città conquistata, ma mirava a dare una legittimazione alla conquista, conferendo agli Etruschi un ruolo centrale e civilizzatore nella nascita stessa della città: si voleva infatti che Romolo avesse chiamato sacerdoti etruschi per apprendere come fondarla secondo le prescrizioni rituali solo a loro note. E in effetti il nome stesso del fondatore, in latino Romulus, suonava in etrusco Rumel (= che viene da Roma).

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l’erudito ed antiquario Varrone sapeva che tutti i tre nomi, e non solo Luceres, appartenevano alla lingua etrusca. Oggi la critica storica, su base glottologica, è propensa a dargli credito e, per tale ragione, a postdatare all’età della monarchia etrusca la ripartizione in tribus e curiae della popolazione di Roma, certamente finalizzata in origine al reclutamento dell’esercito. Non v’è dubbio, infatti, che le prime tre tribus siano state istituite in rapporto alla formazione della cavalleria (equitatus) in età etrusca, poiché le turmae dei cavalieri portavano esattamente i nomi di Ramnes, Tities e Luceres. La parola tribus possiede la stessa radice del verbo tribuere, che sembra significasse originariamente “dividere in tre parti”, da cui poi derivò l’accezione di “attribuire”. E difatti le tribù originarie erano appunto tre, a ciascuna delle quali sarebbe spettato un terzo del territorio, in un’epoca in cui l’ager compascuus costituiva sostanzialmente una proprietà collettiva a livello familiare allargato. Successivamente si aggiunsero, stando alla tradizione, 4 tribù urbane denominate dai quartieri della città in cui erano rispettivamente stanziate: la Palatina dal Palatino, la Succusana dalla Suburra, l’Esquilina dall’omonimo colle, la Collina dal Quirinale, ch’era chiamato Collis per antonomasia. È tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, all’inizio della respublica, che furono probabilmente aggiunte altre 17 tribù rustiche, corrispondenti ad una sorta di ripartizione catastale del contado. Esse aumentarono progressivamente fino al numero massimo di 31, che fu raggiunto nel 241 a.C., mentre le 4 urbane non si accrebbero più. Poiché si congettura che le tribù fossero in origine raggruppamenti di famiglie patriarcali legate da vincoli di parentela, è chiaro che i contingenti armati che esse fornivano avevano un carattere appunto tribale, che fu però strutturato dagli Etruschi nell’organizzazione di un vero e proprio esercito cittadino. Si trattava anzi della prima vera organizzazione militare in un’unica legione di 3000 pedites e 300 equites, costituita nella civitas romana aggregata ed articolata dalla dinastia dei Tarquini. Inoltre una parte della tradizione collocava il principe etrusco Celio Vibenna, fratello di Aulo e capo di Mastarna (che si chiamò poi come sesto re di Roma Servio Tullio), nell’età di Romolo: ma le scoperte archeologiche testimoniano oggi inequivocabilmente che questi personaggi vissero nel VI e non nell’VIII secolo. Dunque siamo certi, nel solo caso verificabile, che la tradizione romana “anticipava” ad età romulea interventi e presenze etrusche che appartengono invece all’età dei Tarquini. Tutto ciò legittima dunque a credere che almeno gran parte del mito della fondazione, ad eccezione del nome della città e di alcuni isolati elementi, risalga solo al VI secolo. Ciò che naturalmente non basta ad escludere la possibilità che elementi etruschi abbiano avuto a che fare con l’insediamento “romuleo” sul Palatino già nell’VIII secolo, dato che il nome stesso di Roma sembra derivare dalla loro lingua e non possiamo pensare che ciò sia avvenuto un secolo e mezzo dopo la fondazione. Ma se elementi etruschi ebbero parte nella fondazione ciò non lasciò quasi traccia nella memoria trasmessa oralmente fino agli annalisti, e la leggenda dell’età dei Tarquini sul fondatore di Roma si formò in sostanza indipendentemente dalla realtà storica, per soddisfare esigenze politiche degli occupanti etruschi nei loro rapporti con i Romani nel VII-VI secolo. Come Romolo era stato concepito miracolosamente, così una credenza radicata nel popolo voleva che non fosse mai morto, ma fosse asceso al cielo con tutto il corpo (come otto secoli dopo si sarebbe preteso anche per Cristo) mentre passava in rivista l’esercito, assunto fra gli dei immortali con il nome di Quirinus, da cui si pretendeva derivasse la denominazione dei Romani come Quirites. In realtà populus

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Romanus Quiritium (il popolo romano di quelli che appartengono alle curie) indicava l’essenza politica del popolo organizzato in curiae, una parola che deriva per contrazione da co-viriae: “riunione di uomini”. Per la tradizione le curiae erano suddivisioni gentilizie delle tre tribus, e ciascuna tribus ne possedeva 10, per un totale di 30. Esse servivano così a trarre la leva per l’esercito, sulla cui base si eseguiva il censimento della popolazione, e deliberavano votando nelle riunioni assembleari dette comitia curiata. Ma i moderni attribuiscono l’organizzazione in tribù e curie alla monarchia etrusca piuttosto che a quella latino-sabina. Il collegamento con l’epiclesi Quirinus, allo scopo attribuita al fondatore, è una falsa etimologia mediante cui si volle dare una spiegazione “logica” che colmasse la sopravvenuta ignoranza delle origini. Gli auspici tratti da Romolo per la fondazione della città osservando in competizione con Remo il volo degli uccelli, e l’uccisione del fratello perché aveva osato valicare il solco sacrale (pomoerium) da lui tracciato con l’aratro a delimitare il Palatino, sono tutti episodi leggendari ed emblematici, risalenti non all’annalistica, ma ad una più antica tradizione orale del VII-VI secolo, ormai cristallizzata e – come s’è detto – anche talvolta imbarazzante per i Romani, e sono concordemente narrati dalle fonti. Esse divergono invece su quali fossero i primitivi sette colli: i nomi “canonici” Aventino, Campidoglio, Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale, Viminale subirono infatti alcune varianti nella tradizione 3. Se è da respingere la pretesa che Roma sia sorta dal nulla per il solo atto della fondazione, visto che la valle del Tevere era abitata con villaggi sparsi fin dal XIII secolo, sarà invece da accettare che essa fosse dovuta alla vocazione commerciale del sito attraversato dal fiume, con diversi guadi, nel contesto protostorico di una valle crocevia di culture e commerci nel Lazio, ma anche con l’opportunità di un collegamento fluviale al mare e soprattutto con le importantissime saline alla foce tiberina 4. 3

Fino al Novecento la critica moderna aveva anche ritenuto che la fondazione di una vera e propria città fosse fenomeno ben più recente della metà dell’VIII secolo, da attribuire piuttosto alla fase del dominio etrusco, sul finire del VII secolo, quando inizia la fioritura della “grande Roma dei Tarquini”. Tuttavia la prima pavimentazione del foro romano, ed anche del comizio, archeologicamente accertata già nella prima metà del VII secolo, avrebbe dovuto costituire la spia che la dimensione urbana dell’insediamento risalisse già alla c.d. età latino-sabina. Ora comunque gli scavi diretti da Andrea Carandini hanno consentito di datare attorno al 725 circa la costruzione di un tratto, dotato di porta (Mugonia?), delle mura di cinta del Palatino, ciò che ha indotto quell’archeologo a rivalutare per primo la tradizione. Naturalmente ciò non comprova affatto né che Romolo sia esistito né che Roma sia sorta dal nulla, ma solo che la costruzione di un muro quale atto di fondazione di un insediamento protourbano risale realmente all’VIII secoloE del resto già una tradizione confluita in Varrone conservava in qualche modo memoria di una civitas unificata e precedente la stessa Roma, chiamata Se. ptimontium (da non confondere con i sette colli), costituita dai montes, cioè dalle cime, dei colli Palatino (Palatium, Cérmalus, Velia) ed Esquilino (Cispius, Oppius, Fagutal), e dallo stesso colle Celio. Oggi sappiamo che l’area successivamente occupata da Roma e le sponde del Tevere conobbero una frequentazione ben più antica, che dall’età del Bronzo giunge all’età del Ferro: i primi insediamenti possono datarsi dal XIII secolo e consentono di delineare una fase preurbana ed una protourbana fino al IX-VIII secolo. In particolare l’isola tiberina si prestava a facilitare l’attraversamento del fiume e a soddisfare le esigenze degli scambi e della transumanza fra l’Etruria meridionale, il Lazio e la Campania: il foro Boario è non a caso uno dei luoghi in cui si sono trovate le più arcaiche testimonianze archeologiche. 4 Del resto gli scavi archeologici ci fanno contestualizzare la fondazione di Roma nel fenomeno

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Secondo la concezione della paradigmaticità dei numeri sacri, come sette erano stati i montes del Septimontium, e sette i colles della città, così la tradizione orale e poi l’annalistica trasmisero una lista “canonica” di sette re (septem reges), che avrebbero coperto un periodo dal 753 al 509 a.C., collocando nel 616 l’inizio della monarchia etrusca dei Tarquini. Uno spazio temporale comunque troppo vasto soltanto per sette monarchi, ciascuno dei quali iniziò per altro a regnare ad una certa età. Pertanto già Giovanbattista Vico sospettò la perdita nella memoria storica o l’omissione almeno di alcuni re. A parte Romolo, in verità si è propensi a ritenere che i nomi dei re latino-sabini siano autentici, senza che naturalmente la storicità dei nomi comporti automaticamente che quanto loro attribuito dalla tradizione lo sia altrettanto. Le riforme loro attribuite rispondono infatti al criterio “sistematico” detto del “concentramento storico”: quando si sviluppò l’annalistica romana l’età regia era trascorsa da buoni tre secoli e, da un’epoca in cui la trasmissione degli avvenimenti era stata prevalentemente orale, assai poco se n’era conservato nella memoria. Così a ciascun re furono attribuite, in base ad un criterio di “logica” retrospettiva, quelle istituzioni fondamentali della civitas, o quelle azioni politiche o imprese belliche, che sembravano più confacenti alla figura che se ne andava costruendo. In tal modo al fondatore si attribuiva anzitutto la distinzione, nella popolazione, fra patrizi e plebei, ma sul criterio della nobiltà del sangue e non della ricchezza, la considerazione della quale si voleva fosse opera della riforma censitaria attribuita al re Servio Tullio (vedi in seguito). A ciascun cittadino (civis) Romolo avrebbe assegnato in piena proprietà individuale (dominium), secondo il diritto esclusivo dei Romani (ius Quiritium), l’heredium, piccolo appezzamento di terra destinato alla coltivazione familiare, trasmissibile per eredità da padre in figlio ed inalienabile. Invece il territorio della civitas sarebbe stato costituito da subito in ager publicus populi Romani ed assegnato gratuitamente come ager compascuus, destinato al pascolo collettivo, o per la coltivazione alle gentes, le famiglie patriarcali patrizie. In verità questo assetto per l’VIII secolo se non vero, è almeno verisimile, e riflette comunque una realtà arcaica, sebbene posteriore alla fondazione “romulea”: qualsiasi civis aveva in teoria il diritto di chiedere l’uso dell’ager publicus, ma in pratica esso veniva poi assegnato solo a chi possedeva greggi da far pascolare o schiavi per la coltivazione estensiva, condizioni che si verificavano solo per le gentes. L’ager publicus veniva comunque concesso non in piena proprietà (dominium ex iure Quiritium) ma come possesso teoricamente temporaneo e revocabile (possessio). Tuttavia, nella degenerazione socio-politica dello sfruttamento economico della terra, la possessio finì col consolidarsi in capo ai possessores come una forma di proprietà di fatto, anche se non di diritto: s’incominciò allora ad introdurre anche un canone di fitto, comunque del tutto inadeguato al reale valore della terra. Così la possessio dell’ager publicus da parte dei patrizi si avviò a trasformarsi in un privilegio di casta del sorgere di centri protourbani anche fortificati nell’area laziale ed etrusca nella seconda metà dell’VIII secolo. È in questa seconda fase, attorno al 725, che i villaggi sparsi nell’area “PalatinoVelia” si evolvono verso una continuità ed omogeneità dell’abitato, dotandosi, come ricordavo, di mura di cinta e porte, che caratterizzano ormai un vero e proprio insediamento protourbano. Sembra perciò che anche il racconto leggendario sul ratto delle Sabine, il cui popolo occupava il Quirinale quando i Romani stavano sul Palatino, e sull’origine composita del populus Romanus al momento della fondazione possa avere in qualche modo conservato il ricordo di un fenomeno di sinecismo o aggregazione di villaggi allo stadio di organizzazione tribale, che finirono col dar luogo alla città.

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sempre più iniquo e perfino illegale, quando neanche l’irrisorio canone di fitto veniva più corrisposto, ai danni della plebe (plebs) che ne restava totalmente esclusa. Oltre alla possessio esclusiva dell’ager publicus, ai patrizi Romolo avrebbe dato anche il monopolio della costituzione del senato (senatus). Invece i comizi (comitia) avrebbero raccolto l’intera popolazione adulta maschile organizzata in centurie. Cosicché, insieme alla carica di rex, Romolo avrebbe completato gli elementi essenziali (proprietà e possesso, classi sociali, organi assembleari) della comunità civica (civitas), quale si configurava nella più tarda rappresentazione annalistica, influenzata dalle istituzioni di età repubblicana e dal loro funzionamento. Il senato sarebbe stato costituito da 100 patres gentium, cioè dai capi più anziani dei clan allargati (gentes), che si riconoscevano nel culto condiviso di un unico antenato, talvolta mitico, e nell’obbedienza ad un solo patriarca (pater gentis) da parte dei singoli capi delle famiglie mononucleari (patres familias) costituenti la gens. I discendenti dei patres si sarebbero detti appunto patricii: a loro era riservata la gestione delle cariche pubbliche, mentre alla plebe spettavano le attività lavorative e produttive, dalla pastorizia, all’agricoltura, all’artigianato. Secondo Dionigi d’Alicarnasso già allora i plebei avrebbero costituito la turba dei clientes dei patrizi, postasi sotto la loro protezione e al loro servizio politico. Anche i comitia sono anticipati dalla tradizione all’età latino-sabina e comunque presentati come organizzati sulla base di 10 curie (curiae) per ciascuna tribù, dunque in un totale di 30 (comitia curiata): si credeva che nei comizi romulei il voto del ricco avesse avuto lo stesso valore di quello del povero. A tale assemblea la tradizione attribuiva alcune funzioni fondamentali: alla morte del rex, un interrex nominato dal senato avrebbe indicato il designato alla successione e l’avrebbe infine sottoposto alla ratifica (lex curiata de imperio) dei comizi curiati. La cautela sulla storicità di tale procedura è d’obbligo: Livio tramanda che fossero i patres a ratificare l’elezione del rex da parte del populus. E cautela parimenti necessita sul fatto che ai comizi curiati sarebbe anche spettata una sorta di “giurisdizione d’appello”, massima garanzia per il cittadino romano (civis Romanus): il giudizio ultimo (provocatio ad populum) sui crimini più rilevanti, che comportassero una pena “capitale” già comminata dal tribunale per così dire “di primo grado”. Le leggi pubbliche (leges publicae populi Romani) sarebbero state proposte ed approvate nella sede dei comitia, in ottemperanza ai pareri richiesti al senato (senatus consulta) dal magistrato che si faceva promotore del “disegno di legge”, così come ben più tardi avveniva in età repubblicana. Infine il rex sarebbe stato soggetto a una sorta di verifica periodica del suo operato da parte del senato, e in caso di dissenso gli sarebbe stata concessa la facoltà di allontanarsi abdicando: si spiegava così la cerimonia antichissima del regifugium. In verità quel che è certo è che tale “responsabilità” del rex latino-sabino costituisce un carattere costruito dall’annalistica in opposizione al principio di “irresponsabilità costituzionale” attribuito all’accentuazione dei caratteri autocratici della monarchia etrusca. Che le curiae fossero originariamente trenta e connesse alle gentes, come pure che dopo Romolo esse eleggessero il rex, e votando una legge gli conferissero il comando, son tutti dati che i Romani credevano di conoscere, anche se storici come Livio manifestavano tutte le loro riserve sull’attendibilità della tradizione per l’età arcaica. Noi sappiamo oggi che essa costituisce il frutto di arbitrarie deduzioni dal poco che delle curiae sopravvisse in età storica: cioè la loro simbolica rappresentanza da parte di 30 littori, che presenziavano alla cerimonia della lex curiata de imperio, con la quale si sanciva formalmente l’elezione dei magistrati republicani forniti

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di imperium (il supremo potere di comando e di coercizione), consoli e pretori, eletti da quei comizi centuriati, che già in età arcaica sostituirono definitivamente quelli curiati. Si tratta in sostanza di anticipazioni storiche, con una retrospettiva proiezione di istituzioni e prassi repubblicane all’età regia. Come a Romolo si attribuivano le istituzioni “fondanti” della civitas, così, secondo la concezione del “concentramento storico”, a Numa Pompilio si assegnavano quelle religiose, con i più importanti collegi sacerdotali (Pontifices, Flamines, forse Salii e Fratres Arvales etc.), talvolta con palesi anacronismi, dettati dall’intento di tali collegi, e soprattutto dei Pontefici di nobilitare le proprie origini facendole risalire al secondo re. Tuttavia l’introduzione della triade di Iuppiter, Ianus e Quirinus ha l’aspetto della credibilità, perché fu poi sostituita dai Tarquini con quella di Iuppiter, Iuno e Minerva (Tinia, Uni e Menrva in etrusco). Ma a Numa si attribuiva assai meno credibilmente anche la ripartizione del populus Romanus in mestieri. Quest’ultima iniziativa è stata interpretata come una sorta di “zonizzazione”, cioè dislocazione dei mestieri in quartieri artigianali specializzati, una sorta di sviluppo in senso protourbano della civitas. Ma forse è troppo applicare esegesi così razionaliste alla tradizione. Le leggi di re Numa, comunque, sarebbero state ispirate dalla divinità, la ninfa Egeria, non meno di quelle di Mosé, che avrebbe avuto i Dieci Comandamenti da Jahvé, il dio degli Ebrei, o di quelle dei legislatori greci Licurgo di Sparta, Draconte di Atene, Zaleuco di Locri e Caronda di Catania. Ma la religiosità (pietas) del pacifico Numa non avrebbe preservato i Romani dalla guerra. Infatti l’egualitarismo “romuleo” dei comizi curiati “interetnici”, che si volevano costituiti fin dall’inizio da Romani, Sabini ed Etruschi (secondo la ricordata paretimologia delle tre tribus originarie), avrebbe consentito il prevalere degli istinti del popolo: il principio “un uomo = un voto” – aborrito dall’annalistica e dalla storiografia di estrazione nobiliare – avrebbe così favorito l’elezione e l’aggressività di Tullo Ostilio, che avrebbe portato la guerra ai vicini Sabini e Latini. Probabilmente elemento storico da ravvisare in tale tradizione è il conflitto con la Lega Albana al comando di Mettio Fufezio e la sostituzione di Roma ad Alba Longa nella posizione egemone all’interno della Lega. Tullo Ostilio sarebbe alla fine perito con l’intera famiglia nell’incendio della reggia, del quale, secondo una versione, fu causa un fulmine scagliato da Giove per punirne la misteriosa propensione a riti segreti. Ma secondo un’altra tradizione autore dell’incendio sarebbe stato lo stesso successore di Tullo Ostilio, Anco Marcio, nipote del pio Numa. Anco si sarebbe suo malgrado trovato ad ereditare la politica “espansionistica” di Tullo ed avrebbe portato Roma sul mare fondando alla foce del Tevere la colonia di Ostia, destinata a divenire un giorno il porto dell’Urbe, ma fin dal primo momento importantissima per la presenza delle saline. Da buon nipote del pio Numa, il bellicoso Anco stabilì le norme rituali per indire il bellum iustum, moralmente giustificato e perciò garantito dalla benevolenza delle divinità poliadi (protettrici della città): la richiesta dell’auctoritas patrum, cioè una preventiva autorizzazione del senato, e il iactus lapilli, il lancio da parte dei sacerdoti Fetiales di una pietra oltre il confine nemico quale formale dichiarazione di guerra. Benché aristocratico, re Anco avrebbe raddoppiato i membri del senato portandoli a 200 con l’introduzione di famiglie plebee. Sembra che in quell’epoca, in conseguenza dell’espansione territoriale nel Lazio, Roma si sia demograficamente accresciuta con l’immissione nella civitas dei popoli conquistati, in condizioni di clientes, turbe plebee dipendenti anche economicamente dal patriziato.

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Se l’immissione dei vinti nella cittadinanza, sia pure in condizione subordinata, avesse veramente origini così risalenti, ci troveremmo di fronte alla prima testimonianza di quel trattamento, unico nella storia del mondo antico (e con limitate eccezioni unico nella storia), di coinvolgimento, anziché di brutale asservimento, degli sconfitti, che caratterizza l’espansione ed il consolidamento del sistema di potere romano, fino alla costruzione di un impero economicamente globalizzato, accettato, dopo la fase iniziale di conquista, coeso nei valori civici e retto da un’ideologia condivisa, dotato di una capacità di assimilazione, che fu il segreto della sua lunghissima durata e del suo successo ecumenico e che finì con il compiersi nel 212 d.C., quando la Constitutio Antoninana de civitate peregrinis danda (il c.d. “Editto di Caracalla”) concesse a quasi tutti gli abitanto dell’impero la cittadinanza romana. Certamente, comunque, i vinti finirono, già in età arcaica, con l’essere almeno in parte assorbiti nella civitas in posizione subordinata politicamente e dipendente economicamente dalle gentes patrizie, ma la condizione di clientes garantiva loro non solo lo status libertatis, bensì anche la partecipazione ai comizi. Si viene così a strutturare la peculiare fisionomia costituzionale della civitas romana. Essa si distingue dalla democrazia delle poleis greche, perché ne nega il principio per quelle fondamentale “un uomo = un voto”, “calibrando” invece su base censitaria il peso del voto nei comizi, per cui i senatori e gli equestri “contano” più dei plebei. Ma la civitas si differenzia anche dalla spur etrusca, dove gli etera, la plebe dei clientes originata dai vinti, è in posizione paraservile ed esclusa dai diritti politici.

I.3. La civiltà etrusca arcaica e la sua influenza su Roma. Diverse tradizioni narrano della crescente influenza della civiltà etrusca, già durante il regno di Anco Marcio, nei costumi, nei culti e in quelle forme della religione, comportanti la previsione del futuro o della volontà degli dei nell’interesse della civitas attraverso le arti aruspicina e augurale. La religione – vero e proprio instrumentum regni nelle mani della nobilitas patrizio-plebea – sarà determinante nella gestione della politica. Inoltre i Romani conservarono sempre il ricordo che i simboli del potere magistratuale derivavano dagli Etruschi, ma alcuni autori ne attribuivano l’introduzione ai Tarquini, mentre altri la facevano anacronisticamente risalire addirittura allo stesso Romolo. Di fronte alla rusticitas dell’agreste Roma latino-sabina, gli Etruschi vivevano nel VII-VI secolo la loro massima fioritura di civiltà mediterranea, commerciale e cosmopolita. Stanziati fin dall’VIII secolo, pur senza assoluta continuità territoriale, da Melpo (Milano) a Félsina (Bologna), fino a Nola e Capua in Campania, essi costituivano il solo popolo sostanzialmente pre-indo-europeo e autoctono fra quelli giunti nell’Italia antica a séguito di migrazioni succedutesi dall’età del Bronzo a quella del Ferro: chiamati Tusci dai Romani e Tyrrénoi dai Greci, hanno lasciato il

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loro nome sia alla Toscana che al mare Tirreno. Il problema della loro “origine” fu posto già dagli antichi e rimane tutto sommato irrisolto 5. Ogni città etrusca (“città” si diceva spur) godeva di norma dell’indipendenza politica e costituiva uno “Stato” autonomo, esattamente come avveniva anche per le poleis greche. E, come quelle, anche le città etrusche potevano aderire a confederazioni o leghe: si parla per l’Etruria sia di una dodecapoli, con santuario federale nel Fanum Voltumnae (presso Orvieto?), sia di una federazione di quindici città. Mancava tuttavia al mondo etrusco la capacità di dotarsi di una vera e propria unità politica e la soglia di conflittualità fra città consorelle era alta non meno che in Grecia. Ciò nonostante gli Etruschi condividevano la lingua, sia pure declinata in diversi dialetti, lo stadio di evoluzione sociale, politica e commerciale, la religione e la letteratura, l’architettura e l’arte, il tipo di istituzioni: in una parola il modello di civiltà urbana formatosi nel contatto con le culture ellenica e punica, presenti entrambe nel Mediterraneo e nella stessa Italia o nelle isole. I Greci erano presenti nell’Italìa, più tardi detta Magna Grecia (Italioti), con città come Reggio, Locri, Crotone, Sibari poi Thurioi, Syris poi Eraclea, Metaponto, Taranto, Napoli, Elea; e in Sicilia (Sicelioti) con città come Zancle poi Massana, Imera, Catania, Siracusa, Gela, Agrigento, Selinunte, ma avevano fondato un’importante polis perfino in Gallia, a Massalia (Marsiglia). I Cartaginesi avevano in Sicilia la capitale della loro eparchía a Panormon (Palermo) e l’importante isola di Mozia, e possedevano interamente le coste della Sardegna e di gran parte della Corsica, avendo inoltre empória in varie città portuali sia greche che etrusche, da Messana (Messina) fino a Pyrgi, il porto di Caere (Cerveteri), più tardi, nel 384 a.C., saccheggiato da Dionisio I tyrannos di Siracusa. Lì sono state trovate le lamine auree bilingui, che ricordano la dedica di un sacello alla dea fenicia Astarte, assimilabile all’etrusca Uni, alla greca Era ed alla romana Giunone, da parte del “re di Cere” Thefarie Velianas all’inizio del V secolo. I Greci si erano talvolta alleati con i Cartaginesi in funzione antietrusca: all’inizio del V secolo il tyrannos di Reggio, Anassila, aveva fortificato Scilla contro la pirateria tirrenica (gli Etruschi erano chiamati Tirreni dai Greci). Ma più spesso era accaduto il contrario: così Cartaginesi ed Etruschi avevano sconfitto i Focei nella battaglia navale del mar di Sardegna (c.d. battaglia di Ala-

5 Nel V secolo a.C. Erodoto li riteneva provenienti dalla Lidia (oggi in Turchia), guidati da Tirreno (da cui il nome loro dato dai Greci); Ellanico, vissuto nello stesso secolo, li identificava con i semimitici Pelasgi. Lo storico ateniese Anticlide, circa due secoli dopo, coniugò le due tesi, identificando gli Etruschi con i Pelasgi guidati da Tirreno, ma facendo loro colonizzare le isole di Lemno e Imbro nell’Egeo, di fronte alla costa lidia. Infine Dionigi d’Alicarnasso li riteneva autoctoni dell’Italia. Alle teorie antiche se ne aggiunse una moderna, che credeva di ravvisare la provenienza degli Etruschi dalle Alpi. Tre iscrizioni arcaiche in una lingua molto vicina all’etrusco sono state comunque trovate a Lemno, l’ultima delle quali nel 2009. Ma i linguisti moderni non sono propensi a confermare per questo la tesi dell’origine lidia, e pensano piuttosto ad una base linguistica mediterranea condivisa da alcuni popoli preariani. Per altro Massimo Pallottino osservò che il problema dell’origine di un popolo è in genere, e per gli Etruschi specificamente, posto in modo errato. Che significato avrebbe porsi il problema dell’origine, per esempio, degli Italiani? I termini corretti sono quelli dell’etnogenesi, della formazione di un popolo: ed in tal senso gli Etruschi appaiono essere un popolo autoctono, che si sviluppa nella cultura protovillanoviana, e che si arricchì di apporti dall’Oriente mediterraneo già nell’VIII, se non perfino nel IX secolo: dunque elementi orientali, continentali e indigeni confluirono nella formazione di un popolo crescentemente ellenizzato.

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lia attorno al 540 a.C.), i cui scampati s’erano poi rifugiati ad Elea e a Reggio. Il primo trattato fra Roma e Cartagine, tràdito da Polibio (III, 22) e da lui riferito al 510-509 a.C., è da alcuni inquadrato negli stretti rapporti fra Etruschi, allora ancora padroni di Roma, e i Punici. Aristotele (Politica III 9, 1280a, 36) rappresenta addirittura l’alleanza fra i due popoli (ethne) come talmente stretta che gli uni e gli altri potevano considerarsi quasi cittadini di un solo Stato, il che è di solito inteso nel senso di una reciprocità di diritti soprattutto commerciali, ma anche forse più propriamente civici, fra le città contraenti. In età arcaica la città etrusca era retta di norma da un monarca e/o da un’aristocrazia, organizzata in gentes (laute, lautn al singolare), che fondava la propria ricchezza sulla coltivazione e la pastorizia. L’aristocrazia, però, soddisfaceva la sua sete di ricchezze esotiche, importando dalla Grecia, dalla Magna Grecia e dal mondo punico i prodotti del lusso (ceramiche pregiate, profumi, vino, vesti purpuree), ed esportando metalli di cui era ricca, come il ferro, o per i quali faceva da tramite, come lo stagno, attraverso traffici mediterranei, che però non gestiva direttamente. Infatti il commercio era percepito non solo come incompatibile con l’impegno richiesto dal ruolo di senatore, ma anche come attività indegna del rango, e tale pregiudizio, condiviso dalla civiltà greca come da quella romana e perdurante nel tempo fin quasi ai nostri giorni, finì col favorire l’arricchimento di quella parte più intraprendente degli emarginati (a Roma i plebei, in Etruria gli etera), che affrontava l’alto rischio dell’impresa marittima. Tale fenomeno sociale non fu esclusivo del mondo etrusco, ma coinvolse più o meno nello stesso arco di tempo tutte le altre civiltà mediterranee, a partire dal mondo greco e da quello punico. La koiné culturale, politica e sociale del Mediterraneo nel VI secolo è dovuta in massima parte proprio al ruolo di interscambio assolto dai mercanti etruschi, greci e punici, che, nonostante i rapporti fossero talvolta bellicosi, assicuravano la circolazione delle merci, delle idee e dei modi di vita.

Si assiste in età arcaica, nelle civiltà mediterranee, dapprima all’emergere di un nuovo ceto sociale arricchitosi, ma sfornito della nobiltà di sangue, poi al suo partecipare alla formazione degli eserciti cittadini con l’acquisto dell’armamento individuale di fanteria. Ciò porta ad un mutamento delle tattiche di combattimento e delle strategie di guerra, fino ad allora incentrate sull’uso della cavalleria (equitatus) aristocratica, nella quale il nobile cavaliere (eques) era tenuto a mantenere a proprie spese non solo l’armamento individuale, ma anche i cavalli (equi). La fanteria oplitica (da hoplon, plurale hopla: armi di bronzo e ferro) manovra ben diversamente dalla cavalleria. I pedites si muovono in formazioni serrate, alzando di fronte al nemico un antemurale di scudi, da cui fuoriescono le lance, con schieramenti coordinati nei movimenti e con tecniche di combattimento collettive e solidali: i posti lasciati vuoti dai caduti in prima fila, sono riempiti dalle posteriori, ciò che sviluppa il senso di solidarietà civica e di “classe”. Cosicché questo ceto emergente, escluso dalla condivisone del potere politico monopolizzato dalle oligarchie dominanti, ben presto si riconosce in un tyrannos, nel mondo greco, o in uno zilac o macstr (= latino magister), in quello etruscolatino: cioè un “dittatore” che fonda la sua legittimazione non sulla nobiltà del sangue, ancorché possa essere egli stesso di estrazione aristocratica, ma sulla vo-

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lontà “popolare”, vale a dire sul consenso dei ceti subalterni per la prima volta emergenti. Le vecchie aristocrazie terriere vengono allora private del potere in maniera più o meno estesa e cruenta. Per la maggior parte dei casi, nella generazione susseguente ai primi tyrannoi, le città ne depongono i figli e successori ed instaurano regimi “democratici”, caratterizzati dalla capacità decisionale delle assemblee popolari (comitia e concilia a Roma, ekklesìa, halìa o demos in Grecia, mech in Etruria). La conquista di Roma da parte degli Etruschi è stata avvolta da una nube deformante nella tradizione orale e nella rappresentazione dell’annalistica di età repubblicana, volta ad attenuare una realtà che feriva l’orgoglio nazionalistico di una civitas avviata al dominio del mondo. Cosicché, non essendo possibile negare la realtà storica del dominio etrusco a Roma, esso fu presentato non come il frutto di un’occupazione militare, ma come l’affermarsi pacifico di elementi di quel popolo, che i Romani stessi avrebbero perfino invitato. Le scoperte archeologiche ed epigrafiche confermano oggi la presenza dell’ethnos etrusco a Roma e il suo ruolo dominante dalla fine del VII alla fine del VI secolo. E del resto la stessa tradizione aveva conservato memoria delle imprese edilizie dei Tarquini, dalla costruzione della cloaca massima fino all’elevazione del tempio della triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva, gli etruschi Tinia, Uni e Menrva), monumenti giunti fino a noi. Ma la presenza a Roma di elementi etruschi è anteriore alla data tradizionale del regno di Tarquinio Prisco, e permane dopo la cacciata del Superbo. La civiltà etrusca, per ammissione degli stessi storici romani, finì col dare a Roma alcuni dei concetti e degli istituti fondanti nella sfera del diritto sacro, del diritto pubblico e della sfera politica, l’imperium, il massimo potere, fornito di coërcitio, del rex prima e dei magistrati republicani poi. Ma noi sappiamo anche che la civiltà etrusca portò Roma fuori del Lazio agreste, proiettandola nella dimensione commerciale e culturale mediterranea percorsa dalle civiltà greca e punica. Alcuni termini del lessico politico, come alcuni simboli del potere, sembra siano etruschi e son giunti fino a noi. Sono di origine etrusca i sostantivi derivati da macstr*, e dalla radice latina magistr– (maestro, magistrato, magistero etc.); si sospetta che dall’etrusco fufluns derivi il latino populus. Infine i littori e i fasci littorii adottati in età moderna in Francia, e in Italia durante il fascismo, come simboli dello Stato, sono per gli Etruschi come per i Romani i simboli dei poteri regi o magistratuali: la potestas, il potere civile che comportava i fasci senza scuri, e l’imperium, quello militare, i cui fasci possedevano la scure. L’origine etrusca del fascio littorio romano è affermata dallo sto- Fig. 3. Fascio da Vetulonia. rico e poeta del I-II secolo Floro (I 1,5) e nel poema storico Punica (VIII, 483) Silio Italico (I secolo d.C.) ne attribuisce l’invenzione ai Vetuloniesi e proprio a Vetulonia è stato trovato in una tomba del VII secolo a.C.

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un fascio littorio (bipenne) in bronzo. Benché si sia contestata l’esattezza del restauro, resta fuori discussione che la più antica rappresentazione di un fascio littorio si trova in un rilievo etrusco da Chiusi della prima metà del V secolo, ora la Museo “Antonio Salinas” di Palermo.

I.4. La monarchia etrusca: i due Tarquini e Servio Tullio. La potestas, l’imperium ed i suoi simboli. Le riforme “serviane”. Tarquinio Prisco, come il nome dichiara, era nato a Tarquinia da Demarato di Corinto, un aristocratico fuggito dalla sua patria, e da una nobile etrusca del luogo: e il nome Lucio Tarquinio Prisco lo avrebbe assunto recandosi a Roma, mutando il nome originario di Lucumone, che nell’etrusco luchume designa il più alto magistrato cittadino. Infatti, escluso dalla vita politica a Tarquinia per la sua origine straniera, sarebbe stato benevolmente accolto nella reggia da Anco Marcio. Ma alla morte del re (616 a.C.), ne avrebbe, più o meno slealmente a seconda delle versioni, approfittato per impadronirsi del regno, deludendo le attese di successione dei figli minori di Anco, dei quali era stato nominato tutore. Viene così edulcorato l’avvento d’una dinastia etrusca a Roma, che in realtà abbiamo ragione di credere fosse frutto d’una qualche conquista militare nel periodo di massima espansione di quel popolo. Poiché Tarquinio Prisco avrebbe assunto illegittimamente il regno, si voleva che a lui, o al Superbo, risalissero quei segni esteriori di un accentuato potere civile e militare (potestas e imperium), che i Romani vedevano ancora in età repubblicana e imperiale, ricordando sempre – come s’è detto sopra – di averli mutuati tutti dalla civiltà etrusca: il serto o corona di alloro, la sella curulis, il mantello di porpora, i littori ed i fasci. Il serto di alloro, talvolta riprodotto in oro, incoronava il rex e più tardi i triumphatores duces e gli imperatori; la sella curulis era la sedia del rex e successivamente dei soli magistrati patrizi; il mantello di porpora, che gli Etruschi chiamavano tébennos, sarebbe stato portato poi a Roma prima dai censori republicani nella forma della toga purpurea e quindi dagli imperatori. I lictores erano in origine la “guardia del corpo” del rex, che scortavano portando un certo numero di verghe o bastoni, dotati o meno di scuri, legate insieme in un fascio. In caso di tumulti o di pericolo per il rex, i littori potevano sciogliere le verghe e distribuirle ai suoi sostenitori (sodales) per difendere il monarca da una folla ostile. A questa originaria funzione pratica venne ben presto a sostituirsi un valore simbolico: la scorta dei littori ed i fasci finirono col rappresentare il potere e la dignitas monarchica e più tardi, dall’età repubblicana, anche la “delega di sovranità” ottenuta dai magistrati regolarmente eletti dai comizi centuriati per esercitare la potestas e/o l’imperium per l’anno di carica. Sempre nell’ambito di tale simbologia allusiva, i fasci dotati di scure connotarono l’imperium che il magistrato esercitava non in patria, dove non era pensabile applicare la pena di morte al civis Romanus, ma nelle provincie conquistate. Così le scuri applicate ai fasci finirono col distinguere i magistrati dotati del potere di coercizione (coërcitio) in patria (imperium

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domi), privo del ius gladii cioè del diritto di comminare la pena di morte (poena capitis), dall’imperium militiae, quel potere militare che si esercitava invece fuori di Roma per governare i popoli assoggettati o conquistare il nemico. A stigmatizzare il carattere dispotico posto in evidenza dai fasci littori nel regno di Tarquinio Prisco, si voleva che egli non avesse mai convocato né il senato né i comizi. Cosa del resto credibile se la sua presenza a Roma fu dovuta ad una occupazione militare straniera, piuttosto che ad un invito degli stessi Romani. A Tarquinio Prisco si attribuiva il raddoppio delle centurie di cavalieri e l’immissione nel senato di 100 membri da lui scelti, che ne avrebbero fatto un organo ligio ai suoi voleri. Una sorta di rivalsa dell’elemento indigeno si sarebbe avuta col suo successore Servio Tullio (578-535), che la tradizione romana voleva essere stato un latino e capo della cavalleria (magister equitum) degli alleati nell’esercito del Prisco. Egli sarebbe nato, per gli auctores romani, nella reggia di quest’ultimo da Ocrisia, regina della latina Corniculum, città espugnata da Tarquinio che ne aveva ucciso il re, portandone la moglie incinta prigioniera a Roma. Ella avrebbe dato al neonato il nome di Servio per la sua condizione servile, e Tullio perché era il nomen del padre. Ma l’imperatore Claudio, che fu un vero e proprio etruscologo, ci ha tramandato, in una sua oratio del 48 d.C., una versione etrusca ben differente: Servio Tullio avrebbe assunto tale nome in luogo di quello originario, Mastarna, dopo essersi impadronito del colle di Roma, che avrebbe chiamato Celio dal nome del suo duce e compagno Celio Vibenna, giungendovi con i resti del suo esercito in fuga dall’Etruria. Nel 1857 Alessandro François scoprì a Vulci gli affreschi della Tomba etrusca che da lui è denominata: essi si datano nella seconda metà del IV secolo a.C. – dunque circa due secoli e mezzo dopo gli eventi raffigurati – e coincidono in parte con la narrazione di Claudio, rappresentando una serie di duci e principi etruschi, che ne sterminano altri per liberare Celio Vibena (Caile Vipinas) tenuto prigioniero. Ciascun personaggio è accompagnato dall’iscrizione del suo nome: talché possiamo riconoscere Mastarna che taglia i legacci alle mani di Celio Vibenna portandogli una spada, ed i suoi compagni nell’impresa Larth Ulthes, Rasce e Aulo Vibenna, fratello del primo, che uccidono rispettivamente Laris Papathnas di Volsini, Pesna Arcmsnas di Sovana, e Venthi Caules di Salpino. Infine una scena sulla parete che fa angolo con la principale rappresenta un Marco Camillo (Marce Camitlnas) che sguaina la spada contro un terrorizzato Cneo Tarquinio di Roma (Cneve Tarchunies Rumach). Gli aggrediti sono rappresentati tutti mentre si svegliano di soprassalto, avvolti in un’ampia tunica (tébennos) orlata di porpora, a indicarne il rango regale, con la quale si riparavano dal freddo notturno: essi sembrano sorvegliare il prigioniero Celio. Solo il primo, Venthi Caules di Salpino, trafitto da Aulo Vibenna, è armato di scudo e vestito di corazza, ma, sorpreso alle spalle, fa la stessa fine degli altri. I personaggi che non si avvertì l’esigenza di designare col polionimo (Celio Vibenna, Mastarna, Larth Ulthes, Rasce, Aulo Vibenna, Marco Camillo) sono ritenuti vulcenti, e dunque ben noti al pubblico poiché l’affresco si trovava a Vulci, mentre per identificare gli altri s’indicò l’appartenenza civica. Alle tre città alleate di Roma (Volsini, Sovana e Sapino) appartengono i soccombenti aristocratici, designati, come Cneo Tarquinio, dalla tipica onomastica bimembre (praenomen personale + nome familiare o nomen gentis), i quali indossano una tébennos orlata di porpora, che probabilmente ne indica il rango regale di lucumoni. Solo Cneo Tarquinio ha una toga candida, ciò che forse deve indurci a non conside-

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Fig. 4. Tomba François. Contrapposti cicli pittorici del “sacrificio dei prigionieri troiani” (a sinistra) e della “liberazione di Celio Vibenna da parte di Mastarna” (a destra). Celio è di fronte con i polsi legati; ad angolo Mastarna taglia i legacci con una spada. Dietro di lui i principi etruschi che sorvegliavano il prigioniero sono aggrediti da Aulo Vibenna e dai suoi compagni di ventura.

rarlo uno dei due regnanti di tale famiglia, ma un altro appartenente alla stessa: si è infatti pensato che egli sia il figlio di Lucio Tarquinio Prisco, dato che le fonti latine ammettevano che Lucio Tarquinio Superbo potesse esserne il nipote (cioè figlio del figlio). Gli aggressori sono invece nudi, probabilmente perché prigionieri da poco liberatisi, salvo Larth Ulthes, vestito di una corta tunica orlata di porpora, raffigurato al centro della cruenta scena per l’importanza del suo ruolo, purtroppo per noi imperscrutabile. Infatti quasi tutti i personaggi così dipinti, ad eccezione di tre, ci sono completamente sconosciuti, mentre dovevano essere celeberrimi nella saga etrusca. Si è già detto, infatti, che anche Cneve Tarchunies è ignoto, poiché il suo praenomen non è quello né del Prisco né del Superbo, entrambi Lucii. Possiamo però riconoscere, oltre Mastarna-Servio Tullio, anche i due fratelli Vibenna. Il loro epos è variamente illustrato nell’arte figurativa etrusca del V e IV secolo a.C., ma la testimonianza storicamente più importante è un piede di vaso graffito col nome di Aulo Vibenna, della prima metà del VI secolo, trovato come ex voto nel santuario di Minerva a Veio: si tratta di un reperto praticamente contemporaneo a quella che a Roma è l’età serviana, il quale testimonia la storicità e la cronologia del personaggio che lo dedicò alla dea, e dunque indirettamente dimostra la storicità degli altri protagonisti dello stesso epos.

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Fig. 5. Tomba François. Copia Ruspi (1859) degli affreschi. Da sinistra: Mastarna (Servio Tullio) libera Celio Vibenna (fuori campo perché ad angolo); dietro Mastarna, scena di aggressione dei duci etruschi Larth Ulthes, contro Laris Papathnas di Volsini, Rasce contro Pesna Arcmsnas di Sovana, Aulo Vibenna contro Venthi Caules di Salpino.

Non è il caso di addentrarsi nei dettagli del sistema di lettura convenzionale degli affreschi della Tomba François di Vulci: basterà dire che la raffigurazione storica della liberazione di Celio Vibenna, sopra descritta, è dipinta di fronte alla scena mitica del sacrificio, per mano di Achille, dei prigionieri troiani all’ombra di Patroclo. Poiché i Troiani erano considerati i progenitori dei Romani, ciò allude ad una vittoria dei Vulcenti sui Romani che tenevano prigioniero Celio Vibenna. Ma i Romani sono qui “rappresentati” da uno Gneo Tarquinio Romano, che si iscrive come etrusco in una coalizione di duci di città etrusche contro i Vulcenti. La scena di Marco Camillo, che aggredisce Gneo Tarquinio Romano è stata collegata alla tradizione romana che vuole Tarquinio Prisco ucciso dal figlio spodestato di Anco Marcio: ma Marce è un praenomen individuale, ed il suo gentilizio è Camitlnas, mentre Marcius è un gentilizio (nomen gentis) il cui praenomen è Ancus; inoltre i due Tarquini re di Roma avevano praenomen Lucius e non Cnaeus (equivalente del Cneve etrusco). Dunque non v’è esatta corrispondenza fra le versioni romana e vulcente della saga. Si pensa comunque che l’aggressione di Marce Camitlnas a Cneve Tarchunies Rumach sia rappresentata come una lotta fratricida dall’esito vano, nel senso che né l’uno né l’altro regneranno su Roma. Infatti la loro rappresentazione è corrispettiva alla scena greca dei fratelli Eteocle e Polinice, che si uccidono reciprocamente nella guerra per regnare su Tebe. Mastarna, che è il nome etrusco tramandato da Claudio per il latino Servio Tullio, è scritto nell’affresco della Tomba François come Macstrna: questo nome monomembre (idionimo o nome personale) mancante di gentilizio (nomen gentis o nome della famiglia o del clan gentilizio) è in realtà un “nome di funzione” divenuto nome personale. Infatti il suffisso –na designa in etrusco l’idea di sottoposizione o di appartenenza. Dunque Macstrna significa “addetto”, “attendente” o “luogotenente” del macstr*, cioè del magister, il sostantivo che indica genericamente il capo. Ora noi sappiamo da varie fonti che magister di Mastarna-Servio Tullio fu Celio Vibenna. Dove egli sia tenuto prigioniero nella raffigurazione dell’affresco della Tomba François non si comprende inequivocabilmente, ma molti studiosi hanno pensato a

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Fig. 6. Tomba François. Disegno con la disposizione sinottica degli affreschi con parallelismo fra scene storiche (a destra) e mitologiche (a sinistra) nel Tablino e nella Cella III.

Roma. Certamente la liberazione di Celio e l’aggressione a Cneo Tarquinio “il romano”, è compiuta in un contesto di alleanza fra quest’ultimo ed i “principi” di Volsini, Sovana e Sapino, città rappresentate come alleate della Roma dei Tarquini. Tutti questi “principi” sono dotati sia di praenomen (nome individuale) che di gentilizio (nome di famiglia) e sono perciò aristocratici, mentre Mastarna e Rasce non dovrebbero condividerne il rango, dato che hanno solo un idionimo o nome individuale. Rasce resta per noi sconosciuto, ma doveva essere celeberrimo, una sorta di eroe nazionale eponimo come Romolo, perché l’iniziale del suo nome Ras– è la stessa che designa l’etnico del suo popolo: gli Etruschi, infatti, chiamavano se stessi Rasna (“quelli che appartengono a Ras”, come i Quirites sono “quelli che appartengono a Quirinus”).

Non è certo possibile far coincidere la versione vulcente e quella romana sulle vicende dei Tarquini e di Servio Tullio-Mastarna, come il caso dell’aggressione di Marce Camitlnas a Gneo Tarquinio Romano dimostra. Possiamo invece riscontrare il significato delle differenze fra le due tradizioni. Infine, la versione etrusca della “presa di Roma” sembra più fededegna delle versioni romane, che per motivi di orgoglio nazionalistico hanno alterato la realtà degli eventi storici, mutando la penetrazione etrusca in una benevola accoglienza o perfino in un invito (si direbbe a nozze) da parte dei Romani. Si trattò invece di una vera e propria conquista militare, che introdusse irreversibilmente elementi dell’aristocrazia etrusca nella società romana. Possiamo concludere che la “presa di Roma” da parte di Mastarna-Servio Tullio è contestualizzata Fig. 7. Marce Camitlnas assale nella tradizione etrusca in un’epoca di turbolenze e Cneve Tarchunies Rumach.

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rivolgimenti sociali con l’affermarsi di ceti subalterni che si alleano in “compagnie di ventura” con elementi socialmente emarginati e membri dell’aristocrazia delusi nelle loro aspettative; un contesto rappresentato come interamente etrusco, che vede Roma alleata di Volsini, Sovana e Sapino contro Vulci. Infatti si comprende bene che i nobili fratelli Vibenna reclutarono personaggi di rango sociale inferiore (Mastarna e Rasce) per liberare Celio. L’“avvento” di Mastarna-Servio Tullio a Roma si colloca perciò nel fenomeno dell’emergere sociale del ceto popolare, ed almeno in ciò la tradizione romana sembra aver conservato il ricordo di quello che, sulla base del confronto con la narrazione etrusca, può considerarsi un elemento storico. A Servio Tullio l’annalistica amò infatti attribuire quelle riforme e “garanzie” civiche, che nella sua ottica aristocratica apparivano “democratiche”, come la ripartizione censitaria della popolazione nei comitia centuriata, cioè l’organizzazione dei comizi non più in curie, ma in centurie (composte da cento uomini), cui si accedeva in base alla ricchezza. Sulla stessa base Servio avrebbe riorganizzato l’esercito, valorizzando la fanteria (pedites), rispetto al prisco ruolo prevalente della cavalleria aristocratica. Inoltre avrebbe istituito i compita, cioè i trivi ed i quadrivi degli incroci stradali strutturati come organizzazioni territoriali, protette dai suoi Lari (Lares compitales), che avrebbero dato luogo a regolari riunioni popolari. Alcune istituzioni, che più tardi costituirono il cardine del sistema repubblicano, si facevano emblematicamente risalire a questo “re di fatto”, la cui carica non sarebbe stata sancita dalla lex curiata de imperio: egli avrebbe infatti istituito le 4 tribù urbane, aggiungendovi un certo numero di tribù rustiche, futura ossatura costituzionale dei comitia tributa. Inoltre, nel quadro di questa agiografia “democratica”, si voleva che Servio Tullio avesse attribuito la funzione legislativa ai comizi centuriati e che avesse perfino configurato il futuro consolato diarchico come carica apicale della civitas 6. Servio Tullio sarebbe stato abbattuto da Tarquinio il Superbo e, moribondo, calpestato dal carro condotto dalla sua stessa figlia. Già gli auctores romani, come ricorda l’imperatore Claudio nel suo discorso in senato del 48 d.C., non erano sicuri se il Superbo fosse figlio o nipote di Tarquinio Prisco. Ma alcuni storici moderni hanno perfino sospettato che egli ne costituisca solo uno “sdoppiamento storico”: il personaggio sarebbe unico, ma la tradizione avrebbe attribuito al primo tutte le virtù del buon re, e al secondo tutti i vizi del tiranno. Va detto però che l’uccisione di Servio Tullio da parte del Superbo è coerente con il contesto di ostilità che nella Tomba François è rappresentato fra Mastarna-Servio Tullio e Cneo Tarquinio Romano il quale, per quanto di praenomen sconosciuto, appartiene certamente alla dinastia. La tradizione, benché ostile al Superbo, non riuscì comunque a negargli le imprese militari ed edilizie, come la costruzione del tempio della triade capitolina (Campido6

A lui si assegnavano anche le mura di Roma, cosiddette “serviane”, ma che risalgono, in massima parte, al IV secolo a.C., salvo alcuni pochi tratti effettivamente arcaici, sufficienti però a confermare il fondamento dell’attribuzione convenzionale se non necessariamente a Servio, almeno al VI secolo.

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glio), che egli non riuscì però a inaugurare. La leggenda connette la sua caduta ad un atto di tracotanza tirannica o hybris: suo figlio avrebbe insidiato o violentato Lucrezia, figlia di uno Spurio Lucrezio, cui lo stesso Tarquinio il Superbo aveva affidato la prefettura della città e l’amministrazione della giustizia in sua assenza. Lucrezia era inoltre moglie di Lucio Tarquinio Collatino, appartenente alla stessa gens del tiranno, e, una volta disonorata, prima di suicidarsi per la vergogna, avrebbe chiesto a lui e all’amico Marco Giunio Bruto di vendicarla. Anche Bruto era legato da rapporti di consanguineità con il Superbo, essendo figlio della sorella.

I.5. Fine della monarchia etrusca e primordi della respublica: tradizione romana e critica storica. Quel che dalla leggenda certamente si evince come elemento storico è che l’abbattimento dell’ultimo Tarquinio fu opera di una “congiura di palazzo”, o meglio ancora di una congiura interna alla stessa famiglia. L’elemento latino, se pur ebbe un ruolo, appare essere alquanto sussidiario. La tradizione vulcente, mostrando uno Gneo Tarquinio ma non regnante e soccombente, in quanto veste una tunica non orlata di porpora, presuppone una per noi sconosciuta vicenda di conflitti all’interno della dinastia: le due tradizioni concordano solo nel ricordo che nella famiglia dei Tarquini si svolsero lotte fra consanguinei per il regnum. I due congiurati che deposero il Superbo, Marco Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, sarebbero divenuti i primi consoli della respublica, ma subito Collatino fu mandato o si recò spontaneamente in esilio perché appartenente suo malgrado all’odiato nome dei Tarquini. Giunio Bruto invece cadde combattendo contro il Superbo, che cercava invano di riconquistare il trono chiedendo l’aiuto di Lars Porsenna, lucumone di Chiusi. S’inserisce a questo punto la leggenda di Muzio Scevola, che avrebbe attentato alla vita di Porsenna mentre questi assediava Roma: condotto di fronte a lui, avrebbe impavidamente bruciato su di un braciere la mano destra che aveva fallito, suscitando così l’ammirazione del lucumone. Questi avrebbe allora ribaltato l’alleanza ed abbandonato Tarquinio, attaccando quei Latini che, già soggetti a Roma sotto il di lui regnum, s’erano ribellati a séguito della sua cacciata e gli davano ora ospitalità. Comunque, esiliato Tarquinio Collatino e caduto Giunio Bruto, unico console della neonata repubblica sarebbe stato eletto Publio Valerio Publicola, negli anni dal 509 al 506 e poi nel 504, mentre nel 505 sarebbe stato eletto suo fratello Marco. Publio sarebbe andato ad abitare per un certo tempo nella reggia della Velia, ciò che, insieme all’iterazione del consolato è – a giudizio dei moderni – sicuro indizio del persistere dell’istituzione monarchica sotto mutate spoglie. E in tal senso anche l’ascesa al consolato di esponenti della gens Fabia dal 485 al 479 conferma una sorta di monopolio e di continuità, sia pure non più vitalizia, nella gestione della suprema magistratura civica. Le nostre fonti d’informazione su questo oscuro periodo dei primordi della respublica sono indirette: la versione annalistica, comunque posteriore di tre secoli

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agli avvenimenti, è nota solo dagli storici successivi e i fasti consulares, le liste dei consoli republicani 7, furono certamente manipolati dagli annalisti. Queste fonti concordano nel mostrare un’immediata successione della coppia consolare “canonica” alla cacciata di Tarquinio il Superbo. Diversi e concomitanti indizi ci fanno invece comprendere che la cacciata di Tarquinio il Superbo non coincise né con la fine della monarchia come istituzione, né con la fine della presenza etrusca. Il sia pur temporaneo dominio di Porsenna su Roma è dimostrato dal ricorrere dei nomi di gentes etrusche, e forse di origine chiusina, nelle liste consolari posteriori al 509 8. Nel 474 la battaglia navale di Cuma vede la flotta etrusca sbaragliata da quelle cumana e siracusana alleate: inizia così il declino del predominio etrusco, che entra in crisi soprattutto nelle città costiere più meridionali, mentre quelle interne centrosettentrionali, volte al commercio col mondo celtico, risentono meno, al momento, della sconfitta. Ma nell’arco di un secolo sperimenteranno la resistenza delle città latine e l’inizio, pur fra alti e bassi, di una conquista romana lenta ma alla fine inesorabile. In tale tradizione, quel che può ritenersi storicamente credibile, quanto meno per il criterio di verosimiglianza, è che Tarquinio si sia rivolto a Porsenna per essere restaurato sul trono, ma che questi, impadronitosi di Roma, abbia preferito tenerla per sé; ed inoltre che la crisi dinastica dei Tarquini abbia consentito alle città latine sottomesse di rendersi indipendenti e, di fronte al pericoloso dinamismo di Porsenna, di accogliere lo stesso Tarquinio e la sua fazione in funzione antiromana e antichiusina. In questo quadro, la tradizione annalistica, che fa succedere immediatamente la diarchia consolare alla deposizione del Superbo, è nient’altro che una anticipazione storica.

Ciò non significa però che la tradizione sia integralmente falsa, ma solo che i dati istituzionali sono stati alterati per adattarli ad una visione, che contrapponeva nettamente le caratteristiche costituzionali del potere regio a quelle dei poteri magistratuali republicani affermatisi solo a partire dal secondo quarto del 7

La redazione che n’è pervenuta risale all’incirca al 30 a.C. ad opera di Tito Pomponio Attico, amico e corrispndente di Cicerone, per incarico di Ottaviano e fu iscritta all’interno del fornice del suo arco trionfale nel foro romano: ritrovata in frammenti nel Cinquecento, fu esposta da Michelangelo nel Campidoglio, dove tuttora si conserva. 8 La critica storica è riuscita a stabilire la connessione fra la conquista di Roma da parte di Porsenna e l’assedio di Aricia da parte del figlio di questi, Arruns, nell’ambito di un conflitto in cui Roma è oggetto e non soggetto del contendere. Infatti da un lato stavano schierate: Chiusi, Vélina (Orvieto) e Roma tutte in mano a Porsenna; dall’altro lo spodestato Tarquinio il Superbo, le città latine sottrattesi al dominio della Roma dei Tarquini e divenute ora ospitali col deposto rex, ed infine la greca Cuma. Per il 506 i fasti consulares tramandano i nomi di due consules, per così dire, dai nomi inequivocabilmente etruschi: Spurius Larcius (= Spur Larcei) e Titus Herminius (= Tite Herminai), che sono molto probabilmente luogotenenti di Porsenna. Solo in conseguenza della sconfitta di questi ad Aricia, attorno al 504, ad opera della coalizione comandata dal tiranno di Cuma Aristodemo detto il Malaco, ebbe termine il dominio di Chiusi su Roma, anche se Tarquinio il Superbo non vi fu più restaurato. Il grandioso disegno di Porsenna di unificare la presenza etrusca nel Lazio e nell’Italia centrale con gli Etruschi stabilitisi in Campania s’infranse così definitivamente.

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IV secolo a.C. Così alla durata vitalizia della carica regia si contrapponeva l’annualità del consolato, alla monocraticità la diarchia ed il principio di collegialità 9, alla irresponsabilità del rex la responsabilità del magistrato repubblicano alla fine dell’anno di carica, all’imperium illimitato del rex, il limite della provocatio ad populum 10 riconosciuta come diritto inalienabile a chi subiva una condanna da parte del magistrato.Non per questo, però, possiamo oggi dubitare della storicità di Publio Valerio, “primo console” della respublica, ma solo credere ch’egli dovette esercitare un potere monocratico per un certo tempo, come la sua dimora nella reggia della Velia fa presumere. La scuola critica ne aveva invece posta in dubbio anche l’esistenza storica perché la tradizione gli attribuisce il cognomen Publicola: ora, nel VI secolo i cognomina personali (che sono nomi individuanti) non erano ancora entrati in uso, e per di più Publicola è letteralmente un “cognomen parlante”, che significa “protettore del popolo”. Ma una iscrizione arcaica trovata a Satricum restituisce una dedica a Marte da parte dei sostenitori riuniti (suodales) di Publio Valerio, che ormai è generalmente datata al 500 a.C., piuttosto che al 450. L’invenzione annalistica si limitò all’attribuzione del cognomen Publicola, emblematico del ruolo che a quel personaggio s’intendeva riconoscere quale protettore del popolo in opposizione alla tirannide del Superbo. Ma i marzili sodales di Publio Valerio attestati epigraficamente dimostrano, piuttosto che un protettore del popolo, un oligarca circondato da una cospicua guardia armata di sostenitori, probabilmente costituiti in collegium, un genere di organizzazione politica privata o comunque un’associazione di tipo personale o una consorteria gentilizia, una sorta di clan o di sodalizio (sodales), insomma, che sotto la monarchia doveva essere stato represso a favore dell’organizzazione centuriata e civica dell’esercito “serviano”. Fig. 8. Blocco iscritto da Satricum, del 500 circa a.C., con il nome di Publio Valerio (posteriormente detto Publicola) e dei suoi sostenitori, che consacrarono un sacello a Marte. L’epigrafe mutila si legge: ]iei steterai Popliosio Valesiosio / suodales Mamartei; in latino classico: ... steterunt Publii Valerii sodales Marti: il sodalizio di Publio Valerio dedicò il monumento (tempio o statua) al dio Marte. Il reperto dimostra la storicità di Publio Valerio, posta in dubbio a causa del cognomen Publicola, che costituisce invece un’aggiunta posteriore.

9 Principio per il quale il console non condivideva la potestas (potere civile) e l’imperium (potere militare dotato di coercitio) con il collega, ma ne era titolare per intero, con la conseguenza che, in caso di dissenso fra i due colleghi, l’uno poteva paralizzare l’azione dell’altro opponendogli un divieto di procedere (intercessio). 10 Cioè una sorta di diritto o prerogativa del civis Romanus a ricorrere “in appello” ai comizi per vedere confermata o abrogata da un’assoluzione la sentenza di condanna capitale pronunciata dal magistrato in carica.

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La crisi dell’autocrazia monarchica dopo il 509 consentì certo il riemergere delle organizzazioni gentilizie romane per diversi decenni: infatti, i Fabii che esercitarono il potere “consolare” dal 485 al 479 costituirono un esercito esclusivamente gentilizio con cui aggredirono la confinante città etrusca di Veio. Ma la loro strage completa nel 477 da parte dei Veienti dovette costituire un punto di non ritorno nel risorgere – dopo la fine della civitas dei regni di Servio Tullio e di di Tarquinio il Superbo – di questi eserciti costituiti da clan familiari e clientes. Prese così a riaffermarsi un’organizzazione militare civica, rispondente ai criteri dell’“egualitarismo oligarchico”. Si è visto inoltre che, contrariamente a quanto la tradizione rappresenta, la carica monocratica del rex non si estinse subito e si suppone abbia gradatamente perduto le sue caratteristiche, a partire dalla durata vitalizia e dall’irresponsabilità. Quando la carica regia divenne temporanea, o forsanche più tardi, allorché, in un’epoca imprecisata del V secolo, la carica apicale della respublica divenne diarchica, le funzioni sacrali del rex, legate alla monocraticità ed alla durata vitalizia, furono ereditate da un apposito sacerdote chiamato rex sacrorum, cui era riconosciuto un altissimo rango istituzionale, quale garante della pax deorum, ma al quale era interdetta quella carriera politica (cursus honorum), consentita invece all’altra suprema carica sacerdotale a vita: quella del pontifex maximus. In tal modo, all’unica carica che portava il nome di rex, insopprimibile per il terrore delle innovazioni (metus rerum novarum) nella sfera religiosa, si vietava in assoluto di poter acquistare una dimensione politica nella gestione del potere.

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Rappresentazione di una seduta del Senato romano in un quadro del XIX secolo.

II FORMAZIONE E SVILUPPO DELLA RESPVBLICA SOMMARIO: II.1. Gli organi assembleari e le loro funzioni(elettorale, legislativa, giurisdizionale). – II.1.1. Struttura e funzioni elettorale e legislativa dei comitia centuriata e tributa e dei concilia plebis tributa. – II.1.2. Il senato in età repubblicana. – II.2. Formazione e sviluppo delle istituzioni repubblicane attraverso il conflitto patrizio-plebeo. La “democrazia compensativa”. – II.2.1. Le prime due secessioni plebee: la dimensione “compensativa”. – II.2.2. Il Decemvirato e le XII Tavole. – II.2.3. Nuovo equilibrio sociale e politico nella seconda metà del V secolo. – II.2.4. Emancipazione della plebe dopo la vittoria su Veio e l’invasione gallica: dinamiche sociali, politiche e diplomatiche del IV secolo. – II.2.5. Civitas optimo iure e sine suffragio: espansionismo e sistema federativo romano. – II.2.6. Ordinamento delle coloniae e dei municipia. – II.3. Ordo certus gerendorum honorum e magistrature extra ordinem. Potestas e imperium. Collegialità e intercessio. – II.3.1. Caratteri delle magistrature. – II.3.2. Poteri e funzioni delle magistrature repubblicane. – II.3.3. Le singole magistrature del cursus honorum. La questura. L’edilità. Il tribunato della plebe. La pretura, il ius gentium e l’editto pretorio. Il consolato: imperium domi e militiae. La censura. – II.4. La conquista della Magna Grecia, l’esordio dell’impero mediterraneo nel III secolo e la formazione dell’ordo equester.

II.1. Gli organi assembleari e le loro funzioni (elettorale, legislativa, giurisdizionale). II.1.1. Struttura e funzioni elettorale e legislativa dei comitia centuriata e tributa e dei concilia plebis tributa. In origine i comitia centuriata, la cui istituzione – lo si è detto – si attribuiva a Servio Tullio, erano sorti in rapporto alla leva dell’esercito: questo, adunato in concione per ascoltare il rex o il magister populi nell’imminenza della guerra, aveva finito per riunirsi al fine di assumere anche decisioni diverse da quelle militari. Così dalla riunione degli uomini atti alle armi (milites) s’era andata formando l’assemblea popolare dei cives Romani adulti (Quirites), che continuavano a riunirsi nella sede originaria del reclutamento, quel Campo Marzio, situato fuori della città, che solo in avanzata età imperiale vi fu inglobato. Si è già visto come i comitia centuriata finirono gradualmente col sostituirsi ai comitia curiata riservati alla nobilitas, i quali ultimi già nel IV secolo rimanevano ormai un’organizzazione puramente

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simbolica e cerimoniale. I comitia centuriata riunivano l’intera popolazione di estrazione plebea come patrizia fra i 17 ed i 60 anni: dai 45 ai 60 si avevano i seniores, dai 17 ai 44 i juniores. Il rapporto dei comitia centuriata con l’esercito venne gradatamente ad attenuarsi, fino a scomparire, con la specializzazione delle funzioni civili di quell’assemblea popolare, restando puramente formale nel persistere delle denominazioni originate dall’ordinamento militare. Quando poi, attorno al 320, la struttura della legione fu riformata con lo sdoppiamento delle centurie in due manipoli di 60 uomini, il rapporto strutturale con i comitia centuriata cessò del tutto. Dionigi di Alicarnasso, Cicerone e Livio forniscono dati piuttosto complicati né sempre omogenei per la conoscenza della struttura e della composizione dei comitia centuriata. Per comodità didattica li riassumo nella seguente tabella. Equites: 18 centurie, di cui 6 privilegiate (Ramnes, Tities e Luceres priores e posteriores). Pedites: ripartiti in 5 classi di censo per un totale di 170 centurie. I classe: 40 centurie di seniores + 40 di juniores; II, III e IV classe: 10 centurie di seniores + 10 di juniores; V classe: 15 centurie di seniores + 15 di juniores. Inermes: 5 centurie, di cui 2 del genio (fabri tignarii, cioè carpentieri, ed aerarii, cioè fabbri); 2 della fanfara (tubicines e cornicines, suonatori di tromba e corno); 1 dei trasporti e complementi (accensi velati).

Inoltre ogni centuria non era costituita dallo stesso numero di votanti. Il criterio di computo dei voti dei comitia centuriata, ma anche la loro composizione e ripartizione, rivelano la profonda differenza “ideologica” dell’ordinamento politico della respublica romana rispetto alla costituzione (politeia) democratica (demokratìa) delle poleis: infatti la maggioranza non veniva computata dalla somma dei singoli voti espressi individualmente, ma dalla somma dei voti delle centurie. Ciascuna centuria non contava lo stesso numero di votanti, ma i seniores erano privilegiati e – per esempio – ne bastava 1/3 rispetto ai juniores per costituire una centuria. Si procedeva dunque allo spoglio dei voti della prima centuria che aveva terminato di votare, e si proclamava l’esito della consultazione prima che le altre andassero a loro volta alle urne. La prima centuria votante (praerogativa) era estratta a sorte dalle prime 6 – almeno in origine – fra le 18 degli equites: appena essa aveva finito di votare, il risultato veniva computato in base allo spoglio dei voti individuali e la maggioranza conferiva la sua scelta all’intera centuria. Per esempio, nel caso di approvazione di una nuova lex, si votava contro con una A [= a(ntiquo iure utor), cioè “mi avvalgo del diritto da sempre vigente”], ed a favore dell’approvazione con una V [V(ti rogas), cioè “voto come chiedi tu che proponi la nuova legge”]: se nella centuria praerogativa i voti individuali prevalenti erano per A, A era proclamato il voto dell’intera centuria. Le successive votavano e venivano spogliate con lo stesso sistema, e potevano farsi suggestionare dal voto della centuria praerogativa, perché la sua estrazione a sorte era ritenuta segno della volontà divina. Seguivano poi le altre centurie di equites e la I classe dei pedites

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con gli annessi fabri tignarii ed aerarii delle 2 centurie di inermi, e così via fino al raggiungimento della maggioranza assoluta. Pertanto le operazioni di voto cessavano quando in un senso o in un altro una delle due deliberazioni avesse raggiunto 97 voti (la metà + 1 delle centurie votanti). Questo sistema subì cambiamenti in un’età non precisabile, ma non precedente al 241 a.C. e comunque anteriore al resoconto che Cicerone nel De republica (II 22.39), dunque fra il 55 e il 51 a.C., riferisce del nuovo metodo: «Il funzionamento aritmetico del sistema è dunque questo: 89 centurie si raggiungono sommando le centurie di cavalieri insieme ai sei suffragi, con l’aggiunta della centuria della prima classe, che è assegnata ai carpentieri per i più importanti usi urbani. E se a queste se ne aggiungono solo 8 tratte dalle altre 104 centurie – ché tante infatti ne rimangono – si raggiunge la maggioranza assoluta dei voti popolari. E la restante ben più numerosa massa popolare distribuita nelle altre 96 centurie non verrà così esclusa dal voto, perché l’esclusione sarebbe segno di tracotanza, ma nemmeno avrà un peso eccessivo, perché questo costituirebbe un pericolo». I cambiamenti dal precedente sistema si rilevano, anzitutto, nel dimezzamento delle centurie dei fabri chiamate a votare con la I classe dei pedites, che passano da 2 a 1; poi nella riduzione della I classe dei pedites da 80 (40 seniores + 40 juniores) a 70 (infatti 70 + 18 di equites + 1 di fabri = 89). Vincenzo Arangio-Ruiz ha giustamente osservato che, rimasto intatto il totale di 193 centurie, il nuovo sistema, con 35 centurie di seniores ed altrettante di juniores, adeguò la struttura dei comitia centuriata alle 35 tribù, ormai unici distretti di leva per il reclutamento dell’esercito, limitando anche «il prepotere dei più abbienti» 1 a favore di una maggiore partecipazione popolare.

Ma, ad onta della limitazione del «prepotere dei più abbienti», ciò che più rileva nel giudizio di Cicerone è quanto esso sia sintomatico della Weltanschauung oligarchica, la “concezione ideologica del mondo”, cui è informato il sistema di votazione: certo, rispetto alle costituzioni aristocratiche del mondo greco, esso non esclude radicalmente la partecipazione popolare, ma la contiene entro limiti già aritmeticamente e istituzionalmente controllabili, oltreché di fatto socialmente controllati dalla realtà delle clientele e dal monopolio tradizionale e tradizionalista delle magistrature da parte di poche decine di famiglie della nobilitas. I comizi centuriati eleggevano gli auspicia maiora (così detti perché erano i magistrati che potevano trarre gli auspici più importanti “consultando” gli dei attraverso le viscere degli animali sacrificali), cioè i consoli, i pretori e i censori; i comizi tributi eleggevano invece gli edili curuli ed i questori; i concili plebei, che furono riconosciuti dopo la secessione plebea sull’Aventino nel 471 e che esamineremo in seguito, eleggevano i tribuni della plebe e gli edili plebei. L’aspirante alla magistratura era detto “candidato” perché perorava la sua elezione con un’arringa vestito di toga candida. In principio riceveva un voto di approvazione o di rigetto, poi si passò a un’elezione vera e propria su una lista di candidati con voto palese. 1

V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, Napoli 19577, p. 86 s.

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Una serie di leges tabellariae, dal plebiscito Gabinio del 137 fino a quello di Mario del 119, cercò di assicurare in vario modo la segretezza del voto, che il ripetersi delle leggi fa intuire non dovesse essere rigorosamente rispettata, fino a quando, nel 67 a.C., una lex Cornelia sembra esser riuscita nell’intento ponendo così un limite al controllo oligarchico sulle clientele. Per contenere le tabelle cerate con le quali si era espresso il voto si usavano grandi ceste di vimini. Gli scrutatori deputati al controllo delle operazioni, oltreché allo spoglio, erano chiamati nongenti sive custodes, cioè persone ragguardevoli che esercitavano funzioni di custodia delle ceste fino al termine delle operazioni. Esse si svolgevano in quel Campo Marzio, sacro cioè a Marte, dove abbiamo visto che in origine si radunava l’esercito, subito fuori della città. Vi erano approntati tramite transenne lignee corridoi (saepta), attraverso i quali gli elettori in fila procedevano verso la tribuna degli scrutatori, dove riponevano la tabella nella cesta di vimini. Le elezioni si svolgevano sempre qualche mese prima della scadenza dei magistrati in carica, che terminavano il proprio mandato alla fine dell’anno. Quando il magistrato superiore – console o pretore – designato (nominatus, da nominatio), prendeva possesso, alle kalende di gennaio, della carica conferitagli dai comizi centuriati, riceveva l’investitura formale del suo imperium: si diceva allora creatus (da creatio). Tale investitura non gli era conferita dagli stessi comizi centuriati che l’avevano eletto qualche mese prima, ma dagli antichi comizi curiati attraverso la lex curiata de imperio. Questa pura formalità non scomparve mai dalla tradizione del diritto pubblico romano, ma infine i comizi curiati furono simbolicamente sostituiti da trenta littori, uno per ciascuna curia, senza che dovessero realmente riunirsi. La votazione sulle leggi avveniva anzitutto con la presentazione di una rogatio, o proposta di legge da parte del magistrato. Una volta approvata, la lex veniva detta lata o rogata. Di solito la rogatio era pubblicata su tabulae dealbatae, cioè dipinta atramento, a vernice nera, su tavole lignee imbiancate ed esposta per un trinundinum, cioè per il tempo di tre mercati (in genere tre settimane), in modo che se ne potesse diffondere la conoscenza. I titoli della rogatio erano invece dipinti in rosso ed erano perciò chiamati rubricae. L’affissione della proposta di legge era chiamata promulgatio, termine che non ha dunque in latino lo stesso valore tecnico di “promulgazione”, che indica oggi la pubblicazione della legge già approvata e destinata ad entrare in vigore. Se la proposta di legge veniva approvata, se ne incideva il testo su tavole di bronzo, che erano conservate poi nel tabularium, l’archivio dello Stato, le cui strutture ancora esistono alle pendici del Campidoglio. L’iniziativa della convocazione – ius agendi cum populo o cum plebe – spettava sempre ai magistrati: il ius agendi cum populo ai ricordati auspicia maiora e al dictator, il ius agendi cum plebe – come vedremo – ai tribuni plebis, sia in caso di votazione su una lex o plebiscitum, sia in caso di elezioni. La lex si apriva con la praescriptio, introduzione comprendente il nome del magistrato proponente, l’assemblea che aveva votato l’approvazione, la data di votazione, la centuria prerogativa o la tribus che aveva aperto la procedura di voto, ed infine il civis che per primo aveva votato. Seguiva il vero e proprio testo della lex, identico alla rogatio, poiché non erano

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consentiti emendamenti. La legge era conclusa da una sanctio, che non va fraintesa quale clausola sanzionatoria per l’inosservanza o la violazione della legge stessa, ciò che era previsto nella rogatio. La sanctio regolava invece, con apposite disposizioni, i rapporti, e soprattutto i potenziali conflitti che insorgessero fra la disciplina statuita dalla legge vigente e quelle anteriori, e conteneva inoltre la previsione di eventuali divergenze anche con norme che fossero approvate in futuro (Si quis huiusce legis ergo adversus leges rogationes plebisve scita senatusve consulta fecit fecerit …). Talvolta la sanctio contemplava perfino una clausola di inderogabilità, che doveva però ritenersi nulla, per l’ovvio principio che ciò avrebbe costituito un limite alla sovranità delle assemblee popolari. Dal riconoscimento civico del tribunatus plebis da parte dei patrizi derivò anche quello delle assemblee plebee, i concilia plebis tributa, che persero così la loro natura rivoluzionaria, legata per la tradizione alla prima secessione della plebe sul Monte Sacro nel 494, ma dai moderni rapportata piuttosto alla seconda sull’Aventino nel 471, le due occasioni in cui i plebei disertarono la civitas oligarchica ritirandosi dalla comunità. Inoltre l’importanza dei concilia plebis tributa crebbe anche perché base di reclutamento dell’esercito divennero le tribù. Quando la nobilitas patrizia non vide più alternativa al riconoscimento dei concilia plebis tributa nell’ordinamento civico, i plebiscita – le deliberazioni prese dalla plebe nelle proprie assemblee – furono equiparati alle leges comiziali. Benché dei concilia facessero parte esclusivamente i plebei, ben presto non solo i tribuni plebis, ma anche i magistrati curuli, cioè patrizi, trovarono comodo convocarli, soprattutto per l’approvazione di deliberazioni di natura più tecnica. In tal caso l’assenza dei patrizi dall’assemblea votante aveva infatti scarsa incidenza politica. La duplicità dell’iniziativa di convocazione – ora i magistrati plebei, ora invece quelli eletti nei comitia centuriata, come i consoli ed i pretori – spiega l’oscillazione terminologica delle fonti, che definiscono questa assemblea plebea votante per tribù (tributim), ora comitia ora concilia plebis tributa. È chiaro che la distinzione non aveva più rilievo pratico dopo l’equiparazione dei plebisciti alle leggi, sancita da una lex Hortensia de plebiscitis dopo una terza secessione plebea, questa volta sul Gianicolo, nel 287: cosicché si poteva esser portati a parlare di comitia tributa se il convocante fosse stato il console o il pretore, e di concilia se lo fosse stato il tribunus plebis. Esiste inoltre una spiegazione, più tradizionale nella dottrina, che invece ravvisava nei comitia tributa la riunione di tutto il popolo, e non solo della plebe come nei concilia tributa, ma nella quale il popolo votava non per centurie, bensì per tribù. In ogni caso, nell’una come nell’altra spiegazione, il dato rilevante è che la votazione secondo le tribù nei comitia tributa diminuiva la “rendita di posizione” di cui l’oligarchia senatoria godeva grazie al sistema di voto dei comitia centuriata: infatti, poiché si procedeva alla votazione e allo spoglio non dell’intero corpo elettorale, ma della singola unità votante, che era la centuria nei comizi centuriati e la tribù nei comizi tributi, il ristretto numero dei patrizi veniva “assorbito” nelle tribù ben più di quanto non accedesse nelle centurie.

Quanto alle funzioni delle assemblee popolari, esse erano ordinariamente – come si è visto – elettorali e legislative, ma in alcuni casi anche processuali (provoca-

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tio ad populum, l’appello al popolo contro una sentenza di condanna capitale) e di diritto privato (testamentum calatis comitiis, testamento in presenza dei comizi dapprima curiati e poi centuriati per procedere all’adozione – in mancanza di un proprio discendente – di un membro d’altra famiglia da istituire come erede). Le assemblee popolari costituirono uno degli elementi portanti di quel sistema repubblicano, ch’era apparso al greco Polibio come una sapiente “costituzione mista” fra monarchia, aristocrazia e democrazia. Sia i comizi centuriati che i concili plebei non vennero mai formalmente sciolti, ma durante il principato furono di fatto sostanzialmente esautorati delle loro funzioni politiche, con un processo certo lento e plurisecolare ma non per questo meno inesorabile. Anche la funzione legislativa in materia di diritto pubblico e privato si spostò di fatto al senato, che sotto il principato vide enormemente ridotto il proprio ruolo politico a vantaggio del principe e dei suoi funzionari e governatori provinciali, ma, a parziale compenso, finì con l’assumere un vero e proprio ruolo normativo e giudiziario, continuando così a svolgere alte funzioni di amministrazione pubblica.

II.1.2. Il senato in età repubblicana. La dottrina moderna discute se in età arcaica il senato fosse costituito da patres nominati a vita nel sommo consesso o se invece il seggio senatorio fosse assegnato per un periodo limitato. È tuttavia certo che in piena età repubblicana il seggio senatorio era vitalizio. I senatori, fino alla metà circa del IV secolo, furono esclusivamente patricii, nome connesso a patres, che era l’esatto equivalente di senatores, nome connesso a senex (anziano). Resta in discussione se si trattasse solo di patres gentis o anche di patres familias, cioè di “patriarchi” delle organizzazioni gentilizie comprendenti varie famiglie o di padri di una famiglia mononucleare. Ma quando, a seguito del conflitto patrizio plebeo nel V-IV secolo, anche i plebei furono ammessi alle magistrature, gradatamente fu loro aperto altresì l’accesso al senato: esso infatti reclutava i propri membri fra quanti avevano rivestito le magistrature, dapprima soltanto curuli (cioè riservate ai patrizi: censura, consolato, pretura, edilità patrizia, questura), poi anche plebee (tribunato ed edilità della plebe). Nella seconda metà del III secolo l’accesso agli ex magistrati plebei era ormai divenuto ordinario. I nuovi arrivati erano detti conscripti, ma nel tempo la solidarietà di classe portò alla formazione di una nobilitas patrizio-plebea talmente coesa, che patres conscripti divenne un’endiadi per indicare semplicemente i membri del senato. Ma non tutti avevano lo stesso peso: all’interno del consesso solo gli auspicia maiora, gli ex consoli e gli ex pretori, svolgevano un ruolo decisionale. Infatti, l’ordine gerarchico degli interventi durante la discussione finiva regolarmente con l’emarginare quanti avessero rivestito solo le magistrature inferiori (edilità, questura, tribunato). Erano costoro chiamati senatores pedarii perché pedibus in sententiam eunt, cioè in quanto esprimevano il voto spostandosi in massa a destra o a sinistra nella curia senatus.

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L’ordinamento gerarchico interno al senato finì dunque col ricalcare l’ordo certus gerendorum honorum, cioè la progressione prestabilita della carriera pubblica delle magistrature civiche. Princeps senatus era il più anziano fra gli ex censori (censorii), quindi seguivano gli ex consoli (consulares), poi i viri pretorii, gli aedilicii, i tribunicii, i quaestorii. In un sistema affidato a magistrature di durata annuale e con il potere supremo limitato dal principio di collegialità e disperso nella molteplicità e specializzazione funzionale delle cariche, il senato emerse, già nel IV –III secolo, come l’organo che poteva garantire stabilità e continuità di governo e competenza nelle scelte di politica legislativa, di fronte ad organi assembleari come i comizi ed i concili plebei, i cui componenti non erano certo dotati di esperienza e preparazione diplomatiche e politiche. Più che ogni altro campo, la politica estera divenne pertanto prerogativa dell’ordo senatorius. E ciò sia con interventi specifici, quali la stipulazione di trattati o la dichiarazione di guerra, sia con l’assegnazione del governo delle provincie. La civitas romana era, come la polis, una Città-Stato, formatasi in una realtà circoscritta. Ma, al contrario della polis, aveva finito con l’accrescere il proprio dominio in maniera esorbitante, divenendo una potenza imperiale con un territorio infinitamente più esteso di quello di uno Stato moderno. Dal III secolo si pose perciò un problema del tutto nuovo: governare ed amministrare i territori conquistati oltremare, a partire dalla Sicilia e dalla Sardegna, ai quali si diede il nome di provinciae. Provincia designava in origine la sfera di competenza in senso astratto, inclusa l’eventuale iurisdictio del magistrato, ma il termine aveva finito con il “radicarsi” sul territorio in cui il magistrato esercitava le sue funzioni. Così di provincia si parlava per l’assegnazione all’uno e all’altro console di territori distanti fra loro, ma nella stessa Italia, nei quali comandare l’esercito durante la guerra (per esempio nel caso della guerra annibalica). Da questo significato il termine passò poi ad indicare direttamente il territorio oltremare da governare. L’imperium del console o del pretore cessava con l’anno di carica. Il senato provvide allora a prorogarlo di un anno ancora (prorogatio imperii) inviando l’ex console o l’ex pretore a governare una provincia oltremare in qualità di proconsole o propretore. Se il numero dei magistrati uscenti non era sufficiente a soddisfare il governo di tutte le provincie che lo richiedessero, il senato provvedeva ad aggiungere propri delegati (legati senatus) che presiedessero quelle rimaste scoperte, traendoli anche dai quaestorii. In tal modo l’assegnazione delle provincie consentiva al senato il controllo della politica estera e dell’amministrazione dell’impero che andava costituendosi. E dalle provincie anche il controllo del gettito tributario competeva infine al senato. Solo in età imperiale il senato assunse in senso proprio una funzione legislativa, quando le sue deliberazioni formalmente consultive, e perciò dette senatusconsulta, acquistarono valore di legge, quasi a compensare la deminutio del tradizionale ruolo di direzione politica che quest’organo aveva avuto in età repubblicana. Durante la quale, tuttavia, il senato un ruolo nell’iter legislativo l’aveva pure avuto. Se infatti era il magistrato a proporre il disegno di legge all’assemblea popolare, spettava al senato la ratifica della legge approvata dai comizi o dai concili plebei. Tale ratifica era chiamata auctoritas. Nella concezione paternalistica della respublica, il

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popolo era considerato quasi affetto da “minorità” e incompetenza (imperitia multitudinis), e pertanto i patres si erano arrogati tale funzione di supervisione della legge prima della promulgazione. Si vuole però che nel 339 a.C. due leges Publiliae Philonis abbiano trasformato l’auctoritas da ratifica della legge, rispettivamente dei comizi centuriati o dei concili plebei tributi, in una autorizzazione preventiva alla proposta del magistrato. Solo apparentemente il senato rafforzò così la sua funzione: infatti nessun organo poteva arrogarsi impunemente la prerogativa d’impedire ad un’assemblea popolare di esprimere il voto. Cosicché l’auctoritas preventiva non acquisì valore vincolante, divenendo una sorta di atto dovuto, ed al più conseguendo l’effetto di modifiche alla proposta di legge, ove il magistrato non fosse stato particolarmente autorevole. D’altro canto il senato disponeva di una propria espressione di volontà normativa, il senatusconsultum, cui fu sempre riconosciuta un’indiscussa autorità. Tuttavia, come il nome stesso rivela, il senato non lo deliberava di propria iniziativa, ma perché consultato e richiesto di un parere da parte di un magistrato in carica, il quale teoricamente avrebbe anche potuto disattendere il senatusconsultum da lui stesso provocato. Ma l’ascendente ed il prestigio del senato erano tali, nella mentalità conservatrice e tradizionalista dei Romani, che nessun magistrato avrebbe osato disattendere un senatusconsultum.

II.2. Formazione e sviluppo delle istituzioni repubblicane attraverso il conflitto patrizio-plebeo. La “democrazia compensativa”. II.2.1. Le prime due secessioni plebee: la dimensione “compensativa”. Fra il V ed il IV secolo a.C. la formazione delle istituzioni repubblicane si intreccia con il conflitto d’interessi fra patriziato e plebe, che ne promuove e determina lo sviluppo. Il principio di egualitaria ripartizione e distribuzione del potere era insito nelle concezioni aristocratiche nel mondo greco come in quello romano-italico. Naturalmente l’esercizio di tale potere, nella concezione patrizia, era riservato all’aristocrazia. Il principio di eguaglianza (isonomìa) di coloro che condividono il diritto di cittadinanza (isopolitéia) non si fonda per gli antichi – come invece per noi moderni c.d. “figli” dell’illuminismo e della Rivoluzione francese – sull’idea astratta di egalitè: il senso pratico e la ritrosia dall’astrazione teorica portavano i Romani a costruire la respublica prendendo atto della realtà di diseguaglianza naturale, sociale ed economica dei cives fin dal momento della nascita. La “democrazia” era perciò concepita in dimensione “compensativa”. Quanti detenevano ricchezze e godevano del tradizionale monopolio nella candidatura alle magistrature politiche (i patrizi e più tardi la nobilitas patrizio-plebea) dovevano provvedere con le proprie sostanze alle necessità della civitas in tempo di pace, pagando una summa honoraria all’erario al momento dell’elezione, approntando distribuzioni alimentari (frumentationes, epulae) e spettacoli (venationes, giochi gladiatori) per il popolo,

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edificando mura di cinta (moenia), piazze (fora), tribunali (basilicae) e templi, piccoli bagni pubblici (balnea) e più tardi grandi stabilimenti termali (thermae) e teatri. In caso di guerra, poi, armati a proprie spese come cavalieri (equites) o fanti (pedites: veliti, hastati, sagittarii, funditores), dovevano esporsi in combattimento ben più dei plebei disarmati (inermes), che stavano nelle retrovie e nelle salmerie come soprannumerari (accensi, velati). Non bastava, comunque, la nobilitas sanguinis per candidarsi alla magistrature: questo requisito doveva essere confermato dai comizi attraverso l’elezione, che riconosceva – teoricamente – l’eccellenza di un candidato sugli altri in competizione. In origine il requisito della nobilitas era riservato ai patrizi, che esercitavano in esclusiva la gestione sia delle magistrature civiche sia dei sacerdozi, ma già nella seconda metà del V secolo fu, almeno in linea di principio, riconosciuto anche ai plebei, che lo videro però realizzato solo nel IV. Ma il ricorso sempre più esteso ai proletarii sia nella vita civile sia nell’esercito, con l’acuirsi dei conflitti e con l’espansione di Roma nel Lazio e in Etruria, e poi in Magna Grecia, rese la plebe cosciente della propria indispensabile funzione e desiderosa prima di limitare l’esclusione dai diritti politici e civili, poi di condividere su un piano di parità con i patrizi la candidatura alle magistrature. Per quanto invece riguarda le fonti di ricchezza, se la plebe restò sempre sostanzialmente esclusa dai latifondi, il commercio divenne invece quasi un suo privilegio, poiché i pregiudizi sociali, di cui la legge si faceva espressione, vietavano ai senatori l’esercizio di tali attività, se non entro limiti molto ristretti. Cosicché dal commercio spicciolo, alle imprese marittime di trasporto di generi alimentari e di lusso, fino al prestito o al cambio di danari ad interesse, emerse gradatamente un ceto urbano di plebei benestanti o arricchiti, che non si identificarono più, in termini sociali, con quei proletarii da cui provenivano, quei poveri che avevano nella numerosa prole atta a lavorare i campi l’unica fonte di sostentamento. I nuovi plebei detentori di ricchezze “non convenzionali” incominciarono così a pretendere la più larga condivisione dei vantaggi e della partecipazione alla vita politica. In realtà l’universo plebeo era vissuto nella civitas come isolato, benché contiguo a quello del patriziato. Probabilmente permanevano, almeno fino al V secolo, anche differenze etniche fra patrizi e plebei, come fa sospettare l’estraneità dei plebei all’organizzazione gentilizia, il divieto di connubium ed il fatto che la sua violazione fosse ritenuta una sorta di congiunzione carnale bestiale ed indegna del genere umano (concubitus ferarum ritu), circostanza che si spiega normalmente nel mondo antico con l’esclusività del matrimonio fra appartenenti allo stesso populus, cosa che non era sfuggita a Cicerone, anche se una parte della dottrina moderna è invece orientata a riconoscere in età arcaica una differenza meramente economica fra patrizi e plebei 2. In verità, in 2 Inoltre alle divinità “patrizie” comuni a tutta la civitas – come Giove (Juppiter), Giunone (Juno), Minerva, Apollo, Marte – la plebe contrapponeva divinità proprie, venerate sull’Aventino: Diana, Cerere, Libero (Bacco) e Libera, connesse alla caccia ed all’agricoltura, particolarmente alle messi ed alla viticoltura, principali attività plebee. Diana costituiva la tutela foederis Latini, cioè il nume tutelare dell’alleanza dei popoli Latini: la tradizione voleva che l’Aventino fosse stato assegnato da Anco

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mancanza di prove ed informazioni dirette, l’origine della plebe rimane un problema aperto e probabilmente irrisolvibile, che ha sempre diviso gli studiosi. Oltre alla esposta tesi della differenza etnica, v’è anche una che appartenne alla dottrina più antica già fra il Sette e l’Ottocento: che cioè i plebei fossero i clientes dei patrizi. Con tale termine si designavano le turbe di cui, in età repubblicana, si circondavano i nobili, e che erano costituite da persone in rapporto di dipendenza sociale e politica, un po’ come avviene in quel fenomeno di malcostume politico tipicamente italiano, che va appunto sotto il nome di “clientelismo”, e che comporta erogazione più o meno illegale di favori e voto di scambio. A Roma in genere i clientes erano poveri e venivano sostentati dai loro patroni, che ne erano ricambiati con il voto e il sostegno elettorale quando si candidavano alle cariche pubbliche. Tuttavia v’erano clientes non solo ricchi, ma anche non necessariamente cives Romani, e dunque sforniti del diritto di voto, i quali potevano essere tenuti perfino a soccorrere economicamente il loro patronus in caso di bisogno. Fra questi clientes abbienti potevano esservi dediticii, cioè esponenti delle aristocrazie dei popoli arresisi, che a Roma si ponevano sotto la protezione del loro conquistatore o dei suoi discendenti; ma potevano esservi addirittura liberti, cioè schiavi liberati, che potevano acquisire l’elettorato passivo, cioè il diritto di votare, ma non d’essere eletti. Spesso costoro venivano liberati dai loro domini perché si dedicassero a quel commercio ed a quei prestiti di danaro (usurae), per i quali il ceto senatorio, ed il patriziato in particolare, soffriva forti limitazioni sia in base alla legge sia ancor più in base al costume sociale. I liberti erano tenuti all’obsequium e alle operae nei confronti dei patroni, che potevano così in vario modo ripagare dei benefici ricevuti. Ora tutto ciò infirma di per sé la vecchia teoria dottrinale che vedrebbe l’origine della plebe nella turba miserabile dei clientes. Si è già accennato all’altra teoria della differenza economica: fin dall’origine alcune gentes sarebbero state detentrici di ricchezza fondiaria ben più di altre, e se ne sarebbero avvalse per riservare a sé i privilegi ed il monopolio del potere politico, affrontando corrispettivamente l’onere per l’armamento individuale, che ne collocava i membri nelle file più esposte dell’esercito. Così all’interno delle curiae si sarebbe venuta a formare una nobilitas ricca ed inaccessibile agli esclusi, che avrebbero finito col costituire la plebe.

Allorché della civitas romana abbiamo notizie certe, essa appare già divisa fra patriziato e plebe. Quest’ultima restava di fatto esclusa dalle assegnazioni di ager publicus, il cui dominium, cioè la (in questo caso nuda) proprietà, spettava alla respublica, ma la cui possessio, cioè il possesso e lo sfruttamento, erano devoluti a chi avesse armenti o mandrie da pascolare, cioè al patriziato. Mentre alla plebe urbana si offriva la possibilità delle attività economiche sopra descritte, la plebe rustica era ridotta alla coltivazione di appezzamenti ottenuti dal patriziato, sufficienti appena per la sussistenza. Già questo formava turbe di clientes plebei legati ai patrizi concedenti la terra, i quali se ne servivano poi come massa di manovra elettorale, allorché si candidavano alle magistrature civiche. I plebei avevano così occaMarcio ai Latini scampati alla distruzione di Alba Longa. Cosicché tali argomenti sono sembrati ad una parte della dottrina moderna prova sufficiente ad ipotizzare la diversità etnica della plebe in età arcaica e ad assegnare la prevalenza della sua composizione all’elemento latino.

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sione d’integrare i loro proventi con distribuzioni e regalie che venivano fatte sia per acquistarne il voto sia dopo l’elezione del magistrato, quando questi faceva fronte agli oneri sociali inerenti alla carica. Questa situazione è rappresentata dalla tradizione con date ed episodi fatidici. Nel 494 si sarebbe avuta la prima secessione della plebe sul Monte Sacro, con l’istituzione, non riconosciuta dalla civitas, di due tribuni, incaricati di difendere gli interessi plebei: già il nome, identico a quello dei tribuni militum, rivela le funzioni all’occorrenza di difesa armata, cui questi magistrati rivoluzionari erano chiamati. Nel 471 si sarebbe invece avuta la seconda secessione, questa volta sull’Aventino, ed il numero dei tribuni sarebbe stato raddoppiato. A quanto si ritiene, l’istituzione del tribunato risale in realtà alla seconda secessione, e il loro numero è stato rapportato a quello delle quattro tribù urbane, essendo le altre 17 tribù rustiche, istituite nel 495, rimaste estranee alle rivendicazioni della plebe urbana, più evoluta politicamente.

Che l’elezione dei tribuni sia stata in funzione della plebs urbana e non rustica è dimostrato dal limite territoriale del loro potere, che cessava subito fuori dall’Urbs 3. In quegli anni la guerra romano-latina si conclude con la stipula del foedus Cassianum, cioè del trattato di alleanza fra gli ex nemici sotto il consolato di Spurio Cassio, nel 493, un trattato in cui le parti dovevano essere sullo stesso piano di parità assai più di quanto la posteriore tradizione romana abbia amato rappresentare. Nel 486 si unirono al foedus anche gli Ernici, ma nel 477 Roma subì una dura sconfitta con la già ricordata strage dell’esercito gentilizio dei Fabii, da parte dell’etrusca Veio, con cui più tardi, nel 426, stipulò una tregua ventennale. Di essa i Romani riuscirono ad avvantaggiarsi successivamente, mentre i Veienti non seppero sfruttare il periodo di pace a loro favore e finirono con l’essere espugnati nel 396. L’annalistica e la storiografia rappresentano le rivendicazioni della plebe nelle due secessioni come motivate da ragioni eminentemente legate alla distribuzione agraria ed al pagamento dei debiti, con conseguente esecuzione personale sul debitore insolvente, fino alla riduzione in schiavitù o all’esercizio del ius vitae ac necis, ciò che ha trovato particolare favore ed accoglienza nella critica storica moderna, attenta più di quella antica ai fenomeni socio-economici, e per ovvie ragioni particolarmente nella critica storica d’ispirazione marxista. Tuttavia è stato giustamente osservato che le rivendicazioni economiche, come la possessio dell’ager publicus, non avrebbero molto significato prima della conquista del territorio di Veio nel 396, e che la situazione dei debitori insolventi non era affatto migliorata neanche quando nel 450 furono promulgate le XII Tavole: pertanto si è pensato ad una proiezione retrospettiva delle ragioni del conflitto patrizio-plebeo manifestatesi più tardi, dal IV fino al II secolo a.C., con i contrasti legati alle leggi agrarie ed all’attenuazione dell’esecuzione personale per insolvenza del debitore. Del resto i 3

È possibile che le 17 tribù rustiche siano state istituite nel 495 per evitare il concentrarsi dei plebei nelle 4 urbane, aumentandone il peso e l’indipendenza politica. Se così fosse, le secessioni sul Monte Sacro e sull’Aventino costituirebbero una risposta della plebe urbana alla manovra depotenziatrice posta in essere dal patriziato.

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poteri conferiti ai tribuni plebis costituiscono una spia della ragione della loro istituzione e delle cause della secessione, che appaiono allora essere eminentemente politiche, più che economiche. Secondo Tito Livio il tribunato della plebe, e la magistratura minore dell’edilità (aediles), cui era deputata la cura degli edifici sacri alle divinità plebee ed il controllo dei mercati, furono sanciti da leges sacratae, riconosciute dai soli plebei come inviolabili. Con esse si stabiliva: ut plebi sui magistratus essent sacrosancti, quibus auxilii latio adversus consules esset (che la plebe avesse propri magistrati inviolabili, ai quali competesse la facoltà di portare aiuto alla plebe contro i consoli); ne cui patrum capere eum magistratum liceret (che a nessun senatore di rango patrizio fosse lecito rivestire quella magistratura plebea). Così ai tribuni viene riconosciuto un ius intercessionis, cioè un diritto di veto (intercessio), che consente loro di sottrarre il plebeo, e più tardi il civis tout court, all’arbitrio del magistrato, fosse anche il console. Tale potere risultava dirompente nell’ordinamento della civitas, ed appariva tanto più rivoluzionario in quanto il patriziato non lo riconosceva, ma era piuttosto costretto a subirlo. Il fondamento della potestas dei tribuni era dunque la volontà e l’azione popolare, o meglio plebea. Essi non erano affatto forniti d’imperium, il potere maggiore fornito di coercizione e di forze militari o di polizia, né mai lo furono, ma erano, anzitutto, garantiti dalla sacrosanctitas: chi attentasse alle loro persone era considerato homo sacer, cioè come consacrato alle divinità plebee, vittima che chiunque poteva impunemente uccidere. Fu così che la plebe “condannò a morte” perfino qualche console, episodi che dobbiamo sussumere piuttosto nella categoria del linciaggio di popolo, ma che non per questo furono meno efficaci nello stabilire il potere dei tribuni plebis. Infatti, non possedendo l’imperium, le loro statuizioni traevano forza ed efficacia dal consenso popolare e dalla diffusione del popolino nell’Urbe. Quel che nell’iniziativa nata dalla secessione aventiniana colpisce è non tanto la sua natura e carica rivoluzionaria, quanto il fatto che una funzione così “eversiva” dell’ordinamento civico oligarchico sia stata concepita ed attuata dalla plebe urbana in termini rigorosamente istituzionali, frutto di una progettazione organica dei rapporti politici e del corpo sociale, con la quale si tendeva già nel V secolo a superare la concezione etnica della civitas. La condivisione di tale visione organica anche da parte oligarchica è, del resto, insita nell’apologo di Menenio Agrippa 4 e spiega probabilmente perché il conflitto fra le due parti non sfociò mai in quelle guerre civili, endemiche nel mondo greco all’interno della polis. Difatti, come la plebe sviluppò in forma di autotutela la lotta politica, ed aspirò alla condivisione del potere patrizio, non alla sua abolizione, così l’oligarchia romana non pensò mai di sterminare la plebe, ma finì con il raggiungere compromessi, cercando magari di sabotare – più o meno efficacemente – le istituzioni plebee operando dall’interno della plebs stessa. 4 Il patrizio che avrebbe convinto la plebe a recedere dalla secessione con l’argomento che la civitass è come il corpo umano: senza testa (il senato), il corpo muore, ma senza braccia e senza gambe (la plebe) finisce col perire lo stesso.

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II.2.2. Il Decemvirato e le XII Tavole. È in questo quadro che si inserisce la tradizione sulle XII Tavole (duodecim Tabulae). Le rivendicazioni sulla libertà personale dei debitori insolventi e sull’abolizione del divieto di connubium con i patrizi, cui secondo la tradizione si dovrebbe l’iniziativa plebea di richiedere le XII Tavole, sono invece disattese nel testo delle stesse che ci è stato tramandato. E già tale circostanza pone il problema dell’affidabilità della tradizione su questa legislazione, la prima compilazione organica “codificata” – e sostanzialmente la sola fino all’età postclassica – su varie materie: forme del processo privato, delle obbligazioni e dei contratti, diritti di successione, tutela e curatela, rapporti di vicinato, limitazioni del lusso, delitti e pene. Talché sembra più verosimile che la redazione scritta di un corpus legislativo sia stata in sé e per sé oggetto di rivendicazione da parte della plebe, per sottrarre all’arbitrio dei patrizi e massimamente del collegium Pontificum, il collegio dei Pontefici, l’applicazione di un diritto quasi esclusivamente orale, e pertanto facilmente eludibile e adattabile da parte di chi esercitava il monopolio dell’attività processuale e dell’applicazione anche delle leges e dei mores maiorum. Al di là degli elementi leggendari 5, la maggioranza della dottrina moderna rico5 Richiesta nel 461 dal tribuno Terentilio Arsa, la redazione di leggi scritte sarebbe stata elusa fino al 451, quando una commissione triumvirale sarebbe stata inviata ad Atene a studiare le leggi di Solone, uno dei sette sapienti legislatore di quella polis. Questa tradizione è stata ritenuta inaffidabile nel XIX-XX secolo per la costatazione che non vi sono punti di contatto sostanziale fra le due legislazioni, e sulla presunzione che alla metà del V secolo l’orizzonte di Roma era ormai ristretto al Lazio e non sembrerebbe verosimile un tale rapporto con Atene. Anche l’esegesi che dietro il nome di Atene si celi un rapporto con la più vicina Magna Grecia, per esempio con Turi, fondazione di Pericle sulla costa jonica dell’odierna Calabria (Sibari), è un ripiego privo di riferimento nelle fonti e non confortato da somiglianze fra i contenuti delle XII Tavole e le legislazioni greche, ad eccezione dei limiti al lusso funerario, che sono stati spiegati attraverso una intermediazione dell’Etruria o piuttosto con “analogie antropologiche”. Comunque al ritorno dei triumviri sarebbero state sospese le magistrature patrizie come plebee e sarebbe stata istituita una commissione patrizia di decemviri legibus scribundis. Questa poi, alla fine dell’anno, dichiarando di non aver ancora portato a termine la redazione delle leggi, pur avendo approntato dieci Tavole approvate dai comizi centuriati, ottenne l’elezione di una nuova commissione nel 450, presieduta da Appio Claudio, della quale entrarono a far parte anche tre plebei. La seconda commissione avrebbe aggiunto altre due Tavole, ritenute inique, alle dieci precedenti, per di più senza sottoporle all’approvazione comiziale. Appio Claudio viene rappresentato con tratti tirannici ed un suo cliente avrebbe rivendicato, col pretesto dei debiti, la bella e giovane Virginia – nome di per sé emblematico – come schiava, col disegno di metterla a disposizione del suo patrono. Al padre della bella fanciulla non sarebbe rimasto altro rimedio che ucciderla per salvarne la verginità. Ne sarebbe derivata la terza secessione plebea dalla prima sul Monte Sacro nel 494 (seconda sull’Aventino: 471) e l’esilio dei più iniqui fra i decemviri, con il ripristino delle magistrature ordinarie. Si scorgono in questa tradizione tutti gli elementi, anche nel pittoresco, dell’annalistica di età graccana e sillana (II-I secolo a.C.), usa a trasporre i conflitti sociali contemporanei in periodi storici, dei quali possedeva scarne ed inappaganti notizie. La leggenda di Virginia ripete il topos dello stupro di Lucrezia da parte del figlio di Tarquinio il Superbo e costituisce la cornice significante della degenerazione tirannica. Inoltre, in un’epoca – quella dell’annalistica della tarda repubblica – ormai evoluta nei costumi e nella libertà sessuale e sociale della donna di rango aristocratico, per influenza del contatto con la trasgressiva società ellenistica, le prische ma assai poco praticate virtù femminili potevano

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nosce però veridicità storica sia alla commissione decemvirale che al testo tramandato delle XII Tavole. Scritte su lastre di bronzo ed esposte pubblicamente, esse furono distrutte dall’incendio gallico del 390 e il loro testo, con aggiornamenti linguistici, è stato tramandato da molteplici fonti e costituiva materia di insegnamento elementare nell’istruzione romana. Benché gli antichi considerassero le XII Tavole una vittoria plebea, ai moderni esse appaiono sancire piuttosto lo status di privilegio e di monopolio dei patrizi. Bisogna però riconoscere che il trasferimento della competenza per i processi comportanti la poena capitis dai comizi curiati a quelli centuriati fu certamente una vittoria per la plebe, che – del tutto assente nei primi – nei secondi era almeno rappresentata.

II.2.3. Nuovo equilibrio sociale e politico nella seconda metà del V secolo. Al di là dell’avere ottenuto un testo scritto nelle stesse XII Tavole, la plebe conseguì alcuni successi politici negli anni immediatamente successivi. Cessò infatti definitivamente la funzione legislativa dei comizi curiati e il ruolo di approvazione delle leggi si trasferì ai comizi centuriati e tributi. Infine, nel 449 una delle leggi Valerie Orazie avrebbe riconosciuto nell’ordinamento della civitas la sacrosanctitas dei magistrati plebei: «che chiunque nuocesse ai tribuni della plebe, agli edili, ai giudici decemviri fosse sacrificato a Giove, e che il suo patrimonio fosse venduto presso il tempio di Cerere, Libero e Libera» (Livio III 55.7). Conseguentemente anche i plebiscita, le deliberazioni rivoluzionarie prese dalla plebe nei propri concilia tributa convocati dai tribuni, furono da allora riconosciuti alla stregua di leggi pubbliche della civitas. Così, già poco dopo la metà del V secolo, secondo la tradizione sarebbe stato sancito il riconoscimento delle pretese plebee nell’ordinamento oligarchico. Sulla storicità del preteso “ripristino” della diarchia “consolare” nel 449, dopo il decemvirato legislativo, vi sono fondati dubbi: infatti la stessa tradizione ammette che nel 444 furono eletti tre tribuni militari con potere consolare (tribuni militum consulari potestate), aumentati fino a sei nel 406, probabilmente con lo scopo di diminuire il peso degli altri imperia magistratuali e di dare maggior sfogo all’imbuto ristretto del cursus honorum patrizio. A tale magistratura furono comunque ammessi, almeno come possibilità teorica, pure i plebei. Anche se poi, nei primi tempi, raramente risultarono eletti, resta che per la prima volta essi acquistarono il diritto di aspirare alla suprema magistratura della respublica. In realtà non sappiamo quale fosse l’esatta denominazione della suprema magistratura: prima dei tre tribuni militum consulari potestate la carica era ormai diarchica, ma si trattava probabilmente della collegialità diseguale di due magistri con funzioni militari, il magister equitum ed il magister populi, o di due praitores [da praeessere rappresentate da modelli mitici edificanti, come Lucrezia e Virginia, o da figure storiche esemplari, come Cornelia madre dei Gracchi (che si ornava come soli gioielli dei suoi figli), da indicare alla pubblica approvazione quando tutte si guardavano bene, ovviamente, dall’imitarle.

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itor: che va davanti (all’esercito)], di cui uno praitor maximos (praetor maximus), l’altro minor 6. I magistrati superiori – quale che ne fosse la denominazione – traevano normalmente gli auspicia: la parola deriva da aves inspicere (osservare il volo degli uccelli), l’arte che poneva il magistrato in contatto con la divinità, e soprattutto con Giove, per conoscerne la volontà e verificarne il favore al momento d’intraprendere un’attività importante, soprattutto indire una guerra (bellum iustum). Il magistrato patrizio, cui gli auspicia furono sempre riservati, poteva così interrogare il dio ed essere garante presso la civitas della sua tutela. A coloro che avevano rivestito una magistratura, e dunque almeno fino al 450 esclusivamente ai patrizi, era riconosciuta la prerogativa di mettersi in comunicazione con gli dei attraverso gli auspicia 7.

In questo quadro di fermento istituzionale, ma anche di crescita della civitas e della sua organizzazione dopo la riduzione dell’orizzonte politico dell’età dei Tarquini, si avvertì la necessità di conoscere sistematicamente la consistenza della popolazione per la leva militare e l’imposizione tributaria. Così nel 443 furono istituiti i censori (censores), magistrati cui competeva il census, cioè la valutazione del patrimonio dei cives e la loro iscrizione nelle tribus territoriali e nelle centurie. Alla fine del censimento, che avveniva ogni quinquennio (quinto quoque anno) i censori celebravano il lustrum, la rituale purificazione del popolo, cosicché la parola “lustro” finì – ancor oggi – col designare il quinquennio stesso. Più tardi i censori assunsero anche funzioni di controllo della moralità pubblica e privata dei cittadini, da cui discendeva un importante atto politico compiuto ogni cinque anni: la lectio senatus, cioè la conferma o l’espulsione per indegnità dei membri del senato. Benché i censori non fossero forniti di imperium, ma solo di potestas, la loro auctoritas era tale che l’opinione pubblica ne sanciva le deliberazioni: sarebbe stato impossibile non attenervisi senza incorrere nella reazione della società. Accedevano alla censura solo gli ex consoli, e i censori, soli fra tutti i magistrati, vestivano la toga di porpora, mentre agli altri era concessa solo la banda rossa larga (latus clavus) o stretta (angustus clavus) sulla toga candida. La censura si collocava peraltro fuori, ma al di sopra del cursus honorum, la carriera magistratuale ordinaria, costituendone il massimo coronamento sociale e politico.

II.2.4. Emancipazione della plebe dopo la vittoria su Veio e l’invasione gallica: dinamiche sociali, politiche e diplomatiche del IV secolo. Nel 396 a.C. la conquista di Veio segna l’inizio dell’espansionismo romano, che con alterne vicende ed in tempi lunghi, ma inesorabilmente, finirà con il portare al6

La tesi della originaria collegialità diseguale fra i due membri potrebbe essere confortata dal metodo comparatistico, poiché nel contiguo mondo osco-italico si trova la magistratura binaria del meddix tuvtix (magister popularis) e del meddix minive (magister minor). 7 Quest’arte non coincide con la divinazione, l’interrogazione della divinità per conoscere il futuro o l’esito fausto o infausto di un’impresa, che si praticava diversamente, per esempio con la “lettura” delle viscere degli animali sacrificati da parte dei collegi sacerdotali degli augures e degli aruspices.

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la conquista dell’Etruria e delle popolazioni italiche dell’Italia centro-meridionale, stabilendo così il contatto già alla fine del IV secolo con la più “settentrionale” delle poleis della Magna Grecia: Napoli. L’acquisizione dell’ager Veientanus et Capenas comportò la distribuzione individuale (viritim) di 7 iugeri (= 1,75 ettari) non solo a tutti i cives aventi diritto, plebei inclusi, ma anche ai filii familias, cioè ai figli ancora in potestate del pater o dell’ascendente. Conseguenza di tale adsignatio fu che la plebs rustica, che prima dissodava come salariata i latifondi patrizi in condizione clientelare, presto si affrancò dal suo status di subordinazione e divenne coltivatrice diretta. Se il senato decise di distribuire le terre alla plebe, ciò non fu soltanto perché non ne previde gli effetti a proprio danno, ma soprattutto perché, dopo la strage dell’esercito gentilizio dei Fabii nella lotta contro Veio, doveva prendersi atto che l’apporto plebeo nel ricostituito esercito cittadino non poteva essere ignorato. Forse i latifondisti contavano di far ricorso al lavoro servile in sostituzione della manodopera agricola libera, ma la vendita della popolazione veiente ridotta in schiavitù non fu sufficiente a fornire al patriziato fondiario romano la mano d’opera necessaria, con la conseguenza che si fece ricorso al lavoro coatto dei debitori insolventi, nei cui confronti proprio le XII Tavole avevano ribadito l’esecuzione personale. I debitori erano distinti in addicti e nexi, di cui il creditore disponeva liberamente: i primi erano assegnati al lavoro in base alla pronuncia del magistrato, i secondi in base ad una obbligazione personale, che lo prevedeva espressamente in caso di inadempimento. Così, paradossalmente, la conquista di Veio finì con l’accentuare il conflitto sociale, rendendo l’escussione dei debitori insolventi il problema politico centrale nelle tensioni interne alla civitas del IV secolo. Se il successo dell’espugnazione di Veio sortì effetti nel dinamismo sociale, economico, politico e istituzionale non previsti né graditi all’oligarchia, esso fu ben presto traumaticamente offuscato dalla conquista di Roma e dall’incendio dello stesso Campidoglio ad opera dei Galli, al comando di Brenno, nel 390 8. 8 Ad undici miglia dal Tevere i 24.000 Romani reclutati in fretta e furia dai tribuni militum consulari potestate non riescono a fermare i 70.000 Galli di Brenno (rotta dell’Allia). Benché la dottrina moderna ritenga l’incendio gallico una tarda invenzione annalistica – che sarebbe motivata dall’intento di trovare nella distruzione una spiegazione alla mancanza di monumenti anteriori al IV secolo e di un piano regolatore ortogonale a Roma – in verità non v’è ragione di ritenere incredibile che la presa della città abbia comportato gravi saccheggi e demolizioni, anche se forse non la distruzione totale dell’Urbe. I Galli erano una popolazione pre-indoeuropea, che come ricorda Cesare chiamava se stessa Celtae, s’era stanziata nelle regioni attualmente denominate Belgio e Germania inferiore (Belgae), Francia e parte della Svizzera (Aquitani e altri), Spagna e Portogallo (Iberi), e dalla pianura padana all’Italia centrosettentrionale (Insubres, Cenomani, Boii, Senones). Si trattava di un popolo privo di unità politica e organizzato allo stato ancora tribale, ma molto prolifico e in possesso di metallurgia e armamento avanzati per l’epoca. Più tardi, nel II secolo a.C., i Galli giunsero a devastare la Grecia, dove furono chiamati Galati e infine fermati dagli Attalidi, sovrani di Pergamo: nell’Altare, che da quella capitale ellenistica prende nome, la vittoria fu evocata rappresentandola come quella degli dei sui Giganti (Gigantomachia). Il che la dice lunga sull’ef-fetto psicologico sortito dalle invasioni sulle popolazioni greca e romana.

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Per escogitare una giustificazione politicamente utile alla sconfitta romana, la tradizione pontificale oligarchica ne attribuì tendenziosamente la causa alla violazione dei riti religiosi da parte dei plebei, riversando sul ceto sociale antagonista la presunta responsabilità della sconfitta. Il rapporto di 1:3 fra Romani e Galli dovette tuttavia affacciarsi alla mente anche dei più disponibili alla superstizione religiosa, se da allora i Romani rimasero affetti non solo dal cosiddetto metus Gallicus, il terrore dei Galli, ma anche dal timore dell’oligantropia, la crisi demografica. Dal canto suo la tradizione orale, prima ancora che l’annalistica, si sforzò di compensare con l’epos la cocente umiliazione di Roma, sottoposta da Brenno al tributo, che il dictator Marco Furio Camillo, eletto per la bisogna, e accorso su tutte le furie a fermare Brenno, si voleva avesse eroicamente recuperato. Fortuna fu per Roma che i Galli non disponessero della capacità progettuale per organizzare una conquista e un insediamento in pianta stabile, costruendo un sistema egemonico di ampio respiro, e che si limitassero a sia pur rovinose ed estese scorrerie. Finirono col ritirarsi infatti, ma devastarono l’Italia centrale fino al 329, ponendo a dura prova il sistema di egemonia e di alleanze romano. La ripercussione politica della conquista gallica fu il dissolversi del foedus Cassianum e la fine dell’alleanza con i federati Latini ed Ernici, che dopo la distruzione di Veio temevano l’accrescersi della potenza romana non meno che le incursioni dei Galli, da cui i Romani non avevano comunque saputo proteggerli.

Ma all’interno della civitas si ponevano problemi sociali che era urgente risolvere, anche per garantire la coesione necessaria a che l’esercito fronteggiasse i pericoli esterni e perseguisse le non deposte mire egemoniche. Solo un quindicennio dopo la conquista di Veio, e dieci anni dopo il disastro gallico, nel 380, i tribuni militum consulari potestate esercitarono decisamente l’auxilii latio, la facoltà di portare aiuto alla plebe, opponendo l’intercessio ai consoli che volevano addicere i debitori insolventi, cioè assegnarli come schiavi da lavoro ai loro creditori. La reazione dell’oligarchia senatoria non si fece attendere, e benché nel 379 i tre tribuni militum fossero tutti plebei, chiaro effetto politico della deliberazione dell’anno precedente, dall’anno seguente furono eletti tribuni di estrazione esclusivamente patrizia. Ma il rimedio fu per i conservatori peggiore del male: soltanto due anni dopo, infatti, nel 377, le tre leggi proposte dai tribuni plebis Gaio Licinio e Lucio Sestio, e perciò dette leggi Licinie-Sestie, stabilirono un programma sociale organicamente mirato all’autosufficienza economica e all’autonomia politica dei ceti emarginati. La prima lex limitava a 500 iugeri (125 ettari) la possessio dell’ager publicus, con ciò colpendo al cuore la formazione del latifondo patrizio a spese dello Stato; la seconda istituiva quello che chiameremmo il divieto di anatocismo, cioè la maturazione degli interessi sugli interessi del debito, e inoltre – in un’economia ancora sostanzialmente premonetaria (fondata sull’aes rude e sull’aes signatum più che sul numerario), ignara ancora del fenomeno svalutativo – deduceva dall’importo del capitale gli interessi debitorî già pagati, e rateizzava il resto in tre soluzioni, alleviando così notevolmente la posizione della massa degli insolventi. La terza lex

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stabiliva l’obbligatorietà che in ciascun anno uno dei due consoli fosse plebeo 9. Infine nel 367 fu ripristinata la diarchia consolare e si procedette altresì, quasi a titolo compensativo per la perdita del monopolio di questa carica da parte dell’aristocrazia, all’istituzione della pretura come magistratura riservata ai patrizi, con competenze processuali e di amministrazione della giustizia, che venivano così sottratte ai consoli. Il pretore venne ad affiancarsi ai consoli, che da questo momento assunsero certamente tale denominazione (consules). Ma il pretore rivestiva rispetto ai consoli un rango molto inferiore, sottolineato dal fatto che era preceduto da due soli littori, a fronte dei 12 di ciascun console.

II.2.5. Civitas optimo iure e sine suffragio: espansionismo e sistema federativo romano. Elaborati all’interno assetti politico-istituzionali più compensativi per la plebe e ripresasi all’esterno dal disastro gallico, Roma intraprese una serie di guerre contro i Latini e le popolazioni italiche dei Volsci e degli Equi: vincendo la coalizione antiromana che le si oppose dal 386 al 370, stipulò nel 358 nuovamente la pace con i più affini, i Latini. Oltre un secolo e mezzo dopo la fine dei Tarquini, Roma incomincia a riaffacciarsi alla dimensione mediterranea da cui era uscita e conclude nel 348 un trattato con Cartagine, la potente città punica (oggi presso Tunisi) dedita alle conquiste militari funzionali ai suoi commerci marittimi, presente in Sicilia con la sua eparchia attorno a Panormon (Palermo). L’alleanza con Cere (Cerveteri), la dinamica spur etrusca coinvolta fin dal VI secolo nei traffici tirrenici grazie al suo porto di Pyrgi, e alleata di Cartagine, rende in questo momento Roma una potenza non trascurabile per chi abbia interessi sulle coste dell’Italia centrale. Cere aveva dato rifugio ai Romani scampati alla sconfitta nel 390, ma mezzo secolo dopo quell’evento i rapporti iniziano a cambiare. Cere si fa attrarre infatti nella sfera antiromana etruscofalisca: non si tratta, per fortuna di Roma, di una vera coalizione, ma di ostilità che vengono iniziate isolatamente ora da Tarquinia ora dai Falisci, mentre la confederazione della Dodecapoli etrusca sembra restare inerte per scarsa simpatia verso Tarquinia. Nel cui foro nel 358 i Tarquiniesi sacrificano barbaramente i prigionieri romani, determinando – com’era prevedibile – una reazione dello stesso genere e crudeltà.

La sapienza diplomatica di Roma si esercita nelle avversità e a Cere (Cerveteri), in riconoscimento non dell’attuale politica, ma dell’ospitalità del 390, viene conferita nel 353 una nuova forma di alleanza, che sarà poi sperimentata su larga scala nel sistema federativo romano: la civitas sine suffragio. Si trattava di una cittadinanza priva soltanto dei diritti politici, priva cioè dell’elettorato attivo e passi9 I dubbi di parte della dottrina moderna, che vede in queste leggi un’anticipazione storica della situazione politica e sociale del III –II secolo, non sembrano sostenuti da adeguate argomentazioni, di fronte ad una tradizione non leggendaria, e al fatto che all’autorità di quelle leggi si sia richiamata la riforma agraria graccana sul finire del II secolo, per cui la tesi dell’autenticità trova oggi molti sostenitori.

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vo, ma che consentiva di accedere al ius connubii e al ius commercii con i cives Romani, il diritto di contrarre matrimonio e di avvalersi delle forme solenni, comportanti pienezza di efficacia giuridica, del ius civile Quiritium per il trasferimento della proprietà, per le compravendite e per tutti gli altri negozi detti appunto “quiritari” ed esperibili solo fra cittadini romani (inter cives Romanos). Alla latina Tusculum, invece, vicina a Roma per lingua, culti ed istituzioni oltreché geograficamente, verrà concessa con l’alleanza la civitas optimo iure, cioè la piena cittadinanza romana. Altrove sono impiantate colonie romane anche all’interno e a danno delle stesse città soggette, pur mantenute nella loro autonomia amministrtiva. Si garantisce così ai nuovi cittadini romani che vengono iscritti nelle tribù rustiche, il pacifico godimento dei lotti di terra coltivabile sottratti ai vinti e costituiti in ager publicus, terreno di proprietà demaniale, precedentemente soggetti a varie e gravi turbative da parte dei vinti, che ne avevano subìto l’esproprio. Il corso del IV secolo è scosso dalle convulsioni delle due guerre sannitiche, della rivolta dei Latini e della guerra contro Napoli, polis italiota, cioè greca d’Italia, di enorme importanza per il suo golfo ed il suo porto aperto a tutti i commerci. Dopo questo primo scontro, la comunione d’interessi fra la città a vocazione marittima e la “terrestre” Roma renderà inossidabile la simbiosi ed il foedus con i Napoletani. Alla fine del IV secolo Roma trae esperienza dalle alterne vicende che l’hanno vista ora contrapposta (Veio, Tarquinia, Vulci) ora alleata delle città etrusche (Cerveteri) fra loro divise: alla dissoluzione del foedus Cassianum come portato del disastro gallico fa seguito l’iniziativa nei confronti di Latini ed Italici. Le dure guerre sannitiche nelle asperità dell’Appennino inducono i Romani a riformare l’ordinamento legionario dell’esercito per renderlo più mobile e snello: così, attorno al 320, si procedette alla suddivisione di ogni centuria in due manipoli di 60 uomini ciascuno, con grande vantaggio tattico di manovrabilità. Superati infine i Sanniti, Roma si affaccia alla Campania felix, alle soglie della fertile Magna Grecia. I Campani sono Italici ben diversi dai rustici Sanniti: il loro grado di ellenizzazione è profondo nella lingua, nella cultura e nello stile di vita urbano. Proiettati nel commercio mediterraneo prima di Roma, essi hanno mutuato già nel IV secolo il modello di vita greco, con cui i Romani vengono a contatto anzitutto attraverso questi Italici, e solo successivamente attraverso relazioni dirette con gli Italioti, cioè con i Greci d’Italia.

Sotto l’aspetto politico Roma matura in quest’arco di tempo un programma diplomatico e amministrativo empirico, sui cui fonderà l’efficace sistema del proprio dominio. Esso può riassumersi nelle espressioni emblematiche divide et impera nonché parcere subiectis, debellare superbos 10. Il trattamento dei vinti e degli alleati viene nettamente differenziato non solo per ricompensare e punire, ma anche per evitare il formarsi di comunioni di interessi e di “rendite da posizione” fra i popoli soggetti. Così si va dalla riduzione in schiavitù degli sventurati Veienti, alla rappresaglia contro il sacrificio dei prigionieri romani nel foro di Tarquinia, fino alla concessione della civitas sine suffragio ai Ceriti e all’annessione di Tusculum 10

«Dividi e comanda»; «risparmiare chi si sottome, rendere debellare chi oppone resistenza».

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con la concessione della civitas optimo iure. Agli alleati vengono elargiti foedera aequa, su un assoluto piano di parità (almeno formale) delle due parti (quello con Napoli verrà detto foedus aequissimum!), oppure foedera iniqua, in cui Roma è pars leonina ed esige tributi e contingenti navali o terresti ausiliari in caso di guerra. Vengono insediate ex novo coloniae civium Romanorum per il controllo del territorio o coloniae Latinae 11.

II.2.6. Ordinamento delle coloniae e dei municipia. Le coloniae civium Romanorum sono costituite da cittadini romani e “riproducono” in scala ridotta il sistema politico-costituzionale di Roma, rette da duoviri iure dicundo (equivalenti dei consoli che amministrano la giustizia) e duoviri aedilicia potestate (equivalenti degli edili); ai coloni delle coloniae Latinae viene dato il ius Latii 12, cioè il ius connubii (diritto di contrarre nozze con i Romani) e il ius commercii (diritto di accedere alle forme solenni dei negozi giuridici, riservate ai cittadini romani e dispieganti la massima efficacia). Tuttavia restano loro negati i diritti politici (elettorato attivo e passivo a Roma) e le garanzie processuali e penali: la provocatio ad populum, il diritto riconosciuto al cittadino romano di appellarsi ai comizi centuriati in caso di condanna alla pena capitale, e la garanzia di non subire la verberatio o l’applicazione di pene infamanti. Altra forma di insediamento sono i municipia (optimo iure, con tutti i diritti di commercio e connubio, incluso il diritto di voto a Roma) o di diritto latino (sine suffragio, senza diritto di voto ma con tutti gli altri). I municipi non costituiscono nuove fondazioni, bensì la trasformazione politicoistituzionale di preesistenti città non romane, che vengono così coinvolte nel sistema di romanizzazione: possono perciò, in alcuni casi, conservare particolari istituzioni politiche, peculiari della loro tradizione storica, ma spesso assumono l’ordinamento quattuorvirale come le colonie assumono quello duovirale. La differenza consiste nella formazione di uno solo (quattuorviri) o invece di due distinti (duoviri: iure dicundo ed aedilicia potestate) collegi magistratuali. Sia le coloniae che i municipia posseggono organi cittadini e magistrature del cursus honorum: organi collegiali sono le assemblee centuriate e tribute, il senato locale, detto anche ordo decurionum, e i suoi membri (decuriones); magistrature sono la censura, la questura e il tribunato. I quattuorviri – come si è già detto – costituiscono un solo collegio di due quattuorviri iure dicundo e due aedilicia pote11 Normalmente in una colonia vengono dedotti 3000 pedites e 300 equites, cui sono assegnati appezzamenti di terreno più o meno estesi. Le città di nuova fondazione vengono costruite con un impianto urbanistico di tipo castramentario, ispirato cioè al modello razionale degli accampamenti militari (castra), con due assi viarii principali che si incrociano ad angolo retto (decumanus maximus e cardo maximus) con il forum e gli edifici pubblici più importanti all’incrocio e comunque nei pressi del Capitolium o tempio della triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). 12 Cosiddetto perché concesso dapprima ai Latini.

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state; i duoviri sono invece due distinti collegi, uno giusdicente l’altro edilizio, nel quale i duoviri aedilicia potestate sono detti anche semplicemente aediles. Al di fuori di tale sistema, vengono istituiti rapporti diplomatici con i popoli alleati di Roma, detti socii et amici populi Romani, che si legano alla città egemone mediante trattati e godono della difesa dell’esercito romano. Fino al IV secolo i socii et amici populi Romani sono solo nella penisola italiana, ma dal III secolo, con la conquista della Sicilia come prima provincia oltremare, tale qualifica verrà riconosciuta ai Greci, ad alcuni orientali e poi ad alcune popolazioni barbariche del continente europeo.

II.3. Ordo certus gerendorum honorum e magistrature extra ordinem. Potestas e imperium. Collegialità e intercessio. II.3.1. Caratteri delle magistrature. Caratteri salienti delle magistrature, che ne determinano la facies sino alla fine dell’età repubblicana, ma che perdurano in linea di massima anche nel corso del principato, sono: 1) il principio di irresponsabilità nel corso della carica, per cui al magistrato si può chiedere conto del suo operato ed eventualmente processarlo solo a fine mandato; 2) la temporaneità del mandato elettorale, abitualmente annuo, ad eccezione della dittatura, in origine semestrale, del tribunato della plebe, la cui durata era di 18 mesi, e della censura quinquennale; la collegialità, salvo la dittatura, che comportava il potere di intercessio o divieto, che ciascun collega poteva opporre agli atti dell’altro; 3) l’onorarietà, vale a dire la mancanza di una retribuzione (gratuità) per le funzioni svolte. Per questo la magistratura è detta anche honor (plurale honores), perché il rivestire la carica pubblica era considerato un onore, e come tale non retribuito. Erano anzi i magistrati, una volta eletti, a pagare all’aerarium populi Romani – la cassa dello Stato amministrata dal senato attraverso gli stessi magistrati – la summa honoraria, versamento di danaro previsto per rivestire la carica pubblica. Inoltre essi adempivano alle pollicitationes, mantenevano cioè le promesse, fatte durante la competizione elettorale, di sostenere i munera, spese per organizzare giochi e spettacoli pubblici, distribuzioni popolari di frumento e vino, banchetti collettivi, costruzione di edifici ed impianti cittadini. Pertanto, comportando spese, le magistrature erano anche onerose. Nonostante le magistrature fossero il perno della respublica, la giurisprudenza romana non ne elaborò mai una sistematica e, non esistendo a Roma una costituzione scritta come le moderne Carte Costituzionali, ma nemmeno una raccolta di leggi fondamentali dello Stato e del processo come ci sono note per diverse fra le

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politeiai greche, i caratteri delle magistrature sono frutto di una categorizzazione concettuale moderna. I Romani invece, con il loro spirito pratico, conobbero trattazioni de officiis, cioè opere in cui i giuristi trattavano i compiti e le funzioni (appunto gli officia) inerenti alle singole magistrature e, più tardi, alle cariche dei funzionari imperiali: libri de officio consulis, de officio proconsulis de officio praefecti Urbis etc. Il sostantivo magistratus, appartenente alla IV declinazione, designa in latino sia la carica che in italiano si traduce “magistratura”, sia la persona che la riveste e che noi traduciamo “magistrato”. Ma mentre “magistratura” e “magistrato” indicano oggi chi amministra la giustizia nell’esercizio della giurisdizione civile, penale o amministrativa, a Roma magistratus indicava la carica politica di governo genericamente intesa: cioè il magistrato eletto, con durata di solito annuale, nei comitia centuriata o nei concilia plebis tributa. Come s’è già visto, il termine potrebbe essere etrusco e non romano, con una radice in comune al sostantivo macstr* 13, equivalente di magister per designare il capo militare.La carriera magistratuale era chiamata cursus honorum o anche ordo certus gerendorum honorum, cioè “carriera degli onori” o “ordinamento prestabilito del modo di accedere alle magistrature e gestirle”. Le magistrature che erano nell’ordo (in ordine) erano il consolato, la pretura, l’edilità curule e plebea, il tribunato della plebe, la questura, di norma annuali, salvo il tribunato che durava 18 mesi. Per rivestire la magistratura superiore bisognava avere già esercitato quella inferiore. Talvolta poteva “saltarsi” qualche gradino nella carriera, ma questa, per consuetudine o anche ex lege, doveva essere percorsa per gradus. Con la crisi della respublica oligarchica senatoria nel II-I secolo, le eccezioni nel percorrere il cursus honorum si fecero sempre più frequenti nei casi di opportunità o di pressione politica, ad esempio per favorire esponenti di famiglie prestigiose. La magistratura poteva essere iterata ripresentando la propria candidatura, ma si finì con lo stabilire un intervallum, che variò secondo le epoche e le situazioni, sia per l’iterazione sia per l’ascesa. Al di sopra dell’ordo certus gerendorum honorum, ma pur sempre nel suo àmbito, si collocava infine la censura, magistratura quinquennale, cui si accedeva solo dopo avere rivestito il consolato, nella quale le funzioni venivano sostanzialmente svolte nell’ultimo anno, quello del lustrum, la lustrazione con spargimento di acqua, cerimonia sacra che chiudeva le operazioni di censimento della popolazione e dei suoi beni. L’ordine d’ammissione per gradus alle cariche pubbliche era consuetudinario ma, per evitare violazioni del mos maiorum nell’età dell’emergere di potentati familiari e di condottieri capaci di prevalere sull’egualitarismo oligarchico, nel 180 a.C. fu approvata una lex Villia annalis, che sancì l’indicata progressione di carrie13 La dottrina pensa abitualmente che l’etrusco macstr* derivi dal latino magister, ma potrebbe essere invece esattamente il contrario, vista l’influenza istituzionale etrusca su Roma arcaica nei simboli e nei concetti del potere, dall’imperium, ai fasces, alla sella curulis, alla toga orlata o purpurea (tébennos), alla corona civica. Devo questo suggerimento alla mia allieva prof.ssa Rossella Laurendi, che qui ringrazio.

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ra. Nel decennio 80-70 a.C., L. Cornelio Silla s’impadronì dello Stato come dictator legibus scribundis et reipublicae constituendae per restaurare l’egualitarismo oligarchico posto in discussione dall’affermarsi della personalità da principio dei due tribuni Tiberio e Caio Gracchi (133-122), e poi, nella guerra civile, di Caio Mario, campione come i primi della plebe e dei populares. Silla fece perciò promulgare nell’81 a.C. una lex Cornelia de magistratibus, che stabilì: l’età minima per candidarsi a ciascuna magistratura 14; inoltre il divieto di iterazione, cioè di candidarsi alla stessa magistratura nell’anno o negli anni immediatamente successivi alla scadenza del mandato elettorale; l’intervallum decennale per il consolato, già sancito invano da precedenti leggi. L’elezione degli auspicia maiora, le magistrature più elevate che sole potevano trarre auspici – consoli, pretori e censori – era riservata ai comizi centuriati, mentre ai concilia plebis tributa competeva l’elezione dei tribuni e degli edili plebei. Gli edili curuli e gli altri magistrati minori erano eletti dai comitia tributa. Il candidato che otteneva la maggioranza dei suffragi dell’assemblea popolare risultava eletto e si diceva creatus. Creatio designava infatti l’avvenuta regolare elezione di un candidato da parte dell’organo assembleare a seguito di una rogatio da parte del magistrato in carica 15. Magistrature extra ordinem, cioè straordinarie in quanto fuori dell’ordo, cui si faceva ricorso in situazioni eccezionali o particolari, furono il dictator, il magister equitum, il decemvirato legislativo del 451-450, il triumvirato agris dandis adsignandis iudicandis di età graccana (133-122 a.C.), e più tardi – nel I secolo a.C. – il triumvirato legibus scribundis et reipublicae constituendae rivestito da Caio Giulio Cesare junior (il cosiddetto Ottaviano), Marco Antonio ed Emilio Lepido.

II.3.2. Poteri e funzioni delle magistrature repubblicane. Tutte le magistrature erano fornite di potestas, cioè il potere del magistrato di creare diritti o determinare obblighi per la civitas pronunciando la propria volontà, comportante: 14 Erano previsti 30 anni per la questura, 32 per edilità e tribunato, 38 per pretura, 40 per consolato e 45 per censura. 15 Più in particolare il sostantivo indica tecnicamente nel lessico giuridico «non il voto dei singoli cittadini o di tutta una sezione comiziale, ma la elezione stessa già compiuta ... e nello stile delle leggi [si usa] creare ... Ma poiché alla elezione non seguiva per tutte le magistrature immediatamente l’entrata in carica (magistratum inire), essendovi un intervallo di mesi tra l’una e l’altra, così la designatio indicava la condizione speciale, temporanea nell’eletto sino al momento in cui, preso possesso dell’ufficio, diveniva magistrato effettivo» (E. DE RUGGIERO, Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II .2, Roma 1910, p. 1709-10 s.v. designatio). «La nominatio null’altro è che la designazione del candidato, la creatio coincide con la sua formale investitura: ... soltanto il decretum ordinis123 conclude e sancisce il procedimento elettorale» (V. MAROTTA, Conflitti politici cittadini e governo provinciale, in AA.VV., Politica e partecipazione nelle città dell’impero romano, a cura di F. Amarelli, Roma 2005, p. 163).

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il ius edicendi, potere di pubblicare editti rivolti a tutto il popolo, contenenti il programma generale di governo del magistrato o disposizioni specifiche scaturenti dalla sua funzione; il ius agendi cum populo o cum plebe, diritto di convocare ed eventualmente presiedere i comitia centuriata e tributa o i concilia plebis tributa sia a fini elettorali sia per la votazione delle leggi e dei plebisciti; il ius consulendi senatum, facoltà d’interrogare il senato chiedendogli di deliberare un senatusconsultum in materia nella quale il magistrato intendeva agire nel proprio ambito di competenza. Alla potestas non era inerente il potere di coërcitio, non nel senso che il magistrato non potesse ordinare di esercitare una coercizione per fare eseguire le sue disposizioni, ma nel senso che non disponeva di una forza pubblica direttamente e specificamente ai suoi ordini per l’esecuzione coattiva. Tale forza, simbolicamente rappresentata dai littori (lictores), era infatti, di norma, prerogativa delle sole magistrature dotate anche di imperium: il consolato e la pretura. L’imperium comportava infatti, oltre ai poteri inerenti alla potestas, anche la coërcitio e dava non solo il diritto alla scorta dei littori, ma anche quello alla sella curulis 16. Le magistrature ordinarie erano collegiali, costituite cioè da almeno due membri che detenevano indiviso il potere inerente alla carica. Il ius intercessionis o diritto di opporre il veto discendeva come conseguenza del principio di collegialità: poiché la potestas e l’imperium erano posseduti interamente da ciascun membro del collegio, in caso di disaccordo si poteva solo paralizzare l’iniziativa del collega attraverso l’intercessio. Dato che, in base al principio di gerarchia funzionale del cursus honorum, esisteva un imperium maius, come anche una maior potestas – per cui, ad esempio, il console era gerarchicamente sovraordinato al pretore – l’intercessio poteva essere opposta anche a magistrati di grado inferiore, ma per lo più in caso di concorrenza nella sfera di competenza (provincia), cioè in attività condivise col magistrato superiore, come per esempio il diritto di convocare una assemblea, mentre il principio gerarchico non operava mai all’interno della sfera di attività esclusiva di ciascuna magistratura. V’era una sola eccezione, legata all’origine rivoluzionaria del tribunato della plebe: unicamente ai tribuni plebis, infatti, grazie alla loro speciale tribunicia potestas, spettava il diritto di oppore l’intercessio (ius intercessionis) non soltanto al collega, ma anche ad altri magistrati e altresì di rango superiore – fino agli stessi consoli e ad eccezione del solo dittatore – a tutela dei diritti della plebe.

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Si trattava del bisellium, sgabello peghevole in avorio, osso o metallo, senza spalliera, dapprimamontato su carro (currus, da cui curulis), che distingueva gli alti magistrati etruschi, poi il rex e infine consoli e pretori. Benché sforniti di imperium, eccezionalmente anche agli edili curuli era riconosciuto il diritto al bisellium in quanto patrizi. Inoltre l’onore della scorta di littori, ma con fasci senza scuri, era concesso eccezionalmente ad alti sacerdoti e magistrati, come il Flamen Dialis, le Vestali e i censori.

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II.3.3. Le singole magistrature del cursus honorum. La questura. A parte le funzioni minori 17, la magistratura di grado meno elevato, quella cioè con cui si iniziava il cursus honorum in senso proprio, era la questura. Il nome quaestores – da quaerere (ricercare) – ne indica le originarie funzioni inquisitorie. Dapprima in numero di due, scelti dai consoli come segretari e assistenti a Roma nel processo penale (quaestores urbani), i questori, quando i consoli si recavano in guerra, li accompagnavano amministrando la cassa per il pagamento delle truppe (quaestores militares). In un secondo momento, però, furono eletti dai comizi ed acquisirono un vero status magistratuale e spettò loro la giurisdizione penale nella provocatio ad populum, cioè il ricorso o appello ai comizi contro la poena capitis, la pena di morte o dell’esilio (interdictio aquae et ignis) per il crimen di omicidio, detto parricidium. In tal caso furono perciò chiamati quaestores parricidii 18. Più tardi alcuni dei quaestores furono addetti al Tesoro pubblico (aerarium populi Romani) ed altri, detti quaestores classici et orae maritimae, ebbero il compito di allestire la flotta e sorvegliare le coste dell’Italia. Infine fu istituito, in quest’ultima categoria, il quaestor Hostiensis, comandante del porto di Ostia, che fungeva da porto di Roma. Eletti nei comitia tributa, essi aumentarono dai due originari a quattro, poi ad otto fino ai venti della costituzione sillana e ai quaranta sotto la dittatura di Cesare, ma Augusto li ricondusse nel numero voluto da Silla. La questura era il primo grado che dava adito all’ingresso in senato. L’edilità. Gli edili (aediles), forse creati nel 494 a.C., erano in origine due magistrati plebei addetti alla costruzione e manutenzione dei templi (aedes) delle divinità della plebs e ai luoghi di mercato da essa frequentati per il commercio al minuto. Ma con il riconoscimento delle magistrature plebee nella civitas i patrizi ottennero pariteticamente, poco dopo la metà del IV secolo, altri due edili di rango aristocratico, che presero il nome di aediles curules dalla sedia pieghevole tipica dei magistrati patrizi, la sella curulis. Solo gli edili plebei venivano eletti dai concilia plebis, mentre i curuli lo erano dai comitia tributa. Tuttavia nel tempo tutti i viri quaestorii furono ammessi a candidarsi all’edilità curule, anche se appartenenti alla plebe, ma in tal caso sempre di fronte ai comitia tributa e non ai concilia plebis. Agli edili spettavano funzioni specifiche, costituite dalle curae, la cura urbis 17 Basterà qui un cenno alle funzioni minori, che spesso si rivestivano per iniziare la carriera politica prima di tribunato e qustura. I decemviri stlitibus iudicandis costituivano una corte decemvirale, che amministrava la giustizia nelle cause minori. I tresviri aere argento auro flando feriundo erano magistrati monetarii addetti al controllo delle coniazioni della zecca, dapprima in lingotti di bronzo grezzo (aes rude), poi in bronzo con il marchio di Stato (aes signatum forma publica), e infine in moneta bronzea, argentea e aurea (pecunia numerata). I tresviri capitales erano addetti all’esecuzione della pena di morte. 18 Parricidium significherebbe “uccisione di un par”, vale a dire di un pari grado, cioè un civis Romanus: oppure “uccisione di un pater”, cioè di un civis non soggetto ad altrui potestà, bensì sui iuris.

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Romae, la cura annonae e la cura ludorum. La cura Urbis consisteva nel controllo della viabilità e dell’edilizia di Roma e nel governo dei vigiles, i pompieri, e dei sebaciarii, la polizia notturna. La cura annonae comportava l’approvvigionamento granario e la sorveglianza dei mercati. La cura ludorum, istituita come sorveglianza dell’ordine pubblico durante gli spettacoli, divenne già nel III-II secolo l’onere di organizzare a proprie spese i combattimenti gladiatori o di fiere nel foro, e più tardi nell’anfiteatro, o le corse di carri e cavalli nel circo. Ai soli edili curuli spettava anche la giurisdizione sulle liti relative ai mercati, per tali intendendosi i processi privati per contestazioni fra venditori e compratori, come i vizi occulti nella vendita di schiavi e animali (azioni redibitoria ed estimatoria o quanti minoris). A tal fine essi pubblicavano annualmente un edictum aedilium curulium parallelo a quelli dei pretori urbano e peregrino, ma ben più limitato quanto ad àmbito, materia e valore. Il tribunato della plebe. Dei tribuni plebis, della loro creazione probabilmente nel 494 a.C., e dei concilia tributa si è detto trattando nel conflitto patrizio-plebeo. Qui va ricordato che il tribunato, istituito per proteggere la plebe dagli abusi patrizi (auxilii latio), era posto nel cursus honorum sullo stesso “livello” (gradus) dell’edilità e seguiva la questura. Con il riconoscimento nella civitas di questa magistratura in origine rivoluzionaria, e con il formarsi del nuovo ceto sociale della nobilitas patrizio-plebea, il tribunato perse la sua originaria natura sovversiva dell’ordinamento oligarchico ed anzi fu spesso e volentieri strumentalizzato, attraverso la corruzione, dall’ordo senatorius, del quale i tribuni già facevano parte in quanto ex questori. I tribuni erano in origine due, ma furono ben presto, già nel V secolo, portati a quattro e crebbero poi fino a dieci, ma – nel nuovo clima della loro collusione con l’oligarchia – non per questo accrescimento la loro difesa degli interessi della plebe divenne più efficace. I tribuni erano eletti dai concilia plebis tributa e restavano in carica 18 mesi. Essi avevano il ius agendi cum plebe, cioè il diritto di convocare i concilia plebis sia per l’elezione dei magistrati plebei che per l’approvazione dei plebiscita, deliberazioni che finirono con l’essere del tutto equiparate alle leggi comiziali centuriate. Benché sprovvisti di imperium, i tribuni della plebe possedevano un fortissimo potere nell’intercessio, il divieto che potevano opporre alla proposta di qualsiasi magistrato, console incluso e a eccezione del solo dictator, quante volte vi ravvisassero una lesione dei diritti individuali o collettivi della plebe. Nel 449 la lex Valeria Horatia de tribuncia potestate sancì la sacertas per chi avesse attentato alla loro incolumità, pena per la quale il reo veniva abbandonato alla vendetta di chiunque lo sacrificasse come un capro espiatorio alle divinità plebee, Libero e Cerere. Il “sacrificante” non incorreva nell’impurità conseguente all’omicidio volontario né nella responsabilità penale, ma godeva dell’impunità garantita dalla plebe. La pretura, il ius gentium e l’editto pretorio. Praetor viene da prae-ire, cioè “andare avanti”, proprio perché agli esordi del sistema repubblicano era questa la carica apicale, alla quale competeva il comando dell’esercito, alla cui testa il magi-

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strato si poneva in battaglia. Ma nella tradizione annalistica il titolo di praetor appare con riferimento all’anno 367, quando sarebbe stato istituito per la prima volta quale magistrato unico, un’eccezione al consueto principio di collegialità, con l’importante funzione di amministrare la giustizia a Roma fra i cittadini romani (inter cives Romanos). Ma già nel III secolo, a seguito della conquista della Sicilia dopo la I guerra punica, Roma si trovò ormai in una nuova dimensione commerciale, ereditata in parte dalla sconfitta Cartagine, in parte determinata dal gravitare nell’orbita romana delle città italiote e siceliote, come Napoli e Taranto, Turi, Reggio, Messina e Siracusa. Le attività commerciali si ritennero indegne del rango senatorio sia perché distraenti dall’attività politica, sia per il rischio di fallimento dell’impresa marittima soggetta agli infortuni del trasporto, sia per il radicato pregiudizio, determinato dal successo del pensiero platonico, che il lavoro fosse comunque un’attività inferiore rispetto alle sole attività rispettabili per l’uomo libero d’alto rango: la politica e il foro (negotium, da nec-otium) e l’impegno intellettuale (otium litterarum, studium, humanitas). Roma ereditava così la concezione aristotelica dell’uomo animale politico (anthropos politikòs zoon) con il retrostante pregiudizio del maestro di Aristotele: il risultato fu che solo la proprietà fondiaria ed il suo sfruttamento si ritennero attività utilitaristiche degne dell’homo politicus. Un ceto medio di commercianti potette così arricchirsi senza concorrenza interna, determinando l’afflusso nella capitale dell’impero di masse di stranieri interessati agli scambi, che restavano esclusi dalle forme giuridiche dei negozi quiritari romani come anche dalla tutela pretoria accordata ai soli cives. Fu perciò necessario istituire non solo un nuovo pretore che si occupasse dei conflitti d’interesse (lites) insorgenti fra costoro, ma anche un nuovo sistema di diritto e un nuovo ordinamento processuale.

Così nel 242 a.C. al pretore esistente fu dato un collega chiamato praetor peregrinus. Il primo assunse allora la denominazione di preator urbanus (da Urbs, la Città di Roma per antonomasia). Le sue competenze processuali rimasero quelle inter cives Romanos, mentre la giurisdizione (iurisdictio, da ius dicere) del nuovo pretore si esercitò nei processi privati fra stranieri (peregrini) che si trovavano a Roma, o fra cittadini romani e forestieri (inter cives Romanos et peregrinos). Nell’istruire i processi, il pretore urbano continuò per lo più ad avvalersi del ius civile Quiritium attraverso le sole cinque legis actiones esistenti o, più tardi, dell’editto con innumerevoli formule, che egli stesso promulgava per i cives Romani. Il praetor peregrinus, invece, faceva ricorso ad una sorta di diritto commerciale ed internazionale, il ius gentium, che nel II secolo a.C. egli recepiva anche nella pubblicazione del suo proprio editto, distinto da quello del pretore urbano. Il ius gentium applicato dal praetor peregrinus costituiva non un diritto estraneo alla civitas, ma un diritto romano più snello e informale di quello riservato ai soli cives, i quali tuttavia, quando lo preferissero, potevano farvi ricorso. Nell’istruzione processuale di fronte al praetor peregrinus non solo non si era tenuti al formalismo verbale delle cinque legis actiones, l’antica e ristretta procedura propria dei Romani, ma nemmeno era indispensabile l’uso della lingua latina, ed il pretore era libero di avvalersi d’interpreti. Il suo processo era fondato non sul dari oportere – l’obbli-

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go discendente dalle legis actiones di pagare o far pagare la multa in caso di soccombenza nel processo – ma sulla bona fides, il rispetto fiduciario della parola data svincolato dal formalismo giuridico e rispondente alla sostanzialità dei rapporti e dei negozi. Pertanto i iudicia di fronte al praetor urbanus presero il nome di iudicia legitima, in quanto consacrati dal formalismo delle legis actiones, mentre quelli di fronte al praetor peregrinus si chiamarono bonae fidei iudicia, cioè processi fondati sulla fiducia reciproca nelle contrattazioni indipendentemente dalle formalità e dall’esistenza di una lex valida per entrambe le parti. La creazione del praetor peregrinus e del ius gentium introdusse così due fondamentali innovazioni: la pubblicazione dapprima dell’editto del pretore peregrinus, poi anche quella del pretore urbano. L’editto, in cui il pretore peregrinus finì col raccogliere le formulae, cioè le previsioni astratte dei casi che potevano essere dedotti di fronte al suo tribunale – formule che potremmo paragonare ai nostri articoli di codice – si sostituì alle sole cinque legis actiones sacramentali e formali riservate ai cives e dalle quali gli stranieri restavano esclusi. Cosicché, attorno al 120 a.C., anche il pretore urbano si diede a pubblicare un suo editto per i soli cives Romani, che non fosse vincolato al numero e alla rigidità delle cinque legis actiones, che finirono con l’essere abrogate in età augustea (lex Iulia iudiciorum privatorum del 17 a.C.). Il processo privato ne guadagnò enormemente in duttilità, adattandosi empiricamente alla molteplicità dei casi dell’esperienza economica e negoziale. Nello stesso tempo, senza rinnegare formalmente un ius sentito come sancito dai mores maiorum nella sfera del sacrum e della religio, e che perciò non poteva essere abrogato dalla volontà umana, se ne aggirarono gli inconvenienti e gli effetti iniqui, dovuti all’evoluzione del costume e del sentire sociale. La coesistenza dei diversi ordinamenti, ius civile Quiritium, ius gentium e ius honorarium, non urtava la forma mentis dei Romani, ma era anzi espressione del loro empirismo e della loro praticità. Ai due pretori residenti a Roma, l’urbanus ed il peregrinus, se ne aggiunsero poi altri due per l’amministrazione delle provincie, a partire dalla Sicilia e dalla Sardegna, anche loro forniti di funzioni giurisdicenti in quanto governatori di territori oltremare. Altri ancora furono poi istituiti per presiedere le quaestiones perpetuae, le corti giudiziarie che giudicavano dei reati più gravi. Così da quattro i pretori furono portati a sei e infine Silla li portò ad otto nel periodo della sua dittatura (lex Cornelia). Il consolato: imperium domi e militiae. Consules deriva da consulere, la facoltà, spettante a questi magistrati nell’esercizio della propria suprema funzione di governo, di consultare il senato. Ai due consoli era congiuntamente riservata l’eponimia, cioè il conferimento del proprio nome all’anno in corso (per es. il 75 d.C.: Caio Pomponio, Lucio Manlio Patruino consulibus). La delimitazione delle competenze non era precisa, spettando loro teoricamente la summa imperii, ma era di fatto limitata dalle funzioni delle altre magistrature. Si distingueva un imperium consulare domi da uno militiae, che veniva simbolicamente rappresentato dal fatto

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che i fasces dei littori portassero o meno le scuri, emblema della facoltà di condannare a morte lo straniero, ma non il cittadino romano, se non per crimini perseguiti nell’ambito della giurisdizione militare (tradimento o perduellio), codardia etc.). L’imperium militiae comportava ovviamente il supremo comando in guerra: e poiché l’imperium era indivisibile, nel senso che ciascun console lo possedeva per intero, si rimediava al pericolo di una paralizzante discordia nella tattica o nella strategia con l’attribuzione del comando di due fronti separati, ovvero con il lasciare un console a Roma mandando l’altro a combattere. Dopo il 367 a.C., il fatto che frequentemente il consolato fosse iterato, cioè rivestito a breve distanza di tempo dalla stesso individuo, fu sintomo dell’affermarsi di personalità eminenti, in grado di controllare l’elettorato e d’imporsi politicamente attraverso la manovra delle proprie clientele. Ma insieme all’antico patriziato, i nomi dei consoli che nel IV secolo rivestirono anche fino a sei volte la carica in un cinquantennio registrano l’emergere dell’elemento plebeo e la trasformazione dell’aristocrazia patrizia nella nuova ma non meno coesa nobilitas patrizio-plebea. Il principio oligarchico dell’eguaglianza nel privilegio e nel monopolio del potere fece sì che si reagisse con diverse restrizioni all’iterazione del consolato. Sembra che nel 342 un plebiscito di Genucio stabilisse un intervallum decennale per l’iterazione non solo del consolato, ma anche delle altre magistrature. Tuttavia gli stessi comizi centuriati rielessero spesso gli stessi consoli in violazione delle leggi che avevano precedentemente votato sul divieto di iterazione, quante volte l’eccezionalità della situazione bellica dal IV al I secolo a.C. consigliò di non sottrarre al console la prosecuzione della guerra. Il principio cardine non era pertanto l’inviolabilità della legge votata da un’assemblea popolare, ma la piena sovranità della stessa assemblea nel derogare alla legge che essa stessa aveva votata. Le funzioni di censimento della popolazione ai fini della leva e del pagamento del tributum spettavano ai censori, ma allorché si incominciò a trascurarne sempre di più l’elezione nel II-I secolo a.C., poiché l’esperire il censimento era necessario per il funzionamento dello Stato, fu questa sola fra le loro competenze che si demandò ai consoli. Abbiamo sempre parlato di consules, attenendoci alla consueta terminologia tràdita dalle fonti, ma storicamente la denominazione originaria dei supremi magistrati della respublica fu forse quella di praetores. Essi avevano all’epoca anche la giurisdizione processuale non solo pubblica, che almeno in parte mantennero, ma anche privata, che persero quasi del tutto allorché fu istituita la pretura. La censura. Secondo la tradizione i censores sarebbero stati istituiti da Servio Tullio per il census populi, il censimento (dal verbo censeo = stimare, valutare) della consistenza numerica e patrimoniale non dell’intera popolazione, ma dei soli cives maschi adulti, finalizzato alla leva dell’exercitus centuriatus, nel quale il soldato doveva armarsi a proprie spese. Più tardi il censimento fu adoperato invece anche per il pagamento del tributum. In qualsiasi epoca questa magistratura, di sicuro assai risalente, sia stata creata, certo è che il censimento si svolgeva ogni cinque anni (quinto quoque anno), ma i

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due censori eletti dai comizi centuriati fra i viri consulares, cioè fra gli ex consoli, restavano in carica solo 18 mesi, concludendo le operazioni con la cerimonia sacra del lustrum. In tale occasione pubblicavano allora le nuove tabulae censoriae, cioè le liste dei cittadini ripartiti in base alla ricchezza patrimoniale (census), aggiornate con i nuovi nati che avessero raggiunto la pubertà, con i liberti cui fosse stata attribuita la cittadinanza per manomissione, e con quanti altri l’avessero avuta a qualsiasi altro titolo, come, fra gli alleati, il valore militare. Inoltre ai censores era deputata la lectio senatus, vale a dire la nomina dei nuovi senatori e l’esplulsione di coloro, il cui comportamento essi valutassero indegno dei mores maiorum, senza che potesse essere loro opposta l’intercessio degli altri magistrati. I senatori destinatari di una nota censoria andavano incontro all’ignominia, che, pur comportando l’espulsione dal senato, non era causa di ineleggibilità né costituiva una pena permanente come l’infamia derivante dal turpe iudicium publicum: difatti la valutazione dei censori non risultava né da un’istruttoria né da un processo, con le relative garanzie per l’imputato, ma era puramente discrezionale. Non era tuttavia arbitraria, perché si fondava sulla tradizione e sul costume. Ma proprio questo determinò la crisi della censura. Quando la pretesa di inibire con disperanti controlli l’evoluzione del costume, cui andava incontro la società romana nel III-I secolo, risultò insopportabile e fu spesso finalizzata ad obiettivi politici di parte, si ricorse all’espediente puro e semplice di non eleggere affatto questi molesti e inopportuni Catoni, che pretendevano di verificare se le matronae bevessero vino o se commettessero adulterio, sportivamente praticato nell’alta società tardo-repubblicana come rimedio alla noia coniugale o come surrettizio strumento di potere delle donne escluse dai diritti politici. La stessa aristocrazia, dei cui valori i censori erano espressione ancora nel III-II secolo, ne divenne sempre più insofferente, e, già sul finire del II secolo a.C., la carica incominciava a essere disertata, perché il suo prestigio non compensava le inimicizie che creava. Perciò nella pro Cluentio Cicerone stigmatizza lo svuotamento della sua funzione politica ad opera di Silla, che ne aveva compromesso anche la periodicità quinquennale, con il decennio fallimentare dall’80 al 70, poi aggravato dalla vacatio fino al 61. È particolarmente significativo che con Cicerone concordasse dal suo acerrimo nemico Publio Clodio, che nel 58 fece approvare un plebiscitum, il quale sancì che ai senatori colpiti da nota censoria fosse riconosciuto il diritto di difendersi come in iudicio. Quando nel 52 il console Q. Cecilio Metello Scipione riuscì a far abrogare il plebiscitum Clodium, non per questo la censura riacquistò vigore: ché anzi, se prima una procedura analoga a quella giudiziaria garantiva che l’espulso non avesse presentato una convincente difesa, ora il ripristino dell’assoluta discrezionalità censoria fece sì che i magistrati evitassero di espellere chiunque per non farsi carico della responsabilità e dell’impopolarità del provvedimento. Comunque le sole funzioni di censimento della popolazione rimasero demandate ai consoli quante volte la magistratura fu disertata o differita e parimenti a loro e agli aediles si affidarono quegli appalti e collaudi delle opere pubbliche, che prima erano stati di competenza censoria.

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II.4. La conquista della Magna Grecia, l’esordio dell’impero mediterraneo nel III secolo e la formazione dell’ordo equester. Alla fine del IV secolo Roma fu chiamata da alcune poleis della Magna Grecia a stanziarvi piccoli presídi con valore di deterrenza verso Campani, Lucani e Bruzi, popolazioni italiche che minacciavano di conquistare le indebolite città elleniche. Ma già sul principio del III secolo i Romani si trovano coinvolti nelle rivalità fra le stesse poleis italiote e siceliote nei frangenti della guerra pirrica (279-270), della I guerra punica in Sicilia (247-241) e infine della guerra annibalica (o II guerra punica: 216-203), che investe l’intera Italia. Alla fine di quel secolo Roma annesse metà del territorio forestale della Sila, ricca della preziosa resina arborea (pix Bruttia) usata per impermeabilizzare le navi, strappato ai popoli italici (Lucani e Bruzi) stanziati all’interno del massiccio appenninico della Magna Grecia (Calabria e Lucania) come ager publicus populi Romani, legando a sé con vari tipi di foedera le poleis italiote e siceliote. Cartagine si vide costretta a cedere la Sicilia e la Sardegna, quindi la Corsica, che costituirono le prime provincie romane oltremare, e i traffici punici furono ereditati dal nuovo ceto emergente a Roma: quello della plebe urbana arricchitasi con i commerci e il prestito di danaro, che formò una nuova classe sociale intermedia fra plebe e nobilitas patrizio-plebea dell’ordo senatorius. Questa nuova classe era quella dei cavalieri (ordo equester), formalmente istituita nel 123 a.C. dal tribuno Gaio Gracco, ma in realtà anteriore come lo è il sorgere dei suoi interessi, che impressero nuove dinamiche – si discute se già nel III ma certamente nel II secolo – sia alle tensioni tradizionali fra nobilitas e plebe, sia al funzionamento delle istituzioni politiche e giudiziarie. Gli equites svolsero un ruolo determinante nella crisi della respublica nel I secolo, quando l’incapacità di gestione politica del senato determinò la fine della “democrazia oligarchica repubblicana” e l’avvento del governo autocratico del princeps. La conquista della Magna Grecia fu conseguenza della guerra pirrica e della prova superata dal sistema federativo romano durante la guerra annibalica. Non mancarono allora episodi brutali da parte romana 19, ma sotto l’aspetto della storia costituzionale la romanizzazione della grecità occidentale appare un fenomeno dinamico e diplomaticamente accorto. L’esperienza politica romana in Magna Grecia si formò caso per caso, ma finì con il tradursi gradualmente in un consapevole progetto politico, la cui poliedrica dimensione istituzionale realizzò al meglio il principio di differenziazione del trattamento di alleati e assoggettetati, di organizzazione funzionale dell’amministrazione, ma anche di rispetto delle tradizioni locali, da quelle religiose e istituzionali, a quelle legate all’uso della lingua greca. La capacità d’integrazione come spiegazione dell’impero fu colta da uno storico greco d’età augustea che abbiamo già incontrato, Dionigi d’Alicarnasso, quando l’espansionismo romano era ancora a metà del guado. Il sistema dei foedera, degli insediamenti di municipia, coloniae, fora e conciliabula, fino ai vici e ai pagi, delle conquiste nella Grecia continentale è frutto del patrimonio di esperienza, che Roma matura con le poleis italiote e siceliote fra le 19 Come l’occupazione dell’alleata Reggio da parte della legio Campana, cospicuo contingente di socii italici, stanziatavi sotto il comando di Decio Vibellio (270 a.C.), o i saccheggi cui fu sottoposto a Locri il santuario di Persefone (203 a.C.) e a Crotone quello di Era Lacinia (197 a.C.).

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guerre pirrica e annibalica. Con queste poleis Roma tornerà a misurare la pretesa di essere considerata essa stessa “città greca”, polis hellenís, allorché il potere romano sarà riuscito a darsi una giustificazione ideologica nella «missione» di unificazione politica dell’Ecumene mediterranea. Sotto questo profilo, l’esperienza di Roma in Magna Grecia, dove convivevano Italioti e Italici ellenizzati, acquista un valore storico che certamente non ha la romanizzazione dell’Italia centrale e settentrionale. Infatti le popolazioni osco-sabelliche e latine, benché più vicine a Roma sotto il profilo delle istituzioni, non possedevano un livello di civiltà che le fosse superiore e non costituirono, pertanto, un modello da imitare. L’influenza iniziale della civiltà etrusca, benché sostanzialmente duratura, non era più operante nell’età in cui Roma si affacciò sul Mediterraneo. Infine la romanizzazione dell’Italia settentrionale incontrò popolazioni (Galli, Veneti, Liguri, ecc.) a un livello di civiltà meno progredito, sul quale la cultura romana finì con l’affermarsi decisamente, mentre le istituzioni cittadine romane (duoviri e quattuorviri, aediles, censores) sostituirono semplicemente le precedenti forme di organizzazione politica, talora preurbana, nel momento della concessione della cittadinanza. Del tutto diverso è il caso della Magna Grecia, dove la civiltà ellenica, nel IV-III secolo a.C., appare sensibilmente superiore, nel pensiero, nell’organizzazione e nel livello della vita urbana, nell’arte, nella letteratura e nelle capacità espressive della lingua, a quella romana. L’inferiorità di Italioti e Sicelioti rispetto a Roma, che sarà anche l’inferiorità dei Greci della madrepatria, è proprio nel campo della stabilità istituzionale e dell’organizzazione politica. Infatti in questo campo assistiamo a un fenomeno inverso a quello che si è abituati a constatare nell’incontro fra la Grecia e Roma. È quest’ultima che esercitò influenze più o meno profonde, sempre però politicmente determinanti, sulle forme costituzionali delle poleis federate e successivamente dei municipia, in cui esse si trasformarono nell’89 a.C., dopo la guerra degli alleati italici contro Roma (bellum sociale) nell’ottenere la piena cittadinanza. Questa influenza non è tuttavia sovrapposizione o sostituzione, bensì contemperamento della varietà della tradizione, peculiare di ciascuna polis, con l’uniformità dell’organizzazione cittadina romana. Mentre le poleis avevano una eponimia sempre monocratica e magistrati civici dai titoli più diversi (prytanis, basileus, demarchos etc.), l’organizzazione civica romana applicava di regola lo standard dei duoviri o dei quattuorviri sempre alle coloniae, in genere anche ai municipia, ma in questi con più di un’eccezione. Da questo incontro si sviluppano forme costituzionali ibride di particolare interesse storico, giuridico e politico, che trovano la loro spiegazione nel retroterra culturale dell’influenza ellenica sulla civiltà romana. Ne sono esempio l’eponimia del demarchos anziché dei quattuorviri iure dicundo nel muncipium di Napoli (dopo l’89 a.C.) e la persistenza di magistrature con titolature greche anche a Reggio. Inoltre, ciascuna polis ebbe con Roma e con le sue istituzioni rapporti di volta in volta diversi, dei quali solo in via di astrazione concettuale, non in sede di concreto riscontro storico-costituzionale, può cogliersi un comune deFig. 9. Statere di Locri con nominatore. Questo esiste invece a livello politico nello stesso «metodo diplomatico» di cui si avvale il sistema del Roma e Pistis (Fides).

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dominio romano, marcato dal ricordato aforisma divide et impera. La corretta prospettiva storica dischiude un universo costituzionale italiota e siceliota sempre reattivo di fronte all’esperienza giuridica romana, costellato da divisioni e peculiarità, e perpetuante le proprie caratteristiche istituzionali entro l’ordinamento municipale romano dopo il bellum sociale. Prologo della conquista della Magna Grecia sono i foedera fra Roma e le poleis italiote: dapprima Napoli e poi Turi, Crotone, Locri e Reggio fra il 285 ed il 269 a.C. Tali foedera fanno della Magna Grecia una parte dell’Italia romana. La fides populi Romani si configura come il fondamento giuridico, sul quale si esercita ideologicamente la propaganda e si misura la realtà politica della conquista romana. Napoli, Turi, Reggio, Locri e Crotone si alleano con Roma in funzione anticampana, antilucana e antibruzia, ma la guerra pirrica mette a dura prova queste alleanze.

Subito prima di essa, probabilmente nel 282 a.C. – ma per altri nel 274 a.C. – Locri Epizefiri conia uno statere d’argento celebrativo della fedeltà di Roma all’alleanza, dove la personificazione della Fides (Pistis), in sembianze di una figura femminile in piedi, incorona Roma assisa. Si tratta della prima personificazione di Roma rappresentata come una dea attraverso l’iconografia e l’universo figurativo della civiltà ellenistica: Roma ha qui il braccio poggiato sullo scudo e il gladio al fianco, come un’Amazzone. Ma il rapporto di alleanza formalmente paritetica fra Roma e le poleis italiote muta sostanzialmente dopo che queste defezionano a favore di Pirro. Un opportuno ritorno ai Romani, prima che la guerra sia finita, fa sì che, nonostante tutto, Roma ripristini i trattati di alleanza, anche nell’ottica politica di accreditare di sé l’immagine di città filoellenica e perfino ellenica. Questa politica suggerisce che, a guerra conclusa, i tradimenti delle poleis non siano puniti né con deportazioni in massa né con riduzioni in schiavitù della popolazione italiota. Il tradimento del resto non era stato, in questa prima fase dei rapporti romanoitalioti, frutto tanto di malcontento, quanto della sostanziale e indifferenziata incapacità dei ceti di governo italioti di concepire e scegliere un progetto di unificazione politica della grecità occidentale in termini federativi, fossero essi sotto l’egida di Roma o di Pirro, entrambi all’occorrenza traditi. Sotto questo profilo, la Magna Grecia e la Grecia sono accomunate nel sopravvivere stentatamente nella frastagliata dimensione delle poleis, mentre il fulcro politico della grecità si sposta nelle grandi monarchie ellenistiche del Mediterraneo, sorte dalla divisione dell’effimero impero di Alessandro (332-323 a.C.), ma travagliate da continue quanto sterili lotte fra i diadochi ed i loro successori. Roma interviene politicamente e poi anche istituzionalmente presso le poleis federate osco-greche in Sicilia soprattutto, ma anche in Magna Grecia, fra la prima (247-241) e la seconda (213-203) guerra punica. Un preciso rapporto intercorre fra l’intervento romano a favore dei Mamertini di Messana – gli Italici che avevano proditoriamente occupato la polis che aveva chiesto il loro aiuto contro i Siculi – e l’atteggiamento dell’opinione pubblica greca occidentale verso la politica espansionistica di Roma. La confederazione romana entra in crisi durante la guerra annibalica, che provoca una divisione interna alle città, le quali vedono generalmente schierarsi le aristocrazie a fianco di Roma e le plebi dalla parte di Annibale. I casi

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di Locri, Crotone, Turi, Petelia portano a concludere, contro alcuni tentativi storiografici, per la credibilità della tradizione di Tito Livio. Terminata la guerra, le infedeltà dei socii italioti e italici di Roma vengono pagate con la parziale instaurazione di un dominio diretto del territorio, del quale è fautrice una parte del senato romano. In Magna Grecia vengono così fondate diverse coloniae, nelle quali sono insediati soldati romani e latini. Circa un decennio più tardi ha luogo contro i Bruzi la repressione attestata dal ritrovamento del senatusconsultum de Bacchanalibus del 186 a.C. nell’ager Teuranus (l’odierna Tiriolo in provincia di Catanzaro): sappiamo che la diffusione dei culti bacchici e dionisiaci, in particolare in Campania fino a Roma stessa, si prestava alla coesione sociale dei ceti emarginati dal sistema di potere romano. Con il pretesto dell’immoralità di questi culti orgiastici, il senato, su istigazione di Catone il Censore, ne vieta così l’organizzazione in grandi associazioni, limitandole a 5 membri ciascuna. La riforma dell’ager publicus da parte del pretore Annio (o del console Publius Popilius Laenas), e la deductio in Bruttios di alcune coloniae graccane, segue quella vicenda nell’ultimo quarto del II secolo a.C. Lo sconosciuto magistrato il cui elogium è pervenuto nel miliario stradale di Polla, in Lucania, si gloria di essere stato il primo a far sì che i pastori cedessero agli agricoltori l’ager publicus, costituito espropriando i Bruzi ed i Lucani: primus fecei ut de agro poplico aratoribus cederent paastoFig. 10. Iscrizione miliaria di Polla sulla via da Capua a res (miliario di Polla o Lapis Reggio, con l’elogium delle imprese del magistrato che la Pollae). L’affermazione del costruì per il controllo dei territori interni strappati ai Cam- Lapis Pollae rivela quella pani, ai Lucani e ai Bruzi. forma mentis tipicamente romana, per la quale il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura è ritenuto un “progresso della civiltà”. Concedendo a coltivatori latini e romani i pascoli sottratti ai pastori lucani e bruzi, il magistrato riduce alla fame i rivoltosi che rendono insicuro il dominio di Roma, assicurato dalla rete di vie consolari che collegano alla capitale anche i territori interni, consentendo il rapido spostamento degli eserciti. Se, in un primo momento, Roma era intervenuta su richiesta delle stesse poleis italiote per difenderle dal rischio di essere espugnate dai Campani, dai Lucani e dai

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Bruzi, dopo le guerre di Pirro e di Annibale, l’autonomia delle città federate, dapprima formalmente rispettata, venne in diversi casi lesa o annullata. Non avendo saputo cogliere il momento storico dell’intervento di Pirro in Italia e in Sicilia, la grecità occidentale perse l’ultima occasione di acquistare quella unità che l’avrebbe avvicinata, sotto l’aspetto della forma politica, ai grandi Stati territoriali ellenistici sorti dal disfacimento dell’impero di Alessandro, salvandola dal dominio straniero.

Divisa nei suoi insuperabili particolarismi, la Magna Grecia anticipò il destino della Grecia continentale. È in Magna Grecia che Roma sperimentò il sistema di dominio, attento ad avvalersi delle particolarità locali, che applicò poco più tardi nella conquista della Grecia. Così l’impero romano si distinse da tutti gli altri che l’avevano preceduto, e da quanti lo seguirono, per la suddivisone dei vinti differenziandone gli interessi, ma anche per il loro coinvolgimento nel sistema globalizzato dell’economia e del potere fino all’equiparazione.

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Affresco con scena di processo privato (iudicium privatum): l’attore (a sinistra) gesticola animatamente di fronte al magistrato o al giudice assiso sulla sua sella curulis sul podio, mentre il convenuto (a destra) stringe il pugno in segno di rabbia: la partita di merce oggetto della lite giudiziaria – un’anfora da trasporto spezzata – si trova a terra fra le parti (Ostia, Caseggiato di Ercole).

III GIURISPRUDENZA REPUBBLICANA. FORME DEL PROCESSO ED EDITTO: TRIBUNALI DELICTA PRIVATA E CRIMINA PVBLICA SOMMARIO: III.1. Ius publicum e ius privatum. Nozioni processuali. – III.2. Il processo pubblico, le quaestiones perpetuae e i crimina. – III.3. I vari tipi di reati. Furtum, iniuria, calumnia, vis, parricidium, falsum, crimen ambitus. Crimen maiestatis, peculatus, concussio e repetundae. – III.4. La giurisprudenza repubblicana (cavere, agere e respondere): diritto e processo privato. – III.5. L’evoluzione storica dell’editto. – III.6. Il processo privato (iudicia privata): legis actiones e formulae. – III.7. Il processo formulare.

III.1. Ius publicum e ius privatum. Nozioni processuali. Al giurista del II-III secolo d.C. Eneo Domizio Ulpiano si deve la più semplice e chiara distinzione fra diritto pubblico e privato, sostanzialmente valida ancor oggi: ius publicum est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem pertinet («il diritto pubblico è quello che riguarda l’ordinamento dello Stato, il diritto privato quello che pertiene all’utilità dei singoli»). Tuttavia la distinzione concettuale fra ius publicum e privatum è più antica di Ulpiano e infatti era già nota almeno a Cicerone. I Romani avevano del diritto una percezione più processuale che sostanziale: si dava cioè maggiore importanza al momento della contestazione (lis-litis) del diritto che al suo momento costitutivo o negoziale. Perciò Fig. 11. Busto di Ulpiano. il concetto di un ius publicum distinto da un ius privatum si affermò dopo le XII Tavole (450 a.C.) in rapporto alla sopressione della vendetta privata e alla sua sostituzione con la poena sancita dalla civitas. Con questo presupposto concettuale, i Romani distinsero dunque i iudicia publica dai iudicia privata, cioè il processo pubblico da quello privato, distinzione che nei diritti greci dell’epoca non appare altrettanto inequivocabile.

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I delicta privata offendevano esclusivamente l’individuo titolare di un diritto soggettivo, che veniva leso a suo esclusivo danno. Questo era risarcibile dalla multa pecuniaria nel iudicium privatum ad iniziativa della parte offesa, che dava inizio all’azione giudiziaria (actio) di fronte al magistrato, ed era perciò detta actor (attore), contro il convenuto, che era detto reus in quanto accusato di essere responsabile di qualcosa (res = cosa). Nel processo privato non solo l’iniziativa spettava esclusivamente alla parte che si presumeva avesse subito un torto o un danno, ma esso non poteva aver luogo se il convenuto non accettava di sottoporvisi: in caso di rifiuto il magistrato poteva solo infliggere una multa di valore ben superiore alla causa, ma il processo non poteva aver luogo senza il consenso del reus. Oggi tale tipo di processo si usa chiamarlo “civile”, ma nella lingua latina soltanto in epoca molto tarda l’aggettivo civilis si trova in antitesi a criminalis, com’è proprio dell’uso moderno: quel iudicium era detto privatum proprio perché rispondeva alla singulorum utilitas. I crimina publica, invece, offendevano anche la collettività e comportavano perciò l’iniziativa dell’azione e l’accertamento del fatto contrario all’ordinamento giuridico da parte di chi rappresentava – come il magistrato – l’interesse della civitas. Anche la sanzione che ne derivava era ovviamente relativa alla diversa titolarità dell’interesse leso: quando questo apparteneva al privato, era questi che doveva esigerne il risarcimento, ma quando l’interesse leso apparteneva alla collettività, era lo Stato che controllava l’effettiva esecuzione della sanzione.

III.2. Il processo pubblico, le quaestiones perpetuae e i crimina. Si è vista la distinzione fra diritto e processo privato e pubblico. I crimina publica erano perseguiti in età arcaica dai quaestores parricidii e dai duoviri perduellionis. Il parricidium era in origine il reato di uccisione del padre, ma in seguito fu inteso come omicidio in generale. La perduellio era invece contemplata nelle XII Tavole come crimine di adfectatio regni, cioè aspirazione alla tirannide o attentato alle istituzioni della respublica. Nel 300 a.C. una lex Valeria previde il diritto del civis Romanus condannato per questi due reati, comportanti la pena di morte (poena capitis), di appellarsi (provocare) ai comizi centuriati (provocatio ad populum). Al di fuori di questi due reati, l’evoluzione del processo criminale è legata anche al conflitto patrizio-plebeo. Con il III secolo a.C. l’amministrazione delle provincie acquisite a partire dalla prima guerra punica (241 a.C.) determinò l’istituzione di tribunali permanenti (quaestiones perpetuae) per i reati di corruzione e concussione dei governatori provinciali, ex pretori ed ex consoli, il cui imperium era prorogato di un anno dal senato perché amministrassero una provincia. I promagistrati usavano frequentemente macchiarsi di quei reati ed ai provinciali fu riconosciuto il diritto di denunciarli: il iudicium come la quaestio erano in tal caso detti de repetundis o repetundarum (da repetere = chiedere o ottenere in restituzione), perché la sanzione, visibilmente influenzata dall’origine privatistica del processo, consisteva anzitutto nella restituzione del maltolto. Più tardi si consentì

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che prima che i giurati avessero finito di votare esprimendo la metà più uno dei votanti per la condanna, l’imputato potesse allontanarsi volontariamente: in tal caso gli veniva comminato il divieto di ritornare in patria (interdictio aquae et igni), per il quale nessuno poteva offrirgli ospitalità, acqua e cibo o focolare se avesse tentato di rientare in Italia. La quaestio era presieduta dal pretore e si configurava come una corte criminale con una giuria composta in origine di appartenenti alla nobilitas, e poi – a seconda del prevalere nella lotta politica a partire dal periodo graccano – anche (o esclusivamente) di plebei (tribuni aerarii) e di equestri (equites). I membri delle giurie votavano all’inizio palesemente sia nel processo di fronte alle quaestiones sia in quello comizia- Fig. 12. Denario di Cassio le, ma dal 137 a.C. una lex Cassia tabellaria del tri- Longino con votante che inbuno L. Cassio Longino Ravilla sancì la segretezza troduce la tabella nell’urna. del voto nel processo di fronte ai comitia. La procedura da allora consistette nel porre in un’urna una tabella cerata con la lettera A (absolvo) o C (condemno), computando la maggioranza a votazione conclusa, mentre in caso di parità il pretore pronunciava l’assoluzione. Quando nel 107 un plebiscitum Caelium istituì la segretezza del voto anche per il crimen perduellionis (alto tradimento) sulle tabelle di voto furono iscritte le lettere L (libero) o D (damno). Se i denuncianti erano provinciali, il senato consentiva loro di nominare un civis Romanus come patronus per assisterli nel processo di fronte al praetor peregrinus. Solo nel 149 a.C. una lex Calpurnia aveva sancito che quest’ultimo predisponesse un elenco di giudici non togati, dai quali si traessero per ciascun processo i membri della giuria. Nel 123 a.C. una lex Acilia repetundarum 1, ispirata dal tribuno della plebe C. Sempronio Gracco, stabilì che il senato designasse il presidente della quaestio fra i pretori in carica e che il pretore così designato predisponesse una lista di 450 giudici tratti dall’ordo equester, anziché dall’ordo senatorius. L’accusatore sceglieva allora 100 nomi dalla lista, e li comunicava all’imputato, che da quelli ne indicava la metà quali componenti della giuria, che avrebbe coconosciuto del processo. Oltre il crimen repetundarum, le quaestiones perpetuae giudicarono de sicariis et veneficiis, de ambitu, de perduellione, de maiestate, de vi etc., cioè per omicidio all’arma bianca o avvelenamento, broglio elettorale, alto tradimento, attentato alla sicurezza dello Stato o alla sovranità del popolo romano, violenza etc. Nel travagliato periodo fra Caio Gracco e Cesare (123-44 a.C.), le quaestiones perpetuae lavorarono alacremente, anche se non sempre onestamente, per quei reati che erano conseguenza e sintomo della crisi e dell’agonia della repubblica. La composizione senatoria delle giurie – dopo la riforma graccana ripristinata da Silla nel periodo

1 Alcuni la identificherebbero con il testo di una tavola bronzea del Museo di Napoli, mentre altri vi riconoscono la lex Sempronia repetundarum.

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della sua dittatura, ma che dal 70 a.C. tornò ai cavalieri – garantiva molto spesso l’impunità ai proconsoli ed ai propretori dello stesso rango dei loro giudici. Fu questa causa non ultima della fine del predominio politico dell’oligarchia senatoria, allorché i provinciali furono armati e arruolati nelle guerre civili fra Cesare e Pompeo e poi fra Ottaviano ed Antonio, finirono con il diventare, insieme alla plebe ed ai cavalieri, sostenitori del governo autocratico del princeps, che dava garanzie di buona amministrazione e di controllo e repressione degli abusi del senato, e determinarono così la fine della repubblica.

III.3. I vari tipi di reati. Furtum, iniuria, calumnia, vis. Alcuni reati, come il furto, l’ingiuria o la diffamazione (calumnia), possono essere perseguiti negli ordinamenti moderni a querela di parte, vale a dire che la pubblica autorità non procede normalmente di propria iniziativa, ma solo su richiesta della parte lesa. In diritto romano alcuni comportamenti che sono configurati modernamente come reati costituivano delicta privata. Ad esempio tale era il furtum, già contemplato nelle XII Tavole (VIII, 12-13). Le circostanze aggravanti, come quando il furto era perpetrato di notte o il ladro fosse armato, comportavano l’esimente della legittima difesa se il derubato uccideva il fur manifestus, cioè in fragranza del reato, ma se ciò non avveniva la pena era costituita di norma da una multa pecuniaria. Parimenti era considerata in origine la vis, intesa nelle XII Tavole (VIII, 2) come lesione personale: era prevista la legge del taglione per sostituire la sproporzione, in cui facilmente cadeva la vendetta privata con un criterio “equitativo”. Più tardi questo reato si configurò invece come crimen vi, cioè come crimen publicum, intendendosi come violenza pubblica e riducendo a delictum quella privata. Cesare dittatore prima (48-44 a.C.) e l’imperatore Augusto poi (nel 17 a.C.) perseguirono rigorosamente questo crimen con apposite leges Iuliae. Parricidium. Del crimen parricidii s’è già detto che da uccisione del padre fu poi configurato come homicidium. Il primo era punito con la tremenda poena cullei, che consisteva nel chiudere il parricida, dopo averlo verberato a sangue, in un sacco (culleus) con un cane, un gallo o una vipera ed una scimmia e buttarli vivi nel Tevere. Per l’omicidio era prevista la pena capitale da comminarsi invece per i cives Romani solo per decapitazione o strangolamento, per gli altri anche con pene infamanti come la verberatio fino alla morte, la crocefissione, l’esposizione ad bestias nell’anfiteatro etc. Il tentativo, diversamente da quanto avviene nell’ordinamento italiano, era punito allo stesso modo del crimine portato a compimento, com’è ancor oggi previsto in molti ordinamenti degli Stati europei. Falsum. Il crimen falsi consisteva in diversi reati, dalla falsificazione (o distruzione) del testamento o anche di monete, alla corruzione di testimoni, all’alterazione di pesi e misure, all’assunzione di un nome non proprio, ed in particolare all’usurpatio dei nomina Romanorum da parte di peregrini. Le pene contemplate andavano dalla poena capitis per quest’ultimo crimine, o alla condanna ad minas, cioè alle miniere, alla deportatio in insulam. Crimen ambitus si diceva la corruzione elettorale nelle sue varie forme, dal broglio all’incetta di “voti di scambio”, all’iterazione della magistratura in violazione dell’intervallum previsto dalla legge, caso in cui l’ambitus costituiva reato meno

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grave rispetto all’adfectatio regni, l’accusa di aspirare alla tirannide. Nel 180 a.C. una lex Cornelia Baebia comminò per l’ambitus la pena dell’interdizione decennale dalle cariche pubbliche, ma l’interdizione divenne perpetua nel 67 a.C. in forza di una lex Calpurnia, promulgata nello stesso anno in cui una lex Cornelia tabellaria sanciva la segretezza del voto nelle elezioni, che fino ad allora era stato palese, con l’intento di garantire l’effettiva libertà di scelta al di fuori dei condizionamenti che la nobilitas era in grado di esercitare. In età imperiale il crimen perse importanza come le cariche politiche cui era riferito, svuotate di effettive funzioni dall’autorità del principe: una lex Iulia de ambitu del 18 a.C. si applicò ormai solo a qualche caso di violazione degli intervalla o alla corruzione degli scrutatori delle urne (nongenti o custodes). Crimen maiestatis, o maiestas, era in età repubblicana un reato qualificato, configurato cioè in capo a persone dotate di una determinata qualifica pubblica, i magistrati che abusavano dei propri poteri (potestas o imperium) o della propria auctoritas. Ma la lex Cornelia de maiestate pubblicata nell’81 a.C. da Silla dictator legibus scribundis et reipublicae constituendae configurò il crimen come attentato al potere del senato, dunque alla sicurezza dello Stato, nell’ambito della sua “restaurazione” oligarchica. Da qui la sua ulteriore evoluzione durante il principato, dove il crimen viene piuttosto nebulosamente inteso non solo come attentato alla vita del principe, ma anche come offesa alla sua persona. Abusi da parte di “despoti” come Nerone o Domiziano, che avevano perseguito con la pena di morte anche semplici maldicenze, non furono diffusi: Tiberio si rifiutò di applicare la maiestas allo spergiuro sul suo genius, dicendo che l’avrebbe punito Giove nell’altro mondo; Traiano sostenenne che desiderava acquistare il rispetto dei cittadini con l’esempio, non col terrore. Quando Plinio nel 112 lo informò che aveva mandato a morte i cristiani che rifiutavano di sacrificare alla sua immagine portata in tribunale insieme a quelle degli dei, Traiano gli prescrisse di portarvi solo quelle di questi ultimi: ma all’epoca il rifiuto dei cristiani era sussunto quale crimen laesae Romanae religionis, e solo più tardi lo si intese come maiestas. Peculatus, concussio e repetundae. Il peculatus (da pecus – pecoris, da cui pecunia) era come ancor oggi un tipico crimine contro la pubblica amministrazione (aerarium), che si realizzava con l’abuso nell’impiego di fondi pubblici, come il destinarli ad elargizioni indebite o sprechi, o nella loro sottrazione. Pare che solo in questo l’Italia moderna sia veramente erede di Roma. Ma in Roma antica non v’erano sconti di pena: così il peculato comportava la pena della relegatio in insula. Esso afflisse particolarmente l’agonia della respublica e si ridusse notevolmente sotto il controllo autocratico dei principi. Anche il crimen concussionis era, come i precedenti, un reato qualificato configurabile solo per magistrati e funzionari: consisteva e consiste nell’estorsione di danaro o di valori, più tardi, soprattutto in età imperiale, estesa anche ai favori personali, mediante pressioni o minacce di compiere o meno atti inerenti alle proprie funzioni pubbliche. Del crimen repetundarum o de reptundis si è già accennato più volte, ed ancora lo si farà trattando la crisi della respublica, di cui costituì uno dei massimi fattori: esso consisteva nella concussione a danno dei provinciali da parte dei governatori romani, i promagistrati (proconsoli, propretori) o magistrati (questori) in età repubblicana, anche i funzionari imperiali durante il principato (prefetti, procuratori, legati Augusti). La pena consisteva nella restituzione – repetere significa infatti “restituire” – in simplum, cioè nel semplice valore della somma, senza multe o sanzioni, dei

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beni o del danaro estorti, in un secondo momento in duplum, cioè nel doppio del valore estorto, e più tardi nell’interdictio aquae et ignis, cioè nel divieto di rimettere piede in patria per l’imputato che si fosse sottratto alla condanna andando in esilio. Come si è visto, le pene per i vari crimina consistevano nella condanna a morte diversamente eseguita, nella condanna ad minas o ad metalla, cioè nei lavori forzati in miniera, nella deportatio in insulam o relegatio in insula, nella repetitio indebiti, cioè nella restituzione del maltolto, ma mai in pene detentive, fatta eccezione per l’ergastolo solo per gli schiavi e solo dall’età di Antonino Pio (138-161). Il diritto romano, infatti, in genere conobbe la detenzione in carcere o presso il domicilio di garanti solo come misura preventiva o di pubblica sicurezza per impedire la fuga dell’imputato, e senza limiti temporali alla detenzione. La reclusione in ergastula di uomini liberi in Italia da parte di privati, o quella di imputati o condannati da parte dei governatori nelle provincie, era ritenuto un abuso che gli imperatori tentarono di reprimere.

III.4. La giurisprudenza repubblicana (cavere, agere e respondere): diritto e processo privato In età arcaica l’interpretazione del diritto era monopolio del collegio dei Pontefici, i quali rilasciavano risposte (responsa) ai privati che rivolgevano loro quesiti giuridici, prevalentemente in materia processuale. Della questione loro sottoposta i Pontefici valutavano allora solo il profilo di diritto (de iure), secundum ea quae proponerentur, cioè a condizione che le circostanze rappresentate dal richiedente rispondessero alla realtà. Invece l’accertamento della realtà dei fatti – quello che oggi si chiama “il merito” – era escluso dalla competenza ponteficale. L’esclusiva della funzione rispondente fu perduta dal collegio ponteficale nel 304 a.C., quando lo scriba del Pontefice Appio Claudio Cieco, Gneo Flavio, pubblicò le actiones giudiziarie, fino ad allora segrete e accessibili solo ai sommi sacerdoti. Così il responsum su quale azione scegliere nel singolo caso, sottoposto alla loro scienza, iniziò ad essere dato anche da giuristi non appartenenti al rango sacerdotale, detti perciò giuristi “laici”, dapprima patrizi, ma poi anche plebei. E fu infine un plebeo, Tiberio Coruncanio, asceso alla carica di Pontefice Massimo, a rendere pubblica la conoscenza dei responsa, che prima erano riservati al richiedente. Almeno da quel momento, si distinsero tre funzioni della giurisprudenza: cavére, ágere e respondére.

Cavere era l’approntare gli schemi dei contratti e dei negozi giuridici, adattandoli alla varietà dei casi che l’esperienza presentava concretamente, con la preparazione di appositi formulari. Ancor oggi si parla convenzionalmente per questa funzione di “giurisprudenza cautelare” quando si tratta di stipulare, per esempio, una compravendita, un mutuo, una locazione di casa o l’affitto di un terreno, o un qualsiasi altro contratto “notarile”. L’agere consisteva invece nello scegliere e preparare la formula processuale, cioè l’azione: la si sceglieva dapprima fra le sole cinque legis actiones esistenti nel diritto arcaico, e più tardi tra le formule contenute nell’editto giurisdizionale dei magistrati. La formula prescelta dal magistrato come più adatta, fra le tante, al caso concreto dedotto in giudizio, era quella adeguata alla lite (lis) che una delle parti

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del processo, attore (actor) o convenuto (reus), portava all’attenzione del giurista (iurisperitus o iurisprudens). Questi allora, come un tempo faceva il Pontefice, rispondeva (respondebat) sul presupposto che le circostanze addotte fossero veritiere, senza indagare nel merito (riservato ad un giudice privato nella seconda fase del processo, quella appunto del giudizio e della sentenza). In tal modo si venne a formare una giurisprudenza casistica, cioè modulata su casi reali, ma che prescindeva dall’accertamento delle circostanze di fatto. I giuristi, infatti, raccoglievano e pubblicavano questo genere di risposte in opere chiamate appunto responsa, che venivano consultate per l’autorità del rispondente e finivano col costituire precedenti per gli stessi giuristi successivi, per i magistrati e per i giudici 2. Infine il respondere comprendeva le più diverse attività esegetiche, dall’interpretazione delle tabulae testamentarie fino all’ambito di applicazione delle leges e dei mores. Soprattutto, però, con tale verbo si indicava la risposta del giurista ai quesiti che anche il magistrato o una pubblica autorità, come un funzionario, poteva porgli. Oltre ai responsa casistici, i giuristi pubblicavano anche altri generi di opere, come i Commentarii de iure civili di M. Giunio Bruto, o i Commentarii ad Edictum, con cui si interpretavano le formule edittali, o le venalium vendendorum leges, cioè i formulari per la compravendita di vari generi escogitati e approntati da Manio Manilio. I Digesta prendevano nome dal verbo digerere, “ordinare”, e costituivano opere di trattazione più sistematica delle materie giuridiche. La iurisprudentia finì così con l’assolvere ad una vera e propria funzione creativa del diritto. Paradossalmente per la nostra ottica moderna, non esisteva nella società romana una trasmissione istituzionale del sapere giuridico, a cura dello Sato. La scienza dell’interpretazione si formava e tramandava attraverso la libera pratica degli auditores, giovani che il giurista accoglieva perché assistessero alla sua attività e da essa, ascoltandolo, apprendessero la scientia iuris. Enorme fu, infine, l’impulso che a tale scienza venne dalla pubblicazione dell’editto giurisdizionale del pretore, dal momento in cui ne fu demandata a questo magistrato la pubblicazione annuale.

III.5. L’evoluzione storica dell’editto. Nel prendere possesso della carica all’inizio dell’anno, il praetor urbanus come il peregrinus facevano pubblicare un edictum, nel quale stabilivano programmaticamente le formulae, cui si sarebbero attenuti nell’esercizio della giurisdizione. Il 2

L’attività di assistenza giudiziaria nel processo privato non era invece svolta dal iurisprudens, ma era demandata ad advocati, oratores, procuratores ad litem, che concedevano spesso a pagamento la loro prestazione, mentre l’attività del giurista era assolutamente gratuita ed era percepita come una funzione sociale e intellettuale pratica ma di alto livello etico, benché non le fosse accordato – per noi moderni piuttosto sorprendentemente – il valore di “nobiltà” che si riconosceva alla filosofia, alla retorica, alla poesia.

