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Italian Pages 224 [208] Year 2020
CULTURA Studium 196.
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Claudio Siniscalchi
«Ben venga la propaganda» Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941) Prefazione di Francesco Perfetti
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Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium “Cultura” ed “Universale” sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www. edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma ISSN della collana Cultura 2612-2774 ISBN 978-88-382-4826-9 www.edizionistudium.it www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
Indice
Prefazione, di Francesco Perfetti 7 Introduzione 11
I. Il «ministro delle illusioni»
15
II. Propaganda antisemita per immagini
29
III. La costruzione cinematografica del nemico
47
IV. Süss, l’ebreo: «il primo autentico film antisemita»
65
V. Un vampiro avvinghiato «al corpo del popolo sventurato»
75
VI. Contra Judæos
93
VII. La rivincita di Ario
113
III. «Il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico, a V guardare bene, è Charlot»
135
IX. «Ben venga la propaganda»
159
X. Un film che «trascina il pubblico nell’entusiasmo»
181
Indice dei nomi
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PREFAZIONE Francesco Perfetti
Ottant’anni orsono veniva realizzato e programmato con grande successo in Italia e nell’intera Europa Süss, l’ebreo di Veit Harlan. Benedetto Croce sosteneva che la storia è sempre contemporanea. «La contemporaneità non è carattere di una classe di storie», scriveva in apertura di Teoria e storia della storiografia (1929), «ma carattere intrinseco di ogni storia». Voleva dire che nello studio della storia, nel confronto con il passato, lo sguardo del ricercatore è perennemente rivolto al proprio tempo. Questo vale anche per l’interpretazione dei testi cinematografici. Già Siegfried Kracauer, fra i primi studiosi ad occuparsi organicamente dei rapporti tra il cinema e la storia, in uno scritto del 1969 raccolto successivamente in Prima delle cose ultime, equiparava la funzione del cineasta e del romanziere a quella dello storico. Un film di David W. Griffith (alla pari di un romanzo di Marcel Proust o dell’affresco dedicato da Jacob Burckhardt alla cultura del Rinascimento italiano) è in grado di dare una forma ben definita al mondo. Anche Süss, l’ebreo, in questa ottica, ci presenta una forma molto ben definita di un mondo che ha posto al proprio centro l’antisemitismo. Ha ragione Marc Ferro. Chi guarda Süss, l’ebreo non può che provare una doppia sensazione: scopre il talento di un grande regista, ma si rende anche conto che questo talento è stato messo al servizio del cuore pulsante dell’ideologia nazionalsocialista, l’antisemitismo. Claudio Siniscalchi – uno dei più raffinati studiosi di storia del cinema, capace di leggere la produzione filmica non solo dal punto di vista tecnico ma anche utilizzando categorie interpretative storiografiche e filosofiche – propone, con questo suo nuovo volume, di confrontarsi con Süss, l’ebreo di Veit Harlan senza pregiudizi e senza timori ma, anzi, cercando di giunwww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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prefazione
gere, attraverso una attenta considerazione di quell’opera, a una migliore comprensione del Terzo Reich e delle sue tecniche propagandistiche e di formazione e gestione del consenso. Süss, l’ebreo, in effetti, è un’opera cardine proprio per comprendere il ruolo svolto dalla cinematografia, e ritenuto di vitale importanza dal regime, nella propaganda del Terzo Reich: un’opera sulla quale, tuttavia, è calata una sorta di cortina di oscuramento, tant’è che, a tutt’oggi, Süss, l’ebreo è considerato il lavoro «maledetto» di un autore «maledetto». Veit Harlan e, al pari e non meno di lui, Leni Riefenstahl – al di là di quello che entrambi avrebbero detto nel dopoguerra – credettero nella «rivoluzione nazionale» operata dal nazionalsocialismo. Misero a servizio del Terzo Reich il loro modo eccelso di modellare la finzione. Harlan lo fece con maggiore intensità, realizzando e producendo numerose pellicole, tra cui proprio Süss, l’ebreo. Nel dopoguerra fu chiamato davanti ad un tribunale a rispondere del contenuto della sua opera, non subì nessuna condanna, ma il suo nome rimase associato a Süss, l’ebreo. Ed è un’associazione riprovevole. Nell’affrontare l’analisi e lo studio di Süss, l’ebreo, l’autore di questo volume, ha ben presente il suggerimento di Renzo De Felice, del quale si sente un allievo eterodosso, a separare la storiografia dalla morale. L’opera «maledetta» deve essere studiata, in questo quadro, per quello che essa realmente rappresenta. Nel caso specifico siamo di fronte alla costruzione visiva, paradigmatica, di uno stereotipo vivo e presente già nella Germania pre-hitleriana, portato alle conseguenze estreme durante la Germania hitleriana. Nella prima parte del volume, Siniscalchi analizza e contestualizza storicamente Süss, l’ebreo esplorandone forma e contenuto. L’analisi del film non lascia spazio a fraintendimenti: gli ebrei sono la minaccia mortale per la comunità ariana, una minaccia antica che affonda le radici, come narra il film, nella storia della prima metà del XVIII secolo. Essi sono il tarlo che divora il legno solido della Germania per cui sembra giunto il momento di allontanarli dal suolo tedesco ponendo fine a una storia che già il padre spirituale della nazione, Martin Lutero, aveva ben chiara. Non a caso nel film il duca Karl Alexander (incosciente responsabile che affida l’amministrazione delle finanze all’ebreo Süss), sovrano cattolico chiamato a reggere un ducato protestante come il Württemberg, mostra tutto il suo fastidio per Lutero. Nella seconda parte del volume, Siniscalchi focalizza il suo interesse di studioso sulla ricezione che Süss, l’ebreo fece registrare da parte della stam-
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prefazione
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pa cinematografica italiana in due occasioni: settembre 1940 alla «Mostra di guerra» di Venezia; ottobre 1941 nel circuito nazionale. Le recensioni, scritte in quelle circostanze, confermano un assunto che De Felice aveva indicato nella sua pionieristica ricerca nel 1961 Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo: gli intellettuali di ogni ordine e rango, e i giovani universitari già attivi nella pubblicistica e nell’editoria, o in procinto di entrarvi, mostrarono un ampio consenso alla propaganda antisemita. Difatti nelle tante recensioni dedicate a Süss, l’ebreo, non vi è traccia di perplessità. I «signori della critica» (professionisti della carta stampata già affermati come Luigi Chiarini, Mario Gromo e Pietro Bianchi), lodano la riuscita dell’opera alla pari dei «giovani scalpitanti», che avranno grande fortuna nel dopoguerra nello studio del cinema (Guido Aristarco), nel giornalismo (Enzo Biagi), nella regia (Carlo Lizzani). Il coro è unanime: Süss, l’ebreo è un’opera perfettamente riuscita, e se dal piano della messa in scena scendiamo a quello della propaganda, allora «ben venga la propaganda», come suggerisce il giovane critico ferrarese Michelangelo Antonioni. L’allineamento della cultura cinematografica all’antisemitismo è totale. E quel che rileva è il fatto che esso non si manifesti tanto nei confronti di un’opera leggera o ambigua, quanto piuttosto nei confronti di un testo costruito per mostrare e spettacolarizzare il vero volto, la vera essenza dell’antisemitismo nazionalsocialista. Al di là dei suoi indiscutibili pregi come ricerca filologicamente e storiograficamente puntuale nel settore specifico della storia del cinema, il saggio che Siniscalchi ha dedicato a Süss, l’ebreo e alla sua ricezione in Italia acquista un valore che trascende l’ambito specifico degli studiosi e dei cultori di cinema. Esso, infatti, finisce per toccare, sia pure in maniera surrettizia, il grande tema del rapporto fra intellettuali e potere in un regime di tipo autoritario.
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INTRODUZIONE
In ricordo di Anthony James Gregor Angelo Paoluzi Virgilio Fantuzzi
Il quotidiano di Londra «The Times» nell’edizione del 14 aprile 1964, a pagina quindici, pubblica una breve notizia: Herr Veit Harlan, il regista tedesco che per volere di Goebbels ha realizzato il film di propaganda antisemita, tratto dall’omonimo romanzo Jud Süss, è morto ieri in una clinica di Capri all’età di 64 anni. Il film (1940) venne usato dai nazionalsocialisti, in particolare nei territori occupati dell’Est, per attrarre consenso popolare alla «soluzione finale della questione ebraica». Finita la guerra, il film trascinò Herr Veit Harlan davanti ad un tribunale tedesco, per l’accusa di crimini contro l’umanità – senza però subire alcuna condanna – ma venne comunque decretato il divieto di pubblica presentazione nella Repubblica federale, per non fomentare l’odio razziale. Lo scorso anno era stata imposta dal tribunale la distruzione di tutte le copie del film 1.
Veit Harlan è il solo artista nazionalsocialista che nel dopoguerra ha dovuto rispondere dell’accusa di crimini contro l’umanità davanti ad un tribunale tedesco. Gli sono stati intentati due processi, uno nel 1949 e uno nel 1950, ma in entrambi è stato assolto 2. Il cinema, sin dalla sua affermazione sociale nei primi due decenni del XX secolo, è la lingua franca della società, un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai più efficace di tanti discorsi e di tanti libri. L’umanista americano Lionel Trilling, grande studioso della letteratura, sosteneva che ogni opera compiuta rappresenta un fatto estetico maturato nella storia degli uomini, impossibile da vivere al di là del contesto in cui 1 2
2009.
Articolo non firmato, Herr Veit Harlan, in «The Times», 14 aprile 1964. Cfr. E. Glon, Le film comme crime: le cas de Veit Harlan, in «Raisons politiques», 2,
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introduzione
l’opera è stata realizzata 3. Le opere della finzione, a prescindere dal loro valore artistico, nel corso del Novecento hanno ricoperto il ruolo sociale esercitato dal romanzo nell’Ottocento. E proprio uno scrittore, Honoré de Balzac, assegnava al romanzo la funzione di «storia privata delle nazioni». Storia che un altro scrittore novecentesco, Mario Vargas Llosa, intende come «verità messa in pagina attraverso la menzogna» 4. Sul piano cinematografico gli studi di Marc Ferro giungono alle medesime conclusioni di Trilling e Vargas Llosa. Il film è un «agente», un «prodotto» della storia, nel senso che non può essere dissociato dal suo contesto di produzione, né dal pubblico al quale è destinato 5. La finzione è uno strumento della «rappresentazione del sociale»: una menzogna che racconta la verità del proprio tempo. Le «immagini sono il medium comunicativo tra noi e la realtà; sono il frutto delle nostre esperienze e della società in cui viviamo» 6. Di cosa ci parla Süss, l’ebreo (Jud Süss, 1940) d Veit Harlan? Dell’antisemitismo messo in scena dall’ufficialità culturale nazionalsocialista, in un momento centrale del Terzo Reich: l’inizio della guerra europea (poi mondiale). La prima parte del presente lavoro affronta la complessità di questo argomento. Troppo spesso la cinematografia nazionalsocialista è stata (e ancora troppo spesso lo è) oggetto di semplificazioni, fraintendimenti, demonizzazioni. Questi atteggiamenti finiscono per far passare in secondo piano, o addirittura occultare, le qualità formali, il potere attrattivo, la complessità ideologica e culturale di alcune opere. La seconda parte, invece, è riservata alla ricezione italiana del film, avvenuta in due momenti: la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia nel settembre del 1940, e la successiva uscita nelle sale italiane del film nell’ottobre del 1941. L’Italia dalla metà del 1938 ha adottato una legislazione razziale, che di fatto colpisce, discriminandola, la minoranza ebraica. Il termine antisemitismo «fu usato – sembra – per la prima volta nel 1879» 7, quando «Wilhem Marr pubblicò La vittoria degli ebrei sul germanesimo» 8. Si può convenire sul fatto che l’antisemitismo Cfr. L. Trilling, The Liberal Imagination, Viking Press, New York 1951. Cfr. M. Vargas Llosa, La vérité par le mensonge. Essais sur la littérature, Gallimard, Parigi 1992. 5 Cfr. M. Ferro, Analyse de films, analyse de sociétés, Hachette, Parigi 1977. 6 P. Sorlin, Cinema e identità europea, La nuova Italia, Milano 2001, p. 7. 7 R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, in R. Chiarini (a cura di), L’intellettuale antisemita, Marsilio, Venezia 2008, p. 15. 8 P. Stefani, L’antigiudaismo. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 13. 3 4
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introduzione
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indica l’avversione contro gli ebrei sorta nell’Ottocento, con un accentuato carattere laico e caratterizzata dall’identificazione dell’ebraismo principalmente attraverso categorie etnico-nazionali o esplicitamente razziali 9.
Giustamente, la letteratura scientifica tende a dividere l’antisemitismo dall’antigiudaismo. Sin dalle origini del cristianesimo si è consolidato un compatto e duraturo insieme teologico che riteneva gli ebrei colpevoli in blocco dell’uccisione di Gesù (è il tema del cosiddetto «deicidio»), maledetti (si veda in tal senso l’interpretazione consueta del versetto evangelico «il suo sangue ricadrà su di noi e sui nostri figli», Mt 27,25), puniti con una dispersione senza ritorno («ebreo errante»), divenuti garanzia visibile della giustizia divina e dell’attendibilità delle profezie bibliche («popolo testimone») 10.
L’antigiudaismo è stato uno dei più significativi strumenti di edificazione del pensiero occidentale, imperniato sul costante confronto con la «diversità ebraica». L’antigiudaismo, schematizzando al massimo, si focalizza sulla fisionomia della tradizione ebraica; l’antisemitismo prende di mira l’esistenza concreta, fisica degli ebrei 11. L’antisemitismo a due anni di distanza dall’approvazione delle «leggi razziali», è penetrato in profondità nella cultura italiana. La stampa cinematografica non fa che confermare questo dato di fatto. La polemica antisemita che si riscontra negli articoli relativi al film di Harlan non è frutto della penna intrisa nel veleno di Telesio Interlandi o Giovanni Preziosi, campioni nella carta stampata dell’ostilità, spesso furibonda, verso gli ebrei. Riguarda giovani dal futuro radioso e meno giovani che non avranno fortuna nel dopoguerra. Riguarda giornalisti di valore e pennivendoli da quattro soldi. Riguarda intellettuali che caduto il fascismo gli rimarranno ostinatamente fedeli e intellettuali che lo rinnegheranno senza troppi rimpianti, poco importa se in buona o cattiva fede. Compito dello storico, suggeriva Benedetto Croce, non è quello di «giudicare», ma di «giustificare», cioè «comprendere». Non trovo le parole giuste per esprimere la mia gratitudine a Giuseppe Dalla Torre, Presidente della Studium e per un lungo tempo Rettore della Lumsa. L’ho conosciuto grazie al compianto Giovanni Marchi, e per quasi 9 V. De Cesaris, Spiritualmente semiti. La risposta cattolica all’antisemitismo, Guerini, Milano 2017, p. 9. 10 P. Stefani, L’antigiudaismo, cit., pp. 4-5. 11 Cfr. D. Nirenberg, Antigiudaismo. La tradizione occidentale, Viella, Roma 2016.
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introduzione
un quarto di secolo sono stato un suo Professore, diventando nel corso del tempo un amico della sua famiglia. Devo un particolare ringraziamento a Emilio Gentile, che è stato il primo a leggere il manoscritto, e che mi ha costantemente incoraggiato ad andare avanti in questa ricerca. Così come lo devo al mio carissimo e stimato amico Francesco Perfetti, che alcuni anni fa si offrì di pubblicare il saggio in una collana da lui diretta e, mantenendo fede all’impegno preso, ha scritto la prefazione. In un lavoro congiunto Lorella Cedroni, mia compagna di studi, testimone di nozze, collega e amica di una vita, che andandosene troppo presto mi ha privato della possibilità di avere un lettore attento quanto critico, ha ricordato che nei primi anni Ottanta del secolo passato frequentammo alla Sapienza un seminario di Renzo De Felice su gli ebrei in Italia durante il fascismo. La frequentazione l’avevo rimossa. Era evidentemente destino che mi dovessi occupare di questo argomento, sul solco tracciato con lucidità e infinita competenza da De Felice, alla cui lezione mi sono sempre richiamato. Mi sento inoltre in obbligo di ringraziare, per i suggerimenti fornitimi, Gabriele De Rosa, Anthony James Gregor, Gian Piero Brunetta, Tarmo Kunnas, Ernst Nolte, Ernesto Guido Laura, Francesco Malgeri, Fernaldo Di Giammatteo, Maurizio Serra, Carlo Lizzani, Pier Marco De Santi, Gianfranco Lami, Gian Luigi Rondi, Alessandra Tarquini, Piero Melograni, Giano Accame, Matthew Fforde, Antonio Spinosa, Alessandra Staderini, Michael A. Ledeen, Julio Montero Diaz, Maria Antonia Paz, Robert Hassan, Philippe d’Hugues, Alessandro Duce, Michel Marmin. Alcuni di loro non ci sono più, ma non li ho dimenticati, e a loro va il mio riconoscente pensiero. Da moltissimi amici, a vario titolo, ho ricevuto un prezioso aiuto, e mi è davvero impossibile ricordarli tutti. Ne voglio citare soltanto uno, Umberto D. Javarone. Brillante studente, Umberto si è laureato con me in storia del cinema nel 2005, con una tesi di vecchio ordinamento (cinque anni), appunto sul film di Veit Harlan. Da quel lavoro comune ho capito che la ricerca doveva proseguire. Quindi lo studio di Süss, l’ebreo mi accompagna da un quindicennio e, spero, non mi abbandonerà anche nel prossimo.
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I.
Il «ministro delle illusioni»
Il quarto capitolo del film di Quentin Tarantino Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds, 2009) ha per titolo «Operazione Kino». Un militare inglese viene introdotto da un attendente in una stanza. Il tenente Archie Hicox appena entrato rimane sorpreso nel vedere seduto davanti al pianoforte un uomo anziano, vestito in maniera elegante, con il papillon, intento a fumare un grosso sigaro (è Winston Churchill). Nella stanza, grandissima e vuota, c’è un altro ufficiale, il generale «Ed» Fenech. Il generale saluta Archie e gli chiede di servirsi un drink. Poi gli domanda se parla tedesco, e alla risposta affermativa del tenente («lo parlo come il barone di Münchhausen»), gli pone una seconda domanda: «che mestiere esercitava prima della guerra?». «Critico cinematografico» è la risposta. Archie prosegue ricordando di aver scritto recensioni e articoli per il periodico «Films & Filmakers», e due libri sul cinema tedesco. Il primo, Arte degli occhi, del cuore e della mente, studio sulla cinematografia negli anni di Weimar. Il secondo, Il Leonardo da Vinci del 35 millimetri, monografia sul regista Georg W. Pabst 1. Alla domanda del generale se conosce bene la produzione del Terzo Reich, Archie risponde affermativamente, anche se non ha potuto vedere i film usciti negli ultimi tre anni. La nuova domanda è ancora più precisa: «Goebbels come sta usando l’Ufa?» 2. «Goebbels considera i film che sta facen1 Pabst, austriaco di nascita, fra i più importanti registi negli anni di Weimar, abbandonò la Germania dopo l’arrivo al potere di Hitler, ma decise di rientrare, su sollecitazione di Joseph Goebbels, nel 1939. 2 L’Ufa (Universum Film Aktiengesellschaft) nasce per intervento statale nel 1917, anche per svolgere funzioni propagandistiche in pieno conflitto bellico. Nel dopoguerra l’Ufa diventa la più importante casa di produzione europea, beneficiando degli ingenti investimenti di vari istituti di credito, che gli consentono di aprire innovativi stabilimenti, a Potsdam-Babelsberg, poco fuori Berlino, e di impegnarsi in grandiosi progetti produttivi. Sulla
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«ben venga la propaganda»
do – risponde il tenente – come l’inizio di una nuova era del cinema tedesco, un’alternativa al cinema internazionale ebreo-tedesco degli anni Venti e al dogma hollywoodiano dominato dagli ebrei». «E come sta andando?». Stavolta a porre la domanda è l’uomo seduto al pianoforte. «Ha detto che vuole battere gli ebrei al loro stesso gioco. Comparandolo, diciamo, a Louis B. Mayer 3, come se la cava?». «Piuttosto bene» risponde sicuro il tenente: In effetti, da quando Goebbels ha le redini in mano, l’affluenza di pubblico è aumentata costantemente in Germania negli ultimi otto anni. Ma Louis B. Mayer non sarebbe il corrispettivo più idoneo per Goebbels. Penso che Goebbels si veda più vicino a David O. Selznick 4.
L’interpretazione del cinema nazionalsocialista per lungo tempo ha oscillato in una doppia direzione. La prima ha finito per ricondurre il significato di ogni singolo film ad un semplice prodotto della «propaganda». La seconda, invece, tranne pochissime eccezioni riguardanti perlopiù opere antisemite o belliche, ha considerato il cinema del Terzo Reich un agglomerato dominato da banalità, scarso valore artistico e puro intrattenimento. Lo storico comunista Georges Sadoul interpretava il cinema hitleriano come la «continuazione della politica tradizionale dei trust e dei cartelli tedeschi per la creazione, dal 1900, di monopoli europei, con “mezzi pastoria dell’Ufa dal 1933 al 1945 cfr. K. Kreimeir, The Ufa Story. A History of Germany’s Greatest Film Company 1918-1945, University of California Press, Berkeley 1999, pp. 205-364. 3 Louis B. Mayer (Eliezer Meir), nasce in una famiglia ebrea di Minsk, il 4 luglio 1882. In giovanissima età si trasferisce in Canada. Nel 1904 si sposta negli Stati Uniti, a Boston, dove muove i primi passi nell’attività cinematografica, diventando proprietario di una piccola sala in provincia. Mayer nel 1916 dà vita alla Metro Pictures Corporation e, trasferitosi ad Hollywood, apre una propria casa di produzione. In pochi anni arriva al vertice della MetroGoldwyn-Mayer, diventando uno dei produttori più importanti del cinema americano nel momento di massimo splendore economico: cfr. S. Eyman, Lion of Hollywood. The Life and Legend of Louis B. Mayer, Simon & Schuster, New York 2005. 4 David O. Selznick nasce nel 1902 in una famiglia ebrea di Pittsburgh. Dopo gli studi alla Columbia University, approfittando delle conoscenze del padre Lewis nel settore cinematografico, Selznick si trasferisce a Hollywood per lavorare alla Metro-GoldwynMayer. Diventa un produttore di successo, certamente al servizio dei proprietari delle grandi compagnie, ma dotato di notevole autonomia. Alla guida di una propria casa di produzione, Selznick si muove all’interno della logica degli studios, essendone parte integrante (addirittura ha sposato la figlia di Louis B. Mayer, Irene Gladys, dalla quale divorzierà nel 1948), con un ampio spazio di manovra, nel ruolo di produttore di film difficili e di scopritore di nuovi talenti. A lui si deve la realizzazione di Via col vento (Gone with the Wind, 1939) di Victor Fleming: cfr. D. Thomson, Showman. The Life of David O. Selznick, Alfred A. Knopf, New York 1992.
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il ministro delle illusioni
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cifici” o sanguinosi». E riassumeva il giudizio: una «gigantesca impostura nazionale e socialista» 5. Vent’anni dopo il lettore italiano poteva leggere sull’autorevole rivista «Bianco e nero» della «scarsa portata» artistica della produzione tedesca, composta essenzialmente da «opere farraginose e retoriche» 6. Tali giudizi sono ormai ampiamente superati. Come scrive Stephen Lowry definire il cinema del Terzo Reich per lungo tempo è stata un’impresa problematica: i critici lo hanno considerato puramente come una macchina di propaganda in cui trova espressione l’esaltazione del movimento nazista [...] i conflitti generati dall’odio [...] e la glorificazione del passato tedesco [...]. Dall’altra parte, i suoi estimatori e molti dei diversi protagonisti ne danno l’immagine (spesso non disinteressata) d’una forma apolitica d’intrattenimento che offre un’evasione dalla realtà del regime nazista [...]. Solo recentemente, comunque, questa dicotomia di orientamenti ha iniziato a essere sostituita da concezioni meno superficiali dei meccanismi di funzionamento dell’industria cinematografica tedesca, dei film stessi e del loro contesto nell’ambito del sistema politico e di cultura di massa 7.
Ormai il tempo trascorso ha relegato in soffitta schemi inadeguati per l’interpretazione dei 1.094 lungometraggi di finzione prodotti tra il 1933 e il 1945 8. Per Victoria De Grazia il Terzo Reich spicca non solo per aver saputo creare un cinema nazionale ma anche per aver stretto un’alleanza transeuropea contro Hollywood. Tali conquiste sono da attribuirsi in parte all’eredità raccolta dal regime nazista, ovvero un’industria cinematografica di grandi potenzialità, relativamente compatta, e la forte economia di esportazione. La dittatura di Hitler usò il proprio potere per tenere a freno la concorrenza tra le società, tagliare i costi, allargare i mercati nazionali e aumentare le esportazioni. Incoraggiò inoltre, con risultati sorprendenti, nuovi modi di concepire i film di intrattenimento, basandosi sulla tradizione Ufa, anche a costo di allontanare la cultura cinematografica tedesca dalla sperimentazione modernista della Repubblica di Weimar e di avvicinarla alla mentalità hollywoodiana 9. G. Sadoul, Il cinema hitleriano, in «Rivista del cinema italiano», 5-6, 1954. G. Gerosa, Politica e storia nel cinema nazista, in «Bianco e nero», 11, 1975. 7 S. Lowry, Cinema nazista, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. III*, L’Europa. Le cinematografie nazionali, Einaudi, Torino 2000, p. 411. 8 Cfr. E. Rentschler, The Ministry of Illusion. Nazi Cinema and Its Afterlife, Harvard University Press, Cambridge 2002, p. 2. 9 V. De Grazia, L’impero nazista dello spettacolo, in Id., L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006, p. 339. 5 6
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«ben venga la propaganda»
Se la cinematografia del Terzo Reich ha intrapreso questa strada, lo si deve in larga parte all’operato di Joseph Paul Goebbels 10. In Inglourious Basterds Tarantino presenta il signore incontrastato della celluloide con la svastica scivolando nella «macchietta»: un gaudente, spesso in preda ad attacchi d’ira, che parla velocemente con tonalità sopra le righe. Il ritratto del libidinoso, peraltro privo di scrupoli, era stato fissato sullo schermo in un film di propaganda bellica: Enemy of Women (1944), diretto dal regista americano di origini tedesche Alfred Zeisler. Ma senza la sua presenza la cinematografia «non avrebbe giocato il ruolo di rilievo nella storia del Terzo Reich» 11. Nato il 29 ottobre 1897 a Rheydt, cittadina manifatturiera del settore tessile nel Basso Reno, a venticinque chilometri da Düsseldorf e a trentacinque dal confine con l’Olanda, Goebbels apparteneva ad una famiglia piccolo borghese di cattolici devoti, con cinque figli, tre maschi e due femmine. Sin da bambino ha un problema osseo non curabile, e per il resto della vita zoppicherà. Nello studio eccelle: è «il più bravo della classe e così gli aprirono le porte dell’università» 12. Studia prima a Bonn, alla Facoltà di letteratura e filosofia e, successivamente, com’era d’uso all’epoca, gira per vari atenei (Friburgo, Würzburg, Monaco di Baviera): «ovunque l’odissea del corso degli studi lo sospinse [...] fu costantemente accompagnato dalla fame» 13. Si laurea all’università di Heidelberg nell’aprile del 1922. Suo desiderio era preparare un elaborato sul tema del declino dell’Occidente nell’opera di Oswald Spengler. Il professore che lo segue gli assegna però una tesi sul drammaturgo Wilhelm von Schütz, poeta romantico poco noto 14. Nel 1923 trova un impiego come dipendente di una banca a Colonia. Odia quel lavoro, ma dopo pochi mesi perde il posto. È uno dei tanti disoccupati nella Germania di Weimar. Sempre nel corso del 1923 Goebbels stabilisce i primi contatti con il nascente movimento nazionalsocialista. Gregor Strasser lo prende sotto la sua ala protettiva 15. L’incontro con Hitler determina la svolta della vita: «il colpo di fulmine arrivò attraverso il Mein Kampf, letto il quale volle sapere chi 10 Cfr. F. Moeller, The Film Minister. Goebbels ad the Cinema in the Third Reich, Menges, Stoccarda-Londra 2000. 11 D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, Cinque lune, Roma 1972, p. 21. 12 G. Knopp, Tutti gli uomini di Hitler, Corbaccio, Milano 1999, p. 32. 13 Ibidem, p. 31. 14 Cfr. T. Thacker, Joseph Goebbels. Life and Death, Palgrave Macmillan, Londra 2009, p. 17. 15 Cfr. G. Knopp, Tutti gli uomini di Hitler, cit., p. 39.
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fosse l’uomo che lo aveva scritto» 16. Scopre così di avere per la politica, più della scrittura e dell’arte, la vera vocazione. Nella biografia di Goebbels, «l’intellettuale più organico, acuto e influente del regime nazista» 17, si riassume il destino della Germania, da Weimar alla caduta di Hitler. La lettura del romanzo giovanile di Goebbels Michael (strutturato in forma di diario – la prima stesura è del 1919 e la seconda del 1924 – rifiutato dagli editori Ullstein e Mosse 18, viene pubblicato nel 1928 da Max Amann, direttore della casa editrice Franz Eher) 19 è molto istruttiva per capire l’essenza, apparentemente contraddittoria, del suo pensiero. Goebbels deve essere considerato un «modernista» 20. Può sembrare una stravaganza annoverarlo fra i «modernisti». Ma non lo è affatto, poiché nutriva profonda ammirazione per il pittore Van Gogh (in una mostra di opere moderne c’è «Un solo astro: Vincent Van Gogh») 21 e per l’arte nazionale e rivoluzionaria di alcuni espressionisti («Il nostro decennio è, nella sua struttura interna, del tutto espressionista») 22. Il 12 dicembre 1933, come ricorda Roger Griffin, Goebbels inviò un telegramma al pittore norvegese Edvard Munch, in occasione del suo settantesimo compleanno, complimentandosi per i traguardi artistici, sottolineando come i suoi dipinti mostrassero lo spirito potente e ostinato ereditato dalla tradizione nordico-germanica nel sommo disprezzo dei formali criteri accademici e nella lotta per affermare la nuda verità della natura ritornando ai I. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 44. Cfr. G. E. Rusconi, Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica, Feltrinelli, Milano 2013, p. 18. 18 Cfr. R. Manvell - H. Fraenkel, Vita e morte del dottor Goebbels, Feltrinelli, Milano 1961, p. 31. 19 Max Amann durante la guerra era stato sottoufficiale nella stessa compagnia di Hitler. Nel 1922 Hitler lo nomina segretario amministrativo del partito. 20 Jeffrey Herf ritiene Goebbels espressione del «modernismo reazionario»: estimatore del pittore espressionista Munch («modernista») e razzista totale («reazionario»). Quindi Goebbels (e il nazionalsocialismo) sposerebbero la modernità, rifiutandola al tempo stesso. Si servirebbero della tecnica – perno essenziale della modernità e causa primaria dello sconvolgimento dell’individuo – ma per riportare la società all’ordine esistente prima della modernità. Lo studio di Herf è interessante per gli aspetti riguardanti la storia culturale della Germania tra le due guerre. Lo è meno nel nesso tra «modernismo reazionario» e nazionalsocialismo: cfr. J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, il Mulino, Bologna 1988. 21 Cfr. J. Goebbels, Michael. Diario di un destino tedesco [1928], Thule Italia, Roma 2012, p. 107. 22 Ibidem, p. 103. 16 17
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principi fondamentali della creatività völkisch [...]. Questa apoteosi nazista di un grande pittore modernista trasgrediva la politica culturale ufficiale tedesca 23.
Goebbels secolarizza le sue origini culturali cristiane 24 con l’ideologia nazionale e socialista del movimento hitleriano, vestendo con sempre maggiore autorità la divisa del «principe» della propaganda (che non deve servire la verità ma la vittoria) 25. L’antisemitismo è un tratto essenziale della sua visione del mondo 26, che cresce di intensità con il trascorrere del tempo, come dimostrano i suoi diari dal 1923 al 1945 27. È un interprete del «mito della gioventù» 28, che nell’opinione pubblica «occupò uno spazio superiore a quello di qualsiasi altra società contemporanea e di altre epoche della storia tedesca» 29. Nel novembre del 1926 Goebbels si trasferisce a Berlino. Nel 1928 viene nominato da Hitler Gauleiter della città e responsabile di una testata estremamente aggressiva, «Der Angriff», la cui pubblicazione era iniziata il 4 luglio del 1927 (verrà trasformato in quotidiano nel 1930) 30. Il giornale si contraddistingue per il martellante antisemitismo e per l’avversione alla politica conciliatoria di Weimar, impegnata ad accettare le clausole del trattato di Versailles. Sempre nel 1928 Goebbels è fra i dodici deputati eletti dal partito nazionalsocialista al Reichstag. L’elezione gli garantisce l’immunità parlamentare, un solido scudo per evitare multe, processi e condanne. Goebbels ritiene che i movimenti rivoluzionari non abbiano bisogno di grandi scrittori, ma di capaci propagandisti, in grado di infiammare con i discorsi le folle. Lui ne è la 23 R. Griffin, Modernism and Fascism. The Sense of a Beginning under Mussolini and Hitler, Aracne, Roma 2017, pp. 419-421. 24 Nel diario Goebbels scrive «So che Cristo è il mio redentore, ma non sono così forte per seguirlo in un amore puro e devoto e per fissare la mia vita sulla sua persona» (31 dicembre 1923): J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. I-1, K. S. Saur, Monaco 2004, p. 67. 25 Cfr. R. Taylor, Goebbels and the Function of Propaganda, in D. Welch (a cura di), Nazi Propaganda. The Power and the Limitations, Croom Helm, Londra 1983, pp. 29-41. 26 Cfr. C. T. Barth, Goebbels und die Juden, Schöningh, Paderb 2003. 27 Cfr. T. Dalton (a cura di), Goebbels on the Jews. The Complete Diary Entries 19231945, Lighting Source, LaVergne 2019. 28 «Oggi la gioventù è più viva che mai. Ha fede. Sa che la lotta è in arrivo. Porta in sé i germogli di una nuova forma di vita, che si stanno aprendo un varco verso la luce»: J. Goebbels, Michael, cit., p. 27. 29 Cfr. D. J. K. Peukert, La repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 102. 30 Cfr. R. Lemmons, Goebbels and Der Angriff, University Press of Kentucky, Lexington 1994.
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massima incarnazione, inferiore soltanto a Hitler 31. Il battesimo del fuoco in una pubblica arena Goebbels lo ha a Monaco nel 1924. Al suo primo discorso in un locale zeppo di socialisti, si rivolge a loro con queste parole: «Meine lieben deutschen Volksgenossen» («Miei cari connazionali tedeschi»). Immediatamente è subissato di urla, risa e insulti. La gazzarra pare calmarsi, ma al nuovo attacco di Goebbels, il pandemonio riprende. Un contestatore lo accusa di essere uno «sfruttatore capitalista». Il futuro ministro è piccolo (poco più alto di un metro e cinquanta), mingherlino (nell’intero arco della sua esistenza non supererà mai i cinquanta chili di peso), claudicante (nemici e amici malevoli lo definiranno un «germanico avvizzito»). Indossa una giacca troppo larga. Ma ha un colpo di genio. Si rivolge direttamente al suo contestatore: «Il signore che mi ha chiamato capitalista sfruttatore vuol salire su questa piattaforma e vuotare il suo borsellino. Io farò la stessa cosa, e vedremo chi di noi due ha più quattrini» 32. Con un gesto deciso rovescia sul tavolo le poche monete e l’ostilità dei presenti si tramuta in calorosa simpatia. Inizia così, con una mossa ad effetto, una carriera di instancabile oratore politico. Parla un tedesco impeccabile (con un lieve accento renano) 33, e ha una voce «sorprendentemente profonda, potente e assai modulabile, nonché un’articolazione chiara e accurata» 34. Goebbels è altrettanto efficace nella polemica giornalistica, esercitata attraverso una scrittura semplice, efficace, per nulla intellettuale 35. Negli infiammati discorsi pubblici come nei vari interventi sulla stampa, nelle pubblicazioni come nell’organizzazione della propaganda, Goebbels diventa il massimo interprete del «mito del Führer» 36, rappresentando Hitler come il «predicatore di un nuovo credo politico nato dalla disperazione 31 Hitler sin dalle origini del nazionalsocialismo ha assegnato alla propaganda un ruolo determinante: cfr. A. Hitler, Propaganda e organizzazione, in Id., Il Mein Kampf di Adolf Hitler, Kaos, Milano 2002, pp. 457-467. 32 Cfr. R. Manvell - H. Fraenkel, Vita e morte del dottor Goebbels, cit., p. 53. 33 Essendo un renano Goebbels «come tale aveva un accento dialettale che generalmente assume un tono caricaturale divertente per il tedesco medio. Ma con un lungo e paziente lavoro egli eliminò l’inflessione dialettale e sviluppò a poco a poco una delle voci più notevoli della storia dei politici moderni»: D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., p. 22. 34 P. Longerich, Goebbels. Una biografia, Einaudi, Torino 2016, p. 77. 35 Cfr. S. Richter, Joseph Goebbels - der Journalist. Darstellung seines publizistischen Werdegangs 1923 bis 1933, Franz Steiner, Stoccarda 2010. 36 Cfr. E. Barth, Joseph Goebbels und die Formierung des Führer-Mythos. 1917 bis 1934, Palm und Enke, Erlangen-Jena 1999.
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indotta da un mondo in collasso e secolarizzato» 37, e contribuendo in maniera determinante alla costruzione delle sue «qualità umane»: Goebbels sottolineò più volte la sua semplicità personale e la sua modestia – i suoi pasti «semplici», la sua uniforme «semplice», decorata unicamente con una croce di ferro di prima classe che aveva ottenuto «come semplice soldato per il grandissimo valore dimostrato» 38.
Goebbels è un «rivoluzionario di professione»: polemista implacabile, oratore formidabile, organizzatore insuperabile, combattente privo di scrupoli, spregiudicato nell’uso della retorica e della violenza, riversate con martellante insistenza contro comunisti, socialisti, democratici, pacifisti, borghesi, traditori della Germania e, naturalmente, ebrei 39. Salito al comando della comunicazione dopo la vittoria politica di Hitler, accantona ogni interesse intellettuale, anche se è l’unico nella ristretta élite di potere nazionalsocialista a possedere un dottorato in letteratura 40. Goebbels ritiene la cinematografia un segmento della propaganda irrinunciabile, e da subito si attiva per favorire la rinascita della produzione tedesca. A guidarla sarà in prima persona l’onnipotente «ministro delle illusioni». Sia Goebbels che Hitler sono grandi appassionati di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, se non hanno impegni, assistono ad una proiezione 41 (talvolta addirittura a due) 42 presso la sala cinematografica nel Palazzo della Cancelleria del Reich a Berlino, o, quando Hitler è in vacanza 43, nella sala del ricevimento al Berghof 44. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. In particolar modo lo diverte Noi e... la gonna (Swiss Miss, 1938, distribuito anche con il titolo Avventura a Vallechiara) di John G. Blystone, nel quale Stanlio e Ollio, venditori di trappole per topi, si ritrovano in Svizzera, alle prese, in una esilarante scena, col tormentato trasporto di un pianoforte. Il R. Griffin, Modernism and Fascism, cit., p. 422. Cfr. I. Kershaw, Il «mito di Hitler». Immagine e realtà nel Terzo Reich, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 81. 39 Cfr. L. Hachmeister - M. Kloft (a cura di), Das Goebbels-Experiment. Propaganda und Politik, Anstalt, Monaco 2008. 40 Cfr. J. Chapoutot, Comprendre le nazisme, Tallandier, Parigi 2018, p. 134. 41 Cfr. P. Cadars - F. Courtade, Le cinéma nazie, Le terrain vague, Parigi 1972, p. 15. 42 Cfr. O. Dietrich, Hitler démasqué, Grasset, Parigi 1955, p. 201. 43 Cfr. I. Kershaw, Hitler 1936-1945, Bompiani, Milano 2002, p. 42. 44 Cfr. B. Niven, Film at the Berghof: Hitler’s home cinema, in Id., Hitler and the Film. The Führer’s Hidden Passion, Yale University Press, New Heaven 2018, pp. 18-32. 37 38
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suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario (in origine bandito) messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks 45. Il Führer indica quali film vuole vedere. Alle proiezioni partecipano personale di servizio (civile e militare) e ospiti. Appena si spengono le luci smette di parlare. L’universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d’opera, anche dopo pochi minuti 46. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich 47, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita» 48. L’assunzione delle più alte responsabilità catapulta Goebbels al centro non solo della politica, ma della vita mondana. Conduce certo un’esistenza agiata, anche se fa di tutto per mostrare sobrietà. Frequenta i salotti più esclusivi; si sposta a bordo di auto vistose; si fa confezionare abiti su misura; possiede diverse dimore. È instancabile nel corteggiamento di signore del bel mondo, soprattutto attrici. Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l’ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Non a caso in vita si era guadagnato il titolo di «stallone di Babelsberg». È uno dei tanti soprannomi affibbiatogli, e, tutto sommato, il più benevolo. Gli altri sono: psicopatico dal piede equino, apprendista stregone, grande demagogo, principe delle tenebre, seduttore delle masse, agente di Lucifero, Mefistofele, Giuda Iscariota. Hitler era diventato Cancelliere il 30 gennaio del 1933. Poco dopo, il 13 marzo, viene istituito il Ministero per l’educazione del popolo e la propaganda (Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda), affidato a Goebbels. Goebbels si insedia al posto di comando a palazzo Leopold il 22 marzo. Seduto davanti ad una grande scrivania, con alle spalle il ritratto di Federico II di Prussia, è alla guida di 350 tra funzionari ed impiegati. Quattro anni dopo supereranno i 1.000, dislocati nelle molteplici sedi che ospitano i vari Dipartimenti. Al nuovo Ministero vennero chiamati a lavorare soprattutto giovani
Cfr. P. Demetz, Diktatoren im Kino, Paul Zsolnay, Vienna 2019, pp. 130-131. Cfr. B. Urwand, L’obsession du cinéma chez Hitler, in Id., Collaboration. Le pacte entre Hollywood et Hitler, Bayard, Montrouge 2014, pp. 23-80. 47 Cfr. O. Dietrich, Con Hitler verso il potere, Italica, Milano 1934. 48 O. Dietrich, Hitler démasqué, cit., p. 201. 45 46
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con un elevato livello di istruzione, facendo in modo che non dovessero scontrarsi con il radicato conservatorismo della pubblica amministrazione dominante negli alti organi dello Stato. La maggioranza di questi funzionari aveva aderito al nazismo prima del 1933 e quasi 100 su 350 si fregiavano del distintivo d’onore del partito; l’età media arrivava a malapena a 30 anni e molti occupavano la stessa posizione, o una simile, nell’ufficio della propaganda del partito, controllato sempre da Goebbels 49.
Le linee guida dell’intervento nel campo cinematografico il nuovo ministro le illustra nel discorso pronunciato a Berlino pochi giorni dopo l’insediamento, la sera del mercoledì 28 marzo 1933 all’hotel Kaiserhof, a due passi dalla Cancelleria del Reich. All’incontro è presente il regista Fritz Lang, di nascita austriaco e con una madre ebrea 50. È in compagnia della moglie, la sceneggiatrice Thea von Harbou, militante nazionalsocialista 51. L’arte, sostiene Goebbels, per sua natura è libera. L’intervento statale però è necessario, indispensabile per operare nella moderna società che il nazionalsocialismo ha intenzione di costruire. Il liberalismo spirituale dovrà essere sradicato, poiché conduce inesorabilmente all’anarchia, e i gusti del popolo non potranno mai essere compresi dagli ebrei. Quindi spetterà ai registi tedeschi il compito di guidare la rinascita nazionale. Goebbels nel discorso cita alcuni film che su di lui hanno avuto una presa straordinaria. Inaspettatamente elogia La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, 1925) di Sergej Michajlovicˇ Ejzenštejn: È fatto in modo favoloso, rappresenta un capolavoro cinematografico senza eguali. Il «perché» determinante è la disposizione d’animo. Chi non è deciso, dal punto di vista ideologico, con un film come questo potrebbe diventare bolscevico. Ciò dimostra che un’opera d’arte ha senz’altro una tendenza, e che anche la peggior tendenza va diffusa, anche se ciò accade per il tramite di un’opera d’arte eccellente 52.
R. J. Evans, La nascita del Terzo Reich, Mondadori, Milano 2005, pp. 432-433. Cfr. B. Eisenschitz, Breve storia del cinema tedesco, Lindau, Torino 2001, p. 75. 51 Cfr. A. M. Sigmund, Thea von Harbou: Die Köningin der NS-Drehbücher, in Id., Die Frauen der Nazis, vol. III, Wilhelm Heyne, Monaco 2004, pp. 203-262. 52 Discorso di Joseph Goebbels al Kaiserhof, Berlino, 28 marzo 1933, in C. Romani, Stato nazista e cinematografia, Bulzoni, Roma 1983, pp. 107-108. 49 50
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Goebbels aveva seguito con grande interesse il successo del film di Ejzenštejn ottenuto in Germania (a Berlino in modo particolare) 53. Ha parole di ammirazione anche per Anna Karenina (Love, 1927) di Edmund Goulding, coproduzione americana interpretata da Greta Garbo, e per I nibelunghi (Die Nibelungen, 1924) di Fritz Lang. Chiude ricordando Il grande agguato (Der Rebell, 1932) di Luis Trenker, un «grande talento» nella regia 54. Naturalmente Goebbels ha dell’arte la concezione comune ai regimi totalitari. Per il totalitarismo ogni forma artistica e culturale è uno strumento utile alla lotta ideologica. Senza il cinema, per Pierre Sorlin, il totalitarismo sarebbe stato molto diverso 55. Il comparto cinematografico lasciato in eredità a Goebbels dalla Repubblica di Weimar è di grandissima qualità: Al termine della guerra, nonostante l’esito negativo del conflitto e le conseguenti restrizioni economiche, la Germania poteva vantare una florida industria cinematografica. Dal 1918 fino all’ascesa al potere del nazismo nel 1933, la produzione tedesca fu seconda solo a quella di Hollywood per dimensioni, innovazioni tecniche e influenza sul mercato mondiale. Già pochi anni dopo la firma dell’armistizio, i film realizzati in Germania erano ampiamente visti all’estero 56.
Nel 1919 in Germania ci sono circa 2.800 sale cinematografiche (solo a Berlino se ne contano 300). Dieci anni dopo salgono a 5.000 57. Lo spettacolo cinematografico diventa il divertimento preferito della classe popolare, oltreché «strumento pilota della cultura di massa». Il film esercitava un grande fascino sul pubblico e sugli intellettuali. Se prima della guerra il film non era riuscito ancora a liberarsi da una fama equivoca per la sua contiguità con il un pubblico di consumatori di bassa lega, la cinematografia acquistò i suoi quarti d nobiltà durante la guerra, quando emerse tutto il suo valore come mezzo di propaganda. Durante la Repubblica poi nacquero i grandi cine53 Cfr. R. Taylor, Film Propaganda. Soviet Russia and Nazi Germany, I. B. Tauris, Londra 1998, p. 39. 54 Cfr. F. A. Birgel, Louis Trenker: A Rebel in the Third Reich?, in R. C. Reimer (a cura di), Cultural History Trough a National Socialist Lens. Essays on the Cinema of the Third Reich, Camden House, Rochester 2002, pp. 37-64. 55 Cfr. P. Sorlin, Ombre passeggere. Cinema e storia, Marsilio, Venezia 2013, p. 69. 56 D. Bordwell - K. Thompson, Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945, vol. I, Il castoro, Milano 1998, p. 156. 57 Cfr. L. Richard, La vie quotidienne sous la République de Weimar 1919-1933, Hachette, Parigi 1983, p. 220.
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matografi, sfarzosi e accoglienti, che per le masse ebbero la funzione che avevano avuto i teatri dell’opera per la borghesia nel secolo XIX 58.
Il nuovo corso nazionalsocialista rapidamente statalizza produzione, distribuzione ed esercizio. L’industria subisce un processo di concentrazione, ruotante attorno al perno centrale dell’Ufa e al controllo totale di Goebbels, attraverso la Reichfilmkammer, istituita il 14 luglio 1933. L’intervento statale viene indirizzato nel sostegno finanziario al settore produttivo e in operazioni finalizzate all’allargamento del mercato nazionale. Ma il nuovo corso determina anche l’emigrazione di professionisti del cinema di inestimabile talento: «ne trarrà presto immenso beneficio il mondo dello spettacolo americano, Hollywood innanzitutto» 59. Lasciano la Germania i registi Fritz Lang, Wilhem Dieterle, Max Ophüls, Edgar Ulmer, Robert Siodmak, Ernst Lubitsch, Josef von Sternberg, Georg W. Pabst; gli attori Marlene Dietrich, Kurt Bois, Conrad Veidt, Peter Lorre; lo sceneggiatore Billy Wilder. Moltissimi di loro sono austriaci 60, e non tutti partono per motivi razziali o politici. «Si è stimato che dopo il 1933 circa 2.000 persone impegnate nel campo delle arti emigrarono dalla Germania» 61. I finanziamenti statali agevolano l’innovazione tecnologica dell’apparato produttivo e aiutano la diffusione del prodotto nei mercati esteri, contando sull’espansionismo tedesco, diretto o indiretto. La cinematografia nei dodici anni di vita del Terzo Reich incontrò grande favore di pubblico. Nel 1933 il numero complessivo degli spettatori in Germania ammonta a 245 milioni. Dieci anni dopo sono saliti a 1.101 62. Il cinema di Goebbels col trascorrere del tempo diventa un «contrappeso transeuropeo rispetto ad Hollywood» 63, e agisce secondo meccanismi simili: domanda del pubblico, mercato competitivo (entro i limiti stabilisti dall’industria e dal controllo politico), star-system, produzione di genere, plot stereotipati, pubblicità e promozione e tutti i dispositivi di funzionamento di una moderna industria dello spettacolo 64. D. J. K. Peukert, La repubblica di Weimar, cit., pp. 185-186. G. E. Rusconi, Marlene e Leni, cit., p. 11. 60 Cfr. R. Ulrich, Österreicher in Hollywood, Verlag Filmarchiv, Vienna 2004. 61 R. J. Evans, La nascita del Terzo Reich, cit., p. 450. 62 Cfr. E. Rentschler, The Ministry of Illusion, cit., p. 13. 63 Cfr. V. De Grazia, L’impero irresistibile, cit., p. 344. 64 S. Lowry, Cinema nazista, cit., p. 413. 58 59
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L’impero tedesco dello spettacolo assume maggiore consistenza con le conquiste territoriali di Hitler 65. Prima dell’impiego della forza militare era stata utilizzata la pressione economica, al fine di costruire il «nuovo ordine» europeo, che aveva avvicinato Jugoslavia, Polonia e Bulgaria. Nel 1938 l’Anschluss aveva garantito il controllo dell’Austria, e poi c’era stata l’annessione dei Sudeti. Nel 1939 erano state assoggettate Boemia e Moravia. Il secondo conflitto mondiale garantiva il controllo di Polonia, Danimarca, Norvegia, Ungheria, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Balcani e Grecia 66 (senza dimenticare le alleanze con Italia e Spagna) 67. Al culmine dell’espansione la Germania hitleriana controlla circa 125 milioni di abitanti (esclusa l’Unione Sovietica): «mai nella storia una potenza europea aveva dominato in modo così esteso sul continente, occupandone la quasi totalità» 68. La cinematografia nazionalsocialista è parte integrante del sistema totalitario: un asse centrale della formazione culturale diffusa. Ovviamente Goebbels gli assegna (e con scrupolo controlla) il ruolo di «orchestra principale». La propaganda egli la intende come «arte creativa». Per questa ragione la ricerca formale rappresenta un obiettivo da raggiungere di primaria importanza, come dimostrano le opere di Leni Riefenstahl e Veit Harlan. Al di là dei furori ideologici lanciati contro americanismo, giudaismo e bolscevismo (soprattutto statunitense), il modello del film nazionalsocialista ricalca lo stile narrativo e produttivo (non ideologico) del classicismo hollywoodiano 69. Di fatto la commedia è il genere portante della produzione cinematografica tedesca 70. La commedia, come nell’Italia fascista (ma anche nella democratica America), assolve la funzione di divertimento, consolazione, illusione, speranza e figurazione dell’ordine e della tranquillità sociali. Nelle sale cinematografiche affollate i tedeschi cercano il divertimento, non la propaganda. Ciò non toglie che l’apparente apoliticità del 65 Cfr. D. Welch - R. Wande Winkel (a cura di), Cinema and the Swastika. The International Expansion of Third Reich Cinema, Palgrave Macmillan, Londra 2010. 66 Cfr. Y. Durand, Il nuovo ordine europeo, il Mulino, Bologna 2002, p. 48. 67 Cfr. J. Montero - M. A. Paz, La larga sombra de Hitler. El cine nazi en España 19331945, Cátedra, Madrid 2009. 68 G. Corni, Il sogno del “grande spazio”. La politica d’occupazione nell’Europa nazista, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 16. 69 Cfr. E. Rentschler, The Ministry of Illusion, cit., pp. 16-24. 70 Cfr. K. Witte, Lachende Erben, Toller Tag. Filmkomödie im Dritten Reich, Vorwerk 8, Berlino1995.
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lungometraggio di finzione «è già politica a sufficienza» 71. Goebbels, ancor prima di occuparsi direttamente della cinematografica, è stato un ammiratore della produzione hollywoodiana, non certo per le idee, ma per la forma. «Il suo film preferito è Via col vento, che egli non manca di elogiare ad ogni occasione e di raccomandare come splendido ideale per l’industria cinematografica» 72. La rinata produzione tedesca si orienta dunque verso il modello statunitense, coniugando l’estetica alle logiche dell’intrattenimento e, soprattutto, del divismo. Spesso propaganda e intrattenimento vengono posti in alternativa: ma è un errore di prospettiva, giacché la propaganda può essere servita anche attraverso l’intrattenimento 73. La propaganda nella cinematografia voluta da Goebbels, preferibilmente, deve essere celata nell’intrattenimento, meglio se sostenuto da buona professionalità artistica 74. Dopo l’insuccesso dei film dichiaratamente politici dei primi due anni di governo dell’immagine, Goebbels impone una sterzata alla produzione nazionale nella direzione del divertimento leggero, oltreché, naturalmente, nella cancellazione di ogni traccia giudaica (Judenfrei) 75.
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206.
I. Kershaw, All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949, Laterza, Roma-Bari 2016, p.
72 H.-C. Blumenberg, Ultimo ciak a Berlino. Storia e destino del film che doveva magnificare la vittoria nazista, Il castoro, Milano 1994, p. 113. 73 Cfr. S. Hake, Popular cinema, national cinema, nazi cinema. A definition of terms, in Id., The Popular Cinema of the Third Reich, University of Texas Press, Austin 2004, pp. 1-22. 74 Cfr. M.-E. O’Brien, Nazi Cinema as Enchantment. The Politics of Entertainment in the Third Reich, Camden House, Rochester 2004. 75 Cfr. S. Tegel, A Judenfrei Cinema: 1934-1938, in Id., The Nazi and the Cinema, Continuum, Londra 2007, pp. 99-112.
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II.
Propaganda antisemita per immagini
Con l’approssimarsi della guerra Goebbels decide di imprimere alla propaganda cinematografica un preciso indirizzo antisemita. Il 1938 è «l’anno cruciale nella storia della Germania [...]. Ogni mese fu cadenzato da fatti sensazionali e sconvolgenti» 1: l’«anno nefasto per gli ebrei tedeschi» 2, il punto di svolta di un pogrom destinato a radicalizzarsi con il susseguirsi degli avvenimenti 3. Nella seconda metà del 1938 la legislazione razziale è stata ulteriormente inasprita. Léon Poliakov individua nel novembre del 1938 un «mese cruciale» nello scatenarsi delle persecuzioni antisemite in Germania 4. Gli ebrei (nel 1933 in Germania ne risiedevano più di 500.000 5, l’1% della popolazione, e con la vittoria di Hitler in 50.000 lasciano immediatamente il paese) 6 sono stati esclusi dalla vita economica e dalle professioni; privati del passaporto e dei documenti di identità; interdetti dalla frequenza scolastica, universitaria e da alcuni luoghi pubblici. La «notte dei cristalli» (la notte tra il 9 e il 10 novembre) 7 è il vero punto di 1 G. MacDonogh, 1938. L’anno cruciale dell’ascesa di Hitler, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2011, p. 3. 2 Ibidem, p. 4. 3 David Cesarani assegna grande importanza ai violenti avvenimenti del 1938-1939, premessa a due altre svolte cruciali, quali l’invasione della Polonia (1939) e dell’Unione Sovietica (1941): cfr. D. Cesarani, Final Solution. The Fate of the Jews, MacMillan, New York 2016. 4 Cfr. L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino 1955, pp. 36-49. 5 Ibidem, p. 30. 6 Cfr. G. Bensoussan, La Shoah in 100 mappe, LEG, Gorizia 2016, p. 26. 7 Durante la «notte dei cristalli» (Kristallnacht o Reichkristallnacht) vennero assaltate in Germania, Austria e Cecoslovacchia, sinagoghe, negozi e abitazioni di ebrei. Nel corso delle violenze furono uccisi numerosi ebrei (le fonti oscillano tra 90 e 400 vittime) e successivamente venne avviata un’azione di deportazione di ebrei in campi di concentramento (anche in questo caso le fonti sono divergenti: il numero dei deportati è indicato tra alcune
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svolta della politica antisemita, il passo decisivo verso l’uso della violenza indiscriminata contro gli ebrei 8. Si rivelerà anche un evento destinato a compromettere irrimediabilmente la reputazione internazionale del Terzo Reich. Lo dimostra il viaggio di Leni Riefenstahl nel 1938 in America. La regista, oltre a presentare il documentario Olympia (218 minuti, suddivisi in due parti, Fest der Völker e Fest der Schönheit [Festa di popoli e Festa di bellezza], 1938), da lei realizzato sulle Olimpiadi tenutesi a Berlino nel 1936, ha in programma l’incontro con personalità del mondo dello spettacolo, per avviare rapporti distributivi e produttivi. La rivista americana «Time» il 17 febbraio 1936 aveva dedicato la copertina a Leni Riefesnstahl, ritraendola sulla neve con gli sci. Ha bellissime gambe scoperte e braccia atletiche. Potrebbe essere un ritratto della pittrice polacca Tamara de Lempicka, affascinata da soggetti di forte femminilità. L’immagine scelta per la copertina ritrae appunto una donna decisa, volitiva, intenta a scalare una vetta innevata. Nell’estate del 1937 una rassegna dei suoi film è presentata con grande successo a Parigi nel corso dell’Esposizione universale. La «regista di Hitler» suscita incontestabile ammirazione in Francia, infrangendo schemi politici, a destra come a sinistra 9. Questi due appuntamenti – le Olimpiadi e l’Esposizione – hanno una presa notevole sull’opinione pubblica internazionale. Lo stadio olimpico di Berlino arricchito da sculture colossali e bassorilievi in stile greco-romano, e l’imponente padiglione messo in opera a Parigi dall’architetto preferito di Hitler, Albert Speer, con una torre alta cinquantacinque metri, sormontata da una gigantesca aquila imperiale, stanno a simboleggiare la ritrovata grandezza della Germania. Quando la regista trentaseienne sbarca a New York nel 1938 è ancora il volto elegante, perbene, moderno e cosmopolita della Germania hitleriana. Inoltre, l’autore di quel film sportivo e sfolgorante è una donna, fatto insolito anche a Hollywood. Ma Leni arriva a stretto ridosso della «notte dei cristalli», subendo pesanti contestazioni, boicottaggi e vedendosi annullati migliaia e 20.000). Quindi i «cristalli rotti» delle vetrine dei negozi rappresentano solo la parte minore delle violenze, istigate con grande efficacia da Goebbels, che sfruttò il pretesto dell’uccisione a Parigi di un giovane diplomatico, Ernst vom Rath, avvenuta per vendetta. A commettere l’omicidio fu il figlio (residente a Parigi) di una famiglia di ebrei polacchi espulsi dalla Germania: cfr. M. Gilbert, La notte dei cristalli. 9 novembre 1938, Corbaccio, Milano 2008. 8 Cfr. A. Confino, A World Without Jews. The Nazi Imagination from Persecution to Genocide, Yale University Press, New Haven 2014. 9 Cfr. J. Bimbenet, Leni Riefenstahl. La cinéaste d’Hitler, Tallandier, Parigi 2016.
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tutti gli appuntamenti, tranne l’incontro con Walt Disney e Henry Ford. La regista nelle memorie ricorda l’incontro con l’industriale automobilistico: partimmo alla volta di Detroit, dove eravamo stati invitati da Henry Ford, il re dell’industria automobilistica americana. Ammiratore convinto della Germania, ebbe parole di lode per la sconfitta della disoccupazione nel paese; in generale mi sembrò che sostenesse la causa del nazionalsocialismo. Quando ci salutammo, mi disse: «Al suo ritorno, appena rivedrà il Führer, gli dica che ha tutta la mia ammirazione e che spero di poterlo conoscere al prossimo congresso del partito» 10.
Tornata a Berlino la regista riferisce con indignazione l’incresciosa accoglienza a Goebbels, che nel diario annota: La sera Leni Rienfestahl mi racconta sul suo viaggio in America. Mi fornisce una esaustiva descrizione, dipingendo un quadro tutt’altro che meraviglioso. Non c’è niente da fare. Gli ebrei regnano attraverso il terrore e il boicottaggio. Ma per quanto tempo ancora? (5 febbraio 1939) 11.
La «notte dei cristalli» fu il giorno forse più rivelatore dell’intera epoca nazista, quello in cui il popolo tedesco ebbe l’occasione di manifestare la propria solidarietà con i concittadini ebrei, ma preferì sigillarne la sorte facendo percepire alle autorità la propria adesione all’impresa 12.
Goebbels fu l’ideatore e l’abile conduttore della «notte dei cristalli»: dopo una trascinante arringa antisemita [...] partì una serie di telefonate [da parte di Goebbels] a dirigenti del partito, uomini delle SA, e sedi della Gestapo di tutta la Germania perché si procedesse immediatamente all’azione punitiva 13.
Anche se formalmente la propaganda antisemita e la gestione della «questione ebraica» erano alle dirette dipendenze del ministro Hermann Göring, L. Riefenstahl, Stretta nel tempo. Storia della mia vita, Bompiani, Milano 1995, p. 251. J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. I-6, K. S. Saur, Monaco 1998, p. 249. 12 D. G. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1987, p. 49. 13 E. A. Johnson, Il terrore nazista. La Gestapo, gli ebrei e i tedeschi, Mondadori, Milano 2001, p. 123. 10
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Goebbels – caduto in disgrazia con Hitler per la relazione con l’attrice Lída Baarová – sapeva che forzando la mano e invadendo un settore non di sua specifica competenza, andava nella direzione giusta per recuperare il terreno perso 14. La lettura delle pagine del suo diario di quegli eventi è illuminante. Il 9 novembre registra la rabbia popolare e annota: «Parleremo chiaro» 15. Il 10 riporta il parere di Hitler: «lasciare libero sfogo alle manifestazioni». Aggiunge: «che una volta tanto gli ebrei provino cosa sia la rabbia popolare» 16. Al mattino riassume le violenze: «È stato tremendo. Com’era da aspettarsi. Il popolo intero era in tumulto. Quel morto costerà caro al giudaismo» 17. L’11 pranza con Hitler a Berlino. Il Führer è d’accordo su tutto: L’azione si è svolta in maniera impeccabile. Cento morti. Ma nessuna proprietà tedesca è stata danneggiata [...]. Adesso assumo pieni poteri a Berlino. In momenti di crisi come questo bisogna che al comando ci sia un uomo solo. Dormito poco. Berlino! 18.
