La critica cinematografica 8843041975, 9788843041978

Come ragionano i critici? Quali sono le premesse su cui fondano i loro giudizi? Il libro analizza la critica cinematogra

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La critica cinematografica
 8843041975, 9788843041978

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:LA CRITICA . CINEMATOGRAFICA

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,Alberto :. Pezzotta .

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Al berta Pezzotta

La critica cinematografica

1• edizione, maggio 2007 © copyright 2007 by Carocci editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nel maggio 2007 da Eurollt, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

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Carocci editore

Indice Premessa 9 1.

Funzioni e leggende della critica 11

"Professione ingrata, difficile e poco nota" 1.2. Un'identità incerta tra storia e teoria 13 1.3. "Inutile ma necessaria" 17 1.4: Tra gli autori e il pubblico 20 1.1.

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Per riassumere... 25 2.

La critica in Italia dalle origini a internet 26

La nascita della critica 26 Gli anni trenta e quaranta 28 2.3. I dibattiti del dopoguerra e gli anni cinquanta 29 2.4. Gli anni sessanta e settanta 32 2.5. Dagli anni ottanta a oggi 34 2.1.

2.2.

Per riassumere... 37

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111~q~li t' i suggerimenti Barbara Grespi e Paolo ~I t 11 111 li, l11111111k11ouna primaversionediquestotesto. 1,111 I n h • V11111.:11111 l\uccheri. E a Lorenzo Pellizzari, per le 11 ti h 111111 t 11111,111m•mat0grafica nel corso di questi anni. I 1111 , 1

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3.

I luoghi e i generi della critica 38

3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5.

La recensione 38 Altri generi 40 Nell'epoca multimediale 43 Usi impropri 45 Nell'epoca dell'homevideo: un po' di filologia 47 Per riassumere...

50

11 ,1,p1 1111

5

4. La critica come argomentazione 4.1. Retorica e generi di discorso 51 4.2. Le basi dell'argomentazione 56 4.3. Premesse e gerarchie di valori 59 4.4. Interpretazione e selezione dei dati 63

51

8.

Le oscillazioni del giudizio 110

8.1. L'attribuzione di valore 110 8.2. Dinamiche della rivalutazione 111 8.3. La stroncatura 117

Per riassumere... 119

Per riassumere... 65

Bibliografia

5.

Le forme del ragionamento 66

5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5. 5.6.

Tecniche di argomentazione 66 L'associazione 67 Il paragone 71 L'analogia e la metafora 73 La dissociazione 74 Criteri di verificabilità 76

121

Per riassumere... 81

6.

Lo stile della critica 82

6.1. La dispositio 82 6.2. L'elocutio 86 Per riassumere... 89

7.

Metodi, temi e miti go

7.1. 7.2. 7.3. 7.4. 7.5.

Metodi 90 Temi 92 11 mito dell'autore 94 I generi 102 L'autoriflessività 105 Per riassumere... 109

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Premessa Fa parte della retorica delle premesse mettere le mani avanti e dire che cosa non è quanto si sta cominciando a leggere. È inevitabile nel caso di un libro dedicato a un oggetto sfuggente come la critica cinematografica. Quella che segue non è una storia della critica, anche se coglie alcune tappe della sua evoluzione. Non è neanche una storia delle teorie del cinema, o un saggio sui metodi di analisi dei film. L'intenzione, invece, è quella di partire dal basso, dalla critica cosl come viene esercitata quotidianamente, nella sua forma più ordinaria: la recensione. Studiosi come David Bordwell ( 1989) hanno scritto saggi su come si interpretano i film, e hanno lasciato in un angolino la"critica giornalistica", concentrandosi invece suifilm studies e le strategie messe in atto dalla saggistica accademica. Ma la critica informa, spiega, analizza, interpreta ed emette giudizi. Vale a dire, fa le stesse cose di un saggio accademico: alcune, certo, in modo molco più sommario e semplicistico. Al tempo stesso si sbilancia, rischia e decide "in diretta" se un film è bello o brutto. Questa funzione della critica è stata periodicamente contestata; agli occhi di alcuni, è anche uno dei motivi per cui la" critica dei quotidiani" è inferiore rispetto ali'analisi che si libra al di sopra della pratica del giudizio o, peggio, delle stellette. Questo libro non vuole difendere un metodo; piuttosto, si sforza di capire i presupposti e i valori, non sempre esplicitati, che stanno alle spalle di qualunque tipo di critica. Per questo chiede aiuto alla retorica e alla teoria dell'argomentazione, solitamente trascurata dagli studiosi di cinema. Cos} da fare luce sul modo in cui si sono costituiti .alcuni miti critici consolidati e capire perché è inevitabile che metodi e giudizi cambino nel corso del tempo.

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1. Funzioni e leggende della critica 1.1. "Professione ingrata, difficile e poco nota" «A Hollywood si sente spesso dire: "Tutti hanno due mestieri, il loro e quello di cri tici cinematografici"», scriveva François Truffauc nel 1975, raccogliendo le proprie recensioni. «Chiunque può diventare critico cinematografico; al candidato non si chiederà che un decimo delle conoscenze richieste a un critico letterario, musicale o d'arte. Un regista, oggi, deve accettare l'idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto un film di Murnau» (Truffaut, 2003, pp. 16-7). Molti anni prima, quando non era ancora un regista ma solo un giovane critico combattivo, Truffaut non accettava questa idea. In un articolo pubblicato su "Arts" nel 1955, e intitolato J settepeccati capitali dell,a critica, fustigava una "professione ingrata, difficile e poco nota", che nella Francia dell'epoca non era all'altezza dei propri compiti. Il primo difetto stigmatizzato nel critico medio era i> (ivi, p. 13): ciò che scriveva-T ruffaut nel 1975 vale ancora oggi. Molte cose sono cambiate, certo. La storia e la metodologia della critica cinematografica sono cntrate•tra le discipline universitarie. Le recensioni dei critici del passato sono raccolte e studiate come documenti storici e letterari. Ma, nella prassi corrente. lo statuto della critica cinematografica rimane incerto, come gli spazi in cui si esercita, che nell'Italia contemporanea sono sempre più ridotti. Già nel 1982 Morando Morandini (cit. in Pellizzari, 1999, p. 145) aveva definito il critico cinematografico come un "animale in via di estinzione". La professionalità del critico non è certificabile da diplomi, non è richiesta dal mercato del lavoro, e non si può neanche insegnare. Si parva licet, non si insegna a scrivere recensioni, così come non si insegna a scrivere romanzi: e se è vero che fioriscono i corsi di scrittura creativa, sono meno diffusi quelli che insegnano a fare i critici, data anche la scarsa spendibilità del titolo. Eppure mai come in questi anni si discute del ruolo della critica cinematografica, e la critica parla di se stessa. Dal 2002 è protagonista anche di un festival ad Alessandria, "Ring". La diffusione di internet accresce, se non la lettura della critica, di certo la produzione di recensioni, saggi e sproloqui. E le riviste italiane ospitano periodicamente dibattiti e diatribe che, dopo pochi anni, appaiono remote o incomprensibili.

1.2.

Un'identità incerta tra storia e teoria

Che cosa sia la 1.ririca cinematografica sembra presto detto. Certo, come notava Casetti (1975, pp. 98-9), l'espressione è ambigua, e designa vari aspetti. La critica è il singolo testo, la recensione scritta od orale. La uirica è un insieme di testi riconoscibile: un genere di scrittura giorn.1liscica o saggistica, facilmente identificabile come tale sui giornali ( l.1 pagina della recensioni) o sugli scaffali delle librerie; questo,

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mestiere, sia pure aleatorio e non sempre ufficialmente riconosciuto.

li cinema entra nelle università italiane all'inizio degli anni sessanta: a Pisa, nell'anno accademico 1961-62, si apre un insegnamento di Scoria

La critica è un'istituzione, un fenomeno culturale: tant'è che se ne

c critica del cinema, tenuto da Luigi Chiarini. Le prime cattedre

suivono scorie, ed è oggetto di insegnamento accademico. '1';11Hc forme e tanti aspetti sembrano comunque riconducibili a un comune denominatore: la critica parla di film. Ma in che modo? La ailica informa, spiega, classifica, valuta, analizza, divaga. Come ha sincecizzaco Prédal (2004, p. 51), la critica «è per vocazione ermeneutica, per fatalità normativa, per comodità impressionista e in pratica estetica>•. Ma non sempre svolge tutte queste funzioni, e comunque non è la sola a informare, classificare, analizzare... Il suo prestigio è cerro superiore a quello della cronaca giornalistica, che pure le ha eroso spazi enormi negli ultimi decenni; ma rispetto al discorso sul cinema prodotto nelle università, fa la figura della parente povera. Eppure, fino alla seconda metà degli anni trenta, scrive Cherchi Usai (1990, p. 3), «il termine" critica" equivaleva a quanto di meglio la pubblicistica sul cinema potesse offrire)>. Per Louis Delluc e Jean Epstein, fare critica cinematografica era anche riflettere sul linguaggio delle immagini, del movimento, e progettare il cinema del futuro. Lo s1esso fanno, negli anni quaranta, le recensioni di Antonio Pietrangeli ~u "Cinema", in cui si elaborano i germi del neorealismo. Il caso più noto di critico-teorico è quello di André Bazin: le sue recensioni (poi r;tccolte in Che cosa è il cinema, 1979) partono dai film di Williarn Wyler e di Vittorio De Sica per analizzare il linguaggio del montaggio, la natura del realismo e discutere l'essenza stessa del cinema. «Il tempo ha la tendenza a trasformare la critica in teoria», afferma Prédal (2004, p. 5). Per quanto la sua prospettiva sia ristretta, la cricica si incarica inoltre di una prima analisi del presente, su cui si fonderà la storia di domani. Lo storico e il teorico non possono prescindere dalla critica: non solo come materiale di partenza, ma anche perché la scelta stessa degli oggetti di studio presuppone scelte criLiche e opzioni di gusto, coscienti o meno. Ma è anche vero che da quando la storia e la teoria del cinema si sviluppano in quanto discipline autonome, la critica, come scrive Cerchi Usai (1990), si trova" indifesa" e messa in ombra.

nascono all'interno degli istituti di storia della letteratura e, qualche volta, di storia dell'arte e di filosofia. Così come la critica cinematografica subisce il modello di quella letteraria (cfr. PAR. 2.1), il cinema invoca dignità di oggetto di studio affiliandosi ai valori estetici consolidaci della letteratura. Nel mondo accademico italiano l'idealismo uociano e il marxismo convergono nell'imposizione di un modello storicista. Il risultato è che il cinema viene insegnato innanzitutto rnme storia: storia degli autori, evoluzione delle poetiche, lotta delle ideologie. Non solo: la storia del cinema tende a diventare l'unico modo culturalmente valido in qÙ è possibile parlare di cinema: a tutto st:apito della critica, che produce solo discorsi frammentati e legati al rnntingente. Già Emilio Cecchi la definiva «semplice sottoprodotto l inematografico}) (cit. in Pellizzari, 1999, p. 131). Un 'altra conseguenza del predominio storicista è la sottovalutazione della tecnica e delle strutture economiche produttive: aspetti considerati impuri e devianti rispetto a una considerazione del cinema rnme fatto artistico. E che, espunti dalle aule accademiche, sono trascurati anche dalla critica, quasi sempre prona ai paradigmi culturali dominanti. Il fenomeno non è solo italiano: uno dei rimproveri rivolti dal giovane Truffaut al critico medio (1988, p. 196) era l'ignoran7..a di che cosa fosse un piano-sequenza. All'inizio degli anni sessanta, la,.diffusionedi-strutturalismo, semipJogia, psicoanalisi e altre sçienze umane provoca un boom della teoria, che si contrappone al mero studio storico, rivendicando una , onoscenza più profonda dei meccanismi linguistici e simbolici del 1rs10 filmico. Ma se la teoria ambisce al rigore della scienza creando un proprio linguaggio, la critica perde ulteriormente rilevanza. A&i 01.ch.i dei teorici, essa è il luogo dell'effimero: si esercita su q uot1dia11 i e rotocalchi; non usa un linguaggio scientifico; si basa sull'impressionismo soggettivo e non su dati verificabili; si rivolge a un pubblico non specializzato, in cerca solo di elementari giudizi di v.1lore. E per questo vogliono rifondarla: nelle loro mani, la critica si

.il meno, fìno alla proliferazione odierna sul web. La critica è un

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~pl'>. Il critico sarebbe un invidioso, un regista frustrato? Per lo sceneggiatore Ugo Pirro, negli anni settanta, il criti1.:0 era anche di peggio: un autocrate, un fascista. E definiva la critica uno «strumento autoritario, aristocratico e astorico>), una «prevar1ca1.ione esercitata da poliziotti della qualità» (in Cavallaro et al., 1976, pp. 43-4). Altra accusa classica è quella di chi rimprovera i critici di essere intellettuali snob staccati dalla realtà: spesso la esprimono registi che, forti del successo al botteghino, aspirano anche a una legitti-

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J

mazione cuicurale. Ancora una volta è Truffaut (2003, pp. 20-3), che è staro da entrambe le parti della barricata, a esprimersi con serenità sulla querelle tra critici e registi: il rischio di essere giudicato fa parte del mestiere e del privilegio del regista, ma non lede in nessun modo la sua "superiorità ontologica"; mentre il critico resta qualcuno che comunque viene dopo, µn epifenomeno. ( ~o,matazione frequente nelle riflessioni sulla critica, si è già accennato, è l'inefficacia. Lo notava nel 1955 il giovane Truffaut (1988, p. 195): «La critica, anche se unanimemente sfavorevole, non potrebbe mai arrestare la marcia verso il successo di un film a grosso budget». Anche se ammetteva eccezioni: la critica può aiutare il film piccolo e d'autore. come nel caso, allora recente, di La strada (1954) di Federico Fellini. Tre anni dopo, il suo maestro Bazin approfondiva la questione in un cesto illuminante e puruoppo mai tradotto in italiano, Rljl,ex;ons mr la critique (Bazin, 1958, pp. 297-309). La critica è certamente "inutile" dal punto di vista quantitativo ed economico, e giustamente non ha influenza su chi il cinema lo fa; ma (V1,,o { ~

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.rJ rttkYp'', Tullio Kezich, in "Corriere della Sera", 10 marzo 2006), ma non è esclusivo di un tipo di critica in particolare. Un abbassamento del lessico è una caratteristica di questi ultimi anni, condivisa sia da riviste specializzate sia da quotidiani: spesso è il segnale di una volontà di reagire ai luoghi comuni imperanti, a costo di essere triviali o volgari. Al tempo stesso, i cascami del lessico accademico si divulgano: il termine "metacinema", cavallo di battaglia di "Segnocinema" negli anni novanta, apre la recensione di MicheleAnselmi a La vita che vorrei (2004) di Giuseppe Piccioni. Probabilmente la sua evocazione è ironica, dato che subito dopo il tono si abbassa a chiacchiera da bar: «È un film nel film, ma non è metacinema. Si diverte a sfotticchiare un certo sottobosco" cinematografaro" romano, ma non è una commedia d'ambiente. Parla della vita promiscua e incasinata degli attori, ma aspira a un palpito universale» (in "Il Giornale", 27 settembre 2004). Termini come "metacinema", "ontologico", "diegetico" si sono diffusi comunque in ambiti molti diversi: da rotocalchi come "Film rv" a fascette e note critiche per DVD. Spesso vengono usati magari in pura funzione ornamentale: per esempio quando "diegetico" è usato pomposamente come sinonimo di "narrativo". Lo stesso vale per parole legate a varie mode culturali e via via slegate dal contesto originario: "fenomenologia", "materico", "altro" (specie nel sintagma "senso altro"), "non luogo". Il loro uso immotivato vorrebbe sostituire un'argomentazione più articolata, ma segnala solo un' autopromozione culturale da parte di chi scrive. Un caso affine è la diffusione di uno stile di scrittura che usa i tecni-

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cismi della semiotica in funzione poetico-letteraria, e che ha il suo massimo divulgatore in Enrico Ghezzi: coppie di parole separate da una barra o scritte tutte attaccate; abuso di virgolette e corsivi per suggerire significati più profondi; periodi gonfiati da incisi e parentesi; parole frantumate da trattini o parentesi (come faceva il poeta americano e. e. cummings, maestro di Ghezzi anche nell'uso delle minuscole), per introdurre doppi sensi: "re-visione", "di(s)soluzio01.,, , "(de)genere " ... La diffusione di questi vezzi in parte è conseguenza di un travaso che porta il critico specializzaco, e magari laureato in qualche DAMS, su testate man mano più popolari; in parte è la conseguenza di un controllo redazionale meno stretto che in passato, con tutti gli inconvenienti del caso.

Per riassumere... • Nella retorica classica, la dispositio era l'arte di esporre gli argomenti, l'e/ocutio la ricerca dello stile adatto. • Dai tempi di Sacchi, la recensione si è cristallizzata in una forma fissa che replica la dispositio classica. • L'esordio e la conclusione sono momenti privilegiati in cui il recensore espone la propria tesi. • Il critico si caratterizza anche per lo stile; l'uso delle figure retoriche e la scelta del lessico sono strumenti con cui cerca di essere più persuasivo.

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7. Metodi, temi e miti 7.1. Metodi

Tradizionalmente, esistono diverse metodologie... critiche. Ciascuna di esse ha un modo caratteristico di selezionare i dati e d1argomentare, a seconda che si ispiri a una determinata disciplina o filosofia (semiologia, psicoanalisi, sociologia.. decostruzion1smo); o che elegga a elementi significativi lo stile, la poetica del regr:-sta, o ancora l'appartenenza a un genere, a una cinematografia nazionale, a- un particolare momento storico come la classicità o il postmoderno. Privilegiando un metodo e non un altro, la critica, scrive Casetti (1975, p. 112) «viaggia sul sicuro: guarda a delle cose magari inedite impiegando degli schemi già collaudati,,. E ancora una volta cade in un circolo ermeneutico o in una petizione cli principio, perché considera come di per sé evidenti gli oggetti del proprio studio. Esistono metodologie critiche basate sul senso comune, e che non aspirano ad analisi particolarmente complesse del testo, come fa buona parte della critica quotidianista. Non si deve però arrivare a postulare una differenza oncologica era due tipi di critica: ogni tipo si basa su determinate premesse, e svolge un discorso verificabile all'interno dei princìpi e delle gerarchie di valore cui si ispira. D'altra parte un metodo non esclude l'altro.Uno stesso film può essere letto con diversi metodi, cosl come un medesimo mecodo·può valere per diversi film. Nel primo caso, chi scrive su La donna che visse due volte (1958) può concentrarsi sul suo posto all'interno dell'opera di Hitchcock o sul rapporto con la società del suo tempo; può analizzarlo all'interno del genere noir o delle strutture produttive del cinema hollywoodiano degli anni cinquanta; può privilegiare un'analisi tecnica o estetica degli elementi formali o leggere questi ultimi come sintomatici di dinamiche dell'inconscio. Ognuno degli approcci ipotizzati inoltre avrà un proprio stile, argomentazioni e lessico appropriati. Non tutti i metodi, per altro, hanno la stessa pertinenza. Un po' di psicoanalisi e di semiologia è passato anche nella critica giornalistica: ma la cinemetrica di Yuri Tsivian, che studia la lunghezza media delle sequenze di un film e il numero di stacchi, è utile solo per

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analizzare il cinema delle origini o, come ha spesso mostrato BordwelI, le sequenze di azione di un film di Hong Kong: e si dubita che offra risultati interessanti se applicata a un film di Woody Allen. I metodi, inoltre, come tutti i fenomeni culturali, hanno una storia: nascono, fioriscono e passano di moda. La critica psicoanalitica gode oggi di minor fortuna rispetto agli anni settanta: il che non significa che certi suoi temi, come il voyeurismo o il doppio, non siano più in circolazione (cfr. PAR. 7.2).

7.u. Dettagli significativi Bordwell (1989) ha descritto nel dettaglio le procedure con cui il critico individua gli elementi significativi nel film. Spesso i personaggi sono visti come deposi tari privilegiaci del significato, e le loro azioni sono interpretate come rivelatrici (volontarie o meno) di una società o di una filosofia. Lo si è visto nella recensione di Saccb i citata sopra a proposito di L'uomo che uccise Liberty Va/ance (cfr. PAR. 5.2). Ma l'analisi può prendere in considerazione anche la scenografia, la costruzione dell'intreccio, qualsiasi elemento dello stile: che sia un movimento della macchina da presa o un particolare tipo di montaggio. Gilles Deleuze, per esempio, parte dalla costruzione spaziale di El Dorado (1967) per individuare un tratto della poetica di Howard Hawks: il" meccanismo costante delle inversioni", che lo oppone al cinema "organico" diJohn Ford (Deleuze, 1984, p. 193): Tutti entrano e passano nella stanza in cui lo sceriffo fa il bagno come su una pubbli· ca piazza (El Dorado). L'ambiente esterno perde la sua curvatura. e assume la figura di una tangente[..]: il di fuori e il di dentro diventano dunque esterni l'uno all'altro, entrano in una relazione puramente lineare che rende possibile una permutazione funzionale degli opposti.

Questo modo di procedere è tipico dell'analisi accademica. E presuppone una concezione organicista del testo artistico, che risale al formalismo russo e al concetto di "funzione poetica del linguaggio". All'interno del testo artistico, secondo questa estetica, ogni dettaglio è significativo e si presta a infinite connessioni di senso: e

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questo perché il linguaggio artistico veicola il significato in modo diverso - più complesso e più ricco - che nel linguaggio normale. Si tratta anche di un procedimento che si presta facilmente all'enfasi, dato che esalta la creatività. e l'abilità del critico. Come quando Ghezzi elegge un dettaglio splatter di un fìlm di Brian De Palma a emblema di un'intera fase del cinema americano: «Nella fenomenale testa che esplode del finale di Fury c'è [ ... ] la promessa di tutto un cinema degli anni Ottanta» (Ghezzi, 1995, p. 407). Ovviamente l'affermazione sottintende un giudizio di valore, dato che il fùm viene visto come manifestazione di un fenomeno rilevante. A volte l'elemento su cui si appunta J'analisi è il titolo. Marcello Walter Bruno scrive una recensione di Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio partendo dall'«ossimoro nascosto nel titolo» (in "Segnocinema". 124, 2003), che rispecchierebbe gli opposti presenti nel fìlm (poesia/prosa, vecchio statista/giovani terroristi), secondo il critico articolati in modo ingenuo e dogmatico. Se il fùm di Bellocchio si fosse intitolato Il caso Moro, sarebbe stato ugualrri'ente possibile analizzare le coppie di opposti interni al film? Si, ma non partendo dal titolo: e l'analisi avrebbe avuto un attacco meno brillante (dr. PAR. 6.1.1). Particolare importanza ha anche la collocazione degli elementi significativi all'interno del film. Due momenti privilegiati sono l'inizio e la fine: il film infatti non è un testo statico, ma si svolge nel tempo, confermando, arricchendo o rovesciando l'impostazione iniziale. Un finale non riuscito spesso è letto come sintomo di una debolezza complessiva del film. Tanto più articolati e vari sono gli elementi (contenutistici e formali) su cui si basa l'interpretazione, tanto più persuasivo appare il metodo adottato e l'interpretazione proposta. Una tipica strategia della critica è trovare in ogni elemento del film una conferma dell'interpretazione proposta: e cosl i primi piani ribadiscono la claustrofobia, il montaggio frammentato il senso di alienazione e cosl via.

7.2. Temi

Chi recensisce un film inevitabilmente lo paragona ad altri film: dello stesso autore, genere, epoca o nazionalità. Paragonare da una parte significa andare alla ricerca di gerarchie o attribuzio-

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nidi valore ( cfr. PAR. 5.3); dall'altra, vuol dire rinvenire tratti comuni e .ricorrenti tra film diversi. In questo modo si costruiscono «motivi centrali» (Reboul, 1996, p.177) o temi: per esempio, nel cinema di Hitchcock, l'innocente perseguitato e il voyeurismo; nel cinema di Antonioni, l'incomunicabilità; nel cinema di Hong Kong, la messa in scena dell'azione; nel cinema della modernità, lo svelamento della finzione; nel cinema postmoderno, la citazione e il mescolamento dei generi. È evidente come i temi siano più o meno comprensivi o specifici: possono servire a caratterizzare un solo autore o un'intera epoca. Il fatto che un tema sia il prodotto di una particolare teoria o metodo gli aggiunge forza argomentativa maggiore. Tema e teoria si giustificano a vicenda, oltre a essere uno il prodotto dell'altro: è un classico circolo ermeneutico. In ogni caso la critica non ne può fare a meno: i temi sono la versione condensata di argomenr:rz.ioni complesse e specifiche. Sono quelli che Bordwell (1989, p. 1n) chiama black boxes: "strumenti per avere pronto il lavoro dell'interpretazione". Sono stati costruiti attraverso un lavoro di comparazione tra casi particolari diversi, e si sono cristallizzati in una forma fissa: per questo sembrano avere un' evidenza indiscutibile. In questo senso i temi a volte sono dei miti, delle costruzioni ideologiche. Un tema sembra soddisfare tutto ciò che si richiede a una buona argomentazione: è appropriato al fùm, è pertinente, è utile a capirlo. I temi sono strumenti adattabili: una volta accettato che il rema del voyeurismo è tipico di Hitchcock, lo posso usare per un qualunque suo film o per un film che presenta caratteristiche affini (un noir della stessa epoca o un film ·di Brian De Palma). Come ogni argomentazione, ogni tema ha le sue premesse estetiche e ideologiche, presuppone e fonda gerarchie di valori, e trova nel testo del film gli appigli per dimostrare la propria pertinenza e plausibilità. Attribuire rilevanza al tema del voyeurismo è possibile solo all'interno di determinate teorie e metodi, per esempio la psicoanalisi freudiana; e spesso presuppone un'argomentazione che oppone la superficie del film ai suoi contenuti profondi. Inoltre, usare questo

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tema può implicare un'attribuzione di valore: tutti i film in cui si riscontra il voyeurismo sono importanti; è un entimema già inconcraco (cfr. PAR. 5.2). A volte cerci remi si svincolano da un merodo e diventano, letteralmente, luoghi comuni. Fino a ridursi a semplici citazioni che abbelliscono il discorso, avendo perso la profondità originaria. Come quando si cita la frase di Cocteau secondo cui «il cinema filma la morte al lavoro»: che, da constatazione del fatto che gli attori filmati invecchiano nella realtà, spesso si trasforma in una fumosa affermazione metafisica. Nei paragrafi se i si analizzano tre remi ti ici della critica cinematografie 'autore, il genere e l'autorìflessTvlt. . anno urraTunga stona, anno su 1to vari:"etrasformazioni-;-e si prestano a mostrare le tecniche argomentative che li fondano.

7.3. Il mito dell'autore «Questo Re Mida che dovrebbe far scaturire l'oro da tutto ciò che tocca»: cosi Casetti (1975, p. 112) definisce il ruolo dell'autore all'interno della critica cinematografica. Dal punto di vista retorico, eleggere l'autore a tema centrale di un'analisi ( o di un intero libro) significa invocare al tempo stesso un argomento di autorità e uno fondato sull'associazione (cfr. PAR. 5.2). Artista detentore di una poetica e di uno stile, chiave per dischiudere i significati del film, elemento costante che unifica una serie di opere, etichetta di marketing: quando la critica parla di aurore cinematografico, oggi, può intendere tutto questo. L'autore è un concetto che oggi appare indispensabile nell'esercizio della critica: interpretare un film, spesso, equivale a inserirlo nell' opera di un autore. E quest'ultima viene vista come un insieme più o meno coerente. Ogni film, hegelianamente o darwinisticamente, può essere considerato il superamento o l'evoluzione del precedente; ma si può anche dimostrare come all'interno della filmografia del dato autore determinati episodi appaiano "sbagli", concessioni commerciali o allontanamenti da un ideale di eccellenza affermato in precedenza. Il concetto di autore, inoltre, è acquisito nella prassi quotidiana:

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anche nei negozi di DVD vi sono settori riservati al cinema d'autore. Il che implica, per altro, che non tutti i registi sono autori e meritano la classificazione in una nicchia privilegiata. Il concetto di autore si evolve, si allarga e si restringe. Vent'anni fa a Cline Eastwood non sarebbe toccato l'onore di vedere i suoi film nel settore" cinema d' autore" nei negozi FNAC. D'altra parte ciò succede solo dopo che gli sono state dedicate innumerevoli monografie e retrospettive nei festival più prestigiosi. La storia di tale concetto di autore è lunga, e si intreccia con quella della sua rile..:,anza all'interno della critica cinematografica: che non sempre si è servita del con cetto di autore per interpretare o per giudicare un fìlm. Nel 1932, Sacchi (2000, pp. 78-80) non sente il bisogno di citare una sola volta il nome del regista Rouben Marnoulian all'interno di una recensione per altro positiva di Il dottor jekyll (1932). Ma non è una regola: ogni sua recensione dei fìlm di René Clair dà per acquisita la sua originalità e riconoscibilità di artista, ed è ricca di collegamenti con le opere precedenti. Quando scrive Sacchi, la critica è già uscita dall'infanzia; e anche nelrindustria cinematografica sono state dimenticate le querelles (anche giuridiche) delle origini, quando si dibatteva se il vero autore del fìlm fosse l'operatore, il regista, il produttore o addirittura la diva. Grazie anche alle teorie di Canudo, all'interno del cineinad'arte ed'avanguardia non si pone più in dubbio la supremazia del regista come creacore del film. Nel 1928, alla prima edizione degli Academy Awards, la categoria del regista figura accanco a quelle del film e degli attori: e la nascita dello Screen Directors Guild nel 1935 sanziona definitivamente un suo ruolo all'interno dell'industria. E se David O. Selznick considera.il regista un semplice "ingranaggio nella macchina", rivendicando al produttore il ruolo di ideatore e supervisore del film, Frank Capra si batte per avere "il nome sopra il titolo". In questa fase giovanile e prebellica, l'autore è comunque una variabile. In campo italiano, la critica (e il pubblico colto, frequentatore magari dei cineforum dei GUF [Gioventù universitaria fascista]) considera autori Chaplin, Keaton (anche quando non è regista dei 95

suoi film), Murnau, Pabst, Clair, Carné, von Sternberg, Lubitsch, Capra, Blasetti e Camerini: ogni loro film suscita aspettative ed è paragonato ai precedenti. Al contrario, Mamoulian, Fleming, Curtiz, Cukor, Calzavara e Manòli non sono percepiti e analizzati come tali. Questo canone, elencato in modo incompleto, oggi non suscita particolari sorprese. I giudizi e i gusti della critica dell'epoca, infani, si sono cristallizzati nelle storie del cinema, che su di essi si sono basati. I film americani considerati d'autore sono sempre l'eccezione che conferma la regola di una produzione industrializzata; mentre i film europei (o almeno quelli che arrivano in Italia) sono quasi sempre d'autore. Che cosa fa dunque un autore agli occhi della critica degli anni trenta? Quali sono i presupposti per amibuire tale etichetta di valore? La presenza di un contenuto tipico e/o di uno stile riconoscibile: è un criterio articolato magari in modo approssimativo, ma che da allora rimane valido. Leggendo le recensioni di Sacchi, colpisce che nel 1936 qualcuno accusi René Clair di essersi «commercializzato» (Sacchi, 2000, p. 168) con Il fantasma galante (1935) o che un film come L'imperatrice Caterina (1934) di Josef von Sternberg sia lodato come opera di una «fantasia sregolata», di un «decadente e un poco sadico genio dello schermo» (ivi, p. 122.). Sacchi ha già ben chiari i confini critici, o se vogliamo i miti, entro cui si svolge la vita dell' autore: da una parte il riassorbimento entro la routine commerciale, dall'altra l'isolamento nella follia che sfida il sistema. Nel dopoguerra è dalla Francia che parte una nuova difesa del ruolo del regista e una sua specifica valorizzazione all'interno della critica. I "giovani turchi", i giovani collaboratori dei "Cahiers du cinéma", fondano la cosiddetta politique des auteurs: definizione che compare per la prima volta in un articolo di Truffaut del 1953, Aiì Babà e la "politica degli autori"dedicato alla difesa di un film di Jacques Becker oggi dimenticato, Alì Babà. E dove si trova questa affermazione sconcertante: «Anche se Alì Babà fosse mal riuscito, lo avrei difeso ugualmente in virtù della "politica degli autori" che i miei consimili nella critica e io stesso pratichiamo. Tutta basata sulla bella frase di Giraudoux: "Non ci sono opere, ci sono solo autori"» (trad. in Bisoni, 2006, p.112).

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PerTruffaut e i suoi amici critici, l'autore ha sempre ragione. E tuni i suoi film richiedono di essere analizzati come manifestazioni