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nome edictum deriva dal verbo edicere, che letteralmente significava in origine “proclamare oralmente” (e-dicere), ma poi finì col designare la pubblicazione in forma scritta. Ma con la parola edictum si intendevano due cose differenti. IL primo significato desiganva l’intero testo pubblicato, dipinto in caratteri neri (atramento) su tavole imbiancate (tabulae dealbatae), che perciò si diceva in albo propositum. Il secondo significato indicava la singola formula, che poteva successivamente aggiungersi al testo generale attraverso pubblicazione (propositio in albo). In origine il pretore non era tenuto ad attenersi al proprio editto: tuttavia, nei casi in cui si accingesse a violare i principi giuridici, ch’egli stesso aveva posto nell’editto, rischiava di esporsi all’intercessio dei colleghi o dei tribuni plebis, o perfino ad una nota censoria. Comunque, la discrezionalità del pretore di aggiungere improvvisamente (repente), nel corso dell’anno di carica, edicta – cioè singole formule – all’edictum generale già pubblicato, magari per casi sopravvenuti e dunque non regolati precedentemente, non sempre poteva essere ostacolata, e si prestava dunque ad arbitri di diverso genere e natura. Al fine di porre fine agli arbìtri, nel 67 a.C. una lex Cornelia, sancì che i pretori dovessero amministrare la giustizia in base al proprio editto e non ptessero più modificarlo nell’anno di carica: ex edictis suis perpetuis ius dicere. La lex Cornelia comportò cosi, per tutto l’anno di carica, l’immodificabilità dell’edictum pubblicamente esposto dal pretore alle calende di gennaio: in tal senso l’editto, considerato lex annua per la durata della sua validità, fu detto dopo il 67 a.C. perpetuum per l’immutabilità che la pubblicazione ne comportava. Il pretore, tuttavia, conservava pienamente la facoltà di modificare, entrando in carica, l’editto del suo predecessore. Ma in realtà nessun pretore, nell’arco di un solo anno o addirittura quando proponeva la sua candidatura, poteva farsi carico della sistematica revisione di un testo, che si presentava sempre più ricco di stratificazioni normative e spesso anche di contraddizioni, oltreché talvolta di formule anacronistiche. Ciascun pretore si limitava perciò a qualche modifica o aggiunta, tanto che l’editto di anno in anno veniva tramandato (translatum) quasi immutato, ed è perciò chiamato da Cicerone edictum translaticium. Tuttavia, secondo il giurista di età imperiale Sesto Pomponio, un suo predecessore dell’età di Cesare, Aulo Ofilio, probabilmente in esecuzione di un programma del dittatore (48-44 a.C.), tentò per primo di eseguire con sistematicità ed accuratezza (diligenter) la revisione e riformulazione (compositio) di un testo tralatizio ormai così poco funzionale: de iurisdictione ... edictum praetoris primus diligenter composuit. Inoltre, da quando istituti del ius gentium erano stati recepiti anche dal pretore urbano, il suo editto poteva ripetere in sostanza formule escogitate dal praetor peregrinus. S’è già detto che la materia dei mercati e delle merci era regolata, con lo stesso sistema di pubblicità, dall’editto degli edili curuli. Nelle provincie, infine, che dalle grandi isole tirreniche finirono con l’inglobare gran parte delle coste del mediterraneo (mare nostrum) africano e microasiatico, e a Nord l’Europa centrale e settentrionale fino al Reno, oltre che la Britannia, ciascun proconsole o propretore pubblicava un editto, che teneva conto delle consuetudini locali e, in certa misura, del diritto vigente nel paese prima della conquista

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romana. Anche nelle provincie il testo edittale si tramandava annualmente da un promagistrato all’altro con limitate modifiche. Esso inoltre poteva fare riferimento, in determinate materie, agli edicta urbana, cioè ai due edicta, che in Roma venivano pubblicati dal praetor urbanus e dal praetor peregrinus. Durante il principato la discrezionalità dei pretori nella pubblicazione dell’editto perpetuo, già limitata dalla tradizione, dovette subire il controllo del senato, cui furono attribuite più accentuate funzioni nel campo del diritto privato, e soprattutto il controllo del principe. Rispetto ai principi generali della giurisdizione contenuti nell’editto annuale, il pretore, anche dopo la lex Cornelia del 67 a.C., poteva comunque pubblicare editti specifici per fattispecie determinate. Tali editti sono stati chiamati edicta repentina dalla dottrina moderna sulla base di un’erronea interpretazione di un passo di Cicerone (Verr. II 3.14.36), ma questa espressione non si trova in realtà nelle fonti 3. Nessuno si è però accorto che lo stesso passo ciceroniano consente di conoscere il corretto termine giuridico, edictum peculiare, che i Romani davano a tali editti specifici, che potevano aggiungersi ma non essere in contrasto con i principi dell’edictum generale annuum. Infine l’imperatore Adriano, attorno al 130 d.C., conferì a Salvio Giuliano, illustre giurista originario di Hadrumetum nell’Africa proconsolare (oggi Sousse in Tunisia), l’incarico di redigere un testo unico e definitivo degli editti che i pretori, gli edili curuli e i governatori delle provincie promulgavano ogni anno da secoli. Rivedendo questi testi pluristratificati, Giuliano li adeguò ai tempi e rese l’edictum perpetuum coerente ed efficiente all’amministrazione giudiziaria, pur conservando in esso l’autonomia formale dell’editto edilizio in materia di mercato. L’effetto unificante della romanizzazione ormai plurisecolare consentì inoltre a Giuliano la pubblicazione di un unico testo edittale destinato alle provincie, ciascuna delle quali ne aveva prima uno proprio. Dopo Adriano, dunque, di perpetuità dell’editto si parlò in senso ben diverso da quello repubblicano, che significava la non modificabilità del testo nell’anno di carica del magistrato: ora, invece, la possibilità di innovarlo fu riservata evidentemente solo al principe. Questa sembra essere la più attendibile spiegazione della compositio o ordinatio dell’editto, che le fonti attribuiscono a Giuliano, usando lo stesso termine che Sesto Pomponio riferisce – come si è visto – al cesariano Aulo Ofilio. Peraltro si ritiene che Giuliano non sia andato oltre il lavoro di razionalizzazione del testo tràdito, apportando scarsissime innovazioni alla disposizione, pratica e non sistematica, delle materie edittali. Aldilà della reale necessità di rinnovare e razionalizzare uno strumento divenuto obsoleto, l’iniziativa dell’imperatore Adriano, che non a caso sembra aver avuto un precedente nel tentativo proprio di Giulio Cesare dictator attraverso Aulo Ofilio, 3 Per la critica a tale erroneo uso dottrinale cfr. A. METRO, La lex Cornelia de iurisdictione alla luce di Dio Cass. 36.40.1-2, «Iura» XX (1969), p. 512; G. MANCUSO, Praetoris edicta, «AUPA» XXXVII (1983), p. 389 ss.; B. ALBANESE, Riflessioni sul «ius honorarium», in Scritti giuridici, III, Torino 2006, p. 234; riedizione di tutti i saggi in materia di N. PALAZZOLO, IVS e TEXNH. Dal diritto romano all’informatica giuridica. I. Diritto romano, Torino 2008, pp. 225 ss., 269 ss., 301 ss., 307 ss.

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poneva termine ad uno dei residui àmbiti di autonomia dei magistrati di tradizione repubblicana, avocando al principe tanto la facoltà di modifica quanto quella di innovazione giurisdizionale. L’iniziativa adrianea, pertanto, non solo costituì un rimedio razionale all’inadeguatezza della giurisdizione, ma s’iscrive altresì nel lento e sempre mascherato processo di accrescimento dell’autocrazia del principe e del suo controllo sui residui spazi di autonomia politica dei magistrati republicani. Degli editti dei pretori republicani non ce n’è pervenuto in forma diretta neanche uno 4. Solo qualche formula preadrianea ci è nota da tabelle cerate scoperte ad Ercolano e Pompei o tramandate da testi letterari. In realtà il ritrovamento di citazioni di formule edittali in documenti della prassi giuridica nelle città vesuviane, sepolte nel 79 d.C. e dunque anteriori all’età adrianea, ha consentito di costatare che tali formule sono identiche alla redazione tramandata dall’editto giulianeo, mentre in altri casi possiamo farci l’idea che talvolta le formule repubblicane furono più o meno profondamente modificate da Giuliano. Ma nemmeno l’editto giulianeo ci è direttamente pervenuto, né possediamo alcuno dei commentarii ad edictum pubblicati dai giuristi dell’età imperiale. Tuttavia estratti o estrapolazioni (excerpta) di questi confluirono nei Digesta giustinianei, con l’indicazione degli autori, delle opere e dei luoghi dai quali erano stati tratti. Poiché i commentarii si attenevano all’ordine edittale delle materie (per esempio emptio-venditio, locatio-conductio, mutuum) cioè alla sequenza in cui l’editto le contemplava, e spesso citavano le parole stesse dell’editto, è stato possibile al grande studioso tedesco Otto Lenel, fra il 1887 ed il 1927, ricostruire la redazione giulianea sulla base dei Digesta di Giustiniano. Tuttavia le interpolazioni, con modifiche anche profonde, cui i testi dei giuristi classici del I secolo a.C.-III secolo d.C. furono sottoposti dai compilatori del Corpus Iuris Civilis del VI secolo, per adeguarli alle necessità del diritto dell’età di Giustiniano, rendono spesso problematica la restituzione del testo originale.

III.6. Il processo privato (iudicia privata): legis actiones e formulae. Il processo privato più antico precedette nel tempo quello pubblico, e fu successivamente detto per legis actiones. Esso era bifasico, aveva cioè inizio con una prima fase detta in ius o in iure, cioè dinanzi al tribunale del pretore, e si concludeva apud iudicem, cioè di fronte ad un giudice privato, con la pronuncia di una sentenza di condanna o di assoluzione. Nella fase in iure il magistrato sceglieva la formula adatta al caso, senza valutare la credibilità della pretesa dell’attore o della difesa del convenuto: tali valutazioni di merito erano infatti riservate alla seconda fase, detta apud iudicem, perché il 4

A partire dal II secolo d.C., gli edicta dei pretori republicani si conservavano, scritti su rotoli di papiro, nella biblioteca latina fatta costruire dall’imperatore Traiano (96-117 d.C.) nel suo foro, dove finirono, dopo la redazione giulianea, con l’essere «dimenticati», fino a quando non furono casualmente riscoperti dall’erudito romano Aulo Gellio, vissuto nel II secolo d.C.

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magistrato usciva di scena e un privato cittadino, scelto d’accordo fra le parti in una lista di boni viri, giudicava nel merito e pronunciava la sentenza di condanna o di assoluzione del convenuto (reus). Base del processo era il ius strictum, l’osservanza formale e rigorosa del diritto quiritario riservato ai cittadini romani, che si traduceva in un dari oportere, il dover soddisfare l’obbligazione contratta in quanto ritualmente formalizzata. La denominazione di legis actiones deriva dal fatto che il processo era instaurato dalla pronuncia, al cospetto dei Pontefici e più tardi del magistrato in tribunale (in iure), da parte dell’attore (actor) e/o del convenuto (reus), di certa et sollemnia verba, cioè di parole consacrate dalla tradizione, immutabili e ritualmente predeterminate, da cui nascevano le cinque azioni formali. In origine solo i Pontefici conoscevano tali formule, che furono poi rese note dai giuristi laici: ma le procedure restarono comunque nell’arbitrio della nobilitas e fu un risultato politico della plebe l’aver ottenuto con le XII Tavole che al processo fossero dedicate alcune norme per la prima volta scritte e perciò stesso inderogabili. Conosciamo da un manuale del II secolo d.C., le Institutiones di Gaio, le cinque legis actiones arcaiche, delle quali tre dichiarative (per sacramentum, per iudicis postulationem, per condictionem), e due esecutive (per manus iniectionem, per pignoris capionem). Le prime instauravano in iure un’azione da decidersi tramite una solenne dichiarazione, le seconde legittimavano invece l’esecuzione, da parte dell’attore, sulla persona o sui beni del convenuto inadempiente alla condanna. Sembra che la più antica legis actio sia stata la manus iniectio: decorsi 30 giorni consecutivi (dies continui), inclusi cioè dies fasti e nefasti 5, dalla sentenza di condanna del debitore insolvente pronunciata dal iudex privatus, il creditore-attore era legittimato ad acciuffare il reus ed a condurlo di fronte al pretore, che pronunciava in iure l’addictio al creditore. Questi era così legittimato ad imprigionare in casa propria il debitore (addictus) ed a sfruttarne il lavoro fino a soddisfazione del debito o a venderlo come schiavo. Questa escussione personale non fu più legittimata grazie al processo di emancipazione politica della plebe e fu sostituita dalla mera esecuzione patrimoniale sui beni. Poco meno risalente della manus iniectio è l’actio sacramenti, che prende nome dal giuramento (sacramentum) che ciascuna parte fa in iure di versare all’aerarium una determinata somma se la sua pretesa non risulti provata. Se la pretesa è in rem, entrambe le parti sostengono lo stesso diritto sulla cosa contesa; se l’azione è in personam il dibattimento si svolge di fronte al pretore fra creditore e debitore. Ne restavano esclusi i casi di debiti per i quali si ricorreva alla manus iniectio, mentre erano ricompresi il debito nascente da furto non flagrante o da malversazione del tutore legittimo in danno del tutelato. Più recenti sono le altre tre legis actiones, delle quali le prime due dichiarative. Quella per iudicis postulationem consisteva nella richiesta al magistrato della no5

L’opinione della dottrina che i 30 giorni fossero iusti cioè ad esclusione dei festivi e di quelli di lutto (in tal senso ad esempio V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di Diritto Romano, Napoli 196414, p. 113), sembra da rivedere sulla base delle scoperte di documenti della prassi: cfr. F. COSTABILE, L’auctio della fiducia e del pignus nelle tabelle dell’agro Murecine, Soveria Mannelli 1992, p. 89 ss.

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mina di un giudice per la divisione dell’eredità fra coeredi, per il regolamento di confini fra proprietari di fondi finitimi, per la divisione della cosa comune fra comproprietari. La condictio riguardava una somma determinata di danaro (pecunia certa credita), che il creditore-attore chiedeva al debitore, di fronte al giudice, di riconoscere o negare: nel primo caso si aveva una confessio in iure e il processo terminava, nel secondo si davano 30 giorni per ricomparire di fronte al giudice privato, che avrebbe accertato la sussistenza o meno del debito. Infine la pignoris capio consisteva nell’acquisizione del pegno, con il quale il creditore soddisfaceva la sua pretesa verso il debitore inadempiente. La discussione dottrinale sul fatto che il debitore divenisse proprietario del pegno o dovesse invece venderlo e restituire al debitore l’eccedenza sembra doversi orientare verso quest’ultima soluzione, perché la documentazione della prassi, benché certamente più tarda di alcuni secoli, attesta la vendita all’asta dei beni costituiti dal debitore in garanzia nella forma del pignus o della fiducia, con una procedura che gli assicurava la restituzione del superfluum (ricavato dalla vendita delle merci date in garanzia, una volta dedotti il debito e le spese per l’asta).

III.7. Il processo formulare. L’editto pretorio è un testo per antonomasia giurisdizionale, le cui formule si adattano alle rispettive actiones. Mentre le formule delle legis actiones erano solo cinque, nel processo formulare, a seguito di un lento e graduale fenomeno di evoluzione, i verba finiscono con l’essere concepta secondo le contingenze: essi si esprimono cioè in una delle numerose formulae dell’editto, e precisamente in quella, la cui previsione astratta risponde al caso concreto della lite insorta fra attore (actor) – colui che prende l’iniziativa della convocazione della controparte di fronte al magistrato – e convenuto (reus). Come già quello per legis actiones, anche il processo formulare è inoltre tipicamente bifasico, ma, rispetto al primo, spiega – come vedremo – effetti diversi nel passaggio fra la prima e la seconda fase. Esso ha inizio in iure con la in ius vocatio da parte dell’attore al convenuto, e può svolgersi in più udienze mediante un’ulteriore convocazione delle parti (attraverso vadimonia), e si conclude apud iudicem, cioè dinanzi al giudice privato, con la sentenza di condanna o di assoluzione. Al pretore spettava comunque, in iure, la facoltà di non dar luogo alla prosecuzione del processo per varie ragioni: dall’accoglimento di una eccezione (exceptio) dedotta in giudizio dal convenuto, che paralizzava la pretesa dell’attore destituendone il fondamento giuridico o equitativo, fino alla denegatio actionis, al diniego cioè di concedere l’azione giudiziaria per la mancanza di fondamento della pretesa attrice. Si è detto che il processo dovrebbe aprirsi con la in ius vocatio, ma essa è nella maggioranza dei casi sostituita dal vadimonium. Questo è, nel processo formulare, un atto stragiudiziale, il cui nome deriva dal fatto che nella più antica procedura per legis actiones vi intervenivano vades o garanti, per assicurare che il convenuto si sarebbe ripresentato ad una successiva udienza, esponendosi a pagare loro stessi

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una multa in caso d’inadempienza di quello (vadimonium desertum). Mentre, dunque, nelle legis actiones si trattava di un vadimonio giudiziale, nel processo formulare la prassi fece sì che vi si ricorresse in sede stragiudiziale: il vadimonio consisteva infatti nella convocazione in un luogo determinato e in data ed ora prestabilita, che l’attore faceva al convenuto al fine di comparire dinanzi al pretore. Il vadimonio stragiudiziale ci è ora ben noto attraverso documenti, che ne attestano la redazione per iscritto su tabulae ceratae. La redazione scritta, pur invalsa nell’uso fino ad essere del tutto generalizzata, rispondeva tuttavia a fini probatori e non aveva natura costitutiva: la scrittura dava cioè prova duratura nel tempo che l’atto era stato compiuto con l’assunzione verbale dell’impegno a comparire, ma tale atto rimaneva per sua natura giuridica una convocazione formalmente orale, resa valida solo dalla pronuncia delle parole. Di esse – insomma – la scrittura si limitava a tramandare la prova a futura memoria. Nel vadimonium il convenuto s’impegnava a pagare una penale in danaro per il caso mancasse all’appuntamento. Se poi accadeva che il reus effettivamente non si presentasse di fronte al pretore, gli veniva irrogata una multa di valore maggiore al contenzioso, ma non lo si poteva costringere a comparire, e parimenti – salvo rare eccezioni – la condanna nel processo ante tribunal praetoris urbani consisteva sempre in una multa pecuniaria (dari oportere = obbligo di pagare o far pagare una somma di danaro), non in un facere; perché per l’inadempimento di un facere da parte del reus damnatus si sarebbe dovuto ricorrere ad una coërcitio, un’esecuzione sulla persona, anziché sui beni, cosa inconcepibile per la mentalità romana nell’ambito di un processo, che si chiamava privato in quanto frutto del libero convergere delle volontà di attore e convenuto di sottostare alla sentenza, fosse di assoluzione o di condanna, in base al ius civile Quiritium. Si riconosceva invece più largamente che nel processo del praetor peregrinus la condanna potesse essere non solo in un dare, ma anche in un facere oportere ex fide bona (= obbligo di adempiere ad un comportamento attivo in buona fede). Sembra che questo tipo di processo sia stato introdotto da una lex Aebutia de formulis attorno al 120 a.C., senza che però fosse vietato di ricorrere alle legis actiones. Ma cadute queste sempre più in desuetudine, una lex Iulia iudiciorum privatorum, probabilmente del 17 a.C., sembra aver abrogato formalmente il ricorso al vecchio processo. Nelle coloniae e nei municipia il processo si svolgeva di fronte ai magistrati locali, per le materie di loro competenza, secondo le stesse procedure del processo urbano. Disposizioni ci sono note da diverse leggi locali. Ma possediamo anche atti processuali salvatisi eccezionalmente dalla distruzione, cui la quasi totalità di questo genere di documenti è andata soggetta. I tre vadimonia che si presentano sono appunto relativi a processi destinati a svolgersi, in un anno anteriore al 79 d.C., di fronte ai locali duoviri iure dicundo di Pozzuoli. Nel primo è anche indicata l’actio che si voleva intentare. Vadimonium factum Caio Sulpicio Fausto in VIII Idus Iulias primas Puteolis in foro ante aram Hordonianam hora tertia. HS D acturus ex empto dari stipulatus est Lucius Faenius Eunomus, spopondit Caius Sulpicius Faustus.

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Convocazione (per presentarsi di fronte al magistrato) fatta a Caio Sulpicio Fausto [convenuto] il prossimo 8 Luglio, a Pozzuoli nel foro, di fronte all’altare dedicato da Ordonio, alle ore nove. Volendo intentare un’azione di compravendita Lucio Fenio Eumono [attore] ha richiesto con le solenni parole della stipulatio e Caio Sulpicio Fausto ha promesso con le solenni parole della sponsio che siano pagati (all’attore) 500 sesterzi (nel caso che non si presenti all’appuntamento).

Se poi una delle parti non aveva la cittadinanza romana, e non poteva dunque usare i verba sollemnia della stipulatio e della sponsio – la formale richiesta e la corrispettiva promessa rituali del diritto quiritario – si faceva ricorso alla bona fides svincolata dalle formalità, come nel caso seguente, destinato a svolgersi evidentemente dinanzi al praetor peregrinus, e nel quale si precisa che il convenuto è un provinciale di Alessandria d’Egitto. Vadimonium factum Truphoni Potamonis filio Alexandrino in X Kalendas Apriles primas Romae in foro Augusto ante statuam Cnei Senti Saturnini triumphalem, hora quinta. HS MMM dari fide rogavit Caius Sulpicius Cinnamus, fide promisit Trupho Potamonis filius Alexandrinus. Convocazione fatta a Trifone figlio di Potamone di Alessandria [convenuto] il prossimo 22 aprile a Roma, nel foro di Augusto, dinanzi alla statua trionfale di Gneo Senzio Saturnino, alle ore 11. Caio Sulpicio Cinnamo [attore] ha richiesto in (buona) fede e Trifone figlio di Potamone di Alessandria ha promesso in (buona) fede che siano pagati 3.000 sesterzi.

Il ritrovamento della base della statua di Saturnino a Roma di fronte ad una delle due esedre del foro di Augusto ha fatto capire che era quella le sede del tribunale del pretore peregrino e che era abituale fissare l’appuntamento vadimoniale nei pressi della sede giudiziaria, quando non direttamente in tribunale, come previsto dal terzo esempio che qui si riporta. Trattasi del più complesso formulario del vadimonio del 75 d.C. per il cosiddetto «processo di Giusta», che nomina la formale autorizzazione che Telesforo, il tutor della convenuta Calatoria Temide, doveva rilasciarle per legge, poiché una donna non poteva stare da sola in giudizio. Questo vadimonio è completo – come lo erano in origine anche i precedenti – della data in cui fu redatta la scrittura. Vadimonium factum Calatoriae Themidi in III Nonas Decembres primas Romae in foro Augusto ante tribunal praetoris urbani hora secunda. HS M dari stipulata est ea quae se Petroniam Spuri filiam Iustam esse dicat, spopondit Calatoria Themis tutore auctore Caio Petronio Telesforo. Vadimonium factum Caio Petronio Telesphoro in eum diem locum horam. HS M dari stipulata est Petronia Iusta, spopondit Caius Petronius Telesphorus. Actum VII Idus Septembres, Caio Pomponio, Lucio Manlio Patruino consulibus. Convocazione fatta a Calatoria Temide il prossimo 3 dicembre a Roma nel foro di Augusto, dinanzi al tribunale del pretore urbano, alle ore 8. Colei che dice di essere Petronia Giusta figlia di padre ignoto ha richiesto con le solenni parole della stipulatio e Calatoria Temide ha promesso con le solenni parole della sponsio, previa

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autorizzazione del tutore Caio Petronio Telesforo, che siano pagati 1.000 sesterzi. Convocazione fatta a Caio Petronio Telesforo nello stesso giorno, luogo e ora. Petronia Giusta ha richiesto con le solenni parole della stipulatio e Caio Petronio Telesforo ha promesso con le solenni parole della sponsio che siano pagati 1.000 sesterzi. Redatto il 7 settembre nell’anno del consolato di C. Pomponio e L. Manlio Patruino.

Presentatesi di fronte al pretore o ad altro magistrato nel luogo e nell’ora convenuti, le parti gli esponevano il loro caso ed egli iudicium dabat, sceglieva cioè la formula adeguata al loro caso. Questa prima fase di fronte al tribunale del magistrato (in iure) si concludeva con la litis contestatio, con la quale le parti dichiaravano il loro comune accordo di presentarsi di fronte al giudice. L’attore dictabat al convenuto la formula nella quale consisteva ormai il iudicium, cioè la nomina che il magistrato faceva del giudice, con le relative istruzioni che «de iure» gli erano impartite: il giudice privato era perciò vincolato alla formula ed all’impostazione del caso astrattamente valutato dal magistrato sotto il profilo del diritto, cioè prescindendo da chi fra le parti avesse torto o ragione. Al iudex privatus era invece riservata proprio la valutazione di merito. Il convenuto accipiebat la formula così letta. In questo dictare et accipere iudicium, imporre cioè da parte dell’attore la formula scelta o indicata dal pretore, e nella corrispettiva accettazione da parte del convenuto, con il conseguente impegno reciproco di accettare la sentenza sia che fosse di condanna che di assoluzione, il rapporto dedotto in giudizio si considerava consumptum, cioè estinto. Per questo i romanisti parlano modernamente di effetto consuntivo della litis contestatio, che si aveva nel processo formulare ma non nelle antiche legis actiones: sorgeva ora un nuovo rapporto giuridico come effetto della cosiddetta novazione processuale, fondato sull’obbligo, cui il convenuto si vincolava, di sottoporsi all’eventualità di una sentenza di condanna. I giuristi definivano ciò condemnari oportere, lasciando in ombra, nella estrema praticità e laconicità della loro prassi giudiziaria, l’aspetto del tutto scontato che anche l’attore accettasse correlativamente di sottoporsi alla sentenza di assoluzione senza poter più intentare un’altra volta l’azione (bis de eadem re ne sit actio). Il giudice restava vincolato alle disposizioni impartite dal magistrato sotto l’aspetto del diritto, ma era del tutto libero di valutare gli elementi di fatto della lite, escutendo prove e testimonianze ed eseguendo sopralluoghi. Ciascuna parte era assistita generalmente da un procurator ad litem, per così dire un avvocato, in nome del quale si ritiene abitualmente che la condanna o l’assoluzione fosse prescritta nel iudicium. In realtà i documenti della prassi – come del resto anche le formule dell’editto – non offrono finora alcun riscontro a questa opinione, nominando direttamente le parti, non i loro procuratores. Il giudice – come s’è accennato – non era un magistrato, ma un semplice cittadino privato, che, godendo di ottima reputazione sociale, si faceva iscrivere in un apposito albo: la sua scelta ricadeva sulle parti o, in mancanza di accordo, era demandata al pretore. Non essendo fornito di imperium né di potestas, il giudice doveva ricevere dal magistrato un iussus iudicandi, vale a dire il legittimo ordine di pronunciare la sentenza di condanna o di assoluzione.

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Il procedimento descritto è documentato sia dalle formulae edittali ricostruite da Otto Lenel, che costituivano ovviamente una previsione astratta e casistica, sia da più recenti ritrovamenti di tabelle cerate negli archivi di uomini d’affari delle città vesuviane, sepolte dall’eruzione vulcanica del 79 d.C. In questi casi possediamo ovviamente la documentazione di casi concreti di liti giudiziarie svoltesi nel regime del processo formulare. L’aderenza delle formulae recuperate in tabelle cerate al modello dell’editto giulianeo dimostra che in tali casi questo recepì una tradizione ormai sperimentata e consolidata. Si dà un esempio di rubrica, sottotitolo e formula dell’editto giulianeo, avvertendo che i nomi fittizi di Numerio Negidio ed Aulo Agerio indicano rispettivamente il convenuto e l’attore. DE REBVS CREDITIS. SI CERTVM PETATVR. IVDEX ESTO. SI PARET NVMERIVM NEGIDIVM AVLO AGERIO SESTERTIVM DECEM MILIA DARE OPORTERE, QVA DE RE AGITVR, IVDEX NVMERIVM NEGIDIVM AVLO AGERIO SESTERTIVM DECEM MILIA CONDEMNATO, SI NON PARET ABSOLVITO. IN MATERIA DI CREDITI. SE SI RICHIEDA UNA SOMMA DETERMINATA. VI SIA UN GIUDICE. SE SARÀ PROVATO CHE NUMERIO NEGIDIO DEBBA DARE AD AULO AGERIO DIECIMILA SESTERZI, SUL CHE È INTENTATA L’AZIONE GIUDIZIARIA, IL GIUDICE CONDANNI NUMERIO NEGIDIO PER DIECIMILA SESTERZI IN FAVORE DI AULO AGERIO, SE NON RISULTERÀ PROVATO LO ASSOLVA.

Ecco come una tabella pompeiana del 52 d.C. traduce in un caso concreto la previsione astratta dell’editto. Ea res agetur de sponsione. Caius Blossius Celadus iudex esto. Si parret Caium Marcium Saturninum Caio Sulpicio Cinnamo HS DCM dare oportere, qua de re agitur, Caius Bossius Celadus iudex Caium Marcium Saturninum HS DCM Caio Sulpicio Cinnamo condemnato, si non paret absolvito. Iudicare iussit Publius Cassius Priscus IIvir. Actum Puteolis, Fausto Cornelio Sulla Felice, Quinto Marcio Barca Sodano consulibus. Questa lite si tratterà con un’azione giudiziaria «per la promessa fatta con le solenni parole della sponsio». Ne sia giudice Caio Blossio Celado. Se sarà provato che Caio Marcio Saturnino [convenuto] debba dare a Caio Sulpicio Cinnamo [attore] 6.000 sesterzi, sul che è intentata l’azione giudiziaria, il giudice Caio Blossio Celado condanni Caio Marcio Saturnino per 6.000 sesterzi in favore di Caio Sulpicio Cinnamo. Se non risulterà provato, lo assolva. Il duoviro Publio Cassio Prisco ha ordinato di giudicare. Redatto a Pozzuoli nell’anno del consolato di Fausto Cornelio Silla Felice e Quinto Marcio Barca Sodano.

Nel caso che il convenuto, soccombente, si rifiutasse di pagare la multa prevista dalla sentenza di condanna, l’attore poteva intentare contro di lui un’actio iudicati per ottenerne il pagamento, in tal caso aggravato da una ulteriore multa. La natura del processo formulare, privato nel senso di essere fondato sul consenso delle parti e sulla sentenza di un giudice privato, faceva sì che la condanna consistesse sempre

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in una somma pecuniaria, di norma perfino in casi come la reivindicatio, nella quale l’attore reclamava dal possessore la cosa di cui era proprietario. Certo il giudice poteva sempre prevedere una multa così alta, da indurre il convenuto a ritenere più conveniente la restituzione della cosa, ma tale risultato, comunque, non poteva ottenersi mai contro la sua volontà, esercitando una coercizione fisica. Vigeva infine il principio bis de eadem re ne sit actio: non si poteva intentare una nuova azione per una causa che fosse già stata oggetto di sentenza passata in giudicato.

Fig. 13. Trittici di tabelle cerate. Ogni tabella ha una cornice lignea, dentro cui una superficie rettangolare è incavata e cosparsa di cera (resina arborea o ceralacca), sulla quale con la punta di uno stilo si incideva la scrittura, che conteneva la richiesta dell’attore, la difesa del convenuto o le testimonianze processuali. Ognuna delle 3 tabelle aveva una pagina per un totale di 6 pagine. La pagina IV era quasi tutta lignea, salvo un incavo rettangolare allungato cosparso di ceralacca, dove i testimoni apponevano il sigillo del loro anello: a lato era scritto ad inchiostro il nome del testimone sigillante (vedi anche p. 178).

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Bustino bronzeo di Giulio Cesare di fine XIX inizi del XX secolo, a fusione cava e patina bruna, ispirato al modello di Willem van Tetrode (Guglielmo il Fiammingo) del 1560 circa, oggi a Firenze nella Galleria degli Uffizi. Rispetto al modello rinascimentale lo scultore del Novecento ha accentuato i tratti scarni e l’espressività volitiva dello sguardo attingendo direttamente alle iconografie monetali antiche del dittatore. Collezione privata (già Bowinkel, Napoli 1978).

IV LA CRISI DELLA RESPVBLICA SOMMARIO: L’IMPERO E L’ELLENISMO: IV.1. L’espansione e le conseguenze dell’incontro di Roma con la civiltà greca. – IV.2. La trasformazione della società romana. IV.3. La politica graccana (133-122 a.C.). – IV.3.1. Le tre questioni: riforma agraria, corruzione nel governo delle provincie, estensione della cittadinanza. – IV.3.2. La valutazione politica dell’opera dei Gracchi nella storiografia antica e moderna. – L’AGONIA DELLA REPUBBLICA: IV.4. Da Silla a Cesare. – IV.4.1. Dal consolato straordinario di Mario alla dittatura di Silla sino al bellum civile. La concessione della civitas Romana ai socii. – IV.4.2. La dittatura e la riforma costituzionale sillana. – IV.4.3. Pompeo, Cesare e il primo triumvirato. Riforme istituzionali dell’imperium e lotta fra optimates e populares. – IV.5. La dittatura cesariana. – IV.5.1. Riforma dello Stato e programmi. – IV.5.2. Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare. – IV.5.3. Le virtutes del dictator ed il pensiero politico della tarda repubblica. – IV.5.4. Libertas, imperitia multitudinis e regnum nel giudizio ciceroniano su Cesare. – IV.6. Il secondo triumvirato ed Ottaviano-Augusto. – IV.7. La concezione greca della demokratía, la respublica oligarchica romana e le oligarchie finanziarie nelle democrazie moderne.

L’IMPERO E L’ELLENISMO

IV.1. L’espansione e le conseguenze dell’incontro di Roma con la civiltà greca. Si è visto che nel III secolo a.C. Roma era ormai entrata direttamente e permanentemente in contatto con la civiltà greca: le poleis italiote stipularono con Roma una serie di trattati di alleanza (foedera o symmachiai), accogliendo presidi romani a difesa dalle popolazioni italiche che ne ponevano in pericolo l’indipendenza e la stessa esistenza. Solo qualche anno più tardi, il dilagare della guerra di Pirro, il cui intervento era stato invocato da Taranto, rivale commerciale di un’altra polis alleata di Roma, Napoli, trattiene i Romani in Magna Grecia per un decennio (280-70 a.C.), alla fine del quale Taranto sarà conquistata e le poleis italiote, da Napoli a Reggio, si legheranno a Roma con nuovi trattati. Subito dopo, con la I guerra punica (247-241 a.C.), avrà inizio la conquista della Sicilia, dove il secolare contrasto fra l’egemonia siracusana e l’eparchia cartaginese sarà risolto da Roma a proprio favore. La storiografia moderna discute sull’attendibilità della più tarda rappresentazione polibiana del ruolo dei publicani e mercatores romani nel concepire, già alla metà del III secolo, un progetto imperialistico di

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conquista e sfruttamento economico-commerciale della Sicilia, sospettando che Polibio abbia proiettato indietro nel tempo una realtà determinatasi ben dopo la conquista della Sicilia, e come conseguenza di essa. Subito dopo Roma s’impadronirà anche della Sardegna e della Corsica, relegando Cartagine in Africa. Infine il periodo della II guerra punica, detta annibalica (216-203 a.C.), consoliderà il dominio romano nella penisola, proiettandolo altresì verso la conquista dall’Africa all’Ellade, cui darà adito la litigiosità dei Greci. Corinto sarà distrutta nel 146 a.C., nello stesso anno in cui lo sarà anche Cartagine (III guerra punica): due distruzioni gratuite, nei confronti di città già arresesi, centri di antiche civiltà, che ebbero un valore di brutale deterrenza e segnarono una svolta nell’uso del terrore come strumento psicologico non solo della guerra, ma anche della “diplomazia” romana nel Mediterraneo. Dovendo fare un uso estremamente oculato delle sue risorse economiche e militari, vista la crescente sproporzione fra Romani e popolazioni soggette, il principio di deterranza divenne un cardine della politica romana. In età imperiale, su una popolazione globale dell’impero stimata nel I-II secolo d.C. fra i 50 e i 100 milioni, i cittadini romani erano all’incirca 5 milioni (maschi adulti), e l’esercito era costituito da circa 150.000 uomini, di cui circa metà provinciali. La civiltà greca con cui Roma entrò in contatto è quella che noi chiamiamo ellenistica 1, quella che le conquiste macedoni avevano fatto uscire nel IV secolo dagli angusti confini delle poleis, diffondendola in tutto il bacino del Mediterraneo: dal disfacimento dell’impero di Alessandro Magno nacquero grandi e piccole monarchie, governate dai diadochi macedoni e dai loro discendenti. L’incontro fra la civiltà greco-macedone e le antiche civiltà orientali, di cui la Persia, la Siria e l’Egitto erano depositari, diede luogo ad una koiné culturale dominata dalla lingua greca, portatrice di un modo di vivere urbano e cosmopolita. Cultura ed istruzione, organizzazione dei servizi e dell’amministrazione del regno (basileia), sviluppo del diritto privato e dei commerci, progresso delle discipline scientifiche (geografia, medicina, scienze naturali, fisica, meccanica) ed umanistiche (filologia, storiografia, letteratura, arti) produssero la diffusione di ideali filosofici ecumenici e filantropici, propugnati dallo stoicismo e dall’epicureismo e profondamente radicati in tutto il mondo ellenistico, ma singolarmente contrastanti con le sue lacerazioni politiche, che lo travaglierono con guerre sanguinose ed estenuanti fra i diadochi sino all’imposizione della pax Romana. Dopo la conquista della Sicilia alla fine della prima guerra punica (241 a.C.) e la cessione della Sardegna (238 a.C.), cui fu costretta Cartagine, ed infine l’acquisizione della Corsica, Roma si trovò, alla fine del III secolo, ad avere consolidato la sua egemonia sull’Italia fino a Reggio: Annibale non era riuscito a spezzare i legami di solidarietà e la coesione della confederazione romana. Fu così che, nel corso del II secolo, proseguì la conquista di territori oltremare, ormai certamente promossa dal ceto di commercianti (mercatores), speculatori e finanzieri (publicani) dell’ordine equestre, dalla sete di ricchezze del senato e dall’affermarsi della mentalità imperialistica nel populus Romanus.

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Nell’Ottocento il tedesco J.G. Droysen avrebbe frainteso il termine hellenistai, usato negli Atti degli Apostoli VI .1 per indicare i gentili, cioè i pagani, convertitisi al cristianesimo senza circoncisione: esso sarebbe così invalso nell’uso. Tuttavia il filologo Luciano Canfora non ha trovato nulla nella bibliografia di Droysen che legittimi questa consolidata convinzione.

La crisi della respublica

Nel 197 si ultimò la conquista dell’Hispania Citerior e della Ulterior e nel 148 il regno di Macedonia. Quest’ultimo, sotto Alessandro Magno (333-323 a.C.), soggiogata la Grecia, aveva dato vita ad un effimero impero universale con la conquista della Persia e delle sue satrapie fino all’Afghanistan e all’India: ora era conquistato e ridotto a provincia di un altro impero, quello romano, che all’ecumenismo alessandrino finì con l’ispirarsi e con il considerarsene erede. Nel 146 a.C., distrutta Cartagine, veniva costituita la provincia dell’Africa, coincidente con il territorio della città punica. Nel 133 veniva acquisita pacificamente, per lascito ereditario, l’Asia (oggi Turchia) governata dagli Attalidi, quindi la confinante Cilicia, Creta costituita in provincia insieme alla Cirenaica (Libia), lontana ma facilmente raggiungibile dall’isola attraverso il mare, quindi, fra il II e il I secolo, Bitinia, Siria, Gallia Cisalpina, Gallia Narbonense, fino alle conquiste cesariane del resto delle Gallie (Francia), dell’Elvezia (Svizzera) e di piccola parte della Britannia e della Germania. L’istituzione di tante provincie, e in un crescendo quasi parossistico, determinò un enorme afflusso di ricchezze, la cui distribuzione, come già si è visto, fu tutt’altro che equa all’interno della società romana. Ma soprattutto non lo fu anche nei confronti degli alleati (socii o foederati) latini e italici, che costituivano ormai una buona metà dell’esercito. Armati come i Romani e militarmente organizzati come ausiliari, ma di fatto del tutto integrati nelle tattiche e nelle strategie, dotati di istituzioni e culti analoghi, sia i Latini che gli Italici parlavano la stessa lingua di Roma, i primi come lingua madre, i secondi come acquisizione di una lingua consorella. Tuttavia costoro restavano esclusi, non meno degli stessi plebei romani, dai maggiori vantaggi delle conquiste e dell’impero, che con il loro sangue andavano costituendo ed ampliando. Inoltre il contatto con la civiltà ellenistica aveva fatto sì che Italici, Romani stessi e Latini fossero letteralmente preda di un’attrazione perfino smodata verso il modello di vita urbano dei Greci, che si traduceva non solo nella cupidigia di ricchezze e nella dotazione delle loro città di strutture e di abitazioni, che consentissero quello stile esistenziale, ma anche nell’acquisizione della cultura filosofica, letteraria ed artistica del mondo greco, nell’apprendimento e nella diffusione della sua lingua. Unitamente ad altri fattori, ciò innescò una profonda trasformazione sociale. Entrando in contatto con questo mondo, prima attraverso i commerci e poi anche con conquiste militari o eredità di interi regni (Pergamo, Cirenaica), Roma mutò gradualmente, ma in modo profondo e irreversibile, i modelli di vita e di cultura, le idee, la struttura sociale e familiare, la stessa lingua di una civitas agreste, patriarcale e frugale, sino ad allora sostanzialmente improntata all’austerità della vita contadina. Sotto il profilo della politica estera, ne sortì un accentuato imperialismo avido di conquiste e di ricchezze, ma aperto all’assimilazione dei valori della ben più evoluta civiltà assoggettata. Sotto il profilo dell’evoluzione sociale e della politica interna, i fondamenti etici e costituzionali della respublicaromana entrarono in crisi e furono infine scardinati, sino alla formazione di un nuovo sistema di governo, quello autocratico del principato. Ne uscì fortemente trasformato anche il diritto privato, ma in questo caso a séguito di una elaborazione giurisprudenziale e all’opera innovatrice dei magistrati, entrambe del tutto originali – anche se ricettive di alcuni istituti dei diritti ellenistici – ed endogene quanto a creatività, in cui il populus Romanus seppe manifestare l’ancor oggi insuperata genialità dell’interpretatio iuris.

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IV.2. La trasformazione della società romana. Si è visto che la più importante assemblea popolare, il comizio centuriato, nacque in età arcaica dalla riunione dell’esercito in concione. L’esercito romano era originariamente un esercito cittadino di estrazione contadina: l’agricoltore, coadiuvato dai figli ed al più da qualche schiavo, abbandonava temporaneamente il fondo e la famiglia per la durata stagionale della guerra. Una guerra che in età arcaica era abitualmente interrotta dai contendenti nel periodo del raccolto. La struttura degli eserciti latini e italici alleati di Roma non faceva eccezione. Il contadino-soldato si recava nell’Urbs alle scadenze elettorali o in occasione dell’approvazione delle leggi per esercitare liberamente il diritto di voto. Nei comitia centuriata e tributa o nei concilia plebis tributa eleggeva i magistrati e si dimostrava più o meno ossequiente alle direttive del senato. I contrasti di interesse fra nobilitas e plebs sembravano sanati con la compartecipazione al potere di quest’ultima e ne era anzi nata quella che gli storici chiamano nobilitas patrizio-plebea. La funzione rivoluzionaria dei tribuni era stata insensibilmente devitalizzata con la loro artata cooptazione nell’ordo senatorius. Ma il prolungarsi delle guerre, dapprima nella penisola e poi oltremare, pose in crisi il rapporto fra il contadino-soldato, la sua terra e la civitas. La ferma sempre più lunga, comportando l’abbandono del campo, distruggeva le parche ricchezze dell’economia agricola, ma spezzava anche la continuità e la periodicità del rapporto con le istituzioni cittadine. Esse apparivano al reduce, ormai veteranus, più estranee di quanto non fosse invece la relazione, che in lunghi anni di milizia s’era venuta a creare con il proprio comandante. Verso di lui, la condivisione dei pericoli di vita e di morte e la convivenza lontano dalla patria determinavano vincoli di fedeltà e di solidarietà ben più forti di quelli esistenti con la civitas. Cosicché finiva con l’essere ceduta la tradizionale fonte di sostentamento della famiglia contadina: quel piccolo campo coltivato trasmesso ereditariamente di generazione in generazione come inalienabile, il fundus avitus et patritus (il fondo degli avi e dei genitori). Ma se anche la famiglia non l’avesse venduto durante la lunga leva (legio) del miles, come accadeva il più delle volte, per sopravvivere, al ritorno di questi le possibilità di vita che l’agricoltura poteva offrire non soddisfacevano più, comunque, chi aveva ammirato o assaporato l’esistenza urbana ed il modus vivendi delle città ellenistiche o orientali. Un modello di vita urbano che il reduce vedeva ora riproposto negli agi e nei piaceri, che le ricchezze provinciali consentivano all’aristocrazia romana, ma dal quale il soldato restava il più delle volte escluso. In verità non tutta la nobilitas si adeguava ai nuovi costumi. Esisteva anche una fazione conservatrice, che praticava l’austerità dei mores maiorum e ne teorizzava la superiorità sulla filosofia greca e sulle sue concezioni della vita. Tuttavia questi conservatori, che trovarono il proprio modello in Catone il Censore e poi nel suo pronipote Catone l’Uticense, raccoglievano consensi sempre più ridotti e soprattutto sempre più teorici e nell’ultimo secolo della repubblica venivano, nel loro stesso partito, additati piuttosto retoricamente ad esempio che imitati. Ma il loro potere politico era ancora grande e poteva crescere in particolari situazioni per ragioni contingenti. I processi che subirono gli Scipioni, grandi generali e conquistatori, sono il sintomo di questo contrasto all’interno del-

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l’aristocrazia senatoria. Nel loro «circolo» gentilizio la Media Stoà di Panezio e la concezione della storia pragmatica di Polibio avevano portato il vento innovatore della filosofia e della storiografia greche: agli Scipioni non era sfuggito come l’una e l’altra potessero ben prestarsi al disegno imperialistico di Roma, giustificandone e mitigandone il potere e convincendo i provinciali ed i socii italici e latini della superiorità del sistema costituzionale romano, della fatale e “provvidenziale” ineluttabilità, ma anche della convenienza della sua accettazione. Gli Scipioni, tuttavia, non vollero o non poterono avvalersi del loro grande ascendente sulle truppe che avevano comandato per imporsi a quella respublica, che essi avevano servito come generali, portandola alla potenza attuale, e le cui ricchezze si concentravano ora nelle mani dell’uterque ordo, l’aristocrazia senatoria e l’emergente ceto equestre. Si è visto come la vendita dei fondi rustici da parte dei plebei avesse favorito la formazione di grandi latifondi terrieri di proprietà di poche famiglie senatorie. Queste inoltre avevano acquistato il possesso di grandi estensioni di ager publicus populi Romani, che in Italia e poi nelle provincie era stato costituito confiscando ampie porzioni del territorio nemico. Il vectigal pressoché simbolico che i possessores senatorii pagavano – quando lo pagavano – per l’ager publicus, nulla toglieva al fatto che esso fosse divenuto in realtà del tutto privatus. L’afflusso di un gran numero di prigionieri dalle continue conquiste e il rifornimento dai mercati orientali rendevano conveniente la coltivazione servile del latifondo, o la sua destinazione a pascolo tramite schiavi. Con ciò la plebe rimasta priva di terre non poteva essere assorbita in nuovi lavori salariati. I più intraprendenti fra i plebei, che potessero ricorrere ad un capitale iniziale d’investimento, si dedicarono, insieme ai Latini e agli Italici, ai commerci, interdetti dai mores e poi anche dalla lex alla nobilitas senatoria: formarono così, dalla metà del II secolo a.C., il nuovo ordo equester, intermedio economicamente fra il proletariato plebeo ricco solo di figli e l’aristocrazia, ma destinato ad un sempre crescente ruolo politico. La massa della plebe, invece, abbandonando i campi, finì con l’inurbarsi, vivendo a Roma delle frumentationes pubbliche gratuite – distribuzioni di grano e alimenti – e della vendita del proprio voto, sempre più richiesto nell’approvazione delle leggi come nella competizione elettorale per le cariche pubbliche. Si costituirono in tal modo turbe di clientes mantenuti bene o male dalla nobilitas, che li usava come massa di manovra politica. L’etica della respublica romana veniva così ad essere gravemente compromessa dal formarsi di quelle grandi masse di clientes, che l’aristocrazia usava, ma che doveva anche mantenere, sino a dipendere dai loro umori, per evitare disordini e turbolenze sociali nella stessa Urbs, dov’era il centro del potere.

IV.3. La politica graccana (133-122 a.C.). IV.3.1. Le tre questioni: riforma agraria, corruzione nel governo delle provincie, estensione della cittadinanza. Tiberio Sempronio Gracco e suo fratello Gaio, tribuni plebis rispettivamente nel 133 e nel 123-2 a.C., furono gli interpreti del disagio e delle tensioni sociali che, nel periodo dell’espansione dell’impero, percorrevano la respublica romana non solo al suo interno, ma anche nel rapporto con gli alleati latini ed italici.

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Tiberio cercò innanzitutto di ripristinare l’osservanza di un’antica norma agraria, che si attribuiva alle ricordate leges Liciniae Sextiae del 367 a.C., per la quale non era consentita una possessio (possesso per affitto) dell’ager publicus populi Romani – suolo di proprietà (dominium da cui “demanio” dello Stato) – superiore ai 500 iugeri. Benché la rogatio tiberiana elevasse tale quota a 750 iugeri per chi avesse un figlio o a 1000 per chi ne avesse più d’uno, il recupero delle eccedenze avrebbe compromesso la grande ricchezza latifondistica che l’ordo senatorius aveva accumulato da generazioni. Chi aveva ereditato la possessio dell’ager publicus dal padre, che l’aveva avuto in concessione, era portato a ritenersene proprietario a tutti gli effetti (dominus). Tanto più che la respublica senatoria, poco attenta agli interessi collettivi quando si trattava di privilegi illegali del ceto dirigente – non meno di quanto ancor oggi accada – di fatto dai concessionari del suolo demaniale non esigeva nemmeno il pur esiguo canone di fitto dovuto, il vectigal. Il progetto di legge graccano prevedeva inoltre che una commissione straordinaria di tresviri agris dandis adsignandis ioudicandis avrebbe distribuito ai plebei le terre recuperate, costituendole in lotti inalienabili, al fine di evitarne la vendita ai precedenti possessores o a chiunque altro. La nobilitas senatoria reagì facendo opporre a Tiberio l’intercessio del compiacente e corrotto tribuno Gaio Ottavio. Ma Tiberio riuscì a farne votare l’abrogatio della carica dai concilia plebis, che quindi, deposto Ottavio, approvarono senz’altro la legge agraria. Tiberio fu allora accusato di avere con l’abrogatio compiuto un atto formalmente incostituzionale, poiché solo dopo la naturale scadenza del mandato si era legittimati a chiedere conto al magistrato del suo operato. Ma si volle anche che ancora più incostituzionale fosse l’iterazione del tribunato, cui Tiberio si candidò per l’anno successivo, ben consapevole che, una volta deposta la sua carica, l’applicazione della legge agraria sarebbe stata sabotata. Il senato giustificò così, con l’accusa di aspirazione alla tirannide (adfectatio regni) il linciaggio di Tiberio nella stessa curia senatus. La promulgazione di un senatusconsultum ultimum nel 132, provocato dal console P. Popilio Lenate, consentì infine di eliminare i seguaci del tribuno, che furono condannati a morte da tribunali appositamente istituiti, i quali negarono loro quel diritto di provocatio ad populum, costituzionalmente garantito ab immemorabili – secondo la tradizione dallo stesso Valerio Publicola – ai cives Romani. Esattamente dieci anni dopo Tiberio, il fratello minore Gaio, raggiunta l’età per candidarsi, nonostante tutti i tentativi del senato di ostacolarlo, fu anch’egli eletto tribuno: vi concorse una folla di plebei affluiti a Roma per l’occasione, segno della disapprovazione popolare non solo per l’assassinio di Tiberio e dei suoi ma anche per tutta la politica senatoria dell’ultimo decennio. Il programma di lotta di Gaio fu certamente più maturo e più articolato, oltreché tatticamente più studiato, di quello del fratello, ma l’esito non fu infine più fortunato. Gaio cercò di stroncare radicalmente lo strapotere che l’aristocrazia senatoria aveva acquistato. Egli propose una legge per l’applicazione e la realizzazione definitiva della riforma agraria tiberiana, che, pur non abrogata, era rimasta sostanzialmente inapplicata. Un’altra legge provvide inoltre a decongestionare l’inurbamento della plebe mediante la fondazione di colonie romane e latine sia in suolo

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italico sia oltremare (deductio coloniarum). Un’altra legge ancora sottrasse alla competenza del senato l’appalto nell’esazione delle imposte della provincia d’Asia, conferendola ai concilia plebis tributa. Questo provvedimento colpì il ruolo del senato stesso nell’articolato sistema della corruzione. Infatti le imposte della più ricca delle provincie di recente acquisizione costituivano il maggiore interesse di quelle società di appaltatori (societates publicanorum) di rango equestre cui il senato affidava la riscossione. Mutando l’organo deputato ad assegnare l’affidamento dell’appalto delle imposte, e tributando al nuovo ordo equester riconoscimento censitario e politico, Gaio ne faceva un alleato della plebe. Era dal sistema di esazione dei tributi provinciali che si generava la corruzione all’interno dello Stato romano e il malcontento delle provincie. La respublica non disponeva di una struttura statale deputata al pagamento delle imposte, e le appaltava ai privati in cambio di una percentuale. Costoro anticipavano all’erario romano perfino il gettito fiscale previsto da un’intera provincia, rivalendosi poi sui debitori provinciali con gli interessi, e perfino, illegalmente, con gli interessi sugli interessi (anatocismo). L’escussione dei provinciali insolventi poteva essere più o meno legale, sempre iniqua e feroce, e si arrivava alla confisca dei beni pubblici delle città provinciali anche con l’uso della cavalleria privata dei publicani. Il provvedimento di Caio Gracco, dunque, non era solo inteso ad accrescere il potere politico della plebe a detrimento dello strapotere del senato, ma anche a costituire almeno un presupposto per porre rimedio ad un fattore strutturale di corruzione e d’insofferenza del sistema imperiale. Va detto però che il ruolo degli equites dediti alle usurae non era di per sé né abolito né intaccato nel disegno legislativo graccano, proprio perché Gaio aveva precisa consapevolezza della necessità di una coalizione politica fra equestri e plebe per far fronte allo strapotere del senato. Infine una legge ribadiva il diritto di provocatio ad populum anche nei casi in cui la condanna per attentato alla summa salus reipublicae fosse stata sancita da un senatusconsultum ultimum, con ciò stigmatizzando l’illegalità della esecuzione capitale dei seguaci di Tiberio Gracco nel 132. L’approvazione di questa legge portò all’esilio del console del 133 Publio Popilio Lenate, esponente di spicco dell’ala più reazionaria del senato, coinvolto nell’omicidio dei graccani. L’ultimo provvedimento di tale organico quadro di riforma politica fu affidato ad un collega di Gaio, che fece approvare quella lex Acilia repetundarum, che da lui (Acilius) prende nome, con la quale si affidava agli equites, sottraendola ai senatori, la composizione delle giurie incaricate di giudicare i casi, sempre più frequenti, di concussione e corruzione dei promagistrati provinciali. Inoltre si escludevano dalla composizione delle liste dei giudici quanti avessero subito condanne inerenti a determinati reati. Tale provvedimento colpiva direttamente il ceto senatorio: questo, infatti, usava rifarsi illegalmente, a spese dei provinciali, della destinazione a pubblica utilità di una parte del proprio patrimonio, che i magistrati eletti impiegavano nelle frumentationes, nella offerta di giochi gladiatori o circensi, nella costruzione di templi, fori, terme, acquedotti e strade. Naturalmente capitava che i provinciali vessati chiedessero giustizia per la restituzione del maltolto, ma la composizione delle giurie dei tribunali criminali

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(quaestiones) aveva, per lo più, garantito fino ad allora l’impunità agli imputati appartenenti all’ordo senatorius. Infine una legge di Gaio sanciva la possibilità di iterare immediatamente il tribunato, in deroga all’intervallum, che però, in realtà, era previsto legislativamente non per le magistrature plebee, ma per quelle curuli cum imperio. A conclusione di un anno così intenso, Gaio, forte dei successi, potè farsi eleggere tribuno per la seconda volta nel 122 a.C. La sua lungimiranza politica fu allora causa della sua rovina: propose infatti la concessione della piena cittadinanza romana (civitas optimo iure) ai Latini e di quella latina (civitas sine suffragio) agli Italici. Gaio pensava di soddisfare così le aspirazioni dei socii, che, pur costituendo ormai oltre la metà dell’esercito e condividendone gli oneri bellici, godevano solo in minima parte dei vantaggi dell’impero e restavano esclusi dalla pienezza dei diritti politici. L’ottusa difesa del privilegio di cittadinanza accomunò questa volta senatori, cavalieri e plebe, determinando nell’immediato la mancata rielezione di Gaio al tribunato per la terza volta e il suo successivo assassinio, e nel lungo periodo la guerra (bellum sociale) che i socii italici mossero a Roma circa un trentennio dopo, negli anni 90-88 a.C., per ottenere a pieno titolo quella civitas Romana che era stata loro proditoriamente negata.

IV.3.2. La valutazione politica dell’opera dei Gracchi nella storiografia antica e moderna. L’operato politico dei Gracchi ha diviso anzitutto la storiografia romana. Influenzata dalla visione senatoria, ben rappresentata da Cicerone, essa non si affrancò da un giudizio negativo neanche nei casi degli stessi storici, come Caio Sallustio Crispo, più vicini al partito dei populares. Pure un greco come Dionigi d’Alicarnasso (II 11.3) addossa ai Gracchi la responsabilità di avere infranto la concordia ordinum, l’armonia sociale, che costituiva lo strumentale fondamento della concezione paternalistica della oligarchia senatoria. Ai Gracchi fu rimproverato di aver voluto sovvertire sia l’assetto sociale, sia l’ordinamento costituzionale. Essi furono dipinti come pericolosi rivoluzionari e non si mancò di accusarli di aspirare segretamente al regnum, cioè alla tirannide. Fa eccezione Plutarco (Tib. 9.3), che riflette invece l’opinione dei populares quando afferma che i ricchi e i proprietari terrieri avversavano Tiberio per l’ira e per l’odio prodotti dalla loro avidità e che cercavano di far credere al popolo che la redistribuzione delle terre mirasse a sovvertire la repubblica e ad attuare la rivoluzione totale. Appiano (Bell. civ. I 39), pur non ignorando le ragioni della riforma agraria, dà voce ai possessores dell’ager publicus, che lamentavano di avervi sepolto i propri avi e di aver contratto debiti per migliorare la terra e Floro considera quella graccana una seditio rivoluzionaria e la deposizione di Caio Ottavio, approvata in realtà dai comizi in quel momento convocati (abrogatio magistratus), una rinuncia (abdicatio) ottenuta con la minaccia di morte in violazione del principio legale di collegialità del tribunato (contra

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fas collegii) 2, un’azione nefanda, nella misura in cui costituiva una violazione del fas, la legalità sancita dalla santità dei mores maiorum e dalla tradizione. La critica storica moderna, lontana ormai dalle passioni politiche di parte, ha certo tenuto in conto le ragioni dei Gracchi. Ciò nonostante, la storiografia di estrazione liberale e quella marxista sono state in qualche modo condizionate da una visione ideologica del problema, rispettivamente formalistica e idealistica la prima, utopistica e “socialista” la seconda. La storiografia di orientamento liberale ha insistito sulle violazioni formali della tradizione e dell’ordinamento costituzionale romano, sull’orma in fondo della storiografia antica di orientamento senatorio e oligarchico. Così facendo, non ha colto i termini reali del problema storico, dal momento che l’appropriazione indebita dell’ager publicus aveva raggiunto tali proporzioni da non essere più né un problema circoscritto al diritto privato, né una mera violazione della lex publica. Noi che siamo in possesso del concetto di costituzione materiale, ci accorgiamo che la possessio dell’ager publicus era ormai, oltre che un abuso e un’ingiustizia sociale, un vero e proprio problema di natura costituzionale, stante il fatto che l’ordinamento della civitas romana si fondava sull’equilibrio politico e sul contemperamento degli interessi fra nobilitas senatoria, ordo equester e plebs (concordia ordinum). Ad un ceto dirigente, quello senatorio, che per intero aveva fatto della violazione della legge e della grassazione la propria prassi di governo, non può riconoscersi il legittimo uso di argomenti legali o costituzionali. Esso, in un’ottica di giudizio storiografico, era del tutto delegittimato ad ergersi giudice dell’operato dei Gracchi, avendo violato nella forma come nella sostanza i princípi di legalità della civitas. Quanto all’accusa di “violazione costituzionale” per iterazione del mandato tribunizio, non sembra che questa fosse espressamente vietata nel II secolo: c’era sì una consuetudine, che riguardava genericamente tutto il cursus honorum, e c’era stato perfino un plebiscito Genucio del 342 che stabiliva un intervallo decennale non solo per il consolato bensì forse per tutte le magistrature, ma il suo valore non era ritenuto affatto cogente. Infatti nel corso del III e del II secolo a.C. si era ritenuto necessario approvare leggi comiziali che stabilissero un intervallum fra le magistrature per vietare l’iterazione del consolato subsequenti anno, ma quegli stessi comizi centuriati che avevano approvato le leggi di divieto, avevano ritenuto di potervi derogare eleggendo ripetutamente gli stessi consoli ad iterare la carica l’anno successivo, financo tre volte consecutivamente, quando l’avevano ritenuto opportuno in circostanze eccezionali 3. 2 Flor., Ep. II 3.14: Sed ubi intercedentem legibus suis C. Octavium videt Gracchus, contra fas collegii, ius potestatis, iniecta manu depulit rostris, adeoque praesenti metu mortis exterruit, ut abdicare se magistratu cogeretur. 3 Fra il 320 e il 290 a.C., nel corso delle guerre sannitiche, furono operate diverse eccezioni in favore di consoli di provata esperienza militare. Parimenti avvenne fra il 270 e il 280, nel corso della guerra pirrica, e poi ancora fra il 214 e il 203 a.C. per far fronte ai drammatici eventi della guerra annibalica. Altre eccezioni furono determinate sempre da cause belliche anche dopo la morte dei Grac-

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Il che dimostra chiaramente che nella mentalità dell’epoca ad una legge elettorale poteva derogarsi allorché lo stesso organo assembleare che l’aveva approvata elegesse un candidato in violazione della legge stessa. Ciò dimostra: 1) che la consuetudine non era di per sé cogente, tanto da ritenersi necessario che l’intervallum fosse sancito per il consolato da una lex comiziale; 2) che il tribunato non rientrava affatto nei divieti d’iterazione previsti subsequenti anno, perché il fatto che la legge comiziale avesse contemplato solo il consolato dimostra senza dubbio che non s’era inteso estendere la disciplina alle altre magistrature; 3) che se anche un plebiscitum fosse esistito per evitare l’iterazione immediata del tribunato, si sarebbe potuto senz’altro derogare implicitamente e legalmente con la susseguente rielezione del tribuno da parte di quella stessa assemblea che avesse precedentemente approvato il plebiscito. Lo stesso vale per l’accusa a Tiberio Sempronio Gracco d’aver fatto deporre dai concilia plebis tributa il tribuno Ottavio: infatti era sì previsto che si potesse processare il magistrato solo alla scadenza del mandato, ma Ottavio non fu processato di fronte a una quaestio; gli fu ritirata – per così dire – la fiducia dallo stesso organo assembleare che l’aveva da poco eletto, e ciò per aver tradìto la fides, il rapporto fiduciario per il quale era stato votato al fine di tutelare gli interessi della plebe. In una costituzione esistente nella prassi e nelle istituzioni, non in una Carta, la consultazione del corpo elettorale depositario della sovranità popolare non poteva costituire certamente un crimine. L’opinione, invece, della storiografia marxista, che ravvisa il fallimento del progetto graccano nel non aver contemplato il coinvolgimento del ceto servile e l’abrogazione della schiavitù, appare addirittura antistorica. Gaio Gracco si alienò le simpatie della plebe per molto meno, cioè per aver proposto l’estensione della cittadinanza. L’abrogazione della schiavitù era idea talmente non dico lontana, ma inesistente nel mondo antico, che essa non fu concepita neanche dagli schiavi stessi, che a più riprese tentarono di ribellarsi, e che mirarono o semplicemente a fuggire, o a capovolgere il rapporto divenendo essi stessi padroni. Anche il cristianesimo, che pure predicava l’amore fraterno almeno fra cristiani, promosse un comportamento umano verso gli schiavi correligionari (non verso i pagani, gli eretici e i Giudei), ma praticò e legittimò la schiavitù come istituzione, sancendo, fin dallo stesso san Paolo, il dovere non solo “morale” ma anche legale del lavoro e dell’obbedienza al padrone 4. Il fatto è che la struttura economica del mondo antico non poteva in alcun modo affrancarsi dal sistema di sfruttamento del lavoro servile e mantenere nel contempo convenienza e competitività produttive. Sembra veramente strano che una simile considerazione, e il suo potere condizionante sulla stessa forma mentis dell’uomo chi, fino ai sette consolati di Caio Mario dal 107 all’86 a.C., nei frangenti sia dell’invasione dei Cimbri e dei Teutoni ch’egli fermò ad Aquae Sextiae (Aix en Provence), sia della guerra civile contro Silla. 4 1700 anni dopo la Chiesa cattolica si sarebbe opposta all’abrogazione della schiavitù da parte del parlamento francese.

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antico, non siano stati presenti proprio alla storiografia marxista, che è stata in questo ispirata più da princípi illuministici, del tutto utopici ed anacronistici come parametri di giudizio delle società antiche, che dai princípi suoi propri del materialismo storico. Va ricordato che l’abolizione della schiavitù come istituzione legale risale solo alla Rivoluzione francese, e naturalmente riguardò solo la Repubblica francese e i suoi territori coloniali. Fu più tardi praticata dalla marina britannica una caccia spietata ai negrieri che portavano gli schiavi dall’Africa alle Americhe, e infine la Guerra di Secessione, con la vittoria del Nord contro il Sud schiavista, portò alla scomparsa dell’istituzione anche negli U.S.A. Ma a monte di tale fenomeno sta la “rivoluzione industriale” iniziata alla fine del Settecento, che grazie alle macchine consentì di affrancarsi dal lavoro manuale, comprendendo altresì il maggiore rendimento del salariato libero. Parimenti l’emancipazione della donna in Occidente, nell’Otto e nel Novecento, è legata alla sua crescente partecipazione al sistema produttivo industriale, con la sostituzione della manodopera maschile impiegata nell’esercito durante i periodi bellici che travagliarono l’Europa e il Nord America. Tutto ciò è inimmaginabile potesse accadere nelle condizioni di produzione e di tecnologia del mondo antico.

La storiografia marxista è pervenuta ad un giudizio critico distorto dell’operato di Gaio Sempronio Gracco per non aver saputo rinunciare all’uso – in questo caso del tutto improprio – di un fondamento ideologico canonico della sua visione politica del mondo: la “lotta di classe” e la rivoluzione del proletariato, con la sua conseguente dittatura. La storiografia liberale, invece, è stata espressione di una concezione dello Stato formalmente neutrale e imparziale nel rapporto di lavoro fra detentori del capitale e prestatori d’opera: ma, sotto tali spoglie del formalismo giuridico-costituzionale, c’era la realtà di un parlamento costituito dai detentori di capitale, che legifarava a loro favore, facendone la pars leonina e relegando i prestatori d’opera in una posizione subalterna sostanzialmente priva di garanzie sociali e contrattuali. È perciò chiaro perché la mentalità della forma iuris – quella che Floro chiama fas – prevalga acriticamente nella storiografia liberale sulla valutazione politica sostanziale, ma prevalga perfino sul criterio di legalità in un ordinamento politico non parametrato su una Carta Costituzionale scritta. Quanto poi al preteso contenuto rivoluzionario del programma graccano, non v’è dubbio che esso vada ridimensionato. Tale programma è infatti da ritenere sì eversivo del consolidato assetto sociale dell’epoca, ma, come s’è visto, tale assetto era conseguenza d’un abuso politico e costituzionale, che concentrava nelle mani di una rapace oligarchia l’immensa ricchezza fondiaria dello Stato, conquistata da un esercito a prevalente composizione plebea. Ma è giusto lasciar la parola allo stesso Tiberio Sempronio Gracco: Plut., Tib. 9.4-6. «Le bestie selvatiche che popolano l’Italia hanno ciascuna una tana, un riparo dove rifugiarsi, mentre voi che per l’Italia combattete e morite non avete nient’altro che aria e luce del giorno: andate in giro come vagabondi con i vostri figli e le vostre mogli, senza una casa dove stare. Vi mentono, quando fate i soldati, i generali che, nell’occasione della battaglia, vi esortano a combattere i

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nemici per difendere le tombe e i templi, perché, fra tanti Romani che siete, nessuno di voi ha un altare domestico né un sepolcro degli avi, ma combattete fino alla morte per il lusso e per la ricchezza degli altri. Siete chiamati padroni del mondo, ma non avete neanche una zolla di terra che v’appartenga».

L’oligarchia fondiaria, esprimendo uno degli organi supremi della costituzione repubblicana, il senato, lo aveva trasformato, sotto la specie del rispetto formale dell’ordinamento dello Stato, nel tutore dei privilegi illegali che s’era arrogata. Il programma agrario graccano era invece, sotto questo aspetto, del tutto restauratore, in quanto si prefiggeva di ristabilire il legame fra terra e plebs romana inurbata e di sanare così, con un ritorno all’antico nella nuova dimensione territoriale dell’impero, la corruzione che affliggeva la vita politica, ormai dominata dalla manovra delle turbae di clientes plebei. Se dovessimo giudicare tale programma sulla base delle tendenze sociali evidenziate dall’evoluzione storica successiva, esso andrebbe tacciato di utopismo. Va però detto che la deductio coloniarum in Italiam et in provincias, cioè la deduzione di colonie latine e romane in Italia e nelle provincie, risolse notevolmente non solo il problema dell’inurbamento della plebe, ma anche quello del controllo di territori di recente conquista e pertanto insicuri. Ma per altri aspetti le cose non funzionarono secondo le speranze. Anzitutto i coloni romani disseminati in Italia e oltremare restarono sostanzialmente esclusi, per ragioni di distanza, dall’elettorato passivo, cioè la facoltà di candidarsi alle magistrature, che poteva esercitarsi esclusivamente a Roma. Tale esclusione dall’elettorato a Roma si verificò in maniera proporzionale alla deduzione delle nuove coloniae graccane, e ancora più estesamente trent’anni dopo, con l’elargizione della cittadinanza romana sino a Reggio nell’89 a.C. L’utopia del programma graccano era comunque nella convinzione che la plebe fosse disposta a legarsi nuovamente alla terra. Essa aspirava invece a godere del benessere che derivava dall’impero. Il mantenimento gratuito e una vita oziosa erano in sostanza quello che essa desiderava, e che in definitiva successivamente ottenne in cambio della pace sociale, eufemisticamente chiamata concordia ordinum. Gli antichi valori vagheggiati dai Gracchi erano esemplificati dalla loro madre Cornelia, che esibiva come suoi gioielli non i preziosi ostentati dalle matrone romane, ma i suoi figli adolescenti: ma tali valori non sarebbero più tornati in auge nella plebe romana, che li aveva già sostituiti con l’edonismo più popolare, mutuato da una interpretazione volgare dell’epicureismo greco. Quella filosofia invero ascetica nella predicazione della misura nei piaceri e nell’esistenza, fu interpretata addirittura al contrario, come modello di una vita smodatamente dedita alle voluttà. Ma dai mores maiorum s’era comunque allontanata anche l’aristocrazia senatoria, che fece propri – spesso in una sintesi operata con sincretismo filosoficamente disinvolto ma non privo di buon senso pratico – i valori dell’epicureismo e dello stoicismo, con apporti anche da parte dell’Accademia platonica e del Peripato aristotelico. Diversamente va giudicato il programma di Gaio Gracco sull’estensione della cittadinanza. Esso dà la misura del grande acume politico del tribuno, che precorse i tempi di trent’anni, pagando con la vita quella preveggenza. Che per restaurare gli

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aviti costumi republicani i Gracchi si siano esposti all’accusa di essere rerum novarum cupidi, pericolosi innovatori della tradizione e della prassi costituzionale romana, dà in fondo la misura di quanto l’ordinamento repubblicano, nato per una civitas, fosse ormai degenerato: da un lato, per la trasformazione degli optimates, con l’attivo concorso criminale dei publicani di rango equestre e delle loro famigerate societates, in un ceto dedito alla spoliazione e alla rapina sistematica delle provincie, e dunque delle risorse dello Stato; dall’altro per la sua stessa struttura ormai inadeguata al governo di un immenso impero. La civiltà greca uscita dalle poleis s’era diffusa nel Mediterraneo, ma la democrazia non si era realizzata negli Stati ellenistici, retti da monarchie dinastiche (basileiai). Il mondo antico non riuscì a realizzare la democrazia oltre la dimensione cittadina. Roma non fece eccezione e la dilatazione abnorme della civitas, con strutture inadeguata a reggere il mondo globalizzato, preparò il principato. Certo i mezzi di comunicazione dell’epoca rendevano impossibile l’efficace esercizio a distanza del diritto di voto, e ciò costituì un ostacolo insormontabile. Il modello graccano non offriva, né avrebbe potuto offrire soluzione a questo problema, ma cercò di porre rimedio a ciascuno di quei fattori che, un secolo dopo, avrebbero determinato la fine del sistema di governo repubblicano e dell’egemonia senatoria.

Fig. 14. Ritratto di Silla dictator legibus scribundis et reipublicae constituendae. Fig. 15. Diritto e rovescio di una moneta coniata dagli Italici durante il bellum sociale. Sul diritto è raffigurata la testa della prima personificazione dell’Italia, mentre al rovescio otto guerrieri, rappresentanti dei popoli ribelli, prestano reciproco giuramento con i gladi sguainati rivolti in basso. Fig. 16. Denario del monetarius T(itus) Fubinus Calenus coniato durante il bellum sociale: vi è rappresentata la lupa di Roma schiacciata a terra dal toro sannita, che era il simbolo “nazionale” degli Italici, perché il nome “Italia” volevasi derivato da “Vitalia”, la mitica terra dei vitelli.

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L’AGONIA DELLA REPUBBLICA

IV.4. Da Silla a Cesare IV.4.1. Dal consolato straordinario di Mario alla dittatura di Silla sino al bellum civile. La concessione della civitas Romana ai socii. Il fenomeno d’inurbamento della plebe, che i Gracchi erano stati impediti di risolvere definitivamente, indusse un grande generale ed esponente di spicco dei populares, Gaio Mario, a partire dal 107 a.C., ad arruolare non solo i proprietari di fondi rustici, ormai numericamente insufficienti, come fino a quel momento s’era fatto col reclutamento su base censitaria, ma anche in crescente misura il proletariato urbano. Si venne così a formare un esercito professionale di soldati retribuiti dallo Stato, nel quale trovò lavoro, e occasione di arricchimento grazie ai bottini di guerra, una parte considerevole della plebe urbana. Il problema della sua occupazione e del suo sostentamento era così risolto per una via ben diversa da quella progettata dai Gracchi. L’esercito mariano poteva far fronte nell’Africa proconsolare (Tunisia) alla guerra di Giugurta e più tardi arrestare l’invasione delle popolose e bellicose tribù germaniche dei Cimbri ad Aquae Sextiae (Aix en Provence), quasi alle porte dell’Italia. In Africa Mario ottenne che i terreni migliori fossero assegnati viritim – individualmente – ai suoi veterani, conquistandosene cosi la gratitudine e ottenendone l’appoggio elettorale per iterare il consolato nei quattro anni consecutivi, dal 104 al 100 a.C.

Fig. 17. Denario di Giulio Cesare dictator perpetuus (febbraio-marzo 44 a.C.), rappresentato come Pontefice Massimo capite velato e con la corona di alloro di trionfatore. Il rovescio rappresenta Venus Genetrix, progenitrice della gens Iulia, con il seno sinistro scoperto more amazonico, reggente un alto scettro e con uno scudo ai piedi: con la destra regge una vittoria alata, che porge la corona di alloro che sta per cingere il capo di Cesare. La rappresentazione del ritratto di un vivente in una moneta fu una violazione della tradizione repubblicana e, poiché seguiva l’uso dei basileis ellenistici, espose Cesare all’accusa di aspirare al regnum. Fig. 18. Denario del Cesaricida M. Giunio Bruto con il suo ritratto sul diritto e, sul rovescio, il pileus libertatis fra due pugnali e la legenda EID MART (Eidibus Martiis) allusiva al giorno del Cesaricidio.

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Capo dei populares, Mario aveva comunque tentato invano, nell’orma di Gaio Sempronio Gracco e tramite il suo luogotenente Lucio Apuleio Saturnino, di estendere la cittadinanza romana ai Latini e agli Italici, dai quali il suo esercito aveva tratto notevoli forze, prima che questi si sollevassero contro Roma. Ciò infine accadde con il bellum sociale, la guerra che gli alleati (socii) italici, disillusi nelle loro speranze di avere riconosciuta la cittadinanza romana, scatenarono contro Roma stessa. Per porre fine alla guerra che rischiava di travolgerla, Roma concesse la cittadinanza, con la lex Iulia del 90 e la lex Plautia Papiria dell’89 a.C., agli Italici che avessero deposto le armi entro tre mesi e anche agli Italioti rimastile fedeli alleati. L’anno seguente, una lex Sulpicia di ispirazione mariana, che prendeva nome dal tribunus plebis proponente, distribuiva i novi cives fra tutte le tribù, vanificando il tentativo reazionario del senato di limitarne il peso elettorale concentrandoli in poche. Nel brevissimo periodo, compreso fra il 90 e, al più tardi, il 62 a.C., venne così concessa la civitas Romana alle poleis italiote federate e alle coloniae latine dell’Italia meridionale. Da parte degli alleati italioti l’utilità di rinunciare all’indipendenza “statale” per divenire municipia romani non era invece scontata: difatti a Napoli e ad Eraclea si verificarono tumulti popolari sull’opportunità di accettare la cittadinanza romana piuttosto che mantenere l’autonomia. Dobbiamo sospettare che l’oggetto del contendere non fosse tanto il conservare l’uso ufficiale della lingua greca e la rinuncia alle proprie istituzioni politiche, quanto la perdita dei privilegi fiscali e doganali dei porti, che costituivano “terminali” del commercio dell’Italia romana, quando ancora il porto di Ostia era del tutto insufficiente a convogliare l’afflusso di merci destinate all’Urbe. Per questa ragione furono concessi statuti municipali (leges datae) a poleis federate, come Napoli e Reggio, che preservarono l’uso della lingua, molto probabilmente i dazi doganali, e le titolature o alcune tradizioni delle magistrature italiote. Così l’eponimato a Napoli fu conservato al demarchos, anziché essere attribuito ai quattuorviri giusdicenti, e a Reggio si ebbero synprytáneis fino a che, attorno al I-II secolo d.C., fu introdotto l’ordinamento quattuorvirale “canonico”. Ma anche alcune città italiche si videro riconosciute le istituzioni locali. È una vexata quaestio se sia stata promulgata una legge di carattere generale, che statuisse uniformemente sulle costituzioni dei municipia appena istituiti, o se si sia provveduto caso per caso agli statuti municipali da dare ai populi qui fundi facti essent, cioè quei popoli che avessero accettato le condizioni per ottenere la cittadinanza romana in base alla lex Iulia. La quaestione va affrontata con metodo e in prospettiva “empirici”. Nel silenzio delle fonti storiche sull’argomento, l’esame di quei municipia, dei quali le leges epigrafiche o una serie di iscrizioni onorarie consentono di ricostruire i lineamenti statutari, dimostrano la varietà delle situazioni e dei trattamenti politici che Roma riservò alle città. Così il foedus aequissimum di Eraclea e la Tabula Heracleensis, la lex Cornelia citata in un’iscrizione di Petelia (oggi Strongoli), gli ordinamenti municipali di Napoli e di Reggio noti da iscrizioni locali, la lex Osca Tabulae Bantinae e infine la lex municipii Tarentini, la legge che dava a Taranto lo statuto municipale, costituiscono casi estremamente differenziati, che non sembrano compatibili con una rego-

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lamentazione generale uniforme degli statuti municipali. La coordinata esegesi dei documenti epigrafici relativi a queste sei civitates dell’Italia meridionale porta alla conclusione che all’uniformità del provvedimento politico di concessione della civitas ex lege Iulia nel 90 a.C. non fa riscontro una regolamentazione normativa univoca e generale delle costituzioni municipali da conferire Latinis et sociis. Ciascuna città ebbe invece una propria lex data, pervenuta ad esempio nel caso di Taranto, istitutiva del municipium, lex che tenne spesso conto dell’eredità istituzionale che si presentava nella fattispecie. Ne risultò una diversità di costituzioni ibride, greco-romane o anche osco-romane, che dimostra l’ormai consumata esperienza politica e istituzionale di Roma nel dare leges alle città ex-federate. Tuttavia se per i municipia non è ipotizzabile, allo stato delle conoscenze, un provvedimento normativo generale, lex o senatusconsultum, che ne statuisse una forma costituzionale tipo, alcuni errori della lex municipii Tarentini inducono piuttosto a sospettare l’esistenza di uno schema epigrafico uniforme, sul quale si venivano di volta in volta operando gli adattamenti del caso. L’amministrazione dei municipia dell’Italia romana. Una gran parte delle città che ebbero la cittadinanza romana non si dimostrò gelosa della propria eredità come lo erano state Napoli ed Eraclea o Reggio e si dotò subito dell’ordinamento duovirale o quattuorvirale “canonico” delle coloniae o dei municipia. Per quanto riguarda le coloniae, queste risalgono per lo più al II secolo a.C. ed erano rette per lo più da duoviri. I municipia retti da quattuorviri furono invece istituiti dopo il bellum sociale. L’esame della documentazione epigrafica delle città romane rette da duoviri o da quattuorviri consente di verificare l’imitazione del modello romano nelle funzioni dei senati locali e di seguire in dimensione cittadina la parabola storica della censura, che finisce con lo scomparire al volgere dell’età repubblicana. La trasmissione delle funzioni censorie ai magistrati cittadini quinquennales è constatabile nell’epigrafia dell’Italia romana. La censura si riscontra ancora nei primi decenni del I secolo a.C., ma dopo l’età sillana scompare anche in coloniae e municipia. Per amministrare l’aerarium, cassa e insieme tesoro dello Stato, il senato disponeva di schiavi specializzati soprattutto in occasione dei censimenti, strettamente collegati all’imposizione tributaria, ed a quanto pare tale utilizzazione dei servi senatus nei censimenti fu mantenuta anche nell’età del principato. Come a Roma le funzioni di espletamento del censimento furono trasferite ai consoli, così nei municipia e nelle coloniae passarono dai censores locali ai magistrati civici quinquennales, quelli cioè eletti ogni cinque anni. Fra i censimenti delle singole città dell’Italia, unificata nella civitas Romana dall’89 a.C., e quello di Roma non v’era né contemporaneità né necessariamente uniformità di criteri: il tentativo di Giulio Cesare di razionalizzare il sistema non sembra sia durato a lungo. A Roma, anzi, le operazioni finirono con il perdere la regolare periodicità, e la loro utilizzazione per reperire risorse durante le guerre civili le rese invise. Nei municipi, invece, si mantenne la cadenza quinquennale, ed i magistrati cittadini inviavano il loro rendiconto al senato di Roma. Tuttavia in età imperiale le città iniziarono spontaneamente a chiedere già ad

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Augusto la nomina di un praefectus dell’imperatore in occasione del censimento quinquennale. In tal modo il principe si ingeriva insensibilmente, e per spontanea iniziativa locale, nell’amministrazione senatoria dell’aerarium, poiché è a lui, piuttosto che al senato, che il prefetto quinquennale censoria potestate doveva come suo delegato render conto. Ma già da età augustea anche liberti imperiali furono addetti alle operazioni di censimento, e anzi l’espressione libertus a censibus per alcuni liberti Caesaris fa pensare che fossero stati resi liberi proprio per l’aver svolto bene tale compito da servi. In Italia il gettito tributario derivava dall’incasso di varie entrate. Ricordiamo la vicesima manumissionum, la tassa del 5% (1/20) sulla liberazione degli schiavi, gli affitti di terreni pubblici, fors’anche la vicesima hereditatium, il 5% d’imposta per le successioni mortis causa, almeno per la contabilità nel lustrum, disponendo questa entrata di un sistema autonomo di riscossione.

IV.4.2. La dittatura e la riforma costituzionale sillana. Lo stesso tribunus plebis mariano, che aveva distribuito in tutte le tribù i novi cives confluiti nella civitas Romana, non contento di aver colpito il progetto oligarchico di vanificare gli effetti della concessione di cittadinanza, fece approvare una seconda lex Sulpicia, che intimava a Lucio Cornelio Silla la consegna a Mario delle sue legioni, predestinate a combattere ai suoi ordini contro Mitridate, re del Ponto. Era questi riuscito a sollevare le provincie orientali e gli alleati sotto il tallone di Roma, invadendo anche l’Asia, dove aveva massacrato 80.000 mercatores e publicani italici e romani, grassatori dei provinciali, innalzando la bandiera della libertà dal giogo romano. Interrotti i preparativi per la spedizione mitridatica, Silla non esitò ad occupare l’Urbe stessa con le legioni, dando inizio alle proscrizioni degli avversari e restaurando il predominio dell’aristocrazia senatoria. Tuttavia, non appena egli fu partito con l’esercito per il Ponto, nell’87 a.C., i populares ripresero il potere con Cornelio Cinna e la capitale fu nuovamente insanguinata dalle vendette sino all’82, anno del ritorno di Silla. Questi si fece investire allora della dictatura legibus scribundis et reipublicae constituendae, magistratura eccezionale e illimitata senza precedenti nella storia costituzionale repubblicana. La riforma sillana svilì sostanzialmente il ruolo dei tribuni, dichiarando eleggibili al tribunato i soli senatori ma soprattutto ponendo una riserva costituzionale, che escludeva dal cursus honorum quelli che avessero ricoperto la carica, provvedimento che devitalizzava il tribunato stroncando qualsiasi prospettiva politica futura per chi l’avesse ricoperto. L’intercessio tribunizia, cardine della sua funzione politica, fu limitata alla tutela dei diritti del singolo civis, non della plebe in quanto collettività sociale. Inoltre vennero rigorosamente determinati gli intervalla fra le magistrature del cursus honorum, e in ispecie l’intervallo decennale per l’iterazione delle supreme magistrature, il consolato.

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Fu sancita infine la separazione fra i due imperia magistratuali, quello domi e quello militiae, nell’intento di aumentarne la controllabilità da parte del senato. L’imperium militiae fu così sottratto ai consoli e riservato solo ai promagistrati, inviati nelle provincie, dopo la scadenza dell’anno di carica, in base alla prorogatio imperii. Le quaestiones perpetuae – i tribunali incaricati di giudicare fra l’altro i crimina politici di ambitus e di pecuniae repetundae, cioè i brogli elettorali e le concussioni dei promagistrati provinciali – furono restituiti ai senatori, mentre ne vennero esclusi gli equites. Leggi suntuarie contro il lusso completarono la “restaurazione” sillana dell’antica respublica nell’ottica degli optimates. Ma in verità non è facile parlare di una “restaurazione” in senso proprio, dato che un simile assetto, quale configurato da Silla, non era mai esistito prima: si trattò piuttosto di una ristrutturazione funzionale dello Stato nell’ottica da un lato di garantire il predominio dell’oligarchia senatoria su equites e plebs, dall’altro – invece – di assicurare che nell’ambito dell’oligarchia non potesse emergere in futuro un nuovo Silla. A tal fine rispondeva egregiamente la regolamentazione del cursus honorum con un’equa distribuzione di intervalla e limiti alla iterabilità delle cariche. Conclusa così la sua opera, Silla depose la dittatura straordinaria, che si era fatto conferire nell’interesse dell’ordo senatorius. Poco dopo la sua morte avvaenuta nel 78 a.C., a partire dal 75 quasi tutte le sue riforme furono gradatamente smantellate in meno d’un decennio e il partito dei populares riconquistò le posizioni perdute. Le riforme che restarono furono utilizzate contro il progetto di restaurazione senatoria, per il quale erano state invece concepite dal dittatore. Nel 70, da Capua, dove più che altrove imperversava il barbaro gusto dei giochi gladiatori, divampò in tutta Italia la rivolta di Spartaco. La capacità dello schiavo trace ribellatosi allo sfruttamento schiavistico, su cui si era sempre fondata l’economia romana, ma che in quel momento acquistava connotazioni di massa e particolarmente brutali per la destinazione dei prigionieri di guerra ai latifondi e alle miniere, non bastò ad assicurare a lui ed ai suoi la salvezza. Tuttavia, prima d’esser sconfitti, com’era già accaduto alle rivolte servili in Sicilia nell’età di Gaio Gracco, gli schiavi impartirono una dura lezione agli eserciti consolari romani. Publio Licinio Crasso, il futuro triumviro, non si vide riconosciuti i meriti di una guerra senza gloria e ne fu defraudato da Pompeo Magno. Questi, accorse dalla Spagna, dove aveva fatto strage delle superstiti forze di Sertorio, fedeli a Mario, che avevano resistito a Silla e all’oligarchia senatoria. Piombando sugli Spartachisti spossati ma non distrutti da Crasso, Pompeo li liquidò, crocifiggendone migliaia e defraudando Crasso della vittoria. Silla aveva inoltre alle spalle anche la vittoria su Mitridate, che aveva colta quando il re del Ponto era stato sfinito ma non eliminato da Lucullo: cosicché Mitridate e Spartaco valsero a Pompeo la fama di opportunista e ladro di gloria, cosa in realtà vera solo nei due casi specifici.

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IV.4.3. Pompeo, Cesare e il primo triumvirato. Riforme istituzionali dell’imperium e lotta fra optimates e populares. Negli anni successivi alla morte del dittatore patrizio, divenne sempre più chiaro il problema di fondo nel governo dell’impero, cui Silla aveva cercato di porre rimedio – ma infine insufficientemente – regolando l’assegnazione delle provincie e le promagistrature: il problema strutturale consisteva infatti nella inadeguatezza del sistema repubblicano, basato sulla divisione e sulla circoscritta temporaneità dei poteri magistratuali, ad affrontare le necessità di mantenimento della pace, di programmazione, di corretta ed efficiente amministrazione nel lungo periodo in un impero dotato di un’economia globalizzata. Fu così che, nel 67 a.C., una molto dibattutta lex Gabinia de piratis persequendis conferì a Gneo Pompeo un imperium proconsulare esteso a tutto il Mediterraneo per estirpare la pirateria, che paralizzava i traffici commerciali marittimi. Si trattava di un imperium aequum con quello dei proconsoli, ma triennale, esteso a tutto il Mediterraneo – perciò infinitum, cioè senza confini – e nell’entroterra fino a 50 miglia, presumibile fascia di rifugio dei pirati, con amplissimi poteri finanziari e militari nel reclutamento delle legioni. L’imperium proconsulare di Pompeo assumeva dunque caratteristiche eccezionali 5, in deroga all’ordinamento sillano, in ragione delle sue necessità funzionali per combattere la pirateria. Ma si trattava comunque di una violazione dei principi oligarchici di egualitaria ripartizione del potere, che suscitò perfino tumulti in senato contro il proponente Gabinio. L’anno seguente si rese necessario prorogare tale imperium ed estenderlo eccezionalmente a tutte le provincie orientali, perché fosse dato all’area asiatica vessata e disorganizzata un adeguato riordinamento amministrativo e civile. Ancor più eccezionale fu poi l’imperium proconsulare lege Manilia de bello Mithridatico, conferito a Pompeo nel 66. Questo imperium era anche maius, cioè superiore a quello dei proconsoli, con cui Pompeo avrebbe potuto intrattenere rapporti operando nelle loro provincie, e vi aggiungeva le provincie governate da Licinio Lucullo, che non del tutto a torto – come ricorrdavo sopra – accusò Pompeo di strappargli la gloria della vittoria su Mitridate. Questa prova dimostrò che il governo generalmente annuo di un proconsole o di un propretore, di solito in una sola provincia, non risolveva i problemi organizzativi di una vasta area: la realtà dell’epoca non offriva alternative ad un governo centralizzato in grado di programmare nel lungo periodo. Nel 63, dopo un’incubazione di circa due o tre anni, maturò la congiura, sfociata in rivolta armata, di Lucio Sergio Catilina, nobile indebitato, che per due volte aveva aspirato invano al consolato, considerandolo – stando alle fonti a lui regolarmente avverse – quale base di una dittatura personale. In quell’anno rivestiva il consolato Cicerone, homo novus proveniente dal municipium di Arpino, che

5 Sembra che l’imperium lege Gabinia fosse stato perfino attribuito a Pompeo non in veste di proconsole, ma come privato cittadino. La cosa è però discussa.

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l’aristocrazia senatoria aveva tuttavia consentito entrasse nel suo club elitario, proprio perché le sue qualità, già dimostrate nel foro, facevano presagire potesse esporsi a fare il “lavoro sporco”, se non addirittura – come poi avvenne – “di macelleria”, nel liquidare la ribelle nobilitas – ma pur sempre nobilitas – degli scontenti catilinari. Cicerone infatti scoprì e fece giustiziare spietatamente i congiurati, con un procedimento di dubbia legittimità, perché non tenne conto del diritto di provocatio ad populum, che la legge di Gaio Gracco aveva ribadito anche in caso di senatusconsultum ultimum. La realizzazione delle aspirazioni di Catilina avrebbe comportato proscrizioni non inferiori a quelle di Mario, ma il suo programma politico non era quello che Cicerone volle far credere. Esso mirava ad una redistribuzione della ricchezza a favore dei ceti più poveri in Italia e fors’anche nelle provincie. Non essendo riuscito tuttavia a raggiungere il consolato, gli mancò quel comando dell’esercito, che aveva consentito a Mario e a Silla di fondare saldamente il loro potere, come di lì a poco accadde anche a Cesare. Egli cadde coraggiosamente a Pistoia con tutta la sua guardia del corpo, e fu trovato sul campo di battaglia attorniato dai cadaveri di tutti i suoi, che preferirono morire con le armi in pugno, come si addiceva ai Romani, anziché farsi strangolare nel Tullianum, il carcere dove Cicerone aveva eliminato Cetego, Statilio e Gabinio, i congiurati su cui era riuscito a metter le mani prima che lasciassero Roma per raggiungere Catilina. Invano Cesare, eletto pontefice massimo quell’anno, popularis benché nobile, e nascostamente simpatizzante dei Catilinari, aveva tentato di salvarli dalla pena capitale. Non era stata questa la prima apparizione di Cesare sulla scena politica: egli s’era distinto già per avere coraggiosamente resistito ancor giovanissimo, a rischio della vita, alle pressioni di Silla perché ripudiasse la moglie Cornelia, figlia di Cinna, il mariano che aveva tenuto Roma durante l’assenza di Silla stesso. Già allora erano emerse quella dignitas e quella forte personalità di Cesare, che avrebbero segnato il destino della tracotante respublica oligarchica. Ormai l’emergere di personalità carismatiche polarizzava sempre più l’attenzione politica e i favori dell’esercito e dell’elettorato. Il primo triumvirato fra Gneo Pompeo Magno, Gaio Giulio Cesare e Publio Licinio Crasso fu stipulato privatamente nel 60: fu il capolavoro politico di Cesare, che convinse Crasso a superare il suo sordo rancore contro Pompeo per averlo defraudato della vittoria su Spartaco. Inoltre l’alleanza fra Gneo Pompeo Magno e Caio Giulio Cesare fu subito suggellata dal matrimonio della figlia di questi, la giovanissima Giulia, con l’ormai anziano Pompeo: il matrimonio non fu solo politico, com’era abituale a Roma, ma coinvolse profondamente i due sposi, determinando di riflesso un forte legame fra suocero e genero, ad onta delle rispettive rivalità. Inoltre in quello stesso anno Cesare sposò Calpurnia, figlia del console ed alto esponente del partito pompeiano Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, epicureo come Cesare e patrono dello scolarca della secta filosofica di Epicuro a Roma: Filodemo di Gadara.

Il patto privato, di assai dubbia “costituzionalità”, fra i triumviri venne rinnovato, questa volta formalmente e pubblicamente, nel 56 a Lucca. Esso sanciva di fatto

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la prevalenza della volontà dei triumviri su quella degli organi costituzionali e assembleari della respublica. La spartizione delle provincie e il programmato sostegno elettorale ai propri candidati segnavano una vera esautorazione del senato in favore dei tre: furono stabiliti proconsolati di durata quinquennale anziché annuale per i triumviri, in aperto spregio per le regole costituzionali vigenti a seguito della riforma sillana del cursus honorum. Così Pompeo fu nominato nel 55 proconsole delle due Spagne, Citeriore e Ulteriore, a seguito degli accordi di Lucca del 56 e in forza di una lex Trebonia de provinciis consularibus, ma in cinque anni si guardò bene dal mettervi piede, inviandovi invece, con prassi innovativa e incostituzionale, tre suoi legati. Cesare stesso (De bello civili I, 16) ricorda come violazione dei princípi costituzionali che per senatoconsulto s’erano assegnate le provincie consolari e pretorie a privati, cioè a persone decadute dalle cariche da almeno un quinquennio, per di più escludendo per intrighi di parte (privato consilio) gli ex consoli L. Marcio Filippo (nel 56), e L. Aurelio Cotta, (nel 65). Ciò avveniva in realtà in base alla lex Pompeia de provinciis ordinandis del 52 e per la verità la dottrina moderna ha riconosciuto che quella lex Pompeia, con la previsione dell’intervallum almeno quinquennale, era stata concepita soprattutto al fine d’evitare che i promagistrati grassassero le provincie per rifarsi delle forti spese sostenute l’anno precedente per la pretura o per il consolato. Crasso non era un generale di vocazione e professione come Pompeo e Cesare, ma di estrazione equestre, ed era diventato ricchissimo con tutte le attività immaginabili prima di accedere alle più alte magistrature. Ma in una società come quella romana non avrebbe potuto eguagliare né competere con gli altri due triumviri senza guadagnare anche lui gloria militare. La vittoria sull’esercito di gladiatori ribelli, comandati da Spartaco, che ne aveva coagulato la disperazione, non poteva portare gloria militare a Crasso, benché Spartaco avesse sconfitto più d’un esercito consolare, trattandosi di un esercito di schiavi. Così nel 53 il triumviro si fece assegnare il comando della spedizione contro i Parti, stanziati ai confini dell’impero recentemente accresciuto da Pompeo con la conquista della confinante Siria, oltreché della Giudea. Ma a Crasso mancava la competenza e la tradizione militare propria dell’aristocrazia: la campagna partica da lui incoscientemente condotta lo portò al disastro ed all’annientamento del suo esercito: egli si suicidò con il figlio per non cadere in mano al nemico.

Dopo la sua morte, gli optimates ritennero di poter dividere i due triumviri superstiti e di trovare in Pompeo il tutore dei loro interessi, mentre i populares lo riconobbero in Cesare. Perfino Catone e Cicerone diedero l’assenso all’elezione di Pompeo consul sine collega nel 52, benché con ciò venisse meno il principio diarchico sul quale il consolato repubblicano si fondava. Fu poi promulgata una lex Pompeia de iure magistratuum, che regolava probabilmente le magistrature in generale, ma che certamente sanciva l’obbligo della presenza in Roma per potersi candidare, forse previsto già dal 63. Ma così essa finiva con l’annullare l’accordo di Lucca, sancito da un plebiscito proposto dai tribuni del 56, che avrebbe consenti-

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to a Cesare di candidarsi in Roma al consolato senza deporre l’imperium proconsulare sulle Gallie. Ora invece il senato pretendeva che Cesare lasciasse il proprio esercito prima di ricandidarsi al consolato, mettendosi in sostanza nelle mani di Pompeo. Fu questo che ne incrinò i rapporti, sino a quando, nel 49, una volta che la morte per parto di Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo, fece venir meno l’unico legame che i due non potessero rinnegare, esplose la rivalità per l’egemonia. Il senato doveva sentirsi sicuro che Cesare non avrebbe potuto invadere rapidamente l’Italia prima che Pompeo vi organizzasse la leva per fronteggiarlo, perché rifiutò la sua richiesta di candidarsi al consolato in absentia e gli intimò di lasciare le Gallie, nominando subito il proconsole che gli sarebbe dovuto succedere. Ma Cesare piombò sull’Italia con una sola legione il 10 gennaio del 49, attraversando le Alpi in pieno inverno a tappe forzate: il suo straordinario intuito tattico e strategico gli suggeriva convenisse agire fulmineamente con forze ridotte contro un nemico impreparato, piuttosto che attenersi alla preparazione tradizionale che il senato si aspettava da lui. Così attraversò con l’intera legione il Rubicone, il fiume al cui corso s’imponeva di deporre le armi, perché separava la provincia della Gallia Cisalpina dall’Italia (Pianura Padana), segnando idealmente il pomoerium di Roma. Cesare confidava non solo che gli Italici non gli avrebbero opposto resistenza, ma che ne avrebbero ingrossato le fila. Ciò che infatti avvenne: egli era interprete del loro malcontento, dopo che la concessione della cittadinanza romana nell’89 a.C. si era ridotta per loro ad una acquisizione formale, senza quella autentica condivisione della gestione politica di Roma, cui essi aspiravano. A Pompeo e al senato non restò che imbarcarsi precipitosamente a Brindisi con le proprie ridotte truppe e fuggire in Oriente. Pompeo vi ricostituì l’esercito e puntò sulla strategia del logoramento delle forze cesariane, ma il suo séguito senatorio, tacciandolo continuamente di codardia, lo indusse, per non dire costrinse, ad accettare il combattimento, dove Cesare riuscì a spiegare la sua superiore genialità tattica, sbaragliando i Pompeiani a Farsalo. Inseguendo Pompeo in fuga con pochissime e rapide truppe, Cesare era sbarcato ad Alessandria d’Egitto: lì s’era visto offrire la testa di Pompeo dal giovanissimo basileus-faraone Tolomeo, che pensava così d’ingraziarselo. Cesare ne rimase invece inorridito e colse l’occasione di liquidare Tolomeo appoggiandone la sorella-sposa Cleopatra, che si trovava in contesa dinastica con lui. Finiva così ad Alessandria Pompeo Magno, che del Grande ecista di quella città, Alexandros oh Megas, aveva assunto il cognomen, Pompeo conquistatore della Siria e della Giudea, vincitore di Mitridate e debellatore della pirateria mediterranea e dei gladiatori di Spartaco, il primo ad ottenere quei novi generis imperia, che avevano dato inizio alla dissoluzione della respublica sillana.

Pompeo segna in qualche modo e paradossalmente – lui che finì con l’essere rappresentato come il “campione” del senato – il punto di non ritorno della crisi della respublica, quella crisi da cui nacque l’autocrazia non di Cesare, ma dei Cesari. E che “campione” del senato fosse solo pro forma l’aveva lucidamente capito in medias res anche un contemporaneo quale Cicerone: egli scrive il 27 febbraio 49 (Ad Att. VIII 11.2) che quella fra Pompeo e Cesare non era una lotta fra libertas e tirannide, ma una regnandi contentio fra due despoti, dei quali riconosce che Cesare sarebbe stato il più umano, Pompeo un nuovo Silla. Retrospettivamente, invece,

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il giudizio storico più penetrante sotto l’aspetto della valutazione giuridico-formale della legalità repubblicana fu quello di Tacito (Ann. III 28), oltre un secolo e mezzo dopo: «Allora Gneo Pompeo, eletto console la terza volta per la riforma dei costumi, trovò rimedi più gravi di quanto non lo fossero i delitti e, sovvertite le leggi delle quali lui stesso era stato autore, con le armi perse quel che con le armi avrebbe voluto difendere».

IV.5. La dittatura cesariana. IV.5.1. Riforma dello Stato e programmi. Pompeo s’era illuso di trovare asilo in Egitto perché era stato lui a ristabilire sul trono il padre del sovrano regnante. Ma la corte tolemaica s’illuse a sua volta di poter riacquistare l’autonomia grazie alle contese fra i generali romani, fidando sulla scarsità delle forze con cui Cesare aveva raggiunto Alessandria. Ma egli trovò modo d’intervenire come arbitro nella contesa dinastica fra il giovanissimo Tolomeo e la sua sorella-sposa Cleopatra. Quando infine Tolomeo cercò di muovergli guerra, Cesare appoggiò la causa di Cleopatra e lo fece eliminare. Quindi ebbe dalla regina d’Egitto il suo unico figlio maschio, Tolomeo Cesarione, con un hieròs gamos, nozze sacre fra esseri divini, non valido per il diritto romano. Tuttavia in Oriente quelle sacre nozze ammantavano la sua vittoria del rapporto con una dea vivente, nella quale scorreva qualche goccia del sangue del divino Alessandro, venerato nella sua città nel sema o soma, il sepolcro che ne custodiva il corpo imbalsamato nel cuore dell’Alessandria da lui fondata e denominata. Ma il bellum civile proseguiva in Africa e Spagna ed ebbe fine solo con la sconfitta delle ultime forze pompeiane e il suicidio di Catone ad Utica, allora capitale dell’Africa proconsolare. Cesare non sterminò i concittadini vinti, com’era uso spietato da sempre nelle guerre civili, e come Mario, Cinna e Silla avevano fatto, ma con una humanitas che mirava a costruire una base di consenso alla sua dittatura, li risparmiò largamente, conservandoli spesso nel rango e nelle ricchezze. Commise così l’errore che gli si rivelò poi fatale.

A Roma, dal 2 al 12 dicembre del 49 a Cesare fu attribuita la prima dittatura, ancora nel solco repubblicano della natura legale di questa magistratura straordinaria, per indire le elezioni comiziali in luogo dei consoli. Ma l’anno seguente gli fu conferita, ben oltre il limite di sei mesi previsto dall’ordinamento repubblicano, la seconda dittatura rei gerendae causa, per di più contemporaneamente al consolato per decem annos, un altro “mostro costituzionale” per la concezione oligarchica della respublica. Nel 46 gli fu data la dittatura decennale e infine, nel febbraio 44, significativamente un mese prima del cesaricidio, quella perpetua con il congiunto titolo vitalizio di imperator. Plutarco (Caes. 57) tramanda quella che dovette essere l’opinione diffusa non solo nell’oligarchia senatoria sua nemica, ma anche nel suo stesso partito e nella plebe: il biografo osserva infatti che Cesare fu eletto dittatore a vita, e che la sua era ormai una palese tirannide, perché univa al potere sovrano della dittatura la prerogativa di non deporla mai. Cesare in fondo riuscì a

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salvarsi finché fu in grado di mantenere pienamente quell’ambiguità, per la quale si lasciava credere, anche nella sua stessa parte politica, che la dictatura e il cumulo della cariche fossero appunto rei gerendae causa, cioè finalizzate alla gestione di una situazione eccezionale in vista di un futuro ripristino della tradizionale “legalità” repubblicana. Quanto fosse importante consentire questa illusione, lo si comprende da quel che accadde dopo il conferimento della dittatura perpetua nel gennaio o nel febbraio del 44. Infatti alla congiura, che portò al cesaricidio solo un mese più tardi sotto i nomi di Bruto e Cassio, parteciparono anche diversi Cesariani, i quali evidentemente, mentre si sentivano di ammettere una dittatura temporanea, non potevano accettare, nonostante tutto, la prospettiva della fine irrevocabile della respublica. Fu questa, dunque, la giustificazione per l’uccisione di un dittatore che aveva colpito gli interessi dell’oligarchia e Giunio Bruto coniò allora un denario (p. 106, fig. 18) con la sua effigie e, dall’altro lato, due pugnali con la fatidica data Eid(ibus) Mart(iis), cioè Idi di Marzo, e il berretto, che si imponeva agli schiavi liberati: allusione al tirannicidio che aveva liberato il popolo romano ridotto in schiavitù. Se la delusione degli stessi Cesariani si ammantò così di motivi ideali e probabilmente si nutrì in parte sinceramente di essi, concorsero tuttavia a determinarla motivi certo meno alti e nobili. Cesare si era rivelato infatti non il capo di una fazione, ma il capo dello Stato, che non ne aveva consentito il saccheggio – checché ne lamenti Cicerone – nemmeno al suo stesso partito. Egli cercò una linea di equilibrio fra le necessità della plebe urbana e del proletariato rurale e le esigenze di senatori ed equestri detentori di capitale: non abolì i debiti, ma alleviò significativamente la posizione dei debitori. Anche le sue riforme, nella misura in cui riuscì ad attuarle, riflettono la visione universalistica della sua concezione politica del governo di Roma. L’estensione della civitas alle provincie della Gallia Cisalpina e della Sicilia si iscriveva in un progetto cesariano. Unificare l’oikoumene greco-romana non riuscì a Cesare, ma il progetto stroncato alle Idi di Marzo del 44 si andò compiendo nei secoli seguenti con Claudio e Adriano sino alla Constitutio Antoniniana del 212 d.C. Nell’ambito di questo progetto, che poi invece Augusto frenò, Cesare concesse la cittadinanza a interi gruppi di provinciali, avviando con lungimiranza quel processo di equiparazione delle provincie all’Italia, che si sarebbe in definitiva dimostrato una delle fondamentali cause della coesione e della lunga durata del dominio romano. La deduzione di coloniae di veterani accentuava la romanizzazione delle provincie, per la prima volta guarnite, ai confini dell’impero, con presìdi permanenti. La legislazione cesariana de pecunis repetundis, contro la corruzione e concussione dei magistrati, e quella sulla composizione delle quaestiones, dalle quali furono esclusi i tribuni aerarii, si iscriveva nei programma di valorizzazione delle provincie e di controllo della loro corretta gestione finanziaria e amministrativa. La legislazione de maiestate e de vi, per i reati contro sicurezza dello Stato e violenza politica, mirava invece al controllo rigoroso dell’ordine pubblico e alla tutela della persona e della figura politica del dittatore, mentre una lex Iulia provvedeva alla riorganizzazione municipale dell’Italia.

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Questa azione politica, solo sommariamente delineata, rispondeva al generale desiderio di pace e di ordine dopo le numerose guerre. Essa soddisfaceva in particolare gli interessi dei provinciali, che avevano militato largamente nell’esercito cesariano sia prima che durante la guerra civile, ma rispondeva molto meno agli interessi immediati dei cives Romani, che non sapevano scorgere gli interessi dell’impero nel lungo periodo, poiché il suo mantenimento sarebbe stato impossibile, nel continuare delle vessazioni, di fronte alla eventualità di una ribellione contemporanea dei provinciali, ormai sempre più largamente immessi nell’esercito e non più disposti a sottostare al malgoverno senatorio. Le riforme di Cesare, globalmente considerate, colpivano appunto gli arricchimenti illegali dei promagistrati, cui era demandato per prorogatio imperii il governo delle provincie; ma colpivano anche la gelosia con la quale la plebe si riteneva beneficiaria esclusiva della civitas Romana quale fonte di privilegi. Anche l’ordo equester, se si trovava grandemente avvantaggiato dalla ristabilita sicurezza dei commerci e dal loro incremento, non lo era altrettanto nell’appalto delle imposte provinciali, su cui aveva sempre speculato. La legislazione di contenimento delle usurae, gli interessi sui prestiti di danaro, mirava infine a garantire la funzione economica del credito ed anche qui colpiva il ceto senatorio. Lo stesso Bruto, graziato da Cesare e poi protagonista del Cesaricidio aveva praticato prestiti usurari nei confronti di privati come di intere città provinciali, ricavandone immensi guadagni. Dunque la dittatura non lasciava presagire nulla di buono per i promagistrati e i publicani che spogliavano regolarmente le provincie. Il dittatore era da sé garanzia di buongoverno per le provincie esauste. Ma, com’è ovvio, non è in questa realtà che potevano trovarsi giustificazioni ideali al cesaricidio: bisognava cercare altrove, nella ripugnanza dei Romani al “culto della personalità” così tradizionalmente e spontaneamente tributato in Oriente. Il materiale in verità non mancava. Nel 44 poi, poco prima del suo assassinio, furono anche coniate monete (p. 108 fig. 15) con la sua effigie sempre con la corona di alloro quale imperator perpetuo oppure talvolta capite velato quale pontifex maximus, mentre il senato deliberava che sui conî fosse iscritto il titolo già tributatogli di pater patriae, che conferiva alla sua persona la stessa sacralità di Romolo. Fino ad allora, in monete della respublica si erano rappresentati solo gli dei oppure i grandi del passato; ora per la prima volta vi appariva il ritratto di un uomo vivente, com’era uso nelle monarchie ellenistiche. Ma in Oriente accadeva di più e Cesare vi era spontaneamente venerato addirittura come un dio: in Asia già nel 48 a.C. un decreto delle città di quella provincia celebrava in lui il Salvatore di tutto il genere umano per Rivelazione divina: «Le città dell’Asia, i popoli e le nazioni a Gaio Giulio Cesare figlio di Gaio, pontefice massimo e dittatore, console per la seconda volta, Dio per rivelazione di Marte e Venere e Salvatore di tutto il genere umano come della vita individuale di ciascun uomo» 6. Un’ottantina d’anni dopo, Paolo di Tarso avrebbe attribuito a Gesù quella 6 Letteralmente: «come Salvatore della vita dell’Uomo». Cfr. W. DITTENBERGER, Sylloge inscriptionum Graecarum, II, Lipsiae 1917, p. 442, nr. 760.

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divinità e quella dimensione soteriologica, che i Greci avevano riconosciuto in Cesare, e poi nei Cesari, per appagare l’ansia di sconfiggere l’insicurezza esistenziale della condizione umana.

IV.5.2. Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare. Il problema della natura costituzionale e del progetto politico di Cesare è stato dibattuto dagli antichi e forse ancor più dai moderni. Naturalmente la storiografia d’ogni epoca e d’ogni appartenenza non ha mai alimentato dubbi sulla natura monocratica del potere di Giulio Cesare. Il dibattito moderno verte invece sul “modello” ispiratore: se fosse la monarchia romana arcaica dei reges rappresentati dalla tradizione, quella alessandrina o perfino altre forme di governo regale (basileiai) dell’età ellenistica più o meno comportanti l’apoteosi in vita, o piuttosto la dittatura di tradizione repubblicana. Il problema potrebbe tuttavia essere mal posto dalla storiografia moderna, nel senso che Cesare sembra essersi orientato piuttosto pragmaticamente, traendo forse ispirazione da alcuni precedenti storici in casi determinati, ma senza la precisa e preordinata volontà di rifarsi ad un determinato modello istituzionale del passato. Comunque, la storiografia antica ne interpretava tout court alcuni gesti od atti ora come segno di una tendenza al modello della monarchia ellenistica e ad una presunta divinizzazione già in vita, che non può certamente accogliersi, ora invece come inequivocabili sintomi dell’adfectatio regni, l’ambizione al potere regio di tradizione arcaica. Per una parte della dottrina moderna ne sarebbero prova, ad esempio, l’epiteto di Iulius per Iuppiter, l’intitolazione al nomen del dittatore del mese Quintilis, decretato lui vivo e mutato post mortem in Iulius, che si conserva ancora in tutte le lingue occidentali, infine l’offerta stessa di una corona, che gli fu fatta pubblicamente da Antonio e che egli finì ostentatamente col rifiutare. Ma, del resto, la parte avversa del dibattito critico moderno ha potuto sostenere, invero non senza plausibilità, che nessuna di queste attribuzioni al dictator prova la volontà dello stesso Giulio Cesare, piuttosto che quella dei suoi seguaci, di rapportarsi alla monarchia arcaica, a quella ellenistica e all’apoteosi in vita che dir si voglia. Alcuni moderni hanno anche sposato l’esegesi, certo non scontatamente imparziale – risalente alla sua pars politica e forse ad Ottaviano, e comunque riscontrabile in diversi autori antichi – secondo cui l’offerta dei simboli del potere regio, come la corona aurea, fu non un “sondaggio” dell’opinione pubblica, concordato dal dittatore con i suoi fautori, e rifiutato solo di fronte all’impopolarità suscitata dal gesto, ma una provocazione dei suoi nemici, ordita per metterlo in cattiva luce e screditarlo in vista della congiura e del suo assassinio. «È singolare il fatto che gli storici moderni, i quali attribuiscono a Cesare il programma di fondare una monarchia di tipo ellenistico su basi religiose, abbiano dato piena fiducia alle favole di Suetonio ed alle interpretazioni di Dione Cassio ed abbiano del tutto trascurato le testimonianze della fonte più diretta, cioè quelle che risultano dagli scritti di Cesare. Se noi rivolgiamo la nostra attenzione a tali scritti, dovremo pur rilevare che mai Cesare ha fatto alcun cenno al fondamento divino del suo potere e nemmeno a quei presagi e segni della volontà degli dei, dei quali ab-

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bondantemente parlano Suetonio e Plutarco a proposito delle sue imprese. Tutta l’impostazione della sua lotta politica di fronte alla guerra civile dimostra … che egli intendeva di battersi contro Pompeo ed il senato su di un terreno romano tradizionale» 7. Con queste parole lo storico e politico italiano Francesco De Martino per primo, nel 1973, coglieva il valore della diretta testimonianza di Cesare, che infirmava la validità delle fonti più tarde, delle quali prima di lui e più degli altri gli storici britannici Frank Ezra Adcock e Sir Ronald Syme avevano dimostrato l’inattendibilità, pervase com’esse sono, nella loro interpretazione retrospettiva, dalla più tarda dimensione ideologica di quei Cesari, che dal cognomen del Divus Iulius traevano ormai il proprio stesso nomen. E tuttavia l’osservazione di Francesco De Martino, nonostante la sua indiscussa statura di storico, resta molto generica e nemmeno esatta: perché in de bello civili III 105 Cesare stesso riferisce una serie di prodigi a lui favorevoli avvenuti ad Elide, ad Antiochia di Siria, a Tolemaide, a Pergamo, a Tralle, dove nel tempio della Vittoria gli era stata perfino consacrata una statua come ad un dio, per non parlare della sua ben nota e propagandata pretesa di discendere da Venus Genetrix.

I monetarii cesariani rappresentano la dea con una singolare iconografia: armata di scudo poggiato sul globo rappresentante l’Universo (sfera armillare), e talvolta anche di lancia, e reggente sulla mano una Victoriola che protende una corona d’alloro, di cui sull’altro lato della moneta è cinta la testa di Cesare quale imperator (p. 106, fig. 17). Ma Venus Genetrix non era guerriera: se il globo poteva appartenerle nell’ipostasi di Urania (Venus Cosmica), ella non era né armata né accompagnata dalla Vittoria, bensì da Eros, e l’esibizione di un seno nudo era segno di quella sensualità, che ne faceva la divinità della generazione cosmica, l’alma Venus, hominum divomque voluptas 8 solennemente invocata nel proemio dell’epicureo Lucrezio. Nei denari cesariani, invece, Venere acquista le dette caratteristiche marziali. In questa contaminatio, il seno nudo si colloca in un contesto figurativo che non è più finalizzato a significarne il motivo della lascivia, quanto a richiamare l’abbigliamento amazzonico 9. La figura delle monete, anzi, sembra in qualche modo liberamente evocare, anche nel motivo di reclinare la testa, le celebri Amazzoni della statuaria greca classica di Policleto, Fidia e Cresila, replicate per la committenza romana. Le monete cesariane rappresentano dunque non solo la più antica immagine di Venus Genetrix et Victrix, ma altresì una ulteriore e significativa innovazione nella raffigurazione della dea: infatti uno dei seni scoperto non ha più il valore erotico dell’iconografia tradizionale, ma è posto ora in rapporto all’aspetto

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F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, III, Napoli 1973, p. 262 s. Venere che alimenta la vita nell’Universo e che dona il piacere agli uomini come agli dei. 9 Cioè delle Amazzoni, mitiche donne combattenti, con un seno nudo per poter meglio muovere il braccio destro armato e con un corto chitone anziché la lunga veste, che ne avrebbe ostacolato la libertà di movimenti. E infatti, benché la Venere delle monete cesariane conservi alcune volte il lungo chitone tipico della sua iconografia, in alcuni conî, invece, lo porta corto: ora, il chitoniskos è proprio delle cacciatrici, come Diana, che però è armata non di scudo, ma di arco e frecce, o delle Amazzoni combattenti. 8

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Fig. 19. In alto: a sinistra: tre copie romane dell’Amazzone ferita, con un seno nudo da combattente, dei tre tipi detti rispettivamente: 1. Capitolino o “Albani” (Musei Capitolini) firmato da Sosikles (prima a sinistra); 2. “Mattei” (Musei Vaticani, al centro); 3. “policletea” (Berlin, Staatliche Museen, terza a destra) attribuita a Kresilas. In alto a destra: Afrodite di Callimaco (circa 425 a.C.) del tipo Venus Genetrix con un seno nudo di valore erotico (copia del I secolo d.C., Paris, Louvre). In basso, da sinistra: denario di M. Mettius del 44 a.C. raffigurante Venere che regge una Victoriola e l’alto scettro, con scudo poggiato sulla sfera armillare (allusione sia alla cosmocrazia di Cesare che alla sua riforma calendariale): in questo tipo la dea ha non solo il seno scoperto, ma anche il chitone corto, rispondente al tipo dell’Amazzone capitolina (nr. 1 in alto), cioè disteso e non risalente fra le gambe. Denari dei monetarii cesariani del 44 a.C.: Venus con un seno scoperto in foggia amazzonica, con braccio su sfera armillare o su scudo poggiato a terra e reggente una Victoriola. Nel denario di Maridianus (2) lo scudo poggia su una sfera armillare, simbolo dell’universo ed allusiva alla riforma calendariale giuliana.

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bellicoso che la divinità qui assume, mutuandolo dalle celeberrime guerriere, che così lo portavano per avere maggiore libertà di movimento in battaglia. E per la stessa ragione, dovendo cavalcare, indossavano quel chitonískos, che talvolta anche la Venere cesariana prende volentieri in prestito. La monetazione del dittatore caratterizza dunque la dea dell’amore secondo una novella ipostasi: pur restando Genetrix, com’è chiamata dalla legenda di alcuni conî, ella è qui la dea combattente in prima persona. Si tratta di una novità iconografica che costituisce un forte veicolo ideologico e propagandistico: non v’è da dubitare sia dovuta all’iniziativa di Cesare, e che egli, avendone fatto voto di costruirne il tempio prima di partire per Farsalo, dove sconfisse poi Pompeo, volle superare il tempio che quegli aveva edificato sopra il suo teatro dedicandolo alla dea 10. Ma è ovvio che alle sue convinzioni personali Cesare può aver messo di volta in volta la sordina per avvantaggiarsi della religio come instrumentum regni. Prima di farsi conferire la dittatura perpetua, Cesare, mantenendo il proconsolato, si fece nominare di anno in anno anche console, così tracciando la via di quel concentramento in una sola persona di poteri magistratuali repubblicani, che fu seguita poi dal princeps. E chiaro che un ordinamento costituzionale, fondato sulla temporaneità e divisione dei poteri magistratuali, veniva del tutto snaturato, politicamente e giuridicamente, da siffatto sistema. La dittatura perpetua segnò tuttavia l’abbandono del compromesso con le forme costituzionali repubblicane per una via più spiccatamente monarchica. E tale significato fu ancor più evidente in quanto, allorché Cesare assunse nel 44 la dittatura perpetua prima di partire per la spedizione partica, rivestiva solo da due anni la dittatura decennale: non v’era dunque alcuna necessità, in senso strettamente politico, di una tale iniziativa. 10

De Martino non è ineccepibile quando sostiene la “laicità” di Cesare. Se mai, a tal fine bisognerà ricordarne l’adesione al materialismo atomistico – significativamente nell’anno stesso della sua ascesa al pontificato massimo – e alla concezione epicurea sul dissolvimento dell’anima e l’inesistenza dell’Ade. Tale adesione fu sottolineata in senato con signorile quanto sottile sarcasmo nella replica dello stoico Catone, come tramanda Sallustio, Bell. Cat. LI 20. Ecco il dialogo. Cesare: «Quanto alla pena capitale posso ben dirvi qual è la realtà: quando ci si trova nel lutto e nelle miserie la morte è cessazione dei tormenti, non afflizione. Essa dissolve tutti i mali umani, mentre non esiste un Aldilà con un luogo destinato all’angoscia e uno alla felicità». … Catone: «È stato – io credo – un brillante e raffinato artista Caio Cesare poco fa, al cospetto di questo consesso, nel discutere sulla vita e sulla morte, considerando false le tradizionali credenze sugli Inferi, e il diverso percorso che, rispetto ai buoni, toccherebbe ai malvagi, conducendoli in luoghi tetri, incolti, squallidi e spaventosi». L’allusione di Catone al bene et composite disserere di Cesare ironizza sul suo avvalersi di tali dimostrazioni strumentalmente, al fine di persuadere il senato a salvare i Catilinari, con il pretestuoso argomento che la morte non sarebbe stata una punizione, ma piuttosto una liberazione per i Catilinari imprigionati. Ma non v’è dubbio che tali idee fossero attinte direttamente alla filosofia epicurea e che egli potesse proporle credibilmente non solo per la loro popolarità, e condivisione in una cospicua parte dell’aristocrazia senatoria, ma anche per la notorietà della sua personale adesione. Inoltre non sfuggì a Svetonio160 che Cesare non si fece mai distogliere né ritardare in un’impresa da alcuno scrupolo religioso: ne religione quidam ulla a quoquam incepto absterritus umquam vel retardatus est, e che Catone avrebbe voluto farlo processare per aver violato gli auspici nel suo primo consolato. Cosa che anche Appiano rammenta a proposito dell’“empia” rifondazione di Cartagine come colonia romana.

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Ma, quale che fosse la declinazione formale del progetto di autocrazia cesariano, esso era già ab origine nelle intenzioni di Cesare fin dal Rubicone, se non prima, o almeno fin dalla guerra in Spagna? Si è scritto che «in concreto Cesare adattò il suo agire alle circostanze senza venir meno a talune costanti di fondo e dunque a un disegno politico complessivamente coerente» 11. Ma qual era questo disegno? Nel 49 egli, padrone dell’Italia, spiega in senato di non aspirare ad alcun extraordinarius honor (De bello civili I 32: docet se nullum extraordinarium honorem appetisse), parole che poi non saranno rispettate. Non si è mai fatto caso all’eco che se ne trova nelle Res Gestae divi Augusti (VI 2): nullum magistratum contra morem maiorum delatum recepi. Augusto, che realizzerà l’autocrazia di Cesare mascherandola abilmente da restaurazione della respublica, pretenderà invece d’esservisi attenuto grazie all’ipocrita espediente costituzionale d’assumere la tribunicia potestas come potere in sé, scisso dalla magistratura di tribunus plebis, e – attraverso rinnovi annuali – quoad viverem (R.G. X 1) anziché pro tempore. Ma nel 49 Cesare (De bello civili I 32) ancora «esorta e chiede ai senatori che assumano il governo dello Stato e l’amministrino insieme a lui. Se però avranno paura d’assumerselo, lui non sarà di peso per loro ed amministrerà lo Stato da solo». E prosegue proponendo d’inviare ambasciatori a Pompeo per una compositio, ciò che il senato approva ma – come osserva Cesare con sarcasmo – senza che si trovi nessuno che abbia il coraggio d’andarvi. Sin timore defugiant, illis se oneri non futurum: «Cesare non sarà di peso per i senatori, se avranno paura di governare con lui»: in questo passo tutto pervaso di sottile ironia, nel 1820 Nicolas Lemaire 12 osservava con acume che Cesare fa la parte dell’ambizioso, ma astutamente copre del tutto la sua vera personalità ed ostentando una parvenza di moderazione, in realtà aspira alla dittatura, lasciando intravedere che se la prenderà da sé se il senato non gliela concederà al più presto e di propria iniziativa. L’esattezza di questa esegesi di Lemaire è confermata dalle confidenze che Cesare faceva al suo entourage, forse senza pensare che sarebbero state divulgate. Noi invece le conosciamo grazie all’epistolario ciceroniano. Infatti in una lettera del 14 aprile 49 (Ad Atticum X 195.9 = X 4.9) Curione dipinge il crescente odio di Cesare per il senato, riferendone poi le parole «a me omnia proficiscentur» che provano la veridicità della vox pr palam edita, probabilmente dopo la sconfitta di Pompeo nel 48, dallo stesso dittatore: voce tràdita nella biografia svetoniana (Divus Iulius LXXVII), ché ormai la gente avrebbe dovuto rivolgersi a lui con maggior deferenza e considerare le sue parole come leggi (debere homines consideratius iam loqui secum ac pro legibus habere quae dicat). Anche in questo caso va constatata una straordinaria anticipazione dell’autocrazia del principe: bisognerà arrivare alla dinastia dei Severi perché si affermi formalmen-

11 G. ZECCHINI, Il significato dell’esperienza umana e politica di Cesare, in G. GENTILI (cur.), Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito, Milano 2008, p. 61. 12 N.L. ACHAINTRE-L.E. LEMAIRE, C. Julius Caesar ad Codices Parisinos recensitus, II, Parisiis 1820, p. 54, n. 6.

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te il principio, a livello istituzionale e giurisprudenziale, che quod principi placuit legis habet vigorem 13. La cosiddetta lex de imperio Vespasiani, con la quale si conferì il potere imperiale a Vespasiano nel 70 d.C., sembra voler ribadire i limiti dei poteri, pur amplissimi, dell’imperatore e sancirne, ancora a quell’epoca, dopo la “tirannide” neroniana, la sottoposizione alle leggi. Analogo problema si pose dopo la “tirannide” di Domiziano: Plinio 14, volendogli contrapporre l’optimus princeps, afferma infatti che nel saeculum Traiani all’idea del princeps super leges è ormai subentrata quella delle leges super principem. Ma è Giulio Paolo che riflette la realtà, anziché la propaganda, quando scrive che «si addice all’alta maestà dell’imperatore osservare quelle leggi, dalle quali si ritiene che proprio lui sia sciolto» 15. Nel 232 d.C. un rescriptum di Alessandro Severo afferma come mera esigenza etica la sottoposizione del princeps alle leggi, in una realtà politica e costituzionale in cui l’imperatore ne è ormai sciolto: «è infatti ammesso che la legge che conferisce il potere imperiale abbia sciolto l’imperatore anche dalle norme giuridiche più rigorose e tradizionali, benché nulla si addica di più alla funzione di governo imperiale, che vivere secondo le leggi» 16. Solo quasi tre secoli dopo la parabola della volontà di Cesare può considerarsi compiuta: il percorso di “resistenza” dell’aristocrazia senatoria a questa pretesa sottende, come vedremo, all’intera storia del principato. In verità i successori di Cesare non potevano permettersi di dichiarare apertamente quanto ne condividessero l’“anticipazione” proprio perché “ammaestrati” dal cesaricidio. Egli, invece, non aveva problemi a diffondere in pubblico “arroganti” dichiarazioni, definendo lo Stato repubblicano un vuoto nome, ormai privo non solo di contenuto ma anche di involucro, insomma del tutto inesistente: nihil esse rempublicam, appelationem modo sine corpore ac specie (Svetonius, Divus Iulius LXXVII). Questo giudizio è consono alle violente azioni di Cesare contro l’ostruzionismo senatorio durante il suo consolato con Bibulo, lo sventurato collega da lui esautorato, e conferma in quale considerazione egli tenesse la tradizione “costituzionale” repubblicana ed a qual rimedio pensasse doversi ricorrere per governare l’Italia e l’impero. Nello stesso contesto Svetonio riferisce il giudizio di Cesare sull’analfabetismo politico di Silla per aver deposto la dittatura, addotto da Tito Ampio Balbo come prova delle sue intenzioni tiranniche: Sullam nescisse litteras qui dictaturam deposuerit 17.

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Quel che piace al principe ha vigore di legge». Digesta I 4.1 pr. = Ulpianus, Institution. I: quod principi placuit legis habet vigorem utpote cum lege [regia], quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat. 14 Panegiricus Traiani LXV 1. 15 Digesta XXXII 23: decet enim tantae maiestati [scil.: principis] eas servare leges, quibus ipse solutus esse videtur. 16 Codex Iustiniani VI 23.3: licet enim lex imperii sollemnibus iuris imperatorem solverit, nihil autem tam proprium imperii est, ut legibus vivere. 17 Svetonius, Divus Iulius LXXVII 1; cfr. anche Appianus II 138, 574.

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Riflettono questa forma mentis i versi di Euripide la cui citazione piaceva tanto a Cesare 18, che bisogna rispettare sempre la giustizia, salvo a dover violare il diritto per impadronirsi del potere. Scrive Luciano Canfora 19: «E proprio di Euripide, delle sue Fenicie … Cesare amava ripetere spesso due inquietanti versi …, nei quali culmina la tirata di Eteocle sul potere. Una tirata quasi “hobbesiana”, il cui succo era: il potere o lo si ha tutto o non c’è. I versi che Cesare preferiva dicevano esattamente: “Se bisogna violare il diritto, allora è meglio farlo per ottenere la tirannide; il rispetto delle regole vale negli altri campi”. È Cicerone che ci fa sapere di questo “vezzo” del futuro dittatore … In quei versi vi è un programma preciso e affermato con durezza: essi proclamano la non-moralità della politica, oltre che le ambizioni dell’uomo che così liberamente ostentava quelle parole del poeta considerato già dagli Ateniesi un eversore della morale tradizionale. Nel De officiis, composto in gran parte dopo le Idi di marzo, Cicerone parla di Cesare criticamente anche se velatamente. Ad esempio fa capire di sapere quanto profondamente il defunto dittatore fosse stato, a suo tempo, coinvolto nella congiura di Catilina, e denuncia l’antica inclinazione tirannica di lui». La concezione relativistica del diritto in Euripide, riflesso della sofistica, anticipa quella dell’epicureismo, cui Cesare aderiva almeno per il materialismo atomistico e le convinzioni sulla mortalità dell’anima e l’inesistenza dell’Aldilà. Cesare doveva trovare particolarmente consono alle proprie aspirazioni il pensiero di Euripide come di Epicuro in materia politica. Da qui non si può tuttavia dedurre e datare un programma, anziché una inclinazione, quest’ultima indubitabile. Le affermazioni dei contemporanei posteriori alle Idi di marzo presentano infatti il rischio evidente di poter essere “retrospettive”, operare cioè “anticipazioni storiche” arbitrarie sul progetto politico del dittatore. Va detto però, a fronte di tale malevola citazione ed a quella altrettanto ostile del giudizio su Silla illitteratus, cioè politicamente analfabeta, che Cesare, se aveva prima così citato i versi euripidei e criticato l’abdicazione di Silla, proclamò anche di non volerne seguire l’esempio non solo nell’abdicare, ma neppure nella crudeltà. Lo tramanda l’epistola ad Oppio e Cornelio del 5 marzo 49. In un’altra lettera inviata il 9 marzo del 49 sempre ad Oppio e Cornelio, Cesare si mostra disponibile ad una compositio con Pompeo ancora rinchiuso a Brindisi. Cicerone, però, non si lascia ingannare e, benché consapevole che Pompeo, se vincesse, non lascerebbe intatta neppure una tegola sui tetti d’Italia e si comporterebbe come Silla, mentre Cesare ha dimostrato maggiore moderazione nel regnum – lo chiama proprio così – il 13 marzo attribuisce a quest’ultimo un preciso programma: l’abrogazione delle leggi, l’esautorazione dei tribunali, l’annientamento del senato, il saccheggio delle risorse dei privati e dello Stato per far fronte alle esigenze e all’indebitamento dei suoi sostenitori.

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Cicero, De officiis III 82.13-18 = III 21; Svetonius, Divus Iulius, XXX 5. L. CANFORA, Cesare scrittore, in G. GENTILI (cur.), Giulio Cesare. L’uomo, le imprese, il mito, Milano 2008, p. 33. Cfr. anche A. DONATI, Cesare e il diritto, ibidem, p. 39. 19

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Con il suo giudizio contrasta quello del 5 marzo formulato da T. Pomponio Attico, che riconosce a Cesare sinceritas, temperantia e prudentia, riconoscimento apparentemente consono allo spirito del discorso tenuto in senato tre anni dopo, nel 46, riferitoci da Dione Cassio (XLIII 17), quando il dittatore dichiarò di non voler despótein (governare dispoticamente) ma prostátein (dirigere come presiedente) i senatori, di non voler tyrannein (tiranneggiare) ma hegemoneuein (dirigere, esercitare il potere esecutivo), sintetizzando infine, rivolto ai senatori: os paídon hymôn epimelómai (vorrei assistervi come si fa con i figli oppure come si fa con i bambini). Se possiamo tentare di volgere in latino queste espressioni, potremmo tradurre che Cesare proclamò ai senatori di non voler essere dominus, ma princeps senatus, non tyrannus, ma dictator o piuttosto magister, di voler esercitare la tutela senatus come si esercita la tutela impuberum. A me sembra proprio che anche da questo discorso tràdito da Dione Cassio trapeli la medesima ironia di quello riferito dallo stesso Cesare: sub specie di una protezione “paterna” dei senatori, che di per sé è sottilmente intimidatoria, egli allude se non alla loro incolumità, all’aggredibilità del loro status e dei loro privilegi, e ne sottintende la minorità politica, cioè l’incapacità di governo. Ma evidentemente, al ricordo della brutalità delle dittature di Cinna e di Silla, il signorile sarcasmo di Giulio Cesare era segno di una diversa humanitas, ed in qualche modo sortiva gli effetti ingannevoli che si prefiggeva. Infatti il 16 agosto del 46 a.C. una lettera a Peto ci mostra un Cicerone, il quale riesce ancora ad illudersi che Cesare possa dimostrarsi quel princeps da lui vagheggiato nel De republica come salvatore e moderator della forma di Stato cara al senato. La medesima convinzione, o speranza, pervade in quello stesso anno la pro Marcello e le altre orazioni “cesariane” dell’Arpinate, che «respirano ancora nel clima dottrinale del De repubblica e sono un aperto richiamo alla legalità e al rispetto dell’ordinamento statale» 20. Alla fine possiamo credere che Cesare abbia avuto, probabilmente non dall’inizio della sua attività politica, ma almeno fin dal suo primo consolato, un intimo disprezzo della respublica senatoria e delle sue forme. Ma sull’esistenza ab origine di un preciso piano politico di eversione di quel sistema e di una sua sostituzione dovrà accogliersi la critica mossa da Ronald Syme 21 al Mommsen ed ancor più a Jérome Carcopino 22, i quali ultimi credevano alla risalenza di un progetto monarchico cesariano. È chiaro che la pretesa congiura di Cesare durante il suo primo consolato nel 59 per sovvertire lo Stato, attribuitagli dai suoi nemici Tanusio Gemino, Marco Bibulo, Caio Curione pater e M. Attorio Nasone (Svetonius, Divus Iulius IX), è non solo retrospettiva, ma viziata da parzialità. Non solo tale progetto

20

Cicero, Pro Marcello XXIII . La citazione è da E. LEPORE, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli 1954, p. 357. 21 22

R. SYME, La rivoluzione romana, traduzione italiana, Torino 1962, p. 49 ss.

J. CARCOPINO, Points de vue sur l’impérialisme romain, Paris 1934, p. 89-155; ID., Jules César, Paris 19685; ID. César, revu par P. Grimal, Paris 19906.

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non sembra esistesse allora, ma nemmeno sembra che Cesare avesse concepito ab initio l’ineluttabilità della guerra civile: altrimenti difficilmente nel 50, cioè l’anno prima di varcare il Rubicone, avrebbe inviato a Pompeo, in ottemperanza ad un senatusconsultum, due legioni che militavano sotto di sé. La guerra civile, che solo nel 49 gli apparve non a torto come una necessità per salvare se stesso almeno dalla morte politica e quasi certamente almeno dai processi (Plutarchus, Caes. XLVI; Svetonius, Divus Iulius XXX), lo portò poi a restare padrone assoluto della situazione ed a maturare solo allora, direi repentinamente, un vasto ed organico disegno di riassetto dello Stato.

IV.5.3. Le virtutes del dictator ed il pensiero politico della tarda repubblica. Senza dubbio Cesare trovò nella filosofia epicurea i modelli morali di clementia e di moderatio: il rector, moderator e princpes reipublicae vagheggiato da Cicerone come ossequioso del senato e della sua auctoritas non può certo averlo influenzato. Ma che egli abbia letto Del buon re secondo Omero di Filodemo, lo scolarca epicureo amico di suo suocero Calpurnio Pisone, è – io credo – più che un’ipotesi: è la concezione del potere monocratico razionale e finalizzato al bene collettivo, formulata dallo scolarca nell’orma dell’opera di Epicuro Sulla monarchia, che Cesare ha comunque realizzato con il suo agire politico e dichiarato nel suo epistolario e nel de bello civili. Proprio in quegli anni gravidi di eventi maturava infatti a Roma un pensiero politico, che affondava nella filosofia greca le proprie radici, ma che era potentemente stimolato dalla situazione attuale. Esso avrebbe posto i fondamenti ideologici del principato. L’ideale della libertas era propriamente interno alla Civitas Romana, e segnatamente all’uterque ordo 23, e si concretava nella libertà di parola nella sede del senato e più ampiamente nella vita politica. A questa libertà di parola nell’ambito filosofico Filodemo di Gadara, il ricordato caposcuola epicureo, aveva dedicato un’opera (Perì parresías). Ma lo stesso Filodemo aveva teorizzato anche la figura dell’optimus princeps, o meglio dell’agathòs basileus, nell’orma del Perì basileias (Sulla monarchia) di Epicuro, a quanto sembra nel pieno del conflitto fra Cesare e Pompeo, intitolando un’altra sua opera Perì tou kath’Homèron agathoù basiléos (Del buon re secondo Omero). Interpretando Omero, primaria fonte morale del mondo greco ma anche ormai di quello romano profondamente ellenizzato, Filodemo teorizzava la figura del sovrano governato dalla ragione e con la ragione governante i sudditi; sollecito del loro bene e rispettoso di quella libertà di parola, nella quale si manifestava la vita politica repubblicana. Cicerone mostra di conoscere Filodemo e le sue opere più di quanto egli stesso ammetta. Ideali analoghi a quelli filodemei – anche se talvolta di ascendenza platonica e aristotelica più che epicurea – avevano ispirato la teoria dello Stato e la

23 Con questa espressione, «l’uno e l’altro ordine» si designavano senatori e cavalieri insieme, quasi a volerne sottolineare la raggiunta solidarietà (concordia ordinum).

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figura del princeps ciceroniano nel De republica: auspicando il ripristino del sistema repubblicano e della sua funzionalità, il vecchio senatore, che aveva salvato la respublica dalla congiura di Catilina, concepiva di porla ora sotto la tutela di un princeps, un moderator e un arbiter al di sopra delle fazioni e degli interessi per autorità morale universalmente riconosciuta, che sapesse mitigare il potere con l’uso della ragione. Se in concreto egli sottintendesse nel ruolo del principe Pompeo, Cesare o se stesso è in fondo di secondaria importanza di fronte al successo, che questa idea ebbe per la fondazione del principato augusteo come nuovo sistema di governo nel mantenimento, tuttavia sempre più formale che funzionale, del vecchio ordinamento repubblicano. Può dunque sembrare, a prima vista, che, nel sincretismo del pensiero ellenistico trapiantato a Roma, la razionalità del basileus filodemeo non si differenzi poi molto da quel Logos stoico, di cui più tardi il princeps sarà ritenuto una sorta di incarnazione. In realtà la razionalità del basileus epicureo è tutta umana ed immanente, mentre quella stoica è la proiezione di una Entità metafisica, che presiede ai destini del mondo, il Logos, la Divina Mens, che si manifesta nella Prónoia, la Providentia, o – per Polibio – nella Tyche, la Fortuna populi Romani. Il concetto della provvidenzialità dell’impero romano sarà così utilizzato fino in fondo come strumento ideologico della propaganda del principato, da Augusto in poi, con una sistematicità che Cesare non aveva ancora concepito. Ma v’è un’altra e politicamente più concreta e drammatica dimensione, nella quale le due concezioni filosofiche della ratio, quella epicurea e quella stoica, vennero a confronto al tramonto della repubblica. Catone ad Utica aveva rifiutato la clementia Caesaris ed aveva preferito suicidarsi anziché arrendersi al dittatore, stimando la libertà politica un bene superiore alla vita per un romano. Tutti gli optimates la pensavano come lui, ma non tutti avevano lo straordinario coraggio che la coerenza richiedeva di fronte all’inusitata generosità di Cesare. C’erano molti Bruti e molti Ciceroni che avevano preferito vivere mantenuti nel loro rango. Catone era dunque diventato una bandiera. Il suicidio stoico di Catone è un controsenso per la razionalità epicurea. Questo gesto, non necessario di fronte alla clementia che Cesare aveva largamente dimostrata verso i nemici sconfitti, diveniva per ciò stesso la sublimazione della concezione politica repubblicana della libertas, e poneva Cesare di fronte alla necessità di affrontarla con mezzi adeguati: rendendosi conto che le idee non possono combattersi soltanto con le armi, il dittatore avvertì l’esigenza di una risposta politica e ideologica al gesto di Catone, che rischiava di screditarne la vittoria. Così, quando Cicerone gl’inviò il suo Cato Minor, opera nella quale esaltava la virtus stoica dell’Uticense e la scelta eroica del suicidio, Cesare gli rispose lodandone il valore letterario, ma incaricando il suo legato Aulo Irzio di rispondere con una serrata critica a Catone e alla coerenza dei suoi comportamenti. E poco più tardi il dittatore stesso scese in campo scrivendo l’Anticato, opera “Contro Catone” purtroppo non pervenutaci, nella quale stigmatizzava l’inconciliabilità del suicidio stoico di Catone Uticense con quel cultus e con quella humanitas, la paideia in una parola greca, in cui l’epicureismo faceva consistere il valore della civiltà e la dol-

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cezza della vita, l’unica scelta razionale per il sapiente rispetto alla irrazionalità della barbarie e di una morte non necessaria. In un’ottica epicurea, sarebbe stata giustificabile ed eroica la scelta del suicidio, se Catone avesse saputo di perdere la libertà e la dignità, ma poiché sapeva che le avrebbe conservate, così il suo gesto andava giudicato come sintomo di feroce barbarie contro se stesso. Ma il tentativo geniale del dittatore, di screditare la scelta catoniana, non ebbe, com’è noto, fortuna: non sfuggì ai Romani che la libertas di Cesare era la libertà personale, quella di Catone la libertà politica. L’apoteosi, o meglio ancora la superiorità morale di Catone sul Fato, fu subito sancita nel cognomen di Uticense, da allora in poi attribuitogli dal luogo in cui aveva scelto di rinunciare alla vita per non rinunciare alla libertà. Ma fu sancita forse maggiormente – nell’età di un Cesare ben più tirannico di Caio Giulio, Nerone – nei versi di Lucano, il giovanissimo esponente del rango senatorio: victrix causa diis placuit, sed victa Catoni (“la causa vincitrice fu gradita agli dei, ma quella vinta lo fu a Catone”). L’ombra di Catone Uticense ispirò sempre l’opposizione senatoria alle tendenze autocratiche del principato, spesso rinnovandone la tragedia nelle esecuzioni sanguinose dei congiurati. L’idea di libertas, che Catone aveva emblematicamente incarnato, fu paradossalmente recepita dalla filosofia di governo di quei Cesari, che portavano il nome stesso del suo vincitore. Oltre mille anni dopo, la Commedia di Dante attesterà ancora la straordinaria vitalità dell’ideale catoniano, nobile e tragica maschera che l’ordo senatorius indossava a copertura dei suoi gretti interessi.

IV.5.4. Libertas, imperitia multitudinis e regnum nel giudizio ciceroniano su Cesare. La rappresentazione del popolo come afflitto da una sorta di “incapacità” o quanto meno “minorità politica”, che un ottimate non avrebbe mai apertamente proclamato, è invece esposta, senza che quasi Cicerone se ne sia accorto, in un passo della II Filippica, dov’egli svolge un’analisi straordinariamente lucida della vicenda politica e della figura umana di Cesare, alla luce dell’esperienza da lui stesso vissuta. Tale passo spiega anche – per la capacità di determinate idee provenienti da fonti celebri e autorevoli, di trasferirsi nel tempo come acquisizioni tacite – i giudizi “idealizzanti” e socialmente decontestualizzati spesso formulati su Cesare “liberticida” non solo dalla storiografia d’ispirazione idealistica e liberale, ma anche da quella marxista e socialista. Cicero, Phil. II 116.7 ss.: Vi è stata in lui [Cesare] genialità, razionalità nel discernere, facoltà di ricordare, cultura umanistica, capacità di riflessione e di applicazione. In guerra sapeva compiere imprese che, sebbene calamitose per la repubblica, sono state tuttavia grandiose. Dopo aver meditato per lunghi anni come arrivare a governare da sovrano assoluto, conseguì infine ciò che si proponeva vincendo grandi resistenze ed affrontando grandi pericoli. Sapeva sedurre il popolo grossolano e incapace di giudizio con spettacoli, con splendidi monumenti, con distribuzioni gratuite, con pubblici banchetti. I suoi se li teneva stretti con premi, gli avversari con una

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specie di clemenza. Ma perché parlar tanto? C’è una cosa sola da dire: portava una comunità di cittadini ch’era prima libera, facendo leva parte sul timore parte sulla spossatezza, ad assuefarsi al servaggio. … Ma dai diversi mali con cui egli ha marchiato a fuoco la repubblica, questo almeno vien di buono: che ormai il popolo romano ha imparato quanto ed in chi credere. Su questo tu [M. Antonio] non rifletti, né comprendi ch’è sufficiente per uomini coraggiosi l’aver appreso quanto sia in realtà bello, gradito per il bene che ne deriva, glorioso per la fama, uccidere il tiranno?

Ebbene, questo brano oratorio intriso di così alte e nobili idealità, fu scritto da chi di “quella specie di clemenza” di Cesare aveva usufruito, avendo scelto di non rinunciare alla vita per la libertà politica, come aveva fatto invece Catone. Ma la libera civitas di Cicerone è quella degli optimates,. La multitudo è per lui imperita, cioè inesperta, incapace di giudicare in senso politico. Significativo questo termine, che rivela la concezione, ed il pregiudizio di “minorità”, che l’Arpinate aveva del popolo, presunta minorità che giustificava agli occhi del ceto dirigente, con finto paternalismo, il suo monopolio del potere e l’accaparramento illegale delle ricchezze. Altrettanto significativo che, come s’è visto, questa “minorità politica” fosse invece attribuita da Cesare proprio al senato, e che il “dittatore democratico” – per usare l’efficace definizione coniata da Luciano Canfora – si autorappresentasse verso i patres conscripti con quello stesso atteggiamento paternalistico che ne faceva piuttosto dei filii al cospetto del pater patriae. Tali considerazioni nulla tolgono, tuttavia, all’acutezza del giudizio umano, psicologico e, sia pur nell’ottusa ottica aristocratica, politico di Cicerone sul dittatore defunto. Dove Cicerone non intese la lezione della storia, pagandone coraggiosamente le spese con la vita, è quando afferma «che ormai il popolo romano ha imparato quanto ed in chi credere». L’Ottaviano in cui egli riponeva le sue illusioni, avrebbe di lì a poco abbandonato non solo lui, ma perfino alcuni fedeli Cesariani alle liste di proscrizione antoniane. Cicerone, che ad Ottaviano riconosceva indole volitiva quanto capacità organizzativa, non l’avrebbe creduto, quando si trovò a stringer con lui una innaturale ma necessitata alleanza contro Antonio. Mai, nella speculazione sulla politica, cui s’era dedicato nel ritirarsi dalla vita pubblica durante la dittatura cesariana, Cicerone, vagheggiando un princeps che fosse moderator delle contese civili, avrebbe potuto concepire che il potere supremo nello Stato romano si trasmettesse per via ereditaria. Forse nemmeno Cesare arrivò a pensarlo, restando incerto il significato, sotto questo aspetto, della pretesa di trasmettere il pontificato massimo. Certamente, anzi, il progetto politico di Cleopatra, di fare del figlio che da lui aveva avuto, Tolomeo XIV Cesare detto Cesarione, il capo dell’impero romano e dell’Egitto insieme, non trovò riscontro nel testamento del dittatore; del quale, com’è noto, rimase deluso anche Antonio, che troppo affrettatamente e avventatamente ne aveva dato pubblica lettura. Ottaviano, ad ogni modo, non sottovalutò il rischio di un discendente diretto di Cesare: Aulo Irzio aveva detto che non era bene vi fossero molti Cesari. Così, mentre risparmiò i figli che Cleopatra aveva avuto da Antonio, Ottaviano fece sopprimere il giovane rampollo di stirpe cesarea. La differenza di trattamento rivela da un lato la freddezza di chi aveva appreso la lezione del cesari-

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cidio, dall’altro il rifiuto da parte di Ottaviano della sanguinarietà gratuita. In questo, certo, non fu un nuovo Silla, ma, adottando l’accortezza e spietatezza necessarie, riuscì a non essere un nuovo Cesare nella curia di Pompeo. Le realizzazioni ed i progetti, cui Cesare riuscì a dare soltanto inizio nel breve passaggio della sua meteora, rivelarono alla prova della storia la genialità politica della sua visione ecumenica dell’impero. La via da lui indicata fu percorsa per secoli dai suoi successori e la sua azione, come nel caso della conquista delle Gallie o della riforma del Calendario, determinò lo stesso modo di essere della civiltà europea dei due seguenti millenni. Ciò non deve tuttavia porre in ombra che fu lui ad introdurre ed istituzionalizzare in Roma i sanguinosi spettacoli gladiatori, così graditi alle folle, aggravando la posizione degli schiavi, che invano si erano più volte ribellati alla brutalità del dominio romano (emblematico ma non unico il nome e l’eroismo di Spartaco sconfitto da Crasso): la politica del panem et circenses era infatti la più adatta a soddisfare le folle e a distrarle dalla dittatura. Fu così introdotto nella società romana un genere di spettacolo indegno della civiltà, come intellettuali isolati, quali Cicerone, Seneca e lo stesso imperatore Marco Aurelio non mancarono di deplorare. Ma i problemi lasciati irrisolti da Cesare per la morte prematura e improvvisa, come la conquista del regno partico e della Germania, tormentarono l’impero finché ebbe vita. Dalla Germania vennero, secoli dopo, quelle invasioni barbariche, che causarono la fine dell’impero d’Occidente. La conquista della Dacia, che Cesare aveva in animo nell’accingersi a partire per la spedizione partica quando sopravvennero le Idi di Marzo, fu invece risolta più d’un secolo e mezzo dopo da Traiano, l’imperatore “cesareo”.

IV.6. Il secondo triumvirato ed Ottaviano-Augusto. Allorché i congiurati agli ordini di Bruto e Cassio decisero di risparmiare la vita ad Antonio, il luogotenente di Cesare ch’era console nel 44, fecero sul momento un calcolo riuscito. Antonio infatti cercò di mediare fra le parti e di contenere l’ira popolare, che si scatenò alla vista del corpo martoriato del dittatore. La curia Fig. 20. Denari col Sidus Iulium segno di Pompeo, dove s’era consumato il cesaricidell’Acensione di Cesare. dio, fu fatta a pezzi dalla folla esacerbata dal dolore e gli scanni lignei dei senatori usati per la pira funebre eretta a furor di popolo nel foro, dove più tardi fu innalzato il tempio del Divus Iulius. L’ambiguità di Antonio è stata immortalata dalle pagine non di uno storico, ma di Shakespeare, che ne rappresenta l’orazione funebre sulla salma di Cesare, dove l’elencazione dei meriti del dittatore si conclude sempre con il proverbiale ritornello: «ma Bruto è un uomo d’onore». Ma i Cesaricidi, come anche Antonio, non avevano tenuto in conto l’improvvisa ed inattesa apparizione sulla scena di un altro protagonista, di cui Cesare era prozio: il diciannovenne Ottavio, nipote di una sorella del dittatore. Quando Antonio aprì intempestivamente il testamento di Cesare

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dandone pubblica lettura, scoprì amaramente di non essere istituito fra gli eredi, mentre lo era Ottavio. Questi tornò perciò rapidamente dalla Grecia, dove si trovava a completare la formazione di studio. Con un’abilità insospettata per un giovane della sua età, si accostò a Cicerone, che s’illuse di strumentalizzarlo, cercando di esautorare Antonio. L’antipatia di questi per l’inatteso rivale era evidente, ma i veterani di Cesare non gradivano che l’erede del dittatore e il suo luogotenente fossero nemici e costrinsero i due ad una pace armata. I quattuorviri monetales dell’anno 44, dopo la morte del dittatore, aggiungeranno alle monete con l’effige di Cesare una stella: il Sidus Iulium. Esso sarà posto sotto lo scettro o la lancia di Venere sul rovescio, in sostituzione talora del globo o della sfera armillare, e sul diritto rappresentato dietro il ritratto del dittatore. Ma la stella sarà anche riprodotta nelle monete sia come episema su uno scudo sacro sia, in seguito, iscritta nel frontone del templum divi Iulii. Infine, sempre nella monetazione argentea, la vediamo posta sul capo stesso della statua di Cesare, dove Ottaviano è significativamente raffigurato di maggiori dimensioni mentre la regge con la destra. Per quanto riguarda l’iconografia di Venere guerriera, l’anno dopo l’apparizione del Sidus Iulium, sul finir dell’estate, del 43 a.C., il monetalis cesariano L. Flaminius Chilo per primo, seguìto dagli altri due colleghi, conia denari col ritratto del dittatore defunto e presenta una nuova immagine della bellicosa Venus cesariana del precedente anno 44. Alla Venere combattente viene sostituita una Venere che e voca l’agognata e irraggiungibile Pax: il seno nudo della guerriera amazzonica le viene coperto con un pesante panneggio. Ella reggerà allora non più la Victoriola, ma il caduceo degli ambasciatori di pace. La moneta rappresenta sul recto il profilo laureato di Cesare: tuttavia lo stile non è più quello dei denari del 44, che s’iscriveva nel tradizionale ed ancor rude realismo della ritrattistica repubblicana romanoitalica, ma s’ispira innovativamente alla raffinatezza dell’arte ellenistica: pur non negando la veridicità dei tratti fisionomici, tale rendimento li traduce in sembianze già orientate all’idealizzazione, segno dell’attesa apoteosi di Cesare, che sarà sancita lege Rufrena alle kalende di gennaio del 42. L’apparizione del Sidus Iulium era valsa a convincere la maggioranza della divinità attinta, ascendendo in cielo, dal dittatore defunto, occasione che Ottaviano non si lasciò sfuggire. Sappiamo infatti che, quando questi, nell’estate 44 celebrò i ludi, promessi a Venere due anni prima dal prozio e padre adottivo per la vittoria di Farsalo, apparve per una settimana una nuova stella straordinariamente luminescente già sul far della sera: il popolo, incoraggiato dal nuovo Cesare, pensò trattarsi dello spirito del dittatore assunto in cielo fra gli dei, stante anche la credenza pitagorica sulla sede astrale delle anime, che si pensava fosse nella Via Lattea. I monetales, dall’estate 44 e fino al termine dell’anno, modificarono conseguentemente i conî che battevano da febbraio, dacché a Cesare era stata conferita la dittatura perpetua: il potere assoluto cui egli aveva aspirato tanto a lungo e che aveva afferrato così fugacemente si andava consolidando ora, paradossalmente dopo il suo assassinio, in una mistica ed in una teologia di Stato per opera dei suoi seguaci – anzitutto Antonio nominato sacerdos divi Iulii – e soprattutto del suo erede: quello che noi chiamiamo Ottaviano aveva infatti assunto il nome del padre adottivo, Caio Giulio Cesare. Se quest’ultimo era forse stato nelle intenzioni di Cesare dittatore adottato e istituito piuttosto come erede privato, ai primi ne era andata delegata, lui in vita, l’esaltazione dell’immagine ed il collegamento celeste con la divinità tutrice. Quello che Ottaviano, divenuto Augusto, scrisse nelle sue perdute memorie ci è tramandato da Plinio, cui attingono autori più tardi.

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Plinius, Naturalis Historia II, 93-94. In tutto il mondo c’è un sol luogo, dove una cometa è oggetto di culto: un tempio di Roma. Il divino Augusto l’aveva giudicata un presagio straordinariamente fausto, perché apparve proprio al suo inizio, durante i giochi che egli faceva tenere per Venere Genitrice, non molto dopo la scomparsa del padre Cesare, nel collegio da lui istituito. E infatti egli ha lasciato scritta con queste parole la gioia che provò: «In quegli stessi giorni in cui si celebravano i miei giochi, una stella con una chioma raggiante fu scorta per sette giorni nella regione del cielo che volge a settentrione: sorgeva verso l’undicesima ora del giorno e fu molto luminosa e ben visibile da ogni terra. Il significato di quella stella, secondo la credenza popolare, fu che l’anima di Cesare era stata accolta nel firmamento degli dei immortali, e per questa ragione la rappresentazione di questo eccezionale segno celeste fu aggiunta sulla testa della sua statua, che subito gli consacrammo nel foro». Questo egli dichiarò in pubblico. Ma dentro di sé era pervaso da una gioia più profonda, perché interpretò che quella stella era nata per lui e che lui nasceva in essa. E, a dire il vero, essa portò al mondo la Salvezza. Si scorge in questa chiusa un indizio di quella mistica teologica e soteriologica che, per iniziativa di san Paolo, sarà poi attribuita al Cristo. Appena arrivato in Italia l’adulescens o puer Ottavio, come si ostinava a chiamarlo Cicerone, volle preannunciare subito i giochi che avrebbe allestito, preparando un discorso pubblico che, smaliziatamene, sottopose prima all’oratore. Ora il 23 (o 24) settembre del vecchio calendario coincideva con il dies natalis di Ottaviano. Dunque che egli, nell’intimità del suo animo, abbia riferito a se stesso il prodigio astrale che in pubblico attribuiva a Cesare, non è un fatto gratuito, ma è dovuto alla straordinaria coincidenza dell’apparizione della “cometa” nel giorno del suo diciannovesimo compleanno. Divenuto Augusto, si guardò dal discostarsi ufficialmente dalla linea intrapresa in pubblico, ma retrospettivamente il presagio dovette apparirgli avverato nella sua persona e nella sua fortuna e dovette parlarne in famiglia e nel suo entourage, da cui proviene la voce raccolta da Plinio. E anche in questo creder negli astri, che proprio perché racchiuso in interiore gaudio appare immune da propaganda e sembra rispondere a un’intima e autentica convinzione: lo stoico Augusto, notoriamente superstizioso, si dimostra profondamente diverso dall’epicureo e razionalista Cesare. Questi era saggiamente scettico sulla sopravvivenza dell’anima e sull’esistere di una divina provvidenza, aderendo con convinzione al materialismo atomistico dei kathegemones del Giardino, i Maestri e successori di Epicuro. Tuttavia, va accordata ad Ottaviano almeno l’attenuante della straordinaria coincidenza dell’apparizione del Sidus Iulium nell’anniversario della sua nascita. Si può esser indulgenti con lui, se non pensò trattarsi dell’esplosione di una supernova o del casuale vagare di un bolide. Ma forse Cesare, che di astronomia se n’intendeva, l’avrebbe in qualche modo intuito. Ottaviano costrinse Antonio a riconoscere l’adozione che di lui Cesare aveva fatto nel testamento, e divenutone figlio adottivo ne assunse il nome: Caius Iulius Caesar Octavianus.

Finché vi fu il problema di liquidare i Cesaricidi, che Ottaviano presentò come segno di pietas filiale nel vendicare l’uccisione del padre, egli fu legato ad Antonio da una necessaria alleanza. Ma poi l’assassinio di Cesare precipitò l’impero in una nuova guerra civile: era mancato ai Cesaricidi un valido progetto politico e fu loro

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fatale il non aver compreso che, ucciso Cesare, sarebbero rimasti in piedi gli interessi gravitanti attorno a lui e irrisolti i gravi problemi che egli stava affrontando. Una legge comiziale, la lex Titia de triumviris rei publicae constituendae, affidò lo Stato ad Ottaviano, ad Antonio ed a M. Emilio Lepido, espressione dell’aristocrazia senatoria. Sconfitti prima, a Filippi, i Cesaricidi Bruto e Cassio, e poi, nelle acque di Nauloco, presso Milazzo, Sesto Pompeo figlio del Magno, che dalla Sicilia esercitava il controllo marittimo dell’Italia e dei suoi rifornimenti granari, Ottaviano riuscì ad emarginare Lepido. Emerse allora la contrapposizione di interessi che dall’inizio v’era stata fra Antonio ed Ottaviano, il primo insediato in Oriente, il secondo in Occidente. Antonio seguì allora le orme di Cesare: non tenendo conto del matrimonio con Ottavia, che aveva suggellato la sua temporanea alleanza con Ottaviano, si stabilì ad Alessandria da Cleopatra. Fu facile per Ottaviano dichiarare che il grande Antonio era rimasto vittima del sortilegio della “maga” egiziana, e scatenare contro di lui una guerra civile. Dopo la sconfitta di Antonio ad Azio, nel 31 a.C., la propaganda augustea trova voce in Virgilio e nell’Anonimo grande poeta del cosiddetto Carmen de bello Actiaco: lo scontro fra i due triumviri viene dipinto dalla poesia del consenso augusteo come quello fra la libertà della civiltà occidentale romano-italica e il dispotismo della barbarie orientale. Alle divinità olimpiche greco-romane, che presiedono ai destini della battaglia, si oppongono invano gli orrendi dei teromorfi dell’Egitto governato da Cleopatra ed Antonio. Bisogna riconoscere che il tema propagandistico era in fondo rispondente alla realtà. Nell’orma – e nel letto – di Cesare, Antonio si era unito a Cleopatra nel hieròs gamos, che doveva sancirne l’identificazione con Dioniso e Arianna: i nomi di Alexandros Helios e Cleopatra Selene, dati ai figli nati da questa unione, dichiaravano i termini della teologia cosmica, e l’ispirazione ideale ad Alessandro Magno, sui quali Antonio intendeva legittimare il suo potere. Il 1 agosto del 30 a.C. l’esercito di Ottaviano, comandato dai grandi generali Marco Vipsanio Agrippa e Caio Cornelio Gallo, entrava in Alessandria quasi senza colpo ferire. Antonio si suicidava, seguito da Cleopatra, che però otteneva che i figli Alexandros Helios e Cleopatra Selene fossero risparmiati e allevati come principi. In cambio preservava il tesoro tolemaico intatto per Ottaviano, cui era indispensabile per pagare le truppe. Relegato il rappresentante della nobilitas, Lepido, nel ruolo, ormai puramente onorifico, di pontefice massimo, Ottaviano restava così solo padrone dell’Ecumene. Appena giunto ad Alessandria egli volle visitare il sepolcro del fondatore, da cui la città prendeva nome, e ordinò che fosse aperto per deporvi una corona. I sacerdoti che l’attorniavano, stupiti e compiaciuti della venerazione che il conquistatore dimostrava ad Alessandro Magno, gli chiesero se desiderasse fossero aperti anche i sepolcri degli altri re che stavano lì attorno, con ciò riferendosi ai sovrani della dinastia tolemaica. Il nuovo Cesare rispose allora che egli non era venuto a veder morti, ma a venerare un re. Alludeva così alla sua statura di solo kosmokrator, padrone e conquistatore del mondo, il solo a potersi paragonare ad Alessandro Magno, unico vero dio. Il regno dei Tolomei e la loro dinastia erano stati da lui stesso estinti: la loro pretesa di divinità era dunque falsa. Ma – come vedremo – Ottaviano si guardò bene dall’usare questa dialettica in Occidente, per il quale riservava tutt’altro atteggiamento politico. Il senato romano,

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ed il suo massimo rappresentante ideale, Cicerone, sono stati accusati per essersi messi nelle mani di Ottaviano, senza comprendere che la vittoria dell’uno o dell’altro triumviro avrebbe comunque comportato la fine della respublica. Va invece – io credo – riconosciuto che, mancando il senato dell’appoggio del popolo e degli eserciti, di cui godevano i triumviri, abbia saputo realmente scegliere, nella sua ottica, il mal minore.

Ottaviano infatti aveva bene appreso la lezione del cesaricidio: egli non accettò mai che gli fosse tributato culto divino, almeno in suolo italico, rifiutò la proskinesis, la genuflessione, che qualche governatore provinciale aveva spontaneamente tentato di eseguire al suo cospetto, e si dimostrò sempre attento al rispetto delle forme repubblicane. Soprattutto poi rinunciò ad una autonoma ideologia dell’autocrazia illuminata, che sotto il nome di principato egli aveva instaurato. Il principato augusteo adottò infatti l’ideologia della libertas repubblicana, che pretese di avere restaurato. Dal 31 al 23 Ottaviano rivestì ogni anno il consolato e fino al 28 mantenne il titolo ormai paradossale di triumvir rei publicae constituendae. Ma il 13 gennaio del 27 dichiarò nella seduta del senato che apriva il nuovo anno di ritenere d’aver adempiuto al suo compito con la vendetta (ultio) del padre suo. Si faceva ormai chiamare dal 43 divi filius (figlio di dio) ed aveva eretto il tempio di Marte Ultore per celebrare la vittoria sui Cesaricidi. Ora deponeva i poteri triumvirali, che la coniuratio totius Italiae, il giuramento di fedeltà prestatogli dall’Italia intera per la guerra contro Antonio e Cleopatra, gli aveva consacrato. E dichiarava di desiderare il ritorno a vita privata. Un senato servile, come più tardi lo dipingerà Tacito, lo supplicò di conservare l’imperium proconsulare sulle provincie non pacificate, ciò che egli si degnò accettare solo per dieci anni perché comportava il comando degli eserciti, vera sede del potere, ed infine anche l’amministrazione dell’erario dello Stato. Per questa sua “generosità” gli fu attribuito il titolo di Augusto, che divenne da allora il suo nome personale e poi il titolo degli imperatori. Il nome derivava dall’aggettivo, che proveniva dal verbo augeo (accrescere) e designava l’eccellenza e la supremazia morale, una sorta di grazia divina o santità (auctoritas o chárisma). Cosicché da Caius Iulius Caesar (Octavianus) egli si denominò da allora in poi Imperator Caesar Augustus. Il titolo con cui si acclamavano i generali vittoriosi nella repubblica, Imperator, divenne il suo praenomen, Caesar, il cognomen del padre adottivo, divenne il suo gentilizio e da quel momento designò la stirpe dei Cesari, mentre Augustus fu assunto come cognomen. Questi tria nomina eccezionali, che da soli costituivano il suo nome personale di principe, divennero poi titolo di ciascun imperatore (con la sola eccezione di Tiberio), ma con l’aggiunta della designazione personale di ciascuno dei suoi successori. Da quel 13 gennaio del 27 la respublica ch’egli pretendeva d’aver restaurata (respublica restituta) si potrebbe considerare formalmente sepolta: l’oligarchia senatoria aveva trovato il suo ossequiente padrone.

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IV.7. La concezione greca della demokratía, la respublica oligarchica romana e le oligarchie finanziarie nelle democrazie moderne. Come si è visto, gli organi assembleari romani (comitia dapprima curiata e poi centuriata e tributa, concilia plebis tributa, senato) e le magistrature in cui si svolge il cursus honorum (questura, edilità, tribunato della plebe, pretura, consolato e censura), non agivano secondo il moderno principio di separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, ma concorrono nella confezione ed approvazione del medesimo atto. E lo stesso organo può svolgere ora funzione elettorale, ora giudiziaria, ora esecutiva. La respublica non era una “democrazia” né nel senso greco della parola né nel senso moderno. Nel mondo greco delle poleis la democrazia era esercitata in forma pressoché diretta: l’ekklesía, l’assemblea popolare, era sovrana (kyría) e prendeva le decisioni più importanti senza essere sottoposta all’approvazione della boulé, la ristretta “camera” degli anziani paragonalbile al senato romano. Nelle votazioni per l’approvazione delle leggi e il conferimento dei comandi militari vigeva il principio un uomo = un voto, al contrario di quanto avveniva nel computo per tribù o centurie nella respublica romana. Nelle poleis democratiche, infine, le magistrature civili – salvo alcune di natura tecnica – erano estratte a sorte in osssequio al principio di eguaglianza dei cittadini (polítai). Inoltre nel concetto di demokratía greca era insito il concetto di violenza: nelle poleis aristocratiche la democrazia era stata una conquista del popolo e dell’emergente ceto medio dei commercianti, che aveva lottato, spesso sanguinosamente, per spodestare le oligarchie terriere che si riservavano il monopolio del potere politico. Ad Atene gli aristocratici potevano concorrere al sorteggio delle cariche civili o all’elezione di quelle militari, ma non era riconosciuto all’aristocrazia come tale il diritto di costituirsi in “movimento” o “partito” politico, e l’ostracismo era il procedimento di votazione popolare, nel quale si scriveva su un coccio (óstrakon) il nome di chi era ritenuto pericoloso per la democrazia, un procedimento attraverso il quale lo si poteva esiliare senza che avesse commesso alcun reato in base al semplice sospetto. Ma la respublica romana differisce anche dal moderno concetto di democrazia: nato con la Rivoluzione Francese, esso ha una genesi storica che ricorda quella greca nell’instaurarsi del potere del popolo attraverso la rivolta e la strage dell’aristocrazia. L’esperienza delle democrazie liberali dell’Ottocento ha stemperato il concetto di democrazia come violenza, benché questa sia stata spesso adoperata negli Stati borghesi non contro i detentori del potere, ma contro il proletariato rurale o industriale. Oggi il concetto di “democrazia debole” è il segno della crisi identitaria di società e sistemi che non hanno la forza né il coraggio di affermare il principio di “democrazia forte”, per il quale la democrazia si applica solo a chi la riconosce, mentre chi la avversa è perseguito dalla legge. Fu proprio così che Fascismo, Nazionalsocialismo e Comunismo poterono impadronirsi attraverso elezioni del potere parlamentare e imporre dittature, che in breve instaurarono il partito unico. Ed è così che ancora oggi partiti religiosi, gene-

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ralmente di ispirazione cristiana o ebraica, o perfino scopertamente confessionali e agli ordini di varie Chiese, sono riconosciuti in Occidente anche se di norma costituiscono un forte limite alla laicità degli Stati, mentre nel mondo islamico tentano di sovvertire le nascenti e malcerte democrazie parlamentari, impadronendosi “legalmente” dei parlamenti attraverso elezioni. Del resto è molto discutibile che quelle occidentali possano definirsi effettivamente democrazie: i dati CENSIS 2011 fotografano un’Italia in cui il 10% delle famiglie detiene il 47% della ricchezza, mentre la restante massa del 90% ne detiene solo il 53%. La situazione non è sostanzialmente diversa nel resto del mondo capitalista. Si può dire dunque che quelle moderne siano oligarchie finanziarie e bancarie, nelle quali la speculazione di borsa costituisce il punto critico, del tutto indipendente dalla produttività dell’impresa, che si sottrae al controllo dello Stato e rischia di distruggere il sistema economico e l’assetto politico delle socialdemocrazie. L’oligarchia senatoria romana di età repubblicana fondava, al contrario di quelle moderne, la propria ricchezza più sulla proprietà terriera che sulla speculazione finanziaria, praticata invece dal “ceto medio” (ordo) dei cavalieri (equites), l’ordo equester, e dei publicani (esattori indiretti delle imposte), consociati nella societates publicanorum, mentre il popolo era considerato incapace di giudizio politico maturo se non indirizzato dai boni viri (cfr. l’imperitia multitudinis nel giudizio ciceroniano in questo capitolo, par. IV.5.4, p. 128). Appare significativo che Cesare dittatore abbia capovolto questo pregiudizio aristocratico, considerando piuttosto il senato affetto da tale incapacità di giudizio politico: il governo dei Cesari, che noi chiamiamo principato, limitò il potere del senato preservando dalla sua avidità la società e lo Stato, e l’imperatore si pose come un garante della redistribuzione del reddito a cavalieri e plebe, ma anche ai provinciali, dai quali traeva il consenso e l’appoggio politico, reclutandone altresì la massa delle forze armate e della burocrazia.

V IL PRINCIPATO SOMMARIO: V.1. Le riforme istituzionali di Augusto e gli interventi nel diritto pubblico e privato. – V.1.1. Augusto: restitutio reipublicae o respublica amissa? – V.2. Ideologia e mistica augustea. – V.2.1. Propaganda politica augustea e reazione. Alessandro, Pericle, Catone: i modelli del Grande Camaleonte. – V.2.2. Il dibattito moderno sulla natura “giuridicocostituzionale” del principato augusteo e l’opinione degli antichi. – V.2.3. L’attesa messianica ed i Vangeli di Augusto Figlio di Dio e Salvatore del genere umano. La reazione del “buon senso romano-italico”: Augusto da divi filius a feminae filius. – V.3. La successione imperiale: l’impero fra ideologia della libertas e dispotismo. – V.3.1. La successione fra elezione formale e scelta dinastica e i modelli politici del principato.

La rivoluzione che ha prodotto l’Impero romano, incominciata da Giulio Cesare e portata a compimento da Augusto, è, nell’ordine politico, il grande avvenimento che collega all’antichità la storia delle nazionalità moderne. ALPHONSE PAILLARD (1875) 1

V.1. Le riforme istituzionali di Augusto e gli interventi nel diritto pubblico e privato. V.1.1. Augusto: restitutio reipublicae o respublica amissa? Quando depose formalmente il potere conferitogli dalla coniuratio e dal consensus totius Italiae per condurre la guerra contro Antonio e l’Egitto, e fu proclamato Augusto nel 27 a.C., il nuovo Cesare aveva 36 anni e da tre era rimasto il solo incontrastato padrone del mondo romano. Ammaestrato dal cesaricidio, egli fece del rispetto formale delle strutture costituzionali repubblicane un cardine della sua tattica e strategia di politica interna e di mantenimento del suo predominio; non meno, tuttavia, di quanto si adoperò per svuotare, il più possibile e il in1 A. PAILLARD, Histoire de la transmission du pouvoir impérial à Rome et à Constantinople, Paris 1875, p. 7. Queste parole furono scritte dallo storico francese all’epoca della fioritura degli Stati nazionali europei e della loro potenza coloniale, ma restano ancor oggi valide, oltre il tramonto della stagione in cui le nazionalità determinarono l’arricchimento e la crescita dell’Europa. Inoltre l’eredità di Roma oltrepassa la dimensione delle nazionalità europee, come si vedrà alla fine di questo corso.

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sensibilmente, le magistrature, il senato, i comizi e tutte le istituzioni repubblicane dei loro effettivi poteri politici. Nel 27 gli fu così assegnata una provincia di dimensioni inusitate, comprendente la Gallia, la Spagna, la Siria e l’Egitto, con un decennale imperium proconsulare maius, cioè superiore a quello dei proconsoli delle rispettive provincie, che gli consentiva di mantenere il comando degli eserciti nei territori non del tutto pacificati perché di recente annessione. Inoltre egli continuò ad essere eletto console annualmente, e ovviamente senza intervallum. Ma mentre prima la sua superiorità era rappresentata dall’attribuzione di tutti i 24 littori che si ripartivano egualitariamente fra i due consoli, dal 28 a.C., quando gli fu collega Agrippa, autore delle sue vittorie militari e suo genero, di littori egli n’ebbe solo 12. Ma ormai Augusto poteva fare a meno anche del consolato, e nel 23 a.C. dichiarò infatti di rinunciarvi, dovendo intraprendere un’ispezione generale dell’orbe romano, che l’avrebbe tenuto a lungo lontano dall’Urbe. Gli fu per questo esteso a tutte le provincie l’imperium proconsulare maius del 27 e in questa dimensione totalizzante attribuito per un decennio e poi per ben tre volte prorogato. Gli fu inoltre in quell’anno conferita anche la tribunicia potestas in perpetuo. Brano fondamentale sul conferimento ad Augusto dei poteri nel 23 è quello di Cassio Dione, storico del II-III secolo d.C., che scrive quando essi erano ormai consolidati dalla tradizione, accettati ed accentuati sotto la dinastia dei Severi. Cassius Dion LIII 32.5: E per queste ragioni il senato decretò che fosse tribuno a vita e gli concesse di trattare in qualsiasi sua seduta deliberante qualunque quaestione avesse voluto, anche quando non avesse rivestito il consolato; inoltre gli permise di assumere l’imperium proconsulare [oppure: di assumere la magistratura proconsolare] una volta per sempre, di modo che non dovesse deporlo ogni volta che entrava nel pomoerium per poi riassumerlo di nuovo, e gli consentì di avere nelle provincie un potere superiore a quello dei magistrati insediati in ciascuna di esse.

In verità l’espressione “tribunicia potestas in perpetuo” è del tutto impropria per il formalismo giuridico-costituzionale. Tuttavia la si trova usata nella dottrina moderna, sull’orma di Svetonio (Aug. XXVII): Augustus … tribuniciam potestatem perpetuam recepit. Peggio ancora, gli storici antichi, ovviamente attenti ai contenuti politici e non alle astratte forme e formule costituzionali, tramandano, come Dione, che gli era stato conferito il tribunato o perfino che fosse tribuno. Augusto stesso è invece ovviamente più cauto e sottile quando scrive nel suo “testamento politico”, le Res Gestae (IX 10.1), che gli fu attribuita quoad viverem la tribunicia pote-

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stas: con ciò egli sottintende ch’essa gli era rinnovata con formale conferimento di volta in volta 2. Era originariamente la tribunicia potestas un potere, che conferiva ai tribuni della plebe facoltà eccezionali rispetto agli altri magistrati. Cosicché Augusto acquistava da essa il ius agendi cum plebe, cioè il diritto di convocare i concilia plebei, la sacrosanctitas, l’intangibilità, e una estesissima auxilii latio, cioè la facoltà di soccorrere e salvare chiunque chiedesse il suo aiuto. Vi si aggiungeva la facoltà di coërcitio, che i tribuni non avevano. Ma il vero potere imperiale risiedeva nel ius intercessionis inerente alla tribunicia potestas, il diritto di opporre un divieto a qualsiasi magistrato. Per i tribuni plebis questo potere in sé sconfinato, loro spettante in esclusiva, trovava tuttavia un limite sia nel principio generale della opponibilità dell’intercessio fra colleghi, dunque anche fra gli stessi tribuni – per cui un tribuno poteva a sua volta essere “paralizzato” dal divieto dell’altro come qualsiasi altro magistrato – sia nella temporaneità della carica (18 mesi). Augusto, però, assumendo la tribunicia potestas senza essere tribuno della plebe, e dunque del tutto indipendentemente dalla carica magistratuale, non era – in termini formali, noi diremmo “costituzionali” – collega dei tribuni e perciò non subiva il rischio di vedersi opporre la intercessio da uno di loro. Proclamava tuttavia (Res Gestae VI 1.2) di aver voluto ed ottenuto lui stesso che cinque volte gli fosse dato un collega nella tribunicia potestas. E costui fu dapprima Agrippa dal 18 al 13 a.C., poi Tiberio nel 6 a.C., nel 4 e nel 13 d.C., entrambi designati alla successione, ma il primo premortogli. Si salvava così l’apparenza almeno parziale del principio di collegialità della respublica, ma infine il rinnovo annuale della potestà tribunizia faceva sì che venisse meno quella temporaneità, che costituiva il cardine su cui ruotava il sistema della “democrazia repubblicana” romana, e di qualsiasi democrazia. Catone il Censore aveva perfino cercato d’impedire per legge che si potesse iterare la carica di console 3, nella quale si aveva comunque sempre un collega: ora un princeps senza colleghi nella totalità dei suoi poteri deponeva la carica solo con la morte. Duttile è naturalmente la rappresentazione che lo stesso Augusto dà per i posteri del suo potere, in un passo del suo testamento politico, nel quale la dottrina moderna ha molto discusso sulla identificazione della potestas. Augusto vi afferma d’essere stato superiore a tutti per auctoritas, ma pari per potestas a tutti gli altri che gli furono colleghi quoque in magistratu. Res Gestae Divi Augusti XXXIV 1-3. 1. In consulatu sexto et septimo, postqua[m b]el[la civil]ia extinxeram, per consensum universorum [pot]iens | aut [pot]ens | re[ru]m om[n]ium, rem publicam ex mea potestate in senat[us populi] que R[om]ani [a]rbitrium transtuli. 2. Quo pro merito meo senat[us consulto Au]gust[us appe]llatus sum … 3. Post id tem[pus a]uctoritate [omnibus praestiti, potest]atis 2 E pertanto, mentre in Italia si continuava a designare l’anno con i nomi dei consoli, nel resto dell’impero si datava con l’aggettivo numerale ordinale o con l’avverbio della potestà tribunizia, exempli causa: “nel terzo anno della potestà tribunizia di Augusto”: Imperator Caesar Augustus tribunicia potestate III: cioè tribunicia potestate tertium (“Augusto nella sua potestà tribunizia per la terza volta). 3 Festus, Lindsay p. 282: […] Cato, cum ait in ea, quam habuit, ne quis consul bis fieret […].

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au[tem n]ihilo ampliu[s habu]i quam cet[eri qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u conlegae [fuerunt]. Le parentesi quadre [ ] indicano le parole integrate in base alla traduzione greca delle Res Gestae in punti illeggibili nel testo latino. Le lettere in corsivo sono quelle che si leggono con difficoltà. Ad Ancyra, Apollonia ed Antiochia sono state trovate iscrizioni monumentali con il testo latino e la sua traduzione greca, che ha molto aiutato le integrazioni eseguite per retroversione.

Imprese del divino Augusto. XXXIV 1-3. 1. Nel mio sesto e settimo consolato (28-27 a.C.), dopo aver estinto le guerre civili, essendo padrone assoluto dello Stato per universale consenso, trasferii la Repubblica dalla mia potestà al libero arbitrio del senato e del popolo romano. 2. E per questo mio merito fui chiamato Augusto con un senatoconsulto … 3. Dopo quel tempo fui superiore a tutti per auctoritas, ma di potestas non ebbi nulla di più ampio rispetto a tutti coloro che anch’io ebbi come colleghi nella magistratura [oppure: rispetto a tutti coloro che ebbi come colleghi in ciascuna magistratura].

Theodor Mommsen aveva integrato il testo latino, per retroversione dal testo greco enkratès genómenos, in potitus rerum omnium, il cui senso era “dopo essermi impadronito del sommo potere”, essendo potitus participio passato di potior. La recente letteratura scientifica, sulla base del testo trovato ad Antiochia, ha creduto di poter correggere potitus in “[po]tens” e, suggestionata dalla novità, ribaltare fin troppo la tradizionale esegesi del c.d. “colpo di Stato” compiuto da Ottaviano. Si può forse leggere potiens anziché potens, ma in entrambi i casi non cambia sostanzialmente il concetto che Ottaviano-Augusto sia, dopo la vittoria sul triumviro Antonio, “rimasto padrone assoluto dello Stato”, sia pure per universale consenso, il che esalta la sua generosità di avere restituito la respublica al senato ed al popolo. Potiens o potens rerum omnium indica infatti l’essere padrone assoluto. Il concetto di “colpo di Stato”, mutuato in dottrina dall’esperienza politica del XIX secolo, costituiva di per sé un approccio inadeguato a comprendere le parole di Augusto. L’esegesi sostanziale del Mommsen, se non la sua integrazione, resta abbastanza confermata dalla nuova restituzione, venendone meno solo l’idea di “attività” di “iniziativa intrapresa” per impadronirsi del potere, che appare caduto come un frutto maturo nelle mani di Augusto quasi automaticamente, per il solo fatto che, venuto meno Antonio, il consenso per il vincitore divenne universale, cioè conquistò anche la vinta parte antoniana. Quanto al quoque del paragrafo 3 – cet[eri qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u conlegae [fuerunt] – può tradursi grammaticalmente sia come congiunzione, nel significato di “anche”, sia come aggettivo indefinito, nel significato di “ciascuno” (“ciascuna magistratura”). La dottrina ha discusso a quale magistratura Augusto alludesse. Per escludere che si trattasse del consolato si è obiettato che egli, rivestendolo, ebbe anche l’imperium militiae, dal quale i colleghi rimasero invece esclusi: poiché non avrebbe potuto così scopertamente mentire, nel magistratus non andrebbe riconosciuto il consolato. L’argomento non mi sembra convincente, perché non può ritenersi che l’imperium militiae sia implicitamente compreso nella nozione costituzionale di potestas,

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che è in generale il potere del magistrato, e più tecnicamente il suo potere di determinare con la sua volontà diritti ed obblighi per la respublica, in base alle sue specifiche competenze e alle norme consuetudinarie o legislative che costituzionalmente le sanciscono. È superfluo ricordare che, mentre ogni magistratura implica una potestas, solo le magistrature più elevate sono cum imperio. Inoltre, se Augusto avesse voluto riferirsi inequivocabilmente al consolato, avrebbe scritto conlegae in consulatu non in magistratu. Più fondata sembra l’osservazione che Augusto, scrivendo le Res Gestae, narrazione delle sue imprese alla fine della sua vita, probabilmente attorno al 13 d.C., un anno prima della morte, difficilmente avrebbe fatto riferimento al consolato rivestito dal 27 al 22 e poi nel 5 e nel 2 a.C.: il lettore delle Res Gestae non avrebbe certo pensato a quei remoti eventi, la cui rilevanza politica era divenuta irrisoria di fronte allo status costituzionale complessivo, che ormai il vecchio e veneratoprincipe, onusto di gloria, aveva acquistato. Ma se Augusto avesse definito colleghi nella magistratura i correggenti nella tribunicia potestas, cioè Agrippa prima e Tiberio poi, allora tutto il passo acquisterebbe ben altra verosimiglianza, avendo essi – se non politicamente almeno formalmente – condiviso la tribuncia potestas del principe in tutta pienezza. Resta però il fatto che qui Augusto non qualifica la potestas quale tribunicia, come fa altrove nelle Res Gestae. Mi sembra perciò ch’egli abbia adoperato con voluta equivocità i termini di potestas e magistratus, anziché usarne di specifici, per alludere globalmente sia alle diverse cariche rivestite in differenti anni e occasioni della sua vita – di propretore, triumviro, console e proconsole – sia anche alla tribunicia potestas, che però era la sola, fra le sue potestates magistratuali, a essere assunta disgiuntamente dalla carica, il tribunato, mentre le altre erano inerenti alle singole magistrature. Con questa studiata genericità egli poteva autorappresentarsi investito di un potere, diverso nel tempo a seconda dei momenti, eguale a quello dei colleghi di volta in volta avuti: e tale genericità gli consentiva di onnicomprendere la tribunicia potestas, che conveniva sussumere nella categoria generale di potestas, senza riferirsi alla sua specificità istituzionale, in quanto era il potere imperiale in sé certo più imbarazzante da definire per chi pretendeva d’avere restaurato la respublica. Egli infatti, già nel 28 o nel 27 a.C. accampò tale pretesa di restaurazione della democrazia promulgando un editto de restituenda republica, il cui sunto Svetonio ha tramandato: Svetonius, Augustus XXVIII. Ita mihi salvam ac sospitem rempublicam sistere in sua sede liceat aut eius fructum percipere, quem peto: ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem mansura in vestigio suo fundamenta reipublicae, quae iecero. Svetonio, Vita di Augusto XXVIII Così mi sia concesso consolidare la repubblica sana e salva nella sua sede o raccoglierne il frutto che desidero: cioè essere detto in futuro autore del migliore assetto costituzionale e, morendo, portare con me la speranza che rimarranno (incrollabili) al loro posto le fondamenta della repubblica, che avrò gettate.

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Augusto sottintende in questo editto le tradizionali convinzioni del mondo romano, sistematizzate nella concezione dell’etica pubblica del Somnium Scipionis ciceroniano, che garantiscono dopo la morte la sopravvivenza nei Campi Elisi a chi ha ben meritato verso lo Stato. Il tema della reparatio reipublicae o della respublica restituta, o ancora della respublica conservata, cioè la pretesa d’aver riparato, restaurato e conservato la “democrazia repubblicana”, è pubblicizzato dalle iscrizioni monumentali fino alle leggende monetali, veicoli onnipresenti della propaganda del princeps. Storici di parte imperiale, come nel caso di Valerio Massimo, ed anche giuristi come Ateio Capitone, seguirono questa interpretazione politica. Ma il greco Strabone, che di Augusto fu contemporaneo, lo chiama hegemón, definendo prostasía il principato, termine usato più tardi anche da Dione Cassio, quando scrive che Augusto ebbe la prostasìa tõn koinõn pasa, cioè “l’intero governo della cosa pubblica”. Dall’uso di questa terminologia traspare la concezione di un regime a guida autoritaria ed onnicomprensiva, diverso sì dalla tirannide, restando però in ombra se per la sua diversità istituzionale da quella, o piuttosto per la razionalità dell’autocrazia illuminata del princeps. Pertanto, che l’accorto e guardingo Augusto avesse tutte le ragioni di circospezione in tale materia, dovendo trattare nel suo testamento politico del cardine del potere imperiale, la tribunicia potestas, lo rivelano i giudizi degli storici che abbiamo visto. Ma colui, al quale per primo apparve in tutta crudezza che quella di Augusto era di fatto una monarchia, fu Tacito. Egli la considerò inevitabile per il mantenimento della pace 4 dopo un secolo di guerre civili quasi ininterrotte: fra Mario e Silla e con il bellum sociale, senza contare il bellum servile di Spartaco, contro Catilina, fra Cesare e Pompeo, fra Ottaviano e Antonio. Ma questo non lenì la sua accusa di ipocrisia. E sulla tribunicia potestas eccone il penetrante e dissacrante giudizio: Tacitus, Annales III 56.2: Id summi fastigii vocabulum [potestas tribunicia] Augustus repperit, ne regis aut dictatoris nomen adsumeret ac tamen appelatione aliqua cetera imperia praemineret. Marcum deinde Agrippam socium eius potestatis, quo defuncto Tiberium Neronem delegit, ne successor in incerto foret. Tacito, Annali III 56.2: Questa parola [potestà tribunizia] di così alto prestigio fu una trovata di Augusto, per non assumere il nome di re o di dittatore e tuttavia porsi al di sopra di tutti gli altri poteri magistratuali con un qualche appellativo. Scelse poi come associato a quella potestà Marco Agrippa, e dopo la sua morte Tiberio Nerone, perché non vi fosse incertezza sul suo successore.

Anche Svetonio mostra di condividere tale opinione, considerando senza mezzi termini il principato un regno senza corona: tramanda infatti a proposito di Tiberio che un astrologo, quando ancora non si sapeva quale sarebbe stata la potestas dei Cesari, gli aveva predetto che un giorno avrebbe regnato ma senza le insegne della regalità: etiam regnaturum quandoque, sed sine regio insigni, igno4

Tacitus, Historiae I 1; Annales III 28.

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ta scilicet tunc adhuc Caesarum potestate. Svetonio sottolinea così che, prima di Augusto, nessuno avrebbe potuto immaginare che potesse esistere mai un regnum privo delle insegne e dei simboli della regalità (da qui l’autenticità e la veridicità della profezia). Augusto, tuttavia, non poteva ovviamente negare la superiorità della sua posizione senza perdere di credibilità: escogitò così, nel passo esaminato delle Res Gestae, l’ammissione di tale supremazia nell’ambito dell’auctoritas. Questo termine, come del resto l’appellativo Aug/ustus, condivide la radice sia con il verbo latino aug/ēre, che significa “accrescere”, sia con la parola aug/urium, che riporta alla sfera del sacro. Gli augures traevano presagi dal volo degli uccelli (au/es), dal quale interpretavano la volontà divina. La positiva connotazione di tale radice resta oggi in tutte le lingue neolatine nelle parole “auguri” ed “inaugurazione”. Prima del 27 a.C. Augustus era un appellativo riservato a Giove o a divinità, o ad oggetti “inaugurati” dagli augures. L’auctoritas era invece un concetto politico-costituzionale: in età repubblicana si designava con tale termine la ratifica che il senato prestava alle leggi approvate dal popolo nei comizi perché entrassero in vigore. Dunque al sostantivo auctoritas si connetteva un concetto di superiorità intellettuale e morale, e nello stesso tempo il riconoscimento di una funzione decisionale già in età repubblicana. Ora che il princeps pretende come tale di essere solo un primus inter pares, l’auctoritas, con la sua sfuggente qualificazione morale ma densa di una funzione di generale supervisione, si presta bene all’ammissione di quella “eminenza”, che è sancita dal nome Augustus, e che nelle Res Gestae resta ambiguamente fuori della definizione del potere magistratuale. Non a torto si è pensato che non può ricercarsi il significato del termine auctoritas solo nell’esperienza politica repubblicana, ma che esso acquisti proprio nel principato una diversa valenza, per così dire più carismatica. Mi sembra però che debba distinguersi la dinamica semantica del termine, oggettivamente intesa, dal valore al quale Augusto intendeva riferirsi. Certamente era stato il suo principato ad innovare il concetto di auctoritas, ma riterrei poco probabile ch’egli volesse evidenziare questa innovazione: tutto il suo intento è quello di fare rientrare formalmente la nuova realtà politica negli schemi e nella terminologia repubblicana. E in effetti il termine era sufficientemente ambiguo da coprire sotto la veste dell’ascendente etico, del riconoscimento del prestigio fondato sul consensus universorum, il contenuto «assiomatico» dell’auctoritas. Questa ambiguità scompare però, significativamente, nella traduzione greca, che rende il termine appunto con axíoma, rivelando chiaramente, nella sua dimensione istituzionale, il contenuto autocratico, che al potere di Augusto deriva dalla sua superiorità etico-politica. Sarebbe interessante sapere se una traduzione così «scoperta» sarebbe stata approvata da Augusto come lo fu da Tiberio, che ne “pubblicò” il testamento, anche se bisogna considerare che per le provincie orientali ellenofone non si poneva affatto il problema di non urtare la sensibilità politica «repubblicana» dei Romani. Se dunque la tribunicia potestas è il potere imperiale nella sua massima espressione civile, e l’auctoritas segna la supremazia morale, l’imperium proconsulare

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del principe costituisce il vertice del potere militare e del comando degli eserciti. Invano se ne cercherebbe una trattazione ed una definizione nelle Res Gestae, che si segnalano anche per gli “assordanti silenzi” su ciò di cui non conviene parlare, come la strage delle legioni romane al comando di Varo in Germania. Ma noi esamineremo l’imperium proconsulare quale tramandato dal sopra riferito passo dioneo sulle attribuzioni del 23 a.C. Cassio Dione è cittadino romano e senatore sotto la dinastia dei Severi, ma è di nazionalità e di lingua greca e in greco scrive: per definire l’imperium proconsulare egli usa l’espressione tén archén tèn anthýpaton (in caso accusativo). Il sostantivo latino imperium, nel significato di “potere”, si traduce in greco arché, ma arché rende anche la parola latina magistratus, che significa sia “magistrato”, che “magistratura”. Dunque arché anthýpatos può tradursi sia “il potere proconsolare”, cioè l’imperium proconsulare, come anche “la magistratura proconsolare”. La cosa non è affatto senza rilievo costituzionale, perché fino a tempi recenti la dottrina moderna ha creduto che Augusto, come aveva assunto la tribunicia potestas senza essere tribuno della plebe, così avrebbe assunto l’imperium proconsulare senza esser proconsole. Ma la scoperta di un editto promulgato da Augusto in qualità di proconsul nel 15 a.C. in Spagna per la popolazione iberica dei Paemeibrigenses ha dimostrato che il principe aveva fin dall’inizio l’imperium proconsulare in quanto inerente alla carica di proconsole che egli rivestiva 5.

5 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana IV.1, Napoli 1974, p. 125 ss., 167 ritenne consulare l’imperium di Augusto, osservando tuttavia come, poiché «riguardava le provincie non pacificate» esso «non si estendeva alle provincie senatorie e perciò non si poteva considerare maius nei confronti del potere dei governatori di tali provincie». Licandro, in F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, Roma 2000, ha riformarto l’opinione fino ad allora prevalente in dottrina; la cui stragrande maggioranza riteneva che nel 23 a.C. l’attribuzione a vita ad Augusto dell’imperium proconsulare maius et infinitum disgiunto dal proconsolato avesse determinato la frattura con i principî repubblicani, come aveva fatto l’attribuzione della tribunicia potestas disgiunta dal tribunato. Si riteneva inoltre che l’imperium proconsulare maius et infinitum avrebbe assicurato al principe il controllo delle provincie assegnate ancora, secondo gli schemi repubblicani, ai proconsules, mentre sulle provincie non pacificate avrebbe continuato a mantenere quell’imperium concessogli per la prima volta nel 27 a.C. Nell’affrontare queste consolidate convinzioni, Licandro ha preso le mosse dalla scoperta in Spagna, presso Bembibre, di un editto di Augusto, datato 14 e 15 febbraio del 15 a.C., dove, nel promulgarlo, l’imperatore si qualifica come proconsul. L’editto, o meglio il testo risultante dalla congiunta pubblicazione di due editti strettamente connessi, riguarda la Transduriana provincia, un territorio iberico sito oltre il fiume Durius (oggi Duero), e sancisce l’esenzione tributaria per il piccolo popolo dei Paemeiobrigenses. Licandro ha sostenuto209 che «la presenza del titolo di proconsul smentisce la consolidata opinione secondo cui l’imperium proconsulare fosse stato assunto da Augusto disgiunto dalla carica repubblicana di proconsul, confermando al contrario la giustezza dell’intuizione che qualche decennio fa ebbe Béranger. Nessuno può o intende negare che si trattava di un imperium proconsulare con evidenti anomalie rispetto agli schemi repubblicani, giacché non si imponeva ad Augusto di deporlo una volta rientrato a Roma, sia pure per poterlo riassumere qualora avesse dovuto nuovamente lasciare l’Urbe, ma ora appare altrettanto indubbio che il princeps … in una data successiva al cruciale 23 a.C., fosse un proconsul. Passando alla … quaestione … relativa alla natura di questo potere, sulla scorta … dell’osservazione che la Transduriana … non era affatto una provincia pacificata, consegue che l’imperium sulle provincie non pacificate non fosse nient’altro che un

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Inoltre l’editto ai Paemeibrigenses «ci aiuta a fornire una rappresentazione in cui le provinciae non pacatae sottostavano all’imperium proconsulare del princeps, che lo esercitava appunto in qualità di proconsul; il titolo della provincia non mutava probabilmente sul piano della terminologia costituzionale, perché ancora non correva alcuna differenza tra provincie consolari o pretorie sottoposte al controllo dell’assemblea senatoria e provincie non pacificate, in quanto tutte appaiono essere state provincie populi Romani, proconsolari, e se in ciascuna di quelle in cui il processo di romanizzazione era compiuto o in fase assai avanzata si trovavano proconsules selezionati secondo le normali procedure, le altre in condizione di maggior turbolenza, pur essendo governate da un proconsul, condividevano l’anomalia di avere il medesimo proconsul, cioè il princeps, che poteva in alcuni casi trovarsi realmente lì, come l’editto di Bembibre attesta, ovvero, nella normalità, governare attraverso propri legati». Sembra dunque che Augusto governasse le provincie non pacificate attraverso il suo imperium consulare decennale mediante legati Augusti pro praetore che rispondevano direttamente a lui anziché al senato, o mediante proconsules il cui imperium era però inferiore al suo; mentre in virtù del suo essere console, quindi titolare di un imperium maius rispetto a quello dei proconsules, esercitava un controllo su questi ultimi nelle provincie che furono più tardi dette “senatorie”, perché governate da promagistrati di tradizione repubblicana, per distinguerle da quelle “imperiali” governate invece dai delegati del principe, benché tratti dall’ordo senatorius e, più tardi, da funzionari imperiali appartenenti all’ordo equester. Mi sembra esservi come un’affilata perfidia nel fatto che l’eccezionalità dei poteri proconsolari di Augusto potesse avere in qualche modo precedenti (exempla) nelle iniziative repubblicane, risalendo non tanto ad Antonio 6, ma allo stesso Pompeo, il campione del senato sconfitto da Cesare, e all’imperium eccezionale per durata e territorio conferitogli dalle sopra ricordate leges Gabinia e Manilia. I più potranno discutere sulla natura eversiva o sulla perfetta legalità costituzionale di tali poteri straordinari rispetto all’ordinamento ed ai princìpi della respubliimperium proconsulare. Se così è, compiamo allora un altro passo. Ritornando al frammento controverso in cui Cassio Dione scrive dell’attribuzione ad Augusto di un potere sulle provincie superiore a quello degli altri governatori, grazie all’editto del 15 a.C. siamo nelle condizioni di afferrare meglio il senso di queste affermazioni …: di comprendere la differenza tra c.d. imperium proconsulare maius et infinitum e imperium decennale sulle provincie non pacificate dopo il 23 a.C. Perché … non appare più un azzardo asserire che non si trattava affatto di due imperia distinti, come del resto aveva già intuito De Martino, ma di un unico imperium proconsulare». 6 Ad Antonio, come già a Cesare, furono attribuiti imperia proconsolari pluriennali anziché annui, anche per un quinquennio. La lex Antonia de provinciis del 44 a.C., sebbene ne siano discussi i contenuti e la portata, modificò il regime della lex Iulia de provinciis. Quanto ad altre innovazioni rispetto alla tradizione costituzionale, Antonio fu nominato magister equitum per il 48 o il 47 oltre il semestre. Inoltre Cesare una manipolazione dei iura magistratuum l’aveva già fatta prima del 48 istituendo Antonio tribunus plebis pro praetore, così aggiungendo l’imperium alla facoltà di intercessio ed alla sacrosanctitas del suo luogotenente, lasciato a Roma mentr’egli partiva per le Spagne, provvedimento “regolarmente” deliberato nella seduta senatoria delle kalende d’aprile, convocata nel rigoroso rispetto delle formalità legali.

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ca. A me sembra più significativo produrre il giudizio di “incostituzionalità” formulato dallo stesso Giulio Cesare nel 49 a.C. in relazione ai poteri eccezionali di Pompeo, essendo per lui inimmaginabile che di lì a poco egli stesso, e più tardi il suo erede politico e pronipote, di quei poteri e di quelle modalità di governo pompeiane, ch’egli tacciava d’essere illegali, avrebbe calcato ed approfondito l’orma. Caesar, De bello civili I 85. Infatti per nessun altra ragione furono mandate in Spagna sei legioni e ve ne fu arruolata sul luogo una settima … Nessuno di quei provvedimenti fu preso per pacificare le Spagne, nessuno perché fosse utile ad una provincia, che per il lungo periodo di pace non aveva bisogno di alcun aiuto. Era contro Cesare che tutto ciò già da prima si preparava: per opporsi a Cesare erano istituiti imperia di nuovo genere, in modo che lo stesso uomo [Pompeo], stando alle porte della città, fosse a capo del governo a Roma e (nel contempo) reggesse per tanti anni, senza mai recarvisi, le due più bellicose provincie. Per opporsi a Cesare si stravolgevano le norme regolanti le magistrature, di modo che fossero mandati nelle provincie non, com’era sempre avvenuto, coloro che avevano rivestito la pretura ed il consolato, ma gente gradita e scelta per opera di pochi …

Il passo è tratto dal discorso di Cesare ad Ilerda, in Spagna, il 2 agosto 49 di fronte alle truppe proprie ed a quelle pompeiane di Afranio, che invocava la resa. Egli allude alla nomina di Pompeo proconsole nel 55 delle due Spagne, Citeriore ed Ulteriore, a seguito degli accordi di Lucca del 56 e in forza di una lex Trebonia de provinciis consularibus, e lo accusa d’essersi ben guardato, in cinque anni, dal mettervi piede, inviandovi invece tre legati. Questa precisa e puntuale affermazione sui termini costituzionali ed i limiti di legittimità dei poteri magistratuali repubblicani, la cui violazione Cesare rimproverava strumentalmente ai Pompeiani, fu pronunciata e scritta ma non pubblicata dal dittatore, ed apparve nei suoi Commentarii de bello civili solo l’anno dopo la morte. Tale rappresentazione dei fatti e siffatta interpretazione della violazione della legittimità costituzionale gli offrivano una giustificazione per sostenere ch’egli aveva iniziato la guerra civile penetrando in Italia non per compier malefatte (se non maleficii causa ex provincia egressum), ma per restituire la libertà a sé ed al popolo romano, oppresso dalla fazione di un’esigua minoranza: ut se et populum Romanum factione paucorum oppressum in libertatem vindicaret (De bello civili I 22). Quando Augusto assunse i suoi poteri, però, il de bello civili era ben noto e letto. E non è un caso che Augusto rievochi la giustificazione di Giulio Cesare, quando ormai vecchio afferma a sua volta (Res Gestae. I 1) che rem p(ublicam) a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi (riportai in libertà la repubblica oppressa dal dominio di una fazione). Con questa affermazione, «dopo aver stabilito … un nuovo ordine politico, Augusto, che un tempo Cicerone aveva posto accanto a sé come il difensore della libertà della respublica, riprende proprio l’accostamento ciceroniano di libertas a respublica» 7. 7 G. DOGNINI, Cicerone, Cesare e Sallustio: tre diversi modelli di libertas nella tarda repubblica, «Invigilata Lucernis» XX (1998), p. 96.

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Rispetto alla formulazione di Cesare, sono tuttavia significativi dell’orientamento filo-oligarchico di Augusto le “variazioni sul tema”: il populus Romanus e la factio paucorum (“la fazione di pochi”) del “dittatore democratico” son diventati in Augusto rispettivamente la respublica, connotazione più consona all’uterque ordo che ai populares, ed una factio non definita numericamente, proprio perché i pauci, (gli oligoi, “i pochi”) di Cesare erano i patres conscripti. Cesare li aveva sì combattuti, ma generosamente risparmiati a vittoria conseguita. Augusto, invece, da patres conscripti li fece diventare patres proscripti. Ma poi capì che con i sopravvissuti bisognava venire a patti almeno nelle forme, se si voleva mutare la sostanza. Così proprio il fatto che quelle regole della costituzione sillana invocate da Cesare contro Pompeo fossero state per Pompeo violate dal senato, consentirono ad Augusto di affermare (Res Gestae VI 1) che nullum magistratum contra mores maiorum delatum recepi («Non accettai nessuna magistratura offertami contro i costumi dei nostri antenati»; si potrebbe dire «contro la nostra tradizione istituzionale»). Una tale affermazione poteva apparire, nell’ottica del formalismo giuridico romano, non lesa dall’attribuzione dell’imperium proconsulare maius, perché esso era stato – come si è visto – acquisito in quanto inerente alla carica di proconsole e con illustri, anche se parziali, precedenti repubblicani, mentre la tribunicia potestas non era in sé una magistratura, ma un potere conferito al principe indipendentemente dal tribunato. La salvaguardia della forma istituzionale, però, non evitava, come aveva scritto Cesare nella sua corrispondenza riservata (Svetonius, Div. Iul. LXXVII), «che la repubblica non esistesse più, e fosse ormai un vuoto nome, privo non solo di contenuto ma anche d’involucro» (nihil esse rempublicam, appelationem modo sine corpore ac specie). Vediamo ora come Augusto riuscì abilmente a salvare la species, cioè l’involucro della repubblica, svuotandone il corpus, cioè il contenuto e la consistenza politica, e mantenendone l’appelatio, cioè la mera denominazione. Il consolato. Cardine del sistema di potere magistratuale era stato il consolato, prima che i proconsoli al comando di eserciti nelle provincie ne riducessero il peso politico e militare nell’agonia della respublica. Silla aveva separato l’imperium militiae dall’imperium domi, una volta unificata l’Italia nella civitas Romana dopo l’89 a.C., proprio per evitare l’eccessivo concentramento di poteri in un solo magistrato. Ma comunque il consolato era rimasto non solo la magistratura apicale, ma anche la più importante dell’ordinamento repubblicano anche dopo Silla. Sotto Augusto si capì subito che i consoli non avrebbero esercitato un effettivo potere politico. Ciò nonostante la carica continuò ad essere ambitissima per il lustro che recava, per l’eponimia che continuò a mantenere fino a Giustiniano, per il prestigio della tradizione, ma anche per il governo civile dell’Urbe. Essa tuttavia costituiva una sorta d’imbuto, con due soli consoli all’anno, troppo stretto per le ambizioni e la vanità dell’aristocrazia senatoria. Augusto ne approfittò per istituire i consules suffecti: i due iniziali raddoppiarono a 4 il numero dei consoli, ma alla fine si moltiplicarono come le cavallette giungendo fino a 24: quelli entrati in carica a gennaio prestavano il loro nome all’anno intero, gli altri solo al mese del loro mandato.

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Dando così sfogo al narcisismo del senato, Augusto esautorò la carica di quanto restava del suo potere politico. I comizi e la destinatio. Restava tuttavia il problema del controllo delle funzioni elettorali dei comizi. Allorché morirono i giovanissimi eredi di Augusto, Caio e Lucio Cesari, suoi nipoti in quanto generati dalla figlia Giulia maggiore con Agrippa e adottati dal principe, egli poté approfittare della loro enorme popolarità e della commozione collettiva 8, alla loro prematura scomparsa, per manipolare il funzionamento elettorale dei comizi senza suscitare malcontento. Così nel 5 d.C. una lex Iulia de destinatione magistratuum istituiva 10 centurie miste di soli senatori e cavalieri, intitolate ai principi defunti (5 a Caio e 5 a Lucio), che dovevano votare preliminarmente,, da una lista di candidati alla pretura e al consolato i destinati a presentarsi ai comizi centuriati. In tal modo i candidati alle più alte magistrature non si presentavano direttamente ai comizi che riunivano tutto il populus Romanus, ma solo alle 10 centurie senatorio-equestri, ai cui ordines si accedeva in base al censo. Le centurie intitolate a Caio e Lucio Cesari eleggevano un certo numero di candidati, i quali si presentavano poi ai comizi, che a loro volta restringevano con il voto la scelta in base al numero delle cariche da ricoprire. Inutile dire che i candidati commendati a principe, cioè ufficialmente raccomandati dall’imperatore, venivano regolarmente eletti sia in prima che in seconda consultazione. In tal modo, quasi insensibilmente, i comizi centuriati furono privati della vera libertà di scelta. Non vi furono proteste, benché le guerre civili fossero ormai un ricordo vecchio di 35 anni, in una società in cui la vita media non superava normalmente i 30. Ciò anche perché Augusto seppe avvantaggiarsi politicamente del clima di attesa epocale – come meglio vedremo – delle folle romane come di quelle provinciali. Alle prime offrì una mistica, che coniugava una nuova teologia di Stato con il concetto di delega della sovranità popolare, insito nelle elezioni repubblicane: dal Cielo o dai Campi Elisi, dove i giovani principi erano ritratti nelle arti figurative, Caio e Lucio esprimevano le proprie scelte attraverso il voto delle centurie loro intitolate, veri e propri “santi”, numi tutelari dell’Impero e protettori del popolo. Le più alte cariche della repubblica erano così divenute soltanto decorative, prive di effettivo potere politico, tanto che, in segno di disprezzo, il grande giurista di osservanza ideologica repubblicana M. Antistio Labeone si rifiutò di ricoprirle,

8 Se si vuole percepire concretamente il clima dell’epoca, si pensi alla straordinaria popolarità, non solo in Gran Bretagna, per la prematura e tragica morte della principessa Lady Diana, con vere e proprie manifestazioni devozionali alla fine degli anni Novanta dello scorso secolo; o negli anni Ottanta a seguito della morte, anch’essa prematura, della principessa di Monaco, già diva cinematografica, Grace Kelly. Cui tuttavia bisogna coniugare quell’atmosfera più propriamente religiosa e miracolistica, che si accompagna a livello popolare a vari santi e santoni: tuttavia i principi delle gentes Iulia e Claudia, come Caio, Lucio e, più tardi, Germanico e Druso, non godevano di tale fama e benevolenza solo presso la plebe, ma anche presso i ceti intellettuali che, non affetti da credulità popolare, ne apprezzavano la preparazione e lo spirito di sacrificio nel governo dello Stato e nel comando degli eserciti.

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nonostante le insistenze del principe. Ma ormai Augusto poteva permettersi di tollerare un dissenso, ch’era più che altro nostalgico, magari fastidioso, ma politicamente innocuo. Alcune grandi personalità devote alla memoria della tradizione repubblicana collaboravano del resto, al contrario di Labeone, con il principe. Così Lucio Sestio Quirinale, che fu prima consul suffectus nel 23 a.C. quale successore di Augusto, che in quell’anno aveva deposto il consolato, e poi anche legato di Augusto in Spagna, celebre per l’amicizia di Orazio, era famoso per la perseveranza nel coltivare la memoria di Bruto il Cesaricida. Lo storico Tito Livio, che tradusse in prosa dalla poesia virgiliana la concezione della storia romana finalizzata all’Avvento di Augusto, era bonariamente da questi chiamato Pompeianus (Tac., Annales IV 34). Tutto, ormai, poteva essere volto innocuamente alle finalità istituzionali ed edificatorie del principe. Il senato e la sua nuova attività normativa e giurisdizionale. Il senato perse, com’è facile immaginare, il ruolo politico direttivo che così malamente aveva esercitato nella repubblica. In compenso acquistò competenze e poteri nella legislazione civile e criminale e perfino nell’attività edittale del pretore. Le deliberazioni senatorie continuarono a chiamarsi senatusconsulta, ma mentre in età repubblicana dovevano essere recepite dal magistrato richiedente, e non è detto che sempre lo fossero, nel principato acquistarono valore di legge. In materia criminale, alcune competenze che in età repubblicana erano state proprie delle corti permanenti e delle “giurie popolari”, le quaestiones perpetuae de sicariis et veneficiis, de repetundis, de ambitu, perduellionis, si aggiunsero al crimen maiestatis nel costituire una giurisdizione propria del senato. Il crimen maiestatis poi, che consisteva nell’attentato alla sicurezza dello Stato attraverso una rivolta armata, o nell’attentato alla vita o all’incolumità dei magistrati, si estese a tutela della persona del princeps, senza che mai se ne avesse una regolamentazione precisa. Cosicché si prestò spesso ad abusi, fino a perseguire – sotto alcuni imperatori “tiranni” – con la poena capitis semplici maldicenze e calunnie. Nel 4 a.C. un senatusconsultum ad Cyrenaeos intervenne nella disciplina del crimen repetundarum, in materia di reati di concussione e corruzione, mentre nel 10 d.C. il senatusconsultum Silanianum, nel caso di assassinio perpetrato in casa, comminò la pena di morte agli schiavi che non avessero soccorso il padrone, proibendone l’apertura del testamento prima che essi fossero interrogati mediante tortura, e ciò al fine di prevenire omicidi interessati da parte degli eredi istituiti. Dopo questi primi provvedimenti, l’attività normativa del senato divenne talmente abituale, che in un manuale d’insegnamento istituzionale del II secolo d.C., il modesto giurista di età antonina Gaio (Institutiones I 4) scrive che senatus consultum est quod senatus iubet atque constiuit; idque legis vicem optinet, quamvis fuerit quaesitum («il senatoconsulto è quello che il senato ordina e stabilisce e tiene le veci della legge anche quando sia stato richiesto»). Gaio considera scontato che il senato pubblichi di propria iniziativa una deliberazione, che solo per tradizione continua a chiamarsi senatus consultum (petizione per ottenere un parere del sena-

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to), perché non consegue più ad una consultazione, ma sente poi il bisogno di precisare che, anche nel caso che la richiesta vi sia, il richiedente non può sottrarsi all’applicazione della delibera. Nel campo del diritto privato andranno ricordati alcuni senatusconsulta innovativi. Il Macedoniano poneva il divieto di prestar danaro ai filii familias, e l’invito al pretore di denegare actionem ai creditori era cogente per il magistrato. Il S.C. Velleiano vietava alle donne di intercedere pro aliis, cioè di obbligarsi come condebitrici o come garant in favore di terzi. Il Claudiano sanciva la riduzione in schiavitù per la donna libera che intrattenesse una relazione sessuale con uno schiavo altrui, se non vi fosse il consenso del padrone, ma con inusitata clemenza e comprensione stabiliva che la donna dovesse ottemperare alla diffida del padrone dello schiavoamante solo se tris repetita. Infine i SS.CC. Tertulliano, Orfiziano, Neroniano, Pegasiano e Trebelliano disciplinarono successioni, legati testamentari e fedecommessi. Il processo cognitorio ed il controllo della giurisprudenza. S’è detto che, in materia di processo privato, una lex Aebutia de formulis introdusse, attorno al 120 a.C., il processo formulare bifasico, senza che però fosse impedito ricorrere alle vecchie legis actiones. Ma, probabilmente nel 17 a.C., una lex Iulia iudiciorum privatorum, rese il processo per formulas l’unico esperibile, abrogando le cinque vecchie ed ormai desuete legis actiones. L’unicità del processo formulare bifasico non durò tuttavia a lungo. Benché esso sia rimasto ancora largamente praticato e forse preferito per secoli, insensibilmente fu introdotta quella che è (arbitrariamente) definita in dottrina cognitio extra ordinem o extraordinaria, così intendendosi che questo tipo di processo si svolgeva extra ordinem iudiciorum privatorum, cioè al di fuori dell’ordinario processo formulare. Mentre il processo per formulas, prevedeva una fase in iure, di fronte alla pubblica autorità del magistrato che giudicava solo il caso astratto (de iure), e una apud iudicem, di fronte al giudice privato, che giudicava invece in concreto (nel merito) pronunciando la sentenza di assoluzione o di condanna, la cognitio si svolgeva in fase unica ed era gestita interamente da una pubblica autorità, che giudicava sia de iure che nel merito, prinunciando infine la sentenza. All’inizio Augusto assegnò tale cognitio allo stesso pretore, ma sotto i suoi successori, invalse la consuetudine, per gestire il processo, di nominare non più un magistrato eletto nei comizi, ma un funzionario imperiale, responasbile di fronte al principe, non di fronte al senato e al popolo. Fu così che l’imperatore iniziò ad ingerirsi anche nell’attività giurisdizionale. Inoltre la cognitio non si applicò solo ai iudicia privata, ma esautorò le quaestiones perpetuae repubblicane nei iudicia publica e specialmente nella giurisdizione criminale. Usando una terminologia moderna sconosciuta ai Romani, potremmo dire che la cognitio nel campo dei publica iudicia comporta un mutamento del sistema da accusatorio in inquisitorio: difatti mentre la pubblica accusa poteva essere intentata da chiunque di fronte alle quaestiones, da cives Romani come da peregrini, nella cognitio è la pubblica autorità, dapprima il pretore, ma ben presto il funzionario imperiale, cui spetta di inquirere, cioè di istruire il processo, condurre le indagini e acquisire le prove attraverso gli organi di polizia di cui dispone. In caso di pena

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comportante la condanna a morte, tuttavia, se l’imputato era cittadino romano, la competenza esclusiva spettava al tribunale imperiale. In diversi periodi fu ammesso l’appello al principe da parte dei peregrini condannati dal governatore provinciale. L’imperatore era normalmente assistito da un consesso di giuristi (consilium principis), che nel II secolo, con Adriano, divenne un organo stabile e permanente, ma al quale si fece comunque crescentemente ricorso già a partire da Augusto. Quanto alla libera attività giurisprudenziale dei privati, questi la limitò di fatto introducendo un ius publice respondendi ex auctoritate principis. In tal modo, in teoria non s’impediva ai giuristi di esercitare liberamente l’attività rispondente, ma quelli forniti dell’auctoritas imperiale si vedevano, com’è intuibile, riconosciuti i propri responsa come appunto più autorevoli rispetto a chi di quell’auctoritas fosse stato sfornito. Cosicché se attore e convenuto si presentavano di fronte al pretore, al giudice o al funzionario, forniti di rispettivi responsa sulla loro causa, e uno dei giuristi consultati non avesse avuto il ius publice respondendi ex auctoritate principis, l’autorità giudicante avrebbe fatto prevalere il responsum del giurista fornito di auctoritas. Ciò finì col costituire una regola dopo Augusto. Ma durante il suo principato l’aristocrazia repubblicana non aveva del tutto perduto il suo orgoglio intellettuale. Il grande giurista Caio Antistio Labeone rifiutò il consolato offertogli da Augusto e si guardò bene dal chiederne l’auctoritas: lui di auctoritas nel campo dell’interpretatio iuris aveva la propria ed era extra commercium. Poteva elargirla a chi voleva, ma gratuitamente, e nessun consolato, che aveva sdegnosamente “snobbato”, poteva ricompensarla: fu così che elargì allo stesso principe la sua scientia iuris, scrivendo commenti alla legislazione matrimoniale augustea, ad legem Iuliam de maritandis ordinibus (del 18 a.C.) e ad legem Papiam et Poppaeam nuptialem (del 9 d.C.). Con queste leggi Augusto aveva tentato di ristabilire i tradizionali valori della famiglia, promuovendo i matrimoni con prole per combattere la crisi demografica. Sancì così limiti nella capacità di acquisto sia dei celibi sia dei coniugati che non avessero prole, limitazioni nell’accesso alle cariche pubbliche, e per converso agevolazioni per uomini e donne prolifici. Labeone si permise di criticare le carenze tecnico-giuridiche di tale legislazione direttamente ispirata dal principe, e per altro ben poco popolare 9, perché la gioventù romana preferiva praticare il sesso libero e senza figli, anziché legarsi con fastidiosi vincoli matrimoniali e allevare prole, con il rischio di mortalità per la madre, che all’epoca il parto comportava. Al 18 a.C. risale anche il “complemento penalistico” che Augusto volle dare alla sua legislazione matrimoniale “civilistica”: con la lex Iulia de adulteriis coërcendis egli, per la prima volta, perseguì formalmente e gravemente, a carico della moglie infedele, il reato di adulterio, mentre quello del marito costituiva solo iusta causa divortii per la moglie, che aveva diritto alla restituzione della dote. Va detto che per l’uomo non era considerato adulterio il rapporto con schiave e prostitute, ma solo con donne di condizione libera. Paradossalmente, il rischio di incorrere nel 9 Il malcontento dei giovani che si permisero di dimostrare in faccia all’imperatore, che tramanda Plutarco, Apophthegmata Caesaris Augusti 12, potrebbe riferirsi proprio alla legislazione matrimoniale.

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nuovo reato produsse un incredibile aumento del ricorso alla prostituzione, con la moltiplicazione dei postriboli, dove si poteva praticare liberamente il sesso senza incorrere nei rigori della legge e delle mogli. Il moralismo, cui rispondevano le leggi augustee in materia, sollevò malcontento in una società cosmopolita come quella senatoria ed equestre, i cui costumi si erano affrancati dal mondo agreste di Roma arcaica a contatto prima con la civiltà italica ellenizzata e poi con la stessa civiltà greca. Comunque da Caio Caligola a Nerone, cioè dal 37 al 68 d.C., si tornò a praticare l’adulterio dall’alta società alla plebe della Suburra, e gli stessi imperatori si prodigarono a darne l’esempio. Del resto lo stesso Augusto, con una doppiezza che avrebbe fatto scuola, aveva frequentemente violato la sua stessa legge, tanto che l’accusa d’ipocrisia mossagli da Tacito nel campo politico si può tranquillamente estendere anche a quello del costume. Solo con l’avvento dei Flavi (69-96 d.C.) si affermò una tendenza a ritornare al moralismo “bacchettone” del fondatore dell’impero. Il governo delle provincie. Nel 30 a.C. Ottaviano aveva conquistato l’Egitto, ponendovi come governatore il suo valente generale ed amministratore, nonché creatore del genere elegiaco nella poesia latina, Caio Cornelio Gallo, già luogotenente di Cesare. I governatori provinciali erano stati prima di allora sempre tratti dall’ordo senatorius e, come si ricorderà, era invalsa la prorogatio imperii che consentiva ai consoli e ai pretori usciti di carica di governare, per lo più l’anno successivo, la provincia loro assegnata dal senato in veste di proconsoli e propretori. Ma Gallo era di rango equestre né era mai stato console o pretore: non poteva dunque esser nominato né proconsole né propretore. Egli era praefectus dell’esercito di Ottaviano quando questi lo nominò primo praefectus Alexandreae et Aegypti. La più ricca provincia romana, dalla quale dipendevano i rifornimenti granari dell’Urbe stessa, era così sottratta al governo del senato, poiché il prefetto era un delegato di Ottaviano, ancora triumviro, e a lui solo rispondeva. Aggiungasi che Gallo si comportò alla stregua di qualsiasi governatore di rango senatorio, celebrando le proprie imprese. Il senato assunse ciò a pretesto, facendo le viste di voler tutelare lo stesso principe, e riuscì ad “incastrare” Gallo in un modo che rimane per noi oscuro, ma che comportò una grave accusa politica (maiestas?) e un processo, o meglio una farsa di processo, dinanzi al senato, cui il prefetto preferì sottrarsi col suicidio. Augusto, che avrebbe preferito salvarlo, se ne rammaricò con se stesso, ma infine “stette al gioco”. L’interessata sollecitudine del senato per l’imperatore non conseguì però l’effetto che si prefiggeva: il secondo prefetto d’Egitto, come poi tutti gli altri, fu anch’egli un cavaliere. Ai senatori fu anzi interdetto l’accesso alla nuova provincia populi Romani se non espressamente autorizzati dal principe. Che l’Egitto fosse un possedimento personale di Augusto è ormai interpretazione superata. Egli invece sperimentò lì per la prima volta una nuova forma di amministrazione delle province. Le più importanti militarmente, e poi tutte, furono così ricomprese, come si è già visto, nel suo imperium proconsulare maius decennale, ma di fatto prorogato ad infinitum. Le province, che Augusto aveva personalmente conquistato, furono da lui governate attraverso suoi legati di rango o senatorio o equestre, ma che co-

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munque erano responsabili verso di lui, anziché verso il senato, delle decisioni militari, degli atti di governo e dell’amministrazione finanziaria. Gradatamente, però, dopo Augusto, con i successivi principi, si affermò l’uso di nominare in queste province, che furono perciò dette “imperiali”, un delegato dell’imperatore tratto dal rango equestre: praefectus Augusti fu detto, o, più tardi, procurator, fornito o meno dello ius gladii, cioè della facoltà di comminare condanne a morte per i provinciali, a seconda dell’importanza sua e della provincia. In Egitto, dove il principe era adorato spontaneamente come dio vivente e faraone, il governatore assunse la denominazione di praefectus Augustalis Aegypti, essendo anche il più alto sacerdote del collegio degli Augustales, la corporazione addetta al culto dei Cesari e della famiglia imperiale. Ma alcune province conquistate in età repubblicana (senatorie), per malgoverno del proconsole o del propretore, furono loro sottratte e rimesse al principe. Tuttavia questi, in tal caso, traeva il proprio funzionario non, come di regola, dall’ordo equester, ma dallo stesso ordo senatorius: il senatore che governava per nomina imperiale la provincia sottratta al senato assumeva la titolatura di legatus Augusti pro praetore e rispondeva al principe della sua amministrazione. Inoltre tutti i funzionari imperiali venivano ora retribuiti dallo Stato. Con ciò si estirpava la radice, che induceva proconsoli e propretori, detentori di cariche onorarie non retribuite, a procurarsi illecitamente risorse per mantenere il loro censo. In tal modo si ridusse dunque notevolmente la soglia di quel malgoverno delle province, che impoveriva l’impero e suscitava malcontento, minando alla base un sistema imperiale che, nato nella rapina e nel sopruso, s’era dovuto giocoforza piegare alla conquista del consenso, per la crescente sproporzione fra provinciali e Romani, che li avrebbe travolti nel caso di una coordinata e contemporanea rivolta delle più importanti province. Governatori integerrimi come Cicerone e i due Catoni, il Censore e l’Uticense, erano rimasti eccezioni sotto la repubblica. Ora il principe, padrone di smisurate ricchezze, poteva farsi garante che le pecore sarebbero state tosate, non scorticate, com’ebbe a dire Tiberio. Infatti l’essenza stessa dell’impero risiedeva nello sfruttamento delle risorse provinciali. Ma in corrispettivo Roma doveva garantire pace e sicurezza delle vie di comunicazione marittime e terrestri a tutela dei commerci in un mondo globalizzato. Varie imposte erano pagate nelle aree portuali (portoria) per vendita e transito di merci nelle province. In esse come in Italia l’imposizione tributaria sulla ricchezza era valutata nei censimenti. Ma, a differenza dall’Italia, dove il censimento era gestito dai municipi, nelle province esso spettava al governatore provinciale e naturalmente comportava maggiori gravami. Alcune categorie di persone godevano di sgravi fiscali parziali o perfino dall’esenzione totale: conosciamo diversi casi per tutta l’età imperiale, dovuti a meriti di guerra o anche all’appartenenza alla popolazione greca in province ch’erano state regni autonomi formatisi dalla divisione dell’impero di Alessandro Magno. In Egitto, che meglio conosciamo per la conservazione dei documenti papiracei, il censimento era chiamato epikrisis e la popolazione greca godeva di vantaggi rispetto a quella egizia.

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V.2. Ideologia e mistica augustea. V.2.1. Propaganda politica augustea e reazione. Alessandro, Pericle, Catone: i modelli del Grande Camaleonte 10.

Fig. 21. A. Confronti fra Altare di Pergamo vouto da Eumene II per la vittoria del 166 a.C. sui Galati e Trophaeum di Nikopolis voluto da Augusto per la vittoria di Azio. 1A-B. Planimetria e veduta prospettica dell’Altare di Pergamo. 2A-B. Idem dell’Altare di Nikopolis. 2C. Veduta ricostruttiva del Trophaeum di Nikopolis con il fronte ornato dai rostri delle navi di Antonio e l’altare al centro del monumento. 3A. Incassi per l’inserzione dei rostri. 3B. Sezione ricostruttiva dell’inserzione dei rostri navali nel fronte del monumento. 4. Ricostruzione dell’Altare interno di Nikopolis. 5. Fregio del Partenone. Grafici di Nikopolis da K. Zachos.

Ad Alessandria Augusto si era confrontato con Alessandro come unico kosmokrator e theós, divino padrone del mondo. Ma in Grecia, dove la memoria di Alessandro non godeva buona fama perché il Macedone era considerato un nemico della libertà delle poleis, Augusto aveva invece preferito paragonarsi ad altri eroi. Il colossale altare di Nikopolis, la città fondata da Augusto presso il luogo della vittoria d’Azio, ricorda infatti strettamente la morfologia architettonica dell’Altare di Pergamo 11, eretto per celebrare la vittoria di Eumene II nel 166 a.C. contro i Galati (i Galli), che avevano devastato la Grecia. Il messaggio augusteo di propaganda era chiaro: come un tempo Eumene II aveva vinto i Galli, paragonando nel suo Altare tale impresa alla Gigantomachia, la lotta degli dei greci contro i Giganti, così ora Ottaviano aveva fermato i nuovi barbari, gli Egizi, guidati dalla maga Cleopatra e dalle loro animalesche divinità, salvando l’ecumene romana protetta dagli dei antropomorfi.

10 Prendo in prestito la definizione di “Cameleonte” che in Iulianus, Caesares p. 309 A, è attribuita ad Augusto da Sileno, con cui polemizza Apollo, che pretende invece di chiamarlo “stoico”. 11 Oggi una città della Turchia. L’Altare, eretto tra il 183 e 174 a.C., è stato ricostruito dagli archeologi tedeschi nel Pergamonmusem di Berlino.

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Fig. 22. Similitudini nelle scene del Fregio del Partenone pericleo e del Fregio dell’Ara augustea di Nikopolis. 1. Cavalcata degli Ateniesi e dei Romani. 2. Corteo di magistrati greci e romani. 3. Carro con palafreniere del Fregio del Partenone e carro trionfale di Augusto e figura di palafreniere dal Fregio di Nikopolis. Il trionfo è quello celebrato nel 29 a.C.: i due bimbi sono forse i figli di Antonio e Cleopatra, Alessandro Elio e Cleopatra Selene.

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In quello stesso monumento di Nikopolis Ottaviano non esita ad evocare anche Pericle, facendo riprodurre il suo trionfo aziaco secondo gli schemi figurativi del Fregio fidiaco delle Panatenaiche del Partenone. Pericle era già stato trasfigurato da Cicerone, secondo l’icona idealizzata, che Tucidide aveva iniziato a dipingere: decontestualizzato dalla realtà della lotta politica della sua epoca, nell’immaginario collettivo greco egli era ormai l’incarnazione della democrazia. Non a caso la Roma di Augusto è considerata implicitamente dal greco Dionigi d’Alicarnasso la realizzazione contemporanea di quella democrazia di Atene che aveva il suo campione e il suo simbolo in Pericle. Così, colui che pretendeva d’esserlo della respublica poteva paragonarvisi a Nikopolis, ma anche ad Atene stessa: sull’Acropoli la boulé lo aveva infatti associato al culto di Roma e inoltre aveva costruito, con il danaro versato da Augusto in adempimento di una promessa di Cesare, una nuova agorà: il Propileo monumentale per accedervi era direttamente ispirato, in misura ridotta, a quello di Mnesikles commissionato da Pericle per l’Acropoli. L’autocelebrazione di Nikopolis aveva funzionato, inducendo gli Ateniesi a ripetere l’allusione in altro modo. Augusto esportò allora il modello in quella parte d’Italia, ch’era stata la Magna Fig. 23. Monete di Thurioi, di Augusto e VeGrecia, dove suo bisnonno era nato a Cospasiano con toro cozzante. pia Thurii (oggi in Calabria). Quella città era ormai municipium romano nel sito stesso della fondazione panellenica di Thourioi, voluta da Pericle nel 444 a.C. sul luogo di Sibari, la polis achea distrutta da Crotone nel 510 a.C. Augusto si faceva perciò chiamare da giovane Octavius Thurinus. Simbolo della città periclea era il toro scalpitante e cozzante, di cui in età romana la città conservava, restaurata come venerata reliquia, una statuetta di bronzo, e che era riprodotto nella monetazione thurina del V-IV secolo. Augusto riprende esattamente, e non certo casualmente, lo stesso motivo nella sua monetazione argentea e aurea, destinata a truppe provinciali ellenofone ma anche a cittadini romani reclutati dai municipi dell’antica Magna Grecia. Si tratta di una sottile evocazione della sua predestinazione ad avere ascendenti nella città fondata dal “campione della democrazia”, Pericle, cui si paragonava, di fronte al mondo di cultura greca, quale nuovo “campione” della repubblica romana. Più tardi, nel 69 d.C., l’imperatore Vespasiano, volendosi contrapporre alla tirannide neroniana come restitutor reipublicae sull’orma di Augusto, riprenderà proprio il simbolo del toro cozzante thurino, emblematico ormai della “democrazia” augustea di pretesa ascendenza “periclea”.

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Ma a Roma la memoria di Pericle era un fatto élitario, nonostante tutto, e dunque non era egualmente popolare che in Grecia e Magna Grecia. A Roma, poi, si poneva ad Augusto un problema di prima misura: gli si rimproverava d’avere abbandonato alla barbara vendetta di Antonio l’alleato ed ultimo difensore della repubblica: Cicerone. Augusto avvertì allora il peso politico di questa tragica responsabilità storica, dalla quale cercò in ogni modo di liberarsi: in tali tentativi si iscrive, da un lato, il suo Fig. 24. Ritratti di Catone Uticense: 1. Da giudizio sull’Oratore «amante della pa- Pompei. 2. Da Volubilis. tria», espresso ad uno dei suoi nipoti sorpreso a leggerne di nascosto un’opera, e perfino l’incredibile all’Arpinate del sogno premonitore di un Gaio Ottavio, ancora bambino e futuro riformatore e rifondatore dello Stato. Tuttavia, dall’altro lato, Augusto perseguì con obliqua perfidia il forte ridimensionamento d’immagine della coerenza morale di Cicerone attraverso la pubblicazione del suo stesso epistolario privato da parte di Tito Pomponio Attico, certamente approvata se non più probabilmente sollecitata dal principe: le lettere private dell’Oratore ne mettevano in luce tutte le debolezze umane, le paure e i compromessi, quanto poteva servire a diminuirne la statura. Ma il più grande campione della repubblica, che aveva scelto di rinunciare alla vita per non rinunciare alla libertas, sconfitto in campo ma non vinto nell’idea da Cesare, era Catone Uticense, Benché Augusto, accusato di responsabilità morale nella morte dell’Arpinate, non potesse esserlo in alcun modo di quella dell’Uticense, paradossalmente riusciva più difficile “neutralizzarne” la memoria e la leggenda: Catone, infatti, non aveva mai sofferto di debolezze e tentennamenti, né era sceso a compromessi che potessero consentire di demolirne la rocciosa figura morale come, bene o male, s’era potuto fare con Cicerone. Già Cesare con l’Anticato, il libello scritto per screditarne il suicidio stoico in un’ottica di etica epicurea, non c’era riuscito. Astutamente Augusto non esitò perciò a farsi campione nel difenderne la memoria contro quanti volevano compiacere la sua autocrazia. Ce ne dà testimonianza, ancora nel IV secolo, Macrobio. Macrobius, Saturnalia II 4.17: Non deve omettersi la conversazione di Augusto, con cui rese onore a Catone. Capitò per caso nella casa dove aveva abitato Catone. Quindi, poiché Strabone per adulazione nei suoi confronti dava un giudizio negativo sulla caparbietà di Catone, gli rispose: «chiunque non vorrà cambiare l’attuale forma politica dello Stato, è buon cittadino e persona onesta».

Il significato di tale risposta è che se Catone fosse stato vivo, avrebbe approvato la restitutio reipublicae di cui Augusto si voleva far considerare auctor. Riconoscendo la grandezza di Catone, Augusto riuscì cinicamente ad appropriarsi della

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sua memoria. Perciò coniò monete nel 28 a.C. con la pretesa di avere restaurato leges et iura p(opuli) R(omani). A Volubilis, capitale del regno di Mauretania (Marocco), è stato trovato un ritratto bronzeo di Catone Uticense insieme a quello del re Giuba II, il cui padre omonimo era stato nemico di Giulio Cesare. Ma Giuba II era stato allevato da Augusto, che gli aveva dato in sposa la figlia di Cleopatra, Cleopatra Selene e aveva aderito all’ideologia del principe. Non è sicuro che il busto di Catone si dati ad età augustea, e alcuni lo datano all’età neroniana, in un clima in cui il poema di Lucano sulla battaglia di Farsalo esaltava i valori repubblicani e Catone contro Cesare. Quale che ne sia la cronologia, il ritratto dell’Uticense in una sede del potere di un regno vassallo di a Roma dimostra il successo del modello augusteo di captazione dell’immagine di Catone. Un altro ritratto di Catone è stato trovato Pompei nella Casa di L. Popidius Secundus, un Augustianus: possiamo riconoscere in parte il programma figurativo in cui il ritratto era esposto, insieme ad altri che rappresentavano membri della famiglia imperiale, come Agrippa. La casa era appunto quella di un Augustale, sacerdote del culto di Cesare e di Augusto stesso: si poteva impunemente venerare la memoria di Catone, e non si vedeva alcuna contraddizione nell’associarlo agli esponenti del principato augusteo. Augusto, quale si autorappresentò nel suo foro, ornato delle statue dei viri inlustres da Enea a Pompeo, volle mostrare in sé il superamento delle lotte fratricide, la sintesi fra Catone e Cesare, di cui aveva assunto il cognomen, ma non il nomen di dictator. Questa sintesi risultò così efficace da essere ripresa un secolo dopo nella propaganda dell’imperatore che si attenne al rispetto delle formalità e delle apparenze repubblicane dopo la “tirannide” di Domiziano: Traiano coniò infatti monete commemoranti contemporaneamente Cesare dictator perpetuus, Cicerone, Pompeo e Catone, del quale fu addirittura riprodotto il denario emesso in Africa nel 47-46, nel pieno della guerra civile, con la personificazione sul diritto della Libertas, e legenda M(arcus) Cato pro pr(aetore), e sul rovescio della Vittoria alata. Ma è davvero sintomatico che il “piccolo borghese” pompeiano Popidio Secondo, nell’abbinare la devozione a Catone con quella per i Cesari, sia antesignano del più tardo Titino Capitone, ben più alto esponente della burocrazia imperiale sotto Domiziano, Nerva e Traiano, procurator a patrimonio e ab epistulis ed infine praefectus vigilum: costui teneva in casa i ritratti di Bruto, Cassio e Catone, suscitando l’ammirazione di Plinio (Ep. 117) per la sua religio repubblicana. Il successo della propaganda augustea aveva iniziato a sfidare i secoli. La sua pretesa di restaurazione della repubblica non avrebbe oltrepassato la dinastia severiana nel III secolo, ma la sua mistica salvifica, versata nella costruzione dell’annuncio paolino del Cristo, ha sfidato i millenni giungendo fino a noi.

V.2.2. Il dibattito moderno sulla natura “giuridico-costituzionale” del principato augusteo e l’opinione degli antichi. Dopo quanto si è detto, dando la parola ai protagonisti ed alla storiografia antica, le opinioni della dottrina moderna, che ha identificato il principato ora con una

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diarchia senato-principe (e quest’ultimo come tutore della plebe), ora con un protettorato del princeps sull’ordinamento repubblicano, ora infine con un vero e proprio dominato o con una monarchia, sembrano francamente oziose. E sono comunque inadeguate a spiegare non solo la rappresentazione che del nuovo status Augusto volle dare in termini di propaganda, ma anche la sua realtà costituzionale e la percezione politica che ne ebbe la storiografia antica. Il principato non può considerarsi una diarchia sia perché il principe non può ritenersi un magistrato, per quel che il termine significava nell’ordinamento repubblicano, sia perché i suoi poteri furono enormemente superiori a quelli del senato e dei magistrati, come anche di quanti, come Agrippa e Tiberio, ne condivisero la tribunicia potestas ma non l’auctoritas. Neanche però può accettarsi la teoria del protettorato. Più vicina d’ogni altra alla concezione paternalistica che Augusto stesso ebbe del principato, essa si fonda sul confronto con situazioni politico-costituzionali del mondo antico che si pretendono analoghe, come il protettorato dei Tolomei – i basileis-faraoni sovrani dell’Egitto – sulla Cirenaica. Ma il rapporto di protettorato presuppone una estraneità del protettore allo Stato protetto, che esisteva per i Tolomei, ma evidentemente non per il principe: Augusto non è un basileus posto al di sopra delle leggi, ma è il primo (princeps) dei cives Romani. La teoria del dominato o della monarchia è infine palesemente inadatta per il principato Augusteo, mentre ovviamente non è anacronistica per i Severi, o ancor più per Diocleziano o Costantino. Il principato augusteo è una creazione politica originale non riducibile a schemi. Il principato fu una condivisione ineguale (a favore del principe) del potere fra l’uterque ordo e l’imperatore. Sotto questo aspetto la teoria del governo misto sembrerebbe la più adeguata, ma anch’essa si presta alle critiche: non mi sembra infatti esatto che un organo monarchico si ponga al di sopra delle perduranti istituzioni repubblicane. Guardando poi al principe, non lo si può considerare ancora super leges, come sotto la dinastia dei Severi, ed è eccessivo ritenerlo un monarca. Il principato ha in realtà resistito ad ogni tentativo moderno di definizione generale. Esso dovrebbe semplicemente definirsi «principato romano» come autonoma categoria costituzionale di una forma particolarmente complessa di governo, più di qualsiasi altra storicamente determinata da peculiari fattori contingenti, cosa che è per altro vera anche per la repubblica, come già Polibio ebbe modo di constatare. Di questa nozione di «principato romano» dovrà far parte la conservazione formale delle strutture cittadine, il loro progressivo esautoramento nel quadro di un governo mondiale, la tendenza lentissima del primus inter pares a trasformarsi in un monarca (sia pure illuminato). Aldilà di queste descrizioni, ogni definizione non potrà che essere più o meno astratta, poiché anche istituzionalmente il principato ebbe una graduale e lenta evoluzione verso forme di dispotismo illuminato, che diedero buona e talvolta ottima prova, perché sorrette dal connubio fra la grande tradizione di tecnicità giuridica e amministrativa, militare e civile, della respublica e del principato, ed un plurisecolare pensiero politico grecoromano sulle finalità «evergetiche» e «filantropiche» del governo monarchico.

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Dopo Tiberio, però, si accentuò drammaticamente la dicotomia insita fra la concezione romano-italica e quella ellenistico-orientale del princeps, che fu incarnata da imperatori descritti come tiranni, quali Gaio Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, che si discostarono dalla prudentia di Augusto. Fig. 25. Moneta di Augusto vindex libertatis. Al Questi capì invece che per esercitare verso la Pace con il caduceo che ne è simbolo e l’autocrazia bisognava rispondere alle il Serpente oracolare di Apollo, fuoriuscente esigenze profonde della mentalità condalla cista mystica, allusiva alla protezione di servatrice e di autorappresentazione delApollo Actiaco. l’ordo senatorius quale custode della libertas, nonché all’angusta e – agli occhi di noi moderni – meschina concezione della civitas come privilegio condivisa anche dalla plebe. Ancora nel 28 Ottaviano, al momento condizionato dalla presenza di populares nell’esercito e nell’ordo equester, seguiva la traccia ideologica di Cesare, quando batteva monete con legenda Libertatis p(opuli) R(omani) vindex e, al rovescio, la finalmente raggiunta Pax col suo simbolo del caduceo in mano, e dietro la cysta mistica e il serpente Pitone di Apollo, il dio che aveva protetto Ottaviano ad Azio. Ma nel 13 d.C., redigendo in forma definitiva il suo testamento politico, il vecchio principe ormai Augusto, sostituisce con consumata astuzia respublica a populus Romanus, accentuando sottilmente la connotazione senatoria della definizione. E inoltre, per paradosso, la tirannide di un partito (dominatio factionis) richiamata da Augusto è quella dell’erede “ideologico” di Cesare, che ne aveva sposato la politica “alessandrina” e la stessa amante ed alleata orientale, Cleopatra, madre dell’unico figlio naturale del dittatore, Tolomeo Cesare: quell’erede era Antonio. La propaganda di Ottaviano lo mostrerà come soggiogato dalla maga egizia, per cui Augusto potrà proclamarsi «Libertatis populi R(omani) vindex, recuperando così anche l’eredità di Cesare e di Sallustio, per i quali l’autentico significato di libertas poteva essere esclusivamente popularis. Augusto, dunque, sintetizza perfettamente i diversi valori ideologici che i principali movimenti politici della tarda repubblica attribuivano al termine libertas, riprendendo in chiave propagandistica tanto l’accostamento alla respublica, tipico degli ottimati, quanto il riferimento alla libertas populi Romani, peculiare dei populares» 12. In verità da triumviro Ottaviano si guardò bene dal perseguire quella linea di misericordia, che aveva così mal ripagato il suo padre adottivo. Ma, per togliersi dall’imbarazzo, diventato Augustus, dispensò con ogni larghezza le dichiarazioni propagandistiche, nella monetazione ed infine nelle Res Gestae, di quella clementia, che aveva così scarsamente praticato. In materia, dobbiamo considerare buon

12 G. DOGNINI, Cicerone, Cesare e Sallustio: tre diversi modelli di libertas nella tarda repubblica, «Invigilata Lucernis» XX (1998), p. 96.

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giudice l’imperatore Settimio Severo che, sbarazzandosi dell’“usurpatore” Clodio Albino, biasimava la mitezza di Pompeo e Cesare, che aveva nuociuto a loro stessi, ed apprezzava la spietatezza di Mario, Silla ed Augusto, che avevano saputo giovare a sé ed alla sicurezza dello Stato (Cassius Dion LXXV 8.1). Ma Augusto si discosta radicalmente dalla via intrapresa da Cesare anche in altro: rifiutando la dittatura e le magistrature offertegli contra mores maiorum ed ostentando sommo rispetto per il senato, pretende perfino d’aver restaurato la “democrazia senatoria repubblicana”, rempublicam restituere nelle sue leges e nei suoi iura. In realtà prosegue, con un cinismo che Cesare non conosceva, l’opera del grande dictator perpetuus nello svuotarne i contenuti e nel ridurne a pura forma l’effettività del potere. Così «sul compromesso tra l’essere e il sembrare è nato a Roma il principato e questo dissidio si riflette nella tradizione senatoria» 13. Sarà infatti 58 anni dopo la fine del primo Cesare, alla morte del secondo, che, attraverso la persona di Augusto, «si ha l’occasione di un gran discorrere» sul regime del principato: multus hinc ipso de Augusto sermo. Nella narrazione di Tacito sulla forma e sulla sostanza del potere di Augusto, fatta da sostenitori e critici sul suo letto di morte, i contrapposti giudizi sintetizzano, e posero per primi a confronto, la realtà politica ed istituzionale sorta dalla dittatura di Cesare, con il problema della discontinuità o continuità del principato augusteo, mettendo a nudo il dibattito dell’opinione pubblica sulla differenza o sull’identità sostanziale fra le due forme di governo. Tacitus, Annales I 8.5 ss.: I senatori gridarono all’unisono che il corpo [di Augusto] doveva esser portato al rogo sulle loro spalle. Tiberio lo concesse con un’arroganza mascherata di modestia, ed ammonì con un editto il popolo che non si ripetessero gli eccessi di zelo che un tempo avevano turbato il funerale di Cesare: ché non si tentasse ora di far cremare la salma di Augusto nel foro, anziché nella sede destinata in Campo Marzio. Nel giorno del funerale [di Augusto] i soldati rimasero in armi come truppe d’occupazione, fra grandi risa di scherno di coloro che avevano visto con i propri occhi o avevano sentito dai padri il racconto di quel giorno fatidico [delle Idi di marzo], la pietanza della servitù non era stata ancora cucinata a dovere e la libertà, sia pur senza duraturo successo, era stata riconquistata: quel giorno l’uccisione del dittatore Cesare ad alcuni appariva come la più infame delle imprese, ad altri la più splendida. Ora invece occorreva proprio un presidio militare per evitare disordini alle esequie di un principe morto vecchio, che aveva così a lungo esercitato il potere, assicurandone i mezzi agli eredi perché anche loro potessero esercitarlo a danno della repubblica. Alcuni dicevano che devozione verso la memoria del genitore e la ragion di Stato, in cui non poteva trovar posto la legalità, l’avevano condotto alle guerre civili, le quali non possono né prepararsi né svolgersi con mezzi onesti. …. Non era rimasto altro rimedio alle discordie della patria che farne reggere il governo da uno solo. Tuttavia non col regno né con la dittatura [Augusto] aveva costituito lo Stato, ma col nome di princeps … Nei confronti dei cittadini aveva applicato

13 Citazione da M.A. GIUA, Augusto nel libro 56 della Storia Romana di Cassio Dione, «Athenaeum» LXI (1983), p. 441, n. 11.

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il diritto, la moderazione nei confronti degli alleati». Augusto aveva ampliato e reso sicuro l’impero: erano stati «comunque episodici i casi di uso della forza, finalizzata alla sicurezza di tutti. I contrari dicevano invece che la devozione verso il genitore e le contingenze in cui lo Stato s’era trovato erano state prese a pretesto. Ma che in realtà per brama d’impadronirsi del potere aveva sobillato i veterani con largizioni: benché fosse ancora adolescente e non avesse alcuna carica pubblica aveva reclutato un esercito, corrotto le legioni d’un console [Antonio, 44 a.C.] e finto simpatia per il partito pompeiano. E venivano ricordati il consolato strappato a forza alla volontà del senato, le proscrizioni, le guerre civili contro i Cesaricidi, contro Pompeo, Lepido e Antonio, le sconfitte in Germania, le persecuzioni di presunti cospiratori, le censure alla vita privata, la venerazione come se fosse un dio.

Nessun cenno, in questa valutazione politica e non certo giuridico-formale, a quella auctoritas e a quella potestas, attraverso cui Augusto aveva cercato, nelle Res Gestae, di rappresentare artatamente la cosiddetta restituito reipublicae a dissimulazione del suo effettivo potere. Se nel I-II secolo Tacito dà comunque voce anche ai difensori della autocrazia sul letto di morte del secondo Cesare, in età severiana, nel III secolo, Dione percepisce retrospettivamente la natura tirannica del potere del principe: «in generale si può dire che nel racconto dioneo tutti gli sforzi di Ottaviano sono indirizzati alla conquista del potere assoluto; e quelle che nell’elogio di Tiberio appaiono azioni disinteressate e straordinariamente meritorie, nella narrazione vengono smascherate come ipocriti strumenti per la realizzazione di fini personali. In questo quadro persino la vendetta dell’assassinio di Cesare viene qualificata come un mero pretesto» (Giua) 14. «“L’idea moderna della Ragion di Stato parte … da Tacito” un’eredità che “si riassume nel conflitto, o nella conciliazione possibile, fra costituzione e potere” perché “di contro alla tirannide insorgono sempre, come valori ideali insopprimibili, la legalità e la vita morale”». Queste parole, scritte da Santo Mazzarino nel 1966 15 ed evocate da Francesco Guizzi nel 1971 16, dimostrano la straordinaria capacità di penetrazione e convinzione dell’ideale catoniano della libertas repubblicana, consacrato dall’Uticense con il sacrificio della vita: non solo nel principato romano, che ne fece paradossalmente l’asse portante della sua ideologia – fino al suicidio di Virio Nicomaco Flaviano dopo la battaglia del Frigido (390 d.C.) per non sottostare al battesimo ed alla tirannide dell’imperatore cristiano – ma anche nei tempi successivi, da Dante che colloca Catone nel Purgatorio, giungendo alla storiografia moderna. Il punto è proprio questo: che la storiografia moderna, involontariamente condizionata dalla nobiltà del gesto di Catone, come dimostrano le citazioni di Mazzarino e Guizzi, non sempre s’avvede di quanto il governo senatorio, incapace di ben amministrare l’impero ed ottuso difensore del proprio privile14

Vedi nota precedente (Giua). S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II.2, Roma-Bari 1966, p. 263. 16 F. GUIZZI, Il principato fra repubblica e potere assoluto, Napoli 1971, p. 3. 15

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gio, avesse abdicato alla sua funzione sovrana, spianando di necessità la strada al dispotismo illuminato intrapreso da Giulio Cesare.

V.2.3. L’attesa messianica ed i Vangeli di Augusto Figlio di Dio e Salvatore del genere umano. La reazione del “buon senso romanoitalico”: Augusto da divi filius a feminae filius. Nel 48 a.C. Cesare era stato considerato in Oriente dio per Rivelazione divina e Salvatore di tutto il genere umano 17, nonché Dio invitto (Theós anìketos Cassius Dion XLIII 45; Cicero, Ad Atticum XII 53.2 e XIII 4.2). La musa virgiliana, con facile profezia ex eventu, lasciava credere che fosse nato un divino fanciullo destinato a portare la pace nel mondo: quale che fosse, nel 40 a.C., l’allusione del poeta nel momento di scrivere l’Ecloga IV – al figlio di Antonio e Cleopatra Alexandros Helios o a quello atteso da Ottaviano e Scribonia (che in realtà fu poi una femmina: Giulia) – essa finì con l’essere riferita poco più tardi allo stesso Augusto, e nel medioevo – com’è noto – a Cristo: il divino fanciullo che stava per venire al mondo sarebbe stato ricolmo di vita divina ed avrebbe visto la divinità essendone a sua volta visto, ed avrebbe governato dopo aver riportato la pace grazie al valore ed alle virtù dei padri. L’attesa messianica che Virgilio riproponeva nel 40 era quella stessa che il mondo asiatico aveva vissuto otto anni prima per Cesare, e ch’era rimasta delusa con la fine repentina della pace cesariana dopo le Idi di marzo. Ora però la pax Augusta appariva veramente universale e duratura. Nel 13 a.C., alla morte del Pontifex Maximus Emilio Lepido, l’esautorato triumviro, Augusto assume anche il pontificato, ponendosi come garante della pax deorum. E la pace universale viene celebrata non solo dall’Ara Pacis Augustae inaugurata a Roma per la vittoria in Spagna nel 9 a.C., ma anche in Oriente con l’annuncio della Buona Novella. Così, in quello stesso 9 a.C., i Vangeli (Euangelia) del nuovo Salvator mundi (Theós Sotér: Dio Salvatore), il Figlio di Dio (Divi flius = Teoû hyiós), sono trasmessi ai popoli governati dal proconsole d’Asia, Paullus Fabius Maximus. Questi, nell’applicare nella sua provincia la riforma cesariana di cui ancor oggi ci valiamo, stabilisce il nuovo calendario giuliano-asiano, costituendo il 23 settembre, giorno natale di Augusto, come principio dell’anno. Scrive perciò che il giorno natale del dio Augusto fu per il mondo il principio dei Vangeli annunciati per opera di lui (oppure: attraverso di lui) 18. S’intende che lo stesso Paolo, governatore dell’Asia e sommo sacerdote del culto imperiale, annuncia i Vangeli facendosi strumento della Salvez17

Cfr. sopra, nota 61. Il fatto che F.E. ADCOCK, Storia del mondo antico, VII, Milano 1975 (trad. it. The Cambridge Ancient History, IX, London 1966), p. 651 consideri “singolare” la “frase” dell’iscrizione di Efeso, ne rivela involontariamente lo sconcerto per l’identità del messaggio con quello cristiano, il quale difatti – ormai possiamo ricomporne abbastanza chiaramente la vicenda – viene “costruito” a soddisfazione delle stesse attese escatologiche. 18 Orientis Graeci Inscriptiones Selectae 458 = Supplementum Epigraphicum Graecum IV 490.

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za portata da Augusto. Una nuova età dell’oro ha avuto inizio dal giorno della sua nascita: gli uomini, che prima si pentivano d’esser nati nell’inferno del mondo, ora son lieti di vivere nel nuovo paradiso terrestre. «Dopo che la Provvidenza, che ha organizzato la nostra vita, che s’è preoccupata d’ogni cosa e che ha predisposto come generoso dono il bene più idoneo per la vita, portando (al mondo) Augusto, e lo ha colmato di ogni virtù per il benessere dell’umanità, dando(lo) a noi e ai nostri discendenti come un dio (provvidenziale) al pari di se stessa, per porre fine alla guerra e ristabilire la pace; e in questa (pace), dopo che si fu verificato anche il (suo) Avvento, Cesare (Augusto) ha superato le speranze (suscitate) dai (suoi) precursori nei munifici doni (portati all’umanità), non solo sorpassando tutti i benefattori che ci sono stati prima di Lui, ma non lasciando nessuna speranza di confronto in quelli che (gli) succederanno. E il giorno del Natale del (nostro) Dio diede inizio ai Vangeli per il mondo ad opera di Lui. Poiché l’Asia aveva deliberato con votazione a Smirne … che a colui, che fosse riuscito a trovare le più grandi onorificenze, degne del (nostro) Dio, fosse conferita una corona, Paolo Fabio Massimo proconsole della provincia, mandato dalla Sua mano destra e dalla Sua volontà come benefattore, insieme agli altri che hanno beneficato la (nostra) provincia, dei quali benefici nessun discorso arriverebbe a dire la grandezza, ha trovato ciò che finora non era stato (nemmeno) immaginato dai Greci in onore di Augusto, cioè che il tempo per la Vita abbia inizio dalla nascita di Lui». Tradotto da F. Costabile sul testo greco aggiornato da OGIS 458.

La pace in terra è segno della providentia deorum; è il riflesso della pace in Cielo, che con la sua pietas Augusto ha saputo assicurare. La straordinaria consonanza ideologica e terminologica con quello che sarà più tardi il messaggio cristiano dimostra, se ve ne fosse bisogno, che oggi non può seriamente dubitarsi, al di fuori di posizioni confessionali improponibili nell’ambito della ricerca scientifica, che il Cristo “costruito” da S. Paolo sia in parte essenziale l’ipostasi di Cesare Augusto. Il Cristo paolino fu il capovolgimento del Gesù storico, rettamente inteso dalla Chiesa di Gerusalemme nel suo annuncio (kérygma) di apocalisse giudaica antiromana. Per s. Paolo, invece, Cristo viene fatto risponde alle stesse esigenze di attesa messianica e salvifica, che la propaganda imperiale aveva saputo cogliere nell’opinione pubblica dopo un secolo di guerre civili. La providentia Caesaris si ascrive appunto a questo contesto, cui lo stoicismo ben si prestava, con la sua concezione di un Logos, una Mens Divina, che aveva voluto l’impero romano, lo sorreggeva per il bene dei popoli, e premiava con la vita beata nei Campi Elisi chi si fosse adoperato per la pace universale ed il bene dello Stato. Il clima di spontanea venerazione per questa incarnazione del Dio Augusto in terra è documentato in Oriente da una serie di testimonianze epigrafiche, che consentono di identificarne le radici remote fino ad Alessandro Magno. Ma in Italia pochi erano – a quell’epoca – così creduloni da convincersi che davvero un Dio si fosse incarnato in un uomo per portare la pace nel mondo, salvando l’umanità dal male e della guerra infinita. Senza dubbio Augusto aveva fatto tutto questo, ma v’erano ben altre spiegazioni. Polibio si era attenuto alla “storia pragmatica” sull’orma di Tucidide, aveva cercato i nessi di causa-

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lità nei fatti e nelle azioni politiche per trovare una spiegazione storica, ma aveva anche concepito una Tyche, una forza cosmica, il Caso, la Fors Fortuna Populi Romani, che si conciliava col provvidenzialismo stoico. All’epoca di Polibio, però, non c’era un Dio incarnato e figlio di dio cui riferire quella Provvidenza. Gli intellettuali preferivano ora la “storia pragmatica” di Tucidide, scevra di elementi divini e spiegazioni soprannaturali. La spiegazione religiosa e provvidenzialistica dell’impero di Roma, cantata dal poeta Nevio, poteva andar bene per il pubblico del III secolo a.C. Non che non vi fossero più le “persone perbene”, i viri honesti, da gabellare. Ma gli strumenti dovevano essere più sofisticati. Il provvidenzialismo dell’Eneide di Virgilio affascinava quel volgo, della cui ignoranza nell’analisi della realtà Orazio scriveva d’aver tanto fastidio, da tenersene alla larga (Odi III.1: odi profanum vulgus et arceo). Orazio, tuttavia, era un intellettuale del consenso augusteo. V’erano invece gli oppositori, che come in tutte le autocrazie, disponevano solo dell’arma del sarcasmo e del ridicolo. Su di una colonna del portico del peristilio della villa di Agrippa Postumo, figlio di Giulia ed Agrippa e nipote di Augusto, in un sobborgo di Pompei, è stato trovato un verso pentametro graffito in scrittura corsiva sull’intonaco: Caesaris Augusti femina mater erat (La madre di Cesare Augusto era una femmina). Il pentametro pompeiano va collegato al distico del poeta del consenso augusteo, Domizio Marso: Domiti Marsi de Atia matre Augusti: / ante omnes alias felix tamen hoc ego dicor, / sive hominem peperi sive deum. Francesco Della Corte intuì che Domizio Marso rispondeva «a qualche oppositore cui dava fastidio che Ottaviano si facesse chiamare Augusto». Al poeta, cui risale il verso graffito a Pompei, che aveva scritto che «La madre di Cesare Augusto era una femmina», Marso risponde, facendo parlare la stessa madre di Augusto, Azia, che «Tuttavia, di fronte a tutte le altre per questo io son detta felice: ché ho partorito sia un uomo sia un dio». Il Campanile ha giustamente sostenuto che «l’umana natura di Azia è affermata non contro la donna, ma solo per riaffermare la natura umana e le meschine origini di Augusto». Il tamen conferma trattarsi di una risposta al pentametro pompeiano: e la risposta è – secondo Campanile – che la madre non poteva ch’esser felice d’aver partorito un tal figlio, perché, uomo o dio che fosse, egli era comunque un grand’uomo. Tuttavia a me il senso appare lievemente ma significativamente diverso. Domizio Marso, poeta di corte augusteo ed intimo di Mecenate, non a caso autore proprio dell’epitaffio di Azia, non vuol dire univocamente che la madre di Augusto sarebbe felice anche se il figlio fosse solo un uomo, perché è ad ogni modo un grand’uomo: in tal caso egli avrebbe diversamente costruito i versi usando il disgiuntivo avversativo aut, anziché sive. Infatti, il sottinteso che la felicità della madre sia comunque giustificata è più sfumato di fronte all’affermazione della natura insieme umana e divina di Augusto.

Il pentametro pompeiano presuppone che il lettore sappia bene delle pretese mistiche di Augusto per parte materna, nella cui linea genealogica si iscrive l’esser figlio del Divus Iulius, e la discendenza dal pius Aeneas e da Venus Genetrix. Come si voleva che Olimpiade, madre di Alessandro, fosse stata fecondata da Zeus Ammon, essendo Filippo II solo il “padre putativo”, come Romolo era stato concepito dalla Vergine Vestale Rea Silvia col dio Marte, così Azia, madre di Ottavio,

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sarebbe stata fecondata non dal marito, ma da Apollo, e dopo il concepimento avrebbe avuto un sogno premonitore dell’impero per il nascituro. Tutto questo universo ideologico, che condizionerà più tardi il mito del concepimento di Gesù, faceva parte della quotidianità nel principato augusteo ed è sotteso al “botta e risposta” fra il pentametro pompeiano e il distico di Domizio Marso. Questi ribadisce, ma in termini discreti, la “mistica di Stato” intrapresa da Cesare, e da Ottaviano ereditata e sviluppata, in una forma che all’“immaginario collettivo”, pervaso dalla propaganda augustea della poesia e delle immagini, risultava del tutto chiara. I versi dell’Eneide (VI 792) Augustus Caesar divi genus aurea condet saecula, «Augusto Cesare progenie divina fonda l’età dell’oro», cioè fonda in terra il Paradiso terrestre), che s’aprono anch’essi con il nome dell’imperatore, pubblicati dopo la morte di Virgilio nel 19 a.C., ma certamente recitati già prima, sembrano essere il presupposto specifico della “risposta” poetica testimoniata dal pentametro pompeiano. Esso si iscrive, più ampiamente, nell’opposizione all’esasperante e stucchevole propaganda del kosmos convenzionale e moralistico costruito da Augusto, cui i Romani reagivano con signorile ironia. Certo molti restavano conquistati dal proselitismo della religione cesarianoaugustea, al punto da conservare nel larario domestico l’immagine di Enea, Anchise e Iulo, come nella casa di Gavio Rufo a Pompei, o da dipingerne la scena all’ingresso di casa in pendant con quella di Romolo. Ma altri, intellettualmente più smaliziati, finivano col non poterne più. Nulla lo dimostra meglio, nella stessa epoca e nella stessa Pompei, di un quadretto a mosaico di età augustea, raffigurante la caricatura di Enea che porta in spalla il vecchio Anchise e tiene per mano IuloAscanio: tutti sono rappresentati con corpo e teste di cane e un gigantesco fallo penndulo: la scena «documenta la reazione di un proprietario di casa, evidentemente saturo del fiume d’immagini diffuso dall’arte imperiale. Certo Ovidio non era il solo a prendersi gioco argutamente del vocabolario politico di recente conio. Si capisce del resto il bisogno di mettere talvolta in ridicolo simili manifestazioni dell’immaginario imperiale, se si considera che raffigurazioni come quella di Enea erano praticamente onnipresenti nelle città romane all’inizio del principato. Non c’era bisogno di spingere lo sguardo molto lontano per imbattersi in segni di deferenza nei confronti della famiglia di Augusto e del nuovo Stato da lui creato. La fonte originaria della nostra “Sacra Famiglia” scimmiesca è chiaramente il famoso gruppo statuario collocato in una delle esedre del Foro di Augusto, che ci viene descritto da Ovidio» 19, e di cui sono stati ritrovati pochi ma inequivocabili frammenti. Non va tuttavia dimenticato che il gruppo di Enea ed Anchise era già stato rappresentato nei denarii di Cesare, del quale Augusto, segue enfatizzandolo, il programma ideologico: questo è il quadro d’insieme, nel quale collocare il pentametro 19 P. ZANKER, Un’arte per l’impero, Milano 2002, considera Enea, Anchise e Iulo– Ascanio «tutti e tre rappresentati come scimmie con teste di cane», ma non v’è dubbio che anche i corpi, e particolarmente le zampe, sono di cane. Ho citato la spassosa espressione «“Sacra Famiglia” scimmiesca» perché rende bene la scimmiottatura che il proprietario della casa ravvisava nelle pretese genealogiche augustee, ma dovrebbe parlarsi di “Sacra Famiglia” canina.

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pompeiano. Ma va pur posto nel dovuto rilievo il luogo dove il sarcastico graffito è stato trovato: la villa di Giulia, figlia di Augusto, e del di lei figlio M. Agrippa Postumo, i più stretti parenti del principe, che egli stesso relegò in esilio. Ora, sia M. Agrippa Postumo, cui appartenne la villa pompeiana, sia sua madre Giulia, avevano buone ragioni per dolersi di Augusto, diverse, ma non meno valide, di quelle di M(arcus) Antonius M(arci) f(ilius) Alexander Helios, il figlio di Antonio e Cleopatra, che pure aveva da giovinetto soggiornato in quella stessa villa. Il primo, Agrippa, era stato estromesso dalla successione dinastica, in favore di Tiberio, e perciò esiliato nell’isola di Planasia; la seconda, Giulia maggiore, era stata relegata dal padre, col pretesto dei suoi licenziosi costumi, dapprima a Pandataria e poi a Reggio, e la stessa sorte era in seguito toccata alla Fig. 26. Da sinistra: 1. Denario cesariano del 47-46 figlia omonima; il terzo perso- a.C., con Enea che porta in spalla il vecchio padre Annaggio della villa suburbana di chise e regge il Palladio, traendoli in salvo da Troia. 2. Pompei, Alexandros Helios, era Terracotta raffigurante Enea, Anchise e il figlioletto Iulo-Ascanio, dal larario della Casa di Gavio Rufo a rimasto orfano e privo del regno Pompei. 3. Mosaico pompeiano con dissacrante caricaper la guerra portata da Ottavia- tura della “Sacra Famiglia” di Enea, Iulo-Ascanio ed no ai suoi genitori. Se questi Anchise. erano i frequentatori della villa, si può ben comprendere come vi si sia trovato il distico che irride ad Augusto, graffito da uno degli altolocati ospiti o da un loro sostenitore: l’ironia del verso è dunque da connettere alla temperie antiaugustea nell’àmbito della stessa famiglia imperiale drammaticamente segnata dalla lotta per la successione.

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V.3. La successione imperiale: l’impero fra ideologia della libertas e dispotismo. V.3.1. La successione fra elezione formale e scelta dinastica e i modelli politici del principato. Nella sua ossessione di stabilità e sicurezza dello Stato, nata dalla traumatica esperienza delle guerre civili, Augusto s’era adoperato per tempo ad assicurarsi una pacifica successione, volendo evitare il divampare di una ennesima conflagrazione inter cives. Poiché il principato non era una monarchia, e pretendeva per di più d’essere una repubblica, non si poteva far valere automaticamente il principio dinastico. Augusto si fece allora associare nella tribunicia potestas il genero Agrippa, di cui aveva comunque adottato i figli, dei quali era nonno, Caio e Lucio Cesari. Morto Agrippa nel 12 a.C., la vedova e sua seconda moglie Giulia chiese al padre di sposare Tiberio. Era questi figlio della terza moglie d’Augusto, l’imperatrice Livia, e di Claudio Domizio Enobarbo, che l’aveva di buon grado “ceduta” al principe, con l’entusiastico consenso dell’interessata, benché fosse in cinta di Druso. In verità Tiberio era felicemente sposato e innamoratissimo di Vipsania, figlia di primo letto di Agrippa. Ma Livia, l’imperatrice, Augusto e Giulia prevalsero: divorziato forzatamente da Vipsania, il povero Tiberio fu associato alla tribuncia potestas dall’imperatore, quale segno della sua designazione alla futura successione. Il nuovo matrimonio entrò però in crisi con ampio contorno di corna e Giulia, come s’è detto, fu esiliata e lo stesso Augusto dichiarò il divorzio con il pretesto dei licenziosi costumi della figlia. In realtà la moglie Livia aveva avuto facile gioco a fare escludere Agrippa Postumo, figlio di primo letto di Giulia e piuttosto instabile di carattere. Tuttavia erano frattanto cresciuti Gaio e Lucio Cesari e Tiberio s’era visto posporre a loro nel progetto di successione. Così preferì andarsene volontariamente a Rodi. Ma Gaio e Lucio Cesari morirono prematuramente, precipitando Augusto nella più cupa disperazione. Agrippa Postumo restò escluso comunque dalla successione, non tanto per la disgrazia della madre, quanto per la sua instabilità caratteriale e per qualche forma – a quanto pare – di deficit mentale.

Alla fine, il progetto di Livia di vedere il figlio succedere ad Augusto fu coronato da successo: nel 4 d.C. il vecchio principe, rimasto senza eredi del suo sangue, adottò Tiberio tornato ormai dall’esilio e dieci anni dopo egli divenne imperatore. Di fatto governava da dieci anni a fianco del padre adottivo, e la tribunicia potestas gli era già stata conferita. Ma formalmente furono il senato e i comizi a “ratificare” la sua “ascesa al soglio imperiale”. Proseguiva così la distonia politica instaurata da Augusto: il “regno senza corona” aveva adottato come propria ideologia non il principio del dispotismo illuminato, ma la libertas di Catone Uticense. Se ci fu un principe intimamente convinto degli ideali repubblicani, questi fu Tiberio. Esponente della nobiltà repubblicana, avrebbe voluto governare con la collaborazione politica del senato. Come vedremo, non vi riuscì, e ne fu quasi considerato un tiranno. Ma rifiutò di proseguire la mistica augustea, per riportare la respublica e il principato su questa terra. Quando gli proposero di intitolargli un mese,

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come s’era fatto per Cesare (luglio) e Augusto (agosto), rispose che andando avanti di quel passo in futuro non sarebbero bastati i mesi dell’anno per tutti gli imperatori che ci sarebbero stati: Roma era Eterna. Nella storia del principato, l’ispirazione degli imperatori al modello augusteo di un “primato” del princeps all’interno di una civitas governata da leggi si alterna ai tentativi, tutti falliti, di realizzare quella monarchia di tipo orientale, che era apparsa già a Cesare e ad Antonio la sola forma dello Stato proponibile nella dimensione di un impero ecumenico ormai multinazionale. L’autocrazia imperiale si rappresenta così ora nei termini di un potere eccezionale assunto dal principe senza magistratura, la tribunicia potestas, e di una magistratura, il proconsolato, cui inerisce un’imperium proconsulare ma maius et infinitum, ora invece nella pretesa o nell’aspirazione di alcuni principi ad una monarchia divina nella tradizione orientale. Gradatamente il pensiero politico elaborerà una concezione più aderente alla realtà del principato, cogliendo quei caratteri che fanno di tale regime qualcosa di diverso sia dall’una che dall’altra idea. I tentativi di caratterizzare nel senso dell’assolutismo orientale il regime del principato trovarono in varia guisa espressione in Gaio Cesare detto Caligola (37-41 d.C.), Tiberio Claudio Nerone (54-68), Tito Flavio Domiziano (81-96), Marco Aurelio Antonino Commodo (180-192). La storiografia romana d’ispirazione senatoria, come già per Tiberio, ha dipinto quali folli e sanguinari anche questi quattro imperatori, contro i quali fu per altro decretata, una volta che furono assassinati o costretti al suicidio, la damnatio memoriae: le loro statue furono abbattute, le immagini cancellate, il loro nome eraso da tutte le iscrizioni. La storiografia moderna ha invece in gran parte rivalutato il loro operato e la loro figura, ma soprattutto interpreta il loro assolutismo non nell’ambito di una pretesa o reale patologia della personalità, ma come concezione politica dello Stato. È dunque il caso di osservare ora la lenta evoluzione storica di questo fenomeno.

Tiberio: l’ineluttabilità dell’impero. Tiberio (14-37 d.C.) fu, come s’è detto, esponente di quella gens Claudia, che s’identificava nelle memorie più sacre della tradizione repubblicana: egli visse drammaticamente l’inevitabilità politica dell’autocrazia, ma si tenne sempre lontano, nell’orma romano-italica di Augusto, dalle suggestioni della monarchia di tipo orientale. Ma, come il predecessore, anch’egli era convinto che un Fato ineluttabile l’avesse predestinato alla successione imperiale: Agrippa, Marcello, Caio e Lucio Cesari, che Augusto gli avrebbe anteposto e preferito, premorirono tutti. Benché credesse nell’astrologia come scienza per conoscere il futuro dell’impero, e s’avvalesse dell’astrologo Trasillo, tuttavia, al contrario del predecessore, in Oriente e nelle province Tiberio cercò di scoraggiare nella misura del possibile le spontanee manifestazioni della mistica messianica, cui Augusto aveva dato libero corso. Infine dovette autorizzare che un qualche culto gli fosse in alcuni casi tributato in Spagna e in Asia, ma solo congiuntamente alla dea Roma. Rifiutò il titolo di imperator, lui che, al contrario di Augusto, grande generale lo era veramente. E rifiutò anche il titolo di Augustus, che tuttavia gli fu spesso frequentemente attribuito, e che finì con l’usare nei confronti dei sovrani stranieri.

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Politicamente la sua estrazione aristocratica accentuò il distacco dai populares di cesariana memoria, che già Augusto aveva gradualmente iniziato. Così una lex Visellia del 24 d.C., da lui ispirata, vietò ai liberti, gli schiavi liberati e perciò dotati della cittadinanza romana, di entrare nell’ordo decurionum, cioè nel senato cittadino delle colonie e dei municipi. Tale provvedimento, foriero di vaste conseguenze sociali, politiche e giuridiche anche nel lungo periodo, rispondeva a quella concezione elitaria dell’ideologia conservatrice senatoria, da sempre nettamente avversa all’indirizzo politico “democratico” cesariano, almeno in questo seguìto ancora da Augusto: l’aristocratico Tiberio, invece, fu più sensibile alle richieste della nobilitas di Roma e, maggiormente, dei municipia, quando acconsentì all’abrogazione del “privilegio” ex lege Visellia nei municipia e nelle coloniae. A Roma intraprese un’azione di governo, orientata a favorire l’uterque ordo a scapito della plebs, accentuando la riduzione delle funzioni comiziali. Dopo la prematura morte di Germanico, di cui era zio, della quale fu anche ingiustamente sospettato, gli intitolò altre 5 centurie nella procedura di destinatio magistratuum, decretandogli anche onori divini. Premortogli poi il figlio Druso, ne aggiunse ancora altre 5 nel 19 d.C. con una lex Valeria Cornelia, che riformò la precedente lex Iulia del 5 d.C. Il mantenimento degli appalti pubblici in mano alle famigerate societates publicanorum, formate dagli equites, fu compensato da un estremo rigore nella pubblica amministrazione, soprattutto provinciale, che costò la vita ad alcuni funzionari profittatori. Iniziò a creare una burocrazia imperiale per la riscossione dei tributi, affiancando a quelli dell’aerarium del senato i propri schiavi specializzati nell’amministrare le finanze, formati in una vera e propria scuola della domus imperiale del Palatino. Gli schiavi presentavano il vantaggio, rispetto ai liberi, di poter essere sottoposti a tortura in caso di furti o malversazioni, ma erano regolarmente premiati con la libertà e l’assunzione come funzionari pubblici quando ben meritavano. Tiberio li trattava con rispetto e talvolta con familiarità. Fu accusato di avarizia per la sua buona amministrazione dello Stato, che avocò con la trasformazione del fiscus Caesaris da cassa privata ad istituto pubblico collaterale all’erario e dopo il 32, quando i piccoli coltivatori diretti e le piccole imprese agricole entarono in crisi per la siccità, li soccorse mettendo a disposizione crediti a basso tasso d’interesse. Istituzionalizzò la guardia personale del principe nel corpo dei praetoriani, che Augusto aveva disperso con cautela e discrezione in vari punti dell’Urbe, e che egli concentrò armati di tutto punto nei Castra Praetoria, tuttora esistenti nel cuore della città. Di conseguenza anche il prefetto del pretorio, di rango equestre perché teoricamente più affidabile dei senatori quanto a lealtà al principe, divenne il funzionario più influente e potente dell’impero. La lotta per la successione era spietata: le congiure che Tiberio dovette reprimere sanguinosamente anche nella sua stessa famiglia, e l’ondata di suicidi che il crescente dispotismo determinò fra i suoi stessi amici più legati agli ideali della libertas, ma magari anche di mano più lesta quando circolava danaro, lo precipitarono nell’angoscia esistenziale del potere, che egli avrebbe voluto esercitare da princeps e che fu costretto ad esercitare da tyrannos. La sua crisi di coscienza lo portò a sentirsi len-

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tamente morire di giorno in giorno, e ad invocare che gli dei gli concedessero rapida morte per sottrarlo al tormento, che per lui era diventato reggere un impero di servi, anziché d’uomini liberi. Ma le sue invocazioni non incontrarono la comprensione di un senato che non lo capiva. Furono così tacciate d’ipocrisia le sue parole sul senso della funzione pubblica, il servitium rei publicae, che invece rispondono ad un’elaborazione propria del suo universo ideologico ispirato ai valori repubblicani. Svetonio tramanda infatti questa oratio principis in senatu habita: Svetonius, Tiberius XXIX: Dico ora e l’ho detto tante altre volte, padri coscritti, che un principe onesto e sollecito dello Stato, che voi avete fornito di un potere così grande e vasto, dev’essere al servizio del senato e di tutti i cittadini, e spesso, anzi il più delle volte, anche dei singoli. E non mi pento d’averlo detto, visto che ho trovato in voi padroni onesti, equanimi e bendisposti, e tuttora così vi trovo. Il venir meno della dignitas e del senso dello Stato, che avevano caratterizzato gli ideali del l’aristocrazia repubblicana, disgustarono a tal punto quest’uomo severo, da indurlo a ritirarsi in solitudine a Capri, lontano dalla corruzione e dal servilismo della capitale, e da lì a governare il mondo, quasi una condanna per chi da quel mondo voleva fuggire. L’occasione della fuga definitiva gli fu data nel 26 d.C. dal pericolo miracolosamente scampato nel suo primo e meno eremitico rifugio nella villa imperiale (praetorium), che s’era fatto costruire a Sperlonga (praetorium Speluncae), a metà strada del litorale fra Roma e Napoli. Tacito e Svetonio ricordano la frana che si verificò a Sperlonga mentre il principe vi soggiornava con il prefetto del pretorio Seiano. Il triclinio imperiale si trovava all’interno di una grotta (spelunca) penetrata dal mare, che mitigava la calura estiva per i banchettanti, formando un’isolotto, sul quale precipitò un masso staccatosi all’improvviso dalla volta mentre l’imperatore cenava con pochi ospiti. D’istinto Seiano gli si buttò addosso per fargli scudo col proprio corpo. Da quel momento Tiberio ripose in lui una sconfinata fiducia e lo lasciò governare a Roma, ritirandosi a Capri.

La personalità politica di Tiberio è quella di un principe dalla vita tormentata, che riconosciamo in alcuni lineamenti esistenziali del ritratto psicologico tacitiano, autentici al di là della contraffazione polemica. A Sperlonga, immerso nel suo regno irreale ed in fuga dal mondo, e poi nell’isolamento sul baratro di Villa Iovis a Capri, egli ci appare straordinariamente coerente con l’immagine della storiografia antica nel sotterraneo rapporto, potremmo modernamente dire freudiano, con il padre adottivo e padre politico insieme: Augusto, ormai arresosi all’ineluttabilità della sua successione dinastica. Tiberio, diviso fra l’ascendenza repubblicana e l’adozione imperiale, è segnato da un conflitto interiore inestricabilmente politico e personale insieme, ed in ciò è intimamente homo politicus nel senso romano. È per noi più comprensibile il princeps così incomprensibile ai contemporanei, la mente imperscrutabile, le frasi ambigue e sempre lasciate in sospeso: suspensa semper et obscura verba. Ambiguità di una situazione esistenziale che affondava le radici nel suo desiderio d’imparzialità, per lasciare libertà al senato, senza esercitare influenze, nelle funzioni di governo dello Stato. Il dramma del principe era nel fatto che i senatori cercavano invece di comprenderne e prevenirne una volontà, che risul-

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tava loro indecifrabile non per ipocrisia “augustea”, ma perché il principe evitava di manifestarla per non influenzare il senato. E questo dramma era accentuato da una profonda solitudine interiore, accresciutasi con la perdita dei pochi amici e parenti. Quando Seiano iniziò a tramare contro il principe perché deluso nelle sue attese di successione, Tiberio riuscì abilmente, senza muoversi da Capri, a farlo arrestare e trucidare. Ma perse così l’unica persona di cui si era fidato. Agrippina, discendente di Augusto, lo sospettò d’averne fatto avvelenare il marito, Germanico. Questi era amato dal popolo, al contrario di Tiberio, e dalla folla preferito allo stesso imperatore: tramite dell’omicidio sarebbe stato il proconsole di Siria Cneo Calpurnio Pisone, amicissimus principis. L’impassibilità di Tiberio al processo di Pisone, che voleva essere imparzialità per non influenzare il senato, fu interpretata come abbandono dell’amico: Pisone si suicidò prima d’esser condannato, risparmiando così che i suoi discendenti fossero colpiti da infamia e che la sua eredità finisse confiscata. Conosciamo da un ritrovamento epigrafico il senatusconsultum di condanna di Pisone. Si tratta di un impressionante documento del conformismo, dell’atonia morale e dell’ipocrisia su cui si reggevano i convenzionali valori fondanti della società dell’epoca (e non solo di quella): il figlio primogenito dello sventurato proconsole è costretto a cambiare il praenomen del padre, a rinnegarlo ed a compiacersi della clementia del senato e dell’indulgenza verso di lui. Il senatusconsultum de Cn. Pisone Patre chiarisce assai bene che si tratta di una virtus tradizionale del senato: esso riceve la clementia dai predecessori (maiores), cioè dai senatori di età repubblicana, e naturalmente anche da Augusto e Tiberio, ipocritamente rappresentati come «intermediari di quella tradizione» (Giua). Il senatusconsultum de Cn. Pisone Patre è il sintomo tragico di un universo di valori convenzionali facilmente intuibili perché espressi in ben note formule stereotipate, atte a veicolare i concetti propagandati nell’“immaginario collettivo”, di un princeps sacrosanctus e al di sopra d’ogni sospetto. Dopo la condanna di Pisone, Tiberio fu infine costretto a far uccidere Agrippina che, per nulla convinta della sua innocenza, tramava contro di lui. Germanico era certamente morto per cause naturali, ma la sua morte produsse una strage e così isolò ancor più Tiberio. Più tardi egli perse il figlio e nello stesso anno uno dei nipotini: molti anni dopo, falsamente convinto che il figlio fosse stato assassinato dalla nuora per un adulterio di quest’ultima, la fece giustiziare.

Principe non dedito alle largizioni alla plebe, non al lusso dell’aristocrazia, interamente ed austeramente votato al governo dell’impero, Tiberio fu dunque impopolare. Tacito lo descrive speculabundus ex altissima rupe, mentre osserva il firmamento notturno per scrutarvi il destino dell’impero, dal precipizio di Capri, l’isola che prospectabatque pulcherrimum sinum, antequam Vesuvius mons, ardescens, faciem loci verteret: lo storico e senatore della repubblica perduta (amissa respublica), che non capì che Tiberio viveva il suo stesso dramma, seppe rappresentare nella quiete notturna del golfo di Napoli, destinato ad essere sconvolto dall’eruzione vesuviana, la sintonia panteistica della Natura al dramma del despota e dell’impero. Tiberio rimase deluso non meno di Augusto nelle sue attese di successione. Ma il sol fatto che, come il suo predecessore, cercasse nella sua discendenza il futuro imperatore rivela l’ormai inevitabile concezione dinastica del principato, imbaraz-

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zante smentita d’ogni pretesa di restaurazione repubblicana. Le attese che la nascita nel 20 di due gemelli, da Livia e dal figlio Druso, suscitò nel nonno Tiberio sono infatti descritte da Tacito e da Velleio Patercolo, che compiange Tiberio per la perdita nello stesso anno del figlio Druso e del nipotino. Una serie di testimonianze epigrafiche e numismatiche testimonia il culto divino spontaneamente tributato in Oriente ai due gemellini ed alla madre dell’imperatore, Livia, nella convinzione di compiacerlo. Gli onori tributati in Oriente e in Occidente ai gemelli si iscrivono in una temperies saeculi nota dalle fonti, che rinnova l’attesa “messianica” di generazione in generazione, salvo ad andare incontro a più o meno cocenti delusioni. Caligola: la tendenza alessandrina e la titolatura imperiale. Uno dei gemelli nipoti di Tiberio morì all’età di soli 4 anni, mentre l’altro ne aveva 17 nel 37, alla morte del nonno: il testamento dell’imperatore, che lo designava erede insieme a Caio Cesare Germanico, soprannominato Caligola 20, fu annullato perché Tiberio Gemello era appunto minore. Così ascese al trono il solo Caligola (37-41), di cui il defunto principe era prozio. Caligola era figlio di Germanico e di quell’Agrippina che proprio Tiberio aveva fatto morire, e discendente di Marco Antonio, del quale si sentì erede nella concezione politica orientale, contro la quale Ottaviano aveva sapientemente orchestrato la sua propaganda di guerra. È infatti significativo che Caligola abbia soppresso la festività commemorativa della battaglia di Azio. Non possiamo dire fino a qual punto la sua pretesa di essere adorato come divinità abbia esorbitato i limiti delle province. Lo avrebbe certamente preteso, con nefaste conseguenze per la pace dell’impero, dai Giudei, che da tutti i culti romani erano legittimamente esentati, se non fosse stato “provvidenzialmente” ucciso. Comunque la follia attribuitagli dagli storici a lui avversi nel nominare senatore il proprio cavallo è invece interpretabile come gesto politico di vilipendio all’immagine del senato, nell’ambito del suo progetto di dispotismo orientate. Analogamente, l’ostentato amore per la sorella Drusilla, una sorta di hieròs gamos, non è semplicisticamente configurabile come perversione, ma è invece l’assunzione, inaccettabile per il costume romano, della tradizione endogamica, propria della dinastia tolemaica quanto dell’Egitto faraonico. Anche qui dunque un progetto politico orientale, benché si sappia che il suo amore per la sorella fu umanamente sincero e che alla sua morte, pazzo – questa volta sì – di dolore, le fece decretare l’apoteosi. La storiografia moderna ha recuperato anche la dimensione morale di Caligola, che fece uccidere il nipote del predeecessore, Tiberio Gemello, appena diciassettenne, ma solo dopo aver scoperto che congiurava contro di lui, mentre in un primo momento l’aveva perfino adottato. Del suo breve principato restarono alcune acquisizioni formali definitive: l’adozione dei titoli di Imperator ed Augustus nella nomenclatura imperiale, nonché l’appellativo di pater patriae, tutti epiteti che Tiberio aveva ostentatamente rifiutato per segnare il ritorno alla tradizione repubblicana. Caligola fu massacrato insieme alla famiglia, a causa della sua autocrazia e delle sue pretese di apoteosi, in una congiura di senatori e cavalieri, che i pretoriani non riuscirono a prevenire benché circondassero l’imperatore, ma di cui fecero giustizia 20 Dalle caligae, gli stivali militari che da bambino i soldati del padre gli avevano confezionato in miniatura, quando viveva nell’accampamento.

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sommaria pochi istanti dopo la sua morte. La sua propensione ai modelli orientali della mistica di Stato, che astutamente Augusto aveva lasciato fomentare nelle province mostrando di schermirsi e di stigmatizzarle a Roma, non fu invece seguita dal successore di Caligola, Claudio, uomo non prescelto per succedergli nelll’impero ma dalla coscienza politica saldamente formata nello studio e nell’esperienza storica della tradizione romana.

Claudio: amministrazione ed ecumenismo imperiale. I pretoriani si trovarono così ad essere padroni della situazione, poiché nessuno s’era preparato alla successione del giovanissimo principe. Pensarono di poter manipolare un imperatore debole, sufficientemente anziano, e menomato perché zoppo (appunto claudicante), e perfino un po’ balbuziente, ma che appartenesse alla famiglia imperiale, alla quale si riconosceva una sorta d’investitura o grazia divina (chàrisma, auctoritas). S’illusero di trovare questi “requisiti” di dobolezza e manovrabilità in Claudio (41-54), un intellettuale, storico ed etruscologo, che si dimostrò invece di tutt’altra fatta. Non essendo previsto da nessuno che dovesse mai salire al soglio imperiale, anche a causa dei suoi difetti fisici e della sua impacciata eloquenza, egli non era stato adottato nella gens Iulia come Tiberio e Caligola. Conservò quindi il suo nome Claudius. La sua acclamazione, nel castro pretorio, da parte dei pretoriani e degli altri soldati fu contrastata invano dai patres che ebbero il coraggio di riunirsi: essi dovettero prendere atto che la prassi costituzionale di scelta del principe, con il conferimento formale dei poteri da parte del senato (imperium) e dei comizi (tribunicia potestas) era ora innovata perché era l’esercito che deteneva in realtà il potere. Ma, mentre il senato avrebbe voluto considerare questa una prassi politica da accettare per necessità, Claudio e gli equites che lo sostenevano vollero darle un crisma di assoluta legalità: la storiografia della pars Claudiana, giuntaci attraverso Flavio Giuseppe, rappresenta infatti l’imperatore come il “garante sociale” contro l’onnivora avidità del senato. Lo stesso Claudio celebrò come avvenimento del tutto legale la sua acclamazione nel praetorium, coniando per diversi anni monete commemorative che rappresenFig. 27. Denario di Claudio per la proclamazione. tavano la caserma presidiata da una sentinella, la quale lo proclamava imperatore gridando dagli spalti che egli aveva accettato l’impero: imper(ium) recept(um); un’altra serie di monete, con legenda praetor(ianis) recept(is), rappresentava invece un pretoriano ricevuto dallo stesso Claudio che gli stringe la mano (dextrarum iunctio). Principe colto e capace sul piano sia politico che strategico, si dedicò alla prima programmatica e sistematica opera di organizzazione dell’amministrazione imperiale in senso burocratico, sulla scia di Tiberio, con l’este-

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sa attribuzione di funzioni direttive ai suoi liberti, in gran parte di origine greca e orientale. La riscossione dei tributi richiedeva competenze specialistiche legate ai censimenti locali in tutto l’impero, ed onestà da verificare sempre. La reazione senatoria alla espansione del potere del principe attraverso la burocrazia riuscì, dopo la sua morte, a sottrarne la direzione ai liberti, che furono sostituiti dagli equites, certo con discutibile vantaggio dello Stato. Ma dello Stato andò comunque rafforzandosi la struttura amministrativa, dando poi luogo anche alla cosiddetta cancelleria imperiale ed al fiscus Caesaris, il patrimonio privato del principe, che finì col costituire – di fatto se non di diritto – una cassa pubblica sotto il suo controllo, a fianco del vecchio aerarium populi Romani, il quale continuò ad essere controllato dal senato. In verità il fiscus Caesaris potrebbe essere stato solo potenziato e strutturato da Claudio, perché alcuni indizi inducono a sospettare che fosse già stato istituito da Tiberio. In fatto di politica estera e di strategia dell’espansione, Claudio promosse la conquista della Britannia e della Mauretania. Inoltre, primo dopo Giulio Cesare, riaprì il problema dell’estensione della cittadinanza romana ai provinciali, che Augusto e Tiberio avevano dispensato con grettezza e parsimonia. Nel 46, infatti, concedesse la cittadinanza romana alle popolazioni alpine del Trentino (Tabula Clesiana), che l’avevano usurpata in buona fede, ma che dimostravano la loro completa romanizzazione. Ma si trattava di un caso specifico. Quando invece, due anni dopo, ricevette una petizione degli Edui, popolo della Gallia Comata, egli colse l’occasione per affrontare in termini più generali il problema. Il discorso dell’imperatore (oratio principis in senatu habita), riferito da Tacito, ci è in parte pervenuto direttamente in una tavola bronzea di Lione (Lugdunum). Claudio perorò in senato, nel 48 d.C., la causa della concessione del ius honorum, cioè del diritto di candidarsi alle magistrature romane, agli abitanti di quella città gallica, dov’egli casualmente – ma nella concezione imperiale provvidenzialmente – aveva avuto i natali. Ed avrebbe perciò voluto sponsorizzare l’ingresso di alcuni decuriones lionesi nel senato romano. Ben conoscendo le riserve dei patres conscripti in materia di privilegi della romanità, ed avvalendosi della sua autorità più che di principe piuttosto di storico, cercò di vincere i pregiudizi del senato adducendo gli exempla maiorum, gli esempi degli antenati, dimostrando cioè che, fin dalla fondazione, Roma aveva sempre avuto un atteggiamento di totale apertura verso gli stranieri; al punto d’averli fatti anche re, ed al punto che quelli che ormai da secoli si consideravano Romani, erano stati un tempo forestieri. In verità il senato non accolse questa motivazione, che avrebbe concesso una apertura di credito a futuri ampliamenti della cittadinanza a provinciali di ogni provenienza, ma – non volendo opporre un diniego ad una richiesta dell’imperatore – si limitò a citare la presunta consanguineità di Romani ed Edui, che pretendevano entrambi di discendere dai Troiani, per accordare il diritto nel caso specifico senza rischiare l’estensione, in futuro, della cittadinanza ad altri provinciali. Comunque, il principe zoppo e balbuziente smentì i timori di Augusto e Livia, che l’avevano escluso dalle prospettive di successione, e smentì la convinzione dei pretoriani, che l’avevano acclamato per spremerlo come un limone e farne una marionetta. Claudio si rivelò invece un imperatore capace nell’amministrazione civile

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e militare, accorto nell’usare le risorse pubbliche. Aveva tuttavia due punti deboli che infine, coniugati, gli risultarono fatali. S’è detto che Claudio non era propriamente un Apollo: si può capire che, divenuto imperatore, si sia concesso un paio di licenze matrimoniali. Dapprima sposò la giovanissima e stupenda Messalina e fu così liberale da consentirle di avere tutte le avventure amorose che desiderava, salvo quando ebbe sentore ch’ella – da poco ripudiata – ordiva una congiura perché il suo ultimo amante s’impadronisse del potere. Fu subitaneamente uccisa dai pretoriani, da lui inviati, alla tenera età di 27 anni insieme allo sventurato. Nelle successive nozze, Claudio sposò la bellissima Agrippina Minore, figlia di suo fratello e dunque sua nipote, madre di Claudio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone, ch’egli adottò anteponendolo al proprio figlio naturale Britannico, avuto da Messalina e più giovane del nuovo arrivato. Secondo la tradizione storiografica avversa ad Agrippina, quando Claudio le comunicò d’aver cambiato idea e di preferire Britannico, non fece in tempo a modificare il testamento: Agrippina avrebbe approfittato dell’altro suo debole, oltre le donne, i funghi, somministrandogli i quali avrebbe fatto sì che restasse subitaneamente avvelenato. Il senato non l’amò, ma gli decretò l’apoteosi, ch’era stata negata a Tiberio ed ovviamente a Caligola, e concessa solo a Cesare e ad Augusto. Seneca allora, amico di Agrippina e precettore del giovanissimo Nerone, lo irrise scrivendo ingenerosamente una satira, la “zucchificazione” del dio Claudio (Apokolokynthosis Divi Claudi, che evoca parodisticamente la parola Apotheosis): il senatore filosofo, che in vita l’aveva anche incensato, lo deride da morto dicendo che non era vissuto abbastanza da vedere Roma invasa da tutti quei barbari cui avrebbe voluto donare la cittadinanza. La politica di coinvolgimento dei provinciali, che appariva grottesca al senato, si sarebbe compiuta nel 212 con la constitutio di Antonino Caracalla: ciò dimostra da un lato la lungimiranza di Claudio, dall’altro l’endemica incapacità di governo del senato. Basterebbe l’aver perseguito come omicidio l’uccisione dello schiavo da parte del padrone per esprimere un giudizio definitivo sull’humanitas di un imperatore, che attuò nella sua opera di governo i princìpi politici, che aveva maturato quale discepolo di Tito Livio ed esponente egli stesso della scienza storica. Nerone: il ritorno della concezione alessandrina e la captatio del consenso popolare. Claudio Nerone (54-68) godette di una fama e di una letteratura del tutto negativa, che accomuna la tradizione storiografica antica sia pagana che cristiana. Perfino gli Italiani, uno dei popoli più ignoranti dell’Unione Europea, lo conoscono bene, o meglio ne conoscono lo stereotipo creato dalla storiografia senatoria a lui avversa, ed immortalato nel Novecento dalla cinematografia holliwoodiana: dissoluto, incestuoso, matricida ed uxoricida, assassino del suo maestro Seneca, incendiario, auriga, pazzo e poeta da quattro soldi. La storiografia moderna è invece riuscita a rendergli politicamente giustizia, benché alcuni fra gli omicidi a lui ascrivibili restino moralmente ingiustificabili. Quanto all’accusa di matricidio, gli va riconosciuta l’attenuante delle trame che la madre tentò di ordire per eliminarlo: potrebbe essere addirittura una esimente, se ne sapessimo di più. Ma resta la scena

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altamente drammatica dipinta da Tacito, di Agrippina che impavida ostenta il ventre al centurione inviato ad ucciderla, perché colpisca lì dove il mostro fu generato. Dell’incendio di Roma del 64 non solo fu innocente, ma programmò straordinariamente bene la razionale ricostruzione della città in modo che non corresse più quel rischio, regolando con provvedimenti normativi l’uso di materiali “ignifughi”, come la pietra e soprattutto il laterizio negli architravi, in sostituzione del legno, l’altezza delle insulae, che fu ridotta, la larghezza delle strade, che furono invece ampliate, e vietò la costruzione di pareti in comune fra edifici attigui. Perseguitò sì i cristiani, sui quali trovò comodo riversare la falsa accusa d’incendio che altrettanto falsamente gravava sopra di lui. Ma anche se non furono certo i cristiani ad appiccare le fiamme, non è escluso che invece le abbiano propagate: essi attendevano l’Apocalisse da un momento all’altro, in quella stessa generazione, e può darsi che abbiamo ravvisato nell’incendio la punizione divina per Roma, che appariva loro come una nuova Sodoma o Gomorra. Poco più tardi, nel 79, quando il Vesuvio distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, ebrei e cristiani vi riconobbero proprio la punizione divina. Ed ancora nel II-III secolo s’attendeva l’Apocalisse come distruzione del mondo e di Roma: la fine dei tempi sarebbe stata annunciata dall’Anticristo, e Nerone era incappato in questa simpatica identificazione da parte dei cristiani. L’odio del genere umano, di cui questi ultimi furono accusati, fu loro attribuito probabilmente anche per questo. Nerone sembra essere stato un buon poeta, e l’ars poetica che i pregiudizi romani ritenevano indegna d’un principe, era invece ritenuta degnissima in Grecia. Con le corse nel circo in veste d’auriga cercava nella plebe la popolarità, dopo che il consenso gli era venuto a mancare in senato, uccisa la madre e prescritto il suicidio a Seneca. Ma forse l’imperatore filoelleno – come più tardi l’“imperatore filosofo” Marco Aurelio – avrebbe anche voluto, con le sue esibizioni, orientare le masse verso spettacoli non indegni del senso di umanià come i giochi gladiatori, la cui sanguinarietà ripugnava alla civiltà greca quanto agli spiriti più eletti dell’intelligentia romana.

La storiografia antica ha convenzionalmente distinto un primo periodo sotto la tutela di Seneca, che sarebbe stato illuminato, da un secondo che, dopo il suicidio del maestro, sarebbe degenerato nel dispotismo. In realtà, cessata l’influenza dell’ordo senatorius attraverso Agrippina e Seneca, la nuova politica tesa alla tutela degli equestri, della plebe e dei provinciali lo rese inviso alla nobilitas. Infatti le riforme monetarie e fiscali neroniane tendevano a favorire i ceti intermedi ed il proletariato urbano contro l’accumulo di ricchezze dell’aristocrazia senatoria. Il progetto di esentare dapprima le province, poi la sola Grecia dai tributi, giudicato segno di follia, rispondeva a scelte innovative di politica economica per incrementare commerci e circolazione di ricchezza, rifacendosi con imposte indirette. L’esenzione della Grecia rispondeva invece ad esigenze ideologiche, essendo quella la patria riconosciuta del genio artistico, di cui Nerone era intriso o tale si considerava. Ma entrambi i progetti miravano politicamente ad equiparare le province all’Italia, e in particolare l’esenzione tributaria della Grecia era segno del ruolo paritario, che Nerone, precorrendo Adriano, intendeva riconoscerle nella formazione della civiltà come nel governo dell’ecumene romana.

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Anche lui, come già Caligola, volle proporsi quale monarca orientale, isolandosi dalla città nell’immensa reggia che fu chiamata domus aurea per la sua magnificenza: fu progettata dagli architetti Severo e Celere con criteri del tutto innovativi nella soluzione degli spazi, dei giardini, delle piscine, che invasero il centro dell’Urbe. Gli spazi pubblici ch’essa occupò erano segno della concezione del divino signore del mondo: la rispondenza del potere imperiale con l’ordine cosmico era ostentata nel triclinio rotante, dove Nerone si mostrava, e che riproduceva sul soffitto la volta celeste. La teologia politica neroniana si tradusse nel colosso di Nero-Helios, ch’egli si fece erigere presso la domus aurea e dal quale più tardi prese nome il Colosseo. Benché la reggia fosse almeno in parte accessibile ai Romani, l’aver sottratto un terzo dell’area distrutta dall’incendio allo spazio pubblico ed alla proprietà dei privati non giovò alla popolarità del principe, che profondeva tante ricchezze nella sua domus mentre gran parte della popolazione non aveva un tetto. Non bastò la ricostruzione dell’Urbe a fugare la leggenda che per appropriarsi degli spazi necessari alla sua domus egli avesse incendiato Roma.

Va ricordato, come segno della sua sollecitudine nel campo del diritto, il provvedimento per garantire l’inviolabilità della scrittura sulle tavolette cerate (trittici e polittici), nelle quali si redigevano i negozi giuridici e soprattutto i testamenti: il senatus consultum Neronianum prescrisse infatti che un triplice laccio di lino con sigillo di ceralacca dovesse chiudere attraverso tre fori due delle tre tabelle costituenti normalmente il trittico, in modo che la scrittura contenuta all’interno non potesse essere alterata, mentre la terza – con una copia della scrittura interna – restava libera e consultabile. In caso di polittici era sempre l’ultima tabella a restare non legata alle altre.

Fig. 28. Polittico di tabelle cerate dall’Egitto (fronte e retro con legacci sul retro). Ogni tabella ha una cornice lignea, entro cui una superficie rettangolare incavata è cosparsa di cera, sulla quale con la punta di uno stilo si incideva la scrittura che comprovava l’avvenuta confezione del negozio giuridico. Le tacche sulle costole superiori servivano per passarvi ulteriori legacci (Berlin, Neues Museum). Su di essi si colava la ceralacca che riceveva l’impronta dei sigilli dei testimoni. L’ultima tabella non era invece legata alle altre e restava libera per essere consultata senza infrangere i sigilli: vi si scriveva ad inchiostro, direttamente sul legno, un sunto del contenuto dell’atto giuridico stilato all’interno (v. fig. 13, p. 91).

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Nel 66 Nerone scelse con sagacia il suo più valente generale, Flavio Vespasiano, per inviarlo a reprimere l’ennesima rivolta divampata in Giudea, ma non fece in tempo a vederne il ritorno perché giunse la sua ora. Diverse congiure senatorie erano state ordite invano contro di lui e represse, come quella dei Pisoni, in un bagno di sangue. La sua personalità certamente eccentrica, ma anche profondamente pervasa della cultura ellenistica, costituì alla fine, nel 68, il pretesto adeguato per la rivolta non solo senatoria, ma anche equestre, che coinvolse l’esercito e soprattutto il prefetto del Pretorio: Nerone preferì suicidarsi quando apprese che il senato aveva decretato che fosse sottoposto a verberatio fino alla morte. Le sue ultime parole riflettono l’immagine d’istrione che l’odio senatorio ne costruì, ma di cui in qualche modo egli stesso si compiaceva, e sarebbero state qualis artifex pereo!: «quale artista muore in me». Sembrano in verità un topos, ma quelle che realmente pronunciò nei suoi giorni felici rivelano sangue freddo e senso dell’umorismo: mentre declamava a Napoli un boato preannunciò una scossa sismica, probabilmente quella del 62 d.C., provocando il panico nel pubblico accalcato in teatro; l’imperatore non si scompose e disse che non c’era da spaventarsi: erano gli dei che lo applaudivano.

L’anno dei tre imperatori e l’avvento dei Flavi. Vespasiano (69-78) fra restitutio reipublicae augustea, auctoritas e charisma. Con Nerone si estinse la dinastia Giulio-Claudia: sul momento fu nominato imperatore, con il sostegno dei pretoriani, il vecchio senatore Galba, espressione della rivolta del senato. Ma altri due pretendenti, Otone e Vitellio, provocarono una nuova guerra civile, di cui prima vittima fu Galba. Allora il generale Tito Flavio Vespasiano, che fin dal 66 soffocava la rivolta in Giudea 21, fu proclamato Cesare ad Alessandria dalle legioni della confinante provincia d’Egitto. Lasciato il figlio Tito a terminare l’espugnazione di Gerusalemme, Vespasiano si portò in Spagna, dove ingrossò le fila del suo esercito e ricavò armi dalle miniere di ferro, promettendo gratitudine agli Spagnoli. Piombato sull’Italia nel 69, non ebbe bisogno di colpo ferire: Vitellio era stato linciato a Roma ed Otone preferì nobilmente suicidarsi per evitare un bagno di sangue fratricida. Al senato non restò che ratificare la nomina di Vespasiano ad imperatore per accalamazione dell’esercito.

Così per la prima volta ascese al soglio imperiale non un nobile, ma un equestre. Egli non aveva ereditato dalla famiglia di Augusto il charisma, la grazia divi21 Vespasiano non dimenticò che uno dei comandanti della rivolta giudaica, Giuseppe, suo prigioniero gli aveva predetto l’ascesa al soglio imperiale. Quando la profezia si avverò Vespasiano non solo gli donò la libertà, ma anche la cittadinanza romana ed il rango senatorio. Egli assunse allora il nomen dei Flavi e come Flavio Giuseppe divenne lo storico della dinastia, scrivendo la Storia giudaica e le Antichità Giudaiche per i suoi connazionali ebrei. Egli cercò di fare un “buon uso del tradimento”, rappresentando ai Greci e ai Romani le sette religiose giudaiche come “filosofie”, e cercando di convincere gli Ebrei che l’Avvento del Messia doveva riconoscersi nell’ascesa al soglio imperiale di Vespasiano. La tesi era certo ardita, e non sembra aver avuto un travolgente successo. È vero che Vespasiano non aveva perseguitato gli Ebrei fuori della Giudea, ed anzi li aveva protetti dai soprusi, ma aveva dato inzio alla costruzione dell’anfiteatro flavio con il bottino del sacco di Gerusalemme (ex manubiis), e il figlio Tito aveva deforestato attorno a Gerusalemme per crocifiggerne i difensori catturati. I superstiti erano stati sterminati negli anfiteatri della Siria e poi di Roma, dopo essere stati esibiti in trionfo insieme alla Menorah, il candelabro a sette braccia sacro al giudaismo.

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na, ch’era stata fino ad allora requisito per il potere imperiale. Mancavano auctoritas e maiestas al nuovo ed inatteso padrone di Roma: auctoriats et quasi maiestas quaedam scilicet inopinato et adhuc novo principi deerat, come narra Svetonio (Vespasianus VII 2). «Subito dopo queste parole lo storico informa che Vespasiano sanò anche questo deficit., ma la testimonianza prende una direzione inaspettata. Il princeps avrebbe conseguito auctoritas guarendo, ad Alessandria, di fronte alla folla, un uomo che era luminibus orbatus e uno claudicante. L’episodio è confermato da Tacito (Historiae IV 81) e da Cassio Dione (LXVI 8.1), i quali parlano di un cieco e di un invalido alla mano. Se dovessimo credere alla attestazione svetoniana, dovremmo dire che essa rappresenta il de profundis per l’auctoritas intesa in senso forte: questo carisma dozzinale conquistato su una piazza, questo rito taumaturgico, non ha niente a che vedere con l’auctoritas omnibus praestare augusteo. Più che di una perdita dell’auctoritas in capo al principe, si deve propriamente parlare di un totale oblio del valore istituzionale di auctoritas» 22. Diciamo pure che della dimensione politico-costituzionale e mistico-sacrale dell’auctoritas augustea rimane nella percezione delle folle solo quest’ultima e per di più involgarita in una dimensione di credulità popolare, che in quello stesso torno di tempo darà luogo alla tradizione evangelica sui miracoli di Cristo. Purtroppo non possediamo fonti giuridiche o anche storiche sufficientemente chiare e inequivocabili sul conferimento dei poteri al nuovo principe. Tuttavia fin dal Trecento si conosce una tavola bronzea esistente a Roma con parte del testo di una lex di conferimento di poteri a Tito Flavio Vespasiano. La moderna e convenzionale denominazione di lex de imperio Vespasiani presuppone che essa contenesse nella tavola o nelle tavole perdute l’attribuzione dell’imperium, cosa probabile, ma comunque congetturale. Facendo ricorso a fonti storiche, possiamo ricostruire che 1’imperium era conferito al principe dal senato e dai comizi con una lex rogata, mentre la tribunicia potestas lo era dai concilia plebis con un plebiscitum. Una serie di frammenti marmorei dei Commentarii Fratrum Arvalium, collegio dei sacerdoti della dea Dia-Cerere, ce ne dà conferma e ci fa conoscere più in dettaglio la procedura, consistente nella pubblicazione di una sola lex per ciascun imperatore: «ne emergono due momenti cruciali dell’iter di investitura: la seduta in cui il senato saluta con l’appellativo imperator il nuovo princeps; poi, i comitia ob tribuniciam potestatem, ossia un’assemblea popolare convocata 22 C. LANZA, “Sovranità”, poteri e lex de imperio Vespasiani, in La lex de imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi, a cura di L. Capogrossi Colognesi-E. Tassi Scandone, Roma 2009, p. 177. Lanza osserva (nota 32) che la miracolosa guarigione dello storpio e del cieco da parte di Vespasiano, «è quasi inutile rilevarlo, evoca costumi medievali». In verità, la miracolosa guarigione dei due evoca i miracoli di Cristo (Marc. X 33; Matt. IX 21 e 22) e non certo per caso. Dopo quanto già visto sulla Rivelazione divina del Salvatore di tutto il genere umano nelle persone di Cesare e di Augusto, quest’ultimo Figlio di Dio, e sui Vangeli di lui, ci vuol poco a capire che la figura del Cristo è stata costruita – prima dalla catechesi paolina e poi dai Vangeli canonici – sul modello della mistica messianica pagana nella sua formulazione imperiale romana. Va notato fin d’ora che il più antico dei Vangeli canonici, quello sinottico di Marco, sembra sia databile proprio agli anni Settanta del I secolo.

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per votare una legge che attribuiva al nuovo principe la potestà tribunizia. È quest’ultima la notizia cruciale. Se, stando alle registrazioni degli Arvales, risulta che il popolo, all’avvento di ogni nuovo principe, si riuniva di regola una sola volta a comizio, l’ipotesi più economica è che la lex votata in quell’occasione contenesse, oltre alla potestà tribunizia, anche altri poteri, quelli che ora leggiamo in parte nella tavola di bronzo relativa a Vespasiano» 23. Quel che è certo dal testo epigrafico è comunque che il principe non era ancora considerato legibus solutus, perché è espressamente esentato solo da quelle leggi e plebisciti – presumibilmente la lex Papia Poppaea nuptialis e la lex Iulia de maritandis ordinibus – da cui erano stati esentati Augusto, Tiberio e Claudio. Il problema se la c.d. lex de imperio Vespasiani avesse valore limitativo dei poteri del principe dopo l’esperienza neroniana, o fosse il testo di un loro conferimento ormai consuetudinario, sembra ora risolvibile in quest’ultimo senso: infatti i Commentarii Fratrum Arvalium registrano, nei frammenti pervenuti, atti del collegio connessi all’investitura di Caligola, Claudio, Nerone, Otone, Vitellio e Domiziano. Dunque la delimitazione dei poteri per l’imperatore non fu un’esigenza avvertita specificamente per Vespasiano dopo la “degenerazione tirannica” dell’impero di Nerone, ma un’esigenza politico-costituzionale che si pose subito dopo la morte di Augusto. Vespasiano fu un oculato amministratore che risanò le finanze dissanguate dall’incendio di Roma e dalla sua ricostruzione, dalle spese di Nerone e dalle guerre civili. Istituì anzitutto il cosiddetto fiscus Iudaicus, cioè una tassa equivalente a quella che prima della distruzione di Gerusalemme tutti gli Ebrei pagavano prima al Tempio, e che ora era incamerata da Roma. Fu ritenuta particolarmente odiosa l’inspectio corporis, attraverso la quale si verificava, nei casi di contestazione, la circoncisione degli Ebrei tenuti al versamento del tributo. Allo stesso fine di risanamento delle finanze pubbliche, organizzò l’impianto delle latrinae e la raccolta dell’urina, utilizzata dalle corporazioni di fullones, gestori delle lavanderie, per ricavarne l’acido urico al fine di disinfettare le vesti. Si trattava di un business di enorme valore, stante il fatto che nessuno lavava in casa gli abiti, data la procedura necessaria, ma li portava a pagamento nelle fullonicae. All’obiezione del figlio Tito, che non era decoroso che lo Stato si mettesse a raccogliere l’urina, Vespasiano rispose con la celebre frase che pecunia non olet. I fullones inferociti si vendicarono chiamando “vespasiani” le latrinae costruite per suo ordine: così questo grande amministratore dello Stato paga fino ad oggi il dazio della sua previdenza. I fondi che derivavano sia dalla vendita dell’urina come dalla tassa già pagata al Tempio di Jahvé venivano incamerati non dall’aerarium populi Romani amministrato dal senato, ma dal fiscus Caesaris che diviene ora una cassa di fatto pubblica, ma sottratta – in quanto de iure cassa privata – al senato e direttamente gestita dall’imperatore attraverso i suoi funzionari e schiavi specializzati nell’amministrazione finanziaria. Egli, inoltre, restituì al popolo i vastissimi spazi che la domus neroniana aveva 23 D. MANTOVANI, Lex “regia” de imperio Vespasiani: il vagum imperium e la legge costante, in in La lex de imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi, a cura di L. Capogrossi Colognesi-E. Tassi Scandone, Roma 2009, p. 134. Cfr. anche M. PANI, L’imperium del principe, ibidem, p. 189 ss.

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sottratto all’Urbe. Il lago privato del principe nei suoi giardini fu prosciugato per erigervi l’anfiteatro flavio, segno eloquente della nuova politica di restaurazione del res publica in senso letterale. La politica edilizia del principe, proseguita dai suoi figli, s’ispirò tutta alla concezione del publicum in voluto contrasto con la “privatizzazione” cui Nerone aveva sottoposto spazi, ricchezze ed opere d’arte. Se l’anfiteatro flavio ed i suoi spettacoli furono concepiti per la massa, queste ultime furono spesso riservate per gli otia degli intellettuali in magno loci silentio. «Il Templum Pacis costituisce una monumentale espressione dell’ideologia flavia della Roma resurgens e del ruolo che Vespasiano voleva conferire al proprio governo nella storia della civiltà. La piena attuazione dell’atmosfera prodotta da una pace ecumenica e diffusa nello stesso tempo all’interno della società si contrappone all’epoca di Nerone, dominata da luxus, solitudo, audacia, denegatio naturae; un mondo la cui immagine si esprime nella residenza tirannica che sottraeva spazio vitale all’uso pubblico della città, costruita sulle rovine della patria» 24.

L’imperatore che guariva cechi e storpi e faceva miracoli, iniziò una politica di soccorso dell’infanzia povera e abbandonata, anche per far fronte alla crisi demografica, fondando istituzioni di soccorso per pueri e puellae poveri o abbandonati, nutriti ed allevati a spese dello Stato. Più tardi, nel II secolo, sul suo esempio, prima Traiano e poi gli Antonini avrebbero strutturato ed ampliato il sistema delle institutiones alimentariae in favore dell’infanzia (vedi seguito). La cosa era utile anche per il reclutamento nelle forze armate, nelle quali, raggiunta l’età, confluivano poi molti fra i salvati dalla strada, dal momento che fu proprio il primo dei Flavi ad esentare i Romani dall’obbligo di leva, dando così inizio alla provincializzazione dell’esercito. Rendendosi conto di trovarsi in punto di morte, Vespasiano, quando gli chiesero come si sentisse, rispose che sentiva che stava per diventare un dio. Questa davvero sovrana ironia sull’apoteosi dell’imperatore e di fronte alla morte è il segno di quella concreta “italicità” del principe, che dimostrò col ricorso all’acetum italicum la sua superiorità ed il suo coraggio di fronte alla caducità della natura umana. Ma dimostrò, lui autore di quegli stessi miracoli che in quello stesso tempo si attribuivano anche al Messia, il suo sarcasmo sulla mistica necessaria alla folle per credere nell’imperatore come, più tardi, per credere in Cristo. Flavi Tito (78-81) e Domiziano (81-96): l’autocrazia illuminata e il conflitto col senato. Tito regnò solo dal 78 all’81, troppo poco per poter lasciare un segno duraturo. Ma l’eruzione del Vesuvio nel 79 gli diede modo di soccorrere quella parte della popolazione delle città campane distrutte, che riuscì fortunosamente a scampare al pericolo. Per questo e per i suoi magnifici giochi gladiatori e di caccia alle belve nell’anfiteatro, fu detto delicia humani generis. Ci sarebbe qualcosa da ridire sulla munificentia che gli guadagnò questo titolo, non certo in base alla nostra concezione dei diritti dell’uomo – giudizio che sarebbe improponibile perché antistorico – ma in base a quanto già Cicerone e Seneca, e più tardi lo stesso imperatore Marco Aurelio, ebbero da ridire sull’inciviltà e l’indegnità dello spargimento di san24 A. BRAVI, Immagini adeguate: opere d’arte greche nel Templum Pacis, in F. COARELLI, Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi, Milano 2009, p. 177.

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gue come strumento di divertimento delle folle. Ma il persistere fino ad oggi di questo genere di spettacoli nelle corride spagnole dimostra il radicamento di tali divertimenti della società romana nei peggiori istinti dell’umanità. La politica «democratica» dei Flavi, questa dinastia italica di grandi e parsimoniosi amministratori, mutò con l’ultimo esponente, quel Domiziano (81-96) dipinto dalla storiografia senatoria con tratti tirannici. Questa tuttavia non poté cancellare né alterare il giudizio positivo sulla sua amministrazione finanziaria. Una statua equestre in bronzo, recuperata nel tempio dei Flavi a Baia, ci consente oggi di identificarel’ispirazione del suo orientamento dispotico: essa lo rappresenta infatti nell’atteggiamento guerriero e con la corazza (lorica) macedone della più celebre delle statue lisippee di Alessandro Magno. Lisippo l’aveva infatti rappresentato, secondo una iconografia stereotipata che comunicava il messaggio dell’eroismo e del coraggio, nell’atto di colpire il nemico dal cavallo, in un gruppo nel quale il condottiero era circondato dai compagni (hetairoi) della sua guardia del corpo. Il gruppo era stato poi portato a Roma e il volto del grande Macedone “usurpato” da Cesare. Il farsi riprodurre in tali fattezze era un messaggio, se non direttamente di dispotismo, certo d’ispirazione al modello alessandrino e cesariano, da cui si discostava la linea di Augusto in Italia.

Fig. 29. Frammenti ricomposti della statua equestre di Domiziano da Miseno (a destra), usurpata dal suo successore Nerva, dopo la morte e la damnatio memoriae di Domiziano, con la sostituzione del volto. La statua ripete l’atteggiamento della celebre iconografia liseppea di Alessandro Magno, nota da un bronzetto di Ercolano (a sinistra), e Domiziano veste significativamente la corazza macedone, anziché la regolare corazza romana.

A Domiziano si deve la concessione di civitas Romana o ius Latii alle città ispaniche, in ottemperanza alle promesse fatte dal padre allorché ne aveva tratto truppe e risorse per marciare sull’Italia. Furono date allora costituzioni municipali e coloniarie, che romanizzarono profondamente la penisola iberica, facendone, fino ai nostri giorni, un’area neolatina. Ossessionato dal rischio, del resto reale, di congiure, e reagendo conseguentemente, Domiziano fu accusato di tirannide e fu infine assassinato in una congiura orditagli all’interno del palazzo imperiale.

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Nerva e Traiano (96-117): espansionismo “cesareo” e restitutio reipublicae augustea. I provvedimenti in favore dell’Italia e dei municipia. A Baia la statua “alessandrina” di Domiziano fu “usurpata” dal suo successore, il vecchio generale e senatore Nerva (96-98), non perché egli si volesse ispirare politicamente al Macedone, ma perché con tal gesto si cancellava l’odiata memoria del tiranno Domiziano e s’attribuiva il charisma al campione del senato. Nel suo breve principato Nerva potette far poco, ma prese provvedimenti per sollevare le coloniae romane ed i municipia in Italia. Nel Bruzio, l’odierna Calabria, rifondò la colonia graccane di Squillace (colonia Minervia Nervia Augusta Scolacium). Data l’età, gli si diede un giovane collega, cosa che poteva dare l’illusione che si fosse ripristinato il principio diarchico repubblicano nell’ordinamento dello Stato. Anche il giovane collega di Nerva era, come lui, un generale: Marco Ulpio Traiano (98-117), nato nel municipium di Italica in Spagna da un padre ch’era stato console e proconsole. Traiano fu il primo provinciale a diventare imperatore, e lo fu nel segno formale della restitutio libertatis conculcata dal tirannico Domiziano. Quest’ultimo aveva perseguitato, fra gli altri, il filosofo Dione Crisostomo per le sue idee cinicostoiche, che negavano la divinità dell’imperatore, pur ritenendolo ispirato dal Logos, la Volontà Razionale che nella metafisica della Stoà presiedeva provvidenzialmente ai destini del mondo. Traiano invece proprio per questo portò in auge Dione concedendogli la sua amicizia, e s’attenne alle sue idee. A Roma esse trovarono espressione in Tacito e Plinio il Giovane: questi due senatori nutriti d’ideali repubblicani erano sufficientemente realisti da non sognare neppure la restaurazione della vecchia respublica, ma riconoscevano in Traiano la figura esemplare di governatore dell’impero, l’optimus princeps dell’orbe romano. Il principe «cesareo» per eccellenza, ma solo nella veste del condottiero, non in quella di dittatore, si vide costretto a mutare la tradizionale strategia romana di contenimento dei barbari. Fino all’età flavia la formazione di “Stati-cuscinetto” alle frontiere garantiva che lo Stato alleato si facesse carico di fermare le invasioni barbariche ai propri confini, evitando che i barbari raggiungessero l’impero. Il sistema poteva funzionare solo se la deterrenza dell’esercito romano sconsigliava ai sovrani alleati e subalterni di sottrarsi alla loro funzione di contenimento dei barbari. Ma il re della Dacia (all’incirca l’attuale Romania e parte dell’Ungheria), Decebalo, aveva intrapreso una politica di unificazione delle tribù daiche e, con l’aiuto dei Sarmati e dei Germani, si era ribellato a Roma, invadendo anche la provincia della Mesia. Traiano scatenò nel 102 una grande offensiva, ma dopo averlo vinto preferì ripristinarlo nell’originaria funzione di re vassallo che contenesse i barbari. Ma la sua ulteriore ribellione indusse l’imperatore a condurre una seconda campagna, questa volta di annientamento dei Daci, nel 106 d.C. Traiano risolve così da generale non solo i problemi strategici, ma anche quelli finanziari dell’impero, conquistando la Dacia ricca di miniere aurifere e argentifere. L’oro e l’argento dacico gli consentirono non solo di risolvere i problemi economici con l’afflusso di grandi richezze, ma anche di abbassare il valore della moneta aurea, quasi monopolizzata del senato, immettendo nuovi aurei nella circolazione monetaria e così valorizzando il denarius d’argento, detenuto dai ceti medi, nel cambio con l’oro. E perciò rafforzando in quei ceti medi il consenso verso il principe. Ma verso

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il senato Traiano ostentò sempre un assoluto rispetto formale e ne fu ricambiato con il titolo di optimus princeps. Sono perdute tutte le opere storiche ed encomiastiche, che celebrarono le due campagne daciche, e perduti sono anche i Commentarii de bello Dacico che lo stesso principe scrisse emulando Cesare. Ma il colossale foro ch’egli costruì a Roma a celebrazione della sua vittoria dacica ospita ancora la colonna coclide, che ne narra in una straordinaria rappresentazione le imprese: in essa Traiano propone esemplarmente se stesso ai contemporanei, alla posterità ed ai suoi successori. Vediamo il principe sempre fra i suoi ufficiali e soldati mentre dirige le operazioni belliche: egli, dunque, non è mai ritratto nella colonna, e raramente lo è in altri monumenti, nelle convenzioni dell’arte figurativa, che lo prediligono in veste di combattente ed abbattitore di nemici. Domiziano aveva delegato la guerra ai suoi generali, appropriandosi però delle loro vittorie. Traiano invece nulla vuole sottrarre alla virtus del suo esercito e del suo popolo, la virtus dell’imperatore in guerra essendo quella della direzione strategica. Ma al valore militare Traiano affianca il programma civile, che trova nelle biblioteche greca e latina, le quali si ergevano attorno alla colonna, la traduzione più significativa della paideia come suprema finalità istituzionale del potere. Fu questa la sola ispirazione che il «nuovo Cesare» trasse dalla monarchia tolemaica, che aveva istituito in Egitto la grande biblioteca di Alessandria. Ma la paideia di Traiano è romanamente caratterizzata: la sapienza giuridica racchiusa negli editti dei pretori repubblicani si custodiva anche dopo Adriano nella biblioteca latina del foro traianeo. La stessa colonna coclide evocava un papiro svolto che illustrava le imprese di Traiano. Di fronte alla colonna sorgeva la basilica Ulpia, l’edificio dove si amministrava la giustizia, a coronamento del programma politico ed edilizio del princeps, che dichiarava di voler conquistare con l’esempio il rispetto dei cittadini e rifiutava d’imporlo perseguendo il crimen maiestatis.

E il crimen maiestatis non volle applicarlo neanche ai cristiani, che iniziavano a diffondersi nell’impero e che furono processati per il crimen lesae Romanae religionis, il crimine di offesa alla religione dello Stato. Vietò tuttavia che i magistrati ed i funzionari imperiali li ricercassero di propria iniziativa, ed impose loro di rifiutare le denunce (delationes) anonime. Con tali provvedimenti, a lun- Fig. 30. Rilievo con sezione della Colonna Traiana e (a sinistra) go seguiti dai suoi suc- particolare delle scene della guerra dacica.

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cessori, Traiano, per spirito di liberalità – ed oggi diremmo per “garantismo” – creò le premesse perché il cristianesimo non fosse estirpato quando ancora sarebbe stato possibile il farlo. I tempi non erano maturi perché egli potesse riconoscerlo quale sotterraneo e mortale pericolo per i fondamenti politici, ideologici e morali dell’impero e per la saldezza civica della società romana. Affrontò invece magistralmente la crisi demografica e il problema dell’infanzia misera, insieme ai primi sintomi della crisi economica di quei medi possidentes fondiari d’Italia, che incominciavano a disaffezionarsi alle cariche municipali per gli oneri che quelle comportavano. Traiano assunse iniziative in uno spirito di decisa innovazione, proseguendo e potenziando un’opera ch’era stata intrapresa solo in nuce sotto i Flavi. Lo Stato s’incaricò di censire i bambini poveri e raccogliere sistematicamente gli orfani in tutta Italia, con una organizzazione capillare nelle città, allevandoli o fornendo sussidi alimentari alle famiglie e conferendo alle femmine anche una dote per il matrimonio. Ai fanciulli veniva corrisposto – a quanto pare mensilmente – un sussidio fino al raggiungimento della pubertà, differenziato fra maschi e femmine ed a seconda della condizione di figlio legittimo o illegittimo. I fondi necessari a queste iniziative, che furono chiamate institutiones alimentariae, a partire dal 99 d.C. vennero tratti da un ingegnoso sistema di mutuo a basso tasso d’interesse, dal 2,5 al 5% annuo, con variazioni a quanto sembra su base territoriale: lo Stato prestava danaro – con restituzione a lungo termine del capitale – ai medi e piccoli proprietari terrieri in Italia, che volessero investire nel miglioramento dei fondi e degli attrezzi agricoli. Gli interessi percepiti dallo Stato erano bassi, ma la dimensione di massa dell’operazione consentì di finanziare con essi le institutiones alimentariae. Al momento dell’as-segnazione dei prestiti agrari, dai cui interessi dovevano finanziarsi gli alimenta Italiae, veniva ipotecato al massimo fra l’8 e il 10% dei terreni: la convenienza del prestito era perciò evidente. Plinio (Pan. XXVIII 5) testimonia le finalità di reclutamento nell’esercito e di incremento demografico delle institutiones alimentariae in un periodo medio-lungo nella politica di governo traianea: ex his castra ex his tribus replebuntur (“grazie all’istituto degli alimenti si riempirono gli accampamenti militari e le tribù dei cittadini romani”). Anche la documentazione epigrafica ce ne dà esplicita testimonianza; infatti la Tabula Alimentaria del municipium dei Ligures Baebiani (Benevento) così esordisce: «I sottoscritti, per disposizione dell’ottimo e sommo principe hanno ipotecato i terreni perché per acquisto i Liguri Bebiani percepiscano gli interessi sotto indicati e così per la sua benevolenza i fanciulli e le fanciulle ricevano gli alimenti». L’organizzazione era capillare e riguardava sia l’Urbe sia i municipia di tutta Italia, per 53 dei quali possediamo attestazioni. In questi si attribuirono le competenze e le funzioni necessarie all’espletamento dei compiti ai quaestores pecuniae publicae, che esistevano nelle città come magistrati minori addetti all’amministrazione delle finanze municipali: in tali casi essi furono denominati quaestores pecuniae publicae et alimentariae. Tuttavia in diversi casi furono istituiti dai municipia appositi quaestores pecuniae ali mentariae con competenza esclusiva sulla materia, così sottratta a quella sulla cassa municipale. A Roma, dopo un primo momento di gestione affidata a consulares, cioè a senatori che avessero rivestito il consolato, fu apposi-

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tamente istituita la praefectura alimentorum demandata a funzionari di rango equestre, direttamente responsabili di fronte al princeps.

Si risollevò in tal modo la condizione dell’agricoltura in Italia, s’incrementò la coltivazione diretta dei fondi, si affrancò dal bisogno il ceto dei piccoli agricoltori, si salvò dalla morte, dalla schiavitù, dalla prostituzione e dalla strada l’infanzia povera o abbandonata, si combattè la crisi demografica, si fornirono alla burocrazia i futuri impiegati e funzionari, creando un ceto sociale di sicura lealtà al principe ed all’impero. I prodotti agricoli dell’Italia, prima non competitivi con quelli a più basso costo importati dalle provincie, tornarono ad essere venduti e i proventi ricostituirono la ricchezza dei ceti medi cittadini, i decuriones, che tornarono a competere per le cariche pubbliche, onerose perché comportanti il mantenimento della città a spese dei magistrati eletti. In tal modo fu evitato anche il degrado, in cui le città dell’Italia rischiavano di precipitare per la diserzione degli amministratori (fuga dei curiales). Il sistema dei prestiti agricoli e degli alimenta restò in uso fino al III secolo, quando finì col soccombere alla crisi economica ed all’anarchia militare. Ma finché funzionò, quei bimbi, divenuti adulti, si arruolarono nell’esercito, che non rischiò più, in tal modo, di restare privo della sua prima risorsa: quella umana. E disponendo di un tale esercito professionale, addestrato e moralmente motivato, Traiano decise, dopo il bellum Dacicum, di risolvere l’eterno problema della sicurezza sul confine partico, minaccia alla provincia di Siria ed a tutta quell’area dell’impero. Il regno dei Parti era ricco, civile ed ellenizzato: si ricorderà che Crasso aveva trovato la morte nella spedizione che s’illudeva di conquistarne la capitale, Carre, e che Cesare era stato assassinato pochi giorni prima di partire per vendicarlo. Più cautamente Augusto s’era accontenato di farsi restituire le insegne di Crasso, celebrando come vittoria quella ch’era stata tale solo per la diplomazia. Ora Traiano si mosse contro i Parti per risolvere l’ultimo problema militare dell’impero. Rifiutò ogni profferta di pace, conscio dell’invincibilità della sua macchina di guerra, rodata in Dacia, dove l’ingegneria militare aveva fatto prodigi con la costruzione di ponti sul Danubio e di macchine ossidionali. Il rifiuto di ricevere gli ambasciatori, che i Parti gli avevano inviato per negoziare la pace quando Traiano era ancora ad Atene e non li aveva raggiunti, si spiega con un profondo cambiamento della grande strategia dell’impero romano, per ripetere il titolo della classica opera del generale NATO Edward Luttwak. Augusto, nell’orma di un sistema già sperimentato in parte in età repubblicana, aveva inaugurato la politica degli “Stati cuscinetto”: dove i confini provinciali erano insicuri per il rischio di invasioni barbariche, Roma trovava più conveniente costituire regni vassalli ma indipendenti e alleati, che si facevano carico delle spese militari per fronteggiare ed arrestare i barbari. Si è già detto della sorte della Dacia e di Decebalo. La stessa inaffidabilità dei Daci Traiano riconobbe nel regno partico, e decise per questo di passare anche lì all’intervento diretto, come già Giulio Cesare aveva ritenuto inevitabile. Dopo aver conquistato e costituito in provincia sia la Mesopotamia (oggi Iraq) che l’Arabia Petrea (dalla capitale nabatea Petra, oggi in

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Giordania), incamerandone i lucrosi dazi della Via della Seta, Traiano penetrò profondamente nel regno partico, conquistandone la capitale Ctesifonte. I primi segni di una riscossa partica lo indussero a riflettere, come già nella prima guerra dacica, se addivenire a qualche compromesso, ma, nel bel mezzo della campagna, invecchiato e spossato dalle fatiche, inaspettatamente morì senza avere mai designato un successore. In verità aveva avuto caro un giovane concittadino, come lui nato ad Italica, Elio Adriano, che era anche suo lontano parente, di cui era stato tutore dopo la morte del padre, e al quale aveva infine dato in sposa la nipote. Tuttavia qualcosa l’aveva trattenuto dall’associarlo alla tribuncia potestas designandolo formalmente come successore. Alla luce delle scelte politiche che Adriano poi fece, nella sua ottica Traiano doveva aver presagito che Adriano avrebbe invertito la sua rotta politica di espansione dell’impero. L’Augusta Plotina, moglie di Traiano, non aveva invece dubbi sul giovane, e pare abbia ordito una falsa designazione, per altro priva di valore costituzionale in senso proprio, sul letto di morte. Fu comunque così che Adriano, acclamato dalle truppe, decise di affrettarsi a tornare a Roma per vedersi ratificare l’impero dal senato. Ma lo fece anche perché non condivideva la politica di ulteriore espansione dell’impero, che riteneva avesse raggiunto i limiti di gestibilità funzionale, e abbandonò la spedizione partica stipulando una pace particolarmente vantaggiosa e inattesa per il nemico. Il portato storico della conquista della Dacia e del mancato annientamento dei Parti dura fino ad oggi. In Romania, infatti, in un mare di popolazioni slave e unnoungariche, si parla una lingua neolatina, benché la provincia sia stata abbandonata, sotto l’aspetto del presidio militare, non molto dopo un secolo dalla conquista. Il regno partico degli Arsacidi fu conquistato dal 226 d.C. dalla dinastia dei Sassanidi, che unificò così quell’impero persiano, il quale costituì sempre una spina nel fianco dell’impero romano, anche dopo che quest’ultimo divenne cristiano, ed è arrivato fino a noi nell’attuale Iran. La politica di Adriano, volta a consolidare, anziché espandere i confini, incontrò vasto consenso nella società romana: i Parti rispettarono i patti per circa tre quarti di secolo e l’impero romano godette i benefici della pace e delle conquiste traianee. Anche un grande esperto di strategia come Luttwak giudica adeguata la scelta adrianea, e ravvisa negli alti costi dell’occupazione diretta, con la rinuncia alla politica degli “Stati cuscinetto”, un elemento essenziale della crisi economica e poi militare dell’impero. A me sembra invece che la politica di Traiano vada ampiamente rivalutata. La quiete del regno partico fu infatti dovuta, in età traianea e antonina, per tutto il II secolo, ai problemi diplomatici e militari, che gli Arsacidi dovettero affrontare alla frontiera opposta a quella romana, dove la pressione cinese sotto gli Han occidentali, che avevano perfino costituito avamposti in Partia a tutela della Via della Seta, e quella indiana, sconsigliava di molestare l’impero romano e induceva a rispettare la pace stipulata. Quando il regno partico fu fagocitato dall’impero persiano, il dinamismo di quest’ultimo dimostrò che Traiano aveva visto giusto, decidendo di passare alla conquista diretta di Mesopotamia, Arabia e Partia sul quel fronte inaffida-

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bile. Come già per la Dacia, la conquista delle ricchezze orientali e il controllo diretto dei commerci sulla Via della Seta avrebbero compensato le spese affrontate. Adriano (117-138): l’ellenismo e le province. La politica giudiziaria e la “codificazione” dell’editto. Elio Adriano portò a Roma le ceneri di Traiano e le ripose nella base della colonna coclide celebrativa della vittoria dacica. Con ciò per la prima volta si violava la regola di seppellire i defunti fuori della città, concedendo a Traiano un onore supplementare rispetto all’apoteosi riservata ai principi. Sepolto nel centro dell’Urbe, egli diveniva così, dopo la morte, divinità tutelare della capitale dell’impero e dei suoi destini. Sotto il principato di Adriano il retore greco Elio Aristide propaganda nell’Encomio di Roma la concezione ecumenica dell’impero retto da un hegemón, da un principe illuminato, che egli contrappone sia al dispotismo orientale, sia al nazionalismo delle monarchie ellenistiche, sia infine al particolarismo delle poleis. Aristide coglie anche la divisione orizzontale della società imperiale nella solidarietà e nel privilegio fra l’uterque ordo ed i ceti aristocratici e “borghesi” delle province, veri cives degni di rivestire le magistrature senza distinzione di nazionalità o di lingua, di fronte alle plebi accomunate invece dall’ignoranza e dalla sudditanza. Nella concezione della Aeternitas di Roma, egli attinge ad una visione quasi metafisica o trascendente della «missione» romana: Adriano, principe filoellenico, recependo la tradizione ellenistica, nata a Locri Epizefiri, della divinità di Roma, rappresentata come dea-amazzone (p. 70, fig. 9), erige il grande tempio urbano di Venere e Roma e ne celebra l’eternità nelle iscrizioni e nelle legende monetali. Da Traiano in poi, tutti gli imperatori romani furono di origine provinciale, appartenendo spesso a famiglie italiche trapiantate da generazioni nelle province. Ma nel III secolo non mancarono i Severi di origine libica e Filippo l’Arabo, che celebrò i ludi saeculares per il millennio della fondazione di Roma, o Massimino il Trace. Lo stesso Adriano, pur essendo cresciuto a corte, proveniva dal mondo provinciale. Si comprende dunque il crescente ruolo delle province nell’impero. Come nell’Encomio di Aristide le province non erano le schiave, ma le sorelle di Roma, cosi nei monumenti adrianei e nel tempio che al Divus Hadrianus costruisce il successore Antonino Pio la loro raffigurazione muta, ed esse si trasformano dalla convenzionale immagine di donne barbare assoggettate in quella di donne piene di fierezza che, sorreggendo staticamente le architetture celebrative, suggeriscono l’idea che sorreggano parimenti l’impero. Dopo la fase espansionistica delle conquiste traianee, Adriano volle contenere e talvolta contrarre i confini dell’impero per rafforzarne le difese, inaugurando la costruzione di grandi opere militari stabili, il cosiddetto vallum in Britannia, e riorganizzando i presìdi confinarii e le forze mobili di pronto intervento. L’esercito romano accentuò così, ancor più visibilmente, quella forza di dissuasione, che consentiva ad un ridotto numero di effettivi (circa 150.000 su un massimo di 60-80 milioni di abitanti) di tenere a bada le orde delle popolazioni barbariche ai confini delle province. Conscio dell’importanza capitale del mondo provinciale, Adriano trascorse parte rilevante della sua vita di principe a percorrerlo per conoscerne lo stato e le esigenze. Nella sconfinata villa che fece costruire a Tivoli i monumenti simbolicamente più significativi dell’Egitto, della Grecia e dell’Oriente in genere vennero riprodotti o evocati in questa “sintesi dell’impero”, dove Adriano riuscì a soggiornare

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solo saltuariamente. Imperatore filoellenico per eccellenza, Adriano si lasciò crescere la barba secondo la moda greca, allusione alla sapienza filosofica necessaria a governare l’impero mondiale. Seguì i costumi greci anche nella pederastia, che nelle poleis era un’istituzione pubblica per l’educazione degli adolescenti, ed esibì il suo rapporto con il giovinetto Antinoo. Questi, morto mentre faceva il bagno nel Nilo durante il viaggio dell’imperatore in Egitto, non suscitò certo rimpianti nella corte, piuttosto solidale con la sfortunata imperatrice, ma fu divinizzato da Adriano, che delle sue statue riempì l’impero per lenire la nostalgia dell’amore perduto.

Particolare importanza riveste anche la politica giudiziaria adrianea: sottraendo definitivamente ai pretori la modificabilità dell’editto, «codificato» da Salvio Giuliano, e riservandola a sé, Adriano concluse anche nel campo giudiziario l’irreversibile primato del principe sulle istituzioni repubblicane sopravvissute. Non v’è anzi da dubitare ch’egli abbia conferito tale incarico a Giuliano al fine di sottrarre ai pretori ed ai promagistrati, che governavano ancora le province senatorie, qualsiasi residua autonomia nella propositio degli editti giurisdizionali. Operò del pari intelligentemente e con mano soffice per accentuare il controllo sulla giurisprudenza. Così anche lo ius publice respondendi ex auctoritate principis, istituito da Augusto, che alcuni giuristi di rango pretorio gli avevano richiesto, venne ad essere del tutto svalutato, e si estinse, di fronte al ruolo dei rescripta (vedi costituzioni imperiali), che il consilium principis approntava a nome dell’imperatore. Adriano infatti rispose ai viri praetorii, che gli richiedevano la concessione del ius publice respondendi, che l’auctoritas il giurista se la guadagnava da solo e che non era il principe a poterla concedere: ma questa risposta apperentemente liberale celava la realtà che ormai ci si rivolgeva solo ai giuristi del consilium principis, e chi non era prescelto per entrarvi restava di fatto escluso dall’attività respondente. La propaganda imperiale celebrò allora di Adriano, tramite le monete, la Iustitia, la Clementia, l’Indulgentia. Ad onta di tanto lessico sulle sue virtutes, con Adriano ha inizio il processo di accentuazione del ruolo e della dimensione politica delle costituzioni imperiali, cioè di quegli atti normativi rivolti alla collettività (edicta, decreta) o a singoli individui (epistulae, mandata, rescripta), sia privati sia rappresentanti delle istituzioni, che erano promulgati dal principe. Lo svolgimento del processo, non solo criminale, ma anche privato, sfugge gradatamente ai magistrati ed è invece sempre di più controllato dai funzionari ed orientato dal principe. I liberi responsa prudentium sono crescentemente sostituiti dai suoi rescripta. Nicola Palazzolo ha evidenziato come l’inserimento dei giuristi nella cancelleria imperiale fornisca ai rescripta supporto e tecnicità scientifici, dando coerenza allo spontaneo processo della loro collocazione nel sistema casistico di produzione del diritto. Ma i rescripta, pareri rilasciati alle parti (attore o convenuto) nel processo privato sul presupposto teorico della veridicità delle loro dichiarazioni, si mantengono sul piano dell’interpretazione del diritto (de iure), e dunque non intervengono sulla decisione di merito, sulla verifica cioè della veridicità delle asserzioni in base all’acquisizione delle prove, mentre i decreta ed i

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mandata, sentenze e istruzioni per funzionari e promagistrati, segnano la forma più autoritativa e innovativa d’ingerenza del principe nella giurisdizione. Si avvia così una trasformazione che sempre di più limita, fino al dominato d’età severiana, l’autonomia della creazione giurisprudenziale del diritto ad opera della cresecente dimensione politica dell’auctoritas principis. Adriano segna pertanto l’inizio del mutamento istituzionale nella dinamica del rapporto sistemico fra libertà della giurisprudenza e potere imperiale. Può parlarsi di una “svolta adrianea” nei modi di produzione del diritto sia privato che pubblico, la quale dà inizio ad un processo di stabilizzazione giuridico-normativa che si concluderà in età severiana. La “codificazione” edittale giulianea comporta il consolidamento del sistema di rimedi processuali e dell’interpretatio iuris, che vengono strutturati nell’apparato del potere imperiale: s’innesta così un processo dialettico intellettualmente fecondo, fino a Settimio Severo, fra attività normativa del principe e interpretazione giurisprudenziale, processo internamente coerente sotto l’aspetto sia del progetto politico, sia della tecnicità giuridica, alla quale i prudentes fanno ricorso a tutela della loro libertà di pensiero. L’autocrazia del principe non ne inibisce la vitalità, che resta aperta alla dinamica di sempre nuove soluzioni. Gli Antonini (138-193): la filosofia di governo del saeculum aureum ed i prodromi della crisi. Memore del rischio di guerra civile che avrebbe potuto correre egli stesso alla morte di Traiano, che non aveva indicato successori, Adriano nel 136 adottò come successore L. Ceionius Commodus, che assunse il nome di Lucius Aelius Caesar e però morì alle Calende di gennaio del 138, pochi mesi prima di Adriano. Questi allora, ammaestrato anche da tale evento imprevisto, volendo assicurare massima stabilità all’impero per il tempo più lungo possibile, non solo designò alla successione, adottandolo, Antonino Pio (138-161), ma dispose ch’egli dovesse a sua volta adottare Marco Aurelio ed il figlio di Elio Cesare, Lucio Vero, per garantire la successione imperiale addirittura per due o tre generazioni. Antonino e Marco si rivelarono ben più rispettosi del senato di quanto non fosse stato Adriano, che in realtà non era mai riuscito a conFig. 31. Campidoglio. Marco Aurelio quistarsene la simpatia. Sotto Antonino Pio ed i nel gesto dell’adlocutio: L’imperato- suoi successori le institutiones alimentariae, l’asre a cavallo per poter parlare fa cen- sistenza pubblica agli orfani, l’evergetismo delle no alle truppe acclamanti di tacere. aristocrazie locali nel sopperire alle necessità delle città in emulazione con la Providentia Caesaris, traducono nella realtà politica la filosofia di governo dei principi. Le istituzioni di raccolta e tutela dell’infanzia sono poste sotto il nome del principe e dell’im-

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peratrice e i pueri e le puellae sono conseguentemente chiamati Antoniniani e poi anche Faustiniani dai nomi di Antonino Pio e di Faustina II, moglie di Marco Aurelio (161-180). Questi è ritenuto il simbolo dell’epoca: in realtà è del tutto riduttivo chiamare “imperatore filosofo” questo grande generale e amministratore. È vero però che, anche senza apportare novità alla teoresi stoica, egli ebbe una originale concezione della missione di governo del principe. Fece decretare l’apoteosi di Antonino e Faustina, seguendo i precedenti di Augusto, Claudio, Vespasiano e Tito, Traiano e Adriano, i principes considerati optimi dal senato. Sotto l’aspetto politico, nei suoi ideali ritornano Giunio Bruto e Catone Uticense, ma anche Trasea ed Elvidio Prisco, custodi della libertas repubblicana perseguitati dai Flavi. E al modello della diarchia consolare repubblicana Marco Aurelio tentò di ritornare nei limiti in cui la realtà politica del principato avrebbe potuto consentirlo. Fu per questo che associò al potere Lucio Vero (161-169): Marco l’aveva adottato in esecuzione delle volontà di Adriano e Antonino Pio, perché ne diventasse successore; ma la scelta si rivelò talmente errata, per la inadeguata personalità del prescelto, da indurlo a non rinnovarla quando questi morì. Da Traiano in poi, per tutto il saeculum degli Antonini optimus princeps fu il titolo dell’imperatore rispettoso della libertas del senato e dei cives, e come tale divinizzato dopo la morte ex senatus consulto con una cerimonia funebre di apoteosi.

Lo stoicismo, che già nel circolo degli Scipioni aveva fornito una giustificazione morale e ideale alla bruta realtà dell’imperialismo romano, orientandolo sempre più verso una concezione provvidenzialistica e filantropica del potere sull’oikoumene, nel II secolo d.C. trova espressione prima nei Getikà (l’opera sui Geti) di Dione Crisostomo, sotto Traiano, poi nelle opere di Arriano, sotto Antonino Pio, ed infine nell’esempio stesso e nelle Riflessioni (Tà eis autón) di Marco Aurelio: ne esce concretamente rafforzata e teoreticamente più matura una filosofia di governo protesa alla utilitas publica, maggiormente fondata su ideali umanitari, che sostanzia tuttavia solo in parte l’azione di governo di Marco Aurelio. La parresìa, la libertà di parola teorizzata da Filodemo di Gadara nella scuola filosofica di Epicuro, è in Marco Aurelio, lettore di Dione Crisostomo, l’isegorìa, la libertà di parola specificamente caratterizzata in senso politico, la libertà di parlare pubblicamente. Ad essa si affianca, nella concezione politica dell’imperatore, l’isonomìa, cioè l’eguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi. L’organizzazione gerarchica della società romana ed i segni della crisi economica contraddicevano nella realtà gli ideali filosofici del principe, sancendo la distinzione fra humiliores ed honstiores anche in materia di applicazione delle pene per lo stesso reato. Ciò non toglie che Marco Aurelio si sia sforzato di contrastare la tendenza dell’epoca e ne abbia negato la giustificabilità filosofica. Altro segno del suo alto senso della philanthropìa e della responsabilità politica è che egli abbia venduto il tesoro imperiale per far fronte all’emergenza della peste e per finanziare la guerra contro le popolazioni sarmatiche e germaniche, che invadevano l’Italia settentrionale. Educato allo studio del diritto dal giurista Volusio Meciano, promulgò costituzioni imperiali, che mitigavano il regime della schiavitù, favorendo l’acquisto della libertà (favor libertatis) e sottraendo gli schiavi – sulla scia di provvedimenti

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di Claudio – al mero arbitrio di vita e di morte dei padroni. La sua philanthropía non travalicava la concezione gerarchica delle società antiche, ma era sorretta dalla convinzione che il criterio della razionalità fosse comune alla mente (nous) di ciascun individuo e dovesse essere orientato verso l’humanitas in quanto ogni uomo doveva ritenersi “cittadino del mondo”: tutto il genere umano era iscritto nel kosmos ed aveva una comune “costituzione” (politeuma) universale superiore alle singole cittadinanze. Queste convinzioni filosofiche lo portarono pertanto a superare il formalismo del ius civile in favore di una humanior interpretatio iuris (più umana interpretazione del diritto). Giunse così, nell’applicazione del favor libertatis, a smentire perfino la volontà del testatore, concedendo la libertà allo schiavo-amministratore nel caso in cui il padrone, disponendone la manomissione nel testamento, l’avesse – com’era d’uso – sottoposta alla condizione potestativa di presentazione del rendiconto. La ratio imponeva al principe di applicare categorie umanitarie che superassero la logica del diritto intesa in senso stretto. Il suo atteggiamento verso i giochi gladiatori, cui era costretto ad assistere dalla ragion di Stato, si manifestò nel disprezzo ostentato durante il loro svolgimento, quando egli, nel palco imperiale dell’anfiteatro, preferiva attendere all’amministrazione o alla lettura anziché osservare lo spettacolo. Ispiratori della sua etica furono gli scritti di quello stoico Epitteto, che il “tiranno” Domiziano aveva esiliato. La critica storica moderna ha colto nell’animo di questo principe, che fu venerato già in vita come un santo e godette di una straordinaria popolarità, più la malinconia e l’insicurezza che in lui nascevano da un profondo tormento esistenziale, che non il componimento di esso in quella ataraxía, nella quale si sostanziava tanta parte dell’ideale filosofico stoico e che pure pervade, fusa alla maiestas romana del principe, il ritratto della sua statua equestre. Ciò ha portato in certa misura a fraintendimenti della sua personalità e del suo operato. Lo si è infatti giudicato pateticamente impotente di fronte alla ferocia della società e dell’epoca in cui visse, mentre è vero che egli condivise pienamente i fondamenti, anche teoretici, dell’organizzazione gerarchica e della schiavitù, aderendo alla concezione, di ascendenza aristotelica, che divideva gli uomini in inferiori e superiori: è ai cives Romani, non al genere umano, che va applicato il suo ideale di isonomìa. Egli inoltre non ebbe dubbi non solo nel perseguire i cristiani, ma anche nel manifestare il suo disprezzo per la teatralità ed il fanatismo con cui sfidavano la morte, che invece il sapiente sapeva affrontare con riservatezza e discrezione. Tuttavia, in una delle sue Riflessioni lo vediamo interrogarsi, sgomento, sull’uso ch’egli, come principe, faceva della sua anima, cioè delle facoltà direttive della ragione, e chiedersi se non fosse l’anima di una bestia feroce. Lo stesso sgomento che leggiamo nell’animo del principe lo vediamo raffigurato nel pathos dei volti dei vinti nella sua colonna trionfale: è l’angoscia che incomincia a pervadere tutta un’epoca di fronte ai primi cedimenti dell’impero, il presentimento oscuro che la fine di Roma è ineluttabile, e con essa la fine del mondo. Solo pochi decenni dividono la Colonna Traiana da quella Antonina di Marco Aurelio, ma in quel breve lasso di tempo cambia profondamente per i Romani la con-

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cezione del mondo: quelle di Traiano sono guerre di conquista, quelle di Marco Aurelio di difesa dai barbari che hanno già devastato alcune città delle province e raggiunto la stessa Italia. Stragi e violenze dei Romani contro inermi saranno accadute, come in tutte le guerre, anche nella spedizione dacica, ma non sono rappresentate nella Colonna Traiana: la capacità organizzative e la razionale programmazione delle operazioni è strumento e causa della vittoria; si mostra il nemico vinto, rassegnato alla prigionia, ma rispettato dal vincitore: la scena del suicidio di Decebalo rende omaggio all’eroismo del nemico. Nella Colonna Antonina, invece, l’angoscia epocale pervade i barbari come i Romani, espressa dal chiaroscuro accentuato, dalle orbite profondamente scavate nei visi; dall’intervento della Provvidenza che salva l’esercito dalla sete mandando la pioggia; dalle scene di violenza perpetrate dai Romani contro donne e bambini, che vengono sbattuti con la testa contro gli alberi e strappati alle madri che stanno per essere violentate. Simili scene possono ora propagandarsi, quale messaggio che contro i nemici dello Stato non v’è pietà né speranza di salvezza. Per le popolazioni dell’impero, ora traumatizzate dai barbari, non v’è messaggio più rassicurante che l’imperatore possa trasmettere. Nel saeculum aureum degli Antonini questo si rende ormai necessario per la crisi non solo della sicurezza, con l’esercito colpito dalla peste, ma anche delle finanze. Certo anche perciò nell’età di Marco si mette a nudo la sproporzione fra le risorse dello Stato e le spese necessarie al mantenimento di un elevato tenore del modello di vita urbana dell’impero, che era già

Fig. 32. Colonna Antonina. A. sinistra. Il miracolo della pioggia provvidenziale salva l’esercito di Marco Aurelio: si noti l’angoscia sul volto dei Romani e dello stesso Giove Pluvio. A destra. Angoscia d’una prigioniera, aggrappata al figlio disperato, un seno già scoperto ad indicare la disponibilità sessuale della persona ridotta in schiavitù e pronta a subire la violenza dei due soldati.

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presente fin dai tempi di Augusto. L’immenso accumulo di ricchezze negli anni delle conquiste aveva consentito agli imperatori, quando non bastavano i fondi dell’erario e del fisco, di far fronte con il proprio patrimonio privato alle necessità della vita organizzata. Il mantenimento dell’efficiente sistema viario, la costruzione di acquedotti, terme e teatri, anfìteatri, circhi, templi, interi quartieri di abitazioni «piccolo-borghesi» nelle città, qualificavano uno standard di vita urbana insuperabile, ma sempre più oneroso. Le aristocrazie locali continuarono a sopperire ai bisogni delle città ancora nel III e financo nel IV secolo, nelle aree che riuscirono a mantenersi più prospere come il Nord-Africa. Ma la crisi sopravvenne molto prima in Occidente ed i senati cittadini (curiae) incominciarono già nella seconda metà del II secolo ad essere disertati: gli imperatori si trovarono cosi privati del sostegno che, in emulazione con la munificentia imperiale, era loro venuto dalla locale nobilitas dei decurioni dei municipia e delle coloniae. Iniziò così il fenomeno denominato “fuga dei curiali”, cioè la diserzione da parte dei membri dei senati cittadini (curiae), i decuriones, per evitare di sostenere i pesanti oneri (munera) concernenti le cariche pubbliche. Marco Aurelio morì di peste conducendo l’ennesima campagna contro i barbari, ma la storiografia senatoria attribuì al figlio Commodo l’avvelenamento del padre, costruendo per lui l’ennesimo stereotipo del tiranno. In realtà Commodo (180-192) si colloca nella scia dei principi ispirati dalla concezione orientale del potere invisa al senato. Egli si fece rappresentare come Giove. Il che non era in sé un problema ideologico, ma lo si faceva dopo la sua morte, anche se forse c’era qualche precedente in vita anche con principi non colpiti da damnatio memoriae. Ma Nerva, Traiano e gli Antonini s’erano ben guardati dall’avvalersi di questa tradizione: il primo s’era limitato ad “usurpare” il volto di Domiziano nella statua di Baia che lo rappresentava come Alessandro. Ora invece Commodo non la finiva di farsi effigiare come un dio: non solo come Giove, ma anche come Ercole. Questo ricordava le pretese di Caligola, che aveva ostentato amore endogamico per la sorella, Nerone-Helios con le sue manie e DomizianoAlessandro. L’ispirazione orientale tornava insomma, in forma diretta o con la “mediazione tolemaica”, nei tre Cesari che avevano tentato di intraprendere la trasformazione del principato in dispotismo e monarchia di diritto divino. In più Commodo imitava gli eccessi di Nerone nella ricerca del consenso plebeo. Tutto ciò fu facile pretesto per ordire una congiura che portò all’assassinio del principe da parte della corte, di elementi del senato e soprattutto degli stessi pretoriani, colpiti nei loro interessi da una politica che non aveva seguito quella di Antonio Pio e Marco Aurelio nel mantenere i privilegi dell’alta ufficialità dell’esercito. I tempi non erano maturi per ciò che riuscirà a Diocleziano: la legittimazione del principe non da parte del popolo, del senato e dell’esercito, ma da parte della volontà divina, proprio con quel Giove e quell’Ercole che Commodo finì col pagar cari. Comunque, sarebbe errato giudicare questi tentativi non solo nei termini della storiografia antica, ma anche come originati da mera brama di potere o follia. L’evoluzione storica successiva dimostra quanto essi, benché prematuri, rispondessero alle tendenze del mondo ellenistico e potessero prestarsi al contenimento delle forze centrifughe, che già affioravano nell’impero.

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Le gerarchie sociali nella vita cittadina: Decuriones, Augustales, populus. Le procedure elettorali per l’Augustalità. La trasformazione degli honores in munera. Fin dall’età repubblicana, le città erano rette da organi locali, che riproducevano in scala più o meno ridotta quelli dell’Urbe. Gli organi collegiali erano il senatus o ordo decurionum, i comizi ed i concilia plebis, fino a quando, nella seconda metà del II secolo, le assemblee popolari incominciarono col non riunirsi più ed i senati locali ne acquisirono interamente la funzione elettorale e legislativa. Ma durante il principato si affacciò sulla scena un nuovo ceto, in qualche modo paragonabile all’ordo equester a Roma per la sua posizione socialmente ed economicamente intermedia, costituito dagli appartenenti a vario titolo all’Augustalità (seviri e seviri Augustales, magistri Augustales, Augustales), addetti al culto dei Cesari. In essa confluiva così, in sostanza, l’intero ceto medio delle città d’Italia. La più antica testimonianza di Augustales che conosciamo è datata al 12 a.C., per il culto del Divus Iulius. All’inizio vi partecipavano sia gli ingenui, cioè i nati liberi che non erano in possesso di un censo sufficiente per accedere all’ordo decurionum, sia i liberti arricchiti, cioè gli ex schiavi che, liberati, avevano acquistato la cittadinanza romana. Ma dopo l’approvazione della lex Visellia nel 24 d.C., con la quale veniva interdetto ai liberti l’accesso al senato delle città, e dunque alle magistrature locali, l’Augustalità costituì crescentemente un “rifugio” per i liberti che aspiravano ad una collocazione sociale. Al pari dell’accesso alle magistrature civiche, anche l’honos e onus Augustalitatis, l’onore e l’onere dell’Augustalità, comportava il pagamento di una summa honoraria, l’organizzazione di epulae, banchetti pubblici per la popolazione, talvolta distribuzione di danaro agli ordines cittadini, allestimento di spettacoli gladiatori o circensi (ludi gladiatorii o circenses). Dunque solo i benestanti potevano accedere a tali cariche. Naturalmente non tutti gli ingenui, ancorché appartenenti all’ordo equester, avevano il censo per entrare nell’ordo decurionum, ma potevano non averlo anche per l’Augustalità. Ma mentre per accedere al decurionato era di norma richiesta anche l’appartenenza al patriziato locale, che corrispondeva al censo equestre romano, all’Augustalità potevano accedere anche gli appartenenti a famiglie plebee. Ma l’esclusione dall’ordo decurionum e dalle magistrature civiche dei liberti arricchiti poteva costituire un elemento d’instabilità e di perturbamento sociale. Ed a maggior ragione lo si deve dire per gli ingenui che rimanevano esclusi. Nell’antica Magna Grecia, anche per ragioni geografiche e territoriali, i grandi patrimoni ed i latifondi erano molto meno diffusi che nell’Italia del centro-nord e nella pianura padana, per cui era certo più difficile trovare candidati all’Augustalità, ed ancor più all’ordo decurionum ed alle magistrature, che ne sopportassero gli oneri. Ma concorrevano già allora ragioni storico-politiche, che avevano concentrato la proprietà fondiaria in poche mani, provocando la riduzione dei piccoli e medi appezzamenti esistenti in origine. Tali presupposti economici facevano sì che nell’Italia del Sud, l’antica Magna Grecia, la popolazione di nati liberi fosse notevolmente inferiore a quella dell’Italia padana, la vecchia Gallia Cispalpina, ed ancor meno erano fra gli ingenui quelli capaci di sopportare gli oneri del decurionato e dell’Augustalità. I municipia della Magna Grecia, talvolta antiche poleis foederatae prima della guerra sociale, non si potevano dunque permettere il lusso di escludere gli ingenui dotati di capacità patrimoniale dall’ordo decurionum. Conseguentemente i

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nati liberi accedevano più facilmente al senato ed alle magistrature cittadine, e non erano perciò motivati ad aspirare all’Augustalità. Da quanto detto possiamo riconoscere: 1. che l’estrazione censitaria intermedia fra decurionato e plebe era usuale per quanti aspiravano al sevirato e all’Augustalità; il ceto dei seviri e degli Augustali era pertanto superiore alla plebe dal punto di vista censitario, ma non apparteva all’ordo decurionum; 2. che è il principio censitario a spiegare la diversa composizione regionale di sevirato ed Augustalità in Italia: i liberti s’imposero nella concorrenza per sevirato ed Augustalità là dove i possibili candidati di nascita libera, in gran numero e ben dotati di ricchezze, potevano aspirare alle magistrature e al decurionato. La situazione si capovolgeva invece là dove restavano fuori del senato cittadino gli ingenui, cioè i nati liberi, che divenivano pertanto disponibili ad entrare in concorrenza con i più ricchi liberti nell’ambire all’Augustalità. Essa appare così un modo di organizzazione dell’intero ceto medio cittadino e non solo dei liberti. Mentre l’ordo decurionum era in gran parte composto da proprietari terrieri, e gli statuti cittadini pervenuti per via epigrafica in Italia come in Spagna prevedono per i decuriones l’obbligo di possedere fundi nel territorio della città, come i senatori di Roma devono averli in Italia, invece gli Augustales si dedicavano più frequentemente alle attività commerciali ed alle usurae, i prestiti di danaro a tasso d’interesse legale. La documentazione raccolta da Abramenko, nel quadro di una vasta ed approfondita disamina della casistica sulla varietà delle situazioni locali, comprova che gli Augustali non necessariamente né sempre erano eletti dai decurioni. In alcune città si aveva uno stretto controllo dell’ordo decurionum sulle procedure di accesso all’Augustalità, mentre in altre esse erano sottoposte ad una ratifica, magari meramente formale, ed in alcuni casi perfino interamente rimesse agli Augustali stessi, come nel caso di Miseno. In altri casi invece è documentato un assoluto controllo dei decurioni sugli Augustali. Sembra comunque fuori dubbio che una uniforme regolamentazione delle procedure di accesso all’Augustalità non esistesse nell’impero romano, e che dunque non possa pensarsi ad una lex generale, ma a singole norme cittadine, fra le quali ritengo debba ascriversi anche l’unico caso noto di una lex in materia di elezione degli Augustali, citata in un senatusconsultum di Copia Thurii di età tiberiana. Esso era stato deliberato dall’ordo decurionum, di età tiberiana, per concedere al liberto Tiberio Claudio Idomeneo, un incola del muncipium, cioè un domiciliato non fornito della cittadinanza locale, un accesso privilegiato all’Augustalità. Almeno in età tiberiana, alla quale sidata il senatusconsultum Copiensium, gli Augustali di Copia erano eletti dall’ordo decurionum, il senato municipale, e non appaiono ancora costituiti in ordo cittadino, anche se non va escluso che questo sia avvenuto successivamente. Dalle disposizioni decretate si deducono alcuni elementi della procedura di accesso all’Augustalità a Copia Thurii in età tiberiana. 1. Gli Augustales dovevano essere votati dal senato di Copia prima del 25 marzo, subentrando ai precedenti verosimilmente il 1° agosto, il che fa venir meno la vecchia convinzione della dottrina che fossero eletti e si insediassero nel medesimo giorno, alle Calende di agosto. Com’è noto, i magistrati straordinari o quelli non annui, quali i censori, si insediavano lo stesso giorno della votazione, mentre i magistrati annui e ordinari assumevano l’incarico qualche mese dopo la loro elezione, ed anzi si dicevano designati esattamente nel lasso di tempo fra quella e l’insediamento.

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2. Fra gli Augustali, e non solo fra loro, vigeva una gerarchia, per lo meno nel senso che vi fosse un primus (probabilmente inter pares), attestato del resto da epigrafi di altre città. 3. Idomeneo, onorato con l’Augustalità dal senatoconsulto, entra in carica subito, il 25 marzo, nel giorno stesso di promulgazione del S.C., anziché il 1° agosto. 4. Una lex autorizzava il senato locale ad aggiungere, anche dopo le elezioni, al numero degli Augustali già eletti almeno un altro membro, che inoltre i decurioni potevano proclamare primus del futuro collegio entrante e creare in modo che assumesse subito la carica aggiungendosi al collegio “uscente”, nel caso specifico per 4 mesi ed una settimana (dal 25 marzo al 1° agosto). Non sappiamo con certezza se la lex richiamata o citata nel senatoconsulto di Copia fosse una legge comiziale romana ovvero una legge municipale, ma, viste le cospicue diversità che la documentazione epigrafica attesta nelle città per l’elezione degli Augustali, è ben più probabile che si trattasse di una lex locale. Certamente le disposizioni sull’elezione all’Augustalità non potevano comunque essere comprese nella lex data per l’istituzione della colonia latina, che risale al 123 a.C., o, poi, del municipium romano di Copia, istituito nell’89 a.C. in conseguenza del bellum sociale: infatti, benché la lex data prevedesse ordinariamente proprio la nomina dei sacerdoti cittadini, come attestano tali leggi quando ci sono pervenute, in età repubblicana gli Augustali non esistevano ancora. La scomparsa degli Augustali nel III secolo, a seguito della crisi economica e della “fuga dei curiali”, ha fatto sì che la disciplina della loro istituzione ed elezione non ci sia pervenuta attraverso le fonti più tarde, e comunque il Corpus Iuris Civilis giustinianeo, compilato nell’impromano ero cristiano, li avrebbe omessi come tutti i sacerdozi pagani.

L’ingerenza del principe nell’amministrazione tributaria. Il Senatusconsultum Copiensium documenta anche lo svolgersi del processo di lenta ed insensibile ingerenza del principe nelle operazioni di censimento e nel controllo delle entrate municipali e cittadine in genere. Nei municipia il censimento si svolgeva, come a Roma, ogni cinque anni. Benché Cesare avesse – a quanto pare – cercato di coordinare in tutta Italia i criteri ed i tempi dei censimenti municipali con Roma, essi rimasero differenziati ed a Roma i censimenti si diradarono a partire dai Flavi, mentre nelle città dell’impero continuarono a procurare il gettito tributario. Le finanze pubbliche, che nel Senatusconsultum Copiensium sono definite p(ublicum) a(rgentum), a partire da Claudio sono ben distinte dal demanio imperiale e dal fiscus Caesaris; quest’ultimo, pur essendo di fatto una cassa pubblica, è formalmente considerato sempre patrimonio privato nel diritto e nella giurisprudenza. Anche se la dottrina discute se in età tiberiana la distinzione fra erario “repubblicano” e fisco imperiale si fosse già prodotta, sembra proprio che così già fosse: lo dimostra l’epitaffio di uno schiavo di Tiberio che era disp(ensator) ad fiscum Gallicum provinciae Lugdunensis (addetto ai pagamenti presso il fisco gallico della provincia Lugdunense). Ora, il senato romano disponeva di schiavi specializzati nell’amministrazione dell’aerarium, soprattutto in occasione dei censimenti, strettamente collegati all’imposizione erariale, ed a quanto pare tale utilizzazione dei servi senatus nei cen-

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simenti fu mantenuta anche nell’età del principato. I censimenti erano gestiti dai magistrati locali quinquennales, quelli cioè la cui elezione cadeva nell’anno del censimento che si teneva ogni cinque anni, magistrati che per inveterata tradizione repubblicana rendevano conto al senato anziché al principe. Tuttavia le città iniziarono spontaneamente a chiedere già ad Augusto la nomina di un praefectus dell’imperatore in occasione del censimento quinquennale. In tal modo il principe si ingeriva, per spontanea iniziativa locale, nell’amministrazione senatoria dell’aerarium, poiché è a lui, piuttosto che al senato, che il prefetto quinquennale censoria potestate – cioè il prefetto di nomina imperiale nell’anno del censimento quinquennale invece di uno dei due quatturoviri cittadini – doveva come suo delegato render conto. Ma già da età augustea anche liberti imperiali erano addetti alle operazioni di censimento, ed anzi l’espressione libertus a censibus per alcuni liberti Caesaris fa pensare che fossero stati resi liberi proprio per l’aver svolto bene tale compito da servi. Il fatto che a Copia il senatusconsultum per Idomeneo sia proposto dal quattuorviro quinquennale e dal praefectus Caesaris censoria potestate induce al forte sospetto, per non dire alla certezza, che i meriti dell’onorato nella amministrazione del publicum argentum fossero connessi al censimento di quell’anno. Vale la pena di ricordare che lo scopo principale del censimento era appunto quello dell’imposizione tributaria. Il secondo proponente del Senatusconsultum Copiensium, ma in realtà il più importante, indicato nel praescriptum del documento è – dopo il quattuorviro quinquennale regolarmente eletto dai comitia municipali – il prefetto dell’imperatore Tiberio M(arcus) Minucius M(a)n(i) f(ilius) Sota (Marco Minucio Sota figlio di Manio). Poiché egli era stato nominato dal principe nell’anno del censimento quinquennale, era dotato di censoria potestas, come viene esplicitamente indicato. Tale nomina raramente era per intero d’iniziativa imperiale: di norma la città richiedente indicava al principe un esponente locale fra i più elevati socialmente, che veniva poi nominato. Il caso di Copia Thurii è sintomatico di come il principe non dovesse assumere iniziative per estendere il proprio controllo sull’amministrazione dello Stato, ma gli fosse sufficiente saper cogliere le occasioni, che le città stesse gli offrivano, per appropriarsi di competenze del senato in materia tributaria. L’Italia municipale e le province non nutrivano verso l’imperatore le riserve e i rancori, che segnavano l’atteggiamento del senato verso di lui, ed anzi confidavano nel suo intervento per tenere sotto controllo la proverbiale rapacità e corruzione di quell’organo di governo. I Severi (193-235). Quod principi placuit legis habet vigorem: l’accentuazione della autocrazia e la provincializzazione dell’impero ecumenico. La breve parentesi del povero Clodio Albino (193-195), trattato da usurpatore, non ostacolò l’avvento di Settimio Severo (193-211), capostipite di una dinastia che resse l’impero sino al 235. Egli riconobbe e proclamò Divus il predecessore Pertinace. Per legittimarsi come discendente degli Antonini, con i quali non aveva invero alcun rapporto di stirpe, Settimio, ch’era d’origine libica ed era asceso al potere con

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la forza delle armi, si fece ritrarre facendo imitare le sembianze e le fogge di Marco Aurelio, con il quale condivideva in realtà solo i capelli ricci. Con finalità egualmente propagandistiche, ma diversamente orientate, più tardi un’altra corrente ritrattistica lo rappresentò con sembianze che evocano “la maschera di Socrate”, icona universale della saggezza filosofica vissuta fino al sacrificio della vita per rispettare la legge, ritenenuta virtus precipua di chi dovesse rivestire il potere imperiale.

Fig. 33. Da sinistra: ritratto di Marco Aurelio e corrispondente ritratto di Settimio Severo con fattezze della dinastia antonina. Ritratto di Socrate e corrispondente ritratto di Settimio Severo che ne imita tratti e pettinatura.

I celebri giuristi siriani Eneo Domizio Ulpiano, di Tiro, ed Emilio Paolo Papiniano vissero sotto Settimio e la sua dinastia. Il primo configurò la iurisprudentia come una funzione pubblica sacra per lo Stato: i giuristi sono come gli antichi sacerdoti, depositari di una sapientia che persegue l’utilitas reipublicae. Ed egli mette in guardia contro i falsi filosofi, che predicano esser saggezza l’estraniarsi dal servizio allo Stato, disprezzando cariche e magistrature. Potrebbe pensarsi che il giurista alluda ai cristiani, che si trovavano esattamente su quelle posizioni, ma in realtà si riferisce agli stoici, una cui ampia corrente realizzava in quel tempo l’apátheia, la imperturbabilità, estraniandosi, nell’età della crisi, dai marosi della vita politica, precetto del resto condiviso anche dall’ataraxía epicurea. Attraverso la tecnicità della scienza giuridica i giuristi severiani costituiscono un temperamento dell’autocrazia. La massima ulpianea che il principe sia legibus solutus era in origine intesa nel senso non che fosse sciolto dall’osservanza di tutte le leggi, ma che lo era da alcune, che prescrivevano particolari limitazioni ai cives nel diritto pubblico e privato. Fu il crescente dispotismo del sistema a snaturare l’interpretazione dell’asserto. Il principato di Settimio Severo segna dunque l’accentuarsi dei caratteri monarchici, fondato com’è ormai sulla fedeltà di un esercito di estrazione largamente provinciale, e dunque estraneo alla tradizione romana, che costituì successivamente un elemento di grave destabilizzazione provocando dopo i Severi il periodo detto della anarchia militare. Fu appunto la composizione plebea e “piccolo-borghese” di tale esercito a determinare la politica “democratica” dei Severi. Essa culminò nella promulgazione della Constitutio Antoniniana del 212 d.C., con la quale Marco

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Aurelio Antonino detto Caracalla (198-217) estese la cittadinanza romana a tutti provinciali, con l’eccezione dei popoli arresisi solo recentemente (dediticii). Dione Cassio, senatore che odiava Caracalla, cercò di sminuire nella sua opera storica il provvedimento universalistico intrapreso dall’imperatore dandone una spiegazione grettamente fiscale: dichiarando che esso era stato voluto per estendere le imposte sui testamenti e le manomissioni degli schiavi pagate dai cittadini romani. In realtà la Constitutio Antoniniana intendeva rafforzare la solidarietà dei diversi popoli che costituivano l’impero, ed è la risposta politica alle forze centrifughe, ben note a questa dinastia di origine libica, delle nazionalità provinciali, e soprattutto delle loro plebi fino ad allora escluse sia dai vantaggi del dominio universale, sia dalle due lingue parlate dal ceto patrizio e dal ceto equestre nell’oikoumene greco-romana. L’ideale universalistico della filosofia stoica veniva così realizzato in tutto l’impero a vantaggio non di quel ceto sociale, che l’aveva teorizzato ed elaborato, ma di quegli humiliores, su cui gravava maggiormente l’onere del lavoro agricolo, che consentiva l’alto tenore di vita urbana in cui la civiltà ellenistica esprimeva il meglio di sé. La Constitutio Antoniniana è anche in armonia con la politica monetaria di Caracalla, che introdusse i cosiddetti “antoniniani” monete che avevano lo stesso valore nominale del denari d’argento, pur avendone un peso più ridotto: ciò fu disposto in un’ottica di “salvataggio” dei ceti medi e disagiati detentori della circolazione argentea. L’estensione della cittadinanza ebbe ricadute ed effetti “secondari” maggiori degli scopi che perseguiva. Uno fu a vantaggio dello Stato: con la generalizzazione della civitas Romana i privilegi consistenti nelle esenzioni fiscali e tributarie concessi da Augusto in poi ai Romani residenti nelle province vennero meno. Tutti furono sottoposti al governo del locale praeses provinciae, il governatore provinciale cui i Romani non erano sottoposti. Inoltre fu ridotto o limitato il diritto di provocatio ad populum contro la condanna a morte, anche se l’appello all’imperatore costituì una compensazione teorica. Teorica perché, mentre per gli honestiores, cioè per i ceti abbienti, non era facile né conveniva al governatore provinciale di conculcare tale diritto, per gli humiliores, che potevano essere sottoposti a tortura, era facile costringerli alla rinuncia, come dimostrano costituzioni di Alessandro Severo tese a reprimere tali abusi. Infine la Constitutio Antoniniana comportò l’estensione del diritto romano e dei suoi negozi giuridici a chi romano non era. Ciò diede luogo ad un fenomeno di volgarismo del diritto, poiché i provinciali non sapevano avvalersi delle forme (gesta) e delle parole latine (verba) solenni del ius civile. Nel 234 d.C. una costituzione del giovane imperatore Alessandro Severo, probabilmente ispirata dal grande giurista Ulpiano, consentì pertanto di redigere il testamento anche in greco. Le cerimonie quiritarie comportanti l’uso della bilancia (libra) – come la mancipatio, mezzo di trasferimento della proprietà a causa variabile (donazione, compravendita, garanzia di un prestito etc.) – non capite né sentite dai provinciali nella loro ritualità sacramentale, finirono col non essere realmente praticate, ma ci si limitò a farne menzione scritta, a scopo di prova, come se lo fossero state. L’effetto fu che

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la scrittura, che nel diritto romano classico aveva solo valore probatorio, cioè di prova (ad probationem) del negozio giuridico posto in essere con la pronuncia ed il compimento dei verba e dei gesta sollemnia, finì con l’acquistare quel valore costitutivo (ad substantiam), che aveva nei sistemi provinciali di diritto greco e che conserva tuttora. L’età della crisi: da Diocleziano al IV secolo. Il dominato e la Tetrarchia, le riforme amministrative e la “fuga dei curiali”. I Severi, pur non imponendo, con l’eccezione di Elagabalo (218-222), il culto dell’imperatore come divinità vivente, introdussero a Roma culti orientali, come quello del Bolide solare di Emesa, che si aggiunsero alla loro politica di favore verso i ceti disagiati, e verso l’esercito ormai quasi tutto di estrazione provinciale, quali elementi di conflitto con il senato. Mentre l’Italia era travagliata dalla crisi economica, le province nordafricane ed asiatiche godevano di un periodo di prosperità, che sarebbe proseguito nel IV secolo e fino alle invasioni vandaliche dell’Africa nel V. Il decremento demografico della popolazione di tutto l’impero faceva sì che le terre africane, asiatiche ed orientali fossero comunque sufficienti, nonostante la diminuzione della mano d’opera, alla produzione e alla esportazione di prodotti agricoli e artigianali (anfore, lucerne, vasellame).

Soltanto nel IV secolo divenne generale in tutto l’impero quella “fuga dei curiali”, che costituì il sintomo più eclatante della recessione e dell’incapacità del governo imperiale di farvi fronte. La crisi determinata in Occidente dall’anarchia militare dopo la fine della dinastia severiana nel 235 non sconvolse egualmente la parte orientale dell’impero. Essa ebbe fine quando salì al soglio imperiale Caio Valerio Diocleziano (284-305), grande generale d’origine balcanica, nato a Spalatum nell’Illyricum (Spalato o Split). Egli intraprese una serie di riforme intese, nel suo rigido ed astratto razionalismo, a restaurare la saldezza militare, le certezze morali, la prosperità economica dell’impero travagliato dalla crisi. Sancì in tale ottica la responsabilità fiscale dei decuriones, tenuti a rispondere col proprio patrimonio del gettito delle imposte, che erano incaricati di riscuotere nella propria civitas. Ma il calcolo dell’imposta fondiaria veniva eseguito sulla base di astratti parametri di redditività della terra, che la realtà si faceva carico di disattendere. Le aristocrazie ridotte in miseria preferivano allora abbandonare le città per sottrarsi ai funzionari del fisco. Ma anche i coloni, trasformati in quest’epoca da liberi contraenti della produzione agricola in servi della gleba legati ai fondi di generazione in generazione, desideravano sottrarsi alla lunga leva, anche ventennale, nell’esercito pressato dai barbari. I potentiores vedevano altrettanto di malocchio che la propria terra fosse privata delle braccia che la lavoravano per rinsanguare l’esercito: cosicché spesso sorgeva una solidarietà di interessi fra latifondisti e coloni contro i funzionari imperiali. Questi ultimi, nella crisi dell’amministrazione pubblica e delle comunicazioni, potevano perfino vedersi vietato l’accesso ad interi territori da parte dei potentiores. I quali finivano con lo sfuggire al controllo imperiale e sostituivano nei loro latifondi l’autorità statale anche nell’amministrazione della giustizia.

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I latifondi tendevano all’autarchia economica, mitigata tuttavia dall’importazione od esportazione di alcuni generi, come il vino, l’olio ed il garum (salsa di pesce), che i commerci marittimi ancora consentivano. Anche l’invasione vandalica della Spagna e dell’Africa nel V secolo, e poi la conquista gotica dell’Italia fino alla riconquista giustinianea nel VI, non interruppero definitivamente, se pure diminuirono in limitati periodi, i flussi commerciali marittimi nell’impero ormai “bizantino”, fino a quando la conquista islamica, spezzando l’unità del Mediterraneo, determinò la chiusura dei commerci transmarini e l’instaurarsi delle forme dell’economia curtense, che caratterizzò l’Europa medievale. Cessò così definitivamente, fino ai nostri giorni, quella unità culturale dell’ecumene mediterranea, che ancora sopravviveva come retaggio della civiltà classica.

Diocleziano s’illuse di poter rimediare alla crisi economica “ingessando” le gerarchie sociali ed i mestieri, costringendo cioè i figli a svolgere le professioni dei padri e ad assumerne gli oneri. Ed inoltre pubblicò l’edictum de pretiis rerum venalium, cioè un “calmiere” generale dei costi di ogni genere di beni commerciabili, da quelli alimentari, a quelli di lusso, alle stesse prestazioni professionali, da quella del maestro a quella del medico, con l’intento di bloccare l’inflazione, e sancendo anche la pena di morte per le infrazioni più gravi. Com’è noto, gli effetti furono solo temporanei. Nell’amministrazione centrale trasformò gli officia palatina da cariche di corte, quali erano sotto i Severi, in veri e propri uffici statali, paragonabili ai nostri ministeri: il quaestor sacri palatii era preposto all’amministrazione della giustizia; il comes sacrarum largitionum alle finanze di Stato; il comes rerum privatarum ai beni patrimoniali dell’imperatore – incluso il fiscus Caesaris – i quali però erano ormai di fatto, benché non di diritto, un cespite pubblico. Nel magister officiorum confluirono le competenze a secretis e ab epistulis Graecis et Latinis, cioè la cancelleria politica e giuridica dell’imperatore e la corrispondenza con i governatori delle province di particolare importanza per il ruolo che svolgevano nel nuovo ordinamento provinciale. Le province furono infatti costituite come entità autonome e prive di contatti reciproci, che rispondevano direttamente all’imperatore o al senato: quelle di limitata estensione furono riunite in una sola diocesis, e diverse diocesi si accorpavano in una delle quattro prefetture: la praefectura Italiae e quelle Galliarum, Illyrici e Orientis. La praefectura Italiae non aveva più una posizione privilegiata rispetto al resto del mondo provinciale e soprattutto l’Italia perdeva qualsiasi eminenza sulle province, essendo solo una diocesi della prefettura, suddivisa in due vicariatus dell’Italia Annonaria con capitale Milano e dell’Urbs Roma, alla cui competenza era però sottratta proprio la capitale, che per un raggio di 100 miglia continuava ad essere amministrata dal praefectus Urbi. I vertici degli officia palatina furono riuniti nel sacrum consistorium, istituzionalizzazione dell’antico consilium principis. Vi si aggiunsero i magistri militum, ora posti a capo delle forze armate e che nel titolo evocavano gli antichi magistri equitum e populi.

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Sotto l’aspetto militare, Diocleziano impiantò l’exercitus praesentalis, un esercito mobile costituito da unità dislocate nei punti critici del limes, ma in grado di spostarsi rapidamente lungo la frontiera lì dove si fossero verificati sfondamenti da parte dei barbari. E questi erano ampiamente reclutati nelle formazioni locali, ma commisti per etnie al fine di evitare che sorgesse solidarietà fra loro. In tal modo Diocleziano prendeva atto del fenomeno di frazionamento e “localizzazione” che si era verificato nel III secolo nell’esercito romano, ma trovava rimedio a tale inconveniente, che aveva ripetutamente determinato l’acclamazione come imperatore del comandante locale ed il fenomeno degli usurpatori in decenni di anarchia militare nel III secolo.

Proprio per prevenire il ripetersi di tale anarchia al momento della morte dell’imperatore, Diocleziano escogitò la Tetrarchia, un sistema di successione fondato su due Augusti e due Cesari, e lo circonfuse di una legittimazione divina, destinata nel suo disegno a sostituire l’elezione umana del principe, vuoi dal senato e dal popolo, vuoi dall’esercito. Giudicando che un impero così vasto, stante anche la crisi demografica (holiganthropίa) non potesse essere più governato da un unico dominus, Diocleziano lo divise in una pars Orientis ed in una pars Occidentis, nominando per quest’ultima un secondo Augustus nella persona di Massimiano, e due Caesares nelle persone di Galerio e Costanzo Cloro, destinati a succedere agli Augusti quando questi si fossero ritirati, abdicando prima di raggiungere la vecchiaia. Ad onta della propagandistica affermazione delle partes coniunctissimi imperii, fu quello il momento in cui si formò, in senso proprio, il concetto di Oriente contrapposto all’Occidente, un concetto che le vicende storiche approfondirono, caricandolo di valenze ideologiche fino ad un medioevo, che dall’anno 800, quando Carlo Magno si fece attribuire a Roma la corona del sacro romano impero, vide contrapposto l’impero romano di Oriente con capitale Costantinopoli, impropriamente chiamato “bizantino” dagli storici del tardo XVIII secolo, al “risorto” impero romano d’Occidente, detto “sacro” perché cristiano. Il sistema della Tetrarchia si sarebbe dovuto, nelle attese di Diocleziano, perpetuare nel tempo. Inoltre, per far sì che la legittimazione degli Augusti non si fondasse più sulla “delega di sovranità popolare”, ch’era ormai di fatto in mano alle legioni, egli promosse, sulla scia della tradizione orientale che risaliva ad Alessandro Magno, la divinizzazione del potere: i due Augusti furono così appellati Iovius ed Herculius. L’evocazione delle divinità pagane protettrici di Roma intendeva così, nel suo programma di restaurazione della potenza e della prosperità dell’oikoumene, restaurare la saldezza religiosa e morale dell’impero. Da qui, dopo un decennio di larga tolleranza, la tardiva iniziativa di una generale persecuzione del cristianesimo, con lo scopo non di sterminarne i fedeli, ma di riportarli ad bonam mentem. Fu allora revocato il divieto di Traiano di non ricercare i cristiani per iniziativa dello Stato, ma la diffusione della nuova religione era ormai troppo estesa e favorita dalla crisi dell’impero, per poter essere arrestata, se non con uno sterminio generale, che nemmeno Diocleziano pensò di eseguire. Diocleziano giudicò il proprio progetto stabilizzatore più importante del suo esercizio del potere,

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ed a quello sacrificò il suo personale interesse con spirito di abnegazione, abdicando nel 305 e ritirandosi a Spalatum. La gran parte delle sue riforme, frutto di un troppo rigido ed astratto razionalismo, privo della necessaria duttilità per adattarsi alla realtà, fallì già durante il suo ritiro. Così anzitutto per la Tetrarchia, che – al contrario delle sue aspettative – sfociò ben presto in una lotta senza quartiere fra i Tetrarchi, dai quali prevalse infine Costantino. Ma le riforme amministrative e territoriali rispondevano alle nuove esigenze politico-sociali, e difatti tali riforme dioclezianee, benché presto mutate, diedero inizio ad una ristrutturazione dell’impero, che segnò la tarda antichità sia in Occidente, sino alla fine del 476 – con quello che convenzionalmente la storiografia moderna considera l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo – che in Oriente, dove invece proseguì fino al 1453, quando il sultano turco Maometto II conquistò Costantinopoli facendone la capitale dell’impero ottomano.

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Ritratto dell’imperatore Adriano su un didramma di Alessandria d’Egitto.

VI PRODUZIONE DEL DIRITTO E GIURISPRUDENZA NEL PRINCIPATO SOMMARIO: VI.1. Gli interventi normativi del principe. – VI.1.1. La cancelleria imperiale. – VI.1.2. I vari tipi di costituzioni imperiali. – VI.1.3. Il consilium principis e l’attività normativa. – VI.2. Concezioni del diritto e giurisprudenza. – VI.2.1. Relativismo e giusnaturalismo: ius naturale e ius civile. – VI.2.2. I “generi” della letteratura giuridica. –VI.2.3. Vicende e caratteri della produzione giurisprudenziale. Giuristi e “scuole” in età classica. – VI.2.4. La fine della giurisprudenza e l’età postclassica. I codices. – VI.2.5. La Compilazione giustinianea, la trasmissione del diritto romano e la ricostruzione del diritto classico.

VI.1. Gli interventi normativi del principe. VI.1.1. La cancelleria imperiale. Cesare aveva detto che «a me omnia proficiscentur» (Cic., Ad Atticum X 195.9 = X 4.9). A partire da Augusto i giuristi considerarono che la volontà del principe dichiarata in forma normativa dovesse applicarsi con forza di legge: legis vicem optinet (exempli causa Gaius, Institutiones I 6.). Che questa espressione non avesse il valore “assolutistico” che le fu più tardi attribuito nel III-IV secolo, lo dimostra il fatto che essa è egualmente usata dal giurista di età antonina Gaio (Institutiones I 4 e 8) sia per i senatusconsulta, equiparati alle leggi in età imperiale, che per i responsa dei giuristi quando il loro parere su un caso determinato fosse unanime. Tuttavia il percorso che portò le pronunce normative del principe ad avere forza di legge fu in realtà molto graduale, e non lo si può ritenere compiuto prima della piena età antonina. Esso si affianca ed è concomitante con lo sviluppo della cancelleria imperiale, che iniziato già sotto Augusto e Tiberio, fu incrementato da Claudio e infine strutturato da Adriano: si ebbero cosi le praefecturae urbi, praetorio e classis nonché vigilum, cioè – rispettivamente – le funzioni di governo di Roma, il comando della guardia pretoriana acquartierata nella capitale, l’ammiragliato della flotta militare, la soprintendenza alla polizia urbana ed ai vigli del fuoco. Normalmente le prefetture furono assegnate ad esponenti del rango equestre ma, soprattutto per la flotta e la prefettura urbana, si ricorse anche a membri dell’ordo senatorius, che però rispondevano al principe. Fu inoltre istituita la cancelleria a secretis, a scriniis e ab epistulis Graecis et Latinis, cioè la segreteria, l’amministrazione fi-

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nanziaria, la cancelleria per la corrispondenza e l’invio delle costituzioni imperiali, suddivisa secondo la lingua usata, la greca o la latina, di cui ci sono pervenuti esemplari sia trascritti su marmo o bronzo, sia su papiro.

VI.1.2. I vari tipi di costituzioni imperiali. Nonostante i ritrovamenti papiracei ed epigrafici, siamo ridotti ad una conoscenza assolutamente indiretta della grande giurisprudenza classica, come avremo modo di vedere. Ma possediamo il manuale d’insegnamento istituzionale, alquanto elementare, del diritto privato scritto nel II secolo da un certo Gaio, sconosciuto all’epoca in cui visse, ma divenuto celebre e considerato un grande giurista per la sua semplicità e chiarezza didascalica già a partire dal III secolo. Gaio, autore di un manuale di Institutiones del diritto, esemplifica fra i provvedimenti del principe gli editti (edicta), i decreti (decreta), e le epistole (epistulae), cioè i rescritti (rescripta e subscriptiones). Aggiungendovi i mandati (mandata), abbiamo tutte le nuove categorie sussunte sotto il nome di constitutiones principum (costituzioni dei príncipi) o costituzioni imperiali, denominazione invalsa tardi, non prima del II secolo e che Gaio (Institutiones I 5) usa per spiegarci che la constitutio principis è quod imperator decreto vel edicto vel epistula consituit. Ce ne sono pervenuti vari esempi per via documentale, grazie a scoperte di epigrafi e di papiri, sia, in numero considerevole ma variamente interpolati, attraverso la Compilazione giustinianea (vedi in seguito). Il fatto che tutte le dette categorie esistessero già, anche se con ben diverso valore, per l’età repubblicana, dimostra la lentezza del processo di affermazione consuetudinaria dell’attività normativa del principe. Gli edicta furono la prima precipua forma dell’attività normativa dell’imperatore. In età repubblicana questi atti erano stati in origine proclamazioni (e-dicere) del magistrato ma furono poi promulgati in forma scritta specialmente dai proconsoli per i popoli da loro governati. Il ritrovamento dell’edictum di Augusto ai Paemeiobrigenses, un piccolo popolo della Spagna cui si accordava l’esenzione tributaria (vacatio munerum), ci fa sapere che il principe fin dall’inizio si avvalse del potere di edicere in qualità di proconsole, cioè – per così dire – nel solco formale della consuetudine repubblicana. Nell’editto si distingue il praescriptum con le indicazioni relative all’autorità promulgante, che è il principe, quindi il testo della pronuncia in forma diretta – nel caso di specie duplice perché furono riuniti in un testo unico gli editti pronunciati il 14 e il 15 febbraio del 15 a.C. – ed infine il luogo e la data di confezione del documento. Altri cinque editti (epikrímata) di Augusto, trascritti insieme su di una stele, si rinvennero a Cirene, città greca di Libia, ai cui abitanti erano indirizzati. Anche in tal caso essi erano contenuti in un testo unico detto prógramma: il primo editto (epíkrima) riguarda un processo che coinvolgeva cives Romani che lì risiedevano; altri due ribadiscono principi dell’ordinamento giudiziario e dei munera publica

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richiamati dal principe in quanto ripetutamente trasgrediti; un altro dispone la pubblicazione del S.C. de pecunis repetundis nelle province; l’ultimo contempla importanti riforme nella composizione delle quaestiones, le corti o giurie criminali, a carico di imputati greci, in cui il numero dei Greci e dei Romani viene fissato pariteticamente, al fine di porre rimedio agli abusi, cui s’erano largamente dati i Romani residenti quando costituivano in esclusiva le giurie. Questi editti sono tutti espressi in forma cortese e non imperativa da parte del principe, che si rivolge ai governatori della provincia di Creta e Cirene con formule del genere “mi sembra opportuno” et similia. Questa tradizione formulare, con verbi del genere videtur, placet etc., riflette la paradossale concezione e “veste” repubblicana dell’autocrazia imperiale e prosegue per tutta l’età antonina. L’editto del principe restava in vigore sotto i suoi successori salvo che non fosse espressamente abrogato da altre disposizioni, ciò che raramente avveniva. I mandata non erano rivolti, come gli edicta, a collettività, ma ai funzionari imperiali del fiscus e ai legati Augusti, oppure anche a proconsoli e propretori in forza dell’imperium proconsulare maius et infinitum: consistevano in istruzioni particolari della più diversa natura, come il divieto di sposare donne della provincia governata o di esercitare attività commerciali anche per interposta persona. I mandata avevano pertanto una certa analogia con l’omonimo contratto di diritto privato e per questa ragione la loro validità era limitata alla vita dell’imperatore che li aveva disposti, ma il loro contenuto poteva essere ripreso dai successori e costituire una norma tralatizia rinnovata da ogni imperatore, come accadde alle disposizioni impartite per mandata sul testamentum militis, cioè il testamento dei militari, che fu sciolto dall’obbligo delle formalità del diritto romano, vista la vasta e crescente provincializzazionedell’esercito. Rescripta si dicevano le risposte che il principe dava alle parti, ai magistrati o ai giudici di un processo su questioni di diritto oggetto di controversia. “Di diritto” (de iure) sia qui inteso nel senso che il principe non si occupava di verificare la veridicità e la rispondenza alla realtà fattuale delle asserzioni prospettategli, e dunque non entrava nel merito (in rem, in factum) delle questioni con quella che sarebbe altrimenti stata una vera e propria sentenza, ma esprimeva un parere – non un ordine – la cui validità era condizionata dalla rappresentazione che del caso gli era stata data. Ma le domande potevano essere poste anche dai giudici, che nel processo formulare erano privati che pronunciavano la sentenza, nella seconda e conclusiva fase del giudizio, per ordine del magistrato che istruiva il processo nella prima fase in iure; nel processo cognitorio, invece, la fase era unica e lo stesso giudice istruiva e giudicava. Tali domande erano dette relationes, suggestiones e consultationes e le risposte imperiali erano contenute in lettere (epistulae) scritte su fogli di papiro distinti dalla domanda. Quando invece i quesiti erano posti dall’attore o dal convenuto, nel processo privato, o dal denunciante o querelante o dall’imputato nel processo penale, essi erano detti libelli, preces o supplicationes e le risposte imperiali venivano redatte in apposito spazio non scritto (ágraphon) in fondo, dal che il nome di subscriptiones.

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I decreta sono in sostanza sentenze o decisioni del principe su questioni sottoposte alla sua cognitio, cui si poteva ricorrere in qualsiasi momento del processo, interrompendone lo svolgimento. Al principe era poi riservata una sorta di “grado di appello” per le sentenze già pronunciate, ché il condannato nel processo pubblico o il soccombente nel processo privato potevano far ricorso a lui perché rivedesse l’intero giudizio. Sappiamo bene che in tali casi i governatori provinciali, con l’affermarsi a partire dal II secolo della distinzione fra honestiores e humiliores, spesso cercavano di inibire a questi ultimi, abusando dei loro poteri e anche mediante tortura, il ricorso al principe.

VI.1.3. Il consilium principis e l’attività normativa. Nel caso dei pareri come dei giudizi, il principe si faceva assistere da un consilium di giuristi, che garantiva la tecnicità delle sue decisioni e risposte. Conosciamo lo svolgimento di dibattiti in assoluta libertà su questioni di diritto privato e di diritto criminale. Il principe, benché ricorresse all’assistenza tecnica dei giuristi, non si estraniava affatto dalla discussione e normalmente era fornito di un’ottima conoscenza della materia giuridica. In ogni caso le sue risposte non ebbero a lungo alcun valore vincolante, nel senso che non potevano esser estese per analogia ad altri casi. Costituivano tuttavia precedenti forniti di auctoritas che, se noti, potevano essere citati dalle parti che ne avessero interesse a sostegno della propria pretesa. Fu da ciò che, dopo Adriano, incominciarono ad assumere valore paradigmatico, e ad essere applicati da magistrati e giudici ai casi analoghi (principio di estensione analogica), fino al punto che ai rescripta si riconobbe, sotto i Severi (193-235), vigore generale. Ma la tendenza fu anche contrastata: Marco Opellio Macrino, prefetto del pretorio di Caracalla, successogli dopo la morte, cui non fu forse estraneo: nel suo breve principato (217-218), Macrino vietò l’applicazione analogica dei rescripta imperiali (Vita Macrini XIII), nati come risposte a quesiti per un caso determinato: l’inconveniente, che egli ravvisava nella crescente estensione analogica dei rescritti da parte dei giudici, era quello di travalicare i limiti della volontà imperiale formulata ad gratiam per una specifica lite applicando la risposta ad alias causas. L’esigenza della securitas iuris era indubbiamente reale, né può disconoscersi la saggezza del provvedimento di Macrino, ma è anche vero che il crescente assolutismo monarchico tendeva a restringere i residui spazi di autonomia dal potere imperiale anche nel campo del diritto e massimamente della sua applicazione processuale. Un secolo dopo Macrino, infatti, Costantino non solo ribadì il divieto di analogia, ma dichiarò nulli tutti i rescritti non più conformi al diritto vigente, dei quali esisteva ormai letteralmente una selva. Va detto comunque che mandata ed edicta non furono affatto esclusiva dei principi, ma rimasero prerogativa anche dei proconsoli e dei propretori. In complesso la loro incidenza nella formazione e produzione del diritto fu enorme perché capillare.

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E tuttavia questi atti normativi non erano – per la loro natura e struttura casistica e, se si vuole, occasionale – adeguati a costituire un organico intervento del principe nel sistema delle fonti del diritto. Se mai l’imperatore, a partire da Adriano, intervenne più efficacemente, e anche più organicamente, con lo strumento della oratio principis in senatu habita (discorso dell’imperatore tenuto di fronte al senato), cui talvolta si attribuiva valore legislativo ma che sempre influenzava o determinava ben più che in passato la promulgazione dei senatusconsulta normativi.

VI.2. Concezioni del diritto e giurisprudenza. VI.2.1. Relativismo e giusnaturalismo: ius naturale e ius civile. Cicero, De legibus I 12-13, 34-35. Marco: Tutte queste premesse sono i fondamenti per continuare il discorso e la nostra discussione, perché si comprenda più facilmente che il diritto è posto nella natura. Ed appena avrò finito di dire alcune altre poche cose su questo argomento, verrò al diritto civile, dal quale è nato tutto questo nostro discorso. … … … Attico: Come potrei mai avere una diversa opinione, una volta definiti questi principi? … Che cioè una sola è la norma razionale eguale per tutto il genere umano e condivisa nella reciproca convivenza, per cui gli uomini son tenuti insieme da una reciproca comprensione e da un reciproco perseguire il bene comune, ed infine anche da una condivisione del diritto. Una volta che avremo giustamente ammesso che questi principi siano veri, com’io credo, come potrebbe esser lecito separare le leggi e i diritti dalla natura?

Con queste parole del De legibus Cicerone sintetizza in una concezione giusnaturalistica la tradizione dell’Accademia antica, da Platone ad Aristotele e Teofrasto, con il pensiero stoico di Zenone. Ratio, con cui Cicerone traduce in latino la parola greca nomos, ha per gli stoici il valore di una razionalità universale, non quello contingente di un ius a civitate positum, un diritto posto per convenzione sociale dallo Stato. L’epicureo Tito Pomponio Attico, interlocutore nel dialogo rappresentato nel De legibus, conviene che esiste un diritto naturale, ma per gli epicurei esso consisteva in quella ricerca del piacere (edoné) e in quella soddisfazione dei bisogni, comuni a tutta la biosfera, in cui essi riconoscevano le finalità dell’etica. Infine, per la Scuola di Epicuro il diritto della polis, posto dalla convenzione sociale, coincideva col diritto naturale solo se si atteneva al canone etico dell’edonismo temperato dalla misura. In età severiana il giurista Domizio Ulpiano (Digesta I 1,1.3), nelle sue Institutiones destinate all’insegnamento elementare del diritto, generalizzerà e banalizzerà, attingendo a concezioni di ascendenza pitagorica ed empedoclea, la rappresentazione giusnaturalistica, col sostenere che il ius naturale è perfino comune ad uomini ed animali, con l’esempio che al congiungimento fra maschio e femmina del mondo animale corrisponde il matrimonio, e comune è la procreazione e l’allevamento della prole.

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Questa confusione fra istinto biologico e diritto non si ritrova nella Stoà né in Cicerone, che in verità anche sulla concezione giusturalistica qualche riserva a livello propriamente teoretico la mantenne. Del tutto diversa, e certo più sensata, fu la concezione del diritto attinta da Epicuro, dopo l’esperienza del soggettivismo e del realtivismo sofistico del V secolo a.C.: «in materia del giusto e dell’ingiusto, del santo e dell’empio», Protagora aveva sostenuto che «in natura nulla esiste di giusto o di santo come intrinseca entità oggettiva, ma l’opinione che comunemente si ha del giusto e dell’ingiusto diviene opinione vera e solo per il tempo in cui si continua ad avere tale opinione» (Platone, Teeteto 172b). Per il fondatore della Scuola del Giardino (Kepos) esiste sì una vocazione naturale che, come si è detto, consiste nella ricerca del piacere, preesistente all’accordo e al “patto sociale” fra gli uomini, ma essa diviene diritto solo quando è riconosciuta dalla polis. Allora il diritto positivo ha come finalità l’utilitas comune e si fonda «su una convenzione, generata dalla reciprocità dei rapporti, e valida sempre in relazione ai luoghi, perché nessuno arrechi ad altri o riceva danno» (Epicurus, Ratae Sententiae XXXIII apud Diog. Laert. X 150 = Usener p. 78). Per Epicuro il diritto è dunque un prodotto utilitaristico e convenzionale di ciascuna società umana, un risultato della civiltà per eccellenza “politico”, cioè posto dalla polis (ius a civitate positum) e la cöercitio da parte dello Stato ha funzione essenziale nel farlo rispettare. Esso si iscrive anzi in quell’idea di progresso dell’umanità, che il poeta epicureo Lucrezio rappresenta nel De rerum natura mostrando come proprio attraverso il diritto l’uomo si sia sollevato dalla brutalità primitiva alla civiltà ed alla convivenza sociale. Ma in questo v’è solo una visione antropologica, non idealistica né trascendente. La visione idealistica e neoplatonica di Cicerone, espressa nel De Officiis (I 6.18-19), è l’antitesi della capacità di osservazione della realtà da parte dell’epicureismo, diffuso a Roma – nell’ottica ciceroniana – come una peste (Cicero, Tusculanae disputationes IV 6): per Cicerone il diritto ha come fine la ricerca della verità. Lo scetticismo di Cicerone opera infatti solo sul piano gnoseologico, non su quello etico. Cicerone condivide un pregiudizio classico verso la physikè epistéme, cioè la physica o scienza della natura, perché ritiene intimamente inconoscibile l’universo. Cicerone, paradossalmente editore del De rerum natura dell’epicureo Lucrezio, approda ad un eticismo strumentale e funzionale al mantenimento della supremazia politica senatoria, cui è lo stoicismo ad esser congeniale. Così – come s’è visto – l’amico di Cicerone, Tito Pomponio Attico, benché epicureo non mostra, nella rappresentazione del De legibus, difficoltà a condividere il giusnaturalismo di Cicerone, con un’adesione che non è né ontologica né filosofica, ma meramente politica. La parte conservatrice dell’ordo senatorius, fondandosi sulla difesa del principio del ius naturale formulata da Panezio fino a Cicerone, aderisce ad un pensiero politico funzionale al mantenimento del suo predominio: la pretesa che il diritto si fondasse su valori assoluti si prestava bene ad un sistema giuridico, che rappresentava la nobilitas come la parte “raziocinante” del corpo sociale, paternalisticamente deputata alla tutela della imperita multitudo, la plebe affetta da minorità infantile, e faceva così degli abusi dell’aristocrazia privilegi consacrati dalla tradizione e rispondenti alla “superiorità naturale” dell’ordo senatorius.

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Il riconoscimento della pura convenzionalità del diritto, con l’accettazione di un realtivismo etico che la sapienza greca aveva già scoperto 1, poteva acquistare un valore dirompente per la conservazione dello stato privilegiato della nobilitas senatorioequestre. Da qui la necessità per i conservatori di confutare a livello teoretico le posizioni di un Epicureismo, la cui diffusione in Italia, vanamente contrastata nella tarda repubblica, aveva assunto dimensioni totalizzanti nel I secolo a.C., conquistando già a quell’epoca esponenti dell’aristocrazia da Lucio Calpurnio Pisone Cesonino a Cesare, più tardi ad Orazio e Mecenate, più tardi ancora arrivando alla stessa domus imperiale: si ricordi che la vedova di Traiano, l’Augusta Plotina, intercede presso l’imperatore Adriano perché conceda privilegi allo scolarca epicureo di Atene. A tal fine era necessaria la filosofia, perché la giurisprudenza era ritenuta una scienza “pratica” di livello – per noi paradossalmente – inferiore rispetto alla prima. Ne abbiamo una celebre testimonianza nello stesso Cicerone, pur uomo forense per eccellenza: Cicero, De legibus I 4.14. Attico: … Ma – ti prego – incomincia a spiegarci la tua opinione sul diritto civile. Marco: Proprio io? Cosa dirti? Nella nostra città vi sono stati uomini sommi che si son dedicati ad interpretarlo per il popolo ed a rilasciare risposte, ma costoro, professando una vocazione in grandi cose, si son poi versati nelle piccole. Cosa infatti è più importante del diritto dello Stato? Che cosa invece è più trascurabile del compito di coloro che si mettono a disposizione per farsi consultare? Anche se bisogna riconoscere che si tratta di un compito necessario per il popolo. In verità non penso che quanti si son trovati a svolgere quel compito siano stati inesperti del diritto come categoria universale, ma che abbiano professato quello che chiamiamo il nostro diritto civile, perché quella è stata la prestazione cui intendevano adempiere nei confronti del popolo. E però si tratta di un’attività modesta per la conoscenza scientifica, benché necessaria per la pratica.

VI.2.2. I “generi” della letteratura giuridica. L’utilità del diritto come scienza pratica, evocata da Cicerone, si era fin dall’età repubblicana versata in opere sia didattiche – pur non esistendo un insegnamento istituzionalizzato e pubblico del diritto e della sua interpretatio – sia soprattutto scientifiche. Nell’età del principato i giuristi forniti del ius publice responendi ex auctoritate principis pubblicarono anzitutto opere chiamate responsa, nelle quali – come già si è visto – raccoglievano i pareri dati per i casi concreti che erano stati loro sottoposti. Tali pareri, non vincolanti per i giudici in età repubblicana, finorono col diventarlo in età imperiale, nel senso che giudici e magistrati o funzionari erano liberi di 1 Ben prima di Epicuro, già Erodoto aveva osservato nelle sue Storie come ciò ch’è sacro per un popolo è invece abominevole per un altro, ed aveva addotto l’esempio dei costumi sessuali e funerari, per i quali ultimi alcuni popoli cremavano i morti, mentre altri li seppellivano o li mummificavano.

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decidere solo se entrambe le parti producevano responsa divergenti, ma dovevano altrimenti attenersi al solo responsum che fosse stato loro presentato, ovvero ai responsa che fossero concordi fra loro (Gai Institutiones I 7). Al contrario dei responsa, fondati su controversie reali, le quaestiones erano solo apparentemente casi, ma si trattava in verità di fattispecie fittizie, dove la fictio iuris consentiva di prospettare soluzioni interessanti sotto l’aspetto dottrinale. La raccolta di responsa e quaestiones secondo la sequenza di trattazione delle materie contenuta nell’editto, con l’aggiunta di altre eventuali fonti, costituiva il genere dei Digesta, dove la dottrina era esercitata sì su base casistica, ma secondo l’organica struttura con cui materie e istituti (compravendita, locazione-conduzione, mutuo etc.) erano trattati nell’Editto giurisdizionale: da qui l’appellativo Digesta derivato dal verbo digerere (ordinare). Ancor più sistematici erano poi i commentarii sia ad ius civile in sé, sia alle opere di esegesi dello stesso da parte degli antichi giuristi. Così si ebbero commentarii ai libri XVIII iuris civilis di Q. Mucio Scevola, console nel 95 a.C. caduto vittima delle proscrizioni mariane: nel II secolo d.C. i giuristi Lelio Felice, Sesto Pomponio e Gaio scrissero libri ad Q. Mucium. Altri commenti furono redatti ai libri III iuris civilis di Masurio Sabino, il primo giurista che abbia esercitato la sua professione traendone di che vivere dagli onorari dei suoi auditores durante il principato di Tiberio, e furono chiamati libri ad Sabinum. Durante il principato non cessarono i commenti ad XII Tabulas con finalità ancora pratiche e non di mera erudizione, ma ovviamente fu l’esegesi della nuova legislazione a tenere campo, con i commenti a quella sorta di testo unico costituito ormai dalle leggi matrimoniali augustee (Papia Poppaea nuptialis e Iulia de maritandis ordinibus), dalla lex Cincia de donis et muneribus, dalla lex Falcidia de legatis etc. Fiorirono inoltre, soprattutto dopo la redazione giulianea, i commenti ad Edictum, con annessa l’esegesi all’Edictum aedilium curulium, e ad Edictum provinciale, e inoltre trattati sui compiti dei magistrati e pubblici funzionari (de officiis): de officio proconsulis, de officio praefecti urbis, vigilum, praetoris tutelaris etc. Non mancavano anche opere didattiche, chiamate Institutiones, Regulae, Sententiae, Manualia o Enchiridia, prodotte non solo da mediocri giuristi dediti all’insegnamento come Gaio, ma anche veri iurisprudentes come Fiorentino, Marciano, Paolo ed Ulpiano.

VI.2.3. Vicende e caratteri della produzione giurisprudenziale. Giuristi e “scuole” in età classica. Nulla, all’infuori di pochi frustuli di papiro o di pergamena, ci è direttamente giunto dei giuristi di età imperiale, e men che mai di quelli repubblicani. Già il loro “stile” e la loro lingua non dovevano incontrare il gusto letterario in voga nella società romana. La lingua dei giuristi, al contrario di quella dei letterati, oratori, retori, storici e filosofi, è semplicissima e aderente al pensiero ed alle finalità pratiche dei casi esaminati: è una lingua conducente, cioè essenziale e funzionale, che porta

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alla comprensione della soluzione enunciata, priva di quegli stilemi ed artifici retorici, di quegli ornamenti oratori tanto apprezzati dagli antichi. Aggiungasi che la mentalità dell’epoca privilegiava la tradizione sull’originalità e sull’innovazione. Per cui i giuristi non aspiravano affatto né nello stile, e tantomeno nel pensiero, a distinguersi dagli antecessores, ed anzi cercavano di avvalersi dei precedenti e dell’auctoritas di quelli per conferire valore alle loro soluzioni. Ne risulta una omogeneità linguistica, stilistica ma anche di pensiero, che apparenta la giurisprudenza antica più alla giurisprudenza moderna, cioè alle sentenze pronunciate dall’autorità giudiziaria, che alla dottrina, cioè alle opere esegetiche e trattatistiche degli studiosi del diritto che aspirano parossisticamente all’originalità. In altre parole, mentre uno studioso della letteratura latina identificherebbe subito dalla diversità stilistica e linguistica un brano di Sallustio, Cesare, Cicerone o Tacito, non è altrettanto facile o scontato riuscire a farlo con i giuristi. Esistettero sì alcune “scuole” già nella tarda repubblica, come quelle che fecero capo a Q. Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo, nonché i loro prosecutori nel principato, detti Sabiniani e Proculiani dai rispettivi capiscuola. Ma la loro antitesi, rilevabile nella diversità delle posizioni giuridiche su questioni determinate del diritto privato, non si fonda su differenze strutturali nella concezione del diritto e nemmeno sui metodi dell’interpretazione. Si trattava in realtà dell’appartenenza a “circoli” incentrati su personalità della scienza giuridica oppure dell’entourage politico del principe. Così a Marco Antistio Labeone s’ispiravano i Proculiani: egli aveva disdegnato la carriera politica sotto Augusto, stimando che le magistrature fossero ormai una farsa o una caricatura della libertas repubblicana, e dedicando il suo straordinario ingegno all’interpretatio del diritto privato. Si ricorderà che quel grande e libero giurista non aveva temuto di evidenziare le incongruenze della legislazione matrimoniale augustea. Caio Ateio Capitone ispirava invece i Sabiniani, detti anche Cassiani dal caposcuola Caio Cassio Longino. Capitone aveva esercitato la sua dottrina non sul diritto privato, ma sul pubblico, cui aveva dedicato i Coniectanea ed i libri de iure pontificio: tuttavia non gli si riconoscevano l’altezza esegetica, l’intelligenza e la capacità creativa di Labeone, come scrive Sesto Pomponio nel suo liber singularis enchiridii, un manuale di età antonina che conosciamo dai Digesta di Giustiniano (I 2, 2, 47). I giuristi dell’una come dell’altra scuola d’età imperiale produssero veri e propri “generi” della letteratura giurisprudenziale, così specializzata in opere dalle tipiche intitolazioni, generi che sono stati in parte anticipati trattando i giuristi dell’età repubblicana. Nel principato i giuristi non esercitarono gratuitamente, come prima, la propria attività ai fini della carriera politica o del prestigio sociale, ma a partire dall’età tiberiana ne trassero anche provento, pagati da auditores e richiedenti, mentre, soprattutto da Adriano in poi, furono funzionari imperiali, fino al sommo grado del praefectus praetorio, cooptati nel consilium principis e retribuiti dallo Stato secondo classi di stipendio del censo equestre (centenarii, ducenarii etc.). Dopo la codificazione dell’editto da parte di Salvio Giuliano per incarico di Adriano, il più grande giurista dell’età antonina fu Q. Cervidio Scevola, che fra il

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165 ed il 190 d.C. si affermò come il maggiore interprete del diritto, autore di responsa, quaestiones e digesta, difensore della purezza del ius civile dagli influssi dei diritti greci, le cui consuetudini permanevano nel mondo ellenistico provinciale. Emilio Papiniano ne fu degno discepolo, eguagliandolo quanto ad altezza d’ingegno e originalità di pensiero, ma divenne anche più celebre di lui per aver affrontato eroicamente la morte sotto Caracalla. Allievo, infatti, di Scevola, Papiniano lo era stato assieme a Settimio Severo, il quale, divenuto imperatore (193-211), lo nominò prefetto del pretorio. Quando, alla morte del principe, gli successero i due figli Geta e Caracalla, Papiniano si rifiutò di giustificare il fratricidio del primo da parte del secondo e pagò con la vita la sua determinazione morale. Suo grande condiscepolo fu anche Giulio Paolo, dalla vastissima produzione giuridica ma non alla sua stessa altezza, nonché il fecondissimo Domizio Ulpiano, più dedito ai trattati sugli officia che all’attività respondente, ed acerrimo nemico di Paolo quando entrambi erano coadiuores di Papiniano nella prefettura del pretorio. Ulpiano reagì alla crescente disaffezione dagli officia publica, che si andava diffondendo nell’età della crisi economica e morale dell’impero per la nefasta influenza dell’apa-theia del pensiero stoico e del fanatismo cristiano: e lo fece non solo con la sua trattatistica in materia, ma anche facendosi alfiere della vera philosophia, quella che, nella tradizione del De republica ciceroniano, additava nell’impegno politico e sociale il dovere morale del servitium reipublicae, contro la falsa filosofia dell’astensione. E come servitium reipublicae concepì anche la funzione del giurista, rappresentato come moderno sacerdos e custode della scientia iuris, al pari di come lo erano stati i pontifices nell’antichità. Nella tecnicità dell’interpretatio Ulpiano seppe additare ai prudentes la via per contenere negli argini del diritto l’onnipotenza del potere imperiale sotto la dinastia dei Severi. Ha ben visto Valerio Marotta che egli riuscì a «contemperare il governo monocratico del principe e il fondamento [militare] del suo potere ... con l’attiva partecipazione delle aristocrazie, delle famiglie senatorie e le élites cittadine delle provincie all’amministrazione dell’impero». Furono questi gli ultimi bagliori del senso dello “Stato di diritto” e della giurisprudenza romana, che con un allievo di Papiniano, Erennio Modestino, modesto compilatore come il nome che portava, si estinse attorno al 240.

VI.2.4. La fine della giurisprudenza e l’età postclassica. I codices. Naturalmente, dopo Modestino non si estinguono né la produzione né l’insegnamento del diritto, che sarà praticato dal IV secolo anche nelle grandi scuole tardoantiche di Roma, Costantinopoli e Beritum (Beirut): si estingue invece l’interpretatio iuris come attività intellettuale. L’analisi classica delle cause che portarono all’estinzione della giurisprudenza, è sintetizzata nelle parole di Arangio-Ruiz 2: «L’improvviso silenzio della giurisprudenza dopo i primi decenni del III secolo determi2 V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, Napoli 19577, p. 342 (varie anastatiche della VII edizione sono apparse fino al 2006).

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nò pertanto anche in Roma stessa l’instabilità dell’edificio così sapientemente costruito. Né del resto questo collasso della dottrina giuridica era un fenomeno casuale: era piuttosto uno dei tanti aspetti della decadenza della popolazione italica, imbastardita dall’afflusso di elementi stranieri, asservita a principi forestieri, priva ormai di fiducia nelle sue tradizioni. In questo nuovo ambiente, non poteva non obliterarsi anche il senso della tradizione giuridica da conservare, e il diritto romano doveva ridursi a una serie di regolette pratiche esprimenti il mero risultato dell’antico contemperamento fra i vari sistemi di norme». Tuttavia questa analisi, formulata e ripetuta fra il 1936 ed il 1957, va oggi storicamente contestualizzata quale espressione della storiografia romanistica contemporanea alla stagione dell’idealismo gentiliano-crociano e alla tradizione politica di estrazione liberale. È infatti facile obiettare che la provincializzazione dell’impero, grazie alla capacità di assimilazione culturale della civiltà greco-romana, produsse un allargamento dell’ambiente sociale di “reclutamento” dei giuristi, che meglio d’altri può sintetizzarsi nei nomi di Salvio Giuliano, nato a Hadrumetum nell’Africa proconsolare (oggi Tunisia), e di Domizio Ulpiano, nato a Tiro in Siria. Del resto tale fenomeno non è affatto limitato alla giurisprudenza, ma investe altre attività, dall’architettura alla stessa dirigenza dello Stato e all’esercito, dove con troppa leggerezza si assume la parola “provincializzazione” come sinonimo di “decadenza” o “scadimento” sull’orma dei pregiudizi degli antichi. Apollodoro di Damasco fu il grande architetto di Traiano e di Adriano, che operò profondamente a Roma segnandone fino ad oggi l’urbanistica (dai “Mercati Traianei” al Pantheon) e che realizzò le straordinarie opere d’ingegneria militare, come i ponti sul Danubio, che consentirono la conquista della Dacia. Da Traiano in poi tutti gli imperatori furono di estrazione provinciale, non solo nel senso d’esser romani nati nelle province, ma anche nel senso di appartenere agli ethne provinciali, come i Severi o Filippo l’Arabo, che nel 246 celebrò i ludi saeculares per il millennium ab Urbe condita, o i Gordiani fino allo stesso Diocleziano. Né può dirsi che costoro furono impari ai loro compiti. Non è la concessione universale della cittadinanza nel 212 d.C., né la conseguente e progressiva caduta delle forme librali dei negozi giuridici quiritari – fino ad allora celebrati con l’uso rituale della bilancia (libra) per pesare simbolicamente il prezzo di un lingottino (raudusculum) di bronzo – caduta riconosciuta e legittimata da una costituzione di Alessandro Severo nel 224 3, che provoca la decadenza e la fine della giurisprudenza. Spiegazione molto più acuta di quella di Vincenzo Arangio-Ruiz, e certamente vera, è quella formulata nel 2011 da Fran-

3 Con la concessione universale della civitas Romana, le formalità rituali (gesta) e orali (verba solemnia) latine dei negozi giuridici per aes et libram, in cui si usavano simbolicamente una bilancia e un lingotto di bronzo per simulare una compravendita secondo la tradizione arcaica, divennero obbligatorie anche per i provinciali, che ne avessero voluto conseguire gli effetti giuridici. Ma ai peregrini neocittadini, estranei ai mores maiorum romani ed alla lingua latina, le solennità dei negozi librali riuscivano incomprensibili e impraticabili. Così Alessandro Severo esentò i provinciali dalle formalità del testamento librale, concedendo che redigessero liberamente, anche in greco, le loro ultime volontà. Gradatamente anche gli altri negozi librali caddero in desuetudine.

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cesco Guizzi: «La giurisprudenza severiana aveva toccato livelli degni d’un grande e illustre passato, quale l’età adrianea, che non si potevano più attingere. … In quel cinquantennio d’instabilità istituzionale [l’anarchia militare che seguì all’uccisione di Alessandro Severo nel 235 fino all’avvento di Diocleziano nel 285] fu la la prefettura a garantire una linea di governo – pur fra contraddizioni e incertezze – poiché al titolare della carica inerì, quale sostituto del princeps, il ius edicendi e, insieme, quello rescribendi in base a una consolidata prassi, ch’ebbe piena legittimazione … con la costituzione del 235» 4. Rivolta da Alessandro Severo a Restituto, prefetto del pretorio dell’Oriente e dell’Illiria, tale constitutio sanciva la validità delle disposizioni formali (forma), anche di valore generale, promulgate dal prefetto, perfino quando fossero state – sia pure in questioni non essenziali (minime) – contrarie a leggi o costituzioni vigenti: solo successive innovazioni ex auctoritate principis potevano invalidarle. «Tanto e così intenso potere spiega dunque il brusco arresto della giurisprudenza, alla quale subentrò altra, indiscussa, di netto stampo autoritativo, che scoraggiava l’elaborazione da parte dei giuristi, in quanto soggetti privati, perché rendeva irrimediabilmente inutiliter dati i loro (eventuali) contributi innovativi che, peraltro, non si potevano produrre in giudizio privi com’erano di auctoritas dei loro autori. La scientia iuris venne, in tal modo, ridotta al silenzio». Ora tali argomenti, benché indubitabilmente fondati, mi sembrano cogliere l’aspetto forse più tecnico e specifico di un fenomeno che in realtà li trascende, perché espressione di una crisi sociale ed economica di più vasta portata. La crisi dell’originalità creativa della giurisprudenza può infatti ravvisarsi già nella stessa età dei Severi. Non a caso Aldo Schiavone s’è avveduto che, dopo la scuola di Salvio Giuliano, già i giuristi severiani si avvalgono della giurisprudenza nelle controversiae iuris molto più di quanto essi stessi non ne producano. A me sembra che si fossero ormai esauriti la vitalità, la duttilità e il dinamismo di quel sistema sociale, che avevano portato alla nascita e allo sviluppo plurisecolare della giurisprudenza come forma di un sapere continuamente esercitato sulla pratica dei casi, che l’esperienza sociale, economica e politica proponeva per la composizione dei conflitti d’interesse. La consultatio dei giuristi, la fioritura delle opere giurisprudenziali con i suoi molteplici “generi”, non potevano sopravvivere negli anni dell’anarchia militare, dell’instabilità del potere imperiale, delle invasioni barbariche, della crisi morale che nella civitas era inoculata dal cristianesimo, dilagante ormai in ragione inversamente proporzionale alla prosperità dell’impero. Non è un caso che l’Augustalità, espressione dell’ambizione di ascesa sociale del ceto medio e dei liberti, dell’impegno nelle funzioni e nei munera publica, nel lealismo di Stato attra4

F. GUIZZI, Variazioni sul Tardoantico, Napoli 2011, p. 79, ma cfr. anche p. 73-82, e, antea, F. PASTORI, I prefetti del pretorio e l’arresto dell’attività giurisprudenziale, «Studi Urbinati» XIX (1950-51), p. 37 ss.; G. CRIFÒ, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in ANRW II. Principat II .15, Berlin-New York 1976, p. 708 ss. All’autocrazia del principe «sola fonte del diritto» attribuisce la fine della giurisprudenza F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, V, Napoli 1975, p. 482 s.

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verso il culto imperiale, venga meno proprio in concomitanza con l’inaridirsi della giurisprudenza e con l’appello di Ulpiano contro le false filosofie che inducono all’astensione ed all’estraneità al servitium reipublicae. Nel IV secolo, poi, l’allargarsi smisurato della forbice sociale fra honestiores e humiliores fece scomparire del tutto il ceto medio: la riforma monetaria che aveva indotto Caracalla a battere gli “antoniniani” con valore nominale eguale ai più pesanti denari d’argento per salvare il ceto medio e la plebe viene sepolta definitivamente dalla riforma di Costantino, che privilegia il solidus aureus (da cui “soldo”) per stabilizzare la circolazione monetaria basandola sull’oro, metallo detenuto solo dai potentiores. Sul piano della cultura la scomparsa del ceto medio significò il dilagare dell’analfabetismo. La lettura divenne monopolio dell’aristocrazia ed un instrumentum scriptorium di costo relativamente basso, come il papiro, col quale si confezionavano i libri quando la richiesta era di massa, fu sostituito nell’arco di un secolo dalla costosissima pergamena, ricavata dalla pelle di vitello o d’altri animali, che solo le élites si potevano permettere. Sulla pergamena furono trascritte allora le opere di Cicerone, Sallustio, Livio, etc., ma non quelle dei grandi giuristi di età repubblicana e imperiale. Esse non erano più capite, riflettevano magari un regime giuridico non più vigente, e dunque spesso non se ne scorgeva l’utilità: “non servivano” più e non apparivano interessanti perché difficilmente comprensibili nella mediocrità intellettuale dei tempi. La considerazione del diritto come scienza pratica, inferiore, nella rappresentazione dei Romani, alla filosofia, alla storia, all’oratoria e alla retorica, alla poesia, fece sì che, con la crisi dell’impero nel III –IV secolo ed il declino delle attività intellettuali, la trasmississione stessa della interpretatio iuris venisse meno: le opere dei grandi giuristi classici, scritte su rotoli di papiro, non vennero più copiate, e sempre meno consultate, anche perché di difficile comprensione in un’epoca di decadenza del sapere e di drastica riduzione della sua diffusione. Comprensibile ed utile per l’insegnamento fu invece considerato, già a partire dal III secolo, il manuale delle Institutiones di un giurista, diritto, dell’età antonina: Gaius. Sconosciuto ai grandi giuristi dell’epoca in cui visse per la semplicità didattica della sua opera, al punto che noi non sappiamo praticamente chi sia stato, dopo che l’epoca feconda dell’interpretatio iuris si fu estinta nell’ultimo giurista di età severiana, Modestinus, Gaio fu il solo a risultare facile e leggibile. Così per la loro semplicità le Institutiones gaiane furono copiate dai papiri, su cui erano originariamente scritte, in numerosi codici di pergamena, il più completo dei quali è stato ritrovato nel XIX secolo a Verona, dove si conserva nella Biblioteca Capitolare. Se nel II secolo le Institutiones potevano essere apprezzate solo nella periferia dell’impero, per noi, nel naufragio della letteratura giurisprudenziale romana, esse costituiFig. 34. Rotolo di papiro.

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scono una insostituibile base di conoscenza, per quanto modesti o didattici possano esserne i contenuti, al confronto della grande scientia iuris dell’epoca. Tuttavia, la diffusione dell’opera didattica di Gaio come opera scientifica è il sintomo della decadenza intellettuale nel campo del sapere giuridico. In quell’epoca declinante, l’assolutismo ricorse sempre più ai nuovi strumenti normativi delle leges generales – così dette in antitesi ai rescripta, ora chiamati leges speciales – e delle pragmaticae sanctiones come espressioni della volontà del monarca nel campo del diritto. Cosicché già sul finire del III secolo si avvertì l’esigenza di raccogliere e compendiare la gran massa delle costituzioni imperiali, ormai la più importante fonte normativa. La forma libraria mutata dal papiro alla pergamena favorì l’edizione non più in rotolo (volumen dal verbo volvere = srotolare, come dalla foto a lato), ma in quinterni, cioè in un foglio di pergamena ripiegato, in modo che ne venissero fuori 5 pagine di scrittura (10 scrivendo d’ambo i lati: recto e verso). Il nome che si dava a tale libretto era codex ed esso appariva in tutto simile ai nostri quaderni, che ne derivano: pertanto le raccolte di costituzioni imperiali furono da allora dette codices. Le prime furono il Codex Gregorianus ed il Codex Hermogenianus, che prendono nome dai rispettivi compilatori: uno sconosciuto Gregorio o Gregoriano che lo redasse nel 292-3 ed un Ermogeniano ch’è probabilmente il giurista di età dioclezianea. Il Codice Gregoriano ordinava le materie secondo la sistematica dei digesta, che a sua volta seguiva quella dell’editto, trascrivendo le costituzioni imperiali in titoli, introdotti da rubriche. Il Codice Ermogeniano integrò il Gregoriano con le costituzioni dioclezianee del 293-4 ed entrambi furono poi aggiornati con le più tarde costituzioni dioclezianee del 295-304, con quelle di Costantino e Licinio del 314, ed infine di Valentiniano e Valente del 364-5. A tali codici dovuti ad iniziativa privata seguì quello voluto invece da Teodosio II ed entrato in vigore nel 439, dopo il fallimento di un più ampio progetto di raccolta dell’intero diritto romano a fini di conoscenza scientifica, che servisse a risollevare questo campo del sapere. Il Codex Theodosianus si ridusse invece a raccogliere in 16 libri, in ordine cronologico, le costituzioni imperiali promulgate dagli imperatori a partire da Costantino fino a Teodosio stesso. Rispetto alle due raccolte private, il nuovo Codice rifletteva l’aumentata produzione di edicta e leges generales come espressioni dell’autocrazia del principe e, dunque, il diritto pubblico vi trovava spazio ben più vasto del privato. Teodosio riconosceva comuque la vigenza delle costituzioni raccolte nei due precedenti codici, nonché della giurisprudenza classica in quanto non contrastante con le costituzioni. A Teodosio ed a Valentiniano III si deve anche la cosiddetta “Legge delle citazioni”, promulgata il 9 novembre del 426 (C.Th. I 4.3), che circoscrive la producibilità dei responsa prudentium nella prassi dei tribunali ai soli Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino. In verità non si vietava la presentazione di pareri d’altri giuristi, ma essi dovevano essere citati presso almeno uno dei cinque indicati e doveva esibirsene il manoscritto, vera probatio diabolica per un’epoca in cui scrittura, libri e cultura erano così rarefatti. Già questo costituisce la spia di come il diritto dovesse essersi ridotto, soprattutto a livello processuale, a “bene di consumo” quasi esclusivo degli honestiores e delle potentiores principalitates, cioè di quella infinitesimale frazione della popolazione, che detene-

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va il potere su masse di coloni legati ai fondi di generazione in generazione e ridotti praticamente a servi della gleba.

Di giuristi in quest’epoca non può dunque più parlarsi, ma di maestri del diritto certamente sì. E benché costoro non avessero alcuna originalità di pensiero giuridico, pure riflettevano le mutate esigenze dei tempi rispetto al diritto classico, la maggiore rilevanza che, per influenza dei diritti greci ed orientali delle province, si accordava ormai alla volontà delle parti rispetto alle forme, delle quali si dava attestazione scritta come se fossero state adempiute, quando invece per lo più non lo erano, e così aprendo la strada – paradossalmente in un’epoca di analfabetismo – a quel valore costitutivo o sostanziale della scrittura, che per tradizionalismo ed affezione alle origini quiritarie degli istituti del ius civile, il diritto classico non le aveva mai riconosciuto, facendone uso quasi sempre a mero scopo probatorio. Va infine fatto cenno a quelle leggi romano-barbariche che in genere riflettono il principio di personalità del diritto, che si afferma nella parte occidentale dell’impero invaso dai barbari, per il quale ai Romani si continua ad applicare la propria legge. Fa eccezione la disorganica raccolta di norme, giudicata la più confusa del genere, che va sotto il nome del re dell’Italia ostrogota, il c.d. Edictum Theoderici: Teodorico si riteneva patrizio dell’imperatore Zenone di Costantinopoli più che rex autonomo dell’Italia, quale di fatto era, e pertanto sembra che applicasse il suo editto a tutta la popolazione, romana ed ostrogota a lui soggetta. Si discute se la raccolta sia da attribuire all’iniziativa di un privato o al sovrano ostrogoto, del quale porta il nome, e che l’avrebbe promulgata attorno al 493. Al 506 risale la lex Romana Wisigothorum, applicata al regno visigotico comprendente Francia occidentale e penisola iberica: consisteva in massima parte in estratti dai Codici Teodosiano, Gregoriano ed Ermogeniano, ma anche da altre fonti, e fu promulgata da Alarico. Di poco posteriore è infine la lex Romana Burgundionum, promulgata nel regno dei Borgognoni nell’odierna Francia orientale dal sovrano Gundobald (516).

VI.2.5. La Compilazione giustinianea, la trasmissione del diritto romano e la ricostruzione del diritto classico. Quando Giustiniano ascese al soglio imperiale, che resse dal 527 al 565 succedendo allo zio Giustino, l’impero romano d’Occidente aveva ormai cessato di esistere, e sul suo territorio s’erano insediati i regni romano-barbarici. In Italia s’era instaurato il regno gotico ed i Goti avevano utilizzato anche gli alti funzionari romani, come Cassiodoro di Scolacium (Squillace, in Calabria) per l’amministrazione civile, mantenendo il monopolio del comando dell’esercito. Il diritto romano era applicato ai Romani, mentre in genere i barbari restavano legati alle loro usanze, anche se nel tempo sempre più influenzate dal primo. Formalmente i regni romano-barbarici riconoscevano l’autorità dell’imperatore romano insediato a Costantinopoli dal 326, quando Costantino vi aveva trasportato la capitale dell’impero. Egli aveva rifondato la città di Bisanzio, sul Bosforo, divisa fra Europa ed Asia, dando il proprio nome all’antica città greca. Da qui nacque, nel XVIII secolo, la de-

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nominazione di “impero bizantino” per designare l’impero romano d’Oriente, caduto solo nel 1452 con la conquista turca della capitale da parte di Maometto II . Ma tale denominazione è assolutamente moderna e, benché sia talora usata l’espressione Byzantinoi per designare gli abitanti di Costantinopoli, l’imperatore che vi risiedeva si qualificava sempre come imperatore romano (basileus tõn Romaion) e l’impero era chiamato romano (romaïkì autokratoría nella pronuncia greca dell’epoca). La lingua usata nell’impero romano d’Oriente era il greco, benché l’imperatore e la corte conoscessero anche il latino. Non esisteva all’epoca né dopo alcuna coscienza dei Greci d’Oriente di essere “Bizantini” né “Greci”: per loro Héllenes o Héllines erano gli “empi Greci pagani”, cui si contrapponevano nella loro autorappresentazione di “Romani cristiani”.

Giustiniano intraprese una sistematica opera di restaurazione della romanità, che portò alla riconquista di una cospicua parte dell’impero d’Occidente, dall’Africa fino all’Italia, dove la distruzione del regno gotico comportò la devastazione della penisola per circa un ventennio (guerra greco-gotica). La fama di Giustiniano è però legata soprattutto all’opera che si è finora rivelata imperitura e che perfettamente s’inquadra nella sua opera di ripristino e rilancio della romanità: la redazione di quello che fu poi, dall’età umanistica, chiamato fino ad oggi Corpus Iuris Civilis, summa del sapere giuridico di Roma. L’opera fu dall’imperatore affidata alla direzione e supervisione generale del quaestor sacri Palatii Triboniano. Con la costituzione Haec quae necessario del 13 febbraio 528 Giustiniano nominava una commissione incaricata di redigere un nuovo Codice sulla base dei preesistenti Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano: il 9 aprile del 529 il nuovo Codex Iustinianus era promulgato con la costituzione Summa reipublicae. Ma pochi anni dopo, già nel 534, si avvertì la necessità di aggiornarlo con le costituzioni che lo stesso Giustiniano aveva pubblicate tenendovi in alta considerazione la giurisprudenza classica: il nuovo Codex repetitae praelectionis veniva così a sostituire il primo, che pertanto non ci è pervenuto, e lo promulgava il 17 novembre la costituzione Cordi.

Ma fra i due Codici Giustiniano prendeva l’iniziativa di maggiore importanza: la raccolta sistematica dei brani estratti dalle opere degli antichi giuristi (gli excerpta prudentium), raccolti e ordinati per materia in 50 libri dei Digesta o Pandectae che videro rapidamente la luce con la costituzione Dédoken o Tanta del 16 dicembre 533. Ciascun libro è diviso in titoli, il cui contenuto è segnalato da una rubrica 5. All’interno di ciascun titolo gli excerpta prudentium sono ordinati quasi sempre sistematicamente, con l’indicazione dell’autore e dell’opera da cui si trae il brano. Come abbiano fatto i quattro compilatori o commissari giustinianei scelti da Triboniano (Teofilo e Cratino di Costantinopoli ed Anatolio e Doroteo di Beritum) ad assolvere all’immane compito in soli tre anni ha costituito oggetto di studi e controversie nella dottrina moderna. Sembra oggi acclarato che essi si avvalsero di 5

Salvo il titolo de legatis et fideicommissis comprendente ben tre libri.

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parziali raccolte preesistenti di brani dei giuristi classici. Ma questo non basterebbe a spiegarne la rapidità, che fu dovuta ad una ripartizione metodica e sistematica del lavoro, ricostruita nel 1820 dal tedesco Friedrich von Bluhme. Questi scoprì che l’ordine nel quale i giuristi sono escerpiti in ciascun titolo dei Digesta è sempre invariato e ne dedusse la ripartizione di tutte le opere spogliate dai compilatori in quattro “masse”, su cui avevano lavorato quattro sottocommissioni, poi riunitesi in seduta congiunta per il lavoro definitivo. In base alle opere il cui spoglio prevale in ciascuna delle quattro masse, von Bluhme le denominò edittale, sabiniana, papiniana ed Appendix. Lavorando sui frammenti dei giuristi escerpiti nei Digesta giustinianei, un secolo dopo von Bluhme un altro studioso tedesco, Otto Lenel, riuscì a ricostruire pressoché integralmente l’editto perpetuo nella sua redazione giulianea, e anche, in modo più frammentario, le opere dei giuristi classici (Palingenesia iuris civilis). Infatti le opere di commento all’editto seguivano l’ordinamento delle materie ivi trattate, che ha permesso di ricostruire le opere dei giuristi classici dall’indicazione dei titoli e dei libri che nei Digesta son dati per ciascun autore. Non ancora compiuta l’opera dei Digesta, Giustiniano incaricò Triboniano, Doroteo e Teofilo di redigere un’opera elementare d’insegnamento, dal classico titolo, ancora perdurante nella didattica, di Institutiones, esemplata sul modello gaiano in quattro libri, ma che attinse anche alle analoghe opere di altri giuristi classici e dagli stessi Digesta, ch’erano all’epoca ormai quasi pronti. Contrariamente a questi ultimi, però, nelle Institutiones fu l’imperatore in prima persona ad esporre la materia d’insegnamento alla legum cupida iuventus, cosicché non furono mai indicate le fonti cui i compilatori giustinianei avevano attinto. L’opera tratta nel I libro de iure personarum; il II della classificazione delle res, delle forme di proprietà e dei diritti reali, concludendosi con la successione e la materia testamentaria; il III tratta invece le successioni ab intestato, i princìpi dell’obligatio e le obligationes ex contractu; il IV le obligationes ex delicto e le actiones del processo privato, concludendosi con una trattazione processual-pubblicistica (de publicis iudiciis). Il 21 novembre 533 l’opera era edita con la costituzione Imperatoriam. Infine, delle 158 costituzioni promulgate da Giustiniano sia in greco che in latino dopo il 533 fu redatta una raccolta chiamata Novellae Constitutiones o semplicemente Novellae. Chi tuttavia pensasse che il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano abbia preservato il diritto classico sbaglierebbe. La prima finalità dei Compilatori giustinianei fu infatti assolutamente pratica: riportare l’applicazione del diritto e il dibattito giurisprudenziale all’altezza dell’antichità. A tal fine furono interpolati sia gli estratti dei giuristi classici sia tutte le altre fonti, in modo da adeguare il regime giuridico vigente nei primi secoli del principato ai mutamenti e alle esigenze del diritto del VI secolo. Questa operazione, che a noi sembra una contraffazione, appariva invece ai giuristi di Triboniano come una “rivitalizzazione” ed “attualizzazione” del diritto, la cui disciplina vigente si ammantava dell’autorità degli antichi. Una serie di metodi critici ha consentito alla dottrina del XIX-XX secolo di identificare con certezza alcune delle interpolazioni, mentre su altre resta aperto il dibattito. Il criterio sistematico ha permesso di capire che la duplice trattazione di uno stesso istituto, come il pegno (una garanzia reale per il prestito di danaro) nei

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giuristi escerpiti è dovuta al fatto che essi trattavano anche un analogo istituto, la fiducia cum creditore, scomparso nel III secolo e sussunto dai giustinianei sotto il titolo del pignus. Il criterio storico è stato utilmente esercitato quante volte i Digesta rappresentano il trasferimento della proprietà delle res mancipi, attuabile in diritto classico solo con la mancipatio e l’in iure cessio – cerimonie solenni per gesta e verba in latino – attraverso la semplice traditio, perché dopo la Constitutio Antoniniana del 212 ed il rescritto di Alessandro Severo del 234 quelle cerimonie quiritarie erano cadute in disuso con la provincializzazione del diritto romano, ormai esteso a tutti i popoli dell’impero. Il criterio logico si fonda invece sul riscontro di contraddizioni interne nel pensiero di uno stesso giurista. Più arduo è invece quello filologico, che identifica lessico ed usi propri del latino tardo-antico e di età bizantina. Non tutte le interpolazioni, tuttavia, risalgono all’età di Giustiniano: infatti già in epoca postclassica non ci si fece scrupolo di intervenire sui testi originali per adattarli, nel copiarli, al diritto vigente, sicché talvolta essi pervennero già interpolati alla commissione giustinianea presieduta da Triboniano. L’opera di materiale confezione del Corpus Iuris Civilis fu un’impresa di Stato di prima misura: si calcola che per i soli Digesta, dei quali ci è pervenuta una copia in pergamena del VI secolo (Littera Florentina perché custodita nella Biblioteca Laurenziana di Firenze) siano state necessarie le pelli di circa 6.000 buoi. La diffusione che l’intero Corpus dovette avere fu certamente limitata nell’impero, né la lingua latina era intesa nei tribunali locali della parte orientale. Nei secoli successivi se ne trassero per l’Oriente compendi e traduzioni in greco (Basilikà). Ma grazie al Corpus il diritto romano “risorse” in Italia e in Europa nel XII secolo con la Scuola e l’Università di Bologna. L’usus modernus Pandectarum, protrattosi fino al 1900, ha dato luogo, attraverso la Pandettistica tedesca del XVIII-XIX secolo, alla nascita delle moderne categorie concettuali ed interpretative del diritto privato in tutto il mondo. Il Codice Napoleonico ha costituito la soluzione di continuità con la tradizione del diritto giurisprudenziale romano sostituendo, alla libera interpretatio dei giuristi come fonte del diritto, un sistema codificato dall’autorità dello Stato. Ma quel Codice attinse ampiamente al diritto romano, e costituì poi, nel corso del XIX secolo, il modello per i Codici giapponese, italiano (Zanardelli 1865), tedesco e degli altri paesi europei, ad eccezione dell’Inghilterra rimasta al suo sistema di common law. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, anche i paesi del “socialismo reale” si sono dotati di codici civili moderni ispirati al modello napoleonico. Solo la Cina, dopo avere rinunciato al modello economico maoista, ha preferito ispirarsi, nella confezione del proprio codice civile, anziché al modello “borghese” napoleonico, direttamente ai Digesta di Giustiniano, che sono stati tradotti in cinese.

VII I VANGELI DI AUGUSTO E LA VIA DI CRISTO NELL’IMPERO ROMANO: ALLE “RADICI” PAGANE DELL’EUROPA SOMMARIO: VII.1. Continuità e trasformazione della società romana dal paganesimo al cristianesimo. – VII.1.1. Le fonti neotestamentarie e la critica storica. – VII.1.2. La Giudea romana e il processo di Gesù. – VII.1.3. La comunità giudeo-cristiana da Tiberio a Nerone. – VII.1.4. I processi contra Christianos e la coerenza giuridica di Traiano. – VII.1.5. Altre testimonianze processuali. Celso ed il confronto tra paideia classica e dottrina cristiana nel II secolo. – VII.1.6. Porfirio, le persecuzioni del III secolo e la politica religiosa di Diocleziano. – VII.1.7. L’ideale della libertas religionis nel II-III secolo. – VII.1.8. Formazione dell’idea di pluralismo religioso e di libertà di coscienza nel pensiero politico pagano del IV secolo e intolleranza della Civitas Dei cristiana. – VII.2. L’eredità degli antichi.

VII.1. Continuità e trasformazione della società romana dal paganesimo al cristianesimo. VII.1.1. Le fonti neotestamentarie e la critica storica. Se l’impero romano non è arrivato fino a noi, è invece arrivata quella che, dal IV secolo in poi, ne divenne la religione ufficiale: il cristianesimo. Essa si affermò sulla precedente religione di Stato, il paganesimo politeista romano, dopo una lotta sanguinosa, nel senso che dapprima la nuova religione subì processi e relative condanne a morte, poi, impadronitasi dell’impero dopo Costantino, già con Teodosio diede a sua volta inizio allo sterminio di eretici, appartenenti alla stessa religione cristiana, ed alla persecuzione più o meno cruenta di pagani ed ebrei. La conoscenza del cristianesimo antico è un problema storico che va affrontato sullo stesso piano di qualsiasi altro fenomeno del mondo greco-romano. Tuttavia esso ha incontrato ostacoli sconosciuti negli altri campi della ricerca sull’antichità – dacché essa ebbe inizio dapprima in Italia nel Tre-Quattrocento – per il rischio dell’accusa di eresia da parte della Chiesa Cattolica, accusa che portava regolarmente al rogo. Solo nell’Ottocento, quando alla Chiesa Cattolica non fu più consentito dagli Stati liberali di applicare la pena di morte fuori dei ridotti confini dello Stato Pontificio, ed alle altre Chiese cristiane, come l’anglicana o la luterana, di interferire nell’autonomia della ricerca scientifica, si sviluppò ampiamente una criti-

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ca neotestamentaria, in grande plurisecolare ritardo sullo sviluppo delle discipline storica e filologica. Oggi i risultati della critica neotestamentaria sono oggetto d’insegnamento specialistico solo, e raramente, nelle università italiane. Nella scuola non se ne insegna nulla, salvo eccezioni individuali, né s’impartisce l’insegnamento della storia delle religioni, ma solo quello della religione cattolica, non certo il più adatto alla formazione della mentalità critica o a quello di una visione antropologica della religione. Noi dovremo dunque fornire alcune informazioni, che saranno del tutto nuove per lo studente e sembreranno anche sconcertanti, ma che costituiscono, nelle linee generali, patrimonio acquisito non solo di tutta la critica storica sul Nuovo Testamento, ma anche di una parte rilevante della stessa critica neotestamentaria confessionale. Le più dettagliate informazioni sulla predicazione di Gesù, sulla sua vicenda processuale di fronte a Ponzio Pilato e sulla sua condanna a morte ci sono date dai quattro Vangeli cosiddetti canonici e dagli altri scritti neotestamentari, mentre al confronto ben rare sono le notizie di fonte pagana od ebraica sino al II secolo. Va posto tuttavia in generale il problema dell’attendibilità storica delle fonti neotestamentarie di cui disponiamo – Atti degli Apostoli, Epistole di Paolo, Pietro, Giovanni, Giuda Taddeo ed Apocalisse – ed in ispecie anzitutto degli stessi Vangeli. La storiografia greca e romana, benché l’abbia raramente realizzato, si prefisse il principio dell’obiettività e della ricerca della “verità” storica. Oggi il relativismo storico moderno considera tale “verità” soprattutto un’astrazione: la storicità di una ricostruzione si misura dalla capacità di cogliere le diverse rappresentazioni che di un evento ebbero coloro che lo vissero. Così Gesù, che fu poi detto il Cristo, potrebbe apparire un patriota, per il contenuto antiromano del suo messaggio, nell’ottica del nazionalismo giudaico dell’epoca, un pericoloso criminale nell’ottica del mantenimento della pax Romana nella provincia di Giudea, il fondatore di una delle tante sette predicanti un messaggio apocalittico nell’ottica dell’aristocrazia sinedrile, il Messia per molti Giudei, Dio incarnato giunto subito prima del giudizio universale per le prime generazioni cristiane. Ma i redattori dei Vangeli canonici, che vanno sotto i nomi dei tre sinottici Marco, Matteo e Luca, e sotto quello di Giovanni, come per altro i redattori di quelli apocrifi, non avevano alcuna mentalità né finalità storica. Pretendere di conoscere da loro eventi contemporanei, come si potrebbe fare con Sallustio o con Tacito, sarebbe chiedere ad un cieco di leggere. Come gli annalisti avevano escogitato una ricostruzione “logica” della storia arcaica di Roma, per colmare il vuoto delle loro conoscenze e la scarsità d’informazioni su quel periodo, così i redattori dei Vangeli non ebbero problemi a soddisfare con la fantasia l’esigenza di risposte delle comunità cristiane primitive, che da loro se le attendevano. La redazione dei Vangeli risponde dunque a finalità non storiche, ma kérygmatiche e catechetiche, cioè di annunzio, propaganda e insegnamento della dottrina, che hanno spesso determinato l’invenzione di sana pianta di episodi della vita e della predicazione di Gesù, o la modifica, da parte degli evangelisti, della tradizione orale (lóghia, parabole) ancora viva al loro tempo, quante volte essa contrastava

I Vangeli di Augusto e la via di Cristo nell’impero romano

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con la nuova sensibilità religiosa di un cristianesimo sempre più antitetico alle origini giudaiche, intriso d’odio crescente verso il giudaismo. Dunque la “stratificazione”, cui questi testi sono stati soggetti prima della loro “canonizzazione” da parte della Chiesa, da un lato ne limita il valore per la ricostruzione del quadro storico, dall’altro impone di tenere conto di una visione diacronica della catechesi cristiana dei due primi secoli. Alcune correnti di studi, o “scuole”, fra il XIX ed il XX secolo sono approdate al più completo scetticismo sulla possibilità di ricostruire da testi siffatti la vita e la predicazione di Gesù. La scuola fondata dal Bultmann (1884-1976), uno studioso tedesco di confessione luterana, detta “Storia delle Forme” (Formgeschichte) è riuscita ad accertare che, prima della più antica redazione scritta dei Vangeli, quella cosiddetta marciana, esistevano lóghia e parabole oggetto di predicazione orale, la cui formazione e trasmissione è in parte indagabile. Questo più antico materiale presenta tuttavia scarsissima credibilità e dimostra, pur dopo la revisione delle posizioni di più spinto scetticismo del Bultmann da parte della sua stessa scuola, l’enorme difficoltà di una ricostruzionestorica della figura di Gesù. Se esponenti delle confessioni luterana e anglicana hanno raggiunto alcuni risultati, che sono oggi a fondamento della critica razionalistica, la critica cattolica non è riuscita a svincolarsi mai del tutto da pregiudizi confessionali ed è stata dominata non tanto dallo sforzo di ricercare obiettivamente i limiti di ricostruibilità storica, quanto dal tentativo di recuperare all’attendibilità quanto più possibile della tradizione evangelica 1. Tuttavia, nei tempi più recenti, gli sforzi della storiografia cattolica di dimostrare la veridicità storica dei Vangeli sono stati condotti con crescente serietà e rigore, ma il raggiungimento del risultato propostosi comporterebbe la rinuncia ai fondamenti della critica storica, filologica e letteraria, sulla quale si basa, da mezzo millennio, la conoscenza che l’uomo moderno ha del proprio passato. La necessità di evitare tale rinuncia fa anche sì che in questa sede non vengano neanche prese in considerazione tutte quelle interpretazioni “attualizzanti” dei Vangeli, dettate da esigenze teologiche e pastorali del mondo cristiano contemporaneo di adeguare i contenuti morali di testi concepiti due millenni or sono ad un’etica moderna che li ha, il più delle volte, superati. Questi tentativi, benché abbiano conseguito l’effetto positivo di adeguare il cristianesimo all’evoluzione delle società moderne, ciò che non è finora accaduto – notoriamente – in egual misura per l’islam, sono però, sul piano critico, da rigettare decisamente come antistorici e mistificanti. In certo senso può dirsi che i Vangeli sono assimilabili, quanto a possibilità di enuclearne contenuti storici, a fonti come i poemi omerici. La realtà dell’evento è trasfigurata o amplificata a tal punto da renderne sempre problematica la conoscenza, anche quando soccorrano dati archeologici o epigrafici forniti dalla moderna ricerca scientifica. Beninteso, gli evangelisti non ebbero mai la coscienza del falso 1 Per ovvie ragioni di mantenimento della fede di massa e del potere che ne deriva all’isti-tuzione sotto l’aspetto politico, imprenditoriale, finanziario e sociale.

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storico, come non l’ebbero gli aedi dei poemi omerici, semplicemente perché essi non furono mai provvisti di quella che noi definiamo mentalità storica. Malgrado il Prologo del Vangelo di Luca dichiari l’adesione al metodo tucidideo dell’indagine storiografica, gli evangelisti supplirono all’ignoranza dei fatti con quella che credevano ispirazione divina. La dichiarazione lucana di adesione al metodo storico è volta soltanto a convincere il pubblico pagano colto ed a far fronte alle critiche d’insensatezza, che il comune buon senso faceva muovere ai creduloni cristiani, che, aspettando nel loro tempo l’imminente fine del mondo, apparivano preda di esaltazione se non di fanatismo. L’unica cosa in cui possiamo dar credito a Luca nella sua dichiarazione metodologica “tucididea” è nel fatto che anche lui ha per lo più inventato i discorsi di Gesù, come Tucidide aveva inventato quelli di molti dei suoi personaggi: ma Tucidide lo dichiara apertamente con un’onestà intellettuale non condivisa dagli Evangelisti. La testimonianza dei Vangeli, dunque, mentre riflette la catechesi della Chiesa dei primi due secoli, offre scarso materiale salvabile per la storia della vicenda del Cristo nel primo trentennio dell’era, che da lui prende nome in Europa, nelle Americhe e in Australia.

VII.1.2. La Giudea romana e il processo di Gesù. Il regno ebraico indipendente fondato da Giuda Maccabeo nel 168 a.C. cessò con la conquista romana ad opera di Pompeo Magno, che nel 63 a.C. ne espugnò la capitale, Gerusalemme 2. La Giudea fu sottoposta al governo di un funzionario imperiale di rango equestre 3, investito dello ius gladii, cioè del potere di condannare alla pena capitale i provinciali. Nella tormentata e frammentata realtà politica della Giudea occupata dai Romani nacque e si sviluppò la prima comunità cristiana, in quella Gerusalemme sacra all’ebraismo quale sede del Tempio salomonico di Jahvè e nella quale il Maestro o Rabbi della setta, Gesù detto il Cristo, aveva trovato la morte me2 Pompeo profanò il Tempio di Jahvè fondato da Salomone, dove i Giudei, l’unico popolo dell’epoca a praticare un culto monoteistico, consentivano di accedere soltanto ai circoncisi e, nel sancta sanctorum, soltanto al sommo sacerdote. I Romani, comunque, cercarono e trovarono alleanza nell’aristocrazia locale: solo formalmente indipendente, ma in realtà politicamente vassallo di Roma, si mantenne il regno che fu prima di Antipatro e poi del figlio Erode il Grande (37-4 a.C.), regno che però sopravvisse solo un decennio alla morte di quel Tetrarca. Infatti Archelao, a sua volta figlio di Erode e suo successore, non essendo riuscito a sedare una rivolta, che dovè essere repressa da Quintilio Varo, fu deposto da Augusto nel 6 d.C. e la Giudea, la Samaria e la Idumea, che egli aveva ereditate dal padre, costituirono la provincia romana della Iudaea. 3 Le fonti storiche e letterarie, come anche la letteratura neotestatnentaria, chiamano procurator, o sostantivo greco equivalente, il governatore della Giudea. Invece un’iscrizione mutila trovata nella capitale politica della provincia romana, Cesarea Marittima, dove Ponzio Pilato aveva inaugurato un edificio pubblico dedicato a Tiberio, attribuisce al governatore il titolo di praefectus: […] TI BERIÉVM / E... PONTIVS PILATVS / [... PRAEF]ECTVS IVDA [EAE]. La divergenza si spiega con il mutamento della titolatura ufficiale dei governatori di rango equestre sotto Claudio. L’iscrizione di età tiberiana reca il titolo in uso all’epoca, mentre le fonti posteriori a Claudio, con una tipica “anticipazione storica”, attribuiscono a Pilato la denominazione ufficiale del governatore provinciale, vigente nell’età cui quelle fonti risalgono.

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diante il supplizio tipicamente romano della crocefissione, supplizio ritenuto ignobile non per il dolore, l’effusione di sangue e la morte, che un popolo guerriero come quello romano rispettava come segno di valore, ma per l’ignominia cui il condannato andava incontro, nudo, nell’agonia, con la perdita di urina e di feci. La prima cognizione che l’autorità romana ebbe dell’esistenza di una setta cristiana in seno al giudaismo si verificò quando, in un anno imprecisabile attorno al 30, il praefectus della provincia Iudaea istruì contro Gesù il processo conclusosi con la sua condanna a morte. La predicazione di Gesù era stata limitata soltanto ad Israele, come attesta Matteo (X 5b e XV 24), e le era stato del tutto estraneo quel carattere ecumenico che, dopo l’apostolo Paolo, il quale non aveva neanche conosciuto Gesù, portò il cristianesimo a diffondersi fra i gentili nell’impero romano, determinando non solo la separazione, ma altresì l’antagonismo e l’odio fra la Chiesa cristiana primitiva e l’ebraismo. Se può definirsi l’ambito, più difficile è invece determinare il contenuto della predicazione di Gesù, ciò che maggiormente interesserebbe per comprendere i motivi che ne determinarono la condanna nel tribunale del governatore romano. Per primo il Reimar (1694-1768) e da ultimo il Brandon (1907-1971), con un percorso bisecolare, hanno restituito a quel messaggio una violenta impronta antiromana, che oggi riconosciamo ispirata dall’intransigenza zelota, la fanatica setta di sicari e predicatori in attesa dell’Apocalisse e dall’Avvento del Regno, un’impronta che, a partire da Marco, non a caso i Vangeli si sono sforzati di celare o cancellare. Certo essi riflettono più spesso la posteriore dottrina cristologica della Chiesa primitiva, che l’autentica ed originaria predicazione del Maestro. E tuttavia la Chiesa primitiva fu certamente più ben disposta verso i Romani, di quanto non fosse stata la Chiesa di Gerusalemme, che perì o comunque si estinse a séguito della distruzione della città santa ad opera di Tito nel 70 d.C. Certo è comunque il contenuto apocalittico di quella predicazione, che annunciava l’Avvento del Regno, cioè l’Apocalisse, la fine del mondo, la resurrezione dei morti e quel giudizio universale nel quale i dominatori romani avrebbero trovato la loro eterna condanna. Per le sue conseguenze, un simile annuncio potrebbe essere stato sufficiente a giustificare un interesse dell’autorità romana in sede di processo criminale. Certo tale messaggio apocalittico e di fine imminente dell’Aeternitas di Roma non era stato esclusivo di Gesù, il cui annuncio sotto questo profilo siamo oggi in grado di inquadrare storicamente in un ambiente pullulante di profeti, predicatori ed esaltati di comunità ascetiche ed attendiste 4. Stante il fatto che dal Messia ci si aspettava la liberazione di Israele, il solo annuncio del suo avvento più o meno prossimo poteva costituire una grave turbativa dell’ordine pubblico agli occhi del praefectus come agli occhi delle autorità religiose o tetrarchiche ebree, che avevano accettato come inevitabile necessità il dominio romano ed in qualche modo ne condividevano la gestione. Se poi, come tramandano i Vangeli, il predicatore avesse preteso di essere egli stesso il Messia, vi sarebbe stato un motivo in più per perseguirlo.

4 Come le comunità che facevano capo a Giovanni il Battista e, anteriormente, al Maestro Giusto della setta di Qûmran, o ancora a Giuda il Galileo, fondatore della violenta setta degli zeloti, ed a suo figlio Menahem, e forse al Theudas noto dagli Atti e da Giuseppe, sino all’ultimo, quel Simone bar Koshiba, che fu capo della rivolta stroncata da Adriano. Quasi tutti costoro furono giustiziati, come anche Gesù, dalla stessa autorità romana o dalla precedente autorità occupante, quella dei Seleucidi.

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In questo dunque il capo d’imputazione contestato a Gesù di fronte a Pilato, quello cioè di essersi proclamato Re dei Giudei, secondo la tradizione evangelica, è senz’altro verosimile, anche se non per ciò stesso indiscutibile. Ben diverso è il caso della procedura giudiziaria del cui svolgimento apprendiamo dai Vangeli canonici. Non poche sono le divergenze e le contraddizioni nella narrazione degli stessi sinottici, che quanto meno però concordano nel descrivere due veri e propri processi a carico di Gesù, giudicato prima dal Sinedrio di Gerusalemme, quindi da Pilato, il governatore romano che si trovava in quel periodo nella città santa, essendovisi recato da Cesarea, capitale romana della provincia giudaica. Ma dell’iniziativa sinedrile non v’è traccia nel Vangelo giovanneo, di modo che diversi critici anche per questo ritengono che il processo di fronte al Sinedrio sia un’invenzione sinottica, rispondente al fine di sgravare in qualche modo – poiché era ormai impossibile negarla – la responsabilità dell’autorità romana nella condanna di Gesù. Non c’è dubbio che questa esegesi risponda in generale agli scopi degli evangelisti, palesemente apologetici nei confronti di Ponzio Pilato in un intento, storicamente ben spiegabile, sia di captatio benevolentiae dell’autorità romana, sia di discredito dei supremi organi sacerdotali israeliti. Dopo Paolo Tarso, giudeo di lingua e cultura greca e cittadino romano, che non aveva né conosciuto Gesù né fatto parte del primo collegio apostolico, e con la conversione di molti greci e romani, l’odio contro l’occupante romano della prima comunità apostolica e dello stesso Gesù costituiva un imbarazzo che i cristiani, non più Giudei, dovevano ormai superare. Tanto più che i Greci ed i Romani disprezzavano sufficientemente quei Giudei, dal cui seno i cristiani provenivano, ma con i quali erano entrati ormai in insanabile conflitto. Ciò nonostante, deve tenersi conto del fatto che, dal Mommsen allo Juster, allo Sherwin-White, sembra dimostrata la persistenza della giurisdizione criminale del Sinedrio, durante il periodo procuratorio della provincia, in materia di reati religiosi e con la facoltà di pronunciare sentenze capitali. E tuttavia questo accertamento storico non depone univocamente a favore dell’attendibilità del processo sinedrile descritto dai sinottici, dato che sotto il profilo giuridico non si vede la necessità, da parte del Sinedrio, di ricorrere al tribunale romano per ottenere una condanna a morte, che sarebbe stato in sua facoltà di comminare per il crimine di blasfemia. D’altro canto è anche certo che al praefectus non si chiedeva una ratifica della sentenza sinedrile, e tantomeno la sua esecuzione, ma un nuovo processo con un capo d’imputazione, per così dire, squisitamente politico. Ma ragioni di opportunità politica, piuttosto che giuridiche, potrebbero aver indotto il Sinedrio a deferire Gesù a Pilato: allo stato delle conoscenze e stante la divisione della critica sul problema, dovrà preferirsi ancora una sospensione del giudizio.

Maggiori sono, invece, le certezze sul processo svoltosi di fronte a Pilato ed anzitutto indiscussa è la forma, tipicamente romana, di esecuzione della sentenza capitale mediante crocefissione, mentre ben diversi erano i supplizi cui faceva ricorso la giurisdizione giudaica (lapidazione, strangolamento, decapitazione, rogo). Credibile è inoltre l’accusa di messianicità introdotta (dai sinedriti?) contro Gesù di fronte al praefectus romano, sia essa da intendere come annuncio, ricorrente nell’ambiente giudeo dell’epoca, del prossimo od imminente avvento di un Messia, sia invece da intendere, secondo quanto vorrebbero i Vangeli, quale autoproclamazio-

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ne messianica, tradotta, conformemente ad una prassi ben nota nelle province, nel titulus del crimen: basileus tõn Ioudaion/rex Iudaeorum 5. Certo è che la personalità di Pilato è ben nota da fonti non sospette – Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe – come quella di un governatore non solo deciso, ma irritato dai Giudei e pronto a cogliere ogni occasione per provocarli ed operare repressioni che li piegassero, anche ben oltre gli intendimenti dello stesso Tiberio. I presunti tentennamenti, le incertezze e la volontà di assolvere Gesù da parte di Pilato sono anche per questo ritenuti dalla stragrande maggioranza della dottrina un falso evangelico, finalizzato a liberare l’autorità romana per lo meno dalla responsabilità morale della condanna, facendola ricadere sugli Ebrei. Altro dato abbastanza sicuro è che Gesù non predicò affatto né la pace, né l’amore né tantomeno la Salvezza per tutto il genere umano. Tutti gli elementi dei suoi detti e delle parabole che contrastano con la rappresentazione ecumenica ed irenica che ne fu data da Paolo e poi dai Vangeli, e che portò Paolo al contrasto insanabile con Pietro e con la Chiesa di Gerusalemme, sono ritenuti autentici dalla critica storica, in quanto non vi sarebbe stato alcun interesse a conservarli e tramandarli. Essi erano però troppo impressi nella tradizione orale per poter essere negati. Furono allora arricchiti, spiegati ed interpretati fino a travisarne il significato, addirittura capovolgendolo, come quando Gesù dice: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Matteo, X 34). A questa incancellabile dichiarazione di guerra contro Roma si aggiunge un’esegesi posta in bocca a Gesù stesso, che dichiara che la spada è quella che metterà un congiunto contro l’altro per l’adesione alla fede cristiana. In verità Cristo non esita a paragonare i pagani a cani, precisando che il suo messaggio è per il popolo eletto, e che i pagani potranno pascervisi come ai cani si consente di mangiare i rifiuti del banchetto. Ciò che rientra nella normale concezione del giudaismo dell’epoca, che non rifiutava eventuali adesioni pagane, ma non compiva opera di proselitismo. Al quale, del resto, costituiva insormontabile ostacolo la circoncisione, cui anche Gesù era stato sottoposto, ma che risultava ripugnante ai Greci e ai Romani. Superando l’obbligatorietà di questo precetto, Paolo costituì la premessa necessaria per la diffusione ecumenica del messaggio cristiano, da lui letteralmente “capovolto” rendendolo pacifico, universale e perfino romano, con l’obbligo morale di pagare il tributo a Cesare. Non bisogna essere storici particolarmente specia5 Su altri aspetti particolari della vicenda processuale, come ad esempio il deferimento di Gesù da Pilato ad Erode Antipa, tramandato soltanto da Luca, non è il caso qui di soffermarsi, sia per le contraddizioni dei Vangeli, sia anche per l’ampia discrezionalità riconosciuta all’imperium del governatore dalle forme extra ordinem della cognitio del processo criminale provinciale. Tale discrezionalità può illuminare il caso, intessuto per altro di elementi incredibili, della liberazione di Barabba, in luogo di Gesù, in omaggio alla volontà della folla. Proprio per il rigetto che l’episodio ha incontrato nella maggior parte della critica neotestamentaria, va almeno segnalato un caso che, presentando una qualche analogia con quello di Barabba, lo rende storicamente più plausibile, di quanto non ritenuto finora, nella giurisdizione provinciale: un papiro egizio dell’anno 85 d.C. attesta infatti la facoltà del giudice di «far dono alla folla» dell’imputato «meritevole della frusta».

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lizzati per capire che se Ponzio Pilato avesse fatto crocifiggere l’unico ebreo che avesse detto esser giusto pagare le tasse a Cesare, Tiberio avrebbe fatto crocifiggere Ponzio Pilato. Sul piano più propriamente teologico ed escatologico, l’ispirazione paolina ai modelli del paganesimo diffusi all’epoca è sufficientemente ravvisabile. I Vangeli di Augusto per la Salvezza di tutto il genere umano, sull’orma di Cesare, erano stati annunciati nel 9 a.C. da Paolo Fabio Massimo. La nascita di Augusto era stata “profetizzata” da Virgilio come quella del divino fanciullo che avrebbe portato la felicità e la prosperità dell’età dell’oro nel mondo divenuto un paradiso terrestre. Il concepimento divino, da una donna o da una vergine è ispirato a modelli che coinvolgono Romolo come Alessandro Magno. La Resurrezione esisteva da tempo immemorabile per divinità benefiche che solo temporaneamente la forza del Male aveva fatto precipitare nella morte: da Osiride ad Adone, a Mitra. L’ascensione in Cielo c’era stata per Romolo-Quirino (e ci fu poi per Maometto nel luogo dove sorse per questo la moschea di Omar a Gerusalemme) e in fatto di divinità une e trine, come Iside, Osiride ed Horo, nessuno la sapeva più lunga degli Egiziani. La genialità di S. Paolo – se così può dirsi da un punto di vista del successo – fu quella di stravolgere il messaggio originario di Cristo, per nulla diverso da quello dei predicatori più o meno patrioti, fanatici o esagitati che lo precedettero e lo seguirono, facendone un messaggio rispondente alle attese epocali, che di generazione in generazione solo temporaneamente venivano soddisfatte dopo che Augusto s’era proclamato “Figlio di Dio”. Ma la genialità paolina fu altresì quella di “paganizzare” il messaggio ch’egli venne costruendo sulle parole del Cristo, negando che fosse rivolto ai soli Giudei, e rendendolo invece universale e provvidenziale secondo le concezioni diffuse nelle filosofie ellenistiche, dallo stoicismo sino alla filantropia dello stesso epicureismo. Secondo una concezione tipicamente orientale e giudaica insieme, Paolo affermò che ogni potere temporale proviene da dio (omnis potestas a Deo). Paradossalmente, erano proprio i Romani a sostenere che invece il potere venisse dal popolo. Egli, in fondo leale cittadino dell’impero romano, non fece in tempo a trovare una spiegazione plausibile alla contraddizione fra la sua convinzione e la persecuzione, da parte del potere romano, di quelli che credevano nel suo dio: se lo sarà chiesto quando la scure si abbatté sul suo collo nel 64, mentre i suoi correligionari venivano accusati di aver realizzato nell’incendio della tanto vituperata Roma l’Apocalisse che di lì a poco sarebbe stata ascritta alla penna di Giovanni. Gli autori dei Vangeli, seguendo la catechesi paolina, si fecero anche carico di “ricalcare” le convinzioni più popolari dell’escatologia pagana: così la cometa che il 23 settembre del 44 a.C. aveva annunciato l’Avvento del “Figlio di Dio” Ottaviano nella sua 19ª ricorrenza natale, divenne la cometa che annunciava la nascita e l’Avvento di Gesù. Lo stesso giorno natale, il 25 dicembre, del dio Mitra, il più temibile concorrente di Gesù per i contenuti etici e mistici della sua religione e la sua popolarità e universale diffusione nel tardo impero, fu usurpato dai cristiani e attribuito a Cristo senza alcuno scrupolo.

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VII.1.3. La comunità giudeo-cristiana da Tiberio a Nerone. Il processo e l’esecuzione capitale di Gesù attorno al 33 sembrano essere stati episodi sul momento del tutto privi di fama: ancora diversi decenni dopo, lo storico giudeo-romano Flavio Giuseppe, che pure parla di Giovanni il Battista, mostra scarsa e forse nulla considerazione della setta di Gesù e del suo fondatore 6. Negli anni successivi alla morte di Tiberio, durante il principato di Claudio (4154 d.C.), «un ordine dell’imperatore allontanava da Roma tutti i Giudei» (Atti XVIII 2), dato confermato anche da Svetonio (Claudius XXV 4): Iudaeos impulsore Chresto adsidue tumultuantes Roma expulit, «(Claudio) espulse da Roma i Giudei, che provocavano continuamente tumulti per istigazione di Cresto», e ripreso da fonti più tarde. I due passi si confermano a vicenda, ma mentre gli Atti nascondono, tacendolo, il fatto che i Giudei fossero stati scacciati da Roma a causa dei cristiani, Svetonio lo dichiara invece apertamente, precisando che causa del provvedimento furono i tumulti fomentati da Chrestus in seno alla comunità giudaica. Ed a Svetonio Cristo sembra essere un capobanda vivente: siamo qui, probabilmente, di fronte ad una interpretazione materialistica dell’asserita «presenza» (in senso eucaristico) di Cristo nella prima comunità cristiana di Roma. Ma quel che più interessa rilevare, sotto il profilo giuridico, è che l’editto di espulsione promulgato da Claudio certamente non distingueva i Giudei dai cristiani, in un’epoca in cui essi stessi può dirsi non se ne fossero ancora differenziati. 6 336 Potremmo dunque legittimamente presumere che nulla ne avesse saputo anche Tiberio (1437 d.C.), se un passo dell’Apologeticum di Tertulliano, composto attorno al 197 d.C., della cui storicità tuttavia si è dubitato, non tramandasse che l’imperatore, informato della Rivelazione del Cristo, ne avrebbe proposto al senato il riconoscimento come divinità, volendo sancire la liceità del nomen Christianum. Di fronte al rifiuto del senato, il principe si sarebbe infine limitato ad impedire la persecuzione dei cristiani. Tertullianus, Apologeticum V 2: Tiberius ergo, cuius tempore nomen Christianum in saeculum intravit, adnuntiata sibi ex Syria Palestina quae illic veritatem istius divinitatis revelaverant, detulit ad Senatum cum praerogativa suffragii sui. Senatus, quia non ipse probaverat, respuit. Caesar in sententia permansit, comminatus periculum accusatoribus Christianorum. «Perciò Tiberio, nella cui epoca la comunità cristiana fece il suo ingresso nel mondo, deferì al senato, con la sua preventiva approvazione, la notizia riferitagli dalla Siria Palestina, che vi era stata laggiù la rivelazione della vera natura divina (del Cristo). Il senato, poiché non ne era rimasto convinto, negò la sua approvazione. Cesare rimase fermo nella sua decisione e minacciò di punire coloro che avessero accusato i cristiani». Nel 1946 Volterra per primo, seguito dal Cecchelli, dal Pareti e dalla Sordi, difese la storicità della notizia dell’Apologeticum, ritenendo inimmaginabile, da parte di un autore della fine del II secolo, che il senato potesse opporsi alla volontà del principe. Il Volterra osservava anche l’accortezza politica della decisione di Tiberio di riconoscere un dio dei Giudei che, per la prima volta, avesse un volto e si prestasse ad una rappresentazione iconografica come gli dei pagani. L’esegesi del Volterra può, sotto questo profilo, mantenersi anche se si accolga l’opinione, indubbiamente convincente, della Sordi, che nella proposta di Tiberio al senato ha scorto l’intenzione non di accogliere Cristo nel pantheon romano – cosa che riuscirebbe alquanto incredibile – bensì di riconoscerlo quale legittima divinità di una parte della nazione giudaica, ponendo un divieto alla persecuzione dei suoi seguaci promossa dal Sinedrio, in un periodo in cui il cristianesimo altro non era ancora che una setta del tutto interna al giudaismo. La Sordi fornisce una interpretazione storicamente coerente del passo in esame, anche se permane irrisolto il problema della fonte di Terlulliano, ritenuta dal Ciaceri posteriore al 70, per il nome di Siria Palestina dato alla provincia romana denominata Giudea in età tìberiana.

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Già molto diversa è la situazione quando, nel 64, Nerone rivolge ai cristiani l’accusa di avere provocato l’incendio di Roma, distinguendoli nettamente, sotto il profilo della responsabilità e dell’identità associativa e, per così dire, confessionale, dalla comunità giudaica della capitale. Ma la persecuzione neroniana, cruenta, al contrario di quella di Claudio, non sembra fondarsi su un editto, per quanto ne sappiamo da Tacito 7 e da altri più tardi autori, e men che mai su un editto che perseguisse i cristiani in quanto tali. Rilevante è il valore storico del passo di Tacito, quale testimonianza della diffusione, sia pure relativa, del Cristianesimo ad un trentennio circa dalla crocefissione di Cristo, ma anche quale testimonianza sia dell’ostilità popolare alla nuova religione, sia del giudizio di exitiabilis superstitio, che essa suscitava fra gli esponenti più elevati dell’uterque ordo. Appare sintomatico che, a seguito delle indicazioni dei primi cristiani che avevano confessato (resta ambiguo in Tacito se il crimine di incendio o la loro fede), ne furono arrestati altri non perché segnalati come incendiari, ma come cristiani. È evidentemente nella dottrina da essi professata che l’autorità romana prima, Tacito poi, ravvisavano quell’odio del genere umano, che si riteneva loro tratto tipico. In effetti esso, in ispecie nel momento dell’incendio di Roma, doveva trovare oggettivo riscontro per gli inquirenti non solo nell’attesa apocalittica, da parte della primitiva comunità cristiana, dell’imminente Avvento del Regno, ma anche nell’acceso desiderio di questo evento, che avrebbe segnato, fra l’altro, il momento del giudizio inappellabile contro i pagani e la civiltà urbana che essi esprimevano, la civitas diaboli, come più tardi l’avrebbe definita Agostino. Ormai chiaramente distinti dai Giudei, i cristiani non sono considerati da Tacito professanti una religio ma una superstitio, sul cui contenuto lo Storico nulla ci dice, probabilmente non perché non ne fosse al corrente, ma perché, come il suo amico Plinio il Giovane, non doveva ritenerlo degno in alcun modo di nota, e men che mai di considerazione storica. Ed è appunto a Plinio che risale la successiva e per noi più importante notizia sui rapporti fra l’autorità romana ed i cristiani, dato che a ben poco si riduce la parte che potrebbe ritenersi autentica del cosiddetto testimonium Flavianum, del passo cioè, quanto meno parzialmente interpolato, che parla dei cristiani nelle Antichità Giudaiche (XVIII 3.3) di Flavio Giuseppe.

7 Tacitus, Annales XV 44.2 ss. Ma non con mezzi umani, non con elargizioni del principe o con sacrifici espiatori agli dei veniva meno l’infamante convinzione che l’incendio fosse stato ordinato. Pertanto Nerone, per porre fine a questa voce popolare, cercò colpevoli e punì con raffinate torture coloro che, odiati per le loro scelleratezze, il popolo chiamava Crestiani. La loro setta ha avuto nome ed origine da Cristo che, durante l’impero di Tiberio, fu condannato e messo a morte dal procuratore Ponzio Pilato. Repressa per il momento, quella letale superstizione dilagava nuovamente, non soltanto attraverso la Giudea, che aveva covato quel male, ma anche per l’Urbe, dove tutto quello che ovunque v’è di atroce e di vergognoso confluisce e trova seguaci. Furono dunque arrestati dapprima coloro che confessavano, quindi su loro segnalazione un grande numero di persone fu ritenuto responsabile non tanto del crimine di incendio, quanto di odio del genere umano. Ed a coloro che venivano messi a morte fu aggiunto lo scherno, sicché, coperti da pelli di belve, perivano dilaniati dai cani, o crocifissi, o dati alle fiamme perché, quando veniva meno la luce diurna, bruciassero come le torce che illuminano la notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini per questo spettacolo ed allestiva giochi circensi confuso fra la plebe in abito di auriga o ritto su un cocchio. Per questo, nonostante fossero criminali meritevoli di punizioni esemplari, destavano compassione, perché apparivano sottoposti al supplizio non per il bene pubblico, ma per soddisfare l’efferatezza di uno solo.

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VII.1.4. I processi contra Christianos e la coerenza giuridica di Traiano. Nel 112 d.C. Caio Plinio Secondo, legatus Augusti pro praetore Bithyniae et Ponti, pose a Traiano alcune domande sui problemi procedurali che egli si trovava ad affrontare – come afferma – per la prima volta nell’istruire i processi contro i cristiani. La celeberrima lettera ed il rescriptum imperiale ci sono stati conservati nell’epistolario pliniano e, coinvolgendo specialisti di diverse discipline, hanno suscitato in età moderna una sterminata letteratura sul tema. Tuttavia la prima valutazione critica della risposta del princeps al suo governatore risale già al 197 circa, quando Tertulliano, nell’Apologeticum (II 7), rimprovera a Traiano incoerenza logica e giuridica. Leggiamo anzitutto l’epistola pliniana (X 96) ed il relativo rescritto imperiale (X 97). Plin., Epistulae X 96-97: Gaio Plinio all’imperatore Traiano: salute. Mi è consueto, mio signore, sottoporti tutti quei casi, nei quali mi trovo in dubbio. Chi infatti potrebbe meglio sorreggermi nelle mie esitazioni o darmi istruzioni nella mia ignoranza? Non ho mai assistito a processi contro i cristiani: pertanto non so che cosa e sino a qual punto si punisca di solito o si inquisisca. È stato per me non mediocre problema se debba farsi una qualche distinzione di età, o se debba in qualche modo differenziarsi il trattamento dei più giovani da quello dei più anziani, se debba concedersi il perdono a chi dimostri pentimento, o se a colui, che risulti provato essere stato cristiano, non giovi l’aver cessato di esserlo. Si dovrà punire l’appartenenza in sé, anche se non abbia comportato delitti, oppure i delitti connessi all’esser cristiano? Frattanto ho proceduto in tal modo nei confronti di quelli che erano a me deferiti come cristiani: li ho interrogati personalmente se fossero cristiani. Ho interrogato una seconda ed una terza volta coloro che lo hanno confessato, minacciandoli della pena di morte. Quelli che persistevano ho ordinato che fossero condotti al supplizio. Non ho infatti dubitato, qualunque cosa fosse il contenuto della loro confessione di esser cristiani, di dover punire decisamente la caparbietà e l’inflessibile ostinazione. Vi sono stati altri, affetti da simile pazzia, dei quali, poiché erano cittadini romani, ho annotato i nomi per inviarli a Roma. Non molto dopo, proprio mentre erano in corso le istruttorie, come spesso avviene, diffondendosi il crimine, si sono verificati diversi casi. Fu presentata una lista anonima contenente i nomi di molte persone, che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, invocando, su mio suggerimento, gli dei e rivolgendo suppliche con incenso e vino alla tua immagine, che a questo scopo avevo ordinato fosse portata insieme alle statue delle divinità, ed inoltre maledicendo Cristo, comportamenti di cui neanche uno si potrebbe imporre, secondo quel che dicono, a coloro che sono veramente cristiani. Pertanto ho ritenuto di doverli mandare liberi. Altri, indicati per nome da un accusatore, dichiararono sì di esser cristiani, ma lo negarono subito dopo, precisando che lo erano stati un tempo, ma che ormai non lo erano più, chi da più di tre anni, chi da diversi anni, e qualcuno perfino da più di venti. Tutti hanno adorato sia la tua immagine sia le statue degli dei ed hanno maledetto Cristo. Essi però sostenevano di non aver fatto nulla di male o di errato, poiché si erano limitati a riunirsi periodicamente in un giorno stabilito, prima che dell’alba,

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ed a cantare alternatamente un inno a Cristo, come se fosse un dio. E affermavano che si obbligavano con giuramento non a commettere qualche delitto, ma ad astenersi dai furti, dai latrocini, dagli adulteri, a non mancare alla parola data, a non negare la restituzione dei debiti scaduti. Ciò fatto, dicevano, era loro costume andarsene e riunirsi nuovamente per prendere insieme un pasto, per nulla speciale tuttavia, ed innocente. Comunque anche questo avevano cessato di farlo dopo il mio editto, con il quale avevo vietato, in ottemperanza alle tue istruzioni, la costituzione di associazioni. A maggior ragione ho creduto necessario cercare, attraverso la tortura, di sapere da due ancelle, che chiamavano sacerdotesse, cosa vi fosse di vero. Ma non ho trovato nient’altro che una superstizione perversa e smisurata, e pertanto, sospesi i processi, ricorro al tuo parere. Infatti la cosa mi è sembrata degna di esserti sottoposta, soprattutto per il numero degli accusati. Molte persone, infatti, di ogni età, di ogni ceto sociale e perfino di entrambi i sessi sono chiamate a rispondere dell’accusa, e continueranno ad esserlo in futuro. E non soltanto per le città, ma anche per i villaggi e per le campagne è dilagato il contagio di questa superstizione, alla quale però mi sembra potersi porre un limite e trovare un rimedio. Certo è che un risultato lo si è ottenuto: si è ripreso a frequentare i templi, che erano ormai deserti, a celebrare nuovamente i sacrifici solenni, a lungo interrotti, ed a vendersi ovunque la carne delle vittime, che sinora trovava acquirenti molto raramente. Dal che è facile supporre quale moltitudine di persone potrebbe ravvedersi, se si darà spazio alla possibilità di pentirsi». «Traiano a Plinio salute. Hai seguito la corretta procedura, caro Secondo, nell’istruire i processi di quelli che ti erano stati denunciati come cristiani. Non si può infatti stabilire un criterio universalmente valido, fondato su una precisa procedura formale. Non vanno ricercati: se siano deferiti al tribunale e ne sia provata la reità, vanno puniti, con la riserva, tuttavia, che chi abbia negato di esser cristiano e l’abbia palesemente dimostrato, supplicando cioè i nostri dei, ottenga il perdono per il suo pentimento, quali che in passato siano stati i sospetti nei suoi confronti. Ma la presentazione di scritti anonimi non dovrà dar luogo ad alcuna incriminazione. Sarebbe infatti di pessimo esempio e contrario ai principi di governo della nostra Era» 8.

Il principe risponde dunque approvando l’azione di Plinio, diversificata secondo la specificità di ciascun caso denunciato, ma evita «di prendere in considerazione la separazione, proposta da Plinio, tra il nome di cristiano e i crimini che, nell’opinione popolare, andavano associati a esso» 9. Tuttavia tale silenzio di Traiano non 8

TRAIANVS PLINIO. 1. Actum, quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat, constitui potest. Conquirendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt; ita tamen, ut, qui negaverit se Christianum esse idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis nostris, quamvis suspectum in praeteritum, veniam ex paenitentia impetret. 2. Sine auctore vero propositi libelli nullo crimine locum habere debent. Nam et pessimi exempli nec nostri saeculi est. 9 A. LOISY, Le origini del cristianesimo, Torino 1942, p. 210. Della stessa opinione, fra i contemporanei, G. JOSSA, Il cristianesimo e l’impero, Roma 2000, p. 112 s.

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significa né comporta affatto ‘automaticamente’, come si suole credere, che il nomen Christianum andasse punito di per sé. Ad ogni modo, della risposta traianea è stata universalmente lodata la sapienza e ‘modernità’ giuridica nel rifiuto delle delazioni anonime. Certo una simile valutazione mette in ombra, oltre al fatto che fu proprio questa la causa del fallimento delle persecuzioni contra Christianos, il contesto storico dal quale scaturisce e nel quale si colloca la decisione di Traiano, che intendeva dimostrarsi optimus princeps dopo il tirannico Domiziano. Né tiene conto che la giustizia del principe non risponde al quesito dell’età, alla quale i cristiani possono essere sottoposti a processo e condanna, lasciando dunque alla discrezione del governatore provinciale di conquirere anche bambini o adolescenti, oltreché vecchi e donne. La spiegazione storica dell’indifferenza di Traiano al trattamento di queste categorie di persone nella cognitio mi sembra pienamente spiegabile con l’esegesi di MacMullen e ad essa applicherei come il più appropriato lo stesso commento, che Zanker ha riservato alle scene di violenza da parte dei Romani verso donne e bambini barbari nella colonna Aureliana: «con la loro violenza i soldati corrispondono del tutto alle norme comportamentali che si ritenevano adeguate nei confronti dei nemici dello Stato … si mostra infatti esemplarmente che i rivoltosi … devono pagare il fio e attendersi anche l’annientamento totale» 10. I cristiani appaiono, appunto, anch’essi rivoltosi, benché agli occhi dei Romani a quest’epoca non pericolosi come i barbari: «Quando una comunità di uomini assume un tale atteggiamento nella grande società, quando essa diviene nello Stato una repubblica a sé, fosse anche composta di angeli, è un flagello. Non senza ragione si detestavano quegli uomini apparentemente così miti e caritatevoli. Demolivano davvero l’impero romano. Assorbivano le sue energie; strappavano alle sue funzioni, all’esercito soprattutto, i migliori. Affermare che si è buoni cittadini perché si pagano i tributi, e che si è docili e sottomessi, nulla vale quando, in realtà, non si è che cittadini del cielo e si considera la patria terrestre come una prigione in cui si è incatenati fianco a fianco con i miserabili» 11 I magistrati romani appartenevano ad un ceto sociale educato spesso nel pensiero filosofico, fosse esso neoplatonico, stoico, epicureo, scettico o cinico, un ceto per il quale l’incredulità negli dei della tradizione non poteva creare scandalo in sé né giustificare la pena capitale. Il formalismo della religione romana non richiedeva un’adesione di fede, ma era garanzia di lealtà alla respublica. La libertà di concepire la divinità come meglio si credesse non era intaccata, nell’opinione dei magistrati romani, dall’atto formale, puramente esteriore, del sacrificio, che realizzava ai loro occhi un gestum sollemne dello ius publicum. 10

R. MACMULLEN, Enemies of the Roman Order, Cambridge Mass. 1966, p. 128-162. P. ZANKER, Un’arte per l’impero, Milano 2002, p. 69 s. 11 E. RENAN, Marco Aurelio e la fine del mondo antico, Milano 1955, p. 231 s. G. JOSSA, Il cristianesimo e l’impero romano, Roma 2000, p. 189 nota 47, commenta spietatamente: «Per quanto ‘perfido’ (H.I. MARROU, À Diognéte [Paris 1965], p. 135), il giudizio coglie infatti con grande acutezza il modo in cui doveva essere avvertita in questo periodo la presenza dei cristiani nella società imperiale».

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Lo fa intendere il praeses provinciae negli Acta del martire Giulio, precisando al prevenuto che postea [scil. sacrificium] vero securus vadis in domum tuam … et de cetero nemo tibi erit molestus. Il praeses giunge a puntualizzare giuridicamente all’imputato l’esimente morale, di cui quegli dovrebbe avvalersi di fronte alla propria coscienza di cristiano, della vis maior cui resisti non potest: la vis che il magistrato esercita sulla voluntas di Giulio lo libera da qualsiasi responsabilità morale verso il suo dio e nessuno – una volta compiuta la formalità del sacrificio – gli impedirà di continuare a professare privatamente, nell’inviolabilità del suo domicilio, la religione cristiana 12. Su questo punto non si arrivava ad intesa – gioverà chiarirlo – perché la violazione, attraverso il sacrificio agli dei, del primo precetto della Legge mosaica (“non avrai altro dio furi che me”) comportava, nella convinzione dei cristiani, la condanna oltremondana al fuoco eterno, inteso in senso assai poco metafisico, cioè come una combustione infinita del corpo. Per cui ai cristiani, convinti anche dell’imminenza o della prossimità della parousía, cioè il ritorno di Cristo per il Giudizio Finale, e della resurrezione dei corpi, sembrava preferibile il supplizio terreno di un momento anziché quello dell’eternità. Invece ai magistrati romani, increduli sulla eventualità di sopravvivenza dell’anima o abituati ad averne una concezione meno materiale e ‘fisica’, la scelta del martirio appariva nient’altro che fanatismo e superstitio, una forsennata ostinazione della volontà, per fare eco alle parole di Marco Aurelio nelle sue Riflessioni personali (Eis autòn XI 3). Sarà stato possibile perfino il paradosso che il magistrato fosse non meno scettico di Cicerone sull’esistenza degli dei, mentre l’imputato cristiano credeva magari alla loro esistenza in quanto demoni o parvenze del demonio (Martyrium Carpi I 17). La valutazione negativa di Tertulliano prescinde tuttavia da credenze, convinzioni morali e considerazioni sociali e verte invece su un punto squisitamente tecnico: la pretesa incoerenza logica e giuridica della risposta di Traiano. Tertullianus, Apologeticum II 7-8345: Allora Traiano rispose (a Plinio) che quanti appartenevano alla categoria dei cristiani non dovevano ricercarsi ma se venivano portati in tribunale, bisognava punirli. Che sentenza irrimediabilmente incoerente! Nega che li si debba ricercare, perché innocenti, ed ordina di punirli come malfattori. (È una sentenza che) risparmia e infierisce, (che) si astiene e castiga. Una tal modo di pensare è un bell’inganno: se (quella sentenza) condanna, perché non ricerca? Se non ricerca, perché non assolve? Per ricercare i briganti si stabiliscono presidi militari in tutte le province; contro i rei di attentato alla sicurezza dello Stato ogni uomo è soldato come contro nemici pubblici: si estende la ricerca anche ai complici e perfino a coloro che n’erano soltanto informati 13. 12

Di tale atteggiamento ‘liberale’, per il II secolo, abbiamo, a ben vedere, testimonianza e in certo senso riconoscimento anche negli stessi cristiani. Tertulliano (Apologeticum XXVII 2) infatti ammette che basterebbe loro ottemperare ai sacrifici per potersene andare liberi, come ripete anche Minucio Felice (Octavius XXVIII). 13 345 Tunc Traianus rescripsit, hoc genus inquirendos quidem non esse, oblatos vero puniri oportere. 8. O sententiam necessitate confusam! Negat inquirendos ut innocentes et mandate punien-

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Il ragionamento di Tertulliano sembra, a prima vista, assolutamente convincente. Se Traiano condanna i cristiani, evidentemente – questa la logica sottesa alla forma retorica – li considera criminali. Ma allora non si comprende perché vieti di ricercarli, dato che i criminali andrebbero ricercati per iniziativa dello Stato (inquisitio o conquisitio). Ragionando al contrario, se non li ricerca, evidentemente li considera innocenti, e dunque non si vede perché non li assolva. Il confronto fra il rescriptum e la sua critica comporta preliminarmente che si riconosca il fondamento giuridico della perseguibilità del cristianesimo all’epoca, problema anch’esso dibattutissimo, che cercherò di sintetizzare aggiungendovi alcune considerazioni. Credo siano da scartare le dottrine che ravvisavano la punibilità dei cristiani in leggi penali determinate, come quelle che perseguivano il sacrilegium, l’incestus o l’infanticidium, accuse popolari che né l’epistola pliniana, né gli Acta proconsolari dei martiri attestano essere state mai accolte dai magistrati o dai funzionari imperiali, e che per altro non potrebbero dar luogo al perdono che Traiano accorda in caso di pentimento. Del resto i riferimenti di Tertulliano (Ad nationes I 7) ad un institutum Neronianum e ad altre supposte leggi contro i cristiani non trovano alcun confronto né in Plinio, né in altre fonti anteriori a Tertulliano stesso e sono oggi ritenuti inattendibili. Resta il crimen maiestatis. Acutamente il Vidman lo ha escluso con l’argomento che proprio Traiano rispose a Plinio in un’altra epistola (X 82) che non intendeva accogliere le accuse di lesa maestà. E difatti Plinio non invoca la maiestas, ma punisce i cristiani per la loro pertinacia ed inflexibilis obstinatio. Si è detto che queste non sono reati in sé, ma non v’è dubbio dal contesto che esse vanno rapportate al rifiuto di sacrificare: dunque perseveranza ed inflessibile ostinazione nel rifiutare il sacrificio. È chiaro allora non solo che Plinio non poteva fare riferimento a nessuna norma che prevedesse espressamente e specificamente la perseguibilità dei cristiani, ma anche, dalla risposta del principe, che nemmeno s’era consolidata una istruzione processuale tipica, ritenuta del resto inopportuna dallo stesso Traiano in rapporto alle connotazioni strettamente individuali di ciascun caso giudiziario. È invece evidente, sia nel comportamento di Plinio, sia nelle istruzioni traianee, l’ampia discrezionalità dei legittimi poteri di coërcitio nella giurisdizione criminale, derivanti al governatore dal suo imperium. La migliore conferma a questa spiegazione, proposta per primo dal Mommsen, mi sembra venire dalla consapevolezza che di ciò – a ben vedere – dimostrano gli stessi cristiani quando affermano di subire la condanna non legis, sed iudicis voluntate (Acta Acaci III). Certo essi ritengono arbitraria questa iudicis voluntas, mentre sembrano voler far credere che non riterrebbero tale una lex, se vi fosse per il loro caso: ma, pur riconoscendo che i cristiani ponevano una nuova esigenza di limitazione della discrezionalità dei governatori, è storicamente e giuridicamente insostenibile che questa voluntas fosse arbitraria e illegittima, anziché discrezionale e legittima. Dodos ut nocentes. Parcit et saevit, dissimulat et animadvertit. Quid temetipsam censura circumvenis? Si damnas, cur non et inquiris? Si non inquiris, cur non et absolvis? Latronibus vestigandis per universas provincias militaris statio sortitur; in reos maiestatis publicos hostes omnis homo miles est: ad socios, ad conscios usque inquisitio extenditur.

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ve può apparire che tale volontà sconfinasse nell’arbitrio, innovando la tradizione e la prassi nella procedura criminale romana, è se mai nell’uso della tortura al fine di ottenere non la confessione del crimen – ciò che sarebbe stato legale – ma l’abiura di un’opinione. Non sembri questa una considerazione astorica o addirittura antistorica, giacché Minucio Felice (Octavius XXVIII) riflette l’opinione diffusa (fra i cristiani), contraria non alla tortura come mezzo per estorcere la verità, ma alla tortura come mezzo per costringere alla menzogna, cioè il negare di esser cristiano quando lo si era: questo sovvertire la regolare procedura della cognitio, non la tortura in sé, è considerato dai cristiani illegale e arbitrario. Ma per noi anche questa accusa di sovvertire le finalità processuali della tortura deve tener conto della finalità ‘pratica’ di ottenere un preciso comportamento: la bestemmia a Cristo, il sacrificio agli dei. Anche la tortura va dunque rapportata al punto focale della visione giuridica. Il punto focale mi sembra risiedere nella distinzione fra l’istruzione processuale, che il solo appartenere al nomen Christianum legittima in presenza di una delatio perfino anonima (fino al rescriptum traianeo), o di un’iniziativa stessa del magistrato (inquisitio) – ma dopo Traiano solo in presenza di accusatio – e la conseguente poena capitis. Quest’ultima, invece, non è affatto legittimata dalla pura e semplice appartenenza al nomen Christianum. Quanti l’hanno creduto confondono due piani e momenti diversi del processo: la sua instaurazione con l’accusatio e la sua conclusione con la pronuncia della sententia. Che questa confusione sia nell’apologetica cristiana non sorprende, date le sue finalità: si tratta – non v’è bisogno di dirlo – di una posizione di parte, strumentale alla dimostrazione della illegittimità delle condanne e finalizzata al proscioglimento dei cristiani. Noi però non possiamo esimerci dal constatare che non l’appartenere alla confessione cristiana, ma il rifiuto di compiere i sacrifici agli dei legittima la sentenza capitale. È stato giustamente osservato che il rescritto adrianeo al proconsole d’Asia Minucio Fundano del 124, affermando che egli debba prendere i provvedimenti opportuni solo si quis … accusat et demonstrat [Christianos] aliquid contra leges fecisse, distingue «fra il semplice nomen (non punibile) e i flagitia (punibili)». Errata è però la conclusione che ciò «sembra … smentire proprio quel principio della condannabilità per il solo nomen, che era stato fin qui seguito (anche da Traiano)» 14. In realtà, interpretando correttamente il laconico rescritto traianeo, si vede chiaramente che già in esso l’accusa di appartenenza al nomen Christianum legittima solo la instaurazione del processo, mentre è il comportamento (omissivo ma non per questo giuridicamente irrilevante) di rifiuto dei sacrifici che autorizza la condanna: se Traiano non si è espressamente pronunciato sul dilemma postogli da Plinio, essere i cristiani punibili per la sola appartenenza al nomen o per i flagitia che si diceva comportasse, lo ha fatto perché ha sottinteso che i flagitia, se comprovati, esigessero la pena per i singoli non in quanto cristiani ma in quanto autori di un determinato reato, mentre solo il rifiuto del sacrificio li rendeva punibili (in quanto

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G. JOSSA, Il cristianesimo e l’impero, cit., p. 113.

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cristiani). Adriano non intende niente di diverso da ciò, quando condiziona la punibilità al compimento di atti contra leges. E non v’è dubbio che fra essi vada annoverato sia il rifiuto di sacrificare agli dei romani che quello di aderire ad una religio nova et peregrina, come già Cicerone (De leg. II 8.19), ma anche Ulpiano (Dig. XLVII 22.2.) sostenevano, il primo in tempi certo non sospetti. Appare dunque evidente nel contesto processuale che non il rifiuto in sé degli dei – il rifiuto intellettuale di credere alla loro esistenza – viene perseguito, e tanto meno il rifiuto a ritenere l’imperatore divinità vivente. Traiano anzi tace diplomaticamente su quest’ultimo punto, confermando Plinio nel richiedere il sacrificio agli dei, ma senza far cenno all’imago imperiale, che quegli aveva fatto portare in tribunale. Pur senza rimproverare apertamente il suo legatus, Traiano si guarda bene dall’imporre, sia pure in provincia, il culto della propria imago. Del resto, ancora attorno alla metà del III secolo, nell’età di Decio, gli Acta Maximi fanno esporre al proconsole d’Asia il contenuto dei decreta invictissimorum principum, che ribadiscono lo stesso principio di adorazione degli dei dell’imperatore, cioè dello Stato romano, non del principe stesso: «che tutti i cristiani abbandonino l’inutile superstizione in cui credono e conoscano il vero Principe, da cui tutto dipende, e ne adorino gli dei» (ut omnes Cristiani, relicta superflua superstitione, cognoscant verum principem, cui omnia subiacent, et eius deos adorent). Infine è il rifiuto di adorare gli dei, cioè di sacrificare, che giustifica la pena: il culto non è un comportamento intimo, ma nient’altro che un atto pubblico. Pertanto è il crimen lesae Romanae religionis, come precisamente lo chiama Tertulliano (Apologeticum XXIV 1), il fondamento giuridico della perseguibilità dei cristiani, ma nel senso formale ed oserei dire ‘gestuale’, che intendevano i magistrati nel pretendere il sacrificio, non avendo il politeismo pagano quegli sciagurati contenuti dogmatici propri delle religioni monoteiste e lasciando, in merito alla esistenza e natura della divinità, una libertà di opinione del tutto estranea alla pretesa giudaica e cristiana (e più tardi anche islamica) di possedere, per indiscutibile rivelazione, l’unica Verità. Qui però non interessa lo studio della forma mentis pagana e cristiana nei primi due o tre secoli, ma il problema della coerenza giuridica del rescritto di traianeo. Benché esso non sia ovviamente avulso dal sistema di valori condiviso dalla società pagana globalmente intesa, e dunque dal modo di pensare diffuso, ci si aspetta da un principe quale Traiano una razionalità ed una coerenza logica del provvedimento, che risponda ai canoni del pensiero giuridico, mentre – proprio per l’asserita mancanza di tali requisiti – è soggetto, già da parte di Tertulliano, ad una contestazione, la quale ha finito con l’essere pedissequamente seguita dai moderni 15. Valga 15

Già Gibbon, nella seconda metà del Settecento, pur ribaltando il giudizio morale su Traiano formulato da Tertulliano, con lui conveniva sul piano della valutazione tecnico-giuridica, scrivendo di una ‘incoerenza molto umana’ del principe. In tempi più recenti, nella prima metà del Novecento, anche uno storico quale Alfred Loisy, che promosse una vera “rivoluzione critico-storiografica” contro il conformismo della tradizione cattolica, pur non citando Tertulliano, ha scritto che Traiano «non si avvedeva … che, prosciogliendo gli apostati, si contraddiceva o assolveva dei criminali. … Marco

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per tutti la sintesi dello Ensslin: «In realtà lo Stato romano non credeva più che i cristiani costituissero un pericolo per la società, anche se la repressione degli appartenenti a quella setta poteva a volte rappresentare un utile sfogo del malcontento popolare». Le interpretazioni tradizionali, ormai divenute convenzionali, percepiscono solo le motivazioni sociali e politiche del provvedimento traianeo. Le carenze concettuali di tali interpretazioni sono profonde: esse non riconoscono la natura squisitamente costituzionale e giurisprudenziale del rescriptum nel sistema del diritto pubblico romano né percepiscono la straordinaria sensibilità giuridica della risposta di Traiano, che pertanto si rappresentano come prammatica, più o meno politicamente opportuna, ma inspiegabile sotto l’aspetto della logica e del diritto. La dottrina moderna si sarebbe dovuta invece seriamente interrogare se sia così facile e scontato che un imperatore romano, circondato da prudentes e certo non digiuno di conoscenze tecniche nel diritto pubblico, come l’epistolario pliniano dimostra, abbia potuto prescindere grossolanamente da principi di logica e di coerenza giuridica, quasi che l’obiettivo politico fosse conseguibile solo contro e non attraverso di essi. Il problema della coerenza giuridica del rescritto traianeo è un problema di ricerca storica, non di giudizio morale: esso va informato pertanto non certo ai criteri della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, ma alla situazione del diritto romano e della società dell’epoca, l’uno e l’altra soggetti nel II secolo ai mutamenti lentamente indotti anche dal cristianesimo. In quest’ottica il crimen di cristianesimo va considerato un reato di opinione, Aurelio ha mantenuto in vigore, per ragioni politiche, la giurisprudenza enunciata nel rescritto di Traiano, che l’aveva sanzionata per la stessa ragione. … Un’alta ragione, che si è dimostrata troppo angusta e imprevidente, imprigionata in quello che era il senso comune della gente colta di quell’epoca». Sulla stessa linea, una trentina d’anni dopo, Panfilo Gentile, ritenne «dal punto di vista logico, la critica di Tertulliano ineccepibile» e aggiunse che però «il rescritto di Traiano non va considerato alla stregua di una astratta logica giuridica. Esso è un atto politico. … E sotto questo profilo il rescritto non è colpito dalla logica di Tertulliano, ma appare saggio e giustificato. Traiano non riteneva che valesse la pena di affrontare direttamente il movimento cristiano». La Sordi ha espresso un giudizio di ambiguità ed evasività del rescritto, mentre il Trifoglio ha sottolineato l’irrazionalità del ‘compromesso’ nel tentativo di salvare la sostanza dei principi giuridici e di evitare sanguinose persecuzioni. Anche Siniscalco condivide «l’incongruenza del rescritto imperiale» e la sua presunta «contrarietà ai principi del diritto penale romano». Moreschini parla di un evidente assurdo giuridico360 e Teja lo considera un modello di opportunismo, di tatto o di pragmatismo politico, che esclude «una previsión … estrictamente jurídica». Jossa, facendo riferimento alla legittima discrezionalità del governatore provinciale nell’istruire il processo, ne deduce che, alla luce di ciò, «è più facile forse comprendere il senso e la portata dei due famosi rescritti di Traiano e di Adriano sui cristiani», ma conclude infine che essi sono entrambi «contraddittori sul piano giuridico». Non è mancato da ultimo chi ha perfino svalutato la stessa validità di una ricerca giuridica: «Es nuestra opinión que las discusiones se han centrado excesivamente en los aspectos legales de las persecuciones y han desembocado con desmasiada frecuencia en disquisiciones sobre tecnicismos jurídicos enormemente esterilizantes perdendo de vista el contexto político, ideológico y religioso en que se produco la difusión del cristianismo en el Imperio Romano». Questa brevissima rassegna dà l’idea di quanto ripetitiva e monotona sarebbe una recensione della dottrina del XIX e XX secolo sul tema dell’incoerenza di Traiano.

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benché i Romani non abbiano ovviamente mai usato tale terminologia. Essa tuttavia non sembra impropria, tenuto conto che i verbali processuali degli Acta martyrum, definendo bona mens quella pagana, cui i cristiani sono invitati a redire, presuppongono che il cristianesimo sia appunto una mala mens: cioè, in altre parole, una superstitio, una (mala) persuasio (desinite huius esse persuasionis: «cessate dall’essere di questa convinzione» Acta Martyrum Scilit. VII). Per tale sua natura giuridica, il cristianesimo, pur essendo un crimen pubblico e non un delictum privato, è di fatto disciplinato dal principe come un reato perseguibile a querela di parte. Nel crimen di cristianesimo opera quella che noi chiameremmo una condizione oggettiva di procedibilità, anche se la somiglianza nella richiesta iniziativa per la perseguibilità del reato non deve offuscare la diversità di natura giuridica del crimen dal delictum. La perseguibilità ‘a querela di parte’ di un crimen publicum è un’innovazione traianea nella cognitio extra ordinem, ma giustificata da una ratio chiarissima nel rescriptum. Che tale ratio, sorprendentemente, non sia stata scorta dagli studiosi e dai giuristi moderni si spiega con l’influenza ed il condizionamento esercitato dall’autorevolezza del giudizio dell’apologetica e in specie di Tertulliano e dalla sua apparente logicità critica, ma forse si spiega anche con l’appartenenza, per lo meno “antropologica”, dei nostri storici ad una fede o ad un mondo, che da quel cristianesimo perseguito da Traiano è alla fine scaturito. L’equivoco degli esegeti moderni – come si è visto sopra – sembra nascere dalla diffusa convinzione, attinta all’apologetica, che il rescriptum punisca il nomen Christianum in quanto tale, il che sembrerebbe rendere assurdo il proscioglimento in caso di pentimento. Ma in verità la configurazione del crimen come reato di opinione dà una spiegazione giuridicamente del tutto accettabile sotto il profilo logico: se infatti viene meno la convinzione criminale attraverso il pentimento e l’abiura, si estingue ipso facto il reato di opinione e l’imputato può essere prosciolto. Altro problema è che ad una convinzione, sia pure criminale, si possa rinunciare non per libera scelta, ma per costrizione: ma sul punto interagisce la pretesa di un comportamento attivo, il sacrificio agli dei, che è quello infine richiesto dal formalismo giuridico della religione romana. È il rifiuto di questo gestum sollemne che costituisce la condizione soggettiva di punibilità: il compierlo fa invece venir meno la punibilità del reato. Plinio, in verità, non richiede ai cristiani il sacrificio agli dei, ma lo esige come prova da coloro che negano di esserlo. Tuttavia egli precisa pure che non lo chiede perché sa bene che chi è veramente cristiano non lo farebbe mai. Di fatto, anticipa in certo senso la risposta dell’imperatore, quando attraverso il sacrificio dà adito ai pentiti seduta stante di redimersi. Solo il confronto con le successive testimonianze processuali fa capire che Plinio il Giovane punisce non il nomen ipsum di cristiano, ma il fatto che il nomen ipsum comporti la proibizione di sacrificio. Adempiendo al quale nella rigorosa logica di Plinio si cessa d’esser cristiani. Più tardi, invece, si configurò la possibilità di sacrificare e di continuare ad essere cristiani. Alla fine, infatti, capita pure che i magistrati dichiarino, negli atti processuali, di disinteressarsi non solo della convinzione religiosa più intima degli imputati, ma anche della loro eventuale perseve-

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ranza nella pratica privata del culto cristiano, purché adempiano al sacrificio pubblico. Alla luce degli atti processuali successivi all’epistola pliniana, non meno che per la sua stessa testimonianza, è chiaro che Traiano non persegue in realtà il cristianesimo per se stesso, ma per lo scandalo che socialmente suscita. È dunque in tale logica, quella del conformismo di una società che si riconosce in un mos insito nel ius a civitate positum, che bisogna chiedersi quale sia la ratio ed il bene tutelato dal rescriptum: in base alle testimonianze pervenute, tale bene va riconosciuto, come ho detto, nella bona mens dei pagani. Ma la respublica, nel saeculum ‘liberale’ di Traiano, non riconosce nel cristianesimo un fattore criminale tale da rendere necessaria l’iniziativa dello Stato (inquisitio). Quest’ultimo non potrà sottrarsi al suo compito sociale di tutore dei valori morali, del ‘retto modo di pensare’ dei pagani, i quali ne chiedano l’intervento. Tuttavia, Traiano implicitamente, Adriano più tardi espressamente, impongono loro di esporsi personalmente con un’accusatio, che rischia di ritorcersi in una pericolosa controquerela per calumnia da parte dell’accusato. Il rescriptum traianeo limita così il carattere inquisitorio della cognitio extra ordinem, subordinandola ad un’accusa come nella cognitio senatus. Mentre nella cognitio extra ordinem la delatio o denuntiatio del privato sollecitava soltanto l’iniziativa del magistrato o del funzionario senza esporre il delator al rischio della controquerela per calunnia, come invece avveniva nell’ordo iudiciorum, Traiano esclude invece la sufficienza della delatio, alla quale fa riferimento solo in relazione a quanto già avvenuto (qui Christiani ad te delati fuerant): vietando sia la conquisitio per iniziativa del governatore, sia anche le delazioni anonime, egli rende necessaria l’accusatio formale e l’assunzione di eventuale responsabilità dell’accusatore. Questa innovazione nella cognitio extra ordinem avvicina i processi contra Christianos alla cognitio senatus, nella quale era richiesta l’accusa formale con l’assunzione del rischio di una controquerela per calumnia. Chiariti i termini di coerenza del rescriptum nel senso più strettamente giurisprudenziale, resta da indagare introspettivamente la concezione politica e sociale che Traiano s’era formato del cristianesimo, e che sottende alla soluzione giuridica pronunciata. Nonostante la distanza cronologica, mi sembra sintomatico, per comprendere l’atteggiamento mentale insito nel provvedimento traianeo, quanto l’imperatore Giuliano (Ep. 114.438) scrisse il 1 agosto del 362 ai cittadini di Bostra, che cioè i cristiani non andavano odiati, ma commiserati per la sventura di credere nelle assurdità della loro religione, e che il rimedio nei loro confronti risiedeva nell’istruzione e nel ricorso alla ragione. Benché il clima ed il contesto storico fossero certamente mutati nei 250 anni che separano i due documenti, a me sembra che la – pur relativa – ‘clementia’ del rescritto traianeo al legatus Bithyniae et Pontus Plinio Secondo e più tardi anche di quello adrianeo al proconsul Asiae Minicio Fundano, presupponga, nei due príncipi del II secolo, una concezione dei cristiani analoga a quella di Giuliano. Tertulliano, che era per di più avvocato, non si poneva evidentemente un problema di correttezza dell’analisi del rescriptum né in senso giuridico né in senso

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storico, ma di dimostrazione ‘funzionale’ alla difesa dei suoi correligionari nel periodo delle persecuzioni. Noi però dobbiamo riconoscere che, sotto l’aspetto del diritto romano, il rescriptum traianeo non è affatto illogico né contraddittorio. Se mai, retrospettivamente, potremmo concludere che esso fu inadeguato a combattere il fenomeno che intendeva reprimere, costituendo per di più un precedente che indusse anche altri principi, partendo da Adriano, a porre un limite a lungo invalicato alle persecuzioni, rifiutando l’iniziativa pubblica e le delazioni anonime. Ma un tale giudizio può formularsi per l’appunto con il senno di poi. E dobbiamo riconoscere che né Traiano né Adriano potevano esser vati. Il cristianesimo trionfante fece tesoro dell’errore strategico, determinato dal senso del diritto e dallo spirito tollerante dei príncipi ‘illuminati’ del II secolo: guardandosi bene dal ripeterlo, stroncò ed annientò sistematicamente e spietatamente, fino alla distruzione completa, il paganesimo e le eresie; perseguitò gli ebrei, che non riuscì invece a distruggere, per più di 1500 anni – fino a tempi recentissimi – in modi atroci, che è stato facile, dopo la seconda guerra mondiale, occultare ad una opinione pubblica intenzionalmente mantenuta nell’ignoranza e nell’inconsapevolezza. La cifra storica nella differenza fra i processi dei pagani contro i cristiani e le persecuzioni dei cristiani contro gli eretici, poi contro i pagani e gli ebrei (e più tardi i musulmani), è che i magistrati romani consideravano la libertas un valore, e non avevano coscienza di violarla condannando i cristiani, cui chiedevano un gesto pubblico formale: il cristianesimo non era per loro una religio, poiché mancava dei requisiti di etnicità ed antichità, che nella concezione giuridica romana caratterizzavano le religioni dei popoli conquistati; essi la consideravano una superstitio, e perciò ai loro occhi non appariva leso il principio di libertas religionis proprio di un impero politeista e multietnico. I cristiani invece, dopo S. Ambrogio e S. Agostino, considerarono la libertas un disvalore (licentiosa libertas), poiché la libertà di peccare portava alla perdizione, e l’impero cristiano e la sua Chiesa si impegnarono in una legislazione persecutoria che negava la libertà di pensiero e di religione nel nome di Cristo e della sua unica ed incontestabile Verità. La spiegazione del problema della coerenza giuridica di Traiano, che qui ho presentato, fa ovviamente ricorso ad una terminologia in parte moderna ed a categorie del pensiero giuridico modernamente sviluppate, ma che non sono nella sostanza sconosciute al pensiero politico e giuridico antichi. Il rescriptum invece contiene tutto ciò nei termini laconici della più stretta praticità ed operatività, ed appare perciò espressione tipica della scarsa propensione della giurisprudenza romana per l’astrazione e la riflessione teorica. Allorché essa è esercitata invece da Tertulliano, si traduce in una critica che non coglie, forse volutamente, lo spirito, gli intenti e la dimensione storica e giuridica del rescriptum traianeo, ma nello stesso tempo schiude la prospettiva di un superamento della mentalità della civitas antica. Comunque dell’inadeguatezza giuridica di tale critica non può certo farsi rimprovero a Tertulliano, che, nell’età delle persecuzioni, cercava di dimostrarne l’illegittimità nell’ambito del diritto romano. Va però riconosciuto a Traiano il massimo sforzo concepibile nei limiti della

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mentalità antica per attenersi al rispetto della libertas. Il successo “statistico” della persecuzione pliniana, che in Bitinia aveva costretto moltissimi cristiani all’abiura, ha un riscontro, nell’età di s. Agostino, nel successo della persecuzione dei donatisti africani da parte dell’ortodossia cattolica. Ciò dimostra che, se Traiano ed i suoi successori avessero programmato dal principio un coerente e non saltuario progetto di conquisitio dei cristiani in tutto il territorio romano, il cristianesimo non si sarebbe diffuso nell’impero nella dimensione che storicamente fu e forse, come il donatismo, si sarebbe estinto. Poiché il rescriptum traianeo acquistò più tardi valore paradigmatico nelle persecuzioni, del suo successo storico il cristianesimo deve in definitiva ringraziare – paradossalmente – quella “incoerenza giuridica” che Tertulliano rimprovera a Traiano. Certo, nell’ottica del conflitto fra lo Stato pagano ed il cristianesimo, l’incoerenza vi fu, ma fu politica, portando nel lungo periodo al fallimento delle persecuzioni. Fu questo il prezzo della coerenza giuridica con la concezione romana del principato come respublica restituta fondata sul principio di libertas. Ma forse proprio per questo Traiano si colloca, in prospettiva, al limite fra il conformismo della civitas antica e una concezione della libertas religionis, che precorre, sia pure in maniera del tutto embrionale, le idee dell’illuminismo e del liberalismo. In ciò, indubbiamente, risiede l’ambiguità, avvertita da Tertulliano e piegata ai suoi fini apologetici, di questa figura di principe, cui si presentò un fenomeno fino ad allora sconosciuto alla civitas antica e destinato a sconvolgerne le fondamenta. Di questa ambiguità Traiano, l’imperatore “cesareo” per eccellenza, certamente non fu cosciente, ma in essa risiede il fascino storico più chiaroscurale di un imperatore, che volle invece lasciare di sé un’immagine luminosa, quale la Colonna a lui intitolata eterna nel marmo.

VII.1.5. Altre testimonianze processuali. Celso ed il confronto tra paideia classica e dottrina cristiana nel II secolo. Negli Acta martyrum ricorre, ripetendosi con varianti non sostanziali, la confessione di fede e l’atteggiamento “inflessibilmente ostinato” dei cristiani di fronte ai magistrali romani. Si presenta, epurato dalle interpolazioni certe, il testo più antico degli Atti dei martiri scillitani (180 d.C.), che costituisce un tipico protocollo archivistico, in origine stenografato da un notarius durante il dibattimento processuale, quindi conservato nell’archivio giudiziario del proconsole d’Africa in Cartagine. Acta Martyrum I. Martyres Scyllitani: Nell’anno del consolato di Presente, console per la seconda volta, e di Claudiano, il 17 luglio, a Cartagine, il proconsole Saturnino ha fatto tradurre in tribunale, a porte chiuse, Sperato, Narzalo e Cittino, Donata, Seconda e Vestia. Verbale: Procuratore Saturnino: «Potete ottenere il perdono dell’imperatore nostro signore, se tornerete a pensare rettamente». Sperata: «Non abbiamo mai fatto niente di male, non abbiamo compiuto alcuna

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azione ingiusta, non abbiamo mai parlato male di qualcuno, ma, male accolti, abbiamo ringraziato, perché rispettiamo il nostro imperatore». Proc. Saturnino: «Anche noi siamo osservanti della religione. La nostra è una religione semplice: giuriamo sullo spirito protettore dell’imperatore nostro signore e preghiamo per la sua salute, cosa che dovete fare anche voi». Sperata: «Se presterai ascolto senza adirarti, ti rivelo il mistero della semplicità». Saturnino: «Se incominci a parlar male della nostra religione non intendo prestarti ascolto, ma giura piuttosto sullo spirito protettore dell’imperatore nostro signore». Sperata: «Io non riconosco l’impero di questo mondo, ma a maggior ragione servo quel Dio, che nessun uomo ha visto né può vedere con questi occhi. Non ho commesso furti, ma se prendo un prestito, restituisco il danaro, perché conosco il mio signore, re dei re ed imperatore di tutte le genti». Proc. Saturnino agli altri: «Desistete dalla vostra convinzione». Sperata: «Malvagia convinzione è commettere omicidio o prestare falsa testimonianza». Proc. Saturnino: «Non condividete questa pazzia». Cittino: «Noi non temiamo nessun altro, se non Iddio nostro signore, che è nei cieli». Donata: «Onore a Cesare in quanto Cesare, ma timore a Dio». Vestia: «Sono cristiana». Seconda: «Sono convinta di quel che sono». Proc. Saturnino, a Sperato: «Perseveri nel dichiararti cristiano?». Sperato: «Sono cristiano» e tutti sono stati d’accordo con lui. Proc. Saturnino: «Perché non vi prendete un po’ di tempo per decidere?». Sper.: «Non c’è bisogno di decidere su una cosa così giusta». Proc. Saturnino: «Cosa c’è nella cassetta che avete con voi?». Sperata: «Libri e le lettere di Paolo, uomo giusto». Proc. Saturnino: «Avete 30 giorni di tempo e ricordatevene». Sperata per la seconda volta: «Sono cristiano» e tutti sono stati d’accordo con lui. Il proconsole Sarurnino ha letto il decreto dalla tabella cerata: «Sperato, Narzalo, Cittino, Donata, Vesta e Seconda, rei confessi di vivere secondo il costume cristiano, hanno perseverato ostinatamente nella loro convinzione, sebbene fosse stata loro offerta la facoltà di ritornare alla tradizione romana. Se ne ordina la decapitazione». Il proconsole Saturnino ha ordinato che il banditore proclami: «Ho ordinato di condurre al supplizio Sperato, Narzalo, Cittino, Vestia, Donata, Seconda».

Nonostante alcune interpolazioni certe ed il rimaneggiamento di qualche risposta dei martiri, che risulta troppo stereotipata per avere il sapore dell’autenticità, il testo tràdito riflette con sostanziale fedeltà il contenuto e la forma, che alla fine del II secolo dovevano essere divenuti ormai tipici dei processi contro i cristiani. Siamo a 68 anni di distanza dall’epistola di Plinio del 112: diversamente dal legatus di Bitinia, il proconsole d’Africa deve conoscere bene i cristiani per esperienza processuale, ma anche, in qualche modo, nei contenuti della loro professione di fede.

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Dal semplice accenno disperato di voler esporre la propria religione, il governatore capisce subito che l’imputato si appresta a parlar male di quella pagana ed inoltre, assuefatto come dev’essere alla paupertas spiritus dei prevenuti, cerca di convincerli con l’argomento della semplicità dell’atto richiesto, nel quale si esaurisce la religio nostra. In questo documento la condotta morale dei cristiani ha un contenuto molto simile a quello testimoniato dagli apostati di fronte a Plinio. È lo stesso contenuto che, attorno al 150 d.C., Giustino descrive, in termini ovviamente più letterari e “teoretici”, nella sua Apologia (I 14) rivolta all’imperatore Antonino Pio. Ma Giustino appunto è il segno della conquista sociale ed intellettuale del cristianesimo nell’impero: la conversione di quell’autore dal platonismo dimostra che la nuova religione incominciava ad essere in grado di conquistare un certo tipo d’intellettualità pagana, soddisfacendo l’ansia metafisica e la sete di misticismo dell’epoca più di quanto non facessero le scuole filosofiche e le religioni orientali. E ciò grazie al capovolgimento del sistema, attraverso cui il pensiero pagano aveva cercato di attingere alla conoscenza metafisica, non più rimessa dal cristianesimo all’intelligenza umana, ma affidata alla Rivelazione che la divinità avrebbe fatto di se stessa. Questa Rivelazione, che avvicinava il cristianesimo ad alcune religioni misteriosofiche di età imperiale, si sostanziava però nei peculiari contenuti dogmatici dell’escatologia trinitaria, con ciò allontanandosi dal rigoroso monoteismo giudaico, ed in un sorgente culto delle immagini altrettanto estraneo ed aborrito dalla fede israelita (e più tardi dall’islam e dalle confessioni protetsanti di età moderna): tutti caratteri adeguati però, nel lungo periodo, a facilitare la diffusione del cristianesimo fra i gentili politeisti e adoratori di immagini. E tuttavia l’elevarsi del livello intellettuale, sino ad allora a dir poco basso, della cristianità sortì l’effetto di una radicalizzazione del conflitto nel II e nel III secolo, come Tertulliano dimostra. Una intransigenza evangelica porta l’Apologeta al rifiuto di Atene e «delle stupidaggini della filosofia» (De praescriptione hereticorum VII), nelle quali si sostanziava tanta parte della civiltà greco-romana. A chi sosteneva che la filosofia affermasse stupidaggini, non sembrava evidentemente un oltraggio alla ragione e al buon senso comune che Gesù fosse stato generato da dio con una donna (come si credeva di Alessandro Magno), o con una vergine (come lo si voleva di Romolo), e che fosse risorto (come del resto Osiride o Mitra) e fosse asceso in cielo come Quirino. Ai ceti dirigenti dell’impero, educati nella paideia greca e nelle filosofie ellenistiche, il cristianesimo, rudimentale ed incolto già nella lingua dei suoi scritti sacri, non poteva apparire che una superstitio prava et immodica. Al cristianesimo mancavano i due requisiti essenziali, che nel diritto e nella mentalità romana connotavano una religione e la distinguevano dalla superstizione: l’etnicità, cioè l’appartenenza ad un popolo, e l’antichità, per la quale era inconcepibile che una religione fosse nuova o la s’inventasse al momento. Le assurdità del paganesimo non erano certo inferiori a quelle del cristianesimo, ma erano consacrate dall’antichità e dalla tradizione di un popolo, come quello romano, greco o egiziano che fosse. Anche al giudaismo era riconosciuto lo status di religione, visto che gli Ebrei

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costituivano un popolo anche più antico di quello romano: poiché la loro religione era la sola ad essere monoteista, si riconosceva loro il diritto d’esser esentati dal culto degli dei “nazionali” romani. Ma quello ch’era diritto per gli Ebrei, diveniva crimine per i cristiani, i quali non costituivano un popolo e professavano una religione appena inventata. Solo l’antichità ed una inveterata tradizione trasmessa di generazione in generazione poteva rendere credibile l’incredibile: la morte e resurrezione degli dei pagani, o l’assunzione in cielo di Quirino. Che un uomo sia risorto è un’assurdità o una favola che un cristiano dotato di raziocinio può oggi accettare sol perché fa parte da duemila anni della tradizione del gruppo etnico, linguistico, culturale o religioso in cui s’identifica. Ma quello stesso cristiano non sarebbe normalmente disponibile a credere allo stesso modo alla resurrezione di un contemporaneo. Parimenti i pagani potevano considerare accettabile la resurrezione dai morti di antiche divinità, nelle quali il loro popolo credeva da secoli o da millenni, ma non erano disposti a credere la stessa cosa per il “contemporaneo” Cristo, finché almeno, con il trascorrer dei secoli, anche la pretesa della resurrezione di Cristo si perse nelle nebbie del tempo e divenne quindi non meno credibile di quella di Mitra o di Osiride. Per altro il paganesimo non pretendeva nemmeno un’adesione di fede, ma solo l’adempimento formale di un rito. Lo scetticismo sulla tradizione religiosa e perfino sull’esistenza degli dei era serenamente ammesso, purché si compissero i sacrifici. Non la specificità dei contenuti del cristianesimo, ma la sua recente invenzione, ed il non appartenere a nessun antico popolo, impediva di qualificarlo come religione. Per questo né Giustino, né, un po’ più tardi, attorno al 170 d.C., il vescovo di Sardi, Melitone, riusciranno ad accreditare presso i ceti dirigenti pagani, cui si rivolgono nella persona di Antonino Pio o di Marco Aurelio, l’idea che il cristianesimo non sia superstitio ma una forma di pensiero di dignità filosofica. Non molto prima della morte dell’imperatore filosofo (180 d.C.), l’Alethès Logos (Vera Dottrina) del pagano Celso, dimostra che su questo stesso campo di un elevato conflitto intellettuale, i pagani dispongono dei formidabili strumenti della loro cultura storica e filologica: la conoscenza, che essi ora acquistano, della letteratura neotestamentaria, consente loro di esercitare una critica sia delle sacre scritture, nelle quali la Chiesa fonda il kérygma, l’annuncio di una verità religiosa, che s’arroga esserle stata rivelata da Dio, sia delle “pretese filosofiche” del cristianesimo già più colto del II secolo. Celso rifiuta l’interpretazione allegorica dei Vangeli lanciando i suoi strali contro Cristo, ma dimostra così di credere a quelle parole tramandate come se fossero state veramente da lui pronunciate. Molta parte delle parabole, invece, è oggi considerata posteriore aggiunta interpretativa dei Vangeli, che spesso capovolgono in senso filoromano ed irenico il significato originario, certamente antiromano e violento, della predicazione del Cristo. «La strategia ebraica di Celso è portata avanti con gli strumenti della filologia: Cristo non può essere il Messia annunciato dai profeti di Isreale, perché, a una lettura più attenta della Bibbia, non risulta affatto che le profezie si siano avverate nella vita terrena di Gesù; anzi … appare evidente che gli evangelisti hanno forzato il senso dei li-

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bri profetici e hanno adattato maldestramente le profezie agli episodi della vita di Gesù» 16. Per Celso Cristo fu un mago ed un imbroglione ed i suoi seguaci sono ignoranti creduloni, incapaci di comprendere i contenuti filosofici, estranei alla loro semplicità mentale, dell’alethés logos, in cui la cultura greco-romana si sostanzia ed esprime. Né l’ingenua fede, che induce i cristiani ad affrontare il martirio, o il fanatismo religioso, che altre volte li spinge perfino a provocare le autorità romane per ottenerlo, è adatto a conquistare i ceti dirigenti dell’impero educati nella cultura ellenistica: Marco Aurelio, nei “Colloqui con se stesso” (Eis autòn XI 3), scrive che il sapiente si preparerà ad affrontare la morte tanto se creda nell’immortalità dell’anima, quanto se non vi creda. Ma dovrà comunque esservi pronto in modo razionale e assennato, «non come fanno i cristiani con una forsennata ostinazione della volontà». Essi, prosegue l’imperatore, non convincono nessuno con «la teatralità e l’ostentazione» del loro martirio, pose dalle quali il sapiente deve rifuggire, affrontando il mistero della morte «con razionalità congiunta a profonda serietà e riservatezza». Questo passo, infine, spiega esaurientemente come, sotto un principe passato alla storia per la mitezza e l’humanitas del suo governo, le persecuzioni si siano diffuse in diverse province dell’impero.

VII.1.6. Porfirio, le persecuzioni del III secolo e la politica religiosa di Diocleziano. Verso il 268-272 vengono pubblicati i 15 libri Contro i Cristiani (Katà Christianôn) di Porfirio, mistico pagano, letterato e grande critico neotestamentario, discepolo di Plotino e il maggiore esponente del neoplatonismo dopo il maestro: egli demolisce integralmente la credibilità dei Vangeli, attaccandoli sul piano filologico, logico e dell’esegesi biblica e demolisce parimenti il successore di Clemente nella catechesi alessandrina, l’apologeta cristiano Origene, che, attorno al 248, aveva cercato di confutare Celso. «Che gli evangelisti abbiano semplicemente indovinato (katestochásanto) i dettagli nei loro racconti sulla morte di Gesù, vale a dire che essi li abbiano dedotti dai passi dell’Antico Testamento riferendoli a lui, Porfirio lo deduce giustamente dall’isolato racconto di Giovanni, che, in mezzo al silenzio generale dei sinottici, narra come si sia fatto a meno di rompere le ossa a Gesù crocifisso e come gli abbiano aperto il fianco con la lancia: l’evangelista vuol dar credito a queste circostanze richiamandosi all’autopsia, mentre in realtà si tratta dell’applicazione alla persona del Cristo, agnello di Dio, di una prescrizione relativa al trattamento dell’agnello della pasqua ebraica e di un passo dei salmi e dei profeti, cioè di cose che non sono affatto avvenute (perì toû mè óntos)» 17. La critica neo-

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G. GIRGENTI apud G. MUSCOLINO, PORFIRIO. Contro i cristiani. Nella raccolta di Adolf von Harnack con tutti i nuovi frammenti in appendice, Milano 2009, p. 16-17. 17 W. NESTLE, Le principali obiezioni del pensiero antico al cristianesimo, in Storia della religio-

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testamentaria moderna considera gli evangelisti annunciatori del kérygma privi di mentalità storica, con ciò “salvando” la loro buona fede pur senza per questo dar credito al loro racconto; Porfirio, invece, come già Celso, li considera falsari, ingannatori di lettori ingenui, e dunque in mala fede. In verità, privi com’essi erano della mentalità e del senso critico della ricerca storica, deve piuttosto ritenersi che fossero esaltati, i quali si credevano ispirati da Dio nello “scoprire” per rivelazione interiore ciò ch’era loro pura invenzione. Ma proprio a partire dal III secolo, la crisi e le invasioni barbariche, e poi lo sfacelo di un mondo intero nel IV e nel V secolo, si fanno carico di distruggere l’assennatezza e la razionalità del pensiero classico, mutando nel senso del misticismo orientale la lucidità stessa della forma mentis pagana. Si vengono a porre così i presupposti per la diffusione del cristianesimo anche fra i ceti intellettuali, ma di una intellettualità ormai ben diversa da quella dei primi due secoli del principato. La crisi economica e sociale, politica e militare dell’impero, che esplode nel III – IV secolo, favorisce la maturazione di un senso di angoscia esistenziale, non più soltanto individuale ma collettivo ed epocale, che finirà con il determinare un profondo cambiamento del pensiero pagano, il quale in età tardo-antica chiuderà nel neoplatonismo la sua parabola storica. Questo clima spirituale nell’epoca della crisi favorisce il successo del cristianesimo, che nei primi due secoli della sua storia aveva cercato con scarsi risultati di abbattere la barriera intellettuale oppostagli sia dal razionalismo e dal materialismo “scientifici”, fondati sulla physiologhía dell’epicureismo, la conoscenza della fisica cosmica e della natura,, sia dall’alto senso della res publica e della funzione statuale della sua religione ufficiale, proprio dello stoicismo romano nel saeculum aureum degli Antonini. Ora, invece, lo stoicismo del III secolo predicava un ideale ritiro dalla realtà mondana non molto diverso dal messaggio cristiano, e che i giuristi come gli esponenti del governo imperiale stigmatizzavano di asocialità, disprezzo del genere umano e falsa sapienza. Se osservata nel quadro di questa realtà storica, la diffusione “intensiva” del cristianesimo nell’impero nel III secolo non apparirà, com’è sembrato ad alcuni studiosi, «un fatto paradossale» e sarà anzi consequenziale «che la nuova religione sia favorita non più dal prosperare degli scambi o dal fiorire delle città, ma dal contrarsi dei primi e dalle strettezze in cui si trovano le seconde» (Siniscalco). E in quest’ottica si spiega anche la ragione storica del fallimento delle persecuzioni “razionalizzate” dall’iniziativa dello Stato e giuridicamente fondate su costituzioni imperiali, che si susseguono nel III secolo prima forse sotto Settimio Sevesità greca, Firenze 1973, p. 476; cfr. anche G. RINALDI, La Bibbia dei pagani, II, Bologna 1998, p. 400. Nessuno ha mai notato che, data la certezza che questi particolari della passione di Cristo sono certamente falsi, che l’Uomo della Sindone mostri d’aver patito un supplizio quale descritto dai Vangeli dimostra di per sé o che la Sindone è un falso – forse medievale, come sembra accertato dal C14 – nel senso che sia un artefatto, oppure che a qualcuno fu applicato un supplizio quale descritto dai Vangeli per Cristo (ma mai avvenuto con quelle precise e specifiche modalità “costruite” per dimostrare l’avverarsi di presunte profezie o per rispondenza al simbolismo biblico), al fine di “fabbricare” una preziosa reliquia.

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ro (nel 202), poi sotto Massimino il Trace (235-238), quindi sotto Decio (249-251), sotto Valeriano (253-260), e infine sotto Diocleziano (nel 303-304). Plinio, invece, constatava tutto sommato un sostanziale effetto positivo dei processi in Bitinia nel 112, nonostante l’estemporaneità e l’empirismo con cui aveva dovuto affrontare il fenomeno, per lui nuovo, del cristianesimo, le persecuzioni del III secolo non sortiranno l’effetto di stroncare la nuova religione, nonostante il caso dei lapsi: si trattava di quanti avevano ceduto, accettando il paganesimo in varie forme, immolando vittime in sacrificio (sacrificati), bruciando grani d’incenso agli dei (thurificati da thurium), o infine con l’astuzia di farsi rilasciare un falso attestato (libellus) d’aver sacrificato senza averlo fatto (libellatici). La Chiesa aveva tratto grande vantaggio dal principio, sancito nel rescriptum traianeo, del non doversi procedere contro i cristiani in base a denunce anonime: per il denunciante si presentava il pericolo di esporsi ad una controquerela per calunnia, nel caso che il denunciato, per debolezza o per avere cambiato opinione, avesse accettato di sacrificare agli dei in tribunale. La Chiesa del II secolo, col diffondersi delle conversioni, s’era in certo modo rilassata, per ammissione degli stessi autori cristiani, e il pericolo di apostasie o abiure in sede processuale era dunque ben concreto per chi si arrischiasse a sporgere una denuncia di cristianesimo. Ancora la frammentarietà delle persecuzioni e la individuale specificità, per cosi dire, del loro fondamento normativo sono riflesse dalla raccolta di rescripta imperiali inviati ai governatori provinciali, che Domizio Ulpiano pubblicò, in età severiana, nel settimo libro della sua opera de officio proconsulis. È ben vero che i rescritti tendevano ormai ad acquistare in quel tempo valore normativo generale, nel senso della estensibilità analogica – come s’è detto a suo luogo – ma essi erano comunque cosa ben diversa da un editto di validità ed applicazione universale, che prescindesse da quella “querela di parte”, che sola poteva ancora attivare il processo. Tuttavia, di ciò, da Decio in poi, gli imperatori finirono per accorgersi, promulgando costituzioni imperiali, non direttamente pervenuteci, ma ricostruibili nel contenuto, che rimettevano finalmente allo Stato l’iniziativa generale della conquisitio dei cristiani attraverso la prova del sacrificio alle divinità dell’impero. Ma anche in ciò mancò una continuità politica ed ai periodi di intense persecuzioni “programmate” seguirono periodi di pace relativamente lunghi, sino all’ultima grande persecuzione dioclezianea, anch’essa del resto conclusiva di un non breve intervallo di larga ed aperta tolleranza. Il razionalismo nella gestione dello Stato e la coscienza della funzione pubblica nell’amministrazione dell’impero si riassumono per l’ultima volta nel governo dì Diocleziano: la tradizione di pensiero politico, che dall’epicureo Filodemo di Gadara sino allo stoico Marco Aurelio aveva informato i criteri di governo e gli orientamenti ideologici dei príncipi dei primi due secoli, ritorna nell’essenzialità della sua concezione proprio nel dominus Diocleziano Augusto. A suo modo, egli anche è optimus princeps, nella misura in cui la sua autocrazia non è generata da ambizione personale, ma dalla consapevolezza della sua necessità storica alla programmatica restaurazione dell’impero. È in questo quadro che Diocleziano promulga nel 297 una costituzione contro il manicheismo, ribadendo la sacrosanctitas della reli-

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gione tradizionale, preoccupato soprattutto del rifiuto manicheo di prestare servizio militare. La sua “teologia politica” lo porterà, già nel 287, prima della Tetrarchia, a sancire nella stessa titolatura imperiale il carisma divino da sempre riconosciuto al princeps, attribuendo a se stesso – come abbiamo già visto – l’epiclesi di Iovius e all’Augusto Massimiano quella di Herculius. È chiaro che agli occhi di Diocleziano il cristianesimo non poteva che apparire come una forza centrifuga e disgregatrice dell’impero: più che chiedersi quali moventi specifici lo abbiano indotto a dare inizio alle persecuzioni, c’è piuttosto da meravigliarsi che egli abbia atteso il 303 per promulgare il primo editto. L’occasione – forse l’incendio del palazzo imperiale di Nicomedia a torto o a ragione attribuito ai cristiani, o il loro segnarsi con la croce mentre si esercitava publice l’aruspicina al cospetto dell’imperatore – storicamente ha, tutto sommato, un interesse secondario di fronte alla incompatibilità fra l’ultimo grande tentativo di restaurazione della potenza imperiale romana nel quadro della tradizione pagana e la religione che rifiutava il culto degli dei garanti della salus reipublicae, la salvezza dello Stato. Ma la concezione del potere carismatico del dominus di ascendenza divina rispondeva alle attese dei tempi e, nel segno opposto a quello voluto da Diocleziano, nel segno cioè del cristianesimo, avrebbe incontrato, da Costantino in poi, un plurimillenario successo sia in Oriente che in Occidente, iniziando solo nel 1789 la parabola che l’avrebbe condotta all’estinzione.

VII.1.7. L’ideale della libertas religionis nel II-III secolo. Nel saeculum degli Antonini, che aveva visto lo sforzo del cristianesimo di elevarsi intellettualmente e di accreditare di sé un’immagine filosofica di fronte al pensiero pagano, alcuni autori cristiani di estrazione provinciale si mostrano favorevoli all’impero. Cosi Melitone di Sardi, nell’età di Marco Aurelio, osservava che impero e cristianesimo erano accomunati dalla nascita sotto il principato di Augusto, mentre appena più tardi il vescovo di Lione, Ireneo, lodava nella Pax Romana la migliore garanzia della libertà e della sicurezza dei viaggi e degli spostamenti nell’immenso impero, indispensabili alla diffusione del Verbo cristiano. Attorno alla metà del III secolo Origene giungerà infine, in ottica cristiana, alla concezione storica provvidenzialista dell’impero, la cui pace è considerata come voluta da Dio per favorire l’evangelizzazione. Un’ottica che sarà assunta in età costantiniana dal primo storico della Chiesa, il vescovo Eusebio di Cesarea, autore nella sua Historia Ecclesiastica della “cristianizzazione” della visione teleologica della storia e dell’Aeternitas di Roma 18. 18

Ma non tutta la letteratura cristiana seguiva questo orientamento. Ben diverso è infatti il pensiero del vescovo di Roma, Ippolito, che, pur discepolo ideale di Ireneo, matura un pensiero decisamente antiromano. Autore di un’opera «Sull’Anticristo» e di un «Commentario a Daniele», egli concepisce l’Apocalisse come fine dell’impero romano. Dilaniato dall’esplodere delle nazioni (ethne), che forza-

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Che solo una religione universale potesse accomunare la diversità delle nazioni costituenti l’impero romano era opinione anche degli imperatori della dinastia dei Severi. I Severi ebbero coscienza del latente conflitto fra le nazionalità provinciali dell’impero e l’ethnos romano. Il sincretismo religioso, orientato in senso monoteistico, di questa dinastia cercava di trovare in un comune denominatore cultuale una forza centripeta da opporre al pericolo di disgregazione nell’età della crisi. Dalle due lingue ufficiali dell’impero, il latino ed il greco, restavano infatti escluse le masse dei contadini, e in parte le masse di soldati provinciali che costituivano ormai l’esercito romano. La crisi economica portava queste masse a rivendicare la propria libertà e identità nazionale e il pensiero politico di Ippolito e di Bardesane 19 seppe dare forma letteraria millenaristica all’attesa. Ma ciò che non è stato rilevato è che la loro idea di libertà non supera la concezione etnica già propria del sistema di dominio di Roma, che rispettava e tutelava le religioni locali. Ben più “progredita” è la concezione della libertas religionis in Tertulliano, che dichiara l’estraneità della religione all’intransigenza fondata in suo nome: non est religionis cogere religionem (Ad Scap. II 2). L’Apologeta ha tramandato uno scritto di elevato valore civile, del tutto isolato, con l’eccezione del più tardo Cassiodoro (VI sec.), nella letteratura cristiana. Tertullianus, Apologeticum XXIV 6: Ciascuno adori pure chi vuole: adori Dio o Giove; levi le mani supplici al cielo o all’ara della Fede; enumeri – se così gli pare – le nubi nella preghiera o le travi del soffitto; consacri la vita al suo Dio o offra un capro. Non vi pare che sia una irreligiosità togliere la libertà religiosa e proibire la libera scelta della divinità, impedendomi di venerare chi voglio e costringendomi ad adorare chi non voglio? Nessuno, neppure un uomo, vuole essere adorato contro volontà (trad. Guarino).

Va tuttavia osservato che la liberalità che questo passo sembra dimostrare trova in realtà smentita in quanto Tertulliano scrive subito dopo, smentita che rivelerà tutto il suo tremendo peso solo dopo la conquista del potere temporale da parte delta Chiesa: Bene quod omnium Deus est, cuius velimus aut nolimus, omnes sumus tamente lo compongono, esso si disintegrerà in dieci regni (basileiai), espressione libera delle nazionalità al momento assoggettate, regni perciò definiti anche demokratiai (ma con la valenza negativa della anomía, la mancanza di Legge, paolina). Le “democrazie nazionali”, dunque, nella visione apocalittica d’Ippolito abbatteranno l’arché satanica di Roma mezzo millennio dopo la nascita di Cristo. Questa concezione antiromnana non era certo isolata, come oggi lo stato delle fonti potrebbe farla apparire, se già un sibillista cristiano di età antonina mostra di attendere il crollo dell’impero come momento della liberazione delle nazioni dal giogo di Roma (Oracula Sibyllina VIII 126-7). Contemporaneo d’Ippolito fu Bardesane (154-222 d.C.), pagano convertitosi al cristianesimo ed amico di Abgar IX, sovrano del regno siriaco di Edessa fino alla sua annessione all’impero romano nel 216 d.C. Il regno di Edessa fu non soltanto uno Stato cristiano, ma in esso, per la prima volta, fu perseguitato il paganesimo, sino alla conquista romana. Per Bardesane «la libertà umana si esprime nella diversità fra le leggi delle varie nazioni» (Mazzarino). Ad essa fa riscontro la libertà cristiana fondata sull’universalità sopranazionale della sua morale. 19 Vedi nota precedente.

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(«in verità il nostro Dio è il Dio di tutti, e a lui volenti o nolenti tutti apparteniamo»). È in questo rapporto irrisolto, ed alla fine conflittuale, fra il principio della libertas religionis e l’intima convinzione di detenere l’unica Verità che risiede il germe, latente in Tertulliano, ma non più latente dopo di lui, dell’intransigenza cristiana. Un germe che fa sì che la concezione della libertà religiosa nel pensiero dell’Apologeta sia in realtà più vicina all’idea di tolleranza, che non all’idea di autentica e piena ammissione della libertà di coscienza. Non deve dimenticarsi che quei pagani, cui egli riconosce in linea teorica il diritto di praticare il proprio culto, sono da lui considerati non adoratori di idee astratte o di miti irreali, ma di demoni riconosciuti esistenti dalla Chiesa, adoratori dunque del Male personificato. Sintomatico di tale tendenza unidirezionale del pensiero cristiano è circa un secolo dopo, l’atteggiamento di Lattanzio, che, dopo avere propugnato il principio di scelta volontaria della fede (Divinae Institutiones V 19.11: religio cogi non potest; ibidem V 19.23: nihil est ... tam voluntarium quam religio) nell’epoca delle persecuzioni (304-313 d.C.), è pervaso dal ben diverso spirito aggressivo del De mortibus persecutorum, nel momento del trionfo temporale della Chiesa costantiniana. Bisognerà attendere il pieno IV secolo perché l’idea della libertà religiosa, come dimensione individuale e come limite all’ingerenza dello Stato nella vita privata, incominci a formarsi ormai al crepuscolo della civiltà antica. Essa però non si formerà nell’ambito del pensiero cristiano, ormai decisamente orientato verso l’intolleranza, bensì nell’ambito del morente pensiero pagano, precursore, nel suo ultimo momento storico, della moderna concezione di libertà di coscienza.

VII.1.8. Formazione dell’idea di pluralismo religioso e di libertà di coscienza nel pensiero politico pagano del IV secolo e intolleranza della Civitas Dei cristiana. Del fallimento delle persecuzioni dioclezianee fu conseguenza storica e politica il celebre editto di Milano pubblicato nel 313 da Licinio e Costantino. Non fu questo un semplice editto di tolleranza, com’era stato due anni prima quello dell’imperatore Galerio, ma rese licita, sullo stesso piano del paganesimo, la religione cattolica, ed inoltre legittimò egualmente anche le Chiese eretiche escluse nel 311. Quanto poco questo provvedimento fosse determinato in Costantino da una concezione politica o, se si vuole, anche etica, della libertà di coscienza, lo dimostra proprio la successiva persecuzione costantiniana delle eresie. Sul paganesimo, invece, l’atteggiamento dell’imperatore fu sempre ambiguo o conciliante: se a Roma rifiutò per la prima volta di ascendere al Campidoglio, rispettò il compimento dei riti augurali per la fondazione di Costantinopoli, dove nel 326 trasferì la capitale dell’impero, ormai gravitante sulla pars Orientis, più sicura dell’Occidente dal rischio delle invasioni barbariche. Pontefice massimo della religione romana ed al contempo epískopos tõn ektòs (vescovo per le questioni esterne, come sembra traducibile, della Chiesa Cattolica), egli non operò mai una

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scelta decisa non soltanto per ragioni di evidente opportunità politica, in un impero in cui la vecchia e la nuova religione avevano parimenti seguaci, ma anche e soprattutto – come dimostrarono il francese Boissier e l’italiano Calderone – per l’incertezza su quale, fra Giove e Cristo, fosse la divinità più efficace a proteggere l’impero. Il misticismo e la superstizione avevano ormai sostituito perfino nella più alta dirigenza dello Stato la razionalità delle scelte di governo. La “pace della Chiesa” fu tale, dunque, per i cattolici, non per i cristiani “eretici”, né per gli Ebrei, che – dopo una prima momentanea accettazione nel 313 – furono soggetti già sotto Costantino a persecuzioni anche cruente, nel momento in cui diveniva incruento il conflitto con il paganesimo. Inoltre il riconoscimento del cristianesimo provocò velocemente una concessione di benefici e privilegi fiscali, esenzioni personali e collettive, vantaggi economici di vario genere e finanziamenti pubblici, che privilegiarono sempre la Chiesa nell’impero romano d’Occidente come d’Oriente e che sono ancor oggi ben lontani dallo scomparire in diversi paesi che di quell’impero fecero parte. Il cristianesimo si avviò così a diventare una religione di Stato non meno di quanto lo era il paganesimo, ma con una carica di intolleranza che quello non aveva conosciuto. Infine il cristianesimo si tramutò in una “religione sociale”, alla quale non si aderiva per convinzione e libera scelta, ma sol perché era la religione dello Stato e della società, garantita dal potere e feroce persecutrice di qualsiasi alternativa. A descrivere tale trasformazione “costantiniana” del cristianesimo da religione rivoluzionaria perseguitata o mal vista, apocalittica, pervasa d’entusiasmo e di fervore iniziatico, si adattano le parole del massimo esperto di apocalisse, fanatismo e rivoluzione: «Non si può estrarre l’entusiasmo e il sacrificio di sé come qualcosa di tangibile, imbottigliarlo e conservarlo. Essi si generano soltanto una volta nel corso di una rivoluzione, e gradualmente scompariranno. Il grigiore del giorno e le opportunità della vita faranno allora presa sugli uomini e li trasformeranno in solidi cittadini dagli abiti di flanella grigia» 20. Resta da chiedersi se il capovolgimento storico, cui Costantino diede inizio riconoscendo e poi privilegiando il cristianesimo, abbia sortito almeno l’effetto politico di pacificare e consolidare l’impero. Non è necessaria una speciale analisi per constatare che l’impero romano cristiano e poi l’impero che noi chiamiamo bizantino, che ne fu l’erede in Oriente, furono dilaniati dalle persecuzioni contro gli eretici, gli Ebrei, ed all’inizio anche i pagani, molto più di quanto non lo fosse stato l’impero pagano dalle persecuzioni contro i cristiani. Fu proprio per questa ragione che, come ben vide il Kornemann, i cristiani monofisiti della Siria e dell’Egitto preferirono favorire la conquista araba dei rispettivi paesi nel 636 e nel 646, piu tosto che difenderne l’appartenenza all’impero bizantino dominato dall’ortodossia. E certamente l’islam fu, sotto tale aspetto, più tollerante del cristianesimo, consentendo libertà di culto in cambio del pagamento di una tassa.

20 ADOLF HITLER, discorso ai generali tedeschi 12.12.1944: cfr. M. GILBERT, La grande storia della seconda guerra mondiale, Milano 2003, p. 708.

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Ma l’arricchimento della Chiesa ed il favore imperiale dei successori cristiani di Costantino per la nuova fede subirono un’effimera quanto brusca battuta d’arresto con l’imperatore Giuliano (361-363 d.C.), che Gregorio di Nazianzo insultò – beninteso dopo la morte – con il soprannome di Apostata, dal quale solo la storiografia moderna lo ha liberato. Giuliano perseguì un progetto di restaurazione dell’impero nell’orma della tradizione dioclezianea, mirando a risolvere militarmente il problema della sicurezza, con l’approntare una spedizione militare contro i Persiani, cercando di riformare i fondamenti etici e politici della burocrazia imperiale e dei potentiores locali, tentando infine di ripristinare il paganesimo come sola religione ufficiale. Ma il paganesimo di Giuliano era una religione interiore mistica e, soprattutto, ascetica, inadatta ad incontrare il favore delle masse popolari pagane, oltre che – ovviamente – cristiane, come anche il favore delle aristocrazie cittadine e delle stesse gerarchie sacerdotali dei culti avìti. Sintomatico è in tal senso il conflitto che vide opporglisi la popolazione di Antiochia, dove egli giunse a sottoporre a tortura cristiani sospettati dell’incendio del tempio di Apollo. A parte questo caso, però, che in termini propriamente giuridici non può considerarsi una persecuzione dei cristiani in quanto tali, la sua opposizione al cristìanesimo non fu cruenta, ma “amministrativa” ed intellettuale. Giuliano tentò anzi di combatterlo con le sue stesse armi, “spiritualizzando” ed interiorizzando il paganesimo. Un tentativo per ciò stesso utopistico, data la dimensione pubblica, esteriore e formale, della tradizione religiosa greco-romana, e condannato altresì al fallimento anche nel ricorso sia ad una eliolatria sincretistica e di tendenza monoteistica, sia alla devozione asiatica per la Magna deorum mater Idaeas, culti privi dei contenuti dogmatici, che fondavano la certezza escatologica della Chiesa. Ma nel confronto con il cristianesimo, che non aveva esitato a versare il sangue degli eretici, emerge la tolleranza e l’humanitas di Giuliano, sin da fanciullo traumatizzato e scampato per poco allo spargimento “cristiano” di sangue, che ne aveva annientato la famiglia. Così egli scriveva il 1 agosto del 362 ai cittadini di Bostra: Iulianus Imperator, Epistulae CXIV .438: Per persuadere gli uomini e istruirli, bisogna ricorrere alla ragione. Non mi stancherà di ripeterlo: che coloro che hanno zelo per la vera religione (i pagani) non molestino, non attacchino, non insultino le folle dei Galilei (dei Cristiani). Bisogna provare più pietà che odio per quanti hanno la sventura di cadere in errore in una materia così grave (trad. Fontaine). La morte di Giuliano in combattimento contro i Persiani, nel 363, segna la fine dell’ultimo tentativo pagano di restaurazione, suscitando tripudio fra i cristiani, come attesta Gregorio Nazianzeno, e invece fra i pagani «grande lutto non soltanto nella terra di Acaia, ma anche nel mondo intero ovunque impera l’ordine della legge romana» (Libanio, Or. XVII 1). Dopo Giuliano, Valentiniano I (364-375) aveva inaugurato un periodo di tolleranza (dei cristiani verso i pagani) sancendo, egli imperatore cristiano, la colendi libera facultas, ma, come ha ben osservato il Mazzarino, non per volontà di affermare il principio della libertà religiosa, ma per evitare di dover perseguire come crimine la concessa a maioribus religio. Tanto poteva ancora nell’animo di un imperatore cristiano il rispetto per la tradizione romana. Ma a Valentiniano I va comunque riconosciuto di avere considerata prevalente la necessità della pace religiosa nell’impero, come condizione per il superamento della crisi sia militare sia economica, piuttosto che un’opera di conversione alla religione cattolica più o meno coatta.

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Con il successore di Valentiniano, Graziano, maturarono i tempi del più elevato conflitto ideologico fra cristianesimo e cultura classica. «In pieno trionfante cristianesimo, allorché la Chiesa, ormai alleata dell’impero, passava, dalla apologia, e dalla difesa, alla condanna e all’offesa del paganesimo, rifugiatosi ormai nel senato di Roma e in una ristretta aristocrazia – quella dei grandi personaggi dei Saturnalia di Macrobio – la classicità, ancora riluttante a farsi pur essa cristiana come l’impero, si fece custode del retaggio romano e pagano e presentò i suoi santi ed eroi – da contrapporre a martiri – non ricorrendo più ad Apollonio di Tiana e alla sua leggenda, ma presentando concrete, attuali, contemporanee figure della storia: figure maestose, quali Pretestato e Simmaco, che potevano ben fronteggiare Ambrogio» (V. Cilento). Esattamente vent’anni dopo l’effimero tentativo di restaurazione giulianea del paganesimo, nel 382, l’imperatore Graziano ritirava i fondi pubblici destinati al culto degli dei e faceva rimuovere dalla curia senatus l’altare della Vittoria, collocatovi da Augusto nel 29 a.C. Nel 384, due anni dopo l’abolizione dei finanziamenti pubblici ai culti pagani da parte di Graziano, l’ancor forte aristocrazia senatoria pagana giudicò la situazione politica favorevole per richiedere al nuovo imperatore, Valentiniano II, la restituzione dell’altare della Vittoria nella curia. A due pagani, infatti, erano toccate in quell’anno le magistrature più alte: la praefectura praetorio Italiae a Vettio Agorio Pretestato, la praefectura Urbis a Quinto Aurelio Simmaco. La terza relatio che questi inviò a Milano all’imperatore e la confutazione che ne fece il vescovo della città, Ambrogio, trascendono il caso concreto che ne diede occasione e costituiscono per lo storico il documento più impressionante, per elevatezza delle argomentazioni, di due categorie di pensiero inconciliabili, che ben riassumono il retaggio intellettuale ed il pluralismo relativistico della cultura classica, da un lato, la concezione assolutistica e totalizzante di chi si ritiene detentore di una Verità soprarazionale e rivelata, dall’altro. Un dibattito, nel quale chiunque può riconoscere il retaggio storico, fino ad oggi, della intolleranza del monoteismo cristiano, che avrebbe caratterizzato il medioevo insieme all’altra parimenti feroce e intollerante religione monoteistica che si riconosceva in Abramo: l’islam. Symmachus, Rel. III 8, 10: Ognuno ha il proprio costume, ognuno ha la propria tradizione religiosa: la mente divina ha distribuito fra le città, come loro custodi, diversi culti; come a coloro che nascono si assegnano le anime, cosi i geni custodi sono assegnati ai popoli cui sono predestinati. Si aggiunga il conseguimento dell’utile, che più d’ogni altra cosa lega gli dei all’uomo. Infatti, poiché il problema (di Dio) resta imperscrutabile ad ogni criterio razionale, da dove può venire la conoscenza degli dei meglio che dalla coscienza della tradizione e dalle prove concrete della prosperità che essi concedono? .... Pertanto imploriamo che ci sia concessa la pace per gli dei patrii, per gli dei nazionali. E giusto considerare una sola divinità quello che tutti adorano, quale che sia la sua natura. Osserviamo le stesse stelle, comune è il cielo che ci sovrasta, lo stesso è il mondo in cui ci troviamo: che cosa importa allora che si cerchi di attingere alla conoscenza della verità attraverso una certa esperienza interiore piuttosto che attraverso un’altra? Non attraverso un solo cammino si può raggiungere un così grande segreto.

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In questo passo Simmaco precorre il concetto antropologico di religione, che la identifica come variabile legata alla distribuzione geografica dei popoli, e su esso propone all’imperatore di fondare il principio politico di liberalità. Come un popolo parla una determinata lingua, così ha una sua religione. Non v’è superiorità né “verità” di una lingua sull’altra come non dev’esservi della religione. La sua modernità sembrerebbe a prima vista davvero sorprendente. Ma l’oratore, figlio del suo tempo, espone la giustificazione mistica – legata alla credenza neoplatonica ed ermetica dei genii o spiriti custodi dell’anima, che il cristianesimo usurpa nell’immagine dell’“angelo custode” – della sua osservazione della realtà. E supera per la prima volta nella storia del pensiero occidentale la concezione etnica di libertà religiosa, per giungere alla considerazione della libertà di coscienza in una dimensione intima e personale. In siffatta concezione la diversità delle opinioni non è più guardata come errore da tollerare e da correggere, se possibile, tramite la persuasione – pensiero ch’era stato proprio sia del pagano Giuliano, sia del cristiano Valentiniano I – ma come diritto dell’uomo a ricercare individualmente, nell’interiorità della propria coscienza, quel tam grande secretum del divino, per il quale non esiste una ratio comune a tutti gli uomini. Anche su questo punto Simmaco trascende la concezione propria del suo secolo e di tutto il mondo antico, e poi medievale, nel dichiarare il disinteresse politico dello Stato ai modi ed ai risultati di questa ricerca interiore. I fondamenti ideologici del pensiero politico del politeista Simmaco sono ben diversi da quelli del monoteista Tertulliano, benché l’uno e l’altro siano, per così dire, forzati dalle opposte realtà storiche, in cui entrambi operano da perdenti, a concepire un’idea di libertas religionis, che solo in apparenza sembra essere la stessa. Ma in Tertulliano essa incontra il limite etico della convinzione dogmatica di possedere il monopolio della Verità, cui si contrappone la «fede negativa» dei pagani nelle ipostasi di Satana e dei suoi demoni, quali la Chiesa considera gli dei. Nella riflessione di Simmaco, invece, v’è il rispetto verso chi non condivide la stessa scelta di culto, rispetto fondato sulla constatazione positiva della relatività di ogni ratio, non meno che in un atteggiamento filantropico e – questo sì – veramente ecumenico, di ascendenza stoica, verso gli “avversari”, con i quali deve compiersi il cammino della vita. Ma l’imperatore cristiano, pur prestandogli benevolo ascolto, non seguirà la via indicata da Simmaco: Ambrogio lo convincerà ad affermare nella sfera pubblica la supremazia del cristianesimo su qualsiasi religione, pur ammettendo ancora una limitata tolleranza del culto pagano. Egli, infatti, rispondendo a Simmaco, rappresenta di fronte al potere imperiale le giustificazioni teologiche dell’intolleranza e della irrazionale pretesa di superiorità del cristianesimo. Ambr. Ep. XVIII 8-9: (Simmaco) ha detto che «non attraverso un solo cammino si può raggiungere un così grande segreto». Quello che voi (pagani) non sapete, noi (cristiani) lo conosciamo dalla voce di Dio. E quello che voi cercate di sapere attraverso ragionamenti congetturali, noi lo conosciamo con certezza dalla sapienza di Dio e dalla Verità. Pertanto non v’è punto d’incontro fra il vostro ed il nostro pensiero. Voi supplicate gli imperatori che «concedano la pace agli dei» vostri, noi invece «preghiamo» Cristo «di concedere la pace» proprio agli imperatori.

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Alcuni anni più tardi i fondamenti teoretici e teologici dell’intolleranza saranno elaborati da Agostino, caratterizzando nei secoli del medioevo e dell’età moderna il mondo cristiano e l’azione delle Chiese, ed in ispecie di quella cattolica, la più organizzata gerarchicamente e dommaticamente. Sempre Ambrogio nel 388 dà fondamento teologico alla persecuzione degli Ebrei, distruggendo i principi basilari della legge romana in materia di tolleranza religiosa e di riconoscimento delle religioni nazionali dei popoli dell’impero: il vescovo di Callinico, città della Mesopotamia oggi Al Raqqa, capitale della famigerata Isis, aveva istigato i cristiani del luogo ad incendiare a furor di popolo la sinagoga ebraica. L’ordine di Teodosio che il vescovo la ricostruisse a spese dei cristiani suscitò le minacce di Ambrogio (Ep. XL 4), che cercò di piegare la resistenza dell’imperatore, assumendosi la responsabilità morale dell’incendio con queste parole: «Sostengo ad alta voce di aver incendiato io la sinagoga, perché io senza dubbio ho comandato a quei fedeli che non ci fossero più luoghi ove si negasse il Cristo … Sono fatti che fan vergogna (per la legge dello Stato), ma che attirano la grazia (divina), perché si toglie la possibilità di offendere il sommo Iddio». Ambrogio riconosce ancora alla lex Romana l’esercizio della razionalità, ma afferma la superiorità della

Fig. 35. Corriere della Sera 16/10/2005. La superiorità della Legge Divina su quella dello Stato, che S. Ambrogio invocava per giustificare l’incendio delle sinagoghe, è richiamata da Papa Ratzinger nelle interferenze della Chiesa Cattolica sulle scelte in materia bioetica, in una continuità non percepibile da un’opinione pubblica storicamente impreparata. In verità la “Legge Divina” invocata dai Papi per limitare i diritti civili e il progresso bioetico è la stessa che ha giustificato i più efferati crimini contro chi non si piegava alla fede cattolica. La Legge di qualsiasi democrazia, anche la più scalcinata come quella italiana, ha un valore morale e di rispetto della libertà incomparabilmente più alto di qualsiasi pretesa “Legge di Dio”, sia essa di Cristo, di Allah, di Jahvé o di chiunque altro.

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legge divina su quella dello Stato: la distruzione delle sinagoghe è un fatto vergognoso di fronte alla legge statale – ammette – ma attira la grazia di fronte alla legge divina, della quale egli si fa naturalmente unico interprete, «perché non vi sia più alcun luogo in cui si neghi la divinità di Cristo». Gli imperatori saranno costretti a far tesoro delle sue parole e ad adeguare la legge dello Stato a quella “di Dio”. Una situazione, per gli Ebrei, il “popolo deicida” nella concezione cristiana, che ha avuto una quasi incredibile continuità storica fino al XX secolo. Anche Agostino che, nato pagano e divenuto manicheo, aveva nella sua ulteriore conversione al cristianesimo mantenuto dapprima un po’ di buon senso, si sposta poi decisamente sulle posizioni dell’intolleranza e del fanatismo ambrosiano. Ritrattando quanto, sull’orma di Simmaco, aveva dapprima scritto nei Soliloquia (I 13.23), sed non ad eam (sapientiam) una via pervenitur, («ma alla conoscenza di Dio non si giunge per una sola via») egli scrive verso la fine della sua vita: Augustinus, Retractationes I 43: Inoltre non suona bene quello che scrissi una volta, che cioè «non si può pervenire attraverso una sola via ad una conoscenza (di Dio) condivisa da tutti gli uomini», quasi che esista una via all’infuori di Cristo, che ha detto: «Io sono la Via». Avrei dunque dovuto evitare di offendere (con quelle parole) un ascoltatore devoto alla religione, perché una è quella Via Universale, altre invece le vie cui si riferisce il Salmo che recitiamo: «Rendimi note le tue vie, o Signore, ed insegnami i tuoi sentieri».

Ma, nel IV –V secolo, almeno una metà dei magistrati e dei funzionari imperiali resta ancora pagana e tenta di disattendere le leggi che perseguitano il politeismo. Così, mentre prende corpo l’intolleranza dello Stato etico cristiano, i pagani elaborano un pensiero politico, che possiamo giudicare di straordinaria consonanza con la concezione moderna delle democrazie occidentali. È ancora S. Agostino ad informarci sinteticamente di tale pensiero politico, ovviamente per confutarne la validità morale, nel De Civitate Dei. Ecco la sua argomentazione, nella quale gioca retoricamente sull’assonanza fra le parole vitis (vite) e vita, la prima simbolo della proprietà privata e della ricchezza derivante dall’uva e dal vino, la seconda della salvezza dell’anima. Augustinus, De Civitate Dei II 20: Coloro che amano adorare questi dei … non si curano in alcun modo che lo Stato cessi di essere il peggiore e lo più scellerato. «Che sia saldo» – dicono i pagani – «che sia florido per l’apporto di ricchezze, glorioso per le vittorie, o, ciò che più reca prosperità, goda sicurezza e pace: il resto non ci importa e questo è quel che più conta. Le leggi puniscano più chi nuoce alla altrui vite 21, che chi nuoce alla propria vita 22. Non sia con21 Cioè chi danneggia la proprietà altrui: la vite è simbolo di ricchezza e qui della proprietà privata, perché se ne produce il vino. 22 Cioè chi rifiuta la fede cristiana danneggiando così la sua vita eterna, per Agostino la sola vera vita.

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dotto innanzi ai giudici – proseguono i pagani – se non chi sia stato molesto o nocivo ai beni, alla casa, alla salute altrui: per il resto ciascuno faccia quello che gli piace dei fatti suoi, coi suoi e con chiunque lo voglia. Abbondino i postriboli pubblici sia per tutti quelli cui piaccia servirsene, sia soprattutto per quelli che non possono averne di privati. Si costruiscano dimore ampie e sontuose e si frequentino opulenti conviti».

Pensare, come portato del pensiero cristiano, che «la fondazione della libertà di coscienza si connette con il riconoscimento del valore di ogni singolo, ossia con il riconoscimento che nell’uomo vi è qualcosa che si sottrae ad ogni ingerenza umana, anche a quella della res publica nella misura in cui sacralizza il potere» (Siniscalco), significa applicare categorie recenti dell’etica e del pensiero politico moderni alla ben diversa mentalità del cristianesimo antico, e non tenere conto, fra l’altro, che quando esso si impadronì del potere non applicò ne praticò in alcun modo quei principi, che non aveva generati né più tardi riconosciuti quando furono i pagani a proporli, e si sostituì semplicemente nella posizione statuale, ch’era stata della religione pagana, non per una sorta di “devianza” dai suoi principi originari, ma proprio in una linea di coerenza evolutiva con quei principi assoluti, fondati nella fede in una Verità soprannaturale. Nelle Retractationes (I 12.6) Agostino corregge un pensiero che aveva espresso nel De vera religione (XVI 31), avvedendosi che gli episodi evangelici della cacciata dei mercanti dal Tempio e l’esorcizzazione dei demoni dimostravano quanto fosse errato considerare il messaggio e l’azione di Cristo alieni dalla violenza: dunque la coercizione religiosa trovava la sua giustificazione nel verbo e nell’esempio stesso di Cristo. La descrizione delle finalità e della concezione pagana dello Stato, che apprendiamo dal De Civitate Dei II 20, dimostra alcune sorprendenti affinità, e talvolta identità, con un testo enormemente anteriore nel tempo: l’Epitaphios Logos di Pericle, il discorso, cioè, pronunciato nel 430 a.C. nel cimitero del Ceramico di Atene per commemorare i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso. Thucydides II 37 ss. Il nostro ordine politico non si modella sulle costituzioni straniere. Siamo noi d’esempio ad altri, piuttosto che imitatori. E il nome che gli conviene è democrazia, governo in mano non a pochi, ma alla cerchia più ampia di cittadini: vige anzi per tutti, da una parte, di fronte alle leggi, l’assoluta equità di diritti nelle vicende dell’esistenza privata; ma dall’altra si costituisce una scala di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in virtù delle sue capacità reali, più che nell’appartenenza a questa o a quella fazione politica. …… La tollerante urbanità che ispira i contatti tra persona e persona diviene, nella sfera della vita pubblica, condotta di rigorosa aderenza alle norme civili, dettata da un profondo, devoto rispetto: seguiamo le autorità di volta in volta al governo, ma principalmente le leggi e più tra esse quante tutelano le vittime dell’ingiustizia e quelle che, sebbene non scritte, sanciscono per chi le oltraggia un’indiscutibile condanna: il disonore. 38: Non solo, ma anche abbiamo creato per lo spirito occasioni numerose di svago dai quotidiani sacrifici, istituendo giochi e solennità religiose in tutto l’arco del-

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l’anno, arredando con eleganza le nostre abitazioni, il cui quotidiano godimento fa svanire, giorno per giorno, ogni tetro pensiero. Da tutte le contrade del mondo l’importanza della nostra città richiama prodotti d’ogni specie, onde ci sorride la fortuna di poter cogliere i frutti del nostro suolo e ritrovarvi gioiosamente un gusto non più familiare e intimo di quelli che affluiscono da paesi lontani. 39: … se ci disponiamo a contrastare i pericoli, agili di spensierato abbandono più che gravi di esercizi e fatiche, forti di un ardire sorgivo, libero frutto dei nostri principi vitali più che di leggi, ne nasce per noi il guadagno di non piegarci in anticipo allo sgomento dei sacrifici futuri e, nel fuoco dell’impegno, di non mostrarci meno valorosi di coloro la cui esistenza è un tormentoso susseguirsi di prove. Per questi e per molti altri diversi motivi la nostra è una città degna di meraviglia. 40: Amiamo la bellezza, ma con limpido equilibrio; coltiviamo il pensiero, ma senza languori. Investiamo l’oro in imprese attive, senza futili vanti. Non è vergogna, da noi, rivelare la propria povertà: piuttosto non saperla vincere operando. In ogni cittadino non si distingue la cura degli affari politici da quella dei domestici e privati problemi, ed è viva in tutti la capacità di adempiere egregiamente agli incarichi pubblici qualunque sia per natura la consueta mansione. Poiché unici al mondo non valutiamo tranquillo un individuo in quanto si astiene da quelle attività, ma superfluo. Siamo noi stessi a prendere direttamente le decisioni o almeno a ragionare come si conviene sulle circostanze politiche: non riteniamo nocivo il discutere all’agire, ma il non rendere alla luce, attraverso il dibattito, tutti i particolari possibili di un’operazione, prima d’intraprenderla … E soli offriamo altrui il nostro aiuto, non ponderando l’utile che ne potremo trarre, ma spinti dalla franca fiducia nel nostro spirito libero. 41: Dirò, in breve, che la città nostra è, nel suo complesso, una viva scuola per la Grecia. ... Non solo i contemporanei, ma più i posteri ci ammireranno, come autori di una potenza che ha lasciato profonde tracce nel mondo e ricche testimonianze.

Le affinità che si riscontrano fra le finalità della respublica nella concezione pagana del V secolo d.C. e la demokratia periclea del V secolo a.C. riguardano diversi punti: la funzione della legge di tutelare la proprietà e la sicurezza; l’esclusione di qualsiasi intromissione nella sfera delle scelte morali, di costume e di opinione religiosa dei cittadini; gli scopi della polis e della civitas, che deve favorire l’apporto di ricchezze, la costruzione di dimore private e di servizi pubblici, nonché la convivialità ed i piaceri della vita, una concezione – diremmo in termini moderni – sociale ed edonistica dello Stato. Ma, al di là di qualsiasi casistica, soprattutto accomuna i due passi la concezione generale. Si potrebbero trovare, infatti, diversi riscontri, in età tardo-antica, al giudizio di inutilità dato da Pericle per chi si rifugia nella propria tranquillità disertando le cariche pubbliche: non solo i cristiani, ma anche gli stoici sono criticati, per esempio dal giurista dell’età dei Severi Domizio Ulpiano, per il loro disimpegno (apátheia) dalla vita politica, che del resto caratterizzava anche l’epicureismo (ataraxía). Lo Stato, nella concezione periclea come in quella pagana tardo-antica, è una realtà autonoma nel senso letterale della parola: cioè fonte della norma, che risiede, almeno idealmente, nella sovranità popolare, con una concezione che attinge al relativismo etico di ascendenza sofistica (v. pp. 3-4, 124, 212). Al contrario, la concezione della Civitas agostinian è eteronoma: fonte della legge è Dio, non l’uomo.

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Il problema di chi sia l’interprete di tale legge è diversamente risolto in Oriente e in Occidente. Nel primo l’autorità dell’imperatore di Constantinopoli sulla Chiesa è fuori discussione. Nel secondo, invece, la crisi delle istituzioni civili fa sì che interprete esclusivo – ovviamente – sia la Chiesa, ed il potere politico incarna ora nell’imperatore non più la delega di sovranità popolare, ma la divina voluntas, su cui si pretende fondare l’assolutezza dei valori che s’impongono con la forza della legge. Lo Stato finalizzato alla prosperità materiale, alla tutela della proprietà e della salute, ma che non interferisce nelle scelte private dei cittadini, lo Stato che ammette la libertà religiosa e la libertà di costumi, è per S. Agostino la Civitas Diaboli. La tradizione della respublica, riformulata in questi termini dai pagani nel IV-V secolo, che affondava nellaconcezione periclea della polis le sue radici, è qui integralmente negata. Naturalmente Pericle, nella misura in cui possiamo riconoscere tratti autentici nella versione tucididea della sua orazione, intendeva polemizzare con la concezione spartana dello Stato, esaltando ed idealizzando la politeia ateniese per motivare i suoi concittadini alla guerra: si potrebbe infatti trovare per ogni sua affermazione di valori della democrazia attica un’antitesi nella politeia aristocratica di Sparta, anche quando la polemica non sfoci in un esplicito confronto. Ma, quando Tucidide, circa un quarto di secolo dopo l’orazione periclea, decise, sul finire del V secolo a.C., di tramandare l’Epitaphios, la potenza ateniese era tramontata per sempre. Egli lo volse quindi, nell’ambito dell’intera sua opera, ad un altro scopo, quello che chiama ktema es aei: l’acquisto perenne che l’esperienza della democrazia attica avrebbe costituito moralmente nella memoria dei posteri. Da Platone, allo stoico Diogene di Babilonia, membro dell’ambasciata a Roma nel 155 a.C., a Filodemo di Gadara, scolarca epicureo nell’Urbe attorno agli anni 50 a.C., a Cicerone, a Plutarco, ad Elio Aristide, a Quintiliano e Plinio il Giovane, fino all’ultimo imperatore pagano, Flavio Claudio Giuliano, la figura di Pericle fu, in modi diversi di epoca in epoca, idealizzata e proposta come paradigma sapienziale di governo anche per gli imperatori romani. Solo mezzo secolo circa separa Giuliano dalla concezione pagana dello Stato a noi nota da S. Agostino. Quanto l’ambiente di retori, medici e filosofi dell’età giulianea conoscesse Pericle, ed il secolo che da lui prende nome, è dimostrato da numerose citazioni. Del resto Giuliano stesso leggeva certamente le Vite plutarchee e s’identificava “ideologicamente” nella figura di Pericle, del quale riteneva anche di aver “rivissuto” alcune vicende. Non è dunque impossibile che la concezione pagana dello Stato del IV-V secolo d.C., certamente originale ma pure fondata su una koiné plurisecolare del pensiero politico classico, abbia potuto attingere in forma più o meno diretta all’Epitaphios pericleo di Tucidide. Giuliano si ispira alla moderatio ed allo humour di Pericle contro la superstizione religiosa, che nella sua epoca è ormai, prevalentemente, quella cristiana. Ma ben prima di Giuliano, l’ironia periclea sulla superstitio era proseguita, senza soluzione di continuità, nel pensiero filosofico e politico con Epicuro e Lucrezio.

Tuttavia il razionalismo scientifico, ed il pluralismo filosofico e religioso proprio del politeismo, perde la sua battaglia epocale nel trionfo del monoteismo cri-

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stiano, fino a quando, con l’editto di Tessalonica, il cristianesimo viene imposto nel 380 come religione dello Stato. La Constitutio Antoniniana aveva concesso la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero senza discriminazioni di lingua, sesso, nazionalità e religione. Con l’Editto di Tessalonica i princìpi universalistici dell’impero romano vengono radicalmente negati: la fede cattolica dell’impero cristiano fa tesoro delle parole di Cristo, che aveva paragonato i pagani ai cani (Matteo X 15.26), e i pagani, gli ebrei e gli eretici sono discriminati ed esclusi dalla cittadinanza romana. Con Agostino la parabola dialettica fra paganesimo e cristianesimo è compiuta: «la libertà di errare deve essere combattuta, perché determina la morte dell’anima. Il libero arbitrio conduce al male e solo la grazia può salvarci da tale pericolo, portandoci all’unica, autentica libertà, quella di non peccare e di essere servi di Dio» (Lucrezi). La più cruenta applicazione di questa visione del mondo si avrà nel 415 con il linciaggio di Ipazia, che insegnava filosofia ed astronomia ad Alessandria sull’orma del padre, il neoplatonico Teone, e che sarà scorticata viva nel Serapeo dalla folla cristiana su impulso di S. Cirillo, vescovo della città ed istigatore anche del massacro della locale comunità ebraica. Molto tempo dopo, ormai in pieno medioevo, ma in continuità con una mai interrotta scia del sangue, alla Fede ed alla Verità del Cristo come moventi e giustificazioni delle atrocità, degli omicidi e del genocidio, si aggiungerà anche il ricorso alla “categoria della ragione”. S. Tommaso saprà infatti usarla come strumento per “perfezionare” i fondamenti teorici dell’intolleranza di S. Ambrogio e S. Agostino: è il raziocinio che distingue gli uomini dagli animali; “uscendo dalla ragione” il peccatore e l’apostata riducono se stessi a bestie, come Cristo considerava i pagani. Se all’uomo è lecito uccidere le bestie “innocenti” (per esempio per nutrirsene o utilizzarne le pelli), ben più lecito – anzi doveroso – è uccidere peccatori ed apostati della religione cattolica, queste bestie “colpevoli”, che con la loro dissennatezza escono dalla categoria del genere umano. Nella Summa Theologica (II, II q. LXIV, a.2) il serafico santo, sostiene che «è lecito uccidere i peccatori … perché l’uomo, peccando, esce dalla categoria della ragione e pertanto decade dalla dignità di essere umano … e incorre in un certo senso nella condizione di schiavitù propria delle bestie», e che «l’infedeltà è il più grave dei peccati … perché attraverso il peccato dell’infedeltà gli uomini si staccano da Dio più che per qualsiasi altro motivo: pertanto essa è il più grave di quei peccati, che consistono nella perversione dei costumi» (Summa Theologica II, II q. X, a.3).

VII.2. L’eredità degli antichi. «Il passaggio dal paganesimo al cristianesimo è il punto in cui il mondo antico è ancora in diretto contatto col nostro. Noi siamo eredi della sua conclusione: dall’una parte e dall’altra, gli interessati partecipavano di una cultura che fino ad epoca recente noi abbiamo in larga misura conservato» (R.L. Fox). Il pagano Virio Nicomaco Flaviano, praefectus praetorio Italiae nel 390, quat-

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tro anni dopo si diede volontariamente la morte nella valle del fiume Frigido quando vide persa la battaglia contro Teodosio: l’imperatore che aveva imposto il cristianesimo con l’Editto di Tessalonica gli avrebbe fatta salva la vita se si fosse convertito, ma Flaviano stimò la sua libertà più preziosa della vita. Le statue di Giove e gli stendardi di Ercole, «i due dei, che un secolo prima erano stati patroni di Diocleziano e Massimiano, presiedettero, il 6 settembre 394, alla disfatta dell’ultimo esercito pagano del mondo antico. Flaviano non volle sopravvivere alla causa con cui si era identificato per tutta la sua esistenza ... benché Teodosio fosse pronto a salvargli la vita. ... Quando vide giunta alla fine quella Roma per cui era vissuto, rifiutò di accettare ogni compromesso con il nuovo ordine di cose e scelse invece la morte di Catone. Morendo, lasciò nella sua stessa famiglia e tra i suoi amici uomini che erano pronti a salvare, in un mondo che si disintegrava, la parte più preziosa dell’eredità degli antichi» (H. Bloch). Mentre per i pagani la libertas religionis era un valore da tutelare, ed essi ritenevano di farlo poiché ai loro occhi il cristianesimo appariva non una religio, ma una superstitio, per i cristiani, una volta assurti al potere, la libertas fu considerata licentiosa, costituì un disvalore da reprimere. Di conseguenza, non soltanto i fini, bensì anche i presupposti dei processi pagani e dell’inquisizione cristiana sono storicamente diversi: quest’ultima fondata sull’ortodossia della fede, quanto i primi sulla convinzione dei magistrati di tutelare la respublica senza violarne il valore della libertà di coscienza. Il paganesimo del IV-V secolo pervenne gradatamente ad una elevata concezione della libertà di coscienza come diritto individuale e giunse a concepire e formulare il corrispettivo principio della illegittimità dell’ingerenza dello Stato nella vita privata e nelle scelte morali e religiose dei cittadini. Ciò avvenne fondando, sotto l’urgenza delle persecuzioni del cristianesimo impadronitosi dello Stato, il principio dell’irrilevanza politica dei comportamenti privati e dell’inesistenza di un criterio razionale universalmente riconosciuto per la soluzione del problema religioso. In ciò la cultura classica ha attinto ad una concezione etica e politica della libertà di coscienza, ch’era già insita in termini rudimentali nel formalismo e nella mera esteriorità del culto pubblico pagano, in una parola, era, paradossalmente, insita nel conformismo della società antica fin dal giusrelativismo di Protagora e di Epicuro. In essa la libertà di pensiero era garantita dal pluralismo delle scuole filosofiche e il limite storico della cultura pagana anteriore al secolo IV fu quello di non riconoscere la dignità di pensiero religioso alla superstitio cristiana, non certo perché essa lo meritasse in assoluto, ma perché certamente lo meritava in relazione alla religio pagana. Del resto il progresso del pensiero pagano del IV-V secolo è in questo àmbito del tutto originale: Simmaco non deriva «paradossalmente» da Tertulliano, come pure si è talvolta creduto: solo superficialmente appaiono simili le enunciazioni del pagano e del cristiano, motivate da ideologie, ed espressione di concezioni del mondo, profondamente diverse, ed entro le quali erano insite opposte potenzialità di sviluppo storico. Al cristianesimo fu estranea sin dalle origini la forma mentis della parità morale del pagano o dell’eretico, dell’eguaglianza degli uomini, in una dimensione etica e giuridica, nella diversità delle scelte religiose.

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Il solo autore cristiano che la pensi come Simmaco è, nel VI secolo, Cassiodoro, nativo di Squillace nel Bruzio (oggi Calabria) ma ministro di Teodorico, e come tale abituato a convivere con Ebrei ed ariani nell’ambiente della corte gotica di Ravenna. Ma la sua voce resta del tutto isolata nel mondo cristiano e ben altro sarà il pensiero della Chiesa Cattolica sino a tempi molto recenti, e ben altra anche la posizione dell’ortodossia “bizantina”. È infatti storicamente infondata l’opinione di quanti, come Lana e Siniscalco, ritengono che la libertà di coscienza sia nata con il cristianesimo e parlano perfino di «fondazione» di questa libertà. Il principio che unica fonte della legge è la sovranità popolare, e che né un diritto naturale né un diritto divino trovano spazio in una concezione democratica dello Stato, è oggi posto in forse nel mondo occidentale non solo dalla dottrina, ma soprattutto dall’azione politica della Chiesa Cattolica e in Europa di molte Chiese Ortodosse autocefale, come quella russa, e della Chiesa Evangelica Battista negli U.S.A. In Italia e in Spagna, attraverso la contestazione delle leggi in materia bioetica e di diritti civili, la Chiesa Cattolica persegue un progetto di restaurazione dei “valori” del cristianesimo ambrosiano e agostiniano, in sintonia con il fondamentalismo battista nord-americano. Tali cosiddetti “valori”, che hanno nutrito la concezione etica dello Stato cristiano medievale, e tuttora appartengono nella versione islamica alla sharia, sono stati superati moralmente e civilmente dalla storia dell’Umanesimo europeo. Tali “valori” la Rivoluzione francese ha cancellato politicamente: più tardi, nell’Ottocento, ne è nato lo Stato moderno liberale e nel Novecento lo Stato di democrazia classica. È sotto gli occhi di tutti che il relativismo e il pluralismo delle democrazie moderne, nato da questo percorso storico, è oggi sotto attacco del fondamentalismo islamico da New York ai più sconosciuti villaggi della Francia. Ma pochi sono in grado di vedere come i princípi della democrazia siano in realtà combattuti anche da alcune fra le più grandi e organizzate Chiese cristiane. Certo oggi mancano di quel potere temporale, che, quando l’avevano, consentiva loro di giudicare attraverso i tribunali e di comminare il patibolo a chi non ne condivideva la fede, ma le battaglie di retroguardia delle Chiese cristiane nelle società democratiche devono svolgersi attraverso gli strumenti delle democrazie e passare attraverso leggi e parlamenti. Ma non per questo sono meno pericolose. L’Europa, per liberare la società dalla soffocante morsa del cristianesimo, ha pagato ai tribunali dell’Inquisizione Cattolica, ma anche alle Chiese Anglicana e Luterana, il prezzo di un plurisecolare tributo di sangue e di persecuzioni, i cui nomi emblematici di Giordano Bruno o Tommaso Campanella non possono riassumere i numeri delle stragi di Albigesi e Valdesi, dei medici, degli scienziati, delle “streghe”, degli Ebrei sterminati con torture efferate. Quando, come allo Steri di Palermo, si scoprono le celle dell’Inquisizione Cattolica, per un momento viene alla luce la plurimillenaria realtà dell’intolleranza insita storicamente e geneticamente nella pretesa cristiana di monopolio della Verità. L’ignoranza storica di questa vicenda è il presupposto perché nelle società occidentali l’opinione pubblica possa restare sensibile alla propaganda religiosa cristiana, tutte le volte che essa si esercita per convincere della moralità dei suoi “valori” e della immoralità dei valori di libertà propri degli Stati di democra-

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zia. Il fondamentalismo islamico potrà forse vincere, ma non potrà convincere i popoli delle democrazie occidentali: il pericolo che esso costituisce per la libertà come fondamento dello Stato e del viver civile è palese e può dunque essere combattuto, per quanto proprio i valori dell’illuminismo, ereditati dal nostro mondo, possano costituire un forte limite all’efficacia della guerra che oggi l’Occidente è chiamato a combattere contro il radicalismo. Il pericolo della concezione illiberale del cristianesimo è invece occulto: il cristianesimo è in grado di nascondere o minimizzare, di far dimenticare nell’ignoranza la sua vera genesi e, come un camaleonte, di presentarsi sotto le mentite spoglie di quei valori di libertà, che non gli sono mai appartenuti e che ha sempre represso con la violenza finché ha potuto. Sotto questo aspetto costituisce un pericolo diverso ma non meno grave dell’islam per l’essenza stessa della democrazia. Dalla lotta ed infine dalla vittoria contro il cristianesimo è nata in Europa la libertà della ricerca scientifica, che è oggi nuovamente aggredita dai successori di chi condannò Erasmo, Bruno e Galileo e perseguì Copernico e Keplero. Solo nello scagliarsi contro la tesi eliocentrica Lutero e papa Urbano VIII appaiono concordi. Non bisognerebbe dimenticarlo, riflettendo che oggi il mondo occidentale si distingue dal mondo islamico – non saprei ancora per quanto – per avere relegato la religione nella sfera individuale di libertà di opinione, emarginandola – ad eccezione dell’Italia – dalle fonti normative e dal potere dello Stato. Le nuove generazioni sono tenute nell’ignoranza dal degrado della scuola e dalla determinante influenza della Chiesa Cattolica sul sistema d’istruzione italiano e su uno Stato debole, regolarmente in mano a governi collusi, quando più, quando meno, con i poteri forti vaticani. Nei paesi di religione ortodossa, dopo il crollo del comunismo sovietico, le Chiese sono tornate ad essere Chiese di Stato e, attraverso di esso, a limitare la libertà religiosa e di pensiero di chi non vi appartiene. Se l’insegnamento scolastico e universitario non riuscirà a trasmettere alle nuove generazioni il valore fondante del lascito storico e morale del pensiero politico classico, il moderno ed insieme antico fondamentalismo cristiano finirà col distruggere il concetto, il valore e la realtà del principio di laicità dello Stato, instaurando gradatamente un nuovo Stato etico, di cui la sentenza di Strasburgo sulla liceità del crocifisso nelle scuole e le esultanti dichiarazioni di Mons. Fisichella sono l’inquietante prodromo in Italia. L’invenzione del concetto e del termine di “laicismo” è sintomatica del disegno di svuotare i contenuti delle conquiste civili della democrazia e della concezione di laicità dello Stato: essi sono oggi aggirati invece che aggrediti frontalmente, con la riproposizione, sotto le mentite spoglie della “civiltà occidentale”, della “Legge Divina” di Ambrogio e della “Città di Dio” di Agostino. Ignoranza della storia, indifferenza, disimpegno politico e infine atonia morale sono i complici inconsapevoli della “via di Cristo” per il regresso della società italiana ai “valori” dello Stato etico. Quanto questo sia l’approccio più adatto ad una realtà sempre più multietnica, sovranazionale e culturalmente plurale, il futuro si farà carico di dimostrarlo.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220

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