Goebbels, nonostante controllasse la produzione cinematografica, non era soddisfatto dei risultati ottenuti. Spesso i film tedeschi che vede gli sembrano davvero modesti: nella forma e nel contenuto. Il nuovo corso doveva passare anche attraverso la realizzazione di opere antisemite 19. Ancor prima di arrivare al potere Goebbels considerava gli ebrei i veri nemici dei nazionalsocialisti, ritenendoli responsabili della miseria del popolo tedesco: «l’ebreo è il demonio plastico del declino della specie umana» 20. La propaganda per immagini raffigurerà l’ebreo quale nemico giurato, brutale e irriducibile della Germania nazionalsocialista 21. La produzione antisemita voluta da Goebbels prende avvio nel 1939 con Robert und Bertram di Hans Heinz Zerlett, commedia musicale abbastanza inoffensiva (ad Alfred Rosenberg, l’ideologo del partito nazionalsocialista 22, addirittura sembra che si diffamino i tedeschi) 23, e Leinen aus Cfr. I. Kershaw, Hitler 1936-1945, cit., p. 226. J. Goebbels, Diario 1938, cit., p. 385. 16 Ibidem, p. 387. 17 Ibidem, p. 389. 18 Ibidem, pp. 390-391. 19 Cfr. F. Moeller, The Film Minister, cit., pp. 97-99. 20 Cfr. J. Goebbels, Warum sind wir Judengegner, in «Der Angriff», 30 luglio 1928. 21 Cfr. J. Herf, The «Jewish War». Goebbels and the Anti-Semitic Campaigns of the Nazi Propaganda Ministry, in «Holocaust and Genocide Studies», 19, 2005. 22 Cfr. E. Piper, Alfred Rosenberg. Hitlers Chefideologe, Allitera, Monaco 2015. 23 Cfr. A. Rosenberg, Die Tagebücher von 1934 bis 1944, Fisher, Monaco 2018, p. 106. 14 15
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Irland di Heinz Helbig, caricatura degli ebrei in chiave comica 24. Se queste due pellicole sono deludenti, grandi aspettative vengono riposte in I Rothschield (Die Rothschilds, 1940) di Erich Waschneck 25. Ma non le rispetta, rivelandosi «un fallimento come prodotto artistico, come divertimento, e persino come propaganda» 26. Il film è un’aperta denuncia del pericolo sovversivo e dannoso (soprattutto per la Germania) di ebrei e «plutocrati inglesi» (fra di loro in combutta), ed è ambientato durante le guerre napoleoniche (quindi in un clima bellico, lo stesso nel quale sono immersi gli spettatori). Il protagonista, Nathan Rothschild, residente a Londra, è un banchiere ebreo impegnato ad arricchirsi. Nathan non ha vita facile: altri banchieri inglesi gli sono ostili. Ma lui ha una precisa strategia. Grazie alla collaborazione internazionale dei fratelli (i Rothschild hanno filiali operative in varie città europee), all’intrigo (arte nella quale Nathan eccelle) e al potere corruttore del danaro (riesce ad accaparrarsi la complicità dell’inglese Wellington, il vincitore di Napoleone a Waterloo, pieno di donne e debiti, ma anche quella dell’onnipotente ministro di polizia francese Fouché), alla fine sbaraglia tutti i rivali. A Londra regna un clima di grande incertezza sulle sorti sfavorevoli agli inglesi nella battaglia di Waterloo. Nathan è abile nello sfruttare la situazione. Tramite un piccione viaggiatore apprende la notizia della sconfitta dei francesi, ma non la divulga. Anzi, si adopera affinché il panico diventi marea montante per la vittoria di Napoleone. I suoi rivali, avvertendo l’approssimarsi della catastrofe, vendono. Nathan compra al ribasso. Adesso è una potenza inarrestabile. Guardando in macchina Nathan può affermare soddisfatto: «è stata la mia Waterloo». È quanto sostiene Henry Ford: il vero vincitore della battaglia è la casa Rothschild, grazie a Nathan, che avendo le notizie della vittoria le ha tenute per sé, utilizzandole a fini speculativi 27. Ford, oltre ad essere antisemita, è un simpatizzante hitleriano 28. Nel dicembre del 1931 una giornalista americana, Annetta Antona del «Detroit News», si reca a Monaco per intervi24 Cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie. L’histoire confisquée, Les belles lettres, Parigi 2003, pp. 98-106. 25 Il film, che non aveva ottenuto grande successo commerciale, venne distribuito nel luglio del 1941, con il tiolo Die Rothschilds. Aktien auf Waterloo [I Rothschild. Azioni su Waterloo], nel pieno dell’offensiva dei tedeschi contro l’Inghilterra. 26 D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., p. 205. 27 Cfr. E(Enrico). Ford, L’ebreo internazionale. Un problema del mondo, Sonzogno, Milano 1938, pp. 139-140. 28 Cfr. N. Baldwin, Henry Ford and the Jews. The Mass Production of Hate, Public Affairs Press, New York 2001.
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stare Hitler, e sulla sua scrivania scorge un ritratto dell’industriale: «Henry Ford – afferma Hitler – è il mio ispiratore» 29. I Rothschield, pur se esteticamente goffo, dal punto di vista ideologico non ha sbavature: gli ebrei da tempo sono padroni dell’isola inglese, una plutocrazia nel 1940 ancora dominante. Nella conclusione del film Nathan su una carta geografica dell’Europa indica ad un amico le città dove si trovano i vari Rothschild. Poi su un foglio poggiato sulla scrivania traccia alcune linee di congiunzione tra Londra, Vienna, Napoli, Francoforte, Gibilterra, Gerusalemme: ne esce una stella di David, che, attraverso una dissolvenza, si sovrappone all’Inghilterra. Un cartello informa: «Quando è terminata la realizzazione di questo film, gli ultimi membri della famiglia Rothschild stanno lasciando l’Europa come profughi. La lotta contro i loro alleati in Inghilterra, dove i plutocrati prosperano, prosegue». Il film di Waschneck metteva alla gogna le immaginarie manipolazioni finanziarie di una banca ebraica durante la battaglia di Waterloo, nel 1815 (nel film, com’è ovvio, ostentatamente vinta dai prussiani, sotto la guida del generale Blücher). Confusamente lacerato fra l’intento antibritannico e quello antisemita, il film fu un fiasco al botteghino; venne ritirato dalle sale quello stesso anno e sottoposto a un lavoro di rimontaggio 30.
Oltre a I Rothschield viene realizzato Der ewige Jude [L’ebreo eterno, 1940], crudele distruzione dell’immagine dell’ebreo 31, film di montaggio 32 curato da Fritz Hippler, direttore del Dipartimento cinematografico presso il Ministero della propaganda. Il documentario per Ian Kershaw nel tentativo martellante di «educare» l’opinione pubblica tedesca e di inasprire gli animi a proposito della «questione ebraica» dà un chiaro esempio del modo in cui la propaganda collegava ora in prima persona Hitler alla necessità di una «soluzione» più radicale del «problema ebraico» 33. Cfr. A. Nagorski, Hitler. L’ascesa al potere, Newton Compton, Roma 2014, p. 70. R. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra. Come il nazismo ha portato la Germania dal trionfo al disastro, Mondadori, Milano 2014, pp. 523-524. 31 Cfr. D. Welch, The Image of the Jew, in Id., Propaganda and the German Cinema 1933-1945, I. B. Tauris, Londra 2006, pp. 236-311. 32 Cfr. S. Tegel, Der ewige Jude (1940), in Id., Nazis and the Cinema, cit., pp. 149-167. 33 Cfr. I. Kershaw, Il «mito di Hitler», cit., p. 238. 29 30
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Goebbels segue il progetto in ogni fase: «Ho lavorato al film sugli Ebrei. Il copione richiede ancora considerevoli revisioni. Ho discusso con Hippler sulla futura forma del film. Credo che sarà molto bello...» (11 novembre 1939) 34. Hitler ne è al corrente: «Parlo al Führer del nostro film sugli Ebrei. Egli dà parecchi suggerimenti. Nel momento attuale film in generale sono un mezzo di propaganda molto utile per noi (19 novembre 1939)» 35. L’«ebreo errante» è il prodotto di una leggenda medievale: un ebreo si sarebbe rifiutato di aiutare Gesù sulla via del Golgota, e per questa ragione si meritò la condanna ad errare per l’eternità. «Nella Germania dell’Ottocento gli antisemiti lo chiamavano “l’ebreo eterno”, e l’inquietudine era la pena per il suo peccato – l’ebreo come eterno vagabondo» 36. Der ewige Jude si apre con un avvertimento agli spettatori, attraverso alcuni cartelli in successione: gli ebrei tedeschi sono molto diversi dagli ebrei nel resto del mondo, poiché civilizzati. L’ebreo berlinese è sempre stato una falsa rappresentazione. Il vero ebreo è quello orientale: La «campagna di Polonia» dell’autunno 1939, rivelando gli ebrei per come sono, miserabili, deformi, sporchi, vestiti col caftano e agghindati con cernecchi, ha aperto gli occhi ai tedeschi che si erano lasciati ingannare dagli «ebrei assimilati», quelli che si mascheravano e vivevano all’europea 37.
Nelle immagini scorrono i volti degli ebrei di Varsavia, fortemente «provati dalle condizioni della loro penosa sopravvivenza. Le angherie, la carestia, la malattia deformano e segnano i corpi, rendendoli adatti a suscitare la repulsione del pubblico» 38. Siamo allo zenit della fiducia popolare dei tedeschi nelle capacità divinatorie e militari del Führer. Il giornalista americano William Shirer, che in quegli anni lavora a Berlino come inviato per la radio statunitense, annota nel suo diario, il 20 settembre 1939: «Devo ancora trovare un tedesco, persino tra quelli che non amano il regime, il quale disapprovi la distruzione della Polonia» 39. Der ewige Jude sottolinea come all’arrivo dei tedeschi gli ebrei di Varsavia sono «rimasti J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 64. Ibidem, p. 71. 36 G. L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino 1997, pp. 77-78. 37 J. Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Einaudi, Torino 2016, p. 367. 38 J. Chapoutot, Il nazismo e l’Antichità, Einaudi, Torino 2016, p. 179. 39 Cfr. W. Shirer, Diario di Berlino 1934-1947, Einaudi, Torino 1967, p. 116. 34 35
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indifferenti», pronti a tornare ai loro affari. Vivono in condizioni indecenti, in case sporche e trascurate, spesso infestate da scarafaggi, e trafficano. Non lavorano: trafficano, preferibilmente in strada. Non svolgono alcuna professione utile al bene comune. Goebbels in Michael aveva sostenuto che l’ebreo per «sua natura è portato verso il commercio. Traffica in tutto: abiti, denaro, soldi, partecipazioni minerarie, quadri, libri, partiti e popoli» 40. Anche Henry Ford sottolinea come gli ebrei preferissero impegnarsi nelle attività di scambio commerciale: la «tendenza ebraica – scrive – è stata sempre di trafficare preferibilmente con merci e non con persone» 41. Storicamente gli ebrei polacchi tra il 1935 e il 1939 versavano in difficoltà economiche: «circa un terzo di loro si era ritrovato sulla soglia della povertà o al di sotto di essa e molti di loro sull’orlo della fame» 42. Ma siamo lontani dalla mostruosa caricatura di Der ewige Jude. Sin prima di arrivare al potere Goebbels era convinto che quando gli si fa notare come in fondo gli ebrei sono uomini, lui risponde che anche le pulci sono animali: animali fastidiosi dai quali occorre difendersi 43. La campagna vittoriosa in Polonia ha posto sotto il controllo del Reich una vasta area geografica nella quale risiedono 1.700.000 ebrei 44, spingendo gli occupanti ad adottare «misure ancora più disinvolte nei loro riguardi» 45. Il Ministro della propaganda visita il Ghetto di Łødź e nel diario del 2 novembre 1939 osserva: abbiamo ispezionato tutto accuratamente. Una cosa indescrivibile. Questi non sono più esseri umani, ma animali. Per tale motivo, il nostro compito non è più umanitario, ma chirurgico. Qui occorre prendere provvedimenti e bisogna che siano radicali, intendiamoci bene 46.
Qualche giorno dopo si domanda: «Perché quel cumulo di spazzatura, con tutti i posti che esistono, dovrebbe essere destinato a diventare una Cfr. J. Goebbels, Michael, cit., p. 80. E. Ford, L’ebreo internazionale, cit., p. 19. 42 Y. Bauer, Ripensare l’Olocausto, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, p. 47. 43 Cfr. J. Goebbels, Der Nazi-Sozi. Fragen und Antworten für den Nationalsozialisten, Franz Eher, Monaco 1928, p. 8. 44 Cfr. P. Longerich, Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee, Einaudi, Torino 2018, p. 17. 45 R. Paxton, Il fascismo in azione. Che cosa hanno veramente fatto i movimenti fascisti per affermarsi in Europa, Mondadori, Milano 2005, p. 175. 46 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 52. 40 41
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città tedesca?» (17 novembre 1939) 47. Da Łødź raggiunge Varsavia in automobile. Registra le distruzioni: «questo è un inferno [...] una città ridotta in macerie» e lo sciamare della «popolazione apatica, losca. Persone che strisciano per le strade come insetti. Repellenti e non facili da descrivere» (2 novembre 1939) 48. Somiglia a «una passeggiata in un giardino zoologico fatta in cerca di motivi a sostengo del suo viscerale antisemitismo» 49. Rosenberg è dello stesso avviso: considera la Polonia un «sottile strato tedesco nel quale si cela una materia orribile. Gli ebrei sono quanto di più orribile si possa immaginare. Le città sono ricoperte di sudiciume» (29 settembre 1939) 50. Il 7 agosto del 1941 Goebbels torna sull’argomento: «Gli ebrei sono sempre stati vettori di malattie contagiose. Bisogna stiparli in un ghetto e abbandonarli a sé stessi, oppure liquidarli; altrimenti contamineranno sempre la popolazione sana degli Stati civilizzati» 51. In Der ewige Jude, con il supporto della carta geografica, viene mostrato come gli ebrei provengano dall’Asia. Si sono espansi sulle coste africane, in Europa (prima occidentale, poi orientale), e nel resto del mondo. Successivamente viene ricordato come anche i ratti sono arrivati dall’Asia, diffondendosi nell’intero universo, a causa dei commerci marittimi. Gli ebrei, come i ratti, sono portatori di malattie per una nazione. Si avventano su ogni sua ferita, e la infettano mortalmente. L’ebreo penetra nella società attraverso le ferite di un popolo, consumandone la forza razziale, fino a distruggerlo. Ci è riuscito con l’anima nordica, quasi debellandola. La caricatura mostruosa della vita quotidiana degli ebrei messa in scena nella finzione da Hippler, con la spietata durezza dell’occupazione di Varsavia, finiva per somigliare spaventosamente alla realtà. La lettura binaria – ebreo cattivo/ariano buono – in fondo ricalca alla perfezione l’ideologia nazionalsocialista, «espressione di una biologia, di una idiosincrasia razziale» 52. Tra il 1940 e il 1944 la «più importante differenziazione tra gli abitanti dell’Europa continentale era quella fra Ariani e Semiti» 53. La visione del mondo che sorregge Der ewige Jude è tesa a identificare la razza germanica Ibidem, p. 70. Ibidem, p. 52. 49 G. Knopp, Tutti gli uomini di Hitler, cit., p. 65. 50 A. Rosenberg, Die Tagebücher von 1934 bis 1944, cit., p. 139. 51 J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. II-1, K. S. Saur, Monaco 1996, p. 189. 52 J. Chapoutot, Comprendre le nazisme, cit., p. 80. 53 L. Poliakov, Il mito ariano, Editori riuniti, Roma 1999, p. 17. 47 48
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con l’umanità, e la razza giudaica con il suo orribile e insopportabile contrario. Per questa ragione si insiste sulla rappresentazione dello stereotipo negativo degli ebrei: furbi, vili, crudeli, sporchi, numerosissimi. Criminali. Spesso degenerati e deformi, come comprova la carrellata di volti ripresi in primissimo piano. Lo stereotipo dell’astuzia giudaica è talmente diffuso da finire anche in alcune sequenze del film di produzione americana La casa dei Rothschild (The House of Rothschild, 1934) di Alfred L. Werker (non vengono utilizzate, come sarebbe stato logico, immagini tratte dal film tedesco I Rothschield). Il commento informa che a produrre il film sono stati ebrei americani, quindi senza nessun spirito provocatorio. I numerosi componenti della famiglia Rothschild abitano nel ghetto: mentre stanno consumando un abbondante pasto all’improvviso arriva l’esattore delle tasse. Con rapidità cambiano abito, si mostrano pezzenti, nascondono gli averi, piangono miseria, contrattano al ribasso il dovuto, implorando pietà. E alla fine, ottenuto ciò che vogliono, se la ridono allegramente. Così sfruttano il paese che li ha ospitati è il commento. La seconda sequenza mostra invece il capo-famiglia – Mayer Amschel Rothschild – sul letto di morte che esorta i figli ad emigrare, diventare banchieri e cittadini del paese dove andranno a risiedere: Nathan a Londra, Jakob a Parigi, Salomon a Vienna, Carl a Napoli, Amschel a Francoforte. Per Henry Ford L’ebreo internazionale non domina il mondo per la sua ricchezza, ma perché possiede in sommo grado lo spirito mercantile e imperioso della sua razza e perché può appoggiarsi su una lealtà e solidarietà di razza come non può farlo nessun’altra famiglia umana nel mondo 54.
Ma già prima di Ford il fondatore del moderno antisemitismo francese, Édouard Drumont, alla fine dell’Ottocento aveva accusato la famiglia Rothschild di essere diventata ricchissima, da quando si è stabilita in Francia, senza aver fatto nulla o inventato niente: pertanto l’ingente, colossale fetta di ricchezza è stata sottratta ai francesi 55. E ciò non ha un valore soltanto economico, ma anche antropologico, poiché la potenza capitalistica degli ebrei ha finito per trasformare l’importanza del danaro, non così determinante nella scala valoriale della Francia cattolica 56. Per George Cfr. E. Ford, L’ebreo internazionale, cit., p. 36. Cfr. É. Drumont, La France juive. Essai d’histoire contemporaine, vol. I, Marpon & Flammarion, Parigi 1886, pp. VI-VII. 56 Ibidem, p. XIV. 54 55
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Mosse la «identificazione degli ebrei con il capitalismo finanziario fu tipica dell’intera Europa, così come gli interessi bancari della famiglia Rothschild erano un fatto che interessava tutto il continente» 57. I danni causati dal potere economico dell’internazionale ebraica durante gli anni di Weimar – a parere di Ford – i tedeschi lo hanno sperimentato sulla propria pelle, in maniera dirompente. È stata la rivolta contro tutto. L’agonia della Germania e della cultura tedesca. La degenerazione del sistema politico, sociale e persino artistico. Per l’industriale americano, come spesso accade nella storia, le fortune degli ebrei sono determinate da una guerra 58, e lui non ha dubbi che la Grande Guerra sia stata «opera di giudei» 59, convinto anche che la rivoluzione in Germania «non sarebbe mai scoppiata se gli ebrei non l’avessero preparata» 60. Pertanto, la causa «fondamentale della malattia del corpo nazionale tedesco alligna nell’eccessiva influenza giudaica» 61. Der ewige Jude, esaurita la descrizione dell’ebreo odierno, per rafforzare la sua estraneità rispetto alla civilizzazione tedesca, apre una digressione artistica. Alla bruttezza ebraica è contrapposta la «perfetta e armoniosa plastica delle statue greche, che appaiono in una sequenza in cui il commentatore enumera i tesori culturali minacciati dalla barbarie semita» 62. Alla bellezza classica è succeduta la «degenerazione» artistica, che era stata al centro della celebre mostra sull’«arte degenerata» (Entartete Kunst), inaugurata a Monaco nel luglio del 1937 63. L’esposizione aveva per finalità la denuncia della corruzione, «dell’attacco giudeo-bolscevico contro l’arte tedesca». La raffigurazione del mondo delle avanguardie è il parto di «menti malate»: appunto «degenerate» 64. Alla «degenerazione» artistica con un retroterra politico segue la rappresentazione della «degenerazione» del mondo dello spettacolo nell’età di Weimar. In uno dei manifesti pubblicitari di Der ewige Jude, accanto al tipico ebreo barbuto, con gli occhiali tondi e il cappello, c’è una foto di Peter Lorre (ebreo, di origine ungherese, G. L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 165. 58 Cfr. E. Ford, L’ebreo internazionale, cit., p. 195. 59 Ibidem, p. 8. 60 Ibidem, p. 26. 61 Ibidem, p. 25. 62 J. Chapoutot, Il nazismo e l’Antichità, cit., p. 179. 63 Cfr. Entartete Kunst. Guida alla mostra [1937], Effepì, Genova 2018. 64 Cfr. G. L. Mosse, Beauty without Sensuality/The Exibition Entartete Kunst, in S. Barron (a cura di), Degenerate Art. The Fate of the Avant-Garde in Nazi Germany, LACMA - Harry N. Abrams, Los Angeles-New York 1991, pp. 25-32. 57
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il cui nome è László Löwenstein). Nella carrellata delle oscenità weimariane è inserito un frammento estrapolato dal film di cui Lorre è il protagonista, M (M. Il mostro di Düsseldorf, 1931) di Fritz Lang, nel quale si riflettono due problematiche: l’ossessione della cultura radicale di Weimar per «devianze, omicidi, atrocità e crimine»; e il raggiungimento della criminalità organizzata di «un livello paragonabile a quello di Chicago, soprattutto a Berlino» 65. Una città tedesca è terrorizzata da un maniaco, che adesca e uccide delle bambine. Le autorità di pubblica sicurezza non riescono a fermare l’assassino. L’opinione pubblica esercita una forte pressione, e la polizia è costretta ad effettuare un giro di vite, causando gravi problemi alle attività illegali. Così, al fine di allentare la presa della polizia, le maggiori organizzazioni criminali si mobilitano per catturare l’assassino. Nei bassifondi della città si reclutano malfattori e mendicanti, trasformati in agenti in perenne servizio. E la mobilitazione dà i risultati sperati: il colpevole viene individuato. Un malvivente lo intercetta mentre sta comprando in un negozio della frutta ad una bambina. Si traccia con il gesso sulla mano una M (Mörder, assassino) e poi, fingendo di urtare casualmente il sospetto criminale, gliela stampa sul retro del cappotto, così da poterlo individuare senza margini di errore. Una «contro-società malavitosa» ha colto di «sorpresa la polizia e lo Stato, impotenti, per catturare l’assassino di bambini» 66. Invece di consegnarlo alla polizia, i criminali decidono di processare il mostro. Un tribunale in piena regola viene allestito: ladri, borsaioli, lenoni e prostitute, giudicheranno l’imputato. Il capo dei criminali Schränker, «incarnazione del nazionalsocialismo» 67 (Marc Ferro ricorda come Hitler trovasse affascinante la sua fisionomia e si sforzasse di riprenderne alcuni atteggiamenti) 68, con la sua «eleganza da militante nazionalsocialista, richiede esplicitamente la condanna a morte di M» 69. Lang – consapevolmente o inconsapevolmente – finisce per mostrare un’evidente «empatia» verso il nazionalsocialismo: l’incapacità della polizia di catturare l’assassino finisce per simbolizzare la debolezza dell’ordine democratico liberale e il caos che regna nel paese prima dell’arrivo al potere di Hitler. La criminalità organizzata e il suo capo carismatico
Cfr. R. J. Evans, La nascita del Terzo Reich, cit., pp. 161-162. J. Chapoutot, La legge del sangue, cit., p. 13 67 J. Chapoutot, La révolution culturelle nazie, cit., p. 242. 68 Cfr. M. Ferro, Fait divers et écriture de l’histoire: l’exemple de M le maudit de Fritz Lang, in Id., Cinéma et histoire, Gallimard, Parigi 2005, pp. 255-256. 69 M. Marie, M le maudit, Nathan, Parigi 1989, p. 79. 65 66
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che riesce a catturare l’assassino e per il quale lo spettatore prova inevitabilmente simpatia, può essere considerata l’immagine positiva dell’alternativa offerta dal nazismo all’antico ordine impotente 70.
La città messa in scena da Lang è estremamente moderna e, al tempo stesso, estremamente pericolosa, connotata da disturbante «ambiguità morale» 71. C’è chi ritiene il film la risultante della drammatica e traumatica esperienza della Grande Guerra, le cui ombre sinistre si allungano negli anni di Weimar 72. Chi lo avvicina alla critica della società di stampo brechtiano: anche in L’opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper, 1928) del drammaturgo Bertolt Brecht, viene presentata una «fauna di mendicanti, prostitute, reduci di guerra, poliziotti e capitalisti corrotti» 73. C’è chi, invece, lo ritiene uno dei tanti sintomi della regressione sociale, gravida di sinistri presentimenti, riflessa nello specchio delle opere cinematografiche di quegli anni, anticipazione di «quanto sarebbe accaduto su larga scala se gli uomini non fossero riusciti a liberarsi degli spettri che li inseguivano» 74. Infine, c’è anche chi legge il fervore della popolazione nel mettere le mani sull’infanticida alla luce della pre-hitleriana «mobilitazione totale» (Totale Mobilmachung) 75 di Ernst Jünger 76. Come è stato notato il cinema di Lang del periodo tedesco (dalla fine della guerra all’avvento di Hitler) ha assonanze con il «modernismo reazionario», particolarmente marcate nella sua opera più importante, Metropolis 70 71
273.
S. Sand, Le XXe siècle à l’écran, Seuil, Parigi 2004, p. 240. E. D. Weitz, La Germania di Weimar. Speranza e tragedia, Einaudi, Torino 2008, p.
Con molta probabilità l’assassino di M ha vissuto una traumatica esperienza durante la Grande Guerra. Il regista avrebbe voluto inserire in apertura del film una scena bellica, per indirizzare lo spettatore: cfr. A. Kaes, M, BFI, Londra 2000, pp. 44-46. In un successivo studio Kaes definisce il carattere dell’assassino tipico di un veterano di guerra che ha subito uno «shell shock», trauma psichico determinato dal ravvicinato contatto con una forte deflagrazione, riscontrato in numerosissimi soldati tornati dal fronte: cfr. A. Kaes, Shell Shock Cinema. Weimar Culture and the Wounds of War, Princeton University Press, Princeton 2009, p. 209. 73 E. D. Weitz, La Germania di Weimar, cit., p. 67. 74 S. Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco [1947], Lindau, Torino 2001, p. 284. 75 Jünger pubblicò Die totale Mobilmachung nel 1930, una sorta di manifesto del conservatorismo che accetta la modernità: cfr. E. Jünger, La mobilitazione totale, in «il Mulino», 5, 1985. 76 Cfr. E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007, p. 158. 72
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(1926) 77, modernissima sinfonia dell’orrore che aveva entusiasmato Goebbels, poiché descriveva in modo profetico l’artificiosa riconciliazione, attraverso i sentimenti, tra dominanti e dominati, con l’accettazione da parte di questi ultimi di un potere autoritario che aveva lo scopo di salvaguardare e sviluppare un sistema di sfruttamento economico 78.
L’opera di Lang è la spia di un dibattito culturale e filosofico molto acceso, tra intellettuali di differente orientamento professionale e collocazione politica, sviluppatosi in Germania a cavallo tra l’età guglielmina e Weimar, centrato sui rapporti tra tecnica e cultura. È lo scontro tra il cuore romantico (cultura) del XIX secolo con la mente (tecnica) dei sostenitori delle innovazioni scaturite dalla tecnologia applicata alla produzione industriale nel XX secolo 79. È anche lo scontro, sul piano estetico, tra i sostenitori dell’arte tardo-classica con i furori rivoluzionari dell’avanguardia. Goebbels in un discorso del 15 dicembre 1933 avrebbe chiuso definitivamente la disputa, coniando la formula, associata alla rivoluzione nazionalsocialista, del «romanticismo d’acciaio» 80. La sequenza selezionata da Hippler mostra Lorre in ginocchio, sudato, il volto gonfio, gli occhi fuori dalle orbite, le mani tremanti, la voce stridula. Si discolpa, si dichiara innocente: una forza interna incontenibile lo ha spinto all’assassinio. La propaganda nazionalsocialista aveva martellato sulle «inquietanti descrizioni degli ebrei come assassini di bambini e maniaci sessuali» 81. La finzione viene mescolata, piegata e confusa nella realtà. In prossimità della conclusione di Der ewige Jude vengono montate le immagini su come gli ebrei macellano gli animali, arrecandogli sofferenze spaventose quanto inutili, prossime alla sadica tortura. Uno dei primi provvedimenti del governo nazionalsocialista è stato mettere al bando queste crudeli e incivili usanze:
77 Cfr. V. Sánchez Biosca, Metrópolis: la máquina, la ciudad, la masa y el modernismo reaccionario, in Id., Cine y vanguardias artísticas. Conflictos, encuentros, fronteras, Paidós, Barcellona 2004, pp. 135-136. 78 L. Richard, Nazismo e cultura, Garzanti, Milano 1982, p. 115. 79 Cfr. T. Maldonado (a cura di), Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco tra Bismarck e Weimar, Feltrinelli, Milano 1987. 80 Cfr. J. Goebbels, Il romanticismo d’acciaio [1933], AR, Padova 2015. 81 P. Fritzsche, Vita e morte del Terzo Reich, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 92.
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I rabbini furono costretti a convocare le proprie congregazioni e a imbastire speciali funzioni religiose a beneficio delle cineprese tedesche, le quali penetrarono altresì nei mattatoi ebraici onde immortalare scene della rituale uccisione del bestiame 82.
La conclusione di Der ewige Jude è affidata ad un discorso di Hitler: se gli ebrei faranno deflagrare una nuova guerra mondiale, promette il Führer, sarà la distruzione del giudaismo. Si tratta di un discorso davvero significativo, pronunciato il 30 gennaio 1939 al Reichstag. Un discorso estremamente lungo, quasi due ore, inframmezzato da un breve passaggio, ma lucidamente eclatante: la minaccia di risolvere la «questione ebraica», la definitiva estirpazione dell’etnia ritenuta ostacolo per la realizzazione di una società perfetta popolata da una razza pura. Come ha notato Ian Kershaw, nel discorso si materializza la «profezia» dello sterminio: Le minacce di Hitler contro gli ebrei, che ovviamente egli vedeva alle spalle dei «guerrafondai» inglesi e americani, erano un tentativo di risposta al formarsi, a suo avviso ispirato dagli ebrei, di un’opinione pubblica antitedesca, nonché di pressione, dipingendo gli ebrei quali ostaggi e sicure vittime di una nuova guerra, sulla Gran Bretagna e gli Stati Uniti, per far sì che alla Germania fosse lasciata mano libera 83.
Hitler, una volta al comando della Germania, nei discorsi pubblici ha fatto scarso riferimento alla «questione ebraica»: Durante gli anni Trenta, mentre la sua popolarità raggiunge altezze vertiginose, le dichiarazioni pubbliche di Hitler sulla «questione ebraica» furono meno numerose di quanto non si immagini, e benché indubbiamente traboccanti di odio antiebraico, rimasero mascherate all’interno di discorsi più vasti che riguardavano la plutocrazia occidentale e il bolscevismo 84.
Sull’orlo della caduta totale, in un discorso tenuto il 13 gennaio 1945, Hitler tornerà sul senso della sua missione storica «civilizzatrice»: Io mi sono mostrato leale nei confronti degli ebrei. Ho lanciato loro, alla vigilia della guerra, un ultimo avvertimento. Li ho avvertiti che, se avessero precipitato
R. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, cit., p. 51. I. Kershaw, Il «mito di Hitler», cit., p. 236. 84 Ibidem, p. 235. 82 83
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di nuovo il mondo nella guerra, non sarebbero stati questa volta risparmiati – e i parassiti sarebbero stati definitivamente sterminati in Europa... Noi abbiamo fatto scoppiare l’ascesso giudaico così come gli altri. Le future generazioni ci saranno eternamente riconoscenti 85.
Der ewige Jude è finalizzato a visualizzare nel dettaglio, attraverso l’oggettività della narrazione documentaristica, una sorta di «controtipo razziale» mostruoso, opposto al modello ariano. Il film è un testo di notevole importanza per comprendere l’antisemitismo nazionalsocialista. Innanzitutto, prospetta la disumanizzazione degli ebrei; sottolinea il primato ossessivo dell’economia per la razza ebraica; certifica la realtà della congiura internazionale ebraica; giustifica moralmente l’invasione della Polonia, poiché adesso è possibile mostrare con oggettività il volto vero dell’ebreo, e non quello dell’ebreo tedesco trasformato dal processo di civilizzazione. E tutto ciò porta il sigillo finale nelle parole di Hitler. Il Führer sino ad allora era stato considerato dalla stragrande maggioranza dei tedeschi un «profeta», il leader «inviato dalla provvidenza per unire la Germania e restituirle grandezza» 86. Il «mito di Hitler» efficacemente veicolato dalla propaganda aveva fatto presa nella quasi totalità della classe media, la classe sociale maggiormente frequentatrice di spettacoli cinematografici, accompagnati con grande enfasi dalle attualità dei cinegiornali. Sullo schermo si vedeva realizzata, all’inizio del 1940, la «profezia» annunciata un anno prima: risolveremo definitivamente la «questione ebraica». Der ewige Jude venne rimaneggiato «più volte, rispettando anche i desideri di Hitler. Il pubblico però, nonostante i grandi sforzi propagandistici, ne decretò l’insuccesso» 87, dovuto anche al fatto di essere un documentario, quindi difficilmente programmabile 88. Ma al di là della scarsa diffusione popolare (mentre incontra grande favore tra i funzionari di partito), Der ewige Jude è un testo estremamente significativo, poiché inaugura l’utilizzazione a fini propagandistici del «cinegiornale di guerra», settore nel quale Hippler darà un contributo determinante 89. Una corrispondente americaA. Hitler, Ultimi discorsi, AR, Padova 1988, p. 52. I. Kershaw, Il «mito di Hitler», cit., p. 34. 87 P. Longerich, Goebbels, cit., p. 444. 88 Cfr. D. Culbent, The Impact of Anti-Semitic Propaganda on German Audience: Jew Süss and Wandering Jew (1940), in R. A. Eatlin, Art, Culture, and Media Under the Third Reich, University of Chicago, Chicago 2002, p. 139. 89 Cfr. R. Rother - G. Prokasky (a cura di), Die Kamera als Waffe. Propagandabilder des Zweiten Weltkrieges, et+k, Monaco 2010. 85 86
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na a Berlino, invitata dal Ministero della propaganda alla presentazione riservata alla stampa del primo cinegiornale di guerra, ricorda le grida di gioia dei funzionari presenti «quando apparvero le scene dei contingenti tedeschi che rastrellavano i prigionieri polacchi terrorizzati». La giornalista volle assistere alla successiva programmazione del cinegiornale nelle sale per verificare le reazioni del pubblico: «Le immagini degli ebrei polacchi col caffetano o coi vestiti stracciati, palesemente spaventati da chi li catturava, scatenavano “sghignazzi rumorosi, risate e urla sguaiate”» 90.
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A. Nagorski, Hitler, cit., p. 290.
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III. La costruzione cinematografica del nemico
Come abbiamo visto con Der ewige Jude la propaganda antisemita per immagini rivela un volto nuovo, spietato ed aggressivo. Ma il vero manifesto dell’antisemitismo cinematografico voluto da Goebbels 1 è Süss, l’ebreo, diretto da Veit Harlan 2, «il regista più celebre del Terzo Reich» 3, il cui stile di regia è quello tipico di un «fascista barocco» 4. Il protagonista è un personaggio realmente esistito. Joseph Süss Oppenheimer 5, ebreo secolarizzato dalle illimitate ambizioni, nella seconda metà del Settecento riesce a diventare consigliere politico, uomo di fiducia e responsabile delle finanze del duca Karl Alexander (cattolico in terra protestante) del Württemberg. L’ascesa di Süss è rapidissima, grazie agli incarichi ottenuti, che gli conferiscono un potere personale straordinario. I nemici aumentano di pari passo con l’accrescersi della sua influenza. La morte del sovrano nel 1737 segna il destino del suo consigliere. Süss Oppenheimer viene giustiziato a Stoccarda nel 1738 6.
1 Cfr. C. Hardinghauss, Filmpropaganda für den Holocaust? Eine Studie anhand der Hetzfilme Der ewige Jude und Jud Süß, Tectun, Marburgo 2008, p. 139. 2 Cfr. I. Buchloh, Veit Harlan Goebbels’ Starregisseur, Schöningh, Paderborn 2010. 3 Cfr. P. Cadars - F. Courtade, Le cinéma nazie, cit., p. 64. 4 Cfr. K. Witte, ‘Der Barocke Faschist’. Veit Harlan und seine Film, in K. Corino (a cura di), Intellektuelle im Bann des Nationalsozialismus, Hoffmann und Campe, Amburgo 1980, pp. 150-164. 5 La data di nascita di Süss Oppenheimer, avvenuta ad Heidelberg, è incerta, collocabile tra il 1692 e il 1699. Susan Tegel indica come data di nascita il 1698 e ricostruisce dettagliatamente la biografia di Süss: cfr. S. Tegel, Jew Süss. Life, Legend, Fiction, Film, Continuum, Londra 2011, pp. 1-46. 6 Cfr. P. H. Wilson, War, State and Society in Württemberg 1677-1793, Cambridge University Press, Cambridge 2004.
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A Süss aveva dedicato un voluminoso romanzo storico lo scrittore ebreo-tedesco Lion Feuchtwanger, figlio di un industriale 7. Nato nel 1884 a Monaco 8, Feuchtwanger nel 1917 compone e porta in scena l’opera teatrale Jud Süss 9, ispirandosi ad una novella dello scrittore romantico Wilhelm Hauff 10, la cui raffigurazione di Süss si avvicina più che a un «demonio» a un «despota» 11. Successivamente Feuchtwanger decide di scriverne una nuova versione, questa volta però sotto forma di romanzo, pubblicato nel 1925 12. Nel protagonista della storia, attraverso la finzione, si riflettono le biografie di Walther Rathenau e dello stesso Feuchtwanger, tedesco-ebreo integrato e secolarizzato, colto, raffinato, costretto dagli eventi a scontrarsi con l’antisemitismo montante nella Germania: Feuchtwanger scrisse un prolisso romanzo che cercava di provare le ragioni psicologiche per le quali Süss avrebbe cercato l’autodistruzione. La trama è complicata, e introduce caratteri secondari, il più notevole dei quali è Rabbi Gabriel, che viene considerato l’ebreo errante della leggenda. Feuchtwanger diede inoltre a Süss una figlia, Naemi, che viene alla fine uccisa nel tentativo di sottrarsi agli approcci amorosi del duca. A metà del romanzo, Süss scopre di essere mezzo cristiano, il che crea una nuova serie di problemi; ma alla fine decide che preferisce essere l’ebreo più potente della Germania che uno dei tanti cristiani vicini al vertice. Nell’amarezza che segue alla morte della figlia, egli progetta la distruzione del duca e di sé stesso. Il duca viene ucciso in una guerra pazza che Süss ha provocato. Ormai senza protettore, Süss viene imprigionato ma si rifiuta di riconoscere il suo sangue cristiano, che potrebbe salvargli la vita. Viene così giustiziato, ma prima di morire si risolve ad accettare la consolazione degli insegnamenti del giudaismo 13.
L’uscita del romanzo di Feuchtwanger è accolta con entusiasmo dalla critica e dal pubblico. Il successo è confermato dalla traduzione in svariate Cfr. W. von Sternburg, Lion Feuchtwanger. Die Biographie, Aufbau, Berlino 2014. Cfr. A. Heusler, Lion Feuchtwanger. Müncher - Emigrant - Weltbürger, Residenz, Salisburgo 2014. 9 Cfr. L. Feuchtwanger, Jud Süss. Schauspiel in Drei Akten (Vier Bikder), Forgotten Books, Londra 2018. 10 La novella di Hauff venne pubblicata a puntate sul «Morgenblatt für gebildete Stände» dal 2 al 31 luglio 1828, e come opera singola nel 1891: cfr. W. Hauff, L’ebreo Süss, Bietti, Milano 1932. Sulla novella cfr. S. Tegel, Wilhelm Hauff’s Jud Süss, in Id., Jud Süss, cit., pp. 61-77. 11 Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 76. 12 Cfr. L. Feuchtwanger, Süss, l’ebreo, Modernissima, Milano 1929 (ultima edizione Corbaccio, Milano 2003). 13 D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., p. 207. 7
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lingue 14. Con la conquista del potere da parte di Hitler, Feuchtwanger è costretto a lasciare la Germania. Il 23 agosto del 1933 gli viene ritirata la cittadinanza tedesca e il passaporto, riducendolo così ad «apolide» 15. Ullstein, il suo editore, fa sparire dal mercato tutte le opere, e i libri di Feuchtwanger vengono pubblicamente gettati nei roghi. Goebbels piazza il volto dello scrittore fra gli esempi deteriori della Weimar delle lettere: «La Repubblica si toglie gli abiti da stracciona. Mostra i suoi ingegni e si sorregge sui suoi poeti di corte» 16. Dopo una breve permanenza in Svizzera, per ricongiungersi con la moglie Marta 17, Feuchtwanger si trasferisce in Francia, restandoci fino al 1940. Internato in un campo di prigionia a Milles, nei pressi di Aix-en-Provence 18, l’arrivo dei tedeschi lo costringe ad emigrare di nuovo. A Marsiglia, grazie all’aiuto del consolato americano, indossando un cappotto da donna, occhiali e fazzoletto in testa, riesce a lasciare la Francia. Raggiunge la Spagna, poi il Portogallo e approda finalmente negli Stati Uniti, dove arriva a New York il 5 ottobre 1940 a bordo di una nave dal nome magico, Excalibur. Nel 1941 Feuchtwanger si trasferisce con la moglie in California, dove vi soggiorna sino alla morte, avvenuta a Los Angeles nel 1958. Il successo internazionale di Süss, l’ebreo è testimoniato anche dall’adattamento per lo schermo realizzato nel 1934 dalla casa di produzione Britsch Pathé 19. A dirigere Jew Süss (distribuito negli Stati Uniti con il titolo della traduzione del romanzo: Power), viene chiamato Lothar Mendes, un ebreo tedesco nato a Berlino nel 1894, ed emigrato in Inghilterra. Il ruolo del protagonista è affidato a Conrad Veidt. Veidt è un grande attore tedesco formatosi alla scuola di teatro di Max Reinhardt, molto stimato da Goebbels 20, e forse il volto più celebre dell’espressionismo cinematografico, avendo interpretato il ruolo Cesare, il sonnambulo di Il gabinetto Cfr. S. Tegel, Lion Feuchtwanger’s Jew Süss, in Id., Jew Süss, cit., p. 101. Cfr. R. J. Evans, La nascita del Terzo Reich, cit., p. 450. 16 J. Goebbels, Berlino. Il risveglio [1934], Thule Italia, Roma 2014, p. 86. 17 Cfr. M. Flügge, Die vier Leben der Marta Feuchtwanger, Aufbau, Berlino 2010. 18 Cfr. L. Feuchtwanger, Le diable en France, Librairie générale française, Parigi 2012. 19 Cfr. A. von der Heiden, Der Jude als Medium. Jud Süss, Diaphanes, Zurigo 2005. 20 Dopo aver assistito alla proiezione del primo film sonoro girato da Veidt in Germania, Die Letze Kompanie (1930) di Kurt Bernhardt, Goebbels annota, il 19 marzo 1930, di averlo trovato in grande forma: cfr. J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. I-2/I, K. S. Saur, Monaco 2005, p. 113. Veidt lascerà nel 1933 la Germania, avendo sposato un’ebrea. Goebbels proverà in tutte le maniere a dissuadere l’attore di interpretate il ruolo di Süss nel film di Mendes. 14 15
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del Dott. Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, 1919) di Robert Wiene 21. Il film di Mendes ricalca abbastanza fedelmente il romanzo di Feuchtwanger 22. Süss appare privo di scrupoli, determinato nell’arricchirsi, assetato di potere. E il potere lo ottiene, anche al prezzo di scatenare sentimenti antiebraici. Ma arrivare a sostenere che si tratti di un film dall’aspetto antisemita, come suggerisce Veit Harlan 23, è una esagerazione. Mendes è impegnato a denunciare le persecuzioni degli ebrei, affidandosi alla figura di Süss, ritenuto colpevole per l’appartenenza religiosa e non per i comportamenti. Un cartello iniziale ricorda che la storia è situata in un tempo di brutalità e universale intolleranza nei confronti degli ebrei, vittime di oppressione e boicottaggio. Seguono altri due cartelli: il primo «Alla fine è venuto fuori un uomo che sacrificando tutto alla sicurezza del potere politico ha fatto sì di portare prestigio allo Stato e di buttar giù una volta per tutte le barriere del ghetto»; il secondo: «Joseph Süss Oppenheimer era un uomo fragile. Il suo lavoro rimane incompleto – la sua storia vive». Ad un’analisi obiettiva il protagonista del film di Mendes non suscita alcuna simpatia. È freddo, calcolatore, cinico. Vuole arricchirsi, avere potere per riscattare un’esistenza difficile. Conrad Veidt è bravissimo nel prestare le sembianze ad un personaggio scontroso, vanitoso, spigoloso, calcolatore. Ebreo secolarizzato (scoprirà solo nel finale, seguendo il romanzo di Feuchtwanger, di essere figlio illegittimo di un’ebrea e di un principe protestante), quando gli eventi ormai sono irreversibili e la condanna a morte certa, ritorna alla fede giudaica. La sua morte è ingiusta, ma ha assecondato i voleri del sovrano sciagurato, senza opporre resistenza anche davanti alle più riprovevoli scelleratezze. Süss non si è ribellato, ma ha continuato a prestare i servigi a Karl Alexander, spietato nell’infliggere vessazioni (gabelle ed espropri) alla popolazione. In ciò rispetta il romanzo, nel quale il protagonista «opprime e vessa il popolo alla stessa stregua di ogni altro membro della corte del duca» 24. In una scena verso il finale del
21 Cfr. J. Allen, Conrad Veidt. From Caligari to Casablanca, Boxwood, Pacific Grove 1993. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1941, dopo un periodo trascorso in Inghilterra, Veidt intrepreta il ruolo dell’ufficiale tedesco Strasser in Casablanca (1942) di Michael Curtiz. Muore a Hollywood nel 1943. 22 Cfr. S. Tegel, The British film Jew Süss, in Id., Jew Süss, cit., pp. 119-143. 23 Cfr. V. Harlan, Im Schatten meiner Filme, Siegbert Mohn, Gütersloh 1966, p. 96. 24 T. Carozza, Quel diavolo di Süss, l’ebreo! Emblema dell’antisemitismo, in «Quaderni di cinema», 55, 1997.
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film le effigi del sovrano, «il principe dei rapinatori», e del «maiale» Süss, vengono bruciate in strada. Come ha notato Stuart Hull In verità, con un piccolo lavoro di montaggio, il film avrebbe potuto essere distribuito in Germania come Goebbels lo aveva desiderato ed egli accarezzò quest’idea, cosicché fece proiettare il film molte volte 25.
Nel film di Mendes lo stereotipo dell’«ambiguità» nella rappresentazione dell’ebreo (pur se animato dalle migliori intenzioni) è sin troppo evidente 26, e lo stesso Veidt interpreta Süss «con satanica vivezza» 27. A causa di questa «ambiguità» Jew Süss di Mendes ad un autentico antisemita, François Vinneuil (pseudonimo di Lucien Rebatet) 28, appare certo un’opera di propaganda semita, tipica del teatro e del cinema influenzato dagli ebrei, però complessa, perché se da un lato viene mostrato chiaramente il volto della persecuzione contro l’ebreo, dall’altro lato emerge chiarissima l’inquietante fisionomia dell’ebreo. Vinneuil, personaggio di primo piano nel gruppo delle «muse arruolate» 29, diventerà il critico di maggior spessore e originalità del «nuovo ordine» europeo, famoso per le sue invettive contro registi, attori e letterati ebrei durante gli anni di Vichy. Il protagonista del film di Mendes in fondo per Vinneuil è l’ebreo insinuante, smisuratamente ambizioso, l’ebreo corruttore e che pretende di giustificare le peggiori manovre con il perseguimento di un fumoso sogno di uguaglianza ed equità 30.
La stessa «ambiguità» presente in Jew Süss è individuabile nel lungometraggio americano, voluto da Darryl Zanuck e prodotto dalla Twentieth D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., p. 206. Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 130. 27 D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., p. 206. 28 Lucien Rebatet, giornalista, scrittore e polemista, con lo pseudonimo di François Vinneuil collaborò come critico cinematografico alle testate «L’action française» e «Je suis partout»: cfr. R. Belot, Lucien Rebatet. Le fascisme comme contre-culture, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2015. 29 Cfr. P. Burrin, Les muses enrôlées, in Id., La France à l’heure allemand 1940-1944, Seuil, Parigi 1995, pp. 346-361. Burrin considera «muse arruolate» gli intellettuali francesi, tra cui Rebatet, Louis-Ferdinand Céline, Pierre Drieu La Rochelle e Robert Brasillach (la pattuglia più agguerrita e brillante dei collaborazionisti europei), che si impegnarono nella battaglia filonazista e antisemita durante il periodo dell’Occupazione e di Vichy. 30 F. Vinneuil, Le Juif Süss, in «L’action française», 30 novembre 1934. 25 26
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Century Picture, La casa dei Rothschild di Alfred Werker. L’impianto della produzione è chiaramente orientato per far emergere i pregiudizi antiebraici, ma al tempo stesso lo stereotipo dei banchieri ebrei che controllano la finanza internazionale non solo non è indebolito, ma rafforzato 31. Il cinema hollywoodiano faticherà non poco a rappresentare il nazionalsocialismo come autentico pericolo. La propaganda per immagini, al di là di quanto comunemente ritenuto, fu sorprendentemente tardiva. Anzi, il pianeta hollywoodiano (non immune da venature antisemite) 32 si rivelò attendista, ambiguo e riluttante nello schierarsi apertamente contro la Germania hitleriana, per varie ragioni. I fondatori delle grandi compagnie americane (Fox, Mayer, Zukor, Cohn, Laemmle: tutti ebrei originari dell’Europa orientale) 33 intrattennero rapporti commerciali con i tedeschi, pur se a conoscenza delle pesanti persecuzioni subite dalla comunità ebraica in Germania 34. Il banco di prova era stato il boicottaggio del film All’Ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930) dell’americano Lewis Milestone, tratto dall’omonimo romanzo pacifista Im Westen nichts Neues, scritto da Eric Maria Remarque nel 1929. Il boicottaggio era avvenuto, non è superfluo ricordarlo, tre anni prima dell’ascesa al potere di Hitler: Goebbels interpretò il film come un attacco all’onore dei soldati che avevano combattuto al fronte; si dichiarò convinto che dietro il progetto cinematografico si nascondesse un complotto ebraico. Il suo scopo era dunque impedirne a ogni costo la proiezione a Berlino 35.
La sera del 5 dicembre 1930 circa trecento militanti si recano al cinema Mozart e, iniziata la proiezione, inscenano una gazzarra, indignati dalle immagini che mostrano la disfatta e la ritirata dei soldati tedeschi nella Grande Guerra. La proiezione del film viene interrotta. Goebbels, salito sul palco, tiene un discorso veemente, mentre in sala vengono liberati alcuni topi e lanciate bombe maleodoranti. Ecco cosa annota Goebbels nel diario (il 6 dicembre):
Cfr. B. Urwand, Collaboration, cit., p. 156. Cfr. S. Carr, Hollywood and Anti-Semitism. A Cultural History up to World War II, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 33 Cfr. N. Gabler, An Empire of Their Own, How the Jews Invented Hollywood, Anchor Doubleday, New York 1989. 34 Cfr. B. Urwand, Collaboration, cit., p. 115. 35 P. Longerich, Goebbels, cit., p. 132. 31 32
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In dieci minuti appena, il cinema somiglia a una casa di pazzi. La polizia è impotente. La folla, con determinazione, attacca gli ebrei. È la prima apertura a l’Ovest. «Fuori gli ebrei!» «Hitler sta arrivando!». La polizia simpatizza con noi. Gli ebrei sono piccoli e laidi. Fuori le casse sono prese d’assalto. Le finestre vanno in frantumi. Migliaia di persone si godono questo spettacolo con piacere. La proiezione è sospesa, come la seguente. Abbiamo vinto. Vado a sedermi al caffè con i miei giovani. Ci scambiamo alcune impressioni, nel frastuono: la nostra azione ha davvero funzionato: Poi tengo un discorso a Lichterfelde davanti ad una sala piena. Questa mattina. I giornali non parlano che della nostra protesta. Anche la «Berliner Tageblatt» non osa dire niente contro di noi. La nazione è dalla nostra parte. Dunque: vittoria! 36.
La clamorosa protesta spingerà le autorità a proibire la programmazione del film. Goebbels in un libro di propaganda uscito nel 1934 per celebrare la ricorrenza del primo anno al potere, ricorda il fondamentale avvenimento: La Berlino tedesca si solleva contro l’infamia dello «scandalo Remarque». Essa costringe il governo rosso, attraverso dimostrazioni di massa imponenti e sempre più frequenti, ad accettare il suo volere. Sotto la pressione del Popolo il film deve infine essere tolto dalla programmazione 37.
Il rischio di incappare in ostacoli e proibizioni nella distribuzione di film americani nel mercato tedesco – assai redditizio per i produttori hollywoodiani – convinse prima di tutti Carl Laemmle, produttore per la Universal Pictures di All’Ovest nulla di muovo, che bisognasse «collaborare», trovare un accordo stabile, inaugurato nella fase conclusiva di Weimar e utilizzato successivamente da Hitler 38. «Dopo il giorno in cui Hitler diviene Cancelliere della Germania – scrive Ben Urwand – fino a quello in cui invade la Polonia, i film americani furono estremamente popolari nel Terzo Reich» 39. Come ci informa William Shirer ad un mese dall’invasione della Polonia, a Berlino il romanzo più letto è Via col vento di Margaret Mitchell e il film più visto è Avventura in Cina 40, con Clark Gable come protagonista, programmato da quattro settimane, mentre un film «tedesco viene considerato un successone se resiste per una settiJ. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. I-2/I, cit., p. 298. J. Goebbels, Berlino, cit., p. 145. 38 Cfr. B. Urwand, Collaboration, cit., p. 81. 39 Ibidem, p. 201. 40 Il film è Sui mari della Cina (China Seas, 1935) di Tay Garnett. 36 37
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mana» 41. Dal diario di Goebbels (22 giugno 1941) si evince che lo stesso giorno in cui le truppe tedesche si preparano ad invadere l’Unione Sovietica, nella sua residenza privata viene proiettato in anteprima Via col vento. È presente una delegazione di italiani: il film unanimemente viene ritenuto «molto toccante» 42. A favorire lo spirito di «collaborazione» giocano un ruolo significativo anche la preoccupazione di infastidire o deludere il pubblico americano di origine tedesca, e, infine, la decisione politica di neutralità militare, abbandonata solo dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour (7 dicembre 1941) e la dichiarazione di guerra della Germania agli Stati Uniti (11 dicembre 1941). L’atteggiamento di fondo della politica americana era «neutralista». L’interesse nazionale sarebbe stato garantito soltanto rimanendo fuori dall’instabilità europea. L’influente senatore repubblicano Robert A. Taft, esponente di primo piano del «pensiero realista» («neutralista») riteneva che gli Stati Uniti non avrebbero patito terribilmente se la Germania nazista ce l’avesse fatta a conquistare l’Europa intera, compresa la Gran Bretagna, ciò che dal 1940 i realisti consideravano un approdo certo. Taft non vedeva perché gli Stati Uniti non potessero negoziare su normali linee diplomatiche e commerciare con un’Europa dominata dalla Germania nazista, esattamente come avevano fatto con un’Europa dominata da Inghilterra e Francia 43.
Per queste tre ragioni combinate l’ambasciatore tedesco a Los Angeles, Georg Gyssling, poté costantemente condizionare progetti in definizione e realizzazioni compiute dalle più importanti case produttrici americane. L’anno in cui la «collaborazione» fra Berlino e Hollywood prende una piega diversa è il 1939, quando la Warner realizza Confessioni di una spia tedesca (Confessions of a Nazi Spy) di Anatole Litvak, e la United Artists Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940) di Charlie Chaplin. Si tratta di due compagnie che non hanno nessun interesse economico con la Germania. Chaplin è un indipendente e uno dei fratelli Warner, Jack, in un colloquio avuto con il presidente Franklin D. Roosevelt, ha ricevuto parole di incoraggiamento a proposito di una produzione ostile al nazionalsocialismo. Come è noto la Warner si contraddistinguerà per l’appoggio alla guerra americana (nel 1942 produce, fra l’altro, Casablanca di W. Shirer, Diario di Berlino, cit., p. 131. J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 507. 43 R. Kagan, Superpowers Don’t Get to Retire, in «New Republic», 26 maggio 2014. 41 42
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Michael Curtiz), tanto da far guadagnare a Jack Warner il soprannome di «colonnello» 44. Con l’entrata in guerra tutto cambia. Fritz Lang in apertura di Duello mortale (Man Hunt, 1941) 45 inserisce l’immagine di Hitler nel mirino del fucile di precisione di un cacciatore, pronto a premere il grilletto e fermato soltanto dalla tempestiva reazione di un soldato tedesco 46. Le pressioni governative su Hollywood per una mobilitazione patriottica dello schermo aumentarono. Anche Tarzan e Sherlock Holmes, popolari eroi seriali di film di successo, vennero reclutati per la battaglia. In Il trionfo di Tarzan (Tarzan Triumphs, 1943), prodotto dalla Radio Keith Orpheum (Rko) per la regia di Wihelm Thiele, un gruppo di paracadutisti tedeschi viene mandato nella foresta dove il «re della giungla» tranquillamente dimora. Ma il signore della savana, l’ex campione di nuoto Johnny Weissmuller, naturalmente li sconfigge. Persino Sherlock Holmes, l’investigatore inglese uscito dalla penna di Arthur Conan Doyle, sempre infastidito a muoversi dal rassicurante ambiente londinese, si ritrovò catapultato a Washington per «esigenze belliche», in compagnia dell’inseparabile Watson, in un film della serie prodotta dalla Universal nel 1943, per la regia di Roy William Neil, dal titolo Sherlock Holmes in Washington (Sherlock Holmes a Washington). Holmes è alle prese con una rete internazionale di spionaggio (non ci vuole molta fantasia per identificarla con il nazionalsocialismo, anche perché il capo è un tedesco, che ha lavorato contro la Gran Bretagna nel corso del primo conflitto mondiale), e deve evitare che un prezioso microfilm finisca nelle mani sbagliate. Nel finale del film Holmes e Watson riflettono sull’opportunità dell’alleanza bellica tra ame44 Cfr. B. Thomas, Clown Prince of Hollywood. The Antic Life and Times of Jack L. Warner, McGraw-Hill, New York 1990. 45 Lang dopo il trasferimento negli Stati Uniti è molto attivo nel sostenere le attività ostili al nazionalsocialismo. Oltre a Duello mortale girerà a Hollywood, durante la seconda guerra mondiale, altri tre film di propaganda: Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die!, 1943), Prigioniero del terrore (The Ministry of Fear, 1944) e Maschere e pugnali (Cloack and Dagger, 1945). 46 Dopo l’emigrazione negli Stati Uniti, Lang ha contribuito a costruire la propria immagine di convinto oppositore della Germania hitleriana. Ha più volte dichiarato di essere stato convocato nel 1933 da Goebbels, che gli avrebbe offerto un ruolo di primissimo piano nel nuovo corso nazionalsocialista. Uscito dall’incontro, il giorno stesso, il regista avrebbe raggiunto Parigi, prima tappa del suo esilio. Poi sarebbe emigrato negli Stati Uniti. L’incontro, stando ai diari di Goebbels, è avvenuto il 4 aprile 1933: cfr. J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. I-2/III, K. S. Saur, Monaco 2006, p. 161. Ma Lang lasciò la Germania qualche mese dopo, e vi tornò successivamente, come dimostrano i timbri sul suo passaporto: cfr. P. McGilligan, The Nature of the Beast, Faber & Faber, Londra 1997, pp. 174-185.
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ricani e inglesi (in realtà già realizzata), tessendo un elogio di Winston Churchill, definito difensore della democrazia e della libertà. Il secondo conflitto mondiale, a differenza del primo, toccò profondamente gli Stati Uniti, visto che un decimo della popolazione si trovò impegnato, a vario titolo, nella guerra. Pertanto, la propaganda riservata al fronte interno, con il film di finzione in prima linea, si rivelò molto importante. Abbiamo ricordato come Goebbels in genere preferisse la propaganda indiretta. La sua strategia puntava all’intrattenimento leggero: «divertire la gente era più efficace che diffondere messaggi ideologici» 47. Ma in certe situazioni la propaganda doveva affrontare senza mezzi termini, e con pochi scrupoli, i problemi posti sul campo. È il caso dell’antisemitismo per Süss, l’ebreo. La direzione del film viene affidata a Veit Harlan, nato nel 1899 in una famiglia di artisti berlinesi. Harlan si afferma come attore di teatro negli anni di Weimar (recita sulle scene dell’avanguardia con Max Reinhardt ed Erwin Piscator). Nel 1922 si sposa con un’attrice e cantante di cabaret ebrea, Dora Gerson, dalla quale divorzierà due anni dopo 48. Harlan si risposa con l’attrice viennese Hilde Körner, dalla quale ha tre figli, tra cui Thomas, nato nel 1929 49. Successivamente, nel 1939, sposerà l’attrice Kristina Söderbaum, con la quale lavorerà a lungo 50. A partire dal 1933 Harlan, che aveva manifestato fino a quel momento pubbliche simpatie per gli ambienti della sinistra weimariana, si converte al nazionalsocialismo, iniziando una brillante carriera cinematografica, prima come attore e poi come regista. Il 20 aprile 1933, compleanno di Hitler, al Teatro di Stato P. Sorlin, Ombre passeggere, cit., p. 65. Dora Gerson, nata nel 1899, dopo aver divorziato da Harlan si sposerà con un ebreo. Morirà insieme al marito e ai figli nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943. 49 Thomas Harlan, morto nel 2010, è stato drammaturgo, regista e scrittore. In un libro di memorie accusa il padre innanzitutto di aver abbandonato la madre (per ragioni politiche legate alla sempre più convinta adesione di Harlan al regime nazionalsocialista) e i suoi tre figli (Thomas, Maria e Susanne: queste ultime due hanno rifiutato il cognome Harlan), senza averli mai aiutati economicamente, nonostante navigasse nell’oro. Inoltre, lo accusa di non aver mai detto la verità sulle sue simpatie politiche, di aver mentito addossando tutte le responsabilità a Goebbels per la realizzazione di Süss, l’ebreo, e di non aver mosso un dito per salvare dalla morte certa la prima moglie Dora Gerson e la sua famiglia: cfr. T. Harlan, Veit, Rowohlt, Reinbek 2011. 50 Harlan e Kristina Söderbaum (nata a Stoccolma nel 1922) resteranno insieme fino alla morte del regista, avvenuta a Capri nel 1964, durante una vacanza. Harlan, convertitosi al cattolicesimo, è sepolto a Capri. Le spese del funerale furono pagate da Christiane Harlan Kubrick, nipote di Harlan e moglie del regista Stanley Kubrick (che avrebbe voluto fare un film sulla vita del regista tedesco). Dopo la morte del marito, Kristina Söderbaum è diventata una fotografa ed è deceduta nel 2001. 47 48
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di Berlino debutta Schlageter, dramma nazionalista. Il Führer è in prima fila a vedere lo spettacolo patriottico. Sul palcoscenico recita Veit Harlan, insieme a Albert Bassermann ed Emmy Sonnemann. È un trionfo. Ma il dramma acquista una vasta risonanza, oltreché per l’entusiasmo di Hitler, per un’altra ragione: il personaggio interpretato da Harlan ad un certo momento pronuncia questa frase: «Quando sento la parola “cultura”, tolgo la sicura alla mia Browning»: La battuta sembrava condensare l’atteggiamento nazista nei confronti delle arti e presto la frase si diffuse, avulsa dal suo contesto originale. In breve fu attribuita a vari capi nazisti, in particolare a Hermann Göring, e nel processo di passaparola venne semplificata in una formula più immediata, del tutto apocrifa ma che conquistò grande popolarità: «Quando sento la parola “cultura”, afferro la pistola» 51.
Harlan inizia a frequentare assiduamente Hermann Göring e Julius Streicher. Streicher (giustiziato a Norimberga nel 1946), nazionalsocialista della prima ora e Gauleiter della Franconia, era proprietario e direttore del periodico «Der Stürmer» (costantemente letto da Hitler) 52, pubblicazione antisemita dalle venature spesso scollacciate. Per questa ragione si era guadagnato il titolo di «pornografo del Terzo Reich». Sulle pagine del giornale accusava regolarmente gli ebrei di stupro e dello sfruttamento delle ragazze tedesche come prostitute; resuscitò la calunnia medievale secondo cui rapivano i bambini tedeschi per impiegarli nelle loro uccisioni rituali; affermò perfino che gli ebrei cercavano deliberatamente di avvelenare il sangue delle donne tedesche attraverso il sesso 53.
Il rapporto privilegiato con Goebbels consente ad Harlan di diventare uno dei cineasti di riferimento del Terzo Reich, peraltro molto prolifico e ben remunerato. Tra il 1935 e il 1945 dirige una ventina di lungometraggi (di alcuni è anche produttore), con grande successo di pubblico 54. Lo scrittore francese Michel Tournier, introducendo il romanzo Mephisto di R. J. Evans, La nascita del Terzo Reich, cit., p. 452. Cfr. M. Burleigh, Il Terzo Reich. Una storia vera, Rizzoli, Milano 2013, p. 251. 53 R. S. Wistrich, Hitler e l’Olocausto, cit., pp. 67-68. 54 Cfr. F. Noack, Veit Harlan. The Life and Work of a Nazi Filmaker, The University Press of Kentucky, Lexington 2016. 51 52
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Klaus Mann (storia di un artista dell’avanguardia weimariana vendutosi al nazionalsocialismo) 55, indica in Veit Harlan il ritratto dell’arrivismo e dell’amoralità, paragonabile in tutto e per tutto all’attore e regista Gustaf Gründgens 56 (che Klaus Mann conosceva bene, avendone Gründgens sposato la sorella gemella), modello di ispirazione per la storia di Mephisto. Tournier non ha dubbi sulla identificazione tra Gründgens (e quindi Harlan) e il protagonista del romanzo di Mann: il personaggio creato da Klaus Mann va definitivamente oltre questo dettaglio. Mi si perdoni un’osservazione personale. Ho visto Gründgens in scena, non l’ho conosciuto personalmente. Ho in compenso frequentato da vicino un altro uomo di spettacolo della sua generazione, molto più compromesso con il Terzo Reich, il cineasta Veit Harlan […]. È a lui che penso sempre quando rileggo Mephisto. Ritrovo nel personaggio la sua vitalità, la sua seduzione, la sua ingenuità sincera, lo strano connubio di una personalità eclatante e di un carattere abbastanza debole e nell’ultima frase del romanzo sembra di sentire le esclamazioni di Veit Harlan rivendicando, durante il suo processo per crimini di guerra, l’impunità del buffone di corte 57.
Harlan nelle memorie nega innanzitutto di essere stato un nazionalsocialista, e respinge ogni responsabilità antisemita: Süss, l’ebreo gli sarebbe stato imposto 58. Goebbels, sempre più convinto che sia giunto il momento di imprimere alla propaganda cinematografica un deciso indirizzo antisemita 59, ritiene la «questione ebraica» uno snodo storico ineludibile (scrive nel diario del 5 dicembre 1939: «Noi dobbiamo liquidare il Pericolo Ebraico») 60. Harlan si definisce una vittima di Goebbels 61. Lo dimoCfr. K. Mann, Mephisto. Romanzo di una carriera [1936], Feltrinelli, Milano 2006. Nel 1980 il regista ungherese István Szabó ha realizzato una riduzione per il cinema con lo stesso titolo. 56 Gustaf Gründgens aveva interpretato la parte di Schränker nel film M di Fritz Lang. Klaus Mann si innamorò perdutamente dell’attore, noto per la sua omosessualità. Gründgens trovò in Hermann Göring, primo ministro di Prussia, il suo principale protettore. Hitler, invece, detestava le sue interpretazioni. 57 M. Tournier, Introduction, in K. Mann, Méphisto, Grasset, Parigi 1993, p. 9. 58 Anche la moglie di Harlan, Kristina Söderbaum, nelle memorie conferma le pressioni esercitate da Goebbels, ammettendo però che nessuno si oppose: cfr. K. Söderbaum, Nichts bleibt immer so. Rückblenden auf ein Leben vor und hinter der Kamera, Hestia, Bayreuth 1983, pp. 12-14. 59 Cfr. S. Tegel, Nazis and the Cinema, cit., p. 129. 60 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 81. 61 Harlan sostiene che Goebbels, sapendo del divorzio del regista, voleva fargli sposare per pura forma Lída Baarová. L’attrice sposando Harlan avrebbe ottenuto la cittadinanza 55
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strerebbe il fatto che cercò in tutte le maniere di rifiutare la regia del film, provando anche ad arruolarsi volontario per il fronte. Ma ogni tentativo fu vano. Alla fine, dovette cedere al volere di Goebbels, e cercò di tenergli testa, battendosi per limitare le punte più fastidiose di antisemitismo. Nel diario di Goebbels del 1938 viene annotata una lunga conversazione avuta con Harlan in casa di quest’ultimo (11 febbraio) 62. Seguono un pranzo (il regista sta «molto simpatico» al ministro: 14 febbraio) 63, una cena (13 marzo) 64 e una riunione di lavoro, nel corso della quale Harlan si lamenta dei comportamenti dell’attore Emil Jannings. Goebbels concorda sulla negatività dell’attore (14 aprile) 65. In seguito, il regista e l’attore hanno una forte divergenza di opinioni, e Goebbels suggerisce ad Harlan di desistere (8 giugno) 66. Nella seconda metà del 1938 Goebbels è molto provato per la relazione con Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza quando era fidanzata con l’attore Gustav Fröhlich, e sta vivendo l’amore più profondo della sua vita 67. Dal diario non traspare nulla della relazione. Si capisce bene, però, che la vita familiare del ministro è turbata, e che i rapporti con la moglie Magda (la «compagna del diavolo» 68, sposata nel 1931, con Hitler loro testimone di nozze) sono tesissimi. Lo scandalo suscitato è notevole. Rosenberg nel corso di un colloquio con Heinrich Himmler nel dicembre del 1938, considera Goebbels il più pesante fardello morale del nazionalsocialismo. «Prima ce la prendevamo – scrive – con i direttori di tedesca, non correndo più il rischio di essere allontanata dalla Germania. Harlan si rifiutò. Goebbels per l’affronto gli giurò vendetta. La «vendetta» si riassunse nella produzione di ben otto film, realizzati da Harlan dal 1940 al 1945, tutti finanziati da Goebbels: cfr. V. Harlan, Die Baarova-Affäre, in Id., Im Schatten meiner Filme, cit., pp. 82-86. Un bel modo per fargliela pagare. 62 Cfr. J. Goebbels, Diario 1938, cit., p. 6. 63 Ibidem, p. 9. 64 Ibidem, p. 62. 65 Ibidem, p. 117. 66 Ibidem, p. 193. 67 La praghese Ludmilla Babková aveva assunto il nome d’arte di Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, allora ventunenne, nel 1936. Goebbels vorrebbe divorziare dalla moglie Magda. Hitler, che per Magda ha una vera e propria venerazione, non approva il divorzio, né è disposto ad accettare altre vie di compromesso. L’attrice di fatto viene esiliata: cfr. S. Moti, Lída Baarová und Joseph Goebbels, Eminent, Praga 2009. La stessa Baarová ha fornito la sua versione della relazione con Goebbels nelle memorie: cfr. L. Baarová, Die Süsse Bitterkeit meines Lebens, Kettermann und Schmidt, Coblenza 2000. 68 Cfr. A. M. Sigmund, Magda Goebbels. La primadonna del Terzo Reich, in Id., Le donne dei nazisti, Corbaccio, Milano 2003, pp. 71-96.
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fabbrica ebrei che stupravano le loro dipendenti. Adesso a farlo è il dottor G. [Goebbels]» 69. Himmler lo mette al corrente che ha parlato con Hitler, intenzionato a ristabilire l’ordine famigliare. La rottura con Lída Baarová fa sprofondare Goebbels in una grande tristezza: la fine del loro amore rappresenta la fine della giovinezza. Goebbels è entusiasta del film di Harlan La peste di Parigi (Verwehte Spuren, 1938): «impresa riuscitissima, piena di slancio e di brio», 16 giugno) 70, che piace anche al Führer (26 luglio) 71. Decide di inviarlo a Venezia in occasione della sesta edizione della Mostra del cinema (16 luglio) 72. Menziona anche i problemi del regista con la ex-moglie (il ministro consiglia all’amico di comportasi da gentiluomo: 15 settembre) 73. Goebbels dimostra simpatia e stima professionale nei confronti di Harlan. Ma, all’occorrenza, usa toni severi e perentori. Il 1° giugno 1941 scrive: Il grande re (Der Große König, 1942) di Harlan. Un fallimento completo. Manca di atmosfera. Proprio l’opposto di quello che volevo e mi aspettavo. Un Federico il Grande assolutamente banale. Sono molto deluso 74.
E visto che le sollecitazioni da parte del ministro di apportare al film significativi rifacimenti non sembrano sortire nessun effetto sul regista, conclude: «se necessario lo sostituirò» (6 giugno 1941) 75. Harlan, ad un’analisi oggettiva della sua produzione, è il maggior propagandista cinematografico del nazionalsocialismo. L’ultima sua realizzazione, un kolossal ad altissimo costo mentre il Terzo Reich sta crollando, è La cittadella degli eroi (Kolberg, 1945) 76. Ancora una volta il regista cerca l’assoluzione imputando a Goebbels la responsabilità del prodotto 77. La cittadella degli eroi è un esplicito Cfr. A. Rosenberg, Die Tagebücher von 1934 bis 1944, cit., p. 210. Cfr. J. Goebbels, Diario 1938, cit., p. 235. 71 Ibidem, p. 246. 72 Ibidem, p. 235. 73 Ibidem, p. 313. 74 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 472. 75 Ibidem, p. 477. 76 Cfr. F. Spadini, Il colossal del collasso. Veit Harlan La cittadella degli eroi (1945), in M. Galli (a cura di), Da Caligari a Good Bye, Lenin!, Le lettere, Firenze 2004, pp. 187210. La copia del film, in versione originale con i sottotitoli italiani, è allegata ad un libro: A. Cucchi, Kolberg - La cittadella degli eroi, Effepì, Genova 2013. 77 Harlan sostiene che Goebbels già nel 1941 avesse in mente di produrre La cittadella degli eroi. Retrodatando l’origine del progetto finisce annullata l’interpretazione ideologica del film, che resterebbe comunque un’opera di propaganda, appartenente al genere storico, privata però 69 70
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appello alla difesa popolare contro l’invasore. Goebbels, nel precipitare degli eventi, si era appropriato di un’idea del generale Erich Ludendorff, eroico comandante supremo della Grande Guerra e militante nazionalsocialista della prima ora (era al fianco di Hitler nel fallimento putsch di Monaco nel 1923): la «guerra totale». Nella guerra moderna, come Ludendorff indicava in un suo saggio, era diventata imprescindibile la coesione tra esercito e popolo. Era questo il suo concetto di «guerra totale»: una battaglia per la vita, dove si può soltanto vincere o perdere tutto 78. La «guerra totale» viene evocata da Goebbels in un infiammato discorso tenuto allo Sportpalast il 18 febbraio 1943, davanti a 20.000 presenti. Pochi giorni prima (il 30 gennaio) nella stessa sede si erano tenute le celebrazioni per il decennale della salita al potere di Hitler. Il Führer dal quartier generale aveva inviato un proclama (a partire dal settembre 1942 le apparizioni pubbliche di Hitler erano sempre meno frequenti) 79. Göring e Goebbels pronunciano discorsi pieni di incognite sul futuro del conflitto, ma comunque rassicuranti. Goebbels è meno vago: «Se fino ad ora abbiamo parlato più volte della guerra di popolo, ora siamo decisi ad attuarla realmente. Il totale sforzo bellico significa rinuncia a tutte le comode abitudini borghesi» 80. Il fronte sovietico sta crollando, e occorre motivare la popolazione, smarrita per la dolorosa quanto inaspettata sconfitta. La propaganda ha dato per certa e imminente la vittoria a Stalingrado; poi, di colpo, l’annuncio della disfatta, catastrofica. Il 31 gennaio contravvenendo agli ordini di Hitler il capo delle truppe tedesche, il feldmaresciallo Friedrich Paulus, si era arreso. I prigionieri ammontavano a 100.000 (solo 6.000 tornarono a casa finita la guerra) 81, e per svariati giorni la popolazione tedesca temette che fossero morti tutti, a causa dei contraddittori e fuorvianti ragguagli sull’esito della battaglia forniti dagli organi di informazione. «Mentre altri personaggi di spicco cercavano di defilarsi – osserva Guido Knopp – e in una fase in cui Hitler smise quasi di parlare in pubblico, l’irrequieto agitatore si impegnò in un attivismo frenetico» 82. Goebbels sa quali corde deve toccare dall’incitamento a resistere sino alla fine alla popolazione civile, come Goebbels non si stancherà di richiamare nei suoi discorsi: cfr. V. Harlan, Im Schatten meiner Filme, cit., p. 182. 78 Ludendorff accusava gli ebrei e la Chiesa di Roma di aver approfittato della crisi seguita alla sconfitta tedesca per alienare completamente il consenso popolare all’esercito: cfr. General Ludendorff, Der totale Krieg, Ludendorffs Verlag, Monaco 1935, pp. 11-28. 79 Cfr. R. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, cit., p. 465. 80 Il proclama del Führer e i discorsi di Goering e Goebbels. 30 gennaio 1943. Decennale dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo, Canella, Roma 1943, p. 57. 81 Cfr. R. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, cit., p. 386. 82 G. Knopp, Tutti gli uomini di Hitler, cit., p. 73.
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nell’arena gremita dello Sportpalst. «Stalingrado – dice – è stata ed è il grido d’allarme della nazione tedesca!» 83. Il bolscevismo sta minacciando non solo la Germania, ma l’Europa intera e il nazionalsocialismo è la sola e unica diga all’internazionale ebraica. La situazione incandescente richiede al popolo intero uno sforzo immenso: la «guerra totale», la guerra «più radicale e anche la più breve» 84. Goebbels ricorda l’imperatore Federico II: sette anni di guerra, cinque milioni di prussiani contro novanta milioni di europei, il baratro della disfatta e infine la vittoria 85. In conclusione del discorso – interrotto da scroscianti applausi ben duecento volte 86 – Goebbels si rivolge direttamente ai presenti, toccando corde liturgiche. Pone dieci domande, tra cui una, determinante: «volete la guerra totale? La volete voi, se necessario, più radicale di quanto possiamo oggi immaginare?» 87. «Ja» fu la risposta generale, con toni da acclamazione. Il ministro della «guerra totale» con questo discorso inaugurò un nuovo stile oratorio, abbandonando la consueta eleganza per una feroce urgenza di sfogo […]. Come si proponeva, pian piano portò la folla a un tal grado di entusiasmo collettivo, che le sue grida divennero parte integrale dello spettacolo 88.
La cittadella degli eroi è, fra i film di esplicita propaganda bellica prodotti tra l’apertura e la fine della guerra, il «progetto preferito» 89 da Goebbels. L’«affresco colossale» 90 dal «budget illimitato» 91 di Harlan – a metà tra Via col vento (per gli splendidi colori della pellicola Agfa) e un film ideologico di Ejzenštejn, dove guerra nazionale e amore si intrecciano (e l’amore anche stavolta ha il volto di Kristina Söderbaum) – rievoca un evento storico realmente accaduto: Nel 1806, dopo le battaglie di Jena e di Austerlitz, le armate napoleoniche cancellarono quasi la Prussia dalla carta geografica. La piccola città fortificata di Kolberg era l’ultimo ostacolo che si opponeva alla completa vittoria dei francesi 92. J. Goebbels, Il dottor Goebbels allo Sportpalast di Berlino, il 19 [18] febbraio 1943, Canella, Roma 1943, p. 4. 84 Ibidem, p. 22. 85 Ibidem, pp. 37-38. 86 Cfr. R. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, cit., p. 391. 87 J. Goebbels, Il dottor Goebbels allo Sportpalast di Berlino, cit., p. 41. 88 Cfr. R. Manvell - H. Fraenkel, Vita e morte del dottor Goebbels, cit., p. 280. 89 P. Longerich, Goebbels, cit., p. 540. 90 Cfr. V. Harlan, Im Schatten meiner Filme, cit., p. 184. 91 Ibidem, p. 184. 92 D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., 327. 83
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La storia patria tedesca non aveva mai dato grande risonanza a questo avvenimento, anche perché alla fine dell’assedio, nonostante l’eroica difesa, Napoleone aveva piegato la resistenza. Nel film voluto da Goebbels, naturalmente, l’assedio francese in conclusione viene tolto. Una piccola falsificazione storica, dettata dalla propaganda. In La cittadella degli eroi il borgomastro della città Nettelbeck – interpretato da Heinrich George, salito alla ribalta negli anni di Weimar per aver recitato in Metropolis 93 – si erge a difensore supremo della città, interpretando il sentimento popolare. L’unica salvezza per Kolberg era la capitolazione (come vogliono i militari) o la mobilitazione della popolazione civile (come vuole Nettelbeck). Per Harlan Goebbels si riconosceva nella figura di Nettelbeck 94. È molto probabile, poichè il film «doveva essere il testamento cinematografico di Goebbels, il suo ammonimento di celluloide ai tedeschi del futuro» 95. La struttura narrativa dell’ultima grande produzione della cinematografia nazionalsocialista è una compatta successione di manifestazioni popolari, battaglie colossali, inondazioni, incendi, edifici in rovina e, soprattutto, l’esaltazione della stoica condotta della popolazione civile, schiacciata nelle sue abitazioni, martellata dalle cannonate nemiche, disposta però a resistere sino all’ultimo respiro per la Germania 96.
Per la realizzazione di La cittadella degli eroi furono impiegati 187.000 soldati, su ordine del Führer, al fine di rendere mastodontiche le scene di guerra e il più credibile possibile la rivisitazione patriottica del mito della resistenza popolare. «Persino nella fase terminale del regime, il primo posto spettava alla propaganda» 97. Una massa ordinata di cittadini, imponente e festante, è mostrata in apertura del film. È quanto avrebbe sognato Goebbels per l’ultima difesa di Berlino accerchiata dai russi, dove il film venne proiettato il 30 gennaio 1945 (solo in due sale, poiché le altre erano impraticabili), in contemporanea con La Rochelle, città francese ancora occupa93 Heinrich George, nato nel 1893, negli esordi della carriera era stato un militante comunista, successivamente convertitosi al nazionalsocialismo. Nei primi mesi del 1945 si reca a Kolberg per l’anteprima del film. Dopo la caduta della città viene fatto prigioniero dai sovietici, e internato nel campo di prigionia di Sachsenhausen, vicino Berlino, dove muore nel settembre 1946. 94 Cfr. V. Harlan, Im Schatten meiner Filme, cit., p. 181. 95 D. S. Hull, Il cinema del Terzo Reich, cit., 277. 96 R. de España, El cine de Goebbels, Ariel, Barcellona 2000, p. 163. 97 I. Kershaw, Hitler 1936-1945, cit., p. 1096.
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ta dai tedeschi (liberata due settimane dopo dagli americani) 98. La battaglia persa a Stalingrado – «grande segnale d’allarme del destino» – aveva convinto Goebbels del fatto che i popoli, in prossimità della disfatta, combattono privi di scrupoli 99. Nelle immagini di La cittadella degli eroi gli sembrava di rivedere l’eroica vigoria degli antichi guerrieri spartani (4 aprile 1945) 100. Nel film di Harlan confluiscono numerose tematiche propagandate da Goebbels durante la fase finale del conflitto: «diffidenza del partito verso l’esercito, il populistico appello a radunarsi intorno alla bandiera, la fede nel sacrificio, lo stoicismo del popolo innanzi a morte e distruzione» 101. Nel suo ultimo proclama ai berlinesi, a pochi giorni dalla fine, Goebbels affermava che La città di Berlino viene difesa fino all’ultimo. Combattete con fanatico accanimento per le vostre mogli, i vostri figli, le vostre madri [...]. Il vostro Gauleiter è in mezzo a voi [...]. Con duecento uomini conquistò la città e condurrà con ogni mezzo la difesa della capitale del Reich 102.
Nel marzo del 1945, in prossimità dell’imminente arrivo delle armate sovietiche, si decide di evacuare Kolberg. Nel diario del 19 marzo 1945 Goebbels così commenta la notizia: Siamo stati obbligati ad abbandonare Kolberg. Dopo essere stata difesa con un eroismo straordinario, la città ha dovuto arrendersi. Sto arrangiandomi affinché la caduta di Kolberg non appaia nei comunicati del Comando supremo della Wermacht. Non abbiamo bisogno di questo per il momento, considerando le forti conseguenze psicologiche che si potrebbero avere per il film su Kolberg 103.
Per Goebbels era davvero troppo: si rifiutava di «accettare che la realtà avesse superato la propaganda» 104.
Cfr. R. Glesen, Nazi Propaganda Film. A History and Filmography, McFarland, Jefferson 2003, p. 174. 99 Cfr. J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. II-7, K. S. Saur, Monaco 1993, p. 449. 100 Cfr. J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. II-15, K. S. Saur, Monaco 1995, p. 676. 101 E. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, cit., p. 526. 102 J. Goebbels, Proclama di Goebbels al popolo di Berlino il 23 aprile 1945, in Id., La conquista di Berlino, cit., pp. 191-192. 103 J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. II-15, cit., p. 542. 104 P. Longerich, Goebbels, cit., p. 541. 98
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IV.
Süss, l’ebreo: «il primo autentico film antisemita»
Veit Harlan diresse con estremo rigore stilistico una vicenda vera, piegando la narrazione alle ragioni del più genuino antisemitismo 1. Non lavora sul nulla, ma fa ricorso alla lunga tradizione letteraria antiebraica, già presente nella novella di Hauff, autore di un Süss privo di scrupoli e amorale 2. Si serve della collaborazione di Wolfgang Eberhard Möller e Ludwig Metzger per la stesura della sceneggiatura. Varie fonti sostengono che per la costruzione del racconto cinematografico è stato fatto ricorso, in maniera diretta o indiretta, all’opera di Feutchwanger 3. Ma come è stato opportunamente notato «è improbabile che Harlan e i suoi collaboratori abbiamo usato spunti tratti dalla lettura del romanzo» 4. Goebbels segue il progetto personalmente, con la massima attenzione. Annota nel diario (5 dicembre 1939): Discusso il film Süss, l’ebreo con Harlan e Möller. Harlan, che lo deve dirigere, ha un mucchio di idee nuove. Sta rielaborando ancora una volta il copione 5.
E successivamente: «Il film Süss, l’ebreo, in particolare, è stato riscritto stupendamente da Harlan. Sarà questo il film antisemitico...» (15 dicembre 1 Goebbels nel diario annota il 9 novembre 1939 di aver letto in volo per Monaco la sceneggiatura di Möller, e di averla trovata davvero ragguardevole: Süss, l’ebreo a suo avviso «è riuscito molto bene. Il primo autentico film antisemita»: cfr. J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 60. 2 Cfr. S. Tegel, Wilhelm Hauff’s Jud Süss, in Id., Jew Süss, cit., pp. 61-77. 3 Cfr. R. J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, cit., p. 524. 4 T. Carozza, Quel diavolo di Süss, l’ebreo! Emblema dell’antisemitismo, in «Quaderni di cinema», 55, 1997. 5 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 81.
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1939) 6; «Il film Süss, l’ebreo sta andando avanti» (29 dicembre 1939) 7; «Ho parlato con Marian [l’attore protagonista] 8 di Süss, l’ebreo. Egli non è ancora del tutto sicuro di voler recitare la parte dell’Ebreo. Ma, con un po’ di aiuto, io riesco a persuaderlo» (5 gennaio 1940) 9; «Provino di Marian, in Süss, l’ebreo. Eccellente...» (18 gennaio 1940) 10; «discuto di questioni cinematografiche con Göring. Egli mi promette il suo appoggio per il film Süss, l’ebreo» (2 febbraio 1940) 11. Süss, l’ebreo, girato negli studi Ufa a Babelsberg e a Praga tra marzo e giugno del 1940 12, prodotto da Terra Film, ha una durata complessiva di 97 minuti (2663 metri di lunghezza della pellicola) 13. Si apre con l’inquadratura di una stella di David. Di seguito scorrono i titoli di testa, montati su immagini di una funzione religiosa ebraica. Poi seguono due cartelli: il primo avverte gli spettatori che i fatti narrati sono storicamente accaduti; il secondo invece mostra una cartina geografica che indica l’anno (1733) e la città epicentro degli avvenimenti (Stoccarda) 14. Il racconto cinematografico prende avvio con l’immagine del duca Karl Alexander (Heinrich Georg), salito sul trono del Württemberg dopo la morte del padre: giura di servire la Costituzione e di garantire la prosperità dei sudditi. Festeggiamenti popolari in strada mentre il duca saluta dalla carrozza. Dorothea Sturm (Kristina Söderbaum) canta mentre il suo fidanzato Faber (Malter Jæger) sta suonando il piano. Si baciano. Vengono interrotti dall’arrivo del consigliere Sturm (Eugen Klöpfer), padre di Dorothea, rin-
Ibidem, p. 89. Ibidem, p. 101. 8 Ferdinand Marian (il vero nome era Ferdinand Haschkowetz), nato a Vienna nel 1902, venne scelto dopo l’indisponibilità di Gustav Gründgens e di altri attori: cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 163. Sulla vita e la carriera cinematografica di Marian cfr. F. Knilli, Ich war Jud Süss. Die Geschichte des Filmstars Ferdinand Marian, Henschel, Berlino 2000. Marian morì nel 1946 in un incidente automiblistico. 9 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., pp. 111-112. 10 Ibidem, p. 125. 11 Ibidem, p. 140. 12 Cfr. C. Schönfeld, Lion Feuchtwanger and Veit Harlan: Jud Süss, in I. Wallace (a cura di), Feuchtwanger and Film, Peter Lang, Berna 2009, p. 137. 13 Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 172. 14 La lettura strutturale qui proposta lo scompone in 54 sequenze. François Garçon, invece, lo suddivide in 58 sequenze, per un totale di 607 piani: cfr. F. Garçon, Cinéma et histoire: les trois discours de Juif Süss, in «Annales. Économies Sociétés Civilisations», 4, 1979. 6 7
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casato per il pranzo domenicale. Prima di iniziare il pasto i tre brindano in onore del nuovo sovrano. Al castello il duca promette alla moglie un importante regalo, e poi insieme si affacciano al balcone per salutare il popolo. L’ultima inquadratura è fissata sullo stemma monarchico. L’azione si sposta nel ghetto ebraico fuori le mura della città. L’immagine si ferma sulla scritta in ebraico posta nell’entrata della bottega di Joseph Süss Oppenheimer (Ferdinand Marian). Von Remchingen (Theodor Loos), uomo di fiducia di Karl Alexander, si reca nel ghetto per acquistare il regalo promesso dal duca alla moglie. Due ebrei sono incuriositi dalla inaspettata presenza: il più giovane osserva che se Süss presterà il danaro se lo riprenderà con tantissimi interessi. Süss viene inquadrato in primo piano: apre un forziere ricolmo di oro e gioielli. Mostra una corona incastonata di gemme. Ma è un oggetto impossibile da acquistare per le esigue finanze del duca. Süss lo ripone ed estrae una lunghissima collana di perle. Von Remchingen, sentito il prezzo, dice che è troppo cara. Süss gli propone un accordo: la pagherà un quinto del valore in cambio di un salvacondotto per circolare liberamente in Stoccarda, dove gli ebrei non possono entrare. Von Remchingen non vede grandi ostacoli, ma Süss dovrà tagliarsi la barba e indossare vestiti adatti. Süss promette che lo farà volentieri. Terminato l’incontro il collaboratore di Süss, Levi (Werner Krauss), lo rimprovera per la promessa fatta di adeguarsi (cioè cristianizzarsi). Ma Süss lo rassicura: se passa lui, gli altri ebrei potranno successivamente entrare. «Süss non agisce per puro tornaconto personale, il suo scopo è quello di far entrare a Stoccarda gli ebrei del ghetto, esclusi dalle mura della città da un editto precedente» 15. Adesso Süss è un «ebreo di corte» (Hofjude) 16, ha tagliato la barba, accorciato i capelli, cambiato abito. Ha l’aspetto di un qualsiasi gentiluomo tedesco. La carrozza nella quale viaggia è lanciata a tutta velocità. Sfreccia davanti al calesse di Dorothea. La corsa eccessiva fa uscire di strada la carrozza, impossibilitata a ripartire. Süss chiede un passaggio a Dorothea fino a Stoccarda. Il Consiglio riunito, presieduto da Sturm, rifiuta le richieste del duca di dotarsi di una guardia personale e di poter organizzare un ballo a corte. 15 T. Carozza, Quel diavolo di Süss, l’ebreo! Emblema dell’antisemitismo, in «Quaderni di cinema», 55, 1997. 16 Cfr. A. Przyrembel - J. Schönert (a cura di), Jud Süss. Hofjude, literarische Figur, antisemitische Zerbild, Campus Verlag, Francoforte 2006.
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Süss entra in città. Ha un dialogo con Dorothea. La ragazza gli chiede se avendone le possibilità gli piacerebbe viaggiare nel mondo. Süss risponde di aver vissuto a Parigi, Versailles, Londra, Vienna, Roma, Madrid, Lisbona. Dorothea gli chiede allora quale è il posto in cui vorrebbe vivere. Süss risponde ovunque. La ragazza gli domanda: «e la patria»? «Il mondo» è la risposta. Poi Süss aggiunge che vorrebbe vivere a Stoccarda con lei: «non mi sono mai sentito così bene come accanto a voi». Dorothea smette di sorridere, mostrando evidente imbarazzo. Karl Alexander, prima di coricarsi, è infuriato nell’apprendere il doppio rifiuto del Consiglio alle sue richieste. Süss si ferma a casa di Sturm. Faber, quando scopre che Süss è un ebreo, si mostra irritato e davvero scortese con l’ospite. Süss domanda a Faber se conosce qualche buon posto per soggiornare: «a Stoccarda non c’è posto per gli ebrei» è la risposta. Karl Alexander riceve Süss. È felicissimo nell’avere tra le mani la preziosa collana, regalo promesso a sua moglie. Il duca commenta: «l’ebreo è più generoso del Consiglio». Inoltre, Süss gli mette sul tavolo le monete d’oro necessarie per organizzare il ballo a corte. Dalle monete sulla scrivania, attraverso una dissolvenza, si passa alle ballerine che danzano. Una di esse manda un bacio al duca, che chiede a Süss se ha qualcosa di prezioso da donare alla graziosa ragazza. Questi si toglie dal dito un anello. Il duca viene lasciato solo con la giovane: le mette l’anello al dito e la bacia. Süss in cambio dei favori elargiti ottiene l’amministrazione delle strade del Ducato per dieci anni. Süss impone nuove tasse su strade e ponti. Un venditore di ortaggi all’entrata della città si lamenta per l’aumento delle imposte. Sopraggiunge Levi, diventato l’esattore di Süss, e gli spiega che più tasse equivalgono a più guadagni. È il raggiro dialettico del furbo ebreo all’onesto tedesco. Più tasse equivalgono in realtà a prezzi maggiorati. Dorothea è sorpresa dall’aumento dei prezzi di carne, uova e pane. Faber si rivolge seccamente alla ragazza: «E chi dobbiamo ringraziare per questo, Dorle [diminutivo affettuoso di Dorothea], tu lo hai accompagnato a Stoccarda». Poi accusa gli amministratori ebrei di rubare i soldi al popolo. Sturm prova a calmarlo. Gli fa presente che Süss ha finanziato la guardia personale di Karl Alexander. Occorre essere intelligenti suggerisce Sturm. «Più intelligenti degli ebrei» domanda Faber? «Gli ebrei non sono intelligenti, sono astuti» è la risposta di Sturm. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Il fabbro Hans Bogner nello studio di Süss protesta non essendo in grado di pagare la nuova tassa, dovuta al fatto che un pezzo della sua casa si trova sulla strada. Insieme a lui la moglie col figlio piccolo in braccio implora comprensione. Süss e Levi sono irremovibili. La parte della casa di Hans Bogner che posava sulla strada è stata demolita. E i soldati armati la sorvegliano. Süss in carrozza con la sua amante passa davanti alla casa del fabbro. Alcuni cittadini bloccano la carrozza per protesta. Il fabbro aggredisce Süss con un martello, ma non riesce a colpirlo e viene arrestato. Un padre è preoccupato: dice alla moglie che i genitori dovrebbero accompagnare le figlie alle feste, perché ormai le ragazze sono merce per il ballo a corte organizzato dall’ebreo. Al sontuoso ballo le ragazze indossano una mascherina. Levi provvede a isolare in una stanza le ragazze più belle. Karl Alexander toglie la maschera ad una di loro. In primissimo piano è inquadrato Süss, che guarda con insistenza una ragazza. È Dorothea. Il duca si apparta con una giovane, molto turbata, sino alle lacrime. Dorothea è infastidita da Süss: dopo averla invitata a ballare, tenta di baciarla. La ragazza fugge, accompagnata fuori dal palazzo da Faber, mentre Sturm blocca Süss. Faber, col volto nascosto, in compagnia di due amici, insulta pesantemente Süss e si dilegua. Süss chiede a Karl Alexander un documento che certifichi il suo operato, esercitato in nome del sovrano. Inoltre, il duca promette a Süss che annullerà l’interdizione agli ebrei di entrare in città, e decreta la condanna a morte del fabbro. Impiccagione di Hans Bogner. Süss è insultato pubblicamente. Gli gridano «ebreo assassino» e gli viene augurata la stessa fine del fabbro. Entrata degli ebrei in città nello stupore generale della popolazione. Il Consiglio protesta per la decisione presa da Karl Alexander di consentire il ritorno in città degli ebrei. Sturm li paragona all’invasione delle locuste e indica in Süss la loro guida. Il colonnello Von Roeder (Albert Florath), vecchio compagno d’armi di Karl Alexander, si reca a corte con alcuni consiglieri per manifestare al duca il disagio del Consiglio. Levi avverte Süss della visita. Insieme ascoltano nello studio privato del sovrano, attraverso un buco nascosto nella parete, le parole di Sturm, che legge un passo di Lutero. Il monaco riformatore avvertiva i cristiani: dopo Lucifero il peggior nemico sono gli ebrei. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Il duca (luterano diventato cattolico) chiede di essere lasciato in pace dai consiglieri e dal loro «maledetto Lutero» 17. Süss consiglia a Karl Alexander di sciogliere il Consiglio e nominare un nuovo governo composto da uomini di fiducia. Il duca è scettico, ma Süss lo convince a consultare un esperto del futuro. Ritorna l’inquadratura della stella di David con la quale si era aperto il film. Süss incontra il rabbino Lœw 18, al quale chiede con insistenza un aiuto: dovranno convincere il duca a prendere la decisione giusta. In cambio dell’aiuto Süss promette al rabbino che il Württemberg diventerà la terra promessa d’Israele. Karl Alexander si reca in visita dal rabbino in compagnia del suo valletto moro 19. Lœw scruta il cielo servendosi di un grande cannocchiale. Gli astri sono favorevoli: le stelle obbediranno a chi avrà il coraggio di osare. Süss si inginocchia e bacia la veste del rabbino. Süss è impegnato nella costituzione del nuovo governo, in previsione dello scioglimento del Consiglio. Convoca Sturm e gli chiede di stare dalla sua parte. Propone anche di sposare Dorothea, così la loro alleanza sarà sigillata. Sturm risponde negativamente ad entrambe le offerte. Si danno appuntamento per il giorno successivo. Sturm fa celebrare in tutta fretta il matrimonio tra Dorothea e Faber. Süss rende visita a Sturm. Quest’ultimo ribadisce il rifiuto di un aiuto politico. Quanto a Dorothea, gli comunica che è sposata e aggiunge: «mia figlia non metterà mai al mondo dei bambini ebrei». Süss lo minaccia e Sturm perde la pazienza, ricordandogli che sta turbando la pace della sua famiglia, e seminando l’odio del popolo e del Consiglio nei confronti del duca. 17 I nazionalsocialisti cercarono di utilizzare la figura di Lutero in tre direzioni: evidenziandone gli aspetti nazionalisti; ritenendolo il fondatore di una tradizione che si chiudeva con Hitler; dando grande risalto agli scritti antisemiti (come in questa scena di Süss, l’ebreo). È vero che i protestanti durante il Terzo Reich mostrarono un saldo convincimento nazionalsocialista. Ma è altrettanto vero che considerare l’antisemitismo di Lutero, come ritiene Willian Shirer, la ragione principale del sostegno dei protestanti al nazionalsocialismo, è una forzatura che non regge sul piano storico: cfr. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, vol. I, Einaudi, Torino 1990, p. 369. Lutero era un antisemita, che però scriveva nella prima metà del 1500: cfr. M. Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne [1543], Einaudi, Torino 2000. Sull’antisemitismo di Lutero cfr. D. Di Cesare, Lutero, Agostino e le menzogne degli ebrei, in Id., Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 29-34. 18 Il rabbino è interpretato da Werner Krauss (ha anche la parte più corposa del segretario Levy), che in apertura del film appare chiaramente due volte, in altri ruoli. 19 Questa figura è presente nel libro di Feutchwanger – si chiama Otman – e anche nella trasposizione cinematografica di Lothar Mendes.
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Süss chiede a Levi di scrivere una lettera al duca nella quale denuncia Sturm di complottare contro il sovrano. Sturm viene chiamato davanti alle autorità per rispondere dell’accusa di complotto. A condurre l’interrogarlo è Levi, e non il consigliere Metz. Levi ricorda a Sturm di aver definito l’impiccagione del fabbro un volgare omicidio. E visto che ad ordinarla, quella impiccagione, è stato il duca, sarebbe lui in realtà l’assassino, e gli assassini meritano la morte. Pertanto, l’accusa di complottare contro la vita del sovrano è valida. Dorothea è in casa con Faber. Mentre stanno riassettando il letto della loro camera, allude al fatto che non hanno mai dormito insieme. Nel frattempo sopraggiunge Von Roeder: comunica a Dorothea che il padre è stato arrestato. Il Consiglio ritiene che il duca sta violando apertamente la Costituzione e decide di opporsi a Karl Alexander. Il sovrano si rivolge ai maggiori dignitari. Alle sue spalle ci sono numerosi soldati. Tiene un discorso nel quale denuncia il complotto ai suoi danni da parte del Consiglio e la necessità di scioglierlo. Von Roeder si reca dal duca per informarlo che il Consiglio gli è contro. Ma apprende che il Consiglio è stato appena sciolto. Karl Alexander è assalito da forti dubbi. Non è sicuro che l’esercito gli resterà fedele. Il popolo in strada protesta, reclamando il nome di Sturm. Süss assicura che troverà soldati stranieri. Inoltre, ricorda al duca che potrà diventare un sovrano assoluto come il Re Sole a Versailles. E, ancora una volta, lo rassicura: a coprire il costo dei soldati stranieri saranno gli ebrei della città. Süss si reca dal rabbino Lœw e lo convince a far pagare agli ebrei l’ingente somma necessaria per arruolare i soldati. Dorothea è sola in casa. Suo padre, prigioniero, manca da tre giorni, e suo marito non si fa vedere. All’improvviso arriva Faber. Ma dice a Dorothea che non può trattenersi a lungo, perché è pericoloso. Sturm viene interrogato da Süss. Ancora una volta gli viene proposto di collaborare, ma Sturm ripete di non voler tradire il Consiglio, rifiutando così la libertà. Von Roeder comunica al Consiglio che Karl Alexander avrà a disposizione soldati stranieri, e che saranno gli ebrei a finanziare la guerra del duca contro il suo popolo. Quindi bisogna agire in fretta. Faber si offre per un compito rischioso: uscire dalla città. Ma è arrestato. Süss, avvertito della cattura di Faber, lo interroga, cercando di ottenere i nomi dei complici. Se non collaborerà verrà torturato. A notte fonda Dorothea non riesce a prendere sonno e piange disperata. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Süss e Von Remchingen convincono il duca a lasciare la città, per recarsi al castello di Ludwigsburg, così non assisterà al colpo di stato. Faber viene introdotto nella stanza della tortura. Dorothea si reca al palazzo di Süss. Implora la libertà del padre e del marito. Ascolta le urla di Faber. Süss si è messo d’accordo con il sorvegliante di Faber: quando si affaccerà alla finestra e sventolerà un fazzoletto, questi dovrà torturare l’uomo, schiacciandogli le mani immobilizzate in una morsa. La ragazza, impaurita e quasi priva di sensi, viene abusata da Süss. Levi si reca nella prigione con l’ordine di liberare Faber. E gli comunica che sua moglie è intervenuta presso Süss per farlo liberare. Dorothea, lo sguardo sconvolto, vaga in strada. Faber la cerca al palazzo di Süss. Ma non c’è. Si è uccisa, annegandosi nel Neckar, il fiume della città. Il corpo di Dorothea, privo di vita, viene recuperato. Faber la porta in braccio sino all’entrata della lussuosa residenza di Süss. S’è radunata una folla armata e inferocita. Il palazzo viene assaltato, ma dentro c’è solo Levi, poiché Süss si è recato fuori città dal duca. Von Roeder e alcuni componenti del Consiglio, per scongiurare la catastrofe fratricida, decidono di raggiungere il duca. Alla porta i soldati li bloccano, ma Von Roeder spara a Von Remchingen, uccidendolo. La guardia non reagisce. Così i consiglieri a cavallo possono uscire dalla città, nella notte, in direzione del castello di Ludwigsburg. Al castello splendono i fuochi d’artificio. Karl Alexander ha bevuto troppo: accusa Süss di averlo portato alla rovina. Un soldato interrompe il sovrano, annunciandogli che i consiglieri vorrebbero parlargli. Karl Alexander è sorpreso e infastidito dalla visita. Reagisce con un violento attacco di collera, ed è colto da un improvviso malore, che lo uccide (muore il 12 marzo 1737) 20. Süss viene arrestato. Süss, adesso, da elegante «ebreo di corte» è tornato «ebreo del ghetto» 21. I capi di accusa sono diversi. Süss si difende ricordando di essere stato solo l’esecutore della volontà del duca. La Corte riunita affida a Sturm il compito di indicare la pena. Sturm non vuole vendetta: l’ebreo ha avuto una relazione carnale con una donna cristiana, e per la legge merita l’impiccagione. Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 29. «Libero pensatore ritornato tardivamente al giudaismo dopo l’arresto, rifiuta una conversione al cristianesimo che gli avrebbe probabilmente permesso di salvare la vita»: cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., p. 31. Il ritorno al giudaismo di Süss è interpretato anche come «conforto psicologico»: cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 39. 20 21
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süss, l’ebreo:
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Pubblica esecuzione di Süss. Nevica (come nel film di Mendes). Sono passati cinque anni dall’inizio della storia (la pubblica esecuzione per impiccagione avviene il 4 febbraio 1738). Süss, issato in una gabbia, chiede invano che gli venga risparmiata la vita, in cambio di tutti i suoi averi 22. La sentenza di morte è eseguita. Gli ebrei entro tre giorni dovranno lasciare la città. L’ordine è ristabilito. Sin dalla stesura del Mein Kampf 23, per Hitler la rinascita della Germania sarebbe dovuta passare attraverso lo scontro finale con il nemico di sempre, l’ebreo. Nel Mein Kampf il suo autore dava ordine logico, pur nella farraginosità della prosa, a idee assai banali in circolazione in quell’epoca 24. Ad imprimere un chiaro segno nella formazione filosofica e politica di Hitler era stato Dietrich Eckart. La summa delle riflessioni di Eckart sulla «questione ebraica» è un lungo testo non ultimato nella forma definitiva a causa della morte, nel quale traccia una linea millenaria di continuità del giudaismo, da Mosè a Lenin. Per Eckart nell’Antico Testamento si trovano tutte le malefatte degli ebrei, a partire da Libro di Isaia (XIX, 2-3): «Sobillerò gli Egiziani gli uni contro gli altri, così che si combatterà un fratello contro l’altro» 25. La storia dell’internazionalismo giudaico va dunque avanti da duemila anni, appunto dall’egiziano-ebreo Mosè al russo-ebreo Lenin. Un’abilità di dissimulazione disonesta, quella degli ebrei, capaci di «gabellare» persino l’antisemita Lutero, anche lui «caduto nell’impostura del “popolo di Dio”» 26. Il fine ultimo degli ebrei, per Eckart, conduce
La morte nella gabbia per Claude Singer è una «umiliazione supplementare», anche se è la stessa esecuzione decretata da Süss nei confronti del fabbro che aveva cercato di colpirlo con un martello: cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., p. 31. 23 Il Mein Kampf venne redatto tra il 1924 e il 1925, e pubblicato a Monaco, presso le edizioni Franz Eher, in due parti, la prima nel 1925, la seconda nel 1927: cfr. S. F. Kellerhoff, Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf, Rizzoli, Milano 2016. La prima edizione italiana è del 1934, pubblicata da Bompiani. Recentemente sono uscite, in lingua italiana, due edizioni del Mein Kampf: cfr. A. Hitler, Mein Kampf, voll. I-II, Thule Italia, Roma 2016 (traduzione di Marco Linguardo e Monica Mainardi); Id., Mein Kampf, voll. I-II, Mimesis, Milano-Udine 2017 (traduzione di Vicenzo Pinto). Inoltre, è uscita una importante edizione critica in lingua tedesca: cfr. A. Hitler, Mein Kampf. Eine kritische Edition [2016], voll. I-II, Institut für Zeitgeschichte, Monaco-Berlino 2019. 24 Cfr. J. Chapoutot, Comprendre le nazisme, cit., p. 32. 25 D. Eckart, Il bolscevismo da Mosè a Lenin [1924], in A. Rosenberg (a cura di), Dietrich Eckart. Una vita tedesca, Thule Italia, Roma 2015, p. 88. 26 Ibidem, p. 128. 22
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«ben venga la propaganda»
al di là del dominio mondiale, all’annientamento del mondo [...]. Un bisogno di distruggere qualcuno con tutte le forze, intuendo al contempo che ciò porta irrimediabilmente verso la propria stessa fine [...] è la tragedia di Lucifero 27.
Per Hitler la storia è lotta di razze, la cui finalità è la conquista di uno «spazio vitale» (Lebensraum) orientale, che dovrà passare per la lotta al «bolscevismo giudaico» 28. Un nemico antico, che risale – seguendo gli insegnamenti di Eckart – indietro nei secoli, quando l’ebreo Paolo inizia a predicare l’amore universale, trasformandosi in un «commissario politico» e trasformando il cristianesimo nel «bolscevismo dell’Antichità». Se nei campi di battaglia della Grande Guerra, invece di perire con il gas migliaia di onesti lavoratori tedeschi, preziosi per l’avvenire nazionale, fossero morti alcune migliaia di ebrei, la Germania avrebbe anche evitato la sconfitta. Questo passaggio del Mein Kampf è sottolineato da Heinrich Himmler (che lo legge nel 1927), a dimostrazione che la Bibbia nazionalsocialista «era tutt’altro che vuota retorica» 29. Dall’inizio della carriera politica Hitler pone l’antisemitismo al centro del suo sistema di pensiero inerente alla politica interna e, soprattutto, internazionale 30. Per questa ragione la lotta al bolscevismo sovietico per Hitler assume una funzione vitale: l’«ebreo internazionale, oggi padrone assoluto della Russia, vede nella Germania non un alleato ma uno Stato condannato alla stessa sorte della Russia» 31. Gli ebrei per Hitler conservano il sangue puro, non contaminato da mescolamenti razziali 32. L’ebreo «non è un elemento di organizzazione ma fermento di disorganizzazione» e, per questa ragione il «colossale impero orientale è maturo per il crollo» 33. E la lotta alla supremazia giudaica dovrà essere condotta, senza sosta, da una forza razziale pura, come quella ariana. Alla fine, il vampiro sarà sconfitto.
Ibidem, pp. 153-154. Cfr. I. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, cit., p. 24. 29 Cfr. R. Breitman, Il silenzio degli alleati. La responsabilità morale di inglesi e americani nell’Olocausto ebreo, Mondadori, Milano 1999, p. 277. 30 Cfr. A. Hillgruber, La guerra orientale e lo sterminio degli ebrei, in Id., La distruzione dell’Europa, il Mulino, Bologna 1991, pp. 375-406. 31 A. Hitler, Il Mein Kampf di Adolf Hitler, cit., p. 509. 32 Ibidem, p. 510. 33 Ibidem, p. 506. 27 28
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V.
Un vampiro avvinghiato «al corpo del popolo sventurato»
Süss viene presentato come la materializzazione del Diavolo, simile a un vampiro. A Eric Rentschler Süss ricorda appunto il conte Orlok (una versione tedesca di Dracula [1897] di Bram Stoker), protagonista di Nosferatu (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922) di Friedrich W. Murnau 1 (Süss, l’ebreo segue il paradigma della narrativa dell’orrore con i vampiri come protagonisti) 2: la sua presenza scatena una maledizione, provocando innumerevoli catastrofi 3. Süss è dunque «una figura demoniaca» 4 che ha «vampirizzato il duca» 5. Il sangue che succhia però è quello della nazione: quindi la comunità del sangue (germanica e ariana) va tutelata da ogni possibile contaminazione (giudaica) 6. Nei comportamenti di Süss si racchiudono tutti i vizi imputati agli ebrei. Süss è il perfido consigliere del sovrano, bugiardo, avido di denaro e potere, vive nel lusso, nell’intrigo e nel tradimento. Vuole fare del Württemberg la «terra promessa» per i figli d’Israele. Commette anche un abuso sessuale. Claude Singer ritiene l’antisemitismo del film di Harlan frutto di «un’iconografia caricaturale» 7, 1 Cfr. E. Rentschler, The Ministry of Illusion, cit., p. 157. L’attore Ferdinand Marian talvolta dà l’impressione di recitare alla stessa maniera di Bela Lugosi in Dracula (1931) di Tod Browning. 2 Cfr. L. Schulte-Sasse, Entertaining of the Third Reich. Illusions of Wholeness in Nazi Cinema, Duke University Press, Durham 1996, p. 67. Sulla figura del vampiro nella cultura letteraria e cinematografica cfr. E. Butler, Metamorphoses of the Vampire in Literature and Film. Cultural Transformations in Europe 1732-1933, Camden House, Rochester 2010. 3 Cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., p. 152. 4 Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 174. 5 V. Elefteriou-Perrin, Le juif Süss, in «CinémaAction», 103, 2002. 6 Cfr. F. Jesi, Metamorfosi del vampiro in Germania, in Id., L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 43-62. 7 Cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., p. 139.
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«ben venga la propaganda»
poggiata tre assi portanti: sesso, denaro e complotto 8. Cominciamo dal sesso. Karl Alexander è presentato come un gaudente. Subito dopo l’incoronazione, al suo primo passaggio tra la folla festante, un soldato per tenere a distanza una donna involontariamente le scopre il seno. Il duca guarda divertito e compiacente. È il ritratto della debolezza: «grasso, sudaticcio, reso ancora più impacciato da pizzi, merletti e strane parrucche incipriate [...] succube di una moglie capricciosa e avida» 9. Süss, frequentando il sovrano, intuisce immediatamente che può addomesticarlo, sfruttando il suo lato debole: le conquiste femminili. E lui gli offre generosamente ragazze: L’ascendente di Süss sulle donne è evidente nel film [...]. Veit Harlan non cerca soltanto di presentare Süss come un seduttore patentato. Ma lo raffigura anche come un ruffiano 10.
Ma Süss non è un «procacciatore» per necessità. Appena entra in città mette gli occhi su Dorothea; vuole sposarla utilizzando il ricatto; la violenta nell’atto più ripugnante del film. Da una parte il laido ebreo, dall’altra la giovane ragazza tedesca, desiderosa soltanto di togliere dalle grinfie del carceriere il padre e il giovane marito, costretta pertanto a subire quella violenza sessuale che le sarà insopportabile, talmente insopportabile da spingerla al suicidio. L’attrice Kristina Söderbaum, che interpreta il ruolo di Dorothea, è la perfetta incarnazione della femminilità propagandata dal nazionalsocialismo. Al contempo è il modello di figlia, fidanzata e sposa devota, onesta, generosa, religiosa (prima di essere violentata da Süss recita il «Padre nostro»), pronta a sacrificare se stessa per ciò che ama. Nel suo volto e nel suo corpo si riflettono i valori femminili dell’innocenza; «diva del Terzo Reich» alla quale è sottratta la patina dello star system (molto diversa ad esempio dalla più sofisticata e attraente Zarah Leander) 11; ideale del matrimonio e della maternità; e, infine, modello della razza ariana 12. Il libidinoso sguardo col quale Süss fissa Dorothea sin dal loro primo casuale Ibidem, pp. 124-137. T. Carozza, Quel diavolo di Süss, l’ebreo! Emblema dell’antisemitismo, in «Quaderni di cinema», 55, 1997. 10 C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., pp. 124-126. 11 Cfr. A. M. Sigmund, Zarah Leander. Die Diva des Dritten Reichs, in Id., Die Frauen der Nazis, cit., pp. 263-331. 12 Cfr. A. Ascheid, Kristina Söderbaum. The Myth of Naturalness, Sacrifice, and the “Reich’s Water Corpse”, in Id., Hitler’s Heroines. Stardom and Womanhood in Nazi Cinema, Temple University Press, Filadelfia 2003, p. 50. 8
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incontro, in conclusione si trasforma in violenza. Violenza presentata non come l’incontrollabile e improvviso scatenarsi della pulsione sessuale, ma come strategia premeditata, studiata nei minimi particolari. La rappresentazione della rapacità sessuale dell’ebreo è un tratto non imputabile esclusivamente alla cultura nazionalsocialista. Nel 1918 Artur Dinter nel romanzo Die Sünde wider das Blut [Il peccato contro il sangue] 13 diffuse in centinaia di migliaia di copie il messaggio della «violazione della purezza razziale di una donna tedesca ad opera di un ricco ebreo» 14. Protagonista del romanzo di Dinter (una storia estremamente complessa) è un giovane chimico in cerca di lavoro. Lo trova presso un facoltoso commerciante ebreo assimilato. L’uomo aveva abusato di una giovane impiegata bella, bionda e ariana. Il fratello della ragazza, rimasta incinta, aveva costretto l’ebreo a sposarla. Il giovane scopre un lato oscuro dell’ebreo: «il suo padrone ha ingravidato ben centodiciassette ragazze bionde! [...]. Questo avvelenamento razziale del popolo tedesco [...] ha un fine diabolico [...] infettare le vergini tedesche con il suo sangue asiatico» 15: Hitler, segnato come l’amico Dinter 16 da un’angoscia primordiale nei confronti della «prepotenza del sangue ebraico» [...] così riassume in Mein Kampf il nocciolo della questione: «[l’ebreo] avvelena il sangue degli altri ma difende il proprio». Ciò implica che quando, sull’onda dei rapporti sessuali, due «eredità» si incontrano, quella ebraica avvelena, infetta e perverte necessariamente e assolutamente quella tedesca, la quale non è in grado di difendersi né, a maggior ragione, di «guarire» l’eredità ebraica 17.
Anche la questione della purezza del sangue germanico non è una invenzione della propaganda nazionalsocialista. Già lo scrittore razzista e antisemita Houston Stewart Chamberlain aveva insistito sulla questione della purezza del sangue, equiparandola alla purezza della razza. «A parere di Cfr. A. Dinter, Die Sünde wider das Blut. Ein Zeitroman, Hartenstein, Lipsia 1918. G. L. Mosse, Il razzismo in Europa, cit., p. 191. 15 Cfr. É. Conte - C. Essner, Culti di sangue. Antropologia del nazismo, Carocci, Roma 2000, p. 111. 16 Dinter, estimatore e amico di Hitler, aderì al partito, sino a diventare Gauleiter della Turingia, ma venne allontano nel 1928, in quanto fautore della trasformazione del nazionalsocialismo in un «cristianesimo tedesco». Dinter era diventato un esponente di primo piano del movimento dei «cristiani tedeschi» («cristiani degiudeizzati»), sentendosi una specie di Lutero. 17 É. Conte - C. Essner, Culti di sangue, cit., p. 113. 13 14
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Chamberlain gli ebrei erano il diavolo e i tedeschi il popolo eletto» 18. I tedeschi non avevano mai mescolato il proprio sangue, mentre gli ebrei sì. Pertanto, la lotta alla «razza bastarda» (miscuglio di popoli diversi) era il preludio di una rivoluzione spirituale necessaria quanto vitale. Veniamo adesso alla questione del denaro. Sin dalla prima apparizione di Süss la sua immagine è legata alla ricchezza: apre una cassaforte ricolma di oggetti di grande valore. Appena giunto a corte riversa sulla scrivania del sovrano un sacchetto pieno di monete; in città risiede in un sontuoso palazzo; dorme in un letto d’oro; veste in maniera elegante e raffinata. Lo stereotipo antisemita si focalizza sul successo materiale degli ebrei. Gli ebrei avrebbero sottratto, con mezzi poco corretti la ricchezza e i beni materiali al popolo tedesco: la polemica antisemita (la ottocentesca come la novecentesca), dalla più blanda alla più spietata, martella in questa direzione. In realtà gli ebrei hanno saputo adattarsi meglio di altri, con rapidità, alle trasformazioni della modernità, sfruttando soprattutto le competenze intellettuali, a cominciare da quelle basilari: saper leggere e scrivere. Per questa ragione, paradossalmente, ad ispirare una particolare forma di antisemitismo fu proprio il grado di elevata libertà concessa agli ebrei nella Germania ottocentesca e nei primi due decenni del Novecento 19. Gli ebrei sposarono in pieno il processo di modernizzazione, inserendosi facilmente nelle nuove professioni emergenti nella società capitalista e nel mondo degli affari. A partire dal 1870 gli ebrei oltre ad arricchirsi si integrarono. Dopo il 1890 il processo assunse una «velocità vertiginosa» 20. Gli ebrei ottennero successi nell’istruzione superiore, nelle libere professioni, nelle università, nelle scienze empiriche basate sul razionalismo, nei commerci, mostrando grande intraprendenza e ottenendo ricchezze e visibilità. Tutto ciò creò invidia sociale, canalizzatasi nell’antisemitismo che, a partire dal 1870, divenne sempre più brutale. La Germania negli stessi anni recuperava in maniera consistente i ritardi del mancato sviluppo capitalista. Il progresso determinò la centralità delle città, nuovi modi e stili di vita, sostanziali cambiamenti antropologici. Anche in questo caso gli ebrei, rispetto al resto della popolazione tedesca, «accettarono con maggior tranquillità le necessità di migrare e costruirsi una nuova esistenza» 21. Naturalmente la G. L. Mosse, Il razzismo in Europa, cit., p. 117. Cfr. G. Aly, Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? Uguaglianza, invidia e odio 1800-1933, Einaudi, Torino 2013, p. VII. 20 Ibidem, p. 66. 21 Ibidem, p. 69. 18 19
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questione dell’antisemitismo non può essere chiusa al solo risentimento sociale, poiché anche quando gli ebrei sono poveri «divengono di norma il bersaglio di frustrazioni e aggressioni legate al disagio economico» 22. Andreas Hillgruber indica nel 1916 un’«ondata di antisemitismo che guadagna rapidamente spazio nella società tedesca» 23, con gli ebrei accusati pubblicamente di non combattere come stanno invece facendo i tedeschi. Concludiamo con il terzo elemento: Süss è dedito al complotto. Spia il duca. Convince l’anziano rabbino Lœw a ingannare Karl Alexander (forzando l’iniziale riluttanza del rabbino). Si lega sempre di più a Von Remchingen (nobile tedesco) nel raggiungimento dei suoi obiettivi, per i quali sarebbe disposto a qualsiasi compromesso o nefandezza. Süss, in ordine di tempo, è l’ultima e la più efficace immagine del partecipante al «complotto ebraico». Veit Harlan è convinto, attaccandosi al parere di un giurista, che Süss venne condannato per giuste ragioni e, soprattutto, che non vi sia poi una così abissale discrepanza tra i comportamenti del Süss storico e quelli da lui ritratti sullo schermo 24. Per il regista Süss nella realtà «ha commesso innumerevoli crimini sessuali» 25. Ma, al di là dei crimini – autentici e meno – realmente riscontrabili, il regista tedesco contribuisce in maniera sin troppo determinata alla «disumanizzazione del nemico», alla «satanizzazione dell’ebreo» 26. L’ideologia antisemita si concretizza attraverso le istituzioni culturali, di cui la finzione cinematografica è il più potente strumento per raggiungere la cultura popolare, diffondere miti e stereotipi morali ed estetici, condizionare gli individui 27. La propaganda serve appunto a trasformare l’ideologia antisemita in narrativa 28. Süss, l’ebreo può essere considerata un’opera chiave dell’intero corpus cinematografico realizzato dal regime hitleriano,
D. G. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, cit., p. 49. A. Hillgruber, Il duplice tramonto. La frantumazione del Reich tedesco e la fine dell’ebraismo europeo, il Mulino, Bologna 1990, p. 87. 24 Cfr. V. Harlan, Im Schatten meiner Filme, cit., p. 111. 25 Ibidem, p. 114. 26 Cfr. J. Carmichael, The Satanizing of the Jews. Origin and Development of Mystical Anti-Semitism, International Publishing, New York 1992, pp. 137-138. 27 Cfr. P. Sorlin, Ombre passeggere, cit., p. 37. 28 Cfr. J. Herf, The Jewish Enemy. Nazi Propaganda During World War II and the Holocaust, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge 2008, p. 6. 22 23
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una sorta di «opera mondo» 29, un universo visivo e valoriale di riferimento essenziale, imprescindibile per comprendere l’ideologia nazionalsocialista, poiché ne evidenzia in maniera esasperata l’aspetto essenziale rappresentato della volontà di risolvere una volta per tutte un problema ricorrente nella storia tedesca: la convivenza forzata con gli ebrei. Finché agli ebrei sarà consentito di vivere in Germania per i tedeschi non ci sarà pace. È certamente una «visione cospirativa e manichea della storia, concepita come lotta tra bene e male, tra purezza e corruzione, di cui la propria nazione o collettività è stata vittima» 30. L’arrivo di Süss, e la successiva intrusione nella vita di corte, viene visualizzata nel film di Harlan come un senso di crisi opprimente. Ad essere minacciati non sono solo i singoli individui (anche se lo sono) ma l’intero gruppo etnico, diventato «vittima» della «cospirazione ebraica». Per evitare la catastrofe finale ci si deve affidare al coraggio di alcune personalità dotate di forza e carisma: il più ostile e coraggioso avversario di Süss è Faber, il soggetto con i lineamenti estetici (ariani) e generazionali (giovanili) dei nazionalsocialisti. Faber non ha bisogno di ragionare troppo per opporsi agli ebrei, come fa ad esempio Sturm: gli è contro per istinto. Ora, che l’antisemitismo spinto sino ai limiti della «soluzione finale» sia l’ultima e più crudele evoluzione del razzismo 31; la logica conseguenza della millenaria tradizione occidentale antigiudaica 32; una negazione della razionalità e un ritorno alla barbarie 33, oppure l’esatto contrario, lo stadio ultimo del dominio della razionalità iniziato con il secolo dei Lumi 34; il frutto amaro del processo di scristianizzazione 35; la risultante della razionalità strumentale delle istituzioni statali moderne dominate dalla tecnica 36; la semplice banalità del male 37; l’abitudine di considerare «la popolazione alla stregua di oggetti da censire, classificare, modellare 29 Cfr. F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994. 30 R. Paxton, Il fascismo in azione, cit., p. 45. 31 Cfr. G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 1984. 32 Cfr. D. Nirenbberg, Antigiudaismo. La tradizione occidentale, Viella, Roma 2016. 33 Cfr. H. Mommsen, Modernität und Barbarei. Anmerkungen aus zeithistorischer Sicht, in M. Miller - H.G. Soeffner (a cura di), Modernität und Barbarei. Soziologische Zeitdiagnose am Ende des 20. Jahrhunderts, Suhrkamp, Francoforte 1996, pp. 137-155. 34 Cfr. T. W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo [1947], Einaudi, Torino 1966. 35 Cfr. E. Voegelin, Hitler e i tedeschi, Medusa, Milano 2005. 36 Cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 2010. 37 Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme [1963], Feltrinelli, Milano 2014.
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e, a volte, eliminare» 38; o altro ancora, è questione sulla quale si discute (e si discuterà). L’antisemitismo deve considerarsi un postulato fondamentale della Weltanschauung nazionalsocialista 39. Allontanare gli ebrei dalla Germania è uno degli obiettivi principali di Hitler e del movimento nazionalsocialista sin dalle origini. Gli ebrei sono il nemico giurato dell’ordine morale, e pertanto la lotta tra ariani ed ebrei è ineludibile, essendo gli ebrei un cancro da estirpare. Süss, l’ebreo viene realizzato e diffuso capillarmente nel momento «preparatorio» (1939-1941) 40 della «soluzione finale» della «questione ebraica in Europa» (Endlösung der europäischen Juden-frage), che nel 1942, accantonata definitivamente l’operazione Madagascar 41 (metafora geografica assai diffusa nella cultura antisemita tedesca ottocentesca e novecentesca) 42 , imboccherà la strada priva di ritorno dello sterminio. La guerra all’Unione Sovietica è il vero punto di partenza della «soluzione finale» degli ebrei orientali e, successivamente, occidentali 43. L’attacco sferrato il 22 giugno 1941 ebbe sin dall’inizio il carattere di una campagna militare razzista di conquista e distruzione [...] la guerra fu in primo luogo un’operazione diretta contro la componente ebraica della popolazione: era necessario sottrarre con la forza al cosiddetto bolscevismo giudaico» la propria base demografica 44.
Alla prima metà del 1941 ai tedeschi si possono imputare l’eliminazione in Germania, perlopiù silenziosa, di 70-80.000 malati di mente o handicappati; l’eliminazione della intellighenzia polacca; oltre naturalmente a tutte le violenze commesse dal 1933, soprattutto contro gli ebrei 45. Alla metà di marzo 1942 circa tre quarti di tutte le future vittime della Shoah Cfr. P. Burrin, L’antisemitismo nazista, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 11. Cfr. A. J. Mayer, Soluzione finale. Lo stermino degli ebrei nella storia europea, Mondadori, Milano 1990, p. 94. 40 Cfr. A. J. Edelheit - H. Edelheit, History of Holocaust, Westview Press, Boulder 1994, pp. 41-61. Il momento «preparatorio» è preceduto da altri due momenti: l’«incubazione» (1933-1935) e la «formulazione» (1935-1939). 41 Cfr. P. Longerich, Verso la soluzione finale, cit., pp. 18-19. 42 Cfr. H. Brechtken, “Madagascar für die Juden”. Antisemitische Idee und politische Praxis, Oldenburg, Monaco 1997. 43 Cfr. C. Ingrao, La promesse de l’Est. Exspérance nazie et génocide 1939-1943, Seuil, Parigi 2016. 44 Cfr. P. Longerich, Verso la soluzione finale, cit., p. 21. 45 Cfr. C. R. Browning, Verso il genocidio. Come è stata possibile la «soluzione finale», Il Saggiatore, Milano 1988, p. 9. 38 39
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erano ancora in vita. Un anno dopo i dati si sono capovolti, con il centro di gravitazione del massacro degli ebrei situato in Polonia 46. Ad un’analisi formale il film diretto da Veit Harlan evidenzia una struttura narrativa e valoriale simile a quella del film classico hollywoodiano. Il racconto di un film classico è basato sulla rigida suddivisione di tre fasi: una iniziale, necessaria a mettere in campo gli elementi portanti della storia e a presentare i vari personaggi; una centrale (di norma la più cospicua), utile per esplicitare gli obiettivi dei personaggi; una conclusiva, obbligata a risolvere il racconto mediante un esito felice e moralmente accettabile. Il racconto segue sempre una progressione lineare, e ogni causa produce un effetto. Tutto ciò, ovviamente, deve rispettare il principio di coerenza e deve facilitare la comprensione dello spettatore. Il risultato di questa logica sono racconti cinematografici progressivi, chiari, unitari 47, e alla trama del film viene assegnata una duplice funzione: la principale serve a definire il genere; la secondaria ad intrecciare la storia d’amore che scorre parallelamente agli avvenimenti. La struttura del film di Veit Harlan è estremamente semplice: ordine, disordine, ritorno all’ordine 48. Struttura propria di un film classico hollywoodiano 49. Nel primo blocco vengono presentati i protagonisti della storia. Nel secondo blocco (il cuore vero e proprio del film) viene ricostruita con la massima chiarezza (ideologica) l’ascesa e la potenza distruttiva 46 Cfr. C. R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino 1995, p. XI. 47 Cfr. K. Thompson, Basic Technique of Progression, Clarity and Unity, in Id., Storytelling in the New Hollywood. Understanding Classical Narrative Technique, Harvard University Press, Cambridge 1999, pp. 10-21. 48 L’uscita francese di Süss, l’ebreo fu accompagnata dalla pubblicazione di una minuziosa ricostruzione della storia del film, in chiave ideologica: cfr. J. Christy, Le Juif Süss, «Le film complet», 2501, 25 giugno 1941. Per rendere conto dell’impostazione antisemita del racconto, basta soltanto riportare le parole conclusive, quando si osserva che il corpo penzolante senza vita è quello dell’«uomo che voleva conquistare e asservire l’Occidente». Ma al di là di questo aspetto, è interessante notare come la storia venga suddivisa in quattro capitoli: De Francfort à Stuttgart, Dans la place, Infamies, Le châtiment. Il primo capitolo si arresta all’entrata di Süss in città; il secondo si apre con queste parole: per l’ebreo «circuire Karl Alexander fu un gioco da ragazzi» e si chiude sul desiderio di sposare Dorothea; il terzo si apre con la visita di Süss alla casa di Sturm e si conclude con l’arresto di Faber; il quarto arriva sino alla conclusione. Rispetto alla suddivisione da noi suggerita in tre blocchi, in questa analisi strutturale c’è soltanto una separazione della parte centrale in due momenti distinti. 49 Cfr. D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison 1985, pp. 158-159.
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del male, al quale alcuni si oppongono. Il terzo blocco, abbastanza rapido, può essere considerato un happy end, una perorazione morale, ovviamente antisemita 50. Nella fase iniziale (della durata di circa venti minuti) viene presentata la città di Stoccarda: ricca, tranquilla, operosa, festante per l’elezione del nuovo sovrano. Il consigliere Sturm ricorda al duca con orgoglio: la migliore città del Württemberg. Quindi è un modello perfetto della Germania. Ordine, libertà, prosperità. Ma una volta lasciato entrare il nemico, ordine, libertà e prosperità vacillano, si disgregano e tutto comincia a precipitare, con una rapidità impressionante. La fase centrale – l’ascesa e la caduta di Süss – occupa la quasi totalità del film. Per tappe successive viene illustrata la rovina della città. Alla scellerata condotta di Karl Alexander e Süss si oppongono la gioventù di Faber (determinato dal primo incontro con l’ebreo) e la saggezza e la fermezza degli anziani Sturm e Van Roeder. Vittime naturalmente sono i cittadini, soprattutto i più deboli, la famiglia Sturm e la città stessa. La debolezza del sovrano (e la perfidia del suo ministro ebreo) sono causa di vessazioni popolari (tasse e impiccagione del fabbro), di corruzione delle ragazze, dell’aggressione e dello svuotamento dei poteri del Consiglio (Süss abilmente illude il duca di poter diventare un monarca assoluto, sul modello francese), degli arresti ingiustificati di Sturm e Faber (al quale viene inflitta persino la tortura) e, fatto davvero esecrabile, della morte di Dorothea. Tutto ciò conduce al disordine e alla rivolta popolare. La fase conclusiva, piuttosto breve, mostra l’eliminazione del male e la restaurazione dell’ordine. Processo, espletamento della condanna a morte, cacciata degli ebrei. L’esecuzione di Süss per la città è una vera e propria liberazione. Ben 1.200 soldati vennero chiamati per controllare la folla accorsa alla piazza del mercato, dove era stato allestito il patibolo 51. E tale liberazione, sulla quale il film si conclude, è costruita cinematograficamente in maniera magistrale. Cinque minuti suddivisi in tre sequenze. Nella prima Süss è ancora, alla morte del sovrano, il ministro delle finanze. Capelli corti, baffi sottili, parrucca, lussuosa giacca damascata. Una Per alcuni semiologi del cinema l’avanzamento del film è regolato da due codici: l’intreccio di predestinazione e la frase ermeneutica. Nel primo codice vengono presentati gli elementi essenziali e la loro possibile (prevedibile e auspicabile) risoluzione; nel secondo codice invece si svolge il racconto: cfr. J. Aumont - A. Bergala - M. Marie - M. Vernet, Estetica del film, Lindau, Torino 1995, pp. 86-89. Süss, l’ebreo non si discosta da questo schema. 51 Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 44. 50
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dissolvenza riprende lo stesso volto, stavolta con la barba e i capelli lunghi. Ora è un semplice imputato alla sbarra. Del passato gli è rimasta soltanto la giacca. Il rapidissimo passaggio, simbolicamente, riporta alla prima immagine dell’ebreo. Aveva indossato una maschera: adesso gli è stata tolta. Così come la macchina si era avvicinata a lui, con lo stesso movimento a ritroso si allontana. Vengono inquadrati i giudici, mentre rivolgono a Süss l’accusa per i crimini commessi. Lui si difende, sostenendo di aver soltanto eseguito gli ordini del duca. La corte si ritira per emettere la sentenza. Süss rimane in aula, in attesa del giudizio. Fra il pubblico il presidente della confraternita dei fabbri, che tiene fra le mani il gonfalone, gli dice che la vendetta per l’ingiusta morte del fabbro è prossima. Nella seconda sequenza la corte, sicura della colpevolezza di Süss, lascia al consigliere Sturm il compito di stabilire l’entità della pena. Quest’ultimo fa ricorso al «libro della legge», dove c’è scritto che se un ebreo ha una relazione carnale con una cristiana, va punito con la morte. Nella terza sequenza, attraverso una dissolvenza, inquadra in primissimo piano Süss. La scena si svolge in esterno, all’aperto, mentre nevica, davanti al patibolo. Viene letta la sentenza: il condannato è introdotto nella gabbia (un «monumento all’infamia») 52, gli viene fissato il laccio al collo e issato. Mentre la gabbia sale è inquadrato Faber, sul cui braccio una donna posa la testa, per non guardare. La macchina si allontana lentamente da lui. La gabbia è inquadrata in campo lungo, quasi al centro della scena. Seguono tre inquadrature, sempre più ravvicinate, fino al massimo raggiungimento della salita della gabbia. Il giudice dà ordine. Il boia da terra tira la corda. Si vedono i piedi nudi di Süss penzolare. In campo lungo viene mostrata la gabbia con il giustiziato privo di vita. Adesso l’immagine, lievemente rallentata, torna su Faber in primo piano, accompagnata da una musica soave. Le ultime inquadrature riprendono Sturm: dichiara che entro tre giorni gli ebrei dovranno abbandonare la città. Questa storia di sofferenza, conclude, dovrà essere un monito e soprattutto non dovrà ripetersi mai più. Il film di Harlan (classificabile nel genere biografico o storico) possiede una struttura estremamente compatta e lineare, e rispetto ad un film hollywoodiano ha una sostanziale differenza: l’impossibilità dell’amore. Dorothea ha subito un inaudito abuso sessuale dall’ebreo. Il cinema classico
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Ibidem, p. 40.
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hollywoodiano si regge su una morale umanista e giudeo-cristiana 53: quello nazionalsocialista su una morale antiumanista e pagana 54. In un film classico americano Dorothea e Faber avrebbero potuto vivere felici, una volta liberati dal nemico. Nel film classico nazionalsocialista il fatto che l’ebreo abbia violentato Dorothea, condanna la donna a morte. Hitler nel Mein Kampf aveva scritto: Il giovanotto ebreo, dai capelli neri crespi, spia per ore e ore, con sul viso un’espressione di gioia satanica, la ragazza ignara, che egli poi sconcia nel suo sangue e distoglie dal suo popolo. Con tutti i mezzi egli cerca di rovinare la base razziale dei popoli soggiogati 55.
L’ebreo per Hitler «rovina programmaticamente donne e ragazze»: le rovina distogliendole definitivamente dal popolo (Dorothea, una volta «contaminata», non potrà più essere moglie e madre tedesca). Süss dunque è come Dracula: un vampiro che succhia la linfa vitale delle vittime, schiavizzandole, avvelenandogli il sangue e rendendole simili a sé. Per liberarsi dal male, infatti, non bisogna soltanto uccidere il «contaminatore» (Dracula e Süss), ma anche i «contaminati» (in Dracula due amiche sono «vampirizzate»: una, Lucy, totalmente – per questa ragione viene uccisa – e l’altra, Mina, solo parzialmente, e nel finale si salva). La morte della donna «vampirizzata» (o contaminata nel sangue ariano, come sostiene Hitler) è obbligatoria. Trattandosi di un film ideologico il lieto fine viene a spostarsi sul lato della vendetta: il responsabile dei crimini salirà sul patibolo, anche se chi lo condanna precisa di agire esclusivamente per ragioni di giustizia. Il discorso sull’antisemitismo non deve essere rinchiuso entro i confini della modernizzazione o della crisi economica, anche se l’una e l’altra contribuirono in maniera non secondaria alla radicalizzazione dell’odio. L’evoluzione dell’antisemitismo in Germania nell’Ottocento fu un processo straordinariamente complesso. Come ha sostenuto George Mosse
Cfr. C. Siniscalchi, La Hollywood classica. L’impero costruito sull’etica americana 1915-1945, Studium, Roma 2009. 54 Cfr. C. Siniscalchi, Il nuovo impero della celluloide. La cinematografia con la svastica, in Id., Anni vertiginosi. Il cinema europeo dalla Belle Époque all’ètà dei totalitarismi 18951945, Studium, Roma 2011, pp. 209-248. 55 A. Hitler, Il Mein Kampf di Adolf Hitler, cit., p. 290. 53
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l’inizio della storia del razzismo europeo si deve collocare nel XVIII secolo, e lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti deve essere considerato il logico punto di arrivo di questa storia 56.
Il razzismo antisemita è sì il parto mostruoso della Germania hitleriana, però ha una incubazione lontana, le cui radici affondano nell’illuminismo e trovano una logica evoluzione nel darwinismo 57. Nella osservazione delle leggi del comportamento animale, Charles Darwin riscontra miglioramento ed evoluzione della specie. Le opere di Darwin non contengono formulazioni razziali, «ma quasi esclusivamente descrizioni di piante e animali, ciononostante fu Darwin e non Gobineau l’involontario progenitore dell’ideologia razzista» 58. Equiparare l’universo animale a quello umano, tutto sommato, è un passaggio logico, che assume la definizione di darwinismo sociale. La questione razziale facilitò la coesione dei diversi filoni dell’antisemitismo. Sin dall’inizio dell’Ottocento l’antisemitismo era presente in tutta la Germania. Anche se le teorie razziali e l’antisemitismo non erano una esclusiva prerogativa tedesca, «in Germania ebbero una particolare diffusione e un alto grado di strumentalizzazione politica» 59. Georges Vacher de Lapouge, «grande teorico del razzismo e del darwinismo sociale in Francia» 60, nei suoi studi ottocenteschi, assai noti in Germania, ha elaborato una teoria socio-antropologica imperniata sulla superiorità dell’uomo ariano 61, rimpiazzando la morale cristiana, ancorata su Dio, con una morale darwiniana centrata sulla specie: «La morale selezionista pone al primo posto il dovere verso la specie, mentre quella cristiana pone i doveri verso Dio» 62. Per Vacher la moderna zootecnia può permettere di «salvare la razza bianca», se gli organismi statali preposti si impegnano a porre un freno alle malattie, specialmente quelle ereditarie, e nella «produzione di uomini sani» 63. Qualsiasi cosa non funzionasse nel tessuto sociale veniva fatta risalire alla responsabilità degli ebrei. Pertanto «il modello cognitivo dell’antiG. L. Mosse, Il razzismo in Europa, cit., p. X. Cfr. M. Marsilio, Razzismo. Un’origine illuminista, Vallecchi, Firenze 2006. 58 M. Burleigh - W. Wippermann, Lo stato razziale. Germania 1933-1945, Rizzoli, Milano 1992, p. 38. 59 Ibidem, p. 47. 60 J. Chapoutot, Comprendre le nazisme, cit., p. 277. 61 Cfr. N. Giove, Le razze in provetta. Georges Vacher de Lapouge e l’antropologia sociale razzista, Il Poligrafo, Padova 2001. 62 G. V. de Lapouge, Les sélections sociales, Fontemoing, Parigi 1896, p. 191. 63 J. Chapoutot, Comprendre le nazisme, cit., p. 278. 56 57
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semitismo nazista aveva preso forma ben prima dell’ascesa del nazismo al potere» 64. Da una parte il popolo, dall’altra la sua antitesi maligna, l’ebreo. I nazionalsocialisti perfezionarono, attraverso l’abile e tambureggiante uso della propaganda, l’immagine del nemico del popolo, gravandolo di ogni responsabilità: la sconfitta militare nella Grande Guerra, la vergognosa resa a Versailles, il disordine di Weimar, il pericolo di scatenare nuove guerre. Il darwinismo sociale dei nazionalsocialisti non trovava giustificazioni intellettuali solo in Arthur de Gobineau, Chamberlain e Vacher, «ma poteva anche basarsi su correnti ben rappresentate del mondo accademico, nel campo della psicologia, della criminologia, dell’assistenza» 65. C’era un solo modo per estirpare il cancro: asportarlo di netto. Nella Germania hitleriana era presente a livello pressoché universale una concettualizzazione degli ebrei che costituiva quella che possiamo definire una ideologia «eliminazionista», la convinzione cioè che l’influenza degli ebrei per la sua natura distruttiva, andava eliminata irrevocabilmente dalla società 66.
Süss, l’ebreo, per certi versi, può essere considerato la sintesi delle innovazioni teatrali di Lessing sulla contrapposizione binaria tra mondo aristocratico (negativo) e borghese (positivo) 67, rivisitata attraverso i meccanismi peculiari della narrativa hollywoodiana 68, e riadattata alle necessità dell’ideologia antisemita nazionalsocialista. Veit Harlan nel film espone praticamente la stessa visione degli ebrei che ha Hitler 69. Nel Mein Kampf – testo che fissa la nuova lingua «in tutti i suoi caratteri fondamentali» 70, «vero Vangelo dei tedeschi» 71 – attraverso i circa 600 riferimenti, spazianti da
D. G. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, cit., p. 85. D. Peukert, Storia sociale del Terzo Reich, Sansoni, Firenze 1989, p. 232. 66 D. G. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, cit., pp. 52-53. 67 Cfr. L. Schulte-Sasse, Entertaining of the Third Reich, cit., p. 53. Nell’opera di Lessing Intrigo e amore. Una tragedia borghese (1784), l’infelice relazione tra la borghese Luise e l’aristocratico Ferdinand, evidenzia una contrapposizione binaria valoriale aristocrazia/ borghesia (intrigo/onestà, ambizioni personali/virtù comunali, materialismo/generosità, rapacità sessuale/amore autentico, donna oggetto sessuale/donna virtuosa, spirito di vendetta/spirito di giustizia). Sembra la storia di Süss, l’ebreo: nell’opera di Lessing anche Luise si toglie la vita come Dorothea, non sopportando la vergogna. 68 Cfr. E. Rentschler, The Ministry of Illusion, cit., p. 150. 69 Cfr. D. Knopp, Wunschbild und Feindbild in Leni Riefenstahls Triumph des Willens und Veit Harlans Jud Süß, Tectum, Marburgo 1997, pp. 50-70. 70 A. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, Giuntina, Firenze 2005, p. 37. 71 Ibidem, p. 148. 64 65
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frettolosi giudizi spregiativi a lunghe e articolate riflessioni 72, Hitler chiarisce in maniera inequivocabile il proprio antisemitismo 73. L’ebreo – onnipresente, astuto, avido e intrigate – occupa un posto di rilievo, «antitesi dell’ariano tedesco, fautore di modernità, primo motore del capitalismo parassita, agente della sovversione marxista e dominatore della Russia sovietica» 74. A differenza di altri antisemiti Hitler riteneva inesistenti le differenze tra ebrei tedeschi e non, di umili o aristocratiche origini, ricchi o poveri 75: Ai suoi occhi esisteva soltanto «l’ebreo». L’ebreo che lottava per dominare i popoli del mondo [...]. Se «l’ebreo» fosse riuscito a prevalere nella lotta in corso, il risultato sarebbe stato il crollo non solo del popolo tedesco, ma di tutti i popoli, anzi del mondo intero. «L’ebreo» era l’incarnazione del male, e assolveva per Hitler la funzione che ha il diavolo per molti cristiani [...]. Essendo l’ebreo il male assoluto, la lotta contro di lui era giusta e legittima 76.
È sorprendente constatare come i convincimenti di Hitler vengano illustrati, nel film di Veit Harlan, quasi alla lettera. «Se gli ebrei – scrive Hitler – fossero soli su questa terra, essi annegherebbero nella sporcizia e nel marciume» 77 (prima il ghetto ebraico e poi gli ebrei che entrano in città, cantando, orda di miserabili con la barba lunga, vestiti di nero e con lo scialle sulle spalle, danno appunto la sensazione di sporcizia e marciume). L’intelligenza degli ebrei «non sarà mai produttrice, ma agirà sempre distruggendo» 78 (l’intelligenza di Süss proprio questo produce: distruzione). Hitler ricorda un pensiero di Schopenhauer: «l’ebreo è un gran maestro di menzogne» 79 (Süss è la quintessenza della menzogna). Finanza e commercio sono monopolio degli ebrei: La misura è colma quando egli comincia poi a introdurre nell’ambito dei suoi affari anche la terra, per renderla commerciabile [...]. La sua tirannia da vampiro diventa così enorme, che ne nascono scandali e rivolte. Si comincia a tenerlo Cfr. T. Dalton (a cura di), Hitler on the Jews, Castle Hill, Salisbury 2019. A. Hitler, Popolo e razza, in Id., Il Mein Kampf di Adolf Hitler, cit., pp. 265-292. 74 A. J. Mayer, Soluzione finale, cit., p. 104. 75 Cfr. D. Di Cesare, Menzogna e finzione. Il non-essere dell’Ebreo in Mein Kampf, in Id., Heidegger e gli ebrei, cit., pp. 76-82. 76 M. Burleigh - W. Wippermann, Lo stato razziale, cit., p. 50. 77 A. Hitler, Il Mein Kampf di Adolf Hitler, cit., p. 276. 78 Ibidem, p. 276. 79 Ibidem, p. 278. 72 73
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d’occhio, e si scoprono in lui nuove caratteristiche ripugnanti; finché l’abisso si fa incolmabile. In tempi di grande bisogno scoppia finalmente l’ira popolare [le disgrazie del popolo cominciano quando Süss si fa assegnare l’amministrazione delle strade] 80.
In maniera ancora più nitida vediamo tracciato il ritratto della storia di Süss: Con ripugnanti adulazioni egli si accosta ai governi, fa scorrere il suo denaro e si garantisce così nuove franchigie per continuare a sfruttare le sue vittime [...]. Scrocca lettere di franchigia e privilegi, che ottiene da signori contro pagamento. E se anche tali documenti gli costano parecchio denaro, egli in pochi anni recupera quel denaro con gli interessi sugli interessi. Un autentico vampiro, che si è avvinghiato al corpo del popolo sventurato [...]. Così, per i principi quel circuire diventò la loro rovina [...]. L’ebreo prevede la loro fine, cerca anzi di affrettarla. Egli stesso fomenta la loro mancanza di denaro, in quanto li allontana sempre più dai loro compiti, li circonda di triviali adulazioni, li guida al vizio 81.
Se i sovrani avevano stoltamente aperto le porte (Karl Alexander non solo le ha aperte, ma ha ceduto anche le chiavi del portone e della cassaforte), «il popolo vedeva l’ebreo – malgrado il vergognoso atteggiamento delle corti – come un elemento straniero nel proprio territorio» 82. Ogni corte per Hitler ha il suo ebreo (Süss è uno di questi). L’ebreo per Hitler si insinua nella corte, si emancipa, diventa tedesco e parla la lingua tedesca, acquista i diritti grazie all’arrendevolezza e alla debolezza dei regnanti. Allarga gli orizzonti: è pronto per conquistare il mondo 83. Per Henry Ford la tattica degli ebrei è sempre stata quella di «camminare diritto al quartiere generale»: anche nei tempi più duri per gli ebrei, abbiamo visto sempre esistere un «ebreo di corte», che con l’aiuto dei suoi prestiti e le catene del debito poté penetrare in qualsiasi momento nelle anticamere reali 84.
Ibidem, p. 280. Ibidem, pp. 280-281. 82 Ibidem, p. 282. 83 Ibidem, pp. 282-283. 84 E. Ford, L’ebreo internazionale, cit., p. 21. 80 81
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Süss, come ha ricordato Léon Poliakov, è il più celebre «ebreo di corte». Gli «ebrei di corte» storicamente hanno servito i sovrani cattolici e protestanti; i sovrani bigotti e illuminati: Amministrano le finanze, sono incaricati di rifornire gli eserciti, di battere moneta, di fornire alla corte tessuti e pietre preziose, di creare nuove industrie, di fabbricare articoli tessili e in cuoio, di prendere in appalto il tabacco o il sale 85.
L’«ebreo di corte» finché ricco e protetto è al riparo da ogni minaccia o ritorsione. Ma resta un paria, sin troppo debole quando gli avvenimenti gli sono sfavorevoli. La gioia suscitata in tutta la Germania per la caduta di Süss, «il suo ritorno in extremis all’ebraismo e la sua tragica fine, sono come il simbolo del destino dell’Ebreo di corte» 86. Il film di Veit Harlan tra il 1940 e il 1943 richiamò più di 20 milioni di spettatori nelle sale cinematografiche europee 87. Nel 1940 l’espansione nazionalsocialista – diretta o indiretta – si è estesa in quasi tutta Europa, compresa la conquista strategica dell’Europa centrale, poiché il controllo di essa per un tempo sufficiente avrebbe garantito ai tedeschi innanzitutto il controllo dell’Europa nel suo insieme e, alla lunga, il dominio nel mondo intero 88. Ciò facilita la diffusione del film oltre i confini tedeschi, a cominciare dalla prima presentazione pubblica, avvenuta nell’ambito della rassegna cinematografica di Venezia del 1940. Il film di Harlan viene presentato in anteprima il 24 settembre all’Ufa-Palast am Zoo, la più moderna sala cinematografica di Berlino 89, e poi programmato in tutto il territorio nazionale. Goebbels è particolarmente soddisfatto per la riuscita della serata: «Un pubblico molto numeroso, tra cui la quasi totalità dei ministri del Reich. Il film riporta un successo eclatante. Non si sentono che parole di entusiasmo. La sala è in delirio. È quello che speravo» (25 settembre 1940) 90. Alla prima berlinese segue la programmazione del film in Finlandia, Dani85 L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo. Da Cristo agli ebrei di corte, vol. I, La nuova Italia, Firenze 1976, pp. 238-239. 86 Ibidem, p. 240. 87 Cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 185. 88 Cfr. B. Simms, Europe. The Struggle for Supremacy. From 1453 to the Present, Allen Lane, Londra 2013, p. 5. 89 Die Rothschilds era uscito il 17 luglio e Der ewige Jude uscirà il 28 novembre: cfr. S. Tegel, Jew Süss, cit., p. 153. 90 J. Goebbels, Die Tagebücher von Joseph Goebbels, vol. I-8, K. S. Saur, Monaco 1998, p. 345.
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marca, Norvegia, Olanda, Belgio, Francia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Polonia. Nel 1941 viene distribuito nei territori sovietici occupati dai tedeschi, in Italia e in Spagna 91. Goebbels, dopo le preoccupazioni per la realizzazione del nuovo film di Leni Riefenstahl («costa un mucchio di soldi»: 8 marzo 1941) 92, registra la favorevole accoglienza del film all’estero: proprio stupenda. In Ungheria, il film ha provocato dimostrazioni nelle strade. Questo film vale quanto un nuovo programma politico. Dimostra che il cinema può esercitare influenza e suscitare un’ispirazione perfettamente allineata ai nostri ideali 93.
Manifestazioni antiebraiche accompagnano l’uscita del film quasi ovunque in Europa 94. Ad Anversa, nel Belgio occupato, l’impiccagione finale di Süss è salutata da incontenibile entusiasmo e qualcuno nella sala urla: «quando sarà il turno degli ebrei di Anversa?» 95. Himmler «obbligò tutti i soldati tedeschi a vederlo, e lo fece circolare là dove si progettava di costruire i campi di sterminio per fomentare l’antisemitismo nella popolazione locale» 96. Questa notizia non è certa. È certo invece l’ordine che Himmler diramò una settimana dopo la presentazione in Germania, che invitava gli appartenenti alle SS e alla polizia di vedere il film 97. Oggi Süss, l’ebreo verrebbe considerato un blockbuster (un blockbuster di produzione nazionalsocialista da veicolare nella «nuova Europa»), l’equivalente di uno dei tanti prodotti hollywoodiani di ottima qualità formale che hanno per protagonista un personaggio realmente esistito o si rifanno a vicende realmente accadute nella storia europea.
Cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., p. 191. Si tratta del film Tiefland, messo in lavorazione da Leni Riefenstahl nel 1940 e interrotto nel 1944. La regista tedesca completò l’opera, dopo lunghe traversie, dieci anni dopo, nel 1954. 93 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., p. 315. 94 Cfr. C. Singer, Le juif Süss et la propagande nazie, cit., p. 195. 95 Cfr. M. Steinberg, La persécution des Juifs en Belgique 1940-1945, Éditions Complexe, Bruxelles 2004, p. 122. 96 R. Greenspur, Cinema e televisione, in W. Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino 2004, p. 155. 97 Il documento originale è stato esposto nella mostra Jud Süss. Propaganda Film im NS-Staat, tenutasi a Stoccarda dal 14 dicembre 2007 al 3 agosto 2008, e inserito nel relativo catalogo. 91 92
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«ben venga la propaganda»
Chiunque vede Süss, l’ebreo, ha scritto Marc Ferro 98, sa bene che le argomentazioni difensive del suo regista non reggono all’analisi del film. Ferro pone l’attenzione su quattro «dissolvenze incrociate». La prima è quella che lega lo stemma ducale all’emblema ebraico della bottega di Süss; la seconda è quella della trasformazione dell’ebreo del ghetto in «ebreo di corte»; la terza è quella delle monete sparse sul tavolo del duca che si trasformano in ballerine; la quarta è di Süss alla sbarra, tornato nuovamente ebreo del ghetto: Quanto vi è di implicito in questi quattro effetti non è innocente. L’ebreo ha due volti, quello del ghetto che non lascia dubbi sulla sua natura subumana, e quello della città, che illude in apparenza, ma che è altrettanto malefico [...] l’ebreo introduce nel castello il gusto del lucro, intimamente legato al vizio; egli travia una società che era sana, nuocendo alla salute della razza. Il cambiamento da uno stemma all’altro simbolizza il paesaggio di potere dagli ariani agli ebrei [...] la scelta dell’utilizzazione delle dissolvenze incrociate assume un significato ideologico; perché, riuniti, questi quattro effetti formano una struttura, un condensato della dottrina nazista. Avendo identificato, coscientemente o meno, gli elementi che definiscono l’essenza della dottrina nazista [...] Veit Harlan è stato tradito dalla sua stessa arte 99.
Il messaggio di Süss, l’ebreo non consente incomprensioni: se gli ebrei entrano nel Württemberg (e il Württemberg in realtà è la Germania), portano sofferenza, paura e disordine. La pace, la prosperità e l’ordine possono ritornare solo dopo il loro allontanamento.
98 Per lungo tempo non è stato compito agevole «vedere» Süss, l’ebreo, poiché dal 1945 quasi inesistenti sono state le proiezioni pubbliche, come i passaggi televisivi e le commercializzazioni in VHS e in DVD. Prima dell’arrivo della rete telematica copie del film si potevano acquistare fermo posta, rivolgendosi a venditori di materiali e cimeli, talvolta apologeti del regime hitleriano. Nel 2008 è uscita un’edizione americana del film, realizzata dalla IHF (International Historic Films): Jud Süss. The Deluxe Restored Version, contenente anche il documentario The Life & Trials of Joseph Süss Oppenheimer di John Abbott, un commento filmato dello storico Eric Rentschler, e un volumetto illustrato curato da David Culbert. La copia del film, in versione originale con i sottotitoli italiani, è allegata ad un libro: A. Cucchi, Jud Süss. Un remake senza coscienza, Effepì, Genova 2013. 99 M. Ferro, Les fondus enchaînés du «Juif Süss», in Id., Cinéma et Histoire, cit., pp. 160-161.
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VI.
Contra Judæos
«Il sentimento comune degli italiani, alla fine degli anni Trenta, era di totale fiducia per Mussolini» 1. A testimoniarlo è la vita culturale del regime fascista: giornali, riviste, pubblicazioni, manifestazioni, convegni, iniziative di vario genere, dai Littoriali alla rassegna cinematografica di Venezia. Particolarmente attivi sono gli intellettuali: vecchi o giovani, accademici o studenti, di provincia o di città, collaboratori dei grandi quotidiani o dei fogli universitari. Battono su tasti diversi: la lotta alla borghesia, il razzismo, l’antisemitismo, l’alleanza con Hitler, il «mito del duce», l’ineluttabilità del trionfo del «nuovo ordine» fascista. Non c’è segno minimo di distaccamento dal regime. È non è una questione dell’impossibilità di esprimersi propria della dittatura. Il consenso non è venuto meno, anche se come ha ben evidenziato Renzo De Felice, il «quadriennio che va dalla metà del 1936 alla metà del 1940, dalla fine cioè del conflitto italo-etiopico alla partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale» (le tappe salienti sono state la guerra di Spagna, l’alleanza sempre più stretta con la Germania e l’approvazione delle «leggi razziali»), rappresenta «per il fascismo una sorta di autunno» 2. Ma ciò non riguarda minimante il consenso nella sfera della cultura. Per cogliere veramente tra gli intellettuali – ha osservato Angelo Ventura – i segni di un diffuso distacco dal fascismo bisogna arrivare alla svolta decisiva del conflitto, al ’42 inoltrato, quando comincia ad apparire chiaro a tutti che il regime, e con esso l’Italia, si avviano alla sconfitta e alla catastrofe 3. R. De Felice, Rosso e Nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 35. R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, vol. II, Einaudi, Torino 1981, pp. 3-5. 3 A. Ventura, Sugli intellettuali di fronte al fascismo negli anni del regime, in Id., Intellettuali. Cultura e politica tra fascismo e antifascismo, Donzelli, Roma 2017, p. 185. 1 2
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«ben venga la propaganda»
Dall’estate del 1938 l’Italia fascista si è dotata di una legislazione razziale, che comporta l’interruzione dell’eguaglianza giuridica degli ebrei, emarginati dal resto della popolazione e limitati nei loro diritti. La storiografia italiana nel dopoguerra ha affrontato superficialmente questa tematica. Nel 1961 Renzo De Felice pubblica un saggio innovativo, suscitando notevoli polemiche 4. Per lo storico reatino il punto di svolta nell’affermazione del razzismo va individuato nella guerra d’Etiopia. La guerra coloniale modella il totalitarismo, imprimendogli una spinta propulsiva: Quel che appare oggi evidente – per Emilio Gentile – a chi osserva la realtà del fascismo nella seconda metà degli anni Trenta, dopo il successo della conquista d’Etiopia, è l’accelerazione consapevole e programmata, del processo di totalitarizzazione della società e dello Stato 5.
Di recente alcuni storici hanno sottolineato come l’interpretazione di De Felice debba essere ampiamente rivista, poiché il razzismo di Mussolini preesisteva «alla salita al potere di Hitler» 6, così come il mito della «cospirazione ebraica», presente nel bagaglio fascista sin dalle origini 7. La matrice antisemita del capo del fascismo andrebbe addirittura rintracciata nell’epoca della sua militanza socialista 8. Per Cesare De Michelis elementi di «antisemitismo politico» rientravano nell’orizzonte ideale del fascismo sin dalle origini, solo che nel primo decennio del regime non ne sono stati una «dominante»: ma quando lo
Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961. Una seconda edizione venne licenziata, essendo l’opera esaurita, a ridosso della prima. Una terza edizione riveduta è uscita nel 1972 e la quarta, ampliata, nel 1988. Sulla genesi e sulle reazioni suscitate dal saggio cfr. P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Le lettere, Firenze 2001, pp. 209-289. Per una approfondita analisi del lavoro di De Felice, anche alla luce della storiografia successiva, cfr. M. Toscano, Fascismo, razzismo, antisemitismo. Osservazioni per un bilancio storiografico, in Id., Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 208-243. 5 E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, La nuova Italia scientifica, Roma 1995, p. 137. 6 Cfr. G. Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005, p. 9. 7 A. Ventura, Il fascismo e gli ebrei. Il razzismo antisemita nell’ideologia e nella politica del regime, Donzelli, Roma 2013. 8 Cfr. M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2005, p. 73. 4
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contra judæos
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divennero, non si trattò di un fenomeno estrinseco [...], bensì l’emergere d’una tendenza sin lì latente 9.
Come ha notato George Mosse «Mussolini non era un razzista [...] non era oppresso [come Hitler] da un grosso bagaglio ideologico e da una visione apocalittica» 10. Il fascismo, nel giudizio dello storico americano Robert Paxton, «mostrò pochissimi segni di antisemitismo nei primi sedici anni di vita» 11, e sempre uno storico americano, James Gregor, sottolinea come il «razzismo delle origini fu sostanzialmente un innocuo prodotto del pensiero protofascista italiano e non italiano» 12. Mussolini, come ha suggerito Antonio Spinosa, deve considerarsi un «razzista riluttante», il cui antisemitismo oscillava tra l’indifferenza e l’opportunismo politico 13. Mussolini aveva amici intimi ebrei, come Aldo Finzi. E aveva avuto due amanti ebree (in diverse epoche della sua vita): la socialista rivoluzionaria Angelica Balabanoff e la socialista prima e fascista poi Margherita Sarfatti. Entrambe hanno ricordato nelle memorie il loro rapporto con Mussolini, senza però evidenziare nulla al riguardo del suo razzismo e antisemitismo. Angelica Balabanoff nel 1942, con la collaborazione di Giuseppe Prezzolini, pubblicò a fascicoli un ritratto di Mussolini, nell’arco di tempo compreso tra l’emigrazione in Svizzera e il delitto Matteotti. Lo dipinge come un «traditore» del socialismo 14. Nella successiva autobiografia, uscita nel 1968, i giudizi su Mussolini sono sprezzanti. Ma non una parola sul razzismo o sull’antisemitismo del fondatore del fascismo 15. Margherita Sarfatti in una serie di articoli usciti a partire nel 1945 su una rivista di Buenos Aires, ammette di essersi sbagliata nel sostenere Mussolini 16. Nell’autobiografia ricorda il salotto milanese dei socialisti Filippo Turati e Anna Kuliscioff; i caffè letterari di Roma (Aragno), Firenze (Pazkovski) e Milano (Savini); Filippo Tommaso Marinetti e la nascita del futurismo; Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio; artisti italiani e stranieri; principi e reali; aristocra9 C. G. De Michelis, I Protocolli dei Savi di Sion. Un apocrifo del XX secolo, Marsilio, Venezia 1998, p. 173. 10 G. L. Mosse, Il razzismo in Europa, cit., p. 215. 11 R. O. Paxton, Il fascismo in azione, cit., p. 11. 12 A. J. Gregor, L’ideologia del fascismo, Edizioni del Borghese, Roma 1974, p. 229. 13 Cfr. A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma 1994, p. 12. 14 Cfr. A. Balabanoff, Il traditore, Napoleone, Roma 1973. 15 Cfr. A. Balabanoff, La mia vita di rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1979. 16 Cfr. M. G. Sarfatti, My Fault. Mussolini as I Knew Him, Enigma Books, New York 2014.
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tici e borghesi; letterati di varia grandezza e frequentatori del bel mondo. Di Mussolini non vi è traccia. Né positiva né negativa. Acqua passata 17. Eppure, l’aveva amato, seguito da «L’avanti!» a «Il popolo d’Italia», dal socialismo al fascismo. Ne aveva addirittura magnificato le gesta, scrivendone una biografia per accreditarne il prestigio internazionale, uscita prima in inglese 18 e poi in italiano. Balabanoff e Sarfatti non si sopportano. Entrambe della rivale ne dipingono un ritratto sgradevole. Per Margherita Angelica è «piccola e deforme», certo «intelligentissima», ma di una strana intelligenza a baleni, lacune e folgori [...]. La immagino benissimo ossessa e flagellante nelle processioni del Medio Evo, oppure nella grotta di Lourdes, a sferzare il miracolo e partorirlo, nell’atmosfera arroventata del suo fervore e della sua follia 19.
Successivamente ne rimarca la bruttezza «quasi deforme», la voce stridula, il volto grigio: «una zitella» che si vantava di essere stata sempre in compagnia di un uomo. Il suo fascino era l’oratoria, ma «con l’acqua aveva pochissima dimestichezza»» 20. Angelica, che aveva conosciuto Mussolini durante l’esilio in Svizzera (dove era riparato per evitare il servizio militare e si trovava in gravi difficoltà economiche), ricorda come Margherita non si gloriò della sua amicizia con Mussolini fintanto che egli fu un «fanatico della rivoluzione» poveramente vestito. Ma, dopo l’ascesa al potere del Duce, non mancò mai di accennarne ad ogni occasione, senza che il suo ricco marito si adontasse per le chiacchiere che si facevano su quella storia 21.
Mussolini si fidava ciecamente solo di due persone: il fratello Arnaldo e Margherita Sarfatti. Dopo aver elevato l’amante a «musa» della nuova arte fascista 22, l’aveva emarginata. Giuseppe Bottai il 23 settembre 1938 annota nel diario una conversazione avuta con Mussolini:
Cfr. M. Sarfatti, Acqua passata, Cappelli, Rocca di San Casciano 1955. Cfr. M. G. Sarfatti, The Life of Benito Mussolini, Butterworth, Londra 1925. 19 Cfr. M. G. Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano 1926, p. 77. 20 Ibidem, p. 78. 21 Cfr. A. Balabanoff, La mia vita di rivoluzionaria, cit., pp. 52-53. 22 Cfr. R. Ferrario, Il Novecento: la Sarfatti grande critico d’arte, in Id., Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista, Mondadori, Milano 2015, pp. 214-267. 17 18
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Anch’io ho avuto un’amica ebrea: la Sarfatti. Intelligente, fascista, madre di un autentico eroe 23. Eppure, cinque anni fa, prevedendo che il problema ebraico ci si sarebbe imposto, io ò provveduto a liberarmene. La feci licenziare dal «Popolo d’Italia» e dalla direzione di «Gerarchia»... con regolare liquidazione 24.
L’allontanamento da «Il popolo d’Italia» dei collaboratori ebrei iniziò nel novembre 1936. Le ragioni della rottura tra Mussolini e Margherita non hanno nulla a che vedere con questioni razziali 25. Avvennero molto prima della data indicata da Mussolini, per divergenze di opinioni sulla politica culturale del fascismo. E soprattutto per l’insistente ostilità della moglie di Mussolini. All’apparizione di ogni articolo di Margherita su «Il popolo d’Italia» Rachele si infuriava. Le pressioni della moglie, spesso accompagnate da vere e proprie scenate di gelosia, e la perdita di interesse per l’amante, spinsero Mussolini ad allontanarla. Prontamente i nemici di Margherita, a conoscenza delle difficoltà, alzarono il tiro. Gli attacchi contro di lei, condotti con grande energia da Roberto Farinacci, ricorrendo spesso all’invettiva antisemita (apparteneva alla «razza di Shylock»), iniziarono nel 1931 26. Nel 1932 non venne chiamata a collaborare per l’organizzazione della Mostra della rivoluzione fascista. Il suo apporto alla «nuova arte» fascista ormai era un ricordo del passato. Perse la collaborazione con «Il popolo d’Italia» e la direzione dell’importante rivista teorica di Mussolini «Gerarchia». Dopo l’approvazione delle «leggi razziali» Margherita abbandona l’Italia, stabilendosi in America Latina, tra Argentina e Uruguay. Anche la recente disponibilità di consultazione del fondo di Clara Petacci conferma la natura dell’antisemitismo mussoliniano. Come ha rilevato Giorgio Israel, dalle carte private traspare l’immagine di Mussolini incline a un razzismo generico che egli estremizza alla vigilia del 1938, quando sceglie di calcare la mano su questo tema per imprimere una nuova svolta rivoluzionaria al fascismo 27.
23 Roberto, figlio di Margherita, diciassettenne caporale degli alpini, era morto eroicamente nel 1918, ricevendo la massima onorificenza, la medaglia d’oro al valore militare. 24 G. Bottai, Diario 1935-1944, Rizzoli, Milano 1982, p. 134. 25 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 251. 26 Cfr. P. V. Cannistraro - B. R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Mondadori, Milano 1993, pp. 415-443. 27 G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, il Mulino, Bologna 2010, p. 30.
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Nelle lettere conservate o trascritte dalla Petacci (che si definisce «antisemita per istinto razziale») 28, riferendosi agli ebrei Mussolini li definisce dei lazzaroni: «A Cortina d’Ampezzo fanno vergogna: vanno negli alberghi per farsi ancora servire dagli ariani» 29. «Sono delle autentiche canaglie!» 30. Nelle missive che invece Benito scrive a Clara durante la Repubblica di Salò 31, «la parola ebreo compare solo due volte. Non si riferisce al presente delle persecuzioni, ma alla storia del passato» 32. De Felice sottolinea il fatto che Mussolini equiparasse l’ebraismo internazionale all’antifascismo: ma è un convincimento suo e non del fascismo, idea oltretutto maturata sotto il peso degli avvenimenti, legati alla politica internazionale. Il lavoro di De Felice, innanzitutto, ha contribuito a smontare un duplice luogo comune: che l’approvazione delle «leggi razziali» sia dovuta alle pressioni tedesche («lo stato fascista divenuto per volere di Hitler antisemita» si leggeva nella ricostruzione, datata 1946, di Eucardio Momigliano) 33; e che dopo l’entrata in vigore delle discriminazioni antisemite si sia manifestata una crisi di consenso popolare verso il fascismo. Inoltre, insiste sul fatto che prima della sterzata impressa da Mussolini, il razzismo in Italia era pressoché sconosciuto e l’antisemitismo, tranne posizioni individuali e tutto sommato isolate (la più appariscente è quella di Giovanni Preziosi) 34, mancava di tradizione e radicamento. Per trovare violenze antiebraiche simili ad un pogrom sul territorio italiano occorre risalire all’invasione napoleonica. Sul finire del XVIII secolo l’arrivo dei francesi apre le porte dei ghetti: «gli ebrei sono liberi, citoyens con gli stessi diritti di tutti gli altri. Si tratta della loro prima emancipazione» 35. Ma ciò scatenò Cfr. P. Chessa - B. Raggi, L’ultima lettera di Benito. Mussolini e Petacci: amore e politica a Salò 1943-45, Mondadori, Milano 2010, p. 103. 29 C. Petacci, Mussolini segreto. Diari 1932-1938, Rizzoli, Milano 2009, p. 34. 30 Ibidem, p. 36. 31 Cfr. B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci 1943-1945, Milano, Mondadori 2011. 32 P. Chessa - B. Raggi, L’ultima lettera di Benito, cit., p. 15. 33 Cfr. E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo fascista, Mondadori, Milano 1946, p. 78. 34 Cfr. R. De Felice, Giovanni Preziosi e le origini del fascismo, in Id., Intellettuali di fronte al fascismo, Bonacci, Roma 1985, pp. 128-183; L. Parente - F. Gentile - R. M. Grillo (a cura di), Giovanni Preziosi e la questione della razza in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; R. Canosa, A caccia di ebrei: Mussolini, Preziosi e l’antisemitismo fascista, Mondadori, Milano 2006. 35 R. G. Salvadori, 1799. Gli ebrei italiani nella bufera antigiacobina, La Giuntina, Firenze 1999, p. 5. 28
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rivolte popolari, nelle campagne come nelle città, spesso sanguinose, e vendette con omicidi, assalti, saccheggi e distruzione dei ghetti. I fatti più gravi si verificano a Senigallia (18 giugno 1799) e a Siena (28 giugno 1799). La piccola comunità israelita in Italia (3.000 ebrei su un totale di 10.000.000 di abitanti), assolutamente estranea all’occupazione francese, accusata di essere ricca e giacobina, finisce per pagare un prezzo di sangue molto alto. L’Italia liberale aveva facilitato al massimo la piena integrazione degli ebrei, soprattutto nelle professioni intellettuali e nei commerci. Ciò non significa, come ha rilevato Enzo Collotti, che non vi fossero episodi di insofferenza verso gli ebrei, i loro costumi o modi di vivere, forse neppure tanto isolati. Ma essi non ebbero la forza di diventare movimento politico 36.
Dello stesso avviso è Michele Sarfatti: Nel primo ventennio del Novecento la presenza di ebrei ai massimi vertici politici della società italiana raggiunge un’ampiezza numerica e una rilevanza qualitativa decisamente superiori alle esigue dimensioni del gruppo ebraico 37.
L’antisemitismo italiano non ha mai avuto radici profonde, «neppure lontanamente paragonabili» 38 a quelle tedesche, francesi o romene. Per Hannah Arendt non è una esagerazione sottolineare come «già nell’anteguerra la Romania era il paese più antisemita d’Europa» 39. Dopo il primo conflitto mondiale «l’utilizzo dell’antisemitismo come ideologia per le masse e strumento di lotta politica fu frequente in Europa, con significativa eccezione dell’Italia» 40. Nel 1938 le normative ostili agli ebrei conoscono un’improvvisa quanto rapida impennata in Europa, con diverse intensità e attraverso differenti modalità giuridiche e amministrative, in Germania, Austria, Polonia, Romania, Ungheria e Italia. Pertanto, dotandosi di una legislazione razziale il fascismo «decide di entrare a pieno titolo nell’Europa 36
p. 9.
E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2003,
M. Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali 11**. Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, Einaudi, Torino 1997, p. 1625. 38 G. Israel - P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, il Mulino, Bologna 1998, p. 20. 39 H. Arendt, La banalità del male, cit., p. 196. 40 V. De Cesaris, Spiritualmente semiti, cit., p. 102. 37
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antisemita che va disegnandosi alla fine degli anni Trenta» 41. L’antisemitismo italiano va dunque collocato in un processo a carattere continentale; processo al quale Mussolini, data la rilevanza politica e diplomatica del fascismo e del Regno d’Italia, partecipò da protagonista 42.
Gli ebrei (arrivati negli anni Trenta a sfiorare le 50.000 unità) 43 erano integrati nella società italiana. Dal 1922 al 1937 «l’atteggiamento ufficiale del governo fascista verso gli ebrei era sommariamente espresso nella frase: “In Italia non esiste la questione ebraica”» 44. Tale frase l’aveva stampata il giornalista ebreo Emil Ludwig nel celebre libro-intervista a Mussolini. Il duce prima aveva rigettato il razzismo, affermando che «da felici mescolanze deriva spesso forza e bellezza a una nazione», aggiungendo: «Quelli che proclamano nobile la razza germanica sono per combinazione tutti non germanici: Gobineau francese, Chamberlain inglese, Woltmann israelita, Lapouge nuovamente francese» 45. Poi la stoccata finale: «L’antisemitismo non esiste in Italia» 46. Lo stesso convincimento era riscontrabile nella voce «antisemitismo» apparsa nell’Enciclopedia italiana di Giovanni Gentile, redatta da Alberto Pincherle, libero docente di Storia del cristianesimo e Storia moderna all’Università di Roma. Se l’antisemitismo si era espanso un po’ ovunque in Europa dopo la Grande Guerra, l’Italia era stata tenuta al riparo dalla «tradizione del nostro Risorgimento nazionale». Mancano inoltre i motivi economici e sociali che, se non giustificano, spiegano in parte la fortuna dell’antisemitismo in altri paesi: scarsi di numero gli ebrei italiani e quasi
41 V. Galimi, Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e la persecuzione contro gli ebrei, Le Monnier, Firenze 2018, p. 35. 42 M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi razziali del 1938, Zamorani, Torino 1994, p. 82. 43 Nel 1938 il censimento effettuato registra 47.825 ebrei residenti in Italia, di cui 8.713 stranieri: cfr. M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, il Mulino, Bologna 2008, p. 29. Per De Felice sarebbero 47.252: cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 6. Per Valeria Galimi 58.412, di cui 48.032 italiani e 10.380 stranieri: cfr. V. Galimi, Sotto gli occhi di tutti, cit., p. 13. 44 M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo-tedesche e la politica razziale in Italia, Edizioni di comunità, Milano 1982, p. 49. 45 E. Ludwig, Colloqui con Mussolini [1932], Mondadori, Milano 2001, pp. 54-55. 46 Ibidem, p. 55.
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tutti stabiliti da secoli nel paese, sì da essersi completamente italianizzati; lunga tradizione di pacifica convivenza tra ebrei e cristiani, specialmente in quelle provincie, come la Lombardia, la Venezia, la Toscana, nelle quali la tolleranza è stata largamente praticata anche dagli antichi governi; mancanza di un’alta banca e di un’oligarchia finanziaria specificamente ebraiche 47.
La svolta razzista e antisemita di Mussolini comincia ad essere esplicitata pubblicamente l’ultimo giorno del 1936, quando su «Il popolo d’Italia» appare un articolo privo di firma (anche se riconducibile a lui) dal titolo minaccioso: Il troppo storpia. Mussolini esordisce con una domanda retorica: come si fa ad essere antisemiti? E risponde: «l’antisemitismo è inevitabile laddove il semitismo esagera con la sua esibizione, la sua invadenza e quindi la sua prepotenza. Il troppo ebreo fa crescere l’antiebreo». La presa di posizione mussoliniana scaturiva dalla notizia, riportata da una testata francese («Gringoire»), che denunciava come nel governo del Fronte popolare di Léon Blum (salito al potere nel maggio del 1936) si era insinuata una potentissima «cellula ebraica». Ne concludeva: «L’annunciatore e il giustificatore dell’antisemitismo è sempre e dovunque uno solo: l’ebreo» 48. L’aria stava decisamente cambiando. Ne è ulteriore testimonianza un’annotazione di Ciano nel diario del 6 settembre 1937: Il Duce si è scagliato contro l’America, paese di negri e di ebrei. Elemento disgregatore della civiltà. Vuole scrivere un libro: l’Europa nel 2000. Le razze che giocheranno un ruolo importante saranno gli italiani, i tedeschi, i russi e i giapponesi. Gli altri popoli saranno distrutti dall’acido della corruzione 49.
Il fuoco della polemica viene acceso dalla pubblicazione nel 1937 del saggio di Paolo Orano Gli ebrei in Italia, preciso indicatore della fisionomia prima razzista e poi antisemita che stava assumendo lo Stato totalitario. Orano, nato a Roma nel 1875, può essere considerato il «portavoce ufficioso
47 A. P. (A. Pincherle), Antisemitismo, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vol. III, Bestetti & Tumminelli, Milano 1929, p. 531. 48 Articolo non firmato (B. Mussolini), Il troppo storpia, in «Il popolo d’Italia», 31 dicembre 1936. Che l’articolo sia di Mussolini è confermato dal fatto che è stato inserito nell’opera omnia: cfr. B. Mussolini, Opera Omnia di Benito Mussolini, vol. XXVIII, La Fenice, Firenze 1959, p. 98. 49 G. Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano 1980, p. 35.
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del regime» 50. Giornalista, massone, socialista, sindacalista rivoluzionario, interventista, Mussolini lo cita in La dottrina del fascismo, annoverandolo fra i sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le «Pagine libere» di Olivetti, «La lupa» di Orano, il «Divenire sociale» di Enrico Leone 51.
Collaboratore de «Il popolo d’Italia» (di cui per due anni sarà direttore dell’edizione romana) e «Gerarchia», Orano viene eletto deputato nel 1919 (verrà più volte rieletto). In seguito, diventa rettore dell’Università di Perugia e senatore. Prolifico scrittore (trecento libri pubblicati in mezzo secolo di attività), cura per Pinciana, casa editrice romana, una serie di volumi tematici che raccolgono i pensieri di Mussolini. Sin dagli esordi saggistici si occupa di problemi del cristianesimo 52. Pinciana nel 1935 ha editato il saggio del banchiere ebreo Ettore Ovazza Sionismo bifronte. Per Ovazza in questo «secolo – scrive nel 1933 – in cui sovrasta su tutti la personalità imponente del Duce, avrà nome “Fascismo”» 53. Nel saggio Ovazza sottolinea l’allineamento della comunità israelitica al fascismo: «l’israelita cittadino italiano ha saputo diventare un buon fascista conservando intatta la sua fede religiosa» 54. Inoltre, gli ebrei italiani «saranno sempre ansiosi e fieri di rimanere nelle avanguardie del grande esercito di camicie nere che marcia verso la mèta segnata dal Duce» 55. Gli ebrei in Italia (Antonio Spinosa ritiene sia stato Mussolini stesso a chiedere esplicitamente a Orano di scrivere il libro per agitare le acque) 56 «ebbe una eco immediata e larghissima» (due edizioni in pochi mesi) 57. «Il popolo d’Italia» recensisce Gli ebrei in Italia 50 M. Battini, Il cuore di tenebra della civiltà italiana. Il tragitto di Paolo Orano, in Id., Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 161. 51 B. Mussolini, La dottrina del fascismo, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1936, pp. 22-23. 52 Cfr. P. Orano, Il problema del cristianesimo, Lux, Roma 1900. Il testo, più volte ristampato, esce nella versione definitiva con un altro titolo: cfr. P. Orano, Cristo o Quirino, Campitelli, Foligno 1928. 53 E. Ovazza, Politica fascista, Sten, Torino 1933, p. 8. 54 E. Ovazza, Sionismo bifronte, Pinciana, Roma 1935, p. 12. 55 Ibidem, cit., p. 24. 56 Cfr. A. Spinosa, Le persecuzioni razziali in Italia. I. Le origini, in «Il ponte», 7, 1952. De Felice scrive che «la cosa è possibile, anche se è certo che Mussolini non lo approvò in pieno»: cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 212. 57 M. Battini, Il cuore di tenebra della civiltà italiana, cit., p. 135.
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con grande favore 58 (per De Felice una esplicita approvazione da parte di Mussolini) 59. Orano nel pamphlet parte dall’assunto che in Italia si scrive pochissimo sulla questione ebraica 60. Entrando nel vivo della polemica osserva: Il genio ebraico si sarà speso per la Germania, per la Francia, per l’Inghilterra. Per l’Italia, no [...]. È innegabile che gli ebrei non abbiano dato all’Italia un genio 61.
Gli ebrei italiani in età liberale aderiscono alle «ideologie libere-pensatrici, democratiche, repubblicane, socialistiche, positivistiche, critiche, anticlericali», senza subire la minima discriminazione «nelle carriere, negli uffici, nelle banche, nei commerci, nelle università [...] nelle scuole, nel giornalismo, al governo» 62. Orano nutre forti preoccupazioni per l’ebraismo internazionale («L’ebraismo ha sempre cercato la via dell’internazionale») 63: sionismo, massoneria, marxismo, la Russia bolscevica, la Francia del Fronte popolare guidata dall’ebreo Blum, a suo avviso stanno spingendo l’«ospite tradizionale delle patrie europee» a sollevarsi contro le patrie 64. «Di fronte al minaccioso atteggiamento dell’ebraismo internazionale ed alla sua presa di posizione contro i regimi di autorità e il fascismo» 65, quest’ultimo ha reagito con la politica della razza. In un lungo capitolo si rivolge direttamente a Ovazza 66. «Gli ebrei in Europa si sono venuti impossessando della società tutta quanta», e Ovazza ha occhi solo per l’Italia, rifiutandosi di vedere la totalità della prospettiva europea 67. Ovazza pubblica nel 1938, nella collana di Studi politici e religiosi da lui diretta per Pinciana, una risposta alle contestazioni di Orano 68. E la stessa casa editrice, con lo pseudonimo di Catholicus, risponde immediatamente, aumentando di intensiO. Gregorio, Gli ebrei in Italia, in «Il popolo d’Italia», 25 maggio 1937. Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 251. 60 Cfr. M. Battini, Un “eccitatore” di cultura antiebraica: Paolo Orano, in D. Menozzi - A. Mariuzzo (a cura di), A settant’anni dalle leggi razziali. Profili culturali, giuridici e istituzionali dell’antisemitismo, Carocci, Roma 2010, pp. 89-105. 61 P. Orano Gli ebrei in Italia, Pinciana, Roma 1937, p. 69 e p. 171. 62 Ibidem, p. 135. 63 Ibidem, p. 194. 64 Ibidem, p. 189. 65 Ibidem, p. 217. 66 Ibidem, pp. 107-143. 67 Ibidem, p. 113. 68 Cfr. E. Ovazza, Il problema ebraico. Risposta a Paolo Orano, Pinciana, Roma 1938. 58 59
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tà la polemica antisemita. L’autore (alcune fonti sostengono si tratti dello stesso Orano, ma non vi è nessuna certezza) si definisce un «fedele militante cattolico apostolico romano», assolutamente non settario. La guerra di Etiopia ha provocato una campagna internazionale contro il fascismo, nella quale l’ebraismo «ha avuto ed ha una parte non irrilevante» 69. L’ebraismo italiano è una cosa: l’ebraismo internazionale un’altra, essendo alleato con massoneria e comunismo. È stato proprio Orano, «l’indimenticabile polemista, che si incaricò di lanciare la pietra nei vetri» 70 con Gli ebrei in Italia, ad entrare nel vivo del problema, senza forzature. Le asserzioni di Orano raccolgono anche critiche negative, ritenute tiepide e ingenue da un antisemita del calibro di Giovanni Preziosi: «non si sentono però di venire a tutte le logiche conclusioni, restano a mezza strada e danno prova di una certa ingenuità» 71. Ad un anno di distanza i teorici del razzismo Guido Landra e Giulio Cogni chiuderanno il discorso: Gli ebrei in Italia è «opera che svolge concetti oggi non più accettabili, ma che nondimeno hanno contribuito a suo tempo alla chiarificazione del problema ebraico, meno da un punto di vista razzistico che politico e sociale» 72. Orano nel 1939 cura la pubblicazione di un altro saggio: Inchiesta sulla razza. È un’antologia di scritti aperta da una sua lunga introduzione. L’intransigenza fascista nei confronti degli ebrei è motivata dalla loro «autoemancipazione». Nel 1882 a Berlino viene dato alle stampe l’opuscolo Auto-emancipation di Jehudan Pinsker, il testo dell’«orgoglio ebraico» e un classico del sionismo. Gli ebrei sono invitati da Pinsker a non integrarsi nel paese che li ospita, in nome del netto «separatismo talmudico» e del «nazionalismo sionista». A partire dal 1882, oltre all’installazione delle prime colonie in Palestina, gli ebrei – razza eletta – iniziano a «predare» l’Europa, attraverso il controllo finanziario, economico e intellettuale. Diventano i maestri del complotto, del sovvertimento, della lotta di classe. Determinano l’insorgenza del bolscevismo, del comunismo terroristico, del sionismo. Il fascismo ha allontanato gli ebrei dalla scuola. Ma non basta: «dobbiamo 69 Catholicus, Io cattolico e Israele. In margine al libro di Paolo Orano, Pinciana, Roma 1938, p. 127. 70 Ibidem, p. 141. 71 Arthos, Gli Ebrei in Italia e il vero problema ebraico, in «La vita italiana», CCLXLI, 1937. Seguirà un altro commento negativo: R. L., Gli Ebrei in Italia, Orano e l’ingenuità, in «La vita italiana», CCXLVIII, 1938. 72 Cfr. G. Landra - G. Cogni (a cura di), Piccola bibliografia razziale, Ulpiano, Roma 1939, p. 75.
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espellere dalla società gli ultimi relitti dell’infiltrazione mentale ebraica» 73. La prosa di Orano cede ai tempi della propaganda antisemita 74. Sempre nel 1937 esce Il mito del sangue 75, saggio razzista del filosofo Julius (Giulio Cesare Andrea) Evola. Il radicale razzismo antisemita di Evola «appare una costante della sua dottrina [...] uno dei cardini fondamentali del suo pensiero [anche se] si sviluppa in modo autonomo rispetto al razzismo e all’antisemitismo politico del fascismo» 76. In modo certamente autonomo, ma comunque convergente. Evola ha sposato la rivoluzione fascista da subito, pur se da un punto di vista particolare. A suo avviso il fascismo deve necessariamente evolversi in una «rivoluzione pagana» 77 e ancorare la propria filosofia della storia alla tradizione mediterranea 78, per rispondere alla decadenza occidentale. Evola nel 1936 aveva raccolto alcune sue brevi meditazioni sul «problema ebraico» 79. Il filosofo italiano contrappone al «razzismo biologico» del nazionalsocialista Rosenberg (che vagheggiava il ritorno all’uomo «ariano», identificandolo con il «nordico» e il «tedesco», mentre Evola si aggancia alla tradizione «romana» e «mediterranea», depurata da ogni scoria cristiana), il «razzismo spirituale», riconoscendo «che la scelta razzista del regime costituiva un punto di svolta decisivo in tutto l’impianto del fascismo» 80. I convincimenti di Evola gli attirano l’ostilità dei cattolici. Ma anche molti fascisti restano perplessi. Il mito del sangue «rappresenta la più organica storia delle dottrine razziste mai concepita in Italia sino ad allora» 81. Il razzismo per Evola fa parte della rivoluzione, ed essendo il fascismo una filosofia della «rivoluzionaria totalitaria», il 73 Cfr. P. Orano, Il testo “classico” dell’autoemancipazione ebraica, in Id. (a cura di), Inchiesta sulla razza, Pinciana, Roma 1939, pp. 5-48. 74 Imprigionato, Orano morì nel campo di internamento per prigionieri civili allestito dagli anglo-americani nella Certosa di Padula nel 1945: cfr. G. N. Page, Padula, Edizioni mediterranee, Roma 1956, pp. 293-300. 75 Cfr. J. Evola, Il mito del sangue, Hoepli, Milano 1937. 76 G. S. Rossi, Evola e la leggenda dell’antisemitismo «spirituale», in R. Chiarini (a cura di), L’intellettuale antisemita, Marsilio, Venezia 2008, p. 188. 77 Cfr. J. Evola, Spiritualità imperiale e retorica neoprotestante, in «Critica fascista», 15 ottobre 1926. 78 Cfr. J. Evola, Fascismo antifilosofico e tradizione mediterranea, in «Critica fascista», 15 giugno 1927. 79 Cfr. J. Evola, Tre aspetti del problema ebraico: nel mondo spirituale, nel mondo culturale, nel mondo economico sociale, Edizioni Mediterranee, Roma 1936. 80 F. Germinario, Razza del Sangue, razza dello Spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo 1930-43, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 26. 81 F. Cassata, A destra del fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 226.
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razzismo non può che esserne l’essenza, appunto «totalitaria» 82. In Il mito del sangue Evola disegna la genealogia storica del razzismo, partendo da Fichte e risalendo per tappe successive sino al «mito artico» e alla concezione razzista della storia di Rosenberg. Ovviamente Evola non affonda nella polemica, ma esprime serie perplessità sull’accusa di Rosenberg, per il quale si deve risalire all’antichità romana – un impero mondiale 83 che apre le porte al cristianesimo 84 – per individuare l’inizio della distruzione della razza. Evola conviene sul fatto che a causa «della sua decomposizione razziale Roma era diventata sinonimo di Apia e Siria» 85, ma vede nelle finalità razziste di Rosenberg la semplice sostituzione del cristianesimo con una nuova religione eroica, tedesca e ariana. La conclusione del saggio è una disamina del pensiero razzista e antisemita di Hitler. Senza Hitler per Evola il razzismo sarebbe rimasto «una tendenza secondaria tenuta piuttosto in sospetto dalla cultura moderna» 86. Quella di Hitler è una lettura del mondo semplice, divisa in tre paradigmi: la razza ariana si identifica con la civiltà; ci sono razze inferiori che si civilizzano; ci sono razze incapaci di civiltà, come gli ebrei, distruttori parassiti e disgregatori 87. Se il libro di Orano è prettamente giornalistico, e quello di Evola prettamente filosofico, il velenoso pamphlet di Telesio Interlandi Contra Judæos, uscito a ridosso delle «leggi razziali», è il il libro nel quale si denuncia, senza mezzi termini, «lo strapotere degli ebrei in Italia e l’invasione delle professioni intellettuali» 88. Interlandi non è un teorico ma un propagandista. Ragusano nato a Chiaramonte Gulfi nel 1894, traduttore dal russo Alexandr Blok 89, si è fatto le ossa nel giornalismo, come polemista agguerrito, a «L’Impero», la testata futurista-monarchico-fascista diretta da Mario Carli e Alberto Settimelli. Nel 1924 è stato chiamato da Mussolini a dirigere il quotidiano «Il Tevere». Lo stile aggressivo gli vale «il motto
Evola nel corso degli anni andrà sempre di più precisando la sua concezione di «razzismo totalitario», in scritti su giornali, riviste e saggi, sino alla definitiva sistemazione teorica: cfr. J. Evola, Sintesi di dottrina della razza, Hoepli, Milano 1941. 83 Cfr. J. Evola, Il mito del sangue, cit., p. 187. 84 Ibidem, p. 188. 85 Ibidem, p. 189. 86 Ibidem, p. 241. 87 Ibidem, pp. 245-6. 88 V. Pisanty, La difesa della razza. Un’antologia 1938-1943, Bompiani, Milano 2006, p. 47. 89 Cfr. A. Blok, Poesia e arte bolscevica, Rassegna internazionale, Pistoia 1920. 82
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amicale e sfottente» di Anton Giulio Bragaglia: il «terribile Interlandi» 90. Nel 1933 diventa direttore anche del settimanale «Quadrivio». Nelle due testate si forma l’«antisemitismo della penna» che sostiene la polemica antisemita e razzista su «La difesa della razza», quindicinale uscito nel 1938 per volere di Mussolini, alla cui direzione chiama Interlandi, in concomitanza con l’approvazione delle «leggi razziali». «La difesa della razza» è la testata «più famosa del razzismo fascista [...] con il preciso scopo di elaborare e divulgare una dottrina scientifica della razza» 91. In Contra Judæos Interlandi annuncia che è giunto il tempo di liberare l’Italia dal pervertimento giudaico: Quando la Germania nazista – scrive – prese i noti provvedimenti di difesa dall’ebraismo, una spaventosa campagna di menzogne e di calunnie si levò in tutto il mondo (demo-liberale) 92.
Il libro di Interlandi è recensito favorevolmente da un giornalista di eccezione, con vocazione alla letteratura: Guido Piovene. Piovene tra il 1935 e il 1936, nel diffuso livore antibritannico, si era contraddistinto per una vivace e polemica rubrica, In casa degli inglesi, offrendo ai lettori un’immagine dell’Inghilterra in pieno disarmo, contrassegnata dalla decadenza morale. Prima di occuparsi del libro di Interlandi, Piovene aveva già vergato una positiva ricezione di Bagattelle per un massacro di Céline 93. Il critico del «Corriere della sera» elogia Contra Judæos: chiarisce agli italiani che la razza è un dato scientifico, biologico (basato sul sangue) e, soprattutto, ritiene gli ebrei inassimilabili ad ogni comunità nazionale, «nemici e sopraffattori della nazione che li ospita» 94. Gli ormeggi ormai sono saltati. Nello Quilici, direttore del quotidiano «Corriere padano» di Ferrara (voce di Italo Balbo), nel settembre del 1938 pubblica un saggio illuminante sull’autorevole «Nuova antologia», diretta da Luigi Federzoni, presidente dell’Accademia d’Italia. A Ferrara, città di 100.000 abitanti, ci sono soltanto 750 ebrei, tutt’altro che spregevoli, politicamente e moralmente. Due sono presidi di liceo. Uno è segretario generale provinciale. Uno è giudice istruttore. Uno Cfr. G. Mughini, A via della Mercede c’era un razzista, Rizzoli, Milano 1991, p. 17. V. Cassata, La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008, p. 23. 92 Cfr. T. Interlandi, Contra Judæos, Tumminelli, Roma 1938, p. 141. 93 G. Piovene, Quattrocento pagine a tutto fiato, in «Corriere della sera», 8 giugno 1938. 94 G. Piovene, Contra Judæos, in «Corriere della sera», 1° novembre 1938. 90 91
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è direttore delle carceri. Quattro (su quindici) sono professori universitari ordinari. Due (su quattro) sono consiglieri di banca. Chiara dimostrazione dell’integrazione ebraica: «una verità che non sfugge all’osservatore più obiettivo». Ma essendo l’ebreo per «vocazione naturale ambizioso e avido di dominio», ciò spiega l’alta percentuale dei potenti ferraresi. Il fascismo ha cambiato registro. Persecuzione? Soltanto difesa della razza è la risposta 95. Quilici, nonostante questo articolo, rimane di «ferme convinzioni contrarie alla politica razziale» 96, intrattenendo rapporti di amicizia con il podestà ebreo Renzo Ravenna, sino alla sua partenza nel 1940 per l’Africa, dove troverà la morte a Tobruk nell’aereo di Balbo, abbattuto per errore dalla contraerea italiana 97. Il punto di svolta vero e proprio avviene con la pubblicazione il 15 luglio 1938, sul quotidiano «Il giornale d’Italia», del cosiddetto Manifesto di difesa della razza, con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, firmato da «dieci» scienziati 98 e sotto l’egida del Ministero della cultura popolare. Ai «dieci» si sarebbero aggiunte le adesioni di altri 329 firmatari: docenti universitari, magistrati, medici, economisti, giornalisti, scrittori, industriali, politici e sacerdoti: In realtà non furono raccolte altre adesioni al testo, neppure successivamente. Il falso elenco, probabilmente, è stato compilato includendo coloro che, a cavallo di quegli anni, formularono pubblicamente affermazioni e tesi razziste o antisemite. Ma è privo di fondamento parlare di aderenti o firmatari del Manifesto 99. N. Quilici, La difesa della razza, in «Nuova antologia», 1596, 1938. I. Pavan, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 211-212. 97 Folco Quilici, figlio di Nello, ricostruisce nei dettagli l’incidente, soprattutto per chiarire un punto: si trattò di errore umano o di volontà di eliminare un personaggio scomodo a Mussolini come Balbo? La tesi che emerge è che si trattò di un errore: cfr. F. Quilici, Tobruk 1940. La vera storia della fine di Italo Balbo, Mondadori, Milano 2004. Discutibili sono invece le considerazioni sulla direzione del «Corriere padano», considerata una testata «frondista», e sulle ragioni che spinsero Nello a pubblicare l’articolo su «Nuova antologia»: cfr. A. Roveri, Tutta la verità su Quilici, Balbo e le leggi razziali, Este Edition, Ferrara 2006. 98 Come è stato notato in «realtà il Manifesto ebbe solo 10 firmatari, che nemmeno sottoscrissero materialmente il documento e i cui nomi furono indicati nel comunicato ufficiale del 25 luglio 1938, diramato dal segretario del Pnf Achille Starace. Non furono raccolte altre adesioni al testo, neppure successivamente. De Felice ha pubblicato sia il Manifesto, uscito senza nomi, sia il comunicato del Pnf: cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp. 555-557. 99 M. Avagliano - M. Palmieri, Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali, Baldini & Castoldi, Milano 2013, p. 370. Per l’elenco dei 329 firmatari cfr. F. 95 96
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Tra l’estate del 1938 sino al 1940 è un susseguirsi di provvedimenti giuridici orientati a discriminare gli ebrei, ai quali vanno aggiunti numerosi atti amministrativi 100. Circa seimila israeliti, cittadini italiani o stranieri residenti, emigrano. Il fascismo avverte la necessità, rinsaldandosi i rapporti di alleanza, di adeguarsi al nazionalsocialismo. Inoltre, la politica coloniale deve essere supportata da spirito razzista. Infine, la costruzione dell’«uomo nuovo» fascista è entrata in una fase di brusca accelerazione. Dunque, al mutamento del contesto internazionale (guerra d’Etiopia, sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni, guerra di Spagna, definitiva alleanza con la Germania) si accompagna l’accentuazione del totalitarismo fascista, con al centro il modello dell’«italiano nuovo», imperiale, antidemocratico, antiplutocratico e, naturalmente, antisemita. Il progetto mussoliniano della «rigenerazione nazionale» comportava una «rivoluzione antropologica» tesa a produrre l’«uomo nuovo» fascista 101. E fra le componenti di questo progetto fattori quali il razzismo e l’antisemitismo assumevano un’importanza decisiva 102. Mussolini è convinto della necessità di inculcare negli italiani «mentalità imperialista» e «dignità razziale» 103. E ciò può avvenire soltanto attraverso una legislazione razzista. Alla fine, battendo altre strade e con intensità diversa rispetto ad Hitler, Mussolini arriva però alla stessa conclusione: la lotta biologica come chiave di lettura della storia. Il Partito nazionale fascista (Pnf), entra nel vivo della questione razzista e antisemita. Deve aggiornare, innanzitutto, Il primo libro del fascismo, uscito nel 1938, prima dell’approvazione delle leggi 104. La settima edizione, del 1940, dedica ampio spazio a La difesa della razza 105, fornendo chiare e precise indicazioni. È stato Mussolini, animato sin dalle origini di «volontà Cuomo, I dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il Manifesto della razza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005, pp. 202-207. 100 Cfr. G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna 2018, pp. 549-555. 101 Cfr. E. Gentile, L’“uomo nuovo” del fascismo. Riflessioni su un esperimento totalitario di rivoluzione antropologica, in Id., Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 235-264. 102 Cfr. M. A. Matard-Bonucci, Racisme et antisémitisme, in Id., Totalitarisme fasciste, CNRS, Parigi 2018, pp. 167-238. 103 Cfr. C. Duggan, Il popolo del Duce. Storia emotiva dell’Italia fascista, Laterza, RomaBari 2013, p. 324. 104 Cfr. Partito nazionale fascista (a cura di), Il primo libro del fascismo, Mondadori, Verona 1938. 105 Cfr. Partito nazionale fascista (a cura di), Il primo libro del fascismo, Mondadori, Verona 1940, pp. 87-91.
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razziale», ad accelerare il processo, dopo la conquista dell’Etiopia, per rafforzare e ben definire la «purezza della razza italiana»: Il principio della politica fascista della razza va cercato nelle origini stesse del Fascismo, che nacque, per volontà di Benito Mussolini, come una rivendicazione del carattere genuino e delle inconfondibili virtù della gente italica 106.
Ormai la «vulgata fascista» assegna a Mussolini, sin dalle origini del suo impegno politico, precisa volontà razziale. Lo conferma l’autorevolezza di Giacomo Acerbo: Il Duce, come è noto, fissò il postulato della stirpe fin dalle sue prime battaglie di piazza e poi di governo; e allorché, dopo la luminosa conquista dell’Impero, la compagine italiana fu pronta a investirsi della nuova esigenza, questa si è venuta concretando in una politica della razza, la quale non può considerarsi legata a circostanze e vicende particolari perché invece esprime valori d’ordine immanente nel progredire della Rivoluzione fascista 107.
Gli ebrei, anche quelli nati in Italia, non fanno parte della razza italiana. Inoltre, non si sono mai voluti assimilare. «L’ebraismo mondiale è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi, nonostante la larghissima tolleranza di cui gli ebrei hanno goduto in Italia, e abusato, prima delle leggi restrittive» 108. Più sofisticati, sul piano dottrinario, sono i ragionamenti contenuti nei quattro volumi del Dizionario di politica, sempre a cura del Pnf, usciti nel 1940. Al tema razziale sono dedicate cinque voci: antisemitismo, ebrei 109, nazionalsocialismo 110, razza 111, sionismo. Gli ebrei debbono essere considerati «un popolo biologicamente e spiritualmente “inassimilabile” e quindi pericoloso alle società nazionali non ebraiche» 112. L’ebraismo è disgreIbidem, pp. 87-88. G. Acerbo, I fondamenti della dottrina fascista della razza, Atena, Roma 1940, p. 11. 108 Partito nazionale fascista (a cura di), Il primo libro del fascismo, [1940], cit., p. 89. 109 Cfr. S. Malvagna, Ebrei, in Partito nazionale fascista (a cura di), Dizionario di politica, vol. II, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1940, pp. 3-7. 110 Cfr. D. Cantimori, Nazionalsocialismo, in Partito nazionale fascista (a cura di), Dizionario di politica, vol. III, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1940, pp. 250-262. 111 Cfr. C. Costamagna, Razza, in Partito nazionale fascista (a cura di), Dizionario di politica, vol. IV, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1940, pp. 23-29. 112 Redazione, Antisemitismo, in Partito nazionale fascista (a cura di), Dizionario di politica, vol. I, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1940, p. 144. 106 107
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contra judæos
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gatore, meccanicistico, intellettualistico, materialistico, edonistico, immorale, capitalista, liberale, comunista, razionalista e ateo. Per queste ragioni l’antisemitismo si contrappone al movimento promosso dagli ebrei per la conquista dell’egemonia mondiale. Una necessità storica che ha obbligato il fascismo a «rivedere le sue posizioni originali per la decisa ostilità dell’ebraismo mondiale» 113. L’Italia è stata costretta a fronteggiare il sionismo, avendo quest’ultimo offuscato «il prestigio della cattolicità latina e offerto il destro alla Gran Bretagna d’insediarsi militarmente e fortemente nell’estremo limite orientale del Mediterraneo» 114. Se il Dizionario di politica usa il fioretto, altri vanno di sciabola. In un processo intentato alla borghesia, nemica giurata del fascismo e alla quale Mussolini ha suggerito di assestargli «potenti cazzotti», l’ebreo è equiparato al borghese. «Il vero borghese è vile, come tutti i mercanti» 115, e ateo, privo di patria e di classe, razionale e calcolatore. Come l’ebreo mercante e senza patria, «parassita delle patrie altrui» 116. Nel suo stile attacca a testa bassa Giovanni Preziosi: i veri nemici dell’Europa sono gli ebrei. La guerra è stata preparata dall’ebraismo «che ha nel governo dell’Inghilterra i suoi maggiori strumenti europei» 117 e scatenata dalla Polonia, dove vivono un numero impressionante di ebrei. Il propagandista antisemita Asvero Gravelli pubblica un saggio di denuncia della «demo-massonica-giudaica» America. Un tempo per gli italiani l’America era la terra del sogno e della felicità. Adesso è una bolgia dantesca: dieci milioni di disoccupati e dodici milioni di sifilitici; decadenza morale, spirituale e demografica in costante espansione; pornografia diffusa; mortalità infantile; industria dell’aborto; spaventosa delinquenza giovanile; omosessualità e uso degli stupefacenti dilaganti. Gravelli è inesorabile nel dipingere un grande paese ridotto ad «ammorbante palude mortifera in cui diguazzano il vizio e l’immoralità» 118: in attesa dell’arrivo di un «negro alla Casa Bianca», intanto l’attuale inquilino Roosevelt è dominato dalla moglie, schiava di Sion. Ormai l’ebreo è il nemico della «Nuova Europa»: allontanato «si rifugia in America dove ha preparato da tempo l’atmosfera Ibidem, p. 146. R. Tritoni, Sionismo, in Partito nazionale fascista (a cura di), Dizionario di politica, vol. IV, cit., p. 275. 115 R. Pavese, Bonifica antiborghese, in E. Sulis (a cura di), Processo alla borghesia, Edizioni Roma, Roma 1939, p. 56. 116 Ibidem, p. 57. 117 G. Preziosi, Come il giudaismo ha preparato la guerra, Tumminelli, Roma 1939, p. 227. 118 A. Gravelli, Razza in agonia, Nuova Europa, Roma 1939, p. 295. 113 114
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«ben venga la propaganda»
favorevole a una estrema resistenza della democrazia e dell’ebraismo» 119. C’è un luogo dove isolare gli ebrei. Madagascar: L’isola del Madagascar servirà perfettamente alla bisogna, sotto un protettorato misto italo-tedesco. E tutta l’Europa potrà alfine tirare un vasto respiro di liberazione, poiché sarà stata sanata da un morbo che da secoli la tiene inferma 120.
E. Sulis, L’ebreo contro la nuova Europa, in «Razza e civiltà», 5-7, 1940. G. Sottochiesa, Gli ebrei nella nuova Europa e il problema dell’isolamento, in «La difesa della razza», 21-22, 1940. 119 120
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VII.
La rivincita di Ario
Un rilievo mosso all’interpretazione di De Felice verte sull’antisemitismo cattolico. Ad esempio, Angelo Ventura sostiene che «alle origini dell’antisemitismo fascista stanno secoli di antisemitismo cattolico, predicato e inculcato a livello di massa, fonte di discriminazione e di persecuzione contro gli ebrei» 1. Senza andare troppo indietro nel tempo, l’antisemitismo era già presente nel papato di Leone XIII. Quindi sul piano storiografico non ha alcun senso la netta separazione tra il secolare antigiudaismo cattolico con il moderno antisemitismo fascista 2. Giovanni Miccoli è convinto della persistenza di una linea di continuità della tradizione antiebraica cattolica ottocentesca («impregnata di ostilità») 3, con il nuovo antisemitismo razzista novecentesco. Renato Moro è di tutt’altro avviso: mentre il grande antisemitismo politico radicale conosceva un forte rilancio negli anni seguenti alla Grande Guerra e poi alla crisi economica del 1929, l’antisemitismo ideologico e politico dei cattolici appariva in una fase di progressivo, lento e contrastato, ma significativo regresso 4.
La questione dell’antisemitismo cattolico rappresenta una problematica storiografica estremamente complessa. La «via cattolica all’antisemitismo» era stata inaugurata da Paolo Orano. Certo una voce non ufficiale del cattolicesimo. Ma la sua polemica, oltreché in nome del fascismo, era sorretta da una visione del mondo dichiaratamente cattolica. Dunque, anche per questa ragione, il saggio di Orano è una vera e propria cartina di A. Ventura, Il fascismo e gli ebrei, cit., p. 40. Cfr. M. Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi Giudei», cit., pp. 38-47. 3 G. Miccoli, Antisemitismo e cattolicesimo, Morcelliana, Brescia 2013, p. 250. 4 R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, il Mulino, Bologna 2003, p. 58. 1 2
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tornasole, poiché fissa la data di inizio di un pullulare di scritti, prese di posizione (ufficiali e ufficiose) di scrittori, giovani e meno giovani, vicini e lontani dall’universo culturale cattolico. Le «leggi razziali» del 1938 sono lo spartiacque, destinato ad investire non soltanto gli intellettuali, ma la stessa gerarchia vaticana, persino al massimo livello. Partiamo dal 1934, dall’apparizione della traduzione italiana di Gli ebrei dello scrittore francese naturalizzato britannico Hilaire Belloc, uscito nel 1925 e suggerito da Mario Bendiscioli (che ne cura la traduzione) a padre Agostino Gemelli («il più influente intellettuale cattolico di questo periodo» 5, convinto antisemita), che lo pubblica nelle edizioni milanesi di Vita e pensiero 6. Per Belloc gli ebrei, diretti ispiratori del liberalismo come del comunismo, non sono assimilabili all’Europa. Non assimilandosi, diventano una concreta minaccia che ogni singola comunità deve necessariamente affrontare. «Una razza abilissima – scrive Belloc – sparsa per tutto il mondo, persistente e decisa a mantenere il suo spiccato carattere individualista» è destinata «a far sorgere particolari problemi politici. È inevitabile un conflitto fra essa e l’ambiente in sui si trova» 7. Al profilo storico degli ebrei di Belloc viene imputata un’ambiguità (antisemita) riscontrabile anche nel testo del traduttore Bendiscioli (che si firma A. Marioli), posto in conclusione 8. Ma è una forzatura, poiché se Belloc pone con evidenza all’attenzione del mondo cattolico la questione ebraica, oggettivamente rifiuta ogni forma di discriminazione e di allontanamento degli ebrei. E questo nel 1934 suonava come una chiara critica alla politica di discriminazione nazionalsocialista 9. Il giovane e promettente intellettuale cattolico Mario Bendiscioli in un suo saggio del 1936 evidenzia come i conflitti religiosi nella storia della Germania moderna non sono una novità introdotta da Hitler. Basti pensare alla Kulturkampf voluta da Bismarck, indirizzata contro i cattolici tedeschi. Ma la vera novità introdotta da Hitler, a differenza di Bismarck, è lo scantonamento dalla sfera politica alla coscienza religiosa generale 10. In Italia la questione ebraica è circoscritta (come nella Kulturkampf) ai confini politici e non religiosi. In R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, cit., p. 16. Cfr. M. Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi Giudei», cit., p. 107. 7 H. Belloc, Gli ebrei, Vita e pensiero, Milano 1934, p. VII. 8 Cfr. M. Ruzzenenti, Bendiscioli e l’ambiguità della critica cattolica al razzismo nazista «neopagano», in Id., «Preghiamo anche per i perfidi Giudei», cit., pp. 112-121. 9 Cfr. R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, cit., p. 34. 10 Cfr. M. Bendiscioli, L’antisemitismo hitleriano e i suoi riflessi religiosi, in Id., Germania religiosa nel III Reich. Conflitti religiosi e culturali nella Germania nazista, Morcelliana, Brescia 1936, pp. 27-44. 5 6
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Germania sta accadendo l’opposto. Per Bendiscioli il razzismo di Rosenberg è fondato sul mito del sangue. Un mito anticristiano che nell’interpretazione storica e filosofica estrapola, germanizzandolo, il meglio della storia medievale della cristianità, dallo stile gotico alla mistica tedesca, lasciando alla Chiesa di Roma il peggio: processi per stregoneria, inquisizioni, superstizioni, persecuzioni degli eretici 11. Il giovane storico indica come lo scarso entusiasmo dei cattolici tedeschi per il nazionalsocialismo nel 1933 sia scemato, passando rapidamente dalla speranza alla delusione 12. Il cattolicesimo nei confronti del «totalitarismo nazista» 13 si è arroccato sulla difensiva 14. E all’alba del 1936 le prospettive sono poco rosee 15. Tornando successivamente – stavolta nel pieno delle «leggi razziali» – alle tesi del «principe degli ideologi» del razzismo, Bendiscioli in un saggio dedicato al «neopaganesimo razzista» ribadisce il giudizio negativo: il fatto che Rosenberg ricopre il ruolo di direttore della formazione culturale nazionalsocialista deve suscitare viva preoccupazione nella «coscienza cristiana dell’Occidente» 16. Ora, come è chiaro, le «ambiguità» di Bendiscioli sono del tutto immaginarie. La sua cultura riflette certo lo spirito cattolico del tempo. Nella Nota scrive: la Chiesa non può permettere la condanna intrinseca del mondo religioso ebraico, vale a dire del Vecchio Testamento: giacché questa forma un organismo unico, per quanto di valore inferiore, col nuovo, colla Rivelazione cristiana complessiva. E la controprova ci è data dal fatto che, dove più conseguentemente si è voluto perseguire l’ebraismo accampando motivi politici, come nella Germania nazionalsocialista, si è finito per intaccare la sostanza religiosa della stessa tradizione cristiana. Le polemiche tedesche sul «paragrafo ariano», vale a dire sull’esclusione dalla vita, e quindi anche dalla Chiesa nazionale, d’ogni elemento ebraico hanno condotto a ridiscutere tutto il problema della Rivelazione e, negli estremisti della razza pura, a negare elementi essenziali della dottrina e della storia cristiana 17.
La prima fiammata antisemita, come sottolineato da De Felice, era venuta dai propagandisti cattolici, «intellettuali cresciuti direttamente nel clima dello Stato totalitario [...] esponenti di quello che potremmo chiamare Ibidem, p. 94. Ibidem, pp. 163-186. 13 Ibidem, p. 181. 14 Ibidem, pp. 207-234. 15 Ibidem, p. 283. 16 M. Bendiscioli, Neopaganesimo razzista, Morcelliana, Brescia 1938, p. 18. 17 Il traduttore (M. Bendiscioli), Nota, in H. Belloc, Gli ebrei, cit., p. 224. 11 12
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un fascismo cattolico» 18. Gino Sottochiesa, legato a Interlandi, fascista e cattolico, più fascista che cattolico e non organico alle organizzazioni confessionali 19, nel 1937, sulla scia di Orano, definisce il problema ebraico «merce esplosiva». L’ebraismo – una nazione – si è coperto il volto con una maschera. Gli ebrei anche se cittadini rimangono stranieri; sentono sé stessi come il popolo eletto; sono la quintessenza dell’ostilità al cattolicesimo e alla cristianità Il sionismo, «sentinella del bolscevismo sulla sponda orientale del Mediterraneo» 20, rappresenta una grave minaccia per la civiltà cattolica-europea e per il fascismo. Con le «leggi razziali» Sottochiesa intensificherà la polemica. Il genio italico affonda nelle radici di Roma. Gli italiani sono una razza ariana, difesa della nuova legislazione, necessaria per proteggere dalla nazione (l’ebraismo) e dagli stranieri (gli ebrei). Una razza che ha dato i natali a san Francesco, Dante, Leonardo, Galileo, Emanuele Filiberto, Alfieri, Verdi, Marconi e Mussolini, «la personificazione vivente e operante delle più eccelse virtù» 21. La politica razzista, per Sottochiesa, è un’occasione da cogliere per gli intellettuali. La linea culturale cattolica è riassunta dal saggio di riferimento di Guglielmo Schmidt (e dai gesuiti «infallibili dottrinari» di «La civiltà cattolica») 22, un testo dogmatico, e chi ne mette in dubbio l’assunto principale (il nazionalismo rifiutato in nome dell’universalismo cattolico) è considerato un apostata. Per Sottochiesa la cultura cattolica è ritenuta vittima di «dilettantismo razziale», che tende ad associare nazionalsocialismo e neopaganesimo. Scrive: È di moda oggi, nel mondo dell’intellettualismo cattolico nostrano, di considerare il razzismo come merce di esclusiva marca germanica, come se il monopolio della scienza razziale e di tutti i problemi di razza fosse unicamente nazional-socialista 23.
Cfr. R. Moro, Propagandisti cattolici del razzismo antisemita in Italia 1937-1941, in C. Brice - G. Miccoli (a cura di), Les racines chrétiennes de l’antisémitisme politique, École française de Rome, Roma 2003, p. 281. 19 Ibidem, p. 289. 20 G. Sottochiesa, Sotto la maschera di Israele, La Prora, Milano 1937, p. 14. 21 G. Sottochiesa, La razza italiana e le nuove leggi fasciste, Paravia, Torino 1939, p. 35. 22 Cfr. G. Schmidt, Razza e nazione, Morcelliana, Brescia 1938. Il saggio di Schmidt è una ragionata contestazione del razzismo tedesco, e del relativo antisemitismo, così come lo intendono Rosenberg e l’ideologia nazionalsocialista. Schmidt non nomina mai Rosenberg e nella bibliografia non è citata nessuna sua opera. 23 G. Sottochiesa, Gli intellettuali cattolici e la Razza, in «Il Tevere», 23 giugno 1939. 18
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Renato Moro sottolinea come le «leggi razziali» nel mondo cattolico (negli ambienti culturali, nella gerarchia ecclesiastica, nei ceti popolari) ebbero sostenitori, perlopiù animati dal retroterra antigiudaico, ma nella stragrande maggioranza suscitarono debole accettazione e scarso coinvolgimento. La cultura cattolica italiana appare nel 1938 portatrice di una propria solida tradizione antisemita, addirittura sensibile, in alcune forme giovanili, alla sirena di un «razzismo italico» e allo stesso tempo caratterizzata, a tratti, da una linea polemica nei riguardi delle scelte di discriminazione 24.
Nel cattolicesimo l’antisemitismo fascista ebbe dunque scarsa presa 25, oscillando fra debolezza negli attacchi frontali e scarso coinvolgimento nella polemica antisemita 26, anche se le «leggi razziali» rappresentarono un vero e proprio «spartiacque» per gli italiani e «all’interno della cattolicità» 27. La rivista dei gesuiti «La civiltà cattolica», a partire dal 1880, si era impegnata in una «vasta propaganda antiebraica», ricorrendo ai peggiori stereotipi: «l’ebreo vampiro, l’usuraio che opprime il popolo, l’ebreo sovversivo, liberale, cospiratore». Il cattolicesimo romano è assediato da vari e potenti nemici: alcuni scrittori del collegio di scrittori della rivista individuano nell’ebreo il «regista di quell’assedio» 28. Gli attacchi, nel trentennio successivo, perdono intensità, pur se la linea della rivista resta ancorata alle vecchie polemiche. Un intervento del 1928 mette a fuoco l’immagine del «pericolo giudaico», una minaccia per il mondo intero, per le sue perniciose infiltrazioni o ingerenze nefaste, particolarmente nei popoli cristiani, e più specialmente ancora nei cattolici e nei latini, dove la cecità del vecchio liberalismo ha maggiormente favorito gli ebrei, mentre perseguitava i cattolici ed i religiosi soprattutto [...] ed è merito riconosciuto del nostro periodico – possiamo dirlo con tutta sincerità – di averlo costantemente denunciato fino dalle origini 29. Cfr. R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, cit., p. 39. Cfr. V. De Cesaris, Spiritualmente semiti, cit., p. 107. 26 Cfr. R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, cit., p. 40. 27 E. Fattorini, La Chiesa e le leggi razziali, in M. Beer - A Foa - I. Iannuzzi (a cura di), Le leggi del 1938 e la cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, Viella, Roma 2010, p. 159. 28 Cfr. V. De Cesaris, Spiritualmente semiti, cit., p. 78. 29 Articolo non firmato, Il pericolo giudaico e gli «Amici di Israele», in «La civiltà cattolica», 1870, 1928. 24 25
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Nel 1934 «La civiltà cattolica» presta la massima attenzione alla questione razziale, pubblicando vari articoli, molto critici nei confronti del razzismo montante in Germania 30. In particolare, ad essere condannato è il pensiero di Alfred Rosenberg, che nel 1930 in Il mito del XX secolo (insieme al Mein Kampf di Hitler l’impianto dottrinario della religione nazista: del saggio nel 1937 sono state vendute 500.000 copie 31, che arriveranno al milione nel 1942) 32 aveva sferrato un attacco frontale al cattolicesimo, rintuzzato dal Sant’Uffizio nel 1934 con la messa all’Indice dei libri proibiti 33: La messa all’Indice trasformò il Mito [...] in un enorme, istantaneo successo [...] diventò improvvisamente uno dei testi più discussi al mondo, guadagnandosi titoli in prima pagina a Parigi, Londra e New York 34.
Il quotidiano della Santa Sede pubblica una stroncatura senza riserve in un lungo articolo. Riprendendo un giudizio di «La civiltà cattolica» 35 si afferma che è difficile trovare un libro contenente così tanti errori, proposizioni avventate, calunnie, ingiurie e caricature rivolte al cristianesimo e al papa. L’intero corpo dei cristiani tedeschi per «L’osservatore romano» è trascinato nel fango:
U. López, Difesa della razza ed etica cristiana (1), in «La civiltà cattolica», 2010, 1934; Id., «Razzismo» e cristianesimo di fronte ai malati ereditari, in «La civiltà cattolica», 2013, 1934 (aperta sconfessione delle leggi approvate in Germania sulla sterilizzazione); A. Messineo, La concezione dello Stato nel Terzo Reich, in «La civiltà cattolica», 2014, 1934; Id., La nuova religione della razza, in «La civiltà cattolica», 2019, 1934; E. Rosa, «La questione giudaica» e l’antisemitismo nazionalsocialista, in «La civiltà cattolica», 2024-2025, 1934. 31 Cfr. A. Rosenberg, Nota di Rosenberg per le 500.000 copie [1937], in Id., Il mito del XX secolo, cit., p. 52. 32 Cfr. E. Piper, Alfred Rosenberg, cit., p. 179. 33 Il libro fu messo all’Indice con decreto del 7 febbraio 1934: cfr. J. M. De Bujada (a cura di), Index librorum prohibitorum 1600-1966, vol. XI, Médiaspaul, Montreal 2002, p. 784. Sulle motivazioni teologiche della messa all’indice cfr. D. Burkard, Häresie und Mythus des 20. Jahrhunderts. Rosenbergs nationalsozialistische Weltanschauung vor dem Tribunal der Römischen Inquisition, Schöningh, Paderborn 2005. Il 7 luglio del 1935 venne messo all’Indice anche il saggio pubblicato da Rosenberg in risposta alle critiche ricevute per inesattezze storiche e vari stravolgimenti nell’interpretazione delle fonti: cfr. A. Rosenberg, An die Dunkelmänner unserer Zeit. Eine Antwort auf die Angriffe gegen der Mythus des 20. Jahrhunderts, Hoheneichen, Monaco 1935. 34 T. W. Ryback, La biblioteca di Hitler. Che cosa leggeva il Führer, Mondadori, Milano 2008, p. 122. 35 M. Barbera, Mito razzista anticristiano, in «La civiltà cattolica», 2007, 1934. 30
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la rivincita di ario
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Il risorgimento della razza nordico-germanica, viene da lui fatto dipendere dalla totale distruzione del Cristianesimo, non soltanto quello professato dai cattolici, ma altresì quello professato dai protestanti credenti 36.
Anche sulle posizioni vaticane nei confronti delle «leggi razziali» la storiografia ha lungamente dibattuto. Nelle ricostruzioni con ricorrente frequenza ci si imbatte in una netta distinzione tra il pontificato di Pio XI (Achille Ratti, ostile) e quello di Pio XII (Eugenio Pacelli, conciliante). Per Sandro Gerbi Pio XI incaricò alcuni suoi collaboratori di mettere a punto una critica serrata alla nuova politica di regime. Ma la sua morte improvvisa (il 10 febbraio del ’39) e la successiva elezione del più prudente e filo-tedesco Pio XII vanificheranno quegli sforzi 37.
Si tratta però della semplificazione di una questione estremamente complessa 38, anche se non ci sono dubbi «che il pontificato pacelliano fu caratterizzato sin dai suoi primi passi, da una linea più morbida e diplomatica» 39. Pio XI aveva giudicato severamente l’approvazione in Italia delle «leggi razziali» 40, comprendendo con lucidità come il fascismo di fatto fosse una «religione totalitaria» 41, incompatibile con la cristianità 42. Le differenze tra i due pontefici saltano agli occhi, ma la netta opposizione tra i due pontificati è una forzatura. La distinzione tra un pontificato – di Pio XI – animato nella conduzione degli affari vaticani da una visione «profetica», e un pontificato – di Pio XII – animato da una visione «diplomatica», sul piano della verifica storica non regge. Come è stato notato «Pio XI ha negoziato quanto Pio XII, Pio XII ha protestato quanto Pio XI» 43. Tra la fine del 1936 e la morte, Pio XI (il pontefice, gravemente malato, scomparve tra 36 Articolo non firmato, Un libro di odiose falsità per la gioventù tedesca, in «L’osservatore romano», 7 febbraio 1934. 37 S. Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra: Guido Piovene ed Eugenio Colorni, Einaudi, Torino 1999, p. 123. 38 Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, cit., pp. 488-500. 39 R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, cit., p. 92. 40 Cfr. G. Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano, Jaca Book, Milano 2009, p. 70. 41 Cfr. E. Gentile, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 341-388. 42 Cfr. D. Menozzi - R. Moro (a cura di), Cattolicesimo e totalitarismo. Clero e cultura religiosa tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), Morcelliana, Brescia 2004. 43 É. Poulat, Pio XI, gli ebrei e l’antisemitismo, in G. Passalecq - B. Suchecky, L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata dalla Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, Corbaccio, Milano 1997, p. XIX.
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la notte del 9 e del 10 febbraio 1939) aveva radicalizzato la condanna per gli aspetti anticristiani del nazismo 44, assumendo una posizione sempre più intransigente. Il 14 marzo 1937 era uscita, direttamente in tedesco e non in latino, l’enciclica Mit brennender Sorge (Con viva preoccupazione), nella quale si denunciava il «folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo». Hitler interpretò l’enciclica come una «dichiarazione di guerra» 45. Quando nel maggio 1938 Hitler arriva in Italia, Pio XI lascia Roma per raggiungere la residenza estiva di Castel Gandolfo, chiude i Musei vaticani affinché il Führer non possa visitarli, e vieta la copertura giornalistica della visita da parte della Radio vaticana e de «L’osservatore romano» 46. Con il precipitare degli eventi Pio XI intendeva pubblicare una seconda enciclica – la Humani generis unitas (L’unità del genere umano) – nella quale si doveva esporre la dottrina cristiana sull’unità del genere umano, per denunciare la pericolosità delle dottrine razziste, di ogni orientamento. Ciò avrebbe comportato un acuirsi delle frizioni, già pesanti, con la Germania di Hitler, e, avendo adottato una legislazione razziale, anche con l’Italia di Mussolini. Il lavoro preparatorio dell’Humani generis unitas era partito nel maggio 1938, quindi prima dell‘approvazione delle «leggi razziali». Pio XII eredita l’enciclica in un clima politico diverso, segnato dai forti venti di guerra, che scoppierà nel settembre 1939, a pochi mesi dalla sua elezione. Miccoli si dilunga sui «dilemmi» e «silenzi» rispetto all’antisemitismo tedesco e italiano. La politica di Pio XII a suo avviso è improntata al «relativo silenzio», al «riserbo», alla «deplorazione generica», alla costante scelta del «male minore» 47. Il Vaticano dal 1940 era a conoscenza dello sterminio degli ebrei europei, e la logica che giustifica il «silenzio» è imperniata sulla ricerca di un «nuovo compromesso» con la Germania 48. Anche se formalmente il razzismo nazionalsocialista era stato stigmatizzato e rifiutato piuttosto esplicitamente, non c’era stata da parte del magistero ecclesiastico una «condanna dell’antisemitismo e della legislazione speciale nei confronti degli ebrei» 49. 44 Cfr. E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Einaudi, Torino 2007, p. X. 45 P. Eisner, Quando il papa cercò di fermare Hitler. La vera storia dell’enciclica scomparsa di Pio XI, Feltrinelli, Milano 2013, p. 32. 46 Ibidem, pp. 37-38. 47 Cfr. G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rizzoli, Milano 2000, pp. 1-2. 48 Ibidem, pp. 163-169. 49 Ibidem, p. 263.
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Sulla questione del «silenzio» di Pio XII (aggravato dall’aver accantonato la condanna messa a punto dal suo predecessore) la pubblicistica e la storiografia si dividono tra polemica 50 e apologia 51. Renato Moro, correttamente, sottolinea che una denuncia pubblica e forte mancò. Il «silenzio» fu triplice: di Pio XII, dei vertici della Chiesa, del popolo cristiano. L’assenza di denuncia pubblica però non fece mancare la solidarietà privata 52. Pio XII fu consapevole della grande difficoltà delle decisioni. Davanti alla tragedia cercò di praticare la via diplomatica, lasciando ai singoli episcopati la libertà di intervento 53. Il suo operato, finita la guerra, in un ventennio mutò di orientamento: l’eroico «Pastor angelicus» si trasformò nel pavido «Papa del silenzio» 54. Tornando all’adozione della legislazione razziale italiana, «La civiltà cattolica» la recepisce favorevolmente, ribadendo però il netto rifiuto del razzismo tedesco 55. Il 20 agosto 1938 nella sezione dedicata alle questioni italiane viene riportata la notizia della nuova legislazione discriminatoria nei confronti degli ebrei, in stile di cronaca, senza alcun commento, citando fonti ufficiali 56. Una sostanziale accettazione arriverà all’inizio di ottobre 57. Ciò non significa che la linea tenuta da «La civiltà cattolica» ebbe l’avallo pontificio. Nonostante la secolare e totale fedeltà al Papa, la rivista tenne una linea piuttosto autonoma, mentre «L’osservatore romano» si rivelò molto più fedele. Il quotidiano pontifico il 7 luglio 1938 pubblica un articolo per denunciare la falsità dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, nel quale rigetta il vilipendio della razza ebraica 58. Giovanni Preziosi, fiutando l’aria antisemita, aveva pubblicato nuovamente i Protocolli (apparsi sulla 50
2000.
Cfr. J. Cornwell, Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, Garzanti, Milano
51 Cfr. P. L. Guiducci, Il Terzo Reich contro Pio XII. Papa Pacelli nei documenti nazisti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013. 52 Cfr. R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, cit., pp. 16-17. 53 Ibidem, pp. 127-155. 54 Cfr. A. Persico, Il caso Pio XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli, Guerini, Milano 2008, pp. 89-126. 55 A. Messineo, Gli elementi costitutivi della nazione e la razza, in «La civiltà cattolica», 2115, 1938. 56 Articolo non firmato, Italia, in «La civiltà cattolica», 2116, 1938. 57 E. Rosa, La questione giudaica e «La civiltà cattolica», in «La civiltà cattolica», 2119, 1938. 58 R. De Santis, Dagli all’untore, in «L’osservatore romano», 4 marzo 1938.
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rivista da lui diretta nel 1921), con una introduzione di Evola 59. I Protocolli, sottolinea Sergio Romano, «rimasti per sedici anni negli scaffali della letteratura stravagante e marginale» 60, ora riapparivano trionfalmente. Una favorevole recensione al lavoro di Preziosi la scrive Romolo Murri (ex-sacerdote fondatore della prima Democrazia cristiana), sul bolognese «Il resto del carlino». Il testo, per Murri, pone «con cruda evidenza uno dei più gravi problemi del mondo contemporaneo». La questione della veridicità del documento ha scarso rilievo: alla fine ciò che conta è l’essenza. L’essenza dell’ebraismo, appunto, è un odio profondo per i cristiani e per la loro civiltà, un proposito di distacco totale e di guerra eterna: «una ambizione senza limiti, una ingordigia divoratrice, un desiderio di vendetta spietato ed un odio intenso» [...]. E l’essenza dell’azione ebraica nel mondo è questo spirito sottile di dissolvimento, questa critica atroce e beffarda, che si insinua dappertutto, profitta di tutte le dottrine, di tutti gli impulsi anche generosi, e specialmente di tutti gli errori, per rovesciare ogni certezza, per diffondere il dubbio, per spingere uomini contro uomini e classi contro classi, per avvelenare d’odio ogni solidarietà costituita, in una parola per distruggere la civiltà d’Occidente e spingerne i popoli all’anarchia 61.
In ambito cattolico la veridicità e l’importanza dei Protocolli era propagandata da monsignor Umberto Benigni, che li pubblicò sulla rivista «Fede e ragione» tra il 27 marzo e il 12 giugno 1921, rieditandoli successivamente in volume 62. Benigni ritiene gli ebrei usurai, sfruttatori e nemici giurati della cristianità, e, come Preziosi, li accusa di sostenere dottrine e movimenti come il liberalismo, il socialismo e il bolscevismo [...] la massoneria; la degenerazione della religione irrazionalistica che avrebbe condotto gli ebrei al «deicidio»; l’internazionalismo [...] costante pericolo per l’Italia. Un solo aspetto della campagna contro gli ebrei non era trattato da Preziosi, quello dell’omicidio rituale, un campo nel quale Benigni era un vero esperto 63. 59 Cfr. J. Evola, Introduzione, in L’internazionale ebraica. I «Protocolli» dei «Savi anziani» di Sion, Edizioni «La vita italiana», Roma 1938, pp. 9-32. 60 S. Romano, I falsi protocolli. Il «complotto ebraico» dalla Russia di Nicola II a oggi, Corbaccio, Milano 1992, p. 106. 61 R. Murri, I “Protocolli dei savi anziani di Sion”, in «Il resto del carlino», 21 gennaio 1938. 62 Cfr. I documenti della conquista ebraica del mondo. I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, Edizioni «Fede e ragione», Firenze 1922. 63 M. T. Picchetto, Un’altra voce dell’antisemitismo in Italia: Umberto Benigni, in Id., Alle origini dell’odio. Preziosi e Benigni antisemiti, Franco Angeli, Milano 1983, p. 114.
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Con l’aria che tira la presa di posizione de «L’osservatore romano» sui Protocolli è piuttosto in controtendenza. Ma lo sono ancora di più le parole pronunciate da Pio XI a Castel Gandolfo nel corso di un’udienza, pubblicate dal quotidiano vaticano il 30 luglio. «Cattolico – afferma il Pontefice – vuol dire universale, non razzistico, non nazionalistico, nel senso separatistico di questi due attributi». E prosegue: «si dimentica che tutto il genere umano, tutto il genere umano, è una sola grande, universale razza umana». È vero, come è stato sottolineato, che nel discorso si allude a «razze speciali», ma la conclusione non lascia dubbi sui convincimenti di Pio XI: «Ci si può quindi chiedere come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania» 64. La divisione non risparmiò neppure le alte sfere della gerarchia ecclesiastica. Il vescovo di Cremona Giovanni Cazzani, nella ricorrenza dell’Epifania del 1939, tenne un’omelia nel duomo della città, impostata sulla piena accettazione delle discriminazioni operate dal fascismo verso gli ebrei: La Chiesa non ha mai disconosciuto il diritto agli Stati di limitare o d’impedire l’influenza economica, sociale e morale degli ebrei, quando questa tornasse dannosa alla tranquillità e al benessere della Nazione. La Chiesa niente ha detto e niente ha fatto per difendere gli ebrei, i giudei e il giudaismo 65.
Pochi giorni prima il vescovo di Milano (massimo esempio di allineamento del mondo cattolico alla guerra d’Etiopia) 66, Ildefonso Schuster (nel 1937 alla milanese Scuola di mistica fascista aveva tenuto una lezione su Mussolini e la fondazione dell’Impero), in un’omelia di tutt’altro segno tenuta in Duomo a Milano il 13 novembre 1938, ricordava ai fedeli che «se esiste un concetto anti-imperiale e antiromano, è indubbiamente questo del mito razziale del XX secolo; il quale violentemente indietreggia di due millenni la storia del mondo» 67. Schuster, che aveva appoggiato il fascismo Articolo non firmato, Le parole del Sommo Pontefice Pio XI agli alunni del collegio di Propaganda Fide, in «L’osservatore romano», 30 luglio 1938. 65 L’omelia di Monsignor Giovanni Cazzani (Cremona, 6 gennaio 1939), in E. Mazzini, Ostilità convergenti. Stampa diocesana, razzismo e antisemitismo nell’Italia fascista 1937-1939, ESI, Napoli 2003, pp. 205-223. Il settimanale «Roma fascista» dà ampio risalto alla notizia del fatto che il vescovo di Cremona «ha tenuto ai fedeli che gremivano la cattedrale una dotta omelia»: Articolo non firmato, La Chiesa cattolica e gli ebrei, in «Roma fascista», 11 gennaio 1939. 66 Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, vol. I, Einaudi, Torino 1974, pp. 624-625. 67 I. Schuster, Un’eresia antiromana, in «L’Italia», 15 novembre 1938. L’omelia venne pubblicata anche in «Rivista diocesana milanese», 12, 1938. 64
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durante il conflitto etiopico e nel successivo spagnolo 68, fa proprie le preoccupazioni vaticane, condannando senza mezzi termini l’ideologia razzista. Le parole del cardinale irritarono molto le autorità fasciste, che reclamarono l’allontanamento di Sante Maggi dalla direzione de «L’Italia», responsabile della pubblicazione dell’omelia. I due quotidiani più importanti della stampa cattolica, il milanese «L’Italia» e il bolognese «L’avvenire d’Italia», entrarono spesso «in polemica dura con le leggi razziali» 69. Ciò finì per attirare non poche ostilità da parte dell’ala più intransigente dell’antisemitismo fascista. Ne è testimonianza la denuncia dello scarso entusiasmo e delle perplessità vaticane espresse da Roberto Farinacci nella conferenza tenuta il 7 novembre 1938 all’Istituto di cultura fascista di Milano. Il granitico antisemita Farinacci («razzista dell’ultima ora») 70 esordiva ricordando che da cinque lustri io denunciavo il pericolo giudaico e la necessità di liberare i gangli delicati del nostro paese dagli ebrei che erano riusciti con una manovra diabolica a stendere ovunque i loro tentacoli. E non ci si venga a dire che la politica antisemita, seguita oggi dall’Italia, ci è stata suggerita o l’abbiamo presa a prestito dalla Germania 71.
Farinacci rammenta che Mussolini, già nel 1919, dalle colonne de «Il popolo d’Italia» aveva denunciato il pericolo economico e politico rappresentato dall’internazionale ebraica, sostenitrice delle plutocrazie e ispiratrice del bolscevismo, mai osteggiata – anzi incoraggiata – dagli ebrei italiani. Dunque, sono quantomeno sorprendenti gli atteggiamenti indulgenti manifestati dalla Chiesa dopo l’approvazione in Italia della legislazione razziale, indulgenza contraria alla secolare tradizione antisemita. Farinacci ripercorre puntigliosamente la storia di questa tradizione, dalle invettive di Innocenzo III alle preoccupate e puntali analisi, anche recenti, dei padri gesuiti di «La civiltà cattolica», compresa l’istituzione presso l’Università cattolica di Milano di padre Gemelli di un centro di studi sul razzismo. 68 Cfr. E. Nobili, La parabola di un’illusione. Il cardinale Schuster dalla guerra d’Etiopia alle leggi razziali, NED, Milano 2005. 69 E. Fattorini, La Chiesa e le leggi razziali, in M. Beer - A Foa - I. Iannuzzi (a cura di), Le leggi del 1938 e la cultura del razzismo, cit., p. 161. 70 N. Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 19261943, in «Storia contemporanea», 4-5, 1982. 71 R. Farinacci, La Chiesa e gli ebrei, Editoriale «Cremona nuova», Cremona 1938, pp. 5-6.
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Perché cambiare rotta, e perché la Chiesa oggi da antisemita è diventata filosemita, si domanda Farinacci? Il fascismo è stato da sempre amico dei cattolici, perché i cattolici lo abbandonano quando la politica fascista cerca di limitare l’immenso potere dei giudei? A Farinacci («antesignano di molte battaglie e di questa») è dedicato il saggio del giovane cattolico Pasquale Pennisi (barone di Santa Margherita), professore di diritto internazionale e dirigente della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci). Pennisi si lamenta del fatto che i provvedimenti antigiudaici che sono stati la conseguenza prima della nostra presa di posizione razzista, non hanno trovato in alcuni ambienti dichiaratamente cattolici quella rispondenza che sarebbe stato lecito attendersene 72.
L’antisemitismo di Pennisi – svolto in chiave razziale e non religiosa – è una requisitoria («L’enciclopedia, la massoneria, il liberalismo, il suffragio universale hanno preparato la strada all’avvento del dominio giudaico») 73 contro i nemici della cristianità: L’economia contro il Lavoro, il diritto contro la Morale, la politica contro lo Stato, la filosofia contro Dio: ecco i regali che l’Ebraismo propina ai popoli cristiani dalle cattedre universitarie – circoncise e, purtroppo, incirconcise – che gli sono asservite 74.
La promulgazione delle «leggi razziali» fa emergere la diffusione del razzismo fra i giovani intellettuali cattolici, come nel caso di Pennisi o, in maniera ancor più paradigmatica, in Teresio Olivelli. Olivelli, nato nel 1916 a Bellagio, nella provincia di Como, è ospitato nel 1934 come studente al prestigioso Collegio Ghisleri di Pavia. Scoppiata nel 1936 la guerra di Spagna vorrebbe partire volontario, ma la famiglia riesce a farlo desistere 75. Un agiografo cattolico giustifica la decisione: «contribuire alla difesa dei diritti della fede e della Chiesa aggrediti dall’esercito repubblicano» 76. Negli anni trascorsi al Ghisleri, oltre a distinguersi come studente modello, Olivelli pratica con eccellenza lo sport, «sempre pronto a buttarsi in una discusP. Pennisi, Presa di posizione francamente razzista di un cattolico, Principato, Messina 1938, p. 63. 73 Ibidem, p. 69. 74 Ibidem, p. 45. 75 Cfr. G. Landi, Teresio Olivelli. Un progetto di vita, Massimo, Milano 1983, p. 12. 76 N. Fabbretti, Teresio Olivelli ribelle per amore, Edizioni paoline, Milano 1992, p. 14. 72
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sione, se ne valeva la pena. Solidamente religioso, era un ammiratore della filosofia di san Tommaso. Era però fascista» 77. All’università di Pavia si laurea nel 1938 in giurisprudenza, e si trasferisce a Torino, assistente di Pietro Bodda, professore di Diritto amministrativo. Nel 1939, in rappresentanza dell’ateneo torinese, si classifica primo ai Littoriali di Trieste, categoria Dottrina del fascismo 78, presentando una monografia sul tema del razzismo 79. «Aveva – ricorderà il Littore Nino Tripodi – concezioni radicalmente cattoliche. Sopra esse innestava la sua idea fascista» 80. Sempre per l’agiografo cattolico avrebbe partecipato nel tentativo di «combattere il materialismo razzistico nazista e per “difendere i principi cattolici della razza”» 81. Ugoberto Alfassio Grimaldi, amico intimo di Olivelli, non ha dubbi: poteva tranquillamente aggiudicarsi la gara di razzismo senza essere razzista 82. La vittoria ai Littoriali rappresenta una vera e propria svolta nella vita di Olivelli 83. Contemporaneamente iscritto alla Fuci e ai Gruppi universitari fascisti (Guf, nati nel 1920, la cui finalità è «inquadrare la gioventù studiosa per educarla secondo la dottrina fascista») 84, Olivelli viene chiamato a Roma nel 1940 da Camillo Pellizzi all’Istituto nazionale di cultura fascista. Collabora anche con l’Ufficio studi e legislazione del Pnf e con il Consiglio superiore della demografia e della razza. Nell’estate del 1939 è a Berlino, per partecipare a un corso estivo di politica nazionalsocialista 85. Scrive su «Civiltà fascista», «Roma fascista», «Libro e moschetto». Recensisce con notevole proprietà di linguaggio filosofico un volume di Gastone Silvano Spinetti, esponente di primo piano della Scuola di mistica fascista 86. Nel 77
p. 8.
A. Scurani, Teresio Olivelli il «ribelle» dagli occhi puliti, San Fedele, Milano 1995,
Cfr. U. Alfassio Grimaldi - M. Addis Saba, Cultura a passo romano. Storia e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, Feltrinelli, Milano 1983, p. 59. 79 Dottrina del Fascismo I. Il razzismo quale principio spirituale e politico della rivoluzione fascista. I suoi rapporti con i valori della tradizione italiana (romanità, cattolicesimo, rinascimento e risorgimento): cfr. G. Peio, Teresio Olivelli. Tra storia e santità, Effatà, Cantalupa 2006, p. 64. 80 N. Tripodi, Italia fascista in piedi! Memorie di un Littore, Edizioni del Borghese, Milano 1960, p. 164. 81 N. Fabbretti, Teresio Olivelli ribelle per amore, cit., p. 13. 82 Cfr. U. Alfassio Grimaldi, in Autobiografie di giovani del tempo fascista, Morcelliana, Brescia 1947, p. 56. 83 Cfr. G. Peio, Teresio Olivelli, cit., pp. 102-124. 84 Partito nazionale fascista (a cura di), Il primo libro del fascismo [1938], cit., p. 53. 85 Cfr. M. Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi Giudei». cit., p. 174. 86 Cfr. S. G. Spinetti, Mistica fascista nel pensiero di Arnaldo Mussolini, Hoepli, Milano 1936. 78
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saggio viene attaccato l’idealismo gentiliano 87. Olivelli apprezza lo sforzo intellettuale di Spinetti, ma non lo segue. Così conclude la sua lunga e articolata recensione: il saggio dà occasione per riprendere il ripensamento e la ridefinizione sulla struttura eterna del pensiero tradizionale della complessa ed inquieta vita di questo secolo che il Fascismo presentì ed avviò, figura e domina 88.
Nel 1940 padre Gemelli e Bottai sostengono Olivelli per il ruolo di rettore del Ghisleri 89. A soli ventisette diventa il più giovane rettore d’Italia. Nel 1941 Olivelli parte volontario, nel corpo degli alpini, aggregato alla divisone Julia, per il fronte sovietico. Tornato in Italia nel 1943 torna al Ghisleri. Ma poco dopo rientra nell’esercito. L’8 settembre è arrestato dai tedeschi. Inizia da quel momento un’avventurosa esistenza nelle formazioni partigiane cattoliche, sino alla morte, avvenuta nel campo di Hersbruck in Baviera. Già abbastanza provato dalle dure condizioni per il lavoro forzato in miniera, prossimo allo sfinimento, gli sono letali le percosse ricevute da un sorvegliante polacco, che lo colpisce con un calcio al ventre e venticinque nerbate 90, punendolo per aver difeso un prigioniero 91 ma, soprattutto, per l’intensa opera di apostolato 92. Tutte le testimonianze concordano che Olivelli si è comportato come un martire della fede cristiana. «Un santo senza reliquie» (poiché il suo corpo fu incenerito nel campo) 93. Ha voluto imitare Cristo sino alla fine, nota un biografo 94. Grimaldi aveva già nel 1947 richiamato attenzione sull’importanza del percorso biografico e intellettuale di Olivelli, 87 Spinetti, nato nel 1908, nel 1933 fonda la rivista «La Sapienza», con l’intento di contrastare l’influenza nella cultura fascista dell’idealismo di Gentile, opponendogli una filosofia politica collettivista, totalitaria e cattolica: cfr. G. S. Spinetti, La reazione morale, Signorelli, Roma 1933; Id., Fascismo Universale, Tipografia Italia, Roma 1933; Id., L’Europa verso la rivoluzione, Novissima, Roma 1936; Id., Fascismo e libertà: verso una nuova sintesi, Cedam, Padova 1940. 88 T. Olivelli, Bibliografia, in «Civiltà fascista», 10, 1940. 89 Cfr. M. Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi Giudei», cit., p. 175. 90 Cfr. M. Apollonio, Teresio Olivelli, Cinque lune, Roma 1966, p. 34. Molti riportano questo fatto, ma Peio indica solo il pestaggio e il calcio allo stomaco ricevuto per aver difeso un ragazzo ucraino: cfr. G. Peio, Teresio Olivelli, cit., p. 304. 91 Cfr. A. Caracciolo, Teresio Olivelli, La scuola, Brescia 1947, p. 131. 92 Cfr. P. Rizzi, L’amore che tutto vince. Vita ed eroismo cristiano di Teresio Olivelli, Libreria editrice vaticana, Roma 2004, p. 704. 93 N. Fabbretti, Teresio Olivelli ribelle per amore, cit., p. 7. 94 Cfr. C. Guderzo, Il prezzo della libertà, in C. Ghidelli - G. Lazzaro (a cura di), Laici del nostro tempo, Studium, Roma 1987, pp. 103-114.
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definendolo «una delle più belle figure della resistenza e tipica espressione del nostro travaglio» 95. Tornando sulla sua figura aggiungeva: lui che non era razzista, denunciando l’inconsistenza delle formulazioni scientifiche che stavano alla base, la difficoltà di sistemare il dato «razza» nella dottrina fascista, l’inopportunità di una politica del genere 96.
Nel 1963 Grimaldi ricordando nuovamente l’amico di gioventù aggiungeva un ulteriore particolare: Olivelli da «Littore per la razza nel 1939 dopo lunghe eroiche vicende fu massacrato nel campo di Hersbruck avendo preso la difesa degli ebrei. Dall’antisemitismo al martirio per gli ebrei» 97. Nessuna delle numerose fonti biografiche conferma che Olivelli sia morto per difendere un ebreo. Ma questo non sminuisce certo l’eroismo dei suoi gesti, riconosciuti dalla medaglia d’oro al valor militare conferitagli alla memoria nel 1953, e dall’apertura di una causa di beatificazione da parte delle diocesi di Como, Vigevano e Pavia, proclamato il 15 dicembre 2015 «venerabile» 98 e il 3 febbraio 2018 «beato» 99. Come ha notato Luca La Rovere, Olivelli è stato considerato una «figura modello», oggetto fin dai primi anni del dopoguerra di un vero e proprio culto, alimentato non soltanto da coloro che lo avevano conosciuto, che lo porterà essere considerato un esempio di santità laica novecentesca 100.
La commossa biografia di Caracciolo, per La Rovere, è interessante per varie ragioni. Innanzitutto, non contrappone l’appartenenza cattolica a quella fascista. Per Olivelli – che non può essere considerato un antifascista – il fascismo ha avviato un radicale cambiamento nazionale, il cui punto di arrivo è la «nuova civiltà europea», certamente più umana, e dal suo punto di vista anche più cristiana. In secondo ordine nega lo «stereotipo di un fascismo privo di un proprio contenuto ideologico». Infine, smentisce
U. Alfassio Grimaldi, in Autobiografie di giovani del tempo fascista, cit., p. 55. Ibidem, p. 56. 97 U. Alfassio Grimaldi, La generazione sedotta e abbandonata, in «Tempo presente», 1, 1963. 98 Articolo non firmato, in «L’osservatore romano», 16 dicembre 2015. 99 E. Lenzi, Teresio Olivelli, il «difensore dei poveri» è beato, in «Avvenire», 3 febbraio 2018. 100 L. La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo 1943-1948, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 310-311. 95 96
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la tesi di un’assoluta incompatibilità tra milizia fascista e cattolicesimo, provando, al contrario, che alcuni elementi della formazione cristiana avevano avuto un ruolo decisivo nell’opzione ideologica in favore del fascismo 101.
Riassumendo, Olivelli è uno dei tanti giovani universitari, confluiti nelle strutture intellettuali fasciste, convinto sia della legislazione razzista sia della guerra voluta da Mussolini. Caracciolo prova a giustificare il razzismo fascista di Olivelli, ritenendolo stemperato dalla intensa religiosità cristiana. All’inizio del 1940 sull’organo di stampa della Federazione fascista di Milano, Olivelli pubblica un articolo su razza e cultura. Il razzismo fascista – nel quale crede – rappresenta la valorizzazione spirituale di un dato biologico. Per Olivelli la razza è accentuazione di valori comuni, conferma e integra l’atteggiamento anti individualista del Fascismo e si volge contro ogni grettezza personalistica, ogni intellettualistico ermetismo, ogni utilitario egocentrismo [...]. Il razzismo come svolgimento e intensificazione nella concretezza fisica del principio nazionalistico, eminentemente spirituale [...]. Il razzismo è approfondita coscienza della propria essenza nazionale [lontana da] aberrazioni intellettuali, sfrenatezza di egoismi capitalistici, sfaldamento morale, esaltazione morbosa della sessualità 102.
Una simile concezione del razzismo la ritroviamo nel giovane universitario Enzo Santarelli (nato nel 1922, futuro storico del fascismo di orientamento comunista) 103. Il razzismo deve intendersi «come nazionalismo totalitario», avendo assunto «tutta la costruzione teorica fascista [...] una portata scientifica, con l’introduzione del concetto basilare di razza» 104. Come poteva un convinto partigiano cattolico, morto da martire cristiano in un campo di concentramento, essere stato un Littore fascista? Come poteva un razzista ricevere il martirio per gli ebrei (o, più correttamente, alla pari degli ebrei)? La guerra è la risposta. La guerra trasformò un Littore cattolico e un volontario fascista in un partigiano: Il conflitto nel suo tragico epilogo del ’43 – scrive Pier Giorgio Zunino – si accompagnò, vogliamo dire, a uno scuotimento di coscienze che ben poco lasciò di immutato nel fluire dei pensieri, nel loro sostrato etico, nei punti cardinali dell’oIbidem, p. 311. T. Olivelli, Razza e cultura, in «Libro e moschetto», 27 gennaio 1940. 103 Cfr. E. Santarelli, Storia del fascismo, voll. I-III, Editori riuniti, Roma 1973. 104 E. Santarelli, Dal nazionalismo al razzismo, in «La difesa della razza», 5, 1941. 101 102
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rientarsi per le vie del mondo di tutti e di ciascuno. L’apocalisse della sconfitta e dell’invasione provocò un’onda d’urto i cui effetti solo in alcuni, in definitiva una ristretta minoranza, si sarebbe trasformata in un chiaro e netto impulso a imboccare o confermare risolutamente la via di scelte antifasciste. Per molti il travaglio imposto da una realtà improvvisamente rivelatasi sconvolgente portò a giudizi malcerti e, talvolta, a pericolose condiscendenze, alcune delle quali qualche istante più tardi sarebbero divenute inconfessabili 105.
Nel dopoguerra, all’ombra protettiva ed assolutoria della ricostruzione di Ruggero Zangrandi del «lungo viaggio all’interno del fascismo» 106, si è affermato un paradigma interpretativo che vede nei Littoriali – «le Olimpiadi del fascismo, idea venuta a Alessandro Pavolini su suggerimento di Giuseppe Bottai» 107 – una palestra del «fascismo di fronda dei giovani, da cui l’antifascismo ha avuto un notevole apporto» 108. O meglio: «un’ampia testimonianza di antifascismo» 109. Lo stesso ragionamento vale per i Guf, compresi quelli cinematografici, ritenuti semplici associazioni di appassionati della «settima arte», o tappe di un percorso (ovviamente lungo) frondista e di allontanamento dal fascismo 110. Ma, come scrive Raffaele Liucci, ormai sappiamo che i Littoriali non furono per nulla quella «palestra dell’antifascismo» rievocata romanticamente da Ruggero Zangrandi (nato nel 1915) e altri testimoni [...]. Non ci fu, insomma, se non per pochi privilegiati, alcun «lungo viaggio attraverso il fascismo». Tanto che la Gioventù Universitaria Fascista (Guf) abbracciò sino all’ultimo, con toni integralisti, la campagna razziale e la guerra mussoliniana 111.
P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato, il Mulino, Bologna 2003, p. 134. Cfr. R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Mursia, Milano 1998. Il saggio di Zangrandi uscì in una forma ridotta da Einaudi nel 1948, con un titolo leggermente diverso dal definitivo, Il lungo viaggio. Contributo alla storia di una generazione, e successivamente da Feltrinelli nel 1962, in un’edizione ampliata e con una lunga appendice di documenti. Alla prima uscita il libro ebbe accoglienza «assai fredda»: cfr. L. Mangoni, Civiltà della crisi. Cultura e politica in Italia tra Otto e Novecento, Viella, Roma 2013, p. 206. 107 Partito nazionale fascista (a cura di), Il primo libro del fascismo [1938], cit., p. 35. 108 U. Alfassio Grimaldi - M. Addis Saba, Cultura a passo romano, cit., p. 7. 109 Cfr. E. L. Albertoni - E. Antonini - R. Palmieri (a cura di), La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari 1962, p. 9. 110 Cfr. L. La Rovere, I Cineguf e i Littoriali del cinema, in O. Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano 1934-1939, vol. V, Marsilio, Venezia 2006, pp. 85-94. 111 R. Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino 2011, pp. 165-166. 105 106
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Il partito, nell’opera di costruzione dello Stato totalitario, vuole fondare una «seconda generazione» integralmente fascista 112, e trova nei giovani universitari, presto gettati nell’arena intellettuale, un’adesione massiccia. I giovani universitari, nelle proprie discipline specifiche, si trovano alle prese con la lettura della modernità, resa caotica e selvaggia da forti agenti disgreganti quali il liberalismo, il capitalismo, l’antifascismo. La «rigenerazione nazionale» poteva avvenire dunque soltanto attraverso la «rivoluzione integrale» fascista. E il razzismo e l’antisemitismo ne erano un punto fondamentale. Se il giovane intellettuale Olivelli non si impegna a fondo nella polemica antisemita, lo stesso non si può del suo coetaneo Gabriele De Rosa, nato a Castellammare di Stabia nel 1917, laureatosi in giurisprudenza a Torino. Al talentuoso ventunenne universitario (futuro storico del movimento cattolico, docente di storia contemporanea negli atenei di Padova, Salerno – di cui è stato Rettore – e Roma, biografo di don Luigi Sturzo, senatore dal 1987 al 1994 e deputato dal 1994 al 1996), collaboratore della Federazione fascista di Alessandria (dove risiede con la famiglia), gli viene sollecitata la redazione di un testo antisemita, uscito nel febbraio 1939 113. Riflettendo, a sessant’anni di distanza sul suo lavoro, proverà a dare un senso al giovanile antisemitismo: «scopiazzando qui e lì, in gran fretta, la letteratura antiebraica [...] uscì fuori un goffo, scriteriato libercolo, insensato» 114. De Rosa sposa senza riserve la svolta razzista, condividendo la necessità storica dell’opera di bonifica antisemita. Il giudaismo è il vero nemico del fascismo: «dietro pericolose inframmittenze diplomatiche – scrive – agisce l’ebreo» 115. Considera la Germania una «nazione amica» 116 e una missione imprescindibile quella di contrastare la «piovra ebraica». L’ebreo ha il volto demoniaco del bolscevismo; è il traditore in tempo di guerra; possiede capitali immensi (tutto ciò è provato dai
112 Cfr. L. La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 9. 113 Cfr. G. De Rosa, La rivincita di Ario, Sezione Editoriale del Gruppo Universitario Fascista di Alessandria, Alessandria 1939. 114 Cfr. G. De Rosa, Antisemitismo. Memorie di un cattolico pentito, in «Corriere della sera», 13 novembre 2000. L’articolo riprende una piccola parte dell’intervista a De Rosa rilasciata a Walter Crivellin: cfr. W. E. Crivellin (a cura di), Cattolici, Chiesa, Resistenza. I testimoni, il Mulino, Bologna 2000, pp. 387-402. 115 G. De Rosa, La rivincita di Ario, cit., p. 7. 116 Ibidem, p. 15.
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Protocolli) 117; inquina i rapporti con il cattolicesimo 118 e ha una presenza infausta nella scuola 119. Il fascismo ha la massima cura dei giovani; perché questi non dubitano, ma credono fedelmente come soldati; non piangono per le discriminazioni contro Israele, ma s’adoperano decisamente, senza distinguismi, a porre in atto quelle; perché infine essi sono puri e come tali sentono e più di tutti amano il bene ed odiano il male; e il male da questo momento a sempre sarà l’Ebreo 120.
Il giovane studente fascista ebbe, a suo dire, un «risveglio» nel 1941. Nel 1942 si arruola. Ufficiale dei Granatieri di Sardegna combatte ad El Alamein. Molti anni dopo pubblicherà il diario di quella esperienza, ricordando che si trovava lì per il giuramento fatto al Re e alla bandiera. Dunque, non per la «guerra fascista» 121. Dopo l’8 settembre 1943 De Rosa – a rimarcare come la guerra segni il vero spartiacque tra convinta adesione e autentica separazione dal fascismo – entra nella Resistenza. Il «libercolo» di De Rosa, tanto per trovare un metro di comparazione, ha strette assonanze con un altro «libercolo» coevo, sciatto opuscolo pubblicato in forma anonima: Ecco gli Ebrei. È la storia di un popolo privo di storia; un popolo inquieto, indisciplinato, anarcoide, segnato da odio e rancore, elementi primordiali del carattere ebraico. Tra il tempo intercorso fra l’epoca delle crociate e quella della Rivoluzione francese, gli ebrei si arricchiscono a dismisura, identificandosi con la borghesia occidentale. I Protocolli illuminano sul progetto giudaico di distruzione delle economie nazionali e della morale. L’azione politica del giudaismo si serve di ogni mezzo, lecito o illecito, per giungere allo scopo finale: il regno del «popolo eletto da Dio» 122. La rivincita di Ario si chiude con un’analisi del successo internazionale della letteratura ebraica (fatto «inquietante»). De Rosa ricorda come
Ibidem, pp. 15-35. Ibidem, pp. 37-41. 119 Ibidem, pp. 51-52. 120 Ibidem, p. 62. 121 Cfr. G. De Rosa, La passione di El Alamein. Taccuino di guerra 6 settembre 1942 - 1° gennaio 1943, Donzelli, Roma 2002, p. 78. 122 Ecco gli Ebrei. Dai “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” alle concezioni razziste, EMI; Milano 1938. 117 118
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il grido della modernità può essere ben tenuto dall’ebreo di Monaco Lion Feuchtwanger [...] l’esaltatore di quel Süss Oppenheimer che nell’animo [...] disprezzava il cristiano, e quest’odio, riscaldato da un’ambizione vasta e da una volontà di potere senza limiti, manifestò nel succiare il sangue dei non consanguinei. (Era ministro delle finanze) 123.
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G. De Rosa, La rivincita di Ario, cit., p. 58.
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VIII.
«Il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico, a guardare bene, è Charlot»
La polemica razzista e antisemita da piccolo focherello nel 1938 divampò rapidamente in un incendio di vaste proporzioni: Per qualche mese una vera e propria febbre si impadronì degli intellettuali razzisti portandoli a moltiplicare le pubblicazioni [...]. Una volta che l’antisemitismo fu diventato orientamento ufficiale dello stato fascista, il gruppo degli antisemiti dichiarati si allargò rapidamente grazie alla collaborazione degli intellettuali di regime 1.
Renzo De Felice ha posto l’attenzione su un dato: la pubblicistica razzista e antisemita era vastissima. I giornali abbondano di articoli dedicati al tema, e nell’editoria si assiste ad un fiorire di libelli, quasi sempre di scarsissimo valore formale e intellettuale 2. A partire dal 1938 la stampa italiana nella sua totalità si era impegnata in uno «sconcio “crescendo” razzista e antisemita» 3. Anche la stampa cinematografica fu investita dalla febbre razziale. La rivista «Cinema», ad esempio, si allinea immediatamente, ricordando in un editoriale come la questione razziale fosse stata da sempre una reale preoccupazione, anche quando «il problema non era posto nei suoi termini definitivi». Il cinema italiano deve essere tenuto più possibile lontano da inquinamenti stranieri:
M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 229. Giustamente De Felice per un quadro complessivo della vasta pubblicistica editoriale razzista e antisemita tra il 1938 e il 1943, rimanda alle rubriche di «La difesa della razza» Razzismo in libreria e Hanno scritto articoli su...: cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 190. 3 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 259. 1 2
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Parlare di razza, oggi per noi non significa altro che riprendere i nostri vecchi argomenti di battaglia, portandoli su un piano più preciso [...] razza, nel concetto fascista, non è un termine che abbia soltanto un riferimento fisiologico, quasi non fossero lo spirito e la virtù a fare degli italiani una razza che nella storia ha lasciato tracce profonde e gloriosissime 4.
«Bianco e nero» (il cui primo numero è uscito nel 1937), testata edita dal Centro sperimentale di cinematografia, diretta da Luigi Chiarini (anche se il direttore ufficiale è Luigi Freddi), si mette immediatamente in sintonia con la campagna razziale lanciata dal fascismo. Chiarini da quando nel 1934 è stata istituita la Direzione generale della cinematografia, al cui vertice è stato posto Freddi («l’uomo chiave della politica cinematografica del fascismo») 5, ne è diventato capo divisione 6. Freddi gli ha affidato la guida del Centro sperimentale, che apre i battenti nel novembre del 1935, trasformandolo da «giornalista di regime» 7 in «funzionario della propaganda» 8. Chiarini è un razzista, vice-direttore del settimanale «Quadrivio» (diretto da Interlandi) dal primo numero uscito nell’estate del 1933 all’ultimo uscito nell’estate del 1943. Nella collana «Biblioteca razziale italiana», diretta da Interlandi per l’editore romano Tumminelli, vengono annunciate alcune pubblicazioni di prossima uscita, tra cui Razza e Cinematografo di Luigi Chiarini (indicato come il numero 14 della collana). Chiarini su «Quadrivio» sostiene che il problema del razzismo, per via dell’Impero, è una questione ineludibile, poiché la distinzione tra dominati e dominatori deve essere netta 9. Con l’Impero è cominciata la fase ascendente della storia italiana: «l’Italia guerriera di Mussolini si distingue da quella professorale di Giolitti», perché ha avuto il coraggio di idealizzare e costruire un «uomo nuovo», espressione della razza italiana, bandendo ogni internazionalismo 10. La rivista di numero in numero, tra il 1937 e il 1938, orienta le antenne su razzismo e antisemitismo. Vengono pubblicati i cognomi degli Articolo non firmato, Razza italiana e cinema italiano, in «Cinema», 53, 1938. Cfr. A. Costa, Il cinema italiano, il Mulino, Bologna 2013, pp. 34-35. 6 A. Venturini, La politica cinematografica del regime fascista, Carocci, Roma 2015, p. 36. 7 Cfr. P. Allotti, Giornalisti di regime. La stampa italiana tra fascismo e antifascismo 1922-1948, Carocci, Roma 2012. 8 C. Siniscalchi, “Il Fascismo è una civiltà”. Luigi Chiarini: un intellettuale tra politica, letteratura e (soprattutto) cinematografia, in «Nuova storia contemporanea», 4, 2015. 9 L. Chiarini, Bianco e nero, in «Quadrivio», 7 giugno 1936. 10 L. Chiarini, Il razzismo in Italia, in «Quadrivio», 1° novembre 1936. 4 5
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ebrei italiani 11. Partono anatemi all’indirizzo degli ebrei in cattedra 12, del «meticciato religioso» 13, dell’alleanza tra inglesi ed ebrei 14, degli ebrei in Polonia 15. Interlandi fissa la linea con frequenti prese di posizione. La pubblicazione del Manifesto della razza lo trova concorde: il tempo del razzismo è arrivato 16. Anche Chiarini sull’argomento non fa mancare un contributo. L’espansione imperiale dell’Italia fascista ha evidenziato il confronto degli italiani con le moltitudini delle «razze inferiori». Pertanto, il razzismo non deve essere inteso come un problema scientifico, ma è il naturale approdo del fascismo, affermatosi per difendere la purezza degli italiani dall’inquinamento di ideologie politiche (democrazia, massoneria, comunismo), filosofiche (positivismo, materialismo, freudismo) e artistiche (dadaismo, cubismo, espressionismo). Per queste ragioni Il Fascismo vuole che anche nei caratteri fisici degli italiani, nella purezza del loro sangue, nella loro sanità si possa leggere il riconquistato senso della bellezza, della forza spirituale, della viva bontà. Sono queste le stigmate di una razza che si eleva verso l’ideale e non si abbassa alla materialità magari truccata sotto un gretto e astratto spiritualismo inconsistente e libresco 17.
In sintonia con la campagna razziale lanciata dal fascismo, Chiarini su «Bianco e nero» pubblica alcuni articoli di taglio razzista, affidati alla stesura del propagandista antisemita Giulio Cogni. Nato a Siena nel 1908, Cogni è docente di filosofia in un liceo di Perugia e, successivamente, all’Istituto italo-germanico di Amburgo. Esordisce come romanziere, con scarsa fortuna 18. Vira verso la filosofia, mescolando misticismo e fascismo, quest’ultimo intrepretato in stretta vicinanza con il pensiero di Giovanni Gentile 19. Nel 1932 una sua curiosa opera, Saggio sull’amore (dedicata a Gentile con filiale devozione) 20, scatena un vespaio di polemiche, che spinge l’autore a Dall’A alla Zeta, in «Quadrivio», 11 aprile 1937. R. Miceli, Ebrei in cattedra, in «Quadrivio», 5 dicembre 1937. 13 G. Sottochiesa, Meticciato religioso, in «Quadrivio», 16 gennaio 1938. 14 H. Belloc, Perché l’Inghilterra va tramontando, in «Quadrivio», 30 gennaio 1938. 15 A. Frateili, Il vivaio degli ebrei in Polonia, in «Quadrivio», 6 febbraio 1938. 16 T. Interlndi, Il razzismo in Italia. È tempo, in «Quadrivio», 24 luglio 1938. 17 L. Chiarini, Spirito e razza, in «Quadrivio», 25 settembre 1938. 18 Cfr. G. Cogni, La città del sole, Turbanti, Siena 1927. 19 Cfr. G. Cogni, Studi mistici, La rivoluzione fascista, Siena 1930. 20 G. Cogni, Saggio sull’amore. Come nuovo principio di Immortalità, Bocca, Milano 1932. 11 12
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licenziare nel 1933 una seconda edizione e una «difesa» della sua opera 21. Gli strali arrivano dal giovane fascista oltranzista Berto Ricci. Ma anche da intellettuali vicini a Gentile e piuttosto distanti dall’ufficialità come Guido de Ruggero, che definisce il libro un «tentativo di svolgere l’idealismo attuale nel senso dell’antropofagia [che] sembra sconfinare verso gli orizzonti più vasti della necrofilia» 22. Mino Maccari, nel suo stile sarcastico, conia un nuovo aggettivo: «cognerie». Il primo capitolo, Il desiderio cosmico, si apre con questa affermazione: «Chi ama perdutamente, chi ama davvero una donna, non può desiderare nulla di meglio, se non che Ella lo mangi, lo sciolga in musica, nella divina sinfonia del suo corpo» 23. Entusiasta della Germania hitleriana 24, tra il 1934 e il 1935 pubblica due saggi sulla rivista corporativa «Nuovi studi di diritto, economia e politica», diretta da Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli. Il primo saggio è una favorevole ricezione della filosofia razzista di Alfred Rosenberg 25. Il secondo riassume i contorni della corrente di pensiero affermatasi in Germania, impegnata nella ricerca dell’antica fede dei padri (il sangue indoeuropeo), erroneamente definita «neopagana». La definisce una «lotta contro i falsi miti della civiltà, impresa dal nazionalsocialismo come dal fascismo» 26. Cogni si iscrive tra i «precursori» 27 del razzismo fascista, in perfetta sintonia con «le teorie antisemite naziste» 28. Nel novembre 1936 esce Il razzismo (Delio Cantimori lo considera una buona esposizione italiana delle questioni razziali, insieme a Il mito del sangue di Evola) 29, nel quale Cogni esordisce rammentando che già nel 1934 (nel saggio sul «grande pensatore» Rosenberg) aveva delineato i suoi orientamenti. Per Cogni non v’è alcuna distinzione razziale tra le discendenze dei germani (nordici) e quelle greche e romane (mediterranee), essendo entrambe «esempi più puri dell’arianesimo nel mondo» 30. La dottrina del sangue, rinata nel contesto del nazionalismo germanico, è Cfr. G. Cogni, Difesa del saggio sull’amore, Bocca, Milano 1933. G. d. R. (G. de Ruggero), Rivista bibliografica, in «La critica», 4, 1933. 23 G. Cogni, Saggio sull’amore, cit., p. 1. 24 Cfr. M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 156. 25 G. Cogni, Il mito del sangue nordico e Rosenberg, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», X, 1934. 26 G. Cogni, La nuova religione tedesca, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», XIV, 1935. 27 M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 221. 28 M. Serri, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista, Marsilio, Venezia 2002, p. 143. 29 Cfr. D. Cantimori, Nazionalsocialismo, cit., p. 262. 30 Cfr. G. Cogni, Il razzismo, Bocca, Milano 1936, p. V. 21 22
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stata interpretata come affermazione materialistica del «corpo sullo spirito» 31. Ma non è così. Lo studio delle idee razziste ne è una dimostrazione. Cogni condivide con Rosenberg la polemica nei confronti del cattolicesimo, poiché la religione è universalistica, mentre la vera religione civile, popolare, in Lutero come in Mazzini, umanizza il divino e divinizza l’umano. Chi la considera neopagana è in errore 32. La nuova religione civile è incastonata nel mito nordico, certo diverso dai miti mediterranei, ma pur sempre «funzione eroica dell’anima popolare» 33. L’espressione nordico, in Chamberlain come in Rosenberg, è interscambiabile con ariano 34. L’ariano è il dominatore del progresso, dell’arte, della nobiltà della figura. Questo è «un fenomeno universale di distinzione fra razze superiori e inferiori» 35. L’ebreo è in contrapposizione storica con l’ariano. La lotta razziale si perde nella notte dei tempi e arriva sino al XIX secolo, con la decadenza favorita dal materialismo in filosofia, il naturalismo in arte, il marxismo in politica ed economia 36 [...] il crescente fascino del nihilismo russo, che è l’espressione sostanziale del genio orientale ed ebraico che si riscuote (Bakuonine, Marx, Lassalle, Lenin) 37.
Tutto ciò contribuisce in maniera drammatica all’indebolimento della civiltà occidentale: è la decadenza dell’Occidente descritta da Oswald Spengler, che ha commesso l’errore di accettare la decadenza come fase definitiva ed irreversibile, mentre si tratta solo di una transizione. Infatti, la «luce dell’antico sangue nordico torna ad accendersi nuovamente sul mondo. Il Fascismo e il Nazionalsocialismo sono già questa luce» 38. Il libro viene messo all’Indice dal Sant’Uffizio 39. La decisione viene commentata sul quotidiano del Vaticano da Mario Cordovani. Per Cogni, scrive il teologo domenicano – che rigetta con decisione le tesi razziste Ibidem, p. 11. Ibidem, pp. 85-87. 33 Ibidem, p. 102. 34 Ibidem, p. 108. 35 Ibidem, p. 136. 36 Ibidem, p. 234. 37 Ibidem, pp. 234-236. 38 Ibidem, p. 237. 39 Il libro fu messo all’Indice con decreto del 9 giugno 1937: cfr. J. M. De Bujada (a cura di), Index librorum prohibitorum 1600-1966, cit., p. 229. Sulla vicenda della messa all’Indice cfr. T. Dell’Era, Giulio Cogni, in A. Prosperi (a cura di), Dizionario storico dell’Inquisizione, Edizione della Normale, Pisa 2010, pp. 343-346. 31 32
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esposte nel saggio – «ci sono razze nate al comando, e razze nate a servire» e «la plebe è nata a servire gli uomini superiori». Tali ragionamenti non possono essere accettati, come non può essere accettata la teoria, affermatasi in Germania e condivisa da Cogni, che esista una razza superiore, la razza ariana. Il Sant’Uffizio non poteva fare altro che mettere all’Indice il saggio, essendo un chiaro rifiuto della dottrina cristiana. La preoccupazione conclusiva di Cordovani è che «Una gioventù educata a questa dottrina non sarebbe più né cristiana né italiana» 40. Cogni, nella seconda ristampa del saggio, andato esaurito in poco tempo, si rallegra della ricezione tedesca delle sue idee, e si rallegra anche dell’ostilità dei «falsi cattolici», che non solo lo hanno messo all’Indice, ma l’hanno accusato di «antitalianità», «antifascismo» e «tedeschismo», ottenendo il solo risultato di incrementare la diffusione del libro 41. A completamento della filosofia razzista, sulle ali del successo de Il razzismo e in un clima estremamente favorevole, nella primavera del 1937 Cogni pubblica I valori della stirpe italiana. Ribadisce che l’Italia, entrata nella fase imperiale, ha tutto da guadagnare ad essere razzista, poiché il «vero valore dell’uomo è la sua razza» 42. Cogni idealizza una «stirpe italiana» storicamente votata all’eccellenza: si pensi alla enorme potenza elevatrice del volto di Mussolini, ultima incarnazione vivente della «stirpe di Roma» e della «stirpe d’Italia» 43. L’idea gerarchica fascista è «una questione di sangue. Dal sangue, dalla sua innata superiorità o inferiorità, nasce la disposizione a reggere il mondo con serena potenza, o ad abbandonarsi al torrente ignavo» 44. Dal punto di vista razziale i rapporti tra Italia e Germania devono essere cordiali 45. Senza alcun dubbio il ceppo nordico di entrambe le nazioni è ariano 46. Per questa ragione le due nazioni devono affratellarsi, superando ogni ostacolo che può frapporsi fra loro per separarle 47. Nella conclusione Cogni affronta la «questione ebraica» in Europa, che ha due risvolti: uno razziale e umano; l’altro squisitamente politico. Gli ebrei sono 40 M. Cordovani, La condanna del volume di G. Cogni: “Il Razzismo”, in «L’osservatore romano», 20 giugno 1937. 41 Cfr. G. Cogni, Il razzismo, Bocca, Milano 1938, pp. V-VIII. 42 G. Cogni, I valori della stirpe italiana, Bocca, Milano 1937, p. 10. 43 Ibidem, p. 64. 44 Ibidem, pp. 84-85. 45 Ibidem, p. 98. 46 Ibidem, p. 105. 47 Ibidem, p. 106.
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un insieme di razze, il cui sangue è orientale e caucasico. Lontano dunque da quello europeo: Ramingo per tutte le terre, sempre fedele a se stesso, oppure consumante tutte le infedeltà contro un rinnovamento vero della propria anima in una terra e in una patria propria, l’ebreo si è abituato ad un concetto arido e desolato della vita. Dovunque giunge, pianta tende: ovunque ritrova una propria patria: ma è sempre diverso da questa patria, se ne tiene sempre perfettamente separato; e per vivere riduce i suoi bisogni umani al minimo possibile: il danaro, il benessere. Gli ebrei della diaspora sono l’emblema della rovina razziale: non hanno nulla di attraente, poiché fisiologicamente tarati a causa delle rovine provocate da sofferenze, incroci, infelici condizioni ambientali 48.
È facile che dove vivono gli ebrei scatenino nelle popolazioni l’istinto del pogrom. La Germania, che sta attuando una severa politica antisemita, non è spinta da motivazioni umane o razziali (anche se possono essere state la molla) ma politiche. L’ebreo nella morte degli altri popoli trova la propria vita: questo è a accaduto in Germania. E dunque la reazione è stata una necessità per non soccombere 49. E visto che in Italia si stanno correndo gli stessi pericoli che ha subito la Germania, occorre reagire con una politica razziale. Anche in Italia gli ebrei si accaparrano quanto c’è di meglio. Vedrete un «giorno l’Italia, in un momento di debolezza, lascarsi dettar legge da questi fanatici dal volto adunco, esperti in tutte le astuzie» 50. Nel 1937 Cogni gode di grande visibilità, per i suoi interventi razzisti e per la sua vicinanza a Gentile, rimarcata nel saggio Lo spirito assoluto 51. I suoi scritti, che mescolano l’idealismo gentiliano al misticismo biologico, però «suscitano più critiche che consensi» 52. Gentile dal 1932 controllava la gestione della Sansoni. La casa editrice avrebbe dovuto varare (ma non lo farà) una collana: «Biblioteca razzista italiana», del cui comitato direttivo faceva parte Cogni. Nella collana sarebbero dovuti apparire Il mito del XX secolo e Le tracce degli ebrei nel corso dei secoli 53 di Rosenberg, Il primato Ibidem, p. 129. Ibidem, p. 130. 50 Ibidem, p. 132. 51 Cfr. G. Cogni, Lo spirito assoluto. Saggio critico sul pensiero teologico, La nuova Italia, Firenze 1937. 52 V. Cassata, La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008, p. 28. 53 Cfr. A. Rosenberg, Die Spur des Juden in Wandel der Zeiten, Franz Eher, Monaco 1937. 48 49
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morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti, un’antologia di scritti italiani sul razzismo curata da Massimo Lelj, Scritti polemici per la razza di Interlandi, I fondamenti del XIX secolo di Houston Stewart Chamberlain, Il razzismo e I valori della stirpe italiana di Cogni 54. Date queste premesse Cogni dovrebbe essere coinvolto nella stesura del Manifesto della razza. Ma non lo è. Anzi, il vero precursore del razzismo è messo ai margini. Nell’autunno del 1938 Cogni propone al Ministero della cultura popolare la traduzione del Mito del XX secolo di Rosenberg. Ma ottiene una risposta negativa. Il saggio era stato messo all’Indice della chiesa e la pubblicazione avrebbe riaperto le polemiche 55. L’allontanamento ha una duplice spiegazione: il razzismo e l’antisemitismo di Cogni sono ritenuti troppo vicini al nazionalsocialista Rosenberg, avversato da più parti, tra cui Evola, che non digerisce il «mito nordico». Inoltre, la vicinanza a Gentile contribuisce ad aumentare le riserve. Gentile alla metà degli anni Trenta si è arroccato dietro il fortino dell’Enciclopedia italiana. Si mantiene alla larga, quanto possibile, dal razzismo e dall’antisemitismo, suscitando – soprattutto dopo l’approvazione delle «leggi razziali» – diffusi malumori, tra cui quello di Francesco Càllari, che invoca un adeguamento alla nuova ortodossia 56. Gli attacchi a Gentile e alla sua opera editoriale più impegnativa e vistosa furono una costante da parte di settori e uomini del fascismo, da differenti posizioni. L’ostilità a Gentile da parte degli oltranzisti fascisti Mario Carli, Ardengo Soffici, Curzio Malaparte e Telesio Interlandi, fu estremamente dura 57. E sull’Enciclopedia piovvero gli strali di Giuseppe Attilio Fanelli, che accusò Gentile di aver dato vita ad una «controrivoluzione» 58, oltreché le pesanti riserve del mondo cattolico e vaticano 59. Carli e Settimelli sulla tribuna quotidiana da loro diretta, il quotidiano romano «L’Impero» avvertirono che il fascismo andava liberato «dall’ultimo residuo liberale, che lo inquina» 60. La polemica contro Gentile si accende con la pubblicazione Cfr. G. Pedullà, Il mercato delle idee. Giovanni Gentile e la Casa editrice Sansoni, il Mulino, Bologna 1986, p. 222. 55 Cfr. M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, cit., p. 258. 56 F. Càllari, Perché ariani, in «La difesa della razza», 4, 1938. 57 Cfr. A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, il Mulino, Bologna 2009. 58 Cfr. G. A. Fanelli, Contra Gentiles. Mistificazioni dell’idealismo attuale nella rivoluzione fascista, Il Secolo fascista, Roma 1933, p. 96. 59 Cfr. G. Turi, Il mecenate, il filosofo e il gesuita. L’«Enciclopedia italiana», specchio della nazione, il Mulino, Bologna 2002. 60 S. Maurano, Il fenomeno Gentile, in «L’Impero», 4 gennaio 1927. 54
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nel 1925, a Bologna, del Manifesto degli intellettuali fascisti promosso dal filosofo 61. Carli mette nero su bianco il proprio mal di pancia 62. Gli attacchi con il trascorrere del tempo aumentano di intensità. Sul settimanale «Oggi e domani» (costola de «L’Impero») nel 1930 Carli propone un censimento degli scrittori fascisti, omettendo il nome di Gentile 63. L’anno successivo, curata da Carli e Fanelli, esce l’Antologia degli scrittori fascisti 64, nella quale figurano 150 autori divisi in tre gruppi. Anche stavolta Gentile non è presente, e la sua assenza suscita una valanga di polemiche 65. Il primo articolo di Cogni su «Bianco e nero» appare all’inizio del 1938, prima delle «leggi razziali». Affrontando l’universo cinematografico si sofferma sullo stereotipo dell’italiano «brunetto e bassotto, semplicione e canoro, mangiator di maccheroni, gabbator del prossimo, lacrimogeno e violento e infine qualche volta eroe sul serio in modo romanticamente commovente». Scappa sempre fuori nel film, anche nei migliori, l’italiano «dalla faccia bruna e con gli occhi assassini, bestemmiatore e masnadiero». Il mercato internazionale del cinema, come è noto, è nelle mani degli ebrei. Gli americani sono bravissimi nel produrre film «i cui personaggi non hanno razza e non hanno patria», e gli italiani non sono ancora riusciti a instillare nel loro cinema una «fisionomia nazionale», cadendo nel «paesismo» e nel «folklore», modellando un canone razziale lontano dalla realtà. Dunque, è arrivato il momento di voltare pagina 66. Che Cogni sia uscito dai radar dell’ufficialità razzista (Mussolini non lo ha in grande simpatia, considerandolo autore di «libri licenziosi») lo dimostra l’inconsistente collaborazione con «La difesa della razza». Interlandi lo aveva fatto scrivere di sovente su «Il Tevere» e «Quadrivio», ma – a testimonianza delle difficoltà di Cogni – lo aveva tenuto alla larga dall’organo del razzismo mussoliniano, sul quale nei sei anni di vita pubblica soltanto
61 Cfr. F. Perfetti, Fascismo monarchico. I paladini della monarchia assoluta fra integralismo e dissidenza, Bonacci, Roma 1988, p. 260. 62 M. Carli, Manifesto di professori, in «L’Impero», 23 aprile 1925. 63 M. Carli, Censimento degli scrittori fascisti, in «Oggi e domani», 23 giugno 1930. 64 M. Carli - G. A. Fanelli (a cura di), Antologia degli scrittori fascisti, Bemporad, Milano 1931. 65 Cfr. F. Perfetti, Fascismo monarchico, cit., pp. 266-292. 66 G. Cogni, Preliminari sul cinema in difesa della razza, in «Bianco e nero», 1, 1938. Cogni successivamente pubblica altri due articoli: G. Cogni, Cinema e razza, in «Bianco e nero», 7, 1938; Id., L’anima razziale d’Italia e il suo cinema, in «Bianco e nero», 3, 1939.
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quattro articoli 67. Sempre nel 1939 Cogni, in collaborazione con Guido Landra, uno dei dieci firmatari del Manifesto della razza, pubblica l’ultimo scritto razzista, una schedatura delle principali opere dedicate all’argomento 68. A partire dal 1940 Cogni vira i suoi interessi intellettuali verso la musica. Nel 1941 esce un suo articolo su «Bianco e nero» 69 e una corposa riflessione filosofica sul «genio», che si chiude con i profili di D’Annunzio e Michelangelo 70. L’anno successivo esce il saggio La forza segreta della musica 71. Nel dopoguerra si occuperà soprattutto di misticismo e, ovviamente, di musica 72 (insegnerà Estetica e psicologia della musica al Conservatorio di Firenze), filosofia logica e di sessualità filosofica 73, tornando così al tema affrontato in gioventù 74. Sempre per «Bianco e nero» Chiarini affida a Domenico Paolella il compito di fissare i termini dell’antisemitismo. Paolella si è già occupato della materia. Nato a Foggia nel 1915, Paolella con la famiglia si è trasferito a Napoli. Laureato in Legge, durante gli studi universitari veine a contatto con il cinema, scrivendone e partecipando ai Littoriali. Diplomato in regia al Centro sperimentale nel 1936, è stato aiuto regista di Carmine Gallone in Scipione l’Africano (1937) e ha collaborato come sceneggiatore e documentarista con la Incom 75. Nel 1938, dopo l’approvazione delle «leggi razziali», interviene ripetutamente sull’argomento nella rivista settimanale «Film» (il primo numero è uscito il 29 gennaio 1938), diretta da Mino Doletti. La rivista, appoggiata dal Ministero della cultura popolare, segue l’ufficialità politica. Hitler a maggio è venuto in visita in Italia, avvenimento al quale è stato dato grandissimo risalto propagandistico. La rivista, con un articolo in prima pagina, sottolinea la necessità di unire la cinematografia italiana 67 G. Cogni, Una gente senza eroi, in «La difesa della razza», 5 novembre 1938; Id., La corruzione dell’arte bene e il male, in «La difesa della razza», 20 febbraio 1939; Id., Armonie di razza, in «La difesa della razza», 5 luglio 1941; Id., Il bene e il male, in «La difesa della razza», 5 settembre 1941. 68 Cfr. G. Cogni, Note bibliografiche informative, in G. Landra - G. Cogni, Piccola bibliografia razziale, cit., pp. 35-77. 69 G. Cogni, La parola, la musica, l’immagine, in «Bianco e nero», 5, 1941. 70 Cfr. G. Cogni, Il segreto del genio, Vallecchi, Firenze 1941. 71 Cfr. G. Cogni, La forza segreta della musica, Ticci, Siena 1942. 72 Cfr. G. Cogni, Che cosa è la musica? Elementi di psicologia della musica, Curci, Milano 1956. 73 Cfr. G. Cogni, Universo logico, Ciranna, Roma 1966. 74 Cfr. G. Cogni, Io sono io. Sesso e oblazione, Ceschina, Milano 1970. 75 Cfr. G. Siniscalchi, Domenico Paolella, in Enciclopedia del cinema, vol. IV, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2004, pp. 368-369.
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con la germanica: «ci sarebbe tutto da guadagnare in un regime concordato di difesa» dallo strapotere dei «monopolisti americani». Una concordanza di vedute, tra le due cinematografie, non c’è ancora stata: il momento però è propizio, vista la stretta collaborazione politica tra i due paesi 76. Il primo articolo di Paolella appare il 20 agosto 1938. Esordisce ricordando che il razzismo è sempre stato insito nel fascismo: ora ne viene soltanto decretata l’ufficialità. Da anni ci si batte per una cinematografia veramente italiana, poiché l’immagine dell’italiano nella produzione nazionale è stata negativa. Non come quella americana, che ha fatto il contrario, elevando eroi come Clark Gable, «il barbaro-bambino-bastardo-ricco, come è la civiltà americana» 77. Accanto all’articolo di Paolella viene inserito l’annuncio che dal successivo numero la rivista proporrà una serie di articoli su registi e attori ebrei: Charlot, Louise Reiner, i fratelli Marx, i registi Pabst, Sternberg e Rouben Mamoulian: In questi scritti saranno attentamente analizzati i caratteri che distinguono, nella produzione cinematografica, lo spirito israelita da quella non israelita. Più che sugli aspetti meramente negativi, questa serie di articoli fisionomia insisterà sulla intima fisionomia non europea dell’arte ebraica.
Il 27 agosto Paolella pubblica un nuovo articolo, nella prima pagina del settimanale: Spettacolo e razza. Torna sul tema dell’italiano poco rappresentato nella cinematografia nazionale, e formula un auspicio: «bisogna incoraggiare l’afflusso in Italia di produzioni fatte con mentalità europea, mediterranea, nostra. Bisogna innanzi tutto produrre in Italia film italiani che mostrino a noi e al mondo come è fatta la nostra razza» 78. Nello stesso numero di «Film», come era stato annunciato la settimana precedente, appare il primo dei ritratti dedicati a registi e attori ebrei. A firmarlo è Historicus (con molto probabilità lo stesso Paolella) ed è un ritratto severo di Charlie Chaplin 79. Segue il 10 settembre un nuovo articolo: Film razzisti. È tempo della semina per Paolella. I documentari dell’Istituto Luce, le produzioni su soggetti della storia nazionale, sulla colonizzazione africana e
Articolo non firmato, Due cinematografie, in «Film», 7 maggio 1938. D. Paolella, La razza e il cinema italiano, in «Film», 20 agosto 1938. 78 D. Paolella, Spettacolo e razza, in «Film», 27 agosto 1938. 79 Historicus, Attori ebrei: Charlot, in «Film», 27 agosto 1938. 76 77
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sulla guerra di Spagna, sono quantomai necessarie per rinvigorire il cinema nazionale» 80. L’articolo è accompagnato da un commento in corsivo: «Film», che può vantarsi di essere stato il primo e l’unico giornale di spettacolo italiano che, mentre gli altri si perdevano dietro ai pettegolezzi di varietà miranti a turlupinare i lettori, si è occupato dei rapporti tra il cinema e la razza, mentre continuerà la serie di articoli di Historicus, segnalerà tutte quelle iniziative cinematografiche che intendono esaltare e difendere i valori della nostra razza.
Nello stesso numero esce appunto il secondo articolo di Historicus, sul regista austriaco Josef von Sternberg 81. Giudaismo nel cinema tedesco è l’articolo pubblicato il 24 settembre. Nel cinema tedesco la presenza degli ebrei è stata «costante e nefasta», come dimostra l’espressionismo (non c’è genere di produzione che meglio ha espresso la mentalità e lo spirito giudeo»). Ma il nuovo corso ha messo fine alla dominazione 82. Un intervento sul Giudaismo nel cinema italiano è annunciato per il numero successivo, ma non uscirà, e non usciranno più neppure i ritratti di Historicus. La collaborazione di Paolella con «Film» si arresta. Un altro contributo esce nel primo numero del 1939: Cinema borghese. Giovanni Giolitti non è più al potere, ricorda Paolella. E il cinema italiano «ha bisogno non di una ripulitura superficiale, ma di un totale capovolgimento di valori» 83. Paolella, nel frattempo, ha iniziato a collaborare con «La difesa della razza». Il suo primo intervento è del novembre 1938, una disamina dell’antimilitarismo nella cinematografia. Attacca frontalmente il «disfattismo» dei film di guerra americani come All’Ovest nulla di nuovo, o il disgustoso La grande illusione (La grand illusion, 1937) di Jean Renoir. È a dir poco sarcastico nei confronti di Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918) di Chaplin: seguito di scenette patetiche [...] è la storia dell’omino generoso schiacciato dalla brutalità universale: è il pessimismo profondo, disperato degli israeliti che, con la trafila dell’arte chapliniana, vuole attaccare il mondo con la sua influenza nefasta 84.
D. Paolella, Film razzisti, in «Film», 10 settembre 1938. Historicus, Cineasti ebrei: Sternberg, in «Film», 10 settembre 1938. 82 D. Paolella, Giudaismo nel cinema tedesco, in «Film», 24 settembre 1938. 83 D. Paolella, Cinema borghese, in «Film», 7 gennaio 1939. 84 D. Paolella, Antimilitarismo cinematografico, in «La difesa della razza», 5 novembre 1938. 80 81
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Nei duecentocinquanta film sonori prodotti in Italia, solo due pellicole di guerra sono degne di essere menzionate: Scarpe al sole (1935) di Marco Elter e Cavalleria (1936) di Goffredo Alessandrini. Per il resto la cinematografia italiana continua il suo tranquillo sonno letargico. In un successivo articolo Paolella denuncia come gli ebrei attraverso il cinema abbiano diffuso degenerazione e immoralità, attaccando in modo particolare l’istituzione famigliare: «in tutta la storia della cinematografia non c’è attacco più violento sferrato contro l’equilibrio famigliare di quello degli ebrei» 85. Sulla rivista di Interlandi appare un terzo articolo di Paolella, nel quale esalta il genere western americano (apologia della razza bianca), cinematografia «nata con la freschezza e l’evidenza con cui nascono le cose vive». Prima di essere addomesticato dagli ebrei, il genere western mostrava lo scontro tra i pionieri bianchi e gli indigeni di pelle rossa, «scontro di due razze e della naturale prevalenza pionieristica e guerriere del bianco». Anche in questo settore il cinema italiano ha fatto poco o nulla, nonostante la svolta coloniale e razzista del fascismo. Unico film degno di nota è Luciano Serra pilota (1938) di Alessandrini, nel quale Paolella ravvede la «freschezza stilistica» del western, rappresentazione dell’urto tra l’italiano assetato di terre nuove e gli abitanti della tramontata Abissinia. «Come dal western – conclude – è nata la genuina cinematografia americana, noi vogliamo credere che con questo film e questo genere di film nasca l’autentica cinematografia italiana» 86. Con la collaborazione a «Film» e a «La difesa della razza», Paolella è diventato di fatto il giornalista cinematografico più competente in materia di razzismo e antisemitismo. Ha indicato anche nell’arte «degenerata» 87 e nella psicoanalisi un valido alleato del giudaismo 88. Dopo aver aperto le porte di «Bianco e nero» a uno dei più agguerriti specialisti del razzismo come Cogni, nel primo numero del 1939 Chiarini le apre alla massima autorità dello schermo. La lunga e articolata riflessione di Paolella parte dall’invenzione dei Lumière, dalla quale i fratelli lionesi ricavarono solo gloria e pochi quattrini. Altri artisti vennero soffocati e ridotti in miseria, come Georges Méliès, mentre «gli ebrei aspettavano al varco». Sarà D. Paolella, Madri sullo schermo, in «La difesa della razza», 20 dicembre 1938. D. Paolella, Incontri e scontri di razze sullo schermo, in «La difesa della razza», 5 gennaio 1939. 87 D. Paolella, Espressioni rappresentative di selvaggi, di dementi, di ebrei, in «La difesa della razza», 5 febbraio 1939. 88 D. Paolella, Gli alleati del giudaismo, in «Fronte unico», 25 gennaio 1939. 85 86
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Ferdinand Zecca, un ebreo, manomettendo «per esigenze commerciali» il suo Cenerentola (Cendrillon ou la pantoufle merveilleuse, 1912, diretto da Méliès ed editato da Zecca), a infliggere all’arte delle immagini il primo dolore «per esigenze commerciali». Il cinema è ovunque affare degli ebrei. In America governano la produzione Zukor, «merciaio del Ghetto, rivenditore di pelli», Loew, il sarto Fox, Laemmle, e tutti gli altri ebrei di Hollywood, compreso l’ebreo Max Factor, specializzato «nel far apparire i volti più belli che nella realtà con i suoi ceroni, le sue ciprie e le sue matite colorate». Per non parlare di Chaplin, «tipico rappresentante della mentalità ebraica nei confronti dell’uomo e della società [...]. La sua influenza è stata più perniciosa in quanto giunta per vie insospettabili: per il riso». L’ebraismo ha contaminato il cinema. Prima quello europeo e poi quello americano. Ad esempio, gli «ebrei si accaniscono intorno alla donna perché risulti la rappresentazione di una perversa sensualità». Paolella ha un convincimento: Se questi ebrei non avessero trasmodato dal loro campo puramente commerciale, o se non fossero stati ebrei ad interessarsi dell’affare cinematografico [...] forse avremmo amato nel cinema il grande esterno, le leggende dei popoli, e le guance di donne pure [...]. Forse non ci sarebbero mai state gambe nude tornite penzolanti nell’ossessione dell’appello sessuale, atmosfere torbide, equivoci, volti di uomini devastati dal disfacimento spirituale 89.
Paolella smette di scrivere di cinema per dedicarsi alla produzione e alla realizzazione di documentari. Nel dopoguerra continuerà a collaborare con la Incom, diventando un prolifico regista e raggiungendo un notevole successo nel cinema di genere negli anni Cinquanta. Insieme a Marco Ramperti, Paolella «è il critico cinematografico che più di altri ha affrontato i problemi del razzismo nel cinema» 90. Penna velenosa della propaganda, Ramperti (nato a Novara nel 1887 ma milanese di adozione) 91 era stato chiamato nel 1919 da Mussolini, direttore de «L’avanti!» (incuriosito da un suo articolo apparso su «Il resto del carlino»), a collaborare col quotidiano socialista 92. Insieme a Nicola Bombacci (segretario del partito e D. Paolella, Gli ebrei nel cinema, in «Bianco e nero», 1, 1939. Cfr. M. De Tullio, Cenni biografici di Domenico Paolella, in A. Marrese (a cura di), Il cinema di Domenico Paolella, Edizioni del Sud, Bari 2014, p. 35. 91 Ramperti dedicherà a Milano uno dei suoi migliori libri del dopoguerra: cfr. M. Ramperti, Vecchia Milano. Cinquanta capitoli di ricordi rintracciati, Gastaldi, Milano 1959. 92 Cfr. M. Ramperti, Mussolini e i socialisti, in Aa. Vv., Mussolini, Centro editoriale nazionale, Roma 1958, pp. 475-484. 89 90
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deputato socialista) inseriscono la falce e martello nel simbolo del Partito socialista italiano 93. Quando Mussolini lascia «L’avanti!» per fondare «Il popolo d’Italia» Ramperti non lo segue. Una decisione che Mussolini non gli perdonerà. Giorgio Pini, stretto collaboratore del duce, ricorda la visita fattagli da Ramperti il 30 dicembre 1936. Riferisce dell’incontro nel corso di una conversazione telefonica con Mussolini: «non mi ha chiesto nulla, ma penso che potremmo invitare anche lui a collaborare al Popolo d’Italia. La risposta è venuta immediata e secca: – No, non lo voglio» 94. Scrittore di talento fuori da ogni schema, sicuramente antirealista (stimato da Ugo Ojetti, Gabriele D’Annunzio, Pietro Pancrazi, Giovanni Titta Rosa) 95, Ramperti deve essere annoverato fra i giornalisti-scrittori, giacché – come era già ben chiaro ad un critico nei primi anni Trenta – «la maggior parte della sua opera [...] l’ha disseminata e continua a disseminarla nella terza pagina dei giornali» 96. In un saggio dedicato agli scrittori italiani contemporanei apparso nel 1936, di Ramperti viene sottolineata la vena romantica, la capacità di mescolare autobiografia e favola e il netto rifiuto di verismo e naturalismo 97. In una storia della letteratura italiana edita nel 1940 Ramperti è inserito fra i più originali romanzieri apparsi dopo la Grande Guerra: il suo «estro creativo si esercitò in cronache mondane ed in novelle fantasiose che paiono di un Cirano di Bergerac innamorato di D’Annunzio» 98. Ramperti era stato critico teatrale del quotidiano milanese «L’ambrosiano» e collaborava a numerosi quotidiani e periodici. Guido Aristarco nel 1939 lo annovera tra «i signori della critica», in compagnia di Filippo Sacchi, Mario Gromo e Mino Doletti 99. Anche lo storico del cinema Mario Verdone, giovane gufino, si reca per la prima volta a Venezia nel 1935, emozionatissimo di sedere alle proiezioni accanto ai «grandi» inviati 93 Dopo una lunga separazione, Ramperti e Bombacci si ritroveranno, come ai tempi della militanza socialista, nella Repubblica sociale italiana, alla quale entrambi aderiranno. Bombacci verrà fucilato dai partigiani a Dongo nell’aprile del 1945. 94 G. Pini, Filo diretto con Palazzo Venezia, Cappelli, Bologna 1950, p. 62. 95 Ramperti si impone all’attenzione della critica con i romanzi La corona di cristallo e Suor Evelina: cfr. M. Ramperti, La corona di cristallo. Storia ingenua, Bottega di poesia, Milano 1926; Id., Suor Evelina dalle belle mani ed altre storie d’amore, Omeoni, Milano 1930. 96 J. Busoni, Interpretazioni, All’insegna del libro, Firenze 1932, p. 87. 97 Cfr. G. Ravegnani, Ramperti il romantico, in Id., I contemporanei, Guanda, Modena 1936, p. 230. 98 F. Flora - L. Nicastro, Storia della letteratura italiana. L’Ottocento e il Novecento, vol. III, Mondadori, Milano 1940, p. 762. 99 Cfr. G. Aristarco, Supplica a Genina, in «La voce di Mantova», 11 marzo 1939.
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speciali: «Mario Gromo, Filippo Sacchi, Marco Ramperti, Luigi Chiarini tenevano banco» 100. Ramperti è un fascista davvero atipico. A leggere la sua prosa giornalistica talvolta appare un rivoluzionario oltranzista. Certamente antidemocratico, ma lontano dalle pastoie dell’ufficialità di partito. Scettico e distaccato fino al 1943, aderisce alla Repubblica di Salò. La sua adesione sorprende Attilio Tamaro: Ramperti a suo avviso era «stato sempre è apertamente antifascista» ma nel settembre 1943 «prese le parti del fascismo, che stimava difendere l’onore dell’Italia contro gli stranieri e contro l’inganno» 101. Amareggiato Ramperti nel 1944 rimprovererà giornalisti, intellettuali e registi per lo scarso entusiasmo in favore della Repubblica, segno inequivocabile di viltà, assenza di amor patrio e «fellonia badogliana» 102. In ogni articolo di Ramperti, confezionato con scrittura modernissima, si riflette non l’antifascismo di cui parla Tamaro, ma alcuni tratti essenziale dell’ideologia fascista antiborghese, antiamericana, antibritannica, antifrancese, filotedesca e, ovviamente, antisemita. Anche nel giornalismo cinematografico Ramperti è anomalo: predilige mescolare la critica vera e propria con la cronaca, diventando «una sorta di private eye, un inviato tra le quinte dello spettacolo più amato dagli italiani» 103, capace, alla pari di Cesare Zavattini, di «viaggiare» per le vie di Hollywood senza averci mai messo piede. Nel 1936 pubblica una raccolta di ritratti di «stelle del cinema» (perlopiù dive americane, scritto in maniera elegante ed accattivante 104, che a Leonardo Sciascia ricorda una mescolanza della prosa di D’Annunzio con quella di Ramòn Gomez de la Serna) 105, ma non perde occasione per polemizzare con gli estimatori delle cinematografie americana e francese. Aveva messo in guardia i lettori de «L’illustrazione italiana», rilevando che la Francia democratica e l’America rooseveltiana certo producono più film delle nazioni totalitarie, ma, con il suo solito stile irriverente, si domandava: «Già. Ma di che fiori si tratta? Guardate bene. Odorate 100 M. Verdone, A fianco dei «grandi» inviati, in N. Ivaldi (a cura di), La prima volta a Venezia, Studio Tesi, Padova 1982, p. 22. 101 A. Tamaro, Due anni di storia 1943-1945, vol. III, Tosi, Roma 1950, p. 525. 102 M. Ramperti, Siamo tutti mobilitati, in «Primi piani», 5-6, 1944. 103 Cfr. L. Pellizzari, La critica cinematografica in Italia 1929-1959, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Teorie, strumenti, memoria, vol. V, Einaudi, Torino 2001, p. 462. 104 Cfr. M. Ramperti, Il nuovo alfabeto delle stelle, Rizzoli, Milano 1937. 105 Il libro è stato ripubblicato con una nota introduttiva dello scrittore Leonardo Sciascia: cfr. M. Ramperti, L’alfabeto delle stelle, Sellerio, Palermo 1984, p. 208.
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bene. In fondo, c’è putredine. Alla lunga, c’è lezzo. Perché l’America ha i gangsters. Perché la Francia ha i bancarottieri» 106. Il cinema hollywoodiano malato di «democraticismo» non è per nulla amato da Ramperti. Arriva a scrivere che su Hollywood si sta abbattendo un castigo biblico, con tanto di inspiegabili roghi e inondazioni. È il peccato terreno di Lucifero. È la collera divina piovuta sulla città del vizio e del peccato 107. La polemica di Ramperti contro la Gran Bretagna è costante. Ritiene La casa dei Rothschild dell’inglese Alfred Werker (in realtà è una produzione americana) un «film ignobile», specchio di un paese dedito allo strozzinaggio favorito dall’influenza giudaica 108. Un suo «contributo di guerra» su «Cinema» demolisce gli attori della «perfida Albione». I divi per Ramperti rappresentano lo specchio di un popolo: le attrici inglesi ormai si sono abbassate a interpreti di tutti i vizi e di tutte le volgarità possibili. Incarnano alla perfezione ruoli orribili e contano poco, come Vivien Leigh. Poi passa agli attori, tracciando un ritratto al vetriolo di Charles Laughton. «Nella sua faccia – scrive – è il compendio d’ogni bruttura. Una grande arte lo potenzia; ma, sicuramente, anche una somma ignominia naturale». Dunque, quando recita Laughton è ciò che è: «quell’amorale, quello spietato, quel protervo che i suoi film, immediatamente e ossessivamente, vanno mostrandoci». Insomma, in questi attori risplende il «popolo albionico», pullulante di disertori, campagnoli, cittadini e oxfordiani universitari: Certo, anche l’Inghilterra oggi si batte. Ma per forza, come il clown salito per caso su un aeroplano da combattimento, e obbligato ad arrischiare qualche cosa anche senza averne alcuna voglia. Di quel popolo insomma, lo schermo è specchio fedele 109.
Nel 1940 Ramperti collabora con «La stampa». Nella terza pagina con assiduità appaiono suoi elzeviri, perlopiù di sapore letterario, lanciando spesso astiose invettive all’indirizzo dell’Inghilterra. La vittoria delle giovani nazioni contro le vecchie è imminente: il «leone britannico appare ormai trafitto da tante spine, per effetto di un’annosa decadenza [...] il leone è
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1938.
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M. Ramperti, Nella luminaria a Venezia, in «L’illustrazione italiana», 27 agosto 1939. Cfr. M. Ramperti, Nuove discordie in America, in «Corriere della sera», 18 marzo M. Ramperti, Albione strozzina, in «Il popolo di Roma», 1° settembre 1940. M. Ramperti, Gli inglesi denunziati dallo schermo, in «Cinema», 144, 1942.
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vegliardo, e non si sente più sicuro neppure nel fondo del suo covo» 110. Gli inglesi da sempre odiano italiani e tedeschi 111 e nelle battaglie cruciali del primo conflitto mondiale, nonostante in forze superiori, furono «battuti, e battuti costantemente, imperdonabilmente» 112. E anche a Waterloo contro Napoleone a vincere non fu il duca di Wellington – prossimo alla sconfitta – ma il prussiano Blücher 113. Ammiratore della Germania hitleriana, più volte visitata, Ramperti per temperamento è abituato a rompere gli schemi. Ad esempio, in una corrispondenza da Berlino è assai perplesso del contenuto (non della forma, che ritiene eccellente) di Io accuso (Ich klage an, 1941) di Wolfgang Liebeneiner 114. Goebbels dopo averlo visto scrive nel diario (21 giugno 1941): «In favore dell’eutanasia. Un film che susciterà vere discussioni. Fatto benissimo e assolutamente nazionalsocialista. Alimenterà tremende controversie. Ed è questo il suo intento» 115. Per Ramperti moralmente il film «potrebbe comportare tanto le apologie dei seguaci di Rosenberg quanto le scomuniche dei vescovi cattolici». Poi entra nel merito della questione. Ha un senso sopprimere un infermo per alleviarlo dal dolore? Non esistono inguaribili, m’ha detto un prelato. Dio soltanto conosce i termini della nostra esistenza. Qualunque presunzione nostra, in proposito, è una bestemmia; qualunque intervento, un assassinio. Ma poi, ammesso il nefando principio, chi fermerebbe più il sacrificatore nel suo arbitrio? Dopo gli inguaribili verrebbero i pazzi [...]. E dopo i pazzi, i criminali; dopo i criminali, i deficienti; o magari soltanto gli «sgraditi». (Questo termine è già usato dalla Ceka...). E a poco a poco l’arrogazione nostra, da disumana diventerebbe scellerata. Ma poi perché alle creature di Dio dovrebbe essere impedita la sofferenza? 116.
M. Ramperti, Guerra di successione, in «La stampa», 14 giugno 1940. M. Ramperti, Ci odiano come ci odiarono, in «La stampa», 27 giugno 1940. 112 M. Ramperti, Gli inglesi nell’altra guerra, in «La stampa», 9 luglio 1940. 113 M. Ramperti, La vendetta di Faust, in «La stampa», 10 settembre 1940. 114 Ich klage an venne realizzato per propagandare la campagna di eutanasia di «soggetti deboli», le cosiddette vite «senza valore», avviata dai nazisti, fortemente avversata dalle gerarchie cattoliche, tanto da riuscire a bloccarla, almeno come volontà pubblica. «Tra il 1939 e il 1945, circa 200.000 tedeschi furono vittime dell’uccisione per eutanasia [...] perchè anormali, perciolosi per la comunità, inabili al lavoro o costantemente bisognosi di cure: G. Aly, Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista 1939-1945, Einaudi, Torino 2017, p. XI. 115 J. Goebbels, I diari di Goebbels 1939-1941, cit., pp. 505-506. 116 M. Ramperti, Germania cinematografica. Il caso di «Ich klage an», in «Bianco e nero», 12, 1941. 110 111
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I «rossi di Hollywood» (produttori, sceneggiatori intellettuali e soprattutto attori) per Ramperti, naturalmente, sono tutti milionari: «Quando non sono milionari, sono miliardari». L’attore Douglas Fairbanks è un mezzo ebreo (da parte di padre), con tutte le aggravanti che il meticciato conferisce a questa razza intossicata a disgregatrice. Quanto alla Crawford [l’attrice Joan Crawford, prima moglie di Fairbanks], è semita intera, figlia d’un circonciso francese, di nome Lesueur, che la spinse giovinetta a ballare nelle bettole dei porti e a mostrarsi nuda nei burlesques.
Se la prende poi con altri eroici nemici dell’Asse, quali il mediocre attore, a suo dire, James Cagney, e l’oratore comunisteggiante Fred Astaire, ebreo pure lui. L’antisemitismo porta Ramperti a dare il peggio di sé: gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo. «Gote livide», «bocche ferine», «occhi di fiamma ossidrica». «Slegate le mani al giudeo. È l’usura. Avendogliele rilegate, tornate a slegargliele. È un massacro». Poi un passo sorprendente: fra gli ebrei il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico, a guardare bene, è Charlot: cioè a dire Charlie Chaplin, proprio lui, il filo bolscevico, il filo anarchico, l’Ebreo più Ebreo di tutti, colui che nel «film» raccoglie gli orfanelli e in casa bastona la moglie, l’avaro Charlot, l’indecente Charlot, il mentecatto 117.
Ramperti ritiene Chaplin un comunista: Charlot – scrive – non à [ha] neppure un amico [...] è il più triste cuore che il semitismo infecondo e vendicativo abbia generato: e che il suo filobolscevismo altro non è un’espressione del suo malamente larvato di filantropia verso ogni sorta di vera sodalità e umano sentimento 118.
Rincara la dose nella prefazione ad un libro su Chaplin, messo in copertina nel costume di scena di Charlot, in bianco e nero con una grande stella gialla appuntata sul bavero della giacca. Ramperti esordisce ricordando «che il mio antisemitismo non data da tre anni soltanto», e che la sua ostilità verso Chaplin è sempre stata evidente, anche quando italiani e stranieri
117 Cfr. M. Ramperti, Più che dalla “stella gialla” gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo, in «Il popolo di Roma», 31 dicembre 1941. 118 M. Ramperti, I bolscevichi di Hollywood, in «Primi piani», 2, 1942.
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erano genuflessi davanti agli scarponcini di Charlot 119. Il libro, uscito nel 1943, è il primo quaderno di una collana promossa dalla rivista «Film», e per questa ragione per la pubblicazione viene scelta una veste grafica simile alla rivista. Si tratta della traduzione italiana del ritratto di Chaplin di May Reeves, pubblicato in Francia nel 1935 120, che ha vissuto per un periodo di tempo con l’attore inglese, raccontando alcuni particolari (sui quali è impossibile una verifica storica, poiché appartengono alla sfera privata) poco edificanti – alcuni davvero miserabili – della loro relazione. I ricordi, peraltro astiosi, non hanno però una evidente impostazione antisemita, come il titolo italiano e la presentazione di Marco Ramperti lascerebbero ipotizzare 121. «Film» nel 1939 aveva anticipato quasi integralmente, nel corso di tredici numeri, il libro di May Reeves, con il titolo Charlot, ebreo due volte 122, aggiungendo alcune didascalie sottolineanti la taccagneria di Chaplin Promette sempre di regalare una pelliccia, ma non si decide mai! Non l’ho mai visto dare un soldo a un povero: diceva sempre di non avere spicci.
Chaplin è stato un bersaglio costante della pubblicistica antisemita, non solo italiana. Louis-Ferdinand Céline lo colloca tra le tante maschere nefaste assunte dall’ebreo: «Chaplin il crocefisso» 123, Chaplin «commovente personaggio schiacciato dalla malignità delle cose, dalla sfortuna... e soprattutto dalla brutalità degli Ariani» 124. «La difesa della razza» ac119 M. Ramperti, Prefazione, in M. Reeves, Charlot: ebreo due volte, Apice, Napoli 1943, p. III. La presentazione viene pubblicata sulla rivista: M. Ramperti, Charlot: ebreo 2 volte, in «Film», 28 aprile 1943. L’articolo di Ramperti è accompagnato da una nota di agenzia («United Press» da Hollywood), attraverso la quale si informa il lettore che il cinquantaquattrenne Chaplin si è unito in matrimonio con la diciottenne Cona O’Neill, figlia del drammaturgo Eugenio. Nel frattempo, la giovane Joan Berry ha dichiarato pubblicamente di aspettare un figlio da Chaplin. L’attore, pur negando la paternità, ha sottoscritto un accordo con la ragazza, impegnandosi a sostenere le spese del parto e il mantenimento del nascituro. 120 Cfr. M. Reeves, Charlie Chaplin intime, Gallimard, Parigi 1935. 121 David Robinson, maggior studioso della vita di Chaplin, di May Reeves (indicata anche come Mizzi Muller) ha scritto: «Giovane donna, di probabili origini cecoslovacche, che fu compagna di CC [Chaplin] durante gran parte della vacanza del 1931 [soprattutto in Francia e Italia] e che scrisse i ricordi di quel periodo»: D. Robinson, Chaplin. La vita e l’arte, Marsilio, Venezia 1987, p. 828. Robinson non fa nessun accenno a tracce, anche minime, di antisemitismo nei ricordi di May Reeves. 122 I tredici articoli sono usciti su «Film» dal 4 marzo al 27 giugno 1939. 123 Cfr. L.-F. Céline, Bagattelle per un massacro, Corbaccio, Milano 1938, p. 58. 124 Ibidem, p. 210.
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compagna la foto di Charlot con questa didascalia: «“l’ebreo errante” del cinema» 125. La realizzazione de Il grande dittatore gli ha alienato molte simpatie: canto del cigno o raglio del somaro si domanda un critico a proposito del film di «Charles Spencer Chaplin, l’ebreo inglese [...] che ha tradito la sua Arte» 126. Ogni vero ariano, per Ramperti, deve preferire gli ebrei interi e non i mezzi ebrei. Charlot è «l’espressione totale d’una razza avversa», «l’ebreo errante, totale e maledetto», «l’ebreo due volte e il cento volte milionario», un «ebreo due volte, essendolo nel bene e nel male, nel difetto e nell’eccesso, nell’umanità che gli manca e in quella che ambisce, disperato, di possedere» 127. L’annuncio di «Film» dell’uscita del libro su Chaplin è dell’aprile 1943. Il 29 maggio 1943 la rivista pubblica un articolo di Lucien Rebatet. Il titolo è La grande invasione, accompagnato da una foto di Ferdinand Marian, protagonista del film Süss, l’ebreo. Viene così presentato: Enrico Fulchignoni ha potuto prendere visione di uno studio pubblicato a Parigi sugli ebrei che hanno invaso, dopo la prima guerra mondiale, e prima che scoppiasse la seconda, il cinematografo francese, e ne ha tradotto per i lettori di «Film» i passi più salienti 128.
Si tratta di un primo intervento, al quale ne seguiranno altri tre 129. Gli articoli sono la traduzione (quasi integrale) di quattro capitoli di un pamphlet antisemita di Rebatet, dal titolo Les tribus du cinèma e du théâtre, uscito nel 1941 130. Fulchignoni è un personaggio davvero particolare, per eclettismo e originalità, della cultura cinematografica in epoca fascista. Nato a Messina nel 1913, si laurea in Medicina nel 1938. Nel 1937 inizia ad occuparsi di teatro. Prima a Messina; successivamente a Firenze e Roma. Sono «anni di intensa attività registica, che confermarono i suoi tratti di interprete assai moderno e autore eclettico per eccellenza [...]. Si dedicò
A. Petrucci, Cinema, in «La difesa della razza», 17, 1939. S. Reanda, Canto del cigno o raglio del somaro?, in «Cinemagazzino», 2, 1941. 127 M. Ramperti, Prefazione, cit., p. IV. 128 L. Rebatet, Gli ebrei nel cinematografo europeo. La grande invasione [I], in «Film», 29 maggio 1943. 129 L. Rebatet, Gli ebrei nel cinematografo francese. La grande invasione [II], in «Film», 5 giugno 1943; Id., Gli ebrei nel cinematografo francese. La grande invasione [III], in «Film», 12 giugno 1943; Id., Gli ebrei nel cinematografo europeo. La grande invasione [IV], in «Film», 19 giugno 1943. 130 Cfr. L. Rebatet (F. Vinneuil), Les tribus du cinéma et du théâtre, Nouvelles éditions françaises, Parigi 1941. 125 126
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pure alla regia lirica con notevoli successi» 131. E si avvicinò al mondo della celluloide: come soggettista, sceneggiatore, documentarista e regista. Nel 1941 insieme a Fernando Cerchio realizza Ragazze sotto la tenda, e l’anno dopo sceneggia, con Michelangelo Antonioni e Mino Doletti, un adattamento per lo schermo del dramma di George Gordon Byron I due Foscari, di cui è il regista. Insegna recitazione al Centro sperimentale di cinematografia e scrive di cinema con raffinatezza. Les tribus du cinèma e du théâtre è un pamphlet di propaganda antisemita, nel quale la storia del cinema (e del teatro) francese viene ricostruita attraverso la tesi della decadenza causata dalla «grande invasione» degli ebrei 132. L’antisemitismo di Ramperti è ruvido. A Mino Doletti che gli sollecita un aggiornamento di Nuovo alfabeto delle stelle, Ramperti risponde di essersi pentito di aver paragonato le gambe di Marlene Dietrich alla Nona sinfonia (Marlene è diventata cittadina americana ed è impegnata pubblicamente nella propaganda antinazista) e di aver rivolto un’orazione cattolica a Loretta Young, che fra l’altra cosa è giudia. (Vero che questo l’ò saputo dopo a pubblicazione avvenuta: in verità ricevendo sì omaggio, la bell’ebrea s’è vendicata dell’antisemita!) 133.
Per l’adesione alla Repubblica di Salò, a guerra finita, Ramperti sarà processato e condannato dalla Corte d’assise straordinaria di Torino a sedici anni di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e alla confisca di tutti i beni 134. Imprigionato prima ai Piombi di Venezia, poi alla Carceri nuove di Torino e infine al Penitenziario di Saluzzo, Ramperti sconterà soltanto quindici mesi, rimesso in libertà per gli effetti dell’amnistia. Si ritiene un condannato alla galera per aver parlato male dell’Inghilterra 135. Per questa ragione scriverà la presentazione al libro di un reduce fascista del campo di prigionia in Texas, invitando polemicamente Enrico Falqui, ex-direttore di «Bibliografia fascista», ora responsabile della cultura al quotidiano romano «Il tempo», a prestare attenzione al coraggioso rac131 G. Moneti, Enrico Fulchignoni, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 50, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1998, p. 693. 132 C. Siniscalchi, La grande invasione. La storia «antisemita» del cinema francese di Lucien Rebatet, in «Res Publica», 16, 2016. 133 M. Ramperti, Giornale radio, in «Film», 15 marzo 1943. 134 Articolo non firmato, Ramperti condannato a sedici anni di reclusione, in «La stampa», 2 dicembre 1945. 135 Cfr. M. Ramperti, Quindici mesi al fresco, Ceschina, Milano 1960, p. 46.
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conto 136. Tornato libero Ramperti vivrà ai margini del giornalismo e della letteratura. Pubblicherà, fra l’altro, un originale romanzo «fantapolitico». In Benito I imperatore Mussolini fa ritorno a Roma, poiché l’Asse ha vinto la guerra grazie all’impiego tempestivo della bomba atomica. L’entusiasmo che lo accoglie è incontenibile. Indro Montanelli ne deve scrivere ovviamente sul «Corriere della sera». Sono ridiventati tutti fascisti. Soprattutto giornalisti, scrittori, attrici e attori di primordine o pessimo rango, poeti e artisti, registi di cinema e di teatro. Mussolini sente nominare Ramperti e incuriosito vuole sapere dove si trova: «essendomi stato nemico per vent’anni, e cioè quando per lui c’era tutto da perdere, s’era però messo in linea coi miei combattenti nei giorni disperati, quando non c’era niente da guadagnare». In prigione è la risposta: «Andava dicendo, ripetendo, che quanto aveva fatto non era stato per la vita del Regime, ma per l’amore della Nazione. Non si poteva, alla lunga, tollerare una cosa simile» 137. Benito I imperatore è una delle tante amare polemiche (non in forma di pamphlet o di autobiografia ma di pura letteratura) di quanti – sentendosi ai margini – denunciano il tradimento nel dopoguerra di colleghi passati dal fascismo all’antifascismo. Marco Ramperti muore a Roma nel 1964, in ristrettezze economiche, tirando a campare più con la vendita di sigarette nel piazzale della Stazione Termini, che con gli scarsi proventi di collaborazioni editoriali e giornalistiche, in compagnia di un altro scrittore anarchico-fascista rimasto ai margini nel dopoguerra, Marcello Gallian 138. Volle essere sepolto tenendo tra le mani una lettera di elogi scrittagli in gioventù da Gabriele D’Annunzio.
136 Cfr. M. Ramperti, Prefazione, in R. Mieville, Fascists’ criminal camp, Corso, Roma 1948, pp. 7-13. 137 M. Ramperti, Benito I imperatore, Sciré, Roma 1950, p. 90. 138 Cfr. P. Buchignani, Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Bonacci, Roma 1984, p. 111.
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IX.
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L’Italia è in guerra dal giugno del 1940. Da quando la Germania tra agosto e settembre 1939 ha invaso e conquistato con estrema facilità la Polonia, l’entusiasmo trabocca sui giornali per le vittorie prorompenti dell’alleato. Le armate tedesche hanno abbattuto con sorprendente rapidità ogni resistenza. Polonia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda, Francia. Sono arrivati sino a Dunkerque. Gli inglesi non sono ancora caduti, ma il crollo definitivo appare vicinissimo. L’analisi di quanto pubblica un quotidiano non certo estremista e neppure provinciale come «La stampa» di Torino, tra la seconda metà del 1939 e la fine di agosto del 1940, conferma l’entusiasmo per il nuovo scenario inaugurato dalla guerra. Il direttore Alfredo Signoretti sulla prima pagina fissa la linea politica, sottolineando le vittorie prima del Terzo Reich e poi dell’Asse. A Concetto Pettinato è affidato il compito di illustrare l’evoluzione della situazione francese, che ha condotto al collasso militare (un collasso innanzitutto morale, frutto avvelenato della decadenza) quasi senza combattere e successivamente alla resa. Ad Alfredo De Stefani è affidato invece il compito di disegnare il nuovo corso economico in atto, essendo ormai sgretolato l’imperialismo francese e soprattutto britannico. Ogni tanto appare qualche stilettata antisemita. Nella terza pagina Signoretti è perentorio: Occorre che gli ebrei siano spostati dall’Europa e il più lontano possibile, nelle condizioni più sfavorevoli ad un loro ritorno 1.
Signoretti tornerà a poca distanza sull’argomento, criticando il discorso di Halifax pronunciato dalle «labbra suine» di Winston Churchill, perché 1
A. Signoretti, La nuova Europa senza ebrei, in «La stampa», 18 luglio 1940.
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ha invocato una «crociata cristiana «al servizio degli ebrei», contro il fascismo. «I banchieri e gli ebrei – scrive – non sono mai sui luoghi dove si combatte e si muore», e chiude il fondo prevedendo il crollo della difesa britannica: la sorte dell’Inghilterra ormai è segnata 2. Dunque, l’esito della «guerra breve» appare scontato: Nel sentimento comune, dopo il crollo verticale della Francia, un pugno di morti e poche settimane di combattimenti sarebbero dovuti bastare per guadagnarsi il diritto di sedere al tavolo della pace da vincitori 3.
L’euforia sta contagiando la stampa italiana. I quotidiani all’inizio di settembre 1940 sono ricolmi di corrispondenze, commenti e articoli relativi alle operazioni militari in corso. I titoli informano con enfasi dei bombardamenti italiani su Malta e di quelli tedeschi su Londra. L’entusiasmo per la forza delle offensive dell’Asse è incontenibile. La febbre per le gesta aviatorie dell’«Arma azzurra», la componente dell’esercito più fascista, contagia i grandi come i piccoli giornali, quelli delle città alla pari di quelli della provincia. A caratteri cubitali si titola sulle gesta della squadriglia aerea dei «Picchiatelli», che tormenta senza sosta la flotta inglese, bombarda e distrugge postazioni nemiche. Le azioni di guerra vengono esaltate da uno degli inviati del «Corriere della sera» (4 settembre) e dal più modesto «La provincia di Como» (7 settembre), che non potendo permettersi l’inviato fa ricorso ai resoconti dell’Ente stampa. Achille Beltrame su la diffusissima «La domenica del corriere» del 15 settembre disegna sulla prima pagina un attacco di aerei italiani in picchiata alla flotta inglese sul Mar Rosso. Il disegno è splendido. Il bottino di guerra un po’ magro: un piroscafo abbandonato dall’equipaggio. La pagina di chiusura del settimanale è altrettanto splendida. Nel cielo londinese gli Stukas con la croce uncinata si apprestano a bombardare la città. Nel clima bellico la Biennale di Venezia (presieduta dal suo fondatore, il conte Giuseppe Volpi di Misurata) decide di trasformare l’ottava edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica in una più modesta «settimana», dal 1° all’8 settembre 4. La «settimana» deve avere necessariamente una fisionomia spartana. Gli alberghi del Lido sono chiusi. Il A. Signoretti, Giudei e puritani, in «La stampa», 24 luglio 1940. R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 34. 4 F. Bono, La Mostra del cinema di Venezia: nascita e sviluppo nell’anteguerra 19321939, in «Storia contemporanea», 3, 1991. 2 3
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palazzo del cinema non è disponibile. Per questa ragione le proiezioni si tengono nelle sale cinematografiche Rossini e San Marco di Venezia. Oltre alla Germania e all’Italia partecipano con loro produzioni Ungheria, Svezia, Svizzera, Spagna, Boemia e Romania. Il programma è composto da sette film tedeschi, sette italiani e sette delle altre nazioni (due svedesi, due svizzeri, due ungheresi e uno boemo), oltre a numerosissimi cortometraggi. Gli italiani presentano le opere di Carmine Gallone (Oltre l’amore), Amleto Palermi (La peccatrice), Augusto Genina (L’assedio dell’Alcazar), Mario Camerini (Una romantica avventura), Camillo Mastrocinque (Don Pasquale), Mario Mattoli (Abbandono), Carlo Campogalliani (Il cavaliere di Kruja). La giuria internazionale è soppressa. Per la conclusione della manifestazione vengono premiati il tedesco Il postiglione della steppa (Der Postmeister, 1940) di Gustav Ucicky e l’italiano L’assedio dell’Alcazar di Genina. L’inaugurazione ufficiale avviene il primo giorno di settembre, domenica. Nel pomeriggio a Palazzo Giustiniani (sede della direzione e della segreteria della manifestazione) il ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini dà il benvenuto agli ospiti. L’incontro prende avvio e si chiude con il saluto al duce ordinato da Pavolini (qualche giornale ricorda anche il saluto al Re Imperatore) 5. In chiusura della «settimana» il presidente della Biennale Volpi invierà un telegramma a Mussolini, comunicandogli il pieno successo dell’iniziativa, ricordando la grande affluenza (40.000 spettatori) e lo spazio riservato ai militari («sei speciali proiezioni per le Forze Armate»): La costante presenza dei produttori, dei registi, degli attori, delle attrici, dei critici e degli inviati speciali della stampa italiana e straniera, ha conferito alla manifestazione grande importanza artistica e culturale, completando il pienissimo successo conseguito. La Biennale di Venezia, mentre dà relazione di tali risultati, eleva il pensiero al Duce, con fiduciosa certezza nella sempre maggiore affermazione della cinematografia italiana 6.
Volpi di Misurata organizza una cena di gala per gli ospiti e le autorità veneziane 7. Segue l’apertura ufficiale alle 21.30 al cinema San Marco
Articolo non firmato, Il rapporto a Palazzo Giustiniani, in «Gazzetta di Venezia», 2 settembre 1940. 6 Il testo del telegramma viene pubblicato, per intero o in sintesi, da numerosi quotidiani a conclusione della manifestazione. 7 Articolo non firmato, La Settimana Cinematografica di Venezia inaugurata dal Ministro Pavolini, in «La gazzetta del popolo», 3 settembre 1940. 5
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(«magnifica sala con appena sette mesi di vita») 8, con la proiezione di Ballo all’Opera (Opernball, 1939) 9 di Géza von Bolváry. Sono presenti, oltre a Pavolini (che riparte per Roma in vagone letto con il treno della notte) 10, il conte Cini, il duca di Genova, Luigi Freddi («l’uomo chiave della politica cinematografica del fascismo» 11, da poco alla guida degli stabilimenti di Cinecittà), il nuovo Direttore generale della cinematografia Vezio Orazi (in carica dall’aprile del 1939 12, burocrate incompetente, già Federale di Roma, sostituito l’anno successivo da Eitel Monaco 13, nominato nel 1941 prefetto di Zara, dove troverà la morte il 26 maggio 1942 in un agguato), varie personalità di spicco del cinema italiano e tedesco, ma non il ministro della propaganda Joseph Goebbels, rimasto in Germania. La prima proiezione, per nulla mondana, s’era tenuta il pomeriggio al cinema Rossini, con la partecipazione di un «imponente pubblico in grigio verde», come ricorda una corrispondenza da Venezia de «Il popolo d’Italia» 14. Millecinquecento «camerati in armi», precisa Filippo Sacchi – un’autorità della critica cinematografica – sul «Corriere della sera», soldati, marinai e avieri molto divertiti 15. Guido Aristarco su «La voce di Mantova» mostra saldi convincimenti sulla supremazia delle cinematografie sorelle: Dunque, senza giacca bianca, ma con la divisa – scrive – siamo andati questa sera al cinema S. Marco per l’inaugurazione della eccezionale rassegna cinematografica italo-tedesca – destinata soprattutto a documentare e celebrare che nonostante la guerra il ritmo della produzione cinematografica italiana e tedesca non è rallentata.
Il cinema tedesco, per Aristarco, vive un momento di grande rinnovamento. «Niente pellicole malate e morbose, niente mondi moralmente 8 G. Hartsarich, Lo spettacolo inaugurale della manifestazione cinematografica italotedesca a Venezia, in «La tribuna», 1° settembre 1940. 9 Il primo film italiano presentato è Oltre l’amore di Gallone: G. A. Caffi, I primi filmi, in «Il regime fascista», 3 settembre 1940. 10 G. Squadrilli, La manifestazione cinematografica a Venezia, in «La provincia di Como», 3 settembre 1940. 11 Cfr. A. Costa, Il cinema italiano, il Mulino, Bologna 2013, pp. 34-35. 12 Cfr. A. Venturini, La politica cinematografica del regime fascista, cit., p. 139. 13 Cfr. G. P. Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore a “Ossessione”, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 10. 14 D. Falconi, La Settimana cinematografica, in «Il popolo d’Italia», 2 settembre 1940. 15 F. Sacchi, Il ministro Pavolini inaugura a Venezia, in «Corriere della sera», 2 settembre 1940.
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viziati, ma opere cinematografiche che combattono vittoriosamente contro una mentalità gretta e snobistica» 16. Sandro De Feo su «Il messaggero» ritiene più che felice l’inaugurazione con Ballo all’Opera, film «amabilmente allegro», degna apertura di una «settimana» cinematografica che dovrà coniugare «grigio verde» e allegria, mostrando il volto «sereno dei due Paesi combattenti» 17. Per Mario Gromo, inviato di guerra e critico cinematografico di «La stampa» 18 (una settimana prima dell’apertura veneziana aveva annunciato: «Sarà un’altra evidentissima prova di vitalità e di forza offerta dal cinema italiano e da quello tedesco») 19, tutto funziona a perfezione, anche se lo sfondo della manifestazione ha lasciato «la bionda spiaggia e i pioppi del Lido» per «le incomparabili scenografie della Piazzetta e di Piazza San Marco, il ritmo alterno dei campielli, delle calli» 20. C’è anche chi, come il critico cinematografico de «L’osservatore romano», si rallegra dell’insolito clima spartano: Se riandiamo con il pensiero – scrive Mario Meneghini – a quanto scrivemmo dopo le prime Mostre veneziane e antecedentemente la costruzione del «Palazzo del cinema» al Lido, dobbiamo dire che doveva essere proprio l’attuale situazione bellica ad esaudire i nostri voti 21.
Sacchi non nutre dubbi sul fatto che il prossimo anno la Mostra del cinema tornerà al Lido, anche se – è costretto ad ammetterlo – la vera novità è stata il pubblico. Certo, ricorda Sacchi, il pubblico del Lido alloggia in una delle più belle e aristocratiche spiagge del mondo, fa il bagno, insieme a principi e magnati, pranza in taverne di lusso, rotola luigi sui tavoli del circolo privato nel Casinò e balla e beve spumante in decolté. Ma venendo in città [la
G. Aristarco, La manifestazione del Cinema a Venezia, in «La voce di Mantova», 2 settembre 1940. 17 S. De Feo, La mostra cinematografica inaugurata dal Ministro della Cultura Popolare, in «Il messaggero», 2 settembre 1940. 18 M. Gromo, Coi nostri alpini, in «La stampa», 25 giugno 1940; Id., Il siluro ha colpito a morte, in «La stampa», 10 agosto 1940. 19 M. Gromo, Parata del cine, in «La stampa», 25 agosto 1940. 20 M. Gromo, Pavolini inaugura la cinemanifestazione di Venezia, in «La stampa», 2 settembre 1940. 21 M. M. (M. Meneghini), La settimana del cinematografo a Venezia, in «L’osservatore romano», 31 agosto 1940. 16
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Mostra] ha trovato qualcosa che non aveva ancora veramente conosciuto da vicino [...]. A mucchi i passanti si accalcavano davanti al Danieli in attesa delle «stelle» 22.
La «Mostra senza marsina», per Eugenio Ferdinando Palmieri, è il teatro della celebrazione e della «vittoria dello spirito e della poesia» 23. E la poesia contagia la scrittura di Enrico Fulchignoni: «Il volto di Venezia ci è apparso, quest’anno, velato insieme e catafratto dai mille ripari che l’arte militare consiglia a tutela delle insidie celesti, per i santi di marmo e di bronzo» 24. La rivista «Cinema» dedica un numero quasi monografico alla all’evento veneziano (nella copertina a colori in un quadro avente per sfondo la spiaggia del Lido si legge: Manifestazione cinematografica italo-tedesca Venezia 1940-XVIII). In apertura una breve dichiarazione di Goebbels sottolinea la volontà di collaborazione tra i due giovani popoli: Mentre la produzione cinematografica dei nostri nemici – scrive il ministro – si trova in uno stato di disorganizzazione, e addirittura di completo disfacimento, la produzione cinematografica tedesca e italiana, malgrado tutte le esterne difficoltà, portata innanzi dall’impulso spirituale di due grandi rivoluzioni, va indirizzandosi verso sempre più mirabili e migliori opere 25.
Segue un altro breve testo del ministro Pavolini, per nulla preoccupato della mancanza di mondanità e del ridotto numero di paesi partecipanti. Pavolini ricorda tre punti di forza della «Mostra di guerra»: Primo [...] dimostra definitivamente la vitalità del nostro cinema, su cui nemmeno un evento quale la guerra incide: si può dire, anzi, che agisce da stimolo. Secondo, quest’anno a Venezia si consacra la posizione fondamentale assunta dal cinema, specie attraverso il documentario, nella vita dei popoli e in quello che di tale vita è l’atto più alto e probativo, la guerra [...]. Terzo, il livello raggiunto dalle cinematografie italiana e tedesca nel campo spettacolare [che] anticipano quella che sarà l’Europa cinematografica di domani, dopo la definitiva vittoria dell’Asse 26.
22 F. Sacchi, La cinematografia italo-tedesca si è affermata alla settimana di Venezia, in «Corriere della sera», 10 settembre 1940. 23 E. F. Palmieri, Pavolini e il delegato di Goebbels alla chiusura della Rassegna cinematografica, in «Il resto del carlino», 9 settembre 1940. 24 E. Fulchignoni, Cinema a Venezia, in «Tempo», 5 settembre 1940. 25 Il ministro Goebbels per la manifestazione di Venezia, in «Cinema», 101, 1940. 26 Il ministro Pavolini per la manifestazione di Venezia, in «Cinema», 101, 1940.
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Michelangelo Antonioni nello stesso numero della rivista, con prosa sofisticata, batte sugli stessi tasti. Nessuna ostentazione o mondanità, stridenti coi tempi bellici: «non c’erano giacche bianche al Cinema San Marco la sera dell’inaugurazione, né scollature femminili». La guerra fa sentire la sua presenza. Alla conclusione della serata, il pubblico sciama silenzioso in una Venezia che appare irreale: «Piazza San Marco sembrava una morbidissima radura circondata da altissime siepi. In fondo il campanile, un enorme cipresso nero» 27. L’anno successivo, stilando una storia sintetica della «Mostra di guerra», Antonioni ricorderà che lo spostamento dal Lido alla città non aveva significato soltanto un attenuamento di mondanità, ma anche la positiva partecipazione di un pubblico diverso, appartenente alla media borghesia 28. Quel pubblico che a Mino Doletti, direttore della rivista «Film», arricchita da grandi fotografie dei divi del cinema, appare composto da affezionati e professionisti 29. Lino Campanini su «Il popolo di Trieste» non nasconde che sul volto di Venezia c’è qualche segno di guerra, però si affretta a ricordare che Il grande regista che disciplina la messa in scena di Venezia, ha presentato quest’anno [...] uno dei suoi pezzi di magico effetto, di quelli che lasciano a bocca aperta anche i più consumati dei gusti. Gioiosa festa di lumi e di colori, in cielo e in mare. Scenario incomparabile, verso il quale andranno in questi giorni con nostalgia i pensieri degli esclusi 30.
Insomma, pur tra ristrettezze e difficoltà oggettive, la «Mostra di guerra» comunque è il risultato di un «magnifico sforzo organizzativo e di simpatica adesione da parte dei partecipanti» 31. E c’è spazio anche per orgogliose rivendicazioni. Eugenio Ferdinando Palmieri su «Il resto del carlino» apre la corrispondenza ricordando che «Quasi l’intera produzione è presente alla rassegna», e che Italia e Germania
M. Antonioni, Inaugurazione, in «Cinema», 101, 1940. M. Antonioni, Per una storia della mostra, in «Cinema», 126, 1941. 29 D. (M. Doletti), A Venezia, in «Film», 7 settembre 1940. 30 L. Campanini, La manifestazione cinematografica di Venezia inaugurata iersera in un clima eccezionale, in «Il popolo di Trieste», 2 settembre 1940. 31 M. Meneghini, La «Settimana» di Venezia, in «La rivista del cinematografo», 9, 1940. 27 28
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vanno sempre più affermando in Europa quel patrimonio spirituale che è la conseguenza diretta della crescente affermazione degli ideali delle due rivoluzioni 32.
Grande enfasi viene infusa nell’articolo di presentazione di Carlo Viviani sulla «Gazzetta di Venezia». La guerra ha mandato in frantumi «l’antico mondo internazionale», e per questa ragione la normalità della manifestazione veneziana potrà essere ripresa solo quando «nel mondo pacificato in un nuovo e più giusto assetto, Italia e Germania potranno gettare le basi della nuova civiltà», poiché l’Asse sarà chiamato ad assumere «funzioni di guida e di comando anche nei riguardi della cinematografia mondiale» 33. Sullo stesso tono è la corrispondenza di apertura de «Il mattino» di Napoli: I due paesi dell’Asse stanno sempre più affermando in Europa quel patrimonio spirituale che è una conseguenza diretta della crescente affermazione degli ideali delle due Rivoluzioni e la possente attrazione che esse esercitano ha modo di manifestarsi in tutti i campi, anche in quelli artistici 34.
Süss, l’ebreo di Veit Harlan viene presentato in anteprima alla «Mostra di guerra» il 5 settembre 1940, non aggiudicandosi nessun premio, nonostante molte fonti, anche autorevoli, sostengano il contrario 35. Le recensioni sui quotidiani cominciano ad apparire dal 6 settembre e nei giorni successivi. Poi ci sarà una seconda ondata di recensioni, non molto diverse rispetto a quelle veneziane, in concomitanza con l’uscita sul circuito nazionale, avvenuta nella prima settimana di ottobre del 1941. Se i vari critici e giornalisti italiani avessero cercato nel 1940 qualche informazione sulla figura di Süss, consultando magari la più grande opera messa in cantiere dalla cultura fascista, l’Enciclopedia italiana di Giovanni Gentile, nella voce relativa al Württemberg, scritta da Carlo Antoni, libero docente di Storia germanica all’Università di Roma, si sarebbero imbattuti in queste parole:
32 E. F. P. (E. F. Palmieri), Il Ministro Pavolini inaugura la manifestazione italo-tedesca, in «Il resto del Carlino», 2 settembre 1940. 33 C. Viviani, La settimana italo-germanica dell’arte cinematografica, in «Gazzetta di Venezia», 1° settembre 1940. 34 E. Duse, Il Ministro Pavolini inaugura a Venezia la manifestazione cinematografica italo-germanica, in «Il mattino», 3 settembre 1940. 35 Saul Friedländer, ad esempio, afferma che al film venne assegnato il Leone d’oro: cfr. S. Friedländer, Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei 1939-1945, Garzanti, Milano 2009, p. 138.
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il duca Karl Alexander, alleato dell’Austria, ha bisogno di soldi per partecipare ad una guerra e, dovendo fronteggiare l’opposizione della Landschaft (assemblea composta da cavalieri, borghesi e prelati), incarica il suo amministratore (Süss) di escogitare nuovi mezzi fiscali e, dinanzi all’opposizione della Landschaft, risolse di spezzar la potenza di questa. Ma la sua improvvisa morte troncò questo piano e il suo finanziere fu suppliziato per ordine della dieta 36.
Siamo più vicini al ritratto di Süss del romanzo di Lion Feuchtwanger (o dal film di Mendes), che non a quello impresso nelle immagini di Veit Harlan. Del resto, non è una anomalia. L’Enciclopedia italiana ha cercato di mantenersi alla larga quanto possibile, per esplicita volontà di Gentile 37, dal razzismo e dall’antisemitismo. Giovanni Belardelli riassume le finalità dell’iniziativa editoriale più importante messa in cantiere durante il fascismo: la redazione dell’Enciclopedia italiana non fu quella specie di enclave indipendente dal fascismo di cui alcuni collaboratori hanno poi scritto, fu però uno dei luoghi migliori in cui durante la dittatura potesse accadere di svolgere un lavoro intellettuale 38.
Nel 1938 è uscito il primo volume di aggiornamenti dell’Enciclopedia. La voce «razza» era stata affidata, nel 1935, a Gioacchino Serra, professore di antropologia all’Università di Napoli 39. L’aggiornamento è affidato invece al direttore de «Il giornale d’Italia», studioso di storia contemporanea, Virginio Gayda. Il nuovo testo riguarda solo la «politica fascista della razza». Il fascismo, fino dai primi passi di governo, per Gayda, ha impostato la 36 C. Ant. (C. Antoni), Württemberg, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere e arti, vol. XXXV, Milano, Rizzoli 1937, p. 809. 37 Cfr. P. Simoncelli, Non credo neanch’io alla razza. Gentile e i colleghi ebrei, Le Lettere, Firenze 2013. Ricorrenti sono le polemiche – soprattutto giornalistiche – sulle responsabilità morali di Gentile riguardo all’antisemitismo, poiché quelle materiali nessuno riesce a provarle. Rosella Faraone ritiene Gentile non assimilabile al razzismo fascista, anche se «non si può assolvere il filosofo da ogni responsabilità morale e civile rispetto a quanto accaduto in Italia a partire dal 1938»: R. Faraone, Giovanni Gentile e la «questione ebraica», Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 9. 38 G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali, cit., p. 17. 39 G. S. (G. Serra), Razza, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere e arti, vol. XXVIII, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1935, pp. 910-932.
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politica demografica, che, per compiersi definitivamente, doveva «svilupparsi in una più larga e severa politica della razza». Le conquiste imperiali hanno imposto la necessità della «divisione delle razze», con una ricaduta nazionale. Ma «la politica razziale fascista riguardante gli Ebrei tende a separare dalla razza italiana quella ebraica senza assumere alcun carattere particolarmente persecutorio» 40. Le cronache da Venezia vengono collocate, come d’abitudine, nella terza pagina. Giuseppe Avon Caffi sul quotidiano di Cremona «Il regime fascista» è entusiasta di Süss, l’ebreo. Lo ritiene opera impeccabile, di grande qualità formale, grazie alla regia «di sapienza veramente singolare», accolta da grande entusiasmo in sala, con applausi scattati più volte nel corso della proiezione. La prosa di Caffi a più riprese sottolinea la spregevolezza del protagonista: «lo scaltro ebreo traeva per sé i copiosi frutti della sua azione». E quando l’incosciente duca sta per firmare un salvacondotto che libera Süss da ogni responsabilità per le malefatte compiute, viene scomodato Dio, che mandandogli un colpo apoplettico lo «punisce al momento giusto». La capacità di Harlan di disegnare la fisionomia del protagonista sbalordisce il recensore: La descrizione cinematografica, che egli ne fa, è talmente potente e suggestiva che avvince e lega lo spettatore, senza soluzione di continuità lo fa partecipare direttamente alle fasi della storia, e lo commuove e, soprattutto, lo fa lungamente meditare sul significato di quell’episodio svoltosi due secoli orsono, e che oggi, con la rivolta pressoché generale dell’Europa contro il giudaismo, si ripete in misura gigantesca 41.
Più o meno con gli stessi toni di Caffi si esprime Dino Falconi sul mussoliniano «Il popolo d’Italia». L’attacco avrebbe fatto inorridire Goebbels: «Il romanzo da cui è stato ricavato [...] è un’opera letteraria che ebbe a suo tempo grande popolarità». Cioè il film di Veit Harlan, «Storia del volpino ebreo e inetto nobile», deriverebbe dal romanzo di Lion Feuchtwanger. Questa diretta filiazione, come si vedrà, viene ricordata da molti commentatori. La conclusione è più che appropriata: «Il capestro, quel capestro che egli tante e tante volte aveva usato a proprio favore, termina la sua 40 V. Gay. (V. Gayda), Razza, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere e arti. Appendice, vol. I, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1938, p. 963. 41 G. A. Caffi, La settimana veneziana. “L’ebreo Süss” e “Il cavaliere di Kruja”, in «Il regime fascista», 6 settembre 1940.
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odiosa e perniciosa esistenza». Falconi menziona i grandi festeggiamenti all’attore Ferdinand Marian, insieme a Kristina Söderbaum presenti in sala. Süss, l’ebreo «è un film destinato a colpire vivamente la fantasia del pubblico [...] il più ambito dei successi» 42. Un intervento molto ideologizzato (in senso antisemita) esce dalla penna di un critico cinematografico di sicuro valore, Eugenio Ferdinando Palmieri, su «Il lavoro» di Genova. Palmieri, che nel 1940 pubblica un libro di grande eleganza, Vecchio cinema italiano 43, ravvede nel film un «fasto spettacolare» e definisce il personaggio Süss rapace, intrigante, sensuale, frenetico, vile, ruinoso, con la sua sorridente ipocrisia, con la sua gelida, decisa ferocia [...] con i suoi ori che sanguinano 44.
Süss nell’articolo viene descritto inoltre come avido, malvagio, frodatore, crudele, ingannatore, torturatore, vendicativo, violentatore. Offende l’onestà e il lavoro, animato dalla volontà di aprire le porte agli ebrei sbandati. L’inviato de «L’ambrosiano» alla «Mostra di guerra» è Marco Moncalvi. La sua recensione a Süss, l’ebreo, come quella di Palmieri, ha un forte timbro antisemita. Il film di Harlan gli appare «una realizzazione di singolare potenza e di impressionante realismo rappresentativo», importante non tanto per essere «un lavoro di semplice propaganda delle leggi razziali che, come da noi, vigono in Germania», ma quanto perché è un «film di ottima classe per qualità tecniche e spettacolari e di alto interesse cinematografico». Moncalvi racconta meticolosamente l’intreccio narrativo del film e considera la cacciata degli ebrei dalla città una liberazione, poiché in essa «si erano insediati con subdoli mezzi per esercitare i loro loschi traffici a danno della popolazione» 45. 42 D. Falconi, La rassegna veneziana. Un film italiano “Il cavaliere di Kruja” e un film tedesco “L’ebreo Süss”, in «Il popolo d’Italia», 6 settembre 1940. 43 Cfr. E. F. Palmieri, Vecchio cinema italiano, Zanetti, Venezia 1940. Il libro riceve recensioni estremamente favorevoli: cfr. G. Aristarco, Vecchio cinema italiano, in «La voce di Mantova», 27 ottobre 1940; G. Isani, Nostro passato, in «Primato», 17, 1940; F. Pasinetti, Recensioni, in «Bianco e nero», 1, 1942. 44 E. F. Palmieri, Nuova affermazione italiana col primo film girato in Albania, «Il lavoro», 6 settembre 1940. Il film realizzato in Albania è Il cavaliere di Kruja di Campogalliani. Palmieri lo stesso giorno pubblica più o meno lo stesso articolo, Superba affermazione italiana e tedesca, in «Il resto del carlino», 6 settembre 1940. 45 M. Moncalvi, «L’ebreo Süss» nella ricostruzione storica di Veit Harlan, in «L’ambrosiano», 7 settembre 1940.
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Carlo Viviani sulla «Gazzetta di Venezia» sostiene che il film di Harlan, rispetto al film di Mendes e al romanzo di Feuchtwanger, «miranti a salvare, se non addirittura ad esaltare la figura dell’ebreo», cerca di trovare un equilibrio tra la realtà storica dei fatti, e «infondere nuovo vigore alla politica razzista, che il nazismo persegue a fondo», riuscendo pienamente nell’intento di amalgamare entrambi gli aspetti. Marian interpreta Süss alla perfezione. Il suo è il ritratto dell’onnipotenza dell’ebreo, della sua «astuzia volpina», del «più freddo cinismo» e della «crudele ferocia, mal celata dai modi melliflui e dall’abile doppiezza» 46. Per «Il mattino» nel film, «sorretto da slanciata e solida architettura», il «nefasto giudeo» si conquista la fiducia del sovrano «crapulone, sudicio e sgonnellante, ambizioso e superstizioso», commettendo crimini senza pagarne le conseguenze. Il suo scandaloso operato conduce al disordine economico e morale, portando la città sull’abisso di una rivoluzione. Questa è la storia autentica. «Il problema dell’ebraismo è di attualità e l’opera ha suscitato grande interesse e vivacissimi consensi». Tutto vi è disegnato ed espresso in forma limpida e tutto in esso è essenziale, perché l’autore, con sagace intuito, ha saputo sfuggire alla magniloquente retorica verso cui l’accento e l’impeto polemico della materia potevano trascinarlo per andare incontro più facilmente a quel successo che oggi all’opera non può mancare 47.
Il quotidiano romano «La tribuna» affianca alla corrispondenza da Venezia (ben evidenziata nel titolo «drammatica requisitoria tedesca contro il giudaismo») un articolo su Giuseppe Verdi boicottato da «un famigerato giudeo nel quale Verdi aveva riposto la sua fiducia» 48. Nella recensione il film di Harlan è considerato fra i migliori prodotti cinematografici tedeschi degli ultimi anni. Il protagonista è un «ebreo astuto», e solo la sollevazione popolare «libererà il paese dal terrore instaurato dall’ebreo e dalla piega dei suoi correligionari cui gli ha aperto le porte» 49. Francesco Càllari, autore di un articolo pubblicato nel 1938 da «La difesa della razza», nel quale accusa gli ebrei di essersi arricchiti in maniera C. Viviani, L’ebreo Süss ricostruzione storica tedesca. Il cavaliere di Kruja film d’ambiente albanese, in «Gazzetta di Venezia», 6 settembre 1940. 47 E. Duse, Un grande film tedesco “Suss l’ebreo” di Veit Harlan, in «Il mattino», 6 settembre 1940. 48 M. R., Giuseppe Verdi e gli... ebrei, in «La tribuna», 7 settembre 1940. 49 A. Albani Barbieri, La settimana di Venezia, in «La tribuna», 7 settembre 1940. 46
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smisurata grazie alla stampa, utilizzata come spirito corruttore dei popoli 50, su «Film» sostiene che la biografia per immagini di Harlan è talmente chiara e realistica da essere capita anche senza l’ausilio dei sottotitoli: Le scene del balletto, del ghetto, del processo e dell’impiccagione finale sono le più potenti ed impressionanti coreograficamente, psicologicamente e drammaticamente.
Süss, l’ebreo è un film tedesco di propaganda antigiudaica efficacissimo; e tanto più efficace risulta questa propaganda, in quanto i fatti che il film illustra riflettono fedelmente avvenimenti storici 51.
La rivista settimanale «Oggi», fondata e diretta da Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio nel 1939 (nata quale costola di «Omnibus» di Leo Longanesi, chiusa all’inizio del 1939), si unisce al coro di lodi: L’ebreo Süss è uno dei film scenograficamente più densi e tumidi che si siano visti. Un Settecento grave a quasi aggressivo pesa su ogni mobile in ogni angolo delle scene, in ogni piega dei costumi. In questa atmosfera Süss [...] commette i suoi peccati ed escogita i suoi tranelli, prima di finire sulla forca, un’altissima forca a scatto automatico, ideata e costruita apposta per lui dagli esasperati borghesi della città 52.
Da questi primi interventi si evincono, in maniera abbastanza nitida, le assi portanti sulle quali si regge la stragrande maggioranza (se non la totalità) delle interpretazioni. Innanzitutto, l’importanza estetica e spettacolare del film di Harlan. E poi l’antisemitismo, che traspare con più o meno forza a seconda delle sensibilità dei recensori. Ad esempio Filippo Sacchi sul «Corriere della sera» rileva «una felice ricostruzione», ma l’uso del linguaggio antisemita è meno forte rispetto ad altri commenti, anche se 50 F. Càllari, La stampa ebraica e la guerra, in «La difesa della razza», 43, 1938. Gli ebrei, scrive Càllari, «oggi sono una potenza nell’U.R.S.S., anche se Stalin è un georgiano, ed è a tutti noto come la guerra civile in Spagna sia stata preparata, fomentata e realizzata da loro». 51 F. Càllari, Taccuino di Venezia: continuazione, in «Film», 14 settembre 1940. 52 Il pescatore d’ombre, Ombre bianche, in «Oggi», 21 settembre 1940. Con molta probabilità l’autore della rubrica è Sandro De Feo, critico de «Il messaggero», che collabora con «Oggi» dal 1939 al 1941.
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leggiamo che il film di Harlan «non accetta nessuna sfumatura della pietà, dell’indignazione e dell’orrore», della «cricca di correligionari avidi e senza scrupoli» di Süss, e che quest’ultimo ha accumulato un ammasso di nefandezze, tali da spingere il popolo a far «giustizia di lui e ristabilisce la legge». Per Sacchi il film di Veit Harlan è «la produzione tedesca più importante dell’anno» e una grande ricostruzione storica del genere opulento con scenari di una estrema ricchezza e doviziosa profusione di attori e uno svolgimento drammatico che non omette nessuna sfumatura della pietà, dell’indignazione e dell’orrore 53.
Su «Il giornale d’Italia» lo stesso giorno che viene pubblicata sulla terza pagina una lettera inedita di Gabriele D’Annunzio contro gli inglesi (datata 4 novembre 1935 dal Vittoriale), Antonio Levorato recensisce il «grande film storico tedesco» di Harlan. Lo descrive minuziosamente, arricchendo l’articolo di particolari della storia e limitando davvero al massimo le invettive antisemite. Fra i vari aspetti, ad esempio, ricorda come la Legazione dei Fabbri della città abbia costruito la gabbia nella quale Süss viene issato. Sarebbe stata la forca più alta mai innalzata per una esecuzione, per vendicare la morte del fabbro fatto giustiziare da Süss 54. Lo scrittore siciliano Ercole Patti (soprannominato «la salma», per la capacità di addormentarsi durante le proiezioni immobile e senza emettere un sibilo) nella corrispondenza veneziana per il quotidiano «Il popolo di Roma» è molto contento dell’andamento della «Mostra di guerra»: partita in sordina e «senza strombazzamenti» di giorno in giorno sta coinvolgendo la città. Agli Schiavoni giovani ragazze chiedono entusiaste l’autografo all’attrice Assia Noris, l’hotel Danieli è assediato per vedere da vicino i divi, gli spettacoli cinematografici sono gremiti. Süss, l’ebreo gli appare un «film a forti tinte», interpretato da bravissimi attori. Il regista sa raccontare con grandi capacità le gesta dell’«abile e insinuante ebreo» con cura e acutezza, e spesso con un realismo crudo che impressiona. Certe scene truculente o strazianti sono portate a fondo con un’attenzione minuziosa e spietata. Innegabilmente questo film ha moltissime qualità per impressionare il 53 F. Sacchi, Il primo film italiano girato nell’Albania fascista, in «Corriere della sera», 6 settembre 1940. 54 A. Levorato, “L’ebreo Süss” e “Il cavaliere di Cruja”: ricostruzione storica tedesca”, in «Il giornale d’Italia», 6 settembre 1940.
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pubblico; e l’impiccagione finale, anche questa eseguita con dovizia di particolari, quasi con compiacenza polemica, provoca un sospiro di soddisfazione nel pubblico 55.
L’autorevole rivista mensile «Bianco e nero», ragionando sui film presentati a Venezia sottolinea l’assoluta mancanza di retorica del film di Harlan. Süss, l’ebreo oggettivamente esprime un punto di vista contrario rispetto alla versione inglese (di tedeschi emigrati in Gran Bretagna è specificato) di Mendes, grazie al «distacco usato dal regista nel trattare la materia» e alla narrazione quanto più obiettiva possibile: alla fine del film lo spettatore si accorge sì che hanno fatto bene a scacciare gli ebrei e a impiccare Süss, ma si accorge che i fatti gli sono stati esposti in modo che il giudizio avrebbe potuto essere anche diverso 56.
Abbiamo rilevato poc’anzi un ricorrente fraintendimento: in molte recensioni il film di Harlan viene interpretato quale diretta derivazione del romanzo di Feuchtwanger. Sul «Meridiano di Roma», settimanale culturale che esce ogni domenica, al quale collabora assiduamente Ezra Pound con articoli molto pungenti collocati nella prima pagina, Bruno Matarazzo considera Süss, l’ebreo «uno dei film più significativi della Mostra di guerra», opera ricca di commovente verità, dovuta alla regia di «sfarzosa grandiosità». Anche Matarazzo commette l’errore di ritenere il film di Harlan ricavato dall’omonimo romanzo di Feuchtwanger, dal quale però si discosta notevolmente seguendone soltanto le linee generali, per raggiungere con successo lo scopo voluto, ch’è poi quello di palpitante attualità della lotta antisemita condotta dai popoli dell’Asse 57.
Nello stesso fraintendimento incappa Sandro De Feo. Nella sua recensione su «Il messaggero» ritiene che dall’opera di Feuchtwanger siano state tratte già due versioni: quella di Harlan («un’opera settecentesca spettacolare») sarebbe la più impegnativa, «di vigore approssimativo ma di effetto 55
1940.
E. Patti, Il primo film italiano girato in Albania, in «Il popolo di Roma», 6 settembre
56 Articolo non firmato, La manifestazione cinematografica di Venezia, in «Bianco e nero», 10, 1940. 57 B. Matarazzo, Settimana cinematografica, in «Meridiano di Roma», 22 settembre 1940.
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immediato», anche se «il pubblico si è emozionato molto alle sequenze più forti del film». Süss incarna l’«istinto rabdomantico della sua razza [...] scopre dove sta il danaro e come si deve fare per estrarlo» 58. Anche Mario Gromo su «La stampa» indica la derivazione del film dall’omonimo romanzo di Feuchtwanger, dal quale trae alcuni spunti, «trattandoli in libera riduzione cinematografica» 59. Arnaldo Frateili, romanziere e giornalista antisemita 60, nella sua recensione su «La tribuna», dopo aver ricordato che il protagonista, ebreo «senza coscienza e senza scrupoli» e incapace di una «morte eroica», aggiunge che è stato reso famoso dall’editoria giudaica internazionale attraverso il romanzo di Feuchtwanger, dal quale il regista tedesco ha desunto la storia 61. Alessandro De Stefani su «Il lavoro fascista» è molto colpito dalla eccelsa qualità della regia, ma anche lui definisce l’argomento del film «tratto da un romanzo, assai noto in Italia» 62. Francesco Càllari su «Film» è l’unico, invece, a sostenere che Süss, l’ebreo sia «tratto
58
1940.
S. De Feo, “L’ebreo Süss” e “Il Cavaliere di Kruja”, in «Il messaggero», 6 settembre
M. Gromo, “Il Cavaliere di Kruja” (Italia) e “L’ebreo Süss” (Germania), in «La stampa», 6 settembre 1940. 60 Frateili aveva suggerito, ancor prima dell’approvazione delle «leggi razziali», di intraprendere lo stesso cammino dei tedeschi, evitando soltanto atteggiamenti ripugnanti, estranei alla tradizione italiana: A. Frateili, O Roma o Sion, in «La tribuna», 26 maggio 1937. Frateili insieme a Giuseppe Bottai nel 1924 fonda a Roma la rivista letteraria «Lo spettatore italiano», di cui escono soltanto dodici numeri (chiude nell’ottobre dello stesso anno). Al primo numero della rivista collaborano Ardengo Soffici, Luigi Pirandello, Umberto Saba, Cipriano Efisio Oppo, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti. La breve durata della testata è da imputarsi alle difficoltà politiche incontrate da Bottai durante la crisi seguita al delitto Matteotti. Frateili, oltre all’attività di giornalista, pubblica alcuni romanzi: cfr. A. Frateili, Paradiso a buon mercato, Carabba, Lanciano 1932; Id., Le avventure notturne, Mondadori, Milano 1934. Pubblica anche due saggi, frutto di soggiorni in Germania e Polonia: cfr. A. Frateili, La Germania in camicia bruna, Bompiani, Milano 1937; Id., Polonia frontiera d’Europa, Bompiani, Milano 1938. In entrambi i resoconti politici affronta la questione dell’antisemitismo, in maniera più blanda nel primo, più marcata nel secondo: «La nuova Polonia – scrive – non troverà la sua pace finché la questione ebraica non avrà avuto una soluzione definitiva» (Polonia frontiera d’Europa, p. 128). Nel dopoguerra Frateili tornerà a scrivere di cinema per la rivista «Filmcritica», e dimenticherà totalmente il suo passato di giornalista fascista e i suoi interventi antisemiti: cfr. A. Frateili, L’arte effimera (Ricordi di un cineletterato), Edizioni di Filmcritica, Roma 1955 (Frateili aveva già pubblicato un articolo con questo titolo: Ricordi di un cineletterato, in «Bianco e nero», 9, 1940); Id., Dall’Aragno al Rosati. Ricordi di vita letteraria, Bompiani, Milano 1964. 61 Frat. (A. Frateili), Süss l’ebreo, in «La tribuna», 4 ottobre 1941. 62 A. De Stefani, “Il Cavaliere di Kruja” e “Süss l’ebreo”, in «Il lavoro fascista», 7 settembre 1940. 59
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liberamente dall’omonimo e celebre romanzo di Hauff» 63. Infine, c’è anche chi esagera. Alberto Rossi su «La gazzetta del popolo» afferma: «se non erriamo sarebbe la quinta edizione cinematografica della vicenda tratta dal noto romanzo di Leone Feuchtwanger» 64. Si sbagliava! L’entusiasmo per l’opera di Harlan è diffuso. Talvolta incontenibile. Ne sono contagiati due giovani che scrivono per quotidiani romagnoli: Giudo Aristarco e Michelangelo Antonioni. Aristarco su «La voce di Mantova» recensisce con notevole favore il film di Harlan, opera storica dominata da un protagonista, Süss, «prototipo di questa razza minore», la cui esistenza è «un sudiciume, una bassezza, un peccato». Esteticamente il film ha un ritmo cinematografico serrato ed incalzante, per il quale le sequenze si susseguono alle sequenze, le inquadrature alle inquadrature, quasi senza farti prendere respiro. È un film forte [...] Bellissime tutte le sequenze della seduzione e della morte di Dorothea, una giovane sposa, per causa dell’ebreo 65.
Nel bilancio conclusivo sulla settimana veneziana ritorna sul film, sottolineando che è di propaganda politica. È questa un’opera cinematografica storica che ci fa vedere, con rara efficacia, quale è la vita della razza giudaica. E il pregio migliore della fatica di Arlan [Harlan] non è tanto l’interpretazione superba di Heinrich George, Ferdinand Marian, Kristina Söderbaum e Werner Krauss, non tanto l’atmosfera viva e fusa, ma la descrizione di questa vita piena di bassezze e di peccato 66.
Antonioni sul «Corriere padano» apre la recensione al film di Harlan raccontandone le vicende. Scrittura asciutta, brillante, precisa. Quasi subito si lascia prendere la mano: osserva maliziosamente che lasciati entrare gli ebrei a Stoccarda, grazie alla protezione dell’astuto e onnipotente Süss, i giudei «rapidamente arricchiscono» (cosa peraltro che il film non mostra). Terminato il meticoloso racconto, Antonioni parte a briglia sciolta: F. Càllari, Taccuino di Venezia: continuazione, in «Film», 14 settembre 1940. A. Rossi, Un film italiano: “Il Cavaliere di Kruja” e uno tedesco: “L’ebreo Süss”, in «La gazzetta del popolo», 6 settembre 1940. 65 G. Aristarco, La manifestazione del Cinema a Venezia, «La voce di Mantova», 6 settembre 1940. 66 G. Aristarco, Venezia 1940 a schermo spento, «La voce di Mantova», 22 settembre 1940. 63 64
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Non esitiamo a dire che se questa è propaganda, ben venga la propaganda. Poiché il film è potente, incisivo, efficacissimo. Tutte doti che gli provengono da un fatto: di essere equilibrato al massimo. Non un istante la pellicola rallenta, non un episodio appare in disarmonia con gli altri: è questo il film dell’armonia e dell’unità complete. Stonature non ce ne sono, tutto procede con una coerenza lucidissima, con un ritmo incalzante, con una precisione matematica, che vuol dire intelligente. E di intelligenza in «L’ebreo Süss» ce n’è molta, molta. Vedrete l’episodio di Süss che violenta la fanciulla: è condotto con una abilità sorprendente. Ma anche tutto il resto, dai movimenti di massa ai dialoghi intimi, è ripreso in maniera impeccabile. Fin troppo. Quasi saremmo tentati di accusare il film di eccessiva regolarità, a scapito dell’estro improvviso, bizzoso, come piace a noi, ma è risaputo che il cinematografo è un miracolo di equilibrio, per cui non c’è nulla da aggiungere 67.
«Non esitiamo a dire che se questa è propaganda, ben venga la propaganda». Sono le parole riportate in un recente film di produzione tedesca e austriaca, Jud Süß - Film ohne Gewissen di Oskar Roehler, che ha scatenato diverse polemiche al Festival di Berlino nel 2010, dove è stato presentato in anteprima. Il film è uno sciatto tentativo di ricalcare il modello di Mephisto, incentrando il racconto (morale) sulle vicende dell’ascesa e caduta di un attore di talento (Ferdinand Marian, interpretato dall’austriaco Tobias Moretti) 68, pur se debole e immorale, sedotto dal potere mefistofelico di Goebbels. Ovviamente il giudizio del critico Antonioni letto a Marian da un ufficiale tedesco mentre si trova in un locale a festeggiare il successo ottenuto dal film a Venezia, sono esattamente ciò che il critico Antonioni scrisse nel 1940, né più né meno. Sul perché il regista abbia deciso di inserire tale giudizio (in un film zeppo di inesattezze storiche) 69, la risposta è abbastanza ovvia: fra coloro che ne scrissero Antonioni è il più noto, essendo diventato nel dopoguerra un regista di rilievo internazionale 70. Antonioni a breve distanza dalla corrispondenza veneziana parla del film di Harlan in una più meditata riflessione, ospitata dalla rivista «Cinema». Osservando la produzione tedesca presentata a Venezia è colpito dalla grande qualità raggiunta. Nella manifestazione gremita di uniformi di guerra, i film tede67 M. Antonioni, “L’ebreo Süss” e “Il Cavaliere di Kruja”, in «Corriere padano», 6 settembre 1940. 68 Tobias Moretti è diventato famoso nella serie televisiva Il commissario Rex, interpretando il ruolo del commissario Richard Moser. 69 Su Jud Süß - Film ohne Gewissen (2010) cfr. E. Ferruggia, Süß l’ebreo. Un film senza coscienza, in «Nuova storia contemporanea», 6, 2010. 70 V. Cappelli, Film sul nazismo antisemita chiama in causa Antonioni, in «Corriere della sera», 18 febbraio 2010.
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schi sono stati una «gradevole sorpresa». La guerra da un lato ha poco di ideale, ma dall’altro ha il merito, tutto involontario del resto, di costringere le intelligenze, per reazione o per desiderio di nuova esperienza, ad un più intenso lavorio, e di creare quell’atmosfera disordinata e non priva di frizzo nella quale i folletti del genio danzano volentieri.
Süss, l’ebreo per Antonioni ha «una euritmicità perfetta», e porta sullo schermo la figura del famoso ebreo di Francoforte entrato già nella letteratura con Hauff e Feuchtwanger. Tutto nel film procede con lucida coerenza, senza ineguaglianze o disarmonie, in opulenti scenari storicamente esatti. Quasi giudicheremmo eccessiva la regolarità dell’opera, la quale non un momento dimentica la sua tesi per cedere alla fantasia: tanto che, sinceramente, in noi era sorto un dubbio: se il personaggio di Süss riuscisse a mantenersi sul terreno dell’arte, o non fosse invece sbalzato dalla propria dogmatica malvagità in una sfera antiumana e per ciò stesso antipoetica. La scena del processo al consigliere Sturm, quella spaventosa del ballo a corte in cui le ragazze di Stoccarda vengono abilmente isolate e offerte da Süss al Duca, quella in cui l’ebreo violenta la fanciulla: sembrano episodi di una credulità talmente raffinata da sospingere le creature artistiche che li compiono fuori da ogni limite pensabilmente umano. Ma a compensarli stanno fortunatamente altri elementi. C’è una reale, fortissima passione di Süss per la fanciulla, c’è un sacrificio di ricchezze in favore dei correligionari, c’è infine quella sua disperata invocazione alla vita, nel punto in cui gli vien data la morte: tutte cose che ridanno al personaggio una consistenza artistica palpitante e vicina 71.
«L’illustrazione italiana» in un numero quasi totalmente dedicato alla propaganda antibritannica, affida il commento della manifestazione veneziana a Elio Zorzi, per il quale il film di Harlan è una grande opera storica, strumento potentissimo ai fini della propaganda razzista e capolavoro di arte narrativa 72. Enrico Fulchignoni su «Primato» (rivista innovativa, messa in cantiere nel 1939 per dare sostanza culturale al «nuovo ordine» europeo fascista, e lanciata nel 1940, diretta da Giuseppe Bottai insieme a Giorgio Vecchietti) sottolinea come il film di Harlan abbia di fatto rovesciato, in maniera esemplare, il senso del romanzo di Feuchtwanger:
M. Antonioni, La sorpresa veneziana, in «Cinema», 102, 1940. E. Zorzi, Chiusura della settimana cinematografica di Venezia, in «L’illustrazione italiana», 15 settembre 1940. 71 72
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Ne è risultata un’opera d’arte di assoluto valore politico; un vero esempio del genere. La validità dei presupposti etici nella polemica antiebraica conferiva alle intenzioni nel film ogni giustificazione; la sicurezza della tecnica espressiva risaldava questo convincimento su un piano nel quale infine ogni motivo propagandistico pareva dovere dissolversi di fronte a una situazione presentata obbiettivamente. Il segreto di questo risultato ci è parso appunto doversi ricercare nel coraggio di presentare una storia nella quale i pregiudizi illuministici dell’obbiettività astratta, cedono alle esigenze dell’obbiettività sociale e politica 73.
Anche Luigi Chiarini in un denso contributo su «Primato» analizza l’opera di Harlan. Chiarini riflette sui film presentati alla «Mostra di guerra», rimarcando che la qualità raggiunta dal cinema nazionalsocialista è notevole, e ciò va ascritto allo «spirito politico nuovo». L’osservatore è colpito non tanto dalla materia trattata, «di evidente ispirazione nazional-socialista come in [...] Süss l’ebreo» (l’articolo è corredato da una foto del film di Harlan, dove il padrone e il segretario guardano avidamente un vassoio pieno di gioielli: l’oro e l’ebreo), ma «dalla conquista di un linguaggio cinematografico, di quella forma assoluta senza la quale non vi è arte». I tedeschi hanno valorizzato al massimo gli artisti e non i mestieranti: Il cinema tedesco ha quasi raggiunto il livello artistico del cinema francese. Il mondo morale che esso rappresenta è diverso; ma ciò non è un merito, come non era demerito dei registi francesi quel tanto di torbido che era nei loro film. Da una parte artisti che rappresentano un popolo in vittoriosa ascesa, dall’altra artisti di non minore valore che rispecchiavano una nazione in disfacimento 74.
Il critico cinematografico Mario Meneghini su «L’osservatore romano», diretto dal conte Giuseppe Dalla Torre (personaggio mal tollerato dal fascismo) 75, in terza pagina riferisce dei film presentati a Venezia. Di Süss, l’ebreo scrive: è una tipica pellicola di propaganda – in questo caso antisemita – e come, nella riproduzione del protagonista, non segue l’opera letteraria omonima di Lion Feuchtwanger [...]. Caratteri, episodi, e fine risultano asserviti ad una tesi, più che rielaborati di fantasia, epperò fanno risentire la pesantezza di tutta la tavolozza dalle tonalità sovraccariche [...] la sceneggiatura ha puntato più sulle scene E. Fulchignoni, Film di tendenza a Venezia, in «Primato» 14, 1940. L. Chiarini, Ritornare alla forma, in «Primato», 16, 1940. 75 Cfr. M. Bocci (a cura di), Giuseppe Dalla Torre. Dal movimento cattolico al servizio della Santa Sede, Vita e pensiero, Milano 2010. 73 74
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a effetto, che in una progressiva analisi psicologica dell’influenza esercitata dal protagonista 76.
Seguendo più o meno le linee dell’articolo di Meneghini si dipana la recensione di Mario Milani apparsa su «L’ordine», quotidiano di proprietà della curia di Como. Milani rileva che il film di Harlan è un saggio storico «di grosso calibro» e porta in «primo piano la raffinata e subdola arte giudaica nemica della salute umana». Film più che convincente, interpretato da attori magnifici, animato da un evidente spirito di «propaganda antisemita, che ottiene i voluti effetti, anche se, di quando in quando, porta all’esasperazione il tema propostosi». Ma, chiude il suo ragionamento Milani: Contro i numerosi pregi di questa realizzazione sta il grave difetto dell’eccesso di verismo; alcuni episodi hanno una crudezza gelida e tagliente che stronca le molte note umane. Si parla assai di carità e di giustizia ma le immagini hanno piuttosto il significato della vendetta. Ciononostante il film ha momenti di poesia dolcissima, quando esalta, attraverso quadri intimi e semplici, l’onestà della famiglia, l’amore sincero al lavoro e alla patria 77.
Lo stesso Milani torna a parlare di Süss, l’ebreo in una corrispondenza per «L’avvenire d’Italia», giornale della curia di Bologna: Il maturo regista Veit Harlan – scrive – conoscitore profondo di tutte le scaltrezze tecniche della cinematografia, dotato di un forte carattere espressivo derivatogli dal suo passato di attore dello schermo, si è certamente trovato a suo agio con la ben nota vicenda dello «Ebreo Süss»; egli ha elaborato la incandescente materia con mano maestra, ponendovi tutta la forza del suo temperamento. N’è uscito un film di vaste proporzioni, dalla inquadratura generale ben definita, dalle tonalità un po’ altisonanti od esagerate. Come è questo quadro umano? È una descrizione di umanità già decisamente orientata in una concezione antiebraica; e con ciò, se da un lato risponde al chiaro scopo propostosi dai realizzatori, diminuisce in molti punti il valore psicologico della vicenda, fissandola nell’orbita di un solo motivo; allora rimane il dramma raccontato e decorato, ma si afflosciano le delineazioni dei caratteri. La trama è nota, e non è nuova allo schermo, che la pescò dalla storia per farne propaganda giudaica. Oggi si fa tutto il contrario. Il film di Harlan avrebbe raggiunto assai meglio i suoi i suoi scopi se avesse mantenuto il dramma in una 76 M. M. (M. Meneghini), La “Settimana” di Venezia, in «L’osservatore romano», 6 settembre 1940. 77 M. Milani, Venezia cinematografica, in «L’ordine», 7 settembre 1940.
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linea più umana, più caritatevole, meno esasperata e traboccante d’odio. In prossimità del troppo crudo finale, si dice: non vendetta, ma giustizia. Ottima frase, che tempera debolmente il chiaro significato vendicativo delle immagini. Altro difetto è quello dello stile soverchiamente veristico, che si manifesta a tratti, creando uno sgradevole contrappunto ad episodi dolcissimi, umani e commoventi 78.
Il Centro cattolico cinematografico valuta il film non adatto per il circuito parrocchiale e per quegli esercenti che intendono seguire le valutazioni pastorali dell’organismo vaticano. Questo è il giudizio: Le frequenti ed insistenti scene di brutalità e di sensualità consigliano di escludere la visione di questo film almeno per i giovani, e di ammettervi solo persone di piena maturità morale 79.
È il massimo delle perplessità, certamente deboli, che si trovano sulla stampa italiana.
M. Milani, Storia, favola, documentario, in «L’avvenire d’Italia», 8 settembre 1940. Segnalazioni cinematografiche, vol. XIV, Centro Cattolico Cinematografico, Roma 1941, p. 133. 78 79
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X.
Un film che «trascina il pubblico nell’entusiasmo»
Ad un anno di distanza dalla presentazione veneziana, nella prima settimana di ottobre del 1941, esce sugli schermi italiani Süss, l’ebreo (a Venezia è stato presentato in originale con i sottotitoli 1, per la distribuzione nazionale è stata predisposta la versione doppiata in italiano). A Roma debutta il 3, in due sale: al Corso e al Supercinema (alla proiezione delle ventidue con uno spettacolo di gala). La fascetta pubblicitaria raccomanda agli spettatori: «Questo film deve essere visto dal principio». Il giovane critico Carlo Lizzani lo recensisce per «Roma fascista», settimanale dei Guf della capitale, testata molto attiva nella polemica antisemita, subito allineata con la svolta razziale del regime del 1938. In un articolo l’organo di stampa degli universitari romani prospetta un suggerimento. Per gli ebrei che vogliono uscire dai confini italiani portandosi appresso tutti gli averi, un rimedio certo estremo ma efficace è farli uscire nudi: quando lasciano l’Italia devono portare via quattro soldi, i vestiti e il loro muso. Ma se i vestiti dovessero servir loro per trafugare anche un soldo, allora spogliamoli nudi e nudi facciamogli passare la frontiera a suon di calci al tergo 2.
«Roma fascista» dovendo giustificare le discriminazioni scolastiche nei confronti degli ebrei, dedica un fondo all’argomento 3, accompagnandolo con altri quattro articoli (sul potere finanziario giudaico 4, sulla teoria raz1 Per Bruno Matarazzo i film stranieri presentati a Venezia dimostravano «chiaramente come si possa fare a meno del doppiaggio, almeno per quelle opere veramente artistiche che hanno nell’interpretazione una parte essenziale del loro valore»: B. Matarazzo, La settimana cinematografica dell’arte, in «La fiera letteraria», 15 settembre 1940. 2 G. Zambelli, Facciamoli passare nudi, in «Roma fascista», 5 ottobre 1938. 3 Articolo non firmato, La scuola e gli ebrei, in «Roma fascista», 8 settembre 1938. 4 G. Zambellli, Sinagoga in borsa, in «Roma fascista», 8 settembre 1938.
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zista 5, su gli ebrei e l’Asse) 6, di cui uno sugli ebrei nel cinema (a completamento un box con numerosi cognomi ebraici). In quest’ultimo scritto, dai toni assai polemici, si parte da una constatazione storica: l’epoca del muto era esclusivo privilegio degli italiani. Ora, invece, il cinema è nelle mani degli ebrei – «per giunta stranieri» – salvo in Germania. E questo è un fatto molto preoccupante, dato il potere di condizionamento proprio della cinematografia. Esaurita la premessa generale si passa alla denuncia di una serie di operatori del settore, indicati per nome e cognome. Il caso più clamoroso è quello del «kolossal di regime» Scipione l’africano di Gallone. La colpa dell’insuccesso del film è del produttore e del montatore: dodici milioni, ridotti in pellicola dall’ineffabile ebreo COMM. LUZZATTO, furono confidati nelle mani del preziosissimo montatore ebreo OSVALDO HAFENRICHTER, che a tutt’oggi si è mostrato esperto solo nel “montare” critiche contro tutto ciò che è italiano [Hafenrichter] affondò le forbici nell’immane chilometraggio di pellicola [...] e con serafica, sublime incompetenza [...] ridusse il tutto su un’unica polpetta.
La conclusione è logica: È tempo dunque che il Cinema italiano sia fatto dagli italiani, perché, ripetiamo, sarebbe un’arma pericolosa in mano agli ebrei e perché soprattutto deve avere un’impronta di schietta intelligenza italiana 7.
Tra dicembre 1941 e aprile 1942 «Roma fascista» ospita un dibattito sul razzismo in Italia, al quale partecipa anche Julius Evola 8, a dimostrazione della piena adesione dei Guf alla campagna antisemita 9. Il foglio universitario capitolino non si limita alla confezione sarcastica e insultante dello stereotipo giudaico; invoca misure concrete contro gli ebrei. Raggiungerà la vetta della polemica Pasquale Pennisi, invocando una stretta di vite contro i «tiepidi» che si rifiutano di applicare le «leggi razziali», e auspicando F. A. Cat, Razza, storia e cultura, in «Roma fascista», 8 settembre 1938. E. Orano, Gli ebrei e l’Asse, in «Roma fascista», 8 settembre 1938. 7 V. R., I giudei nel cinema, in «Roma fascista», 8 settembre 1938. L’articolo determinò molte risposte da parte dei professionisti chiamati in causa. In un successivo intervento ne viene data notizia e ovviamente risposta: V. R., Gli altri giudei nel cinema, in «Roma fascista», 22 settembre 1938. 8 J. Evola, Razzismo e gioventù, in «Roma fascista», 11 dicembre 1941. 9 Cfr. A. Staderini, Fascisti a Roma. Il Partito nazionale fascista nella capitale 1921-1943, Carocci, Roma 2014, pp. 202-207. 5 6
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un film che
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l’espatrio totale degli ebrei o, in alternativa, la loro reclusione in campi di concentramento 10. Tornando all’articolo di Lizzani, il settimanale recensisce pochissimi film. Quindi evidentemente si tratta di un’opera di rilievo, che merita di essere segnalata non solo per le qualità formali, ma soprattutto per la violenta carica antisemita. Nel numero in cui esce la critica al film di Harlan, al centro della prima pagina viene pubblicato un polemico articolo contro la borghesia e gli ebrei. L’attacco non lascia dubbi interpretativi: «Venne alla sua ora in Italia la lotta antiborghese e antiebraica. Consequenzialità della nostra posizione di razzisti» 11. Nella terza pagina un lungo contributo di Franco Dal Cer lamenta la scarsa capacità del cinema italiano di fare propaganda politica, sia nel film storico che in quello contemporaneo 12. Lizzani facendo ricorso ad un linguaggio molto elaborato, dedica l’apertura della sua riflessione all’importanza delle opere cinematografiche di propaganda. A questa categoria appartiene il film di Harlan, «ottimamente riuscito»: Süss Oppenheimer è seguito nella sua ascesa lenta e sicura, e nella sua rapida caduta, dalla mano costantemente ferma ed equilibrata (sul piano prescelto, naturalmente) di Veit Harlan che distribuisce intorno a lui le altre figure, come nate dalle necessità del suo intrigo. E tutti con i loro incontri e scontri, con le loro azioni e reazioni, cadenzano un ritmo di narrazione sempre sciolto anche quando sembra interrompersi in pause che sono poi le ragioni di effetti volutamente complessi e poi liberati. Un organismo così accuratamente costruito, se calato nel tempo, ne sforza naturalmente i limiti, ne piega la presunta assolutezza con il peso delle nuove tesi, al contrario, ad esempio, di quanto avviene in alcuni assai citati film storici, dove si verifica esattamente la situazione opposta: una sopraffazione di maschere e pugnali dall’impugnatura finemente cesellata 13.
Il fascismo per quanto riguarda la formazione dei nuovi quadri cinematografici fu estremamente efficiente. Lo slogan era «largo ai giovani» 14. La politica del regime ha condizionato la vita universitaria, favorendo la propagazione del razzismo e dell’odio verso il «nuovo nemico». Dagli studenti del Guf «il regime si aspettava un contributo di rilievo in termini agiP. Pennisi, Antiebraismo positivo, in «Roma fascista», 15 gennaio 1942. F. Porfiri, Storia di una corruzione. L’avvento della borghesia e degli ebrei, in «Roma fascista», 9 ottobre 1941. 12 F. Dal Cer, Politica e realtà del cinema italiano, in «Roma fascista», 9 ottobre 1941. 13 C. Lizzani, L’ebreo Süss, in «Roma fascista», 9 ottobre 1941. 14 Cfr. S. Duranti, «Largo ai giovani», in Id., Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda 1930-1940, Donzelli, Roma 2008, pp. 53-150. 10 11
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tatori visto il livello culturale che potevano garantire i propri iscritti» 15. La politica scolastica in un primo tempo si era limitata alla «fascistizzazione» e, successivamente, grazie alla guida di Bottai, si era arrivati ad una vera e propria «scuola fascista». La formazione integrale dei giovani, attraverso il ruolo sempre più invadente della Gioventù italiana del littorio (Gil, nata nel 1937), modellava la «generazione del Littorio» 16. Alla centralità della gioventù per la rivoluzione fascista aveva guardato Arnaldo Mussolini (fratello del duce, scomparso prematuramente nel 1931). Era convinzione di Arnaldo «che la generazione cresciuta sotto il fascismo sarebbe stata molto più preparata per perseguire gli obiettivi della rivoluzione fascista rispetto alla generazione allora al potere». Per questa ragione diede vita alla Scuola di mistica fascista, assegnandogli il ruolo «di addestrare coloro che erano prescelti per essere i portatori del messaggio rivoluzionario al fine di diventare i governanti di domani» 17. Il completamento dell’opera di fascistizzazione delle giovani generazioni si ebbe con la riforma varata da Bottai nel 1929, che di fatto legava l’istituzione scolastica alla pedagogia di partito. All’istruzione vaniva così assegnata la funzione di plasmare politicamente la gioventù 18. L’avvenire del fascismo era dunque dei giovani, poiché il fascismo è un «regime di giovani». I giovani fascisti universitari ebbero due canali di formazione: i Guf e i Littoriali. La politica organizzativa del fascismo, partendo proprio dai Guf e per il tramite dei Littoriali e della stampa universitaria (oltre ai Fasci di combattimento giovanili per quanti non frequentavano l’università), aveva per obiettivo la formazione di una nuova classe intellettuale forgiata nell’umanesimo fascista. Dopo la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero il fascismo opera la svolta totalitaria, «destinata a mutare nel profondo modi e stili di vita, comportamenti e mentalità degli italiani» 19. È la «rivoluzione antropologica» voluta dal fascismo per arrivare al «nuovo italiano», le cui tappe «furono le campagne per la riforma del costume, la polemica antiborghese, e soprat15 S. Duranti, A scuola di razzismo. Il gruppo universitario fascista e le sue strutture per l’antisemitismo nell’ateneo fiorentino, in R. Badi - D. D’Andrea (a cura di), Shoah, modernità e male politico, Mimesis, Milano 2014, p. 139. 16 Cfr. L. La Rovere, La formazione della gioventù in regime fascista. La scuola e le organizzazioni giovanili, in P. Bernard - L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La ostruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017, pp. 99-111. 17 M. A. Leeden, L’internazionale fascista, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 37. 18 N. Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 19261943, in «Storia contemporanea», 4-5, 1982. 19 G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali, cit., p. 56.
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tutto l’adozione del razzismo e dell’antisemitismo come ideologia dello Stato» 20. La «rivoluzione antropologica» deve passare anche da una profonda innovazione degli atteggiamenti culturali. Giuseppe Bottai, il vero organizzatore della politica scolastica e culturale fascista 21, si attivò concretamente per «la formazione di una nuova classe dirigente» mostrandosi disponibile nei confronti delle aspirazioni del fascismo giovanile. Fu anche tra gli ispiratori di una delle più importanti iniziative nel campo dell’organizzazione culturale dei giovani: i Littoriali della cultura e dell’arte 22.
Le riviste fondate da Bottai («Critica fascista» nel 1923 e «Primato» nel 1940) 23, dovevano razionalizzare l’assetto della cultura italiana nella costruzione dell’«uomo nuovo» fascista («Critica fascista») e dibattere le problematiche che sarebbero scaturite dal «nuovo ordine» europeo («Primato»). Bottai pose grande attenzione al ruolo dei giovani intellettuali, concedendogli la massima fiducia. In uno dei primi editoriali di «Primato» viene esaltata la preparazione dei giovani. Entrando all’improvviso in una sala dei Littoriali, si legge, vi stupirete (o non vi stupirete affatto, se oltre ai grandi giornali avrete tenuto d’occhio per qualche mese la stampa cosiddetta minore) nel sentire quei giovani discutere con una foga che non esclude la buna informazione, il discernimento critico, persino la spregiudicatezza e la malizia più sottile, quegli argomenti spesso proprio gli «anziani» amano trattare con una disinvoltura e con una leggerezza veramente «giovanili» 24.
La crisi universale stava spingendo l’Europa a vedere nel fascismo una risposta autentica. Ed è proprio nello sfondo di una «profonda e per molti
20 E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997, p. 174. 21 Cfr. E. Gentile, Bottai e il fascismo, in Id., Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 205-229. 22 G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali, cit., p. 62. I Littoriali si tennero a Firenze (1934), Roma (1935), Venezia (1936), Napoli (1937), Palermo (1938), Trento (1939), Bologna (1940). 23 Cfr. L. Mangoni, Da «Critica fascista» a «Primato», in Id., L’interventismo della cultura, Aragno, Torino 2002, pp. 459-487. 24 Articolo non firmato, Parlano i giovani, in «Primato», 3, 1940.
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versi inarrestabile crisi di civiltà» 25 che il fascismo delinea la propria ideologia, confidando nella centralità delle nuove generazioni, che avrebbero condotto alle conseguenze estreme lo spirito rivoluzionario delle origini, incagliatosi nelle sabbie della quotidianità e nella mera gestione del potere. Il partito, nell’opera di costruzione dello Stato totalitario, vuole fondare una «seconda generazione» integralmente fascista 26, e trova nei giovani universitari, presto gettati nell’arena intellettuale, un’adesione massiccia. I giovani universitari, nelle proprie discipline specifiche, si trovano alle prese con la lettura della modernità, resa caotica e selvaggia da forti agenti disgreganti quali il liberalismo, il capitalismo, l’antifascismo. La «rigenerazione nazionale» poteva avvenire dunque soltanto attraverso la «rivoluzione integrale» fascista, che storicamente si era affermato, ma doveva essere condotto alle conseguenze estreme. Per Alessandra Tarquini i giovani fascisti sostenevano che la generazione cresciuta durante il fascismo fosse l’unica ad avere assimilato fino in fondo i valori politici e la cultura del regime. Cresciuti nell’universo culturale creato dal regime, sentirono di rappresentare meglio degli altri fascisti un’epoca storica rivoluzionaria e si presentarono come i protagonisti della rivoluzione, quelli che interpretavano correttamente la dottrina fascista e rivendicavano uno spazio per la creazione di una classe dirigente nuova e davvero fascista 27.
Coetaneo di Lizzani è il gufino Renzo Renzi. Renzi si reca per la prima volta a Venezia nel 1940, alla «mostra di guerra», giovanissimo critico de «L’assalto» (dal 1924 voce dei fasci di combattimento bolognesi, sotto la guida di Leandro Arpinati 28, diventato successivamente settimanale della federazione fascista di Bologna). Ad anni di distanza ricorderà la sua prima veneziana soprattutto per il film di Harlan: Parlai bene di Süss l’ebreo «perché – scrissi pressappoco – se proprio vogliamo fare un’arte, diciamo, nazional-popolare [...], ecco, questo è un film molto ben narrato, molto bene costruito, insomma un bell’esempio di cinematografo». Non
P. G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti credenze, e valori nella stabilizzazione del regime, il Mulino, Bologna 1985, p. 131. 26 Cfr. L. La Rovere, Storia dei Guf., cit., p. 9. 27 A. Tarquini, Storia della cultura fascista, il Mulino, Bologna 2011, p. 373. 28 Cfr. B. Dalla Casa, Leandro Arpinati. Un fascista anomalo, il Mulino, Bologna 2013, p. 49. 25
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potevo immaginare, allora, che quattro anni dopo mi sarei trovato in un lager, quello di Weitzendorf, a un tiro di schioppo da un luogo che si chiamava Belsen 29.
Il settimanale «L’assalto» nel 1941 accompagna l’uscita bolognese del film di Harlan con due articoli e una recensione. Il titolo della pagina è: «Una efficace pellicola di profondo significato politico». Il primo articolo di Nino Gardini è una serrata difesa dell’importanza (e della veridicità storica) dei Protocolli di Sion. Grazie a Hitler e al nazionalsocialismo i Protocolli sono diventati il «breviario del popolo tedesco», e hanno svelato al mondo il complotto ebraico di dominio internazionale attraverso le plutocrazie, la massoneria e il bolscevismo. Il fine ultimo del «complotto giudaico» si articola in tre fasi. Con la «distruzione di tutto ciò che nei popoli non ebraici è tradizione, casta, aristocrazia, gerarchia, come pure di ogni valore etico, religioso, supermateriale». Con un’azione politica di diffusione della democrazia e del liberalismo. E, infine, con il supporto della cultura, intesa come dominio dell’insegnamento e monopolio della grande stampa. Queste sono le azioni alle quali fa ricorso la «razza maledetta». Il film di Veit Harlan, accolto con grande entusiasmo da parte del pubblico alla prima bolognese, fa onore alla Germania perché ha raggiunto la piena coscienza antigiudaica. In Italia si è ancora lontani da questo raggiungimento. Ma la guerra deve accelerare i tempi. L’articolo si chiude con un auspicio: Vorremmo che con frequenza fossero proiettati sugli schermi italiani film di propaganda antigiudaica, che la stampa dibattesse continuamente il problema giudaico. Verrà il giorno che, vinta la guerra, nella risoluzione integrale della questione ebraica in Europa, i giudei più o meno discriminati saranno per sempre banditi dalla nostra madre Italia 30.
Segue una recensione che ragguaglia il lettore sull’intreccio narrativo, l’importanza del film e la felice accoglienza dimostrata dal pubblico in sala 31. Il terzo articolo viene firmato da un giovane critico cinematografico destinato a diventare una colonna del giornalismo italiano, Marco Enzo Biagi (si firmava così e nel dopoguerra farà sparire il nome Marco, restando solo Enzo Biagi). Biagi parte dalla storia del cinema di Bardèche e
R. Renzi, Bastian contrario, in N. Ivaldi (a cura di), La prima volta a Venezia, cit., p. 28. N. Gardini, Coscienza antigiudaica, in «L’assalto», 4 ottobre 1941. 31 A. B., Rassegna cinematografica, in «L’assalto», 4 ottobre 1941. 29
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Brasillach 32. Eric Pommer, ebreo riparato negli Stati Uniti (definito dai due storici «il dittatore»), è stato il più dinamico produttore durante gli anni di Weimar, crogiuolo di un cinema talvolta eccellente nella forma «ma negativo nell’ispirazione [...] un cinema pessimistico, e a tendenze comuniste e, talvolta, antipatriottiche». L’arrivo al potere dei nazisti nazionalsocialisti 1933 segna l’inizio di un «nuovo tempo» e di un innovativo programma: «il cinema tedesco ai tedeschi». Nel nuovo corso quanti «rappresentano tendenze contrarie, gli ebrei che dominavano, i «dittatori» [Pommer], emigrano, i dissidenti cercano in altri lidi lavoro e ospitalità». Ora la produzione cinematografia risponde ad un imperativo categorico: «Duetschland über alles; la Germania soprattutto, la Patria al di sopra di ogni cosa». Ne è un esempio Süss, l’ebreo, «esaltazione e illustrazione intelligente della campagna razziale». Certo per Biagi si tratta di propaganda che non esclude l’arte – che è posta al servizio dell’idea – che ha per base la logica e la documentazione, che tiene conto anche dei minimi fattori psicologici, di ogni risorsa della tecnica. Guardate Süss, l’ebreo, questo film che ricorda certe vecchie efficaci e morali produzioni imperniate sul contrasto tra il buono e il cattivo, il retto e l’ingiusto, la cui conclusione era la vittoria dell’onesto, questa pellicola che anche se ha forme e immagini non totalmente originali, trascina il pubblico nell’entusiasmo [...]. Il caso dell’ebreo Süss è posto a indicare una mentalità, un sistema e una morale: va oltre il limite del particolare, per assumere il valore di simbolo, per esprimere le caratteristiche inconfutabili di una totalità. Poiché l’opera è umana e razionale incontra l’approvazione e raggiunge lo scopo: molta gente apprende che cosa è l’ebraismo, e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte, perché li trova illustrati con una efficacia che né il libro, il giornale o il teatro potrebbero avere 33.
Insomma, conclude Biagi, la Germania ha veramente raggiunto uno scopo notevolissimo: dotarsi di un cinema autenticamente nazionale, da esportare nel mondo intero. Il giorno prima, sul quotidiano bolognese «Il 32 Cfr. M. Bardèche - R. Brasillach, Histoire du cinéma, Denöel, Parigi 1935. Nel 1943 Bardèche e Brasillach pubblicano con lo stesso editore una seconda edizione, non solo ampliata, ma rivista con evidente spirito antisemita e «collaborazionista». Per un’analisi delle differenze tra le edizioni del 1935 e del 1943 cfr. C. Siniscalchi, Quando l’ideologia invade lo schermo. Histoire du cinéma di Maurice Bardèche e Robert Brasillach 1935-1943, in «Rivista di politica», 1, 2017. Histoire du cinéma nei vent’anni successivi alla seconda edizione verrà ripubblicata. Nel 1948 Bardèche vara la terza edizione, rivista per ovvi motivi soltanto da lui: cfr. M. Bardèche - R. Brasillach, Histoire du cinéma, Paris, Martel, 1948. 33 M. E. Biagi, Cinema tedesco cinema nazionale, in «L’assalto», 4 ottobre 1941.
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resto del carlino», è apparsa una breve recensione, nella rubrica «Prime visioni», sul film in uscita: Una pellicola interessante e intelligente come poche, in cui – al servizio di una grande idea: la lotta contro l’ebraismo – si sono posti i mezzi e le possibilità migliori del cinema, ricavandone un’opera in tutto degna delle tesi che sostiene. Una regia robusta e vigile, una interpretazione quanto mai misurata per commuovere ed entusiasmare, fanno di Süss, l’ebreo un film che segna una notevolissima tappa della cinematografia tedesca 34.
La programmazione al Cinema Teatro Sociale di Como del film di Harlan è annunciata da una grande pubblicità, dove si legge: È UN FILM DA VEDERE SUSS L’EBREO Caratteristica figura di affarista, inquadrata con splendida, pittoresca efficacia nell’opulenta corte settecentesca in cui SUSS L’EBREO realmente visse ed operò. Questo capolavoro segnerà il più grande successo dell’annata.
La recensione apparsa sul quotidiano «La provincia di Como» è stringata ma chiara: Süss, l’ebreo è della più palpitante attualità. Questo politicante senza scrupoli, abile, scaltro – ritratto più che di un uomo, di una razza – può somigliare ai tanti affaristi che ancor oggi tramano contro la pace del mondo. A Süss Oppenheimer, personaggio realmente esistito, la storia assegna infatti le caratteristiche più tipiche della razza: scaltrezza, avidità, simulazione [...]. Nel film la doppiezza, la ferocia, la viltà di Süss sono messi in grande risalto 35.
Anche Pietro Bianchi (che si firma con lo pseudonimo di Volpone) loda del film di Harlan la grande bravura degli attori: Questo Süss ha ben poco da spartire col romanzo (di un ebreo) da cui prende il nome. È una specie di sinopsi di tutte le malefatte del popolo eletto in terra tedesca, e Süss è il chiarissimo precursore di tutti quelli della sua razza i cui nomi nell’epoca prenazista si leggevano a migliaia sulle targhette di ottone dei quartieri eleganti di Berlino. Si intende che dal punto di vista dell’arte l’eccesso di malefatte di Süss toglie un poco alla sua concretezza di personaggio, e non è senza significato che il famulo Levi ed il rabbi raggiungano uno spessore molto più convincente 34 35
Vice, Süss, l’ebreo, in «Il resto del carlino», 3 ottobre 1941. Vice, Süss, l’ebreo, in «La provincia di Como», 3 ottobre 1941.
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ed addirittura rabelaisiano. È inutile aggiunge che in un’opera di tanto impegno ideologico sono stati profusi ingegno, trovate, gusto e accuratezza, e lo spettacolo, molto divertente, giustifica a pieno tutti gli sforzi 36.
La rivista «Cinema» è impegnata nel 1941 a sostenere l’importanza di Süss, l’ebreo e ad esaltare la forza della nuova cinematografia nazionalsocialista. In marzo vengono dedicate al film di Harlan due pagine, con varie foto corredate da appropriate didascalie e un commento redazionale. In una didascalia è lodato l’attore Werner Krauss («un maestro della caratterizzazione»). Nella presentazione viene ricordato che il film di Harlan è uno dei maggiori successi del cinema tedesco nell’anno scorso e in questo corrente; non solo in Germania ma anche a Venezia e a Parigi, oltre che nelle altre capitali di nazioni occupate. Rappresenta uno sforzo produttivo non comune, per la cura della ricostruzione e dell’ambientazione, per l’impegno di tutti i partecipanti al lavoro, per l’imponente complesso di attori. Alle opere di Feuchtwanger e di Hauff si sono ispirati gli sceneggiatori [...] aggiungendovi di loro un calore polemico di rara virulenza che magari, appunto per questo carattere troppo acceso, non sempre persuade e lascia allo spettatore, insieme con l’ammirazione, il dubbio che ne resti turbato il necessario equilibrio dell’arte. Ma è pure per questo calore piuttosto «wütend» che la ricostruzione supera i rigidi confini del film storico di normale fattura [...]. In questa nuova variazione della storia di Süss Oppenheimer, la figura perde quel che d’umano, bassamente umano, che trovavamo ancora in Hauff (per non dire di Feuchtwanger!), diventa un simbolo spietato e assurdo: ma l’abilità del regista Veit Harlan e la perfetta aderenza recitativa del magnifico Ferdinand Marian conducono in porto anche quest’orrorosa personalità di mostro bieco, tutto in nero, privata di ogni umano ausilio di chiaroscuri 37.
Giuseppe Isani nella rubrica delle novità cinematografiche (Film di questi giorni) recensisce Süss, l’ebreo partendo dal fatto che spesso la recitazione teatrale ha fatto male al cinema. Non è però il caso di Suss, l’ebreo, «che appartiene alla schiera dei più nutriti e forti prodotti della cinematografia tedesca», interpretato in gran parte da attori teatrali: Esso è però al cento per cento un’opera cinematografica, e del cinema porta con sé tutti i naturali attributi spettacolari e la avvincente rapida costruttività. Anni addietro la storia di Süss Oppenheimer venne a noi nella traduzione di un romanzo, allora in voga, di Feuchtwanger, e la figura penetrante e di intrigo del giudeo 36 37
Volpone (P. Bianchi), Süss l’ebreo, in «Il Bertoldo», 17 dicembre 1941. Articolo non firmato, Fiera delle novità. “L’Ebreo Süss”, in «Cinema», 116, 1941.
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di Francoforte entrò così nella romantica corrente con un suo particolare aspetto. Nel film di Veit Harlan, Süss Oppenheimer entra in scena in luce assai diversa da quella del romanzo, nella sua giusta luce, che ne rivela la esatta posizione storica e ne scopre la perfida macchinosità, simbolo delle terribili possibilità di una intera razza. Il film, quindi, più che la narrazione di un semplice episodio storico, vuole essere soprattutto un’opera di moralità, più ancora un’arma di difesa. Il compito per gli uomini che l’hanno diretto e realizzato non poteva essere più difficile. L’esagerare nelle tinte e nei toni, poteva significare il mostrare apertamente un partito preso; misura e aderenza storica dovevano essere assolutamente rispettate 38.
«Cinema» è impegnata a descrivere le novità tedesche. Un articolo di Massimo Mida chiarisce il punto di vista della testata su cosa è successo in Germania con l’arrivo al potere dei nazionalsocialisti. Il vecchio, grande cinema di Weimar, quello dei Caligari, Mabuse e Marlene Dietrich, è stato bloccato. Gli ebrei sono stati allontanati. Tutto sembrava sprofondare. Ma Goebbels con un’azione dapprima silenziosa, poi sempre più decisa e scoperta, pone le basi per la rinascita [...]. Il lavoro è dapprima duro, irto di ostacoli, qualche volta addirittura sconfortante. Ma Goebbels non cede: predica a più riprese l’avvento di un cinema che rispecchi l’animo tedesco; e che dia risalto alle virtù eroiche e guerriere del Reich [...]. Ora si cominciano a sentire i frutti di questo programma silenzioso e tenace 39.
Il film di propaganda nazionalsocialista viene a più riprese elogiato e ritenuto un modello da imitare 40. Nel gennaio 1941 Gianni Puccini si era recato con una delegazione a Berlino 41. Qualche mese prima su «Primato» (all’interno dello stesso numero in cui Bottai richiama la cultura all’interventismo), in occasione di una manifestazione svoltasi all’Istituto italiano di studi germanici di Roma, ha sottolineato la vicinanza tra i paesi fratelli (in cultura e adesso anche in guerra): «Ci si riconosce tutti partecipi d’una medesima cultura, latino-gotica, cioè universale, classica e romantica per dirla grosso modo; figli del medesimo continente, europei» 42. Nella trascrizione delle prime impressioni G. Isani, Film di questi giorni: Süss l’ebreo, in «Cinema», 126, 1941. M. Mida, Fronte germanico, in «Cinema», 96, 1940. 40 B. Matarazzo, I film tedeschi di propaganda, in «Cinema», 126, 1941. 41 Della delegazione fanno parte, oltre a Puccini per «Cinema», Filippo Sacchi («Corriere della sera)», Mario Gromo («La stampa»), Sandro De Feo («Il messaggero»), Ercole Patti («Il popolo di Roma»), Fabrizio Sarazani («Il giornale d’Italia»), Arnaldo Frateili («La tribuna»), Mino Doletti («Film»). 42 G. Puccini, Introduzione alla Germania, in «Primato», 7, 1940. 38 39
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del suo «viaggio breve» nella Germania hitleriana, il giovane critico registra «la terrestre e rumorosa vitalità di Berlino che la guerra non ha fermato» 43. Nel numero successivo Puccini afferma che il cinema americano – ne è sicuro! – «non ci sembra né in progresso né in regresso», mentre «in Europa, i mezzi e l’attività del cinema italiano e di quello tedesco, offrono in questo momento le manifestazioni più vive nel campo del film». Puccini rammenta le ben note riserve espresse con insistenza dalla rivista sulla produzione cinematografica italiana, che comunque a suo avviso ha fatto recentemente «notevoli passi avanti». Ma il cinema tedesco, per qualità – soprattutto qualità media – gli è superiore 44. In una successiva riflessione sottolinea l’importanza dell’organizzazione industriale: «otto anni fa si fece un violento ripulisti». Ora, la cinematografia del 1941 gli appare florida e operosa: «Oggi il palazzo maestosamente ribattuto s’erge incrollabile» 45. Del resto alla «Mostra di guerra» la produzione tedesca aveva suscitato «impressioni di risoluta efficienza», convincimento non solo confermato ma ulteriormente rafforzato a contatto diretto con la vitalità delle produzioni in cantiere. «Il cinema tedesco – scrive Puccini su «Bianco e nero», tracciando una panoramica della situazione generale del cinema nel 1940 – è rinato dalle sue stesse ceneri [...] l’araba fenice è risorta sul mucchietto grigio delle ceneri» 46. Puccini durante il soggiorno berlinese ha avuto modo di visionare la lavorazione de Il grande re di Veit Harlan, e di incontrare il regista, il quale ha tracciato un parallelo tra la guerra dei «sette anni» raccontata dal film e la guerra attuale, quindi tra Federico II e Hitler: «come Hitler – avrebbe dichiarato Harlan, e ci sono pochissimi dubbi sull’autenticità del parere raccolto dal giornalista italiano 47 – Federico era un grande artista che non aveva una vita privata» 48. Del resto, Il grande re è un film di propaganda costruito a tavolino 49. In occasione dell’anteprima nel 1942
G. Puccini, Via di Borea, in «Cinema», 110, 1941. G. Puccini, Programma di un viaggio, in «Cinema», 111, 1941. 45 G. Puccini, Sguardi al cinema tedesco, in «Cinema», 111, 1941. 46 G. Puccini, Il cinema nel 1940, in «Bianco e nero», 4, 1941. 47 Nelle memorie Harlan si ritiene anche in questo caso una vittima di Goebbels, che prima gli ordinò di girare il film e poi lo bloccò e modificò, ritenendolo «politicamente inaccettabile»: cfr. V. Harlan, «Der Große König» wird verboten, dann geändert, in Id., Im Schatten meiner Filme, cit., pp. 135-139. 48 G. Puccini, Esemplari freschi, in «Cinema», 112, 1941. 49 Cfr. D. Welch, Propaganda and the German Cinema, cit., pp. 174-185. 43 44
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Goebbels raffigurò Hitler come un moderno Federico il Grande, isolato in una regale distanza, intento a condurre una lotta eroica, e a dispetto di tutti vittoriosa, lontano dalla patria e per il bene della nazione e del popolo 50.
Per Glauco Viazzi il rinnovamento delle strutture scricchiolanti del vecchio stile cinematografico germanico è coinciso con un momento politico «eccezionalmente felice» 51. Nel numero che chiude l’annata 1941, Massimo Mida e Fausto Montesanti tracciano un bilancio sul cinema europeo, compito difficile dati i tempi di guerra. Della produzione tedesca rilevano ancora una volta l’importanza, e annoverano fra i titoli più interessanti del nuovo corso Süss, l’ebreo, prodotto «di carattere spettacolare e propagandistico dettato da ragioni politiche». Per i due critici Si può in sostanza affermare che l’industria tedesca – a servizio diretto dello Stato e delle ideologie naziste – si va sempre più orientando verso una livellazione dei valori tradizionali, assumendo come tema e come assunto centrale una tendenza che faccia risaltare la concezione unitaria ideologica del nazionalsocialismo: la quale contiene in sé una visione nuova in corrispondenza dei concetti e delle dottrine che muovono ormai lo spirito della nazione 52.
Quindi per il critico di «Cinema», ad evitare il «partito preso» (dell’antisemitismo) sarebbe stato l’eccellente lavoro degli sceneggiatori, oltre naturalmente alla regia di Harlan: Per questo Süss, l’ebreo è risultato un’opera in ogni caso ragguardevole, anzi fra le migliori che la moderna cinematografia germanica abbia prodotto. L’ambiente e la sontuosità di una piccola corte settecentesca sono stati ricostruiti con accurata perizia e, come facile riscontare, con assoluto rispetto di una fedeltà storica delle costumanze e degli usi, che fa pensare alla rievocazione documentata di un serio libro di storia 53.
Un serio libro di storia per immagini Süss, l’ebreo. Una storia manipolata. Una storia antisemita.
I. Kershaw, Il «mito di Hitler», cit., p. 181. G. Viazzi, Caratteri nuovi del cinema tedesco, in «Cinema», 121, 1941. 52 M. Mida - F. Montesanti, La produzione estera, in «Cinema», 132, 1941. 53 G. Isani, Film di questi giorni: Süss, l’ebreo, in «Cinema», 126, 1941. 50 51
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indice dei nomi
Acerbo G. 110 Alessandrini G. 146 Alfassio Grimaldi U. 126-128 Alfieri V. 116 Amann F. 19 Antona A. 33 Antoni C. 166 Antonioni M. 9, 156, 165, 175-176 Arendt H. 99 Aristarco G. 9, 149, 162, 175 Arpinati L. 186 Astaire F. 153
Blystone J.G. 22 Blok A. 106 Blücher G.L.von 152 Blum L. 101, 103 Bodda P. 126 Bois K. 26 Bombacci N. 148 Bottai G. 96, 127, 130, 177, 184-185, 191 Bragaglia A.G. 107 Brasillach R. 188 Brecht B. 41 Burckhardt J. 7
Baarová L. 59-60 Balabanoff A. 95-96 Balbo I. 108 Balzac H.de 12 Bakunin M. 139 Bardèche M. 187 Bassermann A. 57 Belardelli G. 167 Belloc H. 114 Beltrame A. 160 Bendiscioli M. 114-115 Benedetti A. 171 Benigni U. 122 Biagi E. 9, 187-188 Bianchi P. 9, 189 Bismarck O.von 114 Byron G.G. 156
Caffi G.A. 168 Cagney J. 153 Càllari F. 142, 170, 174 Camerini M. 161 Campanini L. 165 Campogalliani C. 161 Cantimori D. 138 Caracciolo A. 128-129 Carli M. 106, 142-143 Cazzani G. 123 Céline L.F. 107, 154 Cerchio F. 156 Chamberlain H.S. 77-78, 87, 100, 139, 142 Chaplin C. 54, 145-146, 153-155 Chiarini L. 9, 136-137, 144, 147, 150, 178
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196 Cohn H. 52 Churchill W. 15, 56, 159 Ciano G. 101 Cini V. 162 Cogni G. 104, 137-144 Collotti E. 99 Conan Doyle A. 55 Conway J. 23 Cordovani M. 139-140 Croce B. 7, 13 Crawford J. 153 Curtiz M. 55 Dal Cer F. 183 Dalla Torre G. 178 D’Annunzio G. 95, 144, 149-150, 157, 168, 172 Dante 116 Darwin C. 86 De Felice R. 8-9, 93-94, 98, 103, 113, 115, 135 De Feo S. 163, 173 De Grazia V. 17 De Michelis C.G. 94 De Rosa G. 131-132 De Ruggero G. 138 De Stefani A. 159, 173 Dieterle W. 26 Dietrich M. 26, 156, 181 Dietrich O. 23 Dinter A. 77 Disney W. 30 Doletti M. 144, 149, 156, 165 Drumont É. 37 Duse E. 95 Eckart D. 73-74 Ejzenštejn S.M. 24, 62 Elter M. 147 Emanuele Filiberto di Savoia 116 Evola J. 105-106, 138, 142, 182 Factor M. 148
indice dei nomi
Fairbanks D. 153 Falconi D. 168 Falqui E. 156 Fanelli G.A. 142-143 Farinacci F. 97, 124-125 Federico II di Prussia 23, 60, 62, 192193 Federzoni L. 107 Ferdinando di Savoia-Genova 162 Ferro. M. 7 12, 40, 92 Feuchtwanger L. 48-50, 65, 133, 167168, 170, 173-175, 177, 190 Feuchtwanger M. 49 Fichte J.G. 106 Finzi A. 95 Florath A. 69 Ford H. 31, 33-34, 36, 38-39 Fouché J. 33 Fox W. 52, 148 Frateili A. 174 Freddi L. 136, 162 Fröhlich G. 59 Fulchignoni E. 155, 164 Gable C. 53, 145 Gayda V. 167 Galileo 116 Gallian M. 157 Gallone C. 144, 161, 182 Garbo G. 25 Gardini N. 187 Genina A. 161 Gentile E. 94 Gentile G. 100, 137-138, 141-143, 166 Gemelli A. 114, 124, 127 George H. 63, 66, 175 Gerbi S. 119 Gerson D. 56 Gioberti V. 142 Giolitti G. 136, 146 Gyssling G. 54 Gobineau A.de 87, 100 Goebbels M. 59
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indice dei nomi
Goebbels J. 12, 15-16, 18-29, 31-32, 3537, 42, 47, 49, 52-54, 56, 58-65, 90, 152, 162, 164, 168, 176, 191, 193 Gomez de la Serna R. 150 Göring H. 31, 57, 61, 66 Goulding E. 25 Gravelli A. 111 Gregor A.J. 95 Griffin R. 19 Griffith D.W. 7 Gromo M. 9, 149-150, 163, 174 Gründgens G. 58
197 Krauss W. 67, 175, 190 Kuliscioff A. 95
Jæger M. 66 Jannings E. 59 Jünger E. 41
Laemmle C. 52-53, 148 Landra G. 104, 144 Lang F. 24, 25-26, 40-42, 55 Lapouge G.V.de 100 La Rovere L. 128 Lassalle F. 139 Laughton C. 151 Laurel S. 22 Leander Z. 76 Leigh V. 151 Leonardo 116 Leone XIII 113 Lelj M. 142 Lempicka T.de 30 Lenin V.I. 73, 139 Leone E. 102 Lessing G.E. 87 Levorato A. 172 Liebeneiner W. 152 Litvak A. 54 Liucci R. 130 Lizzani C. 9, 181, 183 Loew M. 148 Longanesi L. 171 Loos T. 67 Lorre P. 26, 39-40, 42 Lowry S. 17 Lubitsch E. 26 Ludendorff E. 61 Ludwig E. 100 Lumière A. 147 Lumière L. 147 Lutero 8, 70, 73, 139
Karl Alexander di Württemberg 8, 47 Kershaw I. 35, 43 Klöpfer E. 66 Knopp G. 61 Körner H. 56 Kracauer S. 7
Maccari M. 138 Maggi S. 124 Malaparte C. 142 Marx K. 139 Mida M. 193 Mayer L. 16, 52
Harbou T.von 24 Hardy O. 22 Harlan T. 56 Hauff W. 48, 65, 175, 177, 190 Hawks H. 23 Helbig H. 33 Hillgruber A. 79 Himmler H. 59, 74, 91 Hippler F. 34-35, 37, 42, 44 Hitler A. 18, 20-23, 29-35, 40-41, 4344, 49, 53, 56-57, 59-61, 73-74, 77, 81, 85, 87-89, 93-94, 98, 106, 109, 114, 118, 120, 144, 186, 192-193 Innocenzo III 124 Interlandi T. 13, 106-107, 116, 136, 142-143 Isani G. 190 Israel G. 97
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198 Mamoulian R. 145 Mann K. 58 Marconi G. 116 Marian F. 66-67, 155, 169, 175-176, 190 Marinetti F.T. 95 Marr W. 12 Marx C. 145 Marx Groucho 145 Marx Gummo 145 Marx K. 139 Marx Z. 145 Mastrocinque C. 161 Matarazzo B. 173 Matteotti G. 95 Mattoli M. 161 Mazzini G. 139 Méliès G. 147 Mendes L. 49-51, 73, 167 Meneghini M. 163, 178-179 Metzger L. 65 Miccoli G. 113, 120 Mida M. 191 Michelangelo 144 Milani M. 179 Milestone L. 52 Mitchell M. 53 Möller W.E. 65 Monaco E. 162 Moncalvi M. 169 Montanelli I. 157 Montesanti F. 194 Momigliano E. 98 Moretti T. 176 Moro R. 113, 117, 121 Mosè 73 Mosse G.L. 39, 85, 95 Munch E. 19 Murnau F.W. 75 Murri R. 122 Mussolini A. 96, 184 Mussolini B. 93, 95-98, 100-103, 109110, 116, 120, 124, 135, 143, 148149, 157
indice dei nomi
Mussolini R. 96 Napoleone 33, 63, 152 Neil R.W. 55 Noris A. 172 Ojetti U. 149 Olivelli T. 125-129, 131 Olivetti A.O. 102 Ophüls M. 26 Oppenheimer J.S. 47, 50, 67, 133, 166, 189-191 Orano P. 101-106, 113, 116 Orazi V. 162 Ovazza E. 102-103 Pabst G.W. 15, 26, 145 Palermi A. 161 Palmieri E.F. 164-165, 169 Pancho Villa 23 Pancrazi P. 149 Pannunzio M. 171 Paolella D. 144-148 Pavolini A. 130, 161-162, 164 Patti E. 172 Paulus F. 61 Paxton R.O. 95 Pellizzi C. 126 Pennisi P. 125, 182 Petacci C. 97-98 Pettinato C. 159 Pincherle A. 100 Pio XI 119-120, 123 Pio XII 119-121 Pini G. 149 Pinsker J. 104 Piscator E. 56 Piovene G. 107 Poliakov L. 29, 90 Pommer E. 188 Pound E. 173 Preziosi G. 13, 99, 104, 111, 121-122 Prezzolini G. 95
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indice dei nomi
Proust M. 7 Puccini G. 191-192 Quilici N. 107-108 Ramperti M. 148-157 Rathenau W. 48 Ravenna R. 108 Rebatet L. 51, 155 Reeves M. 154 Reinhardt M. 49, 56 Reiner L. 145 Renoir J. 146 Renzi R. 186 Remarque E.M. 52-53 Rentschler E. 75 Ricci B. 138 Riefenstahl L. 8, 27, 30-31 Roehler O. 176 Romano S. 122 Roosevelt F.D. 54 Rossi A. 175 Rosenberg A. 32, 59, 105-106, 111, 115, 118, 138-139, 141-142, 152 Rothschild A. 37 Rothschild M.A. 37 Rothschild N. 33, 37 Rothschild J. 37 Rothschild S. 37 Sacchi F. 149-150, 162-163, 171 Sadoul G. 16 San Francesco 116 San Paolo 74 San Tommaso 126 Santarelli E. 129 Sarfatti Margherita 95-97 Sarfatti Michele 99 Schmidt G. 116 Schuster I. 123 Schütz W.von 18 Sciascia L. 150 Selznick D.O. 16
199 Serra G. 167 Settimelli E. 106 Shirer W. 35, 53 Signoretti A. 159 Singer C. 75 Siodmak R. 26 Söderbaum K. 56, 62, 66, 76, 169, 175 Soffici A. 142 Sonnemann E. 57 Sorlin P. 25 Sottochiesa G. 116 Spinetti G.S. 126 Spinosa A. 95, 102 Spirito U. 138 Speer A. 30 Spengler O. 18, 139 Sternberg J.von 26, 145-146 Stoker B. 75 Strasser G. 18 Streicher J. 57, Stuart Hull D. 51 Sturzo L. 131 Taft R.A. 54 Tamaro A. 150 Tarantino Q. 15, 18 Tarquini A. 186 Thiele W. 55 Titta Rosa G. 149 Tournier M. 57-58 Trenker L. 25 Trilling L. 12 Tripodi N. 126 Turati F. 95 Ucicky G. 161 Ulmer E. 26 Urwand B. 53 Vacher de Lapouge G. 86-87 Van Gogh V. 19 Vargas Llosa M. 12 Vecchietti G. 177
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200 Veidt C. 26, 49-50 Ventura A. 113 Verdi G. 116, 170 Verdone M. 149 Viazzi G. 193 Viviani C. 166, 170 Volpi di Misurata G. 160 Volpicelli A. 138 Warner J.L. 54-55 Waschneck E. 33-34 Weissmuller J. 55 Wellington A.W. 33, 152 Werker A.L. 37, 52, 151 Wiene R. 50
indice dei nomi
Wilder B. 26 Woltmann L. 100 Young L. 156 Zangrandi R. 130 Zanuck D. 51 Zavattini C. 150 Zecca F. 148 Zeisler A. 18 Zerlett H.H. 32 Zorzi E. 177 Zukor A. 148 Zunino P.G. 129
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cultura studium Nuova serie
ultimi volumi pubblicati 100. Giuseppe Dalla Torre, La Chiesa e gli Stati. Percorsi giuridici del Novecento 101. Antonio Sabetta, Un’idea di teologia fondamentale tra storia e modelli. Prefazione di Giuseppe Lorizio 102. Silvia Inaudi - Marta Margotti (edd.), La rivoluzione del Concilio. La contestazione cattolica negli anni Sessanta e Settanta 103. Thomas More, La sobria allegria. Fantasie, scherzi e racconti. A cura di Giuseppe Gangale 104. Giuseppina Vitale, L’anima in fabbrica. Storia, percorsi e riflessioni dei preti operai emiliani e lombardi (1950-1980). Prefazione di Marta Margotti 105. Giuseppe Bertagna - Simonetta Ulivieri (edd.), La ricerca pedagogica nell’italia contemporanea. Problemi e Prospettive. Con la collaborazione di Fabio Togni 106. Marco Lazzari, Istituzioni di tecnologia didattica 107. Giuseppe Bonfrate - Humberto Miguel Yáñez SJ (edd.), Amoris laetitia: la sapienza dell’amore. Fragilità e bellezza della relazione nel matrimonio e nella famiglia 108. Fiammetta D’Angelo, La grande guerra di Clemente. Itinerarium Poësis in Deum. Introduzione di Gianni Mussini 109. Tamar Grdzelidze (ed.), Roma e i georgiani. Le relazioni diplomatiche tra la Georgia e la Santa Sede (1992-2017) 110. Luigi Picardi, Le Regioni alla Costituente. Il «caso» Molise (1946-1947) 111. Francesco Bonini - Tiziana Di Maio - Giuseppe Tognon (edd.), L’Italia europea. Dall’Unificazione all’Unione
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112. Francesco Magni, Dall’Integrazione all’Inclusione. Il nuovo profilo del docente di sostegno 113. Gilfredo Marengo, Chiesa senza storia, storia senza Chiesa. L’inattuale “modernità” del problema chiesa-mondo 114. Maria Chiaia, Protagoniste nascoste. Donne cattoliche, società, politica nella prima metà del Novecento. Presentazione di Maria Pia Campanile Savatteri. Introduzione di Matteo Truffelli 115. Pierre Aubenque, La prudenza in Aristotele. Prefazione di Enrico Berti. Traduzione di Faber Fabbris. Con un’intervista inedita all’autore 116. Vincenzo Filippone-Thaulero, Il darsi dell’origine nell’esperienza sociale e religiosa. Scritti sociologici. Opera omnia Filippone-Thaulero / 1, Presentazione di Vincenzo di Marco. Introduzione di Rocco Pezzimenti 117. Alberto Monticone - Mario Tosti (edd.), Europa mediterranea. Studi di storia moderna e contemporanea in onore di Angelo Sindoni 118. Bruno Luiselli, Gustav Mahler e l’incontro mistico di poesia e musica. Morte, risurrezione, dolore, amore, estasi 119. Fabio Corigliano, I nodi della trasparenza. Prefazione di Paolo Savarese 120. Roberto Regoli - Paolo Valvo, Tra Pio X e Benedetto XV. La diplomazia pontificia in Europa e America Latina nel 1914 121. Massimo Bucarelli - Luca Micheletta (edd.), Andreotti, Gheddafi e le relazioni italo-libiche 122. Marialuisa Lucia Sergio, La diplomazia delle due sponde del tevere, Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975) 123. Ugo Frasca, Fascismo, Comunismo e Guerra Fredda. Attenzione dell’Italia e diplomazia vaticana in Albania, Romania, Ungheria (19471954). Presentazione di Giuseppe Ignesti 124. Massimo Zorzin, Il cardinale Juan Landázuri Ricketts. La Chiesa Peruviana e Latinoamericana nel periodo del Concilio Vaticano II. Prefazione di Philippe Chenaux 125. Cristina Casaschi, La «maestria» didattica nella scuola primaria 126. Adolfo Scotto Di Luzio (ed.), Crisi della storia, crisi della verità. Saggi su Marrou 127. Ashley Rogers Berner, Non scuola ma scuole. Educazione pubblica e pluralismo in America. Introduzione e traduzione di Francesco Magni
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128. Vincenzo Filippone-Thaulero, Max Scheler. Fenomenologia della persona. Opera omnia Filippone-Thaulero / 2, Presentazione di Vincenzo di Marco. Introduzione di Giovanni Ferretti 129. Cosimo Costa (ed.), Costruirsi nel dialogo. La proposta educativa di Edda Ducci. Postfazione di Francesco Mattei 130. Francesca Baresi - Laura Montagnoli, Istituzioni di matematica. Teorie e attività per la scuola dell’infanzia e per la scuola primaria 131. Giuseppe Gangale, Henry Patenson. Il buffone di sir Thomas More 132. Erasmo da Rotterdam, In attesa dell’aldilà. Traduzione e cura di Luciano Paglialunga 133. Cinzia Bearzot - Alberto Barzanò, Istituzioni di storia antica. Dalla preistoria all’espansione araba 134. Giuliana Sandrone, La competenza personale tