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Italian Pages 361 [364] Year 2005
Si paga a caro prezzo un’anima moderna (Montale)
cartemoderne collana di studi e testi diretta da Paolo Briganti
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Questa pubblicazione è l’esito di un progetto ideato e curato dalla Cooperativa l’Argonauta di Parma e realizzato grazie al contributo di:
Comune di Montechiarugolo
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«La Critica Cinematografica» (1946-1948) Antologia
a cura di Andrea Torre
contributi di Goffredo Fofi, Morando Morandini, Mario Verdone, Sergio Frosali, Giovanni Ronchini, Nicola Magnani, Isa Guastalla
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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro.
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ANTONIO MARCHI nasce a Parma nel 1923. Comincia probabilmente a frequentare le sale cinematografiche con assiduità e con animato spirito critico proprio all’epoca della prima fioritura del cinema a Parma, intorno alla fine degli anni Trenta, quando ha inizio la straordinaria attività del Cine-GUF locale, che – sotto la guida di due personalità quali Attilio Bertolucci e Pietrino Bianchi e grazie ai legami che questi seppero instaurare con importanti personalità dell’ambiente accademico bolognese – fu in grado di svolgere un’opera di divulgazione filmica di elevato spessore artistico e spesso libera dai limiti censori imposti dal regime. Formatosi dunque nel clima intellettuale cittadino di quell’epoca, che si contraddistingueva per la raffinata sensibilità estetica e per l’istintiva “voracità” culturale, Marchi – appena diciassettenne – si cimenta nella critica cinematografica, inviando un’accorata lettera sulla condizione della contemporanea produzione filmica italiana alla rivista «Cinema», fondamentale centro per la formazione della cultura cinematografica nazionale in quegli ultimi anni del regime. La breve ma sentita corrispondenza del “giovane parmense” attirò – come ricorda Campari – «l’attenzione di Zavatttini e di Francesco Pasinetti, allora direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia», e il riconoscimento ottenuto con la pubblicazione della propria lettera sulle pagine dell’importante rivista romana gli aprì le porte degli ambienti culturali cittadini, in cui poté dar libero sfogo a tutto il proprio talento critico: sotto la supervisione di Pietrino Bianchi, nella primavera del 1941 cominciò a fimare sulla «Gazzetta di Parma», con lo pseudonimo di Marcantonio, alcuni interventi sulla rubrica Nel mondo della pellicola; ma fu soprattutto nel 1942 che la sua vena critica iniziò a trovare una forma espressiva più continua e rigorosa attraverso la collaborazione con le riviste locali «La Fiamma» e «Il Picco7
ne», nelle cui sezioni culturali s’era raccolta la migliore intellettualità cittadina. La guerra civile interrompe solo in parte la formazione cinematografica di Marchi; anzi è proprio in questo periodo che egli compie il primo vero salto dietro la macchina da presa, filmando un reportage clandestino sull’occupazione tedesca del castello di Montechiarugolo, documento che verrà proiettato al Circolo di Lettura nei primi mesi del dopoguerra. Ed è proprio a partire da quest’epoca immediatamente successiva alla guerra che Marchi potrà e saprà dare il proprio contributo alla storia del cinema. In contemporanea alla propria vivace attività di animatore del rinato Cine-club locale, Marchi fonda nel 1946 la fondamentale rivista «La Critica Cinematografica», che dirigerà fino al 1948 insieme al più giovane Fausto Fornari. Sempre in quegli anni è con Bertolucci, l’animatore della “Cittadella Film”, fondata e finanziata dall’avvocato Bagatti e da V. Rastelli. Dopo un iniziale apprendistato, compiuto seguendo il lavoro di Fratelli ed Emmer, dal 1948 Marchi comincia la sua esperienza dietro la macchina da presa e realizza, con la collaborazione artistica di Bertolucci e del sodale Fornari, alcuni corti ispirati di carattere didatticodivulgativo sull’arte locale (si ricorda soprattutto il documentario Nasce il romanico sulla storia del Medio Evo emiliano, che vinse nel 1950 il premio come miglior cortometraggio d’arte al Festival di Bruxelles). Dal 1949 collabora a «Sequenze», rassegna mensile di cinema diretta da Luigi Malerba con la collaborazione redazionale di Giuseppe Calzolari, di cui cura il numero monografico sulla nascita del cinema. Nel dicembre del 1953 Marchi è fra gli organizzatori – gli altri sono Bertolucci, Bianchi, Malerba, nonché Pietro Barilla e Virginio Marchi – del primo Convegno sul Neorealismo Cinematografico, che si tiene a Parma su idea di Zavattini allo scopo di porsi come «il primo vero convegno del cinema italiano». Al termine di questo evento, nel gennaio del 1954, Marchi dà inizio alle riprese del suo unico lungometraggio, Donne e soldati, con la sceneggiatura di Malerba, film che, benché gli sia valso un tardivo riconoscimento critico, non ottenne buoni risultati al botteghino. Nonostante l’indubbio valore artistico di tale esperienza, questa rimane l’ultima impresa cinematografica compiuta da Antonio Marchi. Marchi è deceduto il 9 novembre 2003.
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FAUSTO FORNARI nasce a Parma nel 1927. Consegue la maturità classica presso il Collegio Nazionale Maria Luigia a contatto di insegnanti di grande apertura intellettuale quali Attilio Bertolucci, Giuseppe Cavalli, Tito Di Stefano, Vincenzo Pernigotti, Italo Petrolini, Francesco Squarcia. Si laurea in giurisprudenza nel 1950. Fin da ragazzino si appassiona di musica e di arti figurative, legge classici e contemporanei, si dimostra attento e partecipe degli avvenimenti storici, e già in quegli anni verdi coltiva anche un particolare amore per il cinema. È del 1941 la sua prima escursione a Venezia per assistere alle proiezioni dei film presenti a quella mostra. Le brevi note redatte in quei giorni stupiscono per la precoce capacità critica rivolta prevalentemente agli aspetti di sceneggiatura e di regia. Nello stesso 1941 organizza in casa un piccolo cineclub destinato a durare qualche anno, che consentirà ad una ristretta cerchia di amici la visione delle più importanti opere del muto e degli anni Trenta. Con una cinepresa a passo ridotto gira documentari di vita operaia e contadina ove si apprezza una particolare cura delle immagini, delle inquadrature e del montaggio, la cui forza espressiva sopperisce brillantemente all’assenza del commento sonoro. La sua prima vera “incursione” nel cinema avviene nel 1946 quando, con l’amico Antonio Marchi partecipa all’attività di produzione “La Cittadella Film”, promuovendo la realizzazione di alcuni cortometraggi e firmandone, di altri, l’aiutoregia. Ancora con Marchi, dirige in quegli anni la rivista «La critica cinematografica». Successivamente lavora a Roma in un’importante casa di produzione cinematografica con il duplice incarico di scegliere i soggetti, da un lato, e dall’altro 9
di responsabile dell’ufficio contratti per il personale artistico. Qui, nel 1952, comincia i lavori per Lettere di condannati a morte della Resistenza, cortometraggio da lui ideato, diretto e prodotto, e sceneggiato insieme a Giovanni Pirelli. Presentato nel 1953 al Festival del cinema di Venezia, il breve film venne considerato un capolavoro del suo genere, ricevendo unanimi consensi di critica e di pubblico («l’opera italiana senza dubbio più importante presentata alla Mostra») e vince il premio come miglior cortometraggio a soggetto vario. Nel 1954 si aggiudica la medaglia d’oro al Concorso cinematografico del Festival mondiale della Gioventù di Varsavia. Un recente fondamentale lavoro di Ivelise Perniola (Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Roma, Bulzoni, 2004) pone Lettere di condannati a morte della Resistenza come «punto di rinascita del documentario storico-politico», come film caposcuola «apripista di tutti i successivi tentativi», tanto che «dal ’54 in poi gli autori che si vorranno cimentare su tematiche della recente storia italiana dovranno costantemente tenere presente il modello di Fornari». Il successo ottenuto spinge alcuni grandi produttori ad offrire al giovane regista occasioni per il film lungo, ma intanto Fornari ha già deciso, per imprescindibili ragioni di famiglia, una volta terminato il suo cortometraggio di lasciare il cinema per sempre. Per il sessantesimo della morte dell’amatissimo cugino Giacomo Ulivi, fucilato dai fascisti a Milano nel novembre del 1944, Fornari ha ideato e curato la drammatizzazione delle lettere che Giacomo scrisse alla madre dalla clandestinità e dei diari lasciati da quest’ultima, immaginando un appassionante dialogo post mortem fra madre e figlio. Lo spettacolo, di intensa commozione e di altissimo valore etico, è stato prodotto dal Teatro Due di Parma e realizzato da Paolo Migliaccio con l’interpretazione di Tania Rocchetta.
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Introduzione
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Andrea Torre
Fotogrammi in corpo 11
Un’immagine pubblicitaria, fissata con una puntina alla bacheca, ha accompagnato tutti questi mesi – quasi due anni – in cui ha lentamente preso forma il volume critico-antologico – che segue questa mia breve prefazione – dedicato all’esperienza editoriale della rivista «La Critica Cinematografica», pubblicata a Parma dal 1946 al 1948. L’immagine coglie di spalle un bambino chinato a sbirciare attraverso una fessura il paesaggio che probabilmente si apre al di là della parete di legno posta davanti a lui. Nella mano destra tiene un apparecchio fotografico, e il particolare non è secondario, perché funge da chiave per decifrare il portato simbolico dell’intera immagine; portato simbolico acutamente colto dai pubblicitari che hanno completato quest’emblematica illustrazione con un noto detto di Karl Kraus: «Il mondo ha esattamente i confini che l’immaginazione gli dà». Leggendo l’immagine alla luce del motto, dovremmo dunque concludere che l’immaginazione del bimbo ritratto amplia i confini del suo angusto orizzonte visivo frenato dalle assi della staccionata; ma anche, che il suo limitato sguardo attraverso le fessure gli offre comunque visioni più vive e immaginifiche di quelle che potrebbe immortalare la sua macchina fotografica. Si faccia attenzione al fatto che questa è sì celata dal bimbo che la tiene in basso dietro la schiena, ma rispetto al nostro occhio di fruitori dell’intera immagine essa occupa una posizione di primo piano, una posizione di lampante protagonismo peraltro rafforzato dalla luminosità delle cromature che si stagliano sui grigi della fotografia in bianco e nero, e che inducono la nostra attenzione a soffermarsi primariamente su di esse. 13
Andrea Torre
L’immagine sembra così acquistare una valenza metalinguistica, raffigurando di fatto una situazione che al contempo la rappresenta e la commenta. Soggetto della fotografia è la fotografia stessa, nella sua funzione, duplice, di memoria di un tempo e di uno spazio determinati, e di evocazione di tempi e di spazi indeterminati (quelli sfuggiti all’otturatore). Come il bambino deve allargare con l’immaginazione i confini del suo sguardo circoscritto, così la nostra immaginazione può fuggire dai confini delimitati dall’istantanea e ricostruirne o, meglio, crearne ex novo in forma di racconto, i presupposti, i significati, gli sviluppi. Moltiplicandola così in una miriade di copie, ognuna minimamente variata rispetto all’altra, ognuna strettamente connessa e dipendente dall’altra. Traducendola insomma in una sequenza di fotogrammi. Rientrando allora nell’immagine, potremmo chiederci se nell’occhio curioso del bambino, che scruta oltre la palizzata, non sia possibile riconoscere una rappresentazione della visione cinematografica. È dunque il cinema un’occasione per ridefinire grazie all’immaginazione i confini del nostro mondo? Non saprei dire se una tale questione sia ancora valida per il cinema e la società contemporanei. Di certo lo fu per un nutrito gruppo di giovani che nel 1946 decise di impegnarsi nell’impresa intellettuale (ed è qui quantomai corretto cogliere il termine impresa tanto nella sua dimensione intellettuale quanto in quella materiale ed economica) di dar vita in una “Parma anno zero” alla rivista «La Critica Cinematografica». Di certo lo fu soprattutto per i due principali ispiratori di questa singolare esperienza culturale, Antonio Marchi e Fausto Fornari, che seppero tradurre la loro passione in un progetto concreto, e radunare intorno ad esso la compagnia attiva di voci distanti e differenti, affermate o principianti. Di certo lo è stato anche – e qui mi si perdoni l’immodesto inciso – per coloro che in questi due anni hanno pervicacemente lavorato affinché il progetto di rivalutazione culturale di questa dimenticata pagina della cultura parmense – promosso e sostenuto non senza difficoltà dalla cooperativa di servizi culturali L’Argonauta – approdasse a un libro. L’avventura editoriale della «Critica Cinematografica» ha d’altronde rappresentato sotto differenti punti di vista una ridefinizione di confini realizzata attraverso l’immaginazione. Essa fin da subito si è proiettata oltre i confini dell’autarchica e obsoleta pétite capitale pur conservando la misura, l’intraprendenza e la spontaneità di ogni sano provincialismo; e da questo laboratorio di provincia (che di lì a poco assurgerà ad affermata officina) ha guardato a un panorama nazionale in piena fibrillazione e a un orizzonte internazionale che vedeva sempre più nettamente distinguere i propri piani tra la già onnivora american way of movie, la longa manus della teoria e della tecnica 14
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sovietiche, e infine i «venticelli» che dai «Campi Elisi» cominciavano a spirare con crescente vigore. Di questa poliedrica realtà che le si spianava innanzi, la «Critica» è sempre stata precocemente avvertita e salubremente curiosa, anche a rischio di passare per «“borghese” o addirittura conservatrice» – come sottolinea Goffredo Fofi nell’intervento che apre la sezione del presente volume dedicata agli approfondimenti critici su questa esperienza editoriale – «addirittura “reazionaria” a causa della sua apertura di orizzonte, del suo gusto della scoperta e del suo apprezzamento del gusto, della sua avventurosità e varietà di interessi e dello stile delle sue scritture. Della sua idea di critica, fatta di incertezze tuttavia vitali e insieme di certezze di buona tradizione». Le «certezze di buona tradizione» erano quelle garantite da una cultura di solida formazione, una cultura in primis letteraria (ma anche figurativa) che da Macrì, Trompeo e Bianchi riluceva, con maggior disincanto, sui vari Bertolucci, Artoni, Colombi Guidotti (del quale in queste pagine Isa Guastalla ci offre un nuovo affettuoso ricordo), Mattioli, Squarcia, Viazzi, ecc.: insomma, tutta quella «“combriccola culturale di Parma e il suo distaccamento di Forte dei Marmi”» ricordata da Morando Morandini attraverso le parole di Luigi Alfieri, e ben ritratta da Sergio Frosali in tutto il suo spessore intellettuale: «Credevamo di dover mettere a fuoco una filosofia dell’immagine. L’amore per il cinema non doveva sfuggire, per noi, al confronto con la letteratura, con la storia, con la società, con la psicanalisi. Leggevamo le estetiche di Croce, Dewey, Adorno, Gombrich e Husserl, la prosa di Proust e quella di Sartre, l’etica di Kierkegaard e quella di Jaspers. Fra i critici figurativi, svettavano per noi Longhi, Ragghianti e Cesare Brandi». Le «incertezze tuttavia vitali» erano, non diversamente, quelle imputabili alla stessa cultura, di solida formazione sì ma di formazione quasi esclusivamente letteraria, e peraltro letterariamente ben connotata, e conseguentemente impegnata a fondo in un preciso programma ideologico: «A fronte di questi scenari così radicalmente nuovi e di questi attacchi così precisi, coloro che erano stati i protagonisti della cultura ermetica si difendevano con altrettanto vigore e con altrettanta virulenza» – ricorda Giovanni Ronchini, ripercorrendo lucidamente i presupposti e le forme che caratterizzarono la dominante presenza della letteratura all’interno della rivista – «al punto che, invitati a parlar di cinema, essi per lo più rispondevano indicando nella decima musa uno strumento naturalmente realista, per propria costituzione portato più alla registrazione passiva del documento che alla sua rielaborazione tecnico-artistica». Della natura prevalentemente letteraria della rivista (percepibile soprattutto nella sua prima serie) ci offrono più di una testimonianza le prime sezioni 15
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dell’antologia che raccolgono i più significativi interventi intorno alle questioni, centrali, della funzione del letterato nel cinema (Letterato al cinema) e della posizione occupata dall’arte cinematografica nel girotondo delle muse (Sogno di Parnaso); di tale natura sono altresì testimonianza gli articoli di Marchi, Pozzi, Bollati e Ungaretti che s’interrogano sulla carriera del vagabondo Chaplin nel suo “scandaloso” transito dal fiabesco Charlot al tragico Verdoux; di tale natura sono infine testimonianze dirette le prove d’artista (poesie, racconti, elzeviri, detti) che ci offrono, lungo tutta la vita della «Critica», più di un aforisma per i (nostri) giorni perduti. A fronte della costante coltivazione di questa naturale predisposizione si assiste però, e sempre più convintamente col succedersi dei numeri, anche alla progressiva maturazione di interessi critici e approcci tecnici propriamente cinematografici. Vanno ad esempio nella direzione dello specifico filmico le note di Pietrangeli sull’asincronismo, quelle di Luzi e Serandrei sul montaggio, quelle di Frosali sul cortometraggio, così come quell’Introduzione alla filmologia del giovanissimo Mario Verdone, ottimo viatico a una lunga carriera che, come egli stesso ci ricorda, più tardi lo portò ad occupare proprio nell’Ateneo parmense la prima cattedra italiana di Tecnica e didattica del linguaggio cinematografico. Vanno di fatto nella medesima direzione di una maggiore consapevolezza del proprio mestiere critico e del proprio ruolo nella società intellettuale del periodo le relazioni sempre più capillari che Marchi, Fornari & Co. andavano tessendo con i maggiori centri, nazionali e internazionali, della Decima Musa; e se anche, come ricorda Nicola Magnani, «il riverbero nella provincia ducale di certe posizioni critiche ed estetiche si fece sentire con maggior ritardo rispetto alla capacità catalizzatrice di capitali culturali quali Roma, Venezia o Milano, [...] la perifericità fu al contempo garanzia, come era volere di Marchi, di fronte al pericolo della “contaminazione della produzione e degli interessi”, delle “relazioni non sempre gratuite” e degli “inevitabili accomodamenti”». Tanta accortezza nella strategia culturale non impedì comunque alla «Critica» di ospitare ad esempio la voce, fuori dal coro hollywoodiano, di Budd Schulberg, chiamata a ripercorrere passato e presente del cinema americano (una voce, la sua, fra le tante che vanno a comporre la sezione Americana della nostra antologia); la stessa ugualmente non ostacolò sulle sue pagine lo studio della diffusione in Italia del cinema sovietico e della sua poetica (studio testimoniato dagli articoli accolti nella sezione Ombre russe), né censurò il dibattito sulla funzione moralizzatrice dell’arte cinematografica (per cui si veda Censura e celluloide). A suo modo e con i suoi tempi la «Critica» seppe dunque proiettarsi oltre la 16
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dimensione localistica e dilettantistica della giovane rivista culturale; ma soprattutto, merito indubbiamente maggiore, riuscì a far ciò immersa nel desolato panorama del dopoguerra. Grazie alla fuga nel fertile immaginario cinematografico i giovani intellettuali che si radunarono intorno alla «Critica» seppero così gettare lo sguardo oltre i confini di miseria lasciati in eredità dalla seconda guerra mondiale, contribuendo a loro modo alla generale opera di ricostruzione della società civile, e in particolare intervenendo nel processo di normalizzazione che interessava anche le quotidiane forme di intrattenimento: da qui probabilmente si spiega la costante attenzione (nelle recensioni, nei notiziari, nelle pubblicità) per le varie, e di lì a poco sempre più strutturate, occasioni cinematografiche di aggregazione sociale come i cineclub, le rassegne e i festival. È forse inutile segnalare che nella pronta risposta a tali bisogni della società del dopoguerra (affamata anche di cultura oltre che di cibo) sta uno dei tratti più qualificanti della bella impresa culturale di Marchi e Fornari. Di tutti gli sguardi dell’immaginario gettati dalle pagine della «Critica» oltre le barriere della faticosa realtà del tempo, il presente volume ha cercato di riproporre alcuni baluginii affinché una piena luce venga fatta su questa e altre simili esperienze intellettuali parmensi. Giunto alla conclusione di questo impegnativo progetto culturale della cooperativa L’Argonauta non mi resta che rivolgere un sentito ringraziamento a coloro che in modi e forme differenti ne hanno consentito la realizzazione. Col rigoroso ordine dei titoli di coda di un film, la gratitudine mia, di Giovanni Ronchini e Nicola Magnani (quali responsabili del progetto per la cooperativa) si rivolge dunque: a Fausto Fornari e alla famiglia Marchi, che hanno favorevolmente accolto il nostro progetto, concedendoci il diritto di riprodurre una ricca scelta antologica della rivista; alla Provincia di Parma, al Comune di Montechiarugolo e alla Chiesi Farmaceutici, che fin dall’inizio hanno creduto in quest’impresa editoriale, sostenendone i costi di pubblicazione; a Giuseppe Massari, che per primo sottopose alla nostra attenzione questo tanto importante quanto dimenticato momento della cultura parmense; a Paolo Briganti, che con entusiasmo ha accolto il volume nella collana «cartemoderne» da lui diretta per la casa editrice UniNova; agli addetti della Biblioteca Nazionale Palatina di Parma, la cui disponibilità ci ha consentito di lavorare comodamente sulla collezione integrale delle copie originali della rivista; e, ovviamente, a Goffredo Fofi, Morando Morandini, Mario Verdone, Sergio Frosali e Isa Guastalla, che con sincero interesse si sono prestati a divenire nostri “complici” nella realizzazione del libro. In limine il pensiero va a coloro, primo fra tutti Antonio Marchi, che fecero 17
Andrea Torre
nascere e vivere «La Critica Cinematografica» e che ora non possono vedere le ombre memoriali che di essa la nostra ricerca ha provato a evocare. Tra questi il mio personale ricordo va a Fernaldo Di Giammatteo del quale, prima della scomparsa avvenuta nello scorso gennaio, in più di un contatto telefonico ho avuto il piacere di ascoltare i numerosi ricordi relativi alla sua esperienza di collaboratore della «Critica». Credo che, vinta l’iniziale ritrosia, avrebbe volentieri offerto il suo contributo alla nostra iniziativa. Alla sua memoria mi sia pertanto concesso di dedicare questo lavoro.
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Saggi
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Goffredo Fofi
Elogio della critica cinematografica non ideologica
Nella sua breve vita «La Critica Cinematografica» ha cercato la realizzazione di un sogno ricorrente, dagli anni Venti ai Cinquanta del Novecento, di un approccio intellettuale al cinema che partisse dalla valutazione della sua natura di spettacolo nuovo, meccanico, per un pubblico di massa. Quel che ne andava esplorata era la capacità di “parlare” – muto o sonoro che fosse, e la differenza era certamente enorme ma la capacità di ricezione del pubblico non diminuita nel passaggio – a milioni di persone, oltre le barriere nazionali e nazionalistiche, e nello stesso tempo di “ascoltare” quel pubblico, seguendo in vario modo le sue direttive invece che quelle dei poteri insediati nei vari sistemi produttivi. Dal pubblico al pubblico: o meglio – anche oggi che le identità culturali sono scomparse e il potere sui e dei media aspira a diventare, o è sul punto di diventare, pensiero unico e globale – dal popolo al popolo. In mezzo, dunque, il cinema come forma di spettacolo inusitata e nuova. Nel ’46, quando la rivista di cui parliamo nasce a guerra mondiale finita da pochi mesi, quest’arte ha mezzo secolo di vita, che è un niente di fronte alla storia secolare o addirittura millenaria di altre arti. Il cinema è un’arte determinata da un pubblico che non era mai stato, per nessuna arte, così vasto. Il cinema vuol raggiungere tutto il pubblico elaborando un linguaggio a tutti comprensibile, e per farlo ha bisogno di una esplorazione e definizione dei propri mezzi – la tecnica, i generi – e di verificarne l’impatto, il successo. Il cinema ascolta il pubblico, che è sia popolare che colto, e mette a punto le sue strategie sulla base delle reazioni del pubblico. E il pubblico indica e determina con le sue preferenze le strade da seguire, il consolidamento delle strutture e delle forme, la precisazione di un linguaggio. In mezzo, però, tra pubblico e cineasti, ci sono pur sempre i “mediatori”: coloro 21
Goffredo Fofi
che procurano il denaro e lo gestiscono, finanziatori e produttori – per un tempo non breve attorno a ditte dal marchio ben definito, nella divisione del mercato – e naturalmente, sopra di loro ci sono – c’erano – i politici. Dapprima istintivamente – constatando che «il cinema è l’arma più forte», come hanno detto i dittatori di più dittature e i presidenti di più democrazie – e poi con attenzione oculata, i politici stabiliscono i confini del cinema, definiscono i messaggi che il cinema può o non può, che deve o non deve veicolare: l’american way of life, la dottrina nazista, i codici del bolscevismo... Tuttavia, ancora per pochi decenni, il cinema riuscirà a sfuggire a molti ricatti e a molti imbracamenti per la sua natura di divertimento popolare, che ruba i suoi succhi dalle tradizioni e dalle forme narrative ed espressive del popolo. Negli anni di «La Critica Cinematografica» nella sua famosa lettera sul middlebrow, Virginia Woolf rivendicava il rapporto esistente tra high-brow e low-brow, cioè tra la cultura alta e bassa, lo scambio, la reciproca fascinazione, e vedeva il nemico nel middle-brow; ma il middle-brow del cinema, in fase di affermazione ma non di dominio, permetteva ancora che esso si nutrisse dei succhi del “basso” e si inventasse i suoi artisti: i Ford e gli Hawks, i Camerini e i Carné, i Lean e i Fernández, i Capra e gli Huston, e innumeri “onesti artigiani”. Il cinema era quasi interamente low, ma in questo low, come sempre è stato nel passato, fiorivano artisti autonomi e significativi, anche se erano seguiti da moltissimi imitatori scadenti. Dal basso, l’alto poteva imparare, e restarne anche ammaliato, come è accaduto con Chaplin, non a caso così presente anche sulle pagine della rivista parmense, che fu il primo artista nella storia a essere ugualmente conosciuto e amato da intellettuali e analfabeti in ogni parte del mondo; il primo e, nonostante la “globalità”, per ora l’ultimo... Il fascino esercitato sugli intellettuali andava di pari passo con la speranza di un’affermazione sempre più grande della democrazia, di una democrazia non manipolata, in cui il popolo avesse la forza di imporre i propri bisogni e di raffinare la propria qualità culturale, in un processo di crescita e di scambio da educazione a democrazia ad educazione, che ha avuto in Dewey il suo propositore più attento. Il cinema era visto da tanti come strumento di affermazione della cultura di un popolo, e sempre più di un popolo sovranazionale, come strumento di progresso, come vivo scambio tra arte e società, tra le arti, tra arte e tecnica, tra arte e novità. Di questa ricchezza che, ripeto, fu la ragione dell’interesse e dell’amore e della fiducia di tanti artisti e intellettuali per il cinema “arte del XX secolo”, furono coscienti, al fine di piegarla alle loro esigenze che non osavano ancora chiamarsi “la comunicazione”, anche i politici, che cercarono di piegarla ai loro progetti e lo furono, in grado enormemente maggiore che per le altre arti, perché il cinema era, più che arte, “mezzo di comunicazione di massa” e di propaganda di modelli di vita, di modi di pensare, di credo ideologici, di aspirazioni e anche di odii collettivi. 22
Elogio della critica cinematografica non ideologica
Esso diventava via via, come ebbe ben chiaro più di ogni altro regista e alla pari con ben pochi altri artisti Jean Luc Godard, uno strumento e un pezzo della pubblicità, intesa in senso lato, che doveva diventare «il fascismo del nostro tempo». Il cinema resistette, dove possibile, fino ai fulgori (gli ultimi splendidi fuochi) degli anni Settanta come arte autonoma nonostante la televisione andasse asservendolo, distruggendo il suo potere, scalzandone violentemente la centralità. Il Potere lo tenne in vita (il Potere come incrocio di economia, finanza, patterns, ideologia, dominio) finché gli servì, l’Economia e la Tecnica lo privilegiarono finché il Mercato non ne produsse rivali, nell’abituale rincorsa “anarchica” alla distruzione dello stadio precedente – cui sempre ne deve seguire un altro – che è del Capitale. Quando si scoprì che si poteva governare senza bisogno – in Occidente almeno – di dittature, e che per mantenersi bastava al Potere la manipolazione del consenso per il tramite della pervasività e corruzione dei media e per il livello di benessere complessivo raggiunto da una società, il cinema perse di peso e di significato rispetto al medium più importante che esso stesso aveva figliato, e all’adeguarsi degli altri media dentro le regole della televisione e la sua “macchina”. Era la televisione a essere ora centrale, entrando in ogni casa come al cinema non era riuscito di fare. La “comunità” della televisione è una pura finzione, mentre la “comunità” della fruizione collettiva del cinema era ancora un segno di “comunità” vera – di gusti, di sogni, di conoscenze, di aspirazioni. Ma torniamo agli anni di «La Critica Cinematografica», quando l’Italia rinasceva e si respirava infine aria libera, si costruiva una società che si voleva nuova e lo era (repubblica, democrazia, libertà, invito e spinta alla responsabilizzazione individuale, all’aperto conflitto tra le classi: non era poco!) e anche il cinema la respirava e la faceva circolare. Non si erano ancora consolidati i nuovi schieramenti, il cattolico e il comunista (nelle schiere di entrambi si erano andati rifugiando – secondo la costante del trasformismo, tornata a inizio del nuovo secolo in grandissima auge – tanti exfascisti generici ma anche specifici), e alla vivacità della società rispondeva la vivacità del dibattito, e la entusiasta vivacità delle scoperte. Durarono poco, le riviste di passaggio e di mescolanza, più intellettuali che politiche e resistenti ai diktat degli schieramenti, e a pochi fu permesso, dopo, di scivolare di schieramento in schieramento senza bruciarsi nella mediazione (ah, Zavattini! il più abile, il più astuto dei mediatori: tra arte e mercato, tra comunisti e cattolici, tra idealità perfino estremista per quel che riguardava il linguaggio cinematografico nel suo legame con la scoperta della società, e la pratica corrente, la praticaccia della sceneggiatura servizievole). Gli anni di «Cinema nuovo», di Chiarini e Barbaro a «Rinascita», della volontà di chiudere il neorealismo dentro definizioni molto strette, erano ancora da venire, ma non tardarono. E nei nuovi anni una rivista come «La 23
Goffredo Fofi
Critica Cinematografica» sarebbe stata definita come “borghese” o addirittura conservatrice, addirittura “reazionaria” a causa della sua apertura di orizzonte, del suo gusto della scoperta e del suo apprezzamento del gusto, della sua avventurosità e varietà di interessi e dello stile delle sue scritture. Della sua idea di critica, fatta di incertezze tuttavia vitali e insieme di certezze di buona tradizione. La critica cinematografica sarebbe diventata di lì a poco – prima di suicidarsi o di lasciarsi uccidere dividendosi negli anni Ottanta e Novanta in università, basso giornalismo, funzionariato, fanzinismo, vario provincialismo e appartenenza a un circuito secondario della macchina della comunicazione e dello spettacolo – una professione a tutto tondo, perché il cinema avrebbe avuto un posto molto importante nella battaglia delle idee: nella battaglia ideologica, capace come sempre di molte ipocrisie e menzogne e di una carica di violenza nei confronti delle opere e degli autori piegati a scopi che non erano i loro. La critica cinematografica ne avrebbe forse guadagnato, in qualche raro caso, in capacità di scavo e approfondimento sul linguaggio più che sugli autori, in verità poco rispettati e ascoltati, ma avrebbe perduto quella immediatezza e libertà (ariosità) nel porsi di fronte a un’opera, quella vastità e libertà dei riferimenti, in definitiva le qualità che vengono dal piacere della fruizione e della curiosità, dalla varietà e quantità di domande che si pongono a un’opera. I collaboratori di «La Critica Cinematografica» si sarebbero dispersi negli anni immediatamente successivi alla sua chiusura, seguendo strade diverse e scegliendosi destini diversi, e il caso più estremo fu forse quello di Glauco Viazzi, ben ricostruito anni fa da Lorenzo Pellizzari, che culminò dopo l’ubriacatura ideologica e lo choc del XX Congresso del Pcus nella scelta del silenzio su tutto il cinema, e nel passaggio ad altri campi culturali, non centrali... Ma altri casi meriterebbero indagini specifiche, e la risposta alla domanda sul perché di questa concentrazione e sui modi di questa alleanza, per quanto provvisoria. Nel breve tempo di uno “stato nascente” la rivista di Parma rimane l’esempio di piccolo crocevia di campi e di firme, che è molto istruttivo (nonché divertente) studiare pensando al prima e al dopo e, sconsolatamente, all’adesso.
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Giovanni Ronchini
«Incantando la natura volgare». Letterati al cinema in una rivista degli anni Quaranta
1. A mo’ di premessa: alcuni essenziali appunti su cinema e letteratura. Per entrare nei dettagli del dibattito tra letterati ospitato dalla «Critica Cinematografica», è necessario premettere alcune considerazioni che meglio possono farci intendere qualche presa di posizione oggi altrimenti difficile da comprendere. Da un lato occorre riconoscere che «La Critica Cinematografica» pubblicò alcuni interessanti confronti tesi a sciogliere i nodi degli intrecci tra cinema e letteratura (la posizione del cinema rispetto alla letteratura e i loro punti di contatto, da individuarsi non in filigrana attraverso parametri generici, ma piuttosto nelle soluzioni estetiche adottate di volta in volta dagli artisti, con particolare riferimento al problema, allora più sentito, del rapporto tra l’arte e la realtà); ma dall’altra parte, se non vogliamo farci ingannare dall’apparente inadeguatezza di alcune risposte, non possiamo dimenticare il contesto culturale nel quale la rivista operò, e cioè il vorticoso immediato dopoguerra, un periodo di forti investimenti teorici ma di prassi che, sebbene ancora incerte e provvisorie, poste, come erano, a confronto con l’eredità accettata con beneficio di inventario dei dibattiti e della produzione del ventennio, intendevano candidarsi perentoriamente, nella loro ingenua e traballante certezza, a fondamenta di una nuova cultura. E per capire quel contesto, in relazione alle questioni che ci interessano, è ancora una volta opportuno fare un passo indietro verso la prima porzione del Novecento – e tracciare così un ideale prologo di quanto troveremo nella nostra rivista –, quando, intorno al discusso statuto del cinema, un fantasma si aggirava
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per il mondo: si trattava dell’interrogativo circa i rapporti di consanguineità – per i più benevoli –, di discendenza o subalternità – per la maggior parte – che intercorrevano tra la decima musa e le altre discipline: svelare e finalmente comprendere la relazione che univa il cinema alle arti “maggiori” avrebbe permesso di organizzarne i metodi di analisi, un approccio più sistematico e meno approssimativo, oltre che sciogliere il dubbio che pesava sull’accertamento della sua patente di artisticità. Di volta in volta chi si accostava al problema proponeva contiguità e confronti che in più di un caso tradivano una incapacità di lettura, la povertà dei mezzi critici a disposizione quando non addirittura un vero e proprio fastidio nei confronti del cinema; e senza, tuttavia, che si compissero sforzi particolarmente faticosi per porre rimedio a queste carenze, né per celarne i presupposti: e cioè una diffidenza lievemente accidiosa, una invidia snobistica o il timore, da parte degli artisti “canonici”, di perdere prestigio e capacità di attrazione. Ciò nonostante, nel corso degli anni si riscontrarono aperture più o meno significative soprattutto in alcuni precoci letterati, i quali a poco a poco riformularono la natura del loro rapporto con il cinema, riconoscendo una somiglianza tra le loro poetiche e quelle dei cineasti o riuscendo a leggere esplicite convergenze tra le modalità espressive delle due forme.1 Ma a compiere questi passi in avanti, in Italia, si tardò non poco: non ne ebbero la lungimiranza né i futuristi, né soprattutto D’Annunzio, il quale, sebbene fosse implicato nel meccanismo cinematografico (specie nell’Uomo che rubò la Gioconda), non riusciva però a vedere nel cinematografo che poco più di un esercizio circense, uno spettacolo illusionistico;2 non vi riuscì Gozzano, che non ebbe forse il tempo di addentrarsi sufficientemente a fondo nelle cose del cinema; non vi riuscì Verga (sempre preoccupato di marcare le distanze con il nuovo mezzo) e neppure, più avanti, Pirandello. Ebbero questa lucidità, fuori dai nostri confini, gli autori prossimi al campo surrealista, già costituzionalmente portati alla fusione degli 1 In merito al disegno di un quadro esaustivo dei rapporti tra i letterati italiani e il cinema esiste una bibliografia ormai consistente e consolidata. Tra queste opere mi permetto di segnalarne qui solo alcune, scegliendo tra quelle più coerenti con il mio discorso: dal testo di Mario Guidorizzi, La narrativa italiana e il cinema, Firenze, Sansoni, 1973, a quello di Gian Piero Brunetta, Letteratura e cinema, Bologna, Zanichelli, 1976; da quello di Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981, a quello, fondamentale, di Cristina Bragaglia, Il piacere del racconto. Narrativa italiana e cinema, 1895-1990, Firenze, La Nuova Italia, 1993; per arrivare ai più recenti di Raffaele Cavalluzzi, Cinema e letteratura, Bari, Graphis, 1997, e di Irene Gambacorti, Storie di cinema e letteratura. Verga, Gozzano, D’Annunzio, Firenze, Società editrice fiorentina («Quaderni Aldo Palazzeschi», nuova serie, 3), 2003. 2 D’Annunzio («Corriere della sera» del 28 febbraio 1914), concederà al cinema la sola proprietà del «meraviglioso», e parlerà, relativamente ai suoi mezzi e ai suoi effetti, di «stupende frodi», concludendo che «la vera e singolare virtù del cinematografo è la trasfigurazione [...] e che Ovidio è il suo poeta». Io traggo dal ragguaglio di Guido Aristarco, Il tempo dei poeti, in «La Critica Cinematografica», anno II, n. 7, settembre 1947, p. 4.
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stili e delle discipline; ad esempio vi riuscì uno come Apollinaire, il quale scoprì nella settima arte una vicinanza imprevista con la poesia, e proprio nell’aspetto più sostanziale – e non tanto e non solo tecnico –, cioè quello del rapporto con la realtà. Per l’autore dei Calligrammes poesia e cinema condividevano la posizione d’attacco occupata nella medesima trincea e sul medesimo fronte di contro alla nuda realtà, cosicché registi e poeti sarebbero stati entrambi “incantatori della natura volgare”,3 impegnati nel tentativo di trasformarla in altro, di alleggerirla dalle zavorre oggettiviste del naturalismo e del positivismo, per sublimarla in qualcosa di differente che del dato “volgare” avesse conservato solo il pretesto. E così, nonostante le premesse avessero fatto intendere altro – e cioè una contiguità più immediata, ad esempio, tra il cinema e il teatro o le arti figurative – ben presto furono proprio i letterati a scoprire gli accostamenti più interessanti fra le due discipline e a valicare sovente il crinale che le divideva. Da un certo punto in avanti non si trattò più soltanto di riconoscere una medesima funzione, per così dire, sociale, ma anche di rintracciare una certa analogia tra le tecniche più minute, e però sostanziali, di cinema e poesia, o tra le strutture narrative di film e romanzi. Ma rimanendo all’interno delle pagine del nostro giornale, è in questo senso che va letto uno dei rarissimi interventi dedicati al cinema da Giuseppe Ungaretti.4 Il poeta si cimentò in un breve articolo che entrava direttamente nel dibattito suscitato dal film Monsieur Verdoux di Chaplin (1947), un film che spiazzò una non piccola parte del pubblico.5 Fu proprio Ungaretti – che avremmo detto piuttosto portato alla difesa di una specificità della poesia entro le maglie di quel recupero classicista, da Petrarca a Leopardi, che andava realizzando non senza la consapevolezza dell’unicità del proprio sforzo, senza cioè alcuna indulgenza verso le mode o le parole d’ordine del periodo – fu proprio Ungaretti, si diceva, a spingersi ben al di là dei confini tracciati dai suoi colleghi letterati sulle pagine della «Critica», laddove il poeta rivelava una precisa somiglianza tra il ritmo dei 3 Cfr. Mario Verdone, I poeti nel cinema e il cinema nei poeti, in «La Critica Cinematografica», anno III, nn. 10-11, agosto-settembre 1948, pp. 12-14: «Apollinaire e i suoi amici “eccentrici” lodano il western o le magie di Méliès nelle “Soirées de Paris” (1913) (“Io e Méliès – dice Apollinaire – facciamo press’a poco lo stesso mestiere, incantiamo la natura volgare”); e frequentano il solaio di Canudo a Montmartre» (p. 13). 4 Giuseppe Ungaretti, La quadratura del circolo, in «La Critica Cinematografica», anno III, nn. 10-11, agosto-settembre 1948, p. 4. In questo distillato pezzo Ungaretti ammette infatti che si tratta della seconda volta che scrive di cinema e che in entrambi i casi deve la sua incursione all’ammirazione per il lavoro di Charlie Chaplin. 5 Oltre all’attenzione dedicata a questo film dalla «Critica cinematografica» (Giulio Bollati, Un vagabondo ha fatto fortuna, anno I, n. 1, gennaio-febbraio 1946; Antonio Marchi, Charlot sulla ghigliottina, anno III, n. 8, aprile-maggio 1948; Gianni Pozzi, Charlot sulla ghigliottina, anno III, n. 9, giugno-luglio 1948), si ricordi almeno il dibattito promosso da «Bianco e Nero» nel maggio 1948, anno IX, n. 3 (e quindi con un significativo seppur minimo ritardo rispetto alla «Critica»): Carlo Bo, La morale di Monsieur Verdoux; Luigi Chiarini, Parabola di Charlot e Chaplin; Mario Verdone, Elementi per uno studio della psicologia di Charlot; James Agee, Monsieur Verdoux.
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film di Chaplin e il ritmo della poesia (anzi, proprio nel ritmo Ungaretti riconosceva «il segno più sicuro dell’originalità di un regista»): La ricerca del ritmo consisteva nella scansione più o meno accentuata da figura a figura, nel raggruppamento di figure separate dal successivo raggruppamento da un intervallo più o meno breve; ma la fondamentale durata di cui andava tenuto conto, si svolgeva da figura a figura (da atteggiamento a atteggiamento, da gesto a gesto), come in poesia da piede a piede, o da sillaba a sillaba. Insomma, per usare il linguaggio della tecnica poetica, in Charlot io vedevo sillabe, versi, strofe. Charlot aveva concepito e componeva un film come un poema, come un balletto.6
Mentre sull’altro versante, cioè per quanto concerne le possibili affinità tra cinema e romanzo e cinema e narrativa, sebbene qualcosa in passato fosse già emerso (si pensi soltanto agli evidenti influssi del cinematografo su alcuni romanzi di Vasco Pratolini), può legittimamente apparire se non proprio precoce almeno non attardata la posizione espressa nell’articolo di Mario Colombi Guidotti. Il narratore parmigiano intravedeva una facile traducibilità dei testi di Hemingway in film,7 anche in questo caso non semplicemente per fattori legati al montaggio, ma per aspetti molto più circostanziati: il dialogo hemingwaiano,8 l’ambiente («ideale per la sua vastità, per la sua apertura ideale, per il suo senso umanissimo, per un suo fondo di una specie di ottimismo [...]. Un materiale cinematografico straordinariamente abbondante»),9 e infine il monologo interiore e i flashback. 6
Giuseppe Ungaretti, La quadratura del circolo, cit. Mario Colombi Guidotti, Appunti per un Hemingway al cinema, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 2, marzo-aprile 1946. Colombi Guidotti qui parla espressamente di «una sostanziale parentela di cinema e racconto». Da segnalare, tuttavia, in merito allo stesso argomento, cioè al rapporto tra cinema e narrativa, un intervento singolare e interessante, ma di segno esattamente opposto: quello, di Vasco Pratolini apparso su «Bianco e Nero», (anno IX, n. 4, maggio 1948, alle pagine 14-19) con il titolo Per un saggio sui rapporti tra letteratura e cinema, in cui l’autore di Metello sostiene l’assoluta distanza tra il ritmo, l’azione, il linguaggio, la storia, l’educazione e i costumi delle due discipline. 8 Di lì a poco, quando cioè le modalità formali della prosa di Hemingway, e in particolar modo il dialogo, diverranno moda, stile comune e imitato, allora lo stesso Colombi Guidotti, e con lui la maggior parte del gruppo di letterati di stanza a Parma in quegli anni, guarderà con più distacco a certe soluzioni stilistiche, in nome di quella che acutamente Paolo Briganti definirà «medietas parmense», e cioè «una sostanziale prudenza» nei confronti delle adesioni troppo entusiastiche ai partiti letterari dell’immediato dopoguerra: le truppe, tutte schierate in difesa, degli ermetici e le agguerrite fila dei neorealisti. Cfr. l’introduzione di Paolo Briganti all’antologia da lui curata del «Raccoglitore», Parma, La Pilotta, 1979, pp. XV-XLIX, in particolare p. XLVIII. Ma a quest’altezza Colombi Guidotti è ancora particolarmente affascinato dalla narrativa americana e dalle sue riforme stilistiche (che pure non cesseranno, nelle opere più mature, di esercitare la loro influenza). Si guardi, ad esempio, il breve racconto Incinte, apparso sul numero 5 del dicembre 1946 (p. 5). Ebbene, in questo piccolo esempio ritroviamo la tipica costruzione paratattica e le ripetizioni, il tipico uso del discorso diretto, la tipica mimesi di un parlato volutamente non ricercato, il tipico gusto per il preciso ritratto d’ambiente: tutti elementi, questi, che allora rimandavano direttamente alla prosa americana. 9 Mario Colombi Guidotti, Appunti per un Hemingway al cinema, cit. 7
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E d’altra parte oggi, in sede di bilancio critico dell’esperienza letteraria novecentesca, a sessant’anni da quell’abbacinante dopoguerra e a più di cento dalla comparsa del cinema, davvero in pochi ormai si azzarderebbero a negare gli scambi tra il cinema e la letteratura, e ancor di più le loro somiglianze o i debiti che la poesia e la narrativa hanno contratto con la cinematografia. Anzi, c’è chi è disposto a riconoscere – seppur retrospettivamente e per alcune funzioni particolari e specifiche un tempo appannaggio esclusivo della scrittura – un vero e proprio passaggio di consegne, se è vero che «più che nel modernismo narrativo, quell’esercizio artistico del sogno continua a tradursi nel sistema voce/ immagini del cinema».10 O ancora, rese vane da un pezzo le ultime tardive resistenze a difesa del primato della letteratura nelle sue forme tradizionali, c’è chi ritiene – come Edoardo Sanguineti – di leggere il Novecento intero sotto il segno del linguaggio filmico (anche se qui è d’obbligo da parte nostra più d’una cautela, al punto che ci è possibile accogliere l’affermazione di Sanguineti anche come una dichiarazione pro domo sua, cioè particolarmente attenta a salvare, dalla bufera novecentesca, quei tratti – anche non strettamente letterari, ma alla letteratura omologhi – che meglio rispondono ai canoni neoavanguardistici): «Questo è il secolo delle avanguardie, perché fu il secolo delle anarchie, perché fu il secolo del montaggio. Ogni struttura linguistica apparve, e appare, articolata, organizzandosi ideologicamente, in un sistema di correlazioni tra elementi nucleari, immagini e sequenza, parole e sintagmi, suoni e ritmi».11
Qui sta dunque il succo della collaborazione assidua dei letterati a questo foglio:12 da una parte essi riconoscevano una parentela tra letteratura e cinema (magari a malincuore e non senza resistenze, magari anche scomoda e da rinnegare, fastidiosa, ma alla fine ineludibile); dall’altra andavano alla ricerca del rea-
10 Giovanni Ragone, Il consumo e le forme letterarie, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000, pp. 137-162, in particolare p. 160. 11 Edoardo Sanguineti, La linea della ricerca avanguardistica, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, cit., pp. 422-434, in particolare p. 434. 12 Non a caso il primo numero della rivista (gennaio-febbraio 1946), dopo il breve editoriale programmatico del direttore, Antonio Marchi, si apre con l’intervento di Oreste Macrì che inaugura una rubrica: Il letterato al cinema. Pur con qualche salto e non del tutto regolarmente, questa rubrica continua per diversi numeri e accoglie i contributi di Libero Bigiaretti e di Giacinto Spagnoletti. Ma a discutere di letteratura e cinema saranno in tanti: Lorenzo Bocchi, Pietro Paolo Trompeo, Gianni Granzotto, oltre a Guido Aristarco e Mario Verdone (e a Carlo Mattioli, a modo suo, naturalmente: con una illustrazione). Senza considerare la pagina letteraria riservata nel numero 5 (del dicembre 1946): in quella sede facevano capolino alcune note di Piccio sui premi letterari, un complesso e curioso pezzo di Macrì (De conversione seu inversione ermethismi), due poesie di Gian Carlo Artoni e un racconto breve di Colombi Guidotti, Incinte (vedi nota 8).
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gente più adatto con il quale misurare il grado di questa parentela, trovandolo nella posizione dell’artista e dell’opera d’arte rispetto alla “natura volgare”, alla società, alla realtà, alla vita. E tutte le posizioni di retroguardia che costellano l’orizzonte di questo dibattito troveranno via via motivazioni sufficienti nei prepotenti influssi esercitati dalla cultura del tempo, motivo per cui si giustifica l’inserimento a pieno titolo della «Critica Cinematografica» all’interno di un più vasto panorama nazionale.
2. «Mr. Lumière, I suppose», ovvero il cinema al tempo dei crociani. Rispetto alle questioni che il cinema, quasi a forza, allora contribuiva a sollevare, «La Critica Cinematografica» offrì un punto di vista estremamente complesso e intrigante. Se la residenza della rivista, collocata in una piccola città come Parma, aumentava i rischi che questa soffrisse di buona parte dei vizi peculiari della provincia, tuttavia l’impostazione suggerita dal direttore, e dagli uomini che vi lavorarono con più assiduità, fu in grado di mitigare quei rischi e per certi versi di trasformarli in virtù. A facilitare il compito di Antonio Marchi – direttore del foglio, cui si aggiunse poco più tardi Fausto Fornari – fu il fatto che Parma, in quei decenni, divenne luogo di incontro per un nutrito gruppo di intellettuali che – soprattutto dopo la guerra di Liberazione – trovò nella a volte oziosa e a volte alacre dimensione di una provincia sensibile e inquieta il terreno ideale per sfuggire alle lusinghe, forse troppo ingenuamente deterministiche, della nuova cultura. 13 La provincia, insomma, pur con contraddizioni e ripensamenti che non tardarono a manifestarsi nei più importanti dibattiti culturali degli anni immediatamente successivi,14 venne intesa dai protagonisti di
13 Per un quadro esaustivo si veda Paolo Lagazzi (a cura di), Officina parmigiana, Parma, Guanda, 1994, e in particolare, l’articolo di Oreste Macrì, Memoria del mio decennio parmense (1942-1952), ivi, pp. 297-320 (poi anche in «Aurea Parma», anno LXXVIII, fascicolo II, maggio-agosto 1994, pp. 113-140). 14 Mi riferisco alla questione circa il rilievo da attribuire ad uno “sguardo provinciale” sulle cose del mondo, sollevata dapprima nelle pagine del «Raccoglitore», inserto quindicinale della «Gazzetta di Parma», e successivamente, con più consapevolezza teorica, su «Palatina». Se il «“Raccoglitore” attuò, si può dire, una sorta di espansione rispetto alla topografia culturale strettamente cittadina, un’apertura non all’insegna della “sprovincializzazione” ma, semmai, con l’intenzione (in fondo molto più aristocratica) dell’interrelazione alla pari sia con i centri dove si compivano per tradizione i riti della cultura, sia con i luoghi tradizionalmente defilati» (Paolo Briganti, Introduzione al Raccoglitore, cit. p. XX), viceversa Attilio Bertolucci, nell’editoriale che inaugurò la fortunatissima esperienza di «Palatina», propose la provincia non tanto come una tribuna distaccata e perciò facilitata all’osservazione dei fenomeni culturali più complessi, quanto piuttosto come vera alternativa alle spinte della cultura di massa (cfr. Perché Palatina, in «Palatina», anno I , n. 1, gennaio-marzo 1957, pp. 3-4). Contro questa posizione si esprimerà, amichevolmente, un altro redattore della rivista, rimasto anonimo, il quale sosterrà (Dialogo, in «Palatina», anno I, n. 2, aprile-giugno 1957, pp. 3-4) «che provincia è un punto di partenza e non d’arrivo». Per
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quell’esperienza come punto di equilibrio privilegiato, luogo opportunamente distaccato dai “tumulti” culturali postbellici e da cui poter affrontare le questioni importanti, senza – come scrive sul primo numero della rivista lo stesso Marchi – «le contaminazioni della produzione e degli interessi, le relazioni non sempre gratuite e gli inevitabili accomodamenti».15 Questo per dire, a scanso di equivoci, che gli evidenti ritardi manifestati da alcune posizioni dei letterati sulle pagine della «Critica» non possono essere spiegati dalla matrice provinciale del foglio, poiché, nonostante questa matrice, «La Critica Cinematografica» non può esser detto un giornale culturalmente provinciale. Valga, a garanzia di ciò, la varietà e il prestigio dei collaboratori e delle firme e il fatto che gli animatori della rivista scelsero di dar risposta, per loro inclinazione, ad una naturale vocazione cosmopolita anziché rimanere confinati entro le mura cittadine (in questo senso va riscontrato inoltre che vennero aperte, oltre a quella di Parma, due redazioni extra moenia: una a Roma e l’altra a Venezia). Insomma, analoghe posizioni di retroguardia potevano, sul finire degli anni Quaranta, essere ospitate su riviste che fossero venute alla luce a Milano come a Parma, a Firenze come a Roma. Anzi, la strana coabitazione, nelle stesse pagine, di veri e propri pionieri della filmologia (come Verdone, Aristarco e Bianchi) con intellettuali più o meno definibili attraverso i paradigmi classicamente umanistici (Bigiaretti, Macrì, Trompeo, Arcangeli, Spagnoletti), e perciò forse ancora impreparati alle fascinazioni del cinema, ebbene, proprio questo pluralismo di vedute e di approcci testimonia di una vivacità culturale e di una manifesta noncuranza verso dettati ideologici assolutamente rare. È dunque proprio in ragione di questa idea di provincia illuminata che si può spiegare il paradosso per cui ad accogliere alcune posizioni di stupita retroguardia fu proprio una rivista dedicata alla decima musa. Presso questi irriducibili umanisti al cinema dovevano far difetto i confini indicati dall’estetica del Croce e soprattutto quelli dei peripli percorsi con eccessiva sicurezza dai suoi più zelanti ambasciatori. Non solo, ma in una cittadella diventata per lo più post ermetica – come fu parzialmente Parma in quegli anni –16 l’aderenza assoluta al «Palatina» si veda Paolo Lagazzi (a cura di), Palatina, Parma, La Pilotta, 1981. Mentre, relativamente a questo dibattito, le osservazioni più approfondite rimangono quelle di Briganti, cit. 15 Antonio Marchi, Avvertenza, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 1, gennaio-febbraio 1946, p. 1. 16 L’impasto creato dalla presenza degli ex ermetici a Parma diede risultati alquanto interessanti. Ne uscì – diciamolo genericamente – quell’“officina parmigiana” di cui parla Pasolini, e che fu un tentativo di superamento dei limiti dell’ermetismo pur restando nell’alveo di una tendenza «leggermente regressiva e conservatrice» (Pier Paolo Pasolini, Officina parmigiana, in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1994 – prima edizione, 1960 –, p. 457). Di questa linea delicatamente postermetica sono un esempio abbastanza indicativo i due testi di Gian Carlo Artoni apparsi sulla «Critica Cinematografica» nel numero 5 del dicembre 1946 (p. 5).
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dato fenomenico, alla realtà, insomma, cui allora il cinema sembrava indissolubilmente vincolato, doveva, per forza di cose, destare più di un sospetto. Ma a queste tensioni faceva resistenza la natura di questa stessa provincia, la quale, al contrario, serviva da ricchissimo fertilizzante per il dibattito. La colonia di ermetici si andava a posare sulla particolare humus parmense, un ambiente, questo, nel quale esercitavano il loro magistero intellettuali che del cinema avevano accolto appieno le potenzialità espressive, le mutate prospettive artistiche, il carattere di arte sincretica ma non per questo “impura”. Del resto, alla fonte di Zavattini (presente a Parma per diversi anni prima della guerra) si erano via via abbeverati, con reciproca soddisfazione, Pietro Bianchi e Attilio Bertolucci e, proseguendo per li rami, gli stessi Marchi e Fornari.17 Risultano così dissonanti, un po’ stonate, accanto agli affondi degli specialisti e alle aperture di credito di intellettuali come Bertolucci, Bianchi e Marchi le apocalittiche – per quanto non superficiali – diffidenze verso il cinema, che pure fanno capolino in più di un’occasione; soprattutto alla luce del fatto che già da diversi anni il dibattito aveva registrato consensi anche entusiasti nei confronti della settima arte, e da parte di non pochi letterati (per motivi cronologici e biografici certamente non accusabili di concessioni incondizionate alle sirene dell’engagement). Basti consultare il famoso numero monografico di «Solaria» del marzo 1927, interamente dedicato al cinema: si può notare come le posizioni più arretrate dei letterati della «Critica» non abbiano fatto un solo passo in avanti rispetto a quelle espresse venti anni prima. È in quell’occasione, infatti, che Emilio Cecchi, uno dei più celeri a riconoscere piena dignità artistica al cinematografo, lamentava una critica cinematografica immatura, che affrontava il fatto cinematografico attraverso la lente dell’ermeneutica letteraria. Ed è ancora in quella sede che, a fronte delle opinioni contrarie espresse da Grande, da Angioletti, da Bacchelli, da Franchi o da Pancrazi, si trovano le posizioni ormai più avanzate di Debenedetti, di Consiglio, di Gromo, di Ugo Betti, di Montale (seppur con riserve) e, naturalmente, dell’antesignano Luciani, nonché – ma siamo nel nu-
17 Per un panorama della straordinaria fioritura della passione per il cinema avvenuta a Parma dagli anni Trenta in poi si vedano Roberto Campari, Parma e il cinema, Parma, edizione della Banca del Monte di Parma, 1986, e Giuseppe Calzolari, Il cineclub di Parma e altri circoli. 1937-1962, Parma, PPS, 1995. Numerose poi sono le testimonianze riguardanti le incursioni portate nel campo cinematografico dal professor Attilio Bertolucci, allievo di Longhi e insegnante di Storia dell’arte presso il liceo Maria Luigia. Riportiamo qui, per affinità con la nostra ricerca, quella di Fausto Fornari, raccolta in un piccolo opuscolo a cura di Giampaolo Parmigiani (Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Intervista con Fausto Fornari, realizzato in occasione della proiezione del cortometraggio presso il Teatro Europa di Parma, lunedì 22 aprile 2002, Parma, Tecnografica, 2002), nella quale il condirettore della rivista ricorda che «al Liceo, Attilio Bertolucci [...] nella stessa ora parlava indifferentemente del Mantegna e di Pabst, di Murnau e di Gauguin, di Renoir padre e di Renoir figlio», p. 8.
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mero di dicembre dello stesso anno – di Giansiro Ferrata. Insomma, come ebbe modo di scrivere, molti anni dopo, Mario Verdone, dal dibattito di «Solaria» (e da quelli del «Baretti», del «Convegno», della «Fiera letteraria») emergono dignità di scrittura nel giornalismo e poi nella saggistica cinematografica, inaugurata dall’Alberti, dal Luciani, dal Cecchi, dal Gerbi, dal Debenedetti; autorità di firme; capacità di inserire l’esercizio critico in un discorso culturale più generale; accettazione ormai ineliminabile di rubriche fisse, nei cosiddetti “sofà della muse” dei settimanali a grande diffusione e nei periodici graditi alle persone colte. E per contro: condanna, mediante la qualità degli interventi, delle approssimazioni pseudocritiche, dei provincialismi, delle “formulette”, delle concessioni facili e immotivate all’elogio, delle informazioni da notiziario, da relegare definitivamente nel giornalismo pubblicitario o nella sola cronaca.18
O basti pensare, ancora, a quel vero e proprio elogio del cinema quale sarà quello di Giaime Pintor, uscito postumo su «Aretusa» nel marzo del 1945 a cura di Carlo Muscetta. Con il tipico stile retoricamente coinvolgente dei giovani intellettuali di tradizione illuminista, una delle avanguardie più provvedute dello schieramento antifascista, Pintor dipinge un ritratto del cinema intendendolo come un simbolo ideologico di progresso, una segno di civiltà, quasi uno strumento di formazione civile, di affrancamento dagli “idoli” propagandati dai regimi europei: «[...] Il cinema entrò nella nostra vita; cresciuto con la nostra stessa giovinezza ci insegnò a vedere e a comporre secondo nuove misure, modificò la storia e la geografia nei nostri cervelli, fu insieme scuola e polemica, divertimento e mitologia».19 Per Pintor l’esperienza rivoluzionaria del pragmatismo ottimista, del vitalistico e democratico soggettivismo americano, trova la propria narrativa e il proprio linguaggio nel cinematografo, di contro alla società europea, ancorata anacronisticamente ad un romanticismo ormai estenuato e portatore dei germi del totalitarismo mistico nazifascista, che riprendeva «i temi di una cultura decadente» o che adottava «formule, come quella surrealista, necessariamente sprovviste di futuro»:20 Certo il cinema è nato in Europa e in Europa ha fatto le sue prime prove; ma appena uscito dallo stadio infantile, è diventato una mediocre appendice
18 Mario Verdone, «Solaria» e il cinema, in Gloria Manghetti (a cura di), Gli anni di «Solaria», Verona, Bi&Gi, 1986, pp. 175-178, in particolare p. 178. Sugli stessi problemi si veda anche ID., Gli intellettuali e il cinema, Roma, Edizioni di «Bianco e Nero», 1952. 19 Giaime Pintor, Americana, nella sezione La lotta contro gli idoli, in Il sangue d’Europa, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1950, pp. 208-219, in particolare, p. 217. 20 Ivi, p. 216.
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delle nostre letterature. L’equivoco di un’estetica rigida su presupposti discutibili ha fatto sì che per anni si agitassero i problemi più fatui: chi sia l’autore del film, in che rapporto si trovi l’attore col regista. Solo in Russia il cinema aveva riconosciuto la sua strada e la seguiva con la naturalezza di chi non cerca una giustificazione araldica, ma si affida allo slancio delle proprie forze. E quando qualche anno dopo rinacque in America con la stessa facile spontaneità ma dotato di una molto maggiore capacità di espansione, i custodi del gusto letterario incorrotto cominciarono a piangere sulla industrializzazione, sulla decadenza dell’arte muta e su altre sciagure da laboratorio.21
Gli argomenti contro cui muove la polemica di Pintor sono esattamente gli stessi sostenuti qualche tempo dopo da alcuni letterati che parteciparono al dibattito della «Critica», i quali si fanno portavoce di «quell’estetica rigida su presupposti discutibili» di cui parla Pintor, alludendo evidentemente all’estetica crociana, o meglio: agli esiti pratici cui molti intellettuali di allora pensarono di poter e dover giungere applicando senza mediazioni «l’identità di intuizione ed espressione, kantianamente sentita come sintesi a priori e affermata come identità di forma e contenuto»,22 proposta dal Croce nella sua Estetica. Come interpretare, infatti, gli appunti mossi da Bigiaretti, il quale, nel suo pezzo, attraverso un rigoroso quanto decontestualizzante utilizzo dei princìpi del Croce, arriva a negare che il cinema sia un’arte, poiché esso non lascia spazio al senso critico dello spettatore travolgendolo con la sua capacità di manipolare e suscitare ad arte i sentimenti del pubblico; per la «meccanicità dei mezzi di cui si serve quanto per la mancanza di impronta rigorosa di un’unica personalità creatrice»; perché, pur essendo «giunto alla maturità tecnica, o quasi, è ancora spiritualmente infantile», dovendosi rivolgere al teatro e alla letteratura nella scelta dei soggetti; e infine perché «gli interessi che presiedono alla produzione di un film ne tradiscono l’autonomia, la libertà», dovendo essere necessariamente orientati alla soddisfazione dei gusti del pubblico e al conseguente successo di botteghino.23 Paradigmatico è anche il punto di vista di Sergio Frosali, che in due occasioni si esprime contro l’artisticità del cinematografo. Ancora una volta le motivazioni prendono a prestito grosso modo le griglie critiche crociane, se è vero che per il giovane Frosali al cinema si potrebbe riconoscere una possibilità d’arte solo laddove ci fosse «un’unica luce creatrice di fantasia che dona una ragione ultima a quegli oggetti» che vengono ripresi dalla camera, «a quelle persone, a quei 21
Ibidem. Gianfranco Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, in ID., Altri esercizi (1942-1971), Einaudi, Torino, 1972, p. 38. 23 Libero Bigiaretti, Risposta di un narratore, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 5, dicembre 1946, pp. 1-2. 22
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suoni e li iscrive in un mondo fantastico, assoluto e perfetto, che non è il mondo della realtà creata, ma della realtà inventata».24 E anche per Frosali, come per Bigiaretti, e non del tutto a torto «il cinema rimane troppo legato a coefficienti economici per potersi prendere la libertà di infischiarsi del pubblico»25 e per poter essere frutto della libera intuizione del regista (all’ispirazione del quale, per altro, vengono imposti troppi vincoli e troppe necessità, tanto che «il creatore di cinematografo non potrà superare quasi mai il livello di un buon romanziere di terz’ordine»).26 Ma se a smentire gli stessi crociani sarà proprio Benedetto Croce con la nota lettera apparsa su «Bianco e Nero»,27 a dar loro manforte, in una curiosa ma non eccezionale alleanza, sarà invece il manipolo ermetico, per voce di Oreste Macrì. Agli intellettuali di matrice ermetica, infatti, il cinema era disciplina sospetta, troppo compromessa con la realtà. In un momento storico nel quale il dibattito tra ermetici e neorealisti diventava estremamente acceso, agli occhi dei primi tutto ciò che poteva essere sbilanciato dalla parte del documento diventava oggetto di sostanziali perplessità (figurarsi, dunque, un’arte che riprendeva direttamente i dati fenomenici e li riversava, almeno apparentemente, tali e quali sul pubblico). Ecco che, pur partendo da presupposti non del tutto sovrapponibili, ugualmente la polemica di Macrì finisce per utilizzare in parte gli stessi argomenti che più avanti ritroveremo tra i crociani. Nell’articolo di Macrì28 si riconosce una sensazione prevalente di disagio e disorientamento di fronte a un’«arte demonica, dionisiaca» (più avanti verrà definita anche «eraclitea» e «orgiastica»), un disagio avvertito soprattutto in relazione alla propria identità di «letterato-umanista», per il quale, come tale, l’arte è la sintesi «delle istanze della pura coscienza e di sensibili della natura». Il cinema per Macrì è travolgente poiché non è frutto di una sintesi artistica, è troppo immediato, pone senza discrezione di fronte alla realtà del documento, al punto che lo sguardo dello spettatore «nulla può dirigere, fermare, interpretare», ed egli si
24 25
Sergio Frosali, Cinema falso, in «La Critica Cinematografica», anno I, nn. 3-4, settembre 1946, p. 2. ID., Cinema. Arte inferiore?, in «La Critica Cinematografica», anno III, n. 9, giugno-luglio 1948, p. 4.
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Ibidem. Sulla stessa scia si pone poi l’intervento di Gianni Granzotto, Il romanzo in fotogrammi (anno III, n. 8, aprile-maggio 1948, p. 6), nel quale si legge: «Io credo che il problema stia, per l’appunto, nella diversità delle due tecniche, quella del cinema e quella del romanzo; e nella sostanziale differenza che esiste tra l’unità di ispirazioni del genere letterario, e la pluralità di quello cinematografico». 27 Benedetto Croce, Una lettera, in «Bianco e Nero», anno IX, n. 10, dicembre 1948, pp. 3-4. Tra le altre cose vi si legge: «Le distinzioni delle arti, poesia, musica e pittura e via dicendo, rendono servigio pratico alla classificazione, e cioè per la considerazione delle opere d’arte per l’esterno, ma non valgono dinanzi alla semplice realtà che ogni opera ha la sua propria fisionomia e tutte la stessa natura, perché tutte sono alla pari poesia, o, se così piace meglio dire, tutte sono musica, o tutte pittura, e simili. Dunque un film, se si sente e si giudica bello, ha il suo pieno diritto, e non c’è altro da dire». 28 Oreste Macrì, Letterato al cinema, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 1, gennaio-febbraio 1946, p. 1.
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sente «come di fronte alla natura, alla vita, quando queste sono più eccessive e imperiose». Se l’arte presuppone strumenti parziali (la parola, il marmo, il colore) che costringono l’artista e lo spettatore ad esercizi logico-analogici, non così agisce il cinema – che insieme al romanzo sarebbe il sintomo della disintegrazione della forma classica – dal momento che è costretto a rifarsi ad un sincretismo di strumenti, alle commistioni, all’eclettismo delle trame, miranti a introdurre il moto effettivo della via polivalente plurisensibile, insieme con le figure del mondo o naturali o deformate della soggettività romantica attraverso un potenziamento all’infinito delle due in un tempo unico onde attingere il quadro della vita nella sua assoluta oggettività. [...] Ingrandita tale oggettività dell’arte, si postulava altrettanto immane la soggettività contemplante: lo spettatore doveva identificarsi con l’intera umanità.29
Ma il vero punto centrale della riflessione di Macrì, il vero limite ontologico che egli riscontra, sebbene pregiudizialmente, nel cinematografo è compreso in queste considerazioni: L’arte del regista è una lotta perenne contro il naturalismo meccanico, ma rimane inventrice di pure modalità illustrative e funzionali nei riguardi della forma, della «rappresentazione». Nei riguardi del «decoro classico», la realtà prodotta da quest’arte è irresponsabile, come tutte le riduzioni al documento essenziale della vita.30
Certo, nelle pagine della nostra rivista talora registriamo, relativamente al rapporto tra il cinema e la letteratura, anche varchi di tutt’altro segno. Senza voler considerare quelli indicati dagli “specialisti”, come Guido Aristarco o Mario Verdone,31 e dopo aver ricordato quelli proposti da Ungaretti e Colombi Guidotti, segnaliamo almeno quello aperto da un letterato come Giacinto Spagnoletti,32 il quale parla, con tono critico, della diffidenza dei letterati nei confronti del cinema, specie dei poeti, spiegandone l’altezzoso contegno con il timore che il prestigio montante del cinema e dei registi arrivi a oscurare quello della poesia (e
29
Ibidem. Ibidem. 31 Il primo (Il momento dei poeti, cit.) descrive in rapida rassegna il parere di alcuni letterati intorno al cinema per giungere alla condivisione dell’auspicio di Béla Bálász di avere finalmente dei poeti del cinema; mentre il secondo (I poeti nel cinema e il cinema nei poeti, cit.) ripercorre dapprima il contributo dei poeti al cinema (dalle didascalie di D’Annunzio in Cabiria, ancora sostanzialmente estranee al ritmo del film, agli interventi più coerenti di Auden in Coalface di A. Cavalcanti) e quindi, dal lato opposto, gli influssi del cinema sulla poesia (dal fascino esercitato su alcuni autori come Apollinaire, Gozzano, Mauriac, alla poesia costruita sulla base di precise suggestioni cinematografiche: è il caso di Jacques Prévert in La grasse matinée). 32 Giacinto Spagnoletti, Letterato al cinema, in «La Critica Cinematografica», anno III, n. 8, aprilemaggio 1948, pp. 1-2. 30
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Spagnoletti è persino profetico, laddove, citando Huxley, prefigura la notorietà globale, globalizzata, di Dick Tracy e Superman).
3. A mo’ di conclusione: il reale necessario. Veniamo, per concludere, alla seconda questione: «La Critica Cinematografica» ospitò tra le sue pagine schegge del dibattito allora più urgente, quello della contrapposizione tra la cultura solidamente umanistica dell’ermetismo e la sopraggiungente prassi neorealista. Questa contrapposizione tuttavia non fu soltanto l’espressione di una normale dialettica storico artistica, fu qualcosa di più, lo testimoniano le asprezze degli attacchi e la posta in palio. Sul piano puramente letterario lo scontro era portato in nome di un’esigenza di cambiamento e poteva apparire una reazione «alla letteratura del passato prossimo, a quelle che erano le qualità di meditazione e di decantazione», una reazione condotta in base al bisogno di «opporre la vita alla memoria, l’azione alla meditazione, la scrittura immediata e il più delle volte sciatta alla scrittura calcolata, allo sforzo artistico, vale a dire contrapporre una nuova immagine della letteratura d’invenzione a un’immagine vecchia, in parte stanca e abusata che aveva dominato il periodo fra le due guerre».33 In realtà dietro ai nodi formali si nascondevano, neppure troppo velatamente, intrichi ben più complessi e di tutt’altro genere; si celavano cioè gli elementi costitutivi di quel magmatico periodo culturale di cambiamento, e in particolare: a) l’esperienza resistenziale e gli investimenti ideali che questa determinò sia a livello politico sia a livello estetico (il coinvolgimento delle masse popolari nella gestione del potere, insomma, non era soltanto un sogno politico che sembrava avverarsi grazie all’esperienza condivisa della guerra di Liberazione, ma significava anche la traduzione, ad esempio in letteratura, in una lingua e in una sintassi quotidiane, dell’esperienze di tutti i giorni, delle cronache dei fatti partigiani, delle lotte di popolo, dell’arretratezza del sud, dell’esperienza dei campi di concentramento); b) «il clima generale dell’epoca», come scriverà Calvino, in ragione del quale la virata realista non fu tanto la vittoria delle istanze extraletterarie sulle ragioni della letteratura, quanto al contrario una chiara volontà di poetica, dato che «gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura», e il vero problema appariva essere «di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mon-
33 Carlo Bo, Romanzo e società nell’Italia degli ultimi dieci anni, in «Paragone», anno VIII, n. 88, aprile 1957, pp. 3-23, in particolare p. 3.
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do» che «allora sembrava essere il mondo»;35 c) il preciso tentativo di accompagnare a un ordine nuovo in politica un ordine nuovo anche in cultura, che facesse, se necessario con forza, piazza pulita delle correnti e delle poetiche che per la loro silenziosa prudenza avevano convissuto con il regime fascista. In un noto articolo apparso nel 1944, sul numero 4 di «Rinascita», Fabrizio Onofri scriveva che l’arte, la cultura, la letteratura italiana non hanno fatto niente per opporsi al fascismo, per separare le proprie sorti da quelle del fascismo. Esse hanno proseguito senza grandi scosse per la china su cui da tempo si erano messe, non hanno trovato nel fascismo che un’occasione di più per accentuare le tendenze e i caratteri che erano già loro propri.36
Insomma, secondo la vulgata più vicina all’ortodossia marxista, gli artisti italiani, malati di «deficienza morale, aridità umana, egoismo e grettezza»,37 avevano imbrigliato ogni esigenza di rinnovamento entro «i limiti di uno stile e di un linguaggio ancora allusivi e simbolici [...], sintomi ultimi e più generosi di una crisi, piuttosto che come preannuncio della soluzione».38 A fronte di questi scenari così radicalmente nuovi e di questi attacchi così precisi, coloro che erano stati i protagonisti della cultura ermetica si difendevano con altrettanto vigore e con altrettanta virulenza. Al punto che, invitati a parlar di cinema, essi per lo più rispondevano indicando nella decima musa uno strumento naturalmente realista, per propria costituzione portato più alla registrazione passiva del documento che alla sua rielaborazione tecnico-artistica (e d’altra parte le connivenze tra cinema e realismo potevano essere avallate dal successo e dall’importanza della corrente neorealista, che prendeva a sgorgare proprio a partire da una sorgente cinematografica). Quella che molti di loro ingaggiavano, dunque, era una vera e propria battaglia culturale, che dello scontro aveva tutti i toni e le fattezze. Dalla specola della nostra rivista, come si diceva, è possibile osservare qualche frammento di questo scontro, osservazione resa ancora più interessante per il fatto che, come si è accennato più sopra, la contemporanea presenza a Parma di un nutrito gruppo di intellettuali vicini all’esperienza ermetica (o di origini fiorentine)39 faceva sì che le numerose riviste che ebbero vita in quegli anni nella 35 Italo Calvino, Introduzione al Sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 1993 (prima edizione, Torino, Einaudi, 1947; seconda edizione, completa dell’introduzione qui citata, Torino, Einaudi, 1964), pp. V-XXV, in particolare pp. VII-VIII. 36 F. Onofri, Irresponsabilità dell’arte sotto il fascismo, in «Rinascita», anno I, n. 4, ottobre-novembre 1944, pp 31-35, in particolare p. 34. 37 Ibidem. 38 Ibidem.
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città emiliana riportassero tutte le eco di quello scontro.40 Nel nostro caso il destro è dato da un singolare brano, sempre di Macrì, intitolato De conversione seu inversione ermethismi, apparso sul numero 5 del dicembre 1946.41 Macrì parte da un fatto di cronaca, cioè dalla scoperta, a Milano, di alcune case di tolleranza per omosessuali, e tuttavia la sua curiosità è solleticata dal libro degli ospiti di una di queste case sul quale venivano vergate dediche e firme. Tra queste quella di Vittorio Gassman, che, rivolgendosi a “Madame Reale” la maitresse della casa (che già nel nome rivela una sorta di dichiarazione culturale), scrive: «Siamo tutti sospesi ad un tacito evento questa sera... con molta simpatia a “Madame Reale”, alla sua Corte, alla sua Casa: altro mondo, ma certo un mondo». È proprio su quest’ultima frase che Macrì ferma la sua attenzione: Gassman – che Macrì dice «preparatosi alla severa scuola dell’ermetismo», cioè su una cultura essenzialmente umanistica e autonomamente letteraria – con quella dedica si limita a registrare, con arguzia e con stile,42 la dimensione capovolta di “Madame Reale”, riportando sulla pagina la concretezza di quell’“universo”; dà piena legittimità a una realtà alla quale, sulla base dei canoni ermetici, si sarebbe giunti per artificio, attraverso il filtro della poetica. Dichiararne un’esistenza così necessaria, e proporla senza mediazione artistica, è segno di una conversione definitiva e irrimediabile, da parte di una generazione di umanisti, verso il sociale, verso la cosiddetta «cultura di sinistra» (nei confronti della quale Macrì ammette che tra gli autori della stagione precedente vi fosse un’inclinazione quasi naturale: in astratto però, fondata su elementi puramente verbali e figurati). Questa conversione sancisce il ribaltamento della posizione dell’artista ri39 Oltre a Mario Luzi e a Oreste Macrì, orbitarono intorno a Parma (in alcuni casi intessendo soltanto proficui rapporti di collaborazione) anche Carlo Bo, Giacinto Spagnoletti e Ottone Rosai, insieme a un agguerrito manipolo di allievi di Giuseppe De Robertis, tra i quali Giorgio Luti, Francesca Sanvitale e quella che diverrà moglie di Colombi Guidotti, cioè Isa Guastalla. Per un quadro completo della situazione rimando ancora a Paolo Briganti, introduzione al Raccoglitore, cit., in particolare alle pagine XXIV e seguenti. 40 Ad esempio, si incontra ancora sul numero 21 del «Raccoglitore» del 21 agosto 1952, un articolo sempre di Oreste Macrì intitolato Tra realisti e ultimi ermetici, sul quale si possono leggere frasi di questo tipo: «Non abbiamo ancora varcato la quarantina e questi giovani cercano di affossarci» (Macrì si riferisce alla «Rivista di poesia», di dichiarata fede realista, che portava ripetutamente attacchi in ossequio alla «vieta topica antidealisitica, antiastrattistica, anticrociana, antisoggettivista, antiformalistica, in una, antiermetica»); o ancora: «Questi giovinetti sono padronissmi di eliminarci da una valida tradizione della poesia e della critica italiane, ma resta loro da capire che la nostra generazione ha macerato e assimilato, pronta per essere rimessa alla loro generazione, quella planetaria esperienza poetica che essi confusamente e empiricamente si sforzano di scimmiottare». Ora in Paolo Briganti, a cura di, Il Raccoglitore, cit., pp. 73-74. 41 Oreste Macrì, De conversione seu inversione ermethismi, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 5, dicembre 1946, p. 5. 42 Almeno così annota Macrì, avvertendo che la prima parte della dedica è una citazione da Terrazza di Sereni: «Improvvisa ci coglie la sera. / Più non sai / dove il lago finisca; / un murmure soltanto sfiora la nostra vita / sotto una pensile terrazza // Siamo tutti sospesi / a un tacito evento questa sera / entro quel raggio di torpediniera / che ci scruta poi gira se ne va» (in Frontiera, del 1941, ora in Vittorio Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 32).
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spetto alla realtà: non è più il poeta ad essere soggetto attivo nei confronti della materia, a manipolarla, a farne sintesi e quindi poesia, ma è la realtà che determina la poesia. Conclude Macrì: L’incontro dell’astratto e del concreto, dell’arte e della vita, della letteratura e della società, è avvenuto nel concreto, nella vita e nella società; non questi sono in noi, ma noi in loro. È questa la nuova schiavitù, da cui l’arte dovrà riprendere la sua ultima libertà, se ne sarà degna. Noi non sembriamo più i soggetti dell’arte.
Il quesito principale che si scopre nel dialogo e negli interventi dei letterati sulla «Critica cinematografica» sembra dunque riguardare il modo di porsi nei confronti della realtà, dilemma che, invero, all’indomani della fine della guerra riguardava gran parte degli intellettuali. Un problema che non rientrava semplicemente all’interno degli argini della più vasta questione dell’engagement, ma che pretendeva una soluzione a monte: come doveva comportarsi l’artista di fronte al mondo, alla vita? E curiosamente tra le pieghe di quelle che allora sembravano le costrizioni entro cui dovevano muoversi i cineasti – cioè proprio i vincoli dell’ingombrante presenza della realtà – umanisti attratti dalle altezze della fantasia, crociani avvinti dalla ricerca della sintesi poetica perduta e specialisti delle tecniche del cinema dovevano incontrarsi, sulle colonne di questo giornale, nel tentativo di succhiare il midollo della natura, di rintracciare quello “scatto” capace finalmente di collocare un’operazione culturale nel territorio dell’arte, di riuscire a spiegare quell’antico incantesimo – la cui composizione e la cui formula sono tuttora ignote – che traduce il fenomeno in poesia.*
* Questo articolo è dedicato a Milla e Giuseppe, cinefili, appassionati umanisti, che per primi mi parlarono della «Critica Cinematografica» a Venezia qualche anno fa.
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«La Critica Cinematografica». Un primo laboratorio dell’officina parmigiana
Nell’apertura di un articolo apparso sul settimo numero della «Critica Cinematografica»,1 Guido Aristarco riportò alcune significative parole espresse poco più di vent’anni prima dal grande teorico del cinema Béla Bàlàsz: «L’arte del cinema reclama voce e voto, vuole un rappresentante tra di voi, vuole essere oggetto degno delle vostre meditazioni, chiede un capitolo in quei grandi sistemi in cui si parla di tutto fuorché di cinema».2 Il tempo e la voce dei poeti, invocate dalle parole di Bàlàsz e dal titolo stesso dell’intervento di Aristarco, non si riferivano, si affrettò a spiegarci il critico italiano, «a Döblin o a Zuckmayer», ma erano rivolte direttamente, come definitivo riconoscimento dell’autonomia estetica del cinema, «ai “poeti dello schermo”», ossia ai Clair, ai Pudovkin, agli Eisenstein, escludendo, quasi lapidariamente, la necessità di chiedere di nuovo alla cultura “laureata” il conclusivo sdoganamento artistico del cinematografo. Le parole di Bàlàsz, riprese e ampliate da Aristarco, richiamarono con prepotenza quella dichiarazione d’intenti programmatici con cui la vita
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D’ora in avanti «La Critica». Guido Aristarco, Il tempo dei poeti, in «La critica cinematografica», anno II, n. 7, settembre 1947, p. 5. Per chiarire, riporto un più ampio stralcio dall’articolo: «Béla Bàlàsz, dopo l’avvento del sonoro ha scritto: “Ora è venuta l’ora dei poeti, dei migliori, dei grandi”. L’affermazione, come sempre, è stata fraintesa. Quando il teorico ungherese parla dei poeti, non si riferisce a Döblin o a Zuckmayer, ma ai poeti dello “schermo”: a un Vidor o a un Clair. “È sperabile – riferisce Arnheim – che i poeti, nel loro interesse e in quello dell’arte sappiano resistere a queste lusinghe, che significano per loro rapida notorietà e facili incassi. I poeti non vi farebbero mai buona figura. Non si chiede a Pudovkin o ad Eisenstein di scrivere romanzi, non si chiede nemmeno a Döblin o a Zuckmayer di fare dei film. L’arte del cinema ha bisogno di artisti cinematografici”». 2
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della «Critica» era iniziata poco meno di due anni prima.3 Nell’incipitaria Avvertenza un anonimo autore (molto probabilmente il giovane fondatore Antonio Marchi) chiarì che l’oggetto privilegiato di studio sarebbe stato il «cinema “puro”», ovvero quel cinema in cui si vedeva (e si voleva vedere) riconosciuta la centralità del regista nell’opera di definizione artistica del film; un cinema fatto dai «poeti» dell’arte cinematografica, dunque, proprio come diceva Bàlàsz, che s’imponeva come «modo d’espressione autonoma»,4 non un cinema (e una critica cinematografica) che chiedeva ancora aiuto agli scrittori, che sentiva ancora il bisogno del riconoscimento artistico dei letterati. È su questo punto che l’intervento di Aristarco sembra porsi in una linea di continuità evolutiva rispetto agli iniziali intenti della «Critica»,5 quasi a voler indicare nuove strade per la maturazione estetica della rivista: a svelare l’abbaglio preso dai letterati, che forse avevano frainteso le parole di Bàlàsz, pensò dunque Aristarco, il quale riconobbe l’importanza e i meriti degli apporti estetici e critici offerti da scrittori e studiosi di letteratura, ma al contempo ne denunciò sarcasticamente il fondamentale errore di essersi avvicinati al cinematografo analizzandolo attraverso categorie non prettamente cinematografiche, errore che induceva molti letterati a sostenere un’idea di non poeticità del cinema. Probabilmente non fu un caso che tale articolo apparisse nel settimo numero della «Critica», ossia l’ultimo della prima serie – quella in formato quotidiano –, forse uno dei più faticosi e confusi nella sua storia, in quanto alla significativa diminuzione del numero di pagine e, dunque, di articoli e alla presenza di nuove interrogazioni o di faticosi riconoscimenti sull’effettiva artisticità del cinematografo, si affiancarono nuovi ambiti tematici d’indagine più specificamente tecnici, come stanno a testimoniare, ad esempio, gli interventi dedicati al cinema di Eisenstein e Donskoj, al soggetto per il documentario oppure alla diffusione del cinema sovietico in Italia. La maggiore presenza di pubblicazioni specifiche sulla settima arte fa presagire, sin da una prima osservazione, l’avvenuto compimento della prima fase della rivista, che al contrario si era concentrata sul dibattito intorno alla vera natura artistica del cinema e al suo rapporto di dipendenza (o d’indipendenza) rispetto alle altre arti, in particolare rispetto alla letteratura.
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Avvertenza, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 1, gennaio-febbraio 1946, p. 1. Ibidem. 5 La rivista cominciava le proprie pubblicazioni con un invito rivolto a tutti i letterati ad intervenire sulle sue colonne per discutere di cinema: «La “Critica cinematografica” vuole adottare nelle sue pagine tutti gli scrittori italiani che credono nel cinema: e quasi per un’innocente civetteria rifiuta le riproduzioni cinematografiche, perché chi è molto innamorato non ha bisogno di tenersi davanti agli occhi l’immagine dell’essere caro»; ibidem. Quasi due anni dopo Aristarco, con il richiamo ai «“poeti dello schermo”», avrebbe effettivamente superato il “tempo dei letterati”. 4
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Dall’ottavo numero in avanti, infatti, a partire già dalla veste editoriale, la rivista sarebbe apparsa con un’impostazione critica che implicitamente rimandava ad una definitiva valorizzazione dell’arte cinematografica ed espressamente rivolgeva con maggior frequenza la propria attenzione a questioni legate allo specifico filmico, proponendosi non più come spazio privilegiato per letterati e artisti che volevano discutere di cinema, ma come luogo per specialisti deputato alla discussione cinematografica. La particolarità del processo di formazione critico-estetica compiuto dalla «Critica» – al di là delle interne vicende editoriali che comunque ebbero in tal senso una rilevante importanza – è profondamente connaturata al contesto artistico e culturale entro cui si svolse l’attività della stessa. «La Critica» nacque e visse nell’immediato secondo dopoguerra di quella Parma che, sin dalla fine degli anni Trenta, aveva visto convogliare intorno ai propri centri di propulsione culturale una generazione di intellettuali, parmigiani e non, in parte già affermati e in parte in via di affermazione, animati tutti da uno straordinario spirito di iniziativa, contraddistinto da una colta e raffinata preparazione critica ed estetica e da un profondo desiderio di apertura ad un dialogo culturale che sapesse essere al contempo extraprovinciale e multidisciplinare. Anche il cinema fu coinvolto in questa temperie culturale, divenendo spesso centro catalizzatore e animatore del dibattito cittadino e, talvolta, ponendosi come protagonista di esperienze di assoluta e primaria rilevanza su tutto il panorama nazionale. Sicché «La Critica» non fu che uno dei tanti momenti di alta cultura fioriti nella città in quegli anni, in grado, forse senza accorgersene, di rinnovare le trascorse e discontinue iniziative dei laboratori di cultura locali, e, soprattutto, capace di anticipare le più consapevoli esperienze dell’«officina parmigiana» che si sarebbe affermata negli anni Cinquanta, in quanto la rivista di Marchi e Fornari, non semplicemente riunì intorno alla propria redazione tutta la migliore intellettualità cittadina, ma elevò Parma al dialogo con i grandi centri di cultura nazionale ed internazionale. *** Antonio Marchi fu fin dagli inizi del 1946 il promotore e il fondatore di questa straordinaria iniziativa editoriale e culturale; a lui si affiancò dal 1947, in veste di co-direttore, anche l’altro giovane intellettuale e poi promettente cineasta Fausto Fornari. Come già detto, per comprendere a fondo l’esperienza della «Critica» si deve ritornare al clima culturale formatosi nell’aurea provincia parmigiana in quel lasso di tempo compreso tra gli ultimi anni del regime – a partire dalla fine del decennio dei Trenta – e l’immediato dopoguerra. Fu in tale conte43
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sto che Marchi (e in misura minore il più giovane Fornari)6 si presentò agli occhi della propria città nelle vesti di giovane critico militante che si era avvicinato al cinema in età precoce e aveva iniziato la propria formazione estetica attraversando quei vivaci e autonomi spazi culturali, in parte promossi e in parte sopportati anche a Parma dal fascismo, spazi nei quali il cinema si era imposto prepotentemente, grazie in particolare alla passione e al fervore critico di alcune imprescindibili figure intellettuali della città emiliana: fra tutte naturalmente quelle di Attilio Bertolucci e Pietro Bianchi.7 «Fu così che quasi per miracolo a Imola e a Parma si fondarono i primi cineclub d’Italia, si proiettarono film prestati da Umberto Barbaro – comunista infiltrato nel Centro sperimentale – nostro garante Roberto Longhi. Ed i film erano il bellissimo e dimenticato Fortunale sulla scogliera di Dupont, Sinfonia nuziale di Stroheim, altrimenti introvabili»:8 queste parole di Renzi (tra l’altro successivo collaboratore della «Critica»), citate anche da Brunetta nella sua monumentale Storia del cinema italiano,9 rendono ben conto del particolare ruolo d’avanguardia cinematografica che Parma venne ad assumere nella seconda metà degli anni Trenta. Il 30 aprile del 1937 ebbe infatti inizio la feconda attività del Cine-GUF di Parma (con la proiezione del film Fortunale sulla scogliera di Dupont) che, come ricorda la testimonianza di Renzi, rappresentò, insieme a quella di Imola, la prima associazione cinematografica italiana creata in seno ai GUF; dietro quest’operazione, che fu fondamentale per la formazione della robusta cultura filmica che contraddistinse un’intera generazione d’intellettuali parmigiani, si mossero come principali promotori proprio Bianchi e Bertolucci. I forti legami che i due sodali, allora studenti presso l’Università di Bologna, avevano stretto con importanti personalità dell’ambiente bolognese, quali Roberto Longhi e soprattutto Umberto Barbaro,10 garantirono al nascente Cine-GUF la possibilità di svol6 Entrambi parmigiani, Marchi nacque nel 1923, mentre Fornari nel 1927: piccola differenza di età che garantì sicuramente a Marchi, al di là della sua precocità intellettuale, la possibilità di vivere intensamente la prima stagione d’oro del cinema a Parma, cominciata nell’aprile del 1937 con la prima proiezione organizzata dal Cine-GUF locale e interrotta nel giugno del 1943 con l’aggravarsi della guerra. 7 Brunetta, citando il volume del poeta parmigiano Aritmie (Milano, Garzanti, 1991), ricorda come già «nel 1925 Attilio Bertolucci e Pietro Bianchi, adolescenti, e già contagiati dal morbo cinematografico cercano di convincere il loro professore di liceo, un giovanissimo Cesare Zavattini, che il cinema non è fatto solo “per serve e soldati. Noi lo portammo di sana pianta, un po’ riluttante, a vedere La febbre dell’oro. E così assistemmo a un miracolo, ad una conversione folgorante e di grandissimi esiti: la nascita del padre del nuovo cinema italiano, del suo più accanito teorico e del suo più inventivo creatore”»; Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, Roma, Editori Riuniti, 2001 (seconda edizione), p. 305. 8 Renzo Renzi, Se Casarsa è il paese della madre, è forse Bologna la città del padre?, in «Bologna Incontri», anno XVI, n. 11, novembre 1985, p. 20. 9 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, cit., pp. 325-326. 10 All’epoca Umberto Barbaro era ordinatore della Cineteca Nazionale, nonché determinante animatore dell’imprescindibile rivista «Bianco e Nero», organo del Centro Sperimentale Cinematografo di Roma.
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gere un’opera di divulgazione filmica di elevato valore artistico e spesso libera dai limiti censori imposti dal regime.11 La stretta collaborazione istituita con alcuni rappresentanti dell’intellighenzia cinematografica italiana dell’epoca, nonché la colta raffinatezza estetica dei primi animatori-maestri, offrirono l’opportunità di vedere in città, talvolta presentate da critici di fama nazionale ed internazionale, straordinarie opere filmiche anche di rara fruibilità: oltre ai già citati Fortunale sulla scogliera e Sinfonia nuziale, film quali L’Angelo azzurro di Von Sternberg, Tabù di Murnau, Lampi sul Messico di Eisenstein, Alba tragica di Marcel Carné, La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer e molti altri furono proiettati nelle principali sale cittadine.12 In questo clima formatosi sotto l’egida dell’autorità culturale di Bianchi, sin dal 1928 recensore sapido e attento di cose cinematografiche sulla «Gazzetta di Parma»,13 e di Bertolucci, la cui sublime cultura profondamente radicata nel dorato alveo della provincia esprimeva già una febbrile tensione verso un dialogo artistico di più largo respiro, fascinando e coinvolgendo molti giovani allievi;14 in questo clima, appunto, 11 Riferendosi all’apertura dell’attività del Cine-GUF nel 1937 e al suo successivo sviluppo, Roberto Campari ricorda: «Nello stesso anno vennero poi presentati altri dieci film anche abbastanza rari, come Sinfonia nuziale (1926) di Eric von Stroheim; la presenza di tali film si doveva ai buoni rapporti tra il CineGUF parmense e la Cineteca Nazionale di Roma. Esaminando i programmi del cineclub si nota che da sette film presentati complessivamente nel ’38 e sei nel ’39, si passa a trentacinque nel ’40 e ventitre nel ’41, cosa abbastanza strana se si pensa che siamo ormai entrati negli anni della guerra. Ma può essere significativo a proposito il fatto che dalla fine del ’38 i film americani erano esclusi in gran parte dalla normale circolazione commerciale per le famose sanzioni sul monopolio nell’importazione dei film stranieri, in seguito alle quali le maggiori Case americane si erano ritirate dal mercato italiano. Le proiezioni del GUF invece potevano ancora permettere di vedere non solo film distribuiti dalle Majors (sia pure vecchi di qualche anno, perché ovviamente non venivano mai presentate prime visioni) ma anche magari opere invise al regime»; Roberto Campari, L’oro del Po, in ID., Parma e il cinema, Parma, Banca del Monte di Parma, 1986, p. 20. 12 Per un approfondimento sulla storia del Cine-GUF (dal marzo-aprile del 1943 denominato CineGIL, in riferimento alla Gioventù Italiana del Littorio) e degli altri circoli cinematografici che animarono l’attività filmica parmigiana fino all’inizio degli anni Settanta, si rimanda al volume di Giuseppe Calzolari, Il Cineclub di Parma e altri circoli. 1937-1962, Parma, PPS, 1995. 13 Pietro Bianchi cominciò a pubblicare le proprie recensioni cinematografiche nella rubrica Le prime dello schermo sulla «Gazzetta di Parma», il 14 marzo 1928, ad appena diciannove anni, mantenendo questo incarico, che accompagnò con alcuni approfondimenti critici sul cinema, fino alla metà del 1928, quando «La Gazzetta di Parma» si fuse con il quotidiano fascista «Il Corriere emiliano». Da quel momento, ovvero il 1° luglio 1928, le collaborazioni di Bianchi sul cinema furono saltuarie, fino al 24 ottobre 1935, quando riprese la rubrica di recensioni Cronaca dei film, conservata fino al 10 giugno 1943 («La Gazzetta» intanto aveva ripreso il suo nome in seguito alla chiusura del «Corriere Emiliano»). Il posto di Bianchi, dopo la pausa legata al momento tragico della guerra civile, fu occupato, a partire dal 28 settembre 1945 con la rubrica Cinema, dall’amico Bertolucci che mantenne l’incarico fino al 16 marzo 1951, anno della sua partenza per Roma (Bertolucci aveva ripreso a scrivere di cinema sulla «Gazzetta» già dal giugno del 1945). Per una conoscenza storico-enciclopedica della critica cinematografica parmigiana si rimanda a: Giuseppe Calzolari, Storia della critica cinematografica a Parma dalle origini a oggi e delle pubblicazioni di cinema di autori parmigiani, in Parma: vicende e protagonisti, a cura di Gianni Capelli, Giuseppe Marchetti, Baldassarre Molossi, volume III, Bologna, Edizioni Edison, 1978, pp. 162-179. 14 Ricorda Fausto Fornari nella breve intervista rilasciata a Giampaolo Parmigiani nel libretto di presentazione del suo cortometraggio Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (Parma, Tecnografica, 2002), ripresentato presso il Teatro Europa di Parma il 22 aprile 2002, in occasione delle commemorazioni per il giorno della Liberazione: «Al Liceo, Attilio Bertolucci, che insegnava storia del-
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di appassionanti riunioni, di febbrili discussioni, di tese proiezioni,15 nel quale non va nemmeno dimenticata la figura imponente e bonaria di Zavattini, primo vero scrittore di cinema della città,16 Parma scoprì e si educò al cinema. Oltre al fiorire di un’intensa vita cinematografica, furono anche altri i motivi che offrirono a Parma l’occasione per prepararsi a diventare quella aurea officina culturale che s’impose sul panorama nazionale nell’immediato dopoguerra e, in particolare, negli anni Cinquanta. Sin dalla fine degli anni Trenta la città ducale vide ritrovarsi nei propri caffè letterari e nei propri cenacoli artistici, oltre agli assidui maestri locali – a Bianchi e Bertolucci, non possono non essere affiancati anche i nomi di Francesco Squarcia, Pietro Viola, Italo Petrolini –, una serie di personalità intellettuali che le coincidenze storiche dell’Italia dell’epoca spinsero ad attraversare questa provincia emiliana e a stringere con essa, chi più, chi meno durevolmente, un profondo legame culturale.17 Fra i tanti, Oreste Macrì – forse lo “straniero” che lasciò più forti e più vivi il proprio ricordo e il proprio l’arte, nella stessa ora parlava indifferentemente del Mantegna e di Pabst, di Murnau e di Gauguin, di Renoir padre e di Renoir figlio. Lo ascoltavamo tutti con grande attenzione e divertimento. Ma a me capitava talvolta di distrarmi e di fantasticare; mi capitava, ad esempio, di estrarre dal dipinto i cavalli e gli armigeri di Paolo Uccello e di farli combattere, con frastuono di urla e di suoni, su di uno schermo tanto grande quanto la parete dell’aula scolastica che avevo di fronte a me», (p. 8). 15 Si fa qui riferimento soprattutto all’ultima proiezione organizzata dal Cine-GIL il 30 giugno 1943, dedicata al film di King Vidor Alleluia, che fu presentato dal prof. Mario Verdone, docente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e che costò la cessazione delle attività del circolo per conto del federale di Parma, a dimostrazione delle forti tensioni che intercorrevano, alla vigilia del declino del regime, tra certo spirito frondista delle organizzazioni giovanili fasciste e la pragmatica autoritaria delle federazioni centrali. Per una più approfondita ricostruzione dell’episodio si rimanda a: Giuseppe Calzolari, Il Cineclub di Parma e altri circoli..., cit., pp. 43-44; Roberto Campari, L’oro del Po, cit., p. 20. 16 Zavattini può giustamente essere considerato come il primo vero critico parmigiano, come già scrisse Calzolari: «Sarà in questo 1928 che si avrà un primo periodo, abbastanza breve, di vera critica cinematografica scritta da parmigiani, con molti articoli di cinema, scritti da penne divenute poi importanti. Potrebbe essere considerato questo il primo periodo d’oro per i saggi e gli articoli di cinema apparsi nel primo semestre di questo 1928 sulla “Gazzetta di Parma” [...]. Furono due firme adesso molto conosciute a dare al quotidiano di Parma una spinta verso il cinema: Pietro Bianchi con le critiche cinematografiche e Cesare Zavattini con l’elzeviro di cinema. [...] Sarà per primo Zavattini con due elzeviri a parlare di cinema sulla “Gazzetta di Parma”, il 3 febbraio con Dite la vostra – Aggettivi e il 4 marzo con Andantino – Hollywood»; Giuseppe Calzolari, Storia della critica cinematografica a Parma..., cit., p. 166. Zavattini interromperà la collaborazione sul cinema con «La Gazzetta di Parma» / «Corriere emiliano», insieme a Bianchi, nel secondo semestre del 1928. Sulle origini della critica cinematografica a Parma si segnalano anche le pagine di Roberto Campari, L’oro del Po, cit., pp. 13-15. 17 «Dalla metà degli anni Trenta alcuni bar del centro di Parma cominciarono a essere frequentati da intellettuali, scrittori, poeti, letterati, pittori, commediografi, tra questi ultimi c’era il giudice Ugo Betti, commediografo di nome, che appena poteva si infilava in una fumosa sala popolare chiamata Marconi a veder film di ogni genere. Ai tavolini di quei caffé sedevano lo storico Roberto Andreotti, talvolta il famoso critico musicale Bruno Barilli, Enzo Paci, Antonio Delfini, Giancarlo Vigorelli, Vittorio Sereni, Bruno Romani, Cesare Zavattini [...], Alessandro Minardi, Aldo Borlenghi, Oreste Macrì, talvolta Carlo Bo in visita di studio o per conferenze, e poi Giovannino Guareschi, Lamberto Sechi, Alberto Bevilacqua, Carlo Brizzolara, Pietro Viola, i pittori Atanasio Soldati, Carlo Mattioli, Latino Barilli, Erberto Carboni, anche Roberto Tassi, Giorgio Cusatelli, Giancarlo Conti, Ubaldo Bertoli, Giancarlo Artoni, l’editore Ugo Guanda, fino a quando si stabilì una specie di ponte con la cultura toscana e in particolare con quelli del caffé Ombre rosse»; Giuseppe Calzolari, I Bertolucci: letterati, poeti e gente di cinema, in «Studi novecenteschi», anno XXXVIII, n. 61, giugno 2001, pp. 215-216.
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insegnamento nella storia culturale di Parma negli anni compresi tra il crollo del fascismo e la rinascita postbellica18 – seppe imporre il proprio magistero al pari di quello dei grandi nomi cittadini e, con loro, contribuì enormemente ad elevare il respiro culturale di questa provincia colta e ambiziosa. Succedendo al breve soggiorno di Luzi, che dimorò a Parma dal 1938 al 1941, e ritrovandosi straniero in terra emiliana a fianco di critici quali Borlenghi e Spagnoletti, Macrì si lasciò coinvolgere nelle varie esperienze che si susseguirono dagli inizi degli anni Quaranta in poi e, al contempo, animò i circoli intellettuali della città in cui intervenne con proposte di dibattito innovative e di valore internazionale. Il nome del grande critico pugliese, oltre a quelli di Bertolucci, Bianchi, Squarcia, Viola e insieme alle firme di altri importanti “stranieri”, cominciò sin dal 1942 a comparire, non solo sulle pagine del rinomato quotidiano locale o del suo temporaneo inserto «Il Quadrello»,19 ma anche, come ricorda lo stesso Macrì, «in altre effemeridi e riviste locali»,20 fra le quali si distinsero in particolare, per la qualità della propria proposta e per il valore dei collaboratori, le esperienze contraddittorie e laceranti dei periodici del fascismo parmense, «La fiamma» – sia il settimanale che il foglio d’ordini – e «Il Piccone» – la rivista di politica e arte del GUF locale21 –. Sulle stesse riviste nel frattempo aveva iniziato a farsi le ossa, firmando i primi interventi su letteratura, pittura, teatro e cinema, o pub18 Imprescindibile, da questo punto di vista, non solo per conoscere la decennale esperienza di Macrì a Parma, ma soprattutto per delineare i caratteri della vita culturale parmigiana di quell’epoca, appare la bellissima e accorata testimonianza che lo stesso Macrì rilasciò nel maggio del 1991 in occasione del convegno «Officina parmigiana»: Oreste Macrì, Memoria del mio decennio parmense (1942-1952), in Officina Parmigiana. La cultura letteraria a Parma nel ’900, a cura di Paolo Lagazzi, Parma, Guanda, 1994, pp. 297-320. 19 «Il Quadrello. Vita letteraria e degli scrittori» fu una pagina quindicinale che apparve per la prima volta sul «Gazzetta di Parma» / «Corriere Emiliano» il 12 novembre 1938, quando riprese e ampliò l’inserto letterario quindicinale già esistente, intitolato appunto «Vita letteraria e degli scrittori» e composto da saggi e recensioni. «Il Quadrello» apparve regolarmente ogni quindici giorni, al sabato, fino al 19 ottobre 1939, animato da intellettuali come Squarcia, Borlenghi, Bianchi, Viola, Paci, Petrolini. Dopo questa data la pagina letteraria del quotidiano locale ebbe vita alterna e cambiò spesso nome («La letteratura e le arti» e «Varietà di vita e d’arte» nel 1940, «Le arti - il libro – lo schermo» nel 1941). L’ultima fase fu rappresentata da «La vita letteraria», rubrica quindicinale della domenica, che cominciò ad apparire il 16 novembre 1941, interrompendo le sue pubblicazioni il 31 maggio 1942; oltre ai nomi precedenti si incontrarono in questa pagina anche le firme di “stranieri” come Vigorelli, Arcangeli e Macrì, e quelle di giovani quali Artoni, Colombi Guidotti, Minardi, Ambrosoli, Bocchi e altri. 20 Oreste Macrì, Memoria del mio decennio parmense..., cit., p. 302. 21 «Il Piccone. Periodico di Politica e Letteratura ed Arte del GUF di Parma» fu pubblicato per sette numeri dall’ottobre 1941 al maggio 1942, mentre per «La Fiamma» bisogna distinguere tra «Il Settimanale del Fascismo Parmense», uscito dal 18 maggio 1942 al luglio del 1943, e «Il Foglio d’ordini della Federazione dei Fasci di Combattimento di Parma», pubblicato parallelamente e con periodicità varia (prima quindicinale poi mensile) dal 15 giugno 1941 al 31 maggio 1943. Per un quadro sull’esperienza complessa e vivace di queste due riviste rimando ai due interessanti e approfonditi studi di Giuseppe Massari: Appunti su “Il Piccone”, in «Emilia», anno III, n. 30, agosto 1954, pp. 245- 248; Un dì quando le Veneri. Racconto al presente di una rivista fascista, in «Aurea Parma», anno LXXXI, n. 2, maggio-agosto 1997, pp. 129-157; anno LXXXI, n. III, settembre-dicembre 1997, pp. 223-259; anno LXXXII, n. II, maggioagosto 1998, pp. 99-131; anno LXXXIII, n. 1, gennaio-aprile 1999, pp. 19-54.
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blicando i primi racconti e le prime poesie, la generazione di giovani allievi – composta ad esempio da Mario Colombi Guidotti, Gian Carlo Artoni, Lorenzo Bocchi, nonché dallo stesso Antonio Marchi – che a partire dall’immediato dopoguerra, insieme ai propri maestri, avrebbe posto le basi per la creazione di quell’officina di cultura che fu Parma negli anni Cinquanta e Sessanta.22 La sofferta e combattuta, ma al contempo estremamente formativa – sia da un punto di vista prettamente civile sia sotto il profilo culturale – esperienza delle riviste parmigiane nate in seno al fascismo, tanto quanto la contrastata attività del vivace e riottoso Cine-GUF locale,23 dimostrano come anche nel ristretto ambiente parmigiano si trasferirono quelle contraddittorie pulsioni che caratterizzarono la vita culturale del regime soprattutto durante gli anni di guerra.24 In una rivista come «La fiamma», ad esempio, «depositaria funambolica dell’ortodossia», nonché «espressione diretta della federazione locale del PNF»,25 ai periodici elenchi dei provvedimenti disciplinari applicati dal federale nel territorio della provincia (cancellazione di adesioni al partito, ritiro di tessere dei GUF, etc.), sintomo di una crescente instabilità politica e di un ormai diffuso disorientamento ideologico, si aggiunse, quasi a stonare con il tono della rivista, l’attività culturale di quei colti rappresentanti della borghesia intellettuale locale, nella quale, come scrive anche Massari, è da vedere «uno dei momenti di nascita di quell’“officina parmigiana” non più inscrivibile nel solo cerchio, largo quanto si voglia, della sperimentazione di solitarie sensibilità».26 Allo stesso modo, così come l’attività del Cine-GUF, pur manifestando esclusive intenzioni di carattere artistico-culturale, fu continuamente sottoposta allo sguardo vigile e cen22 Sulla «Fiamma» scrissero la maggior parte degli intellettuali sopra citati: Macrì, Borlenghi, Sechi, Bianchi, Bocchi, Colombi Guidotti, Marchi ed altri. «Il Piccone», proprio perché rivista del GUF, non ospitò tutti questi nomi, ma presentò comunque un’interessante proposta culturale, nella quale in particolare si distinsero, in relazione ai nostri interessi, gli interventi sul cinema di Marchi. 23 Per un quadro generale e un’accurata bibliografia sulla storia dei Cine-GUF, si rimanda al capitolo Il cinema nei Guf in Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, cit., pp. 76-97. 24 Le esperienze di riviste quali «La Fiamma» e «Il Piccone», nate in seno ad un fascismo locale, richiamano inevitabilmente tanti aspetti e tanti problemi che riguardarono il più ampio, complesso e vivace mondo delle riviste italiane, fasciste e non, operanti nel Ventennio e, più in particolare, in epoca imperiale. Esiste in tal senso una già ampia letteratura, a cui rinvio per individuare analogie e differenze tra le esperienze parmigiane e il panorama nazionale delle riviste durante il fascismo, essendo questo un argomento che tale contesto mi permette soltanto di sfiorare. Segnalo in particolare: Giorgio Luti, Cronache letterarie tra le due guerre (1920-1940), Bari, Laterza, 1966, poi con il titolo Letteratura nel ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre. 1920-1940, Firenze, La Nuova Italia, 1972; Luisa Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascimo, Bari, Laterza, 1974 (nuova edizione, Torino, Aragno, 2002); Anna Panicali, Le riviste del periodo fascista, Messina-Firenze, D’Anna, 1978; Giorgio Manacorda, Dalla «Ronda» al «Baretti». Gli intellettuali di fronte al fascismo negli anni ’20, Foggia, Bastogi, 1981; Giuseppe Langella, Il secolo delle riviste, Milano, Vita e Pensiero, 1982. 25 Giuseppe Massari, Un dì quando le Veneri..., cit., maggio-agosto 1997, p. 138. 26 Giuseppe Massari, Un dì quando le Veneri..., cit., settembre-dicembre 1997, p. 241.
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sore della federazione, che faticosamente tollerò le varie iniziative fino al famoso episodio dell’ultima proiezione, anche la rivista gufina «Il Piccone», palestra politica e culturale per giovani promettenti quali il compianto martire Giacomo Ulivi o lo stesso Marchi (che già scriveva di cinema), dovette da subito sopportare i frequenti «attacchi degli organi ufficiali del fascismo parmense»,27 che portarono all’inevitabile soppressione del periodico dopo nemmeno un anno di vita. Proprio durante gli ultimi anni del regime, dunque, gli spazi della fabbrica del consenso concessi dallo stesso Mussolini offrirono a Parma la possibilità di impostare un percorso di crescita culturale che avrebbe permesso, di rinnovare la tradizione ducale della pétite capitale. In tal senso, il carattere di provincialità non si sarebbe frapposto al processo di elevazione intellettuale della città, piuttosto esso sarebbe emerso esclusivamente per respingere, proprio come “avvertì” «La Critica» nel suo primo numero, «la contaminazione della produzione e degli interessi, le relazioni non sempre gratuite e gli inevitabili accomodamenti».28 Fu in questo clima, creato dai quotidiani incontri di vecchi e giovani intellettuali nei caffè o nei cinema cittadini, alimentato dal sorgere e dal fiorire riottoso di riviste e di cineclub e dal ripercuotersi nella città delle tensioni civili e culturali di un’intera nazione, fu in questo clima appunto, che, dobbiamo immaginare, cominciarono a muoversi Marchi e, dopo pochi anni, il più giovane Fornari, mentre freneticamente si spostavano dai banchi di scuola verso le librerie, dai teatri ai cinema della città, ascoltando avidi gli ultimi e non scolastici insegnamenti dei propri maestri. Fu così che Marchi, forse proprio grazie a questo primo apprendistato culturale, compiutamente svoltosi negli intricati vicoli della sua città, si aprì alla critica cinematografica appena diciassettenne, inviando un’accorata lettera sulla condizione della contemporanea produzione filmica italiana alla rivista «Cinema», fondamentale centro di discussione critica per il contributo che fornì in quegli anni alla formazione della cultura cinematografica nazionale insieme alla più rigorosa «Bianco e Nero».29 Nella pur breve ma 27
Giuseppe Massari, Appunti su “Il Piccone”, cit. p. 245. Avvertenza, cit. p. 1. 29 Nuovamente, per un quadro della critica cinematografia italiana a partire dalla metà degli anni Trenta fino alla caduta del fascismo (in particolare sul Gruppo di «Cinema» e l’attesa di un nuovo mondo cinematografico), segnalo, anche per i riferimenti bibliografici: Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, cit., pp. 197-230. Proprio Brunetta in queste pagine ricorda: «Lo scopo principale di Cinema (corsivi dell’autore) non è quello di contribuire alla fondazione di una nuova teoria o alla conoscenza teorica e storica del cinema su basi scientifiche: la rivista cerca di mediare le finalità divulgative con una serie di altre intenzioni che emergeranno col passare degli anni, attraverso la progressiva aggregazione di un gruppo di intellettuali capaci di riconoscersi in un’idea e in un progetto di cinema comune. Inoltre, grazie al buon livello medio, Cinema diventa luogo d’incontro di intellettuali operanti in tutti i settori artistici: vi collaborano scrittori come Alvaro, Bontempelli, Soldati, Flaiano, Zavattini, Betti, musicisti come Casella e Gavazzeni, architetti come Piacentini, critici come Debenedetti e Eurialo De Michelis»; ivi, p. 221. 28
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sentita corrispondenza del «giovane parmense»,30 si ritrovarono le parole di un acuto e rigoroso spirito critico, capace di denunciare, quasi dolorosamente, come il cinema italiano fosse in quel tempo, «tolte rarissime eccezioni, [...] per la nazione un danno morale e intellettuale»,31 perché non si era ancora rivolto, quasi Marchi auspicasse l’imminente neorealismo, verso «la vera natura della nazione» che egli ritrovava «in certi scorci di case, in certe chiesette di campagna, lungo certi muretti rattristati da un rampicante appassito».32 Queste parole, che non per niente attirarono «l’attenzione di Zavattini e di Francesco Pasinetti, allora direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia»,33 dando di certo un contributo notevole alle proficue relazioni tra Roma e la città ducale, si ripercossero nell’immediato sull’attività del locale cineclub e, nel dopoguerra, sulla breve ma intensa vita della «Critica» e sulle sue filiazioni. Il riconoscimento ottenuto attraverso la pubblicazione della propria lettera sulle pagine dell’importante testata romana, aprì di lì a poco a Marchi anche le porte degli ambienti culturali cittadini in cui poté dar libero sfogo a tutto il proprio talento critico. Sotto l’attenta e lucida supervisione di Pietrino Bianchi, nella primavera del 1941 cominciò a firmare sulla «Gazzetta di Parma», con lo pseudonimo di Marcantonio, alcuni interventi nella rubrica di terza pagina Nel mondo della pellicola; ma fu soprattutto nel 1942 che la sua vena critica iniziò a trovare una forma espressiva più continua e rigorosa attraverso la collaborazione con «La Fiamma» e con «Il Piccone». Nelle rubriche in cui intervenne,34 il «giovane parmense» “si allenò” alla critica, senza limitarsi alla semplice recensione delle ultime visioni che soprattutto il Cine-GUF offriva alla città, ma sviluppando, a fianco di maestri, quali Bianchi, e compagni, quali Bocchi o Sechi, uno specifico metodo critico che, muovendo sempre dall’analisi dell’oggetto filmico, voleva portare, usando le parole di Massari, verso «una nuova sensibilità» in cui il cinema fosse «non più divertimento (soltanto), non più (soltanto) 30 Così Marchi firmò la lettera pubblicata nella rubrica Lettera agli autori, in «Cinema», anno V, n. 104, 25 ottobre 1940, p. 302. 31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 Giuseppe Calzolari - Paolo Pedretti, I protagonisti, in Parma e il cinema, cit., p. 127 34 Oltre ai pochi interventi apparsi sulla «Gazzetta di Parma» nella rubrica Nel mondo della pellicola, pubblicati tra maggio e giugno 1941, Marchi collaborò con: «La Fiamma. Settimanale del Fascismo Parmense» nella rubrica Prime visioni; «La Fiamma. Foglio d’ordini della Federazione fascista di Parma», insieme a Lorenzo Bocchi (Lorenzaccio) e a Lamberto Sechi, nella rubrica Cinema; infine «Il Piccone» nella rubrica Cabina, firmandosi con lo pseudonimo Prosperino. Per ulteriori e più approfondite notizie rimando al già citato Giuseppe Calzolari, Storia della critica cinematografica a Parma..., cit., p. 176. 35 Giuseppe Massari, Un dì quando le Veneri..., cit., gennaio-aprile 1999, p. 41. Oltre a ricostruire le vicende editoriali della «Fiamma» (il foglio d’ordini) e ad analizzare la sua impostazione politica e culturale, il presente articolo offre un’acuta osservazione dell’interesse della rivista verso il cinema e, in particolare, approfondisce l’esame sul lavoro critico svolto da Marchi e dagli altri collaboratori sulla settima arte.
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documento».35 Il sapore della provincia, non sempre all’avanguardia con il dibattito del tempo, avrebbe potuto farsi sentire, senonché Marchi, come altri suoi sodali in altri campi e in altre discipline, parve animato – e lo si noterà ancor più con l’esperienza della «Critica» – come da un irrefrenabile desiderio di immergersi, benché magari in ritardo, in un dibattito più ampio per instaurare un dialogo culturale che, partendo dalla provincia, ne valicasse i suoi stessi confini e arrivasse ad un dimensione più ampia, di carattere nazionale. E così, la sentita e accorata accusa contro l’ultimo cinema italiano, espressa nella lettera «all’autore di “Cento numeri di cinema”», trovò una più rigorosa e completa definizione proprio nelle rubriche tenute sulla «Fiamma» e sul «Piccone», tanto che Marchi arrivò a scrivere queste parole, recensendo Catene invisibili di Mattoli: A chi dare la colpa? Per noi è la mancanza di coraggio; una paura di dire, di affermare. La paura di affrontare i problemi dello spirito, di cogliere gli uomini in preda alle passioni, di alzare sipari e di svelare coscienze; la paura del riso e del pianto, dell’individualismo, della lotta di opposte tendenze che non possono conciliarsi e che gridano forte: o bianco o nero. Da questo nascono gli insofferenti compromessi: dalla mancanza di una fede, di una visione ideale della vita, di un’idea da imporre. Ecco cosa non hanno i nostri registi: una loro idea. Un’idea, un angolo di visuale da cui si facciano giudici delle cose per non accettarle se non dopo averle criticamente risolte in se stessi.36
Siamo qui oltre il mero discorso estetico sul cinema, siamo forse già nell’analisi del valore morale di un’opera d’arte. Di lì a poco, proprio mentre il giovane Marchi compiva il suo apprendistato critico-estetico e l’altrettanto giovane Fornari si avvicinava precocemente al cinema,37 le riviste avrebbero sciolto le loro redazioni, i cinema sarebbero rimasti vuoti e in silenzio, i circoli e i caffè avrebbero lasciato spazio alle macerie. E in molti avrebbero abbandonato la città.38
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Prosperino, Cabina, in «Il Piccone», anno II, n. 7, aprile-maggio 1942, p. 9. Sempre citando dall’intervista di Fornari, riportiamo questi altri suoi significativi ricordi: «Il cinema mi aveva sempre affascinato. Da bambino, un film il sabato sera e due film nel pomeriggio della domenica. Coi genitori. [...] Mi piaceva pensare a come avrei raccontato io quelle storie, quelle situazioni. Quando non avevo varianti da proporre, voleva dire che quel film andava bene così: era perfetto. Ragazzino, cominciai a proiettare in casa vecchi film del muto. Venivano sempre quei pochi, stessi amici. Giacomo, Giacomo Ulivi intendo dire, provvedeva personalmente ai rapporti con i distributori di Bologna. Sceglievo, fra i dischi che possedevo, i commenti musicali. A 14 anni, insieme a un amico di 16, da soli a Venezia per la Mostra del cinema del 1941»; Giampaolo Parmigiani, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana..., cit., p. 8. 38 A partire dall’estate del 1943 i cinema della città rimasero chiusi e tutte le varie testate editoriali cessarono le pubblicazioni, ad eccezione della «Gazzetta di Parma» che continuò ad uscire anche nel 1944 come foglio unico. Per poco più di un anno e mezzo, dunque, corrispondente con lo scoppio della 37
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*** La guerra giunse anche per Parma, non semplicemente a chiudere un’epoca storica, quanto ad indicare una decisiva svolta in senso politico e civile, dopo la tragedia che, così come aveva diviso una nazione, aveva lacerato anche questa provincia. Alla imminente rinascita fu inevitabilmente richiamata a partecipare anche tutta quella élite culturale che, come abbiamo visto, proprio negli anni più duri del fascismo, pur imbrigliata nelle maglie del controllo e della censura federale, era riuscita a muoversi nel rispetto della propria autonomia intellettuale, individuando spesso all’interno degli stessi organi fascisti gli spazi per creare pulsanti laboratori di cultura. Quasi la guerra fosse stata solo una drammatica pausa per un’ulteriore riflessione morale e civile, la Liberazione riportò anche nella città ducale l’entusiasmo per una ricostruzione che non poteva e non doveva essere semplicemente materiale, ma proprio perché riguardava tutto il sistema politico-istituzionale e coinvolgeva tutta la società, doveva estendere o, forse meglio, proseguire la propria riflessione anche all’ambito culturale: Parma, in tal senso, aveva già i suoi maestri e poteva anche contare su una generazione di allievi ancor più desiderosi dei primi di tornare (o cominciare, perché no) a discutere nei caffè, a frequentare le librerie, ad animare i circoli, a sedersi nei cinema e nei teatri. Nell’estate del 1945, oltre all’immediata rinascita della «Gazzetta di Parma», che riprese le pubblicazioni già il 27 aprile e da subito catalizzò tutta l’intellighenzia parmigiana, fiorirono numerose realtà editoriali, rappresentanti le varie estrazioni politiche fino a quel momento costrette al silenzio, in cui si distribuirono molte fra le personalità che aveva animato, con la loro sapiente lezione e con il loro spirito critico, la cultura locale anche negli anni del fascismo: nacquero così in quei primi mesi dopo la Liberazione, la testata partigiana «Vento del Nord», nelle cui pagine culturali frequenti furono gli interventi di Squarcia, di Petrolini, di Macrì; i settimanali di partito quali il comunista «L’Eco del Lavoro», nelle cui sezioni cinematografiche si distinse la firma di Vittoria Botteri, futura animatrice del Circolo Parmense del Cinema, o il liberale «L’Uomo Libero», che poté contare sulla collaborazione assidua di un intellettuale giovane e di grandi speranze come Colombi Guidotti, nonché del futuro direttore del
guerra civile e con l’occupazione nazista, il dibattito culturale anche a Parma logicamente cessò (e quindi anche ogni discussione sul cinema), non solo perché s’imposero altre primarie necessità, ma anche perché molti degli intellettuali cittadini sfollarono.
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quotidiano cittadino Baldassare Molossi.39 In ambito espressamente culturale, iniziò invece a comparire in città, sin dal giugno del 1945, il raffinatissimo «Contemporaneo», creato e diretto da Ugo Guanda,40 che impostò un periodico dall’ampio respiro europeista ed internazionale, dove intermezzi letterari si incastonavano nei prevalenti interessi del dibattito interno alla rivista, riguardanti storia, politica, religione, filosofia. L’impostazione colta ed extranazionale del «Contemporaneo» si percepì sin dal primo numero, in cui apparvero pubblicati scritti di Gobetti, di Thomas Mann, dello storico Huizinga, di don Sturzo, nonché poesie di Shakespeare tradotte da Montale; negli ulteriori dodici numeri, apparsi fino alla fine del 1946, comparvero poesie di Jahier, Dickinson, Esenin, De Pisis, racconti di Steinbeck, Cechov, Kafka, Camus. Assidue furono le discussioni sul pensiero politico e, in particolare, sulla questione cattolica, tanto che Guanda poté contare sulla frequente collaborazione di personalità moderniste come Ferdinando Tartaglia ed Ernesto Bonaiuti; il periodico ottenne inoltre il contributo dell’altro emiliano Silvio D’Arzo, la cui presenza nella sezione critico-letteraria fu la più continua, con scritti soprattutto sulla letteratura inglese (Conrad, Shakespeare, Defoe, Kipling). Tra gli intellettuali locali che si mossero intorno al «Contemporaneo», si distinse ancora l’attivissimo Colombi Guidotti, il quale, oltre a pubblicare un racconto, dal quinto numero dell’ottobre 1945 apparve come segretario di redazione, aggiungendo anche quest’iniziativa alle altre significative esperienze culturali che gli permisero d’imporsi, di lì a pochi anni, come una delle personalità più lucide e più propositive del panorama cittadino. L’attività del «Contemporaneo» fu intensa ma breve, in quanto già alla fine del 1946 cessò le sue pubblicazioni; non si intende ora indagare il riverbero sulla cultura ducale delle idee e delle discussioni che emersero in seno alla rivista di Guanda; di certo, comunque, anche questo periodico fu un ulteriore sintomo della mai sopita vitalità di una provincia che andava via via ritrovando nei suoi circoli e nei suoi caffè quel fermento di idee e di interessi che i suoi poeti, i suoi critici, i suoi artisti, già avevano fatto conoscere prima della guerra. 39 «Il Vento del Nord» cominciò le sue pubblicazioni il 5 maggio 1945 sotto la direzione di Gino Cortese e con Ubaldo Bertoli in redazione, rimanendo attivo fino al 18 dicembre 1946; vita più longeva ebbero i settimanali politici: «L’Eco del Lavoro» pubblicò dal 26 luglio 1945 al 4 gennaio 1957, «L’Uomo Libero» dal 25 giugno 1945 al 26 novembre 1960, e non si dimentichi anche il democristiano «Il Popolo di Parma» operante dal 1945 al maggio 1956. 40 Non si dimentichi che Guanda, quasi per contribuire ulteriormente alla elevazione intellettuale di Parma, dove al tempo insegnava presso l’istituto di mineralogia dell’università locale, trasferì già nel 1936 la sede della nota casa editrice, proprio perché aveva colto la presenza dell’atmosfera ideale per sviluppare la propria impresa culturale. Non a caso, esattamente tre anni dopo, nel 1939, avrebbe inaugurato la famosa collana poetica «La fenice», diretta da Attilio Bertolucci.
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Maestri e allievi, locali e “stranieri”, si ritrovarono, ancor più di prima, «con una grande voglia di fare»:41 riprese quel clima che la guerra non aveva dissolto ma solo momentaneamente offuscato, percorso ora da un entusiasmo ancor più vivo e consapevole e animato da un profondo desiderio di ricreare e di ritrovare i canali di discussione e di trasmissione culturali più adeguati. Oltre ai periodici e alle riviste, ecco allora rifiorire tutti quei luoghi cittadini tradizionalmente deputati al dibattito, nei quali il ruolo dei grandi “vecchi” risultò ancora fondamentale, come lo stesso Macrì segnalò, ricordando ad esempio che oltre al Caffè Tanara e all’Aragnino, entrambi di Otello Lottici, ci si ritrovava al Circolo di Lettura e Conversazione, di cui il presidente Teodosio Marchi, rettore dell’Università, mi affidò l’organizzazione delle conferenze e incontri culturali; ben nutrito esso Circolo di libri, giornali, e riviste, molto frequentato. Feci passare, per ogni settimana quasi, mezza letteratura e arte del tempo, poeti, narratori, critici, artisti: Saba, Ungaretti, Montale, Cecchi, De Robertis, Carlo Bo, Mario Luzi, Bigongiari, Schiaffini, Migliorini, Calcaterra, Vittorio Lugli, il musicologo Damerini, A. G. Bragaglia, Bonaventura Tecchi, lo psicanalista Antonio Miotto, e tanti altri. Io li presentavo con qualche animazione e domande mie e del pubblico, sì che tali conferenze quasi si teatralizzavano.42
Parma riscoprì presto il suo ruolo di provincia dorata, in grado di elaborare una propria peculiarità culturale e, dunque, di creare un’«interrelazione alla pari sia con i centri dove si compivano per tradizione i riti della cultura, sia con i luoghi tradizionalmente defilati».43 La volontà, riprendendo Briganti, non di sprovincializzare, ma di riconoscere l’alto valore della propria cultura, capace di dialogare con i centri nevralgici nazionali e, perché no, internazionali, interessò dunque anche l’ambiente cinematografico locale. L’insegnamento di Bianchi e Bertolucci e l’iniziale esperienza critica di Marchi, nonché l’apertura e i legami da questi intrapresi con importanti centri culturali, avevano diffuso, se non un metodo, almeno una “tensio-
41 Ricorda così quegli anni Gian Carlo Artoni, introducendo i motivi che portarono alla nascita del «Raccoglitore» nel 1951: «Furono, quelli, anni esaltanti: dopo un primo tentativo di inserimento letterario nel giornale locale con una paginetta intitolata “Il quadrello”, sulla quale i più giovani facevano le prime esperienze e dopo che una maldestra “congiura” ci aveva dispersi, ci eravamo ritrovati alla liberazione, con una grande voglia di fare: Mario Colombi Guidotti [...] sognava una rivista; Giacinto Spagnoletti era riuscito a far vivere, sia pur per poco, radio Parma ed erano i tempi in cui tutta l’Italia credeva nel proprio futuro: la democrazia era una scoperta inebriante che per noi significava allargare gli orizzonti, avere finalmente la possibilità di leggere i libri che il fascismo aveva bandito»; Gian Carlo Artoni, La Parma del «Raccoglitore» e di «Palatina», in Officina Parmigiana..., cit., p. 328. 42 Oreste Macrì, Memorie del mio decennio parmense..., cit., p. 313. 43 Paolo Briganti, ...Il faut cultiver notre jardin, in Il Raccoglitore. 1951-1959, Parma, La Pilotta, 1979, p. XX.
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ne” critica in grado di cogliere la specificità estetica del film, e avevano trasferito in provincia i principali motivi del dibattito cinematografico nazionale: in tal modo anche il cinema poteva già contare su un suo specifico laboratorio all’interno dell’«officina parmigiana». Intanto, pochi giorni dopo la Liberazione, i cinema cittadini erano stati riaperti con la proiezione soprattutto di film americani sottotitolati; nell’agosto del 1945, memori dell’esperienza del Cine-GUF, Molossi ed altre personalità locali, fra cui probabilmente anche Marchi, costituirono il primo cine-club del dopoguerra, ovvero il Cine-club dell’«Uomo Libero», legato al settimanale liberale parmigiano: in quei mesi apparvero sugli schermi di Parma diversi film come Tabù di Murnau, Metropolis di Lang, La febbre dell’oro di Chaplin, Lampi sul Messico di Eisenstein.44 Dopo i fasti avanguardisti del Cine-GUF e della prima critica locale, si andava profilando in tal senso una nuova stagione d’oro per il cinema. Nel gennaio 1946 «La Critica», infatti, vide l’inizio delle pubblicazioni e contemporaneamente, in collaborazione con l’appena nato cineclub, organizzò lungo tutto l’arco dell’anno una ricchissima stagione di proiezioni e di incontri di prim’ordine. La rivista creata e animata dal poliedrico Marchi45 svolse dunque anche un’importante opera divulgativa, aperta proprio nel gennaio 1946 con l’organizzazione del Festival cinematografico retrospettivo, il quale garantì a Parma per due settimane un palinsesto filmico che comprese, tra gli altri, opere di Chaplin, Stroheim, Clair, Dreyer, presentate da esperti quali Casiraghi, Comencini, Bianchi e altri.46 Le «Serate retrospettive» della «Critica» proseguirono lungo tutto quell’anno e dal 1947 furono continuate dall’allora nascente Cineclub, tra i cui animatori figurava ancora Marchi.47 Nel frattempo la «Critica» aveva saputo imporre la qualità intrinseca della propria iniziativa a tutto il panorama culturale locale e l’eco del proprio lavoro aveva raggiunto anche ambienti extraprovinciali, visti i forti legami che il periodico, sin dalla sua nascita, aveva instaurato con importanti centri cinematografici nazionali e internazionali.48
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Per ulteriori notizie: Giuseppe Calzolari, Il Cineclub di Parma..., cit., pp. 44-48. A ulteriore testimonianza del dinamismo di Marchi, non va dimenticato che in quei primi mesi postbellici apparve in città, proiettato al Circolo di Lettura, anche la sua prima esperienza registica, ovvero il reportage filmato clandestinamente dell’occupazione tedesca del castello di Montechiarugolo, presso Parma. 46 Giuseppe Calzolari, Il Cineclub di Parma..., cit., pp. 48-54. 47 La stagione di grandi serate retrospettive inaugurata dal Cineclub dell’«Uomo libero» e dalla «Critica» sarebbe poi proseguita negli anni successivi, fino ai primi Settanta, con l’attività di vari cineclub nati tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta: il Cineclub appunto, il Cineclub parmense, il Cineforum parmense. Per approfondimenti, rimando nuovamente alla già citata opera di Calzolari. 48 A consolidare gli scambi con alcuni dei principali centri di cultura, «La Critica» istituì due redazioni extraparmigiane, una a Roma, in stretto contatto con il Centro Sperimentale di Cinematografia, l’altra a Venezia, dove operava Francesco Pasinetti, al tempo direttore del Festival cinematografico. 45
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La rivista espose apertamente, sin dalle prime uscite, i propri intenti e la propria natura: avrebbe voluto essere una «rivista di cinema puro»,49 ovvero di quel cinema, già riconosciuto come arte, che avesse «a sua principale origine il regista»50 e che fosse in grado di emergere come «un modo d’espressione autonoma, libero sia da influenze di ordine figurativo [...], come da influenze narrative, letterarie e addirittura teatrali»;51 avrebbe voluto richiamare «nelle sue pagine tutti gli scrittori che cred[eva]no al cinema»52 per riuscire a imporsi come «convegno dunque di amici disinteressati del cinema e che come tali non hanno paura di dire la verità».53 E convegno di amici fu: sin dal primo numero «La Critica» seppe riunire intorno ad un unico tavolo tutti quei vecchi maestri e vecchi compagni, locali e stranieri, che già anni prima avevano imparato a conoscersi e a parlarsi; progressivamente poi la rivista allargò lo spazio di questo cenacolo a nuovi importanti amici, quali i “romani” – quelli di «Cinema» e del Centro Sperimentale di Cinematografia – o gli illustri stranieri come Jean George Auriol, direttore della prestigiosa «Revue du cinema». «La Critica» nacque sotto l’egida delle ormai paterne figure dei due locali iniziatori al cinema: la salace lingua delle Lettere di Bianchi, nonché le acute recensioni e i languidi aforismi cinematografici della rubrica Giorni perduti realizzati da Bertolucci, accompagnarono la rivista fino alla sua improvvisa cessazione nel dicembre 1948. E sotto la protettiva ombra dei suoi maestri, la rivista parmigiana, forse inconsapevolmente, divenne tappa quasi obbligata per la formazione estetica di ogni critico e di ogni artista della città, in preparazione dell’«officina» di cultura che molti avrebbero conosciuto (e riconosciuto) nel decennio di lì a venire. Il carattere anticipatore del laboratorio critico che contraddistinse l’esperienza della rivista è riconoscibile già scorrendo l’elenco dei nomi cittadini che parteciparono, più o meno intensamente e più o meno assiduamente, all’iniziativa: nel periodico apparvero, fra i “numi” locali, oltre agli interventi di Bianchi e Bertolucci, anche le opinioni «sulle ombre parlanti» di Squarcia, i contributi costanti di Lorenzo Bocchi – in particolare le sue corrispondenze parigine – e quelli più isolati di Lamberto Sechi, di Mario Colombi Guidotti e di Gian Carlo Artoni – presenti rispettivamente con un breve racconto e con due poesie –; anche alcuni conosciuti “ospiti”, quali Macrì e Spagnoletti, si fecero partecipi dell’iniziativa, che il grande critico pugliese non dimenticò di ricordare nelle sue memorie parmigia-
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Avvertenza, cit., p. 1. Ibidem. Ibidem. 52 Ibidem. 53 Ibidem. 50 51
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ne;54 da ultimo, non si può dimenticare come le pagine della rivista, stranamente prive di immagini o fotografie direttamente prese dal cinematografo, furono ornate elegantemente da disegni originali di Carlo Mattioli, alternati talvolta con altre opere di Ottone Rosai e Mino Maccari. Oltre all’aver saputo ritrovare e riunire vecchi e giovani amici, meriti indubbi di Marchi e Fornari furono la natura stessa dell’impostazione critica che la rivista si diede e il percorso evolutivo che questa seguì nell’arco dei due anni di vita, motivi ulteriori che inducono a cogliervi un segno premonitore delle esperienze culturali che sorsero a Parma negli anni Cinquanta, nate, come scrisse Briganti per «Il Raccoglitore», «certo da istanze locali e da una cultura per così dire “alto-provinciale” ma senza alcun complesso di inferiorità [...] nei confronti delle vicine metropoli».55 Convegno di amici certo, ma soprattutto luogo d’incontro ove discutere sul cinema aperto in particolare ai letterati, la cui prima fase di vita fu caratterizzata dal susseguirsi frequente di interventi volti a ridiscutere il valore artistico del prodotto filmico o a riconoscere i lasciti delle altre arti alla cinematografia, nonostante la famosa avvertenza ne avesse già promosso una sua specificità estetica e artistica. Nella prima «Critica», il cui stesso formato rimandava, più che ad una patinata rivista di spettacolo, ad un elegante e rigoroso foglio letterario, si dilettarono a parlare di cinema, alternando critiche ad apprezzamenti, dubbi a entusiasmi, esponenti delle più svariate discipline: critici letterari come Macrì, Trompeo, Spagnoletti e Squarcia, storici dell’arte come Arcangeli, scrittori come Bigiaretti e Colombi Guidotti. Il particolare spazio concesso a “non specialisti”’, che manifestarono talvolta posizioni negative verso l’artisticità del cinema,56 diede vita a un dibattito che all’inizio, come scrisse Campari, parve ancora «legato a pregiudizi già sufficientemente sfatati» da teorie ed elaborazioni estetiche sviluppate in tempi precedenti, anche se non completamente conosciute in Italia in quegli anni.57 Tale supposta “arretratezza” è da ricondurre alla natura stessa della rivista, senza però necessariamente vedere una connotazione negativa in tale presunto ritardo culturale, quanto piuttosto un tratto distintivo del carattere di questa iniziativa artistica. Senz’ombra di dubbio, il riverbero nella provincia ducale di certe posizioni critiche ed estetiche si fece sentire con maggior ritardo rispetto
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Oreste Macrì, Memorie del mio decennio parmense..., cit., p. 312. Paolo Briganti, ...Il faut cultiver notre jardin, cit., p. XX. Si vedano ad esempio gli interventi sulla «Critica Cinematografica» di: Oreste Macrì, Letterato al cinema, anno I, n. 1, gennaio-febbraio 1947, p. 1; Francesco Arcangeli, Inchiesta sul cinema – Critico d’arte al cinema, anno I, n. 2, marzo-aprile 1946, pp. 1-2; Pietro Paolo Trompeo, Risposta di uno stendhaliano, anno I, n. 5, 10 dicembre 1946, p. 1; Libero Bigiaretti, Risposta di un narratore, anno I, n. 5, 10 dicembre 1946, pp. 1-2. 57 Roberto Campari, L’oro del Po, cit., p. 20. 55 56
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alla capacità catalizzatrice di capitali culturali quali Roma, Venezia o Milano, ma la perifericità fu al contempo garanzia, come era volere di Marchi, di fronte al pericolo della «contaminazione della produzione e degli interessi», delle «relazioni non sempre gratuite» e degli «inevitabili accomodamenti».58 La dimensione provinciale costituì dunque una sorta di protezione dall’omologazione del dibattito sul cinema: nelle pagine della rivista emersero ancora opinioni poco favorevoli verso l’arte cinematografica, che non dipendevano da una scarsa “disponibilità” a confrontarsi con la settima arte, ma derivavano piuttosto da oggettive difficoltà nel comprendere una forma espressiva così lontana per intellettuali, quali Macrì o Bigiaretti, formati alla scuola della dominante tradizione estetica di matrice idealistico-crociana. La perdurante discussione sul rapporto tra il cinema e le altre arti che rimbalzò vivacemente nelle pagine della «Critica», prolungandosi anche nella più rigorosa sua ultima fase, non fu sintomo di una provinciale arretratezza, ma oggi è da cogliere come carattere distintivo della vicenda di una rivista che nacque e maturò inizialmente in seno ad un ambiente di formazione prettamente letteraria, dal quale Marchi e Fornari seppero poi indirizzare il percorso della critica cinematografica parmigiana, portandola a dialogare in concreto dello specifico filmico con i centri di cultura nazionali. I forti legami che erano riusciti a instaurare sin dai primi anni Quaranta con molti importanti esponenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, si fecero sentire profondamente anche nel momento d’indicare il cammino critico che la rivista avrebbe dovuto intraprendere: sin dal secondo numero apparvero due prestigiose firme della critica nazionale come Ugo Casiraghi, con la sua Nota su Carné,59 e Mario Verdone che, prima con le sue Note romane,60 poi con svariati interventi di pura materia cinematografica, diventò collaboratore fisso della «Critica». A partire dal secondo numero, il convegno di amici e di scrittori progressivamente vide coinvolgere un numero crescente di specialisti di prim’ordine in campo cinematografico, per lo più provenienti dalle redazioni di «Cinema» e «Bianco e nero», i due capisaldi della critica nazionale: oltre a Verdone e Casiraghi, ecco via via arrivare sulle pagine del periodico parmigiano gli interventi di Osvaldo Campassi, Glauco Viazzi, Gigi Martello, Antonio Pietrangeli, Fernaldo di Giammatteo, Guido Aristarco, Francesco Pasinetti, Luigi Chiarini e tanti altri, a cui si aggiunsero, attraverso scritti originali o traduzioni, nomi di prestigio internazionale quali quelli di Anthony Asquit, Jean George Auriol, Il’ya Erhenburg, Budd Schulberg, Joris Ivens. 58
Avvertenza, cit., p. 1. Ugo Casiraghi, Nota su Carné, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 2, marzo-aprile 1946, p. 2. 60 Mario Verdone, Note romane, in «La Critica Cinematografica», anno I, n. 2, marzo-aprile 1946, p. 4. 59
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Queste prestigiose collaborazioni nazionali e internazionali inevitabilmente mutarono anche la natura della discussione cinematografica interna alla «Critica»; la presenza di letterati o di rappresentanti di altre discipline via via lasciò spazio alle firme di Aristarco, Pasinetti, Viazzi, Verdone, esperti del settore che spinsero la rivista, in particolare dopo il quinto numero, ad occuparsi di questioni più specificamente connesse all’estetica e alla produzione cinematografiche, come potevano essere ad esempio gli approfonditi studi sul cinema sovietico oppure l’analisi delle problematiche legate all’introduzione del sonoro nel film. Al contempo, anche la cerchia degli amici parmigiani si ridusse a quei nomi che verso il cinema da tempo avevano dimostrato non un’esclusiva tensione artistico-culturale, ma una più completa condivisione estetica e una più approfondita comprensione tecnico-linguistica: ossia, oltre naturalmente a Marchi, mantennero la loro collaborazione fino agli ultimi giorni della «Critica», i maestri iniziatori, Bianchi e Bertolucci, e il corrispondente parigino Lorenzo Bocchi. Risulta forse ora più comprensibile quell’articolo di Aristarco, citato in apertura e posto come spartiacque dell’esperienza culturale della «Critica Cinematografica»: richiamare proprio in quel settimo numero «il tempo dei poeti» significò probabilmente, dall’interno del dibattito che la rivista aveva mosso e animato, riconoscere in modo perentorio lo statuto artistico del cinema, proprio come aveva “avvertito” sin dal primo numero Marchi, e, di conseguenza, ridurre ad una ormai superata diatriba la discussione sui debiti del cinema verso le altre arti. I letterati, dunque, non furono esclusi dal confronto, ma sicuramente si videro richiamati ad allargare la propria prospettiva estetica e a modificare il proprio approccio critico verso la settima arte. Dall’ottavo numero del maggiogiugno 1948, dopo una lunga pausa di ben nove/dieci mesi dall’ultima uscita, «La Critica» cominciò la sua ultima fase, uscendo con una nuova elegante veste, non più in formato quotidiano, e con un numero di pagine superiore, inclini oggettivamente ad un’impostazione più specialistica. Nei quattro numeri pubblicati in questo formato, con regolarità bimestrale fino al novembre 1948, apparvero comunque interventi di “non specialisti” o d’interrogazione sul carattere artistico del cinema – basti ricordare un interessante articolo di Spagnoletti61 o un raro scritto di Ungaretti su Chaplin62 –, ma sicuramente lo spazio più ampio e più importante fu occupato da nomi della critica cinematografica nazionale ed
61 Giacinto Spagnoletti, Letterato al cinema, in «La Critica Cinematografica», anno III, n. 8, aprilemaggio 1948, p. 2. 62 Giuseppe Ungaretti, La quadratura del circolo, in «La Critica Cinematografica», anno III, nn. 10-11, agosto-settembre 1948, p. 4.
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internazionale, che si preoccuparono di far ulteriormente crescere, citando un titolo di Verdone, la «coscienza estetica»63 di questo spazio critico, parlando di filmologia o di documentario, di cortometraggio o di festival cinematografici, di censura o di cinema americano. Ancora Verdone parve voler sintetizzare e simboleggiare la maturazione estetica della rivista con un articolo apparso nel penultimo numero della «Critica», nel quale, tornando di nuovo sui rapporti tra cinema e letteratura, non si soffermò soltanto sui lasciti di quest’ultima alla settima arte, ma, per la prima volta nelle pagine del periodico, osservò con attenzione «come l’irresistibile incombenza delle immagini a[vesse] raggiunto anche i poeti: prima incidendo nella loro vita, poi nella loro opera».64 Dal «puro cinema» si giunse così alla pura critica cinematografica. Nel novembre del 1948 la rivista chiuse improvvisamente i battenti. Senz’ombra di dubbio la cessazione dell’attività della «Critica» va in parte ricondotta al successivo cammino artistico-culturale intrapreso da Marchi e da Fornari. Nuovamente a riconoscere il parallelismo esistente tra l’esperienza parmigiana e quella di altri importanti centri di cultura cinematografici, sorti e affermatisi in quegli anni in Italia, Campari sottolinea come anche «per quanto concerne Parma [...] vi si attuò un piccolo, locale passaggio dalla critica alla regia»,65 quasi fosse stata trasferita o fosse stata ripercorsa nella città ducale la parabola artistica vissuta, ad esempio, proprio dalla rivista «Cinema»: sin dall’inizio degli anni Quaranta, alcuni protagonisti della testata romana, come Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni o Antonio Pietrangeli, dopo l’esperienza critica, avevano già compiuto la loro maturazione registica in seno al Neorealismo, spinti dall’«esigenza del rinnovamento» e dal «desiderio di superare una produzione ideologicamente o formalmente ormai priva di prospettive».66 Difficile capire se l’evoluzione del percorso cinematografico di Marchi e Fornari si sia fondata su un’identica consapevolezza; più probabile che l’entusiasmo dei giovani registi parmigiani abbia trovato le condizioni ideali per emergere ed esprimersi una volta a contatto con un clima culturale che, tra le altre cose, aveva spinto molti cineasti, già con un capolavoro come Ossessione di Visconti, a volgere «un’attenzione particolare alla provincia»,67 come per riscoprire un originario paesaggio italiano. 63 Mario Verdone, Coscienza estetica nella critica cinematografica, in «La Critica Cinematografica», anno III, n. 12, novembre 1948, pp. 2-3. 64 Mario Verdone, I poeti nel cinema e il cinema nei poeti, in «La Critica Cinematografica», anno III, nn. 10-11, agosto settembre 1948, p. 13. 65 Roberto Campari, L’oro del Po, cit., p. 24. 66 Ivi, pp. 23-24. 67 Ivi, p. 24.
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Sin dall’aprile del 1946, sull’esempio di altre città emiliane e italiane,68 anche a Parma era sorta la piccola casa di produzione La Cittadella Film, fondata e finanziata dall’avvocato Bagatti e da V. Rastelli, nella cui attività i due animatori, Bertolucci e Marchi, coinvolsero anche Luciano Emmer, Giulio Bollati, Esodo Pratelli, nonché nomi parmigiani quali Fausto Fornari, Giuseppe Calzolari e Maurizio Chiari. L’attenzione della Cittadella Film si rivolse fondamentalmente ad una produzione documentaristica sulla cultura locale, per cui da subito furono montati cortometraggi su Correggio e Verdi e poco più tardi un altro ispirato al Paese del melodramma di Barilli, corti che trovarono presto nelle sale cinematografiche una distribuzione di alto livello, quella della Lux Film, che li affiancò a più famosi e seguiti lungometraggi. Dopo un iniziale apprendistato, compiuto seguendo il lavoro di Pratelli ed Emmer, dal 1948 anche Marchi cominciò la sua esperienza dietro la macchina da presa, realizzando, con la collaborazione artistica di Bertolucci e l’aiuto del sodale Fornari, alcuni corti anch’essi ispirati dalle intenzioni didattico-divulgative con cui era sorta la casa di produzione parmigiana: si ricorda in particolare Nasce il romanico, documentario sulla storia artistica del Medio Evo emiliano – con testi di Bertolucci e musiche a cura del musicologo Luigi Magnani – che vinse nel 1950 il premio come miglior cortometraggio d’arte al Festival di Bruxelles. Nel frattempo, con la fine delle pubblicazioni della «Critica», non era ancora terminata la stagione d’oro della critica parmigiana, in quanto l’eredità della rivista di Marchi e Fornari era stata recuperata sin dal settembre del 1949 da «Sequenze», rassegna mensile di cinema diretta da Luigi Malerba con la collaborazione redazionale di Calzolari. Tutta l’esperienza compiuta e maturata dalla «Critica» si trasferì nelle pagine del nuovo periodico cinematografico ducale, a partire dai collaboratori: tutti o quasi i nomi che avevano lasciato almeno una volta la loro firma nelle pagine della «Critica» tornarono a scrivere e a discutere all’interno di «Sequenze». In particolare, però, nella rivista di Malerba e Calzolari si trasferì quella maturità estetica che il periodico precedente era venuto acquisendo attraverso quel percorso che, come abbiamo visto, l’aveva fatto crescere da convegno sul cinema per amici e scrittori a rivista di specialisti di pura critica cinematografica. Non vi furono più dunque «recensioni, interventi sull’attualità, e neppure più polemiche sulla “artisticità” o meno del mezzo d’espressione»,69 ma la discussione si concentrò, 68 Scrive ancora Campari: «L’esperimento di Parma non fu comunque un caso isolato: senza considerare il resto dell’Italia, va osservato che nella sola Emilia sorsero nello stesso tempo le esperienze della Este Film a Ferrara (in cui operò soprattutto Vancini) e della Columbus Film a Bologna (in cui operarono Renzo Renzi e Enzo Biagi)»; ibidem. 69 Ivi, p. 23.
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numero per numero, su un tema monografico legato specificamente all’estetica o alla produzione cinematografica: in tal modo, di volta in volta, sulla rivista i vari critici si soffermarono a dibattere, ad esempio, del colore nel film, o invitarono i registi a parlare delle proprie opere, analizzarono il cinema sovietico oppure il film comico, esaminarono il nuovo cinema italiano o ripercorsero la nascita del cinema. Ogni uscita fu curata da un singolo collaboratore, per cui Aristarco, Malerba, Viazzi, Verdone, Bertolucci, nonché lo stesso Marchi, che si occupò del numero monografico sulla nascita del cinema, si alternarono in questo compito fino alla chiusura della testata, di nuovo avvenuta improvvisamente e senza palesi motivazioni, nel giugno del 1951, dopo quattordici numeri. Forse tale nuova repentina cessazione può essere ancora ricondotta a quel «passaggio dalla critica alla regia» con cui si è cercato di leggere la fine della «Critica»: Malerba infatti, al fianco di Marchi ed altri, fu protagonista in prima linea di quegli avvenimenti che costituirono forse il momento più alto dell’epoca d’oro del cinema a Parma, anche se al contempo rappresentarono gli ultimi fuochi di una stagione durata oltre un decennio. Nel dicembre 1953, mentre, tra l’altro, già da due anni grazie alla vivacità di Colombi Guidotti, l’intellighenzia locale aveva ritrovato nelle pagine del «Raccoglitore» lo spazio per riunirsi e parlare di letteratura ed altre arti, tutto il cinema italiano, dai critici ai registi, dagli attori ai produttori, si ritrovò a Parma in occasione del primo Convegno sul Neorealismo Cinematografico, ideato da Zavattini e organizzato, sotto il patrocinio delle più alte autorità istituzionali cittadine, grazie all’opera appunto di Marchi e Malerba, di Bianchi e Bertolucci, nonché di Pietro Barilla e Virginio Marchi. Come apparve nell’opuscolo di presentazione firmato dal comitato promotore, l’iniziativa intendeva porsi come «il primo vero convegno del cinema italiano»: per tre giorni Parma accolse i più importanti nomi della cinematografia italiana, da De Sica a Chiarini, da Aristarco a Lizzani, da Germi a Gromo, dalla Cecchi D’Amico ad Antonioni, che si riunirono per discutere di un fenomeno artistico, in quegli anni probabilmente già in fase calante, ma la cui eco avrebbe risuonato ancora a lungo nel decennio in corso.70 Al di là degli esiti di tale convegno, da più parti considerati confusi, Parma visse ancora un altro prestigioso momento di cultura, ponendosi come effettivo centro di primo livello, capace di accogliere in sé il meglio della cinematografia italiana del tempo per discutere non semplicemente dei futuri sviluppi del cinema nazionale, ma di
70 Per una ricostruzione critica e storica del Convegno sul Neorealismo cinematografico, tenutosi a Parma il 3-4-5 dicembre 1953, nonché per ulteriori notizie bibliografiche, rinvio a: Giuseppe Calzolari, Il cineclub di Parma, cit., pp. 147-156; Roberto Campari, L’oro del Po, cit., pp. 25-28.
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tutta una cultura che cominciava a sentire il bisogno di rinnovarsi e purificarsi. Marchi, e con lui Malerba, i maestri Bianchi e Bertolucci, un mecenate come Barilla e la cultura parmigiana tutta, avevano portato a compimento l’alto obiettivo di apertura intellettuale che voleva e doveva portare la città, con tutto il suo colto retaggio di provincia illuminata, allo stesso livello di grandi centri culturali come Roma o Milano, obiettivo che sarebbe stato completato proprio nell’arco di quegli anni Cinquanta attraverso le altre importanti esperienze, vissute soprattutto in ambito critico-letterario, del già operativo «Raccoglitore» e soprattutto della futura «Palatina». In quello stesso 1953, Marchi, insieme a Malerba, e Fornari – ovvero, con Bianchi e Bertolucci e col più nascosto ma operoso Calzolari, i principali fautori della tradizione cinematografica parmigiana – firmarono anche le loro prime e, purtroppo uniche, opere creative. Già nella tarda estate del 1953 Fornari aveva presentato con successo di pubblico e di critica al Festival di Venezia il suo cortometraggio Lettera dei condannati a morte della Resistenza italiana, supervisionato da Zavattini,71 ispirato all’omonimo volume pubblicato nel 1952 da Einaudi; Marchi, invece, con la collaborazione di Malerba alla sceneggiatura, cominciò a girare proprio al termine del famoso convegno, nel gennaio 1954, le riprese di Donne e soldati, suo unico lungometraggio e sua ultima fatica registica, che, pur valendogli un tardivo e isolato riconoscimento critico, non ottenne buoni risultati al botteghino.72 Queste due esperienze, di indubbio valore artistico ma di scarso successo mediatico, segnarono la fine dell’attività cinematografica per entrambi gli animatori della «Critica», sia in campo critico sia nel settore registico. 71 «Non mi fu facile, in un primo tempo, convincere Pirelli e Malvezzi (i curatori per Einaudi di Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana) a concedermi i diritti. Non riuscivano a capire come si potesse realizzare un documentario sulla base di sole lettere e mi chiesero se intendevo filmare i manoscritti. [...] Poi, dovetti convincere Giulio Einaudi, intelligente, coraggioso editore, freddo come il più freddo dei piemontesi. Finì col cedermi i diritti solo dopo aver posto severe condizioni, non ultima l’imprimatur di Cesare Zavattini sull’opera completata, musica compresa. Un no di Zavattini ed io avrei dovuto distruggere per impegno sottoscritto, copia campione e negativi. Convincere Zavattini fu più facile, perché possedeva un fiuto particolare per le idee di cinema. E poi, mi conosceva da tempo e mi stimava. A lavoro terminato Zavattini era talmente entusiasta che accettò di apparire col suo nome, nei titoli, come sceneggiatore, anche se la sua partecipazione era stata quella di temuto censore, fortunatamente col pollice rivolto su»; Giampalo Parmigiani, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana..., cit., p. 6. 72 Ricorda e sottolinea Campari: «Uscito nella tarda primavera del ’55 infatti il film non ebbe successo (centosessantaduesimo posto nella classifica degli incassi del cinema italiano per quella stagione). Vi mancò forse la presenza di qualche divo, di qualche grosso nome che potesse richiamare il pubblico [...]. Accolto con poco entusiasmo anche dalla critica, Donne e soldati non fu tuttavia un film dimenticato. Nasceva in quegli anni la commedia poi detta all’italiana, che del Neorealismo era la figlia: due sceneggiatori tra i più importanti di quel genere, Age e Scarpelli, confessarono di essersi ispirati proprio al film di Marchi e Malerba per scrivere, nel ’66, L’armata Brancaleone, diretto da Mario Monicelli, interpretato da attori come Gassman, Volontè e Salerno, fotografato a colori e con ricchezza di scenografie e costumi, dunque con ben altri presupposti di sicuro successo»; Roberto Campari, L’oro del Po, cit., pp. 31.
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Conoscere e comprendere le cause di tale distacco è per noi oggi impresa alquanto ardua e probabilmente questi motivi vanno ricercati più nelle necessità particolari delle esistenze di ognuno dei due protagonisti, che nelle loro ambizioni o insoddisfazioni estetiche e artistiche.73 Di certo, però, tali opere vennero a chiudere un percorso che per entrambi, partito dalle proiezioni nei cinema locali e dai primi articoli nelle colonne dei periodici cittadini, si svolse poi lungo una direttiva che permise loro e ad altri di vivere un’epoca della cultura cinematografica italiana dall’interno di una dorata provincia la quale, grazie ancora all’opera di un’intera generazione di illuminati intellettuali, era ascesa nuovamente a pètite capitale d’arte e cultura. In tal senso, al di là dell’effettivo fallimento o dell’auspicato successo dei loro film, Marchi e Fornari, probabilmente, dopo aver saputo rendere Parma, tra le altre cose, anche centro internazionale di critica cinematografica, provarono a cimentarsi nella concretezza della creazione filmica: con il passaggio alla regia forse avrebbero potuto imporre definitivamente la città emiliana quasi alla stregua di una caposcuola, ma le loro opere, proprio alla luce del futuro abbandono, sembrano apparire oggi quasi come il lascito di una tradizione per le successive generazioni, una tradizione non esclusivamente cinematografica, ma più compiutamente artistica.
73 In tal modo Fornari chiude la propria intervista con Parmigiani, spiegando i motivi del suo abbandono: «Il successo, anche clamoroso, devo dire, mi aveva in effetti aperto mille strade per continuare alla grande, come si dice oggi. Avevo avuto offerte per film lunghi, per una serie di cortometraggi patrocinati e finanziati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla RAI, più tardi, per organizzare e dirigere TV 7. Ma dovetti tornare a Parma ed occuparmi di una azienda di famiglia. Per ragioni di età e di salute, mio padre non poteva più interessarsene. C’era bisogno di me»; Giampaolo Parmigiani, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Intervista con Fausto Fornari, cit., pp. 9-10. È ipotizzabile che un percorso simile fosse costretto a compiere anche Antonio Marchi.
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Due o tre cose che so su una rivista che non leggevo. Con un’antologia privata
Quando nel 2004 Andrea Torre e Giovanni Ronchini mi proposero di collaborare a un progetto editoriale con cui s’intendeva rievocare l’esperienza culturale della rivista «La Critica Cinematografica», prima quindicinale e poi bimestrale, che fu pubblicata a Parma nel triennio 1946-48 (ne furono pubblicati dodici numeri), ebbi molte esitazioni prima di accettare. Sebbene sia legato a questa città da più di una circostanza biografica e da diverse amicizie, che c’entravo io con una rivista che conoscevo soltanto di nome e di fama, ma che non avevo mai letto? Di primo acchito, inoltre, non mi era venuto nemmeno lo straccio di un’idea, uno spunto, un pretesto per dare forma a una mia eventuale collaborazione. La proposta era generica. Mi si disse: «Ti mandiamo qualche numero da leggere e poi decidi tu, fa’ quello che vuoi. Sei libero». In terzo luogo, pur essendo tecnicamente un giornalista in pensione, non ho mai smesso di lavorare e produrre. Insomma, ho poco tempo libero a disposizione, dopo aver rinunciato a un velleitario sogno coltivato in gioventù: quello di trascorrere l’alta età come un gentiluomo di campagna che passa le sue giornate a camminare tra i boschi, leggere finalmente i libri che non ha mai letto (o rileggerli), discorrere con gli amici in visita, vedere non più di uno o due film al mese, far compagnia alla donna della mia vita, ai figli, ai nipoti. Si tenga conto, infine, che mi manca qualsiasi attitudine ai memoriali: vivo pochissimo nel passato e niente nel futuro, sono abbarbicato al presente, giorno per giorno, e so bene che la nostalgia è un sentimento fatto di amnesie più che di ricordi. Poi la curiosità, l’affetto per Parma, l’incapacità di dire no a proposte impregnate di affetto o di stima prevalsero, e diedi il definitivo consenso alla collaborazione. 67
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Dalla redazione dell’Argonauta mi mandarono in fotocopia i quattro numeri della «Critica» a loro disposizione, che lessi con cura, dalla prima all’ultima parola, e ne cavai – ecco l’idea – una piccola antologia personale (controcanto intimo di lettore a quella che correda il presente volume) anche se, come capita nei lavori di selezione e montaggio, fui costretto con dispiacere a fare più di un’esclusione per ragioni di spazio. Quali sono, secondo me, i caratteri distintivi della rivista, oltre all’eleganza editoriale di sobria raffinatezza con una punta di snobismo controcorrente nella rinuncia alle fotografie, sostituite dai disegni di Mino Maccari, Ottone Rosai e Carlo Mattioli, «i soliti noti che spalleggiavano sul versante figurativo – come scrive Luigi Alfieri in Il piccolo Socrate. Vita di Pietro Bianchi – la combriccola culturale di Parma e il suo distaccamento di Forte dei Marmi»? La commistione di letteratura e cinema, per esempio. Nei quattro numeri della rivista – un terzo del totale – che ho consultato compaiono le firme di Bartolini, Bigiaretti, Macrì, Trilussa, Trompeo, Ungaretti per non parlare di Pietrino Bianchi, anche sotto pseudonimo, e di Attilio Bertolucci che giocava in casa e che a casa sua cresceva due figli, futuri registi, come Bernardo e Giuseppe, l’uno già ragazzino, l’altro nato da poco. Di Luigi Bartolini che aveva il dente avvelenato per via di Ladri di biciclette, ho scelto con un pizzico di malizia un passaggio in cui contrappone «un grande artista sprecato» come Lattuada ai «registi ciociari», cioè a De Sica, che mietono facili successi. Non senza aver premesso che il cinema è un’arte inferiore, arriva a dire con enfasi polemica che nel primo mezzo secolo di vita del Cinema (con la maiuscola) «non è stato fatto un solo film completamente morale». La scelta dell’aggettivo è significativa. Era ancora di moda nel 1948 una questione teorica che fu a lungo dibattuta da intellettuali di vario genere e di diversa statura tra le due guerre quando ancora si scriveva e si parlava di Decima Musa: il cinema è un’arte? E, in caso di risposta affermativa, è soltanto una forma d’arte minore o inferiore? Su questo tema interviene, in modi più dialettici e meno retorici rispetto a Bartolini, anche Libero Bigiaretti. Si nota anche su «La Critica Cinematografica» una grande apertura (democratica?) verso i collaboratori spontanei o richiesti, una apertura che già dieci anni dopo sarebbe stata più difficile, se non impensabile, tanto più che probabilmente erano collaboratori non pagati. Lo si vede specialmente tra i critici cinematografici, quasi tutti giovani. Si trovano i nomi di marxisti come Guido Aristarco, Ugo Casiraghi, critico del quotidiano comunista «L’Unità», Renzo Renzi, sicuramente di sinistra ma poco marxista, accanto a quelli di Giulio Cesare Castello, Sergio Frosali, Francesco Pasinetti, Mario Verdone. 68
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Non mancano le firme di tecnici specialisti come Osvaldo Campassi, e del montatore Mario Serandrei, oppure di giornalisti come Lorenzo Bocchi, corrispondente da Parigi, o dell’illustre Sergio Romano, non ancora diplomatico, che ha qualche riserva su Furore di John Ford. Non meraviglia la presenza del grande poligrafo padano Zavattini, legato a Parma anche da vicende personali, che con un certo pathos annuncia il suo futuro congedo dal cinema, ribadendo, chiodo fisso di tutta la sua vita, un’amara riflessione sull’ibrido mestiere di scrittore di cinema, cioè sceneggiatore. Fanno macchia i contributi di Luigi Chiarini, figura centrale nella cultura cinematografica italiana negli ultimi anni Trenta, e di Antonio Pietrangeli, futuro regista che proveniva dalla critica. Il primo ricorre a una metafora ciclistica nel rivendicare, non senza retorica, un «miglioramento del cinema teso al traguardo dell’arte che dovrebbe essere uguale per tutti»; del secondo compare un’informatissima scheda di René Clair, regista/autore forse un po’ sopravvalutato in quegli anni, sicuramente trascurato e dimenticato oggi. In quelle pagine, infine, si avverte – leggera come una brezza – l’attenzione alla cultura francese, e non soltanto per le firme del critico e saggista Jean-George Auriol e dello scrittore Jacques Prévert, non ancora di moda come poeta, o per la corrispondenza di Pasinetti sul primo festival di Cannes. Era una brezza inevitabile in una rivista che usciva nella “piccola Parigi” padana quando ancora la conoscenza dell’inglese non era un obbligo nel campo delle arti e delle scienze. A Parma semmai erano di moda le scarpe inglesi, almeno per chi poteva permettersele. P.S. Circostanze biografiche? Negli anni ’30–40 i miei nonni paterni, entrambi veronesi, abitavano a Parma, in piazza della Steccata. E quasi ogni anno da Como – dove, milanese di nascita e per parte materna, sono cresciuto dal 1929 al 1950 – lasciavo il mio lago per le vacanze natalizie a Parma dove ho trascorso l’estate del 1943, 25 luglio e 8 settembre compresi. Nell’autunno del 1963, inoltre, ho passato ventun giorni a Parma e dintorni sul set di Prima della rivoluzione, secondo film di Bernardo Bertolucci. *** GUIDO ARISTARCO: Il cinema ha appena compiuto cinquanta anni: molti uomini nati con lui e che per lui hanno lavorato, sono già morti. Recentemente sono scomparsi Lubitsch ed Eisenstein; in questi giorni si è spento in una clinica a Rives de Prangins, nel cantone svizzero Vaud dove era esiliato, Jacques Feyder, al secolo Frédéric. [...] Al nuovo mezzo espressivo si era avvicinato e rimase sino alla morte con umiltà rara e fattiva. Un suo libro, scritto in collaborazione con la moglie 69
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Françoise Rosay, si intitola appunto Cinema notre métier (Skira, Geneve, 1944). E di questo “mestiere” si definì un operaio, un artigiano tutt’al più, al servizio di una grandissima industria. [...] E da onesto artigiano belga, senza «grande gloria artistica» (Bardèche e Brasillach), egli debutta nel cinema, prima come attore e assistente di Gaston Ravel, poi come regista. [...] Tornato in Francia, il sonoro trova in lui uno dei primi registi capaci di portarlo sul piano espressivo. [...] L’apporto di questo regista oltrepassa dunque i limiti de le «métier du cinéaste», il suo «artigianato sconfina nell’arte de La Kermesse Héroique: oggi passato tra i “classici dello schermo”. E tutta l’opera di Feyder del resto rimane e rimarrà, per ragioni diverse, nella storia del cinema». [da Umiltà di Feyder, in «La Critica Cinematografica», III, 9 (giugno-luglio 1948)]
JEAN-GEORGE AURIOL: Rari sono i cineasti che conservano a lungo questo magnifico orgoglio di madre che si rifiuta di mettere al mondo il figlio di un’altra. Quanti sono? Chaplin, Dreyer, Dovjenko... Stroheim non è più che un fantasma, Langdon è ignorato. Murnau morto. Prévert senza voce. Welles rischia di ritirarsi su posizioni di attore, di divenire Otello, Enrico IV, Attila, Genserico, Mefistofele senza potere reintegrare la propria personalità. Clair è un dandy della pellicola. Nella maggioranza dei casi il cinema è esercitato da gente che, entrandovi, abbandona ogni altra speranza salvo quella di ottenere alti stipendi e belle ragazze senza fatica. [...] E quando arriva qualcuno, la cui testa s’elevi al di sopra del mare polveroso del gregge, esso viene dilaniato da una muta di cani urlanti, generalmente eccitati dalle pulci dei critici traditori. [da Diario romano, in «La Critica Cinematografica», III, 9 (giugno-luglio 1948)]
LUIGI BARTOLINI: Perché io chiamo il Cinema arte inferiore? Perché mentre a Verlaine per scrivere una poesia bastava un piccolo foglio di carta, (egli le scriveva su brandelli i più curiosi) a soggettisti, registi, attori, ecc., occorrono oggi, credo, una sessantina di milioni allo scopo di realizzare un qualsiasi soggetto. Dunque il Cinema dipende dai sessanta milioni. Dunque è un’arte soggetta e schiava! È doppiamente schiava in quanto lo è del produttore e degli uditori. Chi sono gli uditori? Non siamo noi, poeti e artisti: ma è il pubblico delle fantesche e dei sergenti maggiori. [...] Se poi guardiamo al Cinema io vi giuro che dal tempo che il Cinema è nato ancora non è stato girato un solo film completamente morale. Vi prego di
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non sgranare gli occhi, né di grattarvi tra i capelli. Non raccapricciate! È così! Potrei esemplificare, trasformando questo rapido articolo in un enorme volume di citazioni, di critiche, ai pincipali films che ebbero apparenza (ma non sostanza) morale. [...] I mariti (sullo schermo) sono tutti stupidi. Han sempre torto o quasi torto. Le mogli? Quanto più Bovary sono e meglio è. Tale Cinema è troppo facile. Ed infatti i films di Lattuada valorosamente resistono (per esclusivo suo merito di regista) ai miei occhi: in quanto Lattuada è un grande artista sprecato, o quasi, in Italia: dove registi ciociari ottengono più facili palme. [...] Ecco perché io, personalmente, sono pentito d’aver concesso al De Sica e allo Zavattini la riduzione del mio libro1 alla scena del cinema. [da Cinema moralizzatore, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
ATTILIO BERTOLUCCI: Spesso, troppo spesso, nel nostro cinema si parte in automobile e si arriva a piedi. È capitato anche a Lattuada con il Bandito. [...] Ma più che linguaggio vorremmo dire grammatica, che è cosa diversa. Linguaggio è movimento complesso, cadenza; grammatica è soltanto ossatura. Il primo non può essere senza questa, ma anche una corretta grammatica non crea necessariamente un linguaggio. Perché a un certo punto la grammatica non conta più, è cosa arida e vana se non si esalta e si annulla nel linguaggio. John Stahl ha raccontato così Le chiavi del cielo,2 un grosso film cattolico, protestante e puritano, che pare stia sempre per cominciare finché, dopo due ore e mezzo di proiezione, finisce. Che del resto è una maniera anche questa di tenere desta l’attenzione dello spettatore. [da Recensione, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1946)]
LIBERO BIGIARETTI: Il cinema dunque, seppure è escluso che possa “portare” agli uomini un messaggio di poesia (per lo meno non lo ha ancora portato), seppure fino ad ora non ha mostrato di resistere al tempo ( i suoi “classici” di venti anni fa sono assai più invecchiati dei nostro “testi” di cinquecento o di mille anni or sono) può peraltro moltiplicare per un numero incalcolabile di volte l’efficacia documentaria, epperò di costume, di moralità, dell’arte narrativa; può anche ampliare la
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Ladri di biciclette, pubblicato nel 1946. Il titolo italiano è Le chiavi del Paradiso, dal romazo The Keys of the Kingdom (1942) di A. J. Cronin.
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nozione che l’uomo ha del mondo fisico che lo circonda, agevolare con una casistica suggestiva la conoscenza dei sentimenti e delle passioni; infine accelerare la solidarietà fra popolo e popolo (o al contrario provocare sentimenti di avversione). [...] tali enormi possibilità restano ancora potenziali a cagione della rinunzia del cinema ad una autonomia che invece le è propria. In sostanza il cinema vive ancora su un compromesso, chiede al teatro o alla letteratura un sussidio di cui non ha bisogno. [...] Il cinema, dunque, giunto alla maturità tecnica, o quasi, è ancora, spiritualmente, infantile. Forse per il fatto di poter dipendere da tanti creatori (regista, attori, scenografi, ecc.) è rozzo all’incirca come certa poesia popolare frutto del lavoro successivo di rapsodi. [da Risposta di un narratore, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1946)]
LORENZO BOCCHI: A proposito di Stroheim il Figaro ha pubblicato qualche tempo fa interessanti dichiarazioni dell’attore-regista sotto il titolo Come inventò, senza saperlo, la scuola italiana. «Chiamatela come volete questa forma di cinema – ha dichiarato Stroheim – ma io ci credo. Nel ’17 avevo trovato nella camera di un alberghetto un romanzo intitolato McTeague scritto da Frank Norris.3 Per calmare la fame e la voglia di fumare, divorai quel grosso libro e mi giurai di portarlo sullo schermo. Sei anni più tardi – avevo già fatto altri films – un produttore mi lasciò realizzare il progetto. Presi in affitto una vera casa in una vera strada di San Francisco. Giravo nelle camere stesse dei miei attori. Le 42 bobine dei Rapaci4 erano costate 9 mesi di lavoro e soltanto 470.000 dollari». [da Venticello dei Campi Elisi, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
LUIGI CAGLIO: La discrepanza di vedute e il distacco fra la critica e il pubblico – anche se non assumono le proporzioni che loro attribuiscono per i loro trasparenti scopi molti produttori, noleggiatori e tenitori di sale – sono una realtà incontestabile. Ora io mi domando se questo lato non produce di quando in quando un senso di disagio in quei critici che non indulgono a sterili ed orgoglio3
Norris (1870-1902) pubblicò McTeague nel 1899, voltato in italiano come Una storia di San Francisco. Si allude a Greed (1924-25), uno dei capolavori, mutilati dalla MGM, del cinema muto. Il suo titolo italiano è Rapacità. Ci risulta che col titolo di I rapaci uscì in Italia Twelve Miles Out (1927) di Jack Conway con John Gilbert, pure prodotto dalla MGM. 4
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se variazioni sul motivo oraziano: «odi profanum vulgus et arceo». La mia posizione di fronte a questo isolamento della critica è umilmente questa: nessuno può ragionevolmente chiedere al critico di fare gettito della sua sensibilità, del suo gusto, della sua cultura, delle sue tendenze. Ma l’esortazione a non compiacersi oltre misura dell’isolamento in cui possono metterlo certi suoi atteggiamenti, la cordiale, direi affettuosa sollecitazione a porsi talvolta un interrogativo circa la reazione di molte anime semplici, di molti spettatori sprovveduti al film che l’ha riempito d’indignazione o che l’ha entusiasmato, mi sembrano non siano fuori posto. [da Il critico e la servetta, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
OSVALDO CAMPASSI: I surrealisti passati al cinema provengono in genere dalle varie arti ed in modo particolare dalla pittura e con il loro operato hanno contribuito non poco ad avvicinare il cinema stesso alla tradizione delle arti. Se questo concetto spiega storicamente quanto l’ossatura del soggetto in esame esprime, esteticamente, come abbiamo in principio detto, infligge un grave colpo alla urgenza surrealista di evocazioni fuori da qualsivoglia controllo. Babau,5 forse ultimo soggetto cinematografico surrealista, ha sì tutti i requisiti della perfetta creazione surrealista, ma offre troppa possibilità alla scoperta di un sistema ideologico. [da Per un soggetto di Salvador Dalì, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agostosettembre 1948)]
UGO CASIRAGHI: «Chiunque altro sarebbe crollato, al posto suo; e invece lui cade in piedi, verniciando il suo film con un uso spesso così accurato del mezzo tecnico, con una sapienza così matura nel guidare certi attori, nel dosare certe luci e nell’approntare certe scenografie, che davvero c’è il pericolo di dar per buone delle cose che non hanno un’anima, né una vera sostanza polemica. [...] le lacrime, come diceva Flaubert, sono un brutto segno per un’opera d’arte; come diceva Hebbel, offuscano gli occhi e impediscono di vedere. [da John Ford e la stanchezza del cinema americano, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1946)] 5 Babau, soggetto originale di Salvador Dalì, fu pubblicato nel 1932 dai Cahiers Libres. Non fu mai realizzato in film.
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GIULIO CESARE CASTELLO: Sento a volte una sorta di pungente nostalgia, come per un primo amore che so perduto e che tuttavia non posso impedirmi di vagheggiare dentro di me. [...] Anche voi sentite che qualcosa si è spezzato, qualche cosa che sarà difficile ritrovare. Qualche cosa che non rientrava nel regno dei carrelli e delle panoramiche, che spesso con l’arte aveva una parentela assai relativa. Ma che pure esercitava su noi – allora – un fascino invincibile e, se non ci faceva gridare «Ecco i nostri», ce lo faceva pensare; che ci teneva a bocca aperta dinanzi ai cartelloni del cinema, con stupefatto desiderio. Qualche cosa che ora possiamo soltanto ricordare con un rimpianto talvolta struggente, come legato alla nostra stagione migliore: il primo amore, ecco». [da Cinema primo amore, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
LUIGI CHIARINI: Per proseguire sull’esempio ciclistico, dirò che se l’equipe cinematografica funzionasse con la stessa unità d’intenti come una squadra ciclistica e nello stesso clima di comprensione e di simpatia del pubblico, si sarebbe già fatto un gran passo avanti nel miglioramento del cinema teso al traguardo dell’arte che dovrebbe essere uguale per tutti. Né si dica che in tal modo si svuoterebbe il film del suo contenuto ideologico ed educativo giacché la grande forza educativa dell’arte sta proprio nel suo disinteresse e nella capacità di elevare gli uomini in una sfera più alta dove tutti veramente si ritrovano fratelli.... [da Vade retro, Satana, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
SERGIO FROSALI: Se indagassimo con una certa profondità le ragioni del culto che si porta al jazz, le troveremo in definitiva nella sua emotività fisica, nella ragione puramente pratica che inebria ed eccita [...] È per questo che in Italia si amano i film sulla società italiana attuale: lo spettatore vuol esser trasportato lontano, non ricordarsi di essere su di una poltrona legato al fastidioso resto della sua vita, ma da quella poltrona, come da un tappeto volante delle Mille e una notte, essere trasportato in ambienti inimmaginabili: il far-west, i bassifondi di Parigi e di Londra, le belle sale fornite di ogni comfort dove giovani forti e sicuri amano donne piene di attrattive. [da Il cinema e la società, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
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JORIS IVENS: Il gioco preferito di noi ragazzi era quello degli “indiani”. Lo giocavamo sui colli fuori di città. A undici anni i miei libri preferiti erano quelli che parlavano di Indiani, libri di James Fenimore Cooper e di Karl May. Quest’ultimo, uno scrittore tedesco che non era mai stato in America, scriveva soltanto di indiani “buoni”. Noi lo preferivamo. [...] Non fu difficile passare dal gioco degli “indiani” fuori di città all’idea di fare un film sugli indiani, per il nostro diletto. La vecchia macchina Pathé servì da sprone. [...] Quando facevamo la parte degli indiani ci truccavamo con la polvere del buon cioccolato olandese. [da Pagine autobiografiche, I, in «La Critica Cinematografica», III, 9 (giugno-luglio 1948)]
ORESTE MACRÌ: La società è una creatura delicata nella sua complessità, nella sua dura e tenace struttura. Da una parte c’è il bene, dall’altra il male. Il male che ci inventiamo è fittizio, «altro mondo, ma certo un mondo», sì, però fittizio, una prova remota della vitalità, della radicale essenzialità del bene. Il male dell’arte è cosa terribilmente difficile, quanto è facile il male della società, lo spettacolo triste della sua incommensurabile miseria. E io mi permetto, in quanto uno dei primi responsabili dell’ermetismo presso i miei quasi coetanei, di denunciare il gravissimo pericolo di una inflazione delle figure del male nel corpo debole e piagato della società.6 [da De conversione seu inversione ermethismi, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1948)]
VITO PANDOLFI: Il film che è oggi lo spettacolo per eccellenza, ha come ogni spettacolo, dal nascere della società umana, un senso vitale di decisione, di atto collettivo, meditato, determinante, in quanto pone lo spettatore e l’attore dinanzi alle loro responsabilità, e lo porta a superare il bivio, in una strada diversa: ma questo potere è tanto forte quanto provvisorio. Se l’azione del teatro è chiusa nel breve incalzare di una sera, e di lì al più in una stagione che da lei prende sembianza, quella del film supera gli spazii, ma esaurisce altrettanto brevemente il suo proiettarsi: appunto perché ha tanta forza di decisione. Dello spettacolo, sia cinematografico che teatrale, non resta vivo che il sedimento della memoria, un alito di fumo. [da Nascita e ricordo, in «La Critica Cinematografica», III, 10 (agosto-settembre 1948)] 6 Macrì (Maglie, Lecce, 1913) è stato, con Carlo Bo, uno dei critici “ufficiali” – e in qualche misura teorico – dell’ermetismo, studioso di letteratura spagnola e traduttore dal francese (Paul Valery e altri).
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Morando Morandini
FRANCESCO PASINETTI: Una novità, nel campo dei premi, a Cannes,7 è stata quella di attribuire un premio per ciascuna nazione. Vi sono rimaste escluse soltanto il Portogallo e l’Egitto. [...] Quantunque i diciotto delegati ufficiali componenti il jury internazionale non abbiano ritenuto di dover attribuire alcun premio a film italiani, resta però il fatto che la produzione italiana sale di giorno in giorno nella considerazione dei critici dei vari paesi, dei cultori del buon cinema, degli industriali. [da Dopo Cannes, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1946)]
SERGIO ROMANO: Furore (The Grapes of Wrath, 1940) non è un film sociale, i personaggi non sono disegnati in profondità, polemicamente, si esauriscono in qualche annotazione umana che li rende avvilenti, e vivono sempre di un tratto fisico caratteristico. [...] Furore, sia pure con una certa impostazione polemica, resta un western, ne ha tutti gli elementi. [da Furore, in «La Critica Cinematografica», III, 10 (agosto-settembre 1948)]
RENZO RENZI: Già il silenzio del muto, che occorre superare ogni volta che ci si accinge a vedere un film di tal genere, (N.d.R. La fine di San Pietroburgo, di V. Pudovkin) fu il primo impaccio: oggi che, col sonoro, abbiamo creato il silenzio nel cinema, il tacito processo del film muto, per prepotenza di abitudine, diventa una specie di inspiegabile elemento espressivo. [da La fine di San Pietroburgo, oggi, in «La Critica Cinematografica», III, 9 (giugno-luglio 1948)]
BUDD SCHULBERG: Quando sarà scritta la storia definitiva dei primi cinquant’anni di Hollywood o il grande romanzo che imprigioni lo spirito intero di questo luogo, esso tratterà di questa grande battaglia mai risolta tra la macchina commerciale e quegli uomini o donne di talento che, quando entrarono, non poterono lasciare alla porta la loro integrità personale e la coscienza artistica. Da questo stato di
7 L’inaugurazione del I Festival di Cannes avvenne il 20 settembre 1946. Il Grand Prix (dal 1976 la Palma d’oro) fu dato a La bataille du rail (Operazione Apfelkern) di René Clement.
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Due o tre cose che so su una rivista che non leggevo. Con un’antologia privata
guerra sono usciti alcuni dei migliori films di Hollywood. I piani di Ford e Nichols per The Informer (Il traditore, 1935) andarono mendicando finché alla fine, con una convinzione fin troppo rara fra i professionisti del cinema, essi proposero di fare il films per nulla e di puntare sul ricavato. The Lost Weekend (Giorni perduti, 1945) non avrebbe forse visto la luce di un proiettore se lo scrittore Charles Brackett ed il regista Billy Wilder, la coppia dorata della Paramount, non avessero insistito nell’adattazione del romanzo di Jackson8 come contropartita per un film musicale più gradito all’ufficio direzione. Questa teoria di compensazione è stata per lungo tempo la formula di compromesso ad Hollywood. [da Cinema americano: cinquant’anni dopo, in «La Critica Cinematografica», III, 12 (novembre 1948)]
MARIO SERANDREI: I registi possono dividersi, per un montatore, in due grandi categorie: quelli che vogliono tagliare e quelli che non vogliono. I primi hanno sempre paura che il film sia troppo lungo o troppo lento, i secondi pensano esattamente il contrario. Questi vedono le forbici come un pericoloso bisturi amputatore di misteriose bellezze, quelli invece credono ciecamente alla chirurgia ed esaltano il taglio, anche quello cesareo, capaci di buttare nel cesto anche un intiero salone con colonne e genericoni costosi. In un caso o nell’altro, per il montatore la vita è sempre difficile. Oggi si può essere rimproverati per aver tolto tre fotogrammi domani bisogna lottare disperatamente per difendere una scena intiera. [da Dal taccuino di un montatore, in «La Critica Cinematografica», III, 9 (giugno-luglio 1948)]
TRILUSSA: La Scimmia un giorno agnede dar fotografo / Dice: «Vorrei sapé se sò capace / de fà l’artista ner cinematografo. / Me piacerebbe tanto a fà la traggica / ne la lanterna maggica!» / «Eh – disse lui – bisognerà che provi: / prima devo vedé come te metti / eppoi come te movi. / Fingi, presempio, d’esse una bestiola / in una posa un po’ sentimentale / che pensa all’ideale / senza che sappia dì mezza paro-
8 Samuel Jackson Budd Wilson Schulberg (New York, 1914), figlio di un produttore cinematografico, fu uno dei più apprezzati sceneggiatori nella Hollywood degli anni ’50: Fronte del porto (1954) e Un volto tra la folla (1957) di Elia Kazan, Il paradiso dei barbari (1958) di Nick Ray. Ha scritto diversi romanzi tra cui Dove corri Sammy? (1941), acre e veritiero ritratto di Hollywood, e The Harder They Fall da cui fu tratto, su sceneggiatura di Philip Yordan, Il colosso d’argilla (1954) di Mark Robson. È un esperto di boxe, un novantenne ancora combattivo e lucido.
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Morando Morandini
la...» / La Scimmia, con un’aria d’importanza, / se mise a sede, fece la svenevole, / guardò er soffitto e se grattò la panza. / «Brava – strillò er fotografo – Benone! / Questo, pe’ fà carriera, basta e avanza: / sei nata proprio co’ la vocazione. / Se allarghi mejo certi movimenti / chissà che artista celebre diventi». [Basta la mossa. Citata da Verdone nel saggio I poeti nel cinema e il cinema nei poeti», in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
PIETRO PAOLO TROMPEO: Non già il pensiero (parola troppo ambiziosa), ma una mia idea sul cinema espressi qualche anno addietro nella conclusione d’una conferenza sui rapporti fra il cinema e il naturalismo. Dissi, più o meno, che il mio regista ideale avrebbe dovuto operare una sorta di combinazione fra Poe (o Baudelaire) e Stendhal.9 [da Risposta di uno stendhaliano, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1946)]
MARIO VERDONE: Fatti filmici e fatti cinematografici, aggiungiamo, possono avvilirsi nel peggior cinema. «Ma – come dice Alain – poiché un piano è fatto perché si suoni, sarebbe folle credere che tutti quelli che vi poseranno le mani suoneranno bene». E altrettanto Francesco Flora: «Chi dirà male della stampa e dell’alfabeto solo perché è possibile abusarne?».9 [da Introduzione alla filmologia, in «La Critica Cinematografica», III, 9 (giugno-luglio 1948)]
GIUSEPPE UNGARETTI: Charlot aveva concepito e componeva un film come un poema, come un balletto; l’aveva così concepito e composto forse istintivamente, forse (ciò che avrebbe del resto denotato in lui il gusto innato per il balletto) perché a Londra gli era, per vivere e pagarsi gli studi di medicina, piaciuto fare il pagliaccio di circo. [...] Il sentimento tragico della vita e l’insofferenza verso qualsiasi società non costituita volta per volta a capriccio, non è cosa che sia nata in lui con Monsieur Verdoux, è cosa del suo temperamento, e s’era, naturalmente, manifestata subito. [...] Se quest’uomo, questo diavolo, non possedesse come possiede il
9 Trompeo (Roma 1886-1958), docente di letteratura francese, saggista di finissima eleganza, associò l’indagine psicologica a quella stilistica. Notevoli, tra l’altro, i suoi studi su Stendhal.
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dono del ritmo, avrebbe potuto rendere armoniosa e accettabile, anzi ammirabile, un’opera tutta fatta di squilibri, d’inverosimiglianze, di stridori, com’è Monsieur Verdoux?. [da La quadratura del circolo, in «La Critica Cinematografica», III, 10-11 (agosto-settembre 1948)]
CESARE ZAVATTINI: Un giorno mi dovrò decidere e dare il mio addio al cinema. Scriverò una lettera ad un amico e gli confesserò tutto. Sarà una lettera piena di rammarico e di amarezza. Che ora cerco di annegare lavorando per tutto e per tutti. [...] Penso seriamente che la posizione dello scrittore di cinema, si chiami pure Prevért o Riskin, sia una posizione impropria, matrice di guai mortali in chi se ne occupa. Si tratta di amplessi interrotti e si sa che conseguenza provocano gli amplessi interrotti. Si potrebbe scrivere una nuova Sonata a Kreutzer in cui quello che fa del cinema come lo faccio io finisce molto male perché opera contro natura. [da Zavattini non ha segreti, in «La Critica Cinematografica», I, 5 (dicembre 1946)]
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Sergio Frosali
A Parma, naturalmente
A scorrerla oggi, «La Critica Cinematografica» ci riconduce nell’appassionato dopoguerra che si aprì all’improvviso, dentro quelle sobrie ma elegantissime copertine di un azzurro antico, alle dialettiche culturali oscurate dal fascismo. Esplose, in noi poco più che ventenni, il bisogno di sottrarci ai conformismi di massa, fossero i residuati del regime oppure i neo-americanismi di stampo hollywoodiano che già stavano dilagando. E due furono allora, sul terreno del cinema, le principali risposte: quella più sociologica e politicizzata di Guido Aristarco e quella più filosofica, letteraria ed estetica: «La Critica Cinematografica» di Antonio Marchi, appunto. Fra le due, mi trovai allineato alla seconda dove, ospitato con molta eleganza, mi situai con naturale complicità. Avevo messo piede a Parma pochi mesi dopo la fine della guerra, quando a Firenze volevamo fondare un circolo del cinema. Era accaduto allora che l’amico Guglielmo Amerighi mi conducesse a Parma per incontrarvi Attilio Bertolucci che avrebbe potuto fornirci le informazioni necessarie. Fatto sta che ci intrattenemmo di sera con il grande poeta in una sua casa con giardino dove trovammo anche un ragazzo piccolissimo: doveva essere Bernardo, il futuro regista. Ricordo che il treno notturno del ritorno, per nostra stanchezza e distrazione, ci dirottò a Imola dove ci svegliammo all’alba: da lì un altro convulso viaggio su binari sconquassati ci restituì in serata a Firenze dove, facendo tesoro dei consigli ricevuti da Bertolucci padre, riuscimmo più tardi a far nascere, sopra le macerie del dopoguerra, il nostro cineclub. E qui la mia memoria, forse troppo indulgendo a ricordi nostalgici, rimbalza fino a quando negli anni Ottanta, insieme ad Attilio Bertolucci, feci parte a Salsomaggiore di una giuria festivaliera dove noi due, coalizzati come congiurati, 81
Sergio Frosali
facemmo vincere il primo premio a un film del Burkina-Faso, impregnato di un fresco neorealismo africano, contro gli altri giurati che volevano premiare un perfetto prodotto americano. Quella tarda alleanza trovata a Salsomaggiore fra Bertolucci e me, non era perfettamente figlia del purismo parmense già sostenuto, tanti decenni prima, dalla «Critica Cinematografica»? Che c’entra tutto questo? C’entra, sì, perché ha a che fare con la Parma elegante e colta dove aveva potuto nascere una rivista rigorosamente lontana dalle servitù che poi avrebbero regnato sulla cultura di massa. In quegli anni, la rivista fu un’isola privilegiata dove si cercò di fissare e conservare, non senza un certo elegante snobismo, i valori di un amore per il cinema non svenduto né alle mode né ai soprassalti infrastorici. Stavo per scrivere “cinefilia” invece di “amore per il cinema” ma per fortuna mi sono fermato in tempo. Infatti il nostro amore di quel tempo nasceva, sì, da una passione sviscerata per lo schermo, ma non ci permetteva di dimenticare quanto il cinema sia contiguo alle altre arti e alle altre forme di sapere, dalle quali ricava, e con le quali scambia, la sua forza e la sua nobiltà. Confrontavamo il cinema con la letteratura, con la pittura, con l’architettura e con la musica, senza fare sconti preliminari alla sala buia. Cercavamo i titoli della nobiltà filmica: solo dopo averli valutati, potevamo passare al giudizio sui film. Pensavamo, fra passato e futuro, di poter inquadrare e salvaguardare lo stile, la forma, il rigore dei contenuti, l’autenticità dell’attività inventiva. In noi restava sottintesa, ma canonica, la distinzione fra opera e prodotto. Credevamo di dover mettere a fuoco una filosofia dell’immagine. L’amore per il cinema non doveva sfuggire, per noi, al confronto con la letteratura, con la storia, con la società, con la psicanalisi. Leggevamo le estetiche di Croce, Dewey, Adorno, Gombrich e Husserl, la prosa di Proust e quella di Sartre, l’etica di Kierkegaard e quella di Jaspers. Fra i critici figurativi, svettavano per noi Longhi, Ragghianti e Cesare Brandi: quest’ultimo per i suoi scritti poi raccolti in un volume aperto pure al film: Teoria generale della critica. Poco più tardi, nel ’52, succedetti al poeta Mario Luzi, in seguito candidato ufficiale al Nobel, nel ruolo di critico cinematografico del quotidiano fiorentino «La Nazione». E come venni assunto? Presentai alla direzione alcuni miei scritti apparsi su qualche rivista del settore, fra le quali prevaleva, per quantità e qualità, «La Critica Cinematografica» con le sue copertine azzurre. La mia routine criticogiornalistica partì da lì, dall’esibizione dei miei acerbi scritti parmensi. Era parmense anche l’amico e collega Pietrino Bianchi, già collaboratore della «Critica Cinematografica» e poi critico uficiale del quotidiano «Il Giorno». Pietrino fu spesso per me, dopo il ’54, un commensale delizioso durante i vari festival che insieme ci capitò di seguire. Quante decine di festival? Quante centinaia? Per noi 82
A Parma, naturalmente
due, ex-collaboratori della rivista diretta da Antonio Marchi, la letteratura non poteva venir dimenticata per subordinarla al cinema, ma gli restava una fiancheggiatrice ideale e fatale. Quelle due arti fra loro contigue alimentavano, per Pietrino e per me, un cimento inevitabile e una fratellanza non eliminabile. Pietrino derideva scherzosamente, presso di me, l’ambizione fiorentina di rifarsi ai Medici e a Lorenzo il Magnifico, ai quali lui opponeva la parmense Maria Luigia, ben altrimenti colta e intelligente. Era un vecchio gioco ricorrente fra noi due. Citava spesso Stendhal, a voce o per iscritto, in memoria della Chartreuse de Parme, proponendosi come rappresentante di una capitale dell’arte, della letteratura e dello stile: la divina Parma. Altro che provincia italiana: le nostre due piccole capitali erano l’una più gloriosa dell’altra. E poi, come potevamo litigare sui film, noi che entrambi avevamo collaborato alla «Critica Cinematografica», la rivista più rigorosa degli anni Quaranta? Chi di noi aveva avuto, se non lui, l’idea di imitare il grande attore Eric Von Stroheim nell’impiego di un monocolo al posto degli occhiali? Mentre i milanesi e i romani potevano aver l’aria di provinciali svagati oppure di settari rissosi, Pietrino apparteneva alla culla del rigore estetico che consacra i valori imperituri: da una parte le pagine di Stendhal e dall’altra la lente oculare di Von Stroheim, con il filo di seta all’occhiello della giacca. Di recente ho riletto alcune pagine della «Critica Cinematografica» e mi sono ricordato di quel direttore gentiluomo che fu Antonio Marchi. Sì, la storia macina tutto nel suo procedere verso l’oblio, ma a volte il suo gran fiume cela e protegge anse riparate dove una fresca corrente ancora circola, invece di abbandonarsi verso un delta immane e terroso che tutto agguaglia. Da un passato messo a riposo dal “progresso” – le virgolette sono d’obbligo – possiamo recuperare nicchie dove nacquero semi che, portati dal vento, generarono alcuni frutti, anche se oggi semi-dimenticati. Noi antichi collaboratori della «Critica» rischiamo, a rileggerci, di apparire, ai nostri stessi occhi, dei puristi un po’ astratti. Gli eventi successivi parrebbero averci dato torto. Forse questo è accaduto perché poi ci si è più o meno arresi al fragore della audience? Intanto il gran fiume del secolo ventesimo ha stravolto molte culture autoctone, impiantando qua e là i suoi Ogm sociologici, quelli che rendono di più in termini di omologazione monetaria. Ci venga permessa una postuma tenerezza per quei nostri radicalismi forse non indegni di una bacheca in qualche museo di archeologia culturale. Ci sentiremmo felici se un cartiglio scarabocchiato con le nostre firme venisse deposto in una vetrina non troppo distante da un’altra che racchiudesse le imperiture effigie, altamente simboliche e rappresentative, di Fabrizio Del Dongo, della Sanseverina e del conte Mosca. Deporremmo accanto a queste ultime, volentieri, un nostro umile e devoto mazzolino di fiori. Dove, se non a Parma, naturalmente? 83
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Mario Verdone
La redazione romana
Durante la guerra e nell’immediato dopoguerra ero nello staff dirigenziale del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e mi dedicavo con particolare interesse al mondo della produzione documentaristica, sia con rubriche in periodici cinematografici e non, sia impegnando me stesso alla realizzazione di cortometraggi, dopo le prime esperienze fatte in seno ai Cine-GUF. Nel 1943 il CSC mi mandò a Parma a presentare nella sede della GIL il film Alleluia di King Vidor, interpretato da attori neri. Suscitai un mezzo scandalo perché nel quotidiano locale si parlò di un esempio di umanità malata e di follia negroamericana. Io invece ne parlai come di un film che non era affatto materia di razzismo ma piuttosto ritratto esemplare di sentimenti umani, non importa se rappresentati da esseri di pelle bianca o nera. Deplorato da alcuni, ebbi invece il consenso di Oreste Macrì, Attilio Bertolucci, Antonio Marchi; non so se era presente anche Alberto Bevilacqua. Rammento bene che Macrì disse: «Non credevo che a Roma ci fosse tanto attualismo!»; io intesi come “atto puro”. Nel 1951 fui invitato dal presidente della Mostra dell’Artigianato di Firenze, professor Roberto Bracco, a realizzare un cortometraggio sul lavoro artigiano. Diventato buon amico di Antonio Marchi, offrii a lui, che stimavo, e che già aveva girato con successo Nasce il romanico, di dirigere il breve film che sceneggiai e intitolai Lavorano per voi. Marchi, appassionato di cinema, aveva ideato nel 1946 la rivista «La Critica Cinematografica» che uscì a Parma in elegante veste, rispettosa della bella tradizione tipografica della città di Bodoni. Volle istituire redazioni a Roma e Firenze, ed a me offrì quella romana, che prese sede nella mia abitazione di allora, a piazza Paganica numero 13. 85
Mario Verdone
Da Roma inviai alcuni “pezzi” su cinemanifestazioni che si avvicendavano sui “Sette colli” (anche titolo di una mia rubrica), ma, dato l’interesse che avevo per i rapporti tra cultura e cinema, procurai anche interventi di intellettuali. Per esempio, nello stesso palazzo di piazza Paganica dove abitavo era al terzo piano (io al quarto) la casa dello stendhaliano e romanista Pietro Paolo Trompeo: come gli avevo letto il mio primo saggio “romanistico” sul Tasso nel mondo belliano gli chiesi anche un suo intervento sull’arte del film che venne pubblicato nel numero 5 della «Critica Cinematografica». I rapporti tra cinema e mondo della cultura continuarono a interessarmi, tanto che pubblicai nel 1952 per le edizioni di «Bianco e Nero» Gli intellettuali e il cinema, e nel numero 11-12 della «Critica» (1948) presi occasione per parlare di “Poeti nel cinema” e del “cinema nei poeti”. Parma doveva essere teatro di altre mie iniziative. Collaborai con Luigi Malerba alla rivista «Sequenze», dove curai i “numeri” sul “Cinema comico” e sul “Cinema educativo”: ma soprattutto trovai posto nel 1970 nell’Università dove per vittoria di un concorso mi venne affidata la cattedra – da me inaugurata negli atenei italiani – di Tecnica e didattica del linguaggio cinematografico, e dove diressi in via Cavour l’Istituto di Storia del Teatro e dello Spettacolo. Il cinema ormai prendeva ufficialmente spazio nelle università, dove dapprima erano ospitati alcuni corsi liberi (no credit, senza esami) – ed anche io ne avevo fatti fin dagli anni Cinquanta alla Università per Stranieri di Siena, alla Cattolica di Milano, al Centro Sperimentale di Roma – ma dopo il 1965, anno in cui ottenni cronologicamente per primo la Libera Docenza di Storia e critica del film, molti atenei ebbero occasione di bandire concorsi e innovare cattedre dedicate al cinema, ufficialmente non conosciute negli ordinamenti degli studi. «La Critica Cinematografica» fu per me una bella esperienza: la mia firma apparve accanto a quelle di illustri letterati, di Joris Ivens, Jean George Auriol, Sergio Romano, Vito Pandolfi, Antonio Pietrangeli, Fernaldo Di Giammatteo, e numerosi altri nomi prestigiosi che ora sono incapace di elencare con esattezza. Argomenti che mi stavano a cuore erano la filmologia, il cinema d’avanguardia, anche astratto, e ne parlai nel numero 7 (1947) in Forme pure del fonofilm, trattando specialmente di Ricciotto Canudo, il teorico della “Settima arte”, personaggio che mi era caro fin dalla mia permanenza a Siena (dove scopersi i primi scritti di Canudo nella rivista, allora autorevole, «Vita d’arte», usciti nel 1908) e che ripresi più volte finché il pensiero del “barisien” fu affrontato con maggiore impegno con la partecipazione di Michel Décaudin, in uno speciale Congresso a Bari e a Gioia del Colle (dove Canudo era nato). Il Congresso venne organizzato con molta cura da Giovanni Dotoli, che promosse anche la nascita della “Fondazione Ricciotto Canudo”. Questi furono dunque i miei rapporti avuti con «La Critica Cinematografica», 86
La redazione romana
con Antonio Marchi, con «Sequenze», con l’Università, dove rimasi per qualche anno, prima di passare all’Ateneo di Roma; ma trovai il modo anche di continuare personalmente la mia attività di documentarista: e per la Editalia Film di Roma realizzai il mediometraggio Bodoni arte della stampa (1971).
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Isa Guastalla
Colombi Guidotti al cinema
La felice occasione della pubblicazione della «Critica Cinematografica» a distanza di tanti anni mi offre l’opportunità di parlare di Mario Colombi Guidotti e dei suoi rapporti col cinema. In quella che Lisa Oppici definisce «prodigiosa attività» del giovane Colombi una parte non marginale è dedicata al cinema. Non è difficile intuire che a suscitare questo interesse abbiano avuto una parte determinante le personalità di Pietrino Bianchi e di Attilio Bertolucci, maestri e amici, artefici di quella concezione (nuova per i tempi) del cinema come arte, nell’atmosfera culturale del “Maria Luigia” in cui era stato presente anche Cesare Zavattini. Mario esercita fra la fine degli anni Quaranta e il 1950 anche attività di critico cinematografico sulla pagina di Parma del «Giornale dell’Emilia», attività perseguita con puntigliosa dedizione e non senza un piccolo sacrificio (le visioni dei film avvenivano nel primissimo pomeriggio, dopo una mattinata di lavoro nello studio paterno e in vista del lavoro pomeridiano. Ricordo che c’era un sostituto, Alfonso Madeo, il futuro giornalista del «Corriere della Sera»). Oltre al mestiere di referente delle proiezioni cittadine, a Mario piaceva intervenire nelle questioni attinenti al cinema con una visione più ampia e approfondita, come rivelano i numerosi articoli pubblicati fra il 1948 e il 1950 su «Il Mattino del Popolo», il quotidiano di Venezia diretto da Tito De Stefano, e sull’«Uomo libero», espressione della sezione di Parma del Partito Liberale. I suoi interventi in fatto di cinema, particolarmente numerosi nell’anno 1948 sul «Mattino del popolo» di Venezia, presentano una vasta gamma di argomenti: Orson Welles non parla di Rita, articolo che risale al novembre 1947, e poi 89
Isa Guastalla
Anche Deborah Kerr standardizzata da Hollywood?, Guy Madison ragazzo per bene, Bob Mitchum non si è lasciato montare la testa dal successo, John Garfield uomo di sinistra, Jean Simmons non conosce Shakespeare, Cinema e letteratura, La Mc Guire scrive romanzi, Non parla ma piace (sulla pin-up Martha Wikers), Glenn (Ford) porta sempre l’anello matrimoniale. Il discorso è condotto secondo una prospettiva personale e particolare, puntata quasi sempre sul personaggio attore (ma si veda l’articolo su Cinema e letteratura, che tocca un tema che gli sta particolarmente a cuore). Sull’«Uomo libero», fra il 1948 e il 1950, la linea perseguita si riconosce negli articoli Mai Zetterling non vuole vedersi sullo schermo, Ricordo di Lubitsch e di Eisenstein, La terra trema. Per questo, ancor più interessante è la presenza di Colombi Guidotti sulla «Critica Cinematografica», in quanto costituisce una primissima testimonianza del suo interesse per il cinema. Il giovane Colombi, giovane come lo erano i due fondatori Antonio Marchi e Fausto Fornari, interviene con un articolo, Appunti per un Hemingway al cinema (nel numero 2 del marzo-aprile 1946) e con un breve racconto, Incinte, nel numero 5 del dicembre 1946. L’articolo riguarda il controverso tema dei rapporti cinema-letteratura (si veda l’intervento di lì a due anni sul «Mattino del Popolo» del 21 settembre 1948 col titolo Cinema e letteratura), del trasferimento di un testo dall’uno all’altro linguaggio. L’incipit pone, senza indugi e con chiarezza, il tema: «Tutti sanno come da un qualsiasi romanzo, anche da un cattivo romanzo, possa trarsi un buon film». Poi il discorso si concentra su Hemingway (non si dimentichi che lo scrittore americano fu il grande mito, la scoperta di quegli anni per i temi e soprattutto per i caratteri del suo linguaggio). Il discorso di Colombi Guidotti si svolge attraverso una serie di punti svolti con notevole chiarezza e coerenza. Secondo lui l’apporto principale della letteratura al cinema è quello del racconto (la sottolineatura è nell’articolo), e non nega che il ritmo del racconto cinematografico sia a suo volta capace di influenzare la letteratura. Hemingway, secondo il suo giudizio, offre al cinema il suo dialogo «profondamente cinematografico», e Colombi vuole meglio specificare che non intende che sia tale perché «rapido, essenziale», ma perché «denso di allusioni, pittorico, in fondo teatrale, come per es. Vittorini». Mi pare che questa osservazione, comunque la si voglia giudicare, riveli una notevole originalità e si discosti dall’idea corrente di coloro che affermano che il linguaggio dello scrittore americano sia cinematografico tout court per la sua essenzialità e per i suoi caratteri allusivi. 90
Colombi Guidotti al cinema
Cinematografica è inoltre in Hemingway la varietà degli ambienti (e cita la Spagna, l’Africa, l’Italia, frutto del suo «amore per il viaggio», del «gusto giornalistico delle cose»). Il suo romanzo meno importante Avere o non avere viene giudicato «carico di succhi cinematografici» proprio perché si svolge in un ambiente avventuroso. Anche il monologo interiore, cifra costante del linguaggio letterario di Hemingway, viene definito «altamente cinematografico», così come la sua visione retrospettiva degli avvenimenti. Un’indagine così puntuale e approfondita, risolta nella misura breve dell’articolo di giornale, colpisce per l’acutezza del giudizio. Non si può non tenere in conto il fatto che queste parole sono state scritte nel 1946, quando il dibattito del rapporto letteratura-cinema era ancora all’inizio. Certamente il discorso è proprio di un letterato, che mostra una capacità di guardare al testo scritto con una ampiezza di riflessioni che stupiscono per i tempi e la giovinezza dell’autore. Direi che non troppo discosto dal discorso cinematografico è il racconto Incinte, nel n. 5 del dicembre 1946. Sembra che qui Colombi Guidotti abbia voluto sperimentare la sua vocazione alla prosa narrativa con un testo breve ed essenziale, che ritrae una situazione in una sala d’attesa. Dalle battute di dialogo, prevalenti nel racconto, e dalle brevi riflessioni del personaggio maschile, emerge un ritratto psicologico delle due donne, incinte, e un retroterra di situazioni sfumate: un esempio di racconto alla maniera di Hemingway, per dimostrarne la sua deducibilità nel linguaggio cinematografico?
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Antologia
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Nel lavoro di trascrizione si è proceduto secondo questi essenziali criteri: a) abbiamo uniformato le modalità di indicazione dei titoli (film, libri, ecc.), utilizzando il corsivo laddove, nella rivista, si adottava invece una pluralità di codici; b) siamo intervenuti nella correzione di alcuni evidenti errori di stampa presenti nei numeri originali della rivista, mentre per quanto riguarda, nello specifico, le irregolarità con le quali venivano riportati i nomi propri, ancora una volta abbiamo emendato gli errori e uniformato la trascrizione; c) non siamo intervenuti, viceversa, sul sistema della punteggiatura, se non nei rarissimi casi in cui questa andava a scapito della comprensione del periodo. [N.d.c.]
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Letterato al cinema
Richiami frenetici, interiezioni selvagge, indicazioni topografiche radiotelegrafate ai congiunti, cui dalla stretta materna la tempesta divelle e sperde nel mare, gioia barbarica per seggiole conquistate e forsennato trapestìo di bipedi fra quadrupedi seggiole, fecero impallidire i migliori brani descrittivi della Gerusalemme. Rinaldo dileguò dal ricordo... CARLO EMILIO GADDA
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Letterato al cinema
Oreste Macrì
Letterato al cinema [numero 1 – gennaio-febbraio 1946]
Le seguenti opinioni si fingono proposte dalla persona di un letterato ideale nel momento in cui siede di fronte allo schermo: di qui l’energia vitale, qua e là incoerente, delle sue proposte. In qualità di letterato, mi sento in profondo disagio di fronte a quest’arte demonica, dionisiaca. Soprattutto in qualità di letterato-umanista, l’unico definito nella storia umana, colui che vive di una fede precisa nella sintesi della forma tra le fondamentali istanze della pura coscienza e i sensibili della natura: incontro di eterogenei che si esprime nell’opera d’arte, l’unica presenza attiva, sostanziale, della coscienza che ritorna dall’itinerario nel Diverso, nell’Altro dalla sua iniziale purezza. Qualunque altra soluzione non è letteratura, non è matrice di arte e di poesia. Si può conflagrare la natura di questa coscienza, di questa fede? È forse essa un fenomeno individualistico, una cultura storico-empirica, magari il frutto di una classe sociale, o una necessità naturale che è anche spirituale libertà? I motivi del mio disagio sono molteplici. Di fronte allo schermo mi sento prevaricato, intimamente ferito, lacerato nella parte più sacra di me, nel principio dell’economia spirituale e materiale dell’arte. Il mio sguardo nulla può dirigere, fermare, interpretare; quel che ricevo lo estrometto; mi sento come di fronte alla natura, alla vita, quando queste sono più eccessive e imperiose. I miei sensi recettivi hanno avuto finora esperienza di arti che attingono l’assoluto attraverso specule strumentali parziali: la parola, il colore, il marmo, il gesto. Ciascuno di questi strumenti parla la sua voce propria e la voce simbolica degli altri: in questa parzialità, in questa economia – risultato felice dell’antica inopia con la sublimità dell’universale coscienza fantastica – è la razionalità, la classicità dell’arte, l’elemento logico-analogico che concatena e fonde i sensibili in strutture organiche secondo il concetto aristotelico dell’arte-animale, vita di parti in una forma integrale. Non mi riferisco al cinema puro, assoluto, sperimentale, d’avanguardia, sia espressionista o astratto o surrealista; il letterato che se ne diletta sa bene che si tratta d’una consolazione provvisoria, d’una traduzione di testi già risolti e perfetti nell’ambito delle lettere, o che potrebbero esserlo. Mi riferisco al grande cinema industriale – medioeuropeo e americano –, forma di espressione totale, autonoma, indipendente da qualunque arte o spettacolo similare. Dirò, in una maniera grottesca, come dall’industria di Pisistrato si combinarono i poemi omerici. È il cinema, allora, il linguaggio e il mito di una nuova umanità, una dimensione dell’arte, nuova non solo nei contenuti,
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non solo nei mezzi tecnici, ma nell’intima forma espressiva? Ecco perché insisto sul mio disagio di letterato e invidio francamente quei terrorizzanti che delineano probabili estetiche, poetiche e grammatiche del cinema, estendendo a quest’arte supposta i principi della forma classica e razionale, propri di tutta la serie delle arti. Queste poetiche ci fanno assistere al miracolo compiuto da un “montatore-regista” il quale coordina e struttura materie eterogenee in un testo unitario, provvisto delle qualità fondamentali dell’opera d’arte: liricità e obiettività. L’accento specifico è fatto oscillare tra un romanzo d’immagini integrale e un integrale verismo secondo gli umori borghesi o proletari del critico. Eppure, il mio dubbio permane. L’Amleto, l’Apollo del Belvedere, il Purgatorio di Dante, non tanto sono coordinazioni e strutture, quanto continuità omogenee, diciamo così, di punti sensibili e metafisici addensati in modo curvilineo, qualitativo e infinito, nel testo obiettivo; e qualunque lettura o traduzione parziale e finita non altera e consuma il loro ordine segreto, la vita intima del numero nell’unità. Gli elementi di questo mitico montaggio, invece, sono provvisti di una loro forma anteriore autonoma, e si combinano come in un tracciato poligonale di segmenti giustapposti. Pare una fuga critica affermare che essi preesistevano [...]. Se io domani riuscissi a ridurre questo fluire senza numero nella certezza finita della contemplazione, avrei forse scoperto un’illusione, un gioco, per quanto tragici e umani: avrei scoperto, insomma, il meccanismo stesso della psiche umana, di cui una pallida, grottesca immagine, mi è offerta nel “rallentamento”. Così, io dubito molto che siano opere d’arte le Piramidi egizie o i monumenti megalitici della mia terra, per quanto miri con profonda pietà quelle reliquie del tempo. Fra i più gravi sintomi della disintegrazione della forma classica furono il romanzo e la scenografica, lavori artistici che tendevano a un’integrazione di tutta la storia del cuore umano oltre le simmetrie materiali, strumentali e parziali: commistioni, sincretismo, trame eclettiche, miranti a introdurre il moto effettivo della via polivalente, plurisensibile, insieme con le figure del mondo o naturali o deformate della soggettività romantica attraverso un potenziamento all’infinito delle due in un tempo unico onde attingere il quadro della vita nella sua assoluta oggettività (si ricordi l’Ulisse di Joyce, termine di questo processo). Ingrandita tale oggettività dell’arte, si postulava altrettanto immane la soggettività contemplante: lo spettatore doveva identificarsi con l’intera umanità. Uguale è il mio sentimento del cinema: l’uomo di fronte alla vita (vita = immagine della vita; quasi come nella vita?) senza mediazioni, senza elaborazione reciproca: l’elaborazione del montaggio non è la fantasia individuata calata e obliata nella materia formata, ma un puro oblio, una sparizione senza tracce. La composizione del montaggio, infatti, riduce e appiana in una neutra e tragica visione della vita i rilievi formali dei singoli pezzi, che sono uniformati con tecnica elementare, lineare, dai grandi registi (Eisenstein, Pudovkin, Murnau, Ford, Pabst...). 98
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Nulla predomina come certezza statica in quest’arte eraclitea e orgiastica: né la parola, né la musica, né la mimica né lo scenario né la stessa immagine. Quel che predomina, insomma, non è la «rappresentazione», ma la «volontà», dirò in linguaggio schopenhauriano, un impegno unico di vita, un duro nucleo d’angoscia vorace, insaziabile, incoercibile, che assorbe, risucchia, tramuta le trascorrenze figurate con sue proprie leggi vitali a contrappunto con i canoni e le regole visibili dell’arte. La risultante è un sapiente impasto di materie eterogenee che tendono all’unità fuori dello schermo, come la Pizia tenta di estroflettersi per liberarsi dal Dio. La fine del film mi segna una sensazione di vacuo e sottile orrore. Il trionfo del male come del bene, mi prostra in un astratto furore. La catarsi si consuma non nel luogo della breve sfera familiare e cittadina, dove noi santifichiamo le certe presenze di noi stessi, ma nel senso di una indefinita umanità cui ci sentiamo legati più per fato naturale che per elezione spirituale. Se fossi maniaco politicista, direi che questa pare la difesa, la rivincita del capitalismo produttore contro il suo spettatore proletario, malamente mitigata dall’umanesimo del regista. Questa umanità che ci è proposta ci incute una grigia pietà, non quella carità che può fare e soccorrere. Ci sentiamo impotenti, lontani; ritorna quel naturalismo preartistico, donde Omero e i tragici trassero fuori l’umanità specificando questa nelle sfere proprie e veritiere del lavoro, dell’amore, della morte. A me sembra al cinema come di non vedere. L’unica percezione reale è che dentro di me si muova il tempo vitale, radicale, che ho coltivato pietosamente ed eroicamente nella mia vita per difendermi contro tutte le morti; e che è l’unico stabile, l’unica costante per la quale mi sento misura di tutte le cose. Finora, per me, fantasia, memoria, sono state selezione, economia, microcosmo. Il romanzo aveva profondamente avviato l’avventura umana verso la vita, come se la vita fosse davvero il traguardo e non il punto di partenza. Ma innumerevoli erano le sue consolazioni, i suoi compensi: finzione teatrale, io ineffabile, lucido ragno d’una tela insalivata, pregna di succhi familiari, dialettica, trasfigurazione, riconoscimento di cose note e concrete. Era immagine della vita, una immagine di un occhio reale, umano. L’obiettivo è stato detto «occhio» [...] curato, assistito, dall’umiltà del regista, ma dal di fuori, quasi in un’intenzione fallica che è la disperazione del possesso; infine, occhio disimpegnato, monastico nella sua neutra, disinteressata assolutezza. L’arte del regista è una lotta perenne contro il naturalismo meccanico, ma rimane inventrice di pure modalità illustrative e funzionale nei riguardi della forma, della «rappresentazione». Nei riguardi del “decoro classico”, la realtà prodotta da quest’arte è irresponsabile, come tutte le riduzioni al docu99
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mento essenziale della vita. Non, però, documento fotografico, sebbene documento scelto, accettato, esistenziale. Documento che non si afferma con la sua grande presenza visiva e non tende propriamente a esaltare delle figure o delle anime, ma a ridestare con meccanica sincerità le prime domande: la fugacità delle cose, il nostro destino, la paura della “cattiva coscienza”, la pietà, il sesso, il sangue, la fratellanza umana. Tali domande riappariscono dal sottosuolo della nostra superficie civile con una loro selvaggia brutalità, dilavandoci dall’anonimità della specie nostra e del creato. È ovvio che la durata di queste mie sensazioni si identifica solo con il tempo della proiezione e ha davvero una strana analogia con gli atti umani dispersi nel puro inane della vita, nei quali l’intensità del sentire è inversamente proporzionale alla loro durata nel tempo. Con questo articolo di uno dei più valorosi critici della giovane scuola italiana inizieremo un libero dibattito sul cinema: sulla sua natura, sulle sue relazioni con le altre arti e con gli altri aspetti della vita umana, sulle sue prospettive presenti e future. Ci auguriamo che la discussione sia feconda di risultati e che ad essa prendano parte uomini di ogni provenienza: oltre che artisti e letterati, uomini dell’economia, della politica, delle scienze, così da offrire una documentazione il più possibile compiuta di questa fondamentale categoria dello spirito.
Mario Colombi Guidotti
Appunti per un Hemingway al cinema [numero 2 – marzo-aprile 1946]
Tutti sanno come da un qualsiasi romanzo, anche da un cattivo romanzo, possa trarsi un buon film, in quanto l’opera letteraria può servire anche soltanto come spunto agli sceneggiatori, come tessitura del racconto (e talvolta neppure questo). Sta ai medesimi sceneggiatori, da un lato, agli attori, al regista, dall’altro, interpretare cinematograficamente l’opera letteraria, e può nascere dall’estro di un’artista una falsa interpretazione dell’opera letteraria, che pure è una magnifica versione cinematografica, la quale poco o nulla ha da vedere con la pagina stampata. Di questa interpretazione dell’opera letteraria nel cinema, se ne sono occupati brillantemente, come una interessante curiosità, non pochi letterati; ma non credo che in tal campo, si possa andare oltre la curiosità. Quello che invece appare più interessante, dato che è indiscutibile che certi legami esistono tra le varie arti, in quanto esse si incontrano in un piano superiore di espressione, al di là del modo con cui si arriva a tale espressione, 100
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è cercare di penetrare nella sostanza di tali legami. Si è molto parlato dei rapporti fra pittura e cinema, letteratura e cinema, scultura e cinema, ecc., e io non starò a ripetere quanto già altri hanno scritto meglio di me. Entrerò soltanto, con qualche appunto, nella materia che particolarmente mi interessa, nei rapporti tra letteratura e cinema. Innanzi tutto c’è da ricordare che il cinema ha tanti anni di meno delle altre arti e quindi più facilmente si è lasciato penetrare dagli influssi. Ma a parte questo mostrare, per maggior debolezza, ora dove c’è pittura, ora dove c’è letteratura ecc., esistono quei più intimi rapporti espressivi, i quali appartengono contemporaneamente all’una e l’altra arte raffrontate, senza che perciò si possa parlare di influsso o di dipendenza. Colla letteratura mi sembra che il rapporto essenziale sia quello del racconto. Racconto che ha subìto nei suoi modi tecnici degli immensi mutamenti. Oggi pare, e non si può negare, che il ritmo del cinema abbia influenzato a sua volta il racconto, che si sia giunti a una sostanziale parentela tra cinema e racconto. Hemingway, in questo senso, è forse il maggior esempio che la storia letteraria ricordi. Io credo che il suo dialogo sia un dialogo profondamente cinematografico, per esempio. E questo vorrei rilevarlo in contrapposizione all’altro dialogo, ch’è il dialogo teatrale. In molti film c’è un puro dialogo teatrale, un dialogo allusivo, denso (perché tutto nel teatro si svolge in quella camera, ed è necessario dire sovente che cosa è successo prima o fra una scena e l’altra). Il cinema invece offre mezzi, forme, possibilità, assai superiori al teatro, ed ecco che il dialogo si può purificare, semplificare; può divenire uno scarno e concreto mezzo di comunicazione momentanea, non parlo d’un linguaggio banale o apoetico, ma certo d’un linguaggio più umano, più reale, spoglio da qualsiasi eco di retorica o gonfiatura. Chiamando il linguaggio di Hemingway profondamente cinematografico non intendo certo parlare della tecnica del linguaggio. Non vorrei che mi si fraintendesse, quindi. Il fatto del dialogo rapido, essenziale, non vuol dire che si tratti di dialogo cinematografico, come del resto capita in altri scrittori contemporanei, che hanno un dialogo tecnicamente aspro, succinto, ecc., ma denso di allusioni, pittorico, in fondo teatrale, come per es. Vittorini. Hemingway invece arriva alla poesia colla più pura naturalezza, nel dialogo, e basterebbe sfogliare il suo capolavoro, L’addio alle armi, per accorgersene di quanto poetici sarebbero nel cinema, per esempio i dialoghi d’amore tra Katherine e il suo amante o quelli nell’albergo sul lago Maggiore, ecc. ecc. Sono partito a parlare del dialogo che in fondo non è che un particolare, seppure eccezionalmente interessante, per l’accostamento, ma già ho innanzi agli occhi quel mondo ideale per il cinema che è l’ambiente di Hemingway. 101
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Ideale per la sua vastità, per la sua apertura, ideale per il suo senso umanissimo, per il suo fondo di una specie di ottimismo, se si può chiamare così quell’affrontare i problemi senza timore, quel sentire senza colore, senza apprensioni, che la vita continua, al di là della nostra morte. Ma forse ottimismo non si può chiamare; è forza, coraggio, di fronte alla vita. Quanto a vastità, apertura, vi sono innumerevoli possibilità nell’opere di Hemingway, soprattutto perché il suo personaggio è senz’altro un vagabondo, un uomo che non può fermarsi in nessun luogo. Nel suo primo romanzo Anche il sole si leva era già evidente questa necessità di muoversi; la Spagna fin d’allora appariva il paradiso momentaneo dell’inquieto scrittore. L’addio alle armi (1929) è la storia d’un amore sul nostro fronte, l’altra guerra, e l’ambiente è perfetto cinematograficamente. C’è la soddisfazione continua del suo mutamento, dal fronte alla retrovia, dalla ritirata alla fuga in Svizzera, all’ospedale, al lago Maggiore, ecc. ecc. Gli esterni si moltiplicano: fiume, lago, montagna, città; un materiale cinematografico straordinariamente abbondante. L’ambiente di Hemingway è il più vario, il più vivamente interessante che si possa immaginare. Il suo amore per il viaggio, il suo gusto giornalistico delle cose, ce lo dicono in ogni sua pagina. Egli fu presente alla Grande Guerra e scrisse L’addio alle armi, fu presente alla guerra di Spagna e scrisse Per chi suona la campana, fu presente in quest’ultima guerra, e non mi meraviglierei che avesse pronto un romanzo collo sfondo del recente conflitto. Molti suoi racconti si svolgono alla caccia grossa in Africa, come in Verdi colline d’Africa, altri nell’ambiente dei boxeur, dei fantini, dei toreri; tra le sue pagine più belle vi son quelle sulla pesca. Il suo romanzo meno noto, e del resto meno importante Avere o non avere si svolge in un ambiente avventuroso, carico di succhi cinematografici. Si tratta delle vicende di un avventuriero che fa il contrabbandiere navigando da Cuba alla Florida. Questo che io ho detto brevemente, sui due punti essenziali del rapporto narrativo tra cinema e racconto, si potrebbe approfondire, penetrando, con lo studio particolare, nei testi. Alle quali indagini se ne potrebbero aggiungere altre rivolte ai non pochi particolari tecnici, densi d’interesse per il cinematografo, come il monologo interiore, largamente usato da Hemingway, e le visioni retrospettive degli avvenimenti, nel racconto, specialmente numerosi in Per chi suona la campana. Si potrebbero infine portare esempi, fare raffronti, tentare una possibile sceneggiatura. Noi in Italia non abbiamo ancora visto nessuno dei tre film tratti dai romanzi di Hemingway. Né L’addio alle armi (1932), sceneggiato da Benjamin Blazer, Oliver H. P. Garret, con Gary Cooper, Helen Hayes, Adolphe Menjou, di cui all’estero pare non si sia parlato troppo bene, né Avere o non avere, con Humphrey Bogart e Lauren Bacall, diretto da Howard Hawks, né Per chi suona la campana, con Gary Cooper e Ingrid 102
Letterato al cinema
Bergman, diretto da Sam Wood. Personalmente ho una grande speranza nel film interpretato da Bogart, che ci auguriamo di vedere presto. Hemingway, come si vede, è entrato definitivamente nel cinematografo, in questi ultimi anni, come già appare ormai famoso in tutto il mondo per la sua opera letteraria.
Oreste Macrì
Controversia [numero 2 – marzo-aprile 1946]
L’incontro tra l’inglese Alfred Hitchcock e l’americano Thornton Wilder ha generato uno strano impasto con impuntamenti e soluzioni altrettanto singolari. Al regista di Easy Virus, del Club dei Trentanove, della Prima moglie, interessa l’aura romantica con un tessuto di racconto fitto, densisissimo, intorno a un centro d’angoscia che s’illumina dello scioglimento finale architettando come una chiave magica che vuole riaprire tutto il labirinto della memoria illusa e perduta durante lo spettacolo. Di qui, la tensione a un successo spontaneo del film; successo, come per esempio un lieto fine, che è l’anima stessa e il significato del film: in questo modo si tende a salvare in un tempo l’arte e la coscienza morale dello spettatore. È evidente che a Wilder interessi l’arte, anzi la poesia, l’analisi intima, la magia delle identità, e, diciamo anche, la speranza di una catarsi. Così, qui, l’identità tra lo zio Carlo e la nipote Carla. Ma il personaggio maschile rimane indietro; l’identità resta solo nell’interno della fanciulla, né c’è la ragione poetica di questo restare nell’interno. Gli sforzi di Carlo per rammemorare la sua piccola città e integrarla nella sua innocenza, nel suo candore, sono tutti meccanici, perché il dato patologico trascina tutto a fondo; la giustificazione del delitto compiuto è esterna e retorica. È indubitabile che l’anima e le case della città soffrano nel processo narrativo di questo sfasamento dei protagonisti, per quanto il regista stringa i motivi, tagli le scene e i dati del dialogo talora mirabilmente. Sarebbe strano che qualcuno sostenesse la tragicità del protagonista sulla impossibilità di una redenzione. A parte poi che il rifiuto della nipote è netto, senza probabilità di curiosità. È qualcosa d’infranto per sempre, d’irrimediabile, anche perché è irrimediabile nella corrispondente realtà. Non si capisce dove si voglia portare la figura della ragazza con quell’ostinato e forzoso trionfo della vita consumato con l’amore del poliziotto e con la morte ad effetto del protagonista. Il lavoro dell’arte era da farsi tutto per immagini, s’intende, nello spazio trepidante e periglioso tra male incarnato e innocenza che si dischiude affascinata da un forte mistero di vita; e invece è risultata una 103
«La Critica Cinematografica»
macchina psicologica rozza e artificiosamente colorata, pur qua e là venata di chiare e ingenue invenzioni, dentro un’atmosfera pigra, inerte, come ferrigna e lontana; non pigra e inerte oggettivamene, in quanto risultato artistico, ma perché così trovata empiricamente, sulla intelaiatura casuale della trama. L’effetto e la fine erano essenziali per Hitchcock, e hanno sommerso l’intervento di Wilder che certamente avrebbe desiderato fare indugiare di più lo zio Carlo nella città, come Emily in Our town, fargli gustare di più la mite dolcezza di quell’oasi di pace nel banale e bonario intreccio della vita quotidiana, anche se percorsa da strane curiosità, come i giochi gialli tra il padrone di casa e il suo amico. Magari tentare di salvarlo. Tanto che Wilder consentì al producer Sol Lesser a che Emily vivesse, diamine! Perché il cinematografo è quasi la vita, laddove il teatro è forse un’allegoria della morte... Consenzienti, in parte, con quanto ci scrive l’amico Macrì ci sembra tuttavia che egli non abbia colto la natura e i valori cinematografici dell’opera di Hitchcock. Non potendoci servire, come risposta, della critica del collaboratore p. v., che si è occupato del film nella rubrica «I film del mese», ci riserviamo di ritornare sull’argomento.
Lorenzo Bocchi
Il ragazzo nel film [numero 2 – marzo-aprile 1946]
Il cinema, si sa, ha bruciato le tappe. Giunta a noi per ultima, nel secolo della velocità, quest’arte non poteva che conservare tutte le caratteristiche della velocità. Ecco perché, nonostante i suoi stretti legami con le altre arti e specialmente con la letteratura, il cinema non offre la possibilità di seguire nel corso della sua evoluzione un lento e graduale evolversi di motivi come invece possono offrire la letteratura e le arti figurative. Prendiamo ad esempio il motivo del ragazzo. Nella letteratura, specialmente in quella narrativa il mondo infantile fu come scoperto dal romanticismo. Prima il ragazzo non era che un simbolo, una personificazione di certi ideali eterni, della bellezza, della purezza, della vigoria fisica: l’anima classica rifuggente da qualsiasi cosa che fosse informe, non ben definita, chiusa a qualsiasi delimitazione, aveva sempre mostrato di disinteressarsi del fanciullo, di volerlo fare oggetto di rappresentazione artistica. Col primo romanticismo, che portò al trionfo dell’io e della più alta introspezione psicologica, ma specialmente con il simbolismo che nel mondo di sogno, nella zona indistinta della fantasia infantile, nell’impreciso del104
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l’animo vergine del fanciullo trovò tanta materia di poesia, si ebbe la affermazione del ragazzo-personaggio, del nuovo eroe, rappresentazione di tutto un mondo nuovo, sino a quel tempo inesplorato o trascurato. L’anima moderna, stanca dell’avventuroso senso della vita che sino ad allora aveva caratterizzato il romanzo, di quell’avventura intesa come esperienza materiale, di viaggi, di terre lontane, di pure peripezie fisiche, si ripiega sempre più in se stessa. L’avventura continua ad essere considerata come substrato comune a tutta la letteratura moderna, come carattere distintivo del “romanzo”, anche in quelle opere in cui meno è appariscente. Ma diventa avventura interna; e questa avventura tanto più è meravigliosa quanto più numerose e continue sono le possibilità del personaggio che deve viverle, la sua verginità di sentimenti e di reazioni di fronte ai casi della vita; qualità queste meno facili da trovare nell’uomo adulto, più legato alla sua esperienza e ai casi della vita. Ecco perché molti scrittori sentirono sempre più l’esigenza che l’eroe dei loro romanzi fosse un adolescente o addirittura un bambino. Ed è Thibaudet che, a proposito di Alain Fournier, così scrisse in Rèflexions sur le roman: «D’abord Alain Fournier avait compris que l’avventure romanesque n’est puremente belle que dans un milieu d’enfants». Nel cinema questa affermazione graduale del personaggio-ragazzo non si è verificata per esempio nella letteratura francese dell’entre deux guerres, sia perché questo, dopo le esperienze dell’Emilio di Rousseau, del Brulard di Stendhal, del Poil de Carotte di Renard, del Meaulnes di Fournier, delle figure di Proust e di Gide, di Giradoux e di Philippe, aveva già raggiunto le più grandi rappresentazioni artistiche sia perché lo impedivano ragioni tecniche per cui la figura del ragazzo era legata alle difficoltà dell’interpretazione sullo schermo. Questa necessità di una mediazione portava a sviare, almeno nei primi tempi, l’intento artistico del regista, costretto, nei casi più fortunati, a scendere a patti con l’enfant prodige. Nella produzione corrente dei film il ragazzo acquistò subito una funzione simbolica, moralistica, specialmente nella parte finale dello spettacolo (e allo «spettacolo» in genere ci si deve sempre pensare), quando cioè la figura di un bambino può facilmente avere un senso di catarsi, da happy end. Un po’, anche se con la dovuta distinzione, come tutti quei bimbi di cui parla Manzoni nell’ultima pagina dei Promessi Sposi. Non sempre però il ragazzo ha avuto questa funzione secondaria o complementare. Anche il cinema ha trovato nella fanciullezza un motivo di più per la realizzazione di opere singolari: e non solo nei film in cui poteva interessare il fenomeno dell’attore-bambino, capace di recitare e di stupire il pubblico, nell’atmosfera, così essenziale per il primo cinema, del divismo, ma anche nei film che dalla descrizione di quella particolare psicologia infantile hanno tratto materia di poesia. Illustre esempio è il prodigioso Monello chapliniano, un precursore addi105
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rittura per questo lato. E dal fatto che quella fu la prima volta in cui il grande Chaplin affrontò una vicenda più complessa e di più ampio respiro che non le brevi “comiche”, vien fatto di considerare l’importanza di quest’incontro dell’artista inglese col motivo dell’infanzia. L’influenza della letteratura sull’infanzia, quale si era andata delineando dopo le esperienze post-simboliste, si fece sentire in Ragazze in uniforme di Leonine Sagan, del 1931. Un perfetto racconto psicologico questo, inteso a dare una rappresentazione cinematografica di un particolare ambiente in cui alcune adolescenti affrontavano per la prima volta i casi complessi della vita, l’amore. Così pure nel susseguente Giovinezza del 1934, diretto da Carl Froelich, in quella scuola femminile e con quella ragazza incerta fra l’amore del professore e quello del compagno. Furono quelli gli anni che videro il moltiplicarsi di film realizzati tutti attorno a questo tema: la psicologia del fanciullo, dell’adolescente, con quello stesso entusiasmo che aveva caratterizzato anni prima la letteratura narrativa sul medesimo motivo. Nella stessa Germania si ebbero Musica nel cuore di Waschneck e Segreto ardente di Robert Siodmak (il cui soggetto sarebbe piaciuto al nostro Moravia di Agostino), mentre in Francia si ebbero La Maternelle di Benoit-Lévy, tratto dall’omonimo romanzo di Leòn Frappè e ambientato in un asilo per bambini poveri; Poil de Carote tratto dal capolavoro renardiano, film che rivelò Duvivier. L’arte del regista francese trovò nel motivo giovinezza, di quella particolare giovinezza compresa e incompresa tutta renardiana, l’atmosfera ideale; ed i mezzi tecnici che il cinema gli offriva portarono alla creazione di una notevole opera d’arte. Atmosfera di sogno e di incubo, di fantasia morbosa, come nel punto in cui il protagonista immagina di vedere una danza di fantasmi o crede di sposarsi con l’amica di giuoco, tale da far ritenere questo film uno dei più significativi di quel periodo. Anche la Francia aveva il suo enfant prodige, Robert Lynon: Duvivier dirigerà con il giovane Lynon un altro film, Le petit roi, e Marc Allégret Senza famiglia. In un film russo, realizzato nel 1931 Nikolai Ekk, Verso la vita salvo l’attore principale Balatoff, tutti gli altri sono comuni ragazzi di strada, besprizorni come là vengono chiamati. Nello stesso anno, in America, Vidor realizzò Il Campione con la coppia Fallace Beery-Jackie Cooper. Due anni dopo Frank Borzage trasse dal romanzo omonimo di Ferenc Molnar I ragazzi della via Paal; vennero poi David Copperfield di Cukor nel ’35, Simpatica canaglia di Van Dyke, Capitani coraggiosi di Fleming e Il principe e il povero di Keighley nel ’37, Le avventure di Tom Sawyer di Taurog. Ma la fortuna del ragazzo nel cinema continua anche oggi: ce lo dimostrano i ragazzi di Saroyan nella Commedia umana, quel suo Omero perso fra i libri della biblioteca o incantato ad ascoltare la canzone dell’uomo sul treno; i ragazzi della Famiglia Sullivan e di Tom Edison giovane, mentre sempre ci 106
Letterato al cinema
ricordiamo di quei tristi collegiali di Pagnol in Vacanze in collegio. Questo continuo interesse dei registi per il motivo dell’infanzia è un segno della vitalità di questo: pur sopravivendo sempre il pericolo del “divismo” e di preoccupazioni commerciali, la trasposizione del mondo poetico dell’infanzia sullo schermo conserva tuttora molte possibilità per la creazione di opere artistiche da parte di registi intelligenti e che dagli illustri esempi del passato in questo campo sappiano trarre i dovuti insegnamenti.
Pietro Paolo Trompeo
Risposta di uno stendhaliano [numero 5 – dicembre 1946]
Non già il pensiero (parola troppo ambiziosa), ma una mia idea sul cinema espressi qualche anno addietro nella conclusione d’una conferenza sui rapporti fra il cinema e il naturalismo. Dissi, più o meno, che il mio regista ideale avrebbe dovuto operare una sorta di combinazione fra Poe (o Baudelaire) e Stendhal. Per ritrovare il reale fantastico della vita, il cui senso è singolarmente smussato nell’uomo pratico, Baudelaire consigliava ai pittori di fare come quel personaggio di una novella di Poe (L’uomo della folla), che in un momento di grazia, cioè durante una convalescenza che gli ha come rinnovato i sensi, si mette a esaminare quante persone gli sfilano innanzi attraverso una vetrina di caffè in una delle più frequentate strade di Londra; e a un certo momento si precipita dietro uno sconosciuto la cui fisionomia lo ha attirato, e pedinandolo come un poliziotto cerca di penetrarne il segreto. Qui interverrebbe Stendhal, il quale asseriva che un romanzo gli nasceva così: coglieva dalla vita reale una persona, ne approfondiva e idealizzava il carattere dandogli più spirito di quel che il modello avesse, ne studiava le possibilità di azione e reazione, e poi lo lanciava nel mondo in cerca di avventure. Così la favola (poiché d’una favola anche semplicissima un film ha sempre bisogno) si verrebbe a poco a poco a formar da sé, quasi per una partenogenesi, dalla scelta che il regista avesse fatto d’una fisionomia interessante.
Libero Bigiaretti
Risposta di un narratore [numero 5 – dicembre 1946]
Debbo dire che i miei rapporti con il cinema sono sempre stati molto vaghi e indiretti. Non ho mai avuto contatti con il cosiddetto “ambiente”, 107
«La Critica Cinematografica»
ignoro molte particolarità di lavorazione, perfino il linguaggio tecnico, ormai familiare a molti miei colleghi in letteratura, mi è sconosciuto. Insomma io non sono che uno spettatore, e per di più uno spettatore disarmato e innocente. Quel tanto di senso critico e di acume professionale che sostiene le mie letture, quel commento continuo dell’intelligenza, quel controllo degli abbandoni emotivi, scompaiono di fronte allo schermo. Quello che vi succede – al contrario di ciò che provo a teatro – opera direttamente sui sensi, o su una zona inferiore della coscienza: provoca in me divertimento o commozione senza che sia possibile un intervento diciamo così riflessivo. Tutto ciò per dire che mi è difficile esprimere un’opinione sul cinema. Sono poi mortificato dalla circostanza che generalmente un film che mi fa venire le lacrime agli occhi sento poi definire orribile o pieno di errori da amici competenti. Potrei aggiungere che non ho mai provato tal genere di commozione per un romanzo, una poesia, un quadro, eccetera. In ciò potrebbe essere – almeno per me – la riprova che il cinema non ha nulla a che fare con l’arte. Senonché, ecco proprio dove vedo la sua importanza: un’arte che non è un’arte (e non lo è evidentemente tanto per la meccanicità dei mezzi di cui si serve quanto per la mancanza di impronta rigorosa di una unica personalità creatrice) e che tuttavia, per milioni di persone, sta in luogo dell’arte, ha un valore sociale ed etico enorme. Superiore a quello dell’arte pura, la quale se non monologo è colloquio fra poche persone. Ma che vuol dire “valore sociale”? Ho perdute molte illusioni che m’ero fatto sull’arte sociale (non che non vi creda più, ma vi credo in modo diverso); peraltro ammesso che il cinema non è un’arte, seppure è un fenomeno anche artistico, si può tranquillamente parlare della sua socialità. Intanto l’immediatezza, l’universalità del suo linguaggio permettono al cinema la evidenza delle arti figurative e insieme l’eloquenza dell’arte letteraria. Quanto abbia da guadagnare da questo carattere composito e spurio la sua diffusione è inutile spiegare. Il cinema dunque, seppure è escluso che possa “portare” agli uomini un messaggio di poesia (per lo meno non lo ha ancora portato), seppure fino ad ora non ha mostrato di resistere al tempo ( i suoi “classici” di venti anni fa sono assai più invecchiati dei nostro “testi” di cinquecento o di mille anni or sono) può peraltro moltiplicare per un numero incalcolabile di volte l’efficacia documentaria, epperò di costume, di moralità, dell’arte narrativa; può anche ampliare la nozione che l’uomo ha del mondo fisico che lo circonda, agevolare con una casistica suggestiva la conoscenza dei sentimenti e delle passioni; infine accelerare la solidarietà fra popolo e popolo (o al contrario provocare sentimenti di avversione). Anche tutto ciò è così ovvio, così comune che non mette conto parlarne. Ma almeno questo mi sembra importante: che tali enormi possibilità restano ancora potenziali a cagione della rinunzia del cinema ad una autonomia che invece le è propria. In sostanza il cinema vive 108
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ancora su un compromesso, chiede al teatro o alla letteratura un sussidio di cui non ha bisogno. Fa l’impressione che, avuta in sorte una possibilità d’espressione quasi illimitata, non abbia poi nulla da esprimere e si limiti a ripetere gli argomenti e i temi già sfruttati dalla letteratura. Si potrebbe dire che il vantaggio sta nella più ampia volgarizzazione di tali argomenti, ma non è così, intanto perché la traduzione in linguaggio cinematografico è assai diversa da quella idiomatica, trattandosi di trasferire ogni cosa in una sfera diversa di sensibilità. Il cinema, dunque, giunto alla maturità tecnica, o quasi, è ancora, spiritualmente, infantile. Forse per il fatto di poter dipendere da tanti creatori (regista, attori, scenografi, ecc.) è rozzo all’incirca come certa poesia popolare frutto del lavoro successivo di rapsodi. Si pensi alla stranezza di questa circostanza: il cinema non ha ancora avuto un vero, illustre soggetto. Vale a dire, o si sono adattati schemi narrativi preesistenti, oppure, quando si è creduto di crearne di originali, si è ugualmente ricalcata una traccia buona indifferentemente per un romanzo, per un film o per una commedia. Non parliamo poi dell’uso, secondo me improprio e spesso innaturale, che è stato fatto del “parlato”. Credo, in sostanza, che nel momento in cui il cinema tocca la maggiore popolarità esso non ha ancora espresso le proprie possibilità. Gli interessi che presiedono alla produzione di un film ne tradiscono l’autonomia, la libertà: ossia gli negano l’arte. Continuando per questa strada il cinema non può aspirare ad altro che a rimanere un succedaneo della letteratura, un surrogato del teatro. E davvero come scrittore non posso esserne contento. Penso che purtroppo da questo suo carattere discende la responsabilità di rendere sempre più pigri i lettori; il nome di giornali come «Grand’hôtel» che danno qualche cosa che somiglia a un romanzo in una serie di fotogrammi e di didascalie è un fenomeno molto grave di abitudine alla passività verso le immagini. Invece anche le immagini di un film potrebbero avere l’energia, il potere tonico della poesia. Ma chi chiamare in causa? Dietro un quadro, un romanzo, una poesia c’è un artista, l’autore; dietro un film c’è spesso anche un artista (o più di uno) ma soprattutto ci sono produttori, finanziatori ecc.; i quali procedono proprio all’inverso di come procedono i creatori di opere d’arte: la loro offerta è sempre regolata sulla richiesta, legge valida in economia, negativa in arte. In altri termini essi desumono dal gusto medio del pubblico le loro produzioni, anziché imporre o almeno proporre a quel gusto medio il sapore più forte della verità poetica.
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«La Critica Cinematografica»
Anonimo
Zavattini non ha segreti [numero 5 – dicembre 1946]
Le pareti del suo studio sembrano uno di quei muri, come si vedono dalle nostre parti, con le fotografie dei partigiani uccisi attaccate, come gli ex voto, le une vicine alle altre. Non c’è nell’aria, però, l’odore dei crisantemi, anche se sono i primi giorni di novembre, né cade dagli sguardi dei pittori quella disperata invocazione alla vita come dai volti trasognati di quei giovani vestiti dalla festa, ma pacatamente i colori si compongono nella grigia luce del giorno romano e se non fosse per il rosso troppo vivo di un De Chirico e la geometricità di certe espressioni non ti accorgeresti della loro presenza. E sono decine, centinaia, invece, grandi come il palmo di una mano. Decine, centinaia di quadretti, di autoritratti, ecco cosa sono, raccolti da Zavattini nel corso degli ultimi anni. Cominciò per caso, con un regalo di un amico. Poi, in una notte insonne, il suo sguardo posandosi su quell’unica, minuscola tela, idealmente egli la moltiplicò: «Uno? Perché solo uno?» si chiese Zavattini. «Due» egli pensò. «Tre» fece una voce dietro le sue spalle. «Più uno» disse Zavattini. «Più ventisette» rispose la voce. Zavattini si mise allo scrittoio e scrisse trenta lettere ai trenta maggiori pittori italiani. Di lì a poco le pareti cominciarono a ricoprirsi. «Cento» un giorno contò Zavattini. «Più uno» disse la voce dietro le spalle. E altri pittori arrivarono, calmi, silenziosi, trascendentali, con negli occhi già qualcosa di eterno. Ognuno scelse il suo posto nel muro e vi si fissò, dentro alla sua cornice incolore, come dentro a un avello. Senza volerlo essi avevano creato il loro piccolo cimitero. Un cimitero che porta fortuna e che non dà brividi. Ma ogni giorno può essere buono. Dentro a un armadietto Zavattini tiene nascosti i pretini vestiti di rosso con le candele in mano e un piccolo funerale. Un funerale in miniatura con un cavallino nero e due giovani donne vestite di nero. Sono le sue ultime opere. Un giorno un pittore le vide; si accostò a Zavattini e in un orecchio gli disse: «Mi piacciono, Cesare, mi piacciono». E andò via soddisfatto. *** Entrando sento parlare reggiano. Zavattini smentisce Freud. I parenti non sono terribili. Ne arrivano tutti i giorni dal Po. A colazione quel giorno, siamo in quindici. «Quello dei Pittori fu la prima idea» dice Zavattini «Poi vennero i Miti Moderni. Li pensai per De Sica. Ad Isa Miranda consigliai una collezione di suoi ritratti eseguiti dai maggiori pittori. Durante le sue turnèes ella li avrebbe portati con sé ed esposti nelle halls o nei ridotti dei
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Letterato al cinema
teatri in cui avrebbe recitato. Poi c’è Roma. È di là». Ha il suo solito gesto: s’aggiusta i risvolti della giacca e si siede. «È il tempo che manca, non le idee. E il tempo è questo. Tutto è qui, tutto è in me. Io parlo, io mi apro, io non ho segreti. E gli altri uomini invece li hanno i segreti e il tempo. E così ogni tanto arriva qualcuno e ti ruba. Anche se lontano. Dall’America». *** «San Francesco è come una cipolla», ormai si parla solo di cinema, «ha tante pelli. Quando i produttori mi chiamarono e mi fecero leggere il soggetto di un film che si doveva fare appunto sulla vita del Santo, io dissi che non si era tolta che la prima pelle e invece bisognava adoperare il coltello e aprire, tagliare, senza pietà, trovare il cuore. Nessuno ebbe il coraggio. Le cipolle fanno piangere gli occhi. Eppure continuano a chiamarmi». E Zavattini col bisturi nella tasca del paletot esce di casa, prende un tram, compie l’operazione e rientra. Quasi tutti i migliori film italiani degli ultimi anni sono passati nelle sue mani. I pazienti naturalmente non sono sempre uguali e le operazioni non tutte dello stesso genere. Alcune riescono, altre no. «La colpa non è mia» continua Zavattini «certe volte mi presentano esseri che sono già in fin di vita. Non c’è niente da fare. Spesso sono nati morti, ma i genitori non se ne accorgono. Altre volte mi costringono ad operare in fretta, orologio alla mano, o mi invitano ad un consulto solo per dire poi che loro figlio è passato dalle mie mani. E pensare che io non lo conosco nemmeno. È il caso di Daniele Cortis di cui aprendo un giorno il giornale mi accorsi di esserne stato addirittura la levatrice». «Ogni film ha una sua lunga storia che nessuno conosce. Spesso si vedrà il mio nome dove ho solo corretto il secondo tempo, e non lo vedrete affatto dove ho messo la trave per evitare il crollo. Chi mi chiama per un finale, chi per un soggetto, chi per un trattamento. Lavoro caotico, discontinuo, com’è tutta la nostra produzione dove non si riesce mai a mettere insieme tutti gli elementi di cui un film ha bisogno per nascere bene. Un giorno mi dovrò decidere e dare il mio addio al cinema. Scriverò una lettera ad un amico e gli confesserò tutto. Sarà una lettera piena di rammarico e di amarezza. Che ora cerco di annegare lavorando per tutto e per tutti». «Ora la storia del nostro cinema è grama per carenza di registi, che vuol dire in parole povere, per carenza di cinema. E il cinema, si sa, non si può servirlo che facendo del cinema». Zavattini si alza e si affaccia alla finestra. «Né soggetto né sceneggiatura possono salvare né rivoluzione: un regista sì. In quanto il cinema è sempre più uguale al libro e vinceranno coloro che gli si avvicineranno riconoscendogli le stesse esigenze del libro. Penso seriamente che la posizione dello scrittore di cinema, si chiami pure Prèvert o 111
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Riskin, sia una posizione impropria, matrice di guai mortali in chi se ne occupa. Si tratta di amplessi interrotti e si sa che conseguenza provocano gli amplessi interrotti». «Si potrebbe scrivere una nuova Sonata a Kreutzer in cui quello che fa del cinema come lo faccio io finisce molto male perché opera contro natura». Suona il telefono. Prima di rispondere Zavattini lo lascia suonare alcune volte. È Moravia. Verso le tre del pomeriggio anche i romanzieri possono permettersi, coricati su una poltrona, di pensare, leggermente, al cinema. Capisco che parlano di un film su Eleonora Duse. Due mesi almeno occorrerebbero per la sceneggiatura. Ma non li concedono. «Questa volta, no» dice Zavattini ritornando alla finestra e aggiustandosi di nuovo con le mani i risvolti della giacca. In quel momento la vita del cinema gli turbina intorno. Zavattini si ribella; non vuole tradire ancora una volta se stesso ed il pubblico. Addio al cinema? Lo vedo pensieroso vicino ai vetri. Egli non sa adattarsi a quello strano ambiente che è il mondo del cinema. Non sa mentire e difendersi. Un impegno morale lo assilla continuamente. E proprio in quel momento ci ritorna in mente quel «suo uomo» che vuole uccidersi perché non riesce ad amare il suo prossimo e a farsi amare da questo. Ma in piazza del Popolo, con una enorme folla intorno, vediamo non «l’uomo», ma Zavattini stesso. «Non ho potuto amare il cinema. Per questo ho pensato di andarmene» egli dice alla folla. Il «suo uomo» alla fine, si salva. Si salverà Zavattini?
Oreste Macrì
De conversione seu inversione ermetismi [numero 5 – dicembre 1946]
Non abbiamo moralisti per partito preso, ma la notizia della scoperta di invertiti a Milano, descritta con una certa efficacia dal cronista dell’«Avanti» del 16 novembre, ci ha non poco colpiti e fatti tristissimi: è ancora una pennellata, e questa volta acuta e fiorita, al quadro disanimato e perso di questo strano dopoguerra. Non si tratta della baldoria pittoresca dell’altra, di una sfrenata libidine almeno di natura collettiva e corale, ma di una morbosità stilizzata, sottilmente meccanizzata, ombrosa e privata. «L’arredamento e l’addobbo delle due case era adatto alle abitudini dei frequentatori: quadri con oscenità, alcove civettuole semicelate da cascatelle di tulli rosa, azzurri e verdi, tendaggi di pizzi. Le “señorine” erano tutti giovani dai venti ai trent’anni, abbigliati con perfetta intonazione al luogo e al lavoro: vestiti di rasi, sete e pizzi, incipriati, imbellettati, con gli occhi languidamente cerchiati di nero, in testa parrucche femminili». Più interessante è 112
Letterato al cinema
la casa dello scenografo Piovella, detto «Madame Reale», dove, tra l’altro, sono stati scoperti due album nutriti di ardentissime dediche a «Madame Reale» per mano di artisti, divi, registi, del mondo teatrale, d’ambo i sessi. È il mondo poliforme, invertebrato, dissolto alle radici della persona umana – quello dei mimi –, che si sfrena con follia pura nell’arte erotica dell’efebismo e del tribalismo sin dalle cronache voluttuose di Roma e di Alessandria; quello stesso mondo che pure talvolta sa attingere i sommi fastigi dell’arte per un intimo recupero di virilità e di umanità di fronte all’essere e al destino; che corre su una lama di rasoio tra snob e tragicità, tra illusione e realtà, tra mondanità e integrale serietà della vita, quando vince il tempo e lo spazio, e fissa l’eterno nella conclusa brevità della scena. «Gli album recano anche visioni di giovanotti a torso nudo stranamente acconciati in capo, gruppi di uomini voluttuosamente allacciati; vi troneggia spesso la fotografia di “Madama Reale” con la dovuta corona in capo e affiancata da un gagliardo scudiero. Una fotografia mostra, staticamente fissa con gli occhi in quelli di “Madame Reale”, la nota attrice Sara Ferrati». Quale sia questo mondo teatrale tutti sappiamo: povera e sublime cosa, misero impasto di cartapesta e di materia di elezione, in cui penetrano i più disperati dilemmi, i più cari quesiti, le più nobili aspirazioni. È l’umanità allo sbaraglio, una singolare comunità dentro la comune umanità. In questo senso il nostro discorso saprà evitare la via facile e sciocca del moralismo: noi amiamo e seguiamo con amore sincero i nostri complessi teatrali, e crediamo in essi, né pensiamo a uno scandalo che ne investa l’intera compagine. Ma tra quelle firma vi è un nome che non avremmo voluto vedere: quello di Vittorio Gassman, l’egregio attore, il fiero letterato di cose teatrali, lo stesso che parlò alla Sala dei Cavalieri di Parma e ci spronò alla costituzione degli Amici della Prosa. Intendiamoci bene. Io mi rendo conto come sarà avvenuto. Una bella sera in festevole compagnia si sarà recato da «Madame Reale» per una bizzaria, per un’avventura qualunque, come, forse, avremmo fatto tutti, come si va al Circo o ci si ferma per strada a guardare il ciarlatano che inghiottisce chiodi e pezzi di vetro. Diamine! Non lo rimproveriamo di aver visitato «Madame Reale» e di aver segnato un firma in quell’album. Ci scotta, invece, il contenuto della sua dedica: «Siamo tutti sospesi ad un tacito evento questa sera... Con molta simpatia a “Madame Reale”, alla sua Corte, alla sua Casa: altro mondo, ma certo un mondo. 23 marzo 1946». Ci scotta, perché è sottile, degno della sua sensibile intelligenza (l’inizio sono due versi di Vittorio Sereni). E ci inquieta profondamente, perché Gassman non ha resistito all’occasione, alla tentazione, troppo troppo facile, di modulare un’«agudeza» moderna, dove è epigrammaticamente fissato il divario suddetto tra singolare comunità e comune umanità. Questo attore, preparatosi evidentemente, come i migliori della sua generazione, alla vecchia scuola dell’ermetismo, 113
«La Critica Cinematografica»
nell’eccezione più ampia del termine, che, per i giovani, include tutta l’esperienza umanistica, ha varcato un limite che gli era stato imposto, ha tratto profitto in una giravolta della società, che avevamo sempre rispettato. C’è un nostro amico, che scrisse a tesi di laurea, una bellissima tesi, in un salotto di «Madame Sapho» a Firenze, ma poi la portò via senza lasciar traccia, eccetto un’ombra del suo sguardo ostinato sull’asta dell’Unicorno saltellante incontro alla vergine del boschetto del dipinto secentesco in quel salotto. Così è, caro Gassman; credo che ci siamo capiti. La società è una creatura delicata nella sua complessità, nella sua dura e tenace struttura. Da una parte c’è il bene, dall’altra il male. Il male che ci inventiamo è fittizio, «altro mondo, ma certo un mondo», sì, però fittizio, una prova remota della vitalità, della radicale essenzialità del bene. Il male dell’arte è cosa terribilmente difficile, quanto è facile il male della società, lo spettacolo triste della sua incommensurabile miseria. E io mi permetto, in quanto uno dei primi responsabili dell’ermetismo presso i miei quasi coetanei, di denunciare il gravissimo pericolo di una inflazione delle figure del male nel corpo debole e piagato della società. Molta cultura umanistica ed ermetica è passata alla cultura di sinistra, anzi, in molta parte, c’era già virtualmente. Virtualmente, vale a dire, in astratto, per elementi puramente verbali e figurati. Ma è la dimensione sociale, in quanto salto dialettico, che accerta la realtà di questa virtuale esperienza, l’esperienza letteraria più attenta e profonda che l’Italia abbia avuto da tempo immemorabile, per la quale la cultura italiana è entrata in un circolo europeo e mondiale. La dimensione sociale è il massimo di estraneità per un umanista e per un ermetico, eppure la massima tentazione, come abbiamo visto simbolicamente nell’acuta dedica di Gassman, che ci riporta agli «altri mondi» del passato, come la comunità epotica di Gide, come tutte le comunità pagane e primitive del moderno decadentismo. Giacché, la cultura ermetico-umanistica si stupisce e si entusiasma nel trovare nel povero corpo disancorato della trascendenza, gli stessi elementi verbali e figurativi che ha scoperto in astratto: male, efebismo, psicologismo, demonicità, ossessione, disperazione, tutto e nulla, serie completa dei complessi, magia e dissacrazione. È un luogo comune che la pittura moderna ha prefigurato tutti gli orrori delle prigioni, dei campi di concentramento, delle torture, delle esecuzioni capitali. Ci sono stati il cubismo, l’espressionismo, il dadaismo, il surrealismo, l’ermetismo. Ciascun movimento ha anticipato parole e immagini con una precisione matematica, ossessiva fino al minimo particolare. Nulla è rimasto d’intentato nell’avventura letteraria e artistica della scoperta del mondo tremendo in cui ora viviamo; questo mondo tremendo sembra dedotto analiticamente da quella letteratura, da quell’arte. Dunque, allora, che cosa faremo, Vittorio Gassman, noi letterati, noi artisti, in un mondo di cui sappiamo internare numero e figura? Numero e figu114
Letterato al cinema
ra, non li sentiamo venire alla gola, come la “blanche espèce” nella casa di «Madame Reale»? Che cosa significa convertire umanesimo ed ermetismo in cultura di sinistra? Vergare forse una bella dedica sull’abisso, su un rosso e sterile epitelio, proseguire imperterriti nel disperato gioco delle dissonanza tra questo e l’altro mondo, finto di suprema realtà? Ma l’episodio simbolico di Gassman potrebbe moltiplicarsi per tutti quelli che si sono impegnati nella conversione. Fatti alla mano, nessuno potrebbe sfuggire; l’episodio simbolico sarebbe meno appariscente, ma non meno preciso e funesto; fuori discorso, naturalmente, i pallidi epigoni adolescenti d’un tempo che ora ripudiamo qualunque ascendenza, ospiti legittimi d’un’ideale «Madame Reale». Il mio ragionamento, partito in maniera, diciamo, alata, si sta facendo plumbeo. Ma io credo che torneremo al punto di prima se volessimo stare a indagare le radici della colpa dello spirito e dell’arte moderna, concentrici in perenni specialisti della crisi, con buona pace dell’amico Anceschi. Una cosa è certa: sono definitivamente chiusi i cammini della figurazione e dell’analisi. L’incontro dell’astratto e del concreto, dell’arte e della vita, della letteratura e della società, è avvenuto nel concreto, nella vita, nella serietà; non questi sono in noi, ma noi in loro. È questa la nuova schiavitù, da cui l’arte dovrà riprendere la sua ultima libertà, se ne sarà degna. Noi non sembriamo più i soggetti dell’arte. Non è un suicidio, ma una franca meditazione su un reale stato di cose, e «honnir soit»...
S. P.
Nella storia del cinema un rigo per Gertrude Stein [numero 6 – marzo 1947]
In fondo all’ormai introvabile volume Operas and Plays si trovano anche questi due soggettini, omaggio cinematografico di Gertrude Stein. E certo, in tutti gli scrittori che arrivano dall’America e sono per lo più nomadi, curiosi, mai sazi dell’Europa, è a prima vista apparente l’innesto di un modo di vedere, di un occhio cinematografico, in quel realismo europeo quale può essere la lettura del Trois contes di Flaubert come ci confessa Hemingway, il quale, e con lui tutti del resto, nella lettura dei russi ad esempio non è arrivato oltre Sebastopoli di Tolstoj. Questo brillante sesto senso, questo diverso ritmo che gli americani hanno succhiato nel loro latte cinematografico, è visibile, è vero, a grandezza naturale e umana in Pylon di Faulkner che ci pare tuttora il massimo di questi documentari. Ma non sarà inutile scorrere, ancora, le felici righe di questi soggetti che 115
«La Critica Cinematografica»
la Stein ha preso dal suo tempo francese, facili e lievi e con un’ironia guidata dagli avvenimenti che non sono più che buffi pretesti alle parole e ai loro giochi, dove i fatti si dissolvono con uno stupore in cui la bacchetta magica di quegli anni di Entr’acte e dei Pattinatori di Léger ha pure il suo peso. Forse noi non vediamo più queste cose e ne vediamo altre, e guardiamo ormai con un sorriso a quei giochi innocenti, alla ballerina baffuta di quella fanciullezza sapiente in psicoanalisi. Ma nel secondo dei due soggettini (il primo è tratto, come si vede dall’Autobiografia di Alice Toklas, dai ricordi guerreschi della Stein e delle sue avventure pericolose con un macinino che ella guidava per conto dell’esercito americano), il motivo delle due dame ci sembra l’ultima peripezia, l’ultimo grido e poi più, delle rocambolesche avventure, del fascino del mistero, dei due sergenti due orfanelle due gobbi dell’epoca del romanzo d’appendice, che per un’altra via è sboccato in Dostoievski. Nessuno stupore: le due orfanelle come furono poi viste, manichi dall’occhio spento, alla mostra surrealista del ’38. Queste date e questi dati sono definitivi, se non ci sembra retorico affermare ormai la fine di un secolo durato solamente cinque lustri, dall’una all’altra guerra. E il cinema appunto (ora, veramente può parlarsi di storia del cinema) ci fa rivelare, nelle peripezie «invraisemblables» dei due cuccioli bianchi delle due dame, di quell’auto vecchia maniera, la dolcezza di epoche non più rugose, vecchie, stanche, ma addirittura storiche, e quindi piene di una vita come la vediamo solamente attraverso le vecchie comiche, distanti ormai e già classiche. Dalle visoni nebbiose delle due dame, gli involti di panni bianchi celano bimbi nascosti, che sono cuccioli, e le due madri impazzite per la città svuotata di ogni altra persona oltre quei cinque personaggi e l’auto fantasma. Per la qual cosa, senza soffermarci sul cinema che aveva ancora un valore così letterario, così illustrativo, ci sembra che a questo soggetto valga la pena di lasciare magari un rigo libero in una striscia del cinema d’avanguardia.
Gertrud Stein
Due soggetti [numero 6 – marzo 1947]
I. In Francia un pittore americano dipinge nella campagna vicino a un passaggio a livello. Viene una locomotiva che annuncia la Mobilitazione nelle provincie. «Dove stanno turisti americani che mi comprino quadri sacre nom d’un pipe», dice il pittore americano. 116
Letterato al cinema
Il pittore americano stando al caffè contempla il portafogli vuoto quando un tassì pieno di soldati francesi per la battaglia della Marna fila attraverso Parigi. «Credo che farò il tassista qui nella gaia Parigi» conclude il pittore americano. Il pittore seduto in istudio impara affannosamente nomi di strade con l’aiuto della contadina brettone che gli fa da donna di servizio. È diventato tassista. Folla per le vie di Parigi in tempo di guerra. Troppo pigro per alzarsi la mattina passa le più delle sue buie notti a insegnare alla donna di servizio brettone a guidare il tassì in modo che gli dia il cambio quando vuol dormire. L’America entra in guerra, il pittore americano vuol fare il soldato americano: lo interrogano all’Ufficio personale. «Che mestiere fa?» «Il tassista». «Allora conoscete Parigi, starete al Servizio Segreto, continuate a fare il tassista». Continua a dire il tassista, e una sera legge il giornale alla luce di un lampione. Un poliziotto gli dice: «Qui, non potete stare!» - «No, no! Voglio leggere un po’». Viene uno che vuole andare alla stazione. Il pittore lo porta alla stazione. Ritorna e si mette a leggere. Viene un altro e vuole andare alla stazione. Il pittore lo porta. Ritorna di nuovo per leggere un po’. Vengono due ufficiali americani. Vogliono andare alla stazione. Il pittore dice: «Basta con la stazione! Vi porto a Berlino, magari, ma basta stazione!» Gli ufficiali dicono «grossa mancia per voi se ci portate fuori città verso il sud al primo posto importante». Dice «alright: prima scappo a casa a prendere il cappotto». Scappa a casa e chiama la d.d.s. brettone. «Avanti! Telegrafate a tutti i parenti che avete qui attorno, chiedete se si trova da quelle parti qualche ufficiale americano. Torno domani». Torna domani. Lo vuole il capo del Servizio Segreto. Ci va. Sparisce denaro a mucchi del quartiere generale. «Avete carta bianca. Scoprite qualche cosa per Giove». Va a casa. Trova la donna di servizio brettone sommersa da telegrammi e lettere di parenti. «Dappertutto americani». Brontola. «Dappertutto ma dappertutto questi buffi americani». «Quei due americani non tanto buffi», dice mia cugina in sesto grado che fa l’infermiera all’ospedale di Avignone. C’è un soldato americano tanto bellino. Tanto carino, giovane, delicato. Non è ferito grave ma deve starci molto, molto tempo. Lo visitano due ufficiali americani che vivono in un villa. Stanno lì due signore molto carine, anche, e spendono e spandono e comprano tutto il ben di Dio che c’è ad Avignone. «C’è qualcosa, signor Guglielmo», dice la donna di servizio brettone. «Nevica ma fa niente ci arriveremo col tassì. Ci vogliono due giorni e due notti voi dietro e io avanti. Dài». Partono e fila il piccolo tassì buffo sulle 117
«La Critica Cinematografica»
montagne e tutti sfiniti, lui dietro e lei davanti piombano dalla collina su Avignone. A questo punto vengono avanti due americani in motocicletta e la donna di servizio perde la testa: grande sconquasso. Il pittore americano rinviene bruciacchiato, vede i due e dice: «by God» e fa credere di essere morto. I due si danno gran da fare a soccorrerlo. Arriva una carretta e trasporta il pittore americano e tutti quanti all’ospedale. I due americani si allontanano in motocicletta verso Nimes e Pont du Card. Arrivo all’ospedale, interrogatorio del ferito americano, i due ufficiali sono stati fratelli per lui, non credeva che gli ufficiali fossero così affabili con un soldato. Lo coccolavano, sigari, sigarette e tutto. «Dove sono adesso, a Nimes?» «Sì a Pont du Card». Il pittore americano trattenuto a letto in cura da una suora francese riesce a scappare e partire per Pont du Card col tassì rabberciato. Eccitante duello. Gendarme francese-pittore americano, tassì, donna di servizio brettone, due truffatori americani su motociclette con le quali tenta di fuggire sulla vetta di Pont du Card, grande urto e alla fine li catturano: erano loro i ricettatori del denaro rubato. Alla sfilata sotto l’Arco di Trionfo il famoso tassì viene subito dopo i tanks, a richiesta del generale Persching, la donna di servizio brettone al volante e il pittore americano dietro ad agitare la bandiera con le stelle e le strisce Vecchia Gloria e il tricolore. II. All’angolo di una strada di un boulévard esterno di Parigi, una lavandaia di una certa età con un involto di biancheria da consegnare, si ferma per prendere in mano e guardare la fotografia di due cuccioli bianchi e la guarda con passione. Un’automobile a due posti staziona lungo il marciapiedi. D’improvviso, ne scendono due dame precipitandosi sulla lavandaia e chiedendole di vedere la foto. Essa la mostra loro e le due dame sono piene di ammirazione fino a che una ragazza agghindata come se fosse uscita allora da un concorso di bellezza e si fosse smarrita per le vie, passa e vede l’auto vuota, vi entra in fretta e si mette a piangere. A questo punto, le dame entrano nell’automobile e buttano fuori la ragazza. Questa cade addosso alla lavandaia che si mette a interrogarla, mentre l’auto con le due dame parte e d’improvviso la lavandai si accorge di non aver più la foto. Arriva un giovanotto ed essa gli racconta tutta la storia. Alcune ore dopo, davanti a via del Dragone, c’è un’altra lavandaia più giovane col suo involto di panni. La vettura delle due dame si avvicina, si ferma, e le due dame scendono e fanno vedere alla lavandaia la foto dei due cuccioli bianchi. Essa li guarda con piacere e meraviglia ma è tutto. Proprio in quell’istante si avvicina la ragazza del premio di bellezza, e lanciando un grido di gioia si precipita verso la vettura. Le due dame entrano nell’auto e 118
Letterato al cinema
nell’entrare lasciano cadere un piccolo involto, ma sono sempre in possesso della foto e partono precipitosamente. Due giorni dopo la prima lavandaia è ancora nella strada col suo involto di biancheria e vede la ragazza del premio di bellezza che si avvicina con un involtino in mano. E nello stesso tempo vede il giovanotto. Sono tutti e tre insieme allora e tutt’a un tratto ecco passare la macchina con le due dame e con loro sta un vero cucciolo bianco, e nella borsa del cucciolo è un piccolo involto. I tre sul marciapiede lo guardano passare e non ci capiscono niente.
Guido Aristarco
Il tempo dei poeti [numero 7 – settembre 1947]
In un aureo libretto, ancor oggi attuale, scritto da Béla Bálász nell’ormai lontano 1924, il teorico ungherese rivolgendosi agli intellettuali riferiva: «L’arte del cinema reclama voce e voto, vuole un rappresentante tra di voi, vuole essere oggetto degno delle vostre meditazioni, chiede un capitolo in quei grandi sistemi in cui si parla di tutto fuorché di cinema». Il cinema non è ancora giunto nelle accademie e nelle università. Sulla nuova arte si sono avute comunque tesi di laurea (quella di Pasinetti, ad esempio, relatore prof. Fiocco) ed è sempre più sensibile, sia fuori che da noi, un fervore di studi e ricerche. Ci sono gli storici e i teorici, libri, cineclub e centri sperimentali, mostre retrospettive e cineteche. Intorno al cinema, d’altra parte, permangono non pochi equivoci e pregiudizi. Molti intellettuali lo guardano ancora con indifferenza, senza conoscerne magari la natura e le opere maggiori: si fermano alle apparenze, alle manifestazioni esteriori, alle false analogie con il teatro e le altre forme d’arte, al divismo. Così fin dal 1914 D’Annunzio («Il Corriere della sera» 28 febbraio), riconosce al cinema soltanto una fonte di «meraviglioso», una fabbrica di efficaci trucchi, di «stupende frodi» («La vera e singolare virtù del cinematografo è la trasfigurazione: e vi dico che Ovidio è il suo poeta»). Nello stesso anno Prezzolini, impressionato dal successo del cinema, ne intuisce soltanto «l’utilità pubblica». D’altra parte si riscontra la scontentezza di Pirandello («Solo i fanciulli hanno la divina fortuna di prendere sul serio i loro giochi... Ma come prendere sul serio un lavoro che altro scopo non ha se non ingannare?»). Ogni qualvolta nell’opera di Proust si tocca il cinematografo è sempre in tono dispregiativo (cfr., ad esempio, Temps Retrouvé, II vol.). Si vedano, inoltre, la pungente ironia di G. K. Chesterton (Generally Speaking), lo scetticismo di Bacchelli, la reticenza di Angioletti (inchiesta «Solaria», n. 9 del 1932). Baldini, Soffici, 119
«La Critica Cinematografica»
D’Amico e Borgese parlano di riproduzione passiva, di macchina per stampare la vita, di tara costituzionale; di «arte in senso mediato» Cecchi in «Scenario» del febbraio 1932 e, recentemente, su «Mercurio»; di «arte minore», Pagnol («Candide», 8 febbraio 1934). Ancora di «stupende frodi» parla Flora (Civiltà del Novecento) mentre lo storico olandese John Huizinga si limita ad osservare che «il film, in quanto a morale, è un fattore conservatore» (Crisi della civiltà). A Borgese risponde Tilgher nella sua Estetica, che dà a suo modo un valore artistico al cinema, cadendo tra l’altro nell’equivoco del “poeta-soggettista”. E le citazioni potrebbero continuare. Non c’è intellettuale che non abbia espresso un giudizio sull’argomento: dai citati a Valéry, Gide, Eluard, Macrì: giudizi sommari, quando non addirittura contraddittori (Bontempelli). Tra i pochi che credono nel cinema, e lo hanno intuito o comunque si sono avvicinati alla sua vera essenza e natura, merita particolare attenzione Carlo Ludovico Ragghianti, che in Cinema rigoroso (Milano 1933) e in Cinematografo e teatro (Pisa 1936), insiste nel carattere figurativo della nuova espressione, nella sua essenza visiva. È con lui Claudio Varese («Belfagor», febbraio 1946; si veda anche le recensioni che questo critico va pubblicando su «Letteratura»); Mauriac, d’altra parte, individua nel “primo piano” una delle grandi conquiste della nuova arte (Journal, 1940). Nonostante i giudizi sommari e in maggioranza negativi, non pochi intellettuali si sono praticamente avvicinati al cinema con soggetti e sceneggiature, qualche volta portando un valido contributo (Paul Morand in Don Chisciotte di Pabst), ma spesso con apporti di varia natura, certo più letterari che cinematografici. Si è tra l’altro verificato il caso di un intellettuale che, pur avendo steso il soggetto di un film, confonde ancora oggi la sceneggiatura con la scenografia. Altri, che non credono e non conoscono il cinema, si sono dati alla critica cinematografica militante: valga per tutti il caso di Arnoux, che ha testualmente affermato: «Il cinema non è un’arte; il cinema è un affare; il cinema è un mestiere». Béla Bálász, dopo l’avvento del sonoro ha scritto: «Ora è venuta l’ora dei poeti, dei migliori, dei grandi». L’affermazione, come sempre, è stata fraintesa. Quando il teorico ungherese parla di poeti, non si riferisce a Döblin o a Zuckmayer, ma ai poeti dello “schermo”: a un Vidor o a un Clair. «È sperabile – riferisce Arnheim – che i poeti, nel loro interesse e in quello dell’arte sappiano resistere a queste lusinghe, che significano per loro rapida notorietà e facili incassi. I poeti non vi farebbero mai buona figura. Non si chiede a Pudovkin o ad Eisenstein di scrivere romanzi, non si chiede nemmeno a Döblin o a Zuckmayer di fare dei film. L’arte del cinema ha bisogno di artisti cinematografici». I poeti non hanno resistito. Le sagge parole dell’Arnheim sono rimaste e rimarranno chissà per quanto tempo ancora, lettera morta. 120
Letterato al cinema
Mario Verdone
Forme pure nel fonofilm [numero 7 – settembre 1947]
Su Ricciotto Canudo, in Italia, pesa la scomunica di Soffici, Papini e Carrà. Ma in Francia, dove era stimato da Picasso, Ravel, Rodin, Paul Adam, Barrés; dove Fernand Divoire ha pubblicato nel 1927 presso Chiron L’Usine aux images; dove è stato vivo per molto il Clubs des amis de Canudo; il piccolo italiano ha lasciato una differente memoria. Non v’è di artista a insultarlo come «mistagogo», «arrivista», «rinnegato»: gli epiteti uscirono dalla penna del Soffici; ma se ne ricorda L’Estetica cerebrista al pari di tante altre bizzarre estetiche di questa prima metà di secolo; si sa che Canudo fu garibaldino e combatté in Macedonia e nelle Argonne; che fece opera di italianità in Francia presentandovi il teatro di D’Annunzio; e che se scrisse in francese in Francia (ma anche in italiano in Italia) altrettanto aveva fatto D’Annunzio quando anche Rilke componeva i Poèms français. Mentre Apollinaire, nato in Italia, scriveva in francese e – assai più distante – Boccaccio aveva scritto in italiano, Goldoni in italiano e francese, Voltaire, per omaggio a Goldoni, anche in veneziano. Canudo elogiava il bozzetto de La torre del lavoro di Rodin e Soffici, difendeva la priorità artistica dell’opera di Medardo Rosso. Canudo era il primo a divulgare in Italia l’opera di Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Matisse, a parlare di «arte plastica» e «arte negra» (1907-8), mentre Soffici era andato dopo di lui a Parigi. Canudo era ricevuto alla pari dappertutto, ed esso stesso riceveva nel suo solaio di Montjoie Valentine de Saint Point e Jacob, Rolland, Zweig e Stravinskij: gli italiani che arrivavano alla capitale francese, al contrario, erano non di rado accolti come provinciali. Forse queste possono essere alcune fra le ragioni che vietarono rapporti di stima e di amicizia fra Canudo (ritenuto infrancescato, ma in realtà né italiano né francese, ma latino e mediterraneo, com’esso stesso si chiamava) e i nostri migliori artisti. Del resto anche D’Annunzio, nel cui seguito Canudo si era trovato, aveva in quel tempo in Italia molti avversari. Di Canudo bisognerebbe dire molto: assai più di quel che consente un ricordo che non è e non cerca, per il momento, una piena rivalutazione scientificamente condotta, che ci ripromettiamo di scrivere in altra sede. Ci limiteremo, per ora, a ricordare il suo Délire de Clytemmestre (1904), che precede tutti i ritorni dei drammaturghi moderni ai miti dell’antichità: le Elettre e gli Edipi di Giradoux, O’Neill, Sartre, Cocteau, Gide; la sua Psycologie musicale de la civilisation (L’Homme) dove esprime la propria fede nella musica come educazione, come elemento preponderante nello spettacolo, come religione; il collettivismo del romanzo Les allienistes, che Paul Adam avvicina
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«La Critica Cinematografica»
alle tragedie greche, ai poemi classici, al Faust di Goethe in quanto non è «analisi dell’individuo», «ma sintesi di molteplici o numerose anime trasformate in correnti di pensiero»; la sua stimolazione al balletto come dramma; il suo rapporto col futurismo italiano e con le idee di teatro mediterraneo promosse in Italia da Rosso di San Secondo; infine la fondazione, per suo merito, della critica estetica cinematografica. I saggi cinematografici più conosciuti di Canudo risalgono al 1910-11, ma vi sono nella sua opera accenni al cinema, anche se non direttamente espressi, fin dal 1906 e 1907. In questa epoca pubblicava il Teatro all’aria aperta, manifestando la propria irrequietezza negli spazi angusti dello spettacolo chiuso, per ambientazioni, invece, che avessero posto nella natura e nell’universo: e sapeva subito indicare, nei primi studi sul cinema, l’intervento della natura-personaggio nel film. Nel 1907 scriveva una corrispondenza parigina alla rivista italiana Vita d’arte, con la quale poi dovette mettersi in rotta per il passo d’avanguardia conferito alle sue cronache, che strideva con i clichés, le note, i capitoli ottocenteschi della rassegna: «Il sogno delle fate è finito per il teatro, e un nuovo sogno del meraviglioso, imposto dalla scienza, ispirerà i nuovi maestri d’arte di domani». E nella Psycologie musicale des nations, di cui abbiamo già rilevata la data, libro consacrato a Beethoven, «le grand maître de la philosophie»: Poi, nei secoli avvenire avverrà la suprema sintesi di tutte le Arti e di tutta la filosofia nel Teatro Metafisico; l’Homo Novus che noi non vedremo rivedrà allora nell’unione perfetta della Scienza e del Sogno qualche nuova e grande significazione del Destino. La Musica sarà allora la Religione. Poiché, immobili nell’onda di una Musica dove tutte le aspirazioni e tutti i pensieri di un tempo si spanderanno per divenire infiniti, le vite dell’uomo si allargheranno ancora in un’autentica unanimità. La Musica sarà il grande crogiuolo di tutti i ritmi individuali: in essa l’umanità ritroverà ancora la comunione con l’indefinito, la sua assunzione nell’infinito. E come in altri tempi per la Danza, e come in altri tempi per la Preghiera, l’umanità fonderà nella Musica i ritmi innumerevoli delle sue vibrazioni, ritroverà così la nuova coscienza sintetica, la sua nuova divinità, le porte del suo Teatro saranno allora di nuovo le porte del suo Tempio.
Questo scritto sull’avvenire della musica, che pare a prim’occhio così estraneo al cinema, del quale egli stesso (siamo nel 1908) scruta e non troverà che qualche anno dopo il vero segreto, o almeno il primo segreto, poiché, come sono concordi ad affermare Chaplin e Clair, a tutt’oggi del cinema non sappiamo ancora nulla; questo scritto si può ancora meglio intendere, nella sua antiveggenza, dopo Fantasia di Walt Disney: che è insieme il vero regno della musica, e il nuovo sogno del meraviglioso imposto dalla scienza, dove, escludendo tutti i significati noti della parola Teatro, si può intravvedere e vedere, nel bianco rettangolo dello schermo, il vero e proprio Teatro Metafisico, o, 122
Letterato al cinema
se vogliamo dir meglio, lo Spettacolo Metafisico. Ma per capire Fantasia occorre un altro accostamento doveroso: il manifesto futurista di Marinetti (1916). Leggiamo: Il cinema futurista crea la Sinfonia poliespressiva che già da un anno noi annunciavamo nel nostro manifesto Pesi misure e mezzi del genio artistico. Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti. Esso sarà insomma pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme accozzo, di oggetti e realtà caotizzata... I nostri film saranno: Analogie cinematografate usando la realtà direttamente come uno dei due elementi dell’analogia. Esempio: se vorremo esprimere lo stato angoscioso di un nostro protagonista invece di descriverlo nelle sue varie fasi di dolore daremo l’equivalente impressione con lo spettacolo di una montagna frastagliata e cavernosa. I monti, il piano, i boschi, le città; le folle, gli eserciti, le squadre, gli aeroplani saranno spesso le nostre parole formidabilmente espressive; L’universo sarà il nostro vocabolario. Esempio: vogliamo dare una sensazione di stramba allegoria: rappresentiamo un drappello di seggiole che vola scherzando attorno ad un enorme attaccapanni sinché si decidono ad attaccarcisi... (E saranno): Ricerche spirituali cinematografate (dissonanze, accordi, sinfonie di gesti, fatti, colori, linee ecc.)... Drammi di oggetti cinematografati (oggetti animati, umanizzati, truccati, vestiti, passionalizzati, civilizzati, danzanti). Risse e matrimoni di smorfie e... Ricostruzioni irreali del corpo umano cinematografate... Equivalenze lineari plastiche, cromatiche, ecc. di uomini, donne, avvenimenti, pensieri, musiche, sentimenti, pesi, odori, rumori cinematografati. Scomponiamo e ricomponiamo così l’universo secondo i nostri meravigliosi capricci.
Dopo aver riletto questo schema marinettiano non si può non riconoscere la logica di certe anticipazioni del manifesto, che pare abbiano trovata la loro vera espressione in Fantasia di Walt Disney: ma anche nella vita di Pedro, l’aeroplanino di Saludos amigos, nella ricostruzione del corpo umano in Defense against invasion dove le vene e le arterie sono diventate strade, e i globuli rossi e bianchi soldati che vanno in motocar, in pullman, in jeep. Né dimenticare il drappello delle scope, le equivalenze lineari e cromatiche dei suoni, la montagna cavernosa di Anconcagua o di Monte Calvo, la musica che diventa disegno o il disegno che diventa musica, come Disney preannuncia all’inizio di Fantasia, il vocabolario dell’universo durante i brani ispirati a Bach e a Stravinskij nello stesso film, le sinfonie di gesti negli archetti che diventano insieme puro segno e puro suono. Fantasia deve alle idee promesse da Canudo e Marinetti perlomeno quanto a Viching Eggeling di Sinfonia orizzontale, che per primo utilizzò il cinema per esprimere il movimento ritmico delle forme pure, e a Fischinger, che realizzò le visualizzazioni dell’Apprenti sorcier di Dukas, e a quella Tempesta di Monte Calvo che si conservava fino all’anteguerra nel Museo Canudo. 123
«La Critica Cinematografica»
Giacinto Spagnoletti
Letterato al cinema [numero 8 – aprile-maggio 1948]
Cominciamo con i pregiudizi di carattere estetico. Avevo letto una dichiarazione di Cecchi sui rapporti fra il cinema e letteratura. M’era piaciuta, e la riferii ad un mio amico letterato. Cecchi dice: «Si ha il fenomeno abbastanza originale e complesso, d’una poesia che il cinematografo ha influenzato, sia tecnicamente sia in maniera più profonda: anticipandone tentativi ed esperimenti, sgrossandone la viva materia». Il mio amico letterato rise di gusto. Ah, la poesia moderna prende ordini dal cinema, questa è buona! Quasi tutti gli uomini di lettere sono convinto che non prenderebbero sul serio una dichiarazione del genere di quella di Cecchi. Tutti sono disposti ad ammettere che il cinema sia un sottoprodotto della letteratura o del teatro, e come arte sintetica, e affatturata, si serva di un linguaggio o di una tecnica nuovi per mascherare la sua mancanza di autonomia. Quanto poi a parlare di un’estetica cinematografica, non c’è solo letterato serio che s’arrischi... Ma procediamo. Che cosa contraddistingue quasi sempre i giudizi dei poeti, dei romanzieri, dei critici letterari, sui film. Un senso di irritazione critica, uno sbrigativo scetticismo, come ci si trovasse di fronte ad un’arte troppo bambina, che ha tante cose da imparare. Rari entusiasmi. Quanto più spesso il disprezzo. Un illustre personaggio delle nostre lettere, che è meglio lasciare nell’anonimato, mi diceva un giorno: Il cinema, più che orrore, mi fa paura. Io non provo alcun risentimento verso un genere d’arte così palesemente mancata, provo solo una paura egoistica per la eventualità di essere prima o poi trascinato a credere a queste emozioni, a rimanerne influenzato, allo stesso modo come si è influenzati da mille condizioni o aspetti del mondo in cui viviamo. Questi ultimi sono già abbastanza pericolosi e premono a sufficienza sulla nostra coscienza. Se aggiungiamo il cinema....
Il cinema fa paura. Ma è strano, un romanzo di Gotta o di Kormendi, a livello dei quali troppo spesso si abbassa il cinema, non fa paura affatto. Perché dunque il cinema fa paura? È Huxley a rispondere: Films di gangsters, romanzi polizieschi, vignette umoristiche, gettano ponti sul mondo, ma in che modo basso! Tutte queste cose sono comprensibili a Nanchino come a Brooklin, a Benares come a Stoccolma... Ai suoi ben dì, l’immagine di Shirley Temple era familiare ad un maggior numero di persone che non l’immagine di Cristo e Buddha. E se ad esse fosse data una diffusione mondiale, le creazioni della moderna mitologia americana – Dick Tracy, Blondie e Superman, credo che ben presto prenderebbero il posto nella fan124
Letterato al cinema
tasia mondiale, di Ercole e Afrodite, di Radha e Sri Krishna, di Amida Buddha e dell’Imperatore Giallo, insieme coi santi del calendario cristiano.
In altri è la preoccupazione di non dover soggiacere a certi miti del tempo, è la resistenza di fronte a ciò che si ritiene troppo forte. Col suo potere di ispirare certi sentimenti o di guidare certe opinioni, allo stesso modo di un romanzo, di un dramma o di un poema, il cinema si presenta come il peggiore e inafferrabile nemico dell’uomo di lettere. L’umanista o il creatore moderno temono di essere costretti, col trionfo del cinema a rinunziare al proprio privilegio tradizionale. Quasi tutti i letterati si difendono non frequentando le sale cinematografiche. Io penso che se si facesse una statistica, nella quale venisse graduata l’affluenza al cinema di tutte le categorie e professioni e mestieri umani, gli ultimi ad apparire sarebbero gli uomini di lettere. Non c’è verso di fare entrare in una sala cinematografica i nostri più celebrati poeti. Ungaretti e Montale, per esempio, vedono un film all’anno. Cardarelli dice di non sapere quali progressi abbia fatto il cinema dall’avvento del sonoro. Da questo speciale mondo conosciuto e amato da milioni di uomini, si tengono lontani decine e decine di scrittori di fama nazionale. Il cinema, ecco, interessa forse di più i romanzieri. Sono essi a trattare il cinema come un fatto del proprio mestiere, ad essi si rivolgono i produttori per le sceneggiature, per i dialoghi. Spesso dai romanzieri escono i registi. Ricordiamo l’esempio di Mario Soldati. Dicono che in America, decine e decine di scrittori passino ogni anno al cinema. Ma la diffidenza, ma l’indifferenza degli uomini di lettere non si può – ahimè – bilanciare con la partecipazione, con l’interesse di pochi romanzieri, devoti del cinema. Esiste ancora un ampio fosso da saltare. È un salto importante. Bisognerà attendere molto per vederlo compiere, per essere sicuri che è stato compiuto bene.
Gianni Granzotto
Il romanzo in fotogrammi [numero 8 – aprile-maggio 1948]
Cristian Jaque e Pierre Very hanno ultimato in questi giorni una versione cinematografica della Certosa di Parma. I «beylisti» che in Francia sono legione ed hanno a Parigi la loro roccaforte, si sono messi a ruggire dietro le pile delle loro edizioni critiche. Stendhal non si tocca. L’occasione, che mette di mezzo anche Parma accanto al cinema e alla letteratura, ci offre pretesto per una discussione intorno a questa “battaglia dei gene125
«La Critica Cinematografica»
ri”, o dei mezzi di espressione artistica. I nostri padri la svolsero sul tema del balletto che interpreta un poema o un quadro servendosi di mezzi musicali e coreografici, vale a dire traducendo in forme diverse la medesima ispirazione. Oggi è quel gran divoratore di “soggetti” che è il cinema, il quale va a pescare in pagine di romanzi la trama delle sue opere. Da Balzac a Radiguet, da Manzoni a Dostojevski, tutta la grande letteratura è ormai sfilata sullo schermo. Ci fu un caso in cui si disse che il cinema aveva nobilitato il romanzo e non viceversa? Non ricordo. Sempre mi parve, e parve ai più tra coloro che erano in grado di poter fare il confronto, che il cinema – dovendo fornire emozioni puramente visive, come si addice alla sua tecnica – era costretto a dare, del romanzo, soltanto la facciata: riferirne cioè i fatti, mostrarne i personaggi e non lo spirito, la sostanza veramente letteraria. Io credo che il problema stia, per l’appunto, nella diversità delle due tecniche, quella del cinema e quella del romanzo; e nella sostanziale differenza che esiste tra l’unità di ispirazioni del genere letterario, e la pluralità di quello cinematografico. L’altra sera André Malraux, in una conferenza che aveva per scopo di dimostrare come al giorno d’oggi i veicoli della cultura non abbiano più confini geografici, citava il caso di un cinema di Bombay ove si proiettava la versione Metro Goldwyn Mayer di Anna Karenina: un pubblico di indiani che apprende da un’attrice svedese diretta da un regista americano quale fosse l’idea che il russo Leone Tolstoj aveva dell’amore. Troppi traduttori ed interpreti perché una ispirazione, che è nella sua sostanza individuale, possa rimanere inalterata. Ma quando un produttore cinematografico sceglie dalla sua biblioteca il soggetto di romanzo, non aspira certo alla fedeltà. Il movente è dato dal successo di cui quel certo titolo è già coronato. Non dimentichiamo che il cinematografo è, innanzitutto, affare dell’industria, nel quale i milioni che si spendono sono molti, e debbono trovare risposta nei milioni che si incassano. Balzac, Tolstoj, Stendhal, hanno già fatto le loro prove con il pubblico. Il produttore che li prende per alleati va a colpo sicuro. Non cerchiamo altre giustificazioni alla fregola letteraria degli industriali del cinema. Né le voci che gridano al tradimento sono qualcosa di più di un appello nel deserto. In Francia gli spettatori di Diable au corps superarono i quattro milioni. Quanti fra essi potevano giudicare, od accorgersi, che tra il testo di Radiguet e quello di Autant Lara la ispirazione non era rimasta la medesima? Ci sono più frequentatori di cinematografi che amanti di buone letture; molti di più potremmo congratularci per il fatto che, a questo modo, opere immortali allargano sensibilmente i confini della conoscenza che il mondo può avere di esse. Ma chi avrà visto Jean Marais nei panni del Ruy Blas, potrà dire veramente di conoscere il Ruy Blas vittorughiano? Dice Christian Jaque a sua difesa, a proposito della Certosa di Parma: 126
Letterato al cinema
Lo schermo alleggerisce il libro di tutta una letteratura inutile, e ne rende in sintesi l’atmosfera con una eguale somma di illusioni grafiche. Il gesto basta sovente a definire una situazione psicologica che l’autore ha dovuto trattare in molte pagine. L’espressione cinematografica ha sul libro il vantaggio della concisione, di una maggiore potenza suggestiva. E se le immagini non rappresentano altro che sentimenti superficiali ci resta il dialogo per discendere più profondamente nell’analisi. E, in più, il genio degli autori. Ahimé, di un solo Stendhal, ed unico, quanti autori deve dunque contare la Certosa dello schermo! Il soggettista, il dialogista, il regista, l’attore: saranno tutti così stendhaliani da cogliere e, sempre, nel segno?
Io sono d’accordo, invece, con Louis Daquin, che quando ridusse per lo schermo l’Idiota di Dostojevski voleva intitolarlo: Gli amori del principe Mitchkine e di Anastasia Philippovna, soggetto ispirato da un’opera di Dostojevski. Louis Daquin riconosce che il romanzo offre una materia già elaborata, e induce per questo in tentazioni giustificabili. Ma la versione cinematografica non può essere mai un “doppiaggio” in immagini del romanzo. È un’altra cosa, un’altra opera, di fronte alla quale il romanzo sta soltanto come indicazione, come ispirazione di partenza. Ma i produttori non amano la modestia, e la pubblicità ha le sue pretese inderogabili. Sull’argomento potremmo scrivere volumi ma ormai non ci salveremo più dal leggere i nomi dei grandi scrittori accanto a quelli di Ingrid Bergman e di Tyron Power, e dal vedere la nostra donna di servizio tornare dalla spesa con l’ultima edizione di un «romanzo cinematografico» in trentadue pagine e dieci illustrazioni: magari la Certosa di Parma, condensata a uso popolare dal capo dell’ufficio stampa della Generalcine.
Carl Vincent
Del neorealismo [numero 9 – giugno-luglio 1948]
Sul neo-realismo di Rossellini, Zampa, De Sica e di qualche altro non sono mancati i commenti. Tuttavia è all’estero che si è colto meglio il suo valore e il suo interesse. E ciò per diverse ragioni. Sarebbe lungo e certamente inutile specialmente se si pensa al proverbio per cui nessuno è profeta in patria, in specie qui. La critica italiana ha fatto eco. Oggi essa sembra condividere, nelle sue deduzioni d’ordine generale sul movimento e, se volete, sulla scuola, certi errati argomenti le cui origini risalgono ad alcun dibattiti parigini. Io non so se in Italia ci si sia già resi conto che la critica parigina o ciò che
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«La Critica Cinematografica»
con un’immagine azzardata si potrebbe chiamare una critica d’orchestra; alcuni signori, «musicanti di spalla», danno il tono, gli altri si accodano. Per di più essa in parecchi casi è sviata dalla sua autentica funzione da un’eccessiva tendenza letteraria. Colpiti dal contrasto fra il realismo francese, realismo per partito preso, di pessimismo, di disordine, di sordidezza, di inerzia morale e di sciatteria – si potrebbero contare sulle dita i film francesi puramente realisti realizzati negli ultimi quindici anni – o invece l’interesse degli italiani per una profonda verità umana, per una semplice poesia quotidiana, i «musicanti di spalla» si lasciarono sgorgare la loro ammirazione. Il realismo nudo, senza situazioni artificiose, senza personaggi costruiti, senza ricerche artificiose di atmosfera, o di cui si era perduto il ricordo dal tempo della dispersione della prima scuola scandinava e – or sono tre lustri – da quella del gruppo germanico costituito da Dudow, Trivas, Bois, George, Steinhoff, li aveva colpiti per il suo grande potere drammatico, assai differente da quello del realismo involontario americano e dei realismi inglese e russo, i quali, per vie differenti, eguagliano gli eccessi dei realisti parigini oppure rivelano eccessi propri. Ciò condusse ad un’esaltazione verbale, spesso senza misura, del “neo-verismo italiano”. La ventata aveva spazzato le tradizioni del dramma, romantico e mondano e delle rievocazioni storiche, proprie degli studi di Roma. Una nuova scuola italiana era nata. Viva dunque il cinema italiano! In «CineClub», organo della federazione francese dei Cine-Club, che sembrava che solo il caso o piuttosto la necessità avesse condotto gli autori di film italiani a scendere nella strada, a cercarvi la loro ispirazione, a prendervi gli elementi e lo sfondo delle loro opere unitamente ai loro attori, a sostituire insomma il documento all’artificio, la realtà all’arte. Questa tesi errata perché troppo radicale, troppo limitativa sembrò aprire gli occhi a molti: i film veristi non costituirebbero che una parte dell’apporto italiano, essi non sarebbero che il prodotto del clima contingente della liberazione, il “neo-verismo” non sarebbe che un fungo. E taluni in Italia riprendono tali temi proprio nel momento precario in cui dei produttori, malgrado la lezione dei successi non soltanto morali ma anche materiali di questo neo-realismo in Europa o in America, tendono a tirare il collo alla semplicità e a ritornare ai vecchi errori, scalzando così il nascente prestigio della giovane scuola italiana. A mio avviso si è mal compreso l’origine e il carattere del neo-realismo romano. Esso costituisce un movimento cinematografico originale, paragonabile, per l’influsso che può esercitare, a quelle correnti che segnarono e concorsero all’evoluzione dell’espressione cinematografica specialmente dal 1917 al 1930. Esso non è il risultato fortuito di circostanze momentanee, ma risponde a una concezione del tutto particolare, ragionata della creazione cinematografica. Esso ha veramente poco a che vedere con circostanze contingenti o se 128
Letterato al cinema
talvolta si può invocare il clima della liberazione, è come un elemento che ha potuto solo favorire ed aiutare, il suo sviluppo e non determinarlo del tutto. A sostegno di questa osservazione personale, sottolineerò il fatto che il realismo italiano risale almeno al 1942, a Uomini sul fondo di De Robertis e, se si vuole, a certe sequenze di Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, il quale, se ben ricordo, fu di poco posteriore. Quale realismo più puro si può trovare, di quello che domina l’opera di De Robertis? Con la sua semplice verità, espressa da uno stile rigoroso, che racconta una tragedia sottomarina, la cui forza drammatica tanti registi avevano cercato invano di esprimere attraverso il realismo ricostruito, egli ha incrementato la tendenza, rivelandole una dottrina, delle regole, un autentico “Compendio scolastico”. Se si ha presente l’evoluzione dell’arte cinematografica, l’organizzazione del cinema, la diversità di intenti e di tendenze che condizionano l’attività dei registi, ci si rende conto che sarebbe difficile, se non inutile, voler mantenere nella sua integrità una “dottrina”, voler limitare i modi della creazione cinematografica; d’altronde ciò sarebbe un errore. Il caso dell’espressionismo ne è in parte l’illuminazione e la prova. Ciò che nel caso del neo-realismo italiano bisogna salvare ad ogni costo, è lo spirito che esso ha generato. Già in Caccia tragica De Santis si è allontanato dalla dottrina, facendo delle concessioni al lirismo (si ricordi la scena finale). Ma ne ha conservato lo spirito. E ciò è l’essenziale.
Mario Verdone
I poeti nel cinema e il cinema nei poeti [numeri 10-11 – agosto-settembre 1948]
Il problema dei limiti e delle possibilità espressive della prosa cinematografica – di notevole importanza per il cinema almeno fino alla conquista del sonoro – si pone in certo modo allo stesso Lumière, che col titolo L’Arroseur...arrosé (così punteggiato) lascia la prima didascalia in funzione dell’azione cinematografica. Gabriele D’Annunzio, il primo scrittore che si accosta con grande risonanza alla cinematografia, non dà soluzione espressiva alla didascalia, ma anzi l’appesantisce con ibrida letteratura che mai raggiunge fusione con l’immagine e – considerandosi la mentalità di elementare cultura cui il cinema resta in principio affidato, per la spregiosa assenza degli intellettuali – diventa forse esso stesso una delle cause dell’enfasi della retorica, e anche della pacchianeria, che poi contraddistingueranno la tecnica delle didascalie. 129
«La Critica Cinematografica»
In Cabiria si legge, per la solita preziosa ricercatezza dello scrittore: «Sorge la luna». «O regina, che porti la luce, dea delle corna di toro, notturna, che tutto vedi, che in cerchio cammini, che ami le veglie, che cresci e manchi, produttrice, venturosa, raggiante, proteggi i tuoi supplici, accoglili ne’ tuoi misteri». «O celebrata in mille inni, tu che accordi la grazia in segreto, tu che annodi i mortali con le necessità invincibili, tu che della nera notte ti piaci e dei letti d’avorio, o fertile, o scaltra, o tutta sorriso, vieni e visita chi dal profondo del cuore ti invoca».
Seguirono a Cabiria, a Crociata degli innocenti, e agli altri film dannunziani, didascalie in cui il cattivo gusto decorò di ridicolo anche reputate pellicole importate da altri paesi, e “ritoccate” dai noleggiatori. In Femmine folli di Stroheim, ne L’Argent di Marcel l’Herbier, come nella Casa di vetro di Righelli, la didascalia, con frasario da romanzo d’appendice, annuncia regalmente e con tutta serietà qualche quadro: «Sua Maestà il Vizio», «Sa Majesté l’Argent», «S. M. il Capriccio». Oppure: «Tramonto. Si schiudono all’anima le vie del sogno» (dalla Casa di vetro). «Sogno l’Amore di cose lontane... Nostalgiche fantasie dell’anima ammalinconita» (da I tre sentimentali di Augusto Genina). In altri paesi la didascalia fu più sobria, salvo che in Francia. Può darvene un’idea questo titolo di testa di Georges Méliès: La defense de Barzeilles ou Les dernières cartouches, marveilleusel scène de bataille avec explosion d’obus et murs s’écroulant. Gli americani si sbizzarrirono nel commento delle comiche. I russi, invece, affrontarono con più proprietà il problema, e riuscirono in qualche modo a dare giustificazione cinematografica anche alle parole scritte. Basterebbe l’esempio addotto da Pudovchin in Film e fonofilm (e ripreso da Barbaro, «Bianco e Nero», 1942, n. 8) con «aiuto!» scritto a riprese con lettere di diversa e crescente grandezza, e impiegato ritmicamente in alternativa con l’immagine. Altrettanto Turin nel documentario Turkshib con la parola «acqua» a tre riprese, ingrandita mentre aumenta sullo schermo anche la discesa dei flutti. Passando dalla didascalia in prosa a quella in versi, se si eccettuano ancora quelle comiche di Charlot o di certi “buffi”, dove si leggevano, crediamo per iniziativa dei noleggiatori, quartine di questo genere: Serpentello serpentello serpentello fresco e bello che mi aiuti in modo vario a sbarcare il calendario
(come canta una incantatrice di serpenti, in Charlot a teatro) bisogna ancora tornare a D’Annunzio per trovare l’esempio più ricordevole di poesia per il cinema. È in Cabiria, quando viene cantata l’Invocazione a Moloch, con musica di Ildebrando Pizzetti (ribattezzato dal poeta Ildebrando da Parma). 130
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Si tratta delle seguenti strofette ternarie, cantate dal Pontefice e dal Coro. Il pontefice Re delle due zone, t’invoco, respiro del fuoco profondo, génito di te, primo nato! Il Coro Eccoti i cento puri fanciulli. Inghiotti! Divora! Sii sazio! Karthada ti dona il suo fiore. Il Pontefice Odimi, creatore vorace che tutto generi e struggi, fame insaziabile, m’odi! Il Coro Eccoti la carne più pura! Eccoti il sangue più mite! Karthada ti dona il suo fiore. Il Pontefice Consuma, il sacrificio tu stesso nelle tue fauci di fiamma, o padre e madre, o tu dio e dea! Il Coro O padre e madre, o tu padre e figlio, o tu dio e dea! Creatore vorace! Fame ardente, ruggente...»
Ma questi versi di D’Annunzio, come anche la canzonetta che Lola-Lola canta nello splendido Angelo Azzurro di Sternberg, che pure è di grande efficacia, non apportano all’azione cui – come intermezzi – sono pressoché estranei, quel contributo, più propriamente cinematografico, che in sede di montaggio crea il ritmo del film (più propria, se mai, come “sketch” a sé stante, la Violetera di Charlot in Luci della città, in cui pantomima e canzone si fondono). Neppure acquistano questa funzione i versi di Alle sei di sera dopo la guerra di Pyriev (che è un film in versi) e la sestina di Jean Cocteau nel Sangue del poeta, per la morte del bimbo colpito da una palla di neve: Quel pugno di marmo era palla di lieve e gli screpolò il cuore. Così scoccano spesso dal collegio questi pugni che sangue sputar fanno questi pugni duri di palle di neve che la bellezza veloce dà al cuore passando.
Un tale tentativo ha compiuto invece il poeta inglese W. H. Auden in Coalface (Faccia di carbone) di Alberto Cavalcanti, aderendo alla scuola britannica del documentario, di cui fanno parte il docente universitario o 131
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sociologo John Grierson, che ne è il fondatore, il colonialista Basil Wright, il critico Paul Rotha, lo scrittore Roger Manvell, i cineautori Robert Flaherty e Alberto Cavalcanti. I princìpi di questa scuola cinematografica si possono così compendiare da «Cinema Quarterly» (1932): «Noi crediamo che la capacità del cinema d’osservare e scegliere dalla vita stessa può essere assunta in una nuova e vitale forma d’arte. I film in studio ignorano largamente questa possibilità di aprire lo schermo al mondo reale. I loro racconti si svolgono in ambienti artificiali. Il documentario vuol riprendere il racconto che la scena originale, o naturale, siano meglio atte alla interpretazione per lo schermo del mondo moderno. Essi danno al cinema un materiale inesauribile. Essi hanno potere su un’infinità di movimenti e d’immagini. Essi hanno potere di interpretazione su più complessi e stupefacenti avvenimenti del mondo reale che lo studio possa pensare a ricreare meccanicamente».
«Osserva e analizza, capisci e costruisci, dalla ricerca nasce la poesia: erano gli slogans che noi ci ponemmo». Dei film documentari nati da questa scuola, dove Grierson e i suoi amici si dedicarono in prevalenza al trattamento artistico delle attività industriali e dei problemi sociali, e Rotha alla propaganda, giova citare: Driefters di Grierson, Song of Ceylon di Basil Wright, Shipyard di Paul Rotha, NightMail di Wright e Watt, Coalface di Alberto Cavalcanti. (Un posto a sé occupa Uomo di Aran di Flaherty). È a proposito della pellicola di Cavalcanti – secondo l’intenzione della presente nota – che vogliamo ricordare la singolare collaborazione dello Auden. Nel film, dedicato ai minatori, si nota un interessante esperimento di parole-ritmo. Esso viene compiuto per mezzo d’un poemetto che si incorpora con le immagini attraverso un coro recitativo. L’atmosfera del ritorno dei minatori alla superficie è suggestivamente evocata da questi versi: O lurcher-loving collier blak as night Follow your love across the smokeless hill, Your lamp is out and all your cages still Course for her heart and do not miss And Kate fly not so fast, For Sunday soon is past, And Monday comes when none may kiss. Be marble to his soot and to his black be white,
Ne diamo la seguente traduzione: O minatore solitario e nero come la notte, Insegui l’amor tuo per la collina che non ha fumo La lampada t’è spenta e sono alfine ferme le gabbie.
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Raggiungi il cuore suo e non mancare. Tu, Kate, non fuggir così affrettata, Poiché domenica è presto passata, E lunedì nessuno può baciare, Sii marmo alla fuliggine e al suo nero rimani candida.
Ma anche in Night-Mail appositi versi di Auden sono inscriti per il viaggio d’un treno attraverso la Scozia fino al Perth. La lirica segue il ritmo del convoglio, e la voce dello speaker s’impone staccandosi dal frastuono delle ruote. Come già avvenne ai tempi del muto per la prosa, anche la poesia – per merito dell’Auden – pare saper trovare oggi il suo posto nel cinema. Il tentativo segnalato, di fondere la lirica della parola con quella dell’immagine, crea un nuovo accostamento fra i due mezzi d’espressione, di cui non si possono prevedere gli sviluppi, ma che, almeno nel caso esemplificato, acquista un sicuro valore che rimane nel campo dell’arte. E sulla scia dello Auden troviamo un altro poeta, Laurie Lee, che commenta con una prova lirica le immagini del documentario Cyprus is an island di Ralph Keene: «... ma di quel popolo oggi noi non sappiamo nulla ... ma di quella gente, che era nell’isola, noi non sappiamo nulla ...». Abbiamo visto come il ritmo dei poeti si sia introdotto nel cinema. Vediamo ora come la irresistibile incombenza delle immagini abbia raggiunto anche i poeti: prima incidendo nella loro vita, poi nella loro opera. Apollinaire e i suoi amici “eccentrici” lodano il western o le magìe di Méliés nelle Soirées de Paris (1913) («Io e Méliés – dice Apollinaire – facciamo press’a poco lo stesso mestiere, incantiamo la natura volgare»), e frequentano il solaio di Canudo a Montmartre. C’è anche Valentine de Saint Point, Rolland, Zweig e Max Jacob il quale, poi, come dirà Green (cfr. il «Journal») si è convertito proprio attraverso una «sacra rappresentazione cinematografica». Gozzano, invece, collabora con Roberto Omegna per la Vita delle farfalle (1911) e gli porta in studio “i bruchi” raccolti nei prati. Poi sarà lodato dal Fabre e come naturalista e come poeta: «L’Italia ha un grande poeta scienziato e un grande scienziato poeta». Ungaretti scrive la sua ammirazione per Charlot, questo «riso esperanto», come l’ha chiamato Cocteau: Charlie, Charlot, Charlito... Gabriela Mistral – imitando Gide e Allégret (Voyage au Congo), indica le grandi possibilità del documentario nell’America latina, dalle Pampas alle cardilleras. Tagore influisce sul cinema indiano fino a far nascere un Tagore Film Company. Eluard dice: «Il posto che ha il cinema nella mia vita? Non ce l’ha affatto» (riportato da Marcel l’Herbier in Intelligence du cinématographe). Ma poi, nell’introduzione a Images du cinéma français di Nicola Vedrès: «I frammenti d’immagini animate che sono state qui riunite provano che il cinema ha scoperto il nuovo mondo, alla portata, come la poesia, di tutte le immaginazioni». 133
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L’apparizione del film parlato inquietò gli spiriti buoni che dovettero ben presto ammettere che confrontando vedere e intendere, mescolando alla visione mobile ciò che, del linguaggio, si perde o si eternizza, il film parlato poteva dare ogni senso a questo bell’alfabeto di gesti e di smorfie che fu l’Inferno superiore, il cinema muto. Sono le parole di quello stesso che aveva detto qualche anno prima: «Nel cinema non trovo più lo stesso piacere di prima della guerra». Ma egli presentò poi ai francesi, e con entusiasmo, Roma città aperta. A quel che pare, dunque, un riconquistato. Valery, che aveva ritenuto il cinema «spreco di intelligenza», si fa trovare, qualche anno dopo, nella introduzione dello stesso Intelligence di l’Herbier. E fa pensare a Delluc: «Il cinema? L’ho odiato, ma so che l’amerò un giorno», o ad Huxley, avversario del film e poi sceneggiatore; o a Pirandello, nemico del fonofilm, e poi coautore del primo, autentico capolavoro del fonofilm italiano: Acciaio, diretto da Ruttmann. Ma veniamo alla poesia “praticamente”: essa si ispira al cinema attraverso Peter Bowman che ripete nel suo poema Beach Red tutti i termini del gergo cinematografico in una lunga comparazione – suoni e immagini, ripresa e proiezione – per una descrizione di battaglia; con Pedro Salinas (Far West) e con lo stesso Thomas S. Eliot, nei suoi Four Quartets. In Italia, ai tempi del muto, con Gozzano, Giusso, Trilussa e altri ancora. Dice infatti Guido Gozzano, dopo essersi rammaricato, nella maniera che trascriviamo, del commercialismo del cinema: «... Che cosa ci prepara oggi quest’industria potente e prepotente come il denaro? Voglia il cielo che non sia un sintomo di decadenza che ci avvolge insensibilmente e che non avvertiamo nell’atmosfera viziata a poco a poco. Certo in quest’ora storica tutto è sintomatico ed enigmatico, anche il nastro che chiude il mondo in intrico sempre più fitto di celluloide figurata. Ma che cosa fare, che cosa pensare? Forse ciò che fanno e pensano i poeti. Niente. ... più saggio quegli che si gode estatico dell’apparenza, senza batter ciglio, come di cosa impressa nel cartiglio fotogrammatico!
Lorenzo Giusso, invece, dedica, al vecchio film muto questo ricordo: Nei meridiani che sonnolenti nell’ombelico delle vie sommersi tra strappi di ballabili dispersi ritrovo le mie ebbrezze adolescenti. Eroi delle edizioni popolari trasferiti nel film a gran metraggio in voi versavo l’impeto selvaggio 134
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dei miei dementi sogni sedentari; sulle prode dei letti sanguinanti prona su voi la Nemesi assassina tutte vi ho amate o donne sfavillanti artefici di lutto e di rovina
Trilussa satireggia in una favoletta, dal titolo Basta la mossa, le “dive” del cinema: La Scimmia un giorno agnede dar fotografo. Dice: «Vorrei sapé se sò capace de fà l’artista ner cinematografo. Me piacerebbe tanto a fà la traggica ne la lanterna maggica!» «Eh – disse lui – bisognerà che provi: prima devo vedé come te metti eppoi come te movi. Fingi, presempio, d’esse una bestiola in una posa un po’ sentimentale che pensa all’ideale senza che sappia dì mezza parola...» La Scimmia, con un’aria d’importanza, se mise a sede, fece la svenevole, guardò er soffitto e se grattò la panza. Brava – strillò er fotografo – Benone! Questo, pe’ fà carriera, basta e avanza: sei nata proprio co’ la vocazione. Se allarghi mejo certi movimenti chissà che artista celebre diventi.
E dietro Trilussa potrebbero venire anche strofette di Petrolini a canzonatura del film Ma l’amor mio non muore. Scriveva Françoìs Mauriac nel suo Journal (quale Journal non si occupa del cinema’ Ne leggiamo in Gide, Green, Cocteau, Malraux, Maurois, Mauriac) che «il romanziere può rinnovarsi col teatro e col cinema». E infatti lo stesso Proust, in certi “rallentati”, pare abbia fatto tesoro dell’esperienza cinematografica, benché trattasse il cinema con disprezzo. «Lo sforzo di rinnovamento – così si esprime il Mauriac – dev’essere vòlto alla forma di espressione... Questo desiderio mi spinge ad ipotecare l’avvenire per quel che riguarda il cinema. Come si fa oggi a discorrere di teatro senza aver presente il cinematografo? Non ho mai creduto che il cinema possa uccidere il teatro. (Sarebbe piuttosto, l’imitazione del teatro a rischiare di uccidere il cinematografo). Basta aver visto una sola volta sullo schermo il vento che scuote il ramo di un albero o una nuvola che scivola sul mare, per non sopportare più gli alberi di cartone e le foreste di tela dipinta. Il teatro non può pretendere di far tutto. Dinanzi al fattore cinema noi ci rendiamo conto oggi 135
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che il viso umano era, si può dire, una terra sconosciuta. Noi gli dobbiamo questa meraviglia, di leggere un cuore a libro aperto, di cogliere sui tratti di un uomo o di una donna riprodotti in primo piano la passione più segreta. In ciò consiste, a mio parere, la grande superiorità del cinema: la scoperta del viso umano, appena percettibile sulla scena. Attribuiamo minore importanza agli altri vantaggi che gli sono propri: la rappresentazione concreta del passato, l’evocazione di ciò che immaginano i personaggi, la possibilità di cambiare istantaneamente di luogo e d’epoca. Questa vittoria sul tempo e sullo spazio mi sembra, piuttosto, di grande importanza per colui che traccia lo schema del film, in quanto gli facilita il compito». «L’influenza del cinema – concorda Alphonse Thibaudet – del suo movimento d’immagini, sui romanzieri e sui giornalisti, è evidente. Similmente la sua influenza sul teatro». (E qui basterebbe ricordare la Giovanna d’Arco di Claudel) «Il cinema – ritiene – può incorporarsi nella letteratura». «Esso è ancora anti-letterario. Nominare un film nella storia della letteratura è ancora impossibile ed anche contradditorio». «Ma il cinema parlato ha senza dubbio un avvenire letterario». Ma non solo il romanziere e il drammaturgo si son fatti influenzare dal cinema. Anche il poeta ha potuto trarre sostegno e – in qualche caso – addirittura rinnovarsi, proprio col cinema. La grasse matinée di Jacques Prévert, questo scrittore cui tanto deve il cinema francese, ne è sicuro esempio: È terribile il piccolo schianto dell’uovo sodo rotto su un bando di stagno è orribile questo rumore quando risuona nella memoria dell’uomo che ha fame è terribile anche la testa dell’uomo quando si guarda alle sei del mattino nel cristallo del gran magazzino una testa color di polvere ma non è la sua testa che guarda nella vetrina da Potin se ne infischia della sua testa d’uomo non ci pensa sogna immagina un’altra testa una testa di vitello per esempio con una salsa all’aceto e una testa qualunque che si mangia e muove lentamente la mascella lentamente
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e rode coi denti lentamente perché il mondo si burla di lui e non può nulla contro il mondo ha un bel ripetersi da giorni non può durare ma dura da giorni da notti – ma dura da giorni e da notti senza mangiare e dietro il vetro quei pasticci quelle bottiglie quelle conserve pesci morti coperti dai coperchi coperchi coperti da guardie guardie coperte dal timore quante barricate per sei disgraziate sardine un po’ più là c’è la mescita cafè-crème e croissants caldi sandwiches l’uomo tituba e dentro la testa un miscuglio di parole sardine mangiare uovo sodo cafè-crème caffè inaffiato di rhum O franchi 70 cafè-crime cafè-crime inaffiato di sangue Un uomo stimato nel suo quartiere è stato sgozzato in pieno giorno e l’assassino gli ha rubato due franchi cioè un caffè innaffiato O franchi 70 due tartine imburrate O franchi 50 + 2 un franco e 20 centesimi per la mancia al ragazzo La folla ha linciato l’assassino il vagabondo e tutta la gente è ripartita ad attendere alle sue occupazioni.
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In questi versi (che ricordano singolarmente una sequenza del Figliuol prodigo di Trenker) la poesia si è impadronita anche della visività più propriamente cinematografica, fatta di primi piani, di dettagli, di dissolvenze, di “inserti”: per esempio, un cartellino con «O franchi 70». Anzi par quasi, nella lirica di Prevert cui ci riferiamo (pubblicata da Terre des hommes, n. 9, 24 novembre 1945) che La grasse matinée abbia potuto assorbire perfino l’esperienza recente di parole-ritmo incorporate con le immagini, come già fece W. H. Auden per i film Nightmail e Coalface. Nella lirica del Prevert, infatti, le parole accompagnano tutto un ritmo visivo e sono la sceneggiatura ideale di immagini evocate verso per verso. Se uno spettatore cinematografico dovesse riassumere la Grasse matinée forse si esprimerebbe in questo modo: Un uomo, di nome Pépé, o Jean Gabin se vi piace, passa davanti a un bistrot, gestito da Françoise Rosay e Charles Vanel, come nel Grand Jeu. (Di fronte, invece, c’è un macellaio: è una piazza come quella di Quatorze Juillet). Pépé ha fame. Guarda le mostre dei negozi. Lo vediamo al di là dei vetri come in Quai des brumes. L’“inserto” del prezzo nella vetrina ingrandisce, come un’idea fissa, la sua impotenza e la sua povertà. Con la ferocia improvvisa che esplode in drammi “realisti” come Therèse Raquin l’affamato uccide, per procurarsi il denaro per il suo cibo. Misera ricompensa, come al capo stazione assassino di Béte humaine, sono pochi centesimi. Le guardie lo inseguono per quelle vie di Meerson, dove sono improvvisi caseggiati altissimi. La folla si calca come davanti alla casa della Chienne, o nella piazza di Panique. Poi la storia finisce, l’assassino è punito, la folla riparte: o torna vaquer ses occupations, perché la vita continua. Per Pépé La Jour se léve.
Mario Verdone
Coscienza estetica nella critica contemporanea [numeri 12 – novembre 1948]
Le prime cronache cinematografiche osservarono con curiosità i risultati singolari delle proiezioni di Lumière: «Si videro le foglie degli alberi muoversi...» (Georges Mélies); «Sullo schermo correvano i cavalli trascinandosi dietro un carro. L’illusione era talmente forte che una signora seduta alle mie spalle saltò in piedi e non si sedette finché il carro non scomparve» (De Bardèche). «Fu invece cosa ben diversa quando, con il titolo Quadro precedente a rovescio, avvenne la rivelazione (inconcepibile agli intelletti di quell’epoca)
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d’una natura colta da follia in cui tutto: cose, azioni, fatti, erano come aspirati, inghiottiti all’indietro da un Dio invisibile le cui mani agguantavano alle spalle i viaggiatori del treno per rigettarli a ritroso sui sedili e chiudere loro gli sportelli sul naso» (Henri Béraud). Poi si descrissero i trucchi sorprendenti di Mélies al teatro Robert Houdin o i fonofilm di Fregoli, che, nascosto dietro il telone bianco, prestava la propria voce a tutti i personaggi che apparivano sullo schermo. Infine, quando Pina Menichelli, Sarah Bernhardt o Mary Pickford apparvero in film storici o in pellicole ambientate in epoca ad esse contemporanea, i primi critici si indugiarono ad elogiare il valore di queste stelle. Un saggio su Mary Pickford apparve in un periodico russo subito dopo le prime interpretazioni dell’attrice. Una controversia sul “primo piano” portò la critica cinematografica italiana – primitiva e pubblicitaria – in dissertazioni tecniche più competenti e attinenti, anzi, al “fatto filmico”, come elemento visuale sottoposto a giudizio. Crebbe l’importanza del film e si ebbero, allo stesso tempo, critiche più progredite, poiché i primi risultati artistici meglio riconoscibili non mancarono di essere segnalati dagli osservatori più interessati. Nel 1907 l’argomento del cinema era ancora disdicevole, ed Edmondo De Amicis non volle trattarne che come descrivendo un suo «film interno». Benvenuto fu l’intervento di Tolstoi: «Il cinema ci ha rivelato il movimento!». Ricciotto Canudo, infine, ricercò i valori estetici essenziali del film svedese, o di quello francese e americano, e tracciò fin dal 1911 la prima estetica del cinema (v. Usine aux image). La critica, seguendo lo sviluppo della cinematografia, acquistò un linguaggio più appropriato. Dall’elogio si arrivò alla riserva sempre più frequente, dalla esaltazione iniziale provocata da “colossi” pari a Quo vadis (cui non sfuggì neppure Matilde Serao) si scese a una valutazione più pacata e obbiettiva. Il critico non si limitò più a esaminare i singoli film, ma ricercò negli antecedenti e susseguenti il filo e il senso di uno stile unitario, appartenesse a una nazione o a un individuo. Si distinse il carattere del film russo da quello tedesco, il film dannunziano italiano da quello realistico: si individuò e precisò il carattere del documentario – come «trattamento creativo dell’attualità» – e del film d’avanguardia, del film astratto. Oggi che è dato leggere estesi e soddisfacenti saggi sul documentario (Rotha, Cavalcanti, e Grierson, cui si deve la definizione sopra riportata), chiare note sul film psicologico, sociale, o di guerra (vedi Denis Marion su «L’arche», Georges Sadoul su «Temps Modernes», Roger Manvell in «Film»), precisi sommari storici della primitiva cinematografia (Sadoul, Lo Duca, Pasinetti), biografie o profili critici di autori ed attori (Emilio Cecchi su Buster Keaton, Denis Marion su Eric Von Stroheim, Glauco Viazzi su Clair ecc.
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ecc.) e nutriti articoli di filologia cinematografica (Barbaro, Viazzi, Casiraghi, Guerrasio, Aristarco, per parlare soltanto degli italiani: e Jean George Auriol afferma che sono i più preparati d’Europa); dopo cinquantatre anni di cinema e di critica al cinema, alla quale si è giunti attraverso una evoluzione che qui non abbiamo potuto tracciare che per sommi capi, è possibile, ci sembra, definire la natura e i compiti della critica cinematografiea. Essa tenderà, sicuramente, a discernere anzitutto nelle cinematografie nazionali e nei singoli film il cinema autentico, da quello che non lo è: e a tale scopo sarà sovvenuta dal pensiero cinematografico più progredito. Poichè, infatti, si sono avute nella pur breve storia del cinema varie teorie le quali, benché contraddittorie, hanno costituito la premessa per l’identificazione, nel cinema, dei suoi mezzi espressivi caratteristici e differenzianti (v. Canudo, Arnheim, Béla Bálázs, Pudovkin, Clair, Eisenstein, Chiarini, Barbaro, Flora, ecc.). Per dare una libera e larga interpretazione dell’opera cinematografica la critica dovrà risalire anzitutto al motivo generatore (il “tema” come lo chiama materialisticamente Pudovkin; o l’essenza, “lo spirito”, come potrà anche dirsi, in quanto il film è opera dello spirito, e la critica fruga appunto lo spirito dell’opera artistica), e s’immedesimerà, per far ciò, nella coscienza e nella fantasia dell’autore per rivolgersi infine ad apprendere come tale motivo sia stato espresso, e se esso abbia raggiunta o no quella realizzazione completa che coincide con la bellezza, e cioè anche con l’arte. Per adempiere a questo compito il critico ricercherà i “precedenti” e l’evoluzione dell’opera cinematografica, la descriverà nella sua risultante orizzontale (il tessuto narrativo, nel ritmo in cui esso si attua) e nelle risultanti verticali (i quadri staccati, ad es. di una similitudine o analogia) annotando gli elementi che vi si ripetono, o sono transitori, che compongono l’atmosfera o l’ambiente, che prevalgono sugli altri o si fondono in un unico impasto facilitando o frenando l’opera in svolgimento («il dialogo frena l’azione» osserva Mejerhold). L’elemento estetico (relativo alla bellezza complessiva dell’opera, o delle sue parti, nel montaggio) e l’elemento storico (relativo al momento dell’azione e all’ambiente) saranno infine, una volta individuati, integrati e fusi nella definizione dello stile dell’autore del tale o dei tali film, o della tale serie produttiva, o del tal paese produttore, cui i film si aggiudicano, e che nello stile enunciano l’unità raggiunta dal linguaggio artistico. E tutto ciò, opera di individuazione e di definizione, adempiuto in sede teorica, poiché bello e brutto vengono giustificati soltanto in questo campo della teoria dell’arte, che porta il nome di estetica. Poiché in ogni epoca della civiltà dell’arte il critico è soggetto a dottrine estetiche, o almeno alle idee culminanti della cultura contemporanea intorno alla natura e al fine dell’arte, la sua sensibile esperienza dell’opera cinematografica e la sua intuizione critica gli consentiranno di superare non di 140
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rado le premesse teoretiche con un vivo, personale e comprensivo giudizio. Potrà pertanto definire una scuola cinematografica come realistica o espressionista; racchiudere un movimento cinematografico nella definizione generica di “avanguardia”, di propaganda, o futurista, o cattolico; riconoscere l’attitudine e l’aspirazione degli svedesi (Sjoström, Stiller) al paesaggio, dei francesi al film d’atmosfera, dei russi al film politico e sociale. Potrà essere essa stessa, la critica, contenutistica e formalistica, romantica come avendo la mente ai creatori dell’opera cinematografica, o storicistica, in quanto attenta al processo evolutivo di uno o più cineautori. Da quanto si è detto apparirà chiaro, peraltro, che i compiti della critica cinematografica sono gli stessi di quelli della critica in genere, rivolta all’una o all’altra arte, che hanno un nome proprio e distinto per nostra convenzione (pur facendo tutte parte del mondo della Poesia) a seconda degli specifici mezzi di scrittura: pennello o scalpello, penna o gesto, e, nel caso del cinema, l’occhio-penna della camera cinematografica. Per riscontro, tuttavia, e come è ovvio, essa abbisognerà di un proprio linguaggio (debitamente da porgersi al lettore) laddove l’opera, lasciando la sfera generale dell’arte, ci apparirà nei particolari momenti di compimento: la inquadratura da attuare o il montaggio, la previsione del film in ogni suo momento (sceneggiatura) e il suo trapasso sensibile nella materia (ripresa). Tali momenti, cui ci si rivolgerà soltanto con approfondite conoscenze tecniche, senza le quali di niuna arte è possibile parlare con pienezza e padronanza, non dovranno, infine, essere completamente spersonalizzati, considerati schemi o astrazioni di per sé stanti, ma uniti nella intuizione stessa dell’autore, tal quali forma e contenuto, che nell’espressione si identificano. La critica, infine, dovrà essere essa stessa tesa a un prodotto d’arte: viva, sincera e individuale interprete; enunciata con linguaggio espressivo e non vaniloquente, in cui i concetti possano essere sopraffatti da parole astruse, strettamente tecniche e riconoscibili soltanto dagli uomini della produzione, le quali risulterebbero vane in una attività di educazione generale del gusto cinematografico. Da un’opera critica condotta con tale metodo, fiducioso e rigoroso (che per l’altezza di una tradizione italiana e ormai di patrimonio comune diremo crociano, facendolo risalire al maestro della critica moderna, Benedetto Croce) sarà possibile stabilire volta per volta cos’è il cinematografo, ed estrarne l’essenza poiché, come osserva un crociano, Francesco Flora, «le forme d’arte saran tutte quante la genialità degli autori saprà creare. Qui tutto sarà in rapporto a una lirica della luce, qui la parola conserverà il suo valore verbale e patetico o sarà invece trasposta a simbolo sonoro: qui sommuoverà un nuovo senso musicale, qui in una unità nuova, che assomma il canto, la parola, il gesto, la lingua infinita dei moti d’uno sguardo, d’un volto, prevarrà il racconto o l’urto degli umani affetti» (Le lettere e il cinema, «Pan», 1935, n. 141
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6). Per cui pare ancora impossibile definire il cinema con soddisfacente padronanza, e sapere con certezza quello che è oggi e che sarà domani: pur restando fermo il dato che esso sia un’espressione d’arte, di cui l’avvenire potrà ancor meglio confermare il valore. Fuori dalle riviste scientifiche di cinematografo, e cioè nei fogli di cronaca o nei meno rigorosi giornali cinematografici, che pure dovranno muoversi, nel loro giudizio, in un’orbita estetica, senza di che critica non esiste, noi non pretenderemo nel parere quasi sempre frettoloso ed effimero che di compiere in minima parte l’opera prospettata: fermo restando in essi il dovere, come ha scritto Hans Richter, di indirizzare il gusto del pubblico «indicando e condannando i brutti film».
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Sogno di Parnaso
Al cinema italiano Da quando la parola ti hanno dato Ogni filme divien tremando muto ENNIO FLAIANO
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Sogno di Parnaso
Antonio Marchi
Mezzo secolo? [numero 1 – gennaio-febbraio 1946]
È ancora troppo vicina quella sera – e sembrano tutti d’accordo a fissare alla sera del 28 dicembre 1895 il nastro bianco della nascita del cinema – ci vorrà del buon tempo, dunque – quanto ne occorre per fare i giorni di pietra, distaccati, disumani – perché la Storia e il Mito l’avvolgano nei loro veli. Oggi vediamo ancora noi nel sotterraneo del Grand Cafè, al Boulevard des Capucins, noi in carne ed ossa; e invece ci vogliono non uomini ma personaggi, non quel «petit bruit» tra incredulo e ammirato, gli urletti di queste dame e le veloci esclamazioni (francesi nientemeno) lanciati in un riso, ma poche, pacate parole nell’aria greve del gesto lento e dignitoso perché quel 28 dicembre, possa comodamente adagiarsi e sommergersi in una rarefatta atmosfera di rito. Quando quegli uomini, gli spettatori, assurgeranno a un piano metafisico e Messieurs Lumière, via ghette, bombetta, cravattino, se ne staranno immobili su un piedistallo, come antiche divinità, con quell’aria in volto, di chi ha da tempo spiccato il volo verso la trascendenza, allora anche i professori di liceo non sdegneranno di recare alla mente degli scolari il nome di Pabst o di un Clair – forse leggendari, non esistiti cioè, a detta di alcuni – e gli studiosi di cinema, con quella stessa arguta gentilezza con al quale usano oggi gli uomini di lettere ridare sangue umano a un Teofrasto di Ereso o un King Vidor, cui il comune lettore, con la sua immaginazione non sempre a fuoco, metterà magari addosso tunichette come quelle di Cesare e calzoni come quelli di Socrate. [...] «Si dice che il cinema nacque dal felice conubo della dea danza con l’arte del narrare, benevoli paraninfe tutte le altre arti?». E già ce lo immaginiamo l’affannoso ricercare nei costumi di questa età nostra i germi di tale nascita: e chi penserà essere stato tutto una questione di tecnici abilissimi e commercianti ingegnosi, e chi crederà invece di cogliere il vero ponendo l’avvenire del Cinema nel quadro complesso di una favolosa ribellione umana alle leggi della staticità, della gravità, del tempo. «E mentre il novello Icaro, sfidando il cielo, partiva per il volo questa volta fortunato, l’ingegno e la volontà umana donavano più reale concretezza all’immaginazione creando un mondo nel mondo, un mondo in movimento, che sovvertiva le leggi del tempo e dello spazio». Così racconteranno, con toni accesi di meraviglia, quelle Storie future! Ma semplicemente e tanto umanamente invece il Cinema arrivò, quella sera, su questo mondo. Qualcuno gridò alla nuova scoperta, ma erano uomini lontani dall’arte, solo presi dalle prospettive di facili guadagni. Gli stessi Lumière non videro, per anni, nel Cinema che «une curiosità scientifique». Pochi capirono o riconobbero il cinema. 145
«La Critica Cinematografica»
Méliès fu tra i primi. E riconobbe il Cinema come un amico che s’incontri dopo tanto tempo. «J’ai aimé le cinéma passionément» avrebbe poi detto. E quella sera si precipitò verso Augusto Lumière, e gli propose di acquistare la sua invenzione. Dieci, venti, cinquantamila franchi gli offrì: gli avrebbe offerto tutta la sua fortuna, la sua casa, la sua famiglia. Lui stesso ce lo dice. Ma Lumière fu inflessibile. Così Méliès se ne dovette ritornare a casa a mani vuote. E questo fu forse la fortuna del Cinema. Perché Méliès non era riuscito ad acquistare la prodigiosa macchina dei Lumière, ma aveva acquistato il Cinema. A mani vuote se ne andò via; ma un fermento in maniera più viva e diretta eccitava il suo cuore e la sua fantasia. Un’intima rispondenza era sorta più facilmente, quella sera, tra lui e il Cinema; sottili sensazione più liberamente e fortemente avevano vibrato in lui. Méliès aveva sentito dallo schermo raggiare un fluido che colpiva in lui fibre sensibilissime ma poco conosciute: era il Cinema. Per anni e anni il cinema era vissuto come gli snob e l’America: senza che gli uomini se ne accorgessero, nell’attesa di un Thackeray o di un novello Colombo. Il 28 dicembre è il 12 Ottobre del cinema: non genetliaco, ma anniversario di felice scoperta. Non nacque dunque il cinema quel giorno, ma si svelò solamente. Non fu, quel giorno, data all’uomo la possibilità di una vita più intensa, ma soltanto più libera. Cinema vi fu da allora più realmente tra queste cose. Da allora «l’uomo che cammina lungo un muro» non fu più solo Poesia, Pittura, Musica, fu anche Cinema. O meglio fu più comodamente Cinema, staremmo per dire, da quella sera. Cos’era avvenuto oltre le colonne di Ercole in tutto quel tempo; sull’inesplorato continente di Puerilia? Mai nessun Odisseo dello spirito vi si era avventurato? Ci sarebbe, io credo, da scrivere un intero libro alla caccia di un cinema antecinema. E quale autore rifiuterebbe di venirci in aiuto? Non che si voglia ora ritornare sulla solita questione dei rapporti fra due tecniche narrative, quella cinematografica e quella letteraria, ormai superata, crediamo in un senso differenziativo, onde la negazione di ogni valore immediatamente cinematografico alla pagina scritta; ma tenendo presente, al di là delle sue manifestazioni particolari, l’unità dello spirito e però dell’atto creativo, porre lo “svelarsi” del Cinema, a torto chiamato anche oggettivamente creazione o nascita, sul piano dell’universalità, appunto, dell’atto. Ci accorgeremo allora che il Cinema, al pari di ogni arte, abbia cominciato ad esistere, potenzialmente, col primo uomo, quando sentiamo la sua essenza nel nostro spirito, in cui essa visse e vive, e oggi particolarmente felice in questa possibilità di concretizzazione (il film) di certo più facile e felice. Ciò che a noi può sembrare la nascita del Cinema e dunque, come così 146
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spesso si dice, nascita, non soltanto apparente, di un’arte nuova, non è, in questa epoca di tecnocrazia, che uno di quei tanti, più o meno sensibili, spostamenti avvenuti sul piano dell’inutile. Con l’invenzione meccanica dei Lumière il Cinema si fa più facile, come la composizione chimica di certi colori rende più agevole e duratura l’opera del pittore, e la macchina da scrivere più comodo e sbrigativo lo scrivere del poeta. E a chi ci obbiettasse essere il cinema più che la poesia e la pittura legato al mezzo tecnico, risponderemmo che è sì legato al mezzo tecnico, ma che non nasce con esso; e che se è lecito e financo piacevole pensare poeta senza penna, ecco che si fa già più difficile immaginare pittore senza pennello e colori o scultore senza materia e mezzi per plasmarla e più ancora, musico senza tutti quegli strumenti, a volte complessi e sempre legati al progresso della tecnica, ma che non per questo ci rifiutiamo di immaginare questi uomini rassegnati alla povertà del tempo, coll’animo disposto alle più pure creazioni: primitivi poeti con la poesia chiusa tutta ancora nel cuore e pittori con la pittura immobile sui loro occhi e musici in estatico ascolto di inesprimibili melodie. Anzi ci è dolce l’immaginare queste creature schiave del sentimento del tempo, e ci riempiono di un calmo e pauroso stupore il senso di primordiale purezza in quest’arte inespressa e il mistero delle cose non nate e che potevano nascere. E allora perché non immaginare fra quelle creature anche il regista senza macchina da presa. «Regista»: tutta parola ancora legata a questi giorni, arida ed anche per lei occorrerà del buon tempo perché possa librarsi serena nel cielo dell’arte in cui le parole come «Musico», «Pittore», «Poeta» si snodano in armonie di suoni, colori, parole. Ma abituiamoci a sentirla già così, usandola parcatamente per quanti, e sono pochi, oggi la meritano. Da quel mondo formidabile di poesie non scritte, di quadri non dipinti, di melodie inespresse, di film non girati, trae i propri impulsi non solo il creatore, ma costantemente dovrebbe illuminare la propria strada il critico. Da quel mondo dove c’è già tutto il Cinema e dove costantemente ritorna, essenza di future esistenze, il Cinema nostro, il Cinema che creiamo quotidianamente noi per noi, inconsci forse ancora, come primitivi poeti, immersi nella natura, soffrivano l’angoscia di un cielo e musici vagabondi seguivano nelle selve, sui poggi, sonorità di spazi e di ombre. Come noi oggi, dunque, antichi uomini un tempo, più innocenti, creavamo Cinema. Cinema allo stato brado. Lo si sentiva, ma senza averne coscienza. Cinema non nel senso attuale, più comune, di racconto cinematografico, ma come intuizione. Simile alla categoria poesia dalla quale sarebbe poi sorto il genere romanzo così era la categoria cinema, purissima, che attuandosi si sarebbe poi subito in gran parte corrotta degenerando in una pluralità di sottospecie e contaminandosi con altre. 147
«La Critica Cinematografica»
Tornare al cinema puro, come oggi si suole dire, significa più che rifarsi al Cinema di dati registi, tornare in quel mondo, che equivale a rientrare intimamente in se stessi; sentire in sé l’essenza del Cinema. Ecco che il cinema non più limitato nel tempo, non più oggettivamente creato dagli uomini moderni, ma che trova le sue origini vere, non nella sera del 28 dicembre 1895, bensì in quella in cui il primo uomo aprì gli occhi e vide sé nella natura, e sentì il primo gesto e specchiandosi nell’acqua accesa degli stagni si guardò e per la prima volta fu lieto e triste e conobbe nell’espressione, nei gesti, nei rapporti fra sé e le cose i segni di questa letizia e di questa tristezza, ecco che allora il Cinema si libera dalle ambiziose strettoie in cui gli uomini lo tengono schiavo e rientra nel dominio dello spirito: lontano da tanti di questi uomini, di questi moderni registi. Lontano, perché veramente vicino all’uomo.
Lamberto Sechi
Cinema con o senza cultura [numero 1 – gennaio-febbraio 1946]
A chi mediti seriamente, senza pregiudizi, senza ostilità preconcette, sul fenomeno cinematografico, si possono presentare due soluzioni o, meglio, due modi di riguardare il problema che rispondono anche a diverse concezioni della vita e dell’arte. Il primo consiste nell’intendere il cinematografo come portato di un progresso tecnico meccanico – il che non ne inficia i valori artistici, in quanto i mezzi meccanici sarebbero appunto mezzi e non fine – e quindi come fenomeno assolutamente nuovo, per quanto figlio di improvvisazione, ma di una sincera esigenza spirituale, e perciò destinato a trovare il meglio di se stesso in una verginità consistente in una definitiva rottura col passato: arte insomma nuovissima, senza nessun legame con la vecchia cultura, con la tradizione, conscia solo delle sue possibilità, frutto puro e incontaminato da varie interferenze. Un cinematografo di questa specie sarebbe proprio di quei popoli che non sono soverchiati da eccessive fatiche storiche oppure, sebbene fra i più gravati di storia, rinnovati e rinfrescati da una rivoluzione che abbia capovolto i vecchi valori morali per instaurare un’umanità su nuove basi. I sostenitori di queste teorie possono facilmente esemplificare servendosi del cinema sovietico (nel quale però, diciamo noi è già evidente una nuova formazione culturale, un nuovo inquadramento mentale che non sono quindi già più quella purezza desiderata) e anche di molto cinema americano (ove però l’apparente ingenuità è proprio una conquista della cultura, un punto di arrivo e non di partenza). Il secondo modo consiste nell’intendere la nuova espressione soltanto come 148
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tale, pensando che ad essa gli uomini possano arrivare solo arricchiti da un avito patrimonio spirituale, ritenendo assurdo e impossibile sopprimere tout court quel lento e laborioso evolversi del pensiero del quale i nostri spiriti, sia pure spesso con non piena consapevolezza, sono i discendenti diretti. L’uomo potrebbe, insomma, esprimere i propri sentimenti anche attraverso la macchina da presa, ma non potrebbe nell’atto stesso della creazione il folle peccato d’orgoglio di credersi il primo uomo, per il solo fatto di servirsi di un nuovo mezzo: e non solo inevitabile ma anche supremamente benefico recare in sé tutte le esperienze umane precedenti senza farsene però dei clichés da riprodurre fedelmente. I sostenitori di questa interpretazione avrebbero dalla loro alcuni grossi nomi di estetici da citare. La prima interpretazione, che è rivoluzionaria, risponde bene a certe esigenze dovute a una sfiducia per le forme tradizionali che, portate nel campo del cinematografo, non farebbero che alterarne la sua struttura, togliendogli persino quel carattere di rivoluzionatore dei mezzi espressivi che gli è proprio. I vari esiti culturali distrarrebbero il cinema da quella sua veste di enfant prodige che gli consente la più ampia libertà e gli permette di burlarsi del tempo e dello spazio. Ecco perché coloro che sostengono questa tesi vagheggiano come ideale il film muto, in cui nessun elemento musicale e parlato (dialogo-teatro o letteratura) ne turbava la chiarezza; (è sottinteso che si pensa sempre alle opere dense di poesia e non a quelle mancate: le cause degli errori consisterebbero appunto nel non aver rotto i ponti con il passato e con la circolazione artistica presente). È chiaro, in ogni modo, che si tratta di una posizione insostenibile e, per quanto attraente, intimamente contraddittoria. Chiunque infatti si accinga alla creazione di un’opera d’arte, e quali che siano i mezzi di cui si serva, non potrà mai annullare la propria umanità precedente, che è anche storia e quindi cultura. Il regista non potrà mai essere il fanciullo ignaro e ingenuo, proprio perché il cinematografo stesso glielo impedisce, dovendo necessariamente servirsi di un soggetto, di una recitazione, di un ambiente, ecc. Si può dire ancora che credere in un cinema puro significa ammettere una poesia cinematografica ben distinta da una poesia delle arti figurative o della musica ecc. Mentre è evidente che poesia è poesia in quanto espressione di una fantasia, di sentimenti, di stati d’animo e non sarà una diversità di mezzi a condizionare una diversità di riuscita, perché è assurdo ammettere che un artista non si serva di ciò che è più adatto al suo temperamento e che meglio risponde ai suoi fini. Quello che conta, in definitiva, è l’uomo che può essere poeta o non poeta, sia che si esprima con la macchina da presa, sia con la penna, sia col pennello ecc. Eppure sono molti ancora quelli che tengono alta la bandiera del cinema puro, forse portati anche da un certo dispetto per i risultati in genere poco 149
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felici ottenuto fino ad oggi dall’incontro delle altre arti col cinema. Ma costoro poi si ingannano quando credono di veder il puro cinema realizzato da Murnau o da Clair, i quali invece sono tra gli esempi più felici di un incontro, non epidermico ma sostanziale, della cultura col cinematografo. A questo, appunto, si dovrebbe arrivare: un incontro in profondità dalla cultura col cinema, incontro che dapprima forse significherebbe un eccesso di preziosismi e di squilibri, ma che finirebbe col sortire i risultati migliori quando si verificasse un completo acclimatamento. Il buon gusto (al quale si arriva solo dopo una adeguata preparazione) letterario del regista farebbe sì che fossero evitati quegli errori di racconto, quegli stacchi arbitrari che nei film si verificano; una buona conoscenza delle arti figurative darebbe al regista una maggior sicurezza nella ambientazione e lo porterebbe a curare meglio le singole inquadrature in vista dell’insieme, senza cadere in ripetizioni pittoriche di dubbio gusto (si ricordi, in proposito, La fornarina e si veda invece quanto una conoscenza non superficiale dell’arte fiamminga abbia giovato al Feyder della Kermesse eroica); una certa competenza musicale potrebbe evitare le dissonanze tra la parte visiva e quella sonora e aiutare il regista nella scelta della musica più adatta in modo che esse nascano dal racconto visivo e non siano le immagini a derivare da loro; e via discorrendo. Insomma, non solo non ha ragione di essere una formula di cinema puro, ma, anzi, se essa fosse praticamente realizzabile, crediamo che potrebbe essere soltanto un innocente esperimento di avanguardia, al quale andrebbe limitata, o un manierato tecnicismo scolastico, proprio perché chi vi volesse arrivare dovrebbe acquistare una specie di nuova vista e sottostare ai capricci di un mezzo meccanico che, in quanto tale, rifiuta un accordo con la vita del pensiero. Mentre sta proprio al pensiero e alla fantasia (che, senza il pensiero, sarebbe pura astrazione e incapace di espressione) dell’uomo saper utilizzare ciò che è morto per creare opere vive.
Francesco Squarcia
Opinione sulle ombre parlanti [numero 1 – gennaio-febbraio 1946]
Si potrà mai ricondurre il cinema fuori di una necessità narrativa? Crediamo di no, a meno di non voler approdare al pittoricismo, alla descrizione e, in una parola, al paese della noia. A mezza via tra il dramma e il romanzo, pur avendo sorte propria, il film è legato al peso carnale dell’apparizione umana, ai gesti, alle smorfie, ai pantaloni spiegazzati. I documentari vuoti di quella presenza, i paesaggi desolati o magnifici, passati dall’obiettivo con la più squisita sensualità, e magari soccorsi da musiche 150
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d’eccezione, sono pezzi morti se non sono drammatizzati dall’occhio del personaggio, vicenda essi pure. Se ne avessi l’autorità consiglierei la critica a ragguagliarci più a fondo sul giuoco fisico degli attori, sul comportamento abituale di queste ombre parlanti che sopravvivono nel cuore della memoria come simboli energici di una data temperie drammatica. L’evidenza spettacolosa della loro persona trascina con sé e travolge la più ostinata delle intenzioni, sovrapponendole un tipo umano di fatto assai poco plasmabile. Per questo solidarizzo di colpo coi critici che parlano di Jean Gabin o di Laughton come veri personaggi, e si dimenticano del loro nome fittizio. «A questo punto il bravo Paul Lukas si accorge...». In tal modo si viene a riconoscere, con un po’ di civetteria, che alcuni attori più popolari hanno assunto un certo posto nella società che popola la nostra memoria e non come personaggi di questa o quella vicenda, ma come uomini dai connotati praticamente immutabili. Maschere, si potrebbe dire; ma questo nome comporta una determinazione storica, un’idea d’altra età e d’altro gusto. E poi quello che diversifica il nostro attore dalla maschera è la sua permanenza dentro la propria singolarità di uomo anziché dentro un tipo preformato e fisso. (Parliamo qui soprattutto degli attori del più amato e corrente cinema americano). Donde il problema (uno dei tanti) che l’arte filmistica è chiamata ogni giorno a risolvere, quello di coordinare l’idea drammatica con l’esistenza e la resistenza delle persone che vi agiscono. Un problema tutto diverso da quello del teatro, dove la fisicità dell’attore ha ben altro modo di eluderci. Se dunque i cronisti – col chiamarlo per nome e cognome – ammettono l’indipendenza dell’attore dal personaggio, o, meglio, la subordinazione di questo a quello, faccianno un altro passo e ci dicano più distesamente com’egli ride, guarda, cammina; ci diano ragione di determinati effetti, che nascono da cause in apparenza futili, ma capaci di determinare, con i loro particolari ineffabili, il processo delle nostre più sottili suggestioni. Non parlo solo del giuoco fisiognomico, che il cinema esalta in modo così violento e spesso paradossale. È un argomento un po’ vieto, anche se non esaurito. Facciamoci dal basso, guardiamo l’andature, ch’è di solito il punctum dolens dei popolarissimi mimi. La grammatica filmistica più elementare insegna a fotografare i piedi il meno possibile. Gli americani (che sono il discorso di tutti i giorni e quindi il più attivo) l’hanno imparato a meraviglia. Senso del mestiere, buona creanza, e un fondo di pudore ancestrale. L’attore abbia (come succede) un po’ di dinoccolatura, o il ginocchio, o la noce al piede, ed eccolo tagliato in due. Assistiamo così, piacevolmente, al moto, senza vedere gli arti che lo producono. Donde quelle capziose scene nelle quali la persona viene verso l’obiettivo con un movimento ritmico e un effetto d’armonia in cui la macchina da presa, mirando all’idea della maestà, della forza, della grazia, dello sgomento, diventa irresistibile. Né si parla di certa deliziosa ironia, che è per lo più alla 151
«La Critica Cinematografica»
radice di quelle suggestioni. Da questo sublime i piedi sono di norma esclusi. Eppure quando essi osano comparire hanno qualcosa di misero, di precario, di umano che, a suo tempo, m’incanta. Faccio qualche esempio. Non parliamo di Chaplin: il suo modo di camminare è una violenza poetica, una metafora toccante e sfacciata. Penso invece a Barbara Stanwick, che, sul principio di Proibito, viene avanti con le sue grosse caviglie da maestra in provincia, e non si vede quasi altro, ma è già una storia. L’andatura di Marlene, non è, vista di faccia, gran che: quelle gambe famose sono rette da un piede leggermente caprino. Parentele col demonio? La Garbo ha i piedi piatti e fa di tutto perché la gente pensi ad altro. Bob Taylor – una specie di Galeazzo Ciano coi capelli ondulati – fa un po’ il ginocchio. E ricordate il diabolico trucco della Hepburn in Piccole donne, che pareva filasse sui pattini? Non lo giurerei, ma le fan comodo le vesti lunghe. Ci sono, al contrario, i casi in cui la camminatura è presentata come un aspetto necessario della personalità. Cito l’antico Jannings, con quel suo andare alacre, a punte in dentro, da atleta: segno di esuberanza o promessa di tempesta. E l’andatura leggera e incisiva di Gary Cooper, da vero lanciere del Bengala: fuori chiave con l’impagabile e filantropica sordaggine di mister Deeds, fino a che non arriva quel bellissimo pugno finale che ristabilisce le misure. E c’è anche chi fotografa gli umili arti in funzione di dramma o di poesia, come insegna Ford in Viaggio senza fine; dove i piedi stralunati dei marinai in cerca di un povero paradiso nel pallore notturno dei selciati colgono alle radici del cuore un’idea di tristezza e d’esilio.
Francesco Arcangeli
Critico d’arte al cinema [numero 2 – marzo-aprile 1946]
Continuiamo con l’articolo di Francesco Arcangeli la nostra inchiesta sul cinema. Nei prossimi numeri pubblicheremo le risposte di Luciano Anceschi, Arrigo Benedetti, Raffaello Franchi, Alessandro Parrochi, Giacinto Spagnoletti ed altri. Entrare in merito a un argomento così dibattuto com’è il cinema parrebbe supporre una conoscenza precisa e vasta dei problemi tecnici che lo riguardano e della letteratura cinematografica. Se dovessi obbedire a uno scrupolo del genere non dovrei nemmeno iniziare queste considerazioni: non ho conoscenza dei testi critici e frequento le sale di spettacolo come uno degli innumerevoli spettatori che al cinema vanno, così dicono, per divertirsi; ma che poi, al contatto con la pellicola, reagiscono con un’emozione che va 152
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spesso oltre il puro divertimento e sulla quale poi tornano col ragionamento e con la memoria. Sono insomma uno spettatore in cui, a un certo punto, si risvegliano delle esigenze. Data la mia professione e la mia cultura, queste esigenze sono assai spesso di ordine visivo. Per esempio, credo che la mia emozione per certe inquadrature di Bas Fons (Verso la vita) sia stata superiore a quella dello spettatore medio: il riconoscere, nella scena della banda militare al giardino pubblico, il riflesso non tradito dei capolavori di Manet e di Renoir mi commosse singolarmente. È proprio il ricordo di queste e di impressioni analoghe che mi induce a qualche considerazione sul rapporto che intercorre, a mio avviso, tra il cinema e le arti figurative. Tra le varie definizioni che se ne son date e se ne danno, mi pare che la più divulgata e comprensiva sia la seguente: il cinema è racconto per immagini. La sintesi cinematografica consiste dunque nel susseguirsi temporale, nel narrarsi nel tempo, d’una serie d’immagini. Ma la comprensività della definizione non è esauriente. Racconto per immagini, sta bene. Ma di quali immagini si tratta? Racconto per immagini – chi può negarlo? – sono anche le storie di San Francesco: una ventina d’inquadrature che il genio di Giotto fermò per sempre sulle pareti della Basilica Superiore d’Assisi. E allora, tanto per non confondere l’operare di Giotto con quello di King Vidor, aggiungerei, a maggior specificazione, che il cinema è racconto per immagini fotografiche. Ecco un divario fondamentale fra il cinema e le arti figurative. Il primo si fonda inevitabilmente sulla fotografia e, per quanto il regista possa intervenire anche con il colore, non si dà mai che superi totalmente il limite meccanico da cui prende il via. La macchina da presa realizza, essenzialmente, una riproduzione imitativa del visibile, e quindi intensamente realistica. Il pittore, anche se si propone il programma più decisamente imitativo, opera trasfigurando radicalmente l’immagine ricevuta dal mondo esterno. I brani più naturalistici del Caravaggio risultano sommamente idealizzati anche in confronto ai fotogrammi del più astratto o fantasioso regista. Del resto, pensateci bene: dopo il romanzo realistico la civiltà moderna ha creato, nel cinema, un mezzo per aderire anche più direttamente al reale. Pensate all’efficacia immediata, stupefacente, di uno Zola che, anziché servirsi dello strumento sempre lento e simbolico della parola, vi metta tangibilmente sotto gli occhi, con una rapidità singolare, la verità dei fatti. Pensate a certi beni di Duvivier o di Renoir, e vedrete che qualche cosa del genere il cinema l’ha già dato. I registi francesi hanno scavato più a fondo in questa direzione, servendosi delle possibilità più schiette, originarie del cinema come immagine; ma risentendone anche il peso. Se da certi passaggi troppo veri della Bête humaine di Renoir risalite ai momenti della vita parigina visti dall’occhio di Degas, vedrete invece come il pittore, nell’affrontare il vero, vi trasferisca in partenza la forza della sua passione: trasporti cioè i suoi modelli in un mondo 153
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ideale in cui i bevitori d’assenzio, le prostitute, le stiratrici, le ballerine sbadigliano, si muovono, s’inebetiscono per una necessità aspra, ma patita, a cui la mente dell’artista le costringe. Tuttavia, del limite meccanico dell’obiettivo pare che talvolta i registi sentano l’insofferenza: ricordate il colpo di testa di Duvivier quando, in un famoso passaggio di Carnet de Bal, storce furiosamente l’immagine del medico sfortunato? Ma il nostro occhio vede ancora i calzoni di Pierre Blanchar trascinarsi pietosamente per la stanza: inclinati passionalmente, ma sempre veri, troppo veri. Che cosa si vuol concludere con questo? Che l’essenza e la forza propria del cinema non starà mai nel valore dell’immagine unica, isolata. Nessun flou, nessuna dissolvenza di nessun regista potranno mai reggere al confronto con la pittura. Fermate le più sapienti inquadrature della Kermesse Eroica di Feyder: al paragone di Frans Hals o di La Tour naufragheranno miseramente. Fermate l’abbagliante passaggio dei militari sotto i lampioni Becky Sharp di Mamoulian: in confronto a un grande colorista sembreranno un lampo volgare. Le possibilità propriamente figurative del cinema mi paiono quindi assi più limitate di quanto si dice spesso. La pittura dà luogo a una ideale contemplazione del mondo che al cinema non vi sarà mai dato di sperimentare; vi astrae in un’altra creazione, vista da occhi nuovi e più profondi. Con questi ragionamenti non ho inteso affatto, dal mio tavolo di storico dell’arte, fare una stroncatura del cinema. Cinema, nella sua radice etimologica, implica l’idea di movimento. Sullo schermo le immagini si muovono, si susseguono più o meno veloci, diversamente legate secondo l’estro del regista, secondo ch’egli ha sentito la vicenda che ha preso a interpretare. Il fotogramma entra dunque in un flusso vitale che l’astrae e lo trasfigura, ne moltiplica la forza emotiva. Se ricordo indelebilmente le vecchie case di Montmartre che apparivano in Quatorze Juillet di Clair non è tanto per la fotografia in sé, pur bellissima (ma che non mi commuoverà mai come un bellissimo quadro); piuttosto per il modo lento, affettuoso, con cui il regista le avvicina o le allontanava dall’obbiettivo, per scandirvi il ritmo di una vita logora eppure amata. Era un ritmo rapido, quasi febbrile, che faceva ondeggiare il traffico di Londra all’occhio di Tim Whelan, il regista di Marciapiedi della Metropoli. Era l’oscillare della macchina da presa che vinceva la gravezza del fatto e salvava dalla cronaca quasi tutto Pépé le Moko di Duvivier, facendo brulicare sullo schermo la vita della Casbah. Ma anche questa dinamica, questo ritmo dell’immagine cinematografica non sono tutto il cinema. Credo che al critico cinematografico sia essenziale lo studio dello stile con cui i vari registi usano e alternano i primi piani o le ferme inquadrature o i campi lunghi; come adoperino le carrellate, e così via. Questo studio, che è sempre studio visivo e in qualche modo figurativo, li avvicinerà al battito dell’ispirazione, al polso con cui il regista sente la vicenda. Ma questa dinamica del cinema non può essere astratto moto di immagini; nei 154
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capolavori non è altro che il movimento con cui un’azione narrativa si affaccia più direttamente al nostro cuore. Esiste, insomma, un naturale, quasi inevitabile confluire della temporalità letteraria e della temporalità cinematografica in una sola unità narrativa. Mi par di avvertire invece che la più seria critica cinematografica sia portata talvolta a sottovalutare la faccia letteraria di quell’erma almeno bifronte che è un film. Il rapporto fra cinema e letteratura esce dal mio campo specifico d’indagine. Tuttavia, tanto per spiegarmi con esempi, dirò che Palcoscenico o L’impareggiabile Godfrey di La Cava (o certi film di Capra) mostrano come siano importanti la vicenda e la fantasia letteraria in alcuni film: tanto che in essi l’ordito dei fotogrammi poteva sembrare un simpatico, ma subordinato commento al dialogato, all’invenzione. Eppure, se qualche intransigente sostenitore di un cinema tutto visivo avesse osservato trattarsi di casi di teatro anziché di cinema, credo si sarebbe potuto rispondere che anche in quelle opere non mancava quel fare più diretto, più libero nei movimenti, quel flusso d’immagini che solo il cinema possiede; anche se il regista non aveva, negli esemplari suddetti, insistito particolarmente su queste particolarità espressive. Confesso di preferire un cinema teatrale di quel genere al cinema intensamente visivo, figurativo anzi, dei Bas Fonds di Renoir, dove i brani perfetti, da antologia, in cui la macchina da presa agisce in modo insuperabile, non bastavano a vincere la fiacchezza del totale; proprio perché il regista non aveva sentito la vicenda con bastante unità fantastica. D’altra parte, il successo non del tutto immeritato d’un film visivamente quasi mediocre come La Voce nella Tempesta era dovuto al fatto che il regista era riuscito, almeno in parte, a far vibrare sullo schermo l’eco sentimentale e letterario del libro eroico di Emilie Brontë. Mi par di poter concluder, perciò, che i risultati più alti del cinema saranno nelle opere in cui le due facce essenziali di questa espressione artistica, quella visiva e quella letteraria, vengano a combaciare in perfetta unità. E per finire con una preferenza personale, dirò che il film che in assoluto mi ha dato una più intensa emozione è Il Traditore di John Ford: appunto per l’equilibrio in cui vi son tenute la dinamica narrativa e la dinamica visiva. Là non ci sono compiacimenti figurativi né astrattezze letterarie: sono parole e fatti umani e strazianti che hanno trovato, non dirò immagini, ma fotogrammi necessari e indimenticabili.
Sergio Frosali
Cinema falso [numero 3-4 – settembre 1946]
Nessun’arte, o attività artistica, assorbe le facoltà emotive così completamente come il cinema e nessun’altra ha il potere di trasportarci e di 155
«La Critica Cinematografica»
sedurci con altrettanta intensità. Ciò deriva dalla somma di mezzi a cui esso sa ricorrere: musica, dialogo, concitazione dinamica degli avvenimenti, avvicinamento e ingrandimento dei particolari attraverso i primi piani; cosa, quest’ultima, che per l’enorme evidenza fisica sospende il respiro dello spettatore. Leggendo un romanzo, soltanto chi abbia una fortissima fantasia può entrare completamente nella vicenda; la maggior parte dei lettori scorrono superficialmente le pagine e non si creano con l’immaginazione una vera rappresentazione degli avvenimenti. Il libro ha poco potere per attrarre del tutto a sé il lettore; basta una distinzione, un rumore ed ecco rotto il filo ideale. Così la pittura che è statica, così la scultura. Il cinema possiede, in grado superiore perfino al teatro, la forza di avvincere. Specialmente dopo l’aggiunta del sonoro, lo spettatore non gli resiste più: appena entrato nella sala diventa passivo, guarda, ascolta, e quasi non potrebbe farne a meno anche se volesse. Questa enorme presenza fisica del cinema è il segreto del suo successo tra le folle, specialmente tra le più insipienti ed illetterate, ma è anche uno dei principali ostacoli che gli si presentano per diventare arte. Come volete che tenda alla perfezione un’attività artistica che, anche ben lontana da preoccupazioni di merito estetico, può lo stesso avvincere il pubblico e renderlo schiavo? Basta elevare di un grado di sonorità la musica del finale, quando il protagonista sta morendo oppure parte verso un’ignota contrada, perché il pubblico, anche se stava annoiandosi, si senta prendere da una specie di commozione. Il sonoro specialmente è il principale complice di un’infinità di misfatti estetici. Registi senza intelligenza o senza coscienza ne fanno l’uso più eccessivo e smodato: quanti gravi suoni d’organo si sono sentiti nelle chiese buie, quante spiritosaggini insulse si son fatte dire agli attori per reggere una vicenda che cascava da ogni parte! Di simili mezzi illusionistici o riempitivi si abusa nelle manifestazioni meno alte di ogni arte, ma il cinema, per la sua stessa natura che vi si presta particolarmente, è diventato il loro regno, e non vale ripetere che esso è alla sua infanzia, che il pubblico se ne compiace ancora come di un’invenzione nuova, e che dovrà un giorno annoiarsene, chiedendogli minor perfezione meccanica e più fantasia. Gli uomini rinascono simili ai precedenti, la loro intelligenza non aumenta col passare del tempo, anche se si accresce la loro istruzione; ed il loro gusto non si affina. Il cinema d’ora li appaga, e se anche restasse tale e quale seguiterebbe ad appagarli, perché, bisogna riconoscerlo, è proprio fatto per loro. Per quanto facciano le viste di lamentarsene, affollano sempre più le sale, segno che i loro gusti vengono appagati. E non bisogna credere che a un eventuale aumento del grado generale di cultura possa corrispondere un miglioramento del gusto: la 156
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borghesia colta di oggi so contenta delle stesse cose che appagano un analfabeta, e forse, siccome è stupida, oltre che nella misura in cui lo è ogni uomo normale per l’istupidimento cui si riduce credendo di diventare raffinata ed intelligente, i suoi gusti sono ancora più falsi. Ed il cinema, che come organizzazione industriale si appoggia su un tale pubblico, non potrà mai, in linea di massima, migliorare. La possibilità di produrre film di valore artistico risiede tutta nell’indipendenza di un regista, nell’abnegazione di un produttore: il buon film, insomma, è, e resterà, un fenomeno isolato. Il cinema, si sa, nasce alla confluenza di diverse tecniche artistiche. La scenografia, la recitazione, la fotografia, la musica gli sono elementi indispensabili, che portano ciascuno un proprio coefficiente. Parrebbe che elevando la qualità di ciascuno di questi elementi il film si elevasse di livello, e che riunendo la scenografia più bella, gli attori più bravi, l’operatore più esperto, il musicista più valoroso, si ottenesse il capolavoro. E così paiono credere certe case di produzione, le quali lanciano dei “supercolossi” dove tutto è perfetto e costa delle somme enormi. Ma non basta riunire tanti sforzi: il lavoro che vien fuori, nonostante le spese che è costato e il suo fasto, resta quasi sempre mediocre. Per questo non si può dire che il cinema sia arte di collaborazione: dove gli specialisti più eminenti collaborano, ciascuno nel proprio campo, anche sforzandosi di erigere in unità i loro apporti personali, niente di buono vien fuori. E viceversa il gran film può nascere nelle condizioni più disagiate (esempio l’Incrociatore Potemkin) quando una grande personalità gli imprima il suo segno. E la ragione dell’impotenza della recitazione, della scenografia ecc. a diventare arte è questa: che il cinema in quanto riproduce (siano pure le cose in sé più belle ad essere riprodotte) non è ancora arte. E qui non parliamo del caso peggiore, quando i collaboratori (soggettisti ecc.), invece di dare la loro opera più intelligente, si limitano a cercare degli espedienti coi quali agire sul pubblico. È che la cinematografia è viziata da un difetto iniziale del quale non potrà mai liberarsi completamente, anche quando vi tenderà con tutte le forze: il difetto di essere la riproduzione della realtà tale e quale. Qualunque sia questa realtà riprodotta sullo schermo, essa resterà sempre qualcosa di estraneo, che potrà aver valore in sé e attirare lo spettatore più o meno delicato, a seconda del grado di perfezione ch’essa abbia, ma che non sarà ancora cinematografica, nel senso artistico della parola. La suggestione che una buona recitazione ed altri meriti di un film sapranno esercitare su di noi, ed anche l’ammirazione che ci comunicheranno, saranno ancora effetti di un cinema falso, cioè meccanicamente riproduttore e mancante di meriti propri. Ciò che ci suggestiona, che desta in noi dell’ammirazione, non è, questo è l’importante, il cinema, nel suo senso vero ma l’invenzione dei fratelli Lumière, 157
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perfezionata tecnicamente e resa più complessa. Ed allora, quando si passa dal mezzo dilettatorio all’arte? Quando ciò che le immagini ci mostrano, invece di essere attraente in sé, viene investito da una unica luce creatrice di fantasia che dona una ragione ultima a quegli oggetti, a quelle persone, a quei suoni e le iscrive in un mondo fantastico, assoluto e perfetto, che non è il mondo della realtà creata, ma della realtà inventata. La qual cosa, occorre avvertire, non potrà mai essere raggiunta completamente, come per esempio dalla pittura, perché un ostacolo materiale rimarrà sempre: gli oggetti riprodotti, per quanto tendano a smaterializzarsi, non potranno mai diventare assolutamente oggetti di fantasia, restando sempre in loro qualcosa di intrasfigurabile. Al cinema si vedono uomini, fazzoletti, mobili, pistole: tutte cose che quasi sempre ci restano indifferenti perché non riescono ad assumere un significato particolare. Le sole volte che esse ci commuovono sono quando, per virtù dell’autore del film, ciò che era generico e indifferenziato, confuso in una molteplicità di particolari inutili, di cui d’altra parte la visione cinematografica non può fare a meno del tutto, diventa unico, assume un’importanza particolare. Vi sono certi primi piani d’oggetti, di volti, che sono come tante rivelazioni, appunto perché da quella realtà così circoscritta si libera un significato che altrimenti, se fosse restata differenziata e confusa, non avremmo percepito. Il vero cinema dovrebbe esser fatto di un seguito di rivelazioni, come del resto è ogni arte che si svolge nel tempo: ad esempio la buona letteratura e la buona musica, in cui ogni istante successivo ci presenta nello svolgimento fantastico dell’insieme, un fluire continuo e logico di nuove sensazioni, di nuove immagini; la qual novità partecipa intimamente della vita della fantasia. Si potrebbe stabilire un contrasto tra il cinema e la letteratura narrativa: ad esempio quella di Flaubert e Maupassant. Mentre quegli scrittori si accanivano sulle loro pagine sforzandosi di dare maggiore consistenza alle immagini evocate dalle parole, e cercando di raggiungere la più grande materialità visiva che alla letteratura sia consentita, il cinema deve invece fare il cammino opposto, cercando di diminuirvi l’inutile evidenza delle proprie immagini, le quali assorbono sempre troppo più realtà di quanto occorra, e smaterializzarsi fino a dar loro quella necessità, quell’essenzialità, quell’unico significato che solo la fantasia presta alle cose.
Osvaldo Campassi
Di alcuni riferimenti tra psicologia e immagini [numero 3-4 – settembre 1946]
Se noi, lasciando da parte la questione della vita che imita l’arte o viceversa, 158
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osserviamo, con occhio un tantino criticamente smaliziato e nello stesso tempo erudito, i fatti che normalmente si svolgono davanti a noi, non ci è possibile esimere la nostra psiche dall’allacciare, con facilità ed immediatezza, riferimenti con creazioni artistiche di nostra memoria. Quest’ultima, con naturalezza, viene a rafforzare qualsiasi visione e a dare ad essa un gusto ed un sapore più concreti e, nello stesso tempo, trascendentali. Facciamo un esempio. Davanti a un tramonto, con lampi rossastri tra cumuli di nubi nerastre, viene naturale in noi il pensiero di una visione dantesca. La nostra psicologia ha proprio la tendenza a creare simili riferimenti. Il nostro bagaglio culturale serve sovente di sprone a intensificare questi allacciamenti eterogenei, al punto da creare degli autentici luoghi comuni. Per il duplice fatto di aver parlato di luoghi comuni, noi comprendiamo benissimo che la strada battuta dalla nostra psiche, in tal senso, non è del tutto cristallina ed infatti alcuni narratori (sempre per formulare un altro esempio elementare), che dalla critica sono designati come decadenti, includono nelle loro prose gran quantità di simili paragoni. Senza voler dare un eccessivo significato al termine decadente, citiamo per tutti D’Annunzio, i cui romanzi sono una vera selva di riferimenti culturali più o meno ricercati, ma sempre di ispirazione analoga. Sono chiamati, di volta in volta, a fare da paragone ispirativo ora a uno oscuro pittore trecentista, oppure una nota statua ellenica, un brano di musica contemporanea, od un classico della nostra letteratura; il tutto con un’indovinata aderenza interpretativa. Ma il movente di tale ricerca è sempre lo stesso: avvalorare i fatti reali con una mnemonica ingerenza di fatti artistici. Insomma l’arte rivive in ogni istante, in ogni avvenimento, ogniqualvolta noi la chiamiamo in causa volontariamente od involontariamente. Ed anche il cinematografo, arte recente, ha già tutto un complesso di nodi ben definiti, a cui noi abbiamo il diritto di ispirarci nei nostri riferimenti, sia nell’istante della creazione di opere d’arte con altri mezzi, sia nelle normali elucubrazioni che di solito il nostro intelletto accoglie. Faremo ora alcuni dei più tipici esempi. Diciamo intanto subito che alcuni scrittori tentano timidamente di infiltrare paragoni cinematografici nelle loro opere, cercando di ricreare sensazioni più “moderne”, che non le solite riferite alla musica o alla pittura; così alcuni critici, recensendo opere disparate, si riallacciano, per rendere l’atmosfera voluta, a brani cinematografici che vanno per la maggiore. Questo fenomeno è quanto mai degno di interesse e non deve sfuggire a chi considera quel complicato e complesso influsso che il cinematografo ha esercitato ed esercita sulla mentalità della nostra epoca. Alla prima citazione ha diritto G. W. Pabst. È fuori dubbio che, ogni volta che osserviamo due tendine di finestre agitarsi sotto la spinta del vento, il nostro pensiero ricorre alle ormai classiche immagini di Crisi, Mademoiselle Docteur, Shangai. Questo motivo ricorrente nelle opere di G. W. Pabst ha 159
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qualche cosa di potentemente unitario, che entra profondamente nella psicologia nostra. Anche per istrada, tra le distrazioni crudeli del traffico e della velocità, bastano due vaporose tendine agitantisi davanti ad una finestra spalancata, per aprire il varco ai nostri pensieri verso un’introspezione, caratteristica di ogni tormento dell’animo. Certamente è questa una delle immagini più originali di cui la nostra cultura si è potuta arricchire nell’epoca del cinematografo. Chi passando per alcune caratteristiche viuzze di periferia della nostra città, soffermandosi a rimirare i bambini e le case, non ha paragonato inconsciamente lo spettacolo antistante con la caratteristica periferia di Clair, Carné, Renoir? Possiamo pure qui affermare che la periferia è una nuova immagine portata dal cinematografo e in particolare da quello francese. Prima di Clair, se non sporadicamente, la periferia non aveva ancora un’anima e la nostra psicologia un riferimento indagatore. Abbiamo finora elencato esempi tratti dalla vita reale, ma la nostra memoria può anche ricevere stimoli a creare riferimenti con episodi cinematografici, dalla lettura. È certo che, una anche limitata cultura cinematografica, porta ineluttabilmente a dare ai personaggi e agli ambienti una figurazione e struttura in tutto eguale ai particolari osservati nei film, in circostanze analoghe. Leggendo un appassionato romanzo spagnolo (parliamo della Spagna degli amori fatali), nessuno riesce a svincolarsi dalle immagini di Sangue e arena e Notte di nozze con Rodolfo Valentino. Allo stesso modo che il deserto misterioso non può più avere per noi forma diversa da quella prospettata in Atlantide di Pabst. Questi pochi e saltuari esempi, crediamo siano sufficienti ad illustrare l’ipotesi formulata riguardo al nuovo apporto del cinema verso la nostra cultura psicologica, in materia di immagini. È tutto un nuovo sistema di figure che prende sempre maggiore consistenza e minaccia, magari nel giro di una generazione, di soppiantare tutte le vecchia immagini per soppiantarle con altre immagini, nuove e caratteristiche: un futuro D’Annunzio lascerà in pace i pittori del trecento, ma postillerà la propria prosa con citazione da Carné o da Duvivier.
Anthony Asquith
La decima musa ascende il Parnaso. Il film sonoro [numero 6 – marzo 1947] Se guardasse indietro alla sua breve vita, la decima Musa potrebbe congratularsi con se stessa senza immodestia. Quantunque nata rispettabilmente in un laboratorio, passò i suoi primi anni negli squallidi ambienti del circo 160
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delle pulci e dei baracconi dei fenomeni viventi. I suoi iniziali tentativi di avvicinarsi alle sorelle furono accolti con insultante derisione. Una Musa lei! Lei, il frutto bastardo di una relazione profana tra la lanterna magica e la novelletta! Ma essa perseverò; aveva lavorato duro, aveva progredito ed ora almeno le sue sorelle le facevano di tanto in tanto cenno, e magari le sorridevano, sia pure con una certa aria di superiorità. Non era ancora entrata a far parte del cenacolo, ma la sua esistenza almeno era stata riconosciuta. Infatti il film muto, fino al 1928-’29, aveva dato prova di aver diritto ad essere considerato un mezzo espressivo perché, sebbene avesse prodotto poco di durevole valore artistico, aveva chiaramente mostrato la sua attitudine ad esporre fatti, stati d’animo ed emozioni dei suoi personaggi in modo affatto suo e peculiare. Ma, come mezzo d’espressione, il cinema ebbe contro un solo ostacolo. In tutte le altre arti l’impulso creativo, il bisogno di dir qualcosa, ha sempre forzato l’artista ad allargare la propria tecnica: le idee da esprimere erano sempre in anticipo sui mezzi d’espressione. Definiamo «primitiva» un’opera d’arte quando intendiamo che l’artefice non è stato capace di dire tutto quanto avrebbe voluto perché non ha avuto a sua disposizione gli strumenti adeguati al suo proposito. Talvolta questo conflitto tra la compiutezza dell’idea da esporre e la resistenza limitativa del mezzo imprime all’opera forza e bellezza particolari, come in certe sculture primitive o in certe poesie arcaiche. I film, invece, non sono passati attraverso questo stadio: il regista non si è mai trovato dinanzi ad un problema che i tecnici non potessero risolvere in un batter d’occhio – e, in verità, dal lato dell’immaginazione, i tecnici hanno sempre battuto i produttori. No, il conflitto non sorse contro un mezzo strumentale refrattario, ma contro la immaginazione pigra e timida sia dei produttori che del pubblico. C’è, comunque, un altro elemento da ricordare: chi scrive un libro o dipinge un quadro deve sostenere soltanto le spese del materiale per scrivere o per dipingere; chi fa un film deve spendere somme ingentissime. Per questo i film quando non sono prodotti dallo Stato o da donchisciotteschi milionari, devono esser prodotti da Società commerciali. Le quali, naturalmente, mirano ai profitti per i loro azionisti e non possono essere biasimate se cercano di “marciare al coperto”, sottovalutando il gusto e l’intelligenza del pubblico. Tuttavia se ciò è giustificabile dal punto di vista economico, va deplorato dal punto di vista estetico. E non è proprio questa la ragione per cui il cinema è l’unico esempio di arte popolare – arte in cui l’abisso invalicabile fra Arte, con l’A maiuscola, e puro spettacolo popolare non è stato ancora irrevocabilmente scavato – nella quale alcuni artisti creano per i pochi intelligenti mentre una massa di artigiani provvede ai molti senza intelligenza e senza discernimento? Questa circostanza conferisce al cinema una straordinaria forza, perché qualunque perdita in qualità intellettuali e magari in sottigliezza che di diritto gli appartengono è superata da vantaggi in vitalità che sono di gran lunga maggiori. 161
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Il carattere del film è quello che l’immaginazione del pubblico gli dà: il regista deve trar partito da questo fatto e, se è abbastanza capace, dominare e modellare quel carattere in un’opera d’arte. Nessuno, più infaticabilmente dei drammaturghi elisabettiani produsse per il gusto del pubblico. Con inesauribile prodigalità largirono cadaveri, sangue, fantasmi, fiumi di retorica, volteggianti cascate di parole che le platee bevevano avidamente. No si rinchiusero in un giardino ricercato, con tanto di cancello con la scritta «Arte», e in cui ogni cosa fosse di gusto perfetto e mancasse un elemento solo: la Vita. No, presero tutto quello che sapevano desiderato dal pubblico e, poiché alcuni di loro erano uomini di genio, nei momenti più felici, riuscirono a trasformare quei mostri poltigliosi in figure sinistre come Bosola e Jago; esempi di virtù in donne come Annabella e Desdemona; e portarono quelle turgide valanghe di parole ad esprimere rapimento: «Più amabile sei dell’aria della sera, di mille stelle vestita di bellezza», oppure a suscitare orrore: «L’elemento dell’acqua bagna la terra. Ma sangue si solleva ad inzuppar i cieli». Come i drammaturghi elisabettiani, ogni regista cinematografico ha sempre il medesimo pubblico e, come quelli, deve rendersi conto che questa limitazione può essere una sorgente di forza. Abbiamo visto che nessuna difficoltà tecnica, finora, ha ostacolato i produttori: non avevano che da battere le mani e i tecnici porgevano loro tappeti volanti e mostri preistorici: il Mar Rosso si apriva agli Israeliti – e a Mr. Cecil B. De Mille – e inghiottiva i cocchi degli Egiziani. Non v’era meraviglia visiva che la magia dei tecnici non riuscisse ad evocare. Nessuna meraviglia visiva, sì, ma in una cosa avevano mancato: dare una voce alla decima Musa. Costretta ad esserne priva, essa aveva tuttavia trovato il modo di esprimersi chiaramente, e qualche volta magnificamente, con il movimento muto. Finché giunse il Gran Giorno dell’Emancipazione. Sotto gli auspici di concordi fate benigne, nell’aspetto corporeo dei fratelli Warner, i tecnici le donarono una voce e, con un balzo ardito, essa si trovò ai piedi del Parnaso. Ma la nuova libertà, tanto anelate, si rivelò un’illusione. Da Musa rapida e immediata, era diventata appena capace di muoversi. Tutto quel che aveva acquistato era un basso gracchiamento neutro, malamente intelligibile. Tuttavia come agli inizi del muto era stato già sufficiente, per qualche tempo, che i quadri si muovessero, così, ora, era molto che le immagini parlassero. E sebbene miss Garbo rivelasse di possedere una voce che un critico definì «quella di un uomo dalle adenoidi ingrossate che parli dentro una borsa di pelle in una notte di nebbia», tuttavia lo slogan «la Garbo parla» attirò le folle. (In realtà miss Garbo, secondo me, ha una delle più belle voci dello schermo). Ciononostante, anche questa meraviglia si esaurì presto; una volta che i fedeli in adorazione cessarono di stupirsi che i loro Dei muti potessero effettivamente o, in alcuni casi, non effettivamente, parlare, cominciarono a 162
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desiderare qualcosa di più – così com’era avvenuto ai tempi del film muto. Ma questa volta non ebbero somministrate storie del West selvaggio, e il loro equivalente in termini di cinema sonoro: anzi, il contenuto intellettuale del film venne spesso adulterato. Il processo produttivo del film, infatti, era diventato visibilmente semplice per i grandi produttori di Hollywood. Inviavano una spedizione a Broadway – nel paese della “Caccia grossa” teatrale – e, dopo un po’ di tempo e la spesa di una discreta quantità di dollari, gli intrepidi esploratori ritornavano con l’ultimo successo della stagione di New York completo di scene e magari anche con l’autore, messo dentro come ricordo. Le scene venivano montate nello stabilimento, gli attori recitavano la commedia, la macchina la riprendeva e i microfoni la registravano: il tutto poteva essere compiuto in dieci giorni. Scrittori come Maughan, O’ Neill, Barry, Coward furono prontamente presi al laccio e sparsi nel nuovo zoo: ma, ove lo stile crudo e diretto di primi westerns traeva origine dall’argomento e dal mezzo di espressione, in questi primi “parlati” nulla faceva sospettare che il film sonoro fosse un mezzo qualsiasi. Si trattava semplicemente di commedie teatrali, recitate da gente che se ne intendeva, fotografate e incise sobriamente, tagliate nella lunghezza giusta e messe in scatola. Il cinema cessava d’essere un mezzo d’espressione per diventare una forma di mero divertimento. I registi più intelligenti, specialmente Hitchcock, René Clair, Mamoulian, Milestone e alcuni altri, si ribellarono e, ciascuno alla sua maniera, fornirono interessanti indicazioni sulla linea secondo la quale il sonoro avrebbe dovuto evolversi. Ma solo Clair riuscì a padroneggiarlo davvero come mezzo d’espressione, e in un guisa che divenne subito accetto al grosso pubblico. Intorno ai lavori di Hitchcock si parlò e si scrisse a dismisura e ben a ragione, ma essi non ebbero affatto successo di cassetta, e l’interessantissimo primo film di Mamoulian, Applause, dovette addirittura esser ritirato dopo soli tre giorni di programmazione. Il poetico humour di Clair e la sua semplice, facile fantasia conquistarono subito il cuore del pubblico, ma neppure Clair stesso – imitatori a parte – è più riuscito ad uguagliare il comico libero, affascinante de Le Million. Clair e molti altri, però, nella loro avversione per i cadaveri viventi del teatro che infestavano lo schermo, tendevano ad un altro pericoloso, seppur infinitamente più attraente errore: quello di credere che un film sonoro dovesse essere, per quanto possibile, simile ad un film muto con in più, musica, effetti sonori e il minimo indispensabile di dialogo. In arte, tutto ciò che, messo in pratica, riscuote successo è legittimo: e, dato che questo concetto è la definizione più fedele dei capolavori di Clair, è forse sciocco condannare la teoria che ha prodotto tali portenti. Nondimeno, quando un fattore così nuovo e potente si aggiunge ad un mezzo espressivo, è vano fingere che si tratti di un altro stratagemma tecnico. Meglio convincersi che il sonoro non è solo il film muto più il suono: ma piuttosto un mezzo 163
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affatto nuovo. Sappiamo che il movimento era la linfa vitale del film muto. Il movimento è anche linfa vitale del film sonoro, ma, mentre nel muto il movimento o il ritmo è semplice, nel sonoro è doppio. Nel film muto abbiamo il movimento generale in due forme distinte: il movimento degli attori o degli oggetti entro i limiti dell’inquadratura, e il movimento risultante dal nesso ritmico fra un’inquadratura e l’altra. Il ritmo dell’insieme, comunque complicato sia nella struttura che nel dettaglio, è semplice in quanto si rivolge ad un unico senso: è meramente visivo, così come il ritmo della musica pura è meramente auditivo. È pur vero che il film muto era accompagnato da un’appropriata musica in sott’ordine, ma questa non era indispensabile ad una buona comprensione più di quel che sia necessaria la vista dell’orchestra e del Maestro per rendere comprensibile una sinfonia. Il film sonoro è come il balletto. In quest’ultimo il ritmo non è né quello della musica né quello del movimento dei ballerini, ma quello nascente dal rapporto reciproco di queste due correnti, l’una visiva e l’altra auditiva. Allo stesso modo, nel film sonoro il movimento delle immagini va raccordato sempre al movimento del suono, si tratti di musica, di dialogo o di rumori incidentali. Se questi due movimenti non sono raccordati – e non intendo semplicemente sincronizzati – o sono raccordati soltanto in maniere causale, la resultante non sarà un vero film sonoro. Forse il sistema più semplice per illustrare questo concetto consiste nel portare un esempio palesemente ritmico come la scena di un balletto. Sarebbe possibile piazzare la macchina, diciamo, di fronte ai ballerini e riprendere ininterrottamente la scena incidendo, in pari tempo, la musica. Il risultato potrebbe essere, nel migliore dei casi, una ripresa forse utile agli storici, ma di nessun interesse estetico perché essa non costituirebbe un mezzo autonomo d’espressione. Se, invece, la scena venisse ripresa da più di un angolo visuale, un primo passo sarebbe fatto, giacché è l’essenza propria del cinema di cambiare il rapporto tra azione e spettatore in una frazione di secondo, mentre in teatro, al contrario, il rapporto fra pubblico e palcoscenico è costante. Si noti che, per quanto si dispongano i “pezzi” visivi nella miglior successione possibile e per quanto i ballerini si muovano dentro l’inquadratura in perfetto sincronismo con la registrazione sonora, non si è ancora realizzata la scena in termini di cinema sonoro, perché solamente una delle due specie di movimento è stata raccordata alla musica. La relazione tra inquadratura e inquadratura, anche se soddisfa in sé come ritmo puramente visivo, non ha connessione logica col ritmo della battuta o della frase musicale. Affinché la scena venga espressa compitamente non basta che i ballerini danzino a tempo con la musica; le stesse inquadrature debbono svolgere una danza, il che si verificherà se “l’accento” visivo determinato dal passaggio da un’inquadratura all’altra, corrisponderà all’“accento” auditivo del suono, non importa se 164
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impiegato in esatta coincidenza o in calcolata antitesi. L’esempio del balletto è stato scelto unicamente come caso evidente di combinazione visivo-auditiva. Analogamente il principio dell’“accento” visivo e dell’“accento” auditivo rimane vero per la maggior parte delle scene con semplice dialogo. La parola ha un rimo definito, anche se non metrico come quello della musica. Ad esempio: due uomini che si trovano ai lati opposti di un tavolo, stanno altercando. Uno di essi dice: «No, ti dico di no! No, no!» e mentre pronuncia l’ultimo «No!» batte il pugno sul tavolo. Se, a questo momento, si passa ad un primo piano dell’uomo, con la macchina a livello della tavola in modo che il pugno cada dritto sull’obiettivo, allora i due “accenti”, visivo e auditivo, coincideranno, ciascuno accrescendo l’effetto dell’altro e, si badi bene, lo “stacco” sarà qui di maggiore effetto se coinciderà col rumore del colpo più che col senso del dialogo, perché in questo secondo caso l’acme dell’uno non coincide con la “parola-chiave” dell’altro. Ora, siffatti “stacchi” vanno benissimo per i momenti di grande enfasi, ma diventerebbero fastidiosi in lunghe scene dialogate. Se ogni punto del dialogo venisse sottolineato da uno “stacco” d’inquadratura, l’espediente si presterebbe alla critica che Debussy fece del “leit motiv” wagneriano: «I personaggi di Wagner – egli disse – sembra che non si possano parlare senza scambiarsi, contemporaneamente, i biglietti da visita». Ma c’è un altro sistema, quello del “legato-cantabile”. Infatti è possibilissimo per un regista concordare l’azione dei personaggi, in una scena dialogata, coi movimenti della macchina da presa in modo che, in ogni momento della scena, l’enfasi visiva e il punto drammatico (dialogo o espressione che sia) coincidano, senza lo strappo che il cambio d’inquadratura provocherebbe. La differenza fra questo sistema e la tecnica della commedia filmata – sebbene anche una lunga scena possa essere mantenuta tutta in una sola inquadratura – sta nel fatto che il rapporto fra il gioco delle immagini e la corrispondente colonna sonora è stato pensato e vagliato punto per punto. Il loro accoppiamento li rende come due esseri indissolubilmente legati in matrimonio, e non già come due indifferenti compagni di viaggio che si siano incontrati per caso. Il momento di maggior peso del suono, dal punto di vista del ritmo si avrà sempre nel momento visivo culminante, quantunque un’immagine abbia bisogno di un tempo infinitamente minore del suono per rendersi comprensibile. Perciò in una scena esiste un numero di possibili prospettive visive maggiore di quelle auditive, e nella generalità dei casi le tre semplici categorie di “campolungo”, “campo-medio” e “primo piano” sono più che sufficienti per il sonoro. Ma, come abbiamo visto che nel cinema muto potevamo identificare l’occhio degli spettatori con quello di uno dei personaggi del film, così nel cinema sonoro possiamo identificare l’orecchio del personaggio – e non solo l’orecchio in senso fisico, a l’orecchio in senso emotivo – con quello degli spettatori. Alfred Hitchcock ci dette un 165
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esempio del secondo caso nel suo primo film Blackmail. Una ragazza ha assassinato un uomo accoltellandolo. Nessuno lo sa. La mattina dopo essa sta apparecchiando la tavola per la colazione nel salottino-retrobottega dello spaccio di tabacchi della madre, quando una vicina entra e comincia a chiacchierare con la madre della ragazza di «quell’orribile delitto». «Naturalmente, mia cara, posso capire che se un uomo perde la testa colpisca l’altro al capo con un mattone, ma con un coltello!... bene, non credo che con il coltello sia proprio il caso... Tu che ne dici, cara?... Non è molto inglese, se capisci quello che voglio dire...». Per tutto il tempo la macchina è rimasta ferma sul volto della ragazza che ascolta. Pian piano la voce della donna si affievolisce per diventare un consumo insieme di rumori. Sola la parola «coltello» si stacca con esasperante reiterazione. La ragazza va per prendere il coltello del pane e metterlo sulla tavola, ma d’improvviso sente di non poterlo toccare. Ebbene, in questa scena noi abbiamo ascoltato con gli orecchi della ragazza atterrita, esattamente come nel Dottor Caligari avevamo guardato con gli occhi di un pazzo. Tradurre in termini sonori i pensieri dei personaggi è solo un gradino più su. Chi scrive stava una volta lavorando ad una sceneggiatura, in una scena nella quale una madre accompagnava al treno suo figlio che partiva per il fronte. Il pubblico non vedeva la vera scena della partenza, che veniva invece suggerita nel seguente modo: la madre torna a casa dalla stazione e riprende i suoi lavori domestici, la solita routine di tutti i giorni. Le viene annunciata la visita di un’amica, e mentre la madre dice: «Non mi sento assolutamente di riviverla», quella entra, invadente e ciarliera, e si siede decisamente sul divano. Dopo poche parole di simpatia dette per formalità – «L’ho sempre detto io che il peggio è per quelli che restano» ecc. ecc. – comincia a raccontare una lunga storia su quello che la Signora X ha detto alla Signora] Y durante l’ultima riunione del comitato. Lungo tutto il monologo dell’amica, la macchina ha carrellato lentissimamente verso il viso della madre, lasciando fuori campo l’amica; e, mentre il volto di questa scompare dallo schermo, anche la voce si attenua e invece sentiamo il rumore cadenzato di piedi che marciano, seguito da tutti i caratteristici rumori di una stazione ferroviaria. D’improvviso appare nel quadro la faccia dell’amica, e la sua voce interviene bruscamente: «Non sei d’accordo, cara?». La madre ha un leggero sobbalzo e, riprendendosi, dice: «Oh, sì, certo, completamente d’accordo». Ricomincia lo squillante flusso di pettegolezzi, e di nuovo la voce della donna svanisce mentre i pensieri della madre tornano ancora alla stazione. Udiamo sbattere gli sportelli, il fischio del capostazione, sbuffare il terno che si allontana. Di nuovo il volto della donna rispunta in campo: «Cosa avresti fatto al mio posto?». Ma è troppo per lei ed essa sviene. Attraverso questa scena gli spettatori hanno non solo udito con gli occhi della madre, ma hanno anche pensato con il pensiero. Al momento dello sviamento, inoltre, vedono con i suoi 166
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occhi. Una successione di inquadrature, ciascuna delle quali dura una frazione di secondo, porta balenando sullo schermo quanto essa vede mentre cade a terra: il candeliere, un cane di porcellana sul caminetto, un pezzo del cappello dell’amica – e a queste immagini fu associato il tentativo di ridurre in suoni il nauseoso ronzio negli orecchi d’una persona che sviene: una nota tenuta a lungo sulla più bassa corda a vuoto del violoncello con ampio crescendo e decrescendo, una nota tenuta a lungo sull’ottavino, e, al momento della caduta, una sola nota acuta in pizzicato sul violino, con una simultanea settima maggiore sul pianoforte all’ottava sovracuta. Questa non è “musica di fondo”, né si tratta di suoni realistici, me è una specie di metafora sonora, e una metafora sonora può essere usata con gli stessi effetti di una metafora visiva e può esserle accoppiata. Si potrebbe, ad esempio, riprendere una primadonna che canta «Caro nome» e alternarvi inquadrature di un pesce che chiude e apre la bocca; si potrebbe quindi distorcere la voce del soprano nel chioccio di una gallina, e l’insieme potrebbe riuscire un’ammirabile caratterizzazione di quella data prima donna... Infine, come al tempo dei film muti, nei momenti di grande intensità vedevamo che era possibile impiegare metafore visive per dissolvere l’emozione drammatica in qualcosa di lirico e di universale, così nel film sonoro la musica può venir impiegato come commenti – quella piacevole risciacquatura sentimentale che favorisce la disposizione dell’animo – ma come un sostituto della parola, allorché la disposizione d’animo e il sentimento da esprimere non abbisognino di niente di meno intenso e di meno preciso. Mendelssohn, in una sua lettera, notò che il contenuto emotivo di un pezzo di musica non può essere tradotto in parola, e non perché la musica sia più vaga e indefinita, ma perché essa è così esatta che non può essere definita qualcosa di così ambiguo come il linguaggio. In questi casi, la musica diventa una metafora di parola. Queste mi sembrano le linee principali su cui la Decima Musa ha proceduto alla ricerca della propria estrinsecazione. E se la raggiunge di rado la colpa è dei suoi sacerdoti e dei suoi accoliti. Ma di per sé, io credo, essa può giustamente esigere ad ogni costo un piedistallo sul Parnaso.
Mario Verdone
Corrispondenze di pietra [numero 6 – marzo 1947]
Tieck avvia all’audizione dei colori, dal paradiso della poesia romantica, esponendo nelle Fantasie la sua teoria dell’affinità del colore e della musica. «Il colore tintinna, la forma suona, ognuno ha secondo la forma e il colore lingua e discorso». 167
«La Critica Cinematografica»
Dai critici – per rimanere nel romanticismo tedesco – è stato studiato il posto che spetta alla musica nella poesia dello Hoffmann. Moritz introduce alle corrispondenze tra certe pagine proustiane della memoria con la forza inebriante degli odori floreali, e Morike è il narratore la cui immaginazione, come una tavolozza, interpreta il genio musicale di Mozart, nella arabescata novella, con l’arancio che la dipinge come un colore dominante, mentre nel Tesoro, taglia, per così dire, i paesaggi del suo racconto fantastico, con strisce verdi, bianche e nere. Le vocali, nel celebre sonetto di Rimbaud, che vengono a significare, ciascuna, un sentimento o un colore, e le intricate città viste da Baudelaire come foreste di simboli, non giungono più sconcertanti, attraverso queste ed altre misteriose intercomunicazioni dell’arte (i risultati cromatici di Peste rossa, o la musicalità di Never more nel Corvo di Poe). Esiste un punto, in ogni consorgimento di forma, in cui all’incisione della parola o dello scalpello è dato agguagliarsi: i personaggi, nelle storie e nelle favole creano toni come colori (il Cristo fra i ladri o le streghe fra i fanciulli); il numero delle periodazioni e dei versi si conforma alla musica; la quiete arcana delle campagne diventa, attraverso la recezione e l’emissione del poeta, parola. Ma lasciate, adesso, ch’io narri come avessi, una sera, gli occhi alle tormentate strade della mia città: un uomo e una donna camminavano per una discesa. L’uomo era a capo scoperto, aveva le mani in tasca e il bavero della giacca rialzato. La donna standogli a braccio, lo accompagnava tossendo. La luna irrompeva, a grani tagli, lungo la piaggia selciata, e illuminava le sbarre secche di un terrazzino, dove un cerchio di ferro sosteneva il vaso di una pianta dalle foglie affilate e quasi d’acciaio: le foglie affilate di Stroheim in Femmine folli. Sopra la terrazza, come un uccello nero, si scorgeva la catena murata a sostenere la parete antica. Una bifora era chiusa a mattoni e una colonna spezzata pareva sfuggire dalla muratura come da un incantamento. Guardavo la coppia che scendeva, e la convergenza di quegli elementi, vivi e disumani, in un nucleo bianco e nero, mi apparve come un finzione, non più composta dalla scelta di un uomo, ma piuttosto finzione della vita; della vita che si valeva di case e strade costruite in altro tempo, invecchiate e incatenate, di esseri provati dal freddo e da altri mali. Provai allora a immaginarmi l’uomo e la donna fuori da quel paesaggio. La strada non scendeva; la finestra, l’incatenatura e il terrazzino di ferro erano scomparsi. Quelle due ombre non erano più personaggi drammatici, a meno che udissi le loro parole o il loro pianto. Ma sarebbero stati, in tal caso, drammatici in altro senso. Potevano ridiventare drammatici, a mio modo, entro le pareti del vico e verso il terrazzino di ferro, con la colonna che usciva dal muro, come il tentativo inutile d’un’evasione, col silenzio di lui e la tosse di lei: o che percepissi tutto questo, o lo tornassi a creare con la mia immaginazione. E tutto ciò, se avessi agito, faceva cinema; bastava che 168
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arrestassimo, sulla celluloide, gli elementi di questo dramma, la donna, e le loro proiezioni sul selciato. Bisognava inquadrarli, rafforzarli, perfezionare la loro illuminazione, armonizzare l’ingresso e il movimento; il montaggio interno. E, se la ripresa fosse compiuta, tutto rinasceva, ma come un nucleo di emozione che io tornavo a sentire; quella scena era la inquadratura lirica che apparteneva a una sequenza cinematografica. Ripresi alla luce del giorno le mie peregrinazioni e feci nuove scoperte: case piene di crepe, di soprastrutture, dalle logge alte murate (in una c’era rimasto un pertugio, che un vaso di gerani accendeva); vicoli dalle partacce chiuse a peschio, dagli sciolini indecifrabili, dalle inferriate a pianterreno dove le ragnatele invecchiano. E archi ossessionati, che reggevano palazzi, strade che calavano vacillando da destra a mano macina, come corrose nel fondo; vicoli a scalinata, che portavano inaspettatamente a case di pietre con la croce e le frange sul portale; marmi mescolati a costruzioni d’altro tempo, strisce bianche di lapidi sui prati, pareti solitarie e incompiute, come rovine. Un vico si contristava per uscire, infine, in un piazzale pieno d’arie e di piante; un altro attirava le pareti, come un nascondiglio; da una strada altra, piana, si cadeva, a una svolta, in un vicolo ripido, come l’abisso di un suicidio. E che olezzante e segreta bellezza nei marmi, separati, cosparsi simmetricamente, in un canto del cimitero! Una via, a ripassarci, mi faceva spavento; un’altra mi rassicurava, progredendo; e un’altra ancora, che saliva, mi faceva ansimare e ricorrere a pensieri di oppressione e di fatica. Sbarramenti di merli, solitudini altezzose, preghiere di basiliche, nel buio spartito dal raggio lunare. Un cortile, in un palazzo, con una scalinata maestosa e una colonna, suggeriva la presenza delle armature negli ingressi dei castelli. Si vedevano, da una finestra, tre piani di strade, ricongiunti da una discesa. La gente passava sulle tre strade e pareva che vivesse su piani diversi, anche di tempo, piani spirituali diversi. Tornavo col pensiero a quei luoghi e non ci potevo collocare che uomini in mantello, vecchie cadenti vestite di nero, gatti fuggevoli; mi divertivo a farvi nascere consonanze cortesi di liuti e di canzoni, o risa sguaiate. Stringevo i denti per avervi immaginato un delitto. E da ognuna di queste unioni nasceva un significato (come dalla scalinata di Odessa, in Incrociatore Potemckin, come dai campi di cotone di Alleluia, come dalle scale di Montmartre, per Feyder, per Clair, per Renoir) ed era la parte di un racconto di immagini prolungate, talvolta, dai pianti, dai sapori, dai canti, dai miagolìi, dai valzer. Quella città era in Toscana, e le sue strade, differenti da quelle lunghe e piane, regolari, delle consorelle meno eloquenti, meno umane, parevano passioni della pietra, né più né meno che fossero un alfabeto di sentimenti. E staccandomi da ognuna di queste corrispondenze, mi tornava alla memoria come quei suoni romantici diventavano colore, e quelle parole, cui mi riferivo 169
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innanzi, paesaggio o musica, e quelle sensazioni, fragranze e stordimenti. Pensavo, allora, come a un grande viaggio che tutti – per l’arte – compiessero in uno stesso involucro, attraverso cui tornassero lentamente alla luce, qualunque fosse la loro ricerca, con qualunque mezzo si esprimessero; li vedevo intricati nei medesimi fili d’oro e ognuno portarne uno diverso, ma che rivelava magicamente, all’eternità uno spettro il quale, da qualunque linguaggio nascesse, da qualunque cristallo trasparisse, apparteneva sempre a una medesima sorte di poesia.
Giuseppe Maria Lo Duca
Il cinema [numero 7 – settembre 1947]
La tecnica del cinema ha permesso di materializzare, visualizzare o concretizzare forme astratte, operazione che, per le sue forme apparenti, è stata assimilata alla magia. C’è magia sino a che i fatti restano inesplicabili, mentre nel nostro caso, sappiamo rigorosamente di che si tratti. La magia comincia dal momento in cui i riflessi umani cambiano o variano indipendentemente dalla tecnica, ma secondo le sue dosature. Il cinema ha permesso il realizzarsi di prodigi: la compressione del tempo (il grano che va dal seme alla spiga matura in dieci secondi) e la sua dilatazione (la traiettoria lentissima di un proietto) ne sono le manifestazioni più classiche e spettacolari. Abbiamo visto le costellazioni viverci sotto gli occhi, a portata dei nostri sensi. Abbiamo visto il cavallo al galoppo librarsi dolcemente, senza sospetto di pesantezza o di sforzo. Abbiamo visto mucchi di calcinacci e di pietre informi tirarsi su nello spazio sino a formare un palazzo. Il cinema non ha degnato di immobilizzare la freccia di Zenone o la vite alata dell’elica. Strumento prodigioso, senza nessun miracolo gli è impossibile. Ma il cinema è un’arte? *** Posta per un’arte tradizionale, la questione è priva di senso. Nessuno dubita che la pittura – di pennello, di spatola – sia un’arte, pur ammettendo l’esistenza di semplici esecutori, copiatori più o meno scaltri o artigiani del tromp-l’oeil. Potremmo sviare la discussione trincerandoci dietro tale evidenza, ma vale la pena di affrontarla. In generale la tecnica del cinema spaventa l’artista. Pare, le affinità di questa tecnica coll’architettura cristiana del medioevo saltano agli occhi, anche al di là dei caratteri sociali comuni. La cattedrale era il frutto di un complesso 170
Sogno di Parnaso
di conoscenza o di scienza. Non vedo come un fenomeno fotoelettrico o di persistenza della retina possa metterci a disagio più che una squadra a lato del tempio. Allo stato attuale, che è uno stato transitorio, è evidente che la tecnica del cinema è un aspetto superiore dello sviluppo di ogni tecnica dell’arte. Non è dunque questo il punto debole. Prendiamo il cinema nella sua struttura e, prima di tutto, nel suo fondamento: l’immagine. Nel linguaggio cinematografico tale parola è astratta in quanto un’immagine (equivalente a un ventiquattresimo di secondo) non è percettibile all’occhio. Ma l’esistenza di questa frazione-immagine è provata per deduzioni laboriose, senza contare il fatto che è anche possibile prenderla fra due dita. Questa immagine (un ventiquattresimo di secondo) è una fotografia. Coincidenza accidentale che non serve affatto al nostro tema, in quanto la fotografia è un’operazione artistica che si esaurisce nell’immagine, mentre il cinema da tale immagine parte per raggiungere la percettibilità, indi il ritmo e le possibilità dell’arte. Procedendo sempre per analogia e su punti di sapere comuni la nostra immagine-fotografia corrisponde a una parola del linguaggio articolato. Un dizionario non è un’opera d’arte, pur contendendo elementi evocatori della realtà. Tuttavia le stesse parole usate secondo un determinata architettura ci danno il poema; analogamente ogni immagine non è che la riproduzione fantomatica di un elemento della realtà. Sono il movimento ed il montaggio che fanno il film e, se ne esistono le premesse, l’opera d’arte. Il cinema non è dunque un insieme di immagini (fotografie), ma una dosatura di immagini e delle impressioni visuali e psichiche che ne derivano. Il montaggio dosa gli effetti previsti, così come un pittore suggerisce per effetto di un elemento cromatico da lui scelto. Si noti che ciascun frammento di montaggio non ha, in sé, alcun significato, l’espressione gli deriva dall’elemento precedente o seguente. È dunque il montaggio nella sua essenza che crea il film in quanto opera d’arte. Ciò spiega perché certi film, pur dotati di meravigliose immagini, potenti scenografie e splendidi attori, non abbiano nulla in comune con l’arte. Con il montaggio il creatore del film può mettersi al posto dello spettatore e vedere ciò che ha scelto di fargli vedere, preparando in qualche modo la pastura necessaria alle sue emozioni davanti allo schermo. Il montaggio sperimentale di Colechov (Cfr. Storia del cinema, Parigi 1947, pp. 87-88) prova che lo spettatore cinematografico partecipa all’azione, perché egli sente – riflesso in sé stesso – ciò che egli crede di vedere sullo schermo. Fatto capitale che supera l’arricchimento di immagini dell’occhio contemporaneo, in quanto fornisce la chiave di una nuova nozione della visione soggettiva. Per esempio nel campo dello spazio e del luogo il montaggio crea un’unità che non ha niente di reale al di fuori dello spettatore. 171
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Un uomo si getta dalla torre Eifel. Un uomo che cade (da un muro a Tolone). Un uomo che cade nell’acqua (nella Loira). Queste tre scene, proiettate con continuità o montate, significano per lo spettatore che «Un uomo si è gettato dalla torre Eifel nella Senna». È la geografia ideale di Coulechov. «Il film ricompone a modo suo gli elementi della realtà per farne una realtà nuova e solamente sua». Così Pudovkin riassume le possibilità di questa arte e le prerogative del montaggio. Le leggi del tempo e dello spazio perdono, per quest’arte, la loro rigidezza e si sottomettono alla volontà dell’artista. La ricchezza dei materiali turba talvolta la purezza di quest’arte nuova. Si pensi che il cinema è «l’arte che ha più mezzi per presentare l’uomo all’uomo». Pur serbando le apparenze degli oggetti, il cinema gli smaterializza grazie all’occhio surreale dell’obiettivo: occhio logico, occhio dallo sguardo nuovo. Si pensi a questo miracolo del settimo giorno: maneggiare il tempo a piacer nostro, sfuggire alla realtà sensibile delle nostre dimensioni, delle nostre proporzioni e del nostro tempo fisico. E non parliamo dei prodigi che tale linguaggio ci offrirà domani; una nuova sintesi della voce umana, della musica, il movimento del colore (questo fenomeno completamente nuovo è cominciato nel cartone animato dove vediamo farsi rosso o verde un personaggio), un silenzio nuovo, una immobilità nuova... Arte in senso assoluto, come la poesia, o arte in senso mediato, come la danza? Ci par vano rispondere e lasciamo farlo agli speziali dell’estetica. Potremmo, all’occasione, rivolgere le nostre ricercha nel campo della musica; sarebbe forse possibile spiegare la simbiosi che si stabilisce fra cinema e musica e che viene generalmente attribuita al potere della musica di muovere la partecipazione del subcosciente. Per mezzo del cinema l’uomo partorisce, letteralmente, la realtà. Talvolta ne nasce un’opera d’arte; più spesso non vediamo sorgere che dei pleonasmi che solo il carattere successivo della visione cinematografica ci fa sembrare cinema. Così come certi accostamenti (immagine del maiale vicino all’immagine di un arricchito) hanno piuttosto dell’allegoria e del simbolismo che del nuovo alfabeto della settima arte. Comunque la ricchezza di quest’arte nuova non impoverirà l’uomo. *** Il cinema è dunque un’arte ma anche un universo come la poesia, staccato dalla realtà dall’astrazione dell’immagine – o del verbo – legato alla realtà dalla sola mediazione d’un essere vivente.
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Guglielmo Amerighi
Il Cinema e i film d’oggi [numero 7 – settembre 1947]
Generalmente io parlo con avversione dei film che si susseguono sugli schermi nel corso dei mesi dell’anno, e solo rare volte toglierei la penna per scrivere di quelli che possono dirsi sicuramente belli. Ma, oltre che questo fatto è difficilissimo, sto per dire che pur anche quelli riusciti e riuscitissimi, specialmente nei decenni passati, non arrivano a quella bellezza che chiamerei classica, cioè determinata da una genuina originalità di forma e una adattata sostanza. Il cinema è senza dubbio costituito dai film che sono stati prodotti, e non sarebbe giustificato chiamare cinema un qualcosa che non avesse riscontro nelle opere che sono fino a oggi nate. Ma tuttavia, è mio parere che il cinema si può trovare in ogni film comparso, e s’intende più nei belli e nei riusciti, ma che non esiste un’opera dal principio alla fine cinematografica, e che forse sarà vanto solo dei nostri nipoti il regalarla al genere umano. Il cinema fa dunque capolino qua e là in moltissimi film, ma è troppo al servizio di cose estranee a lui e anche diverse, per prendere una decisiva preponderanza. Tutti si sono accorti che il cinema è arte, ma non si è invece più umilmente capito che il cinema possiede i mezzi di un’arte, e che per ora esso segue una direzione morale più pratica e empirica che ideale, e ne fa un uso più applicativo che proprio. Cioè a dire, si adopra l’originalità dell’espressione cinematografica più per tradurre che per inventare, e le vere invenzioni del cinema, fortunate e potenti tanto che finiranno col prevalere, sono tratte occasionalmente dallo sforzo di tradurre ancor meglio nella forma visiva, quello che di già esisteva, quale sentimento già esaurito, nelle altre forme d’arte, in specie nella letteratura. Il cinema, cosicché, si trova nello stato di dover obbedire a un uso utilitario, e in certo modo a doversi vendere ad altre cose e arti a lui estranee per prendere coscienza di sé e riscattarsi la propria libertà. Nel cinema, parallelo al bisogno di esprimersi per imagini, se non precedente, è il bisogno di mettere insieme uno spettacolo in forma gradita al pubblico: il fatto che la vista, fra tutti i sensi il più veloce e quello che non ha bisogno di una eccessiva solerzia mentale per essere goduto, sia il senso esercitato dal cinema, produsse quel commercio della nuova forma d’espressione, che ne impedisce tuttora lo studio profondo della sua natura. Tirocinio non molto diverso da quello che troverete essere toccato, migliaia o centinaia di anni fa, alle arti stabilite. L’architettura, per esempio, non nasce allo scopo di dare un tetto agli uomini, e con l’andar del tempo comincia ad esser largamente estranea a quello stretto principio utilitario e ad avere una ragione per se stessa? E la musica non è al principio un aiuto ai profondi sensi della parola umana, e solo più tardi acquista la sua astratta autonomia? Non si potrebbe dire che il momento in cui l’architettura comincia ad esser 173
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arte e così anche la musica. Nelle campagne toscane chiamano «opera d’arte» qualsiasi costruzione d’una certa arditezza. Essi non hanno acquistato il concetto di arte indipendente, concetto che, inteso nei suoi limitatissimi limiti, è la parte viva ed eterna della bellezza prodotta dall’uomo. Il passaggio da quella forma ancora vincolata a una forma d’arte autonoma, e quindi quasi indipendente, sembra essere condizionato, o per lo meno contemporaneo, a una certa oziosità dell’opera d’arte. Finché quello che l’artista deve fare è incatenato alla necessità pratica di fare ad ogni costo in un dato modo, per cui è necessario tentare una materia ignota a tutti per la richiesta che esige, l’artista è preoccupato soltanto di soddisfare la richiesta, e spende in questo scopo tutto il suo ingegno e le sue energie, e pone in secondo ordine il pensiero artistico, cioè la nozione del bello e del brutto, in funzione dell’imprescindibile necessità dell’utile. Per questa ragione, quando si verifica un fatto tecnico sconvolgente, l’arte come bellezza si cela ad ogni sguardo e fa posto all’arte come tecnica. Con l’avvento del cemento armato l’architettura, come arte, ha cessato di esistere, aspettando però il momento in cui, impadronitasi dei mezzi nuovi che le sono offerti, li possa disporre con pace secondo un’armoniosa bellezza. L’avvento dell’arte segna quindi un momento di oziosità che succede al periodo pratico dell’attività, e chiude in sé naturalmente tutto quel periodo da cui trae vita nuova. Così la serenità intelligente e misurata segue nell’animo umano un periodo dinamico dell’esperienza. Noi non possiamo dire se qualche segno prelude a un simile raccoglimento nel cinema: certo è che siamo ancora nel più libero e incontrollato campo dell’esperienza, che supera se stessa anno per anno, con nuovi ritrovati tecnici che incidono profondamente sull’espressione, sul linguaggio, e quindi sull’essenza stessa dell’arte.
Corrado Terzi
Stravinskij e la musica per lo schermo [numero 8 – aprile-maggio 1948]
Sul fascicolo di dicembre 1947 della rivista «Musica» è riportato un articolo in cui l’insigne compositore russo fa delle dichiarazioni molto interessanti circa la musica per il cinematografo (Igor Stravinskij, La musica per il cinematografo, in «Musica», Roma, dicembre 1947), dichiarazioni che val la pena di conoscere e di commentare: Stravinskij, per dirla in poche parole, è molto scettico sul valore dei risultati ottenuti dalla collaborazione della musica con le immagini animate, se può affermare con tutta franchezza cha «la musica per il cinema ha una sola funzione: quella di permettere al compositore di 174
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guadagnarsi la vita». È un fatto che, oggi, il cinema è una risorsa redditizia per molti musicisti, così come lo è per molti scrittori e per molti architetti, i quali tutti preferiscono lavorare per esso per il minore impegno e i maggiori profitti che comporta; ma la funzione della musica per il cinema noi, davvero, non crediamo che sia questa sola. Stravinskij non è persona nella quale si possa supporre una totale ignoranza di quelle opere in cui la collaborazione tra immagini e commento musicale ebbe risultati di eccezionale bellezza; ma, da buon musicista, da buon “purista”, egli si rifiuta di ammettere che quella musica, la quale secondo lui “sottolinea” e “spiega” l’intreccio di un film, «possa essere presa in considerazione da un punto di vista artistico». Perché? Ecco: «Comprendo benissimo», egli dichiara, «che la musica è un complemento indispensabile del film sonoro. Deve colmare delle lacune della narrazione e della proiezione e deve fornire all’altoparlante dei suoni più o meno gradevoli. Il film non ne potrebbe fare a meno: allo stesso modo come le pareti del mio salotto fanno miglior figura ricoperte di una carta da parati. Ma nessuno pretende trovare in una carta da parati i requisiti artistici che cerca in un quadro». Potremmo fermarci qua, nella citazione, dato che queste spiegazioni di Stravinskij sono abbastanza significative e fin troppo facilmente confutabili, ma è interessante seguire fino in fondo il suo pensiero, prima di svolgere una critica. «I frequenti malintesi relativi alla musica per il cinematografo», prosegue Stravinskij, «vanno attribuiti alle premesse errate che la musica serva a sottolineare e a descrivere i caratteri e l’azione del dramma cinematografico. La musica non spiega nulla, la musica non sottolinea nulla. E quando essa tenta di spiegare, di narrare o di sottolineare qualche cosa, non ne derivano che conseguenze imbarazzanti e dannose». E più oltre: «A mio avviso, essa [musica per lo schermo] dovrebbe limitarsi a non guastare l’azione che si svolge sullo schermo; dovrebbe adempiere, rispetto al dramma cinematografico, una funzione simile a quella che, in un ristorante, la musica esercita sulla conversazione che si svolge ai vari tavoli. Ovvero la musica per il cinematografo dovrebbe esercitare la funzione che esercita su di me un piano suonato nel salotto mentre leggo un libro». Dove si vede come Stravinskij, partendo da affermazioni non troppo esatte, giunga ad apprezzamenti che sbagliati non sono, in un certo senso, ma che anzi si prestano ad una discussione sul tema. Tuttavia, mi sembra che alla base dei suoi ragionamenti vi sia questa troppo rigorosa concezione della musica: un mezzo espressivo di cui non si può ammettere altro uso all’infuori di quello che porta all’arte, all’immagine poetica autonoma. In tal caso, è ovvio che qualsiasi discussione sulla musica per lo schermo metterà quest’ultima in condizione d’inferiorità e porterà tutti, non solo Stravinskij, a dire che essa «non può essere considerata musica», che «la musica è un’arte troppo elevata perché possa venire usata al servizio di altre arti; troppo elevata perché possa venire usata unica175
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mente allo scopo di blandire il subcosciente dello spettatore». Proviamo invece ad ammettere che la musica possa, in alcuni casi, non avere preoccupazioni di espressività autonoma (cioè in esclusiva funzione della propria «condizione musicale»). Dovremo, in tal caso, cominciare col dire che la musica non è affatto «un complemento indispensabile del film sonoro». Esistono film sonori dove la musica non compare né come complemento né come fondamento. Esistono film (e se non esistessero ne potremmo benissimo immaginare l’esistenza) dove la parte musicale è solo il logico riflesso di parti visive (la musica di un organetto «che si vede» nell’inquadratura). Quando in un film le uniche parti musicali sono di questo tipo, noi possiamo affermare che in quel film non c’è alcun commento musicale. Un complemento indispensabile sarà, forse, nella concessione meramente commerciale dei produttori, per i quali la musica rappresenta un elemento d’attrazione e di successo, la prima e vera ragione per rifare sullo schermo la vita di Chopin e di Verdi. Ma sarà sempre un elemento da giudicare alla stregua degli altri nelle opere alle quali siamo decisi a riconoscere un solido merito “cinematografico”, artistico. Film come Vampyr o Brief encounter propongono lunghe discussioni sulla musica per lo schermo, ma alla fine dobbiamo riconoscere che un primo elemento di giudizio, di interpretazione e di analisi, proprio nei riguardi di queste opere riuscite, ce lo dà Stravinskij stesso dove afferma, e l’abbiamo già riportato, che la musica per il cinema «dovrebbe limitarsi a non guastare l’azione che si svolge sullo schermo». In Vampyr la colonna sonora è quasi ininterrottamente occupata da una musica di “commento”, mentre in Brief encounter l’accompagnamento musicale è in prevalenza originato da una sorgente interna al film: la radio accesa nella stanza dove la protagonista rievoca il passato. In entrambe le opere, la musica non fa né una sottolineatura né un spiegazione dei personaggi e dell’azione. Se la musica avesse davvero nel cinematografo, come pare credere Stravinskij, la funzione di sottolineare e di spiegare qualcosa, dovremmo concludere che le immagini di per sé non sono sufficientemente chiare, che non lo sono potenzialmente e quindi nemmeno praticamente, ecc. A questo punto, è opportuno citare il pensiero del musicista Maurice Jaubert, di cui sono note le partiture di Un carnet di ballo, Alba tragica, Il porto delle nebbie, il quale scrisse: «Alla musica chiediamo di approfondire in noi un’impressione visuale. Non le chiediamo di “spiegarci” le immagini, ma di aggiungere ad esse una risonanza di natura specificamente dissimile. Non le chiediamo di essere “espressiva” e di aggiungere il suo sentimento a quello dei personaggi e del realizzatore, ma di essere “decorativa” e di unire il proprio arabesco a quello propostoci dallo schermo. Si liberi una buona volta da tutti gli elementi soggettivi, ci renda infine fisicamente sensibile il ritmo interno dell’immagine senza sforzarsi per questo di tradirne il contenuto sentimentale, drammatico o poetico» (Maurice Jaubert, La musique dans le film, 176
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in «Cinéma», quaderno IDHEC, n. 1, Parigi, 1947). La musica deve esser in stretto contatto con il ritmo, non già il contenuto del film. Se, a un certo punto, noi non avvertiamo più la presenza della musica in quanto elemento “sonoro”, in un film come Vampyr, ciò è possibile perché la musica si è adeguata perfettamente al ritmo visivo, cioè al ritmo del montaggio, così da esserne diventata parte integrante, inscindibile. Che questa sia la sola, vera possibilità d’esistenza della musica nel film, è ovvio: allo stesso modo in cui nel cinema come opera d’arte noi cerchiamo unità e parità di rendimento fra ritmo interno e ritmo esterno, fra recitazione e scenografia, fra fotografia e illuminazione, fra angolazione e sceneggiatura, dobbiamo cercare unità e parità di rendimento fra la musica e ognuno di questi elementi, fra la musica e tutti gli altri elementi. In tal senso, le possibilità espressive della musica sono infinite e non si tratta né di sottolineature né di spiegazioni. Si veda, per esempio, questo momento di Brief encounter: la protagonista sta rievocando un episodio della sua avventura sentimentale, la musica entra progressivamente, aumentando di volume, nella colonna sonora, fino a diventare assordante e all’improvviso, per stacco visivo e sovrapposizione sonora, ecco il marito che le chiede di abbassare la radio perché suona troppo forte. In questo caso, la musica non spiega e non sottolinea: narra, semplicemente, di pari passo con le immagini. La musica che aumenta di volume è quella della radio che la donna aveva aperto prima di sedersi in poltrona e abbandonarsi al segno. Questa musica noi sappiamo che aveva continuato a suonare per tutto il tempo in cui la donna fantasticava e rievocava il passato ma, per un fatto molto normale, essa «non la sentiva più», tutta presa dai suoi pensieri. Quando la rievocazione si affievolisce, la musica della radio viene nuovamente percepita e in modo sempre più evidente, fino a strapparla completamente dal sogno, con l’aiuto finale della voce del compagno. Qual era, dunque, il valore e la funzione della musica in questo caso? Semplice: accrescere l’impressione, nello spettatore, di vivere “soggettivamente” la vicenda. E perché la musica in questo caso, è efficace? Altrettanto semplice: perché il ritmo con cui agisce nel film è pari al ritmo con cui agiscono le immagini. Ad un’azione visiva che dà un certo risultato, fa seguito o corrisponde un’azione musicale con un risultato aggiuntivo equivalente. Potremmo continuare negli esempi, sia ricavandoli da questo film e sia attingendoli ad altre opere, ma non lo ritengo necessario. Non voglio dire, con questo, di aver risolto il problema dei rapporti fra musica e film; tutt’altro. Ho voluto semplicemente esporre alcune considerazioni da cui esula qualsiasi pretesa di novità ma il cui valore è elevato e indubbio e da troppe parti molto spesso ignorato o svalutato. Vorrei, infine, con questo discorso, richiamare nuovamente l’attenzione della critica sull’importanza non mai abbastanza avvertita della musica in seno all’opera cinematografica.
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«La Critica Cinematografica»
Roberto Paolella
Il subcosciente in celluloide [numero 8 – aprile-maggio 1948]
G. W. Pabst realizza la sua originale esperienza psicanalitica, all’epoca del suo migliore fervore creativo. Il caso del professor Mathias (1924) precede infatti di un anno il capolavoro del grande regista tedesco La via senza gioia opera classica del film muto e che può essere messa alle origini di tutto il moderno cinema francese. Questa esperienza appare però integrale solo nella sua prima affermazione e per quanto l’artista rinnovi altre due volte con Crisi (1927) e col Diario di una donna (1929) occorre riconoscere che essa è solo parzialmente attuata nel secondo dei tre film e totalmente mancata nel terzo. Comunque gli orientamenti di Pabst al riguardo, devono essere fatti risalire almeno a due anni prima. Infatti già nel 1922 in una lettera diretta al suo amico Ermann Stoltz egli dichiarava di voler indirizzare le sue ricerche verso un approfondimento interiore e freudiano delle possibilità espressive della camera, pur evitando il pericolo di una dissertazione in immagini di cui lo schermo non poteva essere la sede appropriata. E in verità queste premesse potevano ritenersi, dal punto di vista teoretico tutt’altro che errate. Le più note caratteristiche del mondo subcosciente, potenza e libero giuoco delle immagini, il loro condensamento ed avvicinamento illogico, l’interpretazione del loro contenuto manifesto (plastico), come segno del desiderio e dell’idea, la loro stessa elaborazione analogica, simbolica o allusiva, potevano già apparire come dei fatti strutturalmente connaturati alla essenza stessa della tecnica cinematografica. Con l’aiuto poi del mago Méliès, il vecchio nume tutelare di tutta l’arte cinematografica e dei suoi trucchi geniali, la ricostruzione di un sogno, la storia di un’angoscia o di un «refoulement» costituivano già una materia di pretto dominio filmico anche prima delle scoperte dei maestri espressionisti tedeschi. Lo stesso antico film italiano di epoca non anteriore al 1910 offre parecchi esempi chiari e pertinenti al riguardo. Inoltre la tecnica peculiare del sogno, come spiegata da Freud e per cui le parole non sono sufficienti alla elaborazione del contenuto onirico, ma occorrono altre immagini sembrava espressamente autorizzare la possibilità di una riuscita traduzione cinematografica del mondo onnisciente e subliminare. Ma ciò che costituisce l’originalità del Caso del professor Mathias è che in questo film l’esperienza freudiana appare come il nucleo stesso della vicenda e cioè come esposizione e spiegazione di uno stato di sogno; il primo quadro ci presenta infatti il dottore solo nella sua camera da toilette. A un certo 178
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punto egli viene chiamato dalla moglie che lo prega di raderle la nuca. Il marito cerca in un primo momento di esimersi scherzosamente dall’incarico, ma siccome la donna insiste, si decide a raggiungerla nella camera vicina. Mathias ha quasi ultimato questa futile bisogna, quando ode il grido di assassino, due volte ripetuto. Il professore si impressiona, fa un falso movimento e ferisce leggermente la moglie col rasoio. Qualche tempo dopo egli apprende che Giovanni, il suo giovane cugino, è per tornare da Sumatra, ove si trovava in missione scientifica. Allora una irragionevole gelosia lo assale, che non tarda a trasformarsi, sempre nel sogno, in follia omicida. Così egli vede la moglie e il cugino insieme: fa per slanciarsi sulla coppia ma una visione allucinatoria lo trattiene: quella di tre convogli ferroviari che, marciando in opposta direzione, sembrano attraversarsi a vicenda. Subentra quindi l’apparizione di una città “hindou” recinta di torri merlate. Dall’alto di queste costruzioni, delle campane, molte campane suonano a distesa. Ma poi sono sostituite da altrettante teste di donne, oscillanti paurosamente sul vuoto e trattenute solamente dai capelli: in una di esse il professore non tarda a riconoscere il volto di sua moglie. Egli fugge, ma ecco che attraverso le inferriate di una finestra scorge ancora i colpevoli in barca sull’acqua nera di un stagno. Allora Mathias si slancia e uccide la donna a colpi di sciabola. Un secondo dopo si sveglia. Questo il contenuto del film. Ora parecchi di questi frammenti appaiono non solamente notevoli per la sottigliezza con cui Pabst adopera il determinismo meccanico dei trucchi ai fini della libera rappresentazione onirica che egli intende perseguire, ma per la riuscita semplicissima della teoria freudiana da lui applicata con stretto rigore scientifico. 1) La voce Assassino che Mathias ode dopo aver leggermente ferito la nuca della moglie è già un sintomo del suo orgasmo subcosciente alimentato da uno stato di gelosia più erotica che sentimentale. 2) Lo scontro dei treni, è senza dubbio una perfetta traduzione in linguaggio onirico del cozzo della volontà omicida del soggetto, con quelle degli adulteri che vanno realizzandosi in senso ad essa contrario. Questa sequenza può essere considerata a buon diritto come uno tra i più convincenti esempi della dottrina freudiana sull’elaborazione simbolica del contenuto onirico ed una illustrazione particolarmente felice delle reazioni subcoscienti durante lo stato del sogno. «Voi dovete essere contenti», scrive infatti il grande scienziato austriaco, «se avete la possibilità di tradurre con una più grande finezza di Immagini le relazioni che non sono suscettibili di esteriorizzazione visiva. Quando cioè colui che sogna riesce a ridurle alla loro materia bruta, fatta di oggetti e di attività». 3) L’apparizione del paesaggio hindou è poi una precisa identificazione del luogo di provenienza del cugino (Sumatra). 179
«La Critica Cinematografica»
4) La sequenza delle campane consta invece di due momenti essenziali. Essa rappresenta quel che Freud definisce un sintomo a due tempi. L’eco prolugata delle squille può avere infatti nella realtà la funzione generica e ordinaria di richiamo dei fedeli al tempio ove si celebra l’officio. Così nel sogno del professore, che è di contenuto erotico, le campane che suonano a distesa e poi si trasformano in teste di donna, giuocano come generico appello sessuale. Ma quel suono può avere il significato, più circoscritto, di allarme. E allora quando Mathias subito dopo vede una sola delle campane che si trasforma nella testa della moglie, ciò sta a rappresentare appunto l’allarme a lui personalmente diretto, circa la condotta colpevole della sua compagna. 5) L’uccisione della moglie a colpi di sciabola non è poi che l’ulteriore evoluzione onirica del motivo della lama di rasoio preceduta da uno stato di censura della coscienza, rappresentato dalle inferriate. Nell’altro film Crisi di freudiano non c’è che il finale. Ed è la scena in cui la protagonista, sdraiata a letto e insoddisfatta dopo una notte di ballo, si scopre le cosce con gesto nervoso e sventola su di esse un lembo di lenzuolo. Qui il gesto che sembra dettato dal bisogno apparente di provocare frescura al corpo sarebbe invece una inconscia manifestazione della «libido» ricacciata e starebbe a significare l’apprestamento al piacere e il conseguente stato di insoddisfazione in cui versa attualmente la donna. Fin qui Freud e con un po’ di buona volontà anche Pabst. Ma sembra che oggi l’obiettivo cinematografico si appresti ad interloquire direttamente sull’argomento. Osservazioni fatte sulle lepri, le quali, come è noto, dormono ad occhi aperti hanno permesso infatti di constatare per la prima volta l’esistenza nella retina di vere e proprie immagini oniriche, il che induce a formulare l’ipotesi che lo stesso avvenga nell’occhio umano. Ora un medico spagnolo, il Dr. Josè Calderon, ha costruito un apparecchio di presa il quale può attraverso le palpebre, e mediante l’uso di raggi infrarossi, fotografare anche nell’uomo le immagini formatisi nella pupilla durante lo stato onirico. Per la prima volta si è potuto così misurare la velocità del sogno di un soggetto normale. Essa ha coperto 50 metri di pellicola al secondo con un ritmo cioè centuplicato di fronte a quello della realtà.
Sergio Frosali
Cinema. Arte inferiore? [numero 9 – giugno-luglio 1948]
I dettagli che appaiono nelle opere letterarie – siano d’ambiente come le poltrone di una sala o personali come il sorriso e il gesto di un personaggio – 180
Sogno di Parnaso
procedono direttamente dalla mente dello scrittore. Se Tolstoi trova modo in Guerra e pace di descriverci la corporatura di Pierre Bezuhof, è perché essa è pensata in perfetto accordo col carattere dell’eroe. Se Proust descrive nei dettagli l’appartamento di Odette de Crecy, quei dettagli non sono casuali né esterni, perché rappresentano al vivo la psicologia di quella donna e il gusto dell’epoca. L’opera letteraria non può – è naturale – mostrarci le persone e i loro atti in tutta l’evidenza materiale, in carne e ossa; può soltanto farcene sentire alcuni elementi materiali; ma solo quando essi sono collegati a un’idea o rispondono ai bisogni di far capire qualcosa: quando insomma parlano all’intelletto del lettore. Nella letteratura, che è il dominio del fantastico, ogni realtà che l’autore ci mostra è voluta e significativa. (Questo nonostante le numerose eccezioni delle opere realistiche e mediocri. Ad esempio delle quali basta citare quei romanzi che sono tutto un accumulo di particolari, di impressioni mal digerite, di fatti, orrendi ma esterni: come le opere di Dos Passos esteriormente piene di cose ed interiormente ben vacue). Nel cinema le cose materiali (volti, sguardi, case, vie) non emanano necessariamente dal pensiero dell’autore ma possono essere, e quasi sempre sono una realtà intrasfigurata, una materia bruta: fuori del pensiero e dell’immaginazione, quindi anche dell’arte. I riccioli di una protagonista, un effetto di luce sull’acqua, preesistevano alla macchina che li ha riprodotti ed entrano nel film tali e quali, sia pur valorizzati dall’angolazione e dall’illuminazione speciale. Ora, il problema che si presenta all’artista cinematografico (al regista, per intenderci) è di non mostrare niente che non sia significativo, di non accettare un raggio di luce o la pettinatura di un’attrice a meno che non apportino un contributo necessario allo svolgimento psicologico e a quello armonico, tematico e ritmico del film. Come un grande scrittore ci mostra di quando in quando un sorriso, un gesto caratteristico di un personaggio, così un futuro grande artista del cinema dovrà rifuggire dalle immagini troppo generiche, nelle quali non appare la potenza creatrice ed isolatrice della fantasia, e mostrare solo dei particolari che abbia a lungo meditati fino a spogliarli di ogni superfluità e di ogni elemento intrasfigurato, e nei quali siano nettamente impressi i segni della sua fantasia e del suo genio. A questa condizione ideale di originalità hanno mirato i migliori cineasti; si riconosce un buon film di Eisenstein o di Pabst fin dalle prime inquadrature, come pure un film di quegli altri tre o quattro registi veramente creatori; lasciando da parte altri buoni cineasti come Ford o Duvivier che non sono dei veri creatori ma degli ottimi fabbricatori dotati di un sicuro senso dello spettacolo e assistiti di quando in quando da un pizzico di genialità. E tuttavia, nonostante qualche risultato raggiunto da quei primi cinque o sei, si ha, anche dalle loro opere, un senso d’insoddisfazione, e si è tratti a pensare che il cinema dovrebbe spingere un po’ più oltre per poter essere considerato arte nello stesso senso puro ed assoluto in cui lo sono letteratura e pittura. 181
«La Critica Cinematografica»
Allora sorge la domanda: sarà mai fatto qualche passo in avanti? Molti hanno tentato di liberare il cinema dai suoi pesi morti: per merito loro si sono avuti i film d’avanguardia, i mille generi di cinema puro, dai disegni animati geometrici tipo Fischinger alle libere associazioni oniriche di Entr’acte. Tutti tentativi e non più, malgrado qualche risultato parziale. E ciò perché nascevano da una smania d’originalità e da un desiderio di novità, non da una vera e propria necessità intima e poetica. Comunque, questi tentativi hanno un valore; sono sintomi del disagio e dell’insofferenza di alcune persone intelligenti di fronte alla mediocrità della produzione corrente, anche di quella che in mancanza di meglio definiamo buona. Soltanto gli americani sono andati esenti da tale insofferenza; e lo si capisce, in un popolo giovane, che di tutto si contenta e non è sensibile ai raffinamenti intellettuali propri alle civiltà e alle società più antiche. Perfino i maggiori cineasti americani, i più indiscutibilmente sinceri e intelligenti, Chaplin e Vidor, hanno uno stile semplice e sommario che li distingue appena dai loro commercialissimi compatrioti. (Invece in Europa, per esempio da un Eisenstein, il cinema è portato a uno stilismo ben più pronunciato e cosciente). Sembrerebbe che si potesse raggiungere una maggior trasfigurazione degli oggetti mediante un uso se non esclusivo certo più frequente del primo piano. Esso stacca gli oggetti dallo spazio, li isola, li sottrae alla contingenza e li fa diventare entità fantastiche. Non dimentichiamo che il cinema è in certo senso l’invenzione del montaggio e del primo piano. Ma se riflettiamo siamo tratti a concludere che troppe difficoltà si oppongono a un’evoluzione in questo senso. Il cinema è troppo legato a coefficienti economici per potersi prendere la libertà di infischiarsi del pubblico. E invece le grandi opere di ogni arte nascono sempre, appunto per la loro grandezza, a rischio di trovarsi isolate e inapprezzate, e solo dopo lunghi anni conquistano nella storia il posto che loro compete. Dite un po’ cosa sarebbe successo se Baudelaire per comporre i Fleurs du mal avesse dovuto aspettare il benestare di un editore. Invece quel libro potè nascere proprio perché la letteratura è un’arte indipendente per la quale occorrono solo carta, penna e inchiostro. Da questo punto di vista invece il cinema, coi milioni che esige, non potrà mai aver speranze. Inoltre un’altra sgradevole circostanza è a suo carico. Gli è necessaria tutta un’organizzazione, lo opprime tutta una serie di vincoli, di contratti, di difficoltà. Vi par semplice dover girare quella data scena in quel certo giorno, entro quelle tali ore? Sarebbe come se un poeta si sentisse dire: il ventidue del mese prossimo ti metterai a tavolino e scriverai in versi le precise cose che ti dirò. Ora è certo che il regista ha pensato molte cose prima di accingersi a girare una scena e sa quel che dovrebbe ottenere; ma quante cose gli sfuggiranno! come resterà sempre meccanico e schematico rispetto alla sua 182
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visione personale (ammessa la probabilità infinitamente rara che un regista abbia una visione personale). Pensate che invece ad uno scrittore o ad un pittore è permesso cancellare, lavorare quando voglia, alzarsi la notte, distruggere, ricominciare. Se non riuscirà a far nulla sarà per sua mancanza. Un’altra terribile difficoltà: quella degli attori. Il regista ha a disposizione un certo numero di attori, già ristretto in partenza da alcune difficoltà contrattuali, e tra costoro deve scegliere quelli nella cui forma fisica calerà le immagini della sua fantasia. E di loro trova determinata in partenza non solo la forma fisica ma anche la recitazione, perché ogni attore è più o meno se stesso e finisce sempre coll’imporre il proprio gioco interpretativo. Vedete dunque cosa resta. Eccoci costretti a considerare il regista come un uomo dotato di alcune qualità, tra cui principalissima la pelle dura, ma molto praticone, molto accomodante, pronto sempre a una transazione con la necessità della fantasia. E del resto ci si convince che dev’essere così anche se si pensa quali sono i pubblici che determinano il successo di un film: gente assolutamente insensibile. Perciò il creatore cinematografico non potrà superare quasi mai il livello di un buon romanziere di terz’ordine: un uomo che profitta della cultura e del gusto della sua epoca per mettere insieme una narrazione abbastanza vera e intelligente (in casi eccezionali), un fabbricatore che solo in rari casi lascia vedere un certo ingegno. Un Vidor viene considerato un grande artista solo perché il cinema può dar poco di meglio: la sua grandezza è relativa alla pochezza di quest’arte. Egli è rispetto ai tanti registi quello che un Sue è rispetto a un autore di strofe per canzonette, o quello che un Winterhalter o un altro buon ritrattista di corte sono rispetto a un pittore di quadri in vendita nei magazzini Upim.
Sergio Frosali
Il cinema e la società [numero 10-11 – agosto-settembre 1948]
In questi anni l’ultima generazione di giovani intellettuali ha prestato grande attenzione al cinema, non meno e forse più che alle arti maggiori: cosa che ha la sua spiegazione anche nell’aumento del numero dei libri di storia e di critica cinematografica, nel diffondersi delle visioni retrospettive, o, più in generale, nella evidenza in cui è stato messo il lato artistico del cinema. E certo si tratta di un’arte che, anche a parità di meriti artistici con altre, ha sempre su quelle l’enorme superiorità di sedurre meglio lo spettatore: è facile, gli si concede senza resistenze, gli appare già formata al di fuori di 183
«La Critica Cinematografica»
lui, lo emoziona senza farlo pensare, gli empie ore abbandonate alla pigrizia. Tale superiorità sulle altre forme di spettacolo e soprattutto sulle altre arti è alla ragione della sua popolarità presso le masse, della sua diffusione mondiale; lo è anche del fascino che su élites vagamente intellettuali ed abbastanza numerose esercitano i film più intelligenti e affinati. Un buon film è un ponte di passaggio; non è più solo un espediente per riempire il vuoto di un pomeriggio: propone degli esempi di bellezza emotiva, si fa rivelatore di un certo splendore delle cose: è insomma un tramite per avvicinarsi a sentire l’arte in generale. Difatti molti letterati hanno avuto per il cinema la prima passione intellettuale da giovani, avanti di capire più profondamente la letteratura e le altre arti. Molte persone invece rimangono su questo ponte: non sono né completamente al di qua né completamente al di là, né borghesi né artisti. Ebbene: il buon cinema sarà per loro l’arte ideale. Come per le masse ineducate (parlo qui di educazione della sensibilità e non di educazione scolastica: nessun uomo è più sciocco e più odioso di un bravissimo clinico che sia soltanto un clinico, mentre un operaio può istintivamente capire tante più cose pur essendo scolasticamente ineducato), come per le masse ineducate, dicevo, il cinema normale col suo melodrammatismo falso, con le sue forti tinte, rappresenta l’Arte, così per le persone abbastanza sensibili ma prive di vera potenza intellettuale, di vera penetrazione spirituale, il film buono è nello stesso tempo abbastanza facile ed abbastanza intelligente. Invece, che so io, un quadro di Masaccio o di Vermeer è cosa assai più dura a comprendersi: fa un certo effetto attaccato alle pareti di casa di un borghese, appaga esteriormente l’occhio, ma pur colpito da tante occhiate resta inconsumato: rarissimamente sentirà su di sé uno sguardo di comprensione. Oggi anche un borghese o uno snob sanno chi è Masaccio; ma se non gliel’aveste detto, per loro Mariotto Albertinelli avrebbe fatto lo stesso. L’altezza di Masaccio o quella, ad esempio, di Goethe, sorpassano troppo l’intelligenza media perché possano essere sentite e ammirate veramente da medie intelligenze. Se il cinema è molto seguito, non è solo per meriti artistici ma soprattutto per ragioni di convenienza e di facilità; qualcosa del genere in un campo però molto inferiore accade oggi per la musica jazz. Si fanno convegni di critici, si glorificano compositori come Ellington e Armstrong, si tengono conferenze ed audizioni serissime con la ferma convinzione di essere davanti a una vera e propria arte. Certo non sono da negare un certo merito e una certa originalità a quei compositori, ma è inutile fare il loro nome accanto a quelli di Debussy e Ravel, farli apparire come rami poco meno importanti di una grande cultura musicale. Certo Ellington conosce Stravinskij, Debussy e Ravel, ma tali nomi citati per lui suonano come quelli dei parenti ricchi di un ramo molto povero. Se indagassimo con una certa profondità le ragioni dell’amore e del culto che si porta al jazz, le troveremmo in definitiva nella 184
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sua emotività fisica, nella ragione puramente pratica che inebria ed eccita. Si è portati a confondere quest’ebbrezza delle fibre assetate di movimento e disposte ad accogliere un banale sentimentalismo musicale, con l’ebbrezza grande, alta ed intellettuale della vera musica. Il tempo farà giustizia di questi provvisori entusiasmi, allo stesso modo che cancella inesorabilmente tutto ciò che non è grande. Probabilmente al tempo del valzer viennese o a quello delle canzoni napoletane molti appassionati erano disposti a vedere musica vera in quelle manifestazioni di vitalità e di emotività; ora esse ci appaiono per quel che sono: abbandono all’esaltazione dell’ora, vivace frenesia della parte spirituale più frivola. Certo non è così per il cinema che ha altissime possibilità ed ogni tanto ne dà qualche prova. Ma molto spesso quando diciamo «bello» oppure «interessante», è il nostro io più debole che giudica, vinto e oppresso dalla forza di un congegno che abbatte ogni nostra resistenza fisica e ci vieta l’uso dell’intelligenza. Conosco dei letterati preoccupati di mantenersi su un costante e rigoroso piano intellettuali i quali si fanno forza per fuggire il cinema come una tentazione ed un “vizio segreto”. E, credete, non hanno del tutto torto: il cinema corrente è veramente il più diffuso vizio del nostro tempo, che con gli altri vizi ha molti punti a comune: la fuga dal reale, il desiderio di annullamento della personalità, lo spostamento della libido su pure immagini irraggiungibili (onanismo). E soprattutto la riduzione del senso critico e della coscienza intellettuale, il desiderio di esser turbati fin nel profondo e fatti uscire di noi stessi, un’ansietà incerta, un vago desiderio di annullamento e di dimenticanza. Soltanto dei moralisti potrebbero deplorarlo: l’uomo ha bisogno di mille valvole di sicurezza secondarie perché di rado può purtroppo sfogarsi per le aperture ampie e naturali del desiderio soddisfatto: e una di quelle è la provvidenziale immaginazione. Se il cinema è lo stupefacente più innocuo, quello che assorbe e smaltisce una forte percentuale dell’infelicità umana, resti pure com’è: anche senza migliorare di un dito ha diritto ad esistere. Se non ha una funzione artistica abbia quella di valvola di sicurezza della società, faccia ammirare alle ragazze un giovane bello e ricco, distragga con divertenti bestialità l’impiegato annoiato dalla giornata a tavolino. Sentiremo nelle platee sincere esclamazioni e cordiali risate: dunque c’è della gente che crede a quelle idiote storie, che ride a quelle spiritosaggini grossolane? Ebbene, perché vogliamo dar loro film che affatichino il loro briciolo d’intelligenza? Altro non amano che passare bene due ore, sentirsi cullati dai sentimenti più melodrammatici, quindi più intensi, non essere turbati dal tarlo dell’intelligenza e dal fastidio della verità: abbandonarsi ed esser presi da ciò che v’è di più lontano da loro. È per questo che in Italia si amano i film di cowboys mentre in America si amano i film sulla società italiana attuale: lo spettatore vuol essere trasportato 185
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lontano, non ricordarsi di essere su di una poltrona legato al fastidioso resto della sua vita, ma da quella poltrona, come da un tappeto volante delle Mille e una notte essere trasportato in ambienti inimmaginabili: il far-west, i bassifondi di Parigi o di Londra, le belle sale fornite di ogni comfort dove giovani forti e sicuri amano donne piene di attrattive. Inconsciamente anche noi più intelligenti siamo sottoposti a questo primitivo fascino del cinema, a questa ingenua seduzione poetica: in noi continua un po’ della sgomenta meraviglia che tenne gli spettatori la famosa sera in cui Lumière presentò la sua invenzione nei sotterranei del Boulevard des Capucines. La meraviglia per il miracolo delle ombre moventi non è del tutto esaurita in noi: quando per esempio preferiamo uscir fuori ed entrare in un cinema, magari per vedere un brutto film, invece di restare in casa a leggere un bel libro, è non solo perché ci lasciamo vincere dalla pigrizia (leggere è più faticoso che vedere un film) ma anche perché in fondo a noi resta l’ingenua ammirazione per le ombre moventi; e la seduzione delle forme su di uno schermo, per quanto attenuata dall’abitudine e dall’abuso, vive ancora negli elementi più semplici e fanciulleschi della nostra anima. Nel buio nel quale la sala ci riceve brilla in fondo lo schermo illuminato dove tante effimere creature si agitano; e basta un istante perché la nostra attenzione subito si tenda, in un unico fascio con l’altrui, verso quel quadro semovente che ha davvero qualcosa di mistico. Quando Murnau andò a girare Tabù nei mari del Sud, potè convincere gli improvvisati attori, appartenenti a primitive tribù, a recitare davanti alla macchina da presa, solo dopo averli convinti che si trattava di uno strumento rituale e mistico, di una specie di arnese di stregoneria. E i due giovani protagonisti si prestarono al lavoro con un ingenuo entusiasmo religioso. Certo egli aveva proiettato loro qualche pezzo di pellicola, e il rivedere le proprie sembianze e le altrui con una tale illusoria e provvisoria corporeità era loro parsa opera di soprannaturale stregoneria. Siamo molto lontani noi da questa profonda meraviglia e da questo mistico entusiasmo? Sì, lontani quanto è lontana la nostra civiltà razionale e positiva da ogni forma di illusione e di ingenua fede; e certo non crediamo più nei miracoli, e da tempo le forze più meravigliose della natura, come il fulmine che gli antichi ritenevano opera e simbolo della divinità, hanno cessato di apparirci come manifestazioni del soprannaturale; anzi gli ultimi residui del soprannaturale si allontanano sempre più dalla terra cacciati dalla scienza; eppure sotto questa forzata copertura razionale serbiamo ancora sopite un’innata fiducia e un’innata credulità. Amiamo il miracolo e l’attendiamo anche quando non vi crediamo. La diffusa cinemania non è tanto amore per l’arte quanto amore per la sensazione nuova, per l’inatteso. Ed anche l’inatteso è una forma minore di miracolo.
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Forse che questi baffetti di Chaplin non sono tutto quello che all’Europa rimane del viso? VLADIMIR MAJAKOVSKIJ
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Carriera di un vagabondo
Giulio Bollati di S. P.
Un vagabondo ha fatto fortuna [numero 1 – gennaio-febbraio 1946]
Un giorno bisognerà pur farla la storia di Charlot, e non sarà impresa da poco; chi si accingerà dovrà tener conto che il fenomeno Charlot interessa molto da vicino una intera epoca, e dovrà rintracciare le sue radici nella parte più sensibile della nostra vita di uomini di questo XX secolo. Per farlo, quel lavoro, occorreranno un distacco, una obbiettività che oggi ci costerebbero senza dubbio una notevole fatica sebbene già si intraveda la possibilità di una critica conclusiva e ci siano i sintomi dell’approssimarsi di una chiusura di conti. Ragioni sentimentali non c’è dubbio: Charlot ci è troppo caro e troppo vicino, ci interessa troppo direttamente; è un particolare al quale siamo attaccati e di cui siamo gelosi. E così accade che parliamo tanto spesso di lui, che il suo nome ritorni di continuo nei nostri discorsi. Charlot vive con noi: è una pietra di paragone che può servire per molti casi di ogni giorno anche i più comuni: in tram, dal sarto, a un concerto: «Sembra Charlot». Perché nessuno meglio di Charlot ha capito cosa sia vivere questi tempi moderni, per un uomo – un solo uomo – esposti a tutte le offese di un mondo che non nasconde la sua spietata indifferenza – quando non sia ostilità – o che, se lo fa, si vale dello schermo di una morale spesso ipocrita dietro cui non è difficile riconoscere egoismo, violenza o dura e ostinata incapacità di capire. Charlot sa che il più forte ha ragione e il più debole torto: e lui, il povero diavolo si difende come può. E così ci offre la sua soluzione, non quella dell’ultimo quadro del film, che quasi sempre è il più malinconico di tutti, ma quella di ogni fotogramma: è la «comicità», è la sua mai compiaciuta, mai ottimistica ironia (un’ironia necessaria piuttosto, e perfino crudele come tante volte si è notato); che è poi un vero eroismo, per i «tempi moderni» di Charlot, che sono anche i nostri tempi. Eroismo è quello di Charlot, quando si difende dai nemici che sono tanti, ed anche da un abbandono senza pudore ai propri sentimenti, allo sconforto per esempio. Se è un sentimentale, Charlot, non lo è senza una tutta moderna discrezione. Il nostro uomo non è che una vittima, non prende posizione; piuttosto finge, recita, si adegua con la massima serietà alle regole del gioco. Soltanto ce le fa vedere in trasparenza, le riduce talvolta negli astratti arabeschi di certi giochi geometrici, e prende così la sua vendetta. Ma non bisogna sopravalutare il motivo polemico, non fermarsi alla vendetta di Charlot, che sarebbe legarlo al destino di una particolare società: perché così si corre il rischio di non cogliere il valore eterno di un’opera che è poesia e tocca non soltanto l’uomo d’oggi, ma l’uomo di sempre, semplicemente l’uomo.
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«La Critica Cinematografica»
Fin qui, mi accorgo, si è parlato proprio di quel nostro Charlot più antico e più caro, del vagabondo Charlot del nostro ricordo. Ma quando dicevo che si incomincia a intravedere la possibilità di un bilancio, come si usa dire, pensavo proprio a questo: che il vagabondo Charlot sia arrivato alla fine della sua storia. Non che Chaplin sia finito: Charlie Chaplin potrebbe darci ancora molti film e speriamo che si debba ricredere; ma lo Charlot d’oggi si è evoluto, non è più quello. È accaduto che un bel giorno il nostro eroe, che era un vagabondo sul serio, un diseredato dalla sorte senza possibilità d’equivoco, si accorse cioè di non essere debole, ma un forte, e di avere dei diritti. Così Charlot entrò nel vivo della polemica sociale, o meglio rese esplicita quella polemica che, implicita, non era mancata mai, la pose in primo piano e dovè farle posto accanto alla sua poesia. La fusione non poteva avvenire per la buona ragione che si trattava della frattura di un precedente poeticissimo, persuadentissimo accordo. Tempi moderni è fatto di due pezzi distinti. Charlot che non è più il vecchio povero diavolo, non può essere neppure del tutto il nuovo proletario: c’è in quel film qualcosa di ambiguo, che ci riesce penoso. Poco più avanti troviamo Charlot che fa l’alta politica (Il dittatore). Il vagabondo è arrivato: sotto i panni si indovinano abiti di buon taglio, sotto il pallido riso il sorriso poco convincente del cittadino e proprietario signor Chaplin. Forse bisognerà decidersi a riconoscere che anche Charlot faceva parte di quel mondo che la guerra ha posto tanto incredibilmente lontano da noi, e che non ci ha seguito fin qui. Ci resta, come si dice, il suo messaggio; tra noi e il “classico” Charlot, comincia a stendersi il tempo.
Antonio Marchi
Charlot sulla ghigliottina [numero 8 – aprile-maggio 1948]
Ormai non ci son più dubbi: Charlot ha pensato di dirci addio e con quell’occhiatina che ogni tanto dallo schermo monsieur Verdoux volge alla platea quasi volesse assicurarsi l’attenzione dello spettatore, o ancor di più, ne esigesse una partecipazione assoluta e spietata, pare che il vecchio Charlot, salutandoci, ci chieda anche un po’ di perdono. Perdono d’essere andato troppo in là, d’aver sepolto indubbiamente per sempre le sue scarpe, la bombetta, la giacca, il bastoncino, quei suoi pantaloni troppo larghi, e di mostrarsi così impudicamente semplice e ben vestito. La prima cosa a sentirsi, assistendo alla proiezione di Monsieur Verdoux, è infatti un senso imbarazzante di nudità e pallore che sempre ci avevano colpito nel volto e 190
Carriera di un vagabondo
nella persona del Chaplin borghese, visto fuori dallo schermo. Ma qui non si tratta semplicemente della mancanza di una maschera. Chaplin ha tagliato i fili del suo personaggio; ci ha condotti sul palcoscenico a farci toccare con le nostre mani le leve, le corde, i praticabili. E che mai credevate tenessero su quei baffetti, guidassero quei cassettini, quelle piroette se non tutta questa amarezza, questo nichilismo assoluto? E così, conducendoti per questa via, il film finisce per lasciarti quel sapore in bocca, quell’odore di morte, di sangue, e di tutte quelle cose che dice Hemingway. Eppure a tratti era sembrato che lo schermo si illuminasse del vecchio colore delle comiche e a Charlot capitano di marina, a Charlot sposo, erano riaffiorate per un momento nel cinematografo le risa di un tempo. Charlie ha voluto parlar chiaro, dire tutto e, naturalmente, si è fatto più oscuro e difficile. Dove prima era un gesto, uno sguardo, t’ha messo un lungo discorso (lui, l’eroe del muto) che inevitabilmente finisci per ascoltare. Dove giungevi insensibilmente portato dalla poesia ora giungi, e non sempre, per via di ragionamenti: ha creduto di semplificarsi e invece si è impreziosito. Nel cinematografo dove entrammo fu più silenzio che riso. Un silenzio imbarazzante. Vagabondo nell’infinito sognava una casetta di cinque metri con le tendine candide, una piccola moglie, un impiego fisso, un orologio che segnasse uno scorrere lento e preciso di ore. Era fuori dal tempo, dalle regole, dal definito e aspirava a tutto questo come ad una assoluta felicità. Ad ogni apertura di schermo lo ritrovavi costantemente fuori binario e la sua comicità nasceva proprio di qui, tutt’uno con la sua sconsolata poesia, da questo suo vivere non diciamo al margine, ma un passo in dietro rispetto agli “altri”. E gli “altri” potevano anche non accorgersene, perché il colloquio era sempre fra noi e Charlot e il termine di paragone diventavamo istintivamente noi stessi e sentivamo che Charlot era tutto un nostro segreto, ed infantile, di debolezza, di disordine, di crudeltà, rischiarato d’improvviso da una fiammata d’amore o da uno slancio d’altruismo. Era incapace di vivere e appena una mano invisibile veniva a rimetterlo a posto, sul binario, non facevi fatica ad indovinare che quella doveva essere l’ultima scena, il momento immancabile del lieto fine. Ora Charlot ha realizzato i suoi sogni. È arrivato. È entrato nella vita, nella precisione, nel meccanismo della società. Monsieur Verdoux ha una casa, una moglie, un bimbo. Li incontriamo in un giardinetto, in una scena sfumata, piena di tranquillità e dolcezze, il bimbo biondo e la moglie paralitica. Ma cosa mai è contata l’infermità fisica in Chaplin? Anzi quella poltrona a ruote ha la forza di aumentare l’idillio con tutta l’accorata dolcezza di una lunga malattia, col senso delle stagioni e del tempo lentamente trascorso. Ha anche degli amici, un po’ goffi ed ingenui, come soltanto possono essere i 191
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veri, buoni amici. Vengono a pranzo, prendono il caffè davanti al caminetto e Charlie, padrone di casa, si toglie le scarpe. Si mette le pantofole e si siede, tranquillo borghese, in poltrona. E allora? Naturalmente Chaplin non può venire a compromessi e se è divenuto uomo sociale, se è entrato nel mondo non si è certo assoggettato alle sue leggi, ma è stato soltanto per uscirne ancor fuori, non dalla finestra, come quando fa visitare l’appartamento alla vedova bionda, ma in un modo definitivo e brutale. Mentre dunque l’amico sorbirà il caffè egli scriverà di nascosto le formule di un potentissimo veleno. Assassinerà sei o sette donne e finirà sulla ghigliottina. Una volta, alla fine, un deus ex machina, come la macchina appunto del Vagabondo, arrivava puntuale a salvarlo e Charlot scompariva come Mickey Mouse, sulla strada, sempre più piccolo all’orizzonte. Questa volta non arriva nessuno. Le parole di conforto del sacerdote cadono nel vuoto più gelido. E Charlot, cinico, freddo, impassibile va incontro alla morte. La morte di Charlot, questa morte che non ha soltanto un valore di fine fisica ma si allarga di significati profondi e assoluti, segna un preciso traguardo della sua opera. Non basta parlare di un capovolgimento del destino, il signor Verdoux trascina con sé l’antico Charlot, il Charlot proletario e vagabondo che avevamo amato per più di vent’anni, e insieme il Chaplin borghese svegliatosi nei Tempi moderni. Due mondi, profondamente legati, definitivamente cadono sotto il colpo di mannaia e nella tomba fiorita e romantica che apre e chiude Monsieur Verdoux stanno certo raggrinziti e corrosi gli slanci affettivi, le grandi speranze, i sogni, le amarezze, tutto Charlot insomma. Si era illuso per quasi tutta una vita ed ora, in un solo film, se pur diluito nel tempo, sconta fino all’estremo la sua esperienza borghese di piccolo impiegato e andando così impassibile verso la ghigliottina, pronunciando quelle parole, ne dà la condanna più fredda e spietata che mai ci sia scesa dallo schermo. Arrivati a tal punto non c’è più nulla da dire o da fare: solo la morte o ritrovarsi l’indomani svegli in un mondo completamente nuovo, libero, puro, come il paradiso del Monello. Forse gli rimaneva quest’ultima possibilità, un’ultima àncora al vecchio mondo, ma il suo cuore ormai non poteva più rispondere; in un film senza sogni Chaplin ha preferito il fatto concreto, la realtà, la morte. Ritornerà Charlot, il personaggio «Charlot»? Non fatevi illusioni, Charlot è un passato, non potrà ritornare. Monsieur Verdoux è la conclusione, il coronamento di tutta una vita. La vita beninteso non del signor Charlie Chaplin, questo formidabile attoreregista che ci darà ancora dei bellissimi film, ma la vita di «Charlot», Charlot tra virgolette, questo poeticissimo e insuperabile personaggio-creatore. In 192
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realtà i suoi film precedenti (a parte Il Dittatore, l’unica vacanza di Chaplin) non avevano mai fine, lasciavano sempre aperta la porta per entrare la prossima volta. E ogni volta ritrovavamo Charlot là dove l’avevano lasciato: in nessun luogo definito e preciso, e però in qualsiasi luogo, addormentato nel grembo di un monumento o coricato al margine di un marciapiede, come se fra l’uno e l’altro film egli avesse continuato a vivere, sullo schermo bianco del tempo, piena di avventure e di sogni, uguale e monotona, la sua eterna “vita da cane”. Qui invece Charlot ci sbatte l’uscio in faccia: muore. Basterebbe il fatto stesso della morte, della interruzione fisica dell’esistenza di Charlot a creare uno squilibrio mai prima verificatosi, ma in fin dei conti ancora sopportabile per il senso di vaghezza e di spiritualità di questo suo andare verso la morte, ma il fatto è che durante tutto il film Charlot, a forza di avvelenare e assassinare, rimase avvelenato esso stesso. Poco a poco demolendo il suo mondo, nel momento stesso che sta per realizzarlo, egli si toglie l’aria d’intorno, rimpicciolisce, si rinsecchisce, così che a un certo punto non c’è più Charlot, non c’è più speranza, non più sogni, non più disillusioni, non più amore. Non c’è più nulla. Egli stesso si è crudelmente divertito a svenarsi lentamente davanti ai nostri occhi. E nel vuoto assoluto, nel baratro che ci si è aperto dinanzi c’è rimasto ingigantito e formidabile il suo messaggio, la sua ombra, l’essenza amara della sua poesia.
Gianni Pozzi
Charlot sulla ghigliottina [numero 9 – giugno-luglio 1948: Lettere al direttore]
Signor direttore, ho letto nell’ultimo numero della «Critica Cinematografica» il suo articolo per il Monsieur Verdoux di Chaplin. Per quanto mi possa dichiarare d’accordo con lei dove lamenta l’impossibilità, dopo questo film, di rivedere ancora, in nuove avventure, il più popolare dei personaggi che il cinema abbia fatto nascere, mi pare che il suo articolo non definisca il significato e l’importanza di questo film, proprio per la storia di quell’umano e mite girovago, che, da quando apparve sullo schermo, nel suo sdruscito abito da società, con la bombetta e il bastoncino di canna, ha fatto, di film in film, di avventura in avventura un lungo cammino, ma sempre con ininterrotta e cosciente coerenza e senza mai smentirsi. Come mi pare il suo articolo voglia sostenere, l’importanza del Monsieur Verdoux è conclusiva; si tratta di un’opera-limite, oltre la quale è difficile prevedere un ulteriore sviluppo delle avventure di Charlot. Su questo punto sono del suo parere: ma proprio per questo ritengo sia 193
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indispensabile spiegarci perché e come questo Verdoux, impiegato di banca ed assassino di donne, succeda improvvidamente a Charlot. Non credo possa significare gran che il fatto che il film non trascini più nel vortice della sua felicissima comicità lo spettatore. Tutt’al più può significare che Chaplin, questo volta, si è impegnato più direttamente, di persona, senza nascondersi dietro i lazzi e le mosse della sua prodigiosa mimica. Lei parla della poesia di Charlot. Ma non posso credere che tale poesia si identifichi solo con le corserelle, le torte in faccia, le acrobazie col bastoncino o magari, le pause sentimentali e malinconiche, ai margini di un prato, o alle soglie di un boschetto. Appunto perché quella di Charlot era vera poesia, impegnava il personaggio, al di là degli episodi, in una umanità profonda e dolente nel carattere sempre coerente, nella vena di segreta serietà che correva celata, al di sotto della comicità e di quel melanconico sentimentalismo. Proprio questa serietà, viene alla luce qui, in quest’ultimo film, per mezzo del personaggio Verdoux, l’impiegato di banca a cui la società ha negato la possibilità di guadagnarsi da vivere onestamente, e che assume, esagerandola per ragioni polemiche, fino al delitto, la medesima spietatezza negli affari che è la regola del nostro mondo capitalistico. Si ricorda, signor direttore, l’atteggiamento indifferente ed innocente di Verdoux, dietro le sbarre dell’imputato, nel tribunale? Non assomiglia a quell’aria ingenua e leggermente spavalda del vagabondo, quando veniva acciuffato dal poliziotto che reclamava una punizione per le colpe che gli altri avevano commesso? D’accordo, Verdoux non è un innocente: ma in un mondo che scatena le guerre più micidiali per ragioni ben meno umane e comprensibili di quelle che spingono l’impiegato disgraziato al delitto, e che prepara la bomba atomica per le sue prossime vittime, chi può lanciare la prima pietra? «Che cosa è il peccato?» chiede in sincerità e meravigliato in buona fede Verdoux al prete, prima dell’esecuzione. Non è la giustizia né il rimorso che vincono Verdoux e lo persuadono a costituirsi: ma soltanto il cinismo del mondo che è ben più forte, più diabolicamente coerente del suo. Monsieur Verdoux, con la sua polemica diretta, ci fornisce la chiave per la comprensione di tutti i film di Chaplin. Finché Charlot viveva le sue avventure con il sussidio della sua mimica comicità, era facile seguirlo e divertirsi senza impegno. Il riso crea, di per sé, un distacco tale per cui qualsiasi tesi, anche la più anarchica e compromettente, poteva venire facilmente accettata, magari con il pretesto dell’assurdità del comico. Anche la censura del Minculpop, aveva accettato la polemica mascherata di comicità dei Tempi moderni o delle Luci della città. Ma ora che Chaplin ha mostrato di levarsi ogni maschera e di impegnarsi 194
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direttamente in un suo atteggiamento polemico, di fronte alla società, la serietà critica esigeva che fossero messe in chiaro le sue posizioni e le sue intenzioni, magari per criticarle o per confutarle; altrimenti si può supporre che anche il vagabondo delle più vecchie comiche non fosse stato compreso nel nucleo più segreto, intimo ed umano della sua poesia. Con osservanza. *** Scritto a lapis, appena usciti dal cinema, ancora sotto l’impressione fresca del film, il nostro Charlot sulla ghigliottina, che la sua lettera ci ha costretto a rileggere, non è, siamo d’accordo, un definitivo esame critico di Monsieur Verdoux e tanto meno dell’opera di Chaplin. Rimane forse un insieme di considerazioni sentimentali di quelle cui facilmente cede lo spettatore comune e a cui questa volta anche noi, disarmati come sempre davanti a Charlot, non abbiamo saputo resistere (ci pareva che Charlot ci dicesse «addio» e abbiamo voluto rispondere al suo saluto). Di un loro fondo di sincerità tuttavia lei ci dà atto convenendo nella conclusione che da quelle nostre righe si poteva trarre: che Monsieur Verdoux sia «un’opera limite, oltre la quale è difficile prevedere un ulteriore sviluppo delle avventure di Charlot». Se non abbiamo ritenuto «indispensabile spiegare perché e come questo Verdoux succeda improvvisamente a Charlot», come lei pretenderebbe, fra l’altro è perché non abbiamo sentito nessun stacco improvviso, nessuna soluzione di continuità nello sviluppo dell’opera chapliniana, ma se mai una quasi troppo rigorosa fedeltà di Chaplin a se stesso, in una estrema logicità di conseguenze dedotte qui, con spietata evidenza, in un tono polemico quanto mai aperto e diretto. D’altronde anche lei ha avvertito questo mutamento, la caduta della maschera, ma non vediamo fin dove abbia colto l’importanza del fatto (che noi volevamo sottolineare in quelle righe) del tramonto dell’antico «Charlot», Charlot tra virgolette, proprio quello che si esprimeva con un linguaggio di corserelle, di torte in faccia, di calci nel ventre dei bambini, ecc. ecc. Una nuova esigenza di espressione ci sembra sia maturata in Chaplin – questo veramente è il fatto nuovo su cui varrebbe la pena di ritornare – per cui in Monsieur Verdoux la comicità mimica non è più il substrato sostanziale, il fulcro mascherato della morale e della polemica, ma è divenuta qualcosa di marginale e di sussidiario. Ora quando lei dice che la poesia di Charlot «non era nelle corserelle, nelle acrobazie col bastoncino, nelle pause sentimentali e melanconiche» ed afferma che Monsieur Verdoux ci fornisce la chiave per la comprensione di tutti i film di Chaplin evidentemente, nel suo generoso tentativo di “spiegarci” Charlot, finisce col cadere in contraddizione o almeno col peccare di ingenuità, perché non ci pare che bisognasse aspettare questo Monsieur Verdoux per capire cosa «guidassero quei passettini o tenessero su 195
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quei baffetti». Soprattutto perché non è vero, come lei scrive, che «finché Charlot viveva con il sussidio (?) della sua inimica comicità era facile seguirlo e divertirsi senza impegno». Ciò che Charlot ci dice oggi, togliendosi la maschera e impegnandosi direttamente in un atteggiamento polemico, ce l’aveva già detto prima con un linguaggio tanto più poetico quanto più schivo.
Giuseppe Ungaretti
La quadratura del circolo [numeri 10-11 – agosto-settembre 1948]
Una volta – diversi anni fa, e fu la prima (questa è la seconda) che scrissi di cinema – una volta dicevo, a proposito di Charlot, che la ricerca di ritmo mi sembrava il segno più sicuro dell’originalità d’un regista. Osservavo che nel cinema, il movimento era raggiunto per illusione, trattandosi di figure statiche spogliate più o meno rapidamente. La ricerca del ritmo consisteva nella scansione più o meno accentuata da figura a figura, nel raggruppamento di figure separate dal successivo raggruppamento da un intervallo più e meno breve; ma la fondamentale durata di cui andava tenuto conto, si svolgeva da figura a figura (da atteggiamento a atteggiamento, da gesto a gesto), come in poesia da piede a piede, e da sillaba a sillaba. Insomma per usare il linguaggio della tecnica poetica, in Charlot io vedevo sillabe, versi, strofe. Charlot aveva concepito e componeva un film come un poema, come un balletto; l’aveva così concepito e composto forse istintivamente, forse (ciò che avrebbe del resto denotato in lui il gusto innato per il balletto) perché a Londra gli era, per vivere e pagarsi gli studi di medicina, piaciuto fare il pagliaccio di circa. I primi film, quelli che mi divertivano da ragazzo, mostravano di solito uno che scappava, e gli altri che per acciuffarlo, gli correvano dietro sempre più numerosi. Charlot è partito da questa idea della cinematografia bambina, e fu essa, molto probabilmente, che l’indusse a abbandonare il circo per la nuova arte, senza troppi rimpianti. Come sino a Monsieur Verdoux, Charlot sia andato progredendo, è un discorso lungo da non potersi fare su due piedi. Il sentimento tragico della vita e l’insofferenza verso qualsiasi società non costituita volta per volta a capriccio, non è cosa che sia nata in lui con Monsieur Verdoux, è cosa del suo temperamento, e s’era, naturalmente, manifestata subito. Ci può essere di nuovo, dopo i film muti, il tentativo d’evocazioni d’atmosfera, ma sono note stonate in Charlot che in tali cose, quando resta sulla sua misura, non va più in là dell’Angelus di Millet. Il miracolo è che ha tratto profitto straordinario dalle stonature. Ha tratto, 196
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e proprio come per miracolo, profitto dalla parola, che in una pantomima è maledettamente spaesata. Se quest’uomo, questa diavolo, non possedesse come possiede il dono del ritmo, avrebbe potuto rendere armoniosa e accettabile, anzi ammirabile, un’opera tutta fatta di squilibri, d’inverosimiglianze, di stridori, com’è Monsieur Verdoux?
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Intervallo: fotogrammi
La possibilità che l’immagine possa sottrarsi in disegno, cioé impegnare in termini lineari il senso della vista, impegnare visivamente il lettore... PIERO BIGONGIARI
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Intervallo: fotogrammi
1. Antonio Marchi (il terzo da sinistra) e Fausto Fornari (il secondo da destra) con un gruppo di collaboratori ai tempi della “Cittadella Film”.
2. Fausto Fornari e Vittorio De Sica in una pausa dei lavori del Convegno sul Neorealismo di Parma.
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«La Critica Cinematografica»
3. Testata della rivista.
4. Fregio.
5. Carlo Mattioli, ritratto di Attilio Bertolucci per la rubrica Giorni Perduti.
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Intervallo: fotogrammi
6. Schizzo per la rubrica Diario Romano, di Carlo Mattioli.
7. Carlo Mattioli, fregio.
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«La Critica Cinematografica»
8. Carlo Mattioli, fregio.
9. Carlo Mattioli, ritratto di Anna Magnani.
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Intervallo: fotogrammi
10. Carlo Mattioli, Anna Magnani ed Erich Von Stroheim
11. Carlo Mattioli, fregio.
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«La Critica Cinematografica»
12. Carlo Mattioli, fregio.
13. Carlo Mattioli, Fu vera gloria?, disegno per la prima pagina della «Critica Cinematografica». 12 novembre 1948
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Intervallo: fotogrammi
14. Carlo Mattioli, fregio.
15. Carlo Mattioli, Agosto 1948.
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Americana
Noi abbiamo un tappeto magico, ma non vi sappiamo volare sopra. FRANK CAPRA
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Americana
Frank Capra
Esperienza del cinema [I Film di Venezia – supplemento al numero 3-4 – settembre 1946]
Pubblichiamo questo articolo che Frank Capra scrisse diversi anni fa, per l’attualità del problema e perché le stesse osservazioni possono essere mosse oggi al cinema di oltreoceano. Avete mai visto una folla di gente intorno ad un cane malato cercando di indovinare di quale male egli soffra? Ebbene questo è quanto mi viene in mente quando io penso a tutte le «impressioni di Hollywood» e agli articoli «che cos’è che non marcia nel cinema» che sono stati scritti. Talvolta si dice che la causa è la mancanza di buoni soggetti, oppure che i registi sono degli incapaci; talvolta che le stelle non sono in grado d’interpretare nulla oppure che i produttori sono degli sfruttatori che soffocano l’ingegno. Il cane potrebbe dire ove realmente ha male, ma non può parlare. Tanto per cominciare io credo che le pellicole siano intrinsecamente molto più grandi di chi le fa. Io non voglio negare che l’aver creato una mentalità cinematografica in ogni uomo, donna, bambino del consorzio civile sia stato un successo. Noi abbiamo perfezionato la pellicola, la fotografia, il suono e tutte le tecniche relative, al più alto grado. Perfino la parola gli abbiamo dato. Ma la pellicola per se stessa, il lavoro a cui il pubblico assiste comodamente in poltrona, è ancora molto al di sotto di quello che dovrebbe essere. Noi abbiamo allestito meravigliosamente un palcoscenico per quella che potrebbe essere la più elevata delle arti, la fusione di tutte le arti; ma quando il sipario si alza noi quasi sempre diamo alla luce un aborto. Oggi è possibile parlare per mezzo della radio a milioni di persone, ma ben pochi hanno qualcosa da dire. Le case editrici sono attrezzate in modo da pubblicare infinità di libri, ma ben pochi scrivono qualcosa di veramente interessante. Vi sono centinaia di sette religiose per convertirci alla Fede, ma quanti di noi seguono le leggi divine? ebbene, nel cinematografo succede la stessa cosa. Si è perfezionato il macchinario, ma non si è in grado di consegnare la merce e quando io dico che non si è in grado intendo dire che non si fa nulla per ovviare a ciò. Noi siamo chiamati artisti da qualcuno, ma non siamo ancora degli artisti. Noi siamo come dei bambini che giocano con dei colori, che ci si divertono e si danno grande importanza per i loro sforzi puerili, senza capire quanto i Leonardo, i Raffaello e i Rembrandt hanno fatto con quegli stessi colori. Tranne poche eccezioni, nessuno di noi comprende la enorme finalità e le possiblità della cinematografia. Letteratura, storia, sociologia, opere liriche, danza sono le nostre materie prime; una composizione di tutte le arti per il confezionamento del nostro prodotto. Ma nella storia intera dell’arte i creatori hanno avuto sì magnifici strumenti a 211
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disposizione per lavorare. Noi abbiamo un tappeto magico, ma non vi sappiamo volare sopra. Vi sono degli enormi pesi che non permettono al nostro tappeto magico di sollevarsi ed uno di questi consiste nel fatto che tre quarti dei film fatti oggidì sono realizzati perché gli studi hanno preso degli impegni per determinate date e non perché qualcuno abbia concepito veramente qualche cosa da esprimere attraverso il film stesso. I film sono venduti un anno prima di essere fatti e quindi debbono essere consegnati come merce vera e propria. Giacché siamo sull’argomento dei pesi che ci tengono terra a terra, permettete che io ne getti via qualcuno che mi grava sullo stomaco. Io ammetto che sarebbe un miracolo. Per liberare dalla zavorra il tappeto magico durante il suo volo io penso che dovrebbero avvenire le seguenti strane e magiche cose: 1) gli affari si dovrebbero arrestare, trattandosi di una industria per la quale i buoni film sono molto meno importanti dei movimenti del magazzino; 2) le compagnie di produzione dovrebbero cessare dal possedere i loro teatri, per mezzo dei quali essi praticamente obbligano il pubblico pagante a vedere i loro film, buoni o cattivi che siano; 3) gli scrittori, gli autori e i direttori dovrebbero cessare di essere delle prostitute artistiche e pensare più al loro lavoro che non ai loro salari. State forse ridendo? 4) ci dovrebbe essere un definitivo cambiamento nell’attitudine passiva dell’intiera industria verso la censura. Dato che esiste una libertà di stampa, una libertà di parola, una libertà di teatro, perché non vi dovrebbe essere anche una libertà di cinema? 5) ultimo e più importante: gli elementi creatori del nostro campo, scrittori, attori e direttori dovrebbero rifiutare di lasciarsi costringere a firmare contratti a lunga scadenza, ed avere il coraggio di fare soltanto quei film che sentono di fare o altrimenti entrare nella industria e fare i film per conto loro. A dispetto di tutto, il cinematografo è destinato a diventare grande. Attraverso gli sforzi di uomini come Griffith, Jonce, De Mille, Thalberg, Goldwyn, Selznick, Chaplin e Disney i film si sono elevati dai lontani tempi del cinema da quattro soldi e vi sono ovunque segni inequivocabili che noi stiamo diventando consci del fatto che il film artistico deve essere lo scopo ultimo di tutti. La profezia è scritta sul muro e per quanto in inglese la maggior parte dei produttori incominciano a leggerla, ciò che ci occorre sono più uomini con onestà artistica; scrittori con un sincero desiderio di dire qualcosa di buono piuttosto che scrivere su ordinazione; registi abbastanza onesti e abbastanza forti da produrre le loro pellicole; attori che abbiano più interesse per le loro parti che non per la temperatura delle loro piscine; meno ville 212
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lussuose e più appartamenti; in altre parole, più uomini e meno prostitute. Il cane non è malato. Egli è soltanto disgustato perché l’industria cinematografica è nelle mani di gente che manca della forza d’animo necessaria per affermare la loro indipendenza artistica.
Albert J. Guérard
Lettera dall’America [numero 5 – dicembre 1946]
Qualche settimana fa un editore mi diceva: «Una casa editrice somiglia ogni giorno di più a un grande magazzino in cui il prodotto principale si vende in perdita, e i guadagni si fanno coi sottoprodotti». E poiché il sottoprodotto essenziale è il cinema, bisogna essere lo scrittore il più austero o il più ermetico per non scoccare occhiate nervose in direzione di Hollywood. Il libro di cui si vendono cinquanta o centomila copie verrà infallibilmente adattato per lo schermo, ma anche l’opera di alto livello letterario, di cui si vendono cinque o diecimila esemplari, può sperare di attirare lo sguardo di qualche produttore, che, naturalmente, la ritaglierà secondo il modello di moda a Hollywood. Il futuro storico delle lettere e del teatro americano non dovrà omettere di valutare a fondo questa influenza sotterranea. Constaterà che gli scrittori, i quali se vanno a lavorare negli studi di Hollywood (per un salario che oscilla dai tre ai quindici milioni di franchi l’anno), non pubblicano più nemmeno un libro; e dovrà anche notare il rallentamento nella produzione di scrittori importanti come Faulkner, Fitzgerald, O’Hara, Cain. Alcune società di produzione impongono contratti che proibiscono la pubblicazione di romanzi e racconti. Altre pagano bene i loro scribi – ma esigono sei giorni di lavoro alla settimana – e certamente non è dal sabato al lunedì che si può scrivere un libro importante. Ma non sono queste le influenze sotterranee. Il romanziere che si reca a Hollywood come sceneggiatore, e con il proposito di restarvi, può rinunciare ad ogni ambizione letteraria. Le influenze sotterranee si esercitano su quelli che non vanno ad Hollywood, ma sperano che i loro romanzi e le loro commedie siano acquistati dalle Case di produzione. Il lettore d’una «lettera dall’America» si aspetta delle cifre, e io non lo deluderò. Facciamo un raffronto tra la pubblicazione d’un libro e l’adattamento cinematografico per quattro categorie d’autori. Anzitutto prendiamo il caso d’un autore difficile, e magari d’avanguardia (un Julien Cracy, ad esempio): d’un suo libro si vendono cinquemila copie ed egli riceverà 1.250 dollari (225.000 lire) di diritti d’autore; ma può ricavarne perfino 25.000 dollari (4 milioni e mezzo di lire) se una Casa di produ213
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zione acquista i diritti del libro. Un autore meno difficile, ma non meno importante (come Albert Camus) può arrivare a vendere quindicimila copie (750.000 lire), ma sperare in un guadagno di 50.000 dollari (9 milioni di lire) dal film. L’autore serio ma facile (un Georges Duhamel) potrà vendere cinquantamila copie di un suo libro (3.750.000 lire), ma guadagnare 100.000 dollari (18 milioni di lire) col cinema. Infine, uno scrittore popolare a grande tiratura (poniamo Maurice Dekobra), che può guadagnare 23 milioni di lire con un romanzo venduto a duecentocinquanta mila copie, può ricavare tra 35 e 45 milioni di lire dai diritti d’adattamento cinematografico. È facile concludere che la tentazione è forte per gli scrittori anche i più seri e di più difficile comprensione. I quali cercheranno di conservare gli aspetti fondamentali della loro arte (lo stile, il valore dei caratteri e del tema, il rigore dell’interpretazione), ma proporranno un “intrigo” capace di allettare un produttore intelligente. Non bisogna dimenticare, d’altra parte, che spesso i produttori si servono solo del titolo del romanzo che hanno acquistato; il film To Have and Have Not («Avere e non avere») pressapoco non ha nulla a che vedere con l’omonimo romanzo di Hemingway. Ho l’impressione che romanzieri dell’importanza di Graham Greene e di Rex Warner non smettano di pensare ad un possibile film – quantunque i romanzi, specie del secondo, abbiano bisogno di un rimaneggiamento totale per essere portati sullo schermo. E il tuffo nella puerilità di autentici scrittori come Somerset Maughan e Louis Bromfield segna il limite estremo della tentazione o del pericolo. Dato che tutti i libri, tutte le commedie, e tutti i film sono altrettanti successi finanziari, ci si sarebbe potuti aspettare esperimenti e innovazioni impossibili in anni più difficili. Invece i produttori hanno fatto il ragionamento esattamente opposto: «perché tentate esperimenti – si sono detti – quando tutti i vecchi trucchi raggiungono lo scopo?». The Short Happy Life of Francis Macomber è uno dei migliori racconti di Hemingway: la sottile e cupa analisi d’un uomo ossessionato dal timore della impotenza sessuale. La storia si svolge su uno sfondo tra i più convenzionali per Hemingway: una caccia grossa in Africa. In questi giorni, al Messico, alcuni produttori stanno “girando” il racconto (o almeno il titolo del racconto) e, per servire meglio il realismo, hanno intenzione di ricorrere a scene di caccia nel Kenya. È superfluo dire che Hollywood non produrrà un film sull’ossessione dell’impotenza sessuale. Allo stesso modo, altri produttori hanno acquistato i diritti di Appointement in Samara di John O’Hara e di The Great Gatsby di Scott Fitzgerald, due profonde e tragiche smentite dell’ottimismo americano. Ma è quasi certo che i produttori ignoreranno il vero significato di questi libri: la lotta reciproca tra una volontà isolata e un ambiente mediocre e sterile. Cosa ancora più spiacevole: la Warner Brothers ha da poco annunziato 214
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d’aver creato una nuova “sezione” destinata a “procurare” ai romanzieri idee per romanzi... romanzi che, in seguito, serviranno a fare dei film. La Twentieth Century Fox è arrivata ad autoconsacrarsi “autorità” in materia di XVIII secolo: fornisce “lumi” ai romanzieri in procinto di scrivere un libro. Altrettanto di recente, la Metro-Goldwyn Mayer ha costituito una serie di premi per i migliori racconti di giovani scrittori pubblicati sul canonico «Atlantic Monthly». Siffatte complesse relazioni farebbero supporre che Hollywood è essa stessa una sorgente creatrice, un focolaio di nuove idee. Tutto il contrario. Le idee che i produttori desiderano “ispirare” sono le idee correnti e collaudate dal 1930 al 1935: The Milk Way e The Virginian now sono arrivati alla terza edizione cinematografica. Avventurandosi nei dominii della psiconevrosi e della psichiatria, il cinema sembra essersi addentrato in un terreno nuovo. Ma è solo una falsa apparenza: i film che trattano argomenti di psichiatria non fanno che appoggiarsi su vecchie e sicure convenzioni, i vecchi problemi consunti, i soliti improvvisi risalti. Il film che ottiene maggior successo è The Postman rings always twice e naturalmente in esso l’accento cade più sul delitto e sul castigo che sul movente: una primitiva passione sessuale. Da qualche lettore francese Raymond Chandler può esser ritenuto, a torto, un romanziere altrettanto serio quanto James Cain, e Chandler e Cain possono sembrare altrettanto seri quanto Hemingway. Il nuovo film di Chandler, The Blue Dalia, assomma in sé due temi alla moda: la violenza e la psiconevrosi. Her Kind of Man è molto vicino alla formula. Paul Muni, James Cagney, mitragliatrici, giochi d’azzardo, inseguimenti, posti di polizia. La durezza e la brutalità del dialogo di questo film sono convenzionali quanto i sentimenti patriottici di due o tre anni or sono. In The Blue Dahlia uno dei personaggi osserva: «Io non sarò porco come quello là» e l’eroe domanda «Che specie di porco sei, tu?». Potremmo lodare questa rinascente moda del pessimista film di gangster, se esso rappresentasse l’onesto sforzo di considerare e valutare la violenza latente nel mondo attuale. Potremmo anche ricordare che ogni generazione di dopoguerra, dal 1789 in poi è stata ugualmente posseduta dalla violenza: il falso misticismo, gli studi di criminalità, e una scienza esoterica sono i postumi inevitabili di ogni catastrofe politica ed economica. Les Visiteurs du Soir riflette un’inquietudine umana certamente pari a quella di Juliette e Justine, e le teorie di Saint-Germain sono in auge oggi a Los Angeles come lo furono a Parigi centosessanta anni fa. Ma non credo affatto che i recenti film di gangster rispecchino siffatte preoccupazioni spirituali. Al contrario, non fanno che confermare quanto già sappiamo: e cioè che il cinema, col suo terrore delle idee nuove, utilizza nel 1946 ogni formula che abbia già provato la sua buona riuscita. 215
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Tuttavia qualche luce di speranza balena a volte nella convenzione. La Hollywood Writers’ Mobilisation ha pubblicato una relazione in cui si riconosce la inferiore fattura dei film di Hollywood. Alla proiezione d’un film inglese fatto con serietà, Love on the Dole, seguì una discussione alla quale partecipò anche il pubblico. Le conclusioni potranno sembrare ovvie a ogni lettore italiano provveduto, ma il solo fatto di venire direttamente da Hollywood le rende interessanti: «Le qualità tecniche di facilità e di piacevolezza non compensano affatto la perdita di valori più solidi. L’evasione può avere il suo posto, ma troppo spesso il pubblico del cinema americano è spinto ad evadere verso mondi immaginari, più fantastici di quelli, piacevolmente colorati, dei racconti di fate». Perfino i buoni film americani affondano le radice nella cultura e nella esperienza comune del popolo molto meno di quanto non facciano i buoni film europei. La “maniera artistica”, derivata dalla confezione, non riesce a nascondere l’assenza di realismo nei moduli del film americano medio. Altro motivo di speranza sta nel numero sempre crescente di produttori indipendenti che si staccano dalle grandi Case per produrre film con i propri mezzi: fra gli altri, Frank Capra, William Wyler e Leo McCarey. Attualmente, 110 case indipendenti lavorano a Hollywood e producono da due a trecento film. Infine, la Screen Writers’ Gruld – un’altra associazione di sceneggiatori – ha presentato un progetto secondo il quale gli scrittori e gli sceneggiatori possono conservare un controllo sulle loro opere. Il progetto propone che «il materiale letterario ormai sia ceduto alle Case di produzione solo per un determinato periodo di tempo» piuttosto che venduto a forfait. In questo modo, lo sceneggiatore continuerebbe ad avere alcuni dei «diritti morali» che ha normalmente in Europa, ma che in America cede quasi sempre. Avrebbe allora il diritto d’esigere che The Short Happy Life of Francis Macomber sia fondato più sull’ossessione dell’impotenza sessuale che sulle eccitazioni d’una caccia grossa.
Ugo Casiraghi
John Ford e la stanchezza del cinema americano [I parte: numero 5 – dicembre 1946] [II parte: numero 6 – marzo 1947]
I. Siamo sempre in attesa degli ultimi film di John Ford: in quanto diciamolo subito, né Viaggio senza fine, né Com’era verde la mia vallata ci hanno soddisfatto. Gli americani pare abbiano messo il veto a Furore e alla Via del 216
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tabacco. Tuttavia, così a occhio, noi non chiediamo, già in partenza, che Ford sia riuscito a rappresentare con tutta la bruciante realtà dello schermo il fermento sociale che sta alla base di Furore. Questione d’ambiente, per cui Ford, alle prese con soggetti di vasto significato politico, non potrebbe assolutamente isolarsi dal clima di produzione generalmente ostile. Comunque il cinema americano, tutto il cinema americano, è oggi dal punto di vista espressivo su una ben netta discendente. Praticamente i migliori registi, Vidor, Capra, Wyler, Ford, non possono più dirigere i film che realizzavano parecchi anni fa. Come miglior regista d’America è addirittura considerato Hitchcock, un inglese grosso come un pachiderma, quanto mai artificioso con le sue trame macchinose e superficiali, con la sua psicologia da salotto. Hitchcock fa un film all’anno e qualche volta due, e tutte le attrici vogliono lavorare con lui, persino la nostra Alida Valli, che Iddio la benedica. King Vidor, invece, non trova lavoro molto facilmente, e si salva ricorrendo ai romanzi di grande successo, come ad es. La cittadella. A proposito di romanzi, tutti quelli più venduti vengono, in America, ridotti e portati sullo schermo (non se ne dimentica uno). La signora Miniver, con Greer Garson che rinnovella i fasti della Myrna Loy, è stato naturalmente un successone, anche se la regia di Wyler appare lontana da quello stile duro, scabro e deciso della Calunnia (press’a poco come quell’inferno di bambina, Bonita Granville, era lontana dalle stucchevoli bimbe-prodigio di anche recentissima memoria). Ad ogni buon conto il pubblico italiano, dopo aver battuto la grancassa per La grande pioggia, trova che è stata una delusione. Frank Capra ha confessato abbastanza apertamente i suoi pensieri su questa enorme macchina che fa capo ai grossi trusts capitalistici, e che, messa in vorticoso moto ormai da tanti anni, minaccia di travolgere sempre più ogni iniziativa dell’ingegno. Ma non solo dell’ingegno: anche nel campo dello spettacolo del puro spettacolo di cassetta, la loro vena si va inaridendo, e la fantasia cerca inconsueti foraggiatori. Tuttavia le ultime scoperte lasciano piuttosto a desiderare. Il nuovo comico Danny Kaye, per esempio, non è neanche all’altezza di Eddie Cantor, Betty Grable non è né Rita Hayworth (come avvenenza) né Eleonor Powell (come ballerina), e neppure, giurabacco, Mae West. La trama di Amanti senza domani viene rifatta sino allo sdilinquimento. Charles Boyer troneggia, sempre uguale, con quella monotona vena sulla fronte e quella buffa nossa massiccia, che si stira nella tragedia. Greta Garbo prende in giro se stessa (non le restava altro). La Metro Goldwyn Mayer realizza tutto un film imperniato su una cagna, Lassie, e naturalmente, qualche mese dopo, ecco scodellato un Son of Lassie («il figlio di Lassie»), ed ecco richiesta la collaborazione – mediante congruo compenso – della scrittrice Rawlings, quella del Cucciolo. Henry Koster, quello di Deanna, alleva altre stelline: le quali un giorno si sposeranno, ingrasseranno, si dimenticheranno. Reinhold Schünzel (altro tedesco, come pure Wilhelm Dieterle: stra217
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no, una volta i tedeschi si chiamavano Stroheim, Murnau, Sternberg, Fritz Lang), Reinhold Schünzel cerca di accoppiare baritoni da Metropolitan come Nelson Eddy, a chellerine continentali come Ilona Massey. Dopo il giallo, il giallo-rosa, il film cantato, il film di gangster, il film-rivista (impera oggi Vincente Minelli, più di Busby Berkeley), non è tanto facile trovare altre formule. Un attore come Paul Muni è passato dalla rude violenza di Scarface, Io son un evaso, Il selvaggio – attraverso gli studii fisionomici della Buona terra, di Pasteur e di Zola – all’incredibile gigionismo scenico di A song to Remember (ma poi ricordiamo quell’atleta di Chopin), Uragano all’alba, La baia di Hudson: il che è molto significativo per tutti. Si tenta oggi il film psicopatico, il film psicoanalitico, ma con poco successo. Vorremmo esser pessimi profeti, ma ci sembra di veder cadre gli americani verso una forma tutt’affatto nuova di espressionismo: cosa che, dati i loro precedenti storici, il loro stile mentale e la loro cultura d’arte , non può non apparirci micidiale. Quando fanno sul serio, quando un produttore come Albert Lewin, dopo aver guadagnato miliardi con la Metro, si prende la licenza di creare un film a proprio uso e consumo (un’impresa da snob), ne esce una laccatura gelida, senza respiro, un’ambientazione sovraccarica e studiata, ma posticcia, senz’anima: un’avvenuta ben lontana dal grande cuore del cinema, almeno di quanto è distante dalla vita Il ritratto di Dorian Gray. Del resto, invece di scavare nella mentalità americana, pare che laggiù si sian proprio decisi a copiare l’Europa, e di terza o quarta mano. E non trascurano, com’è loro costume (ma spostandole in una direzione piuttosto incivile), le prepotenze, quelle senza eufemismi. Ad esempio, per aver mano libera, minacciano di distruggere tutte le copie esistenti di Alba tragica, il film francese che si apprestano a “rifare” come a suo tempo avevano “rifatto” Pepé le Moko. Da certe rielaborazioni vengon sempre fuori delle caricature, delle caricature magari emozionanti (thrilling, come dicono loro), ma comunque non meno “divertenti”. Il loro scopo, il loro segreto sono eternamente qui: rabbrividire magari, ma, perdio, divertirsi. Infatti le terrificanti trasformazioni del dottor Jekyll non potevano certo fermarsi (chi l’aveva pensato?) al bel film di Ruben Mamoulian. Oggi l’americano Victor Fleming non concepisce più la vicenda come l’armeno Mamoulian, come quell’uomo di cultura immerso in un clima sognatore e realistico nel contempo, avventuroso e psicologico. Fleming, della Metro, comincia con l’adoperare lo stesso attore dei suoi precedenti film, Capitani Coraggiosi e Gente allegra e Spencer Tracy, visto col deformatore e diventato Hyde con l’ausilio di laboriose dissolvenze appiccicate, è, in sostanza, appena «un po’ più brutto» del normale. Rabbrividire va bene, però fino a un certo punto, con un certo garbo. Dev’essere una gradita sensazione, giù per la spina dorsale. L’amichetta, è chiaro, non riconosce mica, in Hyde, Jekyll. E il film va avanti («è consigliabile vederlo dal principio», dice, questa volta, anche la pubblicità). Ingrid 218
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Bergman, stata suora nel seguito della Mia via, recitando a spron battuto compone sì una donnina leggera, ma nel contempo pura, quasi angelica, rubando la parte a Lana Turner la quale, col suo temperamento tutt’altro cha angelico e con le sue labbra sensuali (apprezzate anche da Jekyll), viene ridotta alla figuretta oleografica di Se mi vuoi, sposami. Il pubblico americano – purtroppo, non solo americano – ama svisceralmente i proprii beniamini. In Dr. Jekyll e Mr. Hyde ce ne sono tre: il film diventa così un buonissimo pretesto per esibizioni facciali a spettacolo continuato. *** Di quest’atmosfera da spettacolo continuato, di quest’ambiente scombussolato nella sua coerenza, immorale, retrivo e ormai fradicio, un regista come John Ford non può non soffrire. Come mestierante ci sguazza, ma come artista ne risente. Anche se, volere o no, come artista egli sarà sempre un grandissimo mestierante, un tecnico sopraffino. Prendiamo come esempio l’ultimo film apparso da noi, Com’era verde la mia vallata. Illustrazione voluta del romanzo omonimo di Richard Llewellyn, essa non cade nell’oleografismo spicciolo e sfacciato soltanto perché sorretto dal mestiere potente del regista. Il nome di Ford, si sa, è legato alla storia ultima del cinema americano, specialmente sonoro. Egli si oppose fin da principio al parlato al cento per cento, e diede l’esempio con numerose produzione sorrette, dal punto di vista tecnico, da una consapevole “costante immaginifica”. La pattuglia sperduta fu una tappa, e il coraggio impiegato nella realizzazione di quello scarno ed emozionante film senza una donna, rimarrà memorabile. Poi vennero Il traditore, ritenuto il suo lavoro più rappresentativo, e molti altri. Ford non compì mai l’errore di isolarsi, di irrigidirsi in posizioni artistiche e morali, come Stroheim ad es., e come, in parte, Vidor. Egli concesse molto anche all’industria. È un uomo che s’è fatto i calli sul cinema, il cinema inteso in tutti i sensi. Firmò persino un film con McLaglen accanto a Shirley Temple, il che può apparire addirittura il colmo della degradazione. Ma poco dopo realizzava Ombre rosse, rivelando un altro formidabile ragazzone muscoloso e dall’apparenza ingenua, più puro e più giovane di McLaglen, John Wayne, ripreso ancora da lui in Viaggio senza fine. Ogni film di Ford insomma, o ci dice qualcosa sulla evoluzione particolare del regista, o c’illumina sugli aspetti del clima di lavorazione, ed anche sugli ultimi appigli d’una sempre più vasta (come s’è detto) e sempre più miope produzione commerciale. John Ford è il dominatore di Hollywood, e la vittima nel contempo. Non firmato da lui, Com’era verde la mia vallata (ribattezzato Com’era verde la mia valle, ma evidentemente con minor senso dell’armonia) sarebbe un lavoro insopportabile, e niente gl’impedirebbe di raggiungere il piano pretenzioso e amorfo d’un David Coppefield, d’un qualunque film, cioè, messo in 219
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piedi da duecento specialisti della Metro o della Fox con tutti gli eccessi d’un lacrimevole spurgo verbale e d’un tranquillo romanticismo d’occasione. Invece è stato insignito in America di un premio importante, è stato accolto all’estero ovunque con grande simpatia e cresimato dal nostro pubblico con applausi frenetici e convinti, di quelli che, purtroppo, come si dice, “sorgono nel cuore”. Il romanzo di Llewellyn appartiene alla tipica letteratura anglosassone di ricostruzione storica e di rievocazione ambientale. Immaginiamo Ford alle prese con un soggetto simile, che ad ogni momento rischia di suonar falso, di rendersi incredibile e retorico; Ford, che nel Traditore era ricorso a un’azione che gli urgeva nel sangue, la vita della sua Irlanda nel periodo della repressione e dell’oscurantismo, sentita con lo stesso battito di Liam O’Flaherty che gli offriva trama e paesaggi grondanti attualità, densi di chiaroscuri psicologici e d’improvvise luci religiose e sociali. Ford, il tipo più antiletterario, il meno sdolcinato, lui che dal Cavallo d’acciaio su su fino alla Pattuglia sperduta, a Ombre rosse, al recente They Were Expendable (intessuto su reali impressioni di guerra marinara nel Pacifico), attraverso un duro lavoro di più di vent’anni aveva sempre eliminato ogni mediazione tra se stesso e il mondo da ritrarre; Ford, che quando s’era trovato dinanzi il testo bell’è fatto di Maxwell Anderson per Maria di Scozia, era annegato come un semplice pulcino implume. Immaginiamoci questo Ford alle prese con una linea di racconto che, a differenza persino di quelle di Furore o della Via del tabacco (pur fortemente tiranne in partenza, ma almeno larghe di suggerimento e di possibili evasioni o approfondimenti), lo riporta a un passato ormai troppo lontano, lo tiene con le mani legate su certe figure già stabilite, su un ambiente cristallizzato, su contrasti sociali, umani e religiosi che hanno soltanto un respiro fittizio e, per di più, da non modificare assolutamente, da non travisare per nessuna ragione! Chiunque altro sarebbe crollato, al posto suo; e invece lui cade in piedi, verniciando il suo film con un uso spesso così accurato del mezzo tecnico, con una sapienza così matura nel guidare certi attori, nel dosare certe luci e nell’approntare certe scenografie, che davvero c’è il pericolo di dar per buone delle cose che non hanno un’anima, né una vera sostanza polemica. *** Che cosa significa, possiamo chiederci, il commento parlato che accompagna la proiezione? Dovrebbe voler dire che quella famiglia, quell’ambiente e quella storia sono visti da un particolare angolo prospettico, ch’è la sensibilità accesa del fanciullo che s’apre alla vita e impara a considerarla, a giudicarla sotto il proprio limitato, ma puro, orizzonte. Lo stesso sarebbe dovuto accadere in Rebecca (per citare un altro libro e un altro film forse 220
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d’un calibro non molto inferiore), dove la protagonista che racconta, cioè la seconda moglie, si sforza invano di dare un “tono”, una “luce” a tutto il dramma. E così, nel film di Ford, lo spirito del fanciullo, che prenderà la risoluzione di abbandonare la vallata, rimane praticamente inalterato e troppo passivo di fronte agli avvenimenti, sempre con gli occhi spalancati. Quindi la storia non è vista dagli occhi del fanciullo, ma non è vista neppure dagli occhi di un “grande”. Manca il giudizio su tutti i fatti che accadono, come manca la ragione profonda di tutte le psicologie. E nessun avvenimento attinge a una conclusione, o riesce a chiudersi in un ciclo di premesse ed affetti. Una altra tranche de vie, del peggior senso. A sbalzi, con la più serena tranquillità di questo mondo, minatori scendono dall’unica strada del paese o la risalgono, figli partono per il lavoro in altri luoghi o ne tornano, uomini cantano in coro o stanno zitti in ascolto o in attitudine minacciosa. Così la ragazza e il pastore, che pure si amano, si dividono per ritrovarsi da ultimo: ma fino a qual punto? Il film non lo dice né, dati i presupposti, lo poteva dire. Un giorno il padre sale dalla miniera tenendo un figlio morto; alla fine l’unico figlio rimasto (quello che racconta al storia) riporta alla luce il vecchio padre, a sua volta morto in un incidente di lavoro. Ma neppure il padre, anche se vien elogiato dalle parole conclusive, è o poteva essere il vero “centro” del racconto. Il film, non avendo un centro, potrebbe quindi proseguire indefinitamente. Senonché Ford, da quel superbo e sbalorditivo artigiano di natura che è, ha ben compreso che la materia gli sfuggiva alle mani, e ch’egli soltanto per altre vie (non le più legittime, d’accordo) v’avrebbe fatto piover sopra la propria illuminazione, se non concettuale, almeno formale. Sorretto dunque da quella sua tecnica a volte sobria e stupenda, egli, anche così ridotto a mal partito, riesce a sfiorare, qua e là, una posizione idealistica e romantica della vita, che noi gli conosciamo dal Traditore e da Ombre rosse, dove tuttavia le immagini nascevano, già in partenza, da un’adesione spirituale completa a una certa “tesi”. Qui però, non soltanto l’adesione è parziale e momentanea, ma anche la tesi è diversa, o in effetti non c’è. Tuttavia, con questa sovrastruttura assai più scoperta del solito, che produce da esempio le parole del pastore nella chiesa (piacevole a udirsi) o quelle della madre alla riunione notturna sulla montagna, Ford è riuscito ad ingannare sia l’Accademia americana che gli ha dato il premio, sia il nostro pubblico che, tutt’ora legato a schemi che dovrebbero essere ben superati – cioè a emozioni illogiche, non causate dalla vera essenza e ragione dei fatti, ma da certa loro mistificazione irreale e, in fondo, disumana –, ha pianto le lacrime più calde, quelle che non piangeva da tempo. Ma le lacrime, come diceva Flaubert, sono un brutto segno per un’opera d’arte; come diceva Hebbel, offuscano gli occhi e impediscono di vedere.
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II. Attualmente in Isvizzera (e dicendo «Svizzera» intendiamo tutta una mentalità, più snobistica che profonda, più epidermica che umana, abbastanza riconoscibile e individuabile anche tra noi), attualmente in Isvizzera, oltre naturalmente a Hitchcock, il cui Spellbound è passato già da un paio di mesi, e ad Orson Welles, si fa gran conto, si lanciano termini grossi e si parla di «capolavori» a proposito di Billy Wilder, sceneggiatore e regista di Double Indemnity – venuto in Italia col titolo idiota La fiamma del peccato, titolo che noi espressamente ci rifiutiamo di adottare – e del pregiatissimo The lost Week-end, pagine di diario di un giornalista alcolizzato. Non saremo certo noi a disconoscere gl’indiscutibili meriti di film come questi, ma nel contempo stiamo attenti a non trascendere i limiti abbastanza evidenti di un regista che è acuto conoscitore dello spettacolo, ma che dice ben poco di suo. La distanza tra Double Indemnity e un qualsiasi film di Hitchcock – costruito progressivamente per una “tensione”, come La ombra del dubbio, non è eccessiva. In fin dei conti Wilder (che è di origine austriaca) elabora trame di romanzieri americani, così come Hitchcock (anch’egli europeo, anzi del paese di Scotland Yard) aveva elaborato i dialoghi dell’uomo di teatro Thornton Wilder. La tensione di Billy Wilder proviene in gran parte da frasi di James Cain come: «c’era un profumo di gelsomini; non sapevo che il delitto avesse il profumo dei gelsomini». Ma il volto dell’attore Fred MacMurray, nell’interno dell’auto, non esprime né il calore della giornata, né il profumo dei gelsomini, né (perché questo era assolutamente impossibile) quello straordinario incitamento al delitto, che dal profumo dei gelsomini – secondo Cain – e dell’attrazione carnale della donna appena vista – secondo quello che il film avrebbe dovuto essere – gli derivava in quella soffocante giornata. A significare tutte queste sensazioni pensa il racconto rievocato dallo stesso attore al dictafono. E il film va avanti, com’era prevedibile, ed anzi giunge in porto in maniera molto eccellente. Vien da dire «bravi!» di cuore ai realizzatori. Ma sappiamo noi forse qualcosa di più sull’America, sulle agenzie di assicurazioni, sulla perversione criminale della donna impersonata con grande scaltrezza ed efficacia da Barbara Stanwyck? Non è forse vero che la vicenda di Double Indemnity potrebbe svolgersi in ogni parte del mondo dove vi siano un marito, una moglie e un agente d’una qualsiasi agenzia di assicurazioni, senza troppo scandagliare sulla verità e sui personaggi? Davvero è una cosa grave quando il film non rivela, con indiscutibile precisione, il proprio marchio d’origine. Provate invece a togliere Variété dal suo ambiente tedesco, se vi riuscite; o Tabù dal suo clima esotico, o La madre dal fermento della rivoluzione in marcia. Forse siamo un po’ irriverenti, ma siccome qualcuno ha parlato, per questo film, d’una nuova direzione della cinematografia americana, ebbene noi ci sentiamo di definire Double Indemnity una trama ed una realizzazione, superiormente congregate, per vagoni222
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letto internazionali. Il che è terribilmente nello spirito del cinema americano; da cui neppure Wilder, ultimo rampollo europeo d’ingegno, ha saputo uscire. Figuratevi se ne sono usciti i mestieranti della Metro, pur con tutta la loro buona volontà! In Dr. Jekyll e Mr. Hyde c’è un esempio molto carino. Si sa che il film citato è un film commerciale; ma si sa anche che in America, da qualche anno, vive Salvador Dalì; a furia di lavorare per le riviste eleganti e commerciali d’America, ha pure insegnato che, dall’altra parte dell’oceano, c’è stato del surrealismo. Il surrealismo dunque è di moda? Perché rinunciare al surrealismo? Questo è, per loro, uscire dagli schemi consueti. Tanto più se, nel film, esso può venire al punto giusto, ad “aggirare” l’approfondimento umano, o per lo meno psicologico, della metamorfosi di Jekyll. Quindi donne seminude inseguite da tigri, e braccia uscenti da torrenti di lava. Il che non sappiamo fino a qual punto, in sostanza, potrà accontentare il pubblico. Anzi, i pubblici: quello che va al cinema per vedere Spencer Tracy, Ingrid Bergman e Lana Turner e quello che conosce il surrealismo. Oggi si può parlare veramente di «stanchezza del cinema americano», perché questa stanchezza coinvolge oltre i migliori, anche la produzione corrente. Ci si dirà che il cinema americano continua a mantenere i propri mercati, ma noi rispondiamo: fino a quando? e, soprattutto: in che modo? La nostra analisi non si basa, qui, su concetti puramente estetici: noi vogliamo dire che per il cinema americano sono già tramontate, oppure stanno per declinare, tutte le sue formule spettacolari. E potremmo avvalorare la nostra affermazione continuando a citare gli ultimi ritrovati e i più recenti “sistemi” delle case americane. Ma per fermarci agli esempi già prodotti, noi sosteniamo che una decisa impostazione data ai loro film sarebbe stata, sì, meno comoda, ma nel contempo assai più efficace e dignitosa anche come effetto sul pubblico. Dov’è andata mai a finire, nell’ultimo Dr. Jekyll, il racconto di Stevenson, dal quale Mamoulian s’era bensì allontanato, ma con scopi ben precisi di ambientazione ed anche di psicologia (il personaggio di Miriam Hopkins)? Nel film di Mamoulian, se non altro, il terrore era terrore, la lubricità (come nella scena della taverna ridotta nel film di Fleming a rappresentazione per le scuole elementari), e una gamba nuda penzolante dal letto era una gamba nuda penzolante dal letto. I concetti erano se mai lietati, ma quelli che c’erano, erano concetti e non surrogati. Ben diversamente nel nuovo Dr. Jekyll, dove tutto è ostinatamente giocato sui primi piani, mentre sarebbe stato per lo meno più “emozionante” profittare dell’atmosfera e della situazione. Al contrario, nell’Ombra del dubbio e in Doppia indennità già citate, Joseph Cotten e Barbara Stanwyck compaiono quasi sempre in figura intera. Insomma, gli americani hanno tentato una psicologia da baraccone a proposito di un soggetto come il Dr. Jekyll che, a non voler rifare smaccatamente il film di Mamoulian, si 223
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prestava a diventare un discreto “giallo”; e hanno tenuto in un tempo da “giallo” un viluppo quasi dostojevskiano come quello di Double Indemnity, dove gli elementi più interessanti erano proprio i personaggi (infatti Fred MacMurray e Edward G. Robinson sono in diversa misura falliti: troppo ottuso il primo, e troppo macchiettistico il secondo). Può darsi che il caso di Billy Wilder sia, in certo modo più “serio”. Meglio non insistere troppo su certe psicologie – possono aver detto i soliti produttori –, meglio non scandagliare troppo certa vita americana. Preferibile navigare nell’anonimato. Consigliabile il thrilling puro e semplice. Billy Wider l’ha eseguito elegantemente ed è stato anche applaudito; ma il cinema americano oggi non ha speranza di rinnovamento, se non si rinnova e non progredisce, nello spirito e nei mezzi, certa “democrazia” americana. Quanto poi alla “trovata” di fotografare l’attore Ray Milland, protagonista di The lost Week-end, per le vie d’una città, in mezzo al traffico vero, l’episodio deve aver suscitato scalpore in una Hollywood abituata a falsificare igienicamente anche l’erba e i fiori. Tant’è vero che la Svizzera, attraverso al sua stampa, molto indicata a riflettere le emozioni, le ambizioni e le scoperte di Hollywood, ci dà sempre, di trovate di questo genere, sotto la patina dell’impegno artistico, un quadro il più possibile thrilling, anche per noi. Ci resterebbe da parlare delle personalità in certo senso indigenti, ma che tuttavia lo furono e lo sono in maniera sempre più limitata. In prima linea gli stranieri come Lang, il cui Scarlet Street rivela evidentissimi i segni delle riduzioni e delle rinunce, e come Renoir, il cui Southerner si rifugia spesso nella forma e il cui Diario d’una cameriera si rifugerà forse nel costume e in un momento storico sorpassato. Sotto questo punto di vista, lo stile di Ford in Viaggio senza fine non è un rifugio voluto, ma forse una limitazione già inerente alla materia d’origine. Infatti Viaggio senza fine, a volte pregevole dal lato formale, manca però d’una precisa direzione psicologica e umana. Alcuni personaggi parlano per lungo tempo di seguito, cosa piuttosto rara nei film migliori di Ford, come s’è detto. Il film, d’altra parte, comincia con una lunga sequenza muta. Squilibri evidenti, salti di temperamento. Quella sequenza è abile dal punto di vista tecnico, ben montata e, situata com’è all’inizio, “fa presa”; ma le donne giù a terra, come sono artificiali! Non c’è (per effetto di Hollywood) vera sensualità, ma (per mancanza di Ford) non c’è neppure vera attrazione nostalgica. Tant’è vero che, quando le donne salgono a bordo, noi non crediamo all’orgia che come a un pezzo di bravura. E così per tutto il film. Serpeggia in molti brani (un film tutto a brani) una letteratura che ha esaurito il suo tempo. Motivi del Traditore sono ripresi di pari passo. Le donne nella taverna sono donne tristi e leggere, si direbbe che non hanno il coraggio di esserlo. Esattamente come la prostituta Ingrid Bergman di Dr. Jekyll e Mr. Hyde. E ci dispiace il dirlo trattandosi di Ford. Sono proprio difetti inerenti a certe parti di rievocazione verbale della Pattuglia 224
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sperduta, ampliati; ma qui le donne ci sono! La letteratura, come a molti altri che vi si gettano di conserva, gioca a Ford, praticone col cinema, cresciuto nel cinema e per il cinema, cattivi scherzi. Ma non solo la letteratura: anche i produttori che gli chiedono, quando meno te lo aspetteresti (come in Viaggio senza fine), pistolotti di propaganda. È anche lo stare troppo vicino a certa mentalità, che gli deve impedire una visione del mondo più completa. La colpa non è sua, anzi egli rimane sempre uno dei grandi uomini di cinema americano; ma noi nutriamo serie riserve anche per Furore e per La via del tabacco, nonostante le parole entusiastiche di Alberto Lattuada (o forse, in gran parte, proprio per esse). Tutti sanno che vorremmo, invece, venir contraddetti. Ma non essendolo stati, e non avendo intenzione di andare in Isvizzera, potremo ugualmente vedere Furore?
Il’ya Erhenburg
È un film Paramount [numero 6 – marzo 1947]
A Broadway un metro quadrato costa più caro d’un vasto dominio in uno Stato lontano: è il terreno più caro del mondo. Sul terreno più caro sorge il tempio più caro. Per guardare bisogna rovesciare la testa indietro, come, un tempo, gli uomini guardavano Dio e le stelle. Il tempio, coronato da un’enorme cupola di vetro, è alto 139 metri. Di notte, la cupola trasmette segnali agli aeroplani e, di giorno, riempie di fierezza il cuore dei passanti. La costruzione del tempio è costata sedici milioni di dollari in cifre tonde. 36 piani, 12 ascensori che funzionano ininterrottamente. Ai quattro punti cardinali, quattro quadranti giganteschi dànno l’ora a New York. La porta principale del tempio è più alta di tutte quelle degli altri templi, è già più alta di quella di Notre Dame a Parigi e di San Pietro a Roma. Nell’interno, folle di servitori affaccendati, vestiti con strampalate uniformi; trionfano i marmi, i bronzi, i quadri antichi; il ticchettio di migliaia di Underwood, e il canto soave delle arpe angeliche. L’europeo profano è magari propenso a dubitare della santità del luogo; pensa che si tratti della Borsa, o anche di una banca – ma, appunto, non è che un europeo profano. No. È proprio un tempio, il santuario di un culto nuovo, ed è consacrato ad un instancabile apostolo: al grande Paramount, al secolo Adolph Zukor. Vasto è il tempio e numerosi sono i riti che vi si celebrano. Al pianterreno giovinette anemiche piangono sulle sventure di due innamorati, al 24° contabili trafelati addizionano numeri di sette cifre; nella quiete delle camere interne, ombre leggere gemono nelle loro cuccette – è l’infermeria per gli impiegati sfiniti; nella stanza tranquilla, dietro una porta monumentale, quat225
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tro volte la settimana Adolph Zukor applica il suo impareggiabile cervello. Americano, osserva la domenica: ebreo, osserva il sabato. Così il suo riposo comincia di venerdì; si riposa tre giorni; quattro giorni lavora. Oggi è martedì e Zukor è al suo posto, ad esaminare le carte ammonticchiate sul tavolo. Quando è nel suo studio e nessuno lo osserva, Zukor non sorride, ha la bocca contratta, cosicché non somiglia affatto alle fotografie che il suo ufficio pubblicità diffonde a migliaia di copie. Se sorride in pubblico, è solo un indice del suo buon cuore e della sua solidità commerciale. Ma in questo momento è scuro in volto: i Warner Brothers sono stati più furbi di lui. Di primo acchito non aveva creduto, lui, al film parlato. Furono i Warner Brothers, per primi, ad apprezzare nel suo giusto valore il brevetto delle «Western Electric». Produssero il Cantante di jazz. Erano alla vigilia del fallimento – una piccola società: Zukor avrebbe potuto comperarla senza tergiversare, ed ecco invece che i Warner Brothers si mettono a rivaleggiare con la Paramount. Controllano la «First Nazionale». Arraffano le sale di proiezione. Tutto dopo un solo film. E che stupido film. Vogliono che un bambinetto ebreo diventi un rabbino, e lui resiste: credereste che voglia diventare un artista... Per un momento Adolph Zukor dimentica tutto ciò che lo circonda, non guarda più le pagine delle cifre, i trofei della Warner Brothers. Vede soltanto una candela gialla, i sottili arabeschi del Talmud e la mano rinsecchita del rabbi. Non è la sceneggiatura di un nuovo film parlato – sono solamente dei ricordi. Sotto le cupole di vetro, il lavoro non conosce soste. Ogni uomo, del resto, ha diritto di ricordare l’infanzia, anche un uomo indaffarato come Zukor. Non è nato là, sotto la cupola di vetro, Zukor; è nato lontano, tra gli ebrei pii e le oche schiamazzanti, in mezzo ai campi miserabili e alla saggezza divina, in una piccola borgata ungherese chiamata Riscè. A quei tempi non si conoscevano ancora, in questo mondo, le magiche strisce di celluloide che portano agli uomini la speranza e i denari. Allora i pii ebrei erano ligi ai buoni vecchi costumi. Lo zio del piccolo Adolfo, Libermann, esplicava importanti funzioni – era presidente della Comunità. E desiderava che suo nipote suscitasse la Speranza tra gli uomini. In altri termini, voleva farne un rabbino. Adolfo fu messo a scuola di Talmud, dove imparò quale carne un buon ebreo può mangiare e a che età può conoscere la sposa legittima. Pensava ai Gentili colpevoli e a jeova vendicatore. Tutt’intorno a lui si agitavano i Gentili, cioè gli ungheresi, gente che beveva acquavite di prugna, cantava canzoni nostalgiche e sgozzava maiali anchilosati dal grasso. Adolfo ripeteva le parole dell’Unica Sapienza: «Ora soffiando verso il Sud, ora passando per il Nord, il vento gira, gira senza posa, ed eternamente ritorna sui cerchi che ha tracciato». La candela sfrigolava tristemente, le oche schiamazzavano dietro 226
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la finestra. Si era fuori del tempo e della vanità. Tutto ciò accadeva molto e molto tempo fa: sono passati ormai quarant’anni. Allora Adolfo aveva le guance paffute e le palpebre sognanti. Ma perché pensare al passato? – Zukor ha troppo da fare. Quando si riposa, gioca a bridge, o rimanda la palla con la racchetta, o misura col passo agile il campo di golf. Adesso, lavora. Il successo della Warner Brothers durerà poco: quei signori non faranno mai la forca alla Paramount. Al lavoro, dunque! In Inghilterra abbiamo: il Plaza e il Carlton a Londra, il Royal a Manchester, il Futurist o la Scala a Birmingham... Il lavoro sotto la cupola di vetro non conosce tregua. *** La biografia Adolph Zukor è molto più edificante della sceneggiatura del Cantante di jazz. Il nostro ometto non restò a lungo a fantasticare e ad ascoltare le strida delle oche; non era fatto per le esitazioni astratte. S’interessava molto di più alla regola degli interessi e al globo terrestre che a qualsiasi considerazione sulla vanità del vento. Il rabbino non capiva niente dello sconto delle cambiali, il rabbino credeva che la terra stesse ferma. Ma la piccola città aveva un maestro di scuola, il signor Rosenberg, il quale spiegò ad Adolfo che la terra gira. Adolfo allora smise di studiare le parabole del Talmud e cominciò a leggere romanzi. Storie di cercatori d’oro americani e di bugigattoli parigini. Rosenberg gli domandò tristemente: – «Vuoi diventare avvocato, non è vero? Il ragazzo ebbe una smorfia di disprezzo. – Quanto può guadagnare un avvocatuccio di provincia?...» No. Gli piaceva di più fare quattrini. Il capo della Comunità emise un sospiro e lo mandò a fare il garzone di bottega. E sia. Che impari il commercio. Quando Adolfo ebbe sedici anni decise di andare in America. Non per nulla aveva letto dei libri interessanti: aveva ben capito che un uomo dalle spalle larghe e dalla fantasia eccessiva non aveva nulla da fare in Europa. Adolfo portò a New York venticinque dollari e una fame gagliarda. Fece l’aiutante di tappezzeria. Poi lasciò i tendaggi per la pelletteria. Divenne pellicciaio. Era lavoratore e pieno d’inventiva: dopo neppure dieci anni aprì un negozio suo a Chicago. Quelli che rivendicano la priorità d’un’idea sono sempre numerosi; tanto i francesi quanto gli americani affermano di essere gli inventori del cinematografo. Certo, è vero che la Paramount fu fondata da Zukor, ma bisogna anche riconoscere che ci fu un predecessore. Quando Zukor vendeva colli di pelliccia a Chicago, un suo cugino, Max Goldstein, chiese in prestito a Zukor tremila dollari: voleva aprire uno di quei passages, dove i monelli e gli 227
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sfaccendati potevano vedere fotografie animate. Zukor, che è un uomo imbevuto di solidarietà familiare e insieme di buon senso commerciale, dette a Goldstein i tremila dollari. L’intraprendente Goldstein non tardò a fallire, e Zukor, in cambio dei dollari, si vide piombare sulle spalle il passage con le varie e stupide “attrazioni”. Non si perse d’animo. Abbandonò le pellicce per dedicarsi alle foto animate. Nelle sue mani l’affare prosperò rapidamente. Acquistò altri passages e degli Hale’ storing cars, in cui gli sciocchi venivano ad ammirare le cascate montane. Le cinque del mattino. Dopo una notte di lavoro, Zukor rincasa. La ferrovia sotterranea. Nel vagone le ombre oscillano tristemente, ombre lugubri della città enorme – camerieri di ristoranti notturni, operai, prostitute che non hanno avuto lavoro, plebe condannata a vegetare eternamente. Anche Zukor oscilla tristemente, sullo stesso ritmo degli altri. D’un tratto, un sorriso gli affiora sulle labbra, gli occhi gli si spalancano, ingrandiscono, divengono allucinati: il vicino, intimorito, cambia posto. Zukor lascia passare la sua fermata, non vede niente, non si ricorda di niente. Aveva ragione a ripetersi che, in fondo all’anima, Adolph Zukor non era un commerciante, ma un artista. Adesso l’ispirazione lo ha visitato: «Farò dei film con gli attori più celebri!...». – Presto. Ditemi qual è l’attore più celebre! Le ombre tacciono, il fracasso delle ruote continua imperturbabile. Ma sì, certo, quella francese... Vediamo un po’... Come diamine si chiama?... Ecco che si ricorda: Sarah Bernhardt. L’avvenire è assicurato. Ora tutto dipende da una sola cosa: bisogna trovare dei dollari. Anche questa è storia di tempi lontani, quando le donne portavano ancora busti antigienici e i socialisti erano ancora dei nobili sognatori. Il Diciannovesimo Secolo, con i suoi vaudevilles e i suoi giochi di parole, non si rassegnava a morire. Di giorno si nascondeva timidamente – di giorno, macchine complicate rombavano con un tono malevolo e, per le strade, le trombe delle automobili lo assordavano. La vita nuova si comportava grossolanamente, con una aria contenta di sé. All’officina Ford si svolgeva la celebre catena. Il Niagara domato si mise a distribuire i kilowatt e la schiavitù. A Filadelfia si costruivano locomotive potenti per il Canada e per l’Australia. A Filadelfia, come in tutte le città del mondo, gli uomini vivevano a precipizio. Talvolta guardavano il cielo: e in esso vagolavano i primi aeroplani. Ma più spesso guardavano la terra – guadagnarsi il pane diventava sempre più difficile. Apparvero gli autobus, i suicidi divennero più frequenti. I professori, sconcertati, spiegavano agli alunni che cosa fossero i trusts. Nella Repubblica ci furono un buon centinaio di re: il re del petrolio, il re dell’acciaio, il re del rame, il re del cotone. Era venuta l’ora della democrazia autentica: il tornitore fu messo sullo stesso piano del manovale – tanto faceva tutto la macchina. Certi sognatori ostinati lanciavano bombe sui borghesi, sui poliziotti o sem228
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plicemente sui passanti. La società Edison, per giocare un brutto tiro alla Compagnia Westinghouse, propose di utilizzare la corrente ad alta tensione per l’esecuzione dei condannati a morte, e così la volgare corda fu sostituita dalla sedia elettrica. Se lo sviluppo del gran libro fu rapido, l’accrescersi della disperazione fu addirittura vertiginoso. Di sera però, avvolto in una bruma azzurrastra, il secolo passato faceva ancora la sua comparsa in pubblico. Ardevano ancora lampade, dolci e intime, sopra le tavole familiari, le donne cercavano ancora d’immergersi nella lettura di romanzi sentimentali, e i bambini continuavano a giocare a domino o a bastoncini. I teatri mettevano in scena opere sontuose, favole, farse: e andarci, poiché non ci si andava spesso, era un fatto molto importante, un po’ come andare a una festa da ballo. Lei s’incipriava di nascosto, lui sfoggiava colletti particolarmente alti. Era di rito un giretto nel vestibolo e gli spettatori s’esaminavano con vicendevole simpatia, come se partecipassero tutti alla stessa festa. Durante gli intervalli fiorivano discussioni intellettuali, fra un grande spreco di cioccolatini. Si danzava soltanto ai «balli» veri e propri: vecchie danze d’un tempo, il languido valzer e la quadriglia cerimoniosa. I libertini andavano nei «bar» dove le prostitute agghindate ballavano, coraggiose novatrici, il cake-walk. Chi invece, al cader della sera, cominciava a sentirsi disarmata, sperduta, era la gente comune. Che fare in così lungo riposo? Chi è abituato ad affrettarsi tutto il santo giorno non può accontentarsi di fantasticare tra i braccioli della poltrona domestica. Dopo il ruggito delle macchine, il fracasso degli autobus, e i conti, e il fischietto regolatore – era impossibile leggere o discutere. – Se andiamo a trovare gli Smith? – No, senti, sono stanco. – Oggi danno una commedia nuova di Ibsen, all’Odeon. – Dio che barba... e poi, vestirsi... sono così stanco. – Raccontami qualche cosa. – Sono stanco, capisci, sono stanco... Stanno seduti l’uno di fronte all’altra, Jenny e Jack, Anna e Karl, Jean e Louise. Siedono e tacciono. Sopra le loro teste brilla ancora la buona vecchia lampada, ma cercheresti invano, in quella luce gialla, il riposo o la gioia. I due non avrebbero che un desiderio, cambiare vita: sfuggire alle cifre, ai registri, ai tasti delle macchine da scrivere, all’agitazione enorme, all’enorme solitudine. I due non leggono: in un libro ci sono troppe pagine, e poi leggere un libro non è una cosa semplice; bisogna intuire, ricordarsi, inventare. Chi è il protagonista? E la protagonista come sorride? Dove abita? In quale città? Sotto quale lampada? Ahimè, che fare nella serata tanto lunga... Restano seduti, in silenzio – in tutte le città del vecchio e del nuovo mondo – poveri forzati che hanno ore di libertà. 229
«La Critica Cinematografica»
Questo accadeva molti, molti anni or sono, in un’èra anteriore alla nostra, anteriore al cinematografo.
Sergio Romano
Furore [numero 10-11 – agosto-settembre 1948]
La filmografia di John Ford pubblicata da «La revue du cinéma» (n. 10) in appendice a uno studio di Peter Ericson, assicura che dal 1915 al 1922 Ford diresse «all’incirca trentacinque film di cui venticinque con il fu Harry Carey per interprete». Erano «western» in serie: ma il trentacinquesimo, girato nel 1924, è già il Cavallo d’acciaio che segna una data nella sua produzione. Da allora Ford ha diretto ancora una sessantina di film, di cui trenta almeno non sono mai venuti in Italia: di questi trenta ne vedremo cinque o sei, abbastanza recenti, su cui la stampa insiste pazientemente da qualche tempo; gli altri si sono persi per strada come The plough and the star del 1937: faccio solo un nome. Ci resta la speranza che in una produzione così abbondante, e per metà decisamente commerciale, incidessero poco sulla carriera di Ford: in realtà Ford è il regista più simpatico e meno conosciuto del cinema americano. Tutta la nostra curiosità è ora per i due film «sociali», Furore e La via del tabacco: anche Pietro Bianchi nell’ultimo numero della «Critica» scriveva «E il Ford dei film sociali?». La via del tabacco non è stata ancora proiettata in Francia, è passata di corsa in Inghilterra (sembra che molti critici non l’abbiano neppure vista), dicono sia giunta in Svizzera. Furore invece è più noto: l’hanno proiettato in Francia e l’ho visto in una saletta della perifera parigina dopo averlo rincorso per mezza Parigi: ultimamente lo proiettavano già nella “banlieu”: passando in autobus ogni tanto vedevo un cartellone Les raissins de la colère: finché non mi riuscì di vederlo fu ad ogni momento uno strappo al cuore. Quali sono i film sociali di Ford? In un certo senso l’incontro di Ford con la letteratura sociale è meno nuovo di quanto non sembri: The grapes of wrath e Tobacco road furono girati rispettivamente nel 1940 e nel 1941; nel 1935 e nel 1937 Ford aveva toccato due motivi della vita politica irlandese con Il traditore e la riduzione di una famosa commedia di O’Casey, The plough and the stars, L’aratro e le stelle. La commedia era una miniera di tipi e di immagini umane, disegnate facilmente, con una vena naturalistica che giungeva dritta dritta da Gorkij: raccontava lo scoppio dei moti irlandesi tra il 1915 e il 1916 accentrando i fatti e gli avvenimenti intorno a quattro o cinque famiglie d’un palazzo di Dublino. The plough and the stars arrivò in 230
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Francia come Révolte à Dublin: non credo sia mai giunto in Italia. Così finora chi volesse occuparsi dei film sociali di Ford avrebbe poche probabilità di documentarsi. Furore è una pagina di America amara: vi sono momenti molto potenti, come l’annuncio di sfratto ai contadini e la figura grassa d’un padrone che lo grida da una grossa macchina, in mezzo ai campi. Vi sono molte cose di questo genere: l’episodio del contadino che guida una trattrice contro le catapecchie dei suoi amici, i manganelli delle guardie che reprimono lo sciopero e avviano al lavoro i nuovi arrivati. Qui l’America è più amara che mai: i camion s’allungano uno dietro l’altro, entrano lentamente nel campo senza che nessuno sappia il perché di questo stato d’allarme: a ogni passo c’è un gruppo di guardie che ferma, chiede il nome, assegna la baracca, uomini grassi nella miglior tradizione del cinema americano. Ford dà tutto questo seccamente. Senza spiegazione: nell’altro campo dov’era rimasta alloggiata una notte, la famiglia di Tom Joad aveva visto una miseria nera, tende sporche e una folla di bambini spauriti che la guardavano arrivare con curiosità. La sequenza appartiene al Ford migliore, più immediato e incisivo: una lunga carrellata soggettiva, dal camion, che inquadra la folla accampata ai due angoli della strada: il carrello prosegue lento un po’ traballante, la folla continua le sue faccende con pesantezza di movimenti, solo voltando la testa e gli occhi, pieni di una indifferenza curiosa, verso la camera. Tuttavia Furore non è un film sociale. Di questo passo le affermazioni si complicano e sul filo di un ragionamento potremmo dire che Wyler è più sociale di Dmytrik, che Milestone lo è molto più di Donskoi. In realtà l’aggettivo è utile e vago: vuol dire molte cose, molto approssimativamente: non si adatta – questo è certo – a molte altre. Così Furore non è un film sociale, i personaggi non sono disegnati in profondità, polemicamente, si esauriscono in qualche annotazione umana che li rende avvilenti, e vivono sempre di un tratto fisico caratteristico. La lunga magra dinoccolata silhouette di Carradine è una conquista espressiva di Ford. In Ombre rosse il suo largo cappello bianco era una presentazione suggestiva, senza compromessi, lasciava un segno violentissimo, ma non profondo, nella nostra memoria. In Furore Carradine, nella parte del predicatore, è ai piedi di un albero, accoccolato sulle sue lunghissime gambe da trampoliere, con l’aria di un bambino esperto e buono, pazzo e allegro per saggezza. L’immediatezza e la felicità nel definire un personaggio sono la caratteristica maggiore di Ford. D’altra parte il suo linguaggio non è un linguaggio muto o per immagini: i suoi personaggi parlano, parlano senza risparmiarsi. In Furore Carradine ci dice perché ha lasciato la sua professione religiosa, Tom Joad esce sovente in battute polemiche e riflette moralisticamente sulle disgrazie passate e sugli anni trascorsi in prigione: e nelle prime inquadrature racconta la sua storia con spavalderia e con amarezza al camionista che gli 231
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concede un passaggio. In My darling Clementine Victor Mature non è soltanto un ubriacone, ma rivela le intenzioni letterarie di Ford: ha un passato misterioso che ci incuriosisce; ha la tisi, che nei drammi naturalisti di quarant’anni fa era una malattia squisitamente letteraria, e giunge a recitare Shakespeare in piedi su un tavolo della taverna, come quel vecchio attore dell’Albergo dei poveri che una sera strapperà una corda e correrà ad impiccarsi. Le intenzioni letterarie di Ford sono sempre un po’ rozze: se vien fatto di dire che i suoi personaggi sono mal definiti è perché l’ambizione al personaggio umano e profondo resta costante nei suoi film. Furore, sia pure con una certa impostazione polemica, resta un western, ne ha tutti gli elementi: la lunga corsa del camion attraverso il deserto è la fuga d’una diligenza che trasporta in luoghi sicuri un gruppo di persone; gli accampamenti pieni di miseria, le industrie sovraccariche di lavoro, i campi pieni di gente, dinanzi ai quali la famiglia Joad deve mutare itinerario, sono i posti dell’esercito che la diligenza spera d’incontrare sul suo cammino e che trova invece deserti; le scaramucce, le insidie, gli attentati, conservano lo stesso colore. Senza contare che il western in genere, e quello di Ford in particolare non è mai soltanto un film d’avventure: per My darling Clementine s’è parlato di western psicologico: in realtà anche Stagecoach era una diligenza piena di tipi umani che reagivano diversamente dinanzi al pericolo. Il caso di Ford resta quello di un regista simpatico alla critica e al pubblico che riesce qualche volta a seccare la critica con un film commerciale, ma non riesce mai ad annoiare il pubblico completamente. Furore è uno dei suoi film migliori perché l’impegno è più grande; è una pagina di vita americana, come, in un’altra direzione, molte altre di Capra. Avete mai provato a pensare Capra insieme a cento altri registi che hanno firmato commedie come le sue? Se vi riuscirete scoprirete che anche Capra ne acquista, e che ne salta fuori una pagina deliziosa di America “dolceamara”, per cui tutti hanno scritto una riga e che non si ricorda senza grande piacere. L’America “amaro-dolce” di Ford si completa con altri cento film, e non tutti di autore ignoto. La sua durata negli anni non è per nulla limitata: la Poesia è severa, ma lascia che molti altri binari le corrano accanto nel tempo.
Fernaldo Di Giammatteo
Disney e i colori [numero 10-11 – agosto-settembre 1948]
Di tutta la produzione mondiale di disegni animati non conosciamo che una parte di quella americana e qualche esempio di quella francese, appartenente del resto al genere più commerciale. La produzione statunitense si 232
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riassume in un nome solo, Walt Disney. Gli altri americani hanno fatto sui nostri schermi apparizioni così fugaci che a malapena riusciamo a scoprire i punti che li differenziano dai modelli disneyani. Dei disegni animati russi e tedeschi, di cui ci è giunta sparsamente notizia, non conosciamo nulla. Il disegno animato italiano, fatta eccezione per quattro o cinque tentativi ispirati quasi tutti ai motivi del Disney più dozzinale, non esiste. Un quadro così incompleto non ha certo contribuito a chiarire le idee, né può ora facilitare il nostro compito, che consiste nell’esaminare il valore dell’elemento cromatico nel film di disegni. È chiaro, perciò, che considerare il colore nel disegno animato significa considerare unicamente, per forza di cose, il colore che ai loro disegni sovrappongono (perché si tratta di sovrapposizione vera e propria e vedremo per quale ragione) Disney ed i suoi collaboratori. Cioè, significa restringere l’osservazione in limiti ancora più angusti, centrandola su di un obiettivo che è rimasto sempre eguale a se stesso. Mentre nessuno mi vorrà sostenere che l’accostamento del disegno animato alle sequenze in tecnicolor riprese dal vero, introdotto recentemente da Disney, costituisca una novità tale da modificare i termini della questione. L’aggiunta del colore ai suoi disegni, Walt Disney credo sia stato indotto a farla, non perché a ciò lo urgessero necessità espressive, ma per ragioni puramente commerciali o, subordinatamente (molto subordinatamente) per ragioni d’arte. Lo stesso Disney si deve essere reso sempre conto che il disegno in bianco e nero era già completo e tipico e che tradire questa sua limpida vena equivaleva a snaturare il suo mondo espressivo per ottenere in compenso, vantaggi assai dubbi e per accentuare quell’ibridismo da cui il disegno animato, suo e degli altri, non ha mai potuto liberarsi. Di fatto, all’ibridismo del disegno in movimento (che contraddice, come, sostengono molti critici, ad alcune regole fondamentali della composizione cinematografica, montaggio in primo luogo) Disney ha aggiunto l’ibridismo di un colore che non è cinematografico – sebbene di ciò non gli si possa far colpa, visto che nessuno ha finora realmente “inventato” il colore per il cinema – ma, diciamo così, pittorico. E prendete l’aggettivo “pittorico” in senso molto generico; tutti sanno a quale specie di pittura corrispondano i “cartoons” in tecnicolor dal Maestro Disney. Per questo si può dire che il colore è stato semplicemente sovrapposto al disegno. Basta una osservazione superficiale, i contorni ed i tratti sommari delle figure, animali o persone umane, sono segnati invariabilmente con linee forti e spesse. In questo tipo di disegno mancano le sfumature. Le figure, o le parti così nettamente divise delle figure, danno l’impressione di non essere altro che recipienti in cui il colore debba essere versato e distribuito con meccanica uniformità. Si capisce: Disney, cosciente più di ogn’altro dei difetti del suo rudimentale sistema, ha di volta in volta cercato di modificare il procedimento della 233
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sovrapposizione, diluendo i colori sui margini delle figure e sugli sfondi e sperimentando, per quanto gli è stato possibile, i mezzi toni. Ma, in definitiva, le cose non sono mutate. Se qualche effetto di suggestione Disney lo ha ottenuto anche con il colore, (pensate a certi brani di Biancaneve o, forse meglio, ad alcune sequenze della prima parte di Bambi), ciò è dovuto, sì, ad una affinata sensibilità, ma pare e sopratutto ad un miglioramento tecnico, ad un perfezionamento manuale. Dai film di Walt Disney accorti editori traevano, e traggono ancora, quei fascicoli di avventure disegnate che hanno preceduto, in Italia, la manìa per i “fumetti”. Spesso questi fascicoli presentano il disegno soltanto, con le sue linee ben marcate, spesse e nere, e lasciano ai ragazzi il divertimento di corredarlo dei colori. Quali non si dice ma essi sono tanto noti e ovvi che non si può mai sbagliare. I verdi, i rossi, i gialli trovano, si direbbe automaticamente, il posto giusto nei “recipienti” delle figure disegnate. Non so se abbiate mai osservato uno di questi fascicoli colorati da un ragazzo. Se lo avete fatto, avrete notato come tra quelle riproduzioni e l’originale disneyano non ci sia alcuna differenza sostanziale. L’effetto che ottengono, da una parte il disegno ingenuamente colorato dal ragazzo, dall’altra il fotogramma sapientemente costruito da Disney, è pressoché identico. Direte voi; ma questa semplicità e questa possibilità, che Disney offre a tutti e persino ai ragazzi, di riprodurre quasi identici i suoi colori sono semmai un merito di più da attribuirsi al prestigioso creatore dei disegni animati. Può darsi che lo sia, ma si tratta di stabilire da quale punto di vista. Mentre una cosa è certa: questa è una delle tante prove, la più evidente, anche se la più banale, della grossolanità di un sistema, basato – come si diceva – sulla semplice sovrapposizione di colori uniformi alle figure disegnate. Se così non fosse, se il colore dovesse essere inserito nel disegno sino a formare di esso parte integrante, tanto che più non si potesse distinguere dove termina l’uno e dove comincia l’altro, se la fusione realmente avvenisse, come avviene in ogni quadro di pittore che si rispetti, i ragazzi non troverebbero così facile e naturale riempire gli spazi bianchi dei loro fascicoli. Un metodo più infantile di così, nell’uso dei colori, non saprei dove trovarlo. Mi si potrà ancora obbiettare che le esigenze del movimento costringono Disney a rinunciare a tutte le sollecitazioni pittoriche, perché altrimenti non sarebbe possibile il disegno animato. Neppure questo escludo, sebbene dubiti molto dell’esattezza dell’osservazione, ma il fatto comunque resta. Restano i colori infantili di Disney, resta la loro grossolanità e la loro profonda bruttezza. Se poi si riuscisse a dimostrarti che la colpa è del movimento, ossia del cinema, peggio ancora; dovremmo dar ragione a coloro che negano qualsiasi possibilità di carattere estetico al disegno animato. La condanna di Disney sarebbe totale. Egli per contro, tenta di “salvare la faccia” come meglio può, e di questo almeno diamogli atto. Da abilissimo artigiano qual è, 234
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egli riesce talvolta a camuffare per creazioni di schietta fantasia, (e ad intrappolare, così facendo, molti candidi adoratori del “meraviglioso”) sgorbi pittorici ricalcati su schemi ormai logori, che dell’infantilismo e per soprapiù del pacchiano infantilismo proprio di parecchie manifestazioni artistiche americane recano mille e un segno. Nelle produzioni minori, dove Disney è meno assillato dal desiderio di sbalordire i suoi spettatori, si avverte la tendenza a rompere questo cerchio soffocante, ad attenuare la fastidiosa rozzezza dei colori. Ma è soltanto una tendenza, per ora. E Disney rimane quello che è sempre stato dal giorno in cui ha cominciato a pasticciare con il tecnicolor: un disegnatore costretto ad usare i colori. Cosa che fa nella maniera più monotona, sciatta e fredda che si possa immaginare.
Budd Schulberg
Cinema americano: cinquant’anni dopo (trad. di G. Ambrosoli) [parte I-II: numero 8 – aprile-maggio 1948] [parte III: numero 9 – giugno-luglio 1948] [parte IV: numero 10-11 – agosto-settembre 1948] [parte V: numero 12 – novembre 1948]
Giovane e pungente romanziere, Budd Schulberg è un figlio della California che, dopo la laurea a Dartmouth, lavorò negli “studios” di Hollywood dapprima come lettore e occasionalmente come scenarista. Dopo che le sue novelle ebbero successo, si rese indipendente per completare il suo primo riuscito e sardonico romanzo, What Makes Sammy Run e porre le basi per la sua più recente opera narrativa, The Harder They Fall. A questo suo esame dell’incerto inizio di Hollywood, dei primi successi e dei molti insuccessi, egli porta l’aspirazione di uno scrittore creativo e la conoscenza tecnica di un esperto. I. Dissolvenza in apertura: il Music Hall di Koster e Bial a New York cinquant’anni fa. Un pubblico curioso, ma allo stesso tempo timido, si è affollato nel teatrino del vaudeville per assistere alla prima rappresentazione cinematografica pubblica in America. Sfidando le fosche previsioni, secondo le quali il proiettore sarebbe esploso, le immagini in movimento avrebbero rovinato la vista ed elementi criminali avrebbero approfittato del buio per alleggerire le borse e persino – Dio ci scampi! – tentato di dar noia alle signorine senza difesa, gli intrepidi spettatori avanzano verso i loro posti. E ne sono ricompensati, come riferirà il «New York Times» il giorno dopo, con «fotografie viventi di due preziose giovani bionde del varietà che eseguono la danza dell’ombrello con lodevole celerità... un burlesco match di boxe fra 235
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un attore alto e sottile ed uno corto e grasso... un istante movimentato dalla farsa di Hoyt, A Milk White Flag, ripetuta per diverse volte... tutto stupendamente vero e singolarmente esilarante». Gli Americani avevano cominciato a scoprire la loro forma favorita di spettacolo. Due generazioni sono bastate per tracciare i confini di questo più codardo che prode nuovo mondo. Ma dopo cinquant’anni questo grande continente delle arti rimane inesplorato come la Groenlandia centrale. Nel 1900 centinaia di migliaia di persone entrarono nel cinema, quando fu usato dai direttori dei vaudeville per spezzare il primo sciopero teatrale. Ma il ritorno degli attori ribelli lasciò il cinema, come un bimbo di quattro anni senza casa, al freddo. Questo, mezzo detronizzato, fu preso dai proprietari di luoghi di divertimento che unirono il film ai baracconi del tiro a segno, ai nani e al traffico delle cartoline postali francesi. Mentre in Francia il contatto del pioniere Méliès si svolgeva con artisti in termini più propri, in America il cinema era come un ragazzo di strada che cresceva, senza guida o tradizioni in un’atmosfera di opportunistica commercializzazione, di brividi a buon mercato. È stato lungo ed impressionante il balzo da questi baracconi alle magnifiche cattedrali cinematografiche come il Music Hall. Ma la psicologia insegna che i primi dieci anni sono quelli che modellano il nostro carattere e può darsi che ciò valga anche per i nostri film. Poiché, a malgrado del loro spettacoloso sviluppo tecnico e dell’occasionale film di rara bellezza, può darsi che essi debbano ancora superare la loro origine ed il punto di vista da baraccone. Alla fine della prima decade dei nickelodeons milioni di persone avevano preso abitudine al cinematografo senza minimamente rendersi conto di assistere allo sviluppo di una nuova forma d’arte, destinata non solo a diventare la più popolare, ma forse anche la più progredita mai scoperta nell’infaticabile ed incessante ricerca di nuovi mezzi d’espressione e di rappresentazione. Gli Americani, così a lungo disprezzati per la loro indifferenza alle sette arti tradizionali, possono reclamare un ruolo di maggiore importanza nella creazione dell’ottava. Fu Edward Muybridge che alla Fiera Mondiale di Chicago nel 1893 provò per primo ad un pubblico scettico che alla fotografia si poteva dare il movimento. Edison, Latham ed altri scienziati americani svilupparono il principio della proiezione del film. Edwin S. Porter, un meccanico di Edison, impiegato come operatore, creò i primi film a soggetto ed indicò con The Life of an American Fireman e The Great Train Robbery il potenziale drammatico del nuovo mezzo. Uno sfortunato guitto, vergognoso a tal punto della professione in cui l’esigenza lo aveva trascinato da nascondersi per anni sotto uno pseudonimo, D. W. Griffith, operò da solo una rivoluzione nella tecnica cinematografica. Il primo piano, i tagli per la sospensione drammatica, l’illuminazione drammatica, la ripresa in movimen236
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to, il flash-back, lo spezzettamento di una scena in brevi, singole ma coerenti riprese unite insieme secondo un piano drammaticamente ritmico, queste sono alcune delle innovazioni di Griffith che accelerarono lo sviluppo non solo dei film americani ma anche di quelli francesi, tedeschi, russi e italiani. Oggi i francesi chiamano una ripresa in primo piano «plan américain» e gli Italiani «piano americano». Le monumentali tragicommedie di Chaplin, le vigorose assurdità di Senett, l’animato mondo fantastico di Walt Disney ed alcuni film memorabili di registi quali Von Stroheim, Murnau, Vidor, Ford, Milestone e Wyler, queste notevoli conquiste di maturità, possono dopo tutto bilanciare per una giovane arte i peccati di cattivo gusto, di mancanza d’immaginazione che la maggioranza dei produttori di film americani hanno commesso sistematicamente per generazioni. Questi colpevoli si sono impadroniti di uno strumento tanto sensibile, tanto delicatamente equilibrato, tanto capace di indescrivibile bellezza e di sottile emozione quanto un autentico Steinway, si sono seduti alla tastiera, di fronte al più numeroso pubblico del mondo... ed hanno cominciato a suonare delle stecche. Perché infatti, con mezzo secolo di spettacoli cinematografici dietro le nostre spalle, è tempo di essere onesti verso noi stessi e verso la nostra grande macchina per fabbricare l’arte. Hollywood produce almeno un film normale al giorno e sei sui sette sfornati ogni settimana sono delle autentiche stecche: è lo stesso motivo che si ripete in una ripetuta serie di ripetizioni. Come può essere che la sola nazione al mondo con una tradizione di educazione popolare conti 98 milioni di cineamatori per settimana che continuano serenamente a pagare due, quattro, sei dollari (e talvolta il triplo) per vedere e udire delle stecche tutti gli anni? Oppure un componimento sinfonico di stecche (orchestrato da un grande produttore europeo che guadagna più denaro in un mese che non in tutta la sua carriera precedente), in uno spettacoloso numero della produzione che ammucchia centinaia di identici piano forti. È forse perché, a cagione della nostra educazione obbligatoria, siamo sordi ad alcunché di maggiormente impegnativo? O continuiamo a tornare tutte le settimane solo perché non abbiamo qualcosa di meglio da fare? È forse perché Hollywood può suonare solo ciò che richiede l’uso di due dita e un ritmo da asilo infantile? Come è possibile ciò, dal momento che Hollywood ha riunito nel suo seno abbronzato più geni, vice geni, apprendisti geni di quanti ne fossero raccolti ad Atene nei Giorni d’Oro: alcuni dei più rinomati scrittori d’oggi quali Huxley, Faulkner, Odets; i principali registi europei, René Clair, Hitchcock, Renoir, Lang; operatori come Gregg Toland, Joe August e Rudy Maté che meritano il nome di artisti; attori di fama mondiale come i Barrymore, Olivier e Barry Fitzgerald? 237
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Eppure, nonostante questo impressionante catalogo di talenti, si sprecano più idee creative nelle incessanti chiacchiere di un bel ricevimento ad Hollywood di quante se ne vedano in un anno di film. Ci sono pochi geni onesti ad Hollywood, ce ne sono molti di più la cui mancanza di onestà corrode il loro genio e parecchie centinaia di chiaro ingegno. Ma, eccetto ovvie eccezioni, questi talenti colano inevitabilmente nei vecchi solchi. Che cosa non va? È la possibilità che Hollywood rappresenti una zona di depressione nella nostra cultura nazionale? No, si può semplicisticamente concludere che la gerarchia di Hollywood è composta di una razza inferiore al pubblico generale. Invece troppo spesso le loro deficienze stanno appunto nella riluttanza ad elevarsi al di sopra del minimo comune denominatore del gusto del pubblico. Il problema basilare sta nell’innalzare il livello di tutte le nostre arti che vanno ad uso della massa; Hollywood non ne è che un esempio evidente e spettacoloso. La bancarotta estetica che pone Stage-Door Canteen nella lista dei Campioni della Cassa (mentre film di minore attrattiva come The Informer e The Ox-Bow Incident sono fortunati se riescono a coprire le spese), che fa sì che milioni di persone apprezzino film falsi, superficiali e stereotipati, s’individua con la stessa Musa Idiota che permette ad un numero infinito di ascoltatori della radio di sottomettersi senza un lamento alle banalità opprimenti delle soap-operas e dei terrori artefatti. Il sesso non è come quello definito da Hemingway ma ammanito da Kathleen Winsor. Il delitto, non penetrato come in Dostojevski ma abbozzato come in Tolstoi, ma standardizzato, lisciato e reso dolce al gusto (di tutti) nei nostri drammi radiofonici, nelle nostre riviste e nei nostri film. È forse questo il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di non essere il popolo meglio educato del mondo ma soltanto quello meno analfabeta, con più comodità di quante ce ne servano, e con tanto denaro per il divertimento che l’attività ricreativa debba essere congegnata nella produzione di massa? II. Pare quasi che, dai giorni dei nickelodeons di quarant’anni fa, i film americani abbiano sofferto di un’indigestione di pubblico consenso. Mentre i Francesi, mediante le loro tradizioni artistiche, si accostavano al cinema con seri propositi, in America invece il principale movente era rappresentato dal profitto; la parola d’ordine era celerità nella produzione e rapida diffusione. Dal momento che il popolo americano aveva tutta l’apparenza di possedere un’infinita ed indiscriminata capacità di assorbire commedie con lancio di torte in faccia, film d’azione, ingenua pornografia e melodramma, è questo appunto ciò che ottenne. Già dal 1905 Edwin S. Porter fu preso nel dilemma che fin d’allora aveva angustiato realizzatori di film ben intenzionati ma di volontà forse meno tenace. Progredendo cioè nel periodo delle indagini nel fango sociale che 238
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produsse Lincoln Steffens, Jack London, Franck Norris, Upton Sinclair, Theodor Dreiser ed altri critici sociali, Porter cominciò ad esperimentare non solo le possibilità fotografiche del nuovo mezzo, ma anche la sua efficacia come critica sociale. Un film di Porter che si distingueva in un’epoca di goffi schemi fu The Kleptomaniac che poneva a confronto il caso di una ricca cleptomane, salvata dall’ira giudiziaria da un suadente avvocato, e quello di una povera donna costretta a rubare il pane per i suoi bambini, condannata ad una dura pena. Un altro film di Porter tentò di trattare il problema di un criminale scarcerato a cui la macchia della prigione impedisce ogni tentativo di riabilitazione, un tema che sarà sondato con notevole successo in You Only Live Once di Lang una trentina d’anni dopo. Per quanto immaturi fossero, questi film pionieri furono salutati dai primi critici cinematografici come artisticamente rivoluzionari. Tuttavia The Great Train Robbery di Porter era diventato il primo “colpo super-colossale”, il pubblico voleva altri assalti al treno e così pure volevano i proprietari dei nickelodeons. La compagnia Edison si affaccendava a procurarli e Porter girò un film alla settimana per esaurire la richiesta. Diede loro assalti al treno, assalti alla banca e assalti alla corriera; non c’era tempo né incoraggiamento finanziario per continuare a sviluppare la tecnica con la quale aveva dominato nel 1903, sicché i critici dissero ben presto che tutti i film di Porter erano uguali. Ma il pubblico aumentava di numero ogni settimana. Guardando attraverso il varco che sta fra The Great Train Robbery e Brute Force (o una dozzina di recenti acquisti che non risparmiano sforzi), sembra che gli attori favoriti d’America abbiano progredito in una vuota attività per quarantatre anni. L’entusiasmo popolare per il falso delitto e per la criminalità glorificata arricchirono Porter ma soffocarono il suo talento. Ed è forse il fantasma di Edwin S. Porter che perseguita oggi tanti registi: uomini come King Vidor il quale arrivò alla capitale del cinema venticinque anni fa con un punto di vista nuovo, con indipendenza artistica e con l’ambizione di realizzare i primi film onesti sulla vita americana. The Crowd, Hallelujah e Our Daily Bread rappresentarono tentativi coraggiosi di non allontanarsi da quei principi. Ma i grandi studios, dopo aver arricciato il naso di fronte agli esperimenti, lo costrinsero a ritornare a quella perfezione di second’ordine come in The Big Parade e The Champ. I reparti di vendita, ingranati secondo la qualità “standard”, ostacolavano quella che chiamavano sogghignando «arty stuff», cioè roba d’arte, perché il pubblico non ci arrivava. III. Vidor, come Porter, soccombette gradualmente alla macchina. Sporadicamente un film come The Citadel ricordava ai suoi amatori le sue qualità peculiari, ma la sua identità artistica, l’associazione del suo nome a quei film 239
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che più profondamente ne esprimevano il talento, dovettero essere sacrificati sull’altare di un dio assetato di sangue ed inflessibile chiamato Cassa. Dai giorni di Porter e dei suoi thrillers da una bobina, il pubblico del cinema era cresciuto del 1000 per cento per giungere all’odierno ghiottonesco e sovreccitato appetito dei cineamatori che consuma ben più di 400 film all’anno in 16500 teatri (un posto ogni 12 persone e mezzo della nostra popolazione totale). Va senza dubbio riconosciuto che Hollywood possiede una creatività sufficiente a produrre una dozzina di film eccellenti e un’altra dozzina di quasi eccellenti all’anno. Ma, per rifornire migliaia di cinematografi con un cambio di programma almeno una volta la settimana, Hollywood deve alimentare gli apparecchi da proiezione della nazione con 40000 miglia di film per settimana, producendo nello stesso tempo 600 miglia di film veramente “originali” in un anno. Queste sono grosse cifre, specialmente se si considera il fatto che tre film su quattro sono probabilmente riedizioni e che cominciano ad assottigliarsi in modo preoccupante. Per accontentare 100 milioni di habitués americani al doppio programma (più altri 30 milioni in Inghilterra e parecchi altri milioni in tutto il mondo), i film devono essere prodotti in vasti stabilimenti. Nel nostro mercato inflazionistico, un film che costa meno di un milione di dollari viene catalogato con la lettera «B» ed un film che impiega i migliori talenti di ogni reparto può difficilmente essere realizzato, a quanto si dice, con una spesa inferiore di tre milioni di dollari. Dato che i maggiori studios producono trentacinque o cinquanta film in un anno, il cinema è diventato una grande industria commerciale; tuttavia, per quanto i profitti siano cresciuti costantemente in cinquant’anni (eccettuati i periodi di depressione), un’inchiesta della rivista «Fortune» sull’industria cinematografica accusa quest’ultima di non avere i profitti che dovrebbe, in considerazione della proprietà mondiale dei suoi prodotti. Le automobili, a quanto sembra, rappresentano un investimento meno spettacoloso ma più sicuro. Così la Coca-Cola. Queste industrie sono efficienti perché hanno standardizzato la loro produzione e ridotto al minimo i rischi. Ora, fate che un solo film possa realizzare più di 30 milioni di dollari, che l’incasso totale dei film in un anno raggiunga la cifra di un miliardo e mezzo di dollari, che gli interessi di Rockefeller e di Morgan, mediante le loro Chase National Banks, la K.C.A., la Western Electric e l’A.T.eT. controllino i maggiori stabilimenti cinematografici i quali a loro volta controllino i sistemi di distribuzione e di diffusione, e avrete ottenuto la riduzione al minimo dei rischi e la standardizzazione della produzione. Uno dei più sicuri coefficienti di riduzione di rischi e di standardizzazione è stato per anni il divo. Fin dal 1910 le compagnie cinematografiche che crearono il primo monopolio (come membri della Motion Picture Patents Company) celarono a bella posta sotto l’anonimia le persone dei loro attori 240
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nella miope convinzione che la pubblicità dei loro nomi li avrebbe incoraggiati ad imporre aumenti di stipendio e ad accrescere così i costi di produzione. Ma i frequentatori dei niekelodeons cominciarono già a dimostrare manifestazioni spontanee di quella bassa adorazione, quel culto sottomesso, quella passione artificiale che sono diventate uno dei fenomeni più significativi della nostra cultura ad alta pressione. Già quarant’anni fa piovevano letteralmente le lettere che richiedevano il nome della «Ragazza della Biograph» o dell’«Uomo dagli Occhi Melanconici», del «Bell’Indiano» o della «Piccola Mary». Così ebbe inizio la mania che si diffuse, come tanto poeticamente si espresse un pioniere produttore, come i fiori selvatici. La mentalità conservatrice dei primi monopolisti vi si oppose e per questo essi perirono. Gli indipendenti, pieni d’iniziativa – Zukor, Lasky, Goldwyn, Laemmle – la riconobbero, la incoraggiarono, la sistemarono e per questo prosperarono. Il culto dei divi è una questione sociologica, psicologica e patologica che vale 64 milioni di dollari (il profitto netto dell’anno scorso). E, dal momento che saremo probabilmente sepolti con i nostri divi, può diventare anche una questione archeologica. Un divo non è creato per acclamazione critica, ma ciò proviene da qualcosa di più elementare, di più temibile, qualcosa di peculiare in un popolo minato dalla vanità. Il salario di Mary Pickford non aumentò da 50 a 10.000 dollari la settimana perdio, era una brava attrice (per quanto fosse stata la prima a dimostrare come s’interpretava un film), ma perché essa fu la «Fidanzata dell’America». E questo non è un mero slogan, perché realmente lo fu. E le donne non strapparono gli abiti di dosso a Valentino perché impressionate dal talento istrionico ch’egli rivelò nel The Four Horsemen of the Apocalypse. Uno studio stimolante sulla moralità americana potrebbe essere basato sul nostro mutevole gusto per le dive: le tremule eroine di tipo vittoriano (vedi la Gish) avanti la prima Guerra Mondiale; la malvagia (sempre in senso vittoriano) Theda Bara durante gli anni della guerra, le nostre Giovani Ballerine intorno al ’20 – Colleen Moore, Clara Bow e Phyllis Haver; le nostre, secondo una recente trovata, sofisticate Gloria Swanson e Pola Negri; il gruppo del Sesso ad oltranza – Mae West, Jean Harlow, Marlene Dietrich e Hedy Lamarr; e da ultimo il modello romanticizzato di Greer Garson e Ingrid Bergman insieme a qualche tipo bene in gambe (vedi la Grable) per la gioia dei maschi. Oggi, il fatto che un divo possa, rappresentare o creare un personaggio vivente sullo schermo rappresenta solo un accidentale miglioramento della sua condizione di membro della nostra mitologia. Più spesso accade che uomini e donne, entrati nel cinema come attori, debbano trattenere o congelare le loro qualità per adattarsi ai ruoli fissati che devono giocare nelle menti, nei cuori o sugli impulsi emozionalmente immaturi dei cineamatori chiamati «fans» (abbreviazione di «fanatics»). Jimmy Cagney, ad esempio, era un attore prima di diventare il Dio della Tenace Bontà, della Tenera Cattive241
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ria e del sex-appeal da pesciolino. Molto prima che Spencer Tracy fosse deificato, egli venne a notorietà in The Last Mile, ma ora è irrimediabilmente un adulto Scout, il tipo di Americano Rumoroso, Pratico, Testa Dura ma Cuore Tenero. Perché, dichiara con spaventosa logica il produttore, fargli interpretare un’altra parte quando abbiamo l’eccellente Prova della Cassa che questa è la parte che il pubblico vuole da lui. Analogo è il caso di Gable il quale, sia che parli il linguaggio di Rhett Butler o di un qualsiasi esercente in radio, può essere solamente il Gable Commesso Viaggiatore, il tipo dalla bellezza scellerata: con cui è piacevole scherzare ma che è pericoloso sposare, che ogni donna, da Park Avenue a R.F.D.I., segretamente brama. E che dire di Flynn! Un altro Commesso Viaggiatore. E Van Johnson? Il Re dei Felici Appuntamenti. Lana Turner può impersonare la figura dell’avida moglie assassina del proprietario di uno spaccio in The Postman Always Rings Twice, ma ciò che realmente rappresenta è un ammaliante e lisciato manichino, non la perfida persona vivente di passione furiosa come la descrisse James M. Cain, una modella in turbante bianco e calzoncini, una Miss Spaccio 1946, vestita per il suo passo di pavone sui gradini di un’esposizione. Forse è questo che vogliono i fedeli giovani uomini e donne dei Lana Turner Fan Clubs of America, Inc., poiché, a dispetto dell’individualità che le era propria un tempo, essa è stata ritagliata ed imprigionata in un’etichetta. È il magnetismo da cassetta di queste etichette che assicura un film contro i rischi del caso che tarpano ogni sforzo creativo, non è il soggetto che importa, ma il divo. Più di qualsiasi altro singolo fattore, il divo ha mantenuto in piedi l’industria e prostrato l’arte cinematografica. IV. Un divo come Chaplin, naturalmente, può creare una completa personalità indimenticabilmente valida e che sembra possedere una sua propria vita come i durevoli personaggi della letteratura. Ed abbiamo avuto anche ottimi film in cui i divi erano subordinati al tema ed alla concezione generale: Gary Cooper e James Stewart nei memorabili film di Capra; Spencer Tracy e Sylvia Sidney in Fury; Merle Oberon, Laurence Olivier e David Niven in Wuthering Heights; Ray Milland con il suo Academy Award per l’interpretazione della figura di Don Birnham in The Lost Weekend. Ma queste sono le rare eccezioni che provano quanto più spesso questa regola potrebbe essere infranta se esistesse un maggior coraggio individuale ed una maggiore convinziuone artistica nei realizzatori di film ed un più maturo responso da parte del pubblico ammaliato. Troppo spesso, col sistema dei divi, eccellenti storie sono state ridotte a dei meri pretesti e gli sviluppi del personaggio sono stati sacrificati allo sfruttamento di una personalità superficiale, come quando Don Ameche ha rappresentato il personaggio di Alexander Graham Bell. 242
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Nell’età del sistema dei divi, alcuni nostri film più durevoli sono stati quelli senza un repertorio di divi (per quanto eufemisticamente chiamati «all-star») e cioè: Stagecoach, The Informer e The Long Voyage Home di John Ford e Dudley Nichols; Of Mice and Men e A Walk in the Sun di Milestone; G. I. Joe di Cowan eWellmann, e recentemente Crossfire, un rivoluzionario attacco all’odio razziale che aggiunge i nomi del capo dello «studio» R. K. O. Dore Schary, del produttore Adreon Scott, del regista Edward Dmytryk e dello scrittore John Paxton alla lista d’onore degli innovatori di Hollywood. Se impareremo a sostituire le immagini narcisistiche e le svenevoli fantasticherie con dei veri attori che interpretino parti credibili in situazioni reali, se impareremo a chiedere ad Hollywood qualcosa di più che gli indorati gigli appassiti a cui molti di noi sono abituati, il nostro schermo avrà la possibilità di provare in modo consistente ciò che ora accenna solo in modo spasmodico: che rappresenta cioè, non solamente la più divertente, ma la più soddisfacente e convincente forma d’arte per la sua capacità di sintetizzare la composizione, la pantomima, il dramma parlato, la fotografia, il movimento ritmico e la musica. Quando i Grable and Van Johnson Clubs saranno sostituiti dai Ford and Wyler Club, dai «Nichols and Sherwood Clubs» o da una «Società per l’Apprezzamento della Fotografia di James Wong Howe e, parlando seriamente, se solamente uno dei nostri puerili fan clubs fosse trasformato in una società per la comprensione e l’incoraggiamento dei film migliori, come quelli che sono fioriti in Inghilterra ed in Francia, ciò dimostrerebbe che stiamo dando a questo strumento maltrattato la matura attenzione che merita. Nel frattempo rappresenta sempre un buon affare impiegare quei divi di tipo standard in racconti di tipo standard, racconti che hanno superato la prova del fuoco della Cassa. C’è un aneddoto che circola a proposito del capo di un grande “studio”, che chiameremo A. C., il quale realizzò un film di ambiente marinaro per un collega di produzione. Il competitore, cui piacque il film, gli chiese a che altro stesse lavorando. «Ad un film di ambiente sottomarino», disse A. C. «Hai un nuovo soggetto?», chiese il competitore. «Certo – rispose A. C. – l’ho visto proprio adesso». Apocrifo o meno che sia l’episodio, nessuno potè nutrire dubbi, quando più tardi apparirono i due film, che la somiglianza fosse puramente intenzionale. Fin da The Great Train Robbery, il “ciclo” era stato il terreno favorito per la gente dal cuore di coniglio e dalla mentalità da bottegaio che preferirebbe inalberare un segnale di pericolo piuttosto che affrontare la lotta per sbattere qualcuno fuori dal cancello. Così abbiamo avuto cicli dei fuori legge dell’Ovest, cicli di romanticismo rusticano, cicli di donne fatali, cicli di rievocazioni storiche, cicli della Guerra Civile, cicli delle bambinette, cicli dei gangster, cicli delle donne perdute e recentemente una serie di racconti pseudopsichiatrici in cui l’amnesia è diffusa come un comune raffreddore. Non è 243
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improbabile che una certa conoscenza delle malattie mentali, delle loro cause complesse e delle varie terapie gioverebbe agli scrittori ed ai registi dello schermo nella creazione e nel miglioramento dei personaggi e delle trame. Ma, con la bacchetta di Mida che muta ciò che tocca in una massa inerte, Hollywood punta il suo dito d’oro sulla psichiatria ed ecco la psichiatria diventare una graziosa donnina che al primo sguardo s’innamora del suo bello ed atletico paziente, la cui allucinazione addomesticata essa risolve come un freudiano problema di cruciverba. Sotto il fuoco continuo per due anni di trame a sfondo psicopatologico, ci si potrebbe aspettare dal pubblico un’attitudine più comprensiva verso questa nuova branca vitale della medicina. Ma tutto ciò che i cineamatori hanno imparato dal ciclo in questione è che molto probabilmenle l’assassino finirà per essere il capo psichiatra. Poiché lo scritto originale, la regia, la fotografia, la stampa, i trucchi visivi e tutte le altre fasi di questa arte complessa sono andate costantemente migliorando, mentre il contenuto è rimasto indietro, sembra che una tecnica sempre più alta si sia prodigata in prodotti sempre più scarsi, per giungere al film medio odierno di Hollywood che vien fuori dal magazzino come una scatola ben fabbricata: amore, avventura, psichiatria, storia, valori spirituali, tutti inscatolati, chiusi ermeticamente, non tocchi dalla mano o dal cuore umano. Quando un critico cinematografico definiva No Leave, No Love come «un film a buon mercato per cui non sono state risparmiate spese», trattava un argomento specifico, mentre l’asso dello schermo, lo scrittore Dudley Nichols, generalizzava l’accusa definendo la maggior parte dei film di Hollywood come «scorrevoli, levigati, lucidi come l’acciaio e... altrettanto privi di vita». Negli ultimi mesi si è verificata una crescente richiesta, da parte dei critici cinematografici seri, di un maggior numero di film che trattino onestamente della vita americana contemporanea. Dalla sua posizione fortificata del «New York Times», Bosley Crowther è esploso contro i «capricci stereotipi» di Hollywood difendendo quei film che abbracciano problemi e idee contemporanei. Da Louisville, Boyd Martin, redattore drammatico del «Courier-Journal», ha lanciato una campagna contro le favole evasive e le formule trite a favore dei «problemi autenticamente drammatici di questi tempi eccezionalmente gravi». A quanto sembra, Martin pensa che il pubblico sia stanco di sogni oppiati e preparato a cose più forti. Invece pare che per molti dirigenti di Hollywood le storie più sicure siano quelle che fabbricano i sogni della gente: sogni fabbricati da esperti, come ebbe a definirli un divo del muto. Lontano dai vostri guai, dalle responsabilità e dalla abituale monotonia, voi sedete nell’oscurità che vi avvolge ed ecco De Mille o uno degli altri geni della mediocrità tessere per voi un sogno che costa un milione di dollari: la segretaria privata si toglie gli occhiali e si 244
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trasforma in una donnina attraente, nell’ideale compagna del principale; l’ereditiera ricca e viziata, ma bella, trova il suo partito in un sempre più ostinato uomo del popolo; la donna efficiente e affarista che ha dimenticato di essere donna viene ricondotta allo stato originario dal giovane volitivo, il quale la ripone nella casa dove alla fin fine essa ha sempre desiderato di essere. Al momento giusto il cattivo viene catturato, il giuoco è fatto e lo spettacolo fila. V. Ora, non c’è niente di male nel concedersi ogni tanto un poco di onesta fantasticheria. Abbiamo tutti in noi un po’ di Walter Mitty e ci compiaciamo di crearci a volta a volta imprese eroiche o romanticbe sullo schermo privato delle nostre menti ed è naturale che lo schermo rifletta ed abbellisca queste fantasticherie. Ma quando un individuo comincia ad abusare delle fantasticherie, quando si ritira dalle situazioni difficili per rifugiarsi nel mondo allettante della fantasia, si mette sulla via di diventare uno schizoide che non può ulteriormente distinguere il mondo della sua esistenza reale da quello fantastico. Gli studiosi di psicologia sociale si possono persino chiedere se, come popolo, noi non stiamo correndo lo stesso pericolo, di evitare cioè i problemi e fuggire per un tempo maggiore di quanto sia salutare in braccio alle nostre fantasticherie di celluloide. Nessun altro mezzo ha questo duplice potere di trasportare completamente la gente fuori di sé in un mondo turbinoso di romanzo e di mostrare le cose quali sono realmente: di guardare dentro la vostra casa, dentro la casa del vicino o di una comunità distante (potrebbe essere non più distante di Harlem dalla Radio City) che non avreste mai l’occasione di vedere. Solo la macchina da presa può scrutare così da vicino il volto dell’uomo da registrare i pensieri taciuti che lampeggiano negli occhi e di qui fare un salto al di sopra degli edifici della città e piazzare quest’uomo in una prospettiva in campo lungo tra gli altri milioni di uomini. Il cinema può essere usato come una maschera d’etere per privarci di conoscenza e narcotizzarci in uno stolido oblio oppure come adrenalina iniettata nei nostri cuori indeboliti per stimolare in noi una vitalità nuova, estendere la nostra conoscenza ed approfondire la nostra intelligenza. *** Un buon affarista, abbiamo osservato, mira ad accontentare più gente che può, rendendo minimo il rischio e standardizzando la produzione. D’altra parte lo scopo del buon artista è esattamente l’opposto: dà di spalle ad ogni formula, continua la sua strada sempre su terreno nuovo, rischia tutto e, dopo il successo o l’insuccesso, rischia di nuovo. Quando sarà scritta la storia definitiva dei primi cinquant’anni di Hollywood o il grande romanzo 245
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che imprigioni lo spirito intero di questo luogo, esso tratterà di questa grande battaglia mai risolta tra la macchina commerciale e quegli uomini o donne di talento che, quando entrarono, non poterono lasciare alla porta la loro integrità personale e la coscienza artistica. Da questo stato di guerra sono usciti alcuni dei migliori film di Hollywood. I piani di Ford e Nichols per The Informer andarono mendicando finché alla fine, con una convinzione fin troppo rara fra i professionisti del cinema, essi proposero di fare il film per nulla e di puntare sul ricavato. The Lost Weekend non avrebbe forse visto la luce di un proiettore se lo scrittore Charles Brackett ed il regista Billy Wilder, la coppia dorata della Paramount, non avessero insistito nell’adattazione del romanzo di Jackson come contropartita per un film musicale più gradito all’ufficio direzione. Questa teoria di compensazione è stata per lungo tempo la formula di compromesso ad Hollywood. John Ford non vince solamente tre Academy Awards ma si piega anche a fare Vee WiIlie Winkie, Steamboat Round the Bend e Submarine Patrol. Al contrario la rivista «Fortune», approvando i suoi diritti al posto di capo di uno dei maggiori studios, può dire di Darryl Zanuck: «Il suo gusto, i suoi desideri, le sue invenzioni sono mediocri, così come devono essere». Eppure Zanuck, il Superuomo-medio, nel suo primo periodo intenso ma non brillante alla Warner, uscì fuori con I Am a Fugitive from a Chain Gang, The Public Enemy e They Won’t Forget, puntò su The Grapes of Wrath, osò creare Wilson, un film pieno di buone intenzioni, senza divi, acquistò Anna and the King of Siam e resistette alla tentazione, che deve essere stata per lui torturante, di riempirlo di formule amorose. Recentemente Zanuck diede ordine al reparto soggetti orientali di raccogliere i migliori romanzi nuovi riguardo alle loro possibilità di adattazione alle familiari trame cinematografiche. In tal modo Zanuck Comune Denominatore entra talvolta in conflitto con lo Zanuck che osa abbandonare il terreno battuto e sfidare l’intolleranza dilagante con Gentleman’s Agreement. Samuel Goldwyn, campione tenace dei produttori indipendenti, accusò recentemente Hollywood di essere a secco in materia di idee sostenendo che non ci sono quasi abbastanza soggetti e buoni scrittori per rifornire quelle quattro o cinque centinaia di film all’anno. L’entusiasmo, per non dire disperazione, col quale gli studios cinematografici balzano su qualsiasi dramma o romanzo che non tratti di incesto o di perversione dimostra il fallimento di Hollywood come sorgente indigena di creazione. I produttori gettano il biasimo di ciò sugli scrittori; questi vi dicono che la colpa è tutta dei produttori, ma in verità questo giuoco di scaricabarile da entrambe le parti non è che un mascheramento di codardia morale. I produttori che pagherebbero un quarto di milione di dollari per un sensazionale spettacolo di Broadway, non pagherebbero un quarto di dollaro per lo stesso soggetto presentato in 246
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forma di film. Non c’è prezzo che essi non pagherebbero per un successo a New York, poiché questo li protegge dal rischio di far valere i propri giudizi. Come risultato di ciò, c’è stato pochissimo incoraggiamento a scrivere direttamente per lo schermo materiale che non calchi il sentiero battuto. Al contrario, i cosidetti “soggetti originali”, inforcati nelle trebbiatrici degli studios, trattano invariabilmente di tipi triti in situazioni ritrite, come vecchie scarpe tirate ad un ingannevole lucido secondo la furberia spicciola dei rivenditori di seconda mano. Alcuni dei nostri scrittori più promettenti si sono sottomessi a questa aurea degradazione. Dando le spalle ai loro romanzi, poesie o drammi, si immergono nelle seducenti comodità hollywoodiane e, pur essendo per la maggior parte abili ed attivi, si sono tagliati fuori dall’esperienza, dalle radici, da quegli stimolanti vitali che generano le opere per cui hanno una fama originale. Passando da un Tennis Club all’edificio di un grande studio, senza la minima curiosità di esplorare sia pure la città trapiantata del Medio-ovest che si espande intorno a loro, un’allarmante percentuale dei più riusciti scenaristi di Hollywood scrive in un cerchio sempre più ristretto di vuota facilità. Ma, come l’industria cinematografica americana volge verso la fine del quarantennio e l’inizio del cinquantennio gravido di timori, ci sono almeno dieci condizioni di cambiamento (per non dire miglioramento) tali da creare un’atmosfera più dinamica che in qualsiasi altro periodo a cominciare dagli anni della Ribellione degli Indipendenti, 1910-1916, che ebbe per interpreti Goldwyn, Lasky, Zukor, Laemmle ed altri. Condizione prima. L’eliminazione graduale dei contratti in blocco, per cui le case maggiori possono spacciare al pubblico dozzine di film inferiori e trascurati che i proprietari di sale sono costretti a noleggiare per avere quelli migliori che desiderano. Condizione seconda. L’auspicata sparizione del doppio programma, un residuo dei periodi di depressione quando piatti gratuiti, denaro e automobili ed altre attrazioni facevano parte di quel disperato sforzo di far ritornare la gente nei teatri. Condizione terza. I prezzi inflazionistici ed il conseguente abbassamento del potere d’acquisto che rendono anacronistica la definizione del tempo di guerra di un impresario: colui che spalanca lo sportello e si lancia fuori per evitare di essere schiacciato nel cozzo. I cineamatori cominciano a distinguere ed a scegliere; il fatto che essi continuino a scegliere Coney Island a preferenza di The Ox-Bow Incident è un’altra questione. Condizione quarta. I conti rapidamente crescenti della produzione cinematografica. Si va affermando nei dirigenti di Hollywood la convinzione che i film di tipo “A” richiederanno una qualità nuova in modo da dare qualcosa di più della pura e semplice riuscita. Condizione quinta. Sviluppo della produzione indipendente. L’anno scorso 247
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quasi la metà dell’intero prodotto di Hollywood fu fatta in modo indipendente, il che significa al di fuori dei controlli produttivi, per quanto non necessariamente al di fuori dei controlli finanziari delle maggiori case. Sia che registi, scrittori e attori creino le loro corporazioni per comodità fiscali o per motivi più alti, la probabilità di opere migliori stanno tutte dalla parte di quelle che recano un suggello ed una cura individuale. La fioritura degli indipendenti, pur non avendo necessariamente come risultato dei film migliori, può tuttavia creare quell’atmosfera maggiormente creativa per tentare di farli. Condizione sesta. Segni di cedimento da parte di alcuni capi di grandi case che vanno affidando programmi di produzione a produttori più giovani e più liberali tratti dalle file degli scrittori e dei registi, mentre vanno permettendo ad altri una mai raggiunta libertà di creazione dentro l’intelaiatura delle grandi compagnie. Tra le innovazioni più intelligenti sta il piano di Schary di dedicare i film della RKO a basso bilancio ad esperimenti artisticamente audaci che potrebbero eventualmente eliminare i film di tipo “B” di basso livello. Condizione settima. L’influenza delle esperienze di guerra sugli uomini di Hollywood. Molti registi e scrittori che realizzarono documentari per le forze armate sono ritornati ad Hollywood con una concezione più vasta di ciò che può essere il cinema. La tecnica del documentario, riflessa in vari film recenti, può nel tempo abbattere il tradizionale naturalismo dolcificato di Hollywood. La regia di Willie Wyler per The Best Years of Our Lives mostra un’attenzione per il particolare realistico e una tale sensibilità del modo in cui gli americani realmente agiscono, che rappresenta non solo un fresco ma significativo miglioramento rispetto ai suoi migliori (che erano abbastanza buoni) film d’anteguerra. Condizione ottava. La rinascita della produzione cinematografica europea che comprende riuscite importazioni quali il capolavoro italiano Roma, città aperta, il francese Well-Digger’ Daughter, il tentativo russo di puro spettacolo The Stone Flower, e l’alta qualità delle produzioni inglesi che si portarono via una sproporzionata maggioranza di voti per i dieci film migliori dell’anno del Circolo dei Critici. Questi film esteri offrono non solo uno stimolo di emulazione ai creatori di Hollywood, ma anche una seria competizione commerciale ai nostri “Big Five” ansiosi di ristabilire il loro dominio sul mercato mondiale. Condizione nona. Un’attitudine sempre più seria verso il loro mestiere da parte di un numero crescente di realizzatori di film i quali, negli organi locali come «Screen Writer» e «Hollywood Quarterly», nei giornali commerciali e nelle frequenti discussioni, esprimono un senso progressivo di responsabilità verso il mezzo che è diventato se non l’«inconfessato legislatore del mondo», certamente l’Università dell’Uomo Comune. 248
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Condizione decima. Indicazioni che lasciano sperare in un inquieto desiderio da parte della massa degli spettatori di qualcosa di meglio, poiché alcuni già sorrisero alle insufficienze drammatiche dei film dello Special Service che servivano ad interrompere la monotonia della vita militare. Una schiacciante percentuale di preview cards su Crossfire, ad esempio, espresse il desiderio di altri film come questo che ci danno qualcosa da pensare. Nei secondi cinquant’anni della produzione cinematografica americana i nostri film potrebbero andare alla deriva in una calma noncurante di cinismo da parte dei creatori e di indiscriminazione da parte del pubblico. Oppure potrebbero farsi strada verso una maturità nuova che ci metterebbe in grado di essere non solamente il popolo più divertito, ma anche il più sensibile, dotato cioè di quella capacità di sentire le emozioni altrui che rappresenta la base della condotta civile ed il potere essenziale del cinema. Questa è la posta, non solo per i nostri creatori di film, ma per tutti noi 98 milioni che affolliamo ogni settimana i nostri cinema preferiti. Quale dei due sceglieremo, lo stordimento della anestesia o lo stimolo dell’adrenalina?
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I russi scoprirono che la fotografia obliqua (e di conseguenza deforme) di un bottiglione, di una cervice di toro o di una colonna, possedeva un valore plastico superiore a quello di mille e una comparsa di Hollywood rapidamente camuffate da assiri e poi rimescolate fino alla totale vaghezza da Cecil B. De Mille. Scoprirono anche che le convenzioni del Middle West – i meriti della denuncia e dello spionaggio, la felicità finale e matrimoniale, l’intatta integrità delle prostitute, il concludente upper cut somministrato da un giovane astemio – potevano essere sostituite da altre convenzioni non meno ammirevoli. (Così, in uno dei più alti film del Soviet, una corazzata bombarda a tutto spiano l’affollato porto di Odessa, senza altra strage che quella di alcuni leoni di marmo. Questa innocua giustezza di mira si deve al fatto che a sparare è una virtuosa corazzata massimalista). JORGE LUIS BORGES
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Fusi – Giolli
Note su Eisenstein e il cinema russo [numero 3-4 – settembre 1946]
Contro la stupidità del solito teatro borghese assai compiaciuto di quell’eterno sentimentalismo immorale di un dramma fra una moglie, un marito e un amante, Eisenstein, nel 1930, in un ciclo di conferenze tenute a Parigi, alla Sorbona, sottolineò il carattere di fondo di tutto il cinema russo che si rifiuta di «essere spettacolo ossia divertimento» per poter attuare soltanto dei soggetti di profondo interesse umano. Il cinema in Russia è diventato, fin quasi dalle origini, il mezzo più potente per opera di convinzione e di propaganda, di persuasione politica e morale, per la lotta del fronte interno. Proprio per questo preciso compito di assoluta necessità all’avvicinamento al pubblico, in quasi tutta la cinematografia russa esiste una visione quasi allucinata di duro realismo, mantenuta non più come formula per una facile comprensione per ogni pubblico, ma interamente capita e trasformata dalle diverse maniere di ogni regista, che, libero nella sua espressione tesa verso uno scopo ed uno stesso ideale, ha sempre saputo dare il suo tono di acuta sensibilità artistica. Tutti i registi russi hanno rifiutato ogni forma dello spettacolare e dell’operettistico ed hanno coscientemente accettato ogni sincera ed ottima parola per il popolo creandosi la possibilità di poter parlare soltanto attraverso il linguaggio dell’arte. Il Direttore dell’Amministrazione Generale dell’Industria Cinematografica, B. Choumiatskij, nel 1935, sintetizzava la condotta di massima di tutta la cinematografia russa, parlando di «uno stile che vuole anzitutto la rappresentazione concreta e veridica della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. Pur lasciando alla creazione una libertà illimitata, l’arte sovietica esige che l’artista possieda una conoscenza profonda della vita sociale, che comprenda la natura intima del processo storico e che sappia discernere le vere tendenze direttive che determinano i movimenti sociali, il carattere e gli atti degli individui». Non possiamo pensare diversamente, come esigenza di onestà di espressione. Eisenstein, solo un anno dopo essersi dato al cinema formando un gruppo con gli operatori Tisse e Nilsen ed i registi Alexandrov, Gomorov e Atacheva, dà L’incrociatore Potemkin, poco dopo La grève, e con sue pubblicazioni e conferenze e con altri film, La linea generale, imprime a una parte della cinematografia russa tutta una tendenza, quasi aggressiva o di ispirazione ideale delle immagini. Tutti i film di Eisenstein, e così pure i film di quei registi che hanno seguito le idee di questo, diventano esaltazione di una potenza, o della rivoluzio253
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ne, o di un mondo, o di un personaggio, quale ideale di una utopistica giustizia dove è valorizzata la necessità sociale dell’Uomo visto come massa. Dopo i primi tentativi di Griffith per la prima volta si vede il valore del montaggio e del ritmo essenzialmente cinematografico: sembra un vasto e pauroso grido di lotta, di dolore e di ribellione, in tutte le sue sequenze e in tutte le inquadrature essenzialmente fotografiche. Di fronte ad un Incrociatore Potemkin e ad una Linea generale noi non possiamo assolutamente dire che Eisenstein vuol far della pittura, mentre forse questa è la debolezza dell’altro suo ottimo film recente Ivan il Terribile, dove forse questa sua “maniera” pecca di trasformarsi in “formula”. Ma Eisenstein non vuole esperienze romantiche; cerca soltanto la realtà, cogliendo e astraendo il tipico e il necessario; è una cruda realtà questa di Eisenstein, specialmente nelle ricerche insistenti del vero, nei suoi primi piani montati come sono in un ritmo vorticoso come frasi musicali di un tema, con una efficacia totalmente espressiva e a volte persino morbida e poetica, più umana, nel particolare del telo che poco prima copriva gli uomini che dovevano morire e che ora si gonfia del vento sulla tolda della nave; o, ironica, nel particolare degli occhiali del dottore che penzolano su di una fune, nell’Incrociatore Potemkin. La rivolta, fenomeno di massa, è esaltata come potenza travolgente nei piani totali e come dolore e sofferenza umana nei primi piani: e negli uni e negli altri c’è un’atmosfera unica che li domina: la visione di una necessità fatale che trascende la volontà degli individui e che si esprime nella passione della folla anonima. La folla sulla scalinata del porto di Odessa applaude i rivoltosi mentre con un mistico rispetto passa davanti alla tenda dove riposa il marinaio morto «per un piatto di zuppa». Come esseri sovraumani giungono i distaccamenti cosacchi a falciare questa folla e a calpestarla senza pietà. È una figurazione simbolica e non se ne vedono gli aspetti umani, una selva di fucili e baionette oscillanti e il feroce bilanciare degli stivali. È la vita dominata da motivi misteriosi rivelata in espressione collettiva, maggiormente distinta nella Linea generale. Rinuncia Eisenstein agli attori di professione e parte da una visione documentaria passando alla narrazione con una naturalezza degna dei poemi classici. I suoi grandi personaggi sono una contadina vera, Marfa Lapkin, e la Terra, definita da lui stesso nello scenario: «...la pianura infinita, la terra greve, intrisa di linfa primaverile, pregna di succhi...». Non è La linea generale una semplice opera di divulgazione; sa giungere a dei momenti di estrema acutezza e di un travolgente entusiasmo di tutta la folla. È interessante il sogno di Marfa in questo film così descritto nello scenario: «Tutte le giovenche del villaggio sono riunite al sole nella piazza. Il cielo si arrossa, il sole comincia a salire nella sua gloria. Sulla piazza un toro si 254
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solleva, ingrandisce, giganteggia, invade tutto il cielo. Fiotti di latte scaturiscono dalle nuvole, una pioggia di latte cade dal cielo, cateratte di latte, torrenti di latte, ruscelli di latte. È una visione degna degli antichi riti, semplice, umana, come i canti dei pastori indù. Il sogno come visione poetica è ammesso dal più intransigente dei registi russi, ma non sono ammesse le fantasticherie, i sentimentalismi, i sogni della gente comune, delle piccole aspirazioni e dei desideri privati. La vita è qualcosa di serio e di drammatico: non può essere scoperta nel tepore di un sogno fantastico strettamente individuale di un semplice uomo, ma deve avere tutti i requisiti necessari per diventare una parola più largamente universale. La Terra e l’Uomo diventano una cosa sola nella Linea generale. Masse di uomini e di macchine che la coltivano: fecondano la pianura sterminata. Sono elementi di una stessa materia. È superato ogni senso intellettuale programmatico, è superato ogni senso di teatro e di spettacolo: viene creata della poesia pura, esaltazione di una migliore vita sociale, montaggio di visioni, rilievi e contrasti efficaci per la ricerca di un nesso logico. Anche quando Eisenstein è obbligato a seguire nel racconto la storia di un solo uomo egli sa rappresentare tutta la storia di una massa. E da esso ne è uscita tutta una scuola in contrasto con Pudovkin, anch’esso realista, derivato certamente dall’opera di Kulechov, che si interessa agli eroi e alla loro psicologia, alla vita degli uomini e agli atti che lo accompagnano, strettamente legato all’uomo, pieno di idee rivoluzionarie, educato e nutrito dalle idee socialiste, pronto a combattere e a dare per la sua rivoluzione sociale.
Glauco Viazzi
Dialettica e realismo in Eisenstein e Alexandrov [numero 6 – marzo 1947]
Il nome di Grigori Alexandrov è quasi sempre citato accanto a quello di Eisenstein. Alexandrov infatti fu collaboratore dalla regia per La corazzata Potemkin, La lina generale, Romanza sentimentale, Lampi sul Messico. Ma risulterebbe molto difficile stabilire, quale sia stato il senso effettivo del suo apporto, oppure, reciprocamente, quale sia stata l’eventuale influenza eisensteiniana subìta. Se nel cinema sovietico vi dovessero essere due registi radicalmente dissimili e diametralmente lontani l’uno dall’altro, questi sembrerebbero proprio Eisenstein e Alexandrov. Nei due film di quest’ultimo noti in Italia, Tutto il mondo ride e Il circo, non v’è nulla di palese ed appariscente che denoti la traccia di un insegnamento, il residuo di un influsso eisensteiniano; il converso, spostato il senso dei rapporti, parrebbe che per La corazzata Potemkin, La linea generale e il materiale girato per Que viva Mexico!, e 255
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successivamente confezionato in vari modi (l’edizione italiana, Lampi sul Messico, Alexandrov non l’ha mai vista, ed Eisenstein l’ha totalmente sconfessata), la collaborazione di Alexandrov sia stata strettamente di lavoro: tecnica, pratica, e nulla più. Le dissimiglianze balzerebbero ancor più evidenti, laddove si riflettesse sul tono generale delle opere dei due registi, sul loro temperamento, sulla misura ond’essi si legano al terreno informatore della vita sovietica, sulla qualità dei loro rapporti col mondo esterno. A un Eisenstein romantico e focoso, drammatico e dinamico d’effetti, si contrapporrebbe un Alexandrov cerebrale e controllato, farsesco e “intellettuale”. A un Eisenstein tutto risolto a posteriori, si contrapporrebbe un Alexandrov tutto risolto a priori: insomma, la “novella cinematografica” del primo, la calcolatissima sceneggiatura del secondo. E – fatto sintomatico – quand’è che Alexandrov passa alla regia, abbandona il suo lavoro di collaborazione con Eisenstein? Proprio quando quest’ultimo passa dai temi rivoluzionari, dal realismo spietato del Potemkin al realismo plastico della Linea generale, alla magnificenza barocca, decorativa e aritmicamente smagliante dell’Alexandr Njevskij e di Ivan il terribile; attraverso l’indispensabile e logico trait-d’union di Que viva Mexico! Mentre Eisenstein attinge una misura rinascimentale ampia e sontuosa, Alexandrov dirige dei film comici, satirici, farseschi, parodistici, figurativamente “primitivi”, aritmicamente semplici, apparentemente squallidi. Proprio i poli opposti. Ma, a ben guardarle, le cose non stanno precisamente così. Vi sono, tra Eisenstein e Alexandrov, non solo alcune importanti affinità stilistiche (poco avvertibili, ma non per questo meno decisive), ma altresì sussistono profonde concomitanze di natura, di impostazione di lavoro. Contrariamente all’opinione corrente, e superficiale, il cinema sovietico è tutt’altro che uniforme e monotono; i suoi registi sono ben lontani dal nascere meccanicamente dalla stessa matrice, come pulcini da un’incubatrice; dal lavorare in modo uniforme e spersonalizzato nella medesima direzione. Pensiamo alla foga, al battito frenetico e acceso del primo Eisenstein, in rapporto all’epica minuziosa, calma, matematica del primo Pudovkin. Pensiamo al realismo lirico, contadinescamente sensuale di Dovjenko, in rapporto al naturalismo farsesco e folkloristico di certo Protasanov (il Protasanov del Sarto di Torgiok, dissimile a sua volta da quello fantastico di Aelita, da quello realistico e drammatico dell’Isola della morte). Pensiamo al realismo divisionista, frammentista, aritmicamente veloce e contratto di Ekk, in rapporto allo stile largo, pittorico, teatralmente statico e plastico d’un Roscial, d’un Petrov. Pensiamo all’ironia sottile e chiara che illumina il realismo desueto e «a doppia dimensione immaginativa» di Liegoscin, in rapporto alla tanto diversa chiarezza del realismo umanista dei Vassiliev. Pensiamo al realismo psicologico di Gherassimov, in rapporto al realismo epico di Ciaureli. O al reali256
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smo di Donskoj: quanto diverso da quello di Eisymot o a quello di Romm: quanto differente da quello di Ermler. Questi rapporti di disuguaglianza potrebbero continuare in una assai lunga serie. Li enunciamo in modo alquanto approssimativo ed esterno: differenze ben più profonde vi sono tra questi registi, perché a seconda del loro temperamento personale liberamente espresso, della loro personale individualità e genialità, diversi sono non soltanto gli stili, ma anche le impostazioni ( sia quelle preparatorie che quelle risolutive). Ma a questi registi appartiene un minimo comun denominatore, che li collega ed apparenta: il realismo (che non è, come dicevamo, la sola matrice onde nascono; che, più di un punto di partenza, è un punto di arrivo). Questa base comune deriva loro dall’appartenere, nascere e vivere in una società unitaria, in una civiltà unitaria. È un fenomeno che possiamo riscontrare agevolmente anche in altre epoche, con le dovute differenziazioni beninteso: in quelle, appunto, dove la dinamica della lotta di classe portava, per un certo periodo di tempo, a società unitarie, ovvero a società in cui il potere era saldamente in mano d’una classe. Così una base comune, un minimo comun denominatore, legano Simone Martini, Pietro Lorenzetti, Bonaventura Berlinghieri, Duccio di Boninsegna e Taddeo Gaddi, tanto per fare il primo esempio che ci venga in mente. Quali sono le basi concrete e determinanti del tono realistico unitario del cinema sovietico? Evidentemente le reali condizioni stesse d’esistenza dello stato sovietico, nel quale non vi sono più classi antagoniste, nel quale i gruppi sociali – operai, contadini, intellettuali – hanno analoghi interessi, nessun predominio l’uno sull’altro, e procedono assieme sempre più verso il socialismo. Da questa situazione, da questi rapporti di forze, non possono nascere che forme d’arte unitarie; contraddistinte da un minimo comun denominatore. Su questo terreno comune, sul piano generale che informa di sé la cultura e la civiltà sovietica, come si incontrano Eisenstein e Alexandrov? Malgrado le diversità particolaristiche di temperamento individuale, le dissimiglianze stilistiche, anche e proprio sul terreno del realismo: in quanto entrambi, nel fare cinema, partono non da un’idea o da un posizione concettuale o ideologica, ma da una realtà. E ancor più s’incontrano sul piano informatore di tutto il cinema sovietico: su quello della dialettica, cioè del materialismo dialettico. L’individuazione dei termini del conflitto, la loro postulazione e il loro libero corso hanno pressoché la stessa natura sia nell’uno che nell’altro. Tanto in Eisenstein che in Alexandrov la dialettica informatrice è assai più evidente che presso altri registi sovietici; il che è facilmente spiegabile dalla loto stessa formazione culturale e (in genere, la critica cinematografica, analizzando l’opera di Eisenstein, e quindi la sua personalità, ha troppo trascurato la sua iniziale attività di regista teatrale, le sue messe in scena al Proletcult). Mentre altri registi sovietici si affidano con un’immediatezza maggiore al257
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l’urto con le cose, con i fatti, sia Eisenstein che Alexandrov operano una certa mediazione intellettuale (vedremo poi di qual natura): onde la delimitazione dialettica risulta più evidente nelle sue grandi linee. In Eisenstein, prima le grandi masse rivoluzionarie contro la reazione; poi masse unificate e organizzate contro la natura, poi la rappresentazione storicistica delle masse legate a capi progressivi nella lotta contro gl’invasori. In Alexandrov, la irriverenza contro le codificazioni, la spregiudicatezza estrosa e popolare contro l’irrigidimento borghese, la natura contro la non natura; poi la libertà morale contro la schiavitù morale, la fratellanza degli esseri umani contro il razzismo, l’amore contro il ricatto. Sia nei film dell’uno come in quelli dell’altro, v’è sempre, nella realtà dei fatti impostati, delle nature individuate, un elemento di partenza che si trova in contrapposizione con la sua negazione, e ne soccombe per dar luogo a un nuovo valore più avanzato e progredito. Un altro punto di contatto sostanziale tra i due registi, lo si riscontra nel comune elemento intellettualistico che li contraddistingue. Seppure in modo diverso, e in direzioni divergenti, sia Eisenstein che Alexandrov sono degl’intellettuali, nel senso specifico che sono degli artisti che interpongono tra la realtà oggettiva del mondo e la loro opera, un velo di mediazione intellettiva e cerebrale. È chiaro che qui intellettualismo non va inteso nell’accezione corrente del termine, onde intellettuale è Malraux rispetto ad Aragon, o Hemingway rispetto a Wright. Sia per Eisenstein che per Alexandrov la tendenza intellettualistica riesce, in massima pare, ad orientare la realtà, e non a deformarla soggettivisticamente, o a negarla in modo astratto. In questo, sono ancora degl’intellettuali di tipo leggermente diverso da quel nuovo tipo di intellettuale, che è quello sovietico. Ciò è dimostrato dal fatto che entrambi sono, seppur in un certo particolar modo, inclini al formalismo. Che poi entrambi superino questa loro tendenza; che poi la loro inclinazione intellettualistica al formalismo sia sepolta da un preponderare di valori realistici che vi affluiscono in gran copia, è un altro aspetto – e non dei meno importanti – della questione. Il circo non nasce dall’urto “diretto” con i fatti; Ivan il terribile non ci ridà la realtà “diretta” della sua epoca: tra i fatti che stanno all’origine del Circo, e il Circo stesso, c’è l’intellettualismo di Alexandrov; diverso dall’intellettualismo di tipo nuovo che sta tra la realtà informatrice del film e il film stesso, nel caso, poniamo, del Maestro di Gherassimov. Tra la realtà di Ivan il terribile, c’è non solo l’inevitabile riferimento ai documenti, ma anche l’amore ormai dichiarato, ormai impossibile da tacere, di Eisenstein per la plastica e la pittura, per il ritmo e la composizione d’affresco. Ma notate come questi valori opposti, di intellettualismo e di realismo stiano tra loro in una perenne dialettica. La sequenza d’inizio del Circo è di natura schiettamente realistica (e qui s’avverte, notiamolo per inciso, quanto Alexandrov abbia lavorato con Eisenstein); la fantomatica, paradossale e deliziosa sparizione dell’acrobata tedesco (quel diavolo intabarrato che, dopo 258
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aver gettato il dubbio e lo sconforto in un’anima semplice, s’avvolge nel mantello, in tre tempi, e dilegua) è tipicamente intellettualistica. Senso diretto e violento del dramma d’un lato, mediazione e invenzione astratta e spiritosissima dall’altra. Così in Eisenstein. Tutto l’impianto di Ivan il terribile è realistico, materialistico-dialettico: dalla rielaborazione della figura di Ivan sulla scorta delle ricerche della scuola marxista, all’orientamento ideologico del film (inserire Ivan nel quadro generale della lotta condotta dal popolo sovietico contro l’aggressione; riaffermare l’unità nazionale contro i tentativi esterni di disgregazione, eccetera); la resa si esplica per vaste figurazioni spesso compiaciute e godute, che sono pitture, affresco, bassorilievo, ecc. Ora, notiamo come anche quelli che sono i valori formalistici di Ivan il terribile corrispondono a una realtà del popolo russo, a un carattere tipicamente nazionale del popolo russo: al suo amore per l’arte statica, per la composizione ampia e densa. Da Repin ad Aivazovskij, la pittura russa non è mai stata nulla di diverso; e veniamo pure a Daineka, per non riferirci proprio all’arte religiosa dell’epoca di Ivan, nell’architettura dell’epoca di Ivan, che Eisenstein ci restituisce in un modo pressoché prodigioso (onde perfino il suo formalismo finisce in realismo, in conseguenza appunto della dialettica interna della sua creazione e della sua opera). Così pure in Alexandrov: le coreografie del finale del Circo sono, è chiaro, un effetto formalistico. Eppure. Eppure anche questo formalismo ha delle basi reali, è il risultato di un processo dialettico, e finisce col generare il suo opposto, cioè realismo ancora: perché quelle coreografie si risolvono in satire, non sono un’imitazione di Busby Berkeley, ma la presa in giro di Busby Berkeley. Una presa in giro sottilissima, da intellettuale fine ed avveduto quale Alexandrov è, ma non per questo meno realistico ed efficace. Ad Alexandrov basta il movimento di gambe d’una fila di ballerine, o il tono della loro corsa su una piattaforma, per fare della satira. Satira intellettuale, ad uso e consumo degl’intellettuali che ne costituiscono il bersaglio. Ma il senso complessivo del finale coreografico sarà nei suoi termini di gioia e di festa, di luci e di movimento; ma sarà anche nella parodia arguta delle coreografie hollywoodiane. Il direttore del circo dirà: «Meraviglioso!», gl’intellettuali europei sogghigneranno, vendicati finalmente delle estenuanti frigidità delle “follie” di Hollywood, Broadway, Goldwyn, ecc. Anche qui, dunque, il formalismo si risolve in realismo; quella sequenza conserva intatti i valori contraddittori che ne costituiscono la sostanza: Alexandrov, non celandoli, si dimostra buon dialettico davvero. Ora, se è indubbio che Eisenstein ha molto più talento di Alexandrov, mi pare che Alexandrov abbia più intelligenza e sottigliezza di Eisenstein. Onde gli scarti, le eventuali deviazioni, in Eisenstein possono essere più gravi che in Alexandrov. Il primo potrà sbagliare Il prato di Bejin, e non riuscire a terminare la seconda parte di Ivan il terribile; Alexandrov farà una «comme259
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dia musicale» come Volga-Volga, ma la critica sovietica riconoscerà che «l’idea che il film espone è profondamente legata alla realtà sovietica». S’è detto che in Tutto il mondo ride c’era l’eco di tante esperienze europee avanguardistiche magari. Bisognava anche dire in qual modo queste esperienze fossero state assimilate, come usato il loro risultato, e con quali effetti. Resta però il fatto che, malgrado la sua culturalizzazione e intellettualizzazione, Alexandrov ha dato, con Tutto il mondo ride, un film satirico e comico di un’asprezza e forma non solo originalissime, ma fors’anche difficilmente eguagliabili. I tanto esplosivi e dinamitardi Marx Brothers sono, al confronto con questo sovietico giovane e spregiudicato, dei ragazzi che fan scoppiare innocui petardi. Va bene che per forza di cose essi non possono dare il massimo delle loro capacità: va bene che i loro film sono spesso mediocri, e quel che se ne salva sono i loro pezzi di bravura, ciò dipende dall’ingranaggio industriale nel quale sono impiegati, dalle sceneggiature che vengono loro confezionate, ecc. Ma noi non possiamo ragionare che sui fatti, sui risultati: in materia di grottesco e di satire, e su un piano di intelligenza sottile e accesa, se nel cinema contemporaneo Alexandrov ha un parente lontano, questi è Prévert, il Prévert feroce e mordace di L’affaire est dans le sac. Vedete come, di contro all’empito pieno e geniale di Eisenstein, Alexandrov sia razionale e composito, e quindi, ancor più precisamente, dialettico. Il circo, in questo senso, è una testimonianza molto preziosa. Notate come in esso dietro ad ogni immagine, ad ogni situazione, per quanto possa la situazione sembrare intellettualistica, e l’immagine formalistica, ci sia un terreno condizionatore e informatore realistico, e come realistico ne sia il risultato. Gli esempi in proposito potrebbero essere molti: basterebbe analizzare la sceneggiatura (ch’è una delle più “intelligenti” ch’io conosca; ed anche qui un riferimento andrebbe solo a Prévert: pensiamo, oltre a L’affaire est dans le sac, a Drôle de drame) per dimostrarlo. Citiamo solo alcuni momenti. Quando l’acrobata russo è dall’americana, dopo ch’egli le ha insegnato la «canzone della libertà», s’ode il pianto del piccolo meticcio: la donna cerca di coprirlo suonando il piano: ma la musica che suona è la canzone di poc’anzi; ma questa canzone è suonata a ritmo jazz. E poi: l’immagine dei due giovani che cantano, è riflessa sul coperchio del piano forte; poi ruota, e diviene reale, diretta: il giovane si stacca dalla donna, e se ne va: la giustificazione è psicologica. E ancora: quando l’acrobata russo e quello tedesco si guardano attraverso il vetro, e sul vetro si formano cristalli, fino a dissolvere, in aderenza al commento musicale: questi stessi cristalli si scioglieranno al canto della canzone della libertà, per rivelare un’immagine ampia e luminosa della Piazza Rossa. In generale, lungo il film scorre questa vena di intellettualismo, che apre dalla realtà e finisce nella realtà, di soluzioni formalistiche mai gratuite e fine a se stesse, ma sempre in rapporto reciproco con la realtà. Come in Eisenstein la dialettica non è mai astratta o heghelianoide, ma 260
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concreta e marxista, così in Alexandrov è realistica e umana. Le frecciate antiborghesi di Tutto il mondo ride (sequenza della spiaggia, sequenza dell’irruzione degli animali nella villa; sequenza della lite tra i suonatori; sequenza del teatro) sono sostanziate da un’effettiva e controllabile umanità di indole borghese: sono la deformazione di una realtà, non una costruzione concettuale. In un film intelligente, colto e raffinato come Il circo, quel che in definitiva prende spicco e rilievo, è il dramma dell’americana, il problema concreto dell’antirazzismo (pensiamo un istante al patetismo tristissimo ed accorato di quel cartello circolare che segue la ballerina sulla luna di cartapesta, con quel tema dolcissimo e malinconico del violino; o alla drammaticità di alcuni primi piani dell’Orlova: per esempio, quando si toglie la parrucca, o se la mette); è la gioia umana, l’ottimismo fresco del finale: quella leggera scrollata di spalle della donna (inquadratura finale della sequenza del circo) che dissolve e diviene il primo movimento della parata sportiva del Primo Maggio: è tutto un passato disumano di infelicità e di servitù che la donna si scrolla di dosso, per entrare in un mondo libero e felice. E non stupiscano questi valori di felicità e infelicità, di libertà e non libertà, di amore e non-amore; e non stupisca la loro dialettica continua: perché una delle maggiori caratteristiche della civiltà sovietica è appunto quella di aver restituito il loro significato reale e profondo non solo a queste parole, ma anche alla loro concretezza di fatti umani e di sentimenti. Come diceva Eluard: «l’appel des choses par leur nom». Sappiamo invece dove vadano a parare le alienazioni piccolo borghesi della retorica della antirettorica: a cominciare da quel tal racconto di Kipling, dove si parla di un collegio e di una bandiera.
Massimo Mida
Eisenstein e Donskoj: due generazioni [numero 7 – settembre 1947]
Circa dodici anni fa venne presentato al giudizio del pubblico e della critica un film diretto dai fratelli Vassiliev, Ciapaiev. Un avvenimento che soltanto più tardi acquistò un significato e divenne una data importante per la storia del cinema sovietico. Ci si rese conto infatti che quel film aveva provocato una frattura fra due periodi, aveva chiarito una crisi latente, aveva infine dato l’avvio ad una tendenza che da qualche anno i teorici del cinema sovietico hanno ufficialmente battezzato, nel quadro generale di tutti i movimenti artistici, con il nome di «realismo socialista». (Si veda, a questo proposito, la dichiarazione del 1934 dell’Unione degli scrittori sovietici e l’articolo di Roschkov Il realismo socialista in «Novyj Mir», 1935). Passaggio difficile, non facilmente assimilabile e accettabile da quegli spettatori o critici stranie261
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ri pronti, lancia in resta, a creare una continua e dannosa confusione sugli indirizzi artistici dell’Unione Sovietica. Esigenza profonda rappresentava invece la codificazione di questo trapasso ormai maturato poiché l’ipertensione e l’ispirazione eccezionale che aveva guidato i grandi registi della Rivoluzione degli operai e dei contadini Eisenstein e Pudovkin, aveva lasciato il posto ad una più ardua e intellettualistica mediazione (o compromesso) fra la loro posizione di artisti formatisi nell’ambiente prerivoluzionario e un mondo che si veniva facendo, non più in grado di offrire i temi violenti di un tempo, ma al contrario difficile da interpretare perché costruito su stati d’animo “freschi” e non facilmente abbracciabili. Una rivoluzione di linguaggio, una rottura definitiva significava dunque questo film, con la densa e preziosa esperienza che pesava su di esso? Certamente no; poiché non era possibile recidere l’insegnamento di un passato così ricco e fecondo, che aveva dato il segno ad uno dei periodi più illuminati della cinematografia mondiale. Ma era tuttavia giunto il momento di guardare la realtà del paese con occhio diverso, era giunto il momento di mettere a frutto i sentimenti dei discepoli, i quali, forti delle esperienze di uomini appartenenti alla nuova generazione, potevano vantare, sugli uomini della generazione precedente, una visione, non più mediata, ma diretta della realtà, fare a meno cioè di quel compromesso intellettuale con la realtà oggettiva che rivelava i suoi inconvenienti e la sua macchinosità nelle stesse ultime opere dei “maestri”. Era necessario condurre insomma l’esperienza creativa su un piano inedito, che, corrispondesse più intimamente alle mutate esigenze del paese. «I russi hanno più di tutti gli altri popoli l’audacia candida e temeraria di ricominciare» – diceva Pietro Gobetti nel suo Paradosso dello spirito russo (pag. 17). In quali forme concrete e per quali ragioni l’opera dei grandi maestri del cinema sovietico si era allontanata dalle saldi radici popolari, bussole infallibili per il loro cammino di cantori epici? Quale fu il distacco che si operò nella scelta dei loro temi, nella loro ispirazione? Problema dibattuto e tuttora nebuloso. Cerchiamo di farci strada attraverso l’opera di uno dei rappresentanti più tipici di questa crisi: Sergio Eisenstein. Come è noto, Eisenstein ha risposto qualche mese fa con uno schietto mea culpa agli appunti che il Comitato Centrale del Partito Comunista gli aveva rivolto per il secondo episodio di Ivan il Terribile. Stralciamo alcune frasi della risposta di Eisenstein pubblicata dalla rivista «Cultura e vita» di Mosca: Come un cattivo operaio metallurgico, noi, artisti dalla mente svagata, abbiamo permesso che il prezioso flusso creativo si rovesciasse nella sabbia e si disperdesse in rigagnoli inutili. Questo ci ha portato a difetti ed errori nei lavori da noi creati. Nella seconda parte di Ivan il Terribile abbiamo travisato la realtà storica rendendo così il film di scarso valore e sbagliato dal punto di vista ideologico. Il senso della verità storica mi ha tradito nella seconda parte
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di Ivan il Terribile. Dettagli privati senza importanza e privi di caratteristica hanno posto in ombra l’obiettivo principale. La decisione del Comitato Centrale la quale mi accusa di una errata interpretazione che tradisce la verità storica, afferma che nel film “Ivan è raffigurato come una specie di Amleto abulico e debole”. Quest’accusa è giusta e solidamente fondata.
Senza dubbio una ritrattazione di questo genere, contenuta esaurientemente nelle frasi da noi scelte, se è vero che rivela uno stato d’animo sereno e in buona fede anche se un po’ ingenuo, denuncia tuttavia una crisi che, secondo un ragionamento da esteta di tipo borghese, appartiene più all’artista e al suo mondo poetico che non all’uomo, alla sua ideologia e alla sua fede politica. Temperamento focoso ed entusiasta, romantico e irriflessivo, Eisenstein più che altro dimostra la sua irrisolutezza, i dubbi di un uomo rimasto ai margini del grande movimento sociale del paese, la sua resistenza organica a “politicizzarsi”. Ma quali sono i termini della sua crisi d’artista, di narratore per immagini? Non conosciamo tutte le opere di Eisenstein, ma possiamo ricostruire un quadro abbastanza indicativo anche se approssimativo, della sua decadenza. Parabola non solo negativa, ma chiaramente destinata a una involuzione formale, ad un inaridimento di ispirazione che non può naturalmente non coincidere con un disagio di natura tecnica, con un impiego arbitrario, illogico e stonato dei mezzi espressivi che un giorno aveva usato per La corazzata Potemkin. Eisenstein, del resto, da intellettuale qual è, messo di fronte alla rivoluzione ne sente solo il lato polemico e distruttivo, non riesce ad inserirsi invece nel processo seguente di costruzione e di mutamento sociale. E non riesce nemmeno ad afferrare i sentimenti dell’uomo “nuovo”, vale a dire dell’uomo reale, sentimenti che rimangono estranei alla sua mentalità ancora individualistica, incapace di comprendere il processo delle classi lavoratrici. Ed ecco l’uomo irruento, l’artista eccitabile a contatto con la nuova realtà lenta a definirsi, monotona e apparentemente statica delle fasi successive all’urto rivoluzionario; per questo i due processi, quello dell’ispirazione e quello della tecnica, procedono di pari passo, in moto contemporaneo, verso la decadenza. Già in Lampi sul Messico Eisenstein aveva denunciato delle infiltrazioni corrosive nel suo linguaggio, anche se il film conserva una straordinaria lucidezza per i suoi valori figurativi per la sua concezione rivoluzionaria. Concezione rivoluzionaria sempre in funzione polemica e non costruttiva: ma nel 1934, alla fine del secondo piano quinquennale, nell’anno della vittoria economica, Eisenstein è in ritardo, ormai tagliato fuori ideologicamente con la sua opera, che non «partecipa più», per dirla con il De Sanctis, del suo tempo. In Lampi sul Messico è infatti possibile riscontrare una tendenza a fare dell’inquadratura degli spettacoli a sé, dei quadri in un certo senso astratti, vuoti di contenuto umano reale. L’edizione di questo film che noi conosciamo, probabilmente montata da un assistente, fu sconfessata da Eisenstein: e questo atto di ripulsa verso il 263
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materiale da lui girato rappresenta già un segno di crisi, di indecisione. Si noti che nel frattempo egli era tornato all’Unione Sovietica. In Alessandro Njevski (1936) la crisi si fa più palese: il regista trova la sua materia lontano dalla realtà che lo circonda, ma è evidente che già nella scelta del tema Eisenstein restringe la sua analisi per inserirsi in un tema storico, per raccontare di masse che, legate ad un condottiero, lottano contro gli invasori. Pressato dalle esigenze della produzione chiude il film in soli due mesi di lavoro. Tuttavia soltanto nella parte più drammatica del film, e a contatto con elementi narrativi che accendono la sua fantasia (i teutoni invasori nella loro avanzata uccidono bambini e negano brutalmente ai vinti ogni possibilità umana di esistenza) sembra ritrovare il respiro narrativo della Corazzata Potemkin o de La linea generale. Infatti quando è venuto il momento di creare «personaggi» e quando il racconto si fa lineare (la battaglia di rivincita contro gli invasori), gli manca del tutto la forza per chiudere organicamente la sua opera. Nel momento in cui dovrebbe tenere alto il tono dell’opera, appare un creatore debole, incapace di concludere il suo discorso. Ivan il Terribile, di cui noi abbiamo visto solo la prima parte, è un atto di potente rivincita: ma rivincita sterile, negativa. L’impegno di Eisenstein è innegabile, ma il film, difettoso ed errato nella concezione, non ha altro valore che quello di documento da scuola o da museo, dove la ricerca di valori formali ed ambientali soffoca ogni valore narrativo ed umano. L’impiego dell’inquadratura, delle scenografie, della musica e del sonoro sono mirabili: ma hanno il sapore di fiorettature colossali sopra uno scheletro imperfetto e tarato. Abbiamo detto che la prima visione di Ciapaiev risale a una dozzina di anni fa: proprio il tempo in cui Eisenstein accenna i primi sintomi di stanchezza, di involuzione nel racconto. Lampi sul Messico si oppone a Ciapaiev, e da allora la divergenza continuerà ad allargarsi. Quali altri film seguiranno la strada indicata da Ciapaiev? Ecco Il deputato del Baltico di Zarkhij, Il maestro di Gherassimov, Noi di Cromstadt di Dzigan, Il quartiere di Vjborg di Kozincev e Trauberg, La grande svolta di Ermler, i film di Donskoj dalla trilogia su Massimo Gorkij ad Arcobaleno e Gli indomiti. Un ritorno al realismo, in un processo che è parallelo non solo in altre cinematografie (con l’avvento del Fronte Popolare si afferma in Francia il verismo di Renoir, Duvivier, Carné, ecc.) ma anche in tutte le arti europee. Nel cinema il passo è più palese e vi si giunge attraverso il documentario e il film di “ambiente”. Per il cinema sovietico, poi, questo ritorno è tanto più vero in quanto coincide con la più forte e radicata tradizione dell’arte russa. Se i grandi maestri del cinema sovietico si allontanavano da essa, i discepoli, gli uomini cioè della nuova generazione, cresciuti nell’ambiente della rivoluzione e della guerra civile, della N.E.P. e dei piani quinquennali, vi ricondussero questo straordinario mezzo artistico di espressione. Del resto tutti i movimenti artistici russi oscillano intorno all’asse centrale del realismo; nel teatro, ad esem264
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pio, vi furono diversi ritorni al realismo: all’inizio del XIX secolo il teatro russo arriva al realismo dal classicismo attraverso un romanticismo precoce; e quando fu iniziato il primo piano quinquennale «compagni di strada» e «scrittori proletari» fecero un appello per un nuovo «ritorno». «Mancavano agli scrittori sovietici – scriveva Leonov nel ’34 – la cultura e la capacità letteraria sufficienti per raffigurare il nuovo uomo dell’epoca socialista, per coglierlo in tutta la sua statura, la sua dinamica, i suoi fini». E Gobetti aveva scritto alcuni anni prima nel suo Paradosso dello spirito russo (pagina 34): «Senza il popolo, che da migliaia di anni porta con sé tutta la storia russa, senza l’amore per il popolo, un amore ingenuo-mistico, l’intellettuale non si potrebbe concepire. Per questo egli si mette con ansietà e scrupolo alla ricerca continua del vero, del vero popolare, contadinesco». Sarà dunque interessante esaminare le opere del realismo socialista; in particolare, per maggior chiarezza di contrasto, ci soffermeremo sull’ultimo regista della nuova scuola: Marc Donskoj. È questo un artista dalla personalità palese, dai tratti riconoscibili; il suo “narrare” segue le leggi di una meccanica interna, di una visione approfondita del mondo che gli circola intorno, e non si discosta mai da un insegnamento e da una necessità “realistica”. In lui fermentano positivamente tutti gli insegnamenti del cinema sovietico nei suoi momenti più fulgidi, ma ci appare il più sensibile ai problemi vivi cui il popolo è protagonista. Per questa sua qualità è forse il regista che ha saputo con più acume interpretare le sofferenze della guerra e soprattutto dell’occupazione tedesca in Arcobaleno e ne Gli indomiti. Non è esagerato affermare che Donskoj oggi è capace di intendere più concretamente il valore più tradizionale dell’arte russa di quanto non sia capace il suo “maestro” Eisenstein. Ed è logico: se è vero che oggi il creatore della Corazzata Potemkin è nella sua parabola discendente e Donskoj in quella ascendente. Eisenstein cerca i suoi temi nella storia russa ed è portato a divagare con la macchina da presa, ad allontanarsi dal suo tempo dietro ricerche formalistiche; Donskoj vi si immerge invece coraggiosamente e soprattutto vi partecipa umanamente, da uomo capace di impulsi sentimentali; i personaggi di Eisenstein sono «abulici e deboli», isterici e vaneggianti (Ivan il terribile), quelli di Donskoj al contrario o vivono tutto il dolore di una situazione tragica (i bambini di Arcobaleno che battono con i piedini la terra dove è seppellito il fratellino, i componenti di una famiglia in zona di occupazione ne Gli indomiti) o sono illuminati da una acuta analisi psicologica che li fa vivere di vita propria (nella trilogia su Massimo Gorkij); Eisenstein fa pesare sui personaggi un formalismo eccessivo (finale di Alessandro Njevsk: i due protagonisti si incontrano dopo la battaglia in una atmosfera lunare e irreale). Indubbiamente il realismo di Donskoj, soffuso di elementi umani e sentimentali, non raggiunge mai alti toni epici, nemmeno quando i tedeschi massacrano un campo di ebrei ne Gli indomiti (scena resa con mezzi scarni, con toc265
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chi essenziali); ma in questa voluta stringatezza il dramma acquista un tono veristico, una condanna che si fa spietata: l’una e l’altra cosa perfettamente accettabili oggi. Del resto tale linguaggio e la tradizione aggiornata, se così si potesse dire senza incorrere in confronti impossibili, della grande epopea della Rivoluzione d’ottobre cantata da Eisenstein e Pudovkin, Donskoj anche per questa sensibilità e questo suo stile scarno e vibrante, è il più europeo, il più “occidentale” dei registi sovietici: cosa che indubbiamente dimostra ancora meglio la sua appartenenza alla tradizione dei “maestri” sovietici (la sua sensibilità nell’uso del sonoro è di scuola eisensteniana), e inquadra la sua personalità artistica nel processo di tutto il cinema mondiale. Infatti il lirismo di Donskoj nei termini di una sincera ricerca realistica lo avvicina ad un gusto che è comune a certi registi francesi ed ai nostri Rossellini e De Sica. D’altronde se poi si esamina il passaggio di Donskoj dalla trilogia su Massimo Gorkij (L’infanzia, Fra la gente e Le mie università) e da Il disprezzo sull’uomo, girati prima della guerra, ai film del periodo bellico e postbellico come Gli indomiti, Arcobaleno, Come si tempera l’acciaio fino all’Educazione dei sentimenti, si può notare come egli sappia adattarsi narrativamente al momento storico che il suo paese attraversa, e a ridurre ogni valore formale che non sia essenziale per il racconto senza che questo ne vada a discapito della forza espressiva. I sentimenti si fanno scarni, privi di letteratura (che in lui non sovrabbonda mai anche quando è alle prese con i personaggi “letterari” di Gorkij!), proprio come è giusto per un artista che ha parlato e che continua a parlare a un popolo prima in guerra ed ora in una dura lotta per la ricostruzione del paese. È appunto in questo impegno che non abbandona mai Donskoj, in questa sua fedeltà alle sorti del paese, da artista che sa perfettamente immedesimarsi al suo pubblico restando sempre poeta, che ci pare di individuare il massimo punto di frattura tra la sua personalità così rappresentative della «nuova scuola», ed Eisenstein come singolarissimo esemplare della «vecchia».
Glauco Viazzi
Cinema sovietico su schermi italiani [numero 7 – settembre 1947]
Stendere un bilancio, oggi, del cinema sovietico in relazione all’effettiva consistenza dello spettacolo cinematografico, significa soprattutto cercar di risolvere il problema dello scarso successo che ottengono, sia presso i critici che presso il grosso pubblico e gli industriali del cinema, i film prodotti nell’URSS. Bisogna proprio partire da questo dato di fatto, per cercare di ricostruire la natura effettiva e reale di codesti film, il loro significato e il loro valore. 266
Ombre Russe
La storia del cinema sovietico sugli schermi italiani è fin troppo nota perché sia il caso di esporla ancora. È una storia che si riassume in poche date e si esaurisce in pochi film. Un vecchio Ivan il terribile circa vent’anni fa, e poi un ventennale silenzio, interrotto solo dalla partecipazione sovietica a un paio di mostre veneziane: partecipazione tosto interrotta, visto il successo risultante, e la cui eco si risolvette nel doppiaggio di un paio di film massacrati, svisati, relegati in sale di terza visione. Dopo la Liberazione, invece, un interesse di tipo nuovo, una sollecitazione di curiosità, di interessamento sostanziale e non epidermico; poi gradatamente, un esaurirsi delle attenzioni, sia dal punto di vista spettacolare che da quello critico. Oggi i film sovietici che vengono proiettati sugli schermi italiani sono pochi. Il loro successo è assai scarso e limitato; ed è possibile prevedere che sotto certi aspetti tale rimarrà per un certo periodo di tempo. Quali sono le ragioni causali di questa situazione? Da che cosa proviene questo stato di cose? Noi pensiamo che la risposta a questi interrogativi risieda nella natura stessa dei film sovietici, e nella natura dell’attuale società italiana; vale a dire, da un lato nelle caratteristiche intimamente determinanti del cinema sovietico, e dall’altro nella realtà dei rapporti di classe attualmente vigenti nella società italiana, nella fase attuale della dinamica della lotta di classe in Italia. Infatti la frequenza o meno dei film sovietici sugli schermi italiani è un indice abbastanza sintomatico dello sviluppo generale della società, un registratore sensibile della risultante dei rapporti di forza che si sviluppano in seno a codesta società. Al periodo fascista, espressione della dittatura terroristica degli strati più reazionari, sciovinistici e imperialisti della borghesia italiana, corrisponde un’assoluta assenza di film sovietici sugli schermi italiani; al periodo democratico immediatamente susseguente alla guerra di liberazione nazionale corrisponde una presenza abbastanza attiva di tali film; oggi, a un periodo di stasi dello sviluppo democratico in Italia, corrisponde una certa rarefazione, un’assenza sempre più netta. Tutto ciò è talmente ovvio, che parrebbe inutile a dirsi; senonché proprio in questo semplice schema di rapporti basilari possiamo invenire le risposte agli interrogativi posti dianzi. Il cinema sovietico, infatti, cinema a carattere popolare, dotato di contenuti ideologici orientativi legati alle masse popolari, può trovare la propria affermazione laddove a questo suo carattere, a questi suoi contenuti, corrispondano nella società analoghi caratteri e analoghi contenuti. Alcuni esempi potranno facilmente chiarire questa sua posizione. Nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione, si verificò, specie nel Nord Italia, un clima di democrazia avanzata, a carattere popolare, contraddistinto da un nuovo rigoglio delle classi lavoratrici, da un loro affac267
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ciarsi vittorioso alla vita nazionale. Il contenuto ideologico democratico di quel periodo non mancò di influire sullo spettacolo cinematografico, sulle tendenze del pubblico, sulle sue predilezioni. Onde il successo dei film sovietici, a cominciare dalle sale di prima visione, notoriamente frequentate da determinate categorie di spettatori. Applausi “a scena aperta” in tali sale non erano infrequenti; come non erano infrequenti le critiche favorevoli sui quotidiani, sulle riviste, quale che fosse la loro tendenza ideologica e politica. Si verificavano insomma le condizioni ideali per cui alla natura dei film sovietici veniva a corrispondere una natura favorevole presso il pubblico italiano. A distanza di non molto tempo, è giocoforza constatare che, a un mutato periodo storico, corrisponde una mutata natura del pubblico. È cambiato il clima generale della vita sociale italiana, si è modificato il carattere della stampa, altri film hanno invece invaso il mercato svolgendovi la loro propaganda ideologica. Due anni fa, il critico di un quotidiano a grande diffusione poteva esprimersi favorevolmente nei riguardi di un film sovietico; oggi lo stesso quotidiano può con grande facilità liquidare un film sovietico limitandosi a ricordare che «se ne parlò in occasione della Mostra di Venezia». Gli effetti sul pubblico di un tale mutamento non possono essere rilevanti, e rilevabili oggettivamente. (Per non parlare degli aspetti più nettamente negativi di tale posizione: citiamo il caso di un critico che, recensendo Gli indomiti di Donskoj diceva trattarsi di «alcuni episodi della rivoluzione bolscevica» sostenendo brillantemente il resto della sua recensione su codesto tono culturale). Il clima sovietico trova quindi, in Italia, una situazione oggettiva a lui, nettamente sfavorevole. È boicottato dalla maggioranza della stampa quotidiana, è pressoché taciuto dalle poche riviste che si interessano del cinema da un punto di vista spettacolare, incontra – logicamente – l’ostilità di molti esercenti, di molti noleggiatori.
Renzo Renzi
La fine di S. Pietroburgo, oggi [numero 9 – giugno-luglio 1948]
La fine di S. Pietroburgo di Vsevolod Pudovkin, opera del 1927, rappresenta l’estremo limite raggiunto dal cinema muto all’avvento del sonoro. Le rivelazioni di quest’opera per molti lati meravigliosa, sono molteplici; ed ancora aumentano se la consideriamo al metro della nostra odierna abitudine. V’è nelle sue immagini una tensione espressiva tale da far pensare che più oltre per quella strada non si potesse andare. Pudovkin ha sentito l’urlo 268
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e insieme la “fisica” prepotenza della rivoluzione d’ottobre; conducendo la narrazione sopra una serie di dati tutti presenti e insostituibili, ha espresso quel fenomeno attraverso un ordinato accatastarsi di uomini, paesaggi, architetture, monumenti, didascalie (la didascalia è qui un elemento espressivo, non illustrativo: è un pezzo di montaggio), senza alcuna distinzione gerarchica tra i diversi componenti che non fosse soltanto espressiva: ha compiuto cioè una completa pianificazione tra uomini e cose. E infatti qui siamo ancora in quella fase prima del cinema russo, nella quale l’uomo è concepito come entità collettiva. Negli ultimi film sovietici l’individuo è già stato in parte scoperto ed ora cominciano a sentirne le intimità ed a condurvi dietro una materia sentimentale (v. II maestro di Gheraasimov). Protagonisti diventano sempre più i singoli uomini, tipi di uomini con affetti privati, non rudimenti primitivi di umanità, non simboli di classi, non volti-sofferenza, volti-oppressione, volti-lotta, volti-vittoria, come questi di Pudovkin. In essi aumenta il senso di questa anonimia potente la spaventosa fissità tragica determinata dall’abitudine del regista ad impiegare attori che non sanno recitare (nonostante la presenza della Baranovskaija e di Cistiacov). La rivoluzione vi è sentita non solo come esterno fatto dinamico ma come interna maturazione di una sofferenza non più contenibile; ed è attraverso la macerazione di una teoria di immagini mai cedevoli, ma sempre plasticamente violente e compiute, che egli si immerge nei fatti della cronaca, facendo essere il film materia cupa di cronaca, in contrasto, ad esempio, con l’ariosa ricerca del mito di un Lampi sul Messico. Ma più che un chiarimento celebrativo nei riguardi del film, ci interessa di dare una spiegazione a quel vibrato sentimento che ci ha fatti considerare come cittadini di un altro mondo e di un’altra epoca di fronte alle immagini de La fine di S. Pietroburgo. Già il silenzio del muto, che occorre superare ogni volta che ci si accinge a vedere un film di tal genere, fu il primo impaccio: oggi che, col sonoro, abbiamo creato il silenzio nel cinema, il tacito processo del film muto, per prepotenza di abitudine, diventa una specie di inspiegabile elemento espressivo. Fu poi la valanga dei particolari che ci procurò un altro moto di sconcerto. E pensammo dov’era finito oggi il mondo di immagini di Pudovkin, oggi nella produzione corrente, per un film della quale tutto il materiale de La fine di S. Pietroburgo sarebbe soltanto un cumulo di particolari raccolti in previsione della realizzazione del film vero e proprio. E in realtà, in quell’apparente abbondanza di particolari è invece una straordinaria asciuttezza di linguaggio: ogni elemento di linguaggio è infatti visto in un modo solo. Questa è proprio la catena di quel particolare modo di espressione, che se così non fosse si rischierebbe ad un certo punto di non far capire più niente allo spettatore: definito un elemento in un certo modo, 269
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ci si deve aggrappare disperatamente a quella definizione per far sì che le successive apparizioni siano riconosciute dallo spettatore, dalla memoria dello spettatore, che per giovarsi di sole labili immagini è sottoposta ad un lavoro assai più faticoso che di fronte ad un film sonoro dove, con la parola, c’è la possibilità di mille richiami. Questo modo, che Pudovkin ha compreso fino in fondo, gli dà la possibilità, di una concretezza straordinaria, qualora non fallisca quella prima definizione; gli dà appunto la possibilità di un linguaggio definitivo (quel senso di linguaggio definitivo e insostituibile di cui si parlava fin sopra), immergendolo senza vie di scampo nella propria materia. Quella invece del sonoro è una concretezza più facile, più naturale, che non esige in questo senso la trovata di una chiave espressiva. Esso pone più concretamente lo spettatore nell’ambiente che si rappresenta appunto perché, come si diceva, oltre a mostrare le immagini di esso, ne fa udire rumori suoni e parole. Ad un’altra impressione ha condotto taluno questo travolgente investimento della materia nei frequentissimi primi piani e particolari dei film sovietici il senso di una corrotta e disperata ricerca della violenza da parte del regista, come di una ormai inevitabile incapacità alla misura. Occorre anche qui tener conto delle nostre mutate abitudini e non scambiare per eccessiva violenza l’evidenza dei molti particolari. È stato detto che la lotta tra il crumiro ravveduto ed il datore di lavoro, data da quel susseguirsi di vetri rotti, lampade infrante, sedie rovesciate, pare un terremoto ed è invece soltanto uno scambio di pugni. Valgano per questa osservazione le argomentazioni sopra esposte; perché il sonoro ha sensibilizzato l’atmosfera, cioè l’ha scaricata della necessità di forzare; l’ha in un certo senso normalizzata o abbassata di tono. Dall’esasperato impiego dei primi piani, il sonoro ha portato ad una visione più distante dal mondo, ad una visione in campo medio, per così dire, ad una più placida osservazione che trova normalmente l’irruenza più nel movimento dentro le inquadrature o nel sonoro fragoroso che in una frequenza sbalorditiva di immagini di volti e di oggetti straordinariamente ingranditi, quali era dato vedere nel film muto. Il sonoro ha messo il pubblico in poltrona. Di qui è nata la sua tendenza a fotografare più che ad inquadrare; tendenza che d’altronde porta con sé quell’ordine naturale, quella distanza o quella freddezza, che il muto aveva quasi sconvolto investendo la materia con una indicibile irruente noncuranza. Nel muto uomini o oggetti sono tagliati nell’inquadratura senza alcun rispetto, da Pudovkin poi addirittura “adoperati”, Pudovkin che certamente era più di noi a contatto del caos, della materia non ancora armonicamente osservata. Ma, per tornare in carreggiata, la ricerca del particolare unico ed insostituibile esigeva una capacità ed una abitudine alla sintesi (in tal senso la ricerca del particolare è sintesi) che non manca di manifestarsi ne La fine di S. 270
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Pietroburgo ancora in altri due momenti; la conquista (tipica) dello spazio, del tempo e insieme del significato degli avvenimenti ad essi legati. Il film si può dividere in due parti continuamente alternantesi in conflitto: una, episodica, nel quale uomini concreti vivono una vicenda in un tempo realisticamente considerato (la morte della madre all’inizio, l’arrivo del crumiro al centro rivoluzionario, l’arresto dei rivoluzionari, ecc.); una seconda legata a motivi senza tempo o cristallizzati (le statue, le architetture, i paesaggi). Il farsi della rivoluzione è dato dalla parte episodica che nasce dalla cronaca, mentre la reazione alla rivoluzione è nei motivi architettonici decorativi, negli elementi senza tempo (dove invece Eisenstein, in Lampi sul Messico, col procedimento inverso, trovava le origini e le giustificazioni della rivoluzione messicana). Ad un certo punto il conflitto scoppia apertamente tra i due elementi. Assistiamo così ad una delle più formidabili sintesi che il cinematografo ci abbia mai dato (ne ricordiamo, a titolo di cronaca, un’altra: quella della panoramica iniziale de II dittatore di Chaplin, mediante la quale si racconta, in pochi metri e con un solo elemento di montaggio, tutta la profondità del fronte occidentale nell’altra guerra, dalle prime linee fino ai molti chilometri nell’intorno delle retrovie dove è piazzata la «Bertha»). Infatti la battaglia che segnerà la fine di S. Pietrohurgo è raccontata attraverso un rapidissimo susseguirsi di inquadrature della città, di spari e di fumate. Pudovkin ottiene, valendosi delle architetture, una molteplice sintesi ed una triplice loro significazione espressiva: la brevità delle immagini dà la rappresentazione drammatica dell’episodio, della battaglia in corso; la presenza delle architetture dà la rappresentazione del luogo, dell’ambiente in cui si svolge questa battaglia; infine la presenza di quelle “certe” architetture (che prima erano state mostrate come i simboli del mondo da distruggere) dà la rappresentazione del significato della battaglia stessa. Le impensate comodità letterarie del sonoro non impongono certo questi sforzi, né questi risultati.
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Ebbi l’occasione di conoscere da vicino le peculiarità dell’arte cinematografica, che, nella sua essenza, è profondamente metonimica, nel senso che utilizza in maniera intensa e varia il gioco delle contiguità. Questo nervo vitale dell’arte cinematografica di allora era messo particolarmente in rilievo dalle sporadiche incursioni nell’ambito della metafora manifesta. Quest’ultima è illustrata in concreto con molta chiarezza nel concatenamento e nella fusione in cui un’immagine che si sostituisce a quella precedente non è affatto contigua ma legata per similitudine – per esempio, quando con una dissolvenza vengono a precisarsi i contorni di una selva di ciminiere di fabbriche al posto di un’immagine della taiga che scompare. Questo abbiccì della tecnica cinematografica permetteva di cogliere quel gioco incomparabile delle contiguità, in cui c’è il rifiuto di seguire in maniera servile i clichés della prossimità nello spazio e della successione meccanica nel tempo... ROMAN JAKOBSON
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Baldo Bandini
Scenografia del disegno animato [numero 3-4 – settembre 1946]
I primi disegni animati non avevano sfondi: il movimento del pupazzetto creava un invisibile spazio sullo schermo, una tridimensionalità ideale di origine esclusivamente dinamica, e la mimica del personaggio bastava da sola ad indicare quale fosse l’ambiente adatto per l’azione. Era sufficiente un semplice oggetto, come faceva Cohl: un lampione, una scala a pioli, una sedia, una finestra, metafisicamente tracciati nello spazio, per creare e giustificare un supporto figurativo e scenografico alle vicende e alle trovate. In questo modo, oltre a un estrema semplificazione tecnica, si otteneva una unità grafica e formale assoluta; e su questi due elementi avevano buon gioco la fantasia e il gusto delle improvvisazioni dinamiche e ritmiche delle azioni. Nel successivo sviluppo del disegno animato e specialmente per l’introduzione dei fogli trasparenti, per facilitare la ripresa e il disegno dei soggetti in movimento, venne naturale il sottoporre al piano o ai piani trasparenti portanti l’azione uno sfondo immobile e opaco sul quale era disegnata la scenografia. La scenografia del disegno animato non ha normalmente esigenze di animazione e pertanto potrebbe essere praticamente risolta con uno sfondo fotografico o pittorico qualsiasi: il problema però è quello di dare una coerenza e una coesione grafica agli sfondi in modo da essere perfettamente in carattere con le figure in movimento. Il graficismo proprio e specifico del disegno animato è nato soltanto in funzione del movimento ed è quindi pienamente espresso nei personaggi che agiscono: si tratta di unificare lo stesso graficismo anche per gli sfondi. A questo punto sorge la maggiore difficoltà, di importanza per la prima volta estetica nella costruzione intima di questo genere cinematografico, perché dalla sua soluzione può dipendere fondamentalmente lo spirito complessivo dell’opera nella sua unità formale. Questa difficoltà è stata ed è ancora alla base di un dissidio di carattere figurativo: se infatti i termini di giudizio per quanto riguarda le figure in movimento non riflettono alcuna esigenza di critica disegnativa in senso tradizionale, poiché il loro graficismo non è in alcun modo inseribile nel campo del disegno vero e proprio, immobile e fine a se stesso, una volta applicati, invece, agli sfondi e alle scenografie ferme e tutte risolte in superficie si vengono a trovare nelle condizioni analoghe a quelle del genere pittorico. Soltanto sulle scenografie possono pesare e nuocere aggettivazioni realmente figurative come: illustrativo, narrativo, oleografico, pittoresco, espressionista, realistico, naturalistico, eccetera. Non è sufficiente, d’altra parte, la particolare funzionalità degli sfondi per astrarre automaticamente la questione dal campo della critica figurativa: 275
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anzi, è proprio la particolare funzionalità che ne determina in questo senso la validità con un procedimento mediato. Poiché la condizione prima della loro purezza e della loro autonomia consiste nel soddisfacimento completo ad un esame critico e figurativo che giunga a determinare per essi, nella loro immobilità comune alla pittura e alla scenografia tradizionale, un’originalità disegnativa e pittorica che li accampi in un piano di assoluta coesione col graficismo determinato dal movimento. Insomma: se un personaggio, ad esempio Topolino, è un’astrazione grafica assoluta, un non-disegno, al di fuori di ogni riferimento normale e portato su un livello formale esclusivamente funzionale e fantastico, anche l’albero che deve servire da sfondo a Topolino deve essere risolto graficamente sino ad essere portato sullo stesso livello. Questo albero arriverà così a possedere un’originalità figurativa nella sua esistenza immobile e di riferimento; qualità invece che per il personaggio può non avere alcun valore, neppure minimo, dato che la sua espressione non è per nulla contenuta in limiti di stasi e di quiete. È esplicito di conseguenza che il termine «pittura in movimento» è per noi un non senso. In questo ordine di idee e nei limiti sopra citati potremo ancora aggiungere che è plausibile affermare che il disegno animato può arrivare a dar vita anche a un particolare mondo figurativo; non come finalità, si intende, ma come sottoprodotto della sua meccanica. Mondo che può logicamente venire sfruttato ed esaltato con gusto con termini decorativi e pubblicitari. Abbiamo parlato di dissidio e di contrasto: infatti la produzione commerciale non è riuscita ancora a far collimare soddisfacentemente il carattere grafico degli sfondi con quello delle figure in movimento. Tanto è vero che le ultime opere di Disney segnano, con l’estrema risorsa dello schermo trasparente e del processo Dunning che mescola e confonde scenografie naturali e attori reali con le azioni in disegno, una crisi fondamentale, un allarme di impotenza proprio e soltanto grafica e figurativa che può preannunciare la fine commerciale del disegno animato allo stato puro e originale. Dove maggiormente ci si è avvicinati ad un’unità disegnativa nell’opera di Disney è stato nelle prime serie di Mikey Mouse in bianco e nero, dove si può chiaramente scorgere un efficace tentativo di introdurre e giustificare con semplicità e naturalezza nella fantasia del disegno animato quel particolare modo illustrativo anglosassone, illustrativo e ruskiniano, romantico e acquarellistico. Quelle capanne di assi incurvati, quegli oggetti dove sempre è palese la rusticità d’origine e di fattura, quegli alberi nodosi ricchi di fronde e di radici, quel sapore insomma campagnuolo e rozzo poteva trasformarsi ed evolversi fino a divenire parte integrante in un contrappunto di contrasto connaturato. Ma la corsa verso un sempre maggiore realismo rappresentativo, lo spostare in profondità i diversi piani per accrescere l’effetto prospettico, l’uso 276
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stesso di modellini plastici e tradizionali (Fleischer), furono tutti elementi che allontanarono sempre più la purezza disegnativa del saporoso schematismo dei cortimetraggi in bianco e nero. E ci fu di peggio: tutta la produzione commerciale si lasciò trascinare dagli scenari oleografici di maniera sino al punto d’adattare esteriormente gli stessi personaggi, animali o persone, agli sfondi; di subordinarli insomma a ciò che prima era una logica derivazione, dove maggiormente si faceva sentire la difficoltà di adattamento, ma non per questo sufficiente a giustificare un capovolgimento di valori. La ricerca di schematismo e graficismo specifico si fermò a mediocri compromessi: nei casi migliori limitate caricature di uomini e animali, nei maggiori e più deprecabili addirittura fattezze e proporzioni umane stentatamente ricalcate su fotogrammi fotografici ripresi su attori veri in carne ed ossa! Denunciando questo basilare decadimento formale nel carattere grafico del disegno animato non si vuole escludere che non possa essere riscattato e posto in sordina da elementi successivi e aggiunti, musicali, narrativi, spettacolari, a seconda degli esempi, dove il significato finale può consistere in altri fattori preponderanti e diversi dall’apparenza disegnativa. Si deve pure osservare che questa critica è limitata al disegno animato americano dei grandi nomi, ma che esistono pur sempre testi isolati, purtroppo quasi sconosciuti, di autori francesi, olandesi, tedeschi, russi che non seguono per nulla questa parabola discendente. Da un punto di vista rigoroso concludiamo che, indipendentemente dagli esempi più noti e numerosi, è pertanto possibile la creazione di un mondo disegnativo perfettamente unitario, originale e coerente nelle sue scomposizioni mobili e statiche, recante in un blocco solo l’impronta del suo autore. La scenografia del disegno animato viene ad assumere di conseguenza una caratteristica generale di assoluto distacco rispetto al normale campo cinematografico, sullo stesso piano e con gli stessi attributi qualitativi dell’autonomia del graficismo di movimento.
Gianfrancesco Luzi
Del raccordo su tempo supposto. Note di montaggio [numero 5 – dicembre 1946]
Non spiaccia al lettore se nel compilare questa nota di montaggio mi riconduco per gli esempi a due film nient’affatto recenti e se questi due film risultano, per di più, quasi di ordinaria amministrazione. In verità non dovrei faticare molto per ancorare il mio scritto a citazioni più prestigiose ma il senso di questa nota, intesa a generalizzare una buona regola di montaggio, non ci guadagnerebbe affatto; anzi, acquisterebbe una significazione meno 277
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lata, mentre qui io intendo precisare una norma di montaggio dall’applicazione sempre necessaria, corrente. Il film Gelosia di F. M. Poggioli offre un esempio errato di raccordo su azione cronologica con zona d’indeterminatezza là dove il marchese di Roccaverdina (Rolando Lupi), dopo aver fatto ritorno al suo palazzo avito portandovi ad abitare la sposa novella, se n’esce quasi subito, inforca un cavallo e volge la sua non lontana proprietà terriera. La corsa viene data in C. L.; l’immagine in movimento, ripresa per tre quarti di spalle, volge rapidamente e di sghembo all’orizzonte. L’euforia visiva che sempre comunica una figura in moto (e che qui ben s’accorda perdipiù con l’impulso cieco del protagonista, già destinato a ricadere nelle panie dell’amante da fosso) ha appena conquistato lo spettatore quend’ecco lo stacco e l’arresto a freddo dell’immaginazione dello spettatore, a cagione dell’inquadratura che segue; qui infatti il cavaliere vien dato già immobile nel mezzo del fotogramma (è davanti alla sua casa colonica, cioè alla fine della sua galoppata), segnando così la brusca interruzione del flusso sequenziale. Lo spettatore ha la viva impressione d’un mal tolto, avverte che gli è mancato bruscamente qualcosa, sente il disagio del non concluso e del mal concluso. La comunione fantastica col clima vicenduale si spezza, tocca terra. Che è successo? È stato forse lo stacco, in sé e per sé, a causare il brusco arresto dell’euforia fantastica dello spettatore? Nient’affatto. Già lo stacco è un mezzo essenziale della narrazione cinematografica; ed è anche il più puro in questo senso; che sol’esso sfugge ad ogni singola distinzione casuale, in quanto si giustifica da sé; mentre le dissolvenze ed i mascherini, in certo modo dichiaratamente artificiosi, esigono sempre una condizione esplicita per prodursi, un’incidenza ben distinta e giustificata nel dipanamento narrativo. La funzione del C. L. succitato era giustamente da considerarsi finita con l’esaurirsi della traccia vergata da sinistra a destra dall’immagine in movimento del cavaliere in corsa, lungo la strada campagnola. Il mutamento d’inquadratura ormai s’imponeva e non soltanto quietamente plausibile, ma necessario, era che il mutamento avvenisse per stacco. La dissolvenza infatti ha una dichiarata mansione di contrappunto temporale e qui invece fra il punto di partenza e quello d’arrivo dell’azione non doveva esistere una vera e propria soluzione di tempo bensì un’economia: in virtù della sempre ottenibile e cinematograficamente urgente idealità di tempo avrebbe sortito il suo esito felice soltanto se allo spettatore ne fosse stata impedita la improvvisa e sconcertante nozione. Nel breve raggio di un’azione cronologica con zona d’indeterminatezza si avrà un perfetto inserimento di tempo ideale alla sola condizione che il processo di sintesi non venga svelato, oserei dire sgarbatamente, allo spettatore. Qui invece il “salto” nel tempo è palesemente situato e viene perciò crudamente percepito. Lo spettatore è portato ad avvertire non tanto l’intero tempo mancante da quando il cavaliere percorreva la cam278
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pagna al suo arrivo alla meta (ché troppo abituato è alla misura ideale) quanto quel piccolo tratto che il cavaliere, una volta uscito a destra del fotogramma, doveva percorrere rientrando da sinistra, sino a fermarsi entro il fotogramma, nel punto d’arrivo voluto. Questo piccolo tratto visivo era assolutamente necessario perché l’uscita di un’immagine in moto – in un seguito cronologico sia pure con zona d’indeterminatezza ma senza inserimento di altra inquadratura estranea all’azione considerata – dispone naturalmente lo spettatore al reingresso della stessa figura ancora in moto. Dargliela al contrario già immota lo si priva della conclusione in atto. Egli infatti accetterà di qualsiasi azione conseguitane nel tempo tutti i tagli intermedi che si vorranno ma se di questa azione ha visto il tratto motorio dell’inizio ha bisogno, per un bel convalidato simmetrismo visivo, di “riscuotere” anche il tratto motorio pre-finale. Ma c’è di più: se si vuole che lo spettatore non avverta, in casi simili a questo d’esempio, le crude elisioni di tempo che togliendo fluidità al ritmo sequenziario segnalano inevitabilmente il passaggio da inquadratura a inquadratura (mentre è assiomatico che una sequenza è perfetta se non lascia contare, avvertire, il numero delle sue inquadrature) occorre far sì che la velocità della figura uscente e subito rientrante sia la stessa. Ossia: che il rallentamento o l’accelerazione del moto avvenga entro le inquadrature e mai fuori di esse, cioè nella zona d’indeterminatezza. Mi spiego. Camerini in Una storia d’amore ci dà quasi per intero l’azione cronologica di Lulli che sale correndo i tanti rami di una scala. La bella sequenza ha un ritmo crescente e, in virtù di una previsione di montaggio ed un montaggio abilissimi, le tante piccole zone d’indeterminatezza, che pure esistono fra attacco e attacco, neppure s’avvertono. Ebbene, la somma perizia intuitiva s’è avuta curando appunto che la velocità della figura in moto fosse sempre uguale fra le uscite e i reingressi concomitanti: il mutamento della velocità – insomma – è attuato regolarmente entro le inquadrature, non escluso il rallentamento finale alla posizione di quiete. Se Camerini avesse dovuto – per difficoltà di ripresa, s’ammetta – risolvere questo passaggio del racconto visivo in due sole inquadrature, si sarebbe certamente attenuto all’unica soluzione corretta e di facile eccezione da parte del pubblico: avrebbe cioè ripreso nella prima inquadratura il Lulli che infilando – ad esempio da destra a sinistra – la prima rampa di scale raggiungeva subito la velocità di corsa utile a darci il suo esagitato stato d’animo e quindi si tagliava fuori fotogramma, a sinistra; e nella seconda inquadratura ci avrebbe dato il suo reingresso da destra alla stessa velocità della precedente uscita; ed entro il fotogramma sarebbe avvenuto il rallentamento e l’estinzione del moto. Ogni altro procedimento – e questo volevo in definitiva affermare – avrebbe dato, anziché un tempo ideale, la viva mozione di un tempo mancante, a detrimento dell’illusione spettacolare. 279
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Si chiederà: perché un personaggio, ripreso dapprima che sale in fretta una scala non può, sullo schermo, mostrarsi subito dopo che termina lentamente l’ascesa, se è di comune intendimento nella realtà? Perché nella realtà il tempo che ha segnato il mutamento nel moto ci è dato, e tanto basta; mentre sullo schermo, appunto perché quel tempo intermedio viene eliminato, necessita che venga dimostrato in sintesi, sia pure in ritardo. Ogni inquadratura, infatti, dà solo il presente.
Antonio Pietrangeli
Asincronismo [numero 6 – marzo 1947]
Per asincronismo si intende la indipendenza del suono dalla visione diretta e contemporanea della sua fonte. La prima teorizzazione dell’asincronismo risale al 1925, quando cioè il sonoro era ancora in fase sperimentale. Come è noto, la invenzione tecnica del sonoro determinò un involuzione del linguaggio cinematografico. Infatti, passato il primo momento di curiosità, il sonoro venne abitualmente impiegato non come un nuovo mezzo espressivo, ma come un fondamentale apporto per raggiungere una ancora maggiore fedeltà nella produzione del mondo sensorio. La piatta e naturalistica riproduzione dei suoni e dei rumori ricondusse di colpo l’arte del film allo stato primordiale di strumento capace di riprodurre la realtà. Determinando così un totale cedimento del linguaggio del cinema che, in un gran numero di opere, aveva raggiunta la compiuta pienezza dell’arte. Tra le obiezioni che furono mosse al sonoro, quella che «le ombre non possono parlare», basata sulla discrepanza tra la bidimensionalità del quadro cinematografico e la plasticità del suono, non può essere valida: si tratta di una nuova convenzione che si aggiunge a tutte le altre e che il pubblico – come si è visto – non ha avuto nessuna difficoltà ad accettare. Assai più fondata l’altra riserva che sosteneva che l’applicazione del sonoro avrebbe determinato un decadimento del montaggio. D’altro canto, si risuscitava per il cinema la vecchia e dibattuta questione dell’accoppiamento di diversi mezzi espressivi; molti sostennero decisamente la inutilità, anzi la perniciosità della concorrenza di mezzi di natura diversissima, come l’immagine e il suono, volti ad un unico risultato espressivo. Ad annullare entrambe queste difficoltà, già dalle prime applicazioni del sonoro, i registi Eisenstein, Pudovkin e Alexandrof, affermavano la possibilità di un impiego estetico del sonoro, con la teorizzazione dell’asin280
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cronismo quale forma necessaria del film sonoro. Nel loro articolo manifesto (1928) i tre registi russi sostenevano che solo «un impiego contrappuntistico del sonoro» avrebbe evitato la decadenza del montaggio – primo fattore estetico del film. Anzi una siffatta applicazione del suono avrebbe offerto grandi possibilità di rinvenire nuove e più perfette forme di montaggio. Per ottenere questo «contrappunto orchestrale di immagini visive e di immagini sonore» è necessaria una «non coincidenza del suono con le immagini»: e cioè udire un suono quando non se ne vede la fonte, in opposizione al sincronismo (udire un suono e vederne contemporaneamente la fonte). V. I. Pudovkin Di questa dissociazione tra il suono e la visione della fonte sonora, il primo e più facile esempio – poi largamente illustrato dal Pudovkin (cfr. Film e fonofilm, L’attore nel film), ed entrato oggi nella pratica più quotidiana, è quello di un dialogo in cui le visioni alternate degli interlocutori siano accompagnate dalle battute dell’interlocutore che non si vede (fuori campo): uno dei due parla e si vede il riflesso emotivo delle sue parole sul volto dell’altro. Questo metodo di ripresa e di montaggio delle scene dialogate ha quasi universalmente sostituito quello di riprendere i due interlocutori in unica inquadratura fissa, intercalata tutt’al più da qualche primo piano sincrono, lungo tutta la durata del dialogo. S’intende, d’altra parte, che questa maniera di montare i dialoghi alterna momenti sincroni con momenti di asincronismo a seconda degli effetti narrativi e anche semplicemente emotivi che si vogliono raggiungere Spesso però il passaggio da uno all’altro degli interlocutori non è affatto determinato dalla volontà di sottolineare questa o quella battuta o questa e quella reazione emotiva, ma i piani dei volti degli attori si alternano indifferentemente e a caso. Giustamente invece il Pudovkin sosteneva che i diversi piazzamenti della macchina debbono essere determinati dal ritmo dell’interesse della situazione. L’attenzione dello spettatore infatti dovrà essere concentrata su uno dei personaggi o trasferita ad un altro secondo «la linea dell’interno contenuto della scena». Così il Pudovkin, distinguendo un asincronismo anticipante e una sincronismo posticipante, prevede tre casi: 1) un attore fa una domanda ad un altro: all’inquadratura del primo segue immediatamente quella del secondo, prima ancora che la domanda sia terminata. Le ultime parole del primo si sentiranno così sull’immagine del secondo; 2) un attore ha finito di parlare: qualora l’interesse prevalente debba essere rivolto a lui, non si passerà ad inquadrare l’altro interlocutore che dopo un certo tempo, in modo da ascoltare parte della risposta sull’immagine del primo; 3) se invece convenisse mostrare le reazioni che il discorso di un personaggio 281
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suscita in altri attori che gli stanno vicini, si mostreranno i volti dei vari ascoltatori alternati con quello dell’attore che parla, mentre ininterrottamente si odono le parole di quest’ultimo. Così l’immagine nel primo caso procederà; nel secondo seguirà la nuova voce; nel terzo, infine, varierà aritmicamente mentre si sente sempre la stessa voce. Le proposizioni di questo anticipo o di questo ritardo dovranno naturalmente dipendere dalla funzione e dalla maggiore o minore importanza, in quel particolare momento, di uno piuttosto che di un altro personaggio. «Se – dice il Pudovkin – l’importanza dell’attore che ha appena finito di parlare è grande, allora bisognerà che lo spettatore ascolti parecchie parole del nuovo interlocutore prima di distogliere la sua attenzione dal primo per volgerla al secondo. Se, viceversa, la battuta del secondo sarà attesa impazientemente dallo spettatore commosso che sente che essa è importante e significativa nel corso dell’azione, allora basterà forse anche una sola sillaba per distogliere l’attenzione dello spettatore dal primo interlocutore o per fargliela rivolgere sul secondo». Esempi Un esempio straordinariamente felice nel parlato è quello del filma Salto mortale di E. A. Dupont. Due acrobati eseguono una difficile esibizione al trapezio. Essi sono amanti e il marito di lei, che ha da poco scoperta la relazione, è deciso a vendicarsi. Egli spiega al pubblico il funzionamento di alcune leve che regolano il movimento dei trapezi e descrive la pericolosità dell’esercizio: «Se io sbagliassi di un solo secondo nel manovrare le leve...». Mentre pronuncia queste parole pensa di provocare proprio quell’errore di manovra per vendicarsi dei due e la sua voce si abbassa. La camera inquadra il pubblico da cui si leva il grido: «Voce!». Si odono le parole dell’uomo: «Se io sbagliassi anche di uno secolo secondo nel manovrare le leve...». Quindi si vede la coppia degli acrobati a cui giunge amplificata. Ripercuotendosi cupamente per le volte del circo, con sonorità spaventose e quasi sovrumane, la voce dell’uomo che sembra minacciare e condannare: «i due artisti cadrebbero sfracellandosi al suolo». In Mister Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità) Capra ha realizzato nella maniera più efficace e suggestiva questo contrappunto tra immagine e suono in tutta la scena del processo a Deeds (le parole degli avvocati o dello psichiatra viste sul volto di Gary Cooper o del Giudice). Oggi qualcuno tende a non classificare i casi che abbiamo illustrato tra gli esempi di asincronismo vero e proprio e preferisce parlare piuttosto di «asincronismo attenuato» (Umberto Barbaro) o addirittura di «asincronismo presupposto», in quanto la macchina stabilisce la presenza dell’interlocutore, o di «pseudo asincronismo» poiché il legame tra immagine e suono è ancora 282
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spaziale cioè fisico (Luigi Chiarini, Cinque capitoli sul film). Il termine asincronismo, invece si usa in genere per indicare un rapporto creato idealmente e non nella realtà, vista o sentita, tra suono e immagine. Questo mezzo è naturalmente ricco delle più ampie possibilità, permettendo alla fantasia di suggerire nessi e rapporti sottilissimi e puramente allusivi tra immagine e suono. Ad esempio, nel documentario Song of Ceylon (La canzone di Ceylon) di Basil Wright una scena di donne che raccolgono noci di cocco è commentata da un allusivo montaggio di voci che leggono le quotazioni di borsa del cocco, che danno ordini di compera e di vendita, ecc. Willy Forst in Mascherade (Mascherata), ha ottenuto un particolare effetto sostituendo alle voci umane versi di animali. Alcune persone si beano alla visione di una vignetta pornografica ed emettono grasse risate di soddisfazione: invece di sentire le risate si odono i versi di animali che presentano affinità somatiche con i personaggi. Charlie Chaplin, in un primo tempo accettò il “sonoro” come un arricchimento dei mezzi espressivi del cinema, pur prendendo una decisa posizione contro il “parlato” al quale negava possibilità di vita nell’arte del film. In City Lights (Le luci della città), con chiare intenzioni polemiche, egli ha fatto sentire il discorso di un personaggio ufficiale per l’inaugurazione di un monumento. Ma, invece di parole, la colonna sonora registrava rumori e suoni inarticolati. Il “monologo interiore” Applicazione ancora più suggestiva dell’asincronismo si ha nel cosiddetto «monologo interiore», cioè nella materializzazione di voci interiori. Contrariamente a quanto si verifica nel teatro, nel cinema l’impiego di voci che traducono stati d’animo, pensieri ricorrenti o ossessivi, fa parte di una convenzione accettabile proprio per il fondamentale contrasto esistente tra le caratteristiche bidimensionali dell’immagine cinematografica e quelle plastiche del suono. Ne Le Milion di René Clair, un amico del protagonista, Michel, che vuole appropriarsi del biglietto vincente di una lotteria, viene continuamente ammonito dalla voce della coscienza che si esprime col ritornello: «Michel, Michel, que va-tu faire?». Sempre lo stesso Clair ha largamente impiegato, con effetti comici, una voce dell’oltretomba in The ghost goes West (Il fantasma galante). In un film di Rouben Mamoulian, City Streets, una ragazza che ha sempre cercato di convincere il fidanzato a diventare complice di una banda di gangsters di cui ella fa parte, appena arrestata, capisce tutta la bassezza della vita che ha fino allora condotto. Al fidanzato che, tutto elegante, viene a trovarla in carcere, domanda con apprensione dove abbia trovato tanti danari per comprare quei vestiti; e si sente, rispondere con un sorriso d’intesa: «Sai, 283
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Nina, whiskey...». Un prolungato suono di campanello fa cessare il colloquio. La ragazza sconvolta dalla notizia che ormai anche il fidanzato fa aprte della banda di gangsters, si agita tutta la notte nella sua cella e risente la frase: «Nina, whiskey, Nina, whiskey» e, con le parole, il trillo ripetuto e insistente del campanello. La protagonista di Blackmail di Alfred Hitchcock, dopo aver ucciso con un coltello un uomo in un momento di terrore e di schifo, non sente altro (e con lei il pubblico) che la parola: «coltello, coltello, coltello», in una ripetizione ossessiva. Nello stesso modo il sonoro è stato impiegato ne La dame de piques di Fedor Ozep: una ragazza spiega al suo amante il modo per entrare nella casa di lei: «C’è una porta, poi un salone, poi una scala, ecc.». L’uomo, eseguendo le azioni, risente la voce della ragazza che gli ripete le indicazioni: «C’è una porta, poi un salone, poi una scala, ecc.». Sempre nello stesso film, il protagonista durante una corsa in un bosco, sente una voce che gli indica, monotona e ossessionante, tre carte da giocare. Analogo esempio, seppur meno convincente, è in Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Il dottor Jekyll) di Mamoulian: mentre Jekyll sta in casa di una donna, Ivy, questa si spoglia davanti a lui e si caccia sotto le coperte del letto. Poiché Jekyll non si avvicina, la donna mette fuori delle coperte una gamba e la fa dondolare sulla sponda del letto, davanti a lui. Alla mente di Jekyll, appena uscito di casa, si ripresentano l’immagine della gamba che dondola e la voce sensuale e calda di Ivy: «Come back, come back». La sovrimpressione visiva della gamba che dondola dinanzi al primo piano di Jekyll, toglie a questa evocazione gran parte della sua suggestiva efficacia. Applicazioni di sincronismo evocativo si hanno ancora in Summers in the sun di Alexander Hall, in Over the Hell di Henry King, in Citizen Kane di Orson Welles, ecc. Senza contare tutti i film, via via sempre più numerosi, in cui la vicenda narrata o rievocata da un personaggio in prima o in terza persona e in cu la voce dell’invisibile narratore crea i “ponti” o legamenti fra una scena e l’altra, commenta scene mute, interpreta atteggiamenti o situazioni rappresentate solo visivamente (da Wouthering Heights a Our Town, da Power and the Glory a The southerner, da How Green was my Valley a The Flame of New Orleans e a It Happened Tomorrow). Ma un impiego totale dell’asincronismo non s’è ancora avuto se non nel film Strange Interlude, trasposizione cinematografica dell’omonimo dramma di Eugene O’Neill, diretta da Robert Z. Leonard. Come noto, il lavoro di O’Neill è tutto basato sulla materializzazione dei pensieri dei protagonisti, in modo da rivelare i più profondi e inaccessibili recessi delle loro coscienze. Nella rappresentazione teatrale, tali pensieri erano attori, e per distinguerli dal normale dialogo venivano espressi con toni di voce diversi da quelli consueti, mentre gli attori rimanevano perfettamente immobili. Nel 284
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film, per mezzo della sovrimpressione sonora, si udivano le voci degli attori senza che questi movessero le labbra. Henry V Al tempo di questo non troppo felice tentativo, S. M. Eisenstein sostenne, in una interessantissima serie di articoli (pubblicati in «Close Up» a. X, n. 1, marzo 1933: Cinematography With Tears; e a. X, n. 2, giugno 1933: An American Tragedy) la paradossale e discutibile tesi che «And how obvious that the material of the sound film is in no sense Dialogue. The true material for the sound film is, of course, the Monolouge». Proprio in questa direzione, Lawrence Olivier, ci ha di recente dato un esempio specialmente efficace, e tra i più inediti della storia del cinema, in una sequenza del suo Henry V (1944). Con asincronismo mirabilmente intuito, l’Olivier ha reso in forma di monologo interiore le parole che Shakespeare fa pronunciare ad Enrico mentre attraversa l’accampamento, nella notte precedente la battaglia di Agincourt. Una voce pronuncia il monologo, mentre le labbra dell’attore (lo stesso Olivier) rimangono immobili. Così, proprio in virtù di questa singolare applicazione del sonoro, l’immagine riesce a sottolineare il testo scespiriano nei suoi eccezionali valori, gli si raffronta e lo interpreta, con diversa ma non meno valida intensità. Durante tutto il lungo monologo, l’attore offre l’obiettivo, che si avvicina lentissimo, un’espressione variante per modulazioni profonde e movimenti insensibili, che piegano l’attenzione abitualmente irrequieta dello spettatore, alla durata d’uno sforzo d’analisi e di penetrazione capace di creare attorno all’immagine e al testo un alone temporale e stereoscopico d’intensità affatto inedita. Nei rumori Ma non solo per il dialogo è possibile l’applicazione dell’asincronismo: i rumori e la musica offrono larghissimo campo a un uso efficace e appropriato di questo mezzo. Spesso rumori asincroni possono, in maniera stupefacente, essere utilizzati come elemento costitutivo di un clima poetico, capace di definirlo e arricchirlo. In The Singing Fool Al Jonson fa cantare la moglie nel suo locale. Un silenzio penoso si diffonde nella sala alla fine del numero. La donna smarrita guarda verso il pubblico. Si ode lontano un solo applauso. La macchina panoramica lentamente sul pubblico immobile: nessuna mano si muove, solo l’applauso persiste lontano. Poi il rumore si fa via via più distinto e più forte, finché la macchina scopre Al Jonson che batte le mani. Bellissimo esempio di quello che Pudovkin chiama «asincronismo anticipante». Ad accentuare una particolare situazione drammatica, e come materiale nel quale sia tutta la significazione del soggetto, G. W. Pabst ha usato il 285
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rumore di una celebre scena del suo Kameradchaft (La tragedia della miniera). Minatori tedeschi cercano di soccorrere minatori francesi rimasti imprigionati nelle gallerie ostruite di una miniera. Il rumore dei ferri che i tedeschi battono sulle tubature della miniera sepolta per dirigersi, si cambia nel ritmo scrosciante di una mitragliatrice; e il minatore francese non vede nel suo salvatore, che ha il viso incappucciato nella maschere antigas, altro che il nemico della recente guerra e gli si scaglia contro. In questo caso, il rumore è usato ad illustrare, con straordinaria evidenza, lo stato d’animo di un personaggio, cioè in una funzione allusiva analoga a quella che, per la parte visiva, ha il cosiddetto “materiale plastico”. Analogamente, spesso alcuni registi si servono della enorme potenza evocatrice di rumori asincroni per indicare lo sviluppo di un avvenimento: nello steso Kameradschaft la morte di uno dei minatori è data dal rumore della ruota di un carrello, che ha trascinato il minatore a fondo, che gira a vuoto. La resa di un procace ostessa ai desideri di un tamburo maggiore, ne La Kermesse Héroique di Jacques Feyder, è indicata dal progressivo smorzarsi del rullo di un tamburo i cui colpi diventano sempre più irregolari finché si sente il tamburo stesso rotolare in terra, mentre la macchina inquadra prima la porta della stanza in cui sono chiusi i due e poi una mano che abbassa le tendine. Altro esempio di appropriato rapporto allusivo tra immagine e suono è quello adoperato da Marco Elter nel suo Scarpe al sole. Un soldato durante la guerra è relegato in una fureria, ma vorrebe raggiunger i suoi compagni al fronte e marciare al loro fianco. Mentre bolla con un timbro un pacco di fogli, invece del rumore del timbro, si sente quello cadenzato dei passi di un reggimento in marcia. Così, E. A. Dupont che nelle sue opere ha sempre fatto un uso straordinariamente cinematografico del suono si è servito dell’asincronismo in funzione esplicativa: nel film Due Mondi un ufficiale austriaco dorme in una stanzetta, in uno di quei paesi dei Carpazi persi e riconquistati a volta a volta dai tedeschi o dai russi. Si sveglia e gli arriva, con la limpidezza dell’alba, il canto dei soldati russi: tutto il pubblico ha capito che i russi hanno rioccupato il paese e che l’ufficiale corre il rischio di essere fatto prigioniero. Infine, in Stagecoach (Ombre rosse) di John Ford, suoni e rumori asincroni assumono un valore affatto decisivo nello svolgimento della vicenda, in quanto ad essi è affidata la risoluzione dell’acme drammatico del film. Stagecoach è la storia di un viaggio in diligenza durante il quale i passeggeri temono d’essere raggiunti dagli indiani che li inseguono. Il momento emotivamente più alto è reso con un montaggio alla Griffith, che Ford ha risolto, in maniera del tutto nuova mediante il sonoro: una donna prega nella diligenza, mentre si odono gli spari e i sibili delle frecce degli indiani. La macchina resta ferma sul volto della donna terrorizzata. A poco a poco si alza nell’aria, 286
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via via più distinto, lo squillo di una tromba. Il volto della donna, dapprima incerto, si illumina di colpo: sono arrivati i salvatori. Nella musica L’asincornismo della musica nel film fu sostenuto dal Pudovkin (cfr. Film e fonofilm) il quale afferma che «la musica nel film non deve mai aver carattere di accompagnamento». Quindi una musica di intonazione trionfale e vittoriosa può – ad esempio – accompagnare la visione di una repressione o di una sconfitta, riaffermandosi in essa il tema fondamentale del film: la certezza, cioè, della riscossa e della vittoria ultima di coloro che momentaneamente sono sopraffatti. Il Pudovkin che ha attuato proprio questo esempio nel suo Il disertore (musica di Saporin) scrive: «Quando i lavoratori perdono terreno il tema vittorioso della musica aumenta; quando i lavoratori sono disfatti e dispersi la musica diventa più potente, sempre nel suo spirito di vittoria e di esaltazione: e quando i lavoratori spiegano di nuovo la loro bandiera allora la musica giunge al suo massimo e finalmente la sua essenza coincide con quella dell’immagine. Che ruolo viene ad avere qui la musica? Come l’immagine è una oggettiva percezione degli avvenimenti così la musica esprime l’apprezzamento soggettivo di quella obiettività. Il suono ricorda agli spettatori che ad ogni sconfitta lo spirito combattivo dei lavoratori riceve nuovo impeto e impulso verso la vittoria definitiva di domani». Un caso limite, certamente, nella sua evidenza che sembrerebbe didascalica. Comunque, variamente atteggiata o modificata, la tesi di Pudovkin è riapparsa spesso negli scritti sui raporti tra cinema e musica. Oltre ai sostenitori, naturalmente, ha trovato detrattori e oppositori: chi ha affermato che, al contrario, la musica deve avere un esclusivo «carattere di accompagnamento» e chi ha scritto: «Nous ne demandons pas (à la musique) de nous “expliquer” les images, ma de leur ajouter une résonance de nature spécifiquement dissemblable (ou alors c’est se résigner au pleonasme perpétuel). Nous ne lui demandons pas d’être “décorative” et de joindre sa propre arabesque à celle que nous propose l’écran. Que elle se débarrasse donc de tous ses éléments subjectifs» (Maurice Jaubert). Ma, quantunque sia chiaro che la tesi di Pudovkin è accettabile solo come dichiarazione di tendenza e che come ogni considerazione di carattere normativo, non può pretendere certo validità esclusiva sul piano estetico, tuttavia è certo che gli esempi fondamentali di raggiunta unità poetica tra i valori espressivi della musica e quelli dell’immagine rimangono quelli dell’asincronismo. La musica de La chienne di Jean Renoir è tutta asincrona e raggiunge con scarna essenzialità i suoi più compiuti intenti espressivi. 287
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Anche durante la drammatica uccisione di Severine (Simone Simon) de La bete humaine (L’angelo del male) di Jean Renoir, si sente la facile canzonetta che un tenorino sta cantando nel caffè della festa dei ferrovieri, dove Severine ha poco prima ballato in compagnia dell’amante che la uccide (Jean Gabin). Le note allegre, e forse un po’ patetiche, della canzone che violentemente risuonano, ingigantite e amplificate, nel cervello di Lentier, rafforzano infinitamente la drammaticità della scena e stanno quasi ad indicare il sentimento di liberazione del protagonista. Marcel Carné nel suo Quai des brumes (Il porto delle nebbie) ha impiegato un bellissimo coro di voci bianche per accompagnare la scena in cui l’infame tutore di una ragazza lotta con l’amante di questa e viene ucciso. Altre situazioni fortemente drammatiche sono sottolineate da allegri motivi popolari: un organetto suona davanti alla porta della casa in cui la madre impazzita parla con la donna che è venuta a cercare il figlio, in Carnet de bal (Carnet di ballo) di Julien Duvivier. Mentre il piccolo protagonista di Poil de carotte (Pel di carota) di Julien Duvivier, sta per impiccarsi, gli tornano alla mente gli episodi salienti della sua breve vita. Nel rapido montaggio sonoro che descrive questa immaginaria rievocazione, spicca immediatamente la festosa canzone che il piccolo aveva cantato un giorno insieme al padrino: e il riavvicinamento tra il ritmo giocondo e il volto angosciato del bimbo accrescono il valore emotivo e drammatico della situazione. La copia degli esempi riportati sarà servita a chiarire come un simile impiego del suono determini logicamente una libertà e una indipendenza dei due fattori visivo e sonoro, da permettere la convivenza e il reciproco potenziamento: il sonoro, cioè, solo mediante l’asincronismo, potrà «aumentare la potenziale capacità espressiva del film».
Fernaldo Di Giammatteo
Appunti sul film a colori [numero 6 – marzo 1947]
Alcuni luoghi comuni, nati dalla prima presa di contatto con il filmcolore, hanno resistito sino ad ora, e promettono di resistere ancora per molto tempo, attraverso radicatissime convinzioni. Tra questi luoghi comuni, due sono quelli di importanza più rilevante. Il primo, quello di “colori naturali” è facilmente spiegabile e nell’istesso tempo rapportabile alla – diciamo così – popolare e spicciola concezione dell’arte, per la quale maggiore è il grado di “realtà” (talvolta, appunto, si dice naturalezza) raggiunto nella pura e semplice riproduzione, maggiori sono l’ef288
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ficacia e il valore dell’opera che su questo schema è stata condotta. Torna, stranamente camuffato, il pregiudizio del “bello di natura” e, conseguentemente, del contenuto fine ultimo dell’opera d’arte, quale elemento dotato della totale sufficienza. Se questo luogo comune dovesse continuare a trovar fortuna (e gli ultimi film ci fan temere di sì), ci si avvierebbe verso il progressivo alienamento di alcuni degli stessi mezzi espressivi che al cinema si riservano: si va perdendo, infatti, il senso dell’inquadratura puntuale, del taglio di volta in volta significativo, del paesaggio in funzione di elemento attivo, in funzione di atmosfera, se si vuole. Alla fisima del “colore naturale” si vuole contrapporre, in sostanza, un richiamo ad una genuina concezione estetica del problema. Concezione che comporta il principio di una “creazione” del colore, una preveduta e continuamente attuata suddivisione o fusione delle varie gamme, una disposizione di esse al servizio dell’ispirazione del regista, in modo da trascendere ogni parvenza di meccanico procedimento. Passiamo al secondo pregiudizio, assai meno superficiale ma non meno errato e nocivo: il pittoricismo. Scrisse un tempo Walter Ruttmann: «Inventori, produttori e operatori hanno giocato a fare da Rembrandt. Con buona intenzione, ma senza alcun risultato, sono stati girati innumerevoli film». Il «fare da Rembrandt» è, perciò, secondo Ruttmann, «buona intenzione», ossia cosa approvabile e consigliabile. Qui sta l’equivoco, che è molto sottilmente mascherato. Ammettere il «fare da Rembrandt» equivale ad ammettere che si possa impostare un film sul piano, principalmente se non esclusivamente, di una ricerca pittorica. La qual cosa, prima di tutto, ingenera una difficoltà gravissima: la staticità. Tendendo a fare del film quella che si potrebbe chiamare (un po’ semplicisticamente, forse) una serie di quadri, si giunge – con un processo insensibile – all’imbrigliamento della corrente dinamica, e fino – portando il processo all’esasperazione – al completo annullamento di essa. La narrazione diverrebbe non soltanto un ininterrotto succedersi di “stati d’animo”, ma (pensando che una simile concezione verrebbe facilmente interpretata nella forma più esteriore) un mero elenco di elementi decorativi. Ciò che in definitiva significherebbe dimenticare ogni valore narrativo, e perciò distruggere la stessa narrazione in quanto tale. Non solo. L’impostazione del film sulla ricerca pittorica costringe il realizzatore ad avvalersi di una tecnica diversa da quella cinematografica (diversa nella sostanza, anche se molti sono i punti in comune). Avvalersi di questa tecnica (pittorica) in altro campo da quello in cui è nata e per cui vive, è compiere un evidentissimo assurdo. Un assurdo simile a quello che spesso (troppo spesso) si ripete nel film sonoro, con l’impiego di una tecnica estranea (quella teatrale). 289
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*** Colore come mezzo narrativo; potrebbe essere questa la sua funzione principale nel cinema. Se un nuovo mezzo espressivo è stato introdotto, e se un nuovo esperimento si pensa esso debba produrre nell’arte cinematografica, non vedo quale altra funzione sia da attribuirgli se non quella narrativa, concepita nel più ampio senso possibile. Questa è semplice premessa teorica, s’intende, che dai risultati finora attinti non ha avuto, si può dire, alcuna conferma né, parimenti, smentita di sorta. (Il filmcolore, quale è apparso sul piano realizzativo si è mosso sempre in una zona amorfa, impersonale, scarsamente indicatrice). Il colore, come mezzo espressivo in funzione di racconto, sarà da porsi accanto a quanti altri mezzi già il cinema possiede, da porsi al livello medesimo di essi ed al pari di essi applicabile nella esatta misura consentita dall’economia complessiva dell’opera. Intravedere gli sviluppi narrativi del colore, sarà compito dei registi che vi si accosteranno. Si potranno fissare qui alcuni punti, avvertendo che essi vogliono costituire soltanto un primo e approssimativo contatto con un problema che si presenta tanto vasto e finora tanto poco sondato. L’immissione del nuovo mezzo ha conseguenze dirette su tutti gli altri mezzi visivi, e ne istrada la funzione verso un significato imprevisto, il quale si sovrappone (pur non alterandolo nella sostanza) a quello prima posseduto nei film in bianco e nero. I vari “campi” di inquadratura e i movimenti di macchina perfezionano e adattano la loro funzione a contatto con l’elemento colore, di fronte alle possibilità che sorgono numerose e che prima, con il chiaroscuro acromatico, non erano neppur lontanamente concepibili. Occorre che il regista abbia chiara coscienza della funzione che, con l’avvento del filmcolore, viene ad assumere la “visività”, occorre che sappia superare il concetto che di essa ha sinora ritenuto esclusivo, che sappia insomma adeguare la propria sensibilità al rinnovamento e all’affinamento intervenuti. Ché opera vana sarà la sua, qualora egli si limiti a considerare il colore come elemento a sé, e continui a servirsi degli alti mezzi visivi nella stessa misura con cui se ne serviva per il film in bianco e nero. Possibilità innumeri s’intuiscono, orbitandosi in questa direzione, dall’impiego impressionistico del colore al colore-simbolo, al “leit-motif” cromatico, alla introspezione psicologica attraverso il colore alla definizione ambientale non più realizzata con il solo ausilio dei dati chiaroscurali. Queste, e altre ancora.
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Prove tecniche
Pier Luigi Melanotte
Il soggetto cinematografico per il documentario [numero 7 – settembre 1947]
Possiamo dire fin d’ora che quando si solleva la questione del Soggetto cinematografico, in generale lo si fa per un pretesto polemico. Il film, che si avvale per esprimersi essenzialmente dell’immagine, articolando con una cifra ritmica l’insieme degli elementi visivi, brucia tutta la materia letteraria del soggetto. Superamento quindi del soggetto, libero innesto delle immagini sul tracciato delle parole, libero originale fiorire delle suggestioni visive dal corpo delle emozioni verbali. Ove non era che un’impalcatura verbale si snodano suadenti richiami plastici, si affollano sommamente patetici, quasi personalizzati, figure e simboli; in luogo di parole dai margini labili e scaduti: tutto palpita, emozioni, volontà, desideri, le piccole anime delle azioni degli uomini, ciascuna col suo meccanismo, ciascuna nel suo personaggio. Eppure nel gusto di certo pubblico, la mancanza di vigore creativo di molti registi placcati oro, il soffocante fascino di certi tabù letterari, o anche la convenzionalità stessa della propria esperienza umana, contribuiscono a mantenere impregiudicate false credenze sulla inviolabilità dei testi e a nutrire una specie letale di bigottismo artistico. Inaugurato il compromesso morale ed estetico, si affoga sempre ingloriosamente nel grottesco dei simulacri divistici e delle parate narcotizzanti. Dunque tutto ciò che non è banalità, orpello, tutto è degno di essere filmato, tutto può vivere sullo schermo per una sua forza intima di persuasione, di commozione quando il regista abbia percepito nel soggetto quel vitale stimolo, onde gli è nata dentro, immagine per immagine, sequenza per sequenza la «sua storia», intuendo da quella idea germinale la creazione nella sua forma assoluta. C’è un genere di Cinema su cui intendo ora far perno: è il film Documentario. Il Documentario investe dalle radici la questione generale del soggetto, rafforzandone la definizione strumentale datane sopra. Col Documentario per la prima volta ci sentiamo addosso in pieno il peso della storia del costume, della cultura, della civiltà dei popoli. Si dovrà stare più attenti alle circostanze in cui nasce il soggetto, ai luoghi dove si sviluppa, agli avvenimenti, ai problemi che affronta e dibatte. Per questo, mentre più appassionante, più viva, più ricca si fa la ricerca dello spunto iniziale, nel medesimo tempo, più solitaria diviene la posizione dell’artista, più cauta ogni invenzione, il tema iniziale racchiudente in sé, in
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germe l’idea cinematografica non regge, se non dotato e nutrito di due principalissimi attributi: semplicità e chiarezza. Qui allora più che mai è necessaria la semplicità dell’intreccio e il chiaro, logico succedersi dei fatti nel loro umano concatenarsi, affinché sia accettabile da tutti la tesi tematica. All’umanità, parola enorme e colma di tremendo significato è urgente poter giungere come al motivo rivelatore e scioglitore di ogni impaccio troppo volutamente tecnicistico o di mestiere. Poiché documentario è film per tutti, che deve parlare a tutti, perché deve servire a tutti. E qui soprattutto importa che sia libero l’artista e cosciente e rinneghi ogni arbitraria ingerenza, ogni dittatura delle emozioni a fini speculativi, studiandosi di riportare di fronte agli uomini, attraverso alle immagini il senso segreto della loro storia quotidiana. A questo punto ci si potrebbe magari chiedere dove incomincia e dove finisce il Documentario e l’invenzione artistica nella migliore letteratura americana contemporanea, dove porreste il dito ad indicare una soluzione di continuo in Verga, ad esempio, e nella Corazzata Potiemkin, dove finisce il Documentario e dove comincia, paradosso della frase, il film a soggetto? Non credete che aderire così strettamente alla realtà tanto da farci dimenticare la presenza della «camera», da farci respirare l’aria dei protagonisti, convincendoci della verità di quanto viene rappresentato sia sufficiente vittoria d’arte? Sempre l’uomo posto dinnanzi a se stesso, riflesso nei suoi simili, denunciato nelle sue possibilità e nei suoi errori, illuminato nei suoi doveri e nei suoi desideri, si ritrova, si arricchisce si esalta. È necessario documentarsi per l’ambiente della narrazione cinematografica per i motivi accennati ora e per altri ancora, ed è soltanto adeguandosi alla realtà sociale che il regista può trovare il soggetto, la materia viva per la sua creazione: questo fondo documentario che noi scopriamo sempre sotto la pelle lirica e drammatica delle storie letterarie è un sottofondo di necessità storiche. Non credo vi sarà mai penuria di soggetti o soggetti poveri, quando si renderanno drammatici i luoghi dove si fa la storia colla propria umanità pregnante nella grande corrente delle proprie tradizioni, portandosi sulle spalle, negli occhi e nei muri della propria casa la propria cultura. Pabst parla di eroismo, di sacrificio e di miseria, di vincoli misteriosi di fratellanza universale, di abnegazione di fronte alla sciagura tra uomini nemici al fondo della miniera allagata. Il simbolo è chiaro: diverso ma non tanto distante è il linguaggio di Renoir, l’uomo che fugge dalla prigionia e la donna che gli dà rifugio nella casa, lo ricompone quasi nei suoi lineamenti umani, ridandolo vivo, intero con l’offerta di sé, donna del paese nemico, alla sua volontà spezzata, alla sua anima devastata di combattente, di prigioniero, di non uomo, mentre i loro 292
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popoli, a qualche chilometro di distanza, si dissanguano prolungando l’agonia di una guerra atroce. I volti di quegli uomini, di quelle donna che fanno ressa dietro le cancellate della miniera, dietro i ripari delle trincee o al fondo dei pozzi, al fondo delle buche delle granate o con gli occhi sbarrati sulla incredibile realtà della morte raggrumata sul proprio corpo contratto, sotto il sole di Francia, o gonfio d’acqua nella melma delle gallerie allagate del Belgio, non sono forse gli stessi volti visti centinaia di volte in dozzinali documentari di attualità? Non sono quelli Gabin o Stroheim, non sono gli attori di Pabst e di Renoir, è gente come noi, partecipe più avanti di noi nelle prime file, di un destino ugualmente umano, terribilmente umano per tutti. Ancora si chiede dov’è il Soggetto? Il Soggetto siamo noi, perché noi siamo la nostra storia. Certo a questo punto qualcuno potrebbe dire che è meglio vivere, che stare a fotografare la vita. Ma c’è chi è talmente appassionato della vita che non se ne contenta della propria, ma cerca e anche riesce a dare un significato a quella degli altri, fotografandola appunto. Questo è il senso del Documentario. Aiutare a vivere, a vincere la vita, mostrando all’umanità le cause delle sue sconfitte, le sue più cocenti imprese e il mistero della sua allegrezza. Solo così, come per Verga, verrà il momento che non distingueremo più i confini fra Documentario e fantasia, un esempio, il primo che mi viene in mente: Fejos Un pugno di riso e ancora a Venezia The Southerner di Renoir, ma ce ne sono anche da noi e recenti Sciuscià di De Sica, e allora il Cinema avrà riconosciuto finalmente l’esistenza di uomini reali, fuori dei teatri di posa, migliori delle sue bambole di cerone parlanti e sospiranti, si sarà scontrato con cose reali e cioè problemi, angosce miserie e gioie secondo la nostra esistenza, per affrontare nella sua piena maturità argomenti di vita.
Mario Verdone
Introduzione alla filmologia [numero 9 – giugno-luglio 1948]
La filmologia assume accanto al cinematografo, all’incirca, il posto che la meteorologia mantiene accanto alla navigazione. Essa studia gli effetti cinematografici ed evidente, pertanto, è la importanza che acquisterà presso i tecnici, da una parte, e dall’altra, e in maniera preponderante, presso i sociologi, psicologi, economisti, politici, educatori, ecc. Riuniti in seduta plenaria il 19 settembre 1947, i membri del primo Congresso Internazionale di Filmologia decisero di istituire, sotto il nome di Ufficio Internazionale di Filmologia, un organismo internazionale avente per 293
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oggetto «di promuovere e coordinare le ricerche relative alla Filmologia, di organizzare la documentazione intorno a queste ricerche, di istituire relazioni con le persone morali o fisiche che s’interessano agli stessi studi; di aiutare la creazione di organismi e studi analoghi nei paesi dove non esistessero ancora». Fino alla costituzione definitiva l’Ufficio Internazionale di Filmologia è rappresentato da un comitato provvisorio composto dal prof. F. Gonseth (Zurigo) Presidente, dal prof. A. Michotte van den Berck (Lovanio) V. Presidente, del prof. M. Roques (Parigi) Delegato, Direttore dell’Ufficio è Gilbert Cohen-Séat, creatore della filmologia – della, parola se non della cosa – documentarista e Presidente della Scuola Artigiana dell’Industria Cinematografica, filosofo e antropologo. Sedici paesi contano già nell’Ufficio propri rappresentanti. Il movimento internazionale promosso dal Congresso (che non vuole dettare agli uomini di cinema la loro condotta, ma promuovere indagini che siano d’aiuto e agli studiosi e ai cineasti) è la naturale evoluzione della Associazione Internazionale di Filmologia, fondata a Parigi il 4 novembre 1946, e della cui assemblea inaugurale possono leggersi estese cronache nella Revue Internartionale du Filmologie, n. 1 (dove sono anche estese presentazioni del movimento, a firma di Mario Roques, Marc Soriano, J. J. Ranieri). Mario Roques, Leon Moussinac, Claude Vermorel, fra gli altri, vi tennero relazioni di particolare interesse. L’Associazione conta bellissimi, nomi, oltre quelli già ricordati: Rene Chair, Marc Allegret, Georges Sadoul, Raymond Bernard, Pierre Bost, Georges Charensol, Jean Delannoy, Jean Guehenno, Jean Gremillon, Henri Jeanson, Jean Painlevé, ecc. Essi attestano che il movimento, che si articola presso lo maggiori Università europee, non ha attratto soltanto i filosofi, essendo la filmologia una vera e propria filosofia del cinema, ma anche i migliori fra i registi, tecnici, critici. Un programma più preciso sugli scopi della filmologia possiamo riassumerlo dagli estratti delle deliberazioni dell’assemblea citata: a) Ricerche sperimentali; b) documentazione (studi storici, ricerche sull’evoluzione dell’empirismo cinematografico storia delle tecniche del cinema); c) estetica, psicologia, filosofia generale, sociologia; d) studi comparativi e rapporti con gli altri mezzi di espressione; e) ricerche normative di applicazione (es. terapeutica filmica, pedagogia fìlmica, ecc.). La prima delle pubblicazioni che pongono i problemi della filmologia è il Saggio sui princìpi di una filosofia del cinema di cui prendiamo ora in esame il primo volume, e cioè l’Introduzione generale, con Nozioni fondamentali o Vocabolario di Filmologia. Il Saggio consta di altri tre volumi, che attendiamo, e cioè: Estetica e psicologia individuale; Valori cinematografici e mentalità collettiva; Metodologia. Con la filmologia il cinema entra su un piano di studi prettamente univer294
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sitario; sia per coloro che vi si dedicano (la Prefazione del libro e una Osservazione preliminare sulla filmologia, ad esempio, appartengono ai professori della Sorbona Henri Laugier e Raymond Bayer), sia per linguaggi» e per metodo. « Benché non sia da oggi - scrive Enrico Fulchignoni in Fiera letteraria, 10-7-1947 - che in Italia si sostiene la necessità di tale sistematica indagine, e le annate di Bianco e Nero, la rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia, documentano già da oltre un ventennio lo sforzo compiuto dai teorici del nostro paese per affermare l’importanza del problema. Ma oggi, dopo una guerra che ne ha rivelato la sconfinata potenza e vastità di risorse, più che mai si tratta di approfondire il rapporto essenziale fra il fatto estetico e quello sociologico». La distinzione fra fatti filmici o fatti cinematografici costituisce uno dei punti fondamentali del volume introduttivo, e può stabilirsi come appresso: fatti filmici sono gli elementi visuali propri del film, o film presi nella loro unità; fatti cinematografici sono, invece, quelli contraddistinti alla loro origine nella determinazione d’un rapporto fra cinema e spettatori che deriva, in parte dalle strutture psicologiche individuali, e in parte dalle reazioni inerenti a una determinata collettività. Viene pertanto qui considerata l’aderenza dello spettatore al fatto cinematografico, come avviene col resto nel teatro e nella danza. I fatti filmici, unici o molteplici sono di ordine individuale; i fatti cinematografici di ordine generale e universale. Il dominio dei fatti, filmici o «tutto il regno delle immagini e invenzioni visuali, aumentate o no da immagini auditive corrispondenti» (pag. 114). «Il fatto filmico consiste nell’esprimere la vita, vita del mondo o dello spirito, dell’immaginazione o degli esseri o delle cose, per un sistema, determinato, di combinazione d’immagini. (Immagini visuali naturali o convenzionali, e auditive, sonore e verbali). Proprio del fatto cinematografico sarebbe di mettere in circolazione fra i gruppi umani un fondo di documenti, di impressioni, d’idee, di sentimenti, materiali offerti dalla vita e messi in forma dal film a suo modo» (pag. 57). Ancora: «fatto filmico è ogni elemento del film suscettibile d’essere preso per il suo significato come una specie di assoluto, dal punto di vista dell’intellegibilità o dal punto di vista dell’estetica», «elemento nell’insieme che lo condiziona». «Appartiene al sistema del film che lo precede, come un tutto precede la sua parte, come ciò che è intero nei dettagli precede ciò che è incompleto. Nella gerarchia dei fatti filmati, al vertice, il film definitivamente chiuso si concepisce come un modello ideale». Fatti filmici e fatti cinematografici, aggiungiamo, possono avvilirsi nel peggior cinema. «Ma – come dice Alain – poiché un piano è fatto perché si suoni, sarebbe folle credere che tutti quelli che vi poseranno le mani suoneranno bene». E altrettanto Francesco Flora: «Chi dirà male della stampa e dell’alfabeto solo perché è possibile abusarne?» La necessità per gli uomini di studio, per i filosofi, d’intervenire nel vasto 295
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dominio del cinema è profondamente sentita dal Cohen-Séat. «Abbiamo assistito da lungi alla nascita del film, per negligenza o qualche altra circostanza, siamo rimasti a lungo indifferenti o sprezzanti». «II film è rimasto in uno stato primitivo malgrado l’ampiezza e la rapidità della sua evoluzione». Ora è necessario anche per i filosofi aprire un orientamento meno indeciso verso il cinema e «se non c’è da discutere sui principi del commercio, della morale, del pensiero del film, resta da conoscerne gli elementi». «Lo studio approfondito del cinema da parte di un sol uomo deve essere considerato oggi come impossibile» (pag. 62). «Questioni assai diverse esigono una specializzazione». «Una buona collezione di monografie e di memorie su argomenti speciali è sicuramente il miglior mezzo per costituire delle conoscenze filmologiche» (pag. 64). Occorrere, tener presente «che l’uomo è la parte integrante del film e del cinema. Esso li impregna e se ne impregna volta a volta» (pag. 65). Mentre i brani riportati possono darci una prima idea generale della filmologia, secondo il pensiero di Cohen-Séat, molti altri sarebbero i passi che dovremmo riprodurre su questa nota nella quale, d’altronde, non abbiamo voluto che dare un primo panorama della nascita e dell’affermarsi del movimento. Se un appunto faremo al Cohen-Séat sarà questo; che le sue citazioni sono state tutte, programmaticamente, fìlosofiche e letterarie, mai cinematografiche, ciò che avrebbe chiarito meglio, invece, il suo discorso. Ricordiamo che un letterato italiano, accusato di non conoscere i testi scritti di Canudo, Eisenstein, Pudovkin, Bálász, Arnheim, Clair, Chaplin, Rotha, ecc., rispose: ma conosco Platone e Aristotele. Non vorremmo, oggi, che la prima pubblicazione sulla filmologia ricevesse dai meno esperti la medesima accusa: benché una annotazione come questa, fra le tante, precisa senza equivoci la posizione cinematografica oltre che filosofica, dell’autore: «Il film non poteva restare silenzioso. Ma rimane muto per essenza, come la vita, come la natura, perché la natura e la vita vi tengono più posto che l’uomo solo» (pag. 97). Un altro appunto, che volgeremo insieme al Cohen Seat dell’introduzione ed a Emile Schaub-Koch dell’Università di Ginevra (che pubblica Supervita del film nel numero 2 della rivista filmologica internazionale sopra citata) è l’assoluta dimenticanza di Ricciotto Canudo, che di questi studi è il vero precursore (cfr. anche la sua Psicologia musicale delle nazioni – L’uomo, 1906). Dopo avere affermato che «escludendo la vita normale e la vita dell’arte, la vita cinematografica, come tutto le cose artificiali, meccaniche, ha una vita assai circoscritta e limitata da enormi convenzioni»; «è allo studio di queste convenzioni e a quello delle possibilità della vita del film che si rivolge più particolarmente la scienza filmologica», l’interessante saggio di Schaub-Koch ci svela una lacuna, d’ordine storico, riscontrata in tutto ciò che abbiamo visto in materia filmologica; il nome di Ricciotto Canudo non è annoverato fra quegli scrittori e artisti con i quali, secondo il saggista, comincia la grande 296
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voga del cinema, nei primi lustri di questo secolo: Apollinaire, Picasso, Jacob, Romains, e molti altri, che frequentavano anche il suo solaio di Montjoie. Mentre v’è in primo posto Fernand Divoire («soprattutto l’intervento di Fernand Divoire, ad attrarre l’attenzione sulle possibilità estetiche del cinema»), quegli, cioè, che si preoccupò nel 1927 di raccogliere i preziosi scritti di Canudo, con adeguata presentazione, nella Officina delle immagini. Ma le parisien, non abbastanza tenuto in conto in Italia, ancor oggi, permane anche nell’oblìo dei francesi, escluso perfino da quella antologia di Marcel l’Herbier, Intelligenza del cinema, dove assolutamente non avrebbe dovuto mancare, perché fu Canudo il vero maestro dei Delluc, Dulac, ecc..: ma a pag. 91 di questo libro, su cui abbiamo dovuto involontariamente portare il discorso, esso spunta fuori nello parole di Abel Gance (1912): «II cinema? Ma, come dice il mio amico Canudo, un’arte...». Argomento, questo, che converrebbe approfondire in pagina a parte, e pel quale J. G. Auriol ha concesso ampio spazio nel numero 13 della «Revue du cinema» sul cinema e sul pensiero cinematografico italiano. Mentre in Francia il movimento filmologico è in grande sviluppo (v. anche Il cinema, e la filosofia di Marc Soriano sulla «Revue du cinema», n. 5), e in Inghilterra è assai progredita, l’indagine sociale sul cinema (Grierson, Manvell, Ford, Survey, Mayer, ecc.) un ambiente filmologico in Italia si è andato creando dal Centro Sperimentale di Cinematografia all’Università del S. Cuore di Milano “Padre Gemelli”; dalla Università di Padova (dove è un Circolo di Studi Cinematografici) alla Facoltà di Giornalismo presso l’Ateneo Pontificio di Roma (dove si insegna Estetica, Tecnica, Storia del Cinema); dall’Istituto di Psicologia dell’Università di Roma di documenti di filosofi llustri (Gentile, Tilgher, Spirito, Calogero, ecc.). Una letteratura filmologica in Italia può dirsi in sviluppo già da tempo, seppure non sistematizzata secondo il movimento creato dal Cohen-Séat. Segnaliamo a titolo di orientamento i Cinque capitoli sul film (1941) di Luigi Chiarini; l’etnologia di Chiarini e Barbaro Problemi del film (1939), specialmente per la parte Canudo (1911); i saggi Psicologia e cinema di Padre Gemelli e Storia della tecnica cinematografica in funzione dell’arte di Francesco Pasinetti, comparsi entrambi su «Bianco e Nero»; Le lettere e il cinema di Francesco Flora (su «Pan», 1939); e vari altri scritti su «Bianco e Nero», «Cinema», «La critica cinematografica», «Rassegna di Firenze». In quest’ultima anche la nostra nota Psicodramma e psicofilm. Sulla filmologia di Cohen-Séat vedi anche Filmologia: una nuova scienza di Padre Agostino Gemelli nell’ultimo numero di «Vita e pensiero» e Filosofia del cinema di Enrico Fulchignoni nella «Fiera letteraria», del 16-1-1948. Sulla psicanalisi e il cinema un saggio di Pietranera e Montani («Psicanalisi», n. 1), commentato da Roberto Secondari su «Bianco e Nero» (1947), o Il subcosciente in celluloide di Roberto Paolella in «Critica Cinematografica» (n. 8). 297
«La Critica Cinematografica»
Mario Serandrei
Dal taccuino di un montatore [numero 9 – giugno-luglio 1948]
I registi possono dividersi, per un montatore, in due grandi categorie: quelli che vogliono tagliare e quelli che non vogliono. I primi hanno sempre paura che il film sia troppo lungo o troppo lento, i secondi pensano esattamente il contrario. Questi vedono le forbici come un pericoloso bisturi amputatore di misteriose bellezze, quelli invece credono ciecamente alla chirurgia ed esaltano il taglio, anche quello cesareo, capaci di buttare nel cesto anche un intiero salone con colonne e genericoni costosi. In un caso o nell’altro, per il montatore la vita è sempre difficile. Oggi si può essere rimproverati per aver tolto tre fotogrammi domani bisogna lottare disperatamente per difendere una scena intiera. Difficile mestiere, fatto di abilità artigiana e di sensibilità critica, di duttilità psicologica per sapersi adattare a temperamenti artistici diversi; essere sempre sereni ed ottimisti con il regista Tizio, freddi e riservati con Caio, timidi e senza iniziativa oggi, decisi e risoluti domani. Un mestiere da cani. E se hai faticato come una bestia per migliorare un film che non funziona, ti puoi sentir dire: «però, anche il montaggio... potevi far di più...». Quando invece non hai fatto nessuno sforzo per un film che cammina da solo, magari ti dicono: «che montaggio, magnifico, che ritmo... ». II fatto è che pochi capiscono in che cosa consista veramente il lavoro del montatore, visto come entità staccata da quella del regista. Il critico ha troppi film da vedere e non ha il tempo per analizzare tecnicamente un film. Per molti critici, forse, il montaggio è un aspetto della regia e il montatore poco più di un raschiatore di celluloide al servizio del direttore. Non penso che sia utile per i miei colleghi e per me che questa opinione si modifichi. II montatore ha troppo l’abitudine di lavorare al buio per desiderare la notorietà, sa che il regista è in genere contento di avere al suo fianco persone che gli sono utili senza fare scalpore; ed è contento di essere uno strumento intelligente e prezioso nel lavoro di lima e di critica; uno strumento che rimane freddo e tranquillo quando l’animo del regista insegue con troppo entusiasmo chimere inafferrabili; caldo ed entusiasta quando il regista è preso dalla sfiducia e dalla paura per le difficoltà da superare, per quello che vorrebbe e che teme di non saper riuscire ad esprimere. Un mestiere da cani, sconsigliabile a tutti. Sono pochi, i casi convincenti di registi montatori. In genere si tratta di persone che hanno «la vanità di credere un po’ troppo in se stessi» nei loro
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film come opere d’arte che il respiro profano appassirebbe, si tratta di persone che dicono, convinte di detenere chi sa mai quali segreti: «ci sono dei pezzi che soltanto io so come vanno montati». Sono quasi sempre dei registi che hanno girato male, che hanno paura del giudizio del montatore, come di quello del pubblico. Altri devono semplicemente tutelare gli interessi della prima attrice. Bisogna vedere con quale abilità e con quanti argomenti cercano di giustificare la scelta o il taglio di una scena, quando invece la ragione fondamentale è una luce che tradisce una ruga; un’ombra che imbruttisce, l’espressione non riuscita, la recitazione sbagliata. In casi come questi, a dire il vero, il regista montatore diventa di un’abilità infernale. Ricordo come da un primo piano non riuscito dell’attrice A. N., il regista M. C. riuscì una volta a tirar fuori un pezzo magnifico subito dopo uscito di campo il ciak, prima che l’attrice entrasse in azione e quando ancora il suo viso era nella penombra mobile del cartello. Questi sono casi in cui il regista, spinto dall’amore o dalla disperazione – e forse da tutti e due i sentimenti assieme – può dare lezione al montatore e dimostrargli come si possa, in un senso esclusivamente metaforico, cavar sangue anche da una rapa. Paisà ha incassato meno di Roma città aperta, Germania anno zero e La voce umana incasseranno meno di Paisà? Man mano che Rossellini si libera dalle scorie di cattiva letteratura e dal gigionismo degli attori troppo celebri, e si avvicina a un modello di cinema neorealistico puro, perde, man mano che rinuncia ai compromessi, qualche posto in platea. Il pubblico non ha il fiato da tenergli dietro. E lo stesso, Rossellini ce la farà a resistere, a tenere l’andatura, o non avrà invece voglia di farsi raggiungere? A differenza dello sport, nel cinema i guadagni maggiori si fanno con gli:arrivi in massa. Il pubblico non ama i pazzi, gli audaci, gli innovatori, i controcorrente. Ricordarsi del fallimento di Stroheim, papà di Rossellini e del neorealismo italiano. È pure vero che a forza di colossali arrivi in massa, gli americani corrono il rischio di farsi escludere dalla gara. Fornita la prova che si possono fare dei film senza idee e senza talento, con buoni obiettivi, belle attrici, e un’abile utilizzazione degli avanzi letterari e psicanalitici del ventennio, bisognerebbe che la smettessero di scherzare, dimostrandoci che Lost week end non è un errore di censura. Forse è il triste destino di chi vince le guerre. Guai ai vincitori. (Ho visto Rossellini e gli ho espresso i miei dubbi. Non è d’accordo con me. Per lui se un film è veramente artistico non può non avere successo. Penso che abbia torto, ma mi sembra inutile disilluderlo).
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Sergio Frosali
Il cortometraggio [numero 10-11 – agosto-settembre 1948: Lettere al direttore]
Caro direttore, Tutti sanno che ad un documentario, perché non incorra nel deficit, deve essere assegnato il 3% sugli introiti globali del film a cui è accoppiato: ed ogni realizzatore si propone in partenza di ottenere l’assegnazione dall’apposita commissione. Ma, se le mie fonti d’informazione non sono errate, non è ben precisato il criterio che governa la scelta della commissione: così anche un ottimo regista può andare incontro ad alee pericolose. Si dice che i censori apprezzino particolarmente nel documentario esattezza e precisione quasi didattica di fattura e che invece amino meno la libertà e la poeticità dell’osservazione (vita umana in ambienti naturali e sociali) e la tendenza all’affabulazione drammatica. Ora ciò può essere dovuto al lodevole scrupolo di istruire il pubblico; ma d’altra parte si nota che spesso i film che illustrano rigorosamente un palazzo od un museo, oltre ad essere morti cinematograficamente e quindi piuttosto pesanti per lo spettatore, non riescono nemmeno ad un’efficacia didattica: e spesso si risolvono in una serie più o meno ben disposta di fotografie tipo Alinari, come in un recente film su Palazzo Venezia accoppiato a Legittima difesa; e per film come quello, riconosciamolo, i soldi spesi sono sciupati. Inoltre in tal modo si rende più agevole il compito ai mestieranti, che invece sarebbero eliminati se il criterio di giudizio fosse più severo dal punto di vista artistico e meno da quello del contenuto. È sempre facile realizzare su una città un documentario nel quale non sia trascurato né il monumento ad X né il Palazzo del Comune, né il più famoso quadro del Museo Civico. Molto più difficile, e non alla portata dei mestieranti, è dare un’interpretazione degli abitanti, del lavoro, infine del senso dell’esistenza su di un certo pezzo di terra, in una certa città. Non bisogna dimenticare che il cortometraggio è, sì, un mezzo per istruire il pubblico, ma anche un mezzo per formare gli artisti del cinema. Se oggi un giovane non può esprimersi liberamente attraverso il documentario, domani gli sarà più difficile saltare nella produzione a lungometraggio. Questo mezzo così bello per dimostrare le capacità di ciascuno esiste; perché dunque con limitazioni di contenuto impedire che le singole capacità si rivelino? È come tagliare le ali a chi le ha più lunghe. Si lasci che nei 300 metri del cortometraggio si esprimano gli stessi contenuti e se possibile si raggiunga lo stesso stile che nei lungometraggi di Rossellini o di Flaherty. Sarebbe l’unica possibilità per vedere sprizzare intelligenza e fantasia da tutte le parti, o almeno da quelle parti dove esistono realmente. In fondo lo scpo delle leggi che regolano le manifestazioni artistiche dovrebbe esser sempre quello di favorire la rivelazione dei talenti. 300
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Certo anche il cortometraggio turistico o didattico può essere assai bello, ma a patto che non sia rigorosamente informativo e che si affidi invece ad una didattica in senso più lato, ad una didattica emozionale. Potrebbe anche darsi che i miei suggerimenti fossero a vuoto e che le cose non stessero veramente così. In tal caso tra i più lieti di una smentita sarei anc’io. Cordialmente
Sergio Frosali
Per il documentario [numero 12 – novembre 1948]
Una distinzione corrente, della cui legittimità si deve subito gravemente dubitare, vuole che al documentario siano riservati soggetti puramente illustrativi e privi di valore drammatico e che invece il film normale si debba valere di soggetti romanzeschi e costruiti. Da una parte si pretende dal documentario una divagazione su cose rigorosamente reali, dall’altra si chiede che il lungometraggio sia bene architettato, girato in ambienti più o meno costruiti e secondo canoni spettacolari da osservarsi rigorosamente. Tale divisione in tipi risponde forse ad un’esigenza delle masse (la quale del resto non è che frutto di una lunga abitudine imposta una volta e poi sempre accettata) ma è tutt’altro che giustificata da un punto di vista estetico. Come non ci può essere in letteratura un rigoroso divario tra racconto e romanzo e neppure fra prosa descrittiva e prosa narrativa, così non si può operare una distinzione troppo netta tra film documentario e film drammatico: si può lasciare solo che se ne servano i noleggiatori di pellicole e gli esercenti di sale. Un regista vero si deve invece ribellare contro tale consuetudinaria divisione che tende ad incanalare la sua libertà e la sua fantasia. In un film ch’egli immagini, la bellezza di un bianco volo di colombi che passi radendo una collina potrà avere un intenso valore drammatico. Come nella lirica di Leopardi è continua la fusione del sentimento del poeta con le «vaghe stelle dell’Orsa», col vento che viene «recando il buon dell’ora dalla torre del borgo» e con mille altre voci esterne che acquistano un profondo significato poetico entrando nella dolorosa e commossa meditazione, così i momenti più intensi di un dramma cinematografico possono essere creati con niente, col vento sull’erba in controluce, con un suono improvviso di campane familiari: allora il documento diventa dramma, porta a quei culmini drammatici, a quelle sospensioni poetiche che sono la vita del cinema. Ma la mentalità convenzionale e routinière non si cura di queste sottigliezze e continua a fabbricare i colossi ultradrammatici e i documentari su Palazzo Venezia! 301
«La Critica Cinematografica»
Eppure se si impiega una non grande quantità d’intelligenza si vede subito che non vi può essere un confine vero tra la realtà osservata (il documentario) e il dramma inventato (il film). Appare evidente che la materia documentaria riceve la sua verità e la sua potenza di commozione sullo spettatore solo dalla forza emozionale con la quale l’autore la presenta, forza la quale non è insita nella materia stessa ma nella mente che la pensa e la ricrea. Mentre dal lato opposto non è difficile convincersi che il dramma evita la convenzionalità e l’arbitrio sopratutto se affonda nella verità psicologica delle situazioni e dei caratteri, nell’autenticità dell’illuminazione e dell’ambiente, infine se evoca la realtà, o meglio se è abbastanza reale da non farcela tornare in mente per paragonarla al film stesso, e con effetti disastrosi. Così dunque il documentario e il film non sono due campi diversi e staccati ma due categorie assai vicine che differiscono per la diversa dosatura dei componenti, non per l’eterogeneità di questi. Ciò che fa bello un documentario è poco diverso da ciò che fa bello un film: anzi documentario e film traggono forte giovamento dall’attingere l’uno dall’altro ciò che li fa migliori. La storia del cinema è lì per insegnarci. Film spettacolari come Lampi sul Messico, Tempeste nell’Asia, L’uomo di Aran, Quatorze juillet, traggono la loro bellezza dalla presenza dell’ambiente, di una precisa realtà di sfondo, sia essa il Messico, il Tibet, l’isola di Aran o Montmartre. Anche il cinema italiano nacque veramente quando con Sole e Rotaie cominciò a nutrirsi di una realtà semplice e a descrivere ambienti precisi come la palude o classi sociali determinate come la piccola borghesia. Su questi motivi poi il regista esercita la sua poesia, ma la poesia cinematografica ha quasi sempre bisogno di una materia ben serrata e consistente. Uno sfondo ci vuole, un ambiente è necessario: siano i negri di Alleluiah o i coltivatori di Nostro Pane quotidiano, i dublinesi del Traditore o gli abitanti di Aran. E può essere segno di originalità di ispirazione per un regista amare in prevalenza un certo ambiente o un certo genere di soggetti (Flaherty i paesi esotici, Clair Parigi). Le opere che, prescindono da questa necessità dello sfondo, o possiedono virtù eccezionali come quelle di Chaplin, o cadono spesso in un che di indeterminato e di insufficiente. La natura e la realtà sorreggono sempre molto un artista cinematografico che vi si affida, quando addirittura non lo creano tale (come avvenne per il mestierante De Baroncelli, così sensibile autore di alcune felici inquadrature paesistiche di Péchéurs d’Islande; naturalmente queste ultime affermazioni non pretendono di valere in senso teorico; esse non possono spiegare l’arte di Mélies, di Chaplin, di A nous la liberté; non appartengono ad una estetica ma ad una tendenza). Ma abbiamo fatto questo discorso generale per venire a parlare del documentario. Ci premeva soprattutto affermare che finch’esso rimane puramente espositivo e didattico, senza entrare nel vivo dell’ambiente e dell’argomento 302
Prove tecniche
che descrive, può avere tutt’al più il valore di una chiara lezione: cosa che certuni possono stimare sufficiente ed essenziale, mentre invece non è che secondaria; perché quando si ha in mano un mezzo che può prestarsi alla creazione di valori artistici, il conseguimento di valori interessanti ma extraartistici è un venir meno alla nobiltà del mezzo di cui si dispone. In ogni modo dei chiari didatti e dei mestieranti intelligenti si limitino pure a lavorare come vogliono, ma non pretendano di additare le loro mete parziali come le vere e tengano presente che essendo il cinema un’arte (e semmai si può discutere solo sul maggiore e minore fattore di artisticità che è in esso rispetto alle arti maggiori) adempiono ai loro doveri verso il cinema solo coloro che hanno creato opere artistiche. Generalmente, nel linguaggio del commercio e della finanza si chiama “documentario d’arte” un documentario a contenuto pittorico, architettonico, eccetera. Ora appare persino inutile avvertire che un film del genere può essere anche artistico ma non lo è necessariamente, anzi; invece ha più probabilità d’arrivare all’arte un cortometraggio girato per esempio sulle rive di un fiume, dove si vedano solo uomini sbracalati a pescare o a far rena e coppie a far l’amore. Si diviene persino banali ripetendo la vecchia verità che il cinema raggiunge la sua artiticità attingendo i valori poetici – umani e formali – attraverso i suoi tipici mezzi d’espressione, ma è una cosa che giova ripetere e ripetere con la speranza che giunga sotto gli occhi dei legislatori e dei protettori di quest’arte, giunti all’ambiente cinematografico da quello della politica e della burocrazia. Certo la lodevole preoccupazione di costoro è quella di educare il pubblico e siamo d’accordo con loro nel ritenere che possa essere magari utile mostrare la camera di Keats o le sale di Palazzo Venezia, ma un simile genere di didattica, oltre a lasciare freddo il pubblico, non giova che assai poco alla cultura, e in ogni modo può istillare una cultura aneddotica, informativa, tutt’altro che profonda. Invece potrebbe essere un mezzo assai più radicale di educazione umana ed artistica quello di nutrire una vasta curiosità sulle cose del mondo, dei costumi dei popoli alla vita delle città, ma non dal lato esecutivo e tecnico (come si fabbricano i chiodi, eccetera, cosa che a nessuno importa) ma dal lato generale che è umano ed artistico insieme. Il pubblico probabilmente non avvertirebbe che in meglio il cambiamento, perché un buon regista di documentari come ve ne possono essere in Italia, lasciato libero è capace di fare un film, oltretutto, interessante per lo spettatore. E se in questo si vuol trascurare il gradimento del pubblico, almeno non si trascuri quello dell’artista: la legislazione che tutela un’attività artistica dovrebbe sempre mirare principalmente ad assicurare all’artista, nella società in cui vive, la massima libertà d’espressione e di ispirazione, perché questo è il modo principale di tutelare l’arte. Ma come dovrebb’essere questo documentario migliore? chiederanno. Le definizioni sono sempre troppo ristrette, sfugge sempre loro qualcosa. 303
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Perciò probabilmente tutto ciò che si può dire è che il miglior documentario è quello in cui il regista o creatore ha sviluppnto le sue idee, ha espresso la sua sensibilità in cospetto di certi argomenti, e l’ha fatto in maniera del tutto libera e geniale, al di fuori di qualsiasi vincolo (escluso, s’intende, quello del ridotto metraggio). Naturalmente tale libertà porterà come conseguenza anche l’abolizione della divisione preconcetta tra documentario e film spettacolare: un regista, trovandosi davanti ad un paesaggio o ad un ambiente da descrivere, potrà trovar necessario scegliere sul posto due o tre attori improvvisati e farli agire al centro della breve vicenda, se questa drammatizzazione sarà utile per suggerire il senso dell’ambiente, per raffigurare con verità la natura del luogo o degli uomini. Ad esempio l’episodio napoletano di Paisà potrebbe essere benissimo un documentario, se gli si potessero togliere i riferimenti troppo precisi a certe vicende storiche dell’occupazione. Degli uomini abitanti nei porti, nelle capanne, sulle montagne, in qualsiasi punto della terra, si potrebbe ritrarre la vita, non come si è quasi sempre fatto finora, cioè cogliendo solo gli aspetti pittoreschi e folcloristici, ma entrando nel vivo di quella vita, facendo affiorare gli elementi di gioia, di fatica, di speranza ch’essa comporta. Quanti soggetti il cineasta intelligente, il vero artista, potrebbe scoprire! Tutto quello che gli cade sotto gli occhi potrebbe essere un soggetto, perché dappertutto ci sono gli elementi di un dramma: tutto sta nel saper percepire la presenza di questo dramma latente e nel saperlo ritrarre artisticamente. Ciò che potrebbe diventare per certuni anche un argomento di polemica sociale e politica, per un artista vero rimarrebbe semplicemente un elemento di constatazione poetica ed umana, la sua scoperta degli uomini e delle cose. Se in Italia si potesse lavorare così, il pubblico s’interesserebbe assai più che ora non faccia al cortometraggio. E inoltre i nostri giovani registi potrebbero lavorare in piena libertà e prepararsi al lungometraggio; mentre ora, dopo aver fotografato e montato alcune inquadrature di pitture e di edifici, hanno fatto assai poco per avvicinarsi al cinema spettacolare, il quale poi li trova ancora impacciati. Entrerebbero nel cinema italiano fermenti vivi tratti da un contatto con la realtà continuo, profondo e non letterario, come invece letteraria, cioè voluta e sovrapposta, è spesso la volontà del regista di film realisti: anche lì, nonostante il programma, spesso la maniera si sostituisce alla verità. Il documentario è la migliore scuola per evitare la falsità, per abituarsi ad entrare gradualmente nella realtà. Ma se un documentarista non apprenderà durante il suo lavoro a muovere gli attori in un principio di dramma, di dramma però autentico e sofferto, scoperto nel luogo e non imposto, quando poi farà un film a soggetto, messo davanti ad attori veri e propri e con un dramma ben più complesso da svolgere, sarà portato a seguire piuttosto le linee convenzionali di un mestiere (e di un mestiere tuttora da apprendere) 304
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che quelle di una verità da lui ignorata, nella peggiore via lo spingerà anche il gioco sempre un po’ falso degli attori professionisti che, se non saputo dominare da una mente profonda, è destinato a prendere più o meno la mano, o comunque a restare una materia non sofferta dal regista e non elaborata in vista di un’unità poetica e drammatica. Inoltre il documentario può essere una scuola di serietà e di modestia: prima di girare, ad esempio, scene dei bassifondi napoletani, il regista si farà naturalmente una idea del soggetto, studierà sul vivo gli usi e i caratteri, e se giungerà ad esprimersi lo farà in virtù di questa preliminare penetrazione: ammaestrato così, come potrà poi, se artista serio, prendersi la responsabilità di girare un dramma impostato su sentimenti comuni, privo di un substrato di osservazione e di verità? Sentirà la necessità di quella comprensione avanti di prendersi la responsabilità della creazione, e se accetterà l’incarico sarà solo sentendosi spiritualmente maturo al film, come si era sentito dopo aver meditato davanti alle strade di Napoli. Altrimenti penserà e penserà finché sarà riuscito a metter su un soggetto suo, dove si troverà a completo suo agio: che è la condizione migliore per la riuscita di un film ed anche perché un regista si crei una personalità. Si cominci con l’imparare osservando le strade di Napoli e, se del senso della vita si è ancora digiuni, non si pretenda d’esprimere i complessi sentimenti umani. Pabst riesce a non esser falso, ma è Pabst. E se poi per tutta la vita non si oltrepassa la comprensione della bellezza di una pozzanghera dopo il temporale, si resti sempre a ritrarre pozzanghere: quando si ha un tenue filo di lirica non lo si contamini in un poema eroico: e si lasci quell’ultimo ad un Tasso o ad un Ariosto. Qualcosa del genere avviene (scusate il paragone) nelle corse ciclistiche: un principiante può avere la tessera di dilettante e correre su circa 150 km: se diventa un campione di queste corse, allora qualche casa lo scrittura per portarlo sui 300 km delle corse professionistiche, non prima. Nei casi migliori il cortometraggio dovrebbe venire a differire dal film normale solo in certi aspetti: necessaria conseguenza del ridotto metraggio. Ad esempio non potrebbe far nascere e portare a fine una vicenda privata, un dramma individuale: gliene mancherebbe lo spazio; ma potrebbe e dovrebbe almeno mostrare la lotta dell’uomo contro l’ambiente, le modifiche ch’egli subisce in conseguenza delle condizioni geografiche, etnografiche e sociali: come per esempio hanno fatto Flaherty e, a quanto dicono gli storici, Epstein di Finis terrae. Non dovrebbe neppure trascurare la realtà sociale: come dovrebbero sfuggire ad un attento regista certi sguardi di odio o di stanchezza degli operai al lavoro in una fabbrica, certi atteggiamenti del padrone? Tutto ciò non già per servire a una polemica politica (l’artista in quanto tale serve sempre se stesso e mai un’ideologia) ma semplicemente per uno scrupolo artistico di verità. Nel documentario potrebbero trovar posto notazioni ironiche o patetiche o di condanna: basterebbe saperle vedere e fer305
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marle sulla pellicola. Vi immaginate quale ricchezza di soggetti si offrirebbe ad una scuola cinematografica che volesse realizzare dei cortometraggi nei quali la realtà fosse una meta e non un pretesto? Che bei film si potrebbero girare se si intendesse la parola “documentario” nel suo senso più vero e più lato, di «film che ritrae principalmente il contatto tra gli uomini e l’ambiente?». Ma purtroppo agli uomini non si guarda affatto e si lascia che i lungometraggi ce ne diano immagini generiche e false; l’ambiente poi lo si fotografa in inquadrature abbastanza ben fatte, e si crede d’essere a posto. Non si intende però che si debba rinunciare alla realizzazione di film turistici e architettonici o geografici su località illustri: ogni argomento è più o meno buono qualora lo si affronti decisamente con l’intenzione di penetrarlo e di trarne tutto ciò che è capace di colpire veramente. Ma se si va in una città credendosi costretti ad includere necessariamente i quattro o cinque edifici principali, i migliori quadri della pinacoteca civica, o lo storico edificio dove nacque il più illustre figlio della città, si esclude subito la possibilità di restare impressionati da ciò che v’è di più inedito e di più segreto, quindi di più bello. Nessuno, neanche un intellettuale, visitando una città ammira esclusivamente un celebre quadro, un celebre edificio, un relitto storico, ma anche la tinta particolare del cielo, la bellezza della vegetazione sulle colline intorno, la novità del dialetto, la gente simpatica che lo abita, e perfino il tipo della bellezza femminile. Ci si ferma a guardare certe botteghe, certi vicoli, si resta colpiti dal suono profondo di antiche campane e spesso commossi dal contrasto tra il passato storico e leggendario relegato in alcuni monumenti e la vita confusionaria che vi si agita intorno. Come pretendere allora che il pubblico debba nel film vedere della città solo qualche frammento da noi stimato più importante solo perché menzionato nei manuali di storia dell’arte? Occorrerebbe invece cercare di rendere l’atmosfera stessa della città, la luce dei suoi tramonti, l’animazione alle varie ore del giorno, il carattere della popolazione nelle sue minute manifestazioni; e sarebbero pochi quei dieci minuti che di solito si riempiono alla meglio. Il documentario dovrebbe divenire un mezzo d’espressione, uno strumento di racconto, una sorgente d’emozione, non già un seguito di illustrazioni. Cosa che a poco a poco dovrebbero comprendere – oltre i registi, di cui parte è già su questa via – anche i legislatori e tutti coloro i quali presiedono alla settima Arte. Si convincano che il documentario libero è il miglior mezzo per rendere la produzione italiana, anche quella a lungometraggio, piena di intrinseca forza artistica e di originalità: fattore importantissimo, specie quello dell’originalità, anche per un’imponente affermazione commerciale all’estero. E ci si avvicinerebbe anche ad una soluzione diversa, e forse migliore, del problema del cinema educativo, problema che al momento attuale è male impostato, come dimostra il sistematico boicottaggio del pubblico e quindi dei proprietari di sale nei riguardi del documentario. 306
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Fisso quella finestra illuminata e scorgo chi passando dietro ai vetri mi fa segno, fa segno a questa gente invalida, malata, messa in posa per la foto di gruppo. VALERIO MAGRELLI
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Francesco Callari
Ceppi ai piedi, catene alle mani e bende agli occhi del cinema italiano [numero 5 – dicembre 1946: Lettere al Direttore]
Signor direttore, in regime democratico qualsivoglia limitazione di pensiero, di parola, di stampa, di rappresentazione è assurda; la legislazione vigente è bastevole a reprimere gli abusi: purché una opera destinata a pubblico spettacolo non usi oltraggio al pudore, al capo ed alle istituzioni dello Stato, e non istighi al delitto, essa non può essere oggetto di limitazioni e vincoli di sorta. Di conseguenza è stata abolita la «censura preventiva». Ma... ma la abitudine o, meglio, il vizio è rimasto: più o meno gli uomini di prima sono rimasti, i funzionari che erano della Direzione ora lo sono del Servizio del Cinema, che, in luogo di dipendere dal ministero della Pubblica Istruzione o addirittura da un ministero delle Belle Arti (unitamente al Teatro delle Arti figurative), dipende dalla Presidenza del Consiglio di cui è sottosegretario il democristiano on. Paolo Cappa. Costui è assillato non più da problemi e preoccupazioni politici, vivaddio! Bensì morali. Ed ecco cosa scrive, in data 7 ottobre scorso, al presidente dell’ANICA, on. Alfredo Proja, democristiano: «Ho dovuto rilevare, con profondo disappunto, come la produzione cinematografica italiana... si avvalga ed abusi di motivi drammatici e di elementi spettacolari non raccomandabili dal punto di vista morale. Il tema del banditismo e dei fuori legge, la pratica delle case di tolleranza, il rilievo eccessivo di fatti sessuali delittuosi e morbosi riempiono i nostri film... La libertà d’iniziativa... non deve, però, tramutarsi in licenza... Per i suddetti motivi sono stato costretto, mio malgrado, a negare il nulla osta di circolazione ed a sospendere la programmazione di alcuni film nazionali. Ad evitare il ripetersi di simili inconvenienti, ritengo opportuno invitare le Case di produzione ad orientare le loro iniziative verso temi e motivi più nobili evitando, il più possibile, ogni elemento di spettacolo negativo dal punto di vista morale». Dal canto suo, il presidente dell’ANICA, due giorni dopo dirigeva un fervorino alle Case di produzione con una copia della lettera del Cappa «che riveste particolare importanza» (sottolineato), e precisava: «... Si deve riconoscere che i rilievi mossi dal Sottosegretario... sono esatti... e anche in occasione del collocamento di alcuni film italiani all’Estero, sono state mosse alle competenti Autorità eccezioni analoghe. Non soltanto quindi per la responsabilità che i produttori di film hanno nel campo sociale ed etico, ma per la tutela stessa degli interessi economici della loro industria, è indispensabile evitare il ripetersi dei citati inconvenienti. L’Assemblea generale dell’ANICA approvò nello scorso mese di 309
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giugno un Codice per la cinematografia, contenente precise indicazioni formulate sulla base delle analoghe norme che regolano la revisione dei film nei più grandi Paesi democratici. Le cose del nostro Cinema stanno, dunque, a questo punto: 1) con decreto-legge 5 ottobre 1945, n. 678 è stato dichiarato: Art. 1 – «L’esercizio dell’attività di produzione di film è libero». Art. 2 – «Le norme sull’esame preventivo dei soggetti dei film... e la legge sulla concessione del nulla osta preventivo dei soggetti dei film sono abrogate». Resta tuttavia in vigore la revisione, a film prodotto, prescritta dall’art. 1 del regolamento per la vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche e che fa parte del regolamento di P. S. (oltraggio al pudore, al Capo ed alle Istituzioni dello Stato, ecc.); 2) codeste disposizioni legislative non hanno veruna pratica attuazione in quanto lo stesso sottosegretario on. Cappa dichiara nella lettera citata che è stato «costretto», suo malgrado, «a negare il nulla osta di circolazione ed a sospendere la programmazione di alcuni film nazionali» per motivi, si dice di carattere morale, ma che sono tutti suoi personali e non sono contemplati dalla legge; 3) l’arbitrarietà di questi fermi di circolazione e di programmazione a film nazionali (per gli stranieri si è di manica larga) diventa più grave quando essi vengono applicati a film venduti a paesi stranieri, essendo maggiore il danno economico inferto al produttore; 4) in effetti, presso il Servizio del Cinema alla Presidenza del Consiglio, continua ad esistere ed a funzionare una «Commissione di censura» che esamina i soggetti, le sceneggiature e visiona i film prodotti, imponendo modifiche e tagli; 5) i produttori che non vogliono rischiare i milioni si sottopongono a questa “nuova” censura preventiva e soggiacciono a questa nuova dittatura del cinema italino in mani democristiane; 6) è stato approvato dall’Anica, di cui sembra facciano parte i produttori di film (quindi l’approvazione è assurda), un Codice per la Cinematografia e questo Codice non è altro che il vecchio e puritano Hays Moral Code tradotto, con qualche modifica mi dicono, dal collega Attilio Riccio; dal 1933 i produttori hollywoodiani non lo rispettano più e, per contro, dovrebbero ora rispettarlo i produttori italiani; 7) sono stati istituiti, a partire dal mese in corso, dei servizi ad uso e consumo dei produttori e per l’applicazione di codesto Codice; 8) è stato anche istituito un «marchio ANICA» che sarà concesso, evidentemente, ai film... codificati, mentre sarà negato ai film realizzati dai produttori ribelli. Non resta, ora, che passare alla documentazione. Il Codice per la cinematografia, che produttori e registi italiani dovrebbero osservare scrupolosamente se vogliono che i loro film siano liberamente programmati nei cinema e venduti all’estero, è stampato sotto l’insegna dell’ANICA, in Roma con la data 1945 e senza nome d’autore, dalla Tipografia di Superstampa viale Manzoni 26. Si compone di 16 pagine di testo più una copertina di cartoncino giallognolo (colore significativo). Consta di una Pre310
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messa, di un Principio generale, di Disposizioni particolari divise in 10 paragrafi, di una Nota, di un Commento diviso in tre parti. Nel Codice è detto che «con atto di libera manifestazione della loro volontà» i produttori «si impegnano a seguire nella ideazione e nella lavorazione dei film i criteri generali e le disposizioni particolari in esso esposti. Il criterio fondamentale cui si ispirano le norme particolari del Codice è il seguente, invero encomiabilissimo: «Non debbono essere prodotti film che possano abbassare il livello morale degli spettatori o che siano tali da porre in discredito le leggi naturali e umane o da destare simpatia per la loro violazione». L’assurdo e il ridicolo cominciano allorché dal generale si passa al particolare. Ad esempio per i delitti è detto: «non debbono ispirare desideri di imitazione» e il crimine «non deve mai indurre a simpatizzare per esso o per il criminale», cosa assai vaga, impossibile da determinare a priori e tutta riposta nell’animo degli spettatori; lo stesso valga per gli omicidi, «che non debbono essere rappresentati nei loro dettagli», inoltre «la vendetta nella vita moderna non deve essere giustificata»; furti, rapine, stragi o massacri, rapimenti e conflitti tra criminali e poliziotti, e via discorrendo, «non debbono essere rappresentati con dettagli che ne mostrino la tecnica», è anche detto che «l’uso delle armi da fuoco deve essere limitato allo stretto indispensabile» mentre «il suicidio deve essere possibilmente eliminato, né mai apparire come una soluzione logica, giustificata o inevitabile delle difficoltà della vita; procurato aborto, eutanasia e simili atti «non debbono mai trovare una giustificazione»; le scene sul traffico illegale o sull’uso degli stupefacenti «sono escluse». Nessuna tolleranza per le «basse manifestazioni degli istinti nelle relazioni fra i sessi». Niente particolari attraenti e lusinghieri per le relazioni illecite, evitare le scene passionali; i baci, gli abbracci e le altre pose o gesti aventi relazione con l’istinto sessuale «non debbono essere rappresentati in forme morbosamente suggestive né dirette comunque ad eccitare basse sensazioni erotiche». Vorrei vedere come son fatti i baci e... il resto che eccitano “alte” sensazioni erotiche. Ma proseguiamo, seduzione e ratto «appena accennati», perversioni sessuali «vietate» e lo stesso dicasi per gli episodi riguardanti la tratta delle bianche; proibita la presentazione di case di tolleranza e delle sale di prostituzione; «non possono essere trattati argomenti relativi alle malattie veneree», e, per finire bellamente il capitolo «è vietata l’esibizione di organi sessuali». Passando ad altro argomento, il Codice esclude totalmente l’uso di gesti, parole, canti, scherzi e sottintesi osceni o scurrili. «La nudità completa (anche se in silhouette si badi bene!) è proibita», ma è proibita anche la seminudità; evitare, inoltre, le scene di vestimento, escludere le vesti o i costumi «indossati per compiere movimenti od atteggiamenti indecenti o scorretti nelle danze che d’altro canto sono proibite «se eccitano». Per 311
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quanto riguarda i soggetti repellenti è specificato che esecuzioni capitali, interrogatori, brutalità ed orrori, applicazione di marchio a persone od animali; crudeltà verso infermi donne fanciulli od animali, operazioni chirurgiche «debbono essere trattati nei limiti imposti dal buon gusto (sic!)». Il commento al codice non è meno divertente: in un primo tempo è detto che «i film destinati alla proiezione in locali di pubblico spettacolo debbono essere considerati essenzialmente sotto il profilo di mezzi di ricreazione», poi si ammette che i film possono essere considerati «come una forma di arte» e si assicura che «l’arte talvolta può creare effetti moralmente nocivi». Strano ragionamento! Ma è fatto ad usum delphini, di fatti più avanti è detto che «si è spesso sostenuto come l’arte sia in se stessa amorale: né buone né cattiva. Ciò è forse vero per alcune espressioni artistiche quali la musica, la pittura, la poesia, ecc. non per i film». La preoccupazione a che lo spettatore non sia attratto dalla parte del delitto, del vizio o delle cattiva azioni ma verso la bontà, l’onore, l’onestà giunge al punto da consigliare i produttori di non affidare parti di persone cattive o disoneste ad attori che al pubblico in genere sono simpatici: essi potrebbero simpatizzare anche per il tipo che gli attori prediletti rappresentano per l’azione che compiono sullo schermo! Altro consiglio degno di nota: «nelle trame che hanno riferimenti ai rapporti sessuali, la necessità del rispetto per la santità della famiglia e del matrimonio impone la massima attenzione per il caso detto “triangolo”, ossia per l’amore di un terzo per uno dei due coniugi. Lo svolgimento di queste vicende non deve infatti produrre antipatia per il matrimonio o per la sua istituzione». Ogni commento è superfluo. Per il divorzio, non solo ne è consigliata la rappresentazione «quando la trama lo renda indispensabile», ma si reputa necessario aggiungere «quando l’azione si svolga in paesi ove questo istituto è ammesso dalle leggi e sempre che sia basata su giusti motivi ed appaia come ultima soluzione e non sia trattato con leggerezza». Il Codice termina con queste avvertenze: «L’amore illecito non deve risultare né bello né attraente; non deve formare argomento di film comici o farseschi, né va trattato come materiale per ridere; non deve essere rappresentato in forme che suscitino passione o morbosa curiosità da parte del pubblico; non deve apparire né giusto né corretto; non deve essere descritto con eccessivi dettagli. Dal che si deduce che l’amore illecito (prima proibito ed ora ammesso) deve risultare quello che è, nient’altro che amore illecito, e che è una cosa seria. Povero cinema italiano!
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Pietro Bianchi
Sesso e celluloide [numero 7 – settembre 1947: Lettere al Direttore]
Caro direttore, avrai notato, sui giornali stranieri, avrai notato anche tu come, dopo i meritevolissimi Paisà, Sciuscià, Roma città aperta, anche i nostri film minori, di poco impegno e pretese, continuano a mietere successo e guadagni. Persino Scampolo è piaciuto, con quell’incredibile Lilia Silvi! Si parla addirittura di una scuola (in senso pittorico, preciso l’importantissimo e a noi benevolo Charensol) di una visione coerente e profonda della vita e dei suoi problemi e misteri che avrebbero in comune un po’ tutti i nostri registi da Blasetti a Malasomma, da Rossellini a Lattuada. La cosa, evidentemente, ci fa molto piacere. Ci fa tanto piacere che ci sentiamo nella stessa situazione di un ragazzino goloso che sta divorandosi, in sogno, un’enorme torta di crema e cioccolata. E mentre mangia gli si insinua il sospetto che non si tratti che di un sogno, e non vorrebbe svegliarsi per non interrompere la beata illusione. Fuor di metafora, si vorrebbero, insomma, incitare i nostri cinematografari a battere il ferro sin che è caldo. Il ferro del feroce dopoguerra italiano (che al cinema ha così ben fruttificato...) nonché caldo direi che è bollente: è venuta l’ora di metterlo da parte. Ma ci sarebbe (ecco il nostro suggerimento) un altro filone da sfruttare, di una realtà tipicamente italiana, meno contingente degli sciuscià e delle prodezze delle SS: la realtà amorosa. Si sta dimenticando, in Italia, che il sex-appeal nacque da noi con i grandi occhi, le grandi scollature di Francesca Bertini; e che, anche nella produzione più recente, le realtà amorose hanno un accento di verità e autenticità disperate. Pensa, nel Bandito di Lattuada alla scena di Carla Del Poggio in sottoveste nella casa equivoca: pensa alle apparizioni della sorprendente Maria Michi nei due film di Rossellini e capirai subito cosa voglio dire. Il Minculpop diede il bando, sì, alla politica, ma anche all’amore detestato dai tiranni, che vogliono che si muoia soltanto per loro. Il filone politico ha già reso abbastanza. È venuto il tempo dell’amore. Qui, nella vita, siamo imbattibili: lo possiamo essere anche nella celluloide. Per fortuna non c’è ancora, qui da noi, «il codice Hays». Bisogna approfittarne, sin che si è ancor in tempo. P.S. – I francesi l’hanno capito. Leggo sul «Figaro» che al Festival di Bruxelles, l’ambasciatore della repubblica ha abbandonato, sdegnato, la sala in cui si dava Le diable au corps, di Autant-Lara, giudicato immorale. Ben ven313
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ga il tempo in cui i nostri ambasciatori fuggano, arrossendo come verginelle, alla visione dei film italiani.
Fernaldo Di Giammatteo
Della censura [numero 9 – giugno-luglio 1948: Lettere al Direttore]
Signor Direttore, c’è poco da fare. Deve essere una maledizione capitatagli addosso quando è nato. Da cinquant’anni o pressapoco non si fa altro che parlare di censura per il cinema, e molti ne sostengono in base ai princìpi più disparati, l’assoluta necessità. Era ancora un giocattolino quando un prefetto di polizia, in Francia, si ficcò in capo che solo, senza la paterna protezione del buon costume, non poteva andare in giro per il mondo. Quel prefetto fu il primo censore cinematografico che la storia ricordi. Diceva Balàzs: «il cinema ha iniziato la sua vita con il poliziotto». Pensavo i motivi che furono cari ai registi delle origini. Eppure quel pensiero, così esatto, vale anche per le accoglienze che al cinema furono riservate dai vari confessionalismi di cui è piena la terra. Nella vita del cinema trovi sempre un poliziotto, e quel prefetto francese ne è, ancor oggi, il simbolo. Oggi, certo, i “tutori dell’ordine” usano maniere più urbane, non compulsano più i codici ma i libri di morale e agiscono con grande solennità, convinti di essere investiti di una nobile missione. È evidente che quando le cose vanno a questo modo, quando certi severi signori si rigirano per la testa queste grosse idee, agli altri rimane ben poco da fare. Quei signori sono inattaccabili. Molto meglio, allora, il poliziotto, con il suo sfollagente e le sue forbici estemporanee e maldestre. Non ci capiva niente, lo diceva. Non aveva pretese. Lo mandavano nelle sale per impedire un oltraggio al pudore. Lo impediva. E basta. Poi tornava ad impicciarsi dei fatti suoi. Questi invece hanno l’abitudine di impicciarsi soltanto dei fatti degli altri. Per sistema. Dicono agli sceneggiatori: questo film non lo fate, questo lo tagliate così, a quest’altro castrate per benino tutta la scena d’amore. E aggiungono: quando avrete finito, tornate da noi e fateci vedere il risultato. Se va bene daremo il via. Se no... Se no, censura. Una seconda volta, sempre preventiva. In nome della morale. Ma quale morale? Perché questo è il punto. La censura cambia morale ogni giorno. O, quanto meno, ad ogni mutar di governo. Un giorno lavora con la morale del governo di Tizio e proibisce o massacra (per esempio) i film sociali; il giorno dopo con la morale del governo di Sempronio e proibisce o massacra i film antisociali. Questo in un certo paese. Nel paese confinante avviene, nello stesso tempo, il contrario. Per cui 314
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un film “buono” per un paese, è automaticamente “cattivo” per un altro. Che razza di morale è questa? Vorremmo che i censori ce lo spiegassero. E ci spiegassero anche perché è opera di bene limitare negli individui la libertà di esprimersi secondo la propria volontà ed i propri gusti, imponendo loro un’altra volontà ed altri gusti, come se questi si potessero cambiare con la stessa disinvoltura con cui si cambia una camicia. Ma, si dice: non si vuole limitare nulla, si vuole soltanto che il film non divenga un incitamento al male. E bravi! Ma per questo non esiste un codice penale? Parole al vento. Nessuno scandalo, per quanto grave, nessuna protesta, per quanto energica e motivata, scalfiranno la pelle coriacea dei censori cinematografici. Risponderanno che si tratta di manovre politiche. Sarà inutile ribattere che la protesta è valida oggi com’era valida ieri, come sarà valida domani, in qualsiasi ambiente politico, contro qualsiasi censura, nera, rossa, bianca o gialla. Che non si insorge contro certi uomini, ma contro un sistema. Che non si insulta la Morale, ma si combatte la presunzione dei moralisti, la monta del moralismo. La quale è italiana, americana, russa, inglese, francese, ottentotta e neozelandese. E non si potrebbe essere più chiari di così. Inutile, inutile. Tempo perduto. O forse no? Qualcuno crede che ci si debba opporre, nonostante tutto? Ci indichi un mezzo efficace per farlo, e lo faremo. Per conto mio, mezzi non ne vedo.
Luigi Bartolini
Cinema moralizzatore [numero 10-11 – agosto-settembre 1948]
Nel 1936, o ’37 che fosse stato, giacché non ho buona memoria dei miei scritti e mi sa uggioso l’andarli a ripescare in un, eppure, ordinato archivio delle mie carte io scrissi contro il Cinema un intiero o quasi intiero numero doppio del «Selvaggio». Allora, molti cineasti mi si sollevarono contro e, come allora si costumava, andarono a riferire, al Ministero della Cultura (o della Stampa che fosse stato), che io ero un disfattista. E cosicché non mi fu più possibile continuare una campagna, o polemica, intorno alle più o meno moralità del Cinema. Credevo, anzi, che quel mio scritto si avesse da considerare perduto nella memoria dei miei buoni lettori. Viceversa, voi stessi, amici di «La Critica Cinematografica», ne avete, di recente, ripubblicato un brano minore, quello della mia ilare poesiola dal titolo Pellipellicola. Lasciatemi, dunque, riprendere l’interrotta argomentazione e le considerazioni intorno ad un’arte, quale indubbiamente è il Cinema, di genere inferiore. Per315
«La Critica Cinematografica»
ché io chiamo il Cinema arte inferiore? Perché mentre a Verlaine per scrivere una poesia bastava un piccolo foglio di carta, (egli le scriveva su brandelli i più curiosi a soggettisti, registi, attori, ecc.), occorrono oggi, credo, una sessantina di milioni allo scopo di realizzare un qualsiasi soggetto. Dunque il Cinema dipende dai sessanta milioni. Dunque è un’arte soggetta e schiava! È doppiamente schiava in quanto lo è del produttore e degli uditori. Chi sono gli uditori? Non siamo noi, poeti e artisti: ma è il pubblico delle fantesche e dei sergenti maggiori. Noi, neppure andiamo al cinema, non rappresentiamo che un biglietto d’ingresso contro le migliaia e migliaia di biglietti di ingresso delle fantesche e dei sergenti maggiori. Naturalmente i produttori s’infischiano di noi poeti ed artisti, ma nessun produttore s’è mai infischiato – né mai s’infischierà – del pubblico delle fantesche e dei sergenti maggiori. E questo è tutto: il cinematografo dipenderà sempre dal pubblico. E siccome il pubblico vuole essere, come dice Orazio, costantemente canzonato e cioè biaggiato, così non si potrà mai dare vita ad una pellicola che non sia conforme all’odiosa necessità d’entrare nelle grazie del pubblico cafone. Guardate, del resto, quello che è sempre accaduto anche in letteratura. Baudelaire, morto povero e, per giunta, diffamato! Al suo funebre accompagno non si recarono più di quattro persone. Guardate, del resto, quello che accade nel campo dei pittori. Stavo leggendo, ieri a notte, che morto Van Gogh il curato d’Anvers (tale abbè Tessier) non volle prestare il pubblico cataletto per trasportare il “suicida” dall’ospedale all’ultima dimora. Ma più tardi, Conard, editore, venderà a lire duemila il volume in quattordici tomi delle Oevres complètes di Baudelaire. In quanto a Van Gogh non credo che oggi sia possibile acquistare un suo quadro pagandolo meno di un paio di milioni. Alla Quadriennale ultima un quadro di Modigliani figurava assicurato per otto milioni; mentre, vivo, “Modì” non ebbe mai danaro sufficiente per prendere in affitto uno studio decoroso. L’ingratitudine del mondo volgare è, dunque, contro gli artisti e contro i poeti, spinta al massimo grado. Perché? Perché esseri creati da Dio nell’intenzione, divina, di servire da missionari, da illuminatori, da guide spirituali, il mondo li accetta dopo morti; ossia quando la loro missione non è più paragonabile a quella che avrebbe potuto essere da vivi e che era nell’intenzione di Dio: guide o, come dice Baudelaire istesso, “fari” dopo la notte dell’umanità. Sono dei secoli e secoli che noi, poeti, sognamo l’avvento del crepuscolo umano ed invece di andare verso l’aurora retrocediamo con e senza nostra colpa, al peggio. Dice il Leopardi, nello Zibaldone, che l’umanità regredisce di secolo in secolo. Ed infatti da antiche guerre combattute cavallerescamente al modo di ludi siamo andati a terminare in guerre dalle quali esula ogni senso di cavalleria, in oscure guerre ed indici, tremendi, della calcolata cattiveria o della belluinità umana. Ecco intanto, perché sono nate, ed hanno preso sviluppo, 316
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a fianco delle arti e del “sacrificio spirituale” arti, come il Cinema, in cui né impresari, né registi, (tutti amanti della bella vita e del far quattrino), né attori, né attrici (idem) intendono minimamente il significato di “sacrificio spirituale”. Anzi, se suggerissi ad un’attrice di sacrificarsi spiritualmente e di farsi vestale o monaca, costei mi guarderebbe di sottecchi e, probabilmente, se non avesse timore delle mie risposte, me ne direbbe di tutti i colori. Sta bene, è così. Quello che più sopra ho affermato, non è da mettersi in dubbio. Avete un bel dire, o registi, o attori, ecc.; voi intendete il Cinema come un’arte che abbandonereste immediatamente se essa vi costringesse a sacrifici baudelariani. Invece la società degli uomini non ha, al punto dove attualmente è giunta, che necessità di morale. Una delle due: o si va verso la morale, o si continua ad indietreggiare. O si va contro le masse o si porta acqua con le orecchie alle masse. Chi porta acqua con le orecchie alle masse non giova alle masse! Chi rammenta, alle masse, i loro doveri e la ragione per cui ogni creatura può trovare una certa amorosa consolazione nel fatto di esistere, apparentemente va contro le masse, realmente e sostanzialmente non va contro le masse, perché tende ad educarle. Tende a convertire la belva in creatura. È naturale che le belve non si lascino facilmente convertire. Diceva bene Kant: «inutile è illudersi che l’uomo sia buono. L’uomo è, anzi, pessimo». Non c’è che da educarlo. Non c’è che da impedirgli d’essere pessimo, sia mediante le prudenti leggi, sia combattendo le molteplici ipocrisie, (comprese quelle della pratica, ipocrita, applicazione di leggi apparentemente, o, nominalmente buone). Non si nega che esistano leggi umane teoricamente buone; ma le leggi le manipolano gli uomini e perciò vengono troppo spesso, frustate nelle loro buone ed ottime intenzioni. Da cui è sopraggiunto, intanto, in ogni creatura umana, un senso di diffidenza contro le leggi e contro i governi. Dalla diffidenza è sorto il dubbio anche intorno alla bontà teorica delle leggi; ed ogni spirito è assillato dal dubbio morale. Non si sa se seguire la morale (e, perciò, buscarne) o se seguire la bestialità umana (e perciò salire in auge). Forse (io non mi ci sono mai provato) non è molto difficile arrampicarsi. Basta, forse, fare mercimonio dell’istesso spirito sovrano, ossia dello spirito d’amore. Dupe du volgaire è ogni spirito altamente innamorato. E lo sforzo (che non mi sarei mai sognato di dover compiere vivendo) per adattarmi a subirne il meno possibile dall’insieme dei miei simili, è quello d’ottundere la mia intelligenza ed è quello di spegnere i moti affettuosi del mio cuore. Lo spirito bestiale ha preso, dopo la Rivoluzione francese, il timone nelle sue mani e noi, intelligenti, dobbiamo, come i non intelligenti, subire di muoverci, di esistere, non in conformità dei nostri aneliti, ma come il mondo supino vuole. E neppure è da dire «vuole» giacché è tutto un subire; e, cioè, anche le masse subiscono il caotico e disorientato spasimare dell’intiera umanità. Tutti soffriamo perché tutti siamo trascinati ad essere ciò che non vorremmo e che, eppure, subiamo in quanto siamo come ciechi che 317
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non crediamo più in nulla e soltanto nell’immediata soddisfazione dei desideri bestiali. Quei desideri, cioè, che più si cerca di spegnere e più essi ricavano fuori le cento teste dell’Idra di Lerno. Se il mondo si fermasse un po’, se si ponesse a ragionare come non fa più da qualche secolo a questa parte, se capisse che si passa da un eccesso distruttivo all’altro eccesso ricostruttivo e da guerre spasimanti a paci affannose, se capisse che è inutile ricostruire per ridistruggere, se intuisse che si potrebbe lavorare meno ore ogni giorno e dedicare le rimanenti ore alla serena contemplazione dei beni di Dio, se non si concorresse anche noi a peggiorare la sorte comune mortale, allora daccapo apparirebbe evidente il beneficio di una morale e la necessità ed anzi, la bellezza, di un’arte morale. Ed è certo che, da ormai un secolo, anche i poeti ed anche gli artisti, perduta la loro autonomia spirituale, e dismessa la loro fierezza, sono diventati i maestri dell’immorale. Guardate il Conte di Lautréamont, scrisse, nei Canti di Maldoror che c’è poesia, arte, gusto, piacere, nel seviziare una bambina innocente. Prenderla, morsicchiarla, produrle ferite, farla sanguinare, gemere, implorare, e, se intanto – consiglia Lautréamont – sopraggiunge il poliziotto, allora si faccia finta d’essere accorsi contro il bruto che è scappato. Senonché, di morire (o, come sembra, di suicidarsi, il giovane poeta scrisse una ammenda vistosa sotto il titolo di Prefazione, in cui, rinnegando completamente le sue mostruosità, intrise di bell’arte, afferma che occorre rimpiazzare il dubbio con la fede e all’incertezza sostituire la certezza, alla passione per l’orrendo, l’amore per la bontà. Non fu creduto, però, dai suoi epigoni. In quanto a Rimbaud, è peggio ancora. Rimbaud scrisse che «la morale è una debolezza di cervello». E cosicché chi prima rubava dieci, per non passare quale debole di cervello, rubò venti o ventimila: più che potette. Chi, prima, uccideva per via, per vendetta, o per ottusità, o debolezza dei freni inibitori, poi, udito Rimbaud (giacché i poeti s’eran fatti, con Rimbaud, portavoce della perversione umana) dopo, uccise per togliere, al morto, il paio di scarpe nuove. Sortì fuori Flaubert con la semiapologia di Madame Bovary; e ciascuna isterica e ninfomane credette poter assurgere ad eroina da romanzo e che, in fondo, fosse bello, dopo aver messo ad un Bovary marito parecchie fila di corna, bere un po’ d’arsenico. Se poi guardiamo al Cinema io vi giuro che dal tempo che il Cinema è nato ancora non è stato girato un solo film completamente morale. Vi prego di non sgranare gli occhi, né di grattarvi tra i capelli. Non raccapricciate! È così! Potrei esemplificare, trasformando questo rapido articolo in un enorme volume di citazioni, di critiche, ai pincipali film che ebbero apparenza (ma non sostanza) morale. Non vi può essere mai stato un film morale per il semplice fatto che, se ci fosse stato, l’uditorio delle fantesche e dei sergenti maggiori avrebbero disertato le sale. Che vi siano stati, invece, dei film semimorali, o, peggio, finti morali, può darsi. Può darsi che attraverso una serie di scene della più alta 318
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immoralità si sia giunti a rotta di collo, in taluni film clamorosi, ad una conclusione (abborracciata) morale: giacché il basso pubblico è ipocrita per eccellenza e domanda, la soluzione morale d’un dramma o d’un soggetto: che, intanto, non ha mostrato, sulla scena, se non delitti, incendi, uccisioni, stupri, stragi, bagasce, ladri, briganti ed assassini. E vi sono soggettisti, e registi, che pensano che, senza tali ingredienti, il film non vada. Io, invece, vorrei mostrarvi, al cinema, il film, l’esistenza di un uomo al quale non accade alcuna esorbitante disavventura. Né uccise, né assistette allo svolgersi di delitti e di stragi. Visse in pace del suo lavoro e dell’affetto di sua moglie. Odo un altro coro, composto di mille su mille registi, darmi dell’imbecille. Ma è qui, miei cari, che vi voglio! Tutti son buoni (o non ci vuol molto) ad interessare le donne di servizio ed i sergenti maggiori con film del genere di Giovanni Episcopo. Badate bene, io sono un ammiratore del mio amico Lattuada. Lo considero, anzi, quale mio discepolo. Lo conosco da quando egli non ancora pensava darsi al cinema. Allora egli era un entusiasta del mio libro Passeggiata con la ragazza (o serie di racconti senza una goccia di sangue, e senza neppure una caduta per le scale o una scivolata sopra una buccia di cocomera). È un libro che vien detto «di prosa» ma, invece, è tutto poesia. Se un regista fosse capace d’incatenare un uditorio sopra un film il cui soggetto fosse, né più né meno, che il seguente: un passaggio di colombi viaggiatori sopra la collina, costui già sarebbe da considerare il dio dei registi. Ma, invece, anche Lattuada, nonostante la sua intelligenza di livello assolutamente superiore a quella anche di ottimi o celebri registi, ha, fino ad oggi, fatto ricorso a soggetti truci, neri, truculenti, impastati di solita retorica, (come Il bandito) dell’uomo che uccide ed è eroe, o come, in Giovanni Episcopo, del cornuto volontario che fa bella figura uccidendo l’avventuriero cornificatore. E, nel Cinema, non si fa che passare da un paio di corna all’altro, dall’un delitto minimamente descritto, a guisa di lezione per gli imberbi, ed anche pei barbuti, ad un altro validamente registrato. I mariti (sullo schermo) sono tutti stupidi. Han sempre torto o quasi torto. Le mogli? Quanto più Bovary sono e meglio è. Tale Cinema è troppo facile. Ed infatti i film di Lattuada valorosamente resistono (per esclusivo suo merito di regista) ai miei occhi: in quanto Lattuada è un grande artista sprecato, o quasi, in Italia: dove registi ciociari ottengono più facili palme. Ma, caro Lattuada, la fantesca ed il sergente maggiore se ne infischiano dei tuoi quadri, disegni, acqueforti, ossia della tua regia e sceneggiatura da grande artista! Le tue finezze le potremo capire in dieci, mentre le sale dei cinema raccolgono migliaia di persone più attente all’azione del dramma che al modo della rappresentazione. Quando io diedi, al De Sica, il mio libro Ladri di biciclette, fiduciosamente glielo diedi nella speranza che Zavattini non me lo cucinasse in salmì e, a parer mio, lo rovinasse completamente. Io intendevo che venisse valorizzata sulle scene del 319
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cinema una semplice onesta avventura sopra un fatto accadibile a chiunque quale quello del furto patito d’una bicicletta, il bello avrebbe dovuto consistere nel dimostrare che non sempre i ladri riescono a farla al galantuomo, e che, insomma, anche i galantuomini possiedono naso fino e coraggio fisico quant’è necessario per inoltrarsi nel bagnume meretricesco della romana Via del Panico. Difficile, terribilmente difficile, era valorizzare un’azione che io, nel mio libro, avevo descritta traendola dal vivo vero mentre di giorno andavo in traccia dei ladri e della bicicletta, e, di notte, scrivevo quello che mi era accaduto di giorno andando in traccia. Non incupire le tinte, ma moralizzare le azioni comuni. Fare non come troppo spesso fa il Cinema americano che mostra, sotto aureole eroiche, assassini e bari, ladri e mezzani; ma, semmai sia necessario ingrediente, l’umana delinquenza, oh mostratela, o soggettisti, o registri, o sceneggiatori qual è: grama e triste infelicità a chi ne porta il fatal peso sopra le spalle! Certo è che un film morale è più difficile d’un film che si richiami ai bassi istinti delle folle. Finché voi mostrate donne ignude siete, miei pari, né più né meno che a livello del teatro delle Foliés e siete, presso a poco, tutti dei mezzani. Ma il difficile è fare in modo che l’uditorio sorta dalle sale dei cinema non con il desiderio intorbidito, sebbene con il cuore rasserenato: come dopo che si sia letta e capita una grande poesia. Il Cinema difficilmente riuscirà a mettere in scena sottigliezze spirituali come quelle contenute nel canto dell’Infinito leopardiano o come quelle della poesia di Verlaine dal titolo Projets en l’air (Oevres posthumes, pag. 117 – Vanier ed. 1903). Voi non sapete fare che del Cinema movimentato, esteriore, a forti tinte e volgare. Si potrebbe fare anche il resto: che non è il resto e che, anzi, è il più che si dovrebbe fare. Ma è certo che il cinematografo è eccessivamente schiavo dei mezzi da cui dipende per le sue attuazioni. È un circolo vizioso; il successo non può che arridere ai peggiori soggetti trattati nel modo il più comune. Ecco perché io, personalmente, sono pentito d’aver concesso al De Sica e allo Zavattini la riduzione del mio libro alla scena del cinema. Io avrei dovuto imporre loro la precisa esecuzione (soggetto, regia, sceneggiatura) tali quali appaiono nel mio libro. Soltanto un regista d’immenso valore sarebbe stato capace di tradurre fedelmente il mio libro. È certo che il cinema immorale costituisce un’arma, l’ultimo coltello nel seno della povera umanità! Le creature umane vanno al cinema come ad una scuola di delinquenza. E purtroppo, tale scuola produce dei danni immensi. Voi non fate che ostentare il trionfo del vizio e delle altre pessime, negative qualità umane. Ma, eppure, noi poeti, noi artisti, ci stiamo rieducando alla morale. Noi, o alcuni di noi, abbiamo capito che da un secolo a questa parte non si fa che convulsamente delirare. Convulsamente attaccarci ad un paradosso, staccarci dal primo per andare incontro ad un secondo. Se un regista portasse al cinema la vita di un Camaldolo o d’un altro frate eremita; se, attraverso le scene del cinema si riuscisse ad intendere il valore della 320
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separazione da un mondo inaccettabilmente volgare già sarebbe qualche cosa. Sconosciuti eroi, sconosciuti eroismi morali hanno luogo in mezzo al torbidume dell’esistenza collettiva. Ma, giornali e cinema non parlano che di delitti; e, quindi, il non delitto, il sacrificio, il meglio, sono azioni e persone che rimangono sconosciuti alle ribalte. Voi andate lungo un marciapiede ed osservate, in novecentonovantanove casi, soltanto quello che seduce i vostri sensi carnali; non osservate più quello che vi sembra il meno. Sfuggite a lunghe narrazioni e dimostrazioni di dolore; dite: «ciò ci annoia». Lo so! Ma non vi recherebbe noia se il vostro animo fosse più alto e meglio educato. Liberate, dunque, il Cinema – se si può – dalle esigenze di bottega o di cassetta. Create delle grandi associazioni che offrano spettacoli gratuiti. Fate la prova d’un Cinema morale. Chi vi ha parlato è tutt’altro che un santo. È tutt’altro che un feticista del pregiudizio morale! È semplicemente un poeta che conosce i molti amori e che sa che non giova rappresentare se non ciò che costituisce il migliore amore. Diceva bene Lautréamont: «Le roman est un genre faux, parce qu’il décrit les passions pour elles memes: la conclusion morale est absente. Décrire les pasions n’est rien; il suffit de naître un peu chacal, un peu vantour, un peu panthere. Les décrire, pour les soumettre à una haute moralité! Corneille est autre chose». Oppure diceva il Lautréamont della Prefazione: «les douleurs invraisemblable que ce siécle s’est crées à lui-meme, dans leur voulu monotone et dègoutant, l’ont rendu poitrinaire».
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Aforismi per i giorni perduti
Sopravvivenza: anch’essa. Essa, la vecchia campagna, ritrovata, quassù, dove, per noi, è più eterna. Sono gli ultimi giorni, o, è uguale, gli ultimi anni, dei campi arati con le file dei tronchi sui fossi, del fango bianco intorno ai gelsi appena potati, degli argini ancora verdi sulle rogge asciutte. Anche qui: dove il pagano fu cristiano, e con lui la sua terra, il suo campo coltivato. PIER PAOLO PASOLINI
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Aforismi per i giorni perduti
Mino Maccari
Dopoguerra [numero 5 – dicembre 1946]
Discesi dal tranvai dove ci porterai stasera, o Cinemà? Attorno al verde tappeto la Cocotte e l’Agente segreto tramano al ritmo del baccarà. L’Anarchico s’acquatta e la pistola scatta. Il Nikilista lancia il petardo senza riguardo. Stretto il Ministro nel perfetto frack ha un sorriso beffardo: in Borsa, è il crack. Tanti saluti da Sciangai, o Figli del Tranvai. Ve li manda la Propaganda. Spionaggio e Controspionaggio; facciamoci coraggio: ne avremo fino a maggio.
Gian Carlo Artoni
Due poesie [numero 5 – dicembre 1946]
Se il giorno cade ed ombre oltre la mia non vedo, che la sera lentamente cancella, com’è dolce, fratello, quello stesso sangue che ci riscalda le vene: con uguale fatica ad uno ad uno i petali la rosa affida al giorno, ed è la stessa gioia del nostro amore (mentre
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fuori di noi, nel mondo, si perde muto il cuore nel silenzio di troppe notti). *** Dimmi l’accesa luce chi ti darà di un’alba senza suono terreno: forse mute onde dal mare si faranno a chiuse anse sul golfo ove, placata, al segno si perderanno; forse perché ti stanca questo errare pel nostro bosco e specchiare la voce in acque forti, giorno che il sole si farà nuovo a palpiti vermigli e dietro a te saliranno, parole come bisbigli.
Mario Colombi Guidotti
Incinte [numero 5 – dicembre 1946]
Nella sala d’attesa c’erano tre persone, due donne in piedi, una di fronte all’altra, che chiacchieravano animatamente, e un giovane smilzo, vestito in modo assai dimesso, seduto dietro una scrivania. Il giovane, dal volto mansueto, guardava attentamente le due donne e seguiva la loro conversazione. Talvolta approvava col capo, volgendosi a fissare il vuoto con due occhi acquosi e rotondi che un po’ gli sporgevano dalle orbite; ma subito si riscoteva e ricominciava a guardare le due donne. – Mio marito – diceva la più piccola, che indossava un grembiule nero da impiegata – vorrebbe ch’io stessi ormai a casa dall’ufficio – parlava con una voce forte ed eccitata, e parlando sorrideva di frequente. – Non ti senti bene? – chiese quell’altra, dalla folta capigliatura riccia, con qualche capello grigio. – Mi sento bene. Ma mi si comincia a veder molto –. Ella aveva un visino ovale, con un piccolo naso a patata e due occhi scuri vivacissimi. – A me neanche tanto. Sento il perso nel camminare perché sono fiacca –. Guardò il giovano smilzo che la osservava. – Non dovresti più uscire Ester – disse il giovane con voce quasi implorante. – C’è pericolo dopo quell’emorragia? – 326
Aforismi per i giorni perduti
– C’è pericolo – disse il giovane fissando cogli occhi acquosi la macchina da scrivere. – Oh, io mi sento benissimo – disse la più piccola, e si volse dall’altra pare, verso la finestra. Fece qualche passo. Doveva essere una donna calma e allegra cui tutto andava per il meglio. – Avrei bisogno anche di mangiare cose di molta sostanza – disse Ester. – Hai qualche desiderio – la piccola donna s’era voltata e la luce della finestra colpiva il suo volto leggermente pallido, senza cipria né rossetto. – Oh, no. Cosa vuoi... – Ester si passò una mano sulla fronte e chiuse un istante gli occhi. – Cosa debbo farti oggi da mangiare? – Parlava con una vocetta acuta, lentamente, e guardava con un velo d’ansia il marito seduto dietro la scrivania. – Quello che vuoi, cara. – Mio marito – disse la piccola donna – sarebbe contento ch’io avessi qualche desiderio. Ester si avvicinò al marito, tolse da una grossa sporta di paglia un pacchetto, e glielo passò nelle mani. – C’è un pezzo di pane con una fetta di salame. Non mi sento di mangiarlo. – Egli s’alzò e aiutò la moglie a sedere. – Sei stanca? – Ella cercò di sorridere. – Ho sempre paura che mi capiti come quella volta. La piccola donna s’avvicinò e pose una mano sulla guancia di Ester; le fece qualche carezza. – Non devi preoccuparti così – disse. – Ma tu stai bene. – Lo so. Guarda che fianchi e che petto. Ha visto, Franco? – Lei è cambiata molto. – Mio marito dice che gli piaccio di più. – La piccola donna si sedette dietro la sua scrivania, aprì un grande registro e cominciò a trascrivere delle cifre colla matita. Vi fu qualche istante di silenzio, poi si udì un suono lontano, come un altoparlante. La piccola donna aveva acquistato un’espressione seria e attenta, e lavorava alacremente, senza alzare il capo dal registro. Franco guardava la moglie che stava col capo appoggiato al petto, gli occhi socchiusi e le mani intrecciate. Guardava il suo leggero soprabito nero, gonfio sul grembo, un vecchio soprabito lucido e sdrucito. E ogni tanto il suo occhio correva all’altra donna incinta, dietro la scrivania, che non aveva più alzato il capo dal momento in cui s’era seduta. Non capiva com’ella fosse tanto calma e allegra e potesse dimenticarsi di tutto, trascrivendo cifre da un registro all’altro.
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«La Critica Cinematografica»
Pietro Bianchi
Una rivoluzione invisibile [numero 6 – marzo 1947: Lettere al Direttore]
Signor Direttore, quella del cinema parlato e sonoro fu, signor direttore, una rivoluzione invisibile. I critici la presero molto male. Erano gente di ingegno, la presero male lo stesso. Ci ricordiamo l’incomparabile Arnoux delle «Nouvelles Litteraires» (ne eravamo attenti lettori, in quell’epoca); ci ricordiamo il povero Alberto Cecchi, che firmava «Alce» nel «Tevere» e poi smise quando prese moglie. Gli sembrava che quell’emblematica sigla gli portasse scalogna. Quanto a noi, caro direttore, eravamo intellettuali ma giovani. Ciò che ci salvò dal prendere la cantonata antitalkie che tutti presero, non fu la intellettualità ma la giovinezza. Avevamo troppa fame per disdegnare il nuovo cibo, e così scoprimmo che c’era “qualcosa” anche nella nuova scoperta. Vedemmo a Roma Ombre bianche. Era la nostra prima visita alla città eterna. Non ci vergognamo di dire che ammirammo Ombre bianche prima di San Pietro e di tante cose illustri che, del resto, ci restano ancora da vedere oggi. Vedemmo invece Antonio Baldini, già grande e grosso, ma ancora giovane, che si godeva il film al Supercinema due o tre poltrone lontano dalla nostra. Baldini era un vecchio ammiratore di Douglas, i mari del Sud e le polinesiane semivestite gli davano piacere quasi come Douglas. Dopo Ombre bianche furono brutti anni, caro direttore. Malgrado la nostra tenacia, ci sentivamo un po’ scoraggiati. Insulse storie hollywoodiane di ballerine, film italiani e francesi, gli uni e gli altri senza senso. Ancora fanciullo il film parlato incespicava, batteva il capino nei mobili. Poi, un bel giorno, ci imbattemmo nel Fortunale sulla scogliera, poi nel Rifugio: dopo vennero Tabù e Alleluja. Intanto il povero Cecchi era morto (aveva contratto una misteriosa malattia nel vicino oriente); l’onesto Arnoux si era ricreduto. Quanto a noi, ricominciammo ad andare al cinema quasi tutti i giorni, chissà quando smetteremo.
Franco Tosi
Il gatto [numero 6 – marzo 1947]
Un gatto – ed è noto che i gatti hanno l’occhio costruito in modo da poter distinguere le radiazioni cromatiche dei raggi infrarossi – vedeva gli oggetti in un modo particolare, cioè alla maniera propria dei gatti. Stanco della sua monotona vita (egli era il gatto di un ortolano: e si sa,
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Aforismi per i giorni perduti
oltre a tutto, che non sono i torsoli di cavolo il cibo preferito dai felini) si mise in cammino per la città alla ricerca di avventure che rinnovassero la sua passione per la tepida morbidezza dei piccoli piaceri dell’esistenza. Vagò fra grosse scarpe di militari – luccicanti delle vernici da poco applicate dagli “sciuscià” –; si insinuò fra ruote di autocarri insonnoliti nei parcheggi cintati di filo spinato; seguì, sotto l’inesorabile splendore delle lampade elettriche, le rotaie del tram, lucide e serpeggianti fra il traffico notturno delle vie: e, alla fine, entrò in un cinematografo. Nel buio della sala udì una ragazza che narrava al fidanzato le vicende della pellicola. Infatti il giovanotto stava preoccupandosi del confortevole tepore della fanciulla e non della proiezione. Dalle parole della ragazza il gatto restò sorpreso: capì che gli uomini vedevano le cose diverse da come le vedeva lui (forse solamente perché essi non percepiscono le radiazioni infrarosse). Jean Gabin prodigava la sua conturbante – e quasi immobile – mimica sullo schermo: ma il gatto escì dalla sala diretto, nuovamente, alla vecchia bottega dell’ortolano. «Nessuno vede le cose come gli altri» – mormorava fra sé e sé – «e la realtà è tutto un fuggevole giuoco di immagini: la misura di tutte le cose è l’occhio ed ognuno ha una misura propria». Un regista udì il soliloquio del gatto: tornò, nella solitudine della notte, nello “studio” deserto, si rivolse alle macchine da presa, che riposavano velate dalle cuffie di protezione: «Nel cinema» – disse – «è l’occhio la misura di tutte le cose: ed ognuno ha una sua misura. Bisogna che il nostro film sappia vedere, e far vedere, più in là della misura di ognuno; e mostrare immagine vere, ma un poco più vere di tutte le infinite verità di tutti gli uomini. E le parole ed i suoni faranno parte del ritmo, insieme alle immagini. Ma è l’occhio, nel cinema, la misura di tutte le cose». E subito le macchine, da sole, cominciarono a lavorare; e le lampade si accesero: ed il ciak batteva, infaticabile, ogni inizio di sequenza. E presto il film fu prodotto, e fece il giro dei continenti, e tutti lo applaudirono. E passarono mesi ed anni e tutti continuarono a dire che quello era stato il film più bello del mondo. E passò la figlia di uno dei potenti della terra, e, saputo che il regista era l’autore del film famoso, volle sposarlo, ed il potentissimo genitore lo nominò suo erede. Ma a questo punto il regista si svegliò: dallo “studio” veniva il fruscìo delle macchine insieme alla voce scoppiettante di un commendatore. E guardando il suo taccuino, il regista si ricordò che aveva in lavorazione una pellicola ricavata da una commedia, con gli “interni” arredati in vetro, con la Silvi e con Campanili, e con tante belle “trovate” di dialogo.
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«La Critica Cinematografica»
Pietro Bianchi
Le nostre compagne [numero 8 – aprile-maggio 1948: Lettere al Direttore]
Signor Direttore, mi pare che siamo un po’ in magra coi nostri film, Le pare? Forse li incoraggiano troppo. Oscar americani, milioni del giovane Andreotti, articoli lunghi e larghi, veri mari di piombo, sulle riviste. Ho visto una delle ultime Post? Quest’anno, intanto, due soli film notevoli (da non paragonarsi tuttavia ai Rossellini e ai De Sica): Caccia Tragica e Gioventù perduta. Ricchi di talento narrativo De Santis e Germi sono però poco spontanei, non “veri”. C’è tanta America, dietro di loro: i «westerns» dietro il Beppe ciociaro, i «gangsters» dietro il giovane Germi. Ora in Italia ci sono le donne. Diceva Stendhal che il nostro era l’unico paese al mondo dove la passione amorosa vinceva su tutto. Anche oggi, a cento anni di distanza dalle annotazioni del savio di Grenoble, gli italiani credono più all’amore che ad altri assoluti: guerre, rivoluzioni, ideologie, socialismo, ecc. C’è della gente (professionisti colti, badi) che spara sulla moglie sospetta di adulterio, ragazzine che per una delusione grande così si gettano sotto il treno; amanti (ieri a Sesto San Giovanni: la Stalingrado d’Italia!) di 25 anni che uccidono l’amata di venti anni più vecchia, sposata, con figli grandi, perché ha scoperto i primi capelli grigi, e insomma si vergogna. E non parliamo poi dei tipi fisici delle nostre donne: da Trieste a Trapani, un mondo, signor direttore! Ma il cinema nostro queste faccende nostre le ignora. S’interessa al contingente: sciuscià, signorine, partigiani e trascura l’eterno. Pensi che abbiamo esportato Anna Magnani (brava attrice, non c’è che dire, ma non «bella italiana») e lasciamo oscuramente invecchiare Clara Calamai e Mariella Lotti. Delitti, le dico; verrebbe quasi da piangere dalla rabbia. Intanto in via Montenapoleone e in via Veneto, per le calli di Venezia e nel centro di Firenze si muove un popolo femminile che è il più vario, il più interessante del mondo. Col vestito lindo dell’impiegatuccia, col collarino bianco della commessa di negozio, con un modello originale di Jacque Fath girano per vecchie strade di questo miracoloso paese le incantevoli compagne della nostra vita. Che frequentano ritrovi, si sposano, muoiono di parto, vengono uccise per gelosia, hanno amanti e figli senza che i registi Pietro, Beppe, Luigi e Alberto se ne accorgano. Troppo attenti al Collettivo, al Sociale, all’Esistente e alle altre frottole Pietro, Beppe, ecc. ignorano la vera Italia. Poi strillano forte, se la gente preferisce al Collettivo ecc. Paulette o Rita. Cordialmente.
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Aforismi per i giorni perduti
R. S.
Giorni perduti [numero 8 – aprile-maggio 1948]
Domenica Tutta la poesia sconsolata della domenica è arrivata al cinema. Greve di quiete e riposo scende dallo schermo di My darling Clementine di Ford, nell’andare lento e uniforme della gente a passeggio. Si vedono le persone passare di là dalla tettoia, mentre i fratelli silenziosi e annoiati, se ne stanno schierati lungo la strada. Con un accorato suono di campane entra invece dalla finestra spalancata di A Tree Grows in Brooklyn di Kazan. Anche qui con noia conducon le ore; la famiglia se ne sta lì svagatemente raccolta nella stanza. Finché Glory decide di uscire e porta con sé Nine. E allora i viali, i muri coi rampicanti, le porte chiuse, come tutto è dolce e triste. Sino a quando quella vecchia coppia di benestanti entrano in casa. Accesa la prima luce, la domenica muore. Lunedì Ritornare. Emozione di rivedere le città, le strade, le case. Rientrare in esse, riabituarci ad esse. Ci eravamo quasi scordati che erano proprio così. Il colore del muro, la sagoma di un edificio, un rumore, un odore, riportano ad una famigliarità dimenticata con le ore ed i luoghi, come sempre, da ragazzi, ci capitava rientrando in città dopo le lunghe vacanze estive. Ci accorgevamo che un campanello aveva continuato a suonare nell’angolo della specchiera della nostra camera e la voce della lattivendola a chiamare nella riga di luce che dalle imposte chiuse vibrava sul pavimento di legno come un raggio di sole sul primo fondo del mare. Ritorna Guy Madison in Till the End of Time di Dmytryk. Ritornano Dana Andrew, Fredric March, Harold Russel in The Years of Our Lives di Wyler. E quando il primo entra in casa e gli altri dal finestrino dell’automobile rivedono la “loro” città, Dmytryk e Wyler ci fanno ritornare con loro. Martedì «Anche i classici soggiacciono alla moda... Che dico? Nella stessa vita a seconda delle età, in un solo anno a seconda delle stagioni, perfino nelle diverse ore di uno stesso giorno, noi preferiamo un libro ad un altro, uno stile ad un altro, un atteggiamento spirituale ad un altro...» (Joubert) Mercoledì Leggo nel «New Statesman» che Londra ha fatto in questi giorni per la prima volta la conoscenza di un nuovo, interessante attore del cinema italia-
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«La Critica Cinematografica»
no. L’attore si chiama Osvaldo Valenti, il film che lo ha rivelato agli inglesi è l’Enrico IV di Pirandello. Giovedì «Nous avons vu de astres Et des flots; nous avons vu des sable aussi; Et, malgré bien des choses et d’imprévus désastres, Nous nous sommes souvent ennuyés...» (Ch. Baudelaire) Battaglie, arrembaggi, uragani. Non ci hanno mai condotto alla spiaggia con le scarpe di tela. Alla spiaggia nel colmo della sua giornata, percorsa da gridi, martoriata dai ragazzi, dai pattini fatti slittare nell’acqua, dalle vecchie signore che si ricoprono di sabbia le gambe e il ventre con gesti e piacere infantili. Le bandierine del tempo (rosse o bianche), gli ombrelloni tesi, le tende, i venditori di canditi, i capanni, i marciapiedi di legno, tutto legato con un invisibile filo al sole alto, come un aquilone immobile nell’aria densa, pronto a spezzarsi al colpo del cannone del mezzogiorno, a liberarsi in un ondeggiamento sempre meno teso e più ampio verso le zone del pomeriggio e della sera. Venerdì L’ostinata fede di Capra nell’amicizia degli uomini, nella dolcezza dell’amore, nel valore di tutti i sentimenti e di tutte le cose che fanno la vita di un uomo, sia pure una piccola vita; e il nichilismo sistematico, scientifico dell’ultimo Chaplin, tanto scientifico da eliminare anche il dolore, come per la virtù del più moderno. Tra i due estremi di It’s a Wonderful Life e di Monsieur Verdoux c’è un abisso e in questo abisso prende posto tutto il cinema, cento e cento film che vediamo ogni giorno e che alimentano la nostra abitudine o il nostro vizio e scompaiono, senza dirci nulla. Sabato A proposito di It’s a Wonderful Life. Ho sorpreso un amico che tornava a vedere per la seconda volta il film. Miracoli del cinema: forse non avrei mai saputo che il mio amico è un sentimentale. Nella vita di ogni giorno egli si mostra come il più ironico e smaliziato e scettico degli uomini. Domenica Ma a un certo punto possono sorgere degli scrupoli. È possibile continuare così? Tutti i momenti vado al cinema, e questa può essere una comoda scappatoia. Qualche volta ne esco con un senso di colpa, come se avessi dedicato il mio tempo, che so, a risolvere per pura pigrizia delle parole incrociate. Non andrò al cinema. E poi oggi è domenica e i cinematografi sono tutti affollati. 332
Aforismi per i giorni perduti
Luigi Bartolini
Pellepellicola [numero 8 – aprile-maggio 1948]
Pellepellicola, te me l’hai fatta: tutte le sere, le belle fuggono da dolci strade e a catarratta via si rifugiano che lupanare! nel nero cinema dove a seconda del film che gira una va in fregola l’altra sospira: (tal meccanismo solo onanismo stupido è): io preferisco, con la compagna, per la campagna, fare del cinema solo per me.
Attilio Bertolucci
Giorni perduti [numero 9 – giugno-luglio 1948]
Lunedì Senza tanto chiasso il nero Corvo di Clouzot è penetrato nelle assonnate sale di questa prima estate padana. Dice che Clouzot è stato parecchio tempo in sanatorio, come Moravia. Il mio amico dottor M. A. mi faceva notare la precisione cattiva con cui era stato reso l’ambiente ospedaliero. Proprio visto dall’occhio paziente ma vendicativo del malato. Ho pensato alla provincia di certi romanzi di Julien Green. «Come giallo – sento dietro di me – ne abbiamo visti dei più belli».
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«La Critica Cinematografica»
Martedì Incredibile, in un altro cinema di questa cara città (ma quando me n’andrò? Penso ai lungosenna primaverili, al mio amico L. S. padre di un bambino francese, mi rallegro con lui) un altro film di Clouzot: Quai des orfévres diventato banalmente Legittima difesa. Mi sono divertito parecchio con tutte quelle ordures spiattellate come niente fosse, con suprema, eleganza alessandrina. E poi hanno il coraggio di prendersela con la nostra censura: ecco un film con una lesbica, un vecchio porco che porta ragazze a farsi fotografie oscene e via discorrendo. II vecchio, stupendamente interpretato da Dullin, mi ha fatto pensare a un Toulouse Lautrec senza genio e senza quarti di nobiltà. Mercoledì Che bel soggetto “i fatti di Andria”. Leggo sul «Corriere» le precise, implacabili cronache giudiziarie di Egisto Corradi. Penso quando torna di chiedergli altri particolari. Anche Macrì, potrebbe darci degli schiarimenti, alla sua maniera, si intende. Giovedì Leggo nell’ultimo numero del «Corriere» di Milano (peccato che finisca, vi si leggeva qualche buon elzeviro di De Robertis) uno svagato articolo di Carlo Bo sui rapporti fra cinema e romanzo. Trascrivo le righe più interessanti, «Tempo fa è stato proiettato in uno dei nostri cinematografi II cielo può aspettare di Lubitsch, un bellissimo film che spesso suscitava nello spettatore la passione del lettore: ci trovavamo di fronte a un esempio perfetto d’arte, a una prova di misura, a una sapienza di racconto che avevano i termini di confronto nella storia del romanzo, nel libro della prosa. Ma non era affatto un film letterario, anzi lo spettatore non era mai fermato da un momento di speculazione sentimentale, non c’erano frasi amplificate in modo esagerato... il racconto procedeva semplicemente come una pagina di Stevenson e di Cechov, ma, se è possibile, con un’altra libertà. Perché forse il cinematografo ha questa superiorità, nella leggenda, una leggenda confrontata con la realtà». Bisogna tenerlo d’occhio Bo, chissà che non ci riesca di cavargli qualche pagina per la nostra rivista. Son certo che il cinema può essere una gran sollecitazione per quell’uomo così aperto (e chiuso). Venerdì Leggo in Baudelaire «Se buttiamo un’occhiata sulle nostre esposizioni di quadri moderni, siamo colpiti dalla tendenza generale degli artisti a vestire tutti i personaggi di costumi antichi. Quasi tutti si servono di mode e dei mobili del Rinascimento, come David si serviva delle mode e dei mobili romani. Con questa differenza, però; che David, avendo scelto dei soggetti
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Aforismi per i giorni perduti
particolarmente greci o romani, non poteva fare diversamente che informarli allo stile antico, mentre i pittori attuali, scegliendo oggetti di una natura generale attribuibile a tutte le epoche, si ostinano a rivestirli dei costumi del Medio Evo, del Rinascimento o dell’Oriente. È segno, evidentemente, di una grande pigrizia; perché è molto più comodo dichiarare che tutto è assolutamente vile nel costume di un’epoca, piuttosto che impegnarsi ad estrarne la bellezza misteriosa, che può esservi contenuta, per minima o lieve che sia. La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte: l’altra metà è l’eterno e l’inevitabile. Esistette una modernità per ogni pittore antico; la maggior parte dei bei ritratti che ci restano dei tempi remoti sono vestiti secondo la foggia della loro epoca. Sono però di un’armonia perfetta, perché il costume, la pettinatura, e anche il gesto, lo sguardo, il sorriso (ogni epoca ha il suo tratto, il suo sguardo, il suo sorriso) formano un blocco di completa vitalità. Questo elemento transitorio, fuggitivo, le cui metamorfosi sono così frequenti, non avete il diritto di deprezzarlo o di non usarvene».
Attilio Bertolucci
Giorni perduti [numero 10-11 – agosto-settembre 1948]
Lunedì Ci sono poche cose più imbarazzanti, innervosenti, tragiche dell’ascoltar versi al cinema, specie se doppiati. Vedi, che so, Joan Fontaine, Ray Milland, incolpevoli, fare gli occhi belli mentre dalla loro bocca escono i più vergognosi bastardi che mai le muse di Arnaldo Fusinato e Sem Benelli abbiano figliato. Da testi, magari, di Shelley, Kipling, Shakespeare. Martedì Vogliono realizzare The great Gatsby di F. Scott Fitzgerald, il miglior ritratto di gangster della letteratura americana. Dio salvi il piccolo amaro capolavoro dei twenties dall’efficienza realizzatrice di quella Hollywood che ha bruciato, incenerito, il suo poeta. Mercoledì Cattolici in gamba. Il gran romanziere inglese Greene ha dichiarato che Parigi non è più la stessa da quando hanno chiuso «la Sfinge». Potrà sempre consolarsi in Italia coi S. Pietro all’Orto e gli Avignonesi. Giovedì Chi ha visto penna in camicia e pantaloni kaki offrire scatole di corn-beef 335
«La Critica Cinematografica»
a registi e soci da Cesaretto in Via della Croce, ha visto un poeta, un umile e vero figlio del Pauvre Lélian. Leggetelo nel primo, elegantissimo quaderno di «Botteghe Oscure»: Ecco il fanciullo acquatico e felice. Ecco il fanciullo gravido di luce più limpido del verso che lo dice. Dolce stagione di silenzio e sole e questa festa di parole in me.
Attilio Bertolucci
Giorni perduti [numero 12 – novembre 1948]
Mercoledì L’Incom ci mostra gli intellettuali a Wroclaw, quel Fadaiev che ha tacciato di iene e sciacalli Eliot e O’Neil, il nostro bel giovane Renato Guttuso detto anche il tribuno illustrato. La gente intorno a me si annoia, ma ecco fortunatamente la prima partita di campionato Giovedì Ben Hecht ha sceneggiato quella porcheria del Cigno Nero. Speriamo che i dollari così male acquistati li abbia dati in elemosina agli ebrei poveri. Pur che non sian finiti in pallottole per il povero Bernardotte. Venerdì Pagine desolate come quelle del Werther o lirica amara come quella di Leopardi il Cinema ci può dare? Qualcosa qua e là nel passato; ma oggi? Dopo Anime ferite quanto sperammo in te, Dmitrik! Sabato Di Crossfire si parlò sui giornali, ma Anime ferite, giunto prima, passò in silenzio. Ora si parla di neorealismo americano, di problema dei reduci, di scottante attualità. Per noi Dmytryk è un romantico e certe sue pagine ingenue, dolci, ci sono tanto care! Domenica Invece di far della rettorica sulla pelle della povera gente, qualcuno di questi registi di sinistra (ragazzi di sicuro ingegno, ma vissuti in Via Veneto fra Zecca e il libraio Rossetti) incapaci di vedere i contadini senza pensare a 336
Aforismi per i giorni perduti
Vidor o a Pudowkin non potrebbe ficcar gli occhi in quella spazzatura dorata che si bea di fuoriserie e di droghette per finire qualche volta nel crime passionel? Documentandosi, s’intende, non lavorando di maniera come fece Vergano nel Sole sorge ancora. Lunedì Pian piano, dopo il primo disorientamento e cattivo in bocca, ci si accorge che Monsieur Verdoux è un film formidabile, il più importante di questi anni. Già con Luci della città e Tempi Moderni si cominciò col fare riserve; e si finì per sbalordirsi d’averle fatte. Chaplin è ancora l’uomo più grande del cinema: inutile chiedergli la poesia giovanile del Kid, se quel che ci può dare oggi è amara prosa e secca «con tosco». Martedì Ho letto che per la Giovanna d’Arco di Fleming sono stati spesi quasi sette milioni di dollari, cioè circa tre miliardi e mezzo di lire. Approverà tale spesa il Gr. Uff. Brusadelli? Mercoledì Perché Hitchcock si ostina coi giallo-psicologici? Non che io ce l’abbia con questo genere di film, ma quando come in Spellbound il giallo non ci impressiona e le lunghe lezioni di psicanalisi (povero Freud) sono di una costante grigia monotonia, cosa rimane? La magnifica Ingrid, sì, e solo per lei riusciamo a sopportare le due ore dello spettacolo. Giovedì Un film che fosse cinema e melodramma, come Amleto è cinema e teatro nella riduzione di Olivier. E si dovrebbe fare noi italiani, coraggiosamente.
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Indice generale della rivista
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L’ordine seguito nell’elencazione degli articoli presenti in ogni numero della «Critica cinematografica» dipende dalla collocazione dei titoli nello spazio della pagina, procedendo dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra. La tipologia del pezzo registrato (e l’argomento qualora il testo non sia stato antologizzato) è indicata fra parentesi quadre di seguito al titolo; nell’elenco si comprendono anche gli interventi grafici d’autore. Un asterisco contraddistingue il materiale riproposto nella presente antologia. [N.d.c.]
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ANNO I – NUMERO 1 – GENNAIO-FEBBRAIO 1946 – –, Avvertenza [editoriale] – –, La coda che muove il cane [notizie sulle majors di Hollywood] ORESTE MACRÌ, Letterato al cinema* [saggio] ANTONIO MARCHI, Mezzo secolo* [saggio] LAMBERTO SECHI, Cinema con o senza cultura* [saggio] LORENZO BOCCHI, Libertà di essere eroi. Dopoguerra sullo schermo [saggio sul cinema di guerra] GIULIO BOLLATI DI S. P., Un vagabondo ha fatto fortuna* [saggio] FRANCESCO SQUARCIA, Opinione sulle ombre parlanti* [saggio] AA. VV., I film del mese [recensioni dei film: Roma città aperta di R. Rossellini, Giorni di gloria (documentario diretto da vari registi), La mia vita di L. McCarey, Quando il giorno verrà di H. Shumlin, Il cappello da prete di F. M. Poggioli, Follia di W. S. van Dyke, Non sei mai stata così bella di W. S. Seiter, Ho sposato una strega di R. Clair]– , Dal libro al cinema [segnalazioni e aforismi sul rapporto tra letteratura e cinema]– –, Praz pescatore d’ombre [breve recensione di M. Praz, Motivi e figure, Einaudi, Torino 1945] *** ANNO I – NUMERO 2 – MARZO-APRILE 1946 – –, Fiducia nella povertà [editoriale] PAOLO FANFANI, Corrispondenza [lettera al direttore] FRANCESCO ARCANGELI, Critico d’arte al cinema* [saggio] UGO CASIRAGHI, Nota su Carné [saggio retrospettivo su Marcel Carné] – –, Festival a Milano [intervento relativo all’inaugurazione a Milano, in data 27 marzo 1946, del “Festival cinematografico internazionale per il primo cinquantenario del cinema”] OTTONE ROSAI, Cinema [disegno]
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BARDÈCHE e BRASILLACH, Musica d’immagini, trad. di A. Marchi [saggio sul cinema come forma d’arte] – –, Tiro a segno [rassegna di notizie] MARIO COLOMBI GUIDOTTI, Appunti per un “Hemingway e il cinema”* [saggio] MARIO VERDONE, Note romane [rassegna di alcuni film proiettati sugli schermi della capitale] ORESTE MACRÌ, Controversia* [saggio] – –, Alla ricerca delle ombre perdute. Per una cineteca italiana [rubrica informativa sulle cineteche: la cineteca del Centro sperimentale, le cineteche dei Cineguf, la cineteca milanese “Mario Ferrari”, le cineteche private, il Festival di Milano, i Cineclub d’Italia] LORENZO BOCCHI, Il ragazzo nel film* [saggio] AA. VV., I film del mese [recensioni dei film: L’ombra del dubbio di A. Hitchcock, Le cinque schiave di L. Bacon, La grande menzogna di E. Goulding, Il sospetto di A. Hitchcock, Robin Hood di M. Curtiz, Lenin nel 1918 (documentario), Massimo Gorki di autori sovietici non specificati, L’immortale leggenda di J. Delannoy, La casa del maltese di P. Chenal, Il testimone di P. Germi, Un americano in vacanza di L. Zampa] *** ANNO I – NUMERO 3-4 – SETTEMBRE 1946 FRANCESCO PASINETTI, “Venezia” [editoriale dedicato alla Mostra del cinema di Venezia] LORENZO BOCCHI, Vent’anni dopo [breve saggio sul sonoro nel cinema] SERGIO FROSALI, Cinema falso* [saggio] MINO MACCARI, Rosso e nero [disegno] OSVALDO CAMPASSI, Di alcuni riferimenti tra psicologia e immagini* [saggio] MARIO VERDONE, Estate romana [saggio sull’attività dei critici cinematografici] FRANCO TOSI, Il treno [saggio sul tema del treno in cinematografia] CARLO MATTIOLI, Letterati al cinema [disegno] FUSI e GIOLLI, Nota su Eisenstein e il cinema russo* [saggio] LUIGI CAGLIO, Film svedesi in Svizzera [breve rassegna cinematografica] MARIO VERDONE, Ultimo Disney [saggio] BALDO BANDINI, Scenografia del disegno animato* [saggio] UGO DEI, Per un cartone animato in Italia [saggio] – –, Problemi dei cineclubs [rassegna] – –, Alla ricerca delle ombre perdute [rubrica informativa sulle cineteche: la Cineteca italiana, i rapporti tra cineteche e cineclub, i film del Centro, la Cittadella Film] A[NTONIO] M[ARCHI], Iris Barry ci parla della sua cineteca [saggio] GIGI MARTELLO, Aspettando lo sbarco [breve intervento sul film didattico] MAULINO, Entourage del festival [lettera] – –, Per un cinema educativo [trafiletto sulla “Settimana del Cinema Educativo”] – –, Critici in vacanza [elenco dei critici cinematografici e dei giornalisti presenti alla Mostra di Venezia]
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*** I FILM DI VENEZIA – supplemento al NUMERO 3-4 DEL SETTEMBRE 1946 in occasione della MANIFESTAZIONE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA – –, Blood and sand di R. Mamoulian [recensione] GLAUCO VIAZZI, Ciapaiev dei Vassiliev [recensione] DINO RISI, Love letters di W. Dieterle [recensione] MASSIMO MIDA, Il sole sorge ancora di A. Vergano [recensione] GIORGIO SIGNORINI, Sylvie et le fantôme di C. Autant-Lara [recensione] ANTONIO MARCHI, The Southerner di J. Renoir [recensione] FRANK CAPRA, Esperienza del cinema* [saggio] GILBERTO LOVERSO, Idea sul colore [invettiva sull’uso del technicolor] *** ANNO 1 – NUMERO 5 – DICEMBRE 1946 MINO MACCARI, Dopoguerra* [disegno e poesia] PROSPERINO, I piccoli Omeri [elzeviro su Joris Ivens] PIETRO PAOLO TROMPEO, Risposta di uno stendhaliano* [saggio] LIBERO BIGIARETTI, Risposta di un narratore* [saggio] FRANCESCO CALLARI, Ceppi ai piedi, catene alle mani e bende agli occhi del cinema italiano* [lettera al direttore] – –, Cose di teatro [elzeviro sul teatro] – –, Zavattini non ha segreti* [saggio] ALBERT J. GUÉRARD, Lettera dall’America [saggio] FRANCESCO PASINETTI, Dopo Cannes [saggio sul Festival cinematografico di Cannes] ORESTE MACRÌ, De conversione seu inversione ermethismi* [saggio] GUIDO PICCIO, Dei premi letterari [elzeviro sui premi letterari] GIAN CARLO ARTONI, Due Poesie* [poesia] MARIO COLOMBI GUIDOTTI, Incinte* [racconto] – –, Un regista russo. Marco Donskoi [saggio] – –, La produzione 1946-47 [rassegna sul cinema sovietico] UGO CASIRAGHI, John Ford e la stanchezza del cinema americano* [saggio: I parte] ANTONIO PIETRANGELI, Scheda per René Clair [scheda bio-bibliografica] GIAN FRANCESCO LUZI, Del raccordo su tempo supposto. Note di montaggio* [saggio] L’ASSONNATO, Corrispondenza [lettere] – –, Rassegna della stampa – –, Libri e riviste [rassegna bibliografica sul cinema] AA. VV., I film del mese [recensioni dei film: L’ammaliatrice e Avvenne domani di R. Clair, Il Bandito di A. Lattuada, Le chiavi del cielo di J. Stahl, La casa sulla scogliera di L. Allen, Giorni perduti di B. Wilder]
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*** ANNO II – NUMERO 6 – MARZO 1947 ANTHONY ASQUITH, La decima musa ascende al Parnaso. Il film sonoro* [saggio] PIETRO BIANCHI, Una rivoluzione invisibile* [lettera al direttore] LORENZO BOCCHI, Da Parigi [rassegna cinematografica parigina] – –, André Maurois e Henry V [recensione del film di L. Olivier] ILIJA ERHENBURG, È un film Paramount* [saggio] – –, Tiro a segno [rubrica] – –, I nostri film [rassegna di film e documentari rodotti dalla “Universalia”] ANTONIO PIETRANGELI, Asincronismo* [saggio] GLAUCO VIAZZI, Dialettica e realismo in Eisenstein e Alexandrov* [saggio] – –, Alessandro Ptuscko il regista di Fiore di pietra, [saggio] S. P., Nella storia del cinema un rigo per Gertrude Stein* [saggio] GERTRUDE STEIN, Due soggetti* [soggetti cinematografici] – –, I libri di cinema [recensioni dei seguenti volumi sul cinema: Grierson on Documentary, ed. by Forsyth Hardy, Collius, London 1943; M. F. Thorp, America at the Movies, Faber and Faber, London 1946; The History of the Motion Picture e The Documentary Film, programmi di due proiezioni organizzate al New York; Motion Picture Almanac 1946-1947, Quigley Pubblication, New York; L. Moussinac, L’age ingrat du cinéma, Sagittaire, Paris 1946; A. Berthomieu, Essai de grammaire cinématografique, Le nouvelles edition, Paris 1946; J. P. Mayer, Sociology of Film, Faber and Faber, London 1946] L’INSONNE, Rassegna della stampa FERNALDO DI GIAMMATTEO, Appunti sul film a colori* [saggio] FRANCO TOSI, Il gatto* [racconto] MARIO VERDONE, Corrispondenze di pietra* [saggio] UGO CASIRAGHI, John Ford e la stanchezza del cinema americano* [saggio: II parte] CORRADO TERZI, Il primo Carné [saggio] – –, Due manifesti del sonoro [traduzione di due manifesti per il cinema sonoro realizzati rispettivamente in Unione Sovietica nel 1928 e in Inghilterra nel 1934] ANTONIO MARCHI, Correnti nere [elzeviro] A[ NTONIO ] P[ IETRANGELI ], Scheda per il sonoro [scheda di approfondimento bibliografico] *** ANNO II – NUMERO 7 – SETTEMBRE 1947 GIUSEPPE MARIA, LO DUCA, Il cinema* [saggio] CARLO MATTIOLI, VIII Festival Cinematografico [disegno] PIETRO BIANCHI, Sesso e celluloide* [lettera al direttore]
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GUIDO ARISTARCO, Il momento dei poeti* [saggio] – –, Convegno per documentaristi [presentazione di un Convegno dei documentaristi che si terrà durante il Festival di Venezia] MARIO VERDONE, Forme pure nel fonofilm* [saggio] MASSIMO MIDA, Eisenstein e Donskoj: due generazioni* [saggio] PIER LUIGI MELANOTTE, Il soggetto cinematografico per documentario* [saggio] – –, Un convegno nazionale dei Circoli del Cinema a Venezia [resoconto] – –, Una retrospettiva d’arte Cinematografica alla Mostra di Venezia [trafiletto informativo] GUGLIELMO AMERIGHI, Il cinema e i film d’oggi* [saggio] GLAUCO VIAZZI, Cinema sovietico su schermo italiano* [saggio] GIGI MARTELLO, Importanza del documentario [saggio] – –, Schermo di Venezia [elenco per nazione dei film proiettati durante l’VIII Mostra del cinema di Venezia] SERGIO FROSALI, L’attore e il personaggio [saggio sul rapporto tra attore cinematografico e attore teatrale] *** ANNO III – NUMERO 8 – APRILE-MAGGIO 1948 MINO MACCARI, E adesso, pover’uomo? [disegno] – –, Editoriale GIACINTO SPAGNOLETTI, Letterato al cinema* [saggio] – –, Bianco e Nero [notizia sull’ultimo numero della rivista diretta da Chiarini] JEAN GEORGE AURIOL, Diario romano [saggio] – –, Eisenstein exit [breve intervento per la morte del regista] CORRADO TERZI, Stravinsky e la musica per lo schermo* [saggio] – –, Invito al Cinema [disegno] – –, Huxley e un titolo [notizia] PIETRO BIANCHI, Le nostre compagne* [lettera al direttore] – –, Onore alla cronaca [notizia] GIANNI GRANZOTTO, Il romanzo in fotogrammi* [saggio] – –, L’inafferrabile Traven [recensione del film Il tesoro della Sierra Madre di J. Huston] – –, Questo pubblico... [notizia] ROBERTO PAOLELLA, Il subcosciente in celluloide* [saggio] OSVALDO CAMPASSI, Comici americani: Harry Langdon [saggio] – –, Lo spettatore comune [recensioni dei film: Per chi suona la campana di S. Wood, Il delitto di Giovanni Episcopo di A. Lattuada, I dimenticati di P. Sturges, La vita è meravigliosa di F. Capra, Bambi di W. Disney, Un albero cresce a Brooklyn di E. Kazan] ANTONIO MARCHI, Charlot sulla ghigliottina* [saggio] MARIO VERDONE, Sette colli [cronaca della vita cinematografica romana] BRUNO ROMANI, Il castello in aria [breve intervento sul cinema di J. Cocteau] – –, Povero James [notizia] GIANNI POZZI, Parere su Lubitsch [saggio]
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– –, Il gioco non è fatto [notizia sul film Les jeux sont faits di Delannoy] R. S., Giorni perduti* [aforismi] LUIGI BARTOLINI, Pellepellicola* [poesia] BUDD SCHULBERG, Cinema americano: cinquant’anni dopo* I-II [saggio, tradotto da G. Ambrosoli] MINO MACCARI, Allegoria di Hollywood [disegno] – –, Rassegna dei cine clubs *** ANNO III – NUMERO 9 – GIUGNO-LUGLIO 1948 – –, Rassegna dei cine clubs F. L. GOYA, Autoritratto [acquaforte] – –, L’era della qualità [editoriale] CARL VINCENT, Del neorealismo* [saggio] SERGIO FROSALI, Cinema: arte inferiore?* [saggio] MARIO VERDONE, Introduzione alla filmologia* [saggio] – –, Lamento per i morti del cinema [breve intervento per la scomparsa di Lubitsch e Feyder] GUIDO ARISTARCO, Umiltà di Feyder [saggio] MARIO SERANDREI, Dal taccuino di un montatore* [saggio] ATTILIO BERTOLUCCI, Giorni perduti* [aforismi] RENZO RENZI, La fine di S. Pietroburgo, oggi* [saggio] JORIS IVENS, Pagine autobiografiche I [saggio, a cura di F. Di Giammatteo] M[ARIO] V[ERDONE], Sette colli [rassegna della vita cinematografica romana] JEAN GEORGE AURIOL, Diario romano [saggio] GIANNI POZZI, Charlot sulla ghigliottina* [lettera al direttore] PIETRO BIANCHI, Film vecchi ma vivi [lettera al direttore] FERNALDO DI GIAMMATTEO, Della censura* [lettera al direttore] GAETANO CARANCINI, Involuzione di Carné (da Jenny a La fleur de l’age) [saggio] SERGIO ROMANO, Retour de Paris [rassegna della vita cinematografica parigina] LORENZO BOCCHI, Venticello dei Campi Elisi [saggio] BUDD SCHULBERG, Cinema americano: cinquant’anni dopo* III [saggio, tradotto da G. Ambrosoli] *** ANNO III – NUMERO DOPPIO 10-11 – AGOSTO-SETTEMBRE 1948 – –, Rassegna dei cine clubs CARLO MATTIOLI, Agosto 1948 [disegno] – –, Funzione di Venezia [editoriale]
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GUIDO ARISTARCO, Cronistoria di Venezia [saggio sulla storia della Mostra veneziana] H. H. WOLLENBERG, Notizie su Hamlet [recensione dell’Amleto di L. Olivier] VITO PANDOLFI, Nascita e ricordo [elzeviro] GIUSEPPE UNGARETTI, La quadratura del circolo* [saggio] LUIGI BARTOLINI, Cinema moralizzatore* [saggio] FRANCO GENTILINI, Settembre 1948 [disegno] OSVALDO CAMPASSI, Per un soggetto di Salvator Dalì [saggio] JORIS IVENS, Pagine autobiografiche II [saggio, a cura di F. Di Giammatteo] LUIGI CHIARINI, Vade retro Satana [elzeviro] CARLO MATTIOLI, Senza titolo [disegno] MARIO VERDONE,I poeti nel cinema e il cinema nei poeti* [saggio] SERGIO ROMANO, Furore* [saggio] CARLO MATTIOLI, Senza titolo [disegno] SERGIO FROSALI, Il cinema e la società* [saggio] GIULIO CESARE CASTELLO, Cinema primo amore [saggio] FERNALDO DI GIAMMATTEO, Disney e i colori* [saggio] LORENZO BOCCHI, Venticello dei Campi Elisi [notizie sulla vita cinematografica parigina] ATTILIO BERTOLUCCI, Giorni perduti [aforismi] LUIGI CAGLIO, Il critico e la servetta [lettera al direttore] RENZO RENZI, Shakespeare ed Olivier [lettera al direttore] SERGIO FROSALI, Il cortometraggio* [lettera al direttore] GUGLIELMO AMERIGHI, Sulle cineteche [lettera al direttore] GAETANO CARANCINI, Al Festival di Locarno [rassegna del III Festival internazionale di Locarno] BUDD SCHULBERG, Cinema americano: cinquant’anni dopo* IV [saggio, tradotto da G. Ambrosoli] *** ANNO III – NUMERO 12 – NOVEMBRE 1948 CARLO MATTIOLI, Fu vera gloria? [disegno] – –, Modesta proposta [editoriale] MARIO VERDONE, Coscienza estetica nella critica cinematografica* [saggio] GIAN FRANCESCO LUZI, Critici [elzeviro] CARL VINCENT, Per un accordo internazionale sui festival [saggio] GIULIO CESARE CASTELLO, Il cinema italiano ricomincia da Venezia [rassegna della Mostra venziana] BALDO BALDINI, Appunti [note su: Kid di C. Chaplin, Maria Candelaria di E. Fernadez, Dieci anni di cinema francese di O. Campassi, Dies Irae di Th. Dreyer] CARLO MATTIOLI, Senza titolo [disegno] SERGIO FROSALI, Per il documentario* [saggio] ATTILIO BERTOLUCCI, Giorni Perduti* [aforismi]
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GUIDO ARISTARCO, La terra trema [recensione di La terra trema di L. Visconti] TOM GRANICH, Atalantide [saggio su Atlantide di G. W. Pabst] EMILIO FUMAGALLI, Riabilitazione del jazz [lettera al direttore] CARLO MATTIOLI, Senza titolo [disegno] CORRADO TERZI, Rouge et noir [lettera al direttore] ANDREA CASON, Cineclubs [lettera al direttore] CORRADO TERZI, Due film a colori [saggio su Tatoo di L. Lye e sull’anonimo 210 contro 213] BUDD SCHULBERG, Cinema americano: cinquant’anni dopo* V [saggio, tradotto da G. Ambrosoli] CARLO MATTIOLI, Fine [disegno]
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Indice dei nomi citati nel volume Adam, Paul, 121 Adorno, Theodor Wiesengrund, 15, 82 Agee, James, 27n Aivazoskij, Ivan, 259 Alain, (Emile-Auguste Chartier), 78, 295 Alberti, Rafael, 33 Albertinelli, Mariotto, 184 Alexandrov, Grigory, 253, 255-261, 280 Alfieri, Luigi, 15, 68 Alighieri, Dante, 98 Allégret, Marc, 106, 133, 294 Alvaro, Corrado, 49n Ambrosoli, Giorgio, 47n Ameche, Don, 242 Amerighi, Guglielmo, 81 Anceschi, Luciano, 115, 152 Anderson, Maxwell, 220 Andreotti, Giulio, 330 Andrews, Dana, 331 Angioletti, Giovanni Battista, 32, 119 Antonioni, Michelangelo, 60, 62 Apollinaire, Guillaume, 27, 36n, 121, 133, 297 Aragon, Louis, 258 Arcangeli, Francesco, 31, 47n, 57, 152 Ariosto, Lodovico, 305 Aristarco, Guido, 26n, 29n, 31, 36, 41, 42, 58, 59, 62, 68, 69, 81, 140 Aristotele, 296 Armstrong, Louis, 184 Arnehim, Rudolf, 41n, 120, 140, 296 Arnoux, Robert, 120, 328 Artoni, Gian Carlo, 15, 29n, 31n, 46n, 47n, 48, 54, 56
Asor Rosa, Alberto, 29n Asquit, Anthony, 58 Atacheva, Pera, 253 Auden, Wystan Hugh, 36n, 131-133, 138 August, Joe, 237 Auriol, Jean George, 56, 58, 69, 70, 86, 140, 297 Autant-Lara, Claude, 126, 313 Bacall, Lauren, 102 Bacchelli, Riccardo, 32, 119 Bach, Johan Sebastian, 123 Bagatti, 61 Bálász, Béla, 36n, 41, 42, 119, 120, 140, 296, 314 Baldini, Antonio, 119, 328 Balzac, Honoré de, 126 Baranovskaija, Vera Vsevolodovna, 269 Barbaro, Umberto, 23, 44, 130, 140, 282, 297 Bardèche, Maurice, 138 Barilla, Pietro, 62, 63 Barilli, Bruno, 46n, 61 Barilli, Latino, 46n Barrés, Maurice, 121 Barry, Iris, 163 Barrymore, John, 237 Bartolini, Luigi, 68, 70 Baudelaire, Charles, 78, 107, 168, 182, 316, 332, 334 Bayer, Raymond, 295 Beery, Fallace, 106 Beethoven, Ludwig van, 122 Bell, Alexander, 242Graham Benedetti, Arrigo, 152
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Benelli, Sem, 335 Benoit-Lévy, Jean, 106 Béraud, Henri, 139 Bergman, Ingrid, 103, 127, 219, 223, 241 Berkeley, Busby, 218, 259 Berlinghieri, Bonaventura, 257 Bernard, Raymond, 294 Bernhardt, Sarah, 139, 228 Bertini, Francesca, 313 Bertoli, Ubaldo, 46n, 53n Bertolucci, Attilio, 15, 30n, 32, 44-47, 53, 54, 56, 59, 61-63, 68, 71, 81, 82, 85, 89 Bertolucci, Bernardo, 68, 69, 81 Bertolucci, Giuseppe, 68 Betti, Ugo, 32, 46n, 49n Bevilacqua, Alberto, 46n, 85 Biagi, Enzo, 61n Bianchi, Pietro, 15, 31, 32, 44-48, 50, 54-56, 59, 62, 63, 82, 89, 230 Bigiaretti, Libero, 29n, 31, 34, 35, 57, 58, 68, 71 Bigongiari, Piero, 54 Birnham, Don, 242 Blasetti, Alessandro, 129, 313 Blazer, Benjamin, 102 Bo, Carlo, 27n, 37n, 39n, 46n, 54, 75, 334 Boccaccio, Giovanni, 121 Bocchi, Lorenzo, 29n, 47n, 48, 50, 56, 59, 69, 71 Bodoni, Giambattista, 85 Bois, Curt, 128 Bogart, Humphrey, 102 Bollati di S. P., Giulio, 16, 27n, 61 Bonaiuti, Ernesto, 53 Bontempelli, Massimo, 49n, 120 Borgese, Giuseppe Antonio, 120 Borlenghi, Aldo, 46-48 Borzage, Frank, 106 Bost, Pierre, 294 Botteri, Vittoria, 52 Bow, Clara, 241 Bowman, Peter, 134 Boyer, Charles, 217 Bracco, Roberto, 85 Brackett, Charles, 77, 246 Bragaglia, Anton Giulio, 54
Bragaglia, Cristina, 26n Brandi, Cesare, 15, 82 Briganti, Paolo, 17, 28n, 30n, 31n, 39n, 54, 57 Brizzolara, Carlo, 46n Bromfield, Louis, 214 Brontë, Emilie, 155 Brunetta, Gian Piero, 26n, 44, 48n, 49n Caglio, Luigi, 72 Cagney, James, 215, 241 Cain, James M., 213, 214, 222, 242 Calamai, Clara, 330 Calcaterra, Carlo, 54 Calderon, Josè, 180 Calogero, Guido, 297 Calvino, Italo, 37, 38n Calzolari, Giuseppe, 32n, 45n, 46n, 50n, 55n, 61-63 Camerini, Mario, 22, 279 Campanili, Carlo, 329 Campari, Roberto, 32n, 45n, 46n, 57, 60-63 Campassi, Osvaldo, 58, 69, 73 Camus, Albert, 53, 214 Cantor, Eddie, 217 Canudo, Ricciotto, 27n, 86, 121-123, 133, 139, 140, 296, 297 Capelli, Gianni, 45n Cappa, Paolo, 309, 310 Capra, Frank, 22, 155, 211, 216, 217, 232, 242, 332 Caravaggio, (Michelangelo Merisi), 153 Carboni, Erberto, 46n Cardarelli, Vincenzo, 125 Carey, Harry, 230 Carné, Marcel, 22, 45, 160, 264, 288 Carrà, Carlo, 121 Carradine, John, 231 Casella, Alfredo, 49n Casiraghi, Ugo, 55, 58, 68, 73, 140 Castello, Giulio Cesare, 68, 74 Cavalcanti, Alberto, 36n, 131, 132, 139 Cavalluzzi, Raffaele, 26n Cecchi, Emilio, 32, 33, 54, 120, 124, 139, 328 Cecchi D’Amico, Suso, 62 Cechov, Anton, 53, 334 Cézanne, Paul, 121 Chandler, Raymond, 215
350
Chaplin, Charlie, 16, 22, 27, 28, 55, 59, 70, 106, 122, 152, 182, 190-195, 212, 237, 242, 271, 283, 296, 302, 332, 337 Charensol, Georges, 294 Chatman, Seymour, 26n Chesterton, Gilbert Keith, 119 Chiari, Maurizio, 61 Chiarini, Luigi, 23, 27n, 58, 62, 69, 74, 140, 283, 297 Chopin, Fryderyk, 176, 218 Choumataskij, B., 253 Ciano, Galeazzo, 152 Ciaurelij Michail, 256 Chistiacov, Alksandr, 264 Clair, René, 41, 55, 69, 70, 120, 122, 139, 140, 150, 154, 160, 163, 169, 237, 283, 296, 302 Claudel, Paul, 136 Clement, René, 76n Clouzot, Henri-Georges, 333, 334 Cocteau, Jean, 121, 131, 133, 135 Cohen-Séat, Gilbert, 294, 296, 297 Cohl, Emile, 275 Colombi Guidotti, Mario, 15, 28, 29n, 36, 39n, 47n, 48, 52-54, 56, 57, 62, 89-91 Comencini, Luigi, 55 Conard, Louis, 316 Conrad, Joseph, 53 Consiglio, Alberto, 32 Conti, Giorgio, 46n Contini, Gianfranco, 34n Conway, John, 72n Cooper, Gary, 102, 152, 242, 282 Cooper, Jackie, 106 Cooper, James Fenimore, 75 Corradi, Egisto, 334 Correggio, (Antonio Allegri, detto il), 61 Cortese, Gino, 53n Cortis, Daniele, 111 Cotten, Joseph, 223 Coward, Noël Peirce, 163 Cracy, Julien, 213 Croce, Benedetto, 15, 31, 34, 35, 82, 141 Cronin, Archibald Joseph, 71 Crowther, Bosley, 244 Cukor, George, 106 Cusatelli, Giorgio, 46n
351
Daineka, Leanid, 259 Damerini, Gino, 54 Dalì, Salvador, 73, 223 D’Amico, Silvio, 120 D’Annunzio, Gabriele, 26, 36n, 119, 121, 129131, 159, 160 D’Arzo, Silvio, 53 Daquin, Louis, 127 David, Jean Louis, 334 De Amicis, Edmondo, 139 De Baroncelli, Jaques, 302 De Chirico, Giorgio, 110 De’ Medici, Lorenzo, 83 De Michelis, Eurialo, 49n De Mille, Cecil B., 162, 212, 244 De Pisis, Filippo, 53 De Robertis, Giuseppe, 39n, 54, 129, 334 De Saint Point, Valentine, 121, 133 De Sanctis, Francesco, 263 De Santis, Giuseppe, 60, 330 De Sica, Vittorio, 62, 68, 71, 127, 266, 293, 319, 320, 330 De Stefano, Tito, 89 Debenedetti, Giacomo, 32, 33, 49n Debussy, Claude, 165, 184 Décaudin, Michel, 86 Defoe, Daniel, 53 Degas, Edgar, 153 Dekobra, Maurice, 214 Del Poggio, Carla, 313 Delannoy, Jean, 294 Delfini, Antonio, 46n Delluc, Luois, 134, 297 Dewey, John, 15, 22, 82 Dickinson, Emily, 53 Dieterle, Wilhelm, 217 Dietrich, Marlene, 152, 241 Di Giammatteo, Fernaldo, 18, 58, 86 Disney, Walt, 122, 212, 233-235, 237, 276 Divoire, Fernand, 121, 297 Dmytryk, Edward, 231, 243, 331, 336 Döblin, Alexander, 41, 120 Donskoj, Marc, 42, 231, 257, 261, 264-266, 268 Dos Passos, John Roderigo, 181 Dostoevskij, Fiodor, 116, 126, 127, 238
Douglas, Gordon, 328 Dovjenko, Alexander, 70, 256 Dreyer, Carl Theodor, 45, 55, 70 Dreiser, Theodor, 239 Duccio di Boninsegna, 257 Dudow, Slatan, 128 Duhamel, Georges, 214 Dukas, Paul, 123 Dulac, Germaine, 297 Dullin, Charles, 334 Dupont, Ewald Andreas, 44, 282, 286 Duse, Eleonora, 112 Duvivier, Julien, 106, 153, 154, 160, 180, 264, 288 Dzigan, Efim, L’Voviè, 264 Eddy, Nelson, 218 Eggeling, Viching, 123 Ekk, Nikolaj, 106, 256 Eisenstein, Sergej, 41, 42, 45, 55, 69, 98, 120, 140, 181, 253-266, 280, 285, 296 Eisymot, 257 Eliot, Thomas Stearns, 134, 336 Ellington, Duke, 184 Elter, Marco, 286 Eluard, Paul, 120, 261 Emmer, Luciano, 61 Epstein, Jean, 305 Erhenburg, Il’ya, 58 Ermler, Friedrich, 257, 264 Esenin, Sergej, 53 Fabre, Lucien, 133 Fadaiev, Alexander, 336 Fath, Jacque, 330 Faulkner, William, 115, 213, 237 Fejos, Paul, 293 Feyder, Jacques, 69, 150, 154, 169, 286 Fernandez, Emilio, 22 Ferrata, Giansiro, 33 Ferrati, Sara, 113 Fischinger, Oskar, 123 Fitzgerald, Barry, 237 Fitzgerald, Francis Scott, 213, 214, 335 Flaherty, Robert, 132 Flaiano, Ennio, 49n Flaubert, Gustave, 73, 115, 158, 221, 318 Flaherty, Paul, 297, 302
Fleischer, Max, 277 Fleming, Victor, 218, 223, 337 Flora, Francesco, 78, 120, 140, 141, 295, 297 Flynn, Errol, 242 Fofi, Goffredo, 15, 17 Fontaine, Joan, 335 Ford, John, 22, 69, 77, 98, 152, 155, 180, 216, 217, 220, 221, 224, 225, 230-232, 237, 243, 246, 286, 297, 331 Fornari, Fausto, 14, 16, 17, 30, 32, 43, 44, 45n, 49, 51, 57, 58, 60-62, 64, 90 Forst, Willy, 283 Fournier, Alain, 105 Franchi, Raffaello, 32, 152 Frappè, Leòn, 106 Fregoli, Leopoldo, 139 Freud, Sigmund, 110, 180, 337 Frohelich, Carl, 106 Frosali, Sergio, 15-17, 34, 35, 68, 74 Fulchignoni, Enrico, 295, 297 Fusinato, Arnaldo, 335 Gabin, Jean, 138, 151, 288, 293, 329 Gable, Clark, 242 Gambacorti, Irene, 26n Gance, Abel, 297 Garbo, Greta, 152, 162, 217 Garret, Oliver H. P., 102 Garson, Greer, 217, 241 Gassman, Vittorio, 39, 63n, 113-115 Gauguin, Jean, 32n, 46n, 121 Gavazzeni, Gianandrea, 49n Gemelli, Agostino, 297 Gentile, Giovanni, 297 Gerbi, Antonello, 33 Germi, Pietro, 62, 330 Gerratana, Valentino, 33n Gheraasimov, Sergeij, 256, 258, 264, 269 Gide, André, 105, 114, 120, 121, 133, 135 Gilbert, John, 72n Giotto, 153 Giradoux, Jean, 105, 121 Giusso, Lorenzo, 134 Gobetti, Pietro, 53, 262, 265 Godard, Jean Luc, 23 Goethe, Johan Wolfgang, 122, 184 Goldoni, Carlo, 121
352
Goldstein, Max, 227, 228 Goldwyn, Samuel, 212, 241, 246, 247 Gombrich, Ernst, 15, 82 Gomorov, Mikhail, 253 Gonseth, Frédéric, 294 Gorkij, Maxim, 230, 264, 266 Gotta, Salvator, 124 Gozzano, Guido, 26, 36n, 133, 134 Grande, Massimo, 32 Granville, Bonita, 217 Granzotto, Gianni, 29n, 35n Grable, Betty, 217, 241, 243 Green, Julien, 133, 135, 214, 333 Greene, Graham, 335 Gremillon, Jean, 294 Grierson, John, 132, 139, 297 Griffith, David W., 212, 236, 237, 254, 286 Gromo, Mario, 32, 62 Guanda, Ugo, 46n, 53 Guareschi, Giovanni, 46n Guastalla, Isa, 15, 17, 39n Guehenno, Jean, 294 Guerrasio, Guido, 140 Guidorizzi, Mario, 26n Guttuso, Renato, 336 Hall, Alexander, 284 Harlow, Jean, 241 Hawks, Howard, 22, 102 Hayes, Helen, 102 Hayworth, Rita, 217 Haver, Phyllis, 241 Hebbel, Christian Friedrich, 73, 221 Hecht, Ben, 336 Hemingway, Ernest, 28, 90, 91, 101-103, 115, 191, 214, 215, 238, 258 Hepburn, Kathrine, 152 Hitchcock, Alfred, 103, 104, 163, 165, 217, 222, 237, 284, 337 Hoffmann, Ernst Theodor, 168 Howe, James Wong, 243 Hoyt, Charles Hale, 236 Huizinga, Johan, 53, 120 Husserl, Edmund, 15, 82 Huston, John, 22 Huxley, Aldous, 37, 124, 134, 237 Isella, Dante, 39n
Ivens, Joris, 58, 75, 86 Jacob, Max, 121, 133, 297 Jacque, Cristian, 125, 126 Jahier, Piero, 53 Jannings, Emile, 152 Jaspers, Karl, 15, 82 Jaubert, Maurice, 176, 287 Jeanson, Henri, 294 Johnson, Van, 242, 243 Jonce, 212 Jonson, Al, 285 Joyce, James, 98 Kafka, Franz, 53 Kant, Immanuel, 317 Kaye, Danny, 217 Kazan, Elia, 77n, 331 Keaton, Buster, 139 Keats, John, 303 Keene, Ralph, 133 Keighley, William, 106 Kierkegaard, Søren, 15, 82 King, Henry, 284 Kipling, Joseph Rudyard, 53, 261, 335 Kraus, Karl, 13 Koulechov, Lev, 171, 172, 255 Kormendi, Janos, 124 Kozinczev, Grigorij, Michajloviè, 264 Koster, Henry, 217 La Cava, Gregory, 155 Laemmle, Carl, 241, 247 Lagazzi, Paolo, 30n, 31n, 47n Lamarr, Hedy, 241 Lang, Fritz, 55, 218, 224, 237, 239 Langdon, Harry, 70 Langella, Giuseppe, 48n Lasky, Jesse L., 241, 247 Lattuada, Alberto, 71, 225, 313, 319 Laugier, Henri, 295 Laughton, Charles, 151 Lautréamont, (Isidore Ducasse), 321 Lean, David, 22 Lee, Laurie, 133 Léger, Fernand, 116 Leonard, Robert Z., 284 Leonardo da Vinci, 211 Leonov, Evgenij, 265
353
Leopardi, Giacomo, 27, 301, 316, 336 Lesser, Sol, 104 Lewin, Albert, 218 l’Herbier, Marcel, 130, 133, 134, 297 Liegoscin, 256 Lizzani, Carlo, 62 Llewellyn, Richard, 219, 220 Lo Duca, Giuseppe Maria, 139 London, Jack, 239 Longhi, Roberto, 15, 32n, 44, 82 Lorenzetti, Pietro, 257 Lotti, Mariella, 330 Lottici, Otello, 54 Loy, Mirna, 217 Lubitsch, Ernst, 69, 334 Luciani, Sebastiano Arturo, 32, 33 Lugli, Vittorio, 54 Lulli, Folco, 279 Lumière, Auguste, 146 Lupi, Rolando, 278 Luti, Giorgio, 39n, 48n Luzi, Gian Francesco, 16 Luzi, Mario, 39n, 47, 54, 82 Lynon, Robert, 106 MacMurray, Fred, 222, 224 Maccari, Mino, 57, 68 Macrì, Oreste, 15, 29n, 30n, 31, 35, 36, 39, 40, 46-48, 52, 54, 56-58, 68, 75, 85, 104, 120, 334 Madeo, Alfonso, 89 Madison, Guy, 331 Magnani, Luigi, 61 Magnani, Nicola, 16, 17 May, Karl, 75 Malasomma, 313 Malerba, Luigi, 61-63, 86 Malraux, André, 126, 135, 258 Malvezzi, Piero, 63n Mamoulian, Ruben, 154, 163, 218, 223, 283, 284 Manacorda, Giorgio, 48n Manet, Edouard, 153 Manghetti, Gloria, 33n Magnani, Anna, 330 Mangoni, Luisa, 48n Mann, Thomas, 53
Mantegna, Andrea, 32n, 46n Manvell, Roger, 132, 297 Manzoni, Alessandro, 105, 126 Marais, Jean, 126 March, Fredric, 331 Marchetti, Giuseppe, 45n Marchi, Antonio, 14, 16, 17, 27n, 29-32, 42, 43, 44, 48-51, 54, 55, 57-64, 81, 82, 85, 87, 90 Marchi, Teodosio, 54 Marchi, Virginio, 62 Marinetti, Filippo Tommaso, 123 Marion, Denis, 139 Martello, Luigi, 58 Martin, Boyd, 244 Martini, Simone, 257 Masaccio, 184 Massari, Giuseppe, 17, 47n, 48-50 Massey, Ilona, 218 Maté, Rudy, 237 Matisse, Henri, 121 Mattioli, Carlo, 15, 29n, 46n, 57, 68 Mattoli, Mario, 51 Mature, Victor, 232 Maughan, Somerset, 163, 214 Maupassant, Guy de, 158 Mauriac, François, 36n, 120, 135, 135 Maurois, André, 135 Mayer, Carl, 297 McCarey, Leo, 216 McLaglen, Andrew, 219 Mejerhold, Vsevolod, 140 Méliès, Georges, 27n, 130, 133, 138, 139, 146, 236, 302 Mendelssohn, Moses, 167 Menichelli, Pina, 139 Menjou, Adolphe, 102 Michi, Maria, 313 Michotte van den Beck, A., 294 Migliorini, Bruno, 54 Milestone, Lewis, 163, 231, 237, 243 Milland, Ray, 224, 242, 335 Millet, Jean Francois, 196 Minardi, Alessandro, 46n, 47n Minelli, Vincent, 218 Miotto, Antonio, 54
354
Miranda, Isa, 110 Mistral, Gabriela, 133 Mitty, Walter, 245 Modigliani, Amedeo, 316 Molnar, ferenc, 106 Molossi, Baldassarre, 45n, 53, 55 Monicelli, Mario, 63n Montale, Eugenio, 32, 53, 54, 125 Montani, Alberto, 297 Moore, Colleen, 241 Morand, Paul, 120 Morandini, Morando, 15, 17 Moravia, Alberto, 106, 112, 333 Moritz, Geiger, 168 Moussinac, Leon, 294 Mozart, Wolfgang Amadeus, 168 Muni, Paul, 215, 218 Mussolini, Benito, 49 Murnau, Friedrich, 32n, 45, 46n, 55, 70, 98, 150, 218, 237 Muscetta, Carlo, 33 Muybridge, Edward, 236 Negri, Pola, 241 Nichols, Dudley, 77, 243, 244, 246 Nilsen, Vladimir, 253 Niven, David, 242 Norris, Frank, 72, 239 Oberon, Merle, 242 O’Casey, Sean, 230 Odets, Clifford, 237 O’Flaherty, Liam, 220 O’Hara, John, 213, 214 Olivier, Lawrence, 237, 242, 285, 337 Omegna, Roberto, 133 O’Neil, Eugene, 121, 163, 284, 336 Onofri, Fabrizio, 38 Oppici, Lisa, 89 Ovidio, Publio Nasone, 26n, 119 Ozep, Fedor, 284 Pabst, Georg W., 32n, 46n, 98, 120, 160, 178181, 285, 293, 305 Paci, Enzo, 46n, 47n Pagnol, Marcel, 107, 120 Pancrazi, Pietro, 32 Pandolfi, Vito, 75, 86 Panicali, Anna, 48n
355
Painlevé, Jean, 294 Paolella, Roberto, 297 Papini, Giovanni, 121 Parmigiani, Giampaolo, 32n, 51n, 63n, 64n Parronchi, Alessandro, 152 Pasinetti, Francesco, 50, 55n, 58, 59, 68, 69, 67, 119, 297 Pasolini, Pier Paolo, 31n Paxton, John, 243 Pedretti, Paolo, 50n Pellizzari, Lorenzo, 24 Petrarca, Francesco, 27 Petrolini, Italo, 46, 47n, 52, 135 Petrov, Vladimir Michailoviè, 256 Philippe, Gérard, 105 Piacentini, Marcello, 49n Picasso, Pablo, 121, 297 Pickford, Mary, 241 Pietranera, Giulio, 297 Pietrangeli, Antonio, 16, 58, 60, 68, 86 Pintor, Giaime, 33, 34 Pirandello, Luigi, 26, 119, 134, 332 Pirelli, Giovanni, 63n Piovella, Rosa, 113 Pizzetti, Ildebrando, 130 Platone, 296 Poe, Edgar Allan, 78, 107, 168 Poggioli, Ferdinando Maria, 278 Porter, Edwin S., 236, 238-240 Powell, Eleonor, 217 Power, Tyron, 127 Pozzi, Gianni, 16, 27n Pratelli, Esodo, 61 Pratolini, Vasco, 28 Prévert, Jacques, 36n, 69, 70, 79, 111, 136, 138, 260 Prezzolini, Giuseppe, 119 Proja, Alfredo, 309 Protasanov, Yakov, 256 Proust, Marcel, 15, 82, 105, 119, 135, 181 Pudovkin, Vsevelod, 41, 76, 98, 120, 130, 140, 172, 255, 256, 280-282, 287, 296, 337 Pyriev, Ivan, 130 Radiguet, Raymond, 126 Ragghianti, Carlo Ludovico, 15, 82, 120 Ragone, Giovanni, 29n
Ranieri, J. J., 294 Ray, Nick, 77n Rastelli, V., 61 Ravel, Gaston, 70, 121, 184 Rembrandt van Rijn, 211, 289 Renard, Jules, 105 Renoir, Auguste, 32n, 46n, 153 Renoir, Jean, 32n, 46n, 153, 155, 160, 169, 224, 237, 264, 287, 288, 292, 293 Renzi, Renzo, 44, 61n, 68, 76 Repin, Vladimir, 259 Richter, Hans, 142 Righelli, Gennaro, 130 Rilke, Reiner Maria, 121 Rimbaud, Arthur, 168, 318 Robinson, Edward G., 224 Robson, Mark, 77n Rodin, Paul, 121 Rolland, Romain, 121, 133 Romains, Jules, 297 Romani, Bruno, 46n Romano, Sergio, 68, 76, 86 Romm, Mikhail, 257 Ronchini, Giovanni, 15, 17 Roques, Mario, 294 Rosai, Ottone, 39n, 57, 68 Rosay, Françoise, 70, 138 Roscial, Grigori, 256 Roschkov, 261 Rossellini, Roberto, 127, 266, 299, 300, 313, 330 Rosso, Medardo, 121 Rosso di San Secondo, Pier Maria, 122 Rotha, Paul, 132, 139 Rousseau, Jean-Jacques, 105 Russel, Harold, 331 Ruttmann, Walter, 134, 289 Saba, Umberto, 54 Sadoul, Georges, 139 Sagan, Leonine, 106 Salerno, enrico Maria, 63n Sanguineti, Edoardo, 29 Sanvitale, Francesca, 39n Sanzio, Raffaello, 211 Saporin, Juri, 287 Sartre, Jean Paul, 15, 82, 121
Schare, Dore, 243 Schary, Dore, 248 Schaub-Koch, Emile, 296 Schiaffini, Alfredo, 54 Schulberg, Budd, 16, 58, 76, 77n, 235 Schünzel, Reinhold, 217, 218 Scott, Adreon, 243 Sechi, Lamberto, 46n, 48n, 50, 56 Secondari, Roberto, 297 Selznick, 212 Serandrei, Mario, 16, 69, 77 Serao, Matilde, 139 Sereni, Vittorio, 39n, 46n, 113 Shakespeare, William, 53, 232, 285, 335 Shelley, Percy Bysshe, 335 Sidney, Silvia, 242 Sjoström, Victor, 141 Silvi, Lilia, 313, 329 Simon, Simone, 288 Sinclair, Upton, 239 Siodmak, Robert, 106 Soffici, Ardengo, 119, 121 Soldati, Atanasio, 46n Soldati, Mario, 49n, 125 Solinas, Pedro, 134 Soriano, Marc, 294, 297 Spagnoletti, Giacinto, 29n, 31, 36, 37, 39n, 47, 54, 56, 57, 59, 152 Spirito, Ugo, 297 Squarcia, Francesco, 15, 46, 47, 52, 56, 57 Stanwick, Barbara, 152, 222, 223 Steffens, Lincoln, 239 Stein, Gertrud, 115, 116 Steinbeck, John, 53 Steinhoff, Hans, 128 Stendhal, (Henry Beyle), 78, 83, 105, 107, 126, 127 Stevenson, Robert, 223, 334 Stewart, James, 242 Stiller, Mauritz, 141 Stravinskij, Igor, 121, 123, 174-176, 184 Sturzo, Luigi, 53 Swanson, Gloria, 241 Thackeray, William Makepeace, 146 Tartaglia, Ferdinando, 53 Tassi, Roberto, 46n
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Tasso, Torquato, 305 Taurog, Norman, 106 Taylor, Bob, 152 Tecchi, Bonaventura, 54 Temple, Shirley, 124, 219 Thalberg, Irving, 212 Thibaudet, Alphonse, 105, 136 Tieck, Ludwig, 167 Tilgher, Adriano, 120, 297 Tisse, Edvard Kazimiroviè, 253 Toland, Gregg, 237 Tolstoj, Lev, 115, 126, 139, 238 Toulouse-Lautrec, Henri, 334 Tracy, Spencer, 218, 223, 242 Trauberg, Leonid Zacharoviè, 264 Trenker, Luis, 138 Trilussa, (Carlo Alberto Salustri), 68, 77, 134, 135 Trivas, Victor, 128 Trompeo, Pietro Paolo, 15, 29n, 31, 57, 68, 86 Turner, Lana, 219, 223, 242 Uccello, Paolo, 46n Ulivi, Giacomo, 49, 51n Ungaretti, Giuseppe, 16, 27, 28, 36, 54, 59, 68, 78, 125, 133 Valenti, Osvaldo, 332 Valentino, Rodolfo, 160, 241 Valery, Paul, 75, 120, 134 Valli, Alida, 217 Vancini, Florestano, 61n Van Dyke, Dick, 106 Vanel, Charles, 138 Van Gogh, Vincent, 121 Varese, Claudio, 120 Vassiliev, Georgij Nikolaeviè e Sergej Dmitreviè, 261 Vedrès, Nicolas, 133 Verdi, Giuseppe, 61, 176 Verdone, Mario, 16, 17, 27n, 29n, 31, 33, 36, 46n, 58-60, 62, 68, 78 Verga, Giovanni, 26, 292, 293 Vergano, Aldo, 337 Verlaine, Paul, 316, 320 Vermeer, Jan, 184 Vermorel, Claude, 294 Very, Pierre, 125
Viazzi, Glauco, 15, 24, 58, 59, 62, 139, 140 Vidor, King, 41n, 46n, 85, 106, 120, 145, 153, 182, 183, 217, 219, 237, 239, 337 Vigorelli, Giancarlo, 46n, 47n Viola, Pietro, 46, 47 Visconti, Luchino, 60 Vittorini, Elio, 90, 101 Volonté, Gian Maria, 63n Voltaire, (François Maria Arouet), 121 Von Sternberg, Josef, 45, 131, 218 Von Stroheim, Erich, 44, 55, 70, 72, 83, 130, 139, 218, 219, 237, 293, 299 Wagner, Richard, 165 Waschneck, Erich, 106 Wayne, John, 219 Wehlan, Tim, 154 Welles, Orson 70, 222, 284 West, Mae, 217, 241 Wikers, Martha, 90 Wilder, Billy, 77, 104, 222-224, 246 Wilder, Thornton, 103, 222 Winsor, Kathleen, 238 Winterhalter, Franz Xaver, 183 Wood, Sam, 103 Woolf, Virginia, 22 Wright, Basil, 132, 258, 283 Wyler, William, 216, 217, 231, 237, 243, 247, 331 Yordan, Philip, 77n Zampa, Luigi, 127 Zarkhij Aleksandr, 264 Zavattini, Cesare, 23, 32, 44n, 46, 49n, 50, 62, 63, 71, 79, 89, 110-112, 320 Zola, Emile, 153 Zuckmayer, Carl, 41, 120 Zuckor, Adolph, 225-228, 241, 247 Zweig, Stefan, 121, 133
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Indice del volume Antonio Marchi e Fausto Fornari Andrea Torre, Fotogrammi in corpo 11 Saggi Goffredo Fofi, Elogio della critica cinematografica non ideologica Giovanni Ronchini, «Incantando la natura volgare». Letterati al cinema in una rivista degli anni Quaranta Nicola Magnani, «La critica cinematografica». Un primo laboratorio dell’officina parmigiana Memorie Morando Morandini, Due o tre cose che so su una rivista che non leggevo. Con un’antologia privata Sergio Frosali, A Parma, naturalmente Mario Verdone, La redazione romana Isa Guastalla, Colombi Guidotti al cinema
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Antologia Letterato al cinema Oreste Macrì, Letterato al cinema Mario Colombi Guidotti, Appunti per un “Hemingway al cinema” Oreste Macrì, Controversia Lorenzo Bocchi, Il ragazzo nel film Pietro Paolo Trompeo, Risposta di uno stendhaliano Libero Bigiaretti, Risposta di un narratore Anonimo, Zavattini non ha segreti Oreste Macrì, De conversione seu inversione ermetismi S. P., Nella storia del cinema un rigo per Gertrud Stein Gertrud Stein, Due soggetti Guido Aristarco, Il tempo dei poeti Mario Verdone, Forme pure nel fonofilm Giacinto Spagnoletti, Letterato al cinema 359
Gianni Granzotto, Il romanzo in fotogrammi Carl Vincent, Del neorealismo Mario Verdone, I poeti nel cinema e il cinema nei poeti Mario Verdone, Coscienza estetica nella critica contemporanea
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Sogno di Parnaso Antonio Marchi, Mezzo secolo? Lamberto Sechi, Cinema con o senza cultura Francesco Squarcia, Opinione sulle ombre parlanti Francesco Arcangeli, Critico d’arte al cinema Sergio Frosali, Cinema falso Osvaldo Campassi, Di alcuni riferimenti tra psicologia e immagini Anthony Asquith, La decima musa ascende il Parnaso. Il film sonoro Mario Verdone, Corrispondenze di pietra Giuseppe Maria Lo Duca, Il cinema Guglielmo Amerighi, Il Cinema e i film d’oggi Corrado Terzi, Stravinskij e la musica per lo schermo Roberto Paolella, Il subcosciente in celluloide Sergio Frosali, Cinema. Arte inferiore? Sergio Frosali, Il cinema e la società
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Carriera di un vagabondo Giulio Bollati di S. P., Un vagabondo ha fatto fortuna Antonio Marchi, Charlot sulla ghigliottina Gianni Pozzi, Charlot sulla ghigliottina Giuseppe Ungaretti, La quadratura del circolo
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Intervallo: fotogrammi
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Americana Frank Capra, Esperienza del cinema Albert J. Guérard, Lettera dall’America Ugo Casiraghi, John Ford e la stanchezza del cinema americano Il’ya Erhenburg, È un film Paramount Sergio Romano, Furore Fernaldo Di Giammatteo, Disney a colori Budd Schulberg, Cinema americano: cinquant’anni dopo
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Ombre russe Fusi – Giolli, Note su Eisenstein e il cinema russo Glauco Viazzi, Dialettica e realismo in Eisenstein e Alexandrov Massimo Mida, Eisenstein e Donskoj: due generazioni Glauco Viazzi, Cinema sovietico su schermi italiani Renzo Renzi, La fine di S. Pietroburgo, oggi
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Prove tecniche Baldo Bandini, Scenografia del disegno animato Gianfrancesco Luzi, Del raccordo su tempo supposto. Nota di montaggio Antonio Pietrangeli, Asincronismo Fernaldo Di Giammatteo, Appunti sul film a colori Pier Luigi Melanotte, Il soggetto cinematografico per il documentario Mario Verdone, Introduzione alla filmologia Mario Serandrei, Dal taccuino di un montatore Sergio Frosali, Il cortometraggio Sergio Frosali, Per il documentario
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Censura e celluloide Francesco Callari, Ceppi ai piedi, catene alle mani e bende agli occhi del cinema italiano Pietro Bianchi, Sesso e celluloide Fernaldo Di Giammatteo, Della censura Luigi Bartolini, Cinema moralizzatore
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Aforismi per i giorni perduti Mino Maccari, Dopoguerra Gian Carlo Artoni, Due poesie Mario Colombi Guidotti, Incinte Pietro Bianchi, Una rivoluzione invisibile Franco Tosi, Il gatto Pietro Bianchi, Le nostre compagne R. S., Giorni perduti Luigi Bartolini, Pellepellicola Attilio Bertolucci, Giorni perduti Attilio Bertolucci, Giorni perduti Attilio Bertolucci, Giorni perduti
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Indice generale della rivista Indice dei nomi citati nel volume
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2005 presso la Tipografia Supergrafica - Parma
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