Sociologia del cinema: pubblico e critica cinematografica


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Sociologia del cinema: pubblico e critica cinematografica

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Pio Baldelli

Sociologia del cinema Pubblico e critica cinematografica

Editori Riuniti

Copyright by Editori Riuniti • Via dei Frentani, 4-e - Roma, giugno 1963 Impaginazione e copertina di Giuseppe Montanucci

Indice

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Premessa

Parte prima

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Tendenze e dibattiti nella cultura cinematografica con­ temporanea Il cinema tra astratti e figurativi, p. 11 — Secondo i temi (o con­ tenuti), p. 13 — Secondo u linguaggio (struttura narrativa), p. 13 — La moderna tragedia plebea, p. 16 — Linguaggio e contenuti, p. 40 — I giovani registi del cinema italiano, p. 54.

Parte seconda

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II problema critico dei film di C. Chaplin La destoridzzazione di Chariot, p. 80 — Pretesa coincidenza sto­ rica con gli avvenimenti, p. 108 — La condizione inesistente: « Tempi moderni » e « Luci della ribalta », p. 114 — Nascita e natura di Chariot: metodo di Chaplin e presenza del pubbli­ co, p. 146.

Parte terza 155

Accordi sintomatici tra la critica contenutista e la critica formalista «Senso» e l'ipotesi del personaggio dal neorealismo al realismo, p. 182 — Teoria della distinzione tra film e spettacolo cinemato­ grafico, p. 211.

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Parte quarta 219

La razionalità dell’arte nella esperienza dell’opera cinema­ tografica La composizione del film « Bellissima », p. 240.

Parte quinta 269

I fondamenti della diseducazione del gusto estetico: la let­ tura delle opere d’arte nella scuola italiana

Lettura psicologica del personaggio, p. 271 — I gusti dell’educa­ zione scolastica, p. 287 — La tecnica dell’educazione estetica: il bello e il brutto, p. 299.

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Indice dei nomi

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Indice dei film

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Premessa

Questo libro non espone una casistica della critica cinemato­ grafica o una rassegna particolareggiata della metodologia critica, ma centra il discorso sugli episodi fondamentali (di questo dopo­ guerra) dell’esercizio della critica di fronte ad opere « sintoma­ tiche ». Per esempio: la questione della narrativa popolare e plebea; la questione del rapporto tra evoluzione del linguaggio e presenza dei contenuti; la questione del romanzo-antiromanzo-affresco cine­ matografico; il problema critico dei film di Chaplin (da una parte si costringe l’opera di Chaplin ad una coincidenza deterministica con gli avvenimenti storici e si perde il primato dell’autobiografia sopra la materia sociale; da parte opposta si giunge alla destoricizzazione dell’opera di Chaplin identificando l’autore con il pro­ prio personaggio, Chariot)', la questione della razionalità dell’arte «^//'esperienza dell’opera cinematografica; la lettura psicologistica del « personaggio » e dell’intreccio; la teoria della distinzione tra film e spettacolo cinematografico; l’ipotesi del passaggio dal neo­ realismo al realismo; la tecnica dell’educazione (o diseducazione) estetica nella scuola italiana. L’A. si è preoccupato di portare continuamente le teorie al vaglio delle concrete opere cinematografiche. Filo conduttore del lavoro: l’indagine sulla « materia popolare », condotta sia dalla parte del pubblico sia dalla parte delle opere e degli autori cine­ matografici.

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Parte prima Tendenze e dibattiti nella cultura cinematografica contemporanea

Il cinema tra astratti e figurativi Se lo spettatore confronta la produzione cinematografica ita­ liana con quella di altri paesi, non possono mancargli motivi di grosse soddisfazioni. Che serve dunque lagnarsi, pungolare, spac­ care il capello in quattro? D’accordo: a condizione di tenersi pa­ ghi di qualche prova poetica valida, e di un decoro consolidato nella confezione dei film, oppure di considerare il cinema come un passatempo, una distrazione gradevole. Ma se confrontiamo la pro­ duzione cinematografica con l’enorme potenziale espressivo con­ tenuto nei nuovi mezzi della tecnica cinematografica; con la ine­ ducazione dello smisurato pubblico cinematografico (capace tutta­ via, se avvicinato senza paternalismi, di giungere ad una compren­ sione non grossolana delle opere); con il disagio presente nella vita interiore dell’individuo e con le complesse contraddizioni della vita sociale contemporanea; allora ci accorgiamo di quanto poco vivano nell’immagine cinematografica l’uomo e la vita moderna e come sia ragionevole e feconda la scontentezza (non inacidita e non priva di cautela) che aggredisce la levigata bravura di registi e sce­ neggiatori. A grattare l’intonaco, si colgono i segni di ima ope­ razione in corso che tende ad acclimatare il cinema ad un tempo che « pacifica » e svigorisce ogni tensione rigorosa: ci si aggiorna furbescamente in superficie — secondo le trame di un’era di con­ sumi e di inerte coesistenza — nella bella scrittura e nelle maniere che abbiano apparenza quotidiana, si prediligono fatti ed emolioni sensazionali ma privi di prospettiva e di forza di inter­ pretazione, si procede ambiguamente tra il dire e il non dire am­ miccando a destra e a sinistra, commemorando quei fasti popolari che non disturbano la cerchia dei potenti. La materia popolare della 11

narrazione compare di frequente, è vero: ma si tratta spesso di un trito divertimento di dotti sopra la vita dei disgra­ ziati: li adorano, li circondano di dolci sentimenti, li redi­ mono anche; ma sempre trattandoli non quali persone vive, ma come oggetti privati, da incorporare nella propria angoscia, o come felici animali. Insistono, poniamo, sopra l’argomento della prosti­ tuzione: ma subito consolata dal fatto che la prostituta vende il corpo ma, in fondo, salva l’anima e il senso della responsabilità. Anche la morte spicca in questi film: ma per diventare rapidamente un pretesto per ogni sorta di arabeschi e divagazioni eleganti. Lo schematismo del vecchio personaggio positivo sembrerebbe supe­ rato a guardare queste opere: ma affiora lo schematismo succes­ sivo, quello del personaggio « equilibrato » in cui si mescolano diligentemente bianco e nero. Anche nel cinema imperversa la contrapposizione tra « astrat­ ti » e « figurativi » (o, nella serie dei sinonimi, tra: « umani » e « disumani », estroversi e introversi, informali — materici — ato­ nali e descrittivi, decadenti e populisti, neosperimentali e conte­ nutisti, opere « aperte » come un grosso occhio senza palpebre c ciglia e opere chiuse dentro l’intreccio, i personaggi e la psicolo­ gia). Senza darsi la pena di discernere tra le produzioni concrete, si è « preso posizione », o ci si è « schierati » pro o contro una piuttosto che l’altra poetica; per cui pare che corra l’obbligo di scegliere come modello Rocco e i suoi fratelli oppure Rino al­ l’ultimo respiro e Jules e Jim: non puoi apprezzare, in ma­ niera diversa, l’imo e gli altri indicandone magari le condizioni irri­ petibili; decidersi tra, per esempio, La lunga notte del ’43 o Tirate sul pianista: e non precisare che sono entrambi poco si­ gnificativi; scegliere fra Combattre pour nos droits e Fucili degli alberi: senza indicare i limiti e i pregi che appaiono nella prima e nella seconda opera; tra vecchio neorealismo e « nuovo corso »; tra Accattone e Salvatore Giuliano; tra 1’eclisse dei sentimenti e il sentimentalismo del disgelo; tra i giovani regi­ sti e gli anziani; tra il film di fabbrica e la materia informale. E spesso non ci si accorge che, a parte i valori diversi, i limiti e le contraddizioni stanno fuori di queste apparenti dicotomie, dentro le opere, e sono limiti che dipendono o dalla pochezza dell’espres­ sione poetica o dalla miopia ideologica del punto di vista. Proviamo a separare, sommariamente, la produzione cinema­ tografica italiana per temi e. per linguaggio. 12

Secondo i temi (o contenuti)

1 - Film che cercano la rappresentazione dell'uomo sociale (ossia spiegato nei condizionamenti sociali e politici). Argomenti: vita di fabbrica, Resistenza, mafia, lotte contadine, questione meri­ dionale, briganti politici, magagne della burocrazia, miseria delle borgate, delitti d’onore, matrimonio all’italiana, emigrazione in­ terna, cuccagna economica, inchieste sociologiche, denuncia civile, ecc. 2 - Film sull’individuo isolato e sulla rarefazione dei rapporti sociali. Argomenti: disgregazione della lingua comune e della con­ vivenza, orrore della massificazione e dei massmedia, fragilità dei sentimenti schiacciati dall’insicurezza dei tempi, gusto del naufra­ gio, alternativa nell’erotismo, contemplazione della nausea morale, rifiuto di ogni scelta in quanto positivo e negativo si eguagliano e poi niente vale la pena di uno sforzo, ecc.

Secondo il linguaggio (struttura narrativa)

1 - Film che puntano ad un ordinamento gerarchico pari a quello del romanzo tradizionale: prefigurare la materia narrativa, primato dell’intreccio e della ricostruzione regolare della psicologia del personaggio, narrazione chiusa, finzione spettacolare, recita del­ l’attore, sceneggiatura compatta ed articolata, e, spesso, ricerca del contributo della cultura dei letterati. 2 - Film che puntano ad una apertura narrativa ad angolo piatto, « scentrata », raso terra, oggettiva e cadenzata secondo le misure irregolari della vita reale; continue trasposizioni spazio­ temporali; nessuna fabulazione del « documento »; cinepresa al­ leggerita per l’« occhio selvaggio » e il contatto diretto; gusto per la materia informale, gestuale, guardata, composta di cose: ostra­ cismo al personaggio, ad ogni sorta di prefigurazione e di finzione spettacolare; niente interpreti, niente intreccio narrativo. Faremo delle scelte sulla base di tali soluzioni alternative? In realtà, avvicinando le opere concrete allo schema, le carte si rime­ scolano e la distinzione diventa meno semplice. Intanto, in certe opere il punto di partenza subisce uno scambio delle parti o addi­ rittura un rovesciamento interno: per esempio, questo film poggia sopra una materia sociale, le borgate, il sottoproletariato, narrare per gli altri, insomma: e poi ti accorgi che gli altri rappresentano 13

soltanto una materia manipolata e atteggiata a immagine e somi­ glianza dell’autore, in cerchio intorno alla sua situazione esisten­ ziale egotistica. Magari quel film comincia anche con un linguaggio nuovo, grammatica elementare, apparecchiatura tecnica ridotta al­ l’osso per far presa sul vivo delle cose: ma poi ti accorgi che il ce­ mento che lega le inquadrature si sgretola in una pasta verbosa e letteraria: il documento anticipato da antiquate finzioni retoriche. Gira e rigira, la produzione cinematografica oscilla fra i due poli che rappresentano oggi la tappa obbligata e la fonte di una gran parte delle manifestazioni narrative non soltanto italiane: l’angoscia di origine esistenziale (cui è legato il vagheggiamento di un mondo naturale perduto) e il grezzo naturalismo, nelle sue diverse sfumature (ivi compresa quella sociale e progressiva). Da questa parte il peso dell’angoscia e dell’ansia personale viene vani­ ficato nella dirittura del personaggio positivo; da quest’altra parte, il cinema si rifugia negli angoli morti del « disgelo » e del « boom » economico: quali l’arretramento verso gli « eterni » sentimenti, i personaggi medi equilibrati (tenuti in equilibrio), o i giuochi sce­ nografici sontuosi, i verdi paradisi della fiaba, l’idolatria dei «fatti», oggetti, cose senza alcun lume di critica e di interpretazione, la no­ stalgia della natura primitiva, del vigore vitale, della « preistoria », il primato della sperimentazione linguistica. La scoperta che il cine­ ma ha fatto di certa infelicità umana rappresenta una grossa con­ quista: solo che poi viene mistificata da certi pifferai che credono di parlare dell’alienazione oppure dai seguaci della scuola dello sguardo, che meglio sarebbe chiamare scuola della cecità: parlano tanto di sguardo appunto perché non vedono piu (come quando si parla tanto dell’amore proprio nel momento che non lo si possiede piu): migliaia di vecchie immagini sono depositate sulla retina, sull’occhio, e lo appannano. Anche nel cinema imperversa la contrapposizione tra « astrat­ ti » e « figurativi ». Senza darsi la pena di discemere tra le pro­ duzioni concrete, si è « preso posizione » o ci si è « schierati » pro o contro una piuttosto che l’altra poetica. Il vizio antico delle dispute accademiche si sta trastullando, negli ultimi tempi, con un elenco di nuove formule scolastiche (del tipo: « È piu congeniale al cinema italiano il romanzo - Visconti; l’antiromanzo - Antonioni; l’affresco - Fellini? »). Come nasce la questione dell’alternativa tra romanzo cinematografico e stilnovo cinematografico, tra cinema « letterario » e cinema-documento, e i propositi di formulare la definizione di una certa tendenza verso la quale si pensa di spin­

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gere e incanalare un nuovo indirizzo produttivo? L’uno dopo l’al­ tro apparvero in questi anni i film: L’arpa birmana, Hiroshima mon amour, L’année dernière à Marienbad, Il posto delle fragole, La dolce vita, L’avventura, La notte, A bout de souffle, e un paio d’opere di Bresson, e dall’altra parte, La ballata di un soldato di Ciukrai e Rocco e i suoi fratelli; nei paraggi ormeggiano anche le prime opere di una nuova generazione di registi francesi e italiani, e — ma in disparte — un gruppo di film americani (Occhio sel­ vaggio, Ombre, Come back Afrika!) in aperta e incisiva polemica con il metodo hollywoodiano. Questi film si disposero a ridosso del « disgelo »; come dire: crisi dell’eroe positivo e del dramma senza conflitti; gusto del chiaroscuro e del « personaggio medio », e com­ parsa del cosiddetto equilibrio oggettivo (non « fazioso », si dice anche: ma spesso quell’equilibrio significa falsa oggettività, disten­ sione diplomatica e indifferenza di fronte a posizioni nette). Poco per volta emerge la coscienza esistenziale del naufragio come una delle componenti della vita contemporanea (ma anche il compiacimento di questo senso del naufragio e il fiotto farragi­ noso di misticismo e di irrazionalismo vitalistico), e la contempla­ zione dei limiti oggettivi (l’« arido vero »). L’individuo viene sommerso dal « mare dell’oggettività », dal flusso ininterrotto di ciò che esiste, per cui sembra vano opporsi. Totalità esistenziale indifferenziata dall’io: « cosmo, mondo naturale e febbre mecca­ nica della città moderna racchiusi nello stesso segno ». E quindi crisi dello spirito rivoluzionario e della volontà di contrasto, resa all’oggettività priva di coscienza storica. Conver­ gono su questa situazione di fondo alcuni elementi pratici, quali: il drenaggio che la televisione compie del materiale narrativo più sciapo ma, nel contempo, la lezione positiva del linguaggio della telecronaca, vale a dire la scoperta della misura delle cose reali e vive; la stanchezza dello spettatore che sta per uscire dallo stato di idolatria in cui si trovava dopo i primi traumi televisivi; il suc­ cesso notevole di cassetta di certi film diffìcili e quindi l’evolversi del gusto di un certo settore di spettatori cinematografici. Poi l’af­ fannoso dibattito dei letterati sui problemi del romanzo e del linf'uaggio, svolto in riviste, giornali e conferenze. E finalmente, 'eco della sferzata dei fatti genovesi di luglio, apparsa capace di penetrare dovunque in un modo o nell’altro (e nel cinema come Spinta ad una produzione pugnace, problematica ed energica). 15

La moderna tragedia plebea Anzitutti va messo in chiaro che la discussione non fa un passo avanti quando si comincia col confondere le carte al punto di par­ tenza: il discorso preciso sui testi. Se non arriviamo a stabilire una gerarchia di valori, non porgeremo alcun soccorso al pubblico potenziale che ne va in cerca. Non si possono allineare nella cate­ goria « cinema letterario », quasi fossero un assieme omogeneo, il primo gruppo dei testi citati, i quali sono non solo di valore artistico diversissimo ma anche di disuguale peso ideo­ logico: qualcuno non oltrepassando il piano della rimasticatura antiquata o della presunzione stilnovistica nel linguaggio, qualche altro limitandosi ad accennare un tema esistenziale con grezza approssimazione psicologica per tirar via di fretta e poi svolgere un divertimento in forma di orrore o di fantasmagoria figurativa; altri invece emergono forti di una perfetta sutura tra un contenuto angosciato di situazioni specchiate dalla realtà delle cose e un lin­ guaggio frantumato e naturalmente espressivo di questi contenuti. Dalla parte opposta, mi pare privo di ogni fondamento indicare all’apice della soluzione contraria (antiformalistica, ovvero: « reali­ smo critico ») il « romanzo cinematografico » di Rocco e i suoi fra­ telli. Se, invece di svolgere il suo mestiere nel concreto esame delle opere, il critico si limita a declamare le intenzioni del regista e poi indulge ad una parafrasi inerte della sceneggiatura, allora su Rocco e i suoi fratelli si giunge ad affastellare ogni genere di carichi ideologi­ ci: dal realismo critico al personaggio ed intreccio gorchiano, dalla formula gramsciana nazional-popolare fino alla litania dei riferimen­ ti canonici: Zola, Tolstoi, Mann, Verga, Balzac, Lukàcs, ecc. Alcuni dunque partono dal personaggio di Ciro e dalle sue parole nella chiu­ sa, e su di esso fanno perno per ripercorrere e interpretare l’arco del film descritto come un « esame critico dei rapporti strutturali entro i quali si articola la vita reale degli uomini ». Dire che Rocco e i suoi fratelli sia un film-romanzo sulla emigrazione interna italiana, con le conseguenze che comporta sul piano politico, sociale ed umano, non riesce secondo me a sviare lo spettatore medio dal gustare il film nell’unica e lampante chiave in cui va apprezzato. Questa chiave è il melodramma, un prestito dalla tradizione piu alta della cultura borghese italiana nel campo del teatro musicale. In questo senso, il film non pone in alcun modo problemi di arte popolare nuova, socialista e proletaria, come vorrebbe insinuare la 16

sequenza finale davanti ai cancelli delI’Alfa Romeo. Esso resta ancora un prodotto della tradizione borghese e tanto più meritorio in quanto realizzato oggi che gli ideali e le passioni che resero grande il nostro Risorgimento appaiono abbandonati in blocco dalla cultura borghese. Ma dove sta l’alternativa del realismo cri­ tico, la « ricostruzione » e pienezza del romanzo cinematografico, l’esemplare indicazione offerta alla cultura, « la visione futura e gramsciana di un’Italia unitaria »? Rocco e i suoi fratelli si regge su un impianto equilibrato ma irripetibile e precario. Basterà for­ zare qualche elemento di questo impianto, proporsi la medesima materia « popolare » fuori di quelle misure uniche: l’equilibrio ne va in pezzi. E spunta la pleiade degli imitatori oppure un genere plebeo, quello dell’Arialda. Ma qui, disgraziatamente, l’autore del testo teatrale e il suo regista (il medesimo del film di cui parlavamo) ci ripiombano nel miscuglio di decadenza e di populismo. Sembra che sia necessario edulcorare i nostri giudizi o adirittura far finta di niente quando ci troviamo di fronte ad opere di intellettuali laici, gravemente confusionarie. Ci addentriamo sopra un terreno minato, ma l’argo­ mento (la narrativa, il cinema, il teatro popolari) oggi appare fon­ damentale nella battaglia delle idee, quando tanti nodi stanno venendo al pettine. L’approccio al nuovo personaggio popolare venne in passato deviato e adulterato in vari modi: ora coprendo la materia prima con la violenza verbale e demagogica di certo mimetismo vocaboliero, piantato in mezzo a cascami di compiacimento erotico; ora componendo film, libri e quadri non « popolari » ma sul popolo per i quali, ad esempio, uno spaccapietre non è mai solo uno spaccapietre ma un eroe che picchia sul sasso come San Giorgio sul drago. Il neorealismo ha cercato nelle campagne e nelle officine (ma qui in misura minore) la lotta e il sangue delle rivolte sociali, e insieme una immutata arcadia dalla quale fossero esclusi il dub­ bio, lo smarrimento, il disgusto, le astenie, la sinistra crudeltà, componenti non secondarie del nostro vivere « in un secolo di ricatti atomici, tra rispettabili canaglie e il benessere delle rate ». Ma l’arcadia delle forme e la posizione eroico-monumentale del personaggio popolare genera una reazione uguale e contraria: di fronte alla concezione infantile e natalizia della vita, infusa nella materia popolare, compare in questi ultimi anni la ricerca di certe misure medie, « oggettive », di figure chiaroscurate; poi l’esalta17

zione del vitalismo biologico per cui il popolo diventa sinonimo di « natura »; poi lo scialo di nerofumo cosparso sopra la materia popolare, dove frettolosamente si procede al trapianto di ogni sorta di orrori, inversioni e decrepitudini per cancellare i segni delle trascorse visioni eroiche ed edificanti. Qualcuno assicura di essersi trovato, durante la rap­ presentazione déH'Arialda, nella spiacevole situazione di dover applaudire, magari tiepidamente, per opporsi alle smanie e ai fischi dei « borghesi ». A me, per fortuna, non è capitato niente del genere: l’intera platea applaudiva, commossa dal bricche-bracche dei buoni sentimenti che evaporavano sul palcoscenico. E a ragione, mi pare. Perché va detto chiaro e tondo che sul palco­ scenico si dava un’opera non solo ambigua ma senz’altro contro­ realistica. Naturalmente, l’ideologia conservatrice si camuffa negli sgargianti colori di un nuovo tipo di mimetismo popolaresco e nella progressione di ingredienti adatti ad agganciare prima l’inte­ resse e poi l’adesione quasi incondizionata dei bravi borghesi. Emerge anzitutto l’elemento buffo, il preambolo colorito e diver­ tente, la lagna sentenziosa del popolino milanese sospinta comi­ camente come una citazione, il giuoco dell’amore, il va e vieni dei ragazzi dietro la siepe sui prati, la contegnosa caricatura che Stoppa fa di quella bestia di carne dell’ortolano, la dismisura fra la di­ messa figura fisica della Morelli e la bravura con cui sbraita improvvisamente le sue frasi'grevi ed aggressive. L’elemento buffo funziona da correttivo immediato allo spettacolo della « barbarie plebea », degli improperi in gergo, della violenza verbale, insomma di quel mimetismo popolaresco che dava contemporaneamente allo spettatore borghese il senso di partecipare ad un’impresa intellet­ tuale assai avanzata, garantita da veti categorici (gli interventi di un sottosegretario bigotto e provinciale e degli uffici clericali della pubblica morale). Su queste coordinate, dovrebbe ora crescere la protagonista della « tragedia plebea », senza fatui intenerimenti e stantii paternalismi. La degnazione paternalistica va messa da parte poiché — spiega l’autore — il proletariato non aspetta di essere « salvato » e quindi privato della sua autonomia fisica e spirituale. Chinarsi sulle classi subalterne in cerca d’ispirazione significa disco­ noscere la forza cosciente che ormai il popolo possiede. « Spero di aver raccontato una storia di viscere e di sangue — ha detto ancora Testori — e di averne fatta una tragedia plebea. » A me pare che l’autore sia rimasto ancora al piano della « storia di vi­

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scere ». Non vi incontriamo altro che una zitella schizofrenica In preda ad erotici furori, smaniarne contro quel fidanzato morto che non le concede requie («Mi viene addosso nel letto, tutte le notti, quel marcione di un marcione; stanotte non mi ha lasciato chiudere un occhio che è un occhio »). La monotona reiterazione di questo motivo, protratta fino a positure melodrammatiche, viene Ingigantita in simboli gratuiti di catastrofe che si appoggiano mala­ mente • sulla fragile premessa dell’idillio iniziale calcolato fra TArialda e l’ortolano. La tragedia — plebea o no — è sempre rottura morale. Ma qui? Qui non ci sono altro che viscere e stre­ piti. E allora diventa tragedia anche il fatto di quei due « plebei » che si ammazzano per il posto al cinema (notizia apparsa di recente nei quotidiani). È esatta la descrizione della vita nella periferia milanese? Non credo, ma la questione non va proposta in questi termini. Considerate da vicino la faccenda: davvero manca nelVArialda — definita tragedia plebea — quel diaframma paternalilitico e redentivo tanto deprecato? Dica pure di no l’autore, l’evento redentivo esiste anche nella sua macchina teatrale. Salvo che si tratta ancora di redenzioni di vecchio stampo, biascicate per abitudine, come i grani del rosario: insomma, la vecchia antifona cattolicizzante. E dove sta questa redenzione? Nell’innesto sul personaggio popolare, dall’esterno, del lieto fine capovolto, in cui si dice che la vita non merita di essere vissuta e che l’invidia e Il vizio allignano ovunque. Ed ecco la proclamazione plebea del rimorso, la rassegnazione che sigilla la furia della violenza verbale, l'antifona (senza dialettica) di colpa e redenzione, la protesta non maturata che dà dannazioni nel sangue e nelle viscere e screziata dalle « istanze sociali » di qualche vago improperio, fortuito e ficcato di traverso tanto per accontentare anche l’altra parte del pubblico, contro « quei ladroni del centro » oppure contro « i signorini che hanno studiato, che sono piu marci di tutti i marci », 0 manovrando la comoda pedina del giovane operaio licenziato. La macchina tragica qui concentra ed esibisce il massimo di Issanti congegni che spaccano il cuore ai protagonisti e li avviano ad una qualche espiazione, dopo la catastrofe predestinata (per­ duto Taffettà della figlia, Gaetana invoca aiuto ai piedi della rivale 0 poi si uccide; Lino si sfracella correndo in motocicletta, ed Eros proclama che in questo mondo marcio non c’è posto per l’amore • la felicità; Mina crolla disfatta e purificata ai piedi del suo idolo muto, ecc.). Perché non rimangano dubbi, e l’adesione dell’ipo­ 19

crisia filistea dello spettatore giunga a pienezza, sopravviene il gran finale, una specie di apocalisse periferica da cui sgorga l’omaggio alla morte giusta dispensiera, il trionfo dei defunti e il disprezzo per tutti i vivi, vittime o carnefici. Se i vivi sono cosi malvagi, meglio i morti, meglio l’altro mondo, non resta che invo­ care la pace della tomba. La responsabilità degli oppressi e degli oppressori qui viene pareggiata sulla base fisiologica e patologica delle umane debolezze. Si replica: « Ma se queste cose le pensano spesso proprio i poveri quando si lagnano: che inferno questa vita, meglio la morte! e confessano lo schifo per il prossimo, la sconfitta, lo scatenamento degli egoismi, e via discorrendo? ». È vero, purtroppo! Ma in quale maniera, pochi o tanti di loro, sono giunti a sospirare la pace nella tomba, e si corrompono, ecc.? E il problema dominante dell’arte popolare non sta nell’aiutare gli uomini « nuovi » (ma non gli uomini in generale, astratta categoria) ad essere sempre piu intel­ ligenti, sensibili, moralmente forti? Eppure questi proletari delVArialda non preoccupano la buona società borghese seduta in pla­ tea: fanno la nostra vita — sono come noi — dunque possiamo continuare — cosi va la vita. L’opera non presenta nessuna alter­ nativa alla loro vita di borghesi: possono continuare perché tutto il mondo diventa paese. Davanti a me, in teatro, durante lo spet­ tacolo, sedeva una signora di mezza età che portava in testa un colbacco imponente: per distinguere meglio le figure sul palco­ scenico mi sono chinato nello spazio tra lei e il suo vicino di pol­ trona e mi è accaduto di cogliere il giudizio della signora sulle vicende di Arialda e dei personaggi minori: « Talmente giusta! » — diceva — e poi: « Talmente umana ». Si rassicuri (o se ne preoccupi) Testori: passato ormai il primo choc, la « buona so­ cietà » non ce l’ha affatto con questa sua opera, nonostante i furori reazionari del signor Helfer. E dunque che volete che im­ porti la cosiddetta rottura di certe regole teatrali (decantata dal regista: « Chiude in tronco le scene, lascia in sospeso le frasi », ecc.)?1 Val meglio l’unica scena genuina del dramma — lo scon-1 1 Quanto alla regia dell’AriaMa, mi pare piuttosto scadente. Condivido il parere di V. Pandolfi: « La regia di Visconti ha fatto ricorso stranamente a espe­ rimenti dilettanteschi: mobili a ridosso di quinte fotografiche raffiguranti enormi caseggiati per presentare gli interni: abuso di ’in facile commento musicale: «inaretti fra quadro e quadro, che moltiplicavano gli intervalli; luci piatte e oleogra­ fiche; lentezza di ritmo e improvvisamente violente esagitazioni, particolari ag-

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tro disperato e pietoso tra le due terrone, madre e figlia — che non questo gran frantumare e sospendere del nuovo linguaggio '. La questione non si pone nei termini della verosimiglianza: esatta o no la descrizione della vita nella periferia milanese? Potrà anche darsi che in certe zone di disgregazione sociale ai margini di una metropoli la vita ristagni tra pederasti, magnaccia, fannul * Ioni, bulli, spacciatori di droga, sgualdrine. E tuttavia la vera tra * gedia plebea moderna sta, semmai, nell’intreccio di due circo­ stanze: l’esasperazione psicologistica senza via d’uscita nell’indivi­ duo e, d’altra parte, il fatto che l’avvilimento del singolo uomo o dei gruppi umani arriva ad un punto tale da non riuscire a scor­ gere nella coscienza neanche un barlume di spiegazione politica della propria disgrazia e miseria. Vale a dire, quella sclerosi etica (e il resto) ha un prima e un dopo, sta dentro a una situazione sociale. £ un fatto privato autonomo, da capire come circostanza morale fornita di certe ragioni indistruttibili e irrelate; ma non autarchico: l’autore deve far sentire che quel personaggio non vive murato, fuori dal mondo reale: nel quale l’autonomia delle singole persone non resta isolata dal contesto umano e poi enfa­ tizzata, ma vi appare condizionata secondo la dialettica che com­ une l’individuo con l’organismo sociale. Difatti, la narrativa popoare costringe oggi a due premesse necessarie: primo, il peso del'angoscia personale e l’inerzia della stanchezza privata non pos­ sono essere vanificate nella prospettiva di classe, nel lieto fine edi­ ficante, nella dirittura del personaggio positivo, nel perbenismo che taglia le figure all’altezza della vita sopra il ventre, nell’assenza di conflitti, nel determinismo dell’ambiente — come fa la descri­ zione pseudomarxista, con i suoi monumenti; secondo-, la gran|te»ilvi ». Il regista reputa VArialda « un pezzo di teatro validissimo (...) una storia the come un fiume va verso la morte». Del resto, per l’intera opera di Testori nutre « ammirazione incondizionata »: gli piace « il suo coraggio (...) quel penetrare a fondo i problemi di un certo tipo di umanità, con una sincerità e una violenza che nessun altro autore possiede». * Dopo la cinquantesima replica, passata a Milano, alTArialda successe di Incappare nelle ire della coppia Trombi-Spagnolo. Si tratta di un nuovo episodio della battaglia tra antidemocrazia e democrazia nel nostro paese, tra la spinta di coloro che vorrebbero ridurre gli spettatori ad una sterminata platea di perpetui minorenni, e la spinta di chi considera adulti gli spettatori o comunque capaci di macere. Tuttavia non siamo per niente d’accordo con Guido Piovene quando scrive che dobbiamo resistere « anche battendo le mani a una commedia come l’Arialda che pure, sotto l’aspetto critico, può essere discutibile.» A mio parere nessun intento •niorlo, per autoritario che sia, giustifica la falsità critica e la confusione delle

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dezza e miseria di queste ragioni private (la morte di un ragazzo di vita, o la morte di un figlio, per esempio: non consolata dal fatto che la vita continua, il progresso si afferma, l’uomo giunge sulla luna, il partito chiama a raccolta, la patria si avvia a gloriosi destini, ecc.) vanno coordinate in qualche modo con la situazione storica. Intendiamoci: non occorre parlare direttamente del po­ polo o installare le vicende nelle fabbriche o fra l’occupazione delle terre incolte: l’oppressione di classe vien fuori anche aggi­ randosi in ambienti e tra personaggi di diverso rango sociale. Ma decisa la scelta del punto di vista, la materia popolare non si pre­ sta ormai a diventare ancora pretesto per qualche nuovo genere di compiacimento naturalista o decadente. Perché si capisce che quel tale — operaio, contadino, proletario disgregato — possa, di fronte ad una sconfitta nel campo del lavoro, ad un delitto che scuota o magari coinvolga la sua coscienza, di fronte alla disoc­ cupazione o alla corruzione dei superiori che lo sospingono ad alzare le braccia in segno di resa, possa forse vivere in una situa­ zione psicologica priva di agganci ulteriori, tanto da sentire che niente vale la pena, che la pace sta nella morte, ecc. Ma, anche senza giustapporre paternalistiche delucidazioni o troppo facili redenzioni: sta di fatto che quella circostanza privata senza via d’uscita (almeno momentanea) è un risultato che non si può riper­ correre solo come un itinerario della psicologia personale, della indipendenza di giudizio, della 'scelta libera, del trionfo della natura, dato che viene condizionata da un sistema di rapporti che non vanno trascurati, pena l’inesattezza, l’improprietà espres­ siva e la perdita del bene prezioso della consapevolezza razionale di se stessi e del mondo. Testori, per esempio, fa che una ragazza del popolo inorri­ disca di fronte all’aborto (vedi 11 ponte della Gbisolfa, p. 183). La sua coscienza insorge e grida all’assassinio, di cui si sente responsabile insieme ai suoi familiari. Bene, ammettiamo pure che l’aborto corrisponda a un assassinio. Ma a patto che contempo­ raneamente l’autore popolare non dimentichi di inserire quel fatto in una continua ambivalenza espressiva per la quale la colpa diventa responsabilità non solo privata ma di una oppressione organizzata ed ipocrita: si profila l’ideologia religiosa che respinge il figlio illegittimo, l’organismo sociale che toglie il pane di bocca ai genitori, licenzia l’operaia in caso di matrimonio, scatena le guerre, facilita i vizi, disgrega le forze della natura umana con i

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miraggi del benessere individuale. A questo punto compare il momento tragico non fittizio. Sicché da una parte superiamo il « diaframma paternalistico e redentivo che, all’atto d’applicarsi alla realtà popolare, ne impedisce la comprensione e lo scandaglio totale » (per cui oggi si osa ancora credere che un operaio non possa commettere un delitto, se non affrettandosi a rintracciarne le ragioni sociali, ambientive, politiche) e « nega che le ragioni sono anche quelle che affondano nelle viscere dell’esistenza »; ma superiamo anche l’esperimento naturalista che nega che le ragioni sono anche quelle sociali, ambientali e politiche. Proprio sul terreno della narrativa popolare si trova il luogo su cui si concentra il massimo della confusione di gusto e di ideo­ logia ed anche lo spartiacque tra il dire e il fare, tra i programmi c le opere concrete. Non affrontando questo ponte dell’asino, la contesa sui nuovi linguaggi, sulle questioni del neorealismo e del romanzo cinematografico, sui « generi » rischia di attardarsi in oziose logomachie. Prendete il dibattito a proposito di Viva VitaIla. A. favore del film hanno preso posizione schiere di registi, di sceneggiatori, di letterati di gran nome, e parecchi critici di sinistra. Non dubito che si possa difendere in qualche modo Viva Cltalia di Rossellini. Ma bisognava usare un po’ di discrezione: dire, per esempio, che in fondo si tratta di uno spettacolo comme­ morativo nel quale non manca qualche notizia sui contrasti che distinsero il nostro Risorgimento, e ringraziare il cielo che a questi lumi di luna non si sia commemorato nel cinema il centenario raffigurando l’incontro di Teano con il contorno solito di greggi e pastori. E si poteva anche girare al largo indugiando sui pregi del colore, sulla ricostruzione topografica dei movimenti nei campi di battaglia, sulla cura dei particolari negli abbigliamenti, su quella efficace scena nostalgica di re Ferdinando che lascia la reggia di Napoli. In altre parole: chi voleva, poteva tirare a campare. Ma I patrocinatori del film hanno passato il segno. Bisogna appoggiare questo film, dissero. E ne proclamarono le ragioni: 1) opera d’arte, anzi capolavoro d’arte; 2) decisiva rottura con l’impostazione storio­ grafica tradizionale, chiarezza e consistenza ideologica, apertura di una nuova strada anticonformista del cinema italiano, film-guida, Innegnamento morale ai giovani, forza di sintesi narrativa, ecc.; 3) genuino racconto popolare, capace di illuminare le masse. Di fronte A limili pretese, il contrasto supera l’opera informe di Rossel-

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lini ed investe le gravi confusioni (per esempio, l’affermazione per cui questo film non si tocca perché da destra lo stanno attaccando) che perdurano nel giudizio estetico ma soprattutto nella politica culturale del movimento operaio. Si fa un gran parlare dei meriti della presentazione di un Garibaldi non impettito e pieno d’acciacchi: inforca gli occhiali per leggere i proclami, porta la maglia di lana, non sguaina la spada, non erge l’intrepido profilo. Fatti inediti, ci assicurano. E invece fa parte del mito del personaggio — e anche dell’oleografia scola­ stica che serve a mascherare l’aspetto polemico di Garibaldi — la sua natura dimessa, la bonomia del bravo eroe che dopo le fatiche militari si ritira nella povera isola di Caprera, mangia pane e for­ maggio, tratta alla buona la gente. Questo si legge nei libri di sto­ ria dei nostri ragazzi, e questo troviamo nel film. Il fatto nuovo comincerebbe quando, dietro il facile mimetismo neorealistico, lo spettatore intravedesse i contenuti reali di questa natura; e in­ vece il personaggio viene completato da inopinate positure monu­ mentali: gli pongono in bocca tirate da manuale scolastico, frasi storiche, gesti teatrali: si inerpica come un giovanotto baldanzoso su per i greppi, passa in rassegna i feriti nemici a passo di carica e petto in fuori, strepita come fosse in una piazza d’armi: « Mirate giusto ». Diremo ora che tuttavia queste battaglie sono ricostruite con precisione? Ma certo, i particolari devono essere senz'altro esattissimi: la conformazione del terreno diviso in terrazze; il giro di colline a ferro di cavallo, e via discorrendo; ma questo spa­ ziare topografico, l’indugiare sulle lunghe misure, la larghezza dei mezzi e dei trasporti, diventa una generica, ordinata e magnilo­ quente illustrazione sradicata dai protagonisti dello scontro d’armi. Al livello dei quali le battaglie dovrebbero apparire magari con­ fuse e parziali — se confrontate ai calcoli della mappa di uno stratega — ma vere, vissute da uomini vivi, non da manichini. E qui invece noti l’esattezza esteriore, la latitudine del pae­ saggio, il variare dei colori: ma dove sono gli uomini? Soldatini di piombo che si mettono a cantare in coro gli inni della patria nel mezzo della zuffa, pronunciano parole memorabili, o si dissan­ guano in pose eroiche. Personaggi minori e coro di contadini e garibaldini vengono disseminati in ogni fotogramma: ma forse li conosciamo? Pupazzi di una farsa paesana, sono ficcati di traverso nel film con pretesti insensati: come la comparsa della pastorella calabrese che si sacrifica o la spaesata figura della giornalista stra-

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nicra in pantaloni: personaggi che stanno nel film come i cavoli • merenda. Si fa affidamento sul mestiere del regista: ma qui il regista manca di senso comune se affibbia la parte di Bixio ad uno Stoppa che poi viene costretto ad una recitazione contratta e comicamente isterica o la parte di Baldi ad un Interlenghi pulito ed educato che se la sbriga con una mimica da filodrammatico petulante e parla di tanto in tanto come un libro stampato. Altro che chiarimenti ideologici! In realtà si avverte che al fondo del film vige la pratica anacronistica della vecchia politica delle alleanze ai vertici. Guardate la sceneggiatura, spia della na­ tura di questo film. Da ima parte sta il regista, disponibile a vari tipi di accordi e di soluzioni ideologiche, ma fornito di una intuixlone cinematografica incisiva: comunque gli occorre per portarsi •1 punto di fusione una materia ribollente, la spinta che lo getti nel vivo delle cose. La rievocazione del passato o la riflessione metodica sui fatti non riguarda i suoi mezzi intuitivi. È disponi­ bile dunque: ma a far che? A « trascrivere » il materiale degli Maneggiatoti. I quali lavorano a coppie: due (A. Trombadori e S. Amidei) tirano da una parte e due (D. Fabbri e A. Petrucci) dal­ l'altra. Decisi in partenza a non tirar troppo la corda, ad un certo punto giungono al compromesso secondo la formula consueta: io do una cosa a te, tu dai una cosa a me '. Ed eccovi i frutti di que­ lito scambio: qualche puntata contro la conquista regia e l’inter1 Rara la combinazione di punti opposti a cui perviene la prova successiva di Rossellini: quel fumetto di Vanina Vanini: sacrilego e bigotto, antipapalino e disfattista, archeologico e inverosimile, comiziesco. A un certo punto, il confessore chiama Vanina c le fa un lungo discorso sull’obbligo della confessione e della purezza, poi passa a parlare delle tentazioni della carne, degli amori illeciti, dcll'onore delle fanciulle. Si tratta di un discorso idiota e quasi osceno. Ma il regista non ci deve aver badato troppo: importava solo accontentare i cattolici. Poi In un altro punto del film, Pietro, seduto sul letto, fa una chiacchierata storica: parla della rivoluzione francese, di Napoleone, della restaurazione, dei diritti del popolo, dell’uguaglianza degli uomini, del futuro avvento dei diseredati al potere. Anche qui un discorso insensato. Ma era la volta di contentare gli intellettuali di sinistra. Tuttavia stavolta i soci non reggono fino in fondo alla prova: il regista litiga con il produttore, gli sceneggiatori di parte sinistra protestano contro il regilata con una lettera alla stampa. Si dichiarano autori soltanto della iniziale ridu■ione cinematografica della cronaca italiana di Stendhal: 80 cartelle dattiloscritte, qua e là dialogata e sviluppata scenicamente (la riduzione riguardava l’ampliamento, anche descrittivo, delle componenti storiche della vicenda, l’esaltazione del con­ tenuto laico del tema, ecc.). Rossellini e il produttore accettarono questa ambientalione avvertendo che sarebbe stato necessario, in sede di sceneggiatura e di dialoghi, ivlluppate il rapporto d’amore tra il carbonaro e la principessa. Ma poi il regista preferì sbrigarsela da solo affermando esser suo metodo costante di non aver collaboratori nella fase di rielaborazione sceneggiata dei soggetti o delle riduzioni.

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prelazione sabauda del Risorgimento, i frettolosi maltrattamenti a Cavour — espressione della borghesia monarchico-piemontese ma anche inventore della formula « pericolosa » di una « libera Chiesa in libero Stato » — e l’omissione della parte svolta dalla Chiesa nel nostro Risorgimento, anzi la bugia che fa apparire le forze ecclesiastiche come preziose antagoniste dei Borboni e della borghesia, e fautrici dell’indipendenza nazionale: i frati e i preti accorrono sotto le bandiere garibaldine ma si tace che quei frati e quei preti incorsero nella scomunica; nel film a fronteggiare il potere reazionario si pongono una autorità civile intimidita e l’au­ torità religiosa di quel monsignore che si erge fieramente come la coscienza stessa della libertà e del diritto contro il generale bor­ bonico che rimprovera alla Chiesa di appoggiare i briganti libe­ ratori. Si replica: comunque siamo giunti a girare un film per il popolo, utile al popolo; e voi non fate gli aristocratici. A questo punto, il discorso sul film diventa secondario e si apre un dibattito sulla politica culturale del movimento operaio. Film utile al « po­ polo »? Che ci trova nel film il popolo? L’immagine facile di Garibaldi, il rosso delle camicie, un gran gridare viva l’Italia, il di­ vertimento di battaglie variopinte; poi sente dire che un certo Ca­ vour non andava d’accordo con Garibaldi e vede anche che il re po­ ne nella riserva le forze garibaldine. È questo un serio apprendimen­ to da cui si tragga profitto per gettare una luce anche modesta sul presente e sul passato? Per giungere ad un discorso cinematogra­ fico « popolare » esistevano due strade davanti agli sceneggiatori. Primo: scegliere il punto di vista dei protagonisti popolari, per il quale i suggerimenti sono innumerevoli. Fare contempo­ ranea, per esempio, la descrizione del passato nel quale le forze garibaldine vennero esautorate come i partigiani all’epoca della Resistenza; oppure costruire il film dell’impresa garibaldina intorno a quello spunto plebeo esposto nelle noterelle di Abba, dove si Invece richiese l’apporto degli sceneggiatori Fabbri, Grout e del predicatore fran­ cescano don Lisandrini (che dette vari consigli e scrisse il pezzo della confessione e il colloquio con il cardinale). I quali avrebbero introdotto grosse modifiche. Eccone alcune: carattere bonaccione del principe Vanini che, invece, nella riduzione veniva esemplato dallo stesso Torlonia, il noto banchiere ebreo finanziatore del governo pontificio; introduzione del personaggio del confessore con i suoi crucci sessuali, le sue fierezze dogmatiche e le sue impennate integraliste; introduzione dei tormenti religiosi di Vanina, dei suoi conflitti ideologici con l’amante carbonaro, della sua conclusiva entrata in convento.

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racconta di un frate sovversivo che esprime a Garibaldi la sua Insoddisfazione per i limiti dell’impresa: gente che si batteva o era disposta a battersi a patto che l’indipendenza politica dal Bor­ bone avesse anche implicato la liberazione dall’oppressione feu­ dale dei proprietari terrieri, il riscatto dei poveri; oppure poteva benissimo esser messo in pratica il proposito manifestato dal regi­ sta di allestire una sorta di Paisà 1960, il cui asse drammatico fosse imperniato sull’incontro o scontro tra i liberatori garibal­ dini (uomini del nord che ben poco conoscevano delle popolazioni meridionali) e i liberati del regno delle due Sicilie (borghesi e con­ tadini oppressi i quali poco sapevano dei loro liberatori); oppure Il punto di vista popolare poteva essere rivelato anche movendo dalla contraddizione politica per cui il luogotenente di Garibaldi giunse alla repressione sanguinosa delle rivolte popolari e spiegare le ragioni per cui la fiammata della partecipazione popolare trova rapidamente i motivi per incenerirsi e spegnersi. Queste e cento altre angolazioni fornivano il filo conduttore di una narrazione popolare, con i fatti visti dalla parte del popolo. L’espressione, come in casi del genere, va dalla ballata popolare ad una storia intrecciata intorno ad un personaggio plebeo fino ad una specie di grande western. Secondo: si poteva invece scegliere la strada di una deluci­ dazione piana e motivata dei contrasti storici e dei motivi della K|x:dizione. Nel film si accenna a certi contrasti. Ma nella misura in cui si crede che basti un cenno sbrigativo per porre in chiaro la questione, si dimostra la propria disposizione snobistica e pater­ nalistica. Difatti per capire da qualche accenno occorre perlomeno padroneggiare una certa inquadratura storica, conoscere un po’ la trama dei fatti, sapere la parte di Cavour e di Mazzini, non igno­ rare quali erano le forze che questi individui rappresentavano. I ra­ gazzi delle scuole superiori forse sono in grado di integrare qualche accenno del film. Ma le masse popolari in genere non dispongono an­ cora di necessari strumenti culturali. Bisognava fornire gli argomenti c le informazioni opportune entro un discorso adulto. Credere che un paio di battute e l’infantilismo della favola bastino, signi­ fica ignorare le circostanze della vita popolare. Non mi importa niente che gli sceneggiatori parlino male di Cavour e del re sa­ baudo — siamo ancora sul piano della storia interpretata come Kontro di individui e di umori individuali — se non emergono le forze che questi individui rappresentano o coordinano. E qui 27

invece il film svicola, lascia ancora lo spettatore sul piano degli individui: il saggio Garibaldi, l’antipatico e nefasto Cavour, il profittatore egoista Vittorio Emanuele II, l’infatuato e precipitoso Mazzini, ecc. Ed ecco il nocciolo della questione: il rapporto tra Vautore democratico, la materia popolare, lo spettatore popolare. Si sa che la cultura democratica di massa si trova quasi a zero. Soprat­ tutto perché si è quasi sempre equivocato sul punto di partenza: lo spettatore popolare. Vale a dire, non si è trattato con rispetto il popolo. Si è quasi sempre pensato al popolo come ad un gregge di minorenni da custodire e avviare prudentemente verso l’età adulta, da gonfiare di zelo e di visioni eroiche, da manovrare paternallsticamente dall’alto, esecutori o sudditi. Gli specialisti e i divulgatori hanno stabilito uno standard di cultura popolare che presuppongono essere nel pubblico. Lo hanno stabilito arbitraria­ mente ad un livello dal quale un gran numero di contadini e di operai sono tagliati fuori. Libri, giornali, cinema, radio, televi­ sione, comizi si allineano spesso al disopra di questa barriera. Quando poi ci si accorge che il discorso rimane troppo astratto e complicato e si vuol fare il possibile per farsi capire, allora si cade nel difetto opposto: si tratta lo spettatore come un pierino qualsiasi, privo di maturità politica e mentale e gli si rivolgono discorsetti insipidi, frasi fatte, argomenti infantili. Il punto di partenza invece mi pare un altro: lo spettatore popolare è quasi sempre politicamente adulto e maturo, ma gli mancano certi stru­ menti culturali. Se lo troveremo in condizione di inferiorità non sarà per mancanza di idee quanto per l’incapacità di esprimersi e di intendere l’espressione del pensiero altrui. In altre parole, per carenza linguistica ed informativa. Da qui muovono i tentativi di ogni moderna drammaturgia popolare. Si tratta oggi di partecipare in qualche modo, insieme allo spettatore, alla battaglia contro le tecniche del conformismo e della massificazione. Il nodo della faccenda si presenta proprio qui: certi congegni ultrapotenti (cinema, televisione, radio, ecc.) ingranano con una situazione di conformismo mentale e di alie­ nazione di massa che induce ad una specie di opaca rassegnazione, ad un vile vivacchiare e tirare a campare: cada pure il mondo purché sia salva la carriera, i « fatti propri », il margine di suc­ cesso di notorietà ed economico: disposti ad ogni ossequio verso chi comanda, nelle varie forme del doppio giuoco, distanti da ogni 28

autentica e non isterica ribellione, da una ferma adesione a senti­ menti e idee. Prospera un « arrangiarsi », individuale e collettivo, che ci permette di eludere tutte le responsabilità chiedendoci sol­ tanto il rispetto di un rituale e qualche quieto servizio. Le grandi strutture burocratiche che montano la guardia agli interessi con­ solidati capiscono sempre meglio il vantaggio che possono trarre diiH’impiego massiccio del cinema, della televisione, del rotocalco, In una circostanza in cui quarantasei italiani su cento non vanno oltre la terza elementare (come dire che sono analfabeti, anche se forse sanno firmare e leggere qualche fumetto); e settanta su cento non vanno oltre la quinta elementare. Sicché diventa urgente (e ancora possibile), fronteggiare questo grave pericolo: la conce­ zione edonistica, reazionaria, qualche volta brutale dell’esistenza, di cui sono spesso veicoli capillari le varie forme di « visione » che distraggono continuamente verso l’esterno, contrapponendo al­ l’inerzia la mobilitazione delle tecniche dell’anticonformismo. L’alie­ nazione di massa si affronta e risolve, beninteso, nel campo delle riforme di struttura, economiche e politiche; ma non basta, occorre scuotere la disattenzione di masse di pubblico, stimolandone gli strumenti del giudizio oppure, dove questa autonomia di giudizio esiste (molto piu largamente di quanto non si pensi), c’è da valo­ rizzarla, da comprendere le ragioni dello spettatore. Senza stantii paternalismi: perché, accidenti!, stiamo attenti a non fare, anche in queste operazioni, gli intellettuali da accademia, in due fasi: primo, gli indagatori sulle stranezze dei « semplici » e sui gruppi di sentimenti fluttuanti in esse; secondo, i quaresimalisti che, poi, pretenderebbero di educare alle forme belle, alla « verità » della « grande poesia », e via di questo passo. Ed invece, di solito, accade proprio questo: lo spettatore viene a trovarsi tra la spinta verso il conformismo di massa, da una parte, e l’ondata di mora­ lismo sociologico da parte di certi dotti indagatori, secondo cui il mondo contemporaneo assisterebbe ad una disastrosa eclissi del­ l’intellettuale in confronto al passato: l’apocalittico avvento della « cultura di massa » e dei nuovi mezzi di diffusione della cultura costituiscono, a sentir loro, soltanto un impoverimento del clima culturale generale. Sotto questa angolatura, la massificazione del mondo contemporaneo diventa, invece che un fenomeno derivato o un effetto, la vera causa dei nostri mali. Al vero intellettuale non re­ ità che isolarsi sulla vetta della propria purezza scientifica o artistica, respingendo le sollecitazioni della società industriale e inibendosi 29

la politica attiva anche quando vi si è spinti come cittadini. Quando si dice, come di recente, che, decadute le religioni, avendo perso efficacia i principi d’orientamento civile su cui si fondano le società liberali dell’occidente, al vuoto che s’è prodotto corrisponde la grande noia caratteristica della società moderna: sappiamo già che sta per essere evocato il tribolato personaggio dello spettatore. Di­ fatti: « Alcune minoranze possono riempirlo con lo studio o con la meditazione, ma le moltitudini ricercano altri espedienti pei dare un senso alla vita individuale. Ci sono le evasioni serali for­ nite sempre più dalla televisione e dal cinema, sempre meno dalla letteratura e, semmai, quasi solo dalla letteratura di libri morbosi, erotici o polizieschi. C’è l’evasione sportiva e ci sono poi le eva­ sioni più segrete, quelle che spingono l’individuo ad accettare un commercio con misteriosi fornitori di emozioni ». Lo spettatore viene dunque piazzato come bersaglio e caricato di ogni sorta di responsabilità. Ce lo conferma Moravia: « Il cinema è arte di masse; e le masse, come è fin troppo noto, non sopportano, a quanto sembra, la verità, tanto meno il cinismo, hanno i nervi deboli e vanno trattate con i guanti della menzogna ». Ma, per non dir altro, come è stato considerato (e quindi trattato) il nostro spettatore, in questi anni di « restaurazio­ ne », da educatori e politici, da teatranti e cineasti, da critici ed insegnanti? Prevalgono tre punti di vista. Per il primo, lo spetta­ tore appare come un personaggio-massa da scaldare e gonfiare di zelo o di visioni eroiche ed edificanti: enfasi pettoruta ed austera, discesa demagogica di schemi e mitologie, opere non « popolari » ma sul popolo. Lo spettatore diventa minorenne per il secondo punto di vista, e lo sfondo che più gli si addice è il presepe pastorale: con­ cezione infantile e favolosa della vita che giunge alla irrealtà della rappresentazione, come nell’icona del giardino verde e rosa in cui Stalin in giubba bianca accoglie innaffiando i fiori il colcosiano sbi­ gottito; qui si propongono alla platea varie tutele e provvidenze: la madre chiesa, la madre patria, il paterno capitalista, l’oasi fami­ liare, ecc. Si proibisce, anche, la pubblicazione di certi libri e si inveisce contro gli scrittori i quali osano sperare che il lettore se la vedrà da solo: « Costoro fingono di credere che, nei paesi che costruiscono il socialismo, tutti i lettori siano arrivati ad un livello di maturità politica ed estetica tale, che un autore socialista non debba più occuparsi dell’educazione dei lavoratori »; oppure la

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disistima nei confronti del prossimo si manifesta, qui da noi, nella proposta di scartare, nella didattica cinematografica, il Vangelo a vantaggio del catechismo, perché, secondo il professore Remo Branca, il Vangelo « insegna la pratica dei principi cristiani solo a coloro che per maturità di mente e di studi sono capaci di dedu­ zioni logiche; ma il popolo, gli scolari, la media degli uomini non sono capaci di tanto ». Per il terzo punto, lo spettatore viene visto come « folla » nauseante, invalida mentalmente, ipnotizzata senza rimedio, priva di autonomia, da nutrire a poltiglia di menzogne, di convenzioni, di luoghi comuni, mescolando la pornografia di tipo bigotto con vicende teatrali, televisive e cinematografiche melense, viscerali e sentimentali. Folla, soprattutto, da scansare: turarsi il naso e tirar via, evitare ogni contaminazione o ricerca di dialogo. I tre punti di vista hanno in comune la mancanza di rispetto per lo spettatore e la conclusione fondamentalmente reazionaria, non « laica » ed immune da intenti metafisici: mai vi è raggiunta In capacità di guardare le cose senza feticismo e senza terrore, senza trasformarle con la fantasia in idoli o in demoni. Alle prese con il mareggiare scomposto del gusto estetico di tanti spettatori, di solito non sappiamo che pesci prendere, ci arrabbiamo e finiamo con la pretesa che lo spettatore si vergogni della sua scelta, sen­ z’altro, dopo quattro righe di sbrigativa condanna. Dimentichiamo il punto di partenza dello spettatore. Non altra, del resto, è la parabola della tradizione europea: dai palazzi comunali ai giar­ dini architettonici un senso di misura, di limite armonico sta nel­ l’intimo della produzione europea: il rovescio, però, di questa mentalità, i lati negativi sono un certo orgoglio di nobilastri, il ripicco dei caratteri individuali, un inaridirsi di aristocratici, un senso asociale; insomma, l’incapacità di portare dentro la tradi­ zione ogni forma che appaia tumultuosa e non armonica. Tra i registi italiani, Germi ha in particolare il merito di avere Inteso l’esigenza di un’apertura popolare del linguaggio cinematog ni fico. Ma per questo verso, purtroppo, il suo sforzo, serio e Anche pugnace, arriva fino al contatto sul piano dei sentimenti « commoventi » e delle chiusure accomodanti, e da qui non si muove. Prendiamo L’uomo di paglia, un film che c’interessa anche perché la sua uscita ebbe a provocare un dibattito che mise in chiaro, nella critica di sinistra, il rischio dello scioglimento mec­

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canico dei nodi ideologici, per cui dalla retorica zdanoviana si pas­ sava un po’ frettolosamente all’esegesi cauta, comprensiva del punto di vista dell’avversario, ma troppo disposta ad ogni sorta di recu­ peri, infatuata dal « personaggio medio » e dai propositi di pru­ denza. La rivista II Contemporaneo pubblicava un contraddittorio su L'uomo di paglia nel numero 1-2 (aprile-maggio) del 1958. Il punto di vista della critica di vecchio tipo lo trovate nell’intervento appassionato di Barbaro: « A me questi operai di Germi, — egli dice, — che si comportano senza intelligenza e senza volontà, senza coscienza di classe e senza solidarietà umana, metodici e abi­ tudinari come piccoli borghesi, la cui società si esaurisce in partite di caccia domenicali o davanti ai tavoli delle osterie, che non hanno né brio, né slanci, sempre musoni e disappetenti, per­ sino nelle cose dell’amore, che ora fanno i crumiri e ora in­ guaiano qualche brava ragazza, spingendola al suicidio, e poi piangono lacrime di coccodrillo, con le mogli, e dentro chiese e sacrestie: questi operai di celluloide che, se fossero di carne e ossa, voterebbero per i socialdemocratici e ne approverebbero le alleanze, fino all’estrema destra, non solo sembrano caricature ca­ lunniose, ma mi urtano maledettamente i nervi ». Anche a me operai siffatti urtano i nervi. Ma questo vuol dire soltanto che Germi non sta dalla mia parte; e poi questo diventa un giudizio misurato nel rapporto con un’immagine dell’operaio che, giusta nel complesso, non esaurisce la tipologia operaia. In altre parole, esi­ stono nella vita operaia piccoli borghesi il cui senso sociale si esaurisce in imprese di poco conto e per i quali il fatto privato vince sull’interesse pubblico. (Alla stessa stregua, mi pare fuor misura la pretesa di imporre al regista la descrizione minuta di un ambiente «tipico» come fa A. Solmi su Oggi: «...'l’ambiente operaio in cui l’adulterio si svolge è piu conclamato nel dialogo che descritto per immagini. In realtà Andrea agisce e si comporta come un piccolo borghese piuttosto che come un rappresentante della classe proletaria. Manca lo sfondo, e mancano le reazioni ti­ piche che ci aspetteremmo da questi personaggi ». Ma se il regista intendesse proprio inquadrare da questo angolo la vicenda di un operaio imborghesito, e puntare, invece che su una storia sociale, su un episiodio privato?) Ed ecco, infatti, la replica del critico « distensivo », quello del disgelo: « Il personaggio centrale, An­ drea, — osserva G. Viazzi, — è non solo un operaio specializzato e di livello economico piccolo-borghese del nostro tempo, ma è 32

anche, e soprattutto, un operaio che ha, del piccolo borghese, assunto usi e costumi, mentalità, concezioni, pregiudizi e vizi (...) operai siffatti esistono nella realtà, e in gran numero, e non solo tra quelli che poi votano dici o socialdemocratico, ma anche tra quelli che danno il voto ai partiti di classe, e perfino tra quelli che vi militano. Questo lato della realtà è senz’altro spiacevole, ma poiché esiste, e costituisce un problema, non credo che ci si possa limitare a guardarlo con irritazione o a dichiararlo sbagliato, nega­ tivo. Bisogna anzitutto, se si vuole contribuire a mutarlo (cioè, per dirla in termini politici, muoversi in direzione della conquista della maggioranza della classe operaia, cioè della piena assunzione della coscienza di classe), conoscerlo per quel ch’esso concretamente è. Ritengo che nella misura in cui il film di Germi contribuisce a questa conoscenza, esso acquisti interesse, epperciò valore cultu­ rale e sociale positivo ». Come vedete, siamo ancora al di fuori del giudizio concreto. Perché il primo critico imbastisce questo ragionamento: l’operaio del film non è come l’operaio della realtà, quindi il film è negativo. L’altro critico argomenta cosi: purtroppo nella realtà esistono operai di questo tipo, e quindi il film risulta positivo, dalla nostra parte, in quanto fornisce la coscienza di una contraddizione del reale e quindi spinge al superamento del difetto. Egli aggiunge: « Vediamo, per esempio, in quale posizione si colloca Germi ri­ spetto all’Andrea de L’uomo di paglia. È evidente che, giusta la sua ideologia [l’ideologia socialdemocratica], egli non parte da una condanna a priori. È evidente pure che non lo segue tenendo un atteggiamento deliberatamente critico. Ma su ciò non avrei contestazioni da muovere: esigessi il contrario, mi parrebbe di pretendere da Germi un altro film, non già di parlare del film che egli ha fatto. Però se guardo L’uomo di paglia per quel ch’esso è, vi scorgo il racconto di un’esperienza umana che si conclude nega­ tivamente, con una disfatta, e pertanto sono portato a pensare che van ritenuti negativi il carattere, il comportamento (cioè in primo luogo l’indecisione, l’ambiguità, la debolezza), che han presieduto all’esperienza stessa. A me pare, cioè, che L’uomo di paglia sia la storia di uno sbaglio, proprio come II ferroviere era la storia del crumiraggio, poiché finiva col dar dimostrazione del fatto che il tradimento di una classe, anche se inconsapevole, porta alla distruzione della personalità ». E dunque la « distensione » giunge ad inglobare anche l’alleanza dell’ideologia socialdemocratica. 33

« Nella misura in cui esso pone dinanzi allo spettatore un quesito realmente esistente nella nostra società, quello della morale fami­ liare, che contribuisce a far conoscere, sia pur parzialmente, un aspetto di questa realtà, e aiuta a capirlo, merita un cauto e mode­ rato elogio (...). In ultima istanza esso ci dice a quale prezzo si paghi la debolezza di carattere, l’irresolutezza, la viltà, l’ambiguità, l’inganno. Consapevole o inconsapevole che sia, detta bene o detta male, questa è una critica. E non vedo perché si debba negarlo un siffatto, e sia pur parziale, discontinuo e impacciato, contributo alla conoscenza della realtà. » Lo si nega proprio perché non esiste: se esistesse il quesito della morale familiare, la rappresentazione del prezzo che si paga per la debolezza di carattere, ecc., allora giustamente non ci sarebbe barba di avversione all’ideologia social­ democratica capace di proibire un « cauto e moderato elogio ». Ma le cose stanno altrimenti. I due critici non riescono a cogliere il meglio ma neanche le ragioni del peggio del film. Che cosa voleva dire Germi? Fin dall’inizio Germi e lo sce­ neggiatore impostarono di comune accordo la linea generale del film: che avrebbe dovuto essere una grossa storia d’amore, una vicenda di famiglia anzi, e precisamente un adulterio, ambientato in un mondo popolare, e da svolgersi, si, in chiave intimista, ma in un clima non romantico, bensì realistico: « Fare un 'Breve in­ contro nel mondo di Ladri di biciclette », assicuravano. Dalla si­ tuazione generica di un uomo sposato da vari anni, la cui vita fatta di abitudini, alimentata da un solido affetto — la moglie e un figlio — ma priva di grosse passioni, viene improvvisamente scon­ volta da un fatto nuovo e imprevisto, nacque l’idea di una sequenza che avrebbe anzi dovuto aprire il film, la prima azione di cui lo sceneggiatore cominciò ad appuntare qualcosa su un pezzo di carta: quella relativa a un uomo che rimane solo in città per un motivo qualunque, e che nel corso di questa nuova esperienza si troverà a dover affrontare senza volerlo l’« avventura ». Tra due donne, la moglie e l’amante, si muove l’indecisione del protagonista e la sua assurda speranza di riuscire a conciliare l’impulso e l’azione: ma siamo gli uomini vuoti, imbottiti, che appoggiano l’uno all’altro la testa piena di paglia. L’ambiente del protagonista, la fabbrica, venne scelta secondo il criterio di rendere più accettabili i rapporti di amicizia che legano i personaggi che si muovono intorno al protagonista; le altre fabbriche visitate apparivano troppo orga­ nizzate, meno familiari insomma, e senza possibilità di comunica34

alone tra i singoli operai. Inoltre, il regista voleva avvicinarsi •ll'intimo del « personaggio », custodirne la vita intima in mezzo al nostri tempi duri. Anzi, i nostri tempi non gli piacciono, si proclama un uomo all’antica, gli piace il Palazzo romano di giu•tlzia e «porta i pantaloni col risvolto»: «Viviamo in un mondo ma­ ledetto. Guardatevi d’attorno. Guardate le case che crescono su «— da vent’anni ormai. La maggior parte di noi ci abita e non se nc accorge piu — ma guardatele bene. A tre anni dalla costruzione gli intonaci cadono a brandelli, perché si ruba sul materiale, ma non facciamoci illusioni: dentro, l’ossatura è di ferro, cemento armato. Sono piu solide del Colosseo, fra cinquemila anni saranno ancora 1( a testimoniare di uno dei più tristi momenti della civiltà. » E proprio come un personaggio all’antica, egli impreca contro il |«zz, il sex appeal, il neon, la pubblicità, i figli che vogliono i pan­ taloni all’americana. L’altro elemento che alimenta l’ispirazione di questo regista sta nel bisogno di una misura normale, l’onesta in­ tenzione di parlare un linguaggio comprensibile, di entrare in co­ municazione senza contorsioni intellettualistiche con i sentimenti della massa degli spettatori: « Noi vorremmo che il mondo fosse popolato da uomini coi principali organi — cervello, cuore e anche piandole lacrimarie, — al loro giusto posto ». Tra Germi e il pubblico medio si è creata una specie di affettuosa complicità. Si tende a qualcosa di nuovo, alla scoperta di un sentimento co­ mune, come quindici anni fa si tendeva alla scoperta d’una dere­ litta condizione sociale presa a simbolo d’una collettiva protesta. La sceneggiatura intendeva dunque rompere l’involucro della sfera borghese per affrontare un problema di sentimenti a un diverso livello sociale, rappresentare una vicenda operaia narrata « dal di dentro », senza lo schermo del populismo e senza l’imbarazzo del visitatore occasionale, con un profondo rispetto per i personaggi e I loro sentimenti. Si volevano colpire certe nostre debolezze e la paglia che imbottisce sovente la morale familiare. Questo era il 'Punto di partenza. Che cosa rimane delle intenzioni al punto d’ar­ rivo, vale a dire a film ultimato? Sicuramente, qualcosa d’impor­ tante che sarebbe ingiusto trascurare. Il regista riesce a creare un linguaggio normale, « popolare », capace di comunicare con lo spet­ tatore e vicino alla vita intima del protagonista. La rischiosa scelta •entimentale di due amanti (lui è sposato e adora la pace domestica, lei è fidanzata e ha deciso contro voglia di sposarsi) ha sul nascere «una commossa levità di toni, le sfumature dell’alba e insieme quel­ 35

le del crepuscolo, un autunnale presagio di morte. E, pur nella con­ traddizione dell’angoscioso rapporto, una sua morale fragranza di­ stante da ogni sentimentalismo qualunquista » (G. Fratini). Perché quell’amore non è un lusso, si vede troppo bene, ma una necessità prepotente; e non è fatto di frasi prefabbricate, di civetteria, di am­ biziosi gallismi. La rigorosa modernità della sua impostazione vieta, tanto per un esempio, ogni ricorso ai logori temi della gelosia e dei fisici confronti tra moglie e amante. La prima parte dell’idillio uma­ no scorre via tutta d’un fiato affidata alla discrezione emotiva di pas­ seggiate e colloqui fuori dal lugubre casamento dove i due abitano. A sensibile contrappunto dell’effimera vicenda, l’oasi familiare nella quale Andrea si rifugia con le sue debolezze e il suo irresoluto carattere. Ma ad un certo punto il film sterza bruscamente. E qui i cri­ tici di solito non sanno che pesci prendere e si rifugiano nella sbri­ gativa distinzione tra poesia e non poesia, lasciandosi sfuggire la ragione di questa caduta in cui consiste il nodo ideologico ed espressivo dell’intero film. Perché non basta assicurare che il re­ gista ha sbagliato negli ultimi venti minuti per il fatto di essere tornato a caccia di crude emozioni: « Per voler tendere fino allo spasimo l’arco della commozione, Germi ha perduto l’occasione di un grande film ». Non si tratta di uno sbaglio di misura, di forma: qui pesa un difetto ideologico, di chiarezza mentale che porta, coerentemente, ad un difetto espressivo, formale. La morte del cane, che impedisce l’ultimo colloquio con la ragazza, o il suicidio o gli effettacci finali (il regista ha fatto ricorso alle grosse inven­ zioni del suicidio, della confessione in chiesa, della fuga della moglie, del rimorso col vino e della riconciliazione in seno alla famiglia), non sono unicamente sequenze sbagliate, poco felici: costituiscono anche il segno di una insufficiente maturazione ideo­ logica, di una sfasatura tra l’autore e il mondo reale, tra una pre­ messa narrativa e una conclusione. Anche la spiegazione di Moravia (il cattivo genio deamicisiano del regista) non chiarisce perché il film precipiti, anzi, rimane sul piano formale, sbrigativo. Il critico si chiede perché la storia sia sfuggita di mano a Germi. Come mai questo è avvenuto? « Germi questa volta non ha voluto (o saputo) fare uno studio d’ambiente popolare né, in certo modo, il ritratto d’un personaggio tipico di quell’ambiente. Egli ha respinto l’am­ biente operaio sullo sfondo, limitandosi ad alcune pennellate indi­ cative: e quanto alla debolezza d’Andrea, essa è troppo compiaciuta

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c generica per risultare caratteristica. Resta la storia d’amore, di

una tenuità che non consentiva soluzioni violente. » Farei due obiezioni a questa spiegazione: intanto, il regista poteva benissimo raccontare la storia privata di un operaio anche solo scorciando lo afondo ambientale; d’altra parte, non mi pare affatto vero che questa storia privata sia tanto « tenue » da non sopportare solu­ zioni violente. Non si tratta di improprietà di una soluzione vio­ lenta, quanto del come e del perché si giunge a questa soluzione. Dicevo del punto di arrivo del film. Nel quale non si nega af­ fatto « a quale prezzo si paghi la debolezza di carattere, l’irreso­ lutezza, la viltà, l’ambiguità, l’inganno »; se mai, ci raccomanda l’in­ tegrità della vita familiare tradizionale, ci mette in guardia contro le sciagurate isteriche che menomano questo cerchio familiare, c’invita (involontariamente) ai buoni sentimenti cattolici, concilia il perdono e la colpa, nasconde l’importanza del fatto pubblico per accentrare ogni attenzione e prestigio sul nucleo della vita pri­ vata. Capovolge il punto di partenza — la critica ad un costume di debolezza e di conformismo — e svicola melodrammatica­ mente nel punto nevralgico, secondo l’abitudine italiana di non portare a fondo le questioni che obbligano ad una tensione dura­ tura. Ha ragione la Rivista del cinematografo, organo del Centro cinematografico cattolico (n. 4, aprile 1958) quando scrive, sotto il titolo di « Valutazione morale » del film: « L’integrità [cat­ tolica] della famiglia si manifesta pertanto come il bene piu alto, che garantisce la pace del cuore e la dignità degli affetti. La sua crisi — il film è esplicito in argomento — è la crisi della bontà e dell’amore, è la crisi dell’uomo sorpresa nelle sue dimensioni basilari ». Ma di quale famiglia si parla? Del fatto materiale di stare assieme numerosi familiari, senza riguardo alla reale situazione e al groviglio delle inadempienze della famiglia italiana con temporanea? L'uomo di paglia si intitola il film; ma non capisco perché di paglia. Il protagonista mi pare un brav’uomo in fondo, e disgra­ ziato per di piu. Il regista non ci dice niente della ragazza, anzi prima ce la mostra a Fiumicino in compagnia di un ufficiale; e Basta poco per accenderla, poi si getta addosso ad Andrea piena di ipasimi (scena nell’ufficio, con la macchina da scrivere), e fuma fuma: sensuale e smaniosa non si capisce altro di lei. Lui ha la figura del galantuomo: attaccato alla famiglia, ha una brava e bella moglie; un maschio vigoroso (anzi « espressivo », un « tipo » come

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si definisce da se stesso), caldo di affetti e sensazioni (scena a Fiumicino quando va a trovare la moglie e al mattino si alza tardi). Egli resta a faticare in città, noi colmo dell’estate, ri­ fiuta di frequentare i postriboli ed evita la compagnia delle pro­ stitute, non si dà insomma gran che da fare: la ragazza invece ci sta subito, quasi gli si butta tra le braccia: e d’altra parte, lei ap­ pare cosi singolare, avvenente e giovane! E poi: come indovinare la passione stravagante e catastrofica della ragazza (lui agisce da persona « normale », come lo spettatore)'? Non mentisce: non le dice mai di amarla (si veda la scena in trattoria), anzi sente che qualcosa non va, e che la storia deve finire. Poi torna la famiglia dal mare ed egli soffre del distacco, ma bravamente vince la ten­ tazione. Tuttavia la ragazza lo perseguita con telefonate continue, si apposta dietro ogni angolo: come una pazza, un’isterica; che fare, se non evitarla? Potrebbe, se fosse come tanti altri uomini di paglia, indurla a qualche forma di concubinaggio: lei guadagna ed ha una certa indipendenza economica, lui con un po’ di astuzia e di pazienza potrebbe portare avanti il doppio giuoco: come tanti, e invece no. La scena dell’acquisto del pane (lui con le tasche piene di sfilatini) ci dice che la famiglia vince, che l’uomo ragiona con prudenza. Nell’ultimo incontro fra i due amanti, in trattoria, ove essa quasi lo costringe ad andare (e lui a causa della ragazza è costretto a picchiare il bambino), la donna si comporta disgusto­ samente, come una pazza, da personaggio dei fumetti: e il pove­ ruomo — pensa lo spettatore — ha dovuto, per accompagnarla, picchiare il bambino, addolorare la moglie: colpa dell’amante scer­ vellata, dell’intrusa, essa non merita pietà. E quando muore per suicidio, l’uomo si mostra sinceramente percosso — cambia nel­ l’intimo: invecchia. E poi racconta il fatto alla moglie, per nobile rimorso, commosso, davanti al Signore sacramentale: è « onesto », poteva stare zitto, tirare avanti, rincantucciarsi, scusarsi con qualche alibi davanti alla propria coscienza. Sa a che guai va incontro con la confessione, non ignora il vuoto che si aprirà nella sua vita. E subito dopo, vediamo la sua desolazione, confortata dall’abbrac­ cio finale, e la maturazione intima dei tre familiari. In che senso, uomo di paglia, dunque? Il regista ha sba­ gliato il titolo — potrebbe pensare lo spettatore disattento. Per noi, invece, lo sbaglio sta nell’intero discorso, nell’idea-base che lo regge. Per la quale, il tema viene articolato da una sceneggia­ tura densa di conformismo « familiare » e di luoghi comuni: il 38

figlio bravo, l’amico fedele e comprensivo, la buona moglie, il mezzolitro, la chiesa, l’adulterio ripugnante, l’ultima notte dell’anno con i fuochi, il poveruomo piangente e solo come un cane mentre gli altri si divertono. Perché la narrazione evitasse gli scogli del conformismo e il personaggio apparisse davvero di paglia, occor * reva un’impostazione diversa: primo, un interprete diverso: meno teso, meno nobile e serio, meno prestante di Germi; secondo, una comprensione piena dell’intimo e della vicenda della ragazza (contro la quale il regista compie una sostanziale ingiustizia); terzo, un protagonista che non capisse niente della serietà, dell’impeto e della bellezza dell’amore di lei, e che si gettasse nell’avventura per irre«pensabile e vanitosa leggerezza, o cose simili. E poi rientrasse nel­ l’ovile perché li sta la sicurezza, il tran-tran quotidiano, la vita mediocre ma riparata, la vigliaccheria in cui vegeta l’uomo di paglia Italiano. Da questa inadempienza nasce la sproporzione tra la prima parte e l’ultima, quella della catastrofe. Che significa proprio l’in­ capacità (ideologica) di colpire un bersaglio della vita reale. Difat­ ti, porre in luce le ragioni della ragazza significava dare un senso diverso al rapporto adulterio-vita familiare, si toccava una « forma «aera », presentando un caso concreto, fuori dei luoghi comuni «ccondo i quali la vita privata primeggia comunque, e il resto (partiti, politica, vita pubblica, ecc.) appare diabolico o distraente o estraneo, e sempre secondarissimo. Ossia: per disegnare un uomo di paglia contemporaneo, il regista doveva scendere veridicamente dentro il « personaggio » (di lui e di lei) e mostrare la paglia, senza vilipendere la ragazza « colpevole ». Ma allora la convenzione sen­ timentale — la simpatia con cui finisce per guardare il protago­ nista ed idoleggiare i luoghi comuni della vita familiare — andava messa da parte. Bisognava capire che quando si vuol percuotere 1 difetti del comportamento privato, spesso non si può fare a meno di percuotere anche i fatti pubblici: occorre « disturbare » forte­ mente qualcuno, e qualche « parte »'. 1 Anche l’ultimo film di Germi riguarda un argomento italiano, un altro difetto del costume nazionale. Dopo Tuomo di paglia italiano, Divorzio all'italiana mira a «mascherare il delino d’onore, che perfino la legge e il codice penale scusano ampiamente, concedendo all’imputato larghe attenuanti. Film quasi perfetto come divertimento (unica smagliatura, il duplice omicidio contemporaneo). Precisa la «celta dei particolari ambientali, sicura la concatenazione dei fatti nella sceneggia­ tura. Le situazioni imbroccate sono sparse dovunque: la descrizione del nucleo familiare, a cominciare dai due vecchi genitori; l’ossessione sessuale dei paesani, la vita dissipata in chiacchiere, maneggi e spari di lupara; il brano nel giardino

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Linguaggio e contenuti K questo punto ci si trova al centro del dibattito in corso nella cultura cinematografica. Che significano « romanzo cinema­ tografico », « cinema antiromanzesco », « cinema letterario », « ci­ nema-documento », « cinema-affresco »? E quando, nelle ri­ cerche di linguaggio, giungiamo di fronte a fatti nuovi e fondamen­ tali? Ha senso contrapporre, come si fa, cinema letterario, romanzo cinematografico, cinema-documento, ecc. per stabilire, sulla base del linguaggio e dei generi, gerarchie ed esclusioni? Non ci interessa una autarchica evoluzione del linguaggio poiquando i due fanno l’amore per la prima volta, in mezzo all’alta vegetazione, accom­ pagnati da una musica languorosa e guardati da quella grossa luna; le scene sulla spiaggia e nella boscaglia; la visita della megera levatrice; la caricatura dell’awocatastro e dei processi per delitti d’onore; la materia densa dalla quale sono ri­ tagliati i due personaggi a contrasto, Fefé e Rosalia, magnificamente interpretati da D. Rocca e, con meriti particolari, da M. Mastroianni; la spezzatura dell’ultima sequenza; il mortorio del padre della ragazza, con tutta quella gente nera che scende ondeggiando la scalinata e la macchina da presa a ridosso delle persone; la predica del prete e il ballo alla sede comunista, ecc. Su Divorzio all’italiana non ci sarebbe altro da dire, oltre che precisare le ragioni e i caratteri del divertimento. Ma sento, ad un certo punto, descrivere questo film come opera potentemente incisiva, capace di lasciate una traccia pro­ fonda, come dire una satira che colpisce a fondo la mancanza del divorzio e il delitto per onore: « Conclusione agghiacciante (...) acido corrosivo contro l’istituto coniugale ». E allora, su questo piano, bisognerebbe discutere meglio, senza togliere niente ai meriti narrativi del film. La gente non esce certo dalla proiezione gran che turbata per le magagne dell’art. 587 del CJP. Si diverte, e pensa ad altro. Come spiegare tale smarrimento delle intenzioni sociologiche e dell’asprezza della de­ nuncia? Forse che la traduzione nel grottesco di una materia seria ne diminuisce la portata e la forza di penetrazione? Assolutamente no. La commedia satirica può arrivare dovunque e lasciare un’incisione più profonda di una tragedia. Dunque? Consideriamo il tema: il delitto per onore come un delitto non meritevole di particolari riguardi, oppure con le attenuanti di ogni omicidio. Naturalmente, occorre trovare una vittima e un assassino. Ma nel film succede che la « vittima » diventa il personaggio a cui viene addossata la parte di persecutrice, e l’omicida diventa invece il personaggio che, quasi, si veste dei panni della vittima. Difatti, la regia investe la donna da ogni parte, la rende antipatica e scostante per ogni verso: a letto, a tavola, nella conversazione idiota, e nei rapporti con i subordinati (scena di Rosalia che porta la tazzina di caffè al marito e ne chiede un goccio, e poi ad un tratto, nel pieno del suo gesto stucchevole, annusa in giro, si preci­ pita alla finestra e comincia a imprecare contro le donne che fanno il sapone e contro i genitori del marito: diventa una figura rabbiosamente dispotica c me­ schina). Tanto antipatica che vien fatto di desiderarne la scomparsa e di pensare che, in fondo, non sarebbe di gran danno togliere di mezzo una creatura simile. D’altra parte, il giovane barone appare, non dico positivo, ma tanto spassoso con quel suo lungo armeggiare e fantasticare, e tanto bonariamente infingardo (la donna insoddisfatta lo perseguita senza posa) da guadagnare una certa sim­ patia agli occhi dello spettatore. Aggiungete la partecipazione creativa dell’in-

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ché più si va avanti nell’approfondimento interpretativo, più si rompono, per ciò stesso, gli schemi tradizionali del racconto e le remore dei vecchi linguaggi. È vero che l’ellissi sintattica e morfo­ logica provoca la partecipazione dello spettatore e non lo incalza con emozioni sfaticate, epidermiche, ripetitorie. Aggiungete che la spe­ rimentazione in più direzioni del linguaggio cinematografico rende adulto il cinema piegandone le espressioni alla capacità di captare anche stati d’animo umbratili e complesse variazioni di sentimenti c di atmosfere non ancorate al consueto nesso causale di trame collaudate: per cui si va oltre l’apparenza fenomenica delle cose c dei fatti senza la mediazione di apparati macchinosi. Si tenta di Icrprcte: e vedrete che l’assassino diventa scusabile e assai poco sinistro e la preparazione del delitto scorre astratta come un giuoco acrobatico e farsesco: lo »|K'ttatore non guarda a lui come ad un assassino, colpevole di un delitto a cui la legge italiana concede un’odiosa attenuante. Ci divertiamo, e va bene: ma si tratta di un divertimento che finisce per distrarre, rendendo irresponsabile ogni perso­ naggio. Nessuno sente, di fronte al delitto, quel gelo che si prova al fondo del grottesco quando raggiunge il bersaglio. Siamo sul piano del costume, intaccato nei suoi vizi da qualche graffiatura. Alla fine del film non usciamo dalla solita antinomia: « quelli del nord » continue­ ranno a dire: questi meridionali barbari, razza inferiore, fossili incivili: guardino Invece noi. E spiegheranno il delitto d’onore come un fatto psicologico di incultura, di arretratezza morale. E « i meridionali » continueranno a dire: bisogna salva­ guardare il focolare domestico c il senso unitario della famiglia, la passione disin­ teressata deve scusare la colpa, quello del film rappresenta un caso limite, nessun marito siciliano espone la moglie, magari odiata, al ludibrio del prossimo, i per­ sonaggi non rendono il modo di vivere dei siciliani, il regista non capisce i principi (ondamentali che disciplinano il sistema familiare dei siciliani, ecc. Ossia, mancano quegli elementi che individuano le ragioni storiche di una circostanza del costume nazionale. Per cui, mentre si combatte l’anacronismo di un’abitudine feroce e insieme la legge che la protegge, contemporaneamente si chiarisce che il delitto d’onore non va spiegato quale un fatto di incultura o di barbarie congenita. L’uomo deve impiegare in qualche modo l’energia che possiede: dove esiste progresso c dove lo Stato opera a vantaggio dei cittadini, l’uomo Impiega la sua energia nel lavoro, in viaggi, conversazioni, cura della carriera, affari, vita sociale e politica, iniziative sportive o artistiche, ecc. Dove invece un servaggio e la miseria secolare inducono alla vita parassitarla, come nelle zone depresse nelle quali le persone avvertono la carenza dello Stato, l’energia repressa o deviata si concentra sopra un punto, per esempio, nell’amplesso amoroso, nel dominio familiare, nel senso de)l’« onore » che ossessionano come l’unico momento In cui la persona, priva di altri interessi, si sente viva e, in un certo senso, giusta. Mutando le condizioni oggettive generali (economico-politichc), promuovendo la partecipazione ad una vita associata, cambia anche il costume (vedi per i calabresi 9 i siciliani inurbati e integrati da qualche generazione a Torino e a Milano). Il film doveva necessariamente mostrare, in profondo e in estensione, questa circostanza? Per niente. Ma doveva farcela sospettare, rimandando lo spettatore a qualch’altra cosa, dietro il divertimento per la psicologia arretrata degli individui: In questi casi, ad illuminare basta magari una battuta, o un intervento anche marginale. | -

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portare anche nei mezzi espressivi del cinema l’esperienza del tempo mentale come quello delle nostre passioni, della nostra vita: nella realtà, la mente « va o più in fretta o più adagio degli svolgimenti lineari cari al cinema abituale »: il suo cammino è più variato, più ricco e meno rassicurante: salta i passaggi, registra con preci­ sione alcuni elementi apparentemente senza importanza, si ripete, torna indietro (la nostra mente accetta insieme, man mano i fram­ menti reali presentati in quel momento dalla vista e dall’udito, e frammenti passati o lontani, o futuri). Anche il progresso del lin­ guaggio cinematografico tende, come gli altri mezzi di espressione, a infrangere il rilievo dei casi eccezionali e la rete di certe coinci­ denze prefigurate (per esempio, un vecchio racconto comincia: «Ma­ rio uscì di casa alle 8... »: circostanza banale ma inserita, ad aper­ tura, in un contesto che il lettore si aspetta eccezionale: deve suc­ cedere qualcosa se no si sente defraudato: e invece nella nostra vita spesso non succede niente, niente è previsto, non si sa dove fi­ nisce la giornata: ora nel suo racconto l’autore sa cosa deve accadere in seguito, la vicenda viene vista a ritroso, ripercorsa dopo che è ter­ minata). Ma, soprattutto, l’apertura del linguaggio, che si fa duttile e varia e rompe gli schemi, agevola il cinema di poco costo e di pochi mezzi che punta all’immediata presa sul mondo circostante, e rappre­ senta un validissimo strumento per parlare alla massa degli spettato­ ri e per operare oggi una breccia sul muro della censura e della pro­ duzione di alto costo che ha standardizzato e pacificato perfino le scoperte neorealistiche. Ma spesso le infatuazioni per il nuovo lin­ guaggio (che dovrebbe continuamente frantumarsi ed esprimersi sul piano dell’inarticolato per adeguarsi alla situazione della nevrosi contemporanea) nascondono a malapena un impoverimento della no­ zione del mondo contemporaneo e suggeriscono forme preziose di evasione (per esempio, dice Pietro Bianchi: «Le idee scolastiche di tempo, di spazio, di costruzione, quella separazione netta tra ciò che è bene e ciò che è male, sono finite nel museo delle figure di cera »; e Sandro de Feo: «... quel che c’è oltre ai fatti è la loro continua ambivalenza e l’intrecciarsi continuo e inestricabile di Dio e del demonio, dell’inferno e del paradiso, del bene e del male nello stesso punto e nella stessa persona... andare verso la sola obbiet­ tività possibile, vale a dire all’estrema, assoluta sospensione di giudizio »). Inoltre la disarticolazione dei moduli narrativi, le scom­ posizioni del tessuto lessicale, la sovrapposizione delle superfici di discorso, i diversi piani delle proposizioni e dei soggetti e delle persone che agiscono, parlano o pensano, la sintassi discorsiva, 42

l'audace montaggio delle sequenze, e degli « a capo » diventano funzionali, necessari, se passano inavvertiti nel flusso delle im­ magini e dei pensieri, e aiutano anziché infastidire lo spettatore, Sii chiariscono il movimento interno del racconto. E non giova, l conseguenza, neanche la pretesa di far coincidere senz’altro I contenuti nuovi solo con un particolare linguaggio paratattico, •prezzante delle regole grammaticali e di ogni convenzione spetta­ colare, oppure con una forma sedicente aperta e dislogata. Le formule linguistiche si integrano o discordano, ma riman­ dano sempre ad altro: qualcosa che sta dietro gli stilemi e la mor­ fologia, nel fondo. Difatti — e valga quale riprova nel concreto delle opere — le debolezze o la forza del romanzo cinematografico, come del cinema-documento, vanno riportate alla stessa matrice: la pochezza ideologica, un impoverimento decadentistico o natura­ listico dei contenuti, l’ignoranza della problematica civile con tem­ poranea. Porto due esempi che stanno in punti opposti della pro­ duzione cinematografica, per giungere alla medesima conclusione. Anzitutto, il film Kapò. Il regista Pontecorvo imposta il film sul piano del documento: egli vuol mostrare come la condizione be•tiale cui i detenuti venivano ridotti potesse provocare, nel colmo dell’abbrutimento, una disperata volontà di sopravvivenza ad ogni costo, tale da mutare una fragile vittima in un alleato dei carnefici, in un persecutore dei propri compagni di sventura. Si trattava di documentare un processo di disintegrazione morale: nei campi di concentramento non solo furono distrutti i corpi, ma anche l’inte­ grità psichica degli individui. Dopo aver visto questo film, appassionato e nobile, veramente nessuno spettatore potrà pretendere di ignorare che cosa fossero i campi di concentramento nazisti. Il nuovo del linguaggio qui con­ siste nello stile documentario impiegato nella costruzione del per­ sonaggio, nell’esattezza con cui il regista intende seguire quel pro­ cesso di dissesto dei sentimenti. Ma ad un certo punto il regista Imprime alla narrazione una svolta che sconcerta la documentazione: cambia « genere ». Va alla ricerca dell’intreccio che offra un cumulo di sensazioni visive e di convenzioni sentimentali, senza le quali (pensano il regista e i suoi produttori) lo spettatore non reggerebbe «Ila durezza dei fatti registrati. Le conseguenze di questa incongrua assunzione dell’elaborazione drammatica di tipo romanzesco sono •tate rimproverate al regista da chi ha parlato del film. E giusta­ mente: perché quando all’elemento si sostituisce l’aneddoto, allora 43

« la storia esemplare di Edith che le vicende parallele delle altre prigioniere, caratterizzandola, nutriscono di verità, diventa una povera storia d’amore. E il suo sacrificio, dove in qualche modo vuole forse essere simboleggiato il suo riscatto, questo struggente finale insomma, appunto perché elaborato, meccanico, premeditato, risulta melodrammatico e spegne il vigore narrativo che fino a quel momento aveva sostenuto l’intera vicenda ». E ancora: « La storia d’amore che dovrebbe far scattare il meccanismo psicologico della redenzione è troppo fulminea per spiegar nulla e non è esente da retorica ». Tale svolta consente, per esempio, al gesuita Mario Casolaro (v. Letture, n. 11, novembre I960), di compiere il tenta­ tivo indebito di accaparramento ideologico dell’intera sostanza del film, capovolgendone il significato: si passa sopra al cedimento stilistico della narrazione per sbrigarsi a santificare il riscatto dei valori spirituali « imperituri » (« Potete uccidere il corpo, ma non lo spirito: sembra in definitiva il succo del film di Pontecorvo che, partito da una precisa ed agghiacciante denuncia della crudeltà del nazismo, si scioglie in una lirica alla bontà, all’amore, alla fra­ ternità umana... il film riesce anche, in forza di un commovente lirismo, ad elevarsi al di sopra di ogni spirito di parte »). Ma non direi che i guai del cambiamento di « genere » e l’incoerenza morfologica si limitino a uno scompenso tra la prima e la seconda parte (storia d’amore, gesto eroico e riscatto di Edith). Purtroppo viene indebolita l’intera documentazione di quel pro­ cesso di degradazione morale: la fiaba dell’intreccio amoroso (ag­ giungerei anche la preoccupazione di mostrarsi imparziali verso il nemico: l’insistenza manierata con cui il regista distribuisce il peso del personaggio del giovane ufficiale, fanatico ma in buonafede: vittima degli eventi, anche lui come la ragazza ebrea) ruba troppo spazio ai documenti che dovrebbero esprimere, procedendo dal­ l’interno della circostanza descritta, lo svolgimento interiore della protagonista. Dal momento in cui la ragazza si scopre il petto per guadagnare la protezione degli aguzzini, il processo di indurimento del personaggio appare rappresentato in maniera precipitosa, con passaggi poco maturati e addirittura approssimativi. Risulta smi­ nuita, di conseguenza, anche la componente corale, la presenza delle altre detenute come motivo che condiziona il dramma della protagonista. Certo, il regista ha compiuto un errore in questo scambio di strumenti espressivi per cui inizia con uno stile docu­

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mentano e finisce con un cinema romanzesco. Ma diremo ora che si tratta soltanto di una questione di linguaggio e di generi? Lo sba­ glio stilistico presuppone invece il difetto ideologico. E non è forse segno di imperfetta maturazione ideologica e culturale la disistima che questo regista schiettamente democratico mostra ancora verso lo spettatore? « Nel nostro soggetto — diceva Pontecorvo in un’intervista apparsa su Schermi, n. 27, novembre I960 — la storia era diversa, soprattutto nella seconda parte, ('/era anche li la storia d’amore tra Edith e il russo ma meno romanzesca, fatta di piccolissime cose, come nella scena del tra­ sloco: cioè, una parola rubata, sguardi furtivi. Nei lager non c’era la possibilità di far le cose facilmente. E poi, benché la fine attuale non sia un errore, non avrei chiuso il film col riscatto di Edith. Non c’era la fuga. Edith si rifiutava di aiutarli quando veniva a sapere che sarebbe stata certamente uccisa. Era piu naturale, no? SI, perché lei amava il russo, ma non fino al punto di farsi am­ mazzare, soprattutto dopo quel che ha passato. E tutti i prigionieri venivano massacrati sul posto. Ma chi sarebbe andato a vedere un film di questo genere? I cambiamenti mi sono stati chiesti, non imposti: ed io li ho accettati. D’altronde Susan non avrebbe accet­ tato. E poi non è un film che si fa con due lire, tanto è vero che ci si son messi in tre: Ergas, Cristaldi e Rizzoli. » Produttori, in­ terprete e regista hanno trovato l’accordo sulla base di una comune disistima nei confronti dello spettatore. Si pensa che si debba « far digerire allo spettatore l’acre sapore della storia cosi come è «tata nelle sue più terribili implicazioni, mitigandola con lo zuc­ cherino del sentimento ». Ma basta stare tra il pubblico per rendersi conto che « la commozione » è alta proprio laddove la storia riesce a parlare, e «cerna sensibilmente laddove i personaggi cominciano a « recitare la loro commedia ». Lo spettatore chiede, si, la speranza nella narrazione. Ma chi dice che mancherebbe la speranza e il momento positivo in una vicenda che avesse concluso senza la conversione romanzesca? La pietosa e ferma rappresentazione di una situazione vera, la costruzione di un personaggio seguito e concluso nel suo esatto sviluppo drammatico, i tratti disperati e « piccolissimi » di un affetto spento sul nascere dall’abbrutimento della prigione: ecco i motivi da cui poteva nascere nello spettatore il senso di una spe­ ranza genuina, di un proposito energico. Lo spettatore civile si

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rivolta contro quel sistema di orrori e trova la conferma della giu stezza dei suoi impegni e della sua speranza in un mondo diverso Alla medesima conclusione (dal linguaggio alla espressione dei contenuti) ci porta l’altro esempio, scelto sul versante opposto della produzione cinematografica: La notte di Michelangelo Anto­ nioni. Di questo film hanno parlato tanto che forse conviene limi­ tarsi a ripristinare le nostre prime impressioni di spettatori. Le ultime opere di Antonioni mi paiono per un tratto particolarmente belle ed anche giuste, nel senso che quanto vi si dice mi riguarda, 1 Un incaglio analogo capita per Un giorno da leoni, di Nanni Loy. Si tratta di un film cne possiede certi pregi rari: antiretorico, serio e «caldo». Il regista si sforza di ragionare insieme allo spettatore: come mai eravamo tanto pochi nella lotta partigiana laziale? Come nasce la resistenza nel Lazio? Era la direzione giusta che conteneva una schietta tensione drammatica e figurativa. Secondo Loy il difetto maggiore di questo suo film sta nel fatto che «è vecchio di quattr’anni. Lo avrei dovuto girare quattro anni fa appunto, quando ci avevo pensato per la prima volta ». Si capisce che prodotto qualche anno prima il film avrebbe acquistato un altro significato, ma mi pare che non sia questo il difetto maggiore. Dirci invece che il regista indebolisce ad un certo punto la vicenda, ponendola fra due puntelli malsicuri: spinge l’interprete Leopoldo Trieste verso la macchietta, c appende alle traversie di lui larga parte del primo tempo del film; poi chiude con la lunga svolta avventurosa (il sabotaggio del ponte) che ricerca il contatto con lo spettatore per mezzo della suspence clamorosa, convenzionale. È giusto — dice la vedova ai partigiani che sono andati a trovarla — mettere al mondo dei figli e vivere tra i pericoli, sempre distante dalla famiglia come fece suo marito? Nel film manca una risposta precisa. È vero che Edoardo e lo stu­ dente indagano sulle ragioni della lotta: il primo racconta di essersi trovato in galera con Orlando e per venti giorni non si parlarono in altra maniera che con i colpi bussati al muro. Perché fai questo? — chiedeva. Non lo so, — rispondeva Orlando. Lo sapeva, — spiega Edoardo, — solo che non aveva le parole adatte, non sapeva esprimersi. Dal punto di vista del personaggio, la situazione sta giu­ stamente in questi termini. Ma queste parole inespresse, il giovane spettatore non le trova chiarite nel corso del film, non gli vengono in mente (se non ha vissuto in prima persona quei momenti drammatici). Avventure simili potrebbero anche es­ sere situate tra gli avversari, cambiando il colore politico dei protagonisti. Rilievi del genere penso che vadano fatti anche a La lunga notte del ’43 in cui il supplemento di una sfasata storia d’amore impedisce al documento reale (paesaggio c episodio storico) di accamparsi saldamente nella vicenda (per esempio, sviluppando il generico accenno della chiusa: il figlio di una delle vittime che ritorna sullo stesso posto, con grande indifferenza, e stringe di nuovo amicizia con gli assassini: da tenere non come un epilogo frettoloso ma come chiave di volta e sostanza del film intero). Il regista — ingombrato dall’obbligo di correr dietro a fantocci che si agitano, costruiti sopra se stessi — contamina malamente quella memoria storica e non resta fedele alle componenti vere della sua ispira­ zione (mentre, nel verso opposto, Zurlini ha capito il senso delle proprie forze: e passando da Estate violenta a La ragazza con la valigia elimina l’indugio sulla cornice storica che nel primo lavoro aduggiava la malia sensuale della storia d’amore tra il personaggio della donna matura e quello del minorenne — un suo tema do­ minante, la disparità di età che cerca la sincronia sessuale, o semplicemente af­ fettiva: raggiunta e subito perduta, mentre la vita continua normale).

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riguarda noi contemporanei. Ed avverto che il regista riesce a calare le sue intenzioni nel particolare concreto e dal particolare 1 tatti attingono dei punti generali, parlano anche a chi ignora gli squilibri interiori degli individui nel nostro tempo. Tuttavia ad un certo punto la vicenda si affloscia davanti, finisce di inte­ ressarmi: mi pare che venga inghiottita da riduzioni a casi « per­ sonali » che rientrano nel materiale di repertorio spettacolare le psicologico) della narrativa cinematografica (di qualunque ge­ nere): che ci sia insomma un cedimento precipitoso oppure che il film regga fintanto che i nodi «politici » della circostanza rappre­ sentata non vengono al pettine. Naturalmente, questa sensazione di disagio, che mi angustia come spettatore ad un certo punto del film, non cancella la forte impressione positiva precedente, anzi ad essa si giustappone. Tento dunque di chiarire tale divario riproponendo la que­ stione. La poetica di Antonioni si preoccupa anzitutto di regolare il meccanismo cinematografico. Sembra al regista che la vita pos­ sieda una cadenza che ora appare lenta, ora molto veloce, ora stagnante, ora precipitosa, ma non ha mai l’andatura che hanno le storie dei film correnti, intrecciate in modo meccanico ed artifi­ cioso. « Io invece cerco nei miei film un ritmo piu interno e credo di essere nel giusto poiché in fondo i nostri atti, i nostri gesti, le nostre parole non sono che le conseguenze dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti.» La cosiddetta sceneggiatura di ferro gli serve dunque sempre meno. « Il cinema sta diventando sempre più no­ vella, romanzo, sarà raccontato direttamente. Scrivere prima della sceneggiatura quello che poi si vedrà e si sentirà, sta diventando superfluo. » Lo spettatore viene chiamato ad integrare le sparse nozioni narrative e a ripercorrere l’itinerario dei personaggi prima di giungere alla comprensione dei fatti. Ricerca di nuove forme di linguaggio: per esprimere che? L’autore ha la certezza di vivere in un momento storico particolare, in un periodo di instabilità assoluta, politica morale fisica, situata intorno a noi e dentro di noi (« Non sappiamo bene neppure noi quali siano i limiti della scienza »): una specie di pausa del tempo, un intervallo senza storia. Egli si pone quindi il problema non tanto di quello che noi abbiamo sentito fin qui, ma di quanto in noi si sta svolgendo secondo un ordine del quale non siamo ancora coscienti ma che certamente deve portarci ad una « modificazione 47

radicale della nostra condizione spirituale ». Fa dei film sul disse­ sto dei sentimenti: « Un dramma enorme pesa sull’uomo contem­ poraneo facendo impazzire gli esseri normali con prospettive tali che, al confronto, qualsiasi dramma intimo e privato diventa ridi­ colo. Da qui la tendenza a tutto sdrammatizzare, anche senza averne coscienza ». Difatti non esistono momenti ed episodi drammatici se l’individuo vive sospeso tra due incubi, oggetto e non ancora persona, aggrappato alla propria sopravvivenza di fronte al rullo compressore che tende a distruggere il singolo. Riepilogando: sen­ timenti insidiati, fragili, reversibili; senso penoso di un’esistenza caotica ed informe che sfugge all’individuo smarrito ed impotente come una manciata di sabbia tra le dita o nella torbida indifferenza di un’abitudine. Non ci sono ancoraggi celesti o fedi fraterne. Lo svuotamento della vita interiore viene vissuto da una posizione laica, senza residui di trascendenza tradizionale. Qualche sprazzo vitale compare nell’irruzione dell’amore: ma poi non si riesce ad accordare i tempi dei sentimenti, che presto bruciano come i fila­ menti di una lampadina. Il regista spezza di continuo l’azione, talora con inquadrature addirittura documentarie, per introdurre il paesaggio. Il paesaggio fa da protagonista in questi film. Natura meridionale o metropoli, personifica il vuoto della storia, serve l’idea di questo vuoto in cui la figura umana passa quale elemento complementare, anche essa « natura morta ». La macchina da presa di Antonioni non descrive mai il paesaggio, perché il paesaggio sta a significare quanto il regista pensa della vita: grigio e triste torpore, atonia vegetativa, fulgore grandioso degli scenari inanimati ed estranei, violenza e minaccia primordiale, fuori del tempo, contrappunto di silenzi e fragori. E il personaggio vi aderisce quando, invece che inarcarsi come nodo di psicologia e punto di convergenza di un intreccio naturalistico di fatti, viene confuso o addossato ad esso. Nel mo­ mento dell’incontro tra figura umana e figura ambientale il regista realizza il tema della solitudine e dello scarso peso e durata dei sentimenti: e non gli occorrono le parole, gli addensamenti psico­ logici, il movimento della « storia », anzi meno ne adopera e meglio racconta. Lo spettatore sente l’immanenza di certi elementi figu­ rativi, masse geologiche irregolari o geometrie spaziali, gelide, dis­ seminate di apparizioni improvvise e quasi irreali: le dissonanze, i rumori metallici di aviogetti ed elicotteri contigui all’agonia di un uomo; le sirene delle fabbriche e l’ingorgo meccanico del traf­

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fico e poi i pacifici slarghi di orizzonti agresti, i simulacri assurdi e disarticolati di cose consuete, normali, quotidiane: la vecchina che mangia il gelato, il bimbo che piange, l’orologio fracassato, muri e cortili che si screpolano a pochi metri dai grattacieli, gente che avvia i razzi, teppisti che si scazzottano, un uomo dentro la gabbia di alluminio e di vetro di un palazzo, un altro uomo in­ quadrato in piedi davanti alla finestra dallo sguardo di Giovanni, il fattorino che mangia, un anziano che minaccia un manrovescio alla figlia, la bibitara, ecc. Chi aggrega in questo sistema cinematografico tali sensazioni? Esse appartengono alla crisi dell’intellettuale borghese, in­ serito nell’industria culturale del neocapitalismo. La sua vi­ suale resta chiusa nell’orrore della massificazione, nell’invet­ tiva contro l’uomo-massa e il macchinismo del progresso. Tuttavia sono sensazioni non solo dell’intellettuale impie­ gato (piegato dentro, funzionale), ma sensazioni del nostro tempo, che appartengono un po’ a tutti, sono una compo­ nente della giornata di ognuno di noi, del disagio comune. Anche di quelle zone sperdute dove non arrivano le immagini del tele­ visore. Per questo il discorso diviene generale. Ma si tratta ancora di sensazioni, di stati d’animo d’angoscia, di momenti lirico-auto­ biografici. Dopo i quali, si pone la questione fondamentale della consapevolezza storica: « Come c perché questo? ». Per esempio. Quelle sono, si, sensazioni di tutti dato che viviamo in un’epoca di transizione: ma transizione fra quali termini? Fra un passato che significa, poniamo, cattolicesimo, individuo-eroe in cui si in­ centra la storia, e un futuro sulla base di una struttura socialista dove la connessione tra l’individuo e la società (nazionale e inter­ nazionale) diventa esplicita e consapevole. Ma in ogni epoca di transizione gli eventi appaiono in dissolvenza incrociata: labili i contorni, malsicuri, in continuo movimento. Tanto da dare l’im­ pressione che ogni moto finisca nella confusione priva di valori. Ma a questo punto le questioni prendono peso e larghezza: i fatti storici vengono ad integrare le sensazioni private (e qui la dimen­ sione « ideologica » del film diventa angusta). Perché questa alienazione? (ecco le pratiche del neocapitalismo, la struttura seco­ lare di vita nel cattolicesimo, ecc.). Esiste qualcos’altro nel mondo contemporaneo, oltre la vita precaria e alienata? (ecco la lotta di classe, la fine del colonialismo, le imprese interspaziali, il dominio della materia, l’apertura mondiale dei problemi, ma anche una serie

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di circostanze non legate allo schema della debolezza dei senti­ menti: un uomo e una donna che non riescono a parlarsi, o non vi riescono più). E come intendete combattere contro siffatta alienazione degli individui? Posta cosi la questione, la diatriba in corso mi pare un pochino fanatica: dare addosso ad Antonioni perché « borghese »: e il suo mondo non ci piace, non la pensa come noi, non coglie dei punti fermi, presta fede alle improvvisazioni dell’amore e non alle imprese del proletariato; vale quanto l’infatuazione eguale e contraria per cui Antonioni incarna le tre dimensioni e i quattro punti cardinali del mondo contemporaneo, specie di profèta che annunci la nuova summa laica dei sentimenti. Tali categorie costituiscono un criterio di classificazione e giammai di giudizio estetico. Vale a dire, l’esame va portato sulla poetica ma per giungere senz’altro alla verifica delle opere concrete in quanto hanno di valido ed « espresso ». Ma prima precisiamo che pochi altri intellettuali borghesi hanno tanto nitida­ mente rappresentato la crisi della propria condizione umana. Antonioni porta dunque avanti le sensazioni di una situazione statica ed inerte, e ci lascia intravedere un vuoto enorme, una alie­ nazione completa e ineluttabile: si tratta del « tentativo di una rappresentazione totale, di una disperazione che è del mondo prima che dell’uomo, di un uomo e di una donna ». Bene, ma per quanto diminuisca sistematicamente l’intreccio e riduca il rilievo dei perso­ naggi e l’autonomia degli interpreti, egli ha pur sempre per le mani il tracciato e la cronaca di un fatto. Sicché si trova davanti due strade. Se vuol allargare la sua tematica e moltiplicare le componenti, i piani, le figure, gli ambienti e le spiegazioni storiche, non gli resta che approfondire le coordinate psicologiche e sociologiche del rac­ conto, guadagnare assolutamente di precisione nella critica ambien­ tale. Viceversa, asseconda l’impulso della sua ispirazione genuina e quindi scioglie e rarefa sempre meglio il groppo psicologico dei personaggi nel paesaggio, ruba peso ad essi e ai fatti fino a consi­ derarne la natura di emblemi, di oggetti di una tensione lirica ango­ sciosa. Nei due casi non si tratta di mero linguaggio da articolare in forme nuove, ma ancora di contenuti, di chiarezza ideologica, di coscienza che governa la natura. E invece il regista situa ancora queste sensazioni reali sopra un appoggio diverso, friabile. In altre parole, cerca la fondazione del personaggio, ma arretrando su un materiale convenzionale ed inadeguato. Quando i suoi protago­ nisti escono dal momento delle sensazioni (la zona neutra degli

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muti d’animo registrati mentre si producono poco per volta nel vagabondaggio visionario), giungono quindi all’esame di coscienza e gettano lo scandaglio per presentare se stessi e la ragione delle loro mosse, senza reticenze dinanzi allo spettatore, il regista si dimostra poco capace di reggere la situazione lirica iniziale. Quei personaggi sono « mediocri » non nel senso dei tempi « mediocri », incerti e minacciosi: non cedono alle circostanze per Il disgusto di una vita che non offre appigli validi: sono fatti in maniera e immaginati con certi grezzi dati di approssimazione psi­ cologica da comportarsi mediocremente in qualunque circostanza personale e in qualunque situazione storica, instabile o no. Due «posi, per esempio, che ora sono cosi e sarebbe uguale se fossero vissuti cento anni fa. Manca lo spessore complesso e vitale delle cose reali, che esiste dietro ogni periodare semplice e scarno. Sandro, il protagonista de L’avventura, non soffe il dramma (come, Invece, vorrebbe il regista) di chi nel neocapitalismo si trova diviso tra lauti compensi, efficienza e assoggettamento ideologico. Egli si comporta da fannullone, secondo natura: e allora il film finisce per ancorarsi ad un caso personale, ad una angustia privata. L’ar­ chitetto si mostra ansioso per la scomparsa della prima donna, poi passa ad un tratto alla seconda donna, poi finisce tra le braccia di ima sgualdrina. Perché? Per l’instabilità dei tempi, per l’inca­ pacità di comunicare con gli altri esseri, ecc., dichiara il regista. D’accordo, ma questo viene enunciato invece che essere rappre­ sentato. Anzi, il regista caratterizza in un altro senso il personag­ gio, legando la maschera fissa ed inespressiva dell’interprete al tempo fisiologico, invece che al tempo storico. Lui e la sua compagna vivono senza tragedia: non provano disperazione per la ragazza scomparsa o morta ma tuttavia sono pieni di rimorsi vecchi e melensi: non hanno mai la coscienza gelida, distaccata, il disgusto della vita quando appare svuotata di lignificato. Tanto vale che Antonioni eviti la resa dei conti di certe spie?[azioni psicologiche che intasano l’apertura del suo linguaggio. }cr esempio: ripercorrendo a ritroso La notte, ti accorgi che vi coesistono due strati. Lo strato lirico delle sensazioni angosciose, compiutamente realizzate: dalla veglia funebre al vagabondaggio della donna, fino alla festa: scabra astratta lontana, popolata di lonnambuli che appaiono in campolungo mentre applaudono un cavallo o si affollano intorno al padrone (l’autore segue le cose

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con l’occhio di Lidia: registra come morto dentro, non si diverte, non forza e non drammatizza le apparenze). Ed invece l’inefficacia dello strato romanzesco-episodico che tende: a descrivere (sequenza del cocktail nella casa editrice, e discorsi del padrone di casa du­ rante la festa); a drammatizzare per antitesi meccaniche (episodio della ninfomane nella clinica); ad intrecciare (moine e chiacchierate quasi dannunziane tra Fontano e Valentina nella camera della ra­ gazza, tra Valentina e Lidia, tra Fontano, Lidia e Valentina nella stessa stanza); a definire i rapporti tra i protagonisti (episodio della lettera nella resa dei conti tra i due coniugi alla fine). Ad un certo punto ci accorgiamo che la questione sta in termini un po’ convenzionali: nel senso che i due non si intendono e i loro affetti sono precari per ragioni normali e mediocri, indi­ pendenti dal tempo (storico) e dipendenti invece da una noia e pigrizia personale: lui fa promesse che poi dimentica, lei aveva l’ambizione di essere guidata, seguita, sollecitata e non ha trovato questa comprensione da un uomo egoista, non ha avuto un figlio, avverte ormai il peso degli anni. Ma da chi aspettava la compren­ sione, e perché? Chi riconosce questo marito? Non possiamo dire che il regista eviti di presentarcelo pienamente, solo perché esige l’integrazione dello spettatore. Purtroppo il personaggio viene pre­ sentato, ma il suo figurino appartiene al repertorio di maniera, e quindi appare incapace di reggere la spiegazione al livello dei « tempi di transizione ». Assume la posa retorica dello scrittore esistenziale che ciondola da tutte le parti, spento e lugubre. Siamo in superficie, e comunque si tratta ancora di un individuo scarsa­ mente rappresentativo. Guardatelo all’ospedale: prima piange l’agonia dell’amico, si mostra svuotato, ma un istante dopo si butta addosso ad una povera pazza che vede procace ed invi­ tante. E non soffre di questo tradimento: addirittura si permette di esibire la nausea verso se stesso e accenna con la moglie a qualche rimorso fatuo. Qui non c’entra la fragilità dei sentimenti logorati dall’in­ cubo della morte e dei tempi, dalla paurosa insicurezza del mondo. Come spettatori possiamo benissimo identificarci con un mediocre, e la situazione di quella famiglia corrispondere alla situazione della nostra famiglia: ma questo non solleva il peso inerte di certi sim­ boli dell’espressione cinematografica. In queste circostanze in cui il difetto comincia dai contenuti, anche il linguaggio fallisce, di­ venta bravura levigata (« letterario », sf, ma nel senso deteriore

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di cosa posticcia e prefabbricata). Mentre, è arcinoto, quando evoca Il momento lirico-autobiografico, penetra addentro alle sensazioni, le incorpora nella visione senza residui, ne coglie la misura precisa. La medesima circostanza espressiva si ripete per L’eclisse. Rispetto al primo film della trilogia, La notte guadagnava in qualche punto: penso al vantaggio della riduzione dell’intreccio misterioso, alla netta sdrammatizzazione degli incidenti, alla mi­ sura unitaria raggiunta con l’avvio del motivo della morte del­ l’amico, che precipita la crisi ed evita il ricorso a simboli non sempre adeguati, alla scelta e recitazione degli interpreti: perfette se paragonate alla scarsa disposizione fisionomica degli interpreti del film precedente; ma perdeva anche parecchi colpi con le incur­ sioni in ambienti estranei al regista e agli sceneggiatori. L’ultimo film concentra meglio la sua materia e giustamente riduce anche lo svolgimento della vicenda: tra l’inizio e la chiusa del film non esiste progresso di fatti e mutamento di psicologie: la situazione gira su se stessa senza sviluppo, stagnante. Non condivido, quindi, il punto di vista di chi rimprovera il regista di ripetersi monoto­ namente, di non variare i suoi temi, e pretende che cambi, o li­ mita il valore espressivo del film per il fatto che manca l’altra parte, la classe operaia, ecc. Ma se in questa ispirazione monocorde c informale consiste la parte viva del regista? Allora il risultato del film va misurato con la coerenza a quest’ispirazione, anche se limitata, e non si inchioda Antonioni alla parte di interprete e profeta delle « ansie del nostro tempo » o alle sue dichiarazioni di principio: con la conseguenza che certuni sopravvalutano il film perché vi trovano, addirittura, la forma completa dell’alienazione contemporanea, la perfetta testimonianza della vita dell’uomo nel­ l’era neocapitalistica e della sua interna dissoluzione; altri lo de­ prezzano in quanto non vi trovano che forme parzialissime di quel medesimo fenomeno. Anche qui, invece, i punti deboli del film Hanno in una sproporzione interna: tra quel veridico, anche se particolare momento della condizione contemporanea palesato dalla metafora dell’eclisse nella chiusa e della Borsa (il « disordine » del denaro, ecc.), e la rappresentazione manierata della vicenda amo­ rosa di personaggi costruiti in modo convenzionale, con materiali di riporto. Anche i mezzi espressivi finiscono per appesantirsi: in particolare, la recitazione leziosa della protagonista e l’affastellarsi di una simbologia spesso greve: l’auto che precipita in acqua e l'agente di cambio preoccupato dei danni alla macchina e non del

pilota morto, la trita allusione nella sequenza della danza negra, Ì simboli dell’acqua, il pezzo di legno, il bidone che si vuota, il cancello, il bacio attraverso il vetro, i mattoni: oggetti i quali non contengono nella evidenza dell’immagine il proprio significato, come accade nei momenti migliori di questo regista, ma rimandano a corollari e paragoni un poco scolastici che fanno lega con l’enfasi « letteraria » del dialogo. In altre parole, in questi casi la forma « aperta » si chiude e invecchia paurosamente: ma il difetto sta nel manico, nella carenza del giudizio storico per cui il regista tende, talora, a svincolarsi dai mezzi espressivi e dalla materia me­ glio adatta alla sua ispirazione per portarsi nella sfera delle testi­ monianze totali: e qui, malauguratamente, confonde la parte con il tutto. L’insoddisfazione non dipende dunque dalla forma — antiro­ manzo — che il regista predilige (e che non conterrebbe certe aperture verso il mondo reale, proprie invece del genere romanzo). Insomma, non significa niente — ripeto — patrocinare la direzione del romanzo invece che quella dell’antiromanzo, dell’af­ fresco, dell’inchiesta: l’alternativa esiste, ma sta tra un cinema contemporaneo, che immerga consapevolmente le mani nella ma­ teria complessa e contraddittoria del nostro tempo e un cinema sgargiante, pulito, magari aggiornatissimo per argomenti e forme (indifferentemente: affresco, romanzo, antiromanzo, spettacolo, in­ chiesta a basso costo) ma radicato nella contemplazione inerte e nella nostalgia del passato: nel quale ultimo caso avremmo un elenco di contenuti vecchi che il regista e i produttori verniciano a nuovo con un’apparenza di contemporaneità, data da certe situa­ zioni e figure di questi anni, mentre lasciano poi scorrere sotto a questa veste il flusso di vicende antiquate.

I giovani registi del cinema italiano E i giovani autori? Elementi di una valida esperienza contemporanea, in peso e direzioni diverse, mi paiono Salvatore Giuliano, in particolare, poi Banditi a Orgosolo, Giorni contati, Il posto, Pelle viva. Anche in queste opere di giovani re­ gisti limiti interni del linguaggio (« l’immagine stanca », dis­ sonante) coincidono puntualmente con un mancato appro-

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((rodimento del punto di vista sui contenuti. Prendiamo Il posto di E. Olmi. Il regista considera le cose e le figure con uno sguardo insieme impietoso e gentile, complice ma, nel con­ tempo, duro. Tenendo rigorosamente la macchina da presa sul piano morale e figurativo dei due ragazzi, riesce a darci l’impresNione festosa di quelle esistenze giovani, aperte alle minuzie della vita quotidiana, felici e affettuose; d’altra parte, mantenendo sem­ pre questo angolo di visuale di piccola gente impiegatizia, fa af­ fiorare il senso di alienazione che l’azienda neocapitalistica provoca nell’individuo, inghiottito nelle spire della burocrazia. Il perso­ naggio, all’inizio del film carico di interesse per ogni piccola cosa — come quella di attraversare la strada o di bere il caffè con la ragazzina —, rischia di affondare nel mondo degli impiegati. Pian piano comincia a pesare anche nel protagonista una certa rasse­ gnazione e l’allontanamento dalle cose vive del mondo. È come una fiamma che si spenga senza calore (le metafore dell’incontro col caporeparto; della roba dell’impiegato defunto che viene rac­ colta in un pacco e buttata in cima all’armadio; della struttura aperta del finale: disputa per la scrivania e rumore monotono della macchina che sembra scandire in anticipo l’andatura della vita futura del nuovo impiegato). Lo spettatore passa quindi dal diver­ timento, dal riso cordiale, dalla tenerezza benevola ad un senso agghiacciante di desolazione. Tale approccio al mondo contemporaneo mi pare particolar­ mente importante. Anche se poi vengono in mente certe riserve. Per esempio. Afferma il regista che gli impiegati sono individui che si innamorano del portacenere sulla loro scrivania e guai a chi lo tocca, che sono in prevalenza delle creature spente, rassegnate: ha sentito dire da loro stessi: non siamo uomini, ma numeri. D’accordo, poniamo che la circostanza stia in questi termini. Ma ecco due obiezioni. Di ordine estetico la prima: la mano del regista quando calca sui tic nervosi degli impiegati non supera l’angustia del bozzetto un po’ facile, frusto. E subito dopo, un argomento di fondo: gli impiegati sono meschini, rassegnati, ecc.: perché? Per la colpa loro — dice dapprima Olmi —. Naturalmente, ognuno porta la propria parte di colpa, e l’avvilimento non va imputato, se non in casi mostruosi, all’iniziativa malvagia di indi­ vidui che stanno sopra di noi (« una rassegnazione — quella degli impiegati — che uno si trova addosso per stanchezza, per quello stillicidio di piccole delusioni che in fondo tutti incontriamo

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nella vita »). Tuttavia una cosa sono gli individui (i singoli « su­ periori ») e una cosa i rapporti di produzione; per esempio, l’azienda in cui operano come gruppi dirigenti. Ma la colpa — ag­ giunge a questo punto Olmi — va à questi tempi di smarrimento, alla cancrena dell’indifferenza, che rende le persone, quelle sopra e quelle sotto, incapaci di giudizio. Ma questa indifferenza quando comincia, dove? L’impiegato si innamora del portacenere perché manca di una partecipazione viva al mondo reale, nel quale vegeta, e di mezzi critici: si, ma come potrebbe partecipare e criticare quando l’organismo sociale (e non soltanto quello capitalistico) ap­ pare strutturato in modo da limitare la partecipazione al potere culturale e politico-economico in gruppi ristretti che manovrano le leve di ogni decisione e conservano talora la miseria dei sudditi e sempre l’ignoranza e la paura? Eppure Olmi si limita a segnalare lo smarrimento dei tempi e la « catastrofe »: « Questo precipitarci addosso di tutto il mondo industriale, questo capovolgimento di vita, la meccanizzazione » — e a immaginare l’alternativa anti­ quata della nostalgia della natura: guardate — dice — la gente che vive a contatto con la natura, e ne ha ogni giorno un suggeri­ mento di equilibrio, che la conduce a una partecipazione alla vita, a un giudizio equilibrato: come gli alpini di una certa guerra, o il contadino che semina in autunno e poi si siede nella stalla ad aspettare la primavera: « Dove lo trovate piu un atto di fede di questa importanza, nel mondo moderno? ». Eppure al mondo mo­ derno serve un punto di equilibrio nuovo: se no, non ci rimane altro che passiva adesione allo stato di fatto, ossia nostalgia pate­ tica per un felice passato di ingenuità naturale oppure fredda an­ goscia per un presente incomprensibile, anzi, piu rettamente, privo di senso. Marcheremmo il passo se, scegliendo la fabbrica o l’azienda come campo d’osservazione, non sapessimo far altro che tentare di riscoprire all’interno di esse i residui frammentari e patetici della vecchia « natura » sconfitta. D’altronde, esistono oggi altri atti di fede di grande importanza: quello, ad esempio, dell’obiet­ tore di coscienza — alpino o fante che sia — il quale si rifiuta di portare le armi, o quello del contadino che, pur seminando e aspettando pazientemente la primavera, forza il ritmo secolare della natura combattendo per il possesso della terra e per il supera­ mento del lavoro individuale nelle forme della vita agricola coo­ perativa. Sicché, situando la sorte personale degli individui fuori del rapporto industria-potere politico (natura-storia), mi limito 56

A riferire le deformazioni umane alla psicologia degli individui e rischio di diminuire la portata dei fatti e di spingere la persona

verso la caricatura, frantumando la visione d’assieme nell’episodica tra irridente e crepuscolare, tra sgomenta e paternalistica. L’esame delle opere — siano firmate da giovani registi op­ pure da anziani — conferma l’esatto rapporto tra il linguaggio cinematografico e i contenuti, ossia la premessa che la forza del linguaggio coincide con l’approfondimento del punto di vista sui contenuti, e la debolezza dei contenuti corrisponde ai momenti di insufficienza del linguaggio. Il percorso dell’ultima leva di registi conferma il quadro ge­ nerale di un cinema italiano « pacificato », disinquietante. Si vuol forse pretendere che da parte degli autori si faccia la « rivolu­ zione » con il finanziamento dei capitalisti? oppure che sia necesiiario mettere da parte la macchina da presa da trentacinque milli­ metri e girare solo in sedici millimetri? Per niente: oggi non manca spazio nel cinema anche per lo spettacolo. Ma il guaio sta nel fatto che gli ingredienti del grosso spet­ tacolo industrializzato intervengono nel film razionale e lo rimescolano furbescamente: si vuol rendere la dura testimonianza dei fatti ma insieme condirla con l’invenzione collaudata: le nozze coi fichi secchi. L’autore prova da qualche avvenimento, prossimo o lontano, un’emozione forte ma ancora sommaria. Frettolosamente ■tacca la presa e cerca il condimento: vale a dire la storia, l’intrigo, Il personaggio voluminoso. Lo escogita scorrendo una lista ormai canonica e poi manipola i consueti ingredienti. A questo punto, corca di adattare quanto rimane di quella prima forte impressione, ritagliando la parte che non calza, o rimandandola a occasioni adatte, a tempi migliori. Le storie non nascono quasi mai insieme ai contenuti, radicate in essi. Rigetteremo dunque personaggio, dramma, intreccio e interpreti affermati, per limitarci al docu­ mento, al pedinamento, Cocchio selvaggio, ecc.? Ma no, s’inten­ de; appare tuttavia necessario che circostanze e personaggi, con­ tenuti e storie siano omogenei fra loro. E questo diventa possibile quando la coscienza dell’autore riesca a individuare la natura pro­ fonda e la direzione dei fatti contemporanei. In altre parole, non imponiamo un rovesciamento o una scelta di argomenti-, la fabirlca invece che i campi, le cose presenti invece che il passato, 'aurora invece che l’eclisse, la denuncia invece che la confessione, 1 direzione indicata da x o quella indicata da z. Non si tratta di paslare alla precettistica con il suo fanatismo per gli argomenti. Anzi, 57

ci preme proporre la chiusura della diatriba intorno all’antitesi delle formule: questo annebbiare, per scarsa cultura e mediocre coscienza storica, valori e disvalori, questo alterare la fisionomia delle opere esautorando il giudizio critico dal suo compito di stori­ cizzare distinguendo. Al quale non si giunge vivendo staccati dal mondo della produzione, ignorando i problemi linguistici e tecnici che stanno dietro la nascita e nell’interno di un film, le circo­ stanze economiche che regolano le imprese di produzione e, so­ prattutto, la questione capitale dell’organizzazione del pubblico (nuovo tipo di dialogo e organismi per l’incontro con lo spettatore). Proviamo a riepilogare il ragionamento sul rapporto linguag­ gio-contenuti, sulla narrazione popolare e il contrasto dei « generi » confrontando due film significativi in proposito: Il brigante di Renato Castellani e Salvatore Giuliano di Francesco Rosi.

Il brigante è, certo, un’opera notevole per la forza con cui accosta certi avvertimenti e indicazioni politiche (« chi pecora si fa, il lupo se lo mangia », e la persistenza del dominio di classe dentro il variare dei regimi politici), in chiare sequenze che legano l’ampiezza dei paesaggi e l’evidenza di primo impeto degli interpreti popolani. Il regista aveva deciso di fare sul serio un film popolare: e per evitare la descrizione populista del gran signore, si era trasferito sui luoghi veri, tra la gente vera, e vi era rimasto per mesi e mesi. Pensava di centrare un evento fondamentale del dopoguerra italiano: la battaglia dei contadini meridionali per l’oc­ cupazione delle terre incolte. Ma ad un certo punto, di nuovo ca­ pita la separazione dei due elementi: da una parte va per proprio conto la « storia » con i suoi intrecci e dall’altra vengono ancorati i fatti. Ne II brigante l’incongruenza si rivela come contrasto tra la materia prescelta e la poetica del regista (punto di vista e carattere dell’ispirazione). L’incrinatura frequente tra linguaggio e contenuto qui diventa spaccatura. Quando e dove? Nella spiegazione ideolo­ gica e nella complicazione spettacolare. Ricorderete il punto in cui dovrebbe culminare la vicenda: l’occupazione contadina della terra. Gli uomini stanno per invadere i campi, ma i campieri mi­ nacciano con il fucile la massa: allora si interpongono le donne e l’azione ruota intorno alla scena di una donna anziana, che porta un bambino in braccio, la quale si scaglia sopra una ripa e grida alle donne di andare avanti. Quel grido appare veramente come

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tino squillo, l’elemento che trascina, la presenza drammatica della figura umana. Ma la natura del regista non s’adegua alla circo­ stanza di questa materia: tende sempre a mescolare intenerimento c divertimento favoloso. E dunque inserisce nel quadro un ele­ mento supplementare: quel contadino che suona con una tromba la marcia dei bersaglieri: ora la scena intera si rovescia in una specie di carica-dei-seicento. Come dire che l’elemento umano viene ricacciato sul secondo piano; eppure la donna bastava, il suo com­ portamento poteva essere la metafora della tromba che squilla, ecc. Aggiungere quel vertice sonoro che sfonda addirittura l’immagine, significa convertire la tensione drammatica in tensione spettaco­ losa. Difatti, i brani migliori del film sono proprio quelli in cui, smaltita questa tendenza a gonfiare epicamente i due elementi della natura del regista: l’intenerimento e la canzonatura si congiungono, come nella sequenza dei contadini chiusi in galera che cantano la loro protesta: l’ironia viene diretta contro i que­ sturini e la tenerezza sta nel canto per la morte dell’eroe conta­ dino. Mi preme segnalare un’altra diminuzione della materia: spes­ sissimo i nostri registi si mostrano incapaci di situare la trama, i fatti, insomma il punto di partenza dei loro film, dentro una so­ stanza ideologica razionale, che permetta di capire gli avvenimenti fino in fondo. Il difetto grave anche di questo film sta nella confusione ideo­ logica. Quando appare? Quando il regista immagina la massa con­ tadina come un agglomerato inerte, priva di ogni iniziativa poli­ tica, capace di muoversi solo quando qualche demiurgo, qualche croe-protagonista le depone in grembo l’uovo di Pasqua delle pro­ prie invenzioni; senza questo personaggio fondamentale, senza questo capo « eroico », la massa permane inerte, pavida, idiota. La massa viene convinta ad occupare le terre con un trucco, come si fa con i bambini o con i minorati di mente: si va in un paese, due contadini « informati » inventano la bugia che gli altri paesi circostanti invaderanno all’indomani il latifondo, e suscitano in­ vidia ed emulazione: in questa maniera, caso per caso, vengono trascinati all’iniziativa politica i contadini. Tale spiegazione mi pare assolutamente inesatta. È un’inesattezza perché avendo preso per oggetto della sua narrazione — e nessuno lo costringeva — questa situazione contadina, il regista non poteva dimenticare certi fatti fondamentali: che questa occupazione delle terre, per esem­ pio, procedeva con le bandiere rosse che qui non si vedono; ed

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era guidata non da angeli furenti ma da sindacalisti che spesso pagarono con la vita: questa mancanza esterna sta a connotare una insufficienza interna. Secondo: non possiamo ignorare che la bat­ taglia contadina non avveniva quasi mai a quella maniera inerte descritta dal film: la massa contadina meridionale ebbe a parteci­ pare all’invasione delle terre in maniera viva e matura. Non im­ porta che mancasse spesso l’informazione politica, che i contadini ignorassero l’alfabeto delle trame politiche: l’istinto di classe e la consapevolezza dell’organizzazione erano presenti. Naturalmente nessuno vuole incolpare il regista di non avere combinato un saggio sociologico. Ma siccome lui stesso ci indica questa materia drammatica, ne deriva la serie delle conseguenze razionali: per esempio, che i momenti di inerzia della massa con­ tadina nel caso dell’occupazione delle terre incolte dipendevano anche da un difetto grave della politica agraria del movimento operaio: ossia, l’inerzia contadina, la debolezza e la rottura delle varie trincee contadine dipendenvano proprio, spesso, dal fatto che il movimento operaio proponeva temi e scadenze di politica agraria sfasate rispetto alle circostanze reali, proposte che erano superate dalle contingenze storiche. E questa mancata aderenza dei fatti con la situazione politica agevola l’inerzia: nei contadini come in ogni altro cittadino. Non posso, dunque, dimenticare queste cose: ma se ne illumino la natura, ecco che la vita intima e la partecipazione umana dei contadini appare da un diverso punto di vista: e non sono degli idioti che vengono circuiti e avviati come mandrie, e poi si stancano e poi tradiscono, per lasciare il posto al piedistallo dell’eroe. A questo vecchio modulo deve naturalmente andare il tributo della spettacolosa sparatoria e il caleidoscopio dell’immola­ zione finale. Vale a dire, la vicenda non nasce insieme ai fatti po­ litici e alle emozioni, adeguandosi ad esse; ma mentre le coarta, ne dimostra anche la natura provvisoria, velleitaria. Premuta da due parti — dal paternalismo socialdemocratico dell’angolo di visuale e dal gusto per il grosso spettacolo gradevole e mosso — la figura del brigante diventa romanzesca e antiquata. I contadini lo abbandonano, i possidenti lo perseguitano, i cara­ binieri lo cacciano: e lui diventa brigante. Ma questo passaggio viene enunciato, e basta: il racconto scivola via e si risolve nella moltiplicazione degli intrecci: il massacro della chiusa, d’olocausto offerto al povero appuntato, la disperata morte della donna e per­ fino del cane che torna a casa e gli sparano. Le due passioni di Mi­ chele, negli argini delle quali si gonfia progressivamente la sua ro60

vina (Miliella e Giulia, dico), restano enunziate, riferite, due pro­ totipi femminili senza il minimo connotato originale. (Ma pensate ad una determinazione storica precisa che vi cavi dai fatti la tensione drammatica del racconto: il protagonista diventa un sindacalista dentro l’autentica situazione contadina. Ma poi, nel presente, i briganti stanno dentro le centrali del po­ tere: per esempio, i briganti alla maniera del devoto Giuffrè o del convento di Mazzarino, i briganti di Fiumicino, i briganti dell’affare INGIG, i briganti mandatari che ammazzarono Salvatore Car­ nevale.) A questo punto, immaginate che doveva aspettare la platea abi­ tuata agli intrighi delle vicende hollywoodiane, di fronte alla scelta di un tema come quello del film Salvatore Giuliano. L’imma­ gine dello spettatore confida in una certa maniera composta alla maniera tradizionale. Anzitutto, che l’intreccio percorra il solito arco nella serie anedottica: un personaggio che comincia ad agire per la spinta delle circostanze avverse: per esempio, la giustifica­ zione favolosa per l’uccisione del primo carabiniere (qualcuno as­ sicura che prima di venir fermato con i suoi due sacchi di farina, Turiddu aveva visto gli stessi carabinieri far passare un camion pieno, appartenente a un grossista dell’intrallazzo; qualche altro racconta che il giovane monteleprino non era armato, ma strappò la rivoltella al carabiniere che lo inseguiva; qualche altro addirit­ tura sostiene che a Montelepre « c’era un maresciallo che non po­ teva vedere Giuliano e sempre si appostava per sequestrargli i sacchetti del grano »). Preso l’abbrivo, il personaggio inizia a muo­ versi campeggiando tra avventure, agguati, assedi e sparatorie, pi­ mentate dall’inserto di un grosso episodio sentimentale (poteva essere, per esempio, l’amore della giornalista americana, o qual­ siasi altro episodio patetico vero o falso della vita del brigante) e poi, finalmente, al punto di curvatura della parabola, la morte. La morte diventava il momento in cui l’eroe benefattore, il raddrizza­ tore dei torti, il terribile sparatore, deviato da quel trauma infan­ tile, guadagnava l’apoteosi e il tributo di comprensione degli spet­ tatori. Tale era l’attesa normale di un pubblico a cui il bombarda­ mento di immagini fatue riduce talora il potere d’iniziativa e di reazione personale. Ma il regista decide di sconvolgere questa pi­ grizia. Al punto di partenza del film mi pare di trovare la spinta di un’indignazione morale e civile che si esprime non in gridi, proteste oratorie, figure epiche, ma in una passione di capire, di

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entrare nei fatti. Capire che? La figura del bandito, s’intende, ma considerata in una trama di fatti complessi. Invece di procedere sulla linea di un personaggio, ossia adottando una soluzione che offre numerosi vantaggi sul piano emozionale, far presa su un mo­ saico di episodi e di protagonisti: vengono a mancare i normali motivi di commozione che tengono lo spettatore legato alla sedia, ma subentra un’emozione generale, di clima: insomma, una rappre­ sentazione di fatti ed episodi che non riportassero il regista sempre ad un uomo, ma anzi lo aiutassero anche a mettere da parte questo uomo per poter inquadrare la storia di una piaga sociale, di una crisi politica e di costume, le cancrene della Sicilia: la deforma­ zione del potere locale rispetto al potere centrale, i rapporti e le collusioni tra mafia e banditismo, fra mafia e potere politico, tra banditismo e interessi economici, la miseria, l’analfabetismo. Nell’approfondire il lavoro di preparazione, il regista si rese conto che l’unico modo coerente di affrontare l’argomento era quello di « evitare l’anedottica, il romanzo, il tono del servizio sensazionale ». Lo schema di sceneggiatura preparato a Roma — dopo lo spoglio dei giornali e la lettura meticolosa dei verbali del processo — urta con le circostanze reali del mondo siciliano. L’accostamento alla gente siciliana, alla terra, ai luoghi, la perce­ zione fisica della morte, la testimonianza concreta dei contrasti e della miseria modifica poco per volta lo schema prefabbricato, in­ duce a sfrondare il racconto e ad ancorarsi alla forza dei docu­ menti. I quali negano con prove decisive che un personaggio eroico stia al centro degli avvenimenti e richiamano continuamente sul primo piano il paesaggio e l’ambiente della vicenda e la gente: non come decorazione situata sullo sfondo del quadro o massa che fa coro sul palcoscenico dell’opera lirica, ma la massa composta d’individui: uno per uno, con la loro fisionomia e vita interiore fatta di fierezza, avvilimento, miseria, demenza. Ne derivava la persuasione che il film non poteva essere girato altro che nei luoghi stessi della vita di Giuliano: le pietre dovevano essere le stesse pietre, come la natura e il comportamento della gente (anche le risse nel gabbione e le invettive durante il processo non sono in­ ventate). Rimettersi alla fonte dei fatti, impone il regista: « Se noi non avessimo impiegato quei siciliani su quelle montagne, in quelle strade, in quelle case dove quegli stessi fatti diciassette anni prima avvenivano, io sono sicurissimo che non si sarebbe arrivati a questo risultato, perché quei ragazzi, picciotti, hanno come rivissuto quegli avvenimenti e, tra loro, i più anziani ne avevano vivo il ri­ 62

cordo, per essere stati proprio i protagonisti di quella verità ». Al­ l'itinerario dei movimenti psicologici di un personaggio, il regista pensa di sostituire dei fatti precisi, ossia le conseguenze di un punto di partenza. E dunque il linguaggio dei fatti esclude ogni ricerca, ogni intensificazione psicologica: « A me interessava mostrare come agivano quei ragazzi su quelle montagne, come agivano quei cara­ binieri, di quali fatti erano partecipi gli uni e gli altri, per capire tutto quello che c’è stato prima, che c’è stato durante e che sarà in futuro. Cioè andare ai fatti e alla conseguenza delle cose ». Poiché la sceneggiatura perde le fronde (l’intreccio roman­ zato, lo spessore psicologico, il primato del protagonista), il per­ sonaggio finisce per ridursi ad una presenza sintomatica che ri­ manda a circostanze politiche ulteriori. Il regista avverte continuamente lo spettatore di non ancorarsi troppo al personaggio: il film comincia col bandito morto nel cortile di Castelvetrano e cerca di risalire alle cause prossime e remote del dramma. E in­ tanto, ad apertura di film, distrugge la prospettiva dell’apoteosi funebre: ricorderete l’inquadratura con la macchina da presa volta in basso che schiaccia nel cortile il cadavere di Giuliano. La luce mortifica i rilievi e il contorno degli oggetti e delle figure. Sul mi­ sero palcoscenico di terra battuta, in cui s’aggirano degli individui scamiciati e madidi alle prese con il formulario legale, si svolge il rito prosaico intorno al cadavere: nessun abbellimento nella posi­ tura del corpo o nell’abbigliamento (i calzini, i miseri sandali, ecc.: la macchina da presa indugia su ognuno di questi particolari). La voce monotona dell’investigatore che descrive il cadavere e fa l’in­ ventario degli oggetti (un fazzoletto, qualche lira, ecc.) smonta brutalmente il primato di quel morto. Invece che passione, caldo polvere sudore stanchezza indifferenza: i fotografi si preparano impazienti al servizio, le terrazze appaiono gremite di persone mute e curiose. Il poliziotto tranquillamente solleva il braccio di Giuliano, palpa il dito e poi registra l’anello: il braccio ricade sfasciato come il resto di quel corpo. Che storia mirabolante e sensazionale si potrebbe imbastire su quel misero cadavere privo di epica? Lo spettatore viene messo sull’avviso che l’elemento dominante della circostanza va cercato da qualche altra parte, che il cadavere rappresenta solo un punto di passaggio. Quel cadavere non lo puoi spiegare con una storia artificiosa: il regista ripete questo avvertimento, quasi un promemoria, riportando di continuo nel presente della vicenda l’ingombro di quel cadavere. Da vivo, invece, Salvatore Giuliano viene allontanato, situato

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sul campo lungo, tra i suoi uomini. Perché questo distanziare le imprese del protagonista? Portare il personaggio sul primo piano, prossimo a noi, mostrarne i lineamenti significava appassionare lo spettatore a un elemento secondario, estraneo alla situazione reale. L’allontanamento del personaggio dovrebbe consentire al regista di far emergere le forze che lo muovono. Sotto la pressione dei fatti veri, il regista finisce d’essere un intruso, capace magari di intrecciare una vicenda sopra alcuni spunti reali, e diventa par­ tecipe dell’ambiente che descrive. Situato in questa concretezza di rapporti, scopre il legame necessario tra paesaggio siciliano e per­ sonaggi. Sono personaggi dominati da spazi immobili, scoscesi. L’individuazione di un paesaggio scabro, inameno, calcinato diventa un punto di forza del film: qui la miseria della povera gente, l’avvampare di certe passioni eversive, l’isolamento scontroso del contadino trovano un paragone visivo continuo, e un inizio di spiegazione della natura delle cose. Qualcuno rimprovera a Rosi una certa freddezza documentaristica nei confronti della sua ma­ teria. Non capisco da dove si giunga a ricavare questa impressione, quando invece il regista mostra chiaramente, nei risultati, l’impeto e l’apertura fraterna con cui vince la diffidenza della povera gente: considerate il rendimento davanti alla macchina da presa di indi­ vidui che, generalmente, non tollerano o non sanno adeguarsi alla presenza di una semplice macchina fotografica. La ricreazione am­ bientale dei fatti e del loro valore (facilitata dalla profonda insi­ stenza di essi nell’animo popolare siciliano) ha permesso di giun­ gere ad un comportamento «meglio che professionale, intelligente», da persone non certo adusate a siffatte esercitazioni culturali. A confronto, spicca l’impaccio evidente nelle scene che hanno per protagonisti personaggi non strettamente popolari (esempio parti­ colarmente illuminante mi pare « don Pietro di Borghetto »). La comprensione della fisionomia individuale, pure dentro la massa, spesso perviene alla creazione di veri e propri personaggi compiuti, anche se in limiti quantitativi incredibilmente ristretti, e perciò con una concentrazione di linguaggio degna di ogni consi­ derazione: siamo evidentemente in presenza di un’analisi intuitiva dei tipi umani che compongono la situazione corale, tale da con­ sentire di annunciarne, in azione, gli elementi caratteriologici ti­ pizzanti. Esemplare mi pare la figura di Badalamenti che emerge da tutte le altre, sullo sfondo corale dei commenti nella gabbia (che la gran maggioranza degli spettatori non deve aver foneticamente percepito), con la delazione in aula, ad un tempo dramma­

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tica infrazione alle regole dell’omertà, ed espressione, più che del­ l’interesse a discolparsi dall’accusa peggiore, di quella ripugnanza dell’animo contadino all’ignobile massacro: un sommesso ma con­ tinuo filo conduttore di tutti gli interrogatori e di tutte le testi­ monianze, e che, nel dialogo con il pastore, si pone quasi ad epi­ grafe della vicenda. Tenete dietro per un momento al lavoro del regista con gli interpreti. La madre che fa il riconoscimento di Giu­ liano nell’obitorio è una contadina, una popolana e uno dei suoi fi­ gli, tra i tanti figli, giovane, mori in circostanze simili: « Quando si è trovata di fronte al corpo inanimato di Giuliano, — racconta il re­ gista, — ed io le ho indicato la scena, gliel’ho fatta vedere una sola volta, lei ha capito esattamente tutto quello che volevo da lei, e in una maniera così immediata e precisa, da esserne realmente com­ mossa e emozionata. Quella scena l’ho girata solo tre volte: la donna si è impadronita del personaggio in maniera perfetta, ha ri­ spettato le pause, i silenzi, ha ritrovato il dolore di una madre. Io le avevo indicato anche i possibili artifici, attraverso i quali poter passare per ricreare una emozione... Ma la cosa meravigliosa era il vedere che l’intelligenza di questa donna obbediva alle mie indi­ cazioni mentre il suo istinto, il suo cuore, a poco a poco, anda­ vano oltre, ricreando un’atmosfera vera, drammatica, stupenda ». Prendete anche la sequenza in cui gli uomini ammanettati vengono fatti salire sui camion. È a questo punto che si sparge fra le donne la falsa notizia di una decimazione: tutte le madri e le mogli del paese corrono verso la piazza, dove si scontrano con i soldati. Ora, queste donne non potevano essere scatenate con artifici e accorgimenti da cinematografari; bisognava essere animati dalla stessa passione, vicini alle ragioni del loro furore. Nel confronto fra i figli della miseria, i monteleprini, e gli altri figli della miseria che sono i carabinieri emerge Vumiliazione della regia che si rifiuta di planare sopra la massa popolana o di idolatrarne, con la mac­ china da presa, i chiaroscuri preziosi. Riportiamo una testimo­ nianza di questo metodo di lavoro: « Siamo arrivati a un punto assai delicato perché il paese deve rivivere i giorni più tremendi della sua esistenza. Le sensibilità si riacuiscono, il sindaco è ner­ voso, è come muoversi in una polveriera pronta a scoppiare. Rosi, teso, sicuro, continua a lavorare a testa bassa, senza perdere un attimo, come fosse in gara con l’imprevisto. In questa specie di galoppo finale siamo travolti tutti, ogni mezzo diventa buono per rubare una scena, una specie di ostinazione fanatica domina l’in­ tera troupe ». Assente la demagogia: per esempio (ripeto), nel

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contrasto tra la gente siciliana e i carabinieri. Gli argomenti ven­ gono figurati con durezza, ma si sente anche che per il regista le due parti figlie della miseria pagano insieme la disgrazia di abitare in quel punto, in quel paese, scaraventate dentro una trama di violenza macchinata in altri luoghi. Le due linee del film: il fatto presente, ossia la morte di Giuliano a Castelvetrano; e l’insieme di circostanze che deve per­ mettere di capire chi era Giuliano, che cosa lo ha determinato è che cosa ha fatto, in modo che non fosse un uomo od un nome soltanto, ma che diventasse un fenomeno, addirittura, un caso; queste due linee si riuniscono in un punto che è « un po’ la lettura razionale, logica » di quei fatti che invece prima il regista ha cer­ cato di rappresentare quasi in maniera irrazionale, in maniera di impulsi, di istinti, di cariche vitali. Prima le immagini sono gettate come pietre verso lo spettatore, a scorci bruschi, perentori, for­ zandone gli itinerari; ora al processo i vari elementi vengono accor­ dati, equilibrati come tessere in un mosaico. È il momento in cui si invita lo spettatore a riflettere sugli argomenti e le figure pre­ cedenti, gli si dà tempo perché possa capire. Ecco: la narrazione ha fornito alcuni elementi sparsi e adesso, nel processo, vediamo insieme di riflettere razionalmente su quei fatti caotici, urtanti, disarticolati, che ti hanno trascinato in mezzo agli avvenimenti e costretto a subirli o, perlomeno, a sentirne la percossa. Si smorza anche il tono fotografico, la fotografia perde di violenza, di anti­ tesi situate nei chiaroscuri: diventa grigia disardona pacata, come per non disturbare lo spettatore nel riordinamento dei fatti espresso dal dialogo processuale tra gli imputati, il presidente e i difensori. Insomma, la luce e il taglio dell’inquadratura aiuteranno lo spetta­ tore a districare il senso della vicenda: « Io voglio che la fotogra­ fia abbia — dice il regista — tre toni diversi: un tono evocativo per le vicende del passato (spesso a forti contrasti chiaroscurali), un tono da servizio fotografico per Castelvetrano e per la scena del cimitero (una fotografia ai limiti della sovresposizione, come abbacinata dal sole), un tono addirittura cronachistico, televisivo, per le scene del processo ». Nasce, quindi, una serie di accorgi­ menti nella sintassi narrativa per insediare lo spettatore nella mente di un personaggio e al centro di una situazione complessa, per filo diretto e senza diaframmi: un montaggio aggressivo che costringa ad integrare la visione, a stare dentro le cose, e final­ mente a meditarle. La disarticolazione temporale, il continuo e incalzante intersecarsi di piani, i passaggi senza dissolvenze, con

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•catti, la vicenda spezzettata ed inframmezzata dall’arsi delle scene funebri rispondono all’assunto del regista di costringere lo spetta­ tore a pensare, ma non per il tramite della narrazione continua bensì per la carica emotiva delle immagini: per la durata del film lo spettatore deve essere sopraffato dalle immagini, avvinto da questa mitraglia di figure, oggetti e azioni, poi concatenate nella conclusione processuale, che dovrebbe superare il rischio del di­ sorientamento. Al limite, la scelta della sintassi narrativa presup­ pone l’impegno di raccontare certi avvenimenti in una maniera drammatica e cinematografica, senza rimanere legati all’itinerario dei personaggi. Il confronto tra gli intenti e i risultati, misuriamolo sulla zona centrale del film: il brano di Portella della Ginestra. Di re­ cente qualcuno chiedeva al regista: non credi che se in quella se­ quenza tu avessi alzato un po’ piu il tono, avessi accentuato il momento epico a scapito del valore cronachistico, spostando i personaggi dal piano della loro generica identità a quello della loro Èotenza collettiva, avresti ottenuto un risultato artistico piu alto? Jolersi dell’assenza di ogni atteggiamento epico ed eroico signi­ fica lasciarsi sfuggire il senso del brano e pretendere dal regista un film diverso da quello che intende fare. Difatti, la sequenza del massacro recupera il peso della morte proprio in quelle misure ridotte. Voglio dire: io, per esempio, quando pensavo, prima di vedere il film, da estraneo, da persona che non era mai stata in Sicilia, all’avvenimento di Portella della Ginestra, me lo figuravo proprio in maniera inesatta, forse sulla falsariga dei resoconti giornalistici. Pensavo che si trattasse di un grande piano e che ci fosse qualcosa di sopraelevato al centro, una specie di pulpito di pietra e che quel giorno un famoso oratore parlasse davanti ad una folla enorme: la fuga dopo la sparatoria non era sparsa e la­ cera, anzi conteneva un’epica vistosa: e l’occhio dell’immaginazione Indugiava sui banditi che sparavano, sui dettagli della morte: un uomo, una bambina che piangeva, ecc. E invece la forza della se­ quenza sta nella violenza insensata e pazza della morte, per cui le persone ferite o uccise sono sempre viste da lontano e nessuno vede i banditi sparare. L’equilibrio tra irruenza e « pianissimo » viene raggiunto in un piccolo spazio: l’intero pezzo conta cento­ dieci metri. Inizia con una specie di marsigliese contadina, le ban­ diere spiegate e gonfie al vento, la macchina da presa addosso al corteo, e poi lo spegnersi funebre col girare lento in panoramica della macchina, le bandiere che si afflosciano o abbandonate in

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terra, una ancora in piedi ma senza vita, e sempre l’occhio che guarda da lontano: quello che importa non deve essere il dettaglio della bambina che piange o del ferito, ma questi microcosmi di dolore, disseminati da lontano, che imprimano il senso corale di una assurda follia omicida. Il regista ha voluto soltanto far vedere il terreno con i morti che appena si indovinano. E far sentire il dolore di tutte le vittime, la pena anche per gli altri, anche per i banditi, per la loro ignoranza. La morte appare, dunque, come una maledizione antica e comune su questa gente figlia della mi­ seria. Considerate che non si vede un pugno levato, non si sente un’imprecazione contro il massacratore, un prendersela con qualcu­ no. La rassegnazione nasce da questa presenza irreale, brutale della morte disseminata assurdamente. Avevo immaginato che la spara­ toria punteggiasse di scoppi le montagne circostanti e fosse ripe­ tuta e visibile, quasi una specie di piccolo bombardamento: e invece il regista riduce il massacro a pochi colpi che arrivano dalla mon­ tagna, insensati, non si vedono gli sparatori, la morte capita come se fosse un evento privo di senso, e non una persecuzione orga­ nizzata. Maledizione e dolore corale appaiono fissati, in ultimo, dentro quel paesaggio addirittura lunare, nella luce di tramonto sospeso sulle cose, nel calare del vento, tra quei morti che stanno buttati qua e là e il pianto strano, insistito, lacerante della gente di Piana degli Albanesi. Legandosi all’intimo delle situazioni, sca­ vando dentro la natura dimessa dei personaggi ammassati, il re­ gista approda ad una scoperta inedita di certi aspetti di un paese reale dove, se mai, l’epica sta nella misura antica delle pene e nella dignità indifesa della rassegnazione. Tuttavia, in questi termini, stiamo anche descrivendo la na­ tura prima dell’ispirazione di Rosi e i limiti del suo punto di vista. Prendiamo l’altra obiezione che capita di sentire frequentemente quando questo film viene in discussione: se il regista avesse fatto precedere il brano dell’eccidio da una sequenza sull’occupazione del latifondo da parte dei contadini, non ne sarebbe meglio confer­ mato il senso profondo della strage di Portella e ampliato l’oriz­ zonte drammatico del film? La questione, piuttosto interessante, viene formulata in maniera poco esatta, tanto che il regista replica agevolmente: avrei voluto girarla, l’occupazione delle terre, ma ho visto che era inutile, avrei girato una scena senza una sua ragione, senza una precisa funzione. E poi il film non deve prendere il posto di una lezione di sociologia, anzi — aggiunge — « mi considero un

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superficiale, sotto questo aspetto ». E, a riprova, racconta che aveva già scelto il luogo dove girare l’occupazione delle terre, definito il numero dei cavalli, degli uomini da impiegare, aveva compiuto uno studio accurato di come sono avvenute le occupazioni di terre in Sicilia: ma ogni volta che pensava alla scena gli venivano quasi istintivamente agli occhi i modelli russi: e allora se le avesse gi­ rate, sarebbero nate delle scene in contrasto con il resto del film, che invece non racconta, è scarnito, e cerca di andare al vivo delle cose. Per questo decise di non girarle e di risolvere la situazione con lo speaker. Il rimprovero a Rosi, di non dire abbastanza, non coglie nel segno. Non si tratta di dire o di raccontare (altre figure o altre immagini) aggiungendo argomenti su argomenti: per esem­ pio, sulla mafia o l’occupazione delle terre da parte dei contadini. A guardar bene poi anche questi argomenti non mancano: al pasto­ rello arruolato da poco dicono che l’indomani andranno ad ammaz­ zare i comunisti: perché, non lo sanno. I mandanti evidentemente lono gli stessi che in seguito hanno ammazzato col veleno Pisciotta. La voce fuori campo dice anche chiaramente che la furia omicida di Giuliano ebbe a scatenarsi quando il Blocco del popolo vinse le elezioni. Sicché le cose sono dette. Ma ecco il punto: a me non interessa che le cose siano dette e nemmeno che siano viste, bensì che siano espresse: come dire che vibrino dell’interesse umano, della passione e persuasione del regista. Non chiedo, poniamo, die intorno all’eccidio ci sia un contorno di fatti, un corredo di chiac­ chiere politiche e una grande scena epica di contadini che invadono la terra. Questo sarebbe ancora semplicemente dire o far vedere. Mi sembra invece che manchi l’espressione, che potrebbe anche es­ sere condensata in una sola immagine, nel montaggio che pone a contrasto gruppi di inquadrature. Non occorre affatto l’imitazione dell’epica russa. Il regista probabilmente si convince di avere in­ trodotto l’essenziale, e tuttavia non riesce a render chiaro il pro­ prio discorso allo spettatore; non basta dire: il popolo aveva vinto, e non serve neanche gran che qualche raccordo, anche importante, tra il giovane pastore e il bandito. Lo spettatore doveva essere colRito con la medesima forza di fantasia e persuasione con la quale regista ha parlato in altre circostanze che lo appassionarono. Ne consegue che l’elemento fondamentale, necessario allo spettatore per integrare e chiarire l’episodio, non erano altre parole, ma altre rappresentazioni e una diversa impostatura ideologica. Possiamo li­ mitarci a interpretare il disorientamento dello spettatore con il fatto

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della sua scarsa preparazione, ecc.? Se questo fosse vero, basterebbe replicare: amico mio, informati, e poi integra il risultato. Al dub­ bio, in certa misura fondato, che la particolare presentazione della materia lasci senza risposta molti interrogativi, risponderei che l’argomento è di tale importanza da giustificare ampiamente il fatto che il regista abbia supposto nei suoi spettatori quel minimo grado di informazione politica sufficiente alla piena comprensione del­ l’opera. Ma l’incaglio non sta nel difetto di informazione, ma in una mancanza interna per la quale il regista partecipa fermamente a certe misure, per esempio quella della morte e quella dell’aper­ tura verso gli oppressi e i miseri, e meno invece al momento del­ l’occupazione delle terre, del legame con la mafia, della presenza della « giustizia » nell’opposizione politica e dei collegamenti storici. La citazione della mafia, a spiegare i fatti, non manca: ma mi pare un raccordo didascalico, un dato intellettuale non trasformatosi nella carne e nel sangue della rappresentazione (le scene della mafia, per esempio, — l’incontro del maresciallo con il mafioso — sono deboli, forzate, quasi descritte dall’esterno). A parte gli in­ tenti civili, la mente e l’occhio di Rosi s’accendono quando prende ad elaborare la materia delle impressioni vive, presenti, a portata di mano, nate con la scoperta, anche fisica, del mondo siciliano. Anzitutto, la simpatia indignata per i figli della miseria (picciotti e carabinieri) respinti e sepolti nella preistoria della vita civile dal paese legale. Eppure la diffidenza del popolo siciliano e le sue sven­ ture non riescono a nasconderne la natura fiera, intatta, dignitosa. II regista deve aver provato per i popolani siciliani e per la Sicilia la medesima impressione di contrasto straziante che Dolci esprime con queste parole: « Questa terra è come una delle tante sue bam­ bine bellissime nei vicoli dei suoi paesi, bellissime spesso sotto le croste, i capelli scarmigliati, nei cenci sbrindellati: e già si intra­ vede come, crescendo lei bene, tra anni quel volto potrebbe essere intelligente, nobilmente vivo; ma pure si intravede come in altre condizioni quel volto potrebbe rinchiudersi patito e quasi incatti­ vito ». Secoli di malcostume hanno reso i siciliani imprevedibili, recalcitranti, diffidenti. Quale è il punto di confine tra il bene e il male in un contadino?, si chiede Rosi. « Ho parlato con picciotti che hanno ammazzato, sono stati condannati e assolti, e non avevo l’impressione di parlare con degli assassini. Dov’è che finisce il bene e come? » Da questa materia prima, individuata man mano, germina l’altra scoperta personale, validamente espressa nelle im­

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magi ni: « la Sicilia, dove ti sembra davvero di vivere in un’altra civiltà, in un altro mondo »; questo senso di una lontananza favo­ losa: difetto di istituzioni statuali, certo, ma soprattutto nel ritmo e nei simulacri della vita che dànno al regista l’impressione di un tempo fuori del tempo storico, di una vicenda affondata nei se­ coli e dominata dalla dannazione della morte. È come se rina­ scesse, proprio penetrando nell’esperienza dei fatti, la prospettiva dell’estraneo; naturalmente in senso diverso: non l’estraneo che immagina senza conoscere, ma di uno che approfondendo le sue conoscenze senta annebbiare le spiegazioni generali (storiche), è che, pur raccogliendo varie prove razionali, preferisca vivere dentro la vivezza indeterminata dei singoli fatti. Allora le persone vengono capite come situazione perenne e non come svolgimento storico, e si affida l’intelaiatura della narrazione all’evidenza (naturalistica) dei fatti. Doveva essere anche la sensazione di D’Agostino, presi­ dente del Tribunale di Viterbo, quando un testimone riferì sull’ab­ braccio tra Pisciotta, Giuliano e l’ispettore Verdiani: « Quando av­ venne questo abbraccio? In quale secolo?». La lettura della senten­ za con cui si chiuse quel processo costituisce quasi una falsariga per l’itinerario del film: secondo Rosi, il presidente del Tribunale ha cercato, ma senza riuscirvi, disperatamente in certi momenti, di ve­ nire a capo dell’imbroglio, di cercare di capire cosa ci fosse dietro quei fatti drammatici. Più che alle ragioni della diffidenza e distacco dei siciliani, ri regista s’appassiona alla forma misteriosa di questo groviglio di lontananza di cose e sentimenti che pure stanno a por­ tata di mano. Dice: « ...un timore antico, sordo, che non ha nome. Questo è un paese profondamente anarchico, governato dalla pazzia ». Il coraggio del film sta nell’aver mostrato anche i « fatti » più scabrosi e clamorosi, e in questo senso il regista va davvero fino in fondo, retto da quella sua indignazione civile. Eppure la narrazione oggettiva, il violento e smagliante affidarsi ai fatti, confidando nel­ l’emozione che da essi si sprigiona, nasconde la carenza d’interpre­ tazione intorno al nodo essenziale di forze dominanti, banditismo c classi subalterne. La distruzione del personaggio non appare com­ pensata dalla caratterizzazione dell’ambiente sociale e dei modi drammatici che vengono fuori dagli urti di classi e fazioni. I con­ tadini di Portella sono contadini visti già nel momento della festa fjolitica, ma non si sa da dove vengono e quale sia il bisogno che 1 porta dietro alle bandiere rosse e all’occupazione dei feudi. Del

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pari, manca il nesso tra l’azione di Giuliano repressiva dei moti popolari e l’evidenza della situazione siciliana (per quel che il re­ gista ci ha mostrato della mafia nel film, una parte di spettatori si fa di essa un’idea misteriosa ed esoterica). Anche se arriva alle punte «scandalistiche», il film non raggiunge una portata rivoluzionaria, in quanto si limita all’osservazione, scavando poco nell’interpretazione che lega i fatti. Lo stare addosso ai « fatti veri » e all’emozione che sgorga dal presente, mi pare che, per esempio, sbilanci il brano sul separatismo siciliano. Il regista s’entusiasma alla scoperta, sul po­ sto, del personaggio di un vecchio separatista, un’immagine patetica del separatismo come aspirazione ingenua. « Io ho voluto capire. Per esempio, quel vecchio che recita l’inno separatista mi ha com­ mosso perché girando per le montagne della Sicilia avevo par­ lato con molti separatisti e penso che questo vecchio sia un perso­ naggio veramente rappresentativo di un paese come la Sicilia. E allora mi è venuta un’idea, quella appunto di fargli recitare l’inno e ho visto che ha funzionato. Ho chiamato il vecchio e gli ho detto: recitate la poesia davanti alle montagne. E il vecchio ha recitato e piangeva. Non potevo girare, ogni volta il vecchio singhiozzava...» La commozione prende alla gola anche gli uomini della troupe; ma intanto l’episodio acquista un peso (di simpatia, ecc.) che toglie rilievo alla raffigurazione di circostanze fondamentali (non « inge­ nue »). Certo, la voce dello speaker ricorda che americani, inglesi, latifondisti e mafia appoggiavano il movimento: ma si tratta di una generica didascalia, che si scorre senza farci troppa attenzione. Eppure qui sta il nodo della faccenda. C’informa L. Sciascia che i siciliani credevano di essersi liberati della mafia, anche se a beneficio di una più grossa mafia, fino a che non sbar­ carono, con le loro precise liste di mafiosi da riportare alla vita pubblica con tutti gli onori, gli americani. Tirati 'fuori dalle carceri, dai domicili coatti, dalle masserie in cui stavano a badare ai loro superstiti interessi, i mafiosi si trovarono ad amministrare paesi, e fors’anche intere prefetture, disponendo di mucchi di am-lire, di magazzini, di derrate ali­ mentari, medicinali, vestiario. Il filo stesso per cui gli ufficiali americani li chiamarono alle cariche pubbliche li riunì. Organizza­ rono subito, tra il feudo di cui erano esperti e i magazzini ameri­ cani di cui disponevano, il grande intrallazzo. Gettarono le basi della rinnovata potenza della mafia. Tra il ’43 e il ’48 il popolo siciliano pagò ai mafiosi grano, scarpe, penicillina, corned beef, scatole di

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razione K, seta da paracadute e sigarette a prezzi incredibilmente esosi. Anche ad ammettere l’esistenza di un mito della mafia, il modo spietato in cui esercitò l’intrallazzo, nei confronti di ima ?>opolazione affamata fino all’inedia, sarebbe valso a farlo eroiare. Quando l’AMGOT cedette i poteri allo Stato italiano, i po­ teri della mafia, riedificati sull’intrallazzo, erano già stabiliti nella Sicilia occidentale. Dopo essersi compromessa col separatismo, non poteva più permettersi il lusso di sbagliare e inizia l’infil­ trazione nei vecchi e nuovi raggruppamenti politici. Tale spostamento di pesi interni spiega anche un capovolgi­ mento imprevisto che riguarda Giuliano come personaggio del mito popolare. Rosi giustamente conserva qualche tratto di questo mito (colloquio del bibitaro col giornalista). L’abuso dei potenti è la grande molla della protesta siciliana. Il contadino che è arrivato alla coscienza della propria situazione protesta attraverso l’attività sindacale e politica; il bandito reagisce d’istinto, attaccando il ca­ rabiniere, nel quale identifica il braccio armato dello Stato. Il ban­ dito è circondato dalla simpatia popolare, che lo considera un ri­ paratore di onte ancestrali; è colui che vendica la fame del paese, il campione dei poveri (e non importa che poi finisca tra le brac­ cia del mafioso). Giuliano nacque come bandito popolare, si pro­ clamò più volte nemico della mafia; in breve tempo uccise: un uomo che aveva rubato due barili di vino a un vecchio contadino con la moglie malata; un altro che aveva portato via il bestiame a un piccolo proprietario; un membro della banda che era stato espulso per « mancanza di rispetto verso i poveri »; poi un usu­ raio e un impiegato delle poste del paese che si appropriava di lettere e pacchi contenenti danaro e merci. A parte, dunque, le giustificazioni favolose per l’uccisione del primo carabiniere, il bandito si installa nel mito popolare. Al quale il film allude pro­ prio distanziando sul fondo la figura del bandito, che diventa una specie di arcangelo bianco in quel suo soprabito svolazzante; d’al­ tra parte, l’inquadratura dell’obitorio, con il corpo disteso sul­ l’ovale di marmo e la nera figura della madre che si lamenta e bacia il corpo del figlio in cadenze rituali, assume le linee di una sacra deposizione. E fin qui la narrazione non perde un colpo. E tutta­ via, anche a non considerare che il regista si limita a presentare la forma e non la radice del mito (che cosa rappresentava Giuliano per i siciliani, quali aspirazioni represse incarnavano in lui? Niente o quasi niente di questo aspetto essenziale del problema viene

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espresso nel film: le parole dell’acquaiolo al giornalista, che per il particolare stile narrativo non assumono nessun valore esempli­ ficativo, e quelle ammirative di un picciotto di Giuliano quando va a costituirsi); mi pare che il regista ometta un passaggio necessario: per cui lo spettatore o non si trova in condizioni di capire o addi­ rittura viene fuorviato. Perché, nei fatti reali, Giuliano appartiene al mito dei campioni popolari, ma nel contempo appartiene anche alla genia dei manutengoli e dei massacratori megalomani. L’inter­ pretazione necessaria consiste nel legare il personaggio del mito popolare con il protagonista della strage di Portella, spiegando il passaggio tra i due. Orbene, per quel che vede nel film, lo spetta­ tore trova conferma della giustezza del mito popolare (il film dice: faceva del bene, era con i poveri, ecc.), eppure non vede come possa esserci una connessione qualunque tra l’arcangelo che appare sullo sfondo e il massacro di Portella: come da questo personaggio venga quella sparatoria. Tuttavia il difetto non sta nello spetta­ tore ma nella carenza di giudizio storico da parte del regista. Insomma, constatiamo ancora che l’adesione, ad angolo piatto, ai fatti e alla materia dell’emozione non riesce a surrogare la fatica dell’interpretazione. Neanche il linguaggio nuovo giova sempre a superare l’ostacolo. Ad un tratto la frantumazione continua e l’in­ tersecarsi dei piani rischia, a tratti, di restaurare da vecchia retorica. Perdendo la forza che deve legare le parti, il regista prefabbrica cer­ te snodature spettacolose e avvincenti (ma ora in senso deteriore). Partito per dissolvere lo schema narrativo convenzionale, ricade talora in forme schematiche. Si ha l’impressione qualche volta che manchi l’ordine interno, un motivo unico. Guardate che non parlo di motivo unico come per dire: materia unica, filo conduttore, tra­ ma, azione unitaria, o altri sinonimi. Scardinare l’ordine narrativo non significa negare la presenza di un motivo interno che regga il disordine nella rappresentazione molteplice: quel motivo o pas­ sione o accordo fondamentale che nasce quando esiste una inter­ pretazione razionale, un ritmo generale che incardini i frammenti e regoli le parti. Allora il discorso diventa fortemente chiaro. Al­ trimenti le parti singole prevalgono sull’insieme: parti che sono a volte singolarmente vibranti, a volte inerti (come nel moto pen­ dolare dal processo — sempre vivo — &\Villustrazione di certe battute processuali) e anche compiaciute (per esempio, la preci­ pitosa fuga in casa della gente di Montelepre all’arrivo dei soldati: smagliante sequenza per il ritmo e lo spettacolare alternarsi di

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ombre e luci, ma troppo compiaciuta nel puro elemento plastico per essere funzionale; o le sequenze della morte del soldato e di quella di Pisciotta in cui l’elemento morboso-spettacolare non ap­ pare certamente richiesto dalla struttura generale del film)1il .

1 A conferma di questa ipotesi giunge una precisa testimonianza di L. Sciascia (v. Il Contemporaneo, marzo-aprile 1962, n. 46-47), il quale ha visto il film in mezzo ad un pubblico siciliano eccezionale: in gran parte di contadini non abituati a frequentare cinematografi, per età e per modo di vivere lontani da quella dime­ stichezza col cinema che consente di decifrarne la scrittura senza ritardi. Lo spet­ tatore si riconosceva in quei contadini, in quei caprai, in quegli imputati che sta­ vano nella gabbia dell’Assisc: riconosceva il pianto della madre, il furore delle donne; e l'eterna arroganza della « legge ». L’unico punto a lasciarlo dubbioso era Portella della Ginestra. Ma l'ha fatto davvero? E perché l’ha fatto? domandava. « Per Rosi, credo, l’invìsìbilità era una specie di dato immaginifico del giudizio: non Giuliano contava, ma le forze, gli interessi, gli uomini che lo muovevano. Ma per il nostro spettatore l’invisibilità era un dato mistico: Giuliano è un’idea, la rivolta contro lo Stato, la vendetta sociale, la redenzione del povero. Un imper­ meabile bianco e un binocolo quasi attributi dell’idea: il bianco, la lontananza. Giuliano diventa corpo sulla polvere del cortile De Maria, sull’ovale di marmo della squallida morgue. Una deposizione dalla croce. Un Cristo. E Pisciotta, che era •tato il Giuda, eccolo sbavare e contorcersi di veleno. E Minasola, il ’’confidente”, il corruttore di Pisciotta, eccolo fulminato dalla lupara in un giorno di mercato, In piena luce; come si conviene ad una vendetta esemplare, solenne, ’’religiosa”. Il contadino, lo zolfataro, il ’’figlio amaro” sono soddisfatti. » Ma ha sparato dav­ vero a Portella della Ginestra? E perché l’ha fatto? La spiegazione resta oscura e incongrua per quello spettatore. Per disgregare il mito di Giuliano « occorreva soltanto questo: fare di Giuliano un personaggio, un triste e feroce megalomane mosso da mani abili, da precisi interessi padronali ed elettoralistici-politici, in de­ finitiva. Relegandolo nell’invisibilità Rosi forse credeva di rendere più dura la sua accusa verso la classe dirigente che lo muoveva: e veniva invece, per il pubblico meridionale e siciliano in specie, a confermare un mito ».

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Parte seconda

Il problema critico dei film di C. Chaplin

Si sa che intorno ai film di Chaplin avviene, da decenni, il più vasto, duraturo e, anche, complesso incontro tra pubblico e cri­ tica cinematografica che mai si sia verificato nella storia del ci­ nema. In genere, l’imponente letteratura critica ' su Chaplin appare infirmata da un doppio ordine di errori: da una parte, si costringe l’opera di Chaplin ad una coincidenza deterministica con gli avve­ nimenti storici, si descrive il regista perfettamente ingranato nelle fasi politiche, al centro di aggiornate componenti storiche: nostro contemporaneo (e quindi profeta, suggeritore tempestivo, com­ pagno di viaggio, partitante): « L’uomo contemporaneo in tutta la sua statura ». A forza di spingerlo dentro ogni scadenza dei tempi, sempre in sincronia massiccia con le strutture sociali e gli eventi, si finisce qui per cancellare il senso di una giusta delimita­ zione di quest’opera: evapora il legame di Chaplin con le espe­ rienze inglesi, con quanto venne assimilando della cultura ameri­ cana, e soprattutto il suo posto d’epigono nel contesto della pole­ mica ottocentesca e romantica (antiborghese): diventa quasi sto­ riografo del proprio tempo, di questo mezzo secolo, anzi qualcuno riepiloga la configurazione di questo mezzo secolo sulla falsariga dell’opera chapliniana. Ma intanto si perde il primato dell’autobio­ grafia sul « sociale », l’egocentrismo, l’anarchismo, il senso ebraico della persecuzione, della protesta e dell’implorazione: il vero tema 1 Si veda lo scrupoloso lavoro di G. Viazzi (Chaplin e la critica, Antologia di saggi, bibliografia ragionata, iconografia e filmografia - Laterza, Bari, 1955) col quale si tenta per la prima volta di raccogliere una letteratura cosi vasta e di mettervi ordine.

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di Chaplin, di fronte al quale gli eventi successivi non forniscono altro che il materiale per le periodiche varianti dei film; inoltre si scambiano per possenti prove poetiche certe mosse oratorie. Da parte opposta, si giunge alla destoricizzazione dell’opera di Chaplin identificando l’autore con il proprio personaggio (giu­ stapposizione senza residui): il personaggio-Charlot viene entificato e canonizzato (l’arcangelo del bene, la tenerezza del mondo): quindi Chaplin viene presentato, alternativamente, candido come il suo personaggio oppure come l’antagonista di Chariot. E sic­ come Chariot — angelo decaduto — appartiene al cielo e non alla terra e alla storia, non ci si preoccupa di situare nella storia il suo equivalente psicologico, Chaplin.

La destoricizzazione di Chariot

Di solito (riferiamoci ora al secondo errore, la destoricizza­ zione) la critica parte da Chariot e intreccia il romanzo del perso­ naggio: la nascita dell’omino in uno squallido quartiere, i mestieri, le imprese dell’omino, le sue sventure, gioie, rivalse. E ognuno arrotonda il personaggio delegando a san Chariot qualche pezzo del proprio io. Il personaggio diviene, poco a poco, lo specchio del nostro tempo: « L’uomo contemporaneo in tutta la sua storia », come qualcuno ha scritto. « Chariot è il trampolino ideale per so­ gnare », dice Arnoux: ed ecco la ridda delle ipotesi: Chariot « mezzo Dio e mezzo uomo, fratello di san Francesco e della luna » (R. Payne); un arcangelo: « the great good Pan » che porta la sua croce per esaudire « la punizione del peccato originale », ecc? Non si parla piu di Chaplin ma di Chariot, di cui si tesse la biografia; non dell’autore ci si occupa ma del personaggio « nato vivo » nella mente dell’autore; esso seguita a vivere per conto suo anche quando chi l’ha pensato lo scaccia dal proprio spirito; ad ogni minimo gesto di Chariot si attribuiscono vasti significati, puntel­ lati da accostamenti anche fuori mano, verso tutti i punti cardinali della cultura, da Scoto Eriugena a Watteau, da Eliot a Baudelaire. Ad un certo punto, a sentire certi esegeti, non sappiamo piu se Chariot fa ridere, se ridiamo durante la proiezione dei suoi film, 1 Identificazione totale di Chariot con il suo autore: « Egli (Chaplin) è il don Chisciotte contemporaneo, che si avventura da solo in un. mondo malvagio, lottando strenuamente in difesa dell’ideale » (L. Jacobs, op. cit., p. 271).

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se ci è consentito di ridere semplicemente o se occorra per non sfigurare chiudere ogni accenno di allegria nel cupo silenzio di ponzamenti esistenziali. Cose certamente inevitabili e che si vedono sempre e dappertutto nel culto che si forma intorno ai grandi uomini, ma delle quali, certamente, si farebbe volentieri meno. E si deve in parte a queste gonfiature psicologistiche, a questi sottilizzamenti, a questo litigare su inezie, e piu ancora al vacuo congetturare dei cacciatori di allegorie se poi si fa tanta fatica a tracciare la linea di svolgimento dell’opera chapliniana. Di fatti, ad un tratto appare l’altro personaggio, monsieur Verdoux. E qui il romanzo sembra contraddittorio, il processo di mitologizzamento si inceppa, perché tutto « si capovolge ». Allora si rinuncia a ca­ pire e si pensa a un tradimento di Chaplin, che abbandona la tene­ rezza di Chariot « più debole di qualsiasi cosa », per la durezza e l’aggressione oratoria di altri motivi. Discutere queste forme di feticismo mi pare fin troppo co­ modo; meglio se imposteremo il ragionamento sul piano del metodo critico. Per spiegare praticamente, indicherei il caso (con cui più volte si è misurata la tesi che attribuisce valore teorico ed esisten­ ziale alle persone di un’opera d’arte), di Chariot e di Verdoux. Si veda il saggio che L. Chiarini dedica a Chaplin ne II film nei pro­ blemi dell’arte, Roma, Edizioni di Bianco e Nero, 1949 (una tesi del genere si trova anche nel libro di R. Payne: The great good Pan, New York, 1952). Chiarini delinca il personaggio Chariot; poi lo esalta; poi lo stacca dall’autore; in ultimo lo contrappone all’au­ tore. Invece che portarsi dalla parte di Chaplin, si porta dalla parte di Chariot. Ne risulta una dicotomia, un po’ romanzata, io credo. Anzitutto per quanto riguarda la riuscita poetica: « Vita da cani, Idillio ai campi, Chariot soldato, segnano il momento della per­ fetta identificazione tra creatore e creatura, sono forse l’accento di più alta poesia » (p. 177); in un piano sottostante, dunque, Monsieur Verdoux-. e quel poco di resa poetica che vi permane appartiene a Chariot, è una irruzione del vecchio personaggio, ca­ pace talora di svincolarsi dalla morsa oratoria del regista (« In questo film di vivo e vitale c’è solo Chariot »). Il divario si fa più consistente in sede di morale. La morale del personaggio Char­ iot si oppone alla morale del personaggio Verdoux; Verdoux agisce con morale falsa, negativa, Chariot con morale positiva. Qual è la morale di Chaplin nel Verdoux? La condanna di una società che vive di grosse speculazioni affaristiche, che gettano sul lastrico, 81

alla fame, migliaia e migliaia di esseri umani colpevoli solo di campare col proprio lavoro: di una società che nelle crisi non sa fare di meglio che provocare le inumane stragi della guerra, ma­ gari a base di bombe atomiche: di una società di fronte alla quale un Landra diventa una vittima che muove a pietà e che può er­ gersi disinvoltamente da giudicato in giudice. Una morale negativa, dunque. E, subito dopo, l’antitesi netta: « Qual è la morale di Chariot se non l’invito a resistere ai colpi dell’avversa fortuna, a sperare, sempre, a far qualcosa, a vivere e credere anche quando la vita sembra deluderci? Perché in fondo, nonostante tutto, nella vita c’è sempre una buona azione da compiere (e che gioia sia questa lo sa bene Chariot), uno slancio d’amore da cogliere anche se breve, magari una fortuna da trovare o anche una ghiottoneria da gustare. Nessuno piu di Chariot è attratto quasi da una legge di gravità verso la vita, nessuno piu di lui ha, ripetiamolo, pietà, resi­ stenza al male, fiducia di riuscire. Morale positiva, dunque... » (pp. 182-183). La contrapposizione non potrebbe essere piu com­ pleta: di qui Chariot, uomo di bontà pietà mansuetudine; di là Verdoux, impasto di orgoglio, acrimonia, bassezza. Da Chariot a Verdoux. Chiarini descrive così questa parabola: tre momenti: nel primo momento (tempo delle vecchie comiche) l’autore dà vita al personaggio, lo sorregge, si avverte la sua presenza arguta e pa­ terna; nel secondo momento l’autore si identifica col suo perso­ naggio (da Vita da cani, che è del ’18, fino a Tempi moderni, che è del ’35); nel terzo momento, che ha inizio con II dittatore, il personaggio si distacca dal suo autore; esso è forte di una espe­ rienza e vita propria, si impone allo stesso Chaplin e « ai suoi filosofemi ». Una specie di pirandelliana rivolta del personaggio: Chariot in cerca di autore. Questo Chariot, mite e debole, e che, in definitiva, sembra essere piovuto dal cielo e vivere in una sorta di limbo astratto (« un personaggio certo più grande di lui, e che ora è in grado di dargli lezione non solo in arte, ma anche di morale », p. 187), questo Chariot, dunque, si rivolta all’autore: un uomo, l’autore, ossessionato dai « filosofemi »; « anarchico individualista », che non ha digerito completamente la lezione di Schopenhauer; « egocentrico ambiziosissimo », in fregola di giudi­ care e condannare; incapace di autocontrollo; in lui cova l’istinto del conquistatore. Il che mi pare una riduzione, ancora di tipo idealistico-crociano, dell’ambiente storico su cui sorge l’opera di Chaplin, e della dialettica (che non è ancora poesia ma su cui

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sorge la poesia) con la quale quest’opera si articola. Il taglio risulta troppo duro. Se, ad esempio, Chaplin è egocentrico e Chariot al servizio della carità, Chaplin anarcoide e Chariot « semplice », dunque, Chariot non è piu un personaggio di Chaplin, parte, cioè, organica di Chaplin? Non è un momento, un aspetto essenziale di Chaplin? In primo luogo: si può dire che con Monsieur Verdoux la vitalità espressiva di Chaplin viene menò, oppure che scade ad un piano inferiore, oppure che vi entra di soppiatto? Non parrebbe; del resto, stabilire quanta poesia si trova nel film o invece quanta oratoria, non costituisce neppure la questione fondamentale. Po­ tremo anche chiamare oratoria la fattura di Monsieur Verdoux, purché si riconosca subito dopo la tenuta, il timbro particolaris­ simo di questa oratoria, nella quale vibra la presenza di un tem­ peramento profilatissimo che si esprime in forme polemiche im­ perterrite e martellanti, con un’acredine e una volontaria clausura di asprezza quasi unica. Forza con minore densità comica, meno variegata che in altre prove, ma più tesa, più incisiva, più compro­ mettente. Non si tratta di facili chiacchierate che trabocchino per difetto delle immagini, ma di cattiveria e malizia straordinarie che ogni particolare riportano e sottopongono al primato delle ragioni del regista: il quale ha bisogno anche di Dio, per esempio, ma per vendicarsi, per congedarne il simulacro; ha bisogno che tutto in­ torno vada male perché poi si erga la sua solitudine; Chaplin odia con una scontrosità mai vista, agghiacciante, concisa, con lo stesso impeto « lieve » nel quale esplodono i momenti della sua tenerezza. Sposta ogni cosa a suo comodo: la ragazza che salva è giovane, delicatamente bella, sensibile, vedova di un invalido ecc.; così dispone sempre i bersagli ai propri colpi. Che esista una diversità di qualità, di conclusione poetica nella struttura del film, pochi mettono un dubbio. Tra questi pochi, Bazin. Egli giunge ad una definizione positivissima, anzi compatta, del film, simmetrica di quella (negativa) precedente, pur partendo dalla medesima lettura autarchica del personaggio. Sciolto Chariot dal legame col suo auto­ re, Bazin lo proietta nel vuoto (perché: « come fissare un tempo al­ l'esistenza di Chariot? »), e integra per conto suo le avventure del personaggio. Per esempio: « Ci sembra d’indovinare uno sdop­ piamento del giustiziato: Chariot rivestito d’una tunica candida, con le ali che portava nel sogno del Monello, che fugge in sovrim­ pressione, all’insaputa dei boia. Prim’ancora che l’atto derisorio

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sia compiuto, Chariot è reso al cielo. Mi piace d’immaginare un’ul­ tima disavventura di Chariot, l’ultima: la sua resa dei conti con san Pietro ». La nuova figura — quel signor Verdoux — pare al critico francese il capolavoro di Chariot, l’apologià del personaggio dell’inadeguato sociale, il compimento necessario e definitivo del mito di Chariot: Verdoux non sarebbe altro che un travestimento di Chariot. « Occorreva Monsieur Verdoux per completare l’opera di Chariot. » E poiché il mito viene qui portato a compimento e perfezionato, vuol dire che ci troviamo di fronte al film piu poetico e puro di Chaplin. L’affinamento del mito — continua Bazin — compensa la perdita di densità comica, quell’incontestabile esauri­ mento del genio comico. Proprio a questo punto, il regista fa scat­ tare l’ultima tagliola preparata da tanto tempo, che intrappolerà e smaschererà finalmente la Società che perseguita l’omino, il per­ sonaggio Chariot. « Chariot persiste in Verdoux come in sovrim­ pressione: e ciò avviene perché Verdoux... è Chariot. » « Biso­ gnava che, al momento buono, il pubblico potesse riconoscerlo senza equivoco e quest’attimo giunge all’ultima immagine del film, quando Verdoux alias Chariot se ne va, in maniche di camicia, tra i carnefici. » Verdoux, oppure Chariot travestito da suo contrario. « Perché, notatelo, non v’è tratto del vecchio personaggio che non sia, qui, arrovesciato come le dita di un guanto. » E piu oltre: « Ghigliottineranno Chariot. Gl’imbecilli non l’hanno riconosciuto. La società ha commesso uno di quegli inespiabili errori giudiziari che la scrollano sino alle fondamenta. Piu che un errore! Una colpa, di quelle che valsero al popolo ebreo la maledizione, e fe­ cero gridare ai soldati inglesi che avevano bruciato una santa. Troppo tardi! Per costringere la società a commettere questa gaffe irrimediabile, Chariot si è rivestito del simulacro del suo con­ trario ». Naturalmente, guardando da questo punto di vista, non solo diventa incomprensibile l’intrusione di Calvero, personaggio « postumo » capace di scompigliare le ordinate fila del ragiona­ mento, ma sfuggono i limiti del film, anzi questo film non ha li­ miti di sorta. Il finale mi pare la zona alta del film (per Chiarini si trat­ terà ancora di oratoria; Bazin parlerà di questo brano come del momento di massima riuscita del travestimento operato dal vec­ chio personaggio, quando la beffa trionfa) '. 1 Per Chiarini la chiusa rappresenta il segno del «folle moralismo» dell’a. e l’ultima prova della rivolta di Chariot alle pretese dell’a. Questo eroe, che volontà-

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Tutto il film punta su questo finale, cresce intorno a questo nucleo, vera chiave di volta dell’opera, ogni altro particolare di­ venta preparazione a questa chiusa. Ed ecco come il resto del film cresce e si dispone intorno a questo nucleo. La costruzione, il pro­ cesso narrativo, l’impianto tecnico confermano l’antico dominio sulla materia che viene orientata con istinto sicuro, e ci presentano le consuete disposizioni chapliniane: per gradi si giungerà a elevare un piedistallo per l’invettiva dell’eroe dalla piccola statura, accer­ chiato nella sua dolorosa solitudine, vittima e vendicatore al tempo stesso. Vediamo queste componenti, le linee direttrici. Questo signor Verdoux assassina le mogli. Già, ma noi spettatori sullo schermo vediamo l’omicida, oppure il giustiziere che ci fa complici per simpatia? Egli sta dalla parte delle donne quando sono creature belle, delicate, buone, quando hanno pietà o candore: le protegge, le colma di gentilezza, le rispetta: alla moglie ha creato addirittura un angolo di paradiso mentre infuria la bufera di un mondo dispe­ rato, e da parte sua si intona agevolmente al ritmo dell’andamento casalingo: solo che la lotta per l’esistenza lo ributta nella mischia (e per questo è sempre solo, anche quando si trova con le uniche persone che egli ami al mondo: la moglie e il figlio). Ad un certo punto entra in un negozio di fiori, e la bella giovane fioraia diviene languida e trasognata alle galanti dichiarazioni del maturo cliente. Ed ecco la giovane vedova dell’invalido. Guardate di quanta pietà (che attiri la simpatia dello spettatore) l’ha ricoperta: la ragazza è giovane, vedova disperata di un invalido, ecc.; si dispone il bersaglio. Lei ha contro tutti, è appena uscita di prigione, sola c disperata dentro di sé. L’uomo che le parla anche lui è spento dentro. Eppure come apprezzano i valori della vita: insieme ragionano senza enfasi dei valori che rendono pregevole resi­ stenza e che a loro non toccano: la primavera, la musica, l’amore. « Che ne sapete dell’amore », chiede l’omino. « Sono stata innamorata. » « Cioè, avete sentito un’attrazione fisica per un’altra persona. » Ma no, essa è stata innamorata di un grande invalido di guerra, e può dire così che « l’amore è sacrificio, pri­ vazioni », che è volere tanto bene da essere disposti ad uccidere: ecco che la meravigliosa giovane concede una patente a lui che, riamente affronta la morte perché la vita non offre più nulla, poco prima di olire il patibolo beve con gusto un bicchierino di rhum (non lo aveva mai assag­ giato): « Con questo ci dice di non dar retta ai sermoni di Chaplin: la vita offre tempre qualcosa di nuovo e di buono, magari un dito di liquore » (op. cit., p. 186).

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proprio per salvaguardare il suo angolo d’amore, sta uccidendo; è in gran parte per sopperire ai loro bisogni e per farli vivere in una quieta agiatezza che si trova sempre in viaggio per monti e valli intento ad avvelenare qualcuno. Però a lui le donne non piac­ ciono?, chiede la ragazza. « Anzi, mi piacciono molto. Ma non le stimo. Sono creature attaccate alle cose, realistiche, utilitarie. Una donna quando tradisce un uomo, lo disprezza; disprezzano la bontà di un uomo superiore per un altro fisicamente più attraente. » Ecco un uomo superiore, fisicamente non attraente: il nostro si­ gnor Verdoux. Dunque, le donne che valgono, tenere e dolci, o esseri sventurati e inadatti al mondo sociale, sono dalla sua parte, sue alleate. Le altre... beh, le altre le elimina. Ma intanto noi non lo vediamo mai intento all’opera omicida; vi allude qualche volta *. E qualche volta con rappresentazioni che tornano a suo vantag­ gio. Quando la satira colpisce i personaggi veri e sentiti (le vecchie signore sentimentali) va a fondo, e l’orrore dell’omicidio diventa, per via della vecchia formula comica, secondo la quale commo­ zione cerebrale provocata da un corpo contundente sul cranio fi­ nisce per essere cosa divertente, uno scherzo senza conseguenze. Prendete la sequenza, perfetta per ritmo e pause, della vecchiaccia ingorda. Le luci si spengono; si sente la domanda monotona della donna (che non si vede): « Hai chiuso le imposte? serrato la porta? spenta la luce? ». Le lente parole di risposta di Verdoux: sempre più isolato. Poi, in fondo al corridoio, oltre la finestra spa­ lancata, i valori del mondo: la notte, la luna favolosa; e qui di slancio il richiamo lirico all’amante Endimione, caro alla luna. E poi il fiore dell’invenzione comica, la frase storica: « Parigi vai bene una messa », la piroetta, il sacrificio. A chiusura, la donna stecchita, avara, stridula e in una ridicola camicia da notte, che dice golosamente: « Su spicciati, vieni a letto. » L’ingorda ripu­ gnante! Lo spettatore si trova d’accordo: bisogna farla fuori. In seguito lo vediamo ancora una volta nella sua veste di assassino. 1 Come interpreta L. Chiarini il fatto (ellissi e impotenza) che Verdoux non conduca a termine neanche uno degli omicidi (nel film infatti non uccide, non lo vediamo uccidere nessuna delle tante vittime di oii si parla)? Ancora come una rivolta del vecchio personaggio: « Chaplin non è riuscito ad adattare il personaggio alla significazione morale del suo film. Chaplin vorrebbe fargli uccidere la piccola ladra, vedova di un grande invalido, ma Chariot, invece, si commuove e le dà del denaro ». Insomma, il personaggio reagirebbe alla maniera di certi pupazzi con cui giocano i bambini: hanno il piombo sul fondo, e piu li schiacci a terra più balzano e si rimettono in piedi.

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E ancora una volta lo spettatore sta dalla sua parte, parte di vit­ tima. Si tratta della lunghissima scena che occupa la parte centrale del film: i tentativi a vuoto di sopprimere Martha Raye, la megera moglie del « comandante ». Non riesce a liquidare la donna invadente, nonostante la fa­ ticaccia (per lui cosi minuscolo) e il fatto che lo spettatore faccia il tifo per lui. Per di più, gli vengono meno anche i pochi sostegni che conserva nella vita: muoiono la moglie e il figliolo, quasi tra­ volti dalla spietatezza della frana economica; e la giovane donna da lui salvata passa dall’altra parte della barricata. Verdoux resta sempre più solo, disgraziato, meritevole. Che altro gli rimane da fare, dove trovare scampo? Lo arre­ stano. Ma no: lui si consegna ai poliziotti. Continua a dilatarsi la spinta che costituirà il piedistallo della superiorità dell’omino. Si veda quel mirabile pezzo di commedia danzata che è la scena in cui il protagonista si consegna spontaneamente alla polizia, bef­ fandola una volta di più e confermando la propria stupefacente serenità e compostezza. È ancora il più forte, l’unico fra tutti a capire il senso riposto delle cose. La narrazione viene impiantata sulla tecnica del contrasto: sconforto, debolezza e remissività massime e la massima burla e impotenza degli altri, misurata sulla cadenza di un balletto agghiacciante, superfluo eppure precisis­ simo, tanto acre e disinteressato che lascia a disagio. Nel momento della cattura, un altro rincalzo al piedistallo per il prossimo trionfo: proprio nel momento dell’avvilimento si scatena ilare e acuminata la contrapposizione agli altri, la sua superiore solitudine. Difatti, al processo, esso non figura in veste di imputato, ma come accu­ satore, piccolo e imperterrito nel grande spazio vuoto e freddo: anzi, si fa più piccolo ancora e ancora più solo: non resta nessuno accanto a lui. « Per trentaquattro anni questo cervello ha servito la banca in cui lavorava, poi nessuno l’ha più voluto; allora ho pensato di servirmene per mio conto. Ho sbagliato e pago perché ho usato l’assassinio al dettaglio e non quello all’ingrosso che resta impunito. » Oggi si costruiscono armi da fuoco sempre più mici­ diali, migliaia di donne e di fanciulli innocenti vengono avviati al macello, ecc. A questo punto Chaplin ha già fatto il vuoto intorno al personaggio: eroe-vittima-solo. E qui cade il culmine della vi­ cenda, l’antitesi tra il povero cristo con il volto sbiancato e il mondo che lo crocifigge. Perché non solo emerge qui un atteggia­ mento di Chaplin più solido, meno svagato o gelidamente supe­

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riore, un atteggiamento deciso nel negare e ncll’affermare fino a quell’intenso « il mio conflitto non è con Dio, ma con gli uomini ». Ma — notate bene — con Dio manca il conflitto non perché in­ tervenga l’accordo o un consenso magari marginale, ma semplicemente in quanto Verdoux si proclama liberato dalla sua presenza. Ed è una riprova della natura antimetafisica di Chaplin (nel ’26 scrive, a proposito di un film su Cristo che egli intenderebbe gi­ rare: « Vorrei rappresentare io stesso la parte del protagonista. Naturalmente, non penso di interpretare Cristo come il tradi­ zionale, scialbo personaggio di uomo-dio. Dovrebbe essere un per­ sonaggio limpido, dotato di tutte le qualità umane »). In Monsieur Verdoux, Chaplin mette in campo Dio: ha bisogno di Dio non per implorare, tuttavia, o tentare di discutere, bensì per congedare Dio (l’anima: « roba sua »), esaltando la propria indifferenza: operazione che, in fondo, mostra l’unico aspetto caustico della bestemmia. Non solo l’impostazione del brano risponde a questa volontà di alta indifferenza, difesa ed attacco contro un mondo disprez­ zato (ben piu che un’amara constatazione da superare edonistica­ mente in abbandoni al sogno), ma il tono, la musica interna (anche le violentissime e tragiche note del commento sonoro, composte dallo stesso Chaplin) di questa testimonianza poetica hanno l’iden­ tico timbro di fermezza non retorica o rozza, di forza solenne e perfino a suo modo serena. Una forza acuminata che si rivela in recise affermazioni, aggravate e preparate da un’ironia aspra, su­ periore, che si traduce in quei movimenti garbati e crudeli di cui appare esempio massimo quello che inizia « In che posso ser­ virvi... »: parole con cui accoglie il prete venuto a visitarlo in cella per recargli aiuto e conforto; o anche l’altro punto quando degusta il bicchiere di rhum (« ...non ho mai bevuto rhum »). Si veda come, nel grande finale, non rimanga traccia del figurino di Chariot (e non capisco come faccia Bazin a scoprire proprio qui, nella tragica faccia sbiancata di Verdoux e nel resto, la spia del malizioso travestimento di Chariot: Verdoux qui non somiglia a Chariot e neanche a Chaplin: ossia non diventa neppure un ma­ nichino — portavoce dell’autore: si tratta del suo nuovo e com­ plesso personaggio). Perché qui sta il debole del film: Chaplin non riesce del tutto ad adattare il personaggio alle nuove esigenze nar­ rative; e non nell’oratoria da predica morale o nella retorica del parassitismo dell’ideologia. Nel film esiste proprio l’opposto di

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un’impostazione didascalica, perche Vinsegnare di Monsieur Ver­ doux è semmai un porsi come esempio attivo, come voce profe­ tica, e l’oratoria che qua e là si profila nei suoi caratteri piu tra­ dizionali non è la conseguenza di una nascita retorica. Si tratta di momenti fiacchi in cui una certa prosa supplisce con mimesi più esteriore alle mosse dell’intima poesia, o di grevi residui di im­ palcatura. E neanche giova a superare il disordine interno del film l’uso accorto della « tecnica dell’ellissi e dell’allusione » (che condensa, in una sola immagine, tempo e avvenimento, per esempio: l’ellissi della ghigliottina che non si vede, del forno crematorio e del suo fumo nero nel roseto, o, ancora, l’assassinio della donna suggerito dalla sola entrata e uscita di Verdoux dalla camera matrimoniale; l’immagine della locomotiva — il ritmo infuriato con il quale in­ segue i suoi affari — che serve da introduzione a numerose se­ quenze): tecnica per cui, secondo Bazin, i piani drammatici del film « quando li si avvicinano, s’incastrano gli uni agli altri alla perfezione ». Pesa sul film un difetto nella coerenza stilistica e nella unità, nel senso che la solennità e la tensione aspra e furiosa della mutata tematica mal sopportano la farsa, le fumisterie del « clown », e i gags frusti, la pantomima, le movenze del vecchio Chariot. Ma non mi riferisco tanto alla sopravvivenza nel nuovo personaggio di certi vecchi movimenti, di certi gesti: il passo ela­ stico, le rapide voltatine, le corse leggere con le brusche frenate, il roteare degli occhi e lo stringere le labbra; e non darei neppure troppo peso a qualche anacronismo di linguaggio, come lo squallore di una scenografia che non vuole, non sa rinunziare alla povertà dei teatri di posa di quarant’anni addietro oppure la fotografia vecchia, rigida, fedele alle regole dell’illuminazione attraverso il lucernario sul tetto, che rifugge dalle angolazioni, dai movimenti di macchina e smorza appena qualche contrasto. Dico della sostanza del personaggio dove ogni confusione squilibra gravemente l’arco intero del film. Ciò che stride nel film non è il materiale di recente elaborazione, ma il sedimento, la sopravvivenza di Chariot che inceppa la narrazione e mette lo spettatore a disagio: in una pa­ rola, disturba il confronto che lo spettatore compie tra il tragico del finale, da quando con l’ironia sua propria segue i poliziotti che vanno ad arrestarlo a quando in prigione si alza nella luce fredda dell’alba e va alla morte (ma anche il gesto del protagonista, di umana e contenuta commozione, quando leva il vino avvelenato

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dalle mani della ragazza con la frase: « Mi sembra che ci sia un pezzettino di turacciolo nel suo bicchiere »), e la marionettistica figurina del « capitano » che va in barca o quel ritorno alle origini: la lunga, snervante scena della serra, quando Verdoux cerca di na­ scondersi a Martha. Quando si giunge alla conclusione (il finale), il personaggio di Chaplin (Verdoux) non ha la statura necessaria per sopportare un peso tanto grave. Il burattino rimane troppo a lungo meccanico, poi improvvisamente esce dal suo ruolo di ma­ schera e accenna a diventare un personaggio complesso e umano: ma il personaggio s’imbroglia. Il film soffre di questo squilibrio, di questa leggerezza iniziale. Il motivo tragico e il motivo farsesco, farsa e allegoria, che pure potrebbero benissimo coesistere, qui si sovrappongono, in luogo di fondersi. Ciò implica, naturalmente, ima forte riduzione di vigore poetico nell’economia del film. Ma che vuol dire? Forse che i film di Chariot non presentavano, anche loro, una propria non-poesia (vale a dire: il sentimentale trito, l’esibizione patetica)? Non diversamente, nella delineazione dei « contenuti », Char­ iot e Verdoux (come Calvero e il re esule nella metropoli ameri­ cana) vanno ricomposti sulla base dell’unico Chaplin. È antago­ nista la morale di Chariot di quella di Verdoux? Alla base del mondo morale di Chaplin si colloca uno slancio mortificato (i pa­ timenti di un’infanzia alla quale resterà sempre fedele, i due anni di orfanotrofio, la miseria, il sudiciume, le tribolazioni umilianti della madre di cui venera la memoria), un’inquietudine, un im­ pasto di acredine e di tenerezza straziante; l’una, l’acredine, si gonfia talora fino a un orgoglio o presunzione forsennata, imper­ territa, impietosa; l’altra, la tenerezza, rompe fino all’esibizione sentimentale. Ma quando l’impasto riesce, e la materia diversa fonde, l’effetto è straordinario; allora la narrazione si dipana sulle linee di una intelligenza e prontezza di osservazione fulminee, e di un’inventiva formidabile, leggera, irruente. Comunque, alla base, c’è acredine e tenerezza, « cattiveria », gentilezza e mitezza felpata, alterigia e indulgenza: in Chariot e in Verdoux (come negli altri personaggi). Con una carica e direzione diversa, natural­ mente (tra Chariot e Verdoux, per esempio, corre la depressione economica del ’29; la guerra di Spagna; la persecuzione razzista contro gli ebrei; la seconda guerra mondiale; la successiva restaura­ zione conformistica, l’insoddisfazione per la conclusione del con­ flitto, il senso della precarietà dell’esistenza individuale; e poi

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l’odissea con le successive mogli; l’accanimento della stampa e dei gruppi di pressione sull’opinione pubblica americana; le peri­ pezie nei tribunali per cui egli vive come un pesce rosso dentro un vaso). Ma l’itinerario di Chaplin — anche se, procedendo da una intenzione vagamente sociale ad un intenzione politica (da ana­ tema), penetra più addentro nella solitudine e nell’impeto della vendetta — in sostanza non devia. Perché, per portare un esem­ pio, anche in Monsieur Verdoux c’è il sogno, l’idillio: un angolo del mondo in pace, la casa, il recinto pel giardino, la moglie, il bim­ bo (l’illuminazione qui è sfumata, come si addice alla favola di Chaplin). Ma, si dirà, è un sogno questo con una tragica conclusio­ ne, e subito l’idillio precipita nella catastrofe. Sia pure. Ma non ap­ pariva già desolata e amara la conclusione del sogno nel The kid? La sequenza del sogno inizia con la descrizione di un’atmosfera se­ rena. Ma che vita beata, che paradiso è questo in cui si spara feren­ do invariabilmente l’innocente e l’inerme (la vicenda del film ter­ mina proprio qui con la morte di Charlot-angelo)? E inoltre: nel paradiso di Charlie, il vetraio ambulante (che nei sogni porta la sua miseria: la vecchia strada spazzata e il cortile con qualche festone, i soliti personaggi del quartiere, le ali che si gratta, un’arpa e tutti saltellano miseramente e svolazzano), dimorano anche i dia­ voli, anzi sono proprio i diavoli a signoreggiarvi l’esistenza in-, tessendo trame diaboliche contro le quali non servono a niente quegli angioli con un camicione bianco e ali finte. La tentazione dei demoni la spunta sempre: lassù l’omaccione, fratello del ra­ gazzino antipatico, vi compare dolce, manieroso, mentre sta filando con la ragazza; si allontana e il demonio tenta la ragazza che subito schiaccia l’occhio e mostra la gamba a Chariot, il quale sta suo­ nando l’arpa; il demonio tenta ora anche lui, che a pesce allora si getta verso la ragazza: stanno per baciarsi, arriva l’omaccione che giocondamente vuole che si bacino: ma è tentato a sua volta dal demonio — la gelosia — e torna malvagio come era in vita, e scoppia la zuffa. Paragonato a Ladri di biciclette, il film di Chaplin pare più evasivo, ilare, sentimentale. Poi ha un « lieto fine », mentre De Sica chiude la storia dei suoi personaggi con una in­ quadratura malinconica e disanimata. Entrambi i film sono opere belle, naturalmente. Ma guardate, oltre l’apparenza, quanta mag­ giore durezza, violenza polemica, intensità austera di sentimenti vibra nel Monello. Che ci si presenta proprio come la storia di un poveraccio (tipo di vagabondo dei sobborghi industriali delle grandi

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città) che cerca disperatamente e furiosamente di difendere l’unica tenerezza che la vita gli consente, dall’accerchiamento feroce, mo­ struosamente ordinato, degli organismi della società. Lo scontro procede serrato con un’accumulazione di colpi che penetrano nello spettatore quanto più paiono mossi da una densità comica alacre, sempre all’erta, leggera. Ha scelto, per interpretare la parte del kid, il bambino più simpatico, più sveglio, più intraprendente e dolce che si possa immaginare; lo ha vestito di stracci senza però renderlo miserabile: quel gran berrettone di traverso, quelle bretellucce incrociate sopra il maglione rattoppato e i pantaloni lun­ ghi: una certa dignità infantile: il piccolo si difende anche da sé: tanto più ingiusta appare la società quando lo vuol carpire e trat­ tare come un animale domestico da tenere in gabbia. Eppure non c’è traccia di sentimentalismo nei rapporti tra il vagabondo e il monello. Anzi, comprenderemo quanto meritevole di simpatia sem­ brerà allo spettatore il vagabondo se consideriamo che ha fatto del tutto per allontanare da sé il peso e la responsabilità della con­ vivenza con il bimbo. Quando Chariot compare da principio nel film lo vediamo in campolungo: gli cadono in testa i calcinacci, un bidone di rifiuti gli si rovescia addosso, cammina tra muri cadenti, mattoni e rottami, bidoni sfondati e polvere; tranquillo, guarda in alto da dove cade la robaccia: un in verosimile accanimento contro di lui, quasi un’apoteosi alla rovescia; calza i guanti sfondati e poi li getta via con noncuranza. E guarda in alto anche quando incontra il piccolo abbandonato, un fagotto, tanto è — evidente­ mente — abituato alle cose che cadono, si vede che per lui è sem­ pre cosi. Poche inquadrature e dall’accumularsi di una miriade di piccoli elementi eccovi sbalzato chiaramente il personaggio: Char­ iot procede composto, con sussiego, miserabile, ha guanti ma senza punte, poi li getta via, accende il fiammifero contro la scarpa: a questo punto si trova sul primo piano. Ora compare il mondo: il poliziotto, la donna con la carrozzella, un altro povero: prima la sorte gli vuole affibbiare il piccolo e lui si ostina da principio a non volerlo, a nessun costo: non ce la fa neppure a tirare avanti per conto proprio, e poi l’unico vantaggio che la sua giornata gli offre sta proprio nell’assenza di responsabilità e di peso: niente da per­ dere, niente da lasciare, niente da ricordare. Cerca di disfarsi del fagotto in ogni modo, mettendolo di soppiatto nel carrozzino: ma la donna lo rincorre, lo malmena a ombrellate; lo vuol dare ad un altro poveraccio, quel mendicante che zoppica: finge

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di prestarglielo solo il tempo di assestare la scarpa o un Panta­ lone: poi dietrofront, e via, ecc. Se dunque manca l’idillio d’inizio, la facile tenerezza spontanea e fisiologica, il successivo attacca­ mento tra i due diseredati non potrà apparire che giusto, anzi sacrosanto. Il monello diventa figlio di Chariot, secondo lo spirito. E Chaplin intona l’uno all’altro secondo un’intesa perfetta, istintiva, nella quale essi collaborano, ognuno la sua parte: veramente il nu­ cleo della famiglia. E, in questo, Chaplin di proposito sceglie un’im­ magine convenzionale, decorosa e caricaturale, nel rovescio: lo sfor­ zo di dignità e di ossequio alle regole che i due miserabili portano nelle consuetudini familiari. Se i custodi dell’ordine opprimono anche questa «normalità» vivificata dall’affetto prezioso, come scu­ sarli? Chi peggiore e più odioso di loro? Guardate Chariot quando insegna al bambino come si sta a tavola. Ogni particolare è rovescia­ to nel suo contrario, non si nega: ma questo è quasi patetico perché il poverino ce la mette tutta, è tranquillo, persuaso di procedere « come si deve »: è lo spettatore che ride perché afferra l’involon­ taria caricatura del personaggio, ma il personaggio non se ne av­ vede. La colpa è della miseria che produce tanta ignoranza, bisogna aiutarli, non separarli (vuol dire Chaplin allo spettatore). Dun­ que, quando mangiano: la preghiera, ecc.: un primo tempo ceri­ monioso, da raffinato, da piccolo gentiluomo: si lavano la punta delle dita versando (ecco il contrasto tradizionale) il gocciolino d’ac­ qua nel piatto stesso dove hanno mangiato; usa forchetta e coltello accuratamente per tagliare le frittelle, ma poi le prende in mano, le sfoglia e le conta come fossero banconote, un pacco di bigliettoni; rutta; lava il collo e la faccia al piccolo meticolosamente, lo gira e lo rigira ma tutto con la saliva con cui bagna il fazzoletto. Sotto­ lineo questa partecipazione al menàge da parte del monello: certe volte — tanto meglio commovente — tocca proprio al monello sbrigare le faccenduole per Chariot: lo serve, prepara le frittelle mentre Chariot se ne sta a letto, inquadrato come un pascià, sod­ disfatto e placido, legge un giornale; rimedia alle dimenti­ canze di forma di Chariot: il bimbo nel sordido dormitorio pub­ blico si è già steso nel giaciglio, poi si rialza d’improvviso, scende, s’inginocchia e dice la preghiera — e allora lo fa anche Chariot. La loro intesa diventa di una precisione che sa quasi di danza; quando lavorano, poniamo: il piccolo svia il poliziotto mediante una finta perfetta, proprio come di solito fa Chariot: gli indica un punto e poi scappa da un altro. E sincronizza la sua fuga con le

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giravolte di Chariot: si veda quando si spostano contemporanea­ mente, dopo una corsetta vorticosa gomito a gomito, ai lati della porta nel cortile e il poliziotto enorme irrompe a vuoto in mezzo a loro: ricerca del lavoro con il monello che lancia sassi contro i vetri e Chariot, vetraio, che finge di «passare per caso ». Intesa che è frutto d’amore e di paura comune: nella quale la comicità guizza sul contrappunto veloce delle mosse di minuto incastro ma viene resa ansimante dalla paura, dalla persecuzione degli altri: al dor­ mitorio pubblico (dove si paga se si vuol dormire) il sorvegliante si avvicina ai due, il monello sta sotto il letto, il sorvegliante si china, Chariot alza le gambe, e con le gambe la coperta, il piccolo sbuca dal fondo del letto e si infila sotto: questo nel tempo che occorre al sorvegliante per alzarsi; il sorvegliante guarda diffiden­ te, Chariot si gratta il ginocchio ed è la testa del monello, ecc.: sono bravi, quasi un balletto, è vero: ma se la loro intesa non fos­ se perfetta, il sorvegliante, cioè la società mostruosa, li ghermireb­ be, perché essa vuol soffocare i palpiti di libertà e di amore ovun­ que si trovano. Quale furore si travasa da Chaplin nello spettatore contro questa società! Altro che candore fantastico da santa in­ fanzia. Qui Chaplin c veramente adulto, vale a dire « cresciuto » nei confronti delle forme fondamentali della sua espressione poe­ tica. Ad un certo punto l’omino fa paura: diventa una belva che si avventa, quando gli strappano il monello; la sua solitudine è amarissima, senza fondo, miserabile. L’orfanotrofio, i poliziotti, i medici, le ossute guardiane della morale caritatevole si scagliano ordinatamente, dandosi il cambio, contro questo lembo di vitalità umana. E Chariot si difende furiosamente, braccato da ogni parte. Quando glielo vengono a prendere e il carro dell’orfanotro­ fio giunge quando il piccolo è fuori pericolo, ormai convalescente (carità pelosa), si fa trovare mentre sta preparando un senapismo, si fa cogliere cosi dagli spettatori, tenerissimo. Addossa all’ordine ogni vigliaccheria: in tre, grandi e grossi, contro il debole Chariot. Durante la rissa il monello collabora con martellate sulla testa del medico e dell’infermiere che hanno afferrato Chariot. Ricordate gli occhi di Chariot quando finalmente gli strappano il piccolo? Diventa una belva che i tre riescono a malapena a tenere; il pic­ colo dal camion lo invoca; Chaplin esagera la brutalità del medico e dell’autista: il medico è qui disumanità — non gli parla diret­ tamente ma per la mediazione dell’infermiere; Chariot invece ten­ ta di parlargli semplicemente ma è respinto: contro natura. Poi

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egli si avventa in una rincorsa acrobatica, picchia e scaraventa giù dal camion il medico e lo rende più miserabile ancora per la smor­ fia di paura e di rabbia che gli stravolge il viso quando è a terra; attacca e addirittura spaventa l’autista: fa per due o tre volte la finta di rincorrerlo; poi colpisce il poliziotto che lo rincor­ re. Anche nel dormitorio, quando si accorge che il piccolo è scomparso, butta tutto all’aria: un ciclone. Questo furore di amore e di vendetta, Chaplin lo situa negli aspetti più frusti della realtà cittadina. Quello sbriciolio di vetri, di calcinacci e di detriti sui marciapiedi sconnessi, quelle sordide stamberghe, quei dormi­ tori pubblici, quei muri di mattoni sgretolati, tutti possono ve­ derli ancor oggi a New York o a Chicago; ma spettava a Chaplin di conferire ad essi, con misura e sicurezza di notazioni, l’assolu­ tezza dell’immagine poetica. E, in mezzo a quest’ambiente sordido e vivo, passa il vagabondo: la fame diventa una circostanza terri­ bile, di un’evidenza che arriva all’osso: la fame boia, di una vita da cani. Chariot vi arriva di colpo, con una formidabile invenzione comica: la mano misteriosa del borsaiolo che lavora anche nel son­ no, meccanicamente, fruga nelle tasche di Chariot e vi trova un’in­ credibile monetina: allora Chariot, che non crede quasi ai propri occhi, gli prende ancora la mano e cerca di farsi frugare dapper­ tutto (il prurito): lui non c’era mai riuscito, è un miracolo che potrebbe ripetersi: in tanta miseria si può essere superstiziosi. Vit­ tima ma, ancora una volta, pronto a colpire e a vendicare. Pren­ dete la gara di pugilato tra i due ragazzini, il suo e l’antipatico (lo sceglie anche bruttissimo e sgraziato, misero « nemico »): mette il monello sul davanzale, poi lo massaggia, gli spruzza l’acqua ad­ dosso ma colpisce un altro, gli mostra i colpi che deve portare al­ l’avversario. Ma si fa avanti l’ercole che dice: se vostro figlio bat­ te il mio, io batto voi. E quando il monello — nonostante gli sfor­ zi di Chariot che cerca perfino di tenerlo fermo a terra sotto il proprio piede — la spunta, l’ercole attacca. Chariot schiva, arriva lei, la bella: separa i contendenti, afferma che Cristo porgeva l’altra guancia, e Chariot mette subito in pratica gli insegnamenti della parabola: mentre l’omaccione rimane interdetto, l’omino lo col­ pisce in testa con un mattone, poi chiede imperiosamente che gli porga l’altra guancia, e lo colpisce ancora. Si dice: monsieur Verdoux si regola duramente con le donne, anzi è micidiale; Chariot invece era pieno di invenzioni d’amore. La cieca di Luci della città’ qui si spiega l’intera gamma del can-

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dore, della tenerezza, ecc. Si, è vero. Ma a guardare bene, nel fondo della storia, troviamo il rovescio della medaglia: che amore è questo se l’affetto vive solo quando la donna innamorata è cieca e ti scambia per un principe azzurro? Tale sentimento rompe dav­ vero la solitudine dell’individuo o piuttosto l’accentua disperatamente? Perché anche nel cuore delle opere piu tenere, innocue e sentimentali (la deuteragonista qui, oltre che cieca, ci viene pre­ sentata povera, dolcemente bionda, affaticata dal misero mestiere di fioraia all’angolo della strada, malata, vive con la vecchia ma­ dre) l’autore colloca il truce, lo spavento da mozzare il fiato, l’asprezza realistica, la durezza polemica: la presenza adulta dell’amore, della fame, della paura, dell’avversione al mondo, della vendetta agognata, del senso della persecuzione: siamo lontani dall’inconsapevolezza infantile fiorita di candore e fiaba. Prendete, per esempio, il finale più tenero della serie di Chariot: proprio le ultime inquadrature di Luci della città. Son passati dei mesi dopo che i poliziotti lo hanno preso. Il disoccupato esce di prigione. Non è mai stato tanto cencioso. Al­ l’uscita di prigione, il disoccupato ha perduto tutto, perfino il ba­ stoncino, 4 Due ragazzi venditori di giornali gli strappano un brandello di stoffa che sporge dai calzoni sdruciti; Io bersagliano di palline, lui li insegue, lo gettano a terra: dov’è la sua alacrità e agilità memo­ rabile, l’inventiva nel trovar scappatoie e rivalse? Più niente, è vecchio senza scampo. E la sua umiliazione si svolge tutta davanti agli occhi di lei. È un vinto, ora appare veramente miserabile; rimprovera i ragazzi insolenti, ma non reagisce: lui cosi pronto prima: accennava una mossa e seguiva, come un lampo, una serie di effetti. Subito dopo l’entrata di Chariot in galera, a contrasto, la ra­ gazza era mostrata in un negozio, situato lungo la stessa strada della scena finale, lucente, fiorito, ed essa vi appare elegante: si noti qui l’immediatezza con cui l’autore fa noto al pubblico che la ragazza non è più cieca: primo piano della corbeille di fiori e lei che li assesta uno per uno, poi si guarda allo specchio; entra un gentiluomo elegantissimo, azzimato, sottile ed alto, il principe azzurro convenzionale: essa spera che sia lui il salvatore: vedi, dunque, il figurino di questo ideale femminile. No: chissà quando e se verrà! Eccolo: davanti alla vetrina, come ad un idiota, essa gli fa la pietosa elemosina di un fiore, vorrebbe dargli anche una mo­

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neta ma lui rifiuta. Chariot fugge terrorizzato. Lei esce dal nego­ zio e lo chiama: timido, lottando contro se stesso, il povero va­ gabondo si avvicina. Toccandogli le mani la fanciulla lo riconosce: « Voi? » mormora con angoscia. E il piccolo straccione, col fiore in mano, abbassa in segno di assenso la testa con un sorriso im­ barazzato e chiede: « Ci vedete ora? ». « Si, ora ci vedo », rispon­ de la fioraia dolorosamente colpita, stringendogli la mano. E re­ stano cosi: Chariot col fiore e un dito in bocca le sorride « e in quel sorriso straziante si riversa tutto il film coi suoi terrori, i suoi slanci, le sue speranze, le sue amare delusioni » (L. Chiarini, Panorama del cinema contemporaneo, Ediz. di Bianco e Nero, p. 540). Ancora Chariot martire, nel suo sacrificio da povero « cristo », l’unico individuo vitale, non « doppio » come gli altri, inesauribile negli affetti e nei propositi, l’unico — dice di lui e di sé, Chaplin — che creda nell’amore, nella vita, un poveraccio salvatore della don­ na e del milionario, eppure respinto ed eliminato come un cencio: lo « schiaffo » di Chaplin, l’esaltazione della sua unicità. Ma guai a ritagliare questa chiusa dal contesto drammatico del film. Pro­ vatevi a isolare questa sequenza — avverte giustamente Chiarini — che ha un crescendo perfetto dal riso alle lacrime, « vedrete come si annulla non soltanto la comprensione, ma la vitalità espressiva, intimamente legata alla struttura del film, che non ha la piu piccola azione di cui si possa fare a meno », la più piccola divagazione. Resterebbe il melodramma, il patetismo del « vittorianesimo » cha­ pliniano. Se la seguite invece nel contesto, essa apparre tragica, truce. Anche la fioraia quando vede per la prima volta Chariot, gentiluomo impeccabile coperto di stracci, non può trattenere il riso e lo spettatore vi legge qualche cosa di più che la pietà e l’umi­ liazione: vi legge che l’impossibilità di una unione tra Chariot e la fioraia non è colpa di nessuno, forse: ma non c’è niente da fare, si drizza una barriera: la tragedia sta proprio nel fatto che non c’è proprio niente da fare, impossibile in certe circostanze della vita comunicare nel rapporto dei sentimenti: non è più qui solo que­ stione della meschinità di lei. È la solitudine che schiaccia ed esalta l’omino. L’amore lo aveva trasformato fornendogli dignità ed acca­ nimento; e ora la perdita dell’amore — che egli prevedeva fin da quando le aveva fornito i soldi per l’operazione chirurgica — gli distrugge la dignità e la vita. L’intero film punta a queste inquadrature, viene appeso a

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tale immagine, quel primo piano (non solo dolce e malinconico): inizio e chiusa, nucleo germinatole dell’opera. Perché l’opera viene costruita con la saldezza lineare di cui è capace una mente adulta. Si arriva alla chiusa per un tracciato narrativo spoglio, addirittura scarno (due trovate: la fanciulla cieca che crede che ad aiutarla sia un giovane milionario; il riccone che accarezza e benefica lo omino fin tanto che è sbronzo, ma quando i fumi della sbornia se ne vanno, non lo riconosce e lo caccia duramente). La spinta nar­ rativa rompe ogni possibile indugio sul patetico e sul banale di cir­ costanza. L’omino riconforta il milionario e gli parla del domani, quando canteranno gli uccelletti, e si colpisce enfaticamente il pet­ to: un colpo di tosse gli tronca la parola e quasi lo piega in due; sul ring, immerso nel sogno dalla sventola dell’avversario, crede di carezzare la bianca mano della fanciulla ma sul più bello si sveglia e si accorge di carezzare la mano pelosa del « secondo »; ancora nella scena del salvataggio, il pietrone cade sui suoi piedi e i due caduti in acqua cercano affannosamente di sopravanzarsi; si pensi al secchio d’acqua che la fioraia cieca getta in viso al suo muto e commosso ammiratore: « Un gesto da nulla, — osserva Chia­ rini, — un’azione banale di cui lo spettatore subitamente ride, ma poi resta gelato come se quell’acqua l’avesse avuta in faccia: la mente gli si riempie di amare riflessioni e la tristezza si insinua nel suo animo »; Chariot sta nell’auto lussuosa del ric­ cone, tutto ben vestito, acchittato; un accattone scorge una cicca, anche Chariot, l’accattone si china per raccoglierla, Chariot ferma l’auto, salta, dà uno spintone all’altro, raccoglie la cicca, fuma, l’accattone Io segue con Io sguardo, sbalordito di un antagonista tanto di lusso. Ecco un modo consueto di rompere il patetico, portando in­ vece il racconto ad un’autentica e non episodica commozione. Cosi ha accompagnato la ragazza cieca a casa: è in estasi, sulle scale, addossato al muro, e a braccia appassionatamente spalancate: lo spettatore si aspetta una tirata patetica : in quel momento un vaso di fiori cade sulla testa dell’ometto dal davanzale soprastante. Eppure aveva preparato il contrappunto meticolosamente: appare la cieca, le compra l’intero cestino, poi con dignità e cavalleria le prende il cesto vuoto, lo infila al proprio braccio, porge l’altro braccio alla fanciulla come un vero gentiluomo, l’accompagna all’auto, poi ruzzola al volante, l’accompagna a casa, le bacia la mano: estrema dignità, gentilezza, compostezza e purità di quest’idillio: estasi, va-

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so in testa, botte su cui è arrampicato che si capovolge. Non sfug­ ga, nella linearità di questo meccanismo narrativo, la disposizione dei fatti secondo una forte progressione che serra gli episodi in una forte struttura unitaria e dispone la presenza drammatica. A G. C. Castello questo film pare « la meno compiutamente riuscita fra tutte le sue opere di un certo respiro ». Il gusto episodico del gag caratterizza — secondo il critico — quest’opera, gusto riful­ gente in pezzi di bravura individuale; l’opera denuncia « una inti­ ma mancanza di unità, di compattezza, una struttura a frammenti, quasi sempre in sé pregevolissimi, quando non addirittura esem­ plari, ma solo apparentemente legati dalle didascalie di comodo. I vari elementi che compongono la, d’altronde, elementare vicenda appaiono un po’ giustapposti, non riescono a fondersi, a saldarsi in un discorso unitario ». Mi pare invece che l’arco narrativo su­ peri il frammento proprio perché inserisce l’episodio nella progres­ sione del motivo unico dell’angoscia, dell’impeto d’amore, della miseria, della persecuzione sociale. Prendiamo, per esempio, il pri­ mo girovagare di Chariot per le strade. Posso benissimo apprez­ zarne il valore come brano autonomo. È infatti spassosissimo l’omino vagabondo per le strade, tutto vispo: canzonatura dell’inca­ pacità di certi incompetenti che si fingono intenditori d’arte. Si ferma davanti ad una vetrina dove sta esposta una statuina nuda; segue la pantomima: si avvicina, si allontana, chiude un occhio, storce la testa, sembra prendere ideali misure. Intanto compare il movimento del montacarichi, dunque una doppia vicenda: davanti e alle spalle di Chariot: entusiasmo popolare di adulti e di piccini, i quali ultimi si eccitano di fronte al pericolo del tonfo che l’omino evita sempre per un pelo; finché egli si accorge del pericolo e fa per redarguire l’operaio che sale con il montaca­ richi: alza la voce quando l’operaio è ancora basso, poi mano a mano che il montacarichi sale, l’uomo appare grossissimo, e qui Chariot se la squaglia. Ma il brano non posso limitarmi a valu­ tarlo secondo questa misura; esso (e quello precedente, il monu­ mento) serve a mettere in rilievo che la miseria non pesa all’omet­ to, il quale cammina e vive ilare, privo di impacci, in concordia. Avrà coscienza della sua povertà e pochezza solo quando si innamorerà: ed ecco che alla fine del film lo rivediamo vagabon­ dare proprio per le strade della città, uscito di prigione: ma che svolgimento: ora tristezza, vecchiaia senza vitalità: una simmetria serrata, evidente anche nei particolari: la fanciulla offre all’inizio

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un fiore e un fiore gli offre alla fine. Lo spettatore è messo in grado di operare il confronto, ripercorrendo l’arco narrativo dai due estremi. Ma l’episodio che ci mette in grado di comprendere la ric­ chezza del comporre di questo regista, lo incontriamo al centro del film in un punto che di solito viene citato come un fuori d’opera, e segno del gusto episodico del gag, o al massimo come « balletto comparabile agli intermezzi danzanti di cui Molière in­ farciva le sue commedie » (Sadoul): l’incontro di pugilato. Chariot deve ad ogni costo trovare un lavoro, ma lavoro non c’è. Arriva a fare lo scopino ma lo assale la scarogna: da ogni parte gli ca­ pita roba che sporca — cavalli, e perfino elefanti; è come asse­ diato, cambia strada, cerca strade più pulite. Torna al deposito e nell’intervallo non mangia ma va a casa della fanciulla con un pac­ co, quindi torna tardi e viene licenziato. Ora la ricerca del lavoro si fa angosciosa perché intanto, tra le lacrime, la fanciulla gli ha fatto sapere che lei e quella povera vecchia della mamma sono state sfrattate. La risorsa del pugilato non offre solo un intermez­ zo comico, quasi una danza, ma rappresenta un momento ango­ scioso, disperato perché c’è di mezzo la salvezza della cieca. La pantomima di Chariot negli spogliatoi diviene irresistibile: il suo corpicino lattiginoso, la bombetta e la giacchetta: quanto di piu commoventemente e non goffamente antiatletico si possa immaginare. Il contrasto si accentua soprattutto con il pugile che sopravviene dopo l’arresto dell’avversario che gli era stato desti­ nato in primo tempo e che aveva accettato un compromesso con l’omino: quest’altro non accetta la finzione, non parla mai ma con un colpo solo abbatte il poderoso vincitore: diffida, dubita che l’omino sia un pederasta, si sveste dietro la tenda; Chariot fa gli scongiuri che ha visto fare a un negro poderoso. Intanto negli spogliatoi e poi sul ring è tutto sorrisi e cordialità servizievole nei confronti del suo avversario. Ma sul ring giuoca d’astuzia, giostra agilmente costringendo l’altro ad un ritmo di balletto, ossia tra­ scinandolo nella sua misura: è il più bravo e le suona di santa ra­ gione. Steso nel suo angolo da un pugno, sogna la ragazza che lo conforta e le accarezza appassionatamente la mano che poi si accor­ ge essere l’avambraccio del « secondo ». Perde ma solo per­ ché la corda della campana, che gli si è attorcigliata al collo, lo trat­ tiene. Anche la corda ci si mette: e negli spogliatoi, pure il guan­ tone sospeso sopra gli cade sulla testa: viene gettato di peso e la­

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sciato sdraiato su un tavolaccio e nessuno si cura piu di lui: solo con la sua miseria, ora disperata, e l’ansia non per sé ma per la sal­ vezza altrui. Qui la tecnica del contrasto non resta fine a se stessa, va oltre l’esito del gag. Nella presentazione del forte negro, per esempio, si mette in rilievo non solo la fiducia che lui ha nel por­ tafortuna (quel ferro di cavallo) ma la prestanza fisica. Sicché quan­ do torna dopo l’incontro, lo spettatore che aspetta di vederlo si­ curo vincitore, resta colpito due volte: bel portafortuna (e dun­ que povero Chariot che se ne è servito per gli scongiuri), e — secondo — il colosso negro ha perso. Ma la situazione va oltre: se il pugile bianco abbatte l’ercole negro, ora il secondo bianco — proprio il prossimo avversario dell’omino — negli spogliatoi, con un sol pugno tranquillamente fa crollare a terra il precedente vin­ citore bianco: e Chariot dovrà vedersela con lui. Tanto piu esila­ rante e patetico appare allora do scontro sul ring dopo questa pre­ parazione. Un regista che non fosse sagace come Chàplin avrebbe fatto vincere Chariot (come infatti si aspetta e desidera lo spetta­ tore): ma Chaplin è padrone dei suoi personaggi, e mira a una scadenza piu lontana: avrebbe distrutto, con la vittoria dell’omino, la forza perentoria della chiusa, la fonda amarezza e miseria dello sconfitto, il trionfo tragico e tenero dell’omino. Perché lo spetta­ tore penserebbe: l’omino sa vincere, dunque non è proprio cosi disgraziata e tragica la situazione: se la caverà in un modo o nel­ l’altro, troverà un’altra ragazza. L’episodio, in conclusione, non è un intermezzo né una divagazione comica da gustare come fram­ mento tra tanti altri frammenti: ci appare ora come una variante necessaria del tema fondamentale: la partita di pugilato non su­ pera la misura in quanto poggia sul conflitto di due sentimenti: la paura, da una parte, e la bontà del vagabondo che spera di pro­ curarsi così il denaro per far operare la fanciulla cieca e ridarle la vista. Ecco perché non mi riesce di consentire con quanti trovano che i vari elementi che compongono la elementare vicenda appaio­ no un po’ giustapposti, e non riescono a fondersi, a saldarsi in un discorso unitario, per cui « una cosa sono i rapporti del vagabon­ do col milionario ed un’altra quelli dello stesso con la ragazza ». In realtà, l’unità viene conferita al discorso proprio dal conver­ gere delle due linee: rapporti del vagabondo con la ragazza, rap­ porti del vagabondo con il milionario — sul punto della protesta di Chaplin, compiutamente espressa in termini di invenzione co­ mica: il vitale impeto d’amore, offeso dalla miseria e dalla prospe­

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rità, e l’esaltazione dell’omino che tenta spasmodicamente di rom­ pere l’accerchiamento degli altri: i ricchi, i potenti, ma anche i deboli come la cieca che, riacquistata la vista, non può che respin­ gerlo nelle tribolazioni della solitudine. Come mai si era prima presentato tanto diseredato e sconfitto nella vicenda privata (nean­ che con ima cieca beneficata riesce a stabilire un contatto dura­ turo), del pari mai come ora insulta e vibra colpi altrettanto estesi all’« ordine mostruoso » degli organismi sociali. C’è una polemica stringente e quasi feroce verso le convenzioni. Il personaggio del milionario, in questo senso, è esemplare. Questo ricco è spietato, cattivo, crudele, e tanto piu lo è in quanto la sua crudeltà ha un sapore quasi tragico di cosa irrazionale. Ma la satira di Chaplin si appunta non soltanto sul ricco in quanto persona, poiché il regista tiene a costruire attorno a costui tutto un mondo corrotto, un mondo di servitori e di locali notturni, di orge e di poliziotti ossequienti. È questo il mondo che sballotta il poveruomo, che lo attira e lo respinge, che lo truffa e lo getta sul lastrico, costringendolo, quasi per giuoco, a passare dalla mar­ sina all’abito bianco del netturbino o alle mutandine del pugilatore occasionale disposto a farsi massacrare per pochi dollari. Il primo urto (privato) rifluisce nel secondo (pubblico), spiega, e du­ plica l’energia espressiva dell’altro. Il « vendicatore angelico » si presenta ancora una volta vittima lungimirante della persecuzione sociale. La descrizione del mondo dei ricchi — dancing, e orgia in casa del milionario — non è farsa, magari gustosissima, ma reali­ smo crudo e violento: mai il mondo dei ricchi è stato tanto insul­ tato come in quell’orgia burattinesca e demente, vivida perfino nei particolari come nell’inquadratura della parte inferiore di una femmina che si spoglia e si dimena in mutande trasparenti. Affiora il senso plastico dell’orgia, che richiama la sequenza d’apertura del film: la quale sembra staccata dal resto, quasi frammento fuori d’opera: e magari sarà anche vero nei confronti dell’arco narrativo: l’autore l’avrà elaborata forse a sceneggiatura compiuta: ma questo prologo indica tempestivamente la direzione del racconto, l’irrive­ renza del suo motivo polemico. Compare il monumento alla Pro­ sperità, tra la Guerra e la Polizia: tre figure retoricissime. Al cen­ tro, seduta, sta la Prosperità, e in grembo porta lo straccione ad­ dormentato; le altre due statue sono effigiate distese: una impu­ gna un gladio ed è a testa piegata indietro: e con esso infila il fondo dei pantaloni dell’omino; l’altra è piena di gingilli e di spor-

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gcnze sui quali l’omino si gratta piu volte il naso o di cui si serve come di gradini per arrampicarsi. Il gruppo marmoreo (la più en­ fatica e inutile monumentalità) diventa così finalmente funzionale, serve a qualche cosa. L’omino sfoga il proprio gusto vendicativo c trionfa anche bloccando, con l’altro monumento della retorica (gli inni patriottici), proprio le autorità mentre lui continua ad agitarsi e fa marameo: neppure conosce l’inno, non è roba per lui: indifferenza (« sacrilegio ») sgretolatrice. Sullo schermo di Chaplin spicca sempre una traccia di sovrec­ citazione. La sua « bontà » si afferma e si nega ad un tempo. Ha Bisogno di porsi come bersaglio, di caricarsi sulle fragili spalle tutta la crudeltà, tutto il male del mondo per poi potersi contrap­ porre al mondo più facilmente, più vistosamente, più pateticamen­ te trionfale. Perfino le cose inanimate s’abbattono su di lui, lo intralciano: « La natura e gli oggetti inanimati — osservava U. Barbaro — hanno ima testarda e inflessibile volontà, superiore a quella disperata e a volte eroica doll’uomo ». In questo mondo nel quale il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e il più forte sale sulle spalle del mingherlino e del più debole; in cui per­ fino le cose appaiono dunque avverse, le bestie « sono altret­ tanto accanite e crudeli; sono irragionevoli, incomprensibili se non per la via di questa crudeltà disumana. E i bam­ bini, gli amabilissimi ragazzini, spesso sono i pestiferi monelli della borghesia puritana ». A Chaplin piace fare il Cristo (o il ven­ dicatore angelico), la vittima disconosciuta (non pensa forse a se stesso, al proprio primato, quando dice: « Gesù era certo un uomo dotato di uno charme sociale assai accentuato, e per niente affatto sprovvisto di humour. Nella Bibbia ce lo presentano come un ospi­ te — e un ospite onorato — alla tavola dei ricchi come dei po­ veri. Tuttavia era sempre solo. Ha cercato di trasmettere il suo messaggio al mondo, e nessuno Vha capito. In ciò la suprema tra­ gedia »?). Un Cristo mai mansueto però, né umile, pacifico. Vitti­ ma, che non porge tuttavia l’altra guancia: anzi, infierisce contro l’avversario; lo svuota e ridicolizza; lo dipinge grossolano (il « be­ stione »); gli nega la figura d’uomo. E ciò in ogni punto della sua fatica di regista: giunge al grottesco che vilipende il « nemico » nel film del re in esilio, ma comincia col ferro di cavallo nascosto nel guanto del pugile; la testa del poliziotto serrata nella lanterna del lampione; il calcetto sparato di nascosto e non visto contro un Inerme; l’orologio smontato al povero disperato. E se poco dopo

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si profila la figura dell’omino, tenera vittima delle prepotenze al­ trui, braccato e vagabondo, affamato e lacero — guardate però che ciclone di capitomboli, che scompiglio di corse e di torte di crema sulla faccia degli avversari: si fa largo a colpi di gomito, senza scrupoli; seduce ricche signore; ruba uova nei pollai; bara al giuo­ co delle carte; adopera il bastoncino per beffare magari qualche disgraziato o come un trapano contro le pance enormi degli omac­ cioni. Mentre sta lottando contro un avversario, entra una bella ragazza: eccolo gettarsi subito in terra facendo finta di averle pre­ se. La ragazza corre a rialzarlo, lo conforta come un bambino. E Chariot, furbissimo, mette il dito in bocca con l’aria di un bambi­ no viziato e lascia che la ragazza lo consoli e lo protegga. Ecco Chariot che nell’atto di baciare una ragazza, allunga un calcio all’indietro al ventre del rivale: come esprimere meglio il maligno compiacimento di essere riuscito a dispetto dell’altro? Ecco Char­ iot che in un incontro di boxe giuoca abilmente di scherma con­ tro l’avversario, ma si tiene alla rispettosa distanza di tre metri; c’è la paura e insieme il bisogno di fare il gradasso. Il Male, che è la realtà nel mondo di questo regista, prende cosi una consisten­ za abnorme e vacua, ma stabile, definitiva; il mondo ha ciò che si merita: ecco un’acre conclusione. Chaplin non vuole affatto persuadere al bene, non è « messaggero » di alcuna redenzione; non esorta (quando lo tenta, non va oltre una nobile e mediocre oratoria); ma vale poi la non volgare pianta del bene questa mi­ serabile, orrenda, ordinata Babilonia (questa « civiltà meccanica », com’egli dice)? Nella quale anche se ci si schiera dalla parte dei poveri perché essi sono inadatti, dolci, irregolari, disordinanti, fra­ gili, sfortunati — tuttavia si finisce sempre per prendere colpi dai ricchi come dai poveri, da tutti incompresi e schivati. Va in guerra, ma in trincea, nessuno — soldato o comandante — mostra un se­ gno di comprensione per il poveraccio che cerca un po’ di calore sbirciando e appassionandosi di nascosto, dietro le spalle dei com­ militoni, le lettere che costoro ricevono da amici e parenti: lui non riceve mai niente, nessuno al mondo si ricorda di lui. Che rimane dunque all’infuori della solitudine « eroica » squarciata ta­ lora da impeti di fiducia nella vita e di tenerezza favolosa e pog­ giata sopra la inflessibile consapevolezza e coraggio civile delle proprie ragioni? Chaplin è sempre un po’ fuori della realtà del presente, nel senso che la sua visione della realtà e del mondo si configura con­

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tinuamente secondo la speciale forzatura nichilista (il sentimento di Chariot — si è osservato giustamente — è popolare ma è anche borghese: Chariot è l’eroe del lumpenproletariat). Chariot è il po vero diavolo, incapace di adattarsi all’ambiente e maltrattato dalla vita e dalla società. Tormentato dalla povertà, dai poliziotti, dalle proprie insufficienze, sorride nelle avversità e si sforza disperatamente di conservare la propria dignità nelle circostanze più dure e più comiche. « Trovo gli umiliati, gli offesi, gli infelici, coloro che son presi a calci dal destino più interessanti e amabili — dice il regista a C. Odets — specialmente quando son sempre stati poveri e sfortunati, non perdono quasi mai la loro umanità... So cosa significhi essere umiliati: un’umiliazione non si dimentica; sento profondamente l’amarezza degli inermi, degli sconfitti, dei falliti. Nei miei film ho sempre cercato di far ridere i poveri dia­ voli, esagerando certi aspetti inumani della loro vita, che, appunto per questo, diventavano comici. » È vero che Chaplin ha un senso assai vivo delle ingiustizie, delle assurdità e delle storture sociali; ma ce l’ha come ce l’avevano in genere gli anarchici: ossia, per lui tutte le società sono delle macchine assurde. In altri termini, egli non odia questa o quest’altra società ma la Società; e il fatto che abbia creato il personaggio del vagabondo è significativo-, il vagabondo, non il contadino o l’operaio, ossia qualcuno che si pone al di fuori o al disotto di qualsiasi tentativo di sistemazione sociale. La critica, talora, ha invece cercato di far passare Charlie Chaplin per un nemico della società capitalistica proprio mediante la puntua­ le e meccanica sovrapposizione dei film del nostro autore alle vicissitudini storiche. « La coincidenza storicistica — scrive Viazzi — tra Chaplin e la cronologia della società americana è stret­ tissima. La febbre dell’oro nasce in un clima euforico da ’’boom”; quando il ciclo di ripresa economica si sarà esaurito, e la produzione sarà diventata sovrapproduzione, e quindi crisi, allora nascerà nell’attimo della frattura Le luci della città; e poi, nel pieno della tragedia, Tempi moderni. » A parte la forzatura di certi dati (Le luci della città, poniamo, non nasce nell’at­ timo della frattura perché il suo scenario è già pronto nel ’28); se prendiamo sul serio questa vocazione di storicismo integrale che specchia puntualmente « i tempi », finiremo per gridare al tradi­ mento di fronte a film come Monsieur Verdoux: difatti gli pseudo­ marxisti gli rimproverano qui il suo pessimismo, e di non formulare con chiarezza il messaggio sociale di cui Chaplin era loro debitore

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dal film Tempi moderni in qua. Ma come?, dicono: in­ combe la minaccia dello sterminio atomico, la decomposizione dell’occidente marcio spinge verso la guerra fredda; a difesa della pace e del progresso marciano gli eroi positivi proletari e il socialismo sovietico; e questo qui, invece, ce l’ha con tutto il mondo (« con gli uomini ») e scintilla di radicalismo isterico. Bene, ma gli pseudo-marxisti non si accorgono che anche in questa occa­ sione il punto di vista di Chaplin non cambia, non diventa reazio­ nario: come sempre, parte da una determinata circostanza politica (si può dire anche: da una spinta storica) per poi sottoporre questa materia che l’occasione gli porge ad una profilatura violentissima che la modella come strumento di esaltazione per l’omino: piedi­ stallo e trampolino da cui spicca il preteso primato di Chaplin, vit­ tima-eroe, martire ed angelico vendicatore, solitario e datore di vita, perseguitato e sprezzante: qualunque veste assuma, di Chariot come di Verdoux, di Calvero come del re esule. La sfasatura tra storia e percorso dell’individuo si presenta, per esempio qui, in questi termini. La spinta della circostanza concreta diventa molte­ plice: « la nostra civiltà contemporanea vorrebbe trasformarci tutti quanti in assassini di masse », « penso che la bomba atomica, l’arma piu atroce che vi sia, alimenta a tal punto l’orrore e la paura che il numero dei mezzo-pazzi andrà aumentando considerevol­ mente », « lo spirito dell’assassinio di massa regna nel mondo » (dice « nel mondo », non in una parte: i manichei protestarono considerando come indebita questa estensione geografica-politica: e trattarono il regista da sprovveduto anarcoide. Fa un curioso ef­ fetto ripensarci oggi, dopo la rivelazione degli eccidi di massa staliniani di quegli anni: anche se Chaplin non ne sapeva niente allora). Chaplin commenta Verdoux: « La civiltà contemporanea ci porta al massacro. La violenza incrudelisce e fa impazzire il mondo, come dimostra il terrore isterico che suscita la bomba ato­ mica. Solo se si tolgono i veli alla realtà si può forse fare ancora qualcosa di utile per il mondo ». La sua amarezza è spietata, perché spietata è apparsa la sua sorte. Proprio nel giro di quegli anni piomba addosso a Chaplin la persecuzione brutale dell’opinione pubblica americana e le aggressioni di certe femmine che tentano di spolparlo (ed ecco il costume borghese; l’inconsulto, il viscerale, l’uterino delle donne e, per estensione, dei popoli, delle genti e delle nazioni; gli appetiti organici, vegetativi, sociali degli uomini

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cost ben intessuti con la forma, la grazia, la dignità e il decoro Rubblico). Sicuramente, da questa spinta delle circostanze Chaplin a ricavato gli elementi per rappresentare una veritiera compo­ nente della storia con temporanea. In un eccellente articolo, Ennio Flaiano 1 ha descritto con penetrazione il nuovo personaggio di Chaplin: «... nessuno ci ha detto finora una parola tanto precisa •ni nostro destino, e così spoglia di considerazioni accessorie, come questo poeta che ha lasciato i panni del vagabondo per indossare un completo grigio (con plastron) da piccolo borghese e raccon­ tarci i nostri casi. Se osserviamo Verdoux restiamo infatti col­ piti dal fatto che non ha nulla di eroico, nel senso corrente e cine­ matografico di questa parola: è un bravo impiegato (messo sul lastrico da una crisi economica), di modeste ambizioni, amante del­ l'ordine, del lavoro, della famiglia. Suona il piano (ha una predi­ lezione per i pezzi d’effetto: Liszt), coltiva i fiori, rispetta gli ani­ mali e fa sane letture, come dimostrano le sue citazioni. Eppure questo modello di virtù civica si rende responsabile di dodici omi­ cidi, eseguiti con calma e diremo anche con una certa pulizia, al lolo scopo di assicurare l’agiatezza ai suoi cari. Dunque, per la prima volta, ci troviamo di fronte a un eroe che compie i suoi delitti non in nome della patria, dell’onore offeso, dell’espansione naturale, della passione o del semplice istinto delinquenziale, ma che li compie per arrivare alla fine del mese. Con la speranza di potersi un giorno ritirare in campagna e godere con semplicità dei moi accorti risparmi, amando la natura (è anche vegetariano), in­ segnando ai figlioli quelle regole del buon vivere che egli stima Indispensabili per ottenere il rispetto e la stima del prossimo. Verdoux non è quindi un mostro, ma un uomo assolutamente normale, un anti-eroe, uno di quelli su cui la società fa assegna­ mento per la sua difesa. Ebbene, avverte Chariot, fate attenzione che questo pilastrino della società comincia a tarlarsi, l’uomo medio ita diventando il più pericoloso animale della creazione. Il mondo è diventato una giungla, e Verdoux farà il selvaggio in finan­ ziera, il buon selvaggio di Rousseau, che deve pur vivere e non inrà certo il primo lui a soccombere, perché conosce i trucchi, sa dominare i sentimenti, ha imparato a credere soltanto a se stesso ». Altrettanto sicuramente, però, questo non è il punto d’arrivo del1 1 Ennio Flaiano, Il mondo, anno III, n. 39.

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film e neppure la sua direzione fondamentale: lo abbiamo visto neUe pagine precedenti. Dopo la spinta delle circostanze, Chaplin; articola il racconto sull’altro piano, quello privato.

Pretesa coincidenza storicistica con gli avvenimenti

Il rimprovero politico rientra nel catalogo del secondo errore che si compie nell’interpretazione delle opere di Chaplin. Si co- ' stringe la sua opera ad una coincidenza deterministica con gli av­ venimenti storici, si descrive l’autore perfettamente ingranato nelle contingenze politiche, al centro sempre di aggiornate componenti storiche. Ma a forza di spingerlo dietro ogni scadenza dei tempi, sempre in sincronia massiccia con le strutture sociali e gli eventi si finisce, ripeto, per cancellare il senso di una giusta delimitazione nel tempo di quest’opera. Sul piano dei risultati, inoltre, si scambiano per possenti prove poetiche certi cedimenti oratòri. Il romanzo popolare « vittoriano » dell’ottocento fornisce le coordinate per le vicende del nostro regista: la miccia che v’accende dentro conferma il segno della rivolta romantica, secondo la quale l’individuo isolato e avversato dalla sorte acquista un rilievo eccezionale, contrapponendosi al mondo e alla vita collettiva: da qui nasce la sua solitudine anar­ chica di fronte al dispositivo borghese, il suo orgoglio, il suo dolore e la sua ironia. Il personaggio di Chariot diventerebbe, dunque, lo specchio del nostro tempo: « l’uomo contemporaneo in tutta la sua statura », come si è scritto. Ma ad un tratto appare l’altro personaggio, monsieur Verdoux. E qui il romanzo sembra con­ traddittorio perché « tutto si capovolge ». Allora si rinuncia a ca­ pire e si pensa a un tradimento di Chaplin. Proprio come succede ai critici sovietici Bleiman, Kosinzev e lutkevic: i quali avevano tracciato a modo loro il percorso del nostro autore che — indivi­ dualista oltranzista e privo di programma positivo nel primo tempo della propria opera — giungerebbe con The great dictator al suo film migliore, dove avviene il miracolo della comprensione: qui riconosce che la lotta tra il fascismo e la democrazia era una lotta per la giustizia, per la logica storica, per la felicità di cui il pove­ ruomo era così a corto e che ora gli si voleva sottrarre definitiva­ mente. Il poveruomo è divenuto finalmente un eroe, nel modo piu esplicito, « un grand’uomo, l’alfiere di un ideale sociale, il

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paladino dell’umanità ». Il tema della solitudine scompare dunque dai film di Chaplin: « Chariot non spreca piu le forze del suo animo per una sciocca fioraia o per una vezzosa cavallerizza... Incede per la sua lunga strada di un tempo che conduce al mirabile paese della Giustizia ». Su questa linea, anche la parabola che Eisenstein disegna di un’evoluzione da Chaplin-fanciullo a Chapliniribuno (o adulto), e il conseguente dualismo, pur sostenuta da geniali notazioni, non regge fino in fondo. E questo per due ra­ gioni: 1) Eisenstein, considerando come un risultato definitivo Il dittatore, ne altera la fisionomia e gli attribuisce una carica so­ ciale e politica che il film non possiede (« per la prima volta ‘— nel Dittatore — non è lui ad essere in balia del proprio metodo c della propria concezione; ma sono invece il metodo e la sua vo­ lontà di dimostrazione che si trovano nelle mani di un adulto. Ciò perché, in questo film, per la prima volta parla alto e chiaro, conseguente sino alla fine, il coraggio civile, non solo di un adulto, ina di un Grande Uomo, grande a lettere maiuscole... Il discorso che conclude II dittatore è in un certo modo il simbolo dell’evo­ luzione da Chaplin-fanciullo a Chaplin-tribuno »); 2) Eisenstein insiste troppo sulla inconsapevolezza e il candore del kid Chaplin (le opere con Chariot protagonista). Solo col Dittatore Chaplin uscirebbe da questo limbo d’infanzia, posto al di qua del bene e del male. Il difetto di tale tesi è che taglia via il consapevole e atti­ vissimo intervento di Chaplin, il suo strenuo sottoporre alla propria biografia le varie vicende del mondo-, in una parola, scompagina una linea profilatissima che dall’antico Chariot sale sino a Verdoux c oltre. Ma appunto, Eisenstein non valuta con giusta misura Monsieur Verdoux: l’opera in cui l’insofferenza, la mancanza di socievolezza diventa più cupa. D’altronde, anche nel Dittatore il male viene descritto alla vecchia maniera, anarcoide e manichea. Come appare a Chaplin la guerra? e la dominazione nazista? Manca in Chaplin uno sguardo che situi i fatti nello spazio e nel tempo, interpretando secondo una dimensione esatta: Hitler, invece che come lo strumento di una classe, gli si configura nelle forme del Male, un monstrum abnorme e vacuo, grottesco e apocalittico: il tremendo poliziotto baluardo dell’ordine costituito, il demone ul­ trapotente che si accanisce contro la libertà e la solitudine del poveruomo e che occupa tutto, in nome di una società sostanzial­ mente disordinata, conformista, vuota; di contro — trionfante — l’ometto, il barbiere ebreo; ed ecco l’antitesi: finirà che, con uno

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sgambetto, il poveruomo — da solo — farà vendetta e ridicolizzeià il Male (il duello tra Golia e David « pellegrino »), l’Anticristo. Una massiccia stroncatura di questa antologia di saggi chapli­ niani viene compiuta da un altro sovietico, A. Lejtes *. Lejtes esor­ disce dichiarando che « purtroppo, nella numerosa letteratura ri­ guardante Chaplin, in sostanza non vi è nemmeno una ricerca marxista seria ». Neanche il volume pubblicato a Mosca nel 1945 migliora il magro bilancio. In esso « la glorificazione del talento si trasforma in un vero e proprio chiacchierare a vanvera », un caleidoscopio di analogie storico-letterarie sfrenate: « Gli articoli dei registi Kosinzev e lutkevic, che appaiono in questa raccolta, si presentano come degli articoli-brindisi sui generis, in cui le esclamazioni esaltate, gli epiteti entusiasti e i patetici paragoni storico-letterari tengon lontano il lettore da qualsiasi problema concreto dell’arte contemporanea ». Lejtes punta la sua polemica virulenta sull’articolo di Bleiman che « pur rimanendo, per il suo contenuto, un brindisi entusiastico dello stesso tipo, spicca este­ riormente come ’’assai denso di problemi” ». Perché definisce l’ar­ ticolo di Bleiman « confuso, formalistico e nocivo »? Perché, ri­ sponde, è « uno degli esempi piu tipici di servilismo davanti al­ l’occidente borghese: il critico, studiando una grande e interessante manifestazione artistica d’oltreconfine, preferisce solo esaltarsi, non già approfondirsi in essa e, dimentico della sua dignità di uomo sovietico, è pronto a rinnegare quelle elevate posizioni di princi­ pio marxista, sulle quali si basa la critica sovietica e la concezione del mondo dell’uomo sovietico ». Per che cosa, poi! « Per rendersi prigionieri di quella decadente visione del mondo, da cui si allon­ tana tutto ciò che v’è di avanzato nell’arte d’oltreconfine... » Il nostro, invece, non deroga e, giustamente, rimprovera ai suoi com­ patrioti la tesi della coincidenza tra l’opera chapliniana e il corso storico: « Forse che il critico, come si supporrebbe in un critico d’avanguardia, si accinge a contrapporre all’omino schiacciato dalla storia dei film di Chaplin i veri eroi dei nostri giorni, che vogliono prendere parte attiva al processo storico? Niente affatto ». Bleiman, senza scomporsi, dichiara: « Chaplin, nei suoi film, non solo mostra l’uomo contemporaneo in tutta la sua alta statura, ma lo mostra anche da posizioni piu elevate che non la letteratura sentimentale * A. Lejtes, Talento e concezione del mondo, maggio 1948, sulla rivista Novij Mir, traduzione italiana nel volume Chaplin e la critica, Bari, Laterza, p. 207.

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della contemporaneità ». Si oppone, dunque; ma con quali argo­ menti? In fin dei conti, mi pare peggio la toppa del buco. Dice che gli altri parlano a vanvera; Lejtes invece ragiona con chiarezza fintanto che descrive la prima parte dell’itinerario chapliniano, poi quando comincia a menar botte a dritta e a manca, tocca a lui discorrere a vanvera. Pesantemente, applica la meccanica delle com­ binazioni zdanoviane (la decrepita arte dell’occidente, di fronte alla cinematografia sovietica « la più avanzata del mondo »), che cul­ minano nella demagogia dell’antitesi accademico-amministrativa: alla quale va rimproverata non Vantitesi, anzi, ma la mistificazione che corrompe e toglie ogni energia e significato all’antitesi; per cui non si colgono mai i valori positivi e drammatici, se emergono nel presente del mondo « borghese », mentre si spacciano per valori « proletari », nuovi, delle rappresentazioni anacronistiche o verni­ ciate che insultano il personaggio proletario dipingendolo come incapace ad uscire di tutela. Lejtes muove dalle parole che Stalin pronunciò nel 1919: « Il mondo si divide, decisamente e irrevo­ cabilmente, in due campi: il campo dell’imperialismo e il campo del socialismo... La lotta di questi due campi costituisce il perno dell’intera vita contemporanea... ». L’arte borghese dei giorni no­ stri, or complicando la psicologia della gente comune, or sempli­ ficando e livellando la figura dell’uomo semplice, dell’uomo del lavoro, ignora, e con premeditazione, « i veri eroi dell’occidente attuale », preclude al pubblico la visione artistica « delle figure di quelle centinaia di migliaia di proletari che, sotto la direzione dei loro partiti comunisti, si sono posti sulla via di una lotta disinte­ ressata, cosciente, organizzata per la libertà della loro classe e del loro popolo ». A questa stregua, finisce per sfuggire totalmente la definizione estetica di un’opera ma altresì viene alterata la qualità ideologica di ogni opera. Il quadro di Picasso « Guemica », per esempio, « per la forma dell’espressione artistica costituisce una manifestazione di regresso. Infatti la rappresentazione della lotta fra le forze popolari e quelle antipopolari vi è resa soltanto sotto un profilo isterico. Qui in primo piano compaiono soltanto senti­ menti di terrore e d’incubo, che confondono la coscienza, offuscano il pensiero, soffocano la volontà ». Manca nel quadro — nel pe­ riodo decisivo della storia dell’umanità — « il passo misurato dei ferrei battaglioni del proletariato » (p. 241). Viceversa, Il deputato del Baltico o II grande cittadino sono film di notevolissimo livello artistico perché considerano il peso del governo sovietico e del

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proletariato russo. Fissata siffattamente la dialettica storica con­ temporanea, Lejtes prende l’opera chapliniana e inizia le misure-. s’accordano l’opera e l’autore con la descrizione riferita preceden­ temente? No, dato che Chaplin ignora l’eroe positivo del nostro tempo. « Nel suo personaggio non c’era concretezza storica. C’era concretezza sociale... Ma il suo personaggio non si urta con avve­ nimenti realmente storici. È come se niente succedesse al mondo. » Il sentimento civile spinge Chaplin a reagire vivacemente, in una forma o nell’altra, ai grandi avvenimenti contemporanei che agi­ tano la gran massa del pubblico; l’artista invece pone costantemente questi avvenimenti solo come sfondo su cui muovere il suo immu­ tabile personaggio. « Il senso artistico di Chaplin è rimasto note­ volmente indietro rispetto al senso civile, che egli possiede. La figura denomino è data come separata da quella grande esperienza sociale che, nel corso di vent’anni, accumularono gli uomini sem­ plici di tutto il mondo. » Il parrucchiere ebreo, nel discorso che pronuncia alla fine del Dittatore, ad un certo punto dice: « Le nubi si disperderanno! Il sole riapparirà. Usciremo dalle tenebre nella luce. Andremo in un mondo nuovo, dove ci sarà felicità, dove gli uomini saranno al di sopra dell’avidità, dell’odio e della crudeltà ». Lejtes definisce questo discorso del personaggio chapliniano «astratto e sentimentale» perché già esisteva «il mondo in cui gli uomini sono al di sopra dell’avidità, dell’odio e della crudeltà », il mondo in cui il popolo ha scoperto le proprie forze, le proprie possibilità: «Tale è infatti il mondo degli uomini sovietici, il mondo della società socialista. Il mondo in cui il piccolo uomo ha comin­ ciato a sentirsi grande, il costruttore della propria vita ». Ed era­ vamo nell’era staliniana, di cui tutto si potrà dire tranne che in essa fiorisse la responsabilità e l’autonomia « dal basso », che pone l’uomo semplice come protagonista degli avvenimenti. « Nel Dit­ tatore, a Hinkel, si oppone solo il piccolo parrucchiere che non crede in se stesso. Come se a quel tempo non ci fossero, in tutto il mondo, centinaia di migliaia di uomini che, educati dall’esem­ pio dell’Unione Sovietica, si battevano per una lotta attiva contro il fascismo! » Non nego che questo sia vero (la solitudine dei personaggi di Chaplin), ma al nostro critico sguscia completamente di mano il significato di questo punto di vista. E siccome Chaplin « non è con noi », è senz’altro contro di noi. Sicché Lejtes distin­ gue la genialità privata del regista (che egli chiama « talento »: ma poi evita di spiegarci in che consista questo talento, e se la cava

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accennando vagamente al motivo « della speranza » per la quale l’omino troverà alfine il suo posto nella grande epoca: tanto di cappello al « talento », come facciamo quando passano i funerali) contraddetta e declassata dall’umanesimo astratto proprio del pic­ colo-borghese (questa che chiama « concezione del mondo »), che degenera presto in una forma paurosa di antiumanesimo, di immo­ rale e reazionaria aberrazione come può essere un grido colmo di intonazioni isteriche. Difatti Lejtes va in bestia di fronte al film Monsieur Verdoux perché gli pare che insinui lo sgomento e di­ mentichi, più che altrove, la presenza nel mondo dell’opera sta­ liniana e dell’eroe positivo sovietico. Secondo il critico, quando lo spettatore, nelle prime sequenze del film, vede il fumo di un forno, in cui monsieur Verdoux brucia una delle sue vittime, « in­ volontariamente ricorda, per associazione, Maidanek, Auschwitz, Treblink, i lager dove i fascisti, con calcolo feroce e con ferocia calcolata, bruciavano donne, fanciulli e vecchi ». Quando monsieur Verdoux è mostrato come uomo che adora i fiori, che si preoccupa in modo commovente degli animali, « involontariamente lo spet­ tatore ricorda Hitler che amava farsi fotografare tra i fiori ». (Ed è già arbitraria questa interpretazione delle impressioni dello spet­ tatore.) Ma i punti d’accusa più aspri vengono poi ridotti ancora a poco dal fatto che, secondo il critico, monsieur Verdoux appare nel film l’unico accusatore della società capitalistica. Del resto, il signifi­ cato obiettivo del film sarebbe ancora più pericoloso. Rendendo confuso il rapporto dello spettatore con Verdoux, facendo apparire Verdoux, con l’aiuto di tratti realistici, figura simpaticissi­ ma sullo sfondo contro cui è mostrato, il film tenterebbe anche di creare nello spettatore un duplice, ambiguo rap­ porto, con tutto quel di marcio e di disgustoso che si incarna in Verdoux stesso. Malsana confusione che viene creata dal film se l’eroe che incarna i tratti disgustosi della borghesia contemporanea è al tempo stesso capace di suscitare simpatia. L’im­ postazione del film si mostra del tutto immorale « allorché si egua­ gliano carnefici e vittime, e il nostro secolo viene proclamato il ’’secolo dei delitti” », in cui « una crudeltà genera l’altra », e ai delinquenti non tocca pentirsi ma « odiare i delinquenti che agisco­ no su più vasta scala e con maggiore immunità ». Davanti alla mor­ te, accusando i padroni delle officine belliche e i dirigenti del mondo capitalistico che produce guerre criminali, « Verdoux non difende in alcun modo l’uomo comune, che quotidianamente soffre e peri-

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see sotto il tallone di ferro dell’imperialismo. È lontanissimo da una qualsiasi impostazione concretamente sociale e morale del pro­ blema ». Ecco perché — sempre secondo Lejtes — il « tragico » destino di monsieur Verdoux non può in alcun modo commuovere un uomo d’avanguardia. Chaplin con questo film « è divenuto egli stesso vittima di una aberrazione artistica o, per esser precisi, vit­ tima di quella putrida atmosfera patologica che impera nell’arte borghese contemporanea. Nella ’’commedia degli assassini”, il riso di Chaplin è il riso di un uomo senza fede. Il riso di un artista che, frustando le ipocrisie dell’etica borghese attuale, non contrap­ pone, nel suo film, all’amoralità della struttura capitalistica l’altra morale, veramente avanzata, la morale che anima milioni di uo­ mini di avanguardia di tutto il mondo » (p. 238).

La contraddizione inesistente: « Tempi moderni» e «.Luci della ribalta » Ma, potrà dire qualcuno, esiste una forzatura in que­ sta interpretazione della personalità e dell’opera di Chaplin: difatti come farvi rientrare due film come Tempi moderni e Luci della ribaltai II primo perché esprimerebbe la perfetta coinci­ denza tra avvenimenti storici e « rispecchiamento » poetico il secondo perché, chiudendo il « processo che spinge Chaplin verso la saggezza di Calvero », manifesta solo bontà, pacificazione, sag­ gezza, equilibrata vitalità, oggettività, altera e paziente dolcezza, 1 Lewis Jacobs, per es., scrive (p. 269, The rìse of the american film, ediz. ita!.): « ..Modern Times (1936) rivelava pienamente la sua capacità di cogliere i termini della realtà contemporanca » poiché esprimerebbe compiutamente « la crisi dell'individuo contemporaneo» (p. 270). Del medesimo parere furono Lejtes e Sadoul (« Dopo Chariot soldato, il l>ensiero di Chaplin aveva continuato ad avanzare di pari passo con gli avveni­ menti contemporanci.,. Continuava a vivere alla pari col suo tempo »). Sadoul giunge perfino ad ipotizzare una diversa costruzione del racconto cinematografico. Cosi come la vediamo, la costruzione drammatica del film non gli pare rigorosa. E questo perché, secondo lui, Chaplin dovette prendere alcune « precauzioni ora­ torie » per impedire lo scatenamento della stampa a grande tiratura. Altrimenti "gli sarebbe stato sufficiente invertire le parli. « Avrebbe mostrato prima Chariot alla vana ricerca di lavoro senza trovare altro che guai. Poi il protagonista sarebbe stato assunto nella grande fabbrica, e reso folle dal lavoro a catena. Per finire, avrebbe preso in mano una bandiera rossa. » Ma concludendosi il film su questa scena « si può immaginare la campagna che si sarebbe subito scatenata contro Tempi moderni ». Quindi non ne fece niente. * Lungi dal cercare una costruzione dram­ matica rigorosa, Chaplin moltiplicò gli scherzi e le digressioni. Durante la prima

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pacata considerazione dei limiti della vecchiaia, rispetto delle pro­ porzioni tra l’io e il mondo, commiserazione sopra se stesso, di­ stacco dal rancore: insomma, il contrario esatto della complessa, egotistica esaltazione del solitario, vittima-eroe. Anche se questa risulta essere la definizione piu accreditata delle due opere sopra nominate, non mi pare esatto trovarvi una rottura del profilo con­ sueto. Chaplin non devia neanche in simili circostanze. A guar­ dare bene, anche in Tempi moderni resta la « sfasatura » storica del film rispetto alle circostanze da cui prende le mosse. Anche qui il tema — la protesta contro la stritolatrice « ci­ viltà » delle macchine e le sue conseguenze di abbrutimento, di disoccupazione, ecc. — parte situando la vicenda nel pieno di varie circostanze con temporanee. Quello dell’insoddisfazione del lavoro nella civiltà delle macchine (l’alienazione) è il leit-motiv di quasi tutta la produzione americana. Nel 1931, ricordano i cro­ nisti, Chaplin fece un viaggio, che doveva durare quindici mesi, in Europa e in altri paesi del mondo, interessandosi in modo parti­ colare dei problemi economici e sociali e discutendone con uomini politici, scrittori, scienziati. Vide un mondo barcollante e disfatto, immiserito dalla guerra. Pensò di pubblicare una serie di articoli sulle questioni sociali. Era rimasto sconvolto dalla disoccupazione che infieriva in tutti i paesi da lui visitati. Ma rinunciò ben presto al suo progetto per intraprendere lo scenario di un nuovo film: Mo­ dem Times. Partita da questa attenzione ai fatti, la parabola com­ positiva approda alla « sfasatura » egocentrica. Anzitutto, la pole­ mica contro l’impiego squilibrato della macchina gli si configura come orrore nei confronti della macchina (l’inferiorità dell’uomo di fronte alla macchina), come fallimento della macchina e dell’in­ dustria. La fabbrica diventa il mostruoso regno dell’ordine mec­ canico, peggiore di ogni galera, e gli ingranaggi acquistano una dimensione terrificante da barocco grottesco. L’autore è grande in questo fondo truce, nella deformazione abnorme, nelle zone estremezz’ora del film egli poneva, con una violenta tensione drammatica, il problema centrale dei tempi moderni. Poi sembrava cercare di far dimenticare la sua audacia con le risate c le azioni apparentemente clownesche. » Sull’altro. versante, la parte piti reazionaria della stampa americana invece scriveva: « Si rimprovera a Chaplin di non essere mai stato cosi aspro, cosi ribelle. Ci pare che la sua tendenza politica attuale sia vicinissima al comuniSmo». E André Antoine osservava nel Journal-, « Da questo insieme emana una velleità sorniona di satira di sapore bolscevico. » Nella Germania nazista Tempi moderni fu proibito dalla censura, e il dottor Goebbels ordinò al suo rappresentante a Parigi di citare Chaplin per plagio.

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me, periferiche, nello squilibrio (non greco-europeo: cioè niti­ damente umano): terribile nella sequenza della macchina per im­ boccare gli operai, nel frenetico e folle balletto con le chiavi inglesi e l’oliatore, nel pezzo del meccanico incastrato tra gli ingranaggi degli enormi macchinari come fosse la cosa piu naturale. Pensate alla invenzione mostruosa, fino all’inverosimiglianza (anche nel­ l’iperbole), della « macchina per mangiare » introdotta affinché la manodopera possa continuare a lavorare anche durante i pasti. Si tratta di una specie di poltrona. G. Sadoul la descrive esattamente: « L’inventore riempie di minestra un serbatoio munito di un cuc­ chiaio, e dispone su un tornio una pannocchia di granturco bol­ lita. Messa in moto la macchina, dopo ogni cucchiaiata di minestra un tampone asciuga minuziosamente la bocca del paziente. La pan­ nocchia di granturco si sgrana sotto i suoi denti. Ma d’un tratto la macchina per mangiare si guasta. La pannocchia di granturco schiaccia il naso di Chariot, il cucchiaio lo inonda di minestra calda. Il morbido tampone per asciugare diviene un appa­ recchio per schiaffeggiarlo, colpirlo, accopparlo. I pezzi del meccanismo lo mitragliano col loro acciaio. L’angoscia e il ter­ rore si impadroniscono del malcapitato operaio prigioniero nella sua poltrona. La macchina per mangiare è divenuta una mac­ china per affamare, per umiliare, per uccidere ». Perché la macchina vibra mostruosa come ogni altro meccanismo dell’organizzazione industriale. In generale, a Chaplin sfugge l’aspetto qualitativo del progresso tecnico. Difatti, è cambiata la qualità, la natura dei pro­ dotti dell’industria, ed anche — ciò che forse è l’essenziale — la qualità, la natura del lavoro. Non bisogna accontentarsi dei discorsi facili sul lavoro in serie, la taylorizzazione, l’uomo schiavo della macchina. Lo Chariot di Tempi moderni, che non sa piu che fare se non sempre lo stesso gesto, è una caricatura un po’ semplicista. Questo rozzo manovale è appunto ciò che un macchinismo un po’ spinto dovrà far sparire: il macchinismo capace di serrare da solo tutti i bulloni non tarderà ad essere inventato. Il vero operaio, quello che sopravviverà, è il riparatore che, in compagnia del tec­ nico, crea i prototipi, costruisce gli strumenti di produzione, li aggiusta e ne cura la manutenzione. Costui, piu che la maggior parte degli artigiani cari ai nostalgici del passato, è un uomo di valore autentico: un uomo che il suo valore obbliga ad appren­ dere, a riflettere, a immaginare, a prendere decisioni. Lasciamo che la macchina faccia calzature in serie, e sostituiamo il calzolaio con un meccanismo: l’umanità non ci perderà nel cambio. Ci

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esprimiamo con i verbi al futuro: e dunque Chaplin avrebbe ragione, la sua opera considerando solo il presente? No, perché egli non fa questione di tempi, l’anatema resta definitivo; e neanche si tratta per lui di nostalgia di ere artigianali o di fertile lavoro manuale: la sua protesta si svolge sempre contro l’ultima incar­ nazione del « male », l’ordine mostruoso che perseguita di continuo l’irregolare. E infatti il martirio dell’omino viene — oltre che dalle macchine che stritolano, dall’industria e dai capitalisti con il loro corteo di poliziotti — anche dalle masse. I singoli poveri susci­ tano in lui simpatie, i poveri come massa niente altro che (an­ cora) orrore: massa significa inconsapevolezza, brutalità che si sca­ raventa contro ciò che appare fragile, irregolare, libero, vitale, prezioso e indocile a manomissioni uniformatrici e a massicce irreggimentazioni. Eppure il bene nasce unicamente dalla « pecora nera » — l’omino, la vittima: oh, se il suo esempio venisse seguito dagli « uomini alla ricerca della felicità ». Ma gli « altri » non ca­ piscono, lo lasciano solo, anzi gli stringono intorno una morsa. La prima branca della tenaglia sta nell’industria: le macchine, i ti­ ranni del capitalismo, l’anarchia capitalista; l’altra branca nella cecità e abbrutimento della massa. Non che Chaplin intenda bef­ fare i poveri diavoli, come alcuni hanno falsamente argomentato dall’episodio della bandiera rossa. Quello straccio rosso è stato dai critici tirato per ogni verso. Per certi, esso significa che l’ordine capitalistico getta i suoi sgherri solo contro gli operai che im­ pugnano i simboli del riscatto sociale; oppure « che la paura del rosso delle autorità e della polizia arriva al punto da far arrestare un innocente per un atto innocente » (Chiarini). Per altri, al con­ trario, l’autore voleva dire: gli operai scioperanti vanno dietro a qualsiasi demagogo senza sapere chi sia (tesi per cui fu concesso al film il nulla osta per la proiezione da parte di Mussolini, dando alla polemica di Chaplin un’intonazione anche antisocialista: «Forse egli ha trovato la strada che lo può portare ad accostarsi a noi », scriveva in un suo appunto proprio per Mussolini, nel gennaio 1937, il direttore generale della cinematografia). C’è infine chi, come Pierre Leprohon, crede di difendere la superiorità del sar­ casmo e della satira chapliniana, analizzando nel modo seguente l’episodio-chiave in cui Chaplin prende in mano il cencio rosso: « Se Chariot assume in questa scena atteggiamenti da agitatore, ciò avviene del tutto a sua insaputa. Un cencio di segnalazione cade da un autocarro carico. II fatto che Chariot, amante del buon or­ dine delle cose... corra verso il veicolo per rimettere a posto il

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cencio, è sufficiente perché un gruppo di manifestanti veda in quel cencio una bandiera e in Chariot una guida. Chi ci prova che Cha­ plin non si è beffato in questo modo della credulità dei poveri dia voli, che non sospettano che colui che li guida non soltanto ignora la loro presenza, ma non sa nemmeno dove va? ». Stranissimo, ma sembra che Sadoul condivida questo punto di vista. Scrive infatti: « Nessuna dichiarazione di Chaplin è mai venuta a rendere inve­ rosimile questa interpretazione. I suoi nemici, tuttavia, l’avevano più di una volta esortato, molto energicamente, a criticare i capi che portano la bandiera rossa, o i poveri diavoli che li seguono ». Ma non occorreva nessuna dichiarazione di Chaplin per rendere inverosimile l’interpretazione di Leprohon! Nel film non si mostra che l’omino guida il corteo né che gli operai pensino che il corteo sia guidato da lui: difatti il corteo appare già formato e va per la sua strada quando vi si inserisce Chariot. L’interpretazione giusta sta proprio nel limitarsi ad annotare ciò che mostra materialmente l’inquadratura: l’omino, la « pecora nera », l’innocente pieno di vitalità, l’irregolare preso tra due fuochi, capro espiatorio tra due masse: le « pecore bianche » (la massa dei dimostranti) e le « co­ lonne della società » (i poliziotti). Protagonista è l’omino, non lo sfottimento dei dimostranti. Di loro ciò che ripugna a Chaplin è la forma di organizzazione di massa (« Masse » era il titolo pri­ mitivo del film) che riduca l’individuo ad un automa (massifica­ zione). Nel prologo si vede un gregge condotto al macello; poi segue un’inquadratura parallela rappresentante una massa di operai che si avviano verso la fabbrica. Trattati come pecore (e la fab­ brica come il macello), ma anche divenuti e viventi ormai come gregge. Gli operai si recano al lavoro quali pecore al mattatoio. Non si dimentichi che sul bianco uniforme della lana di quel gregge spicca solo il vello nero di una pecora. Gli operai nella fabbrica sono brutali e abbrutiti, ancora pecore bianche; Chariot resta solo, anche se la sua simpatia va ai disoccupati (per esempio,- la figura del padre della ragazza, un disoccupato ucciso dalla polizia e la­ sciato come un cane in mezzo alla strada: quel viso stanco, avviz­ zito ma ancora nobile). La solitudine dello « schiacciato » Chariot si avverte ancora, violentemente, più tardi, nella sequenza dello sciopero in fabbrica: l’operaio che glielo annuncia non spiega niente, non fornisce alcuna ragione (neanche allo spettatore): l’as­ surdo sta per l’omino che la proclamazione dello sciopero avviene il giorno stesso della ripresa del lavoro, dopo anni o mesi di inerzia: è la sorte brutale, l’irrazionale del congegno mostruoso:

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piomba come un fulmine questa imposizione: l’omino non chiede spiegazioni, abbassa la testa. Poi appena fuori dai cancelli, la po­ lizia, di nuovo, lo schiaccia; ed è come il sigillo della sorte. Mac­ chine che opprimono, capitalisti disumani, masse come greggi (pa­ rallelismo tra l’organizzazione scientifica del lavoro e la prigione), disoccupazione, scioperi incomprensibili: e il povero cristo si trova di nuovo sul lastrico — vittima di ognuno e delle cose, dei poli­ ziotti che picchiano come degli operai che ordinano lo sciopero del quale non saprà mai la ragione. Che gli resta? Ma appunto il bene che di lui non possono uccidere: l’iniziativa e l’impresa individuale, l’umore vitale, la prontezza di ripresa, la tenacia pugnace di chi, non rassegnato, si mostra sempre pronto a battersi; anzi, nel film la vitalità rap­ presenta l’elemento antagonista dell’irreggimentazione. Essa si ma­ nifesta da principio in forma di evasione nel sogno (la casetta), nell’idillio della natura e dell’amore, nei momenti di fuga dalla morsa. Ed ecco il coraggio che pervade il film, il senso di energia, nel ritmo sostenutissimo, di festa, di foga gioiosa, e anche di spe­ ranza e di ripresa ogni volta che esce dal carcere e ricomincia la vita (« Sorridi », dice la musica). Duplica la forza dell’antitesi, l’alacrità delle invenzioni d’amore vitalizzando per la prima volta la protagonista femminile. Paulette Goddard impersona una donna che sta veramente alla pari dell’uomo, e che passa attraverso le stesse prove, le stesse lotte. Anch’essa sempre pronta a battersi. Lo spettatore non dimentica facilmente gli occhi della ragazza, la sua selvaggia energia, e freschezza, anche quando si trova nella miseria ed ha fame: subito pronta allo scatto vitale, al riso, alla festa, all’iniziativa. Quando i due — l’omino e la ragazza — arri­ vano davanti alla miserabile capanna (la prima cosa che possiedono in pace), c’è un istante di sospensione: la bellissima scena in cui essi si arrestano estasiati di fronte all’apparizione. Ricorderete l’im­ peto di gioia espresso dall’ometto quando dentro questa capanna si trova davanti al prosciutto cotto: si frega le mani, ne addenta quattro fette sovrapposte; poi ne piglia una, apre il giornale, salta, perora per la fatica e il lavoro come un oratore, scappa felice semi­ nando nuvolette di polvere e di festa: e mentre si allontana si pro­ fila lo sfondo di ciminiere e di altiforni e si allarga la visione del­ l’arido prato su cui corre l’omino. Non è libero l’orizzonte. E cosi se ne va ogni impressione di evasione nell’idillio, e con l’incom­ bere minaccioso dei segni industriali ricompare il contrasto dram­ matico, l’antitesi di fondo, la fine della pace. Guardate quanto è

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rognoso e miserabile quel periferico regno delle fate, deserto, su­ dicio, privo di ogni possibilità di sostentamento: sicché, se vuol vivere, deve tornare in città, provocare i congegni dell’ordine mo­ struoso, cercare un lavoro che odia. In conclusione, il film co­ mincia come una descrizione della crisi di disperazione e di miseria delle masse e diventa una parabola (tra piccolo-borghese ed anar­ chica), una « sfasatura anacronistica » sulla sorte dell’omino — l’ir­ regolare, il vagabondo, il gentile non-irreggimentato — offeso e per­ seguitato dalle masse, dalle macchine, dalle « colonne della socie­ tà » (i rappresentanti della legge). Al termine di questo percorso c’imbattiamo in Luci della ri­ balta, l’opera chapliniana che pare contraddire l’interpretazione pre­ cedente. In realtà, senza segno di forzatura, essa vi si inserisce pia­ namente. La mia impressione è che Limelight sia un bel racconto: ma preferisco un’interpretazione limitativa di fronte a certe con­ clusioni encomiastiche senza alcuna riserva. Non direi che questo sia il capolavoro di Chaplin o « la piu grande opera d’arte del no­ stro tempo ». Ma da che deriva l’altalena della critica tra il piglio stroncatorio e il fervore agiografico che ricava dal film troppe cose, piu di quante davvero esso comprenda? Propendo a credere che la sfasatura del giudizio provenga da una inesatta descrizione dell’asse ideologico del film. Si tratta di indicare la direzione dei temi, il punto d’incontro e di convergenza dei contenuti e del mec­ canismo narrativo. Questo punto di convergenza un gruppo di critici lo trova nella parafrasi della didascalia d’apertura: la vec­ chiaia deve ritirarsi quando entra la giovinezza: « la storia di una ballerina e di un clown ». La storia tragica e malinconica, virile e persuasa di un fallimento glorioso, il tema della sconfitta e della speranza nell’individuo: sincerità e dignità assoluta, apertura nella massima comprensione, fine del rancore, della disperazione e del­ l’antagonismo, giunto l’artista nel porto della saggezza matura, caldo omaggio al passato, accettazione pacata della morte, coscienza del ritmo equilibrato dell’esistenza: morte-vita, gioventù-vecchiaia. Per cui i temi principali sarebbero: l’inutilità e la bellezza della vita, l’inutilità e la bellezza dell’amore, la necessità della morte. Suprema compostezza nel malinconico distacco. Per esempio, per Castello: « L’opera compie un ciclo creativo con una coerenza assoluta, che riassume, sublimandola, non soltanto la parabola di un poeta del film, ma la sua intera esistenza, traendo da esperienze lontane e decisive, peraltro sempre presenti alla fantasia chapliniana, un’ispi­ razione più diretta, più meditata, più dolorosa e completa, come è

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proprio di un artista giunto al possesso di una integrale maturità e reso più pensoso dagli anni e dall’osservazione assidua degli uo­ mini e delle cose (...) Clima raro della sincerità assoluta, al di fuori di ogni convenzione, di ogni formula, di ogni polemica (...) Opera che costituisce il ripensamento del passato, un ripensamento com­ piuto non a freddo, per uno sterile gusto commemorativo o antologi­ co, ma con il calore umano che deriva, appunto, dal sentire lontana l’età spericolata del primo amore con l’arte tenacemente servita e alla quale si vuol rendere l’omaggio migliore che le proprie forze consentano (...) Calvero è troppo dolorosamente consapevole dei diritti della gioventù e della malinconia crepuscolare della vecchiaia. La sua solitudine è tragica non solo perché l’amore è impossibile (il tema è in fondo secondario, appunto perché il Chaplin già si è compiutamente misurato con esso altre volte), ma perché il clown Calvero è finito (non sa piu far ridere: questo è il vero tema del film). Il trionfo della sua rentrée finale è splendido appunto perché è l’ultimo. Conclude degnamente una carriera che si era inter­ rotta nell’umiliazione. Potrebbe ripetersi domani? È improbabile, e per questo è giusto che Calvero muoia. La sua morte avviene al momento giusto, come tutte le cose che avvengono nelle favole (e Luci della ribalta è una favola, una favola di uomini veri) ». L’in­ trepidezza autobiografica (che si trasforma nell’oggettiva creazione del tipo umano di Calvero) sta — secondo Moravia — alla base di questo film, nel quale Chaplin ha saputo sacrificare all’arte anche le ultime pietose ipocrisie dell’amor proprio, investendo di squallida luce la decrepitudine di un’esistenza. Chaplin racconta qui non soltanto la storia di un attore che fu già celebre e applaudito e che ora piu nessuno applaude né conosce, ma anche, più generalmente, la storia di ogni uomo sul declino della vita, quando la natura ri­ trae il suo impeto dal corpo stanco e la vecchiaia si avanza con i suoi compromessi, le sue miserabili debolezze, la sua mancanza di dignità, la sua compassionevole solitudine. « Questo doppio aspetto dell’uomo vecchio e dell’autore vecchio trova, poi, conferma au­ tobiografica nel fatto che anche Chaplin è un vecchio attore e un uomo vecchio; così che prima ancora che alla storia di Calvero, il vecchio comico derelitto, vien fatto di pensare alla storia di Charlie Chaplin. Con questo film, l’autobiografia investe di squallida luce quanto l’uomo teme di più al mondo: la decadenza fisica, la deca­ denza creativa, il disagio della differenza di età tra un vecchio uomo e una donna giovane. » Questa intrepidezza che non si perita di dispiegare le proprie miserie e si conserva pacata fino alla ca-

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tarsi della confessione, giunge — insistendo su questa linea (Di Giammatteo) — ad interpretare la confessione come coscienza auto­ ironica, riso sopra le proprie debolezze e limiti. Chaplin si spinge­ rebbe fino all’autoritratto impietoso: Chaplin ha creduto intensa­ mente agli ideali che oggi Chariot riesprime e riassume, per inter­ posta persona; vi ha creduto e vi crede ancora, istintivamente e sentimentalmente, ma si rende conto della loro terribile inconsi­ stenza pratica e delle infinite sconfitte che hanno subito, in una epoca in cui all’amore e alla fede nell’individuo si è andato sosti­ tuendo l’odio. La salvezza dell’uomo sarebbe ancora possibile — egli pensa — ridando vita a quella puerile ma incrollabile inge­ nuità dell’individuo giusto e umano e ottimista: ma chi vorrà pre­ stargli attenzione?... Egli ha avuto, con questo film, il supremo pudore di dirci tutto, una volta per tutte. Delle sue lontane spe­ ranze giovanili, delle sue convinzioni e delle sue illusioni, della sua arte. Il pudore, ha avuto, di essere sé stesso oltre i limiti dell’au­ tobiografia; il pudore di non essere ipocrita, e di saper piangere dinanzi a noi sul fallimento del proprio mondo e della propria mis­ sione. Non sono i « cattivi », questa volta, a sconfiggerlo, non è la società. È, semplicemente, la vita. I mali non sono scomparsi, ma egli sa di non potervi piu porre rimedio. È la constatazione più struggente e disperata cui un artista potesse giungere, oggi. Dol­ cezza serena di questo commiato (ma il film successivo?): qui c’è il tragico riso di Cbaplin su se stesso-. Calvero con quelle sue quat­ tro massime pseudofilosofiche e con quell’aria di vecchio attore gigione e orecchiante rappresenta la critica piu spietata di Chaplin su se stesso. La conclusione è elementare, e suona fiducia nella vita, ad ogni costo: anche se apparentemente non serve a nulla, anche se la sconfitta è l’unico risultato che si ottiene. Val la pena di lottare, nonostante tutto. Ancora un passo avanti (con G. Calendoli), rompendo ora l’equilibrio ipotizzato precedentemente come chiave interpretiva dell’opera (ritmo vita-morte, sconfitta-speranza, ecc.) — e siamo di fronte al punto più fondo dello squilibrio chapliniano: l’autore si sbilancia verso uno dei due termini, la sconfitta, l’individuo tocca la preclusione esistenziale. La visione della vita appare profondamente scettica; l’uomo condannato senza possibilità di riscatto alla solitudine; la discordanza, comandata da un’imperscrutabile fatalità, si definisce come una delle leggi fon­ damentali della vita e del mondo; la felicità in due è impossibile, la felicità può albergare soltanto nel cervello di un individuo; la

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vita è un mostruoso fenomeno di asintonia, una catena di di­ scordanze. Toccato fondo qui, possiamo ora ripercorrere la serie delle interpretazioni movendo sull’altro versante, dove sventola la ban­ diera del progresso posta dai critici nelle mani di Calvero. Anche qui si parla di opera d’arte perfetta ma l’autore vi compare forte di valori anche ideologici: guida degli uomini, interprete della si­ tuazione contemporanea, fonte di energia democratica e di dignità in un mondo di deboli e di vinti preda di ogni ventata d’opportu­ nismo. Schiaffeggiatore di ogni rinunciatario, partigiano sereno della pace, pugnace contro la degenerazione della decrepita arte occidentale. « Abbiamo assistito in questi anni, in Occidente, ad una polemica feroce contro l’uomo: si è lavorato a disintegrare l’unità della coscienza. La battaglia contro l’uomo non si è arre­ stata alle armi della fame, della miseria, della servitù, alle guerre, ai progrom, alle carestie: non si è appagata della violenza mate­ riale. Essa ha agito attraverso le astuzie delle mistificazioni cul­ turali; ha operato attraverso le vie che penetrano nella coscienza e spezzano la volontà di lotta e di ribellione. L’arte occidentale di questi ultimi cinquant’anni è cresciuta in un simile paesaggio de­ solato, ha respirato quest’aria. È intessuta perciò di sfiducia, di de­ lusione, di spavento: e da questo stato d’animo essa ha avuto il respiro mozzato e ridotta la sua capacità di costruire (...). Denun­ cia, accusa, amarezza: su questa trincea si è svolta la resistenza contro l’avvilimento e la diffamazione dell’uomo, nelle cose più alte dell’arte dell’Occidente. Con Limelight, Chaplin interviene in questo scontro intorno all’uomo e al suo destino; interviene mentre più volgari si fanno le bestemmie, più violento il tentativo di pie gare la volontà dell’uomo, di togliergli la fiducia nelle sue forze, per gettarlo nella superstizione e nella servitù. Nei suoi momenti felici, riporta nella luce e nella verità dell’arte quella parte cosi grande e decisiva dell’uomo, che era stata denigrata e dispersa, e ci riporge un uomo e una donna con intiere le loro forze e la loro ricchezza. Esso si sforza di ridare pienezza alla storia dell’uomo, che era stata mutilata. » Trombadori: « C’è la lotta per la vita come assoluta necessità di non lasciarsi sopraffare, nemmeno per un momento, né dalla miseria che viene da una società ingiusta, né dall’avvilimento che può abbattersi sull'aowo semplice aggre * dito e indifeso »: questa volta l’autore evita di mescolare comi­ cità e drammaticità in forma grottesca, questa volta non c’è alcuna soluzione miracolistica. Gerratana: qui si trova « l’amore per la

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vita e per l’uomo, un ideale di umanità valido per tutti; amore per gli uomini, fiducia nel loro avvenire-, una fiducia venata di tri­ stezza per le cose storte dell’attuale mondo aggressivo, ma non per questo meno incrollabile e sereno, nella certezza che la vita trionfa sempre sulla morte ». Muscetta si domanda se Chaplin è riuscito « a darci un organismo poetico dove le ragioni della vita siano incorporate in immagini liberamente necessarie, di una realtà valida (...) soprattutto per quegli spettatori del nostro tempo nei quali le ragioni della vita, l’amore della vita sembrano vacillare e languire ». Non gli pare dubbio che Chaplin « abbia concepito il suo film partendo dalla convinzione che il contenuto che oggi si muove drammaticamente nella società in cui viviamo è la ricerca di questo amore, di queste ragioni della vita (...). E la società non solo è incapace di purificare questa atmosfera, ma al contrario è co­ struita in modo tale che sembra illusorio e assurdo volerne respi­ rare un’altra ». La persuasione positiva che, a suo modo d’inten­ dere, si trae da Limelight, è che esso « non poteva essere storica­ mente concepito se non negli anni nostri, ma in una società in cui le vecchie strutture sembrano ancora così solide, mentre l’uomo ha paura della vita e deve essere liberato innanzi tutto da ciò che lo paralizza nella prigione del suo sterile individualismo e della sua astratta adolescenza ». Se Chaplin non riesce piu ad essere il ribelle o l’anarchico di tanti anni fa, se « respira adesso un’aria di sere­ nità morale », ciò avviene « perché nel mondo risplende vittoriosa la verità di principi superiori, già acquisiti dove essi informano la vita economica e giuridica, e arma insostituibile di lotta dove la dignità dell’uomo come diritto inalienabile di tutti è ancora da conquistare ». Scrive Aristarco: « Liberatosi da qualsiasi maschera, Chaplin scopre il volto dell’uomo, degli uomini; dice chiaramente quanto altri film facevano spesso soltanto intuire. Prorompe così il suo rispetto e amore per l’uomo, per la vita umana: coscienza, esistenza, felicità. Dopo la ribellione individuale, e l’accusa del1’ ’’anarchico”, ecco con Limelight un ritorno alla calma, alla di­ stensione, alla fiducia nell’uomo e nella sua intelligenza... Non piu dunque in conflitto con gli uomini, né vittima di una società (per­ ché a essa sa reagire), Chaplin non appare in conflitto neanche con Dio. Abolito il concetto di un destino cui gli uomini dovrebbero fatalmente soggiacere, a un certo momento egli sente il bisogno di una particolare preghiera, anche se si vergogna di farsi sorprendere a dirla: Chiunque tu sia o qualunque cosa tu sia, fa’ che non si fermi. Il film — per noi la sua opera migliore — dà anche alla

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parola e all’aggettivo il valore d’origine. Si può concludere dicendo che Limelight ha la forza di un Molière o di uno Shakespeare ». Siamo fuori strada, penso: vale a dire, dalla parte del perso­ naggio « esistenziale » invece che dalla parte dell’opera, coinvolti negli adescamenti ed agganci contingenti della biografia dell’autore; polemizzando e accordandosi (fino all’iperbole) con il motivo del personaggio, cadendo nel suo gioco, nell’intreccio della sua vi­ cenda, nelle sue descrizioni. Accaparramento ideologico che finisce per snaturare anche la portata del personaggio. « Si tratta di un soggetto con leggero sfondo autobiografico » — riferiva un giornalista che ebbe ad intervistare Chaplin qualche tempo prima che cominciasse a girare questo film: un vecchio at­ tore di music-hall che sta perdendo il favore del pubblico, si in­ namora di una giovane ballerina disoccupata. L’attore riesce a lanciarla e a riaffermarsi sulla scena. Ma quando viene a sapere che la giovane ballerina lo inganna, le sue illusioni e la sua stessa fede nella vita cadono, è il crollo, la morte. « Il nuovo film dovrebbe rappresentare la comicità patetica della vecchiaia, della delusione, del fallimento, della morte, unita a una finissima pan­ tomima. » Dunque, in un primo momento l’impianto appare quello tra­ dizionale di Chariot: l’omino che soccorre, poi ingannato e abban­ donato: solo che la trama era ancorata ad un fatto nuovo: l’omino ormai è vecchio, ossia ha perduto la sua ripresa nell’invenzione agile, nel perpetuo vagabondaggio, nel variare degli incidenti. Que­ sto sbilanciava evidentemente il racconto, che correva il rischio di diventare incongruente, miserando (il vecchio ridotto come uno straccio) e, soprattutto, rischiava di chiudere la prospettiva del primato trionfale della vittima. Per conservare il quale, Chaplin dovette, sempre più, far centro sul termine nuovo, la vecchiaia delusa — e da qui dipanare la nuova trama che pareggiasse gli elementi antagonisti (giovinezza-vecchiaia, corpo-spirito, vita-morte, sconfitta-resurrezione, inettitudine all’amore e tuttavia trionfo con l’amore, ecc.). Punto di partenza dell’opera si pone, ancora una volta, la spinta di certi fatti contemporanei. Anzitutto, l’approdo al porto « familiare »: che significa gusto sereno della vita, sensazione di un riparo necessario, coscienza di sopravvivere nella generazione e nella vicinanza dei figli. Nel lontano 1925, Chaplin dichiarava: « Devo trovare una donna che capisca che l’arte creativa assorbe tutto, di un uomo. Quando lavoro, mi ritraggo totalmente da coloro

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che amo. In quei momenti, non ho energia, non ho amore da dar loro. Voglio una moglie, ma voglio anche quel senso di assoluta libertà che, per poter creare, uno deve avere. E che mia moglie abbia un’anima, e che mi creda abbastanza da sapere che non abu­ serò della libertà, ma che debbo averla, la libertà, altrimenti morirei ». Ed ora, mentre lavora a Luci della ribalta, ha tro­ vato questa donna. La quale anzitutto gli garantisce il riparo della casa: « Per piu di trent’anni io ho vissuto in un vaso di pesci rossi. Tutta la mia vita era sottoposta alla pubblicità e ad ogni sorta di pressioni ». Diedero a questo quarto matrimonio circa due anni di vita. Ma ora, dopo quasi diciassette anni, il legame tiene duro. Di lei disse al tempo della composizione del film: « Oona ha una dose maggiore di vera saggezza nel suo dito mignolo di quanto potrò mai averne io. Sto per compiere sessantatré anni, ne ho trentasei più di lei, ma la sua maturità mi rende consapevole di quanto io sia ancora rudimentale. Mia moglie mi ha dato nove anni della più grande felicità. Aver trovato la felicità, all’età mia, fa di me uno degli uomini più felici del mondo. Abbiamo quattro adorabili bam­ bini. Io sono fatto per avere una famiglia. In passato, spesso ero in un tale stato di sovraeccitazione che la caduta di una scatola di fiammiferi era sufficiente a farmi sobbalzare e urlare di rabbia. Oggi, quando rientro dopo una giornata di lavoro, i bambini pos­ sono fare tutto il fracasso che vogliono, mia moglie sgridarli, e io dico soltanto: grazie a Dio eccomi di nuovo a casa ». Oona appare diversa dalle altre. £ stata educata in un am­ biente artistico, ha avuto una giovinezza felice in un ambiente raf­ finato: proprio l’opposto di lui. E, cosa importantissima, non è attrice, ossia non è « in concorrenza » con lui, ma in alleanza. È la sua metà critica, la sua spettatrice, il suo sdoppiamento. È anche la giovinezza e la mamma dei suoi bambini. Chaplin non sente passioni di patria, di gesta gloriose, di ricchezze, di affermazione sociale, non sente l’emulazione delle grandi imprese umane. Sente semplicemente il bisogno di indipendenza dell’individuo, la tene­ rezza dell’amore e lo struggimento della debolezza dei bambini, Oona gli ha dato delle creature da proteggere. E (assicurano i bio­ grafi) Chaplin, ossessionato da un’infanzia miserabile, gliene è grato. Questa è la sua gloriosa vecchiaia, onorata e laboriosa. Ma in questo film, Chaplin trascina anche una ferita che ancora gli bru­ cia: dissero, al momento di Monsieur Verdoux, che il suo tipo di

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comicità era anacronistico, passato di cottura, lo trovarono per niente buffo, anzi, arido e noioso: insomma la sensazione (il dubbio) di non far più ridere lo spettatore che gli sfugge; la triste dignità che sopraggiunge con la vecchiaia, per cui non si appare piu buffi al nuovo pubblico, una massa poco educata e priva di fantasia. Come sempre, d’altra parte, permane il senso di una ra­ dicale insicurezza, in un mondo che contrasta miseramente la vita­ lità dei grandi individui: « Ho timore per il nostro avvenire. Il nostro mondo non è più quello dei grandi artisti, è un mondo in subbuglio, agitato, amaro, un mondo invaso, sommerso dalla poli­ tica... ». Questo stato d’animo lascia probabilmente passare al filtro della memoria certi antichi ricordi. Si sa che Chaplin fu per anni ossessionato dal ricordo di un vecchio clown, Samby, che non riuscendo piu a divertire il suo pubblico, a « farlo ridere », si an­ negò nel Tamigi; si sa che il padre dell’autore, un comico assai modesto, mori in preda al delirio tremens degli alcolizzati, all’ospe­ dale; ed è probabile che quel particolare abbia talvolta suggerito al personaggio di Calvero il micidiale conforto dell’alcool. La piat­ taforma di partenza, dunque, offre un gruppo di motivi che man mano si decantano, modellandosi nei temi generici della narra­ zione (pietà e affermazione — in un mondo disperato e amaro — del senso della dignità dell’uomo; la solitudine dell’individuo e il suo inesauribile tendere verso la vita; la sua capacità affettiva che lo conduce ad accostarsi ad un altro essere, a proteggerlo, a farlo « vincere », per poi fatalmente dover lasciare che un terzo riceva il premio di un amore che al protagonista non spetta; l’inutilità e la bellezza dell’amore, la necessità della morte; lo schiaffo sulla faccia di quegli spettatori del nostro tempo nei quali le ragioni della vita, l’amore della vita sembrano vacillare e languire; la vec­ chiaia di ogni uomo, oltre che lo scadimento dell’attore, ecc.). Motivi autobiografici e nodi narrativi finalmente convergono, si alterano, si piegano, s’uniformano al tema centrale del primato e trionfo della vittima: supcramata, datrice di vita, meschina appa­ renza e grande individualità: sacrificio, trionfo, morte e resurre­ zione del vecchio: ancora il cristo, crocifisso e asceso nel cielo della gloria e dell’immoralità. Nella vita « inevitabile » (del film) si chiede o propone non un battersi necessario ma senza speranza, no­ bile ma vano (come vi vedono certuni), ma un battersi per sopravvi­ vere nell’immortale, per affermare il primato dell’incompreso, per predisporne la protesta (contro il prossimo cieco e ingrato) e l’apo­

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teosi. Polemica dell’individuo grande contro gli altri che l’accer­ chiano; punto di vista inoggettivo, « fazioso », senza la ipotetica metamorfosi dal malvagio assassino di donne al sereno confortatore di vita. Protagonista resta ancora l’irregolare (che ricresce come la gramigna), il perseguitato, il solitario, l’antagonista, il maldestro fomentatore di disordini. Non esiste nel film la storia di due per­ sonaggi: una ballerina e un vecchio buffone. Esiste invece un pro­ tagonista assoluto. Il resto (le altre figure), anche se ha vitalità artistica pungente, non serve che di supporto, di complemento e di preambolo alla vicenda del protagonista. Se così non fosse, e dovessimo veramente occuparci della consistenza psicologica di due personaggi, finiremmo (a considerare esattamente le cose) con il trovare la parte patetica di Teresa stucchevole, retorica e melo­ drammatica: tanto esagerato ed enfatico vi appare il suo insistere con profferte d’amore nei confronti di Calvero e — badate — quel suo puntiglioso distinguere tra infatuazione pietosa (che non la riguarderebbe) ed autentico trasporto amoroso. Si tratterebbe di una incoerenza perché niente giustifica — data la presentazione di Calvero con quelle note di carattere — la sproporzione dei senti­ menti, protratta fino a gesti assurdi di idolatria, da parte della donna. Se dovessimo quindi vedere il film come la storia (ambi­ valente) di Calvero e di un altro personaggio (Teresa), allora do­ vremmo imputargli l’approssimazione psicologica, l’incapacità a costruire con coerenza il personaggio (non c’entra qui la ricerca di una media di verosimiglianza) ': perché quella giovane non può insistere in quella forma nelle sue smanie amorose. In ogni caso, il regista non potrebbe darci ad intendere che al fondo dei senti­ menti di lei ci possa essere altro che gratitudine: condita magari con nobili forme di pietà e di comprensione per l’elevatezza mo­ rale, la percezione della tristezza di un’altra anima, ecc. A meno che non si voglia poi impiantare la storia di un qualche complesso edipico: l’inclinazione per il padre: ma in questo caso lo svolgi­ mento narrativo ovviamente non potrebbe essere che diverso. Dove colloca questo primato? in quale contesto storico? e davvero possiamo scorgere in quest’opera, specchiate, le ansie e le 1 Può succedere, si capisce, che una giovane donna ami un vecchio: ma qui si contesta la forma e la circostanza nel film: passano i mesi, Neville bello sensibile comprensivo forte creatore, ecc. — le è devoto, — niente: la giovane non fa che ripetere: ti amo Calvero; Calvero si centuplica la parte del comportamento digni­ toso, «eroico», idolatrato.

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speranze, la lotta e le esigenze del mondo con temporaneo? In realtà, la dimensione che contiene gli argomenti del film ci pare « anacronistica », disposta ancora secondo la consueta sfasatura: uno spazio-tempo nel quale tutto si appunta sull’individuo creatore di vita: la cui dignità risiede nel resistere, nell’intenerimento co­ raggioso per gli indifesi (irregolari, vacillanti e disanimati), nel lot­ tare, nell’adeguarsi alla vitalità dell’esistenza, nella sopravvivenza che l’opera e il fare conseguono; in sincronia con la forza operosa che affatica le cose di moto in moto: in questo sta la gioia e la dignità. La questione fondamentale è quella del « perché vivere? » degli uomini. A questa domanda Chaplin risponde nel dialogo della prima parte tra Calvero e Teresa, ma questa risposta si tra­ duce poi nella azione successiva, la quale ispira la serenità verso la morte, perché la vita si perpetua e chi lo comprende trova già in questa comprensione la ragione e la gioia di vivere. « Senta... — dice invitando la ragazza a lottare — da ragazzo mi lamentavo sempre con mio padre, perché non avevo giocattoli; lui mi diceva (indica la testa): questo è il più grande giocattolo del creato. È qui il segreto della felicità. » La soluzione che conduce alla feli­ cità, alla sola felicità possibile del mondo, è dunque una soluzione individuale. L’eroe di Chaplin vive e si sforza di vivere portando tutte le sue energie al più alto grado di tensione non perché rico­ nosca un fine all’esistenza, ma perché l’esistenza gli si impone come un miracolo superiore al suo stesso intendimento, come una necessità. Quando Teresa, intimamente disfatta, afferma: « La vita è senza scopo e senza senso », Calvero, sebbene sia animato soltanto dalla volontà di risollevare la sua compagna, non osa mi­ nimamente contraddirla, ma le dice: « Perché vuole che abbia un senso? La vita non ha un senso; è desiderio. Il desiderio è il tema di tutta la vita. È quel che spinge una rosa ad essere un rosa e a voler crescere cosi, e una pietra a contenere se stessa, e rimanere così ». Calvero, con la sua opera insistente ed affettuosa di per­ suasione, tenta soltanto di svegliare in Teresa questo irragionevole e indefinito « desiderio » di vita che rimane concluso nell’indivi­ dualità. E nell’attuarsi di questo desiderio, nel suo svolgersi, nel suo resistere, nonostante il continuo assalto degli uomini e degli eventi, consiste il miracolo della vita. « Uno stimolo spinge gli uomini ad andare avanti e avanti e avanti. » Questo stimolo non è un’aspirazione sociale o una fede religiosa; ma un’energia mira­ colosa e indefinibile; « un puro magnetismo ». Come dice Cal-

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vero, è questa l’energia che « è nell’universo, che fa muovere la terra », è questa l’energia che è in Teresa e in ogni individuo « solo che si abbia il coraggio e la volontà di usarla ». Ci possiamo accontentare della vitalità e del fervido e sereno accostamento alla morte? Il tema di tutta la vita è il desiderio, come afferma Cal­ vero, quell’energia miracolosa e indefinibile che muove la ma­ teria? E basta trovare coraggio e volontà per usarla? Già, va bene per la rosa (la vitalità spinge una rosa ad essere una rosa) e la pietra (spinta a contenere se stessa). Ma potrebbero gli uomini d’oggi appagarsi di questa energia senza prospettiva e, in fondo, senza valori generali? Ma se necessitano prospettive e senso dei valori, devo procedere oltre l’individuo, ancorarli piu saldamente. Perché a Teresa possiamo dire: su, coraggio e volontà, trova l’ener­ gia per combattere l’inerzia: perché recupererai l’uso delle gambe e potrai trionfare danzando sui palcoscenici; e Calvero potrà pur dire a se stesso: su, energia con dignità: tu hai ragione e loro hanno torto, la comicità che a questo pubblico non piace finirà per affermarsi, un giorno dovranno riconoscerlo; e di Claudius, prodigio senza braccia, puoi dire: è davvero un prodigio, un indi­ viduo eccezionale. Ma gli altri, coloro che non ce la fanno anche con il sostegno di una energia ferma per l’intera vita? Perché c’è chi giunge al suicidio — o ad uno stato d’animo di disperazione — per ragioni meno « drammatiche », meno sensazionali e facili di quelle di Teresa, ragioni grigie, fonde, normali, non proprio legate a particolarissimi difetti di volontà o a scoramenti contingenti. Chi ha coraggio, chi ha volontà, chi lotta e tuttavia viene oppresso: puoi dirgli che questo gli deve bastare, che la bellezza della sua vita consiste proprio nella lotta che va conducendo? E come fa­ ranno a difendersi — da soli, individui isolati — i tribolati che non abbiano l’agilità e l’inventiva fertile dell’omino dalle scarpacce? Puoi dire all’analfabeta, all’oppresso, allo sfruttato che oc­ corre lottare perché l’essenza della vita consiste nel desiderio di essere, nel puro magnetismo di una miracolosa energia? Per la rosa e la pietra e per la materia, va bene; ma no per l’uomo, oggi giorno. Se la vita non ha senso fuori che nella vita stessa, il vivere riuscirà a suscitare energie solo dove c’è materia di vita: possibi­ lità, interesse di vita: una prospettiva personale che conduce al­ l’affermazione. Come nel caso di Teresa, la bravissima ballerina: la quale anche dal fondo del suo scoramento patologico può sempre gettare un’occhiata oltre il presente, fino a intravedere un albore

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di promessa nel futuro. E qui la vitalità ha un senso che non sta solo nel desiderio ma anche in un valore: quello che corrisponde all’armonia della danza, alla fermezza della gratitudine non contrad­ detta dalla luce della baldanza giovanile. Come per Calvero valeva lo spiraglio che porta alla rivendicazione di uno stile comico che finirà per trascinare lo spettatore. Ma per chi resta irrimediabil­ mente mediocre rispetto alle opere rare: gli rivolgeremo forse l’esortazione che « volere è potere »? Intendiamoci: queste parole non rappresentano un’obiezione (che vorrebbe dire introdurre nel giudizio dell’opera d’arte un elemento ad essa estraneo: come fanno certuni quando, per esempio, affermano che « l’assenza di contatto con le lotte reali condotte dagli uomini e dai popoli nel momento presente e la visione dei problemi dell’individuo all’infuori dei rapporti sociali » infirmano il valore estetico del film). Non significa sminuire Chaplin definirlo per quello che è: qui si cerca unicamente di precisare la sede, nel tempo, della polemica chapliniana: contrari nei confronti, solo, di chi sceglie questo re­ gista per farne l’epitome di ogni coincidenza o profezia contem­ poranea. Due aspetti nella civiltà attuale sono molto evidenti: il salire delle moltitudini, sia nell’interno degli Stati sia nei continenti (Russia, Cina, India, ecc.); la crisi della produzione dei valori. È singolare questo « salire » e questo « discendere »: salire, perché le moltitudini vogliono raggiungere i modi di vita e la cultura delle classi superiori; discendere, perché, per un certo periodo, producono con minore energia valori morali, artistici, filosofici, sociali, religiosi, e si accontentano di un piano di comodo. Queste linee della situazione storica possono disegnare l’oriz­ zonte, ma sono, come è l’orizzonte, qualche cosa di esteriore. Biso­ gna ricercare come l’uomo viva questa situazione, con che animo vi partecipi. Come vi partecipa Chaplin? Egli vive entro questo oriz­ zonte e presenta una giustificazione interiore del suo vivere, del suo lavorare, eventualmente del suo sacrificarsi. Il centro sta nella rivendicazione dell’individualità: mediare l’individuo con un altro termine: l’individuo isolato. L’uomo sta al suo posto di vita, di lavoro, di sacrificio anche, perché cosi gli dice la sua « co­ scienza »; nel servire nobilmente il suo compito, l’uomo non chiede nulla al domani. Propone un equilibrio virile che rifugge dalla cru­ deltà che sarebbe disumana anche verso i propri nemici, e da una condiscendenza eccessiva e cieca, che sarebbe ritenuta un dissolver­

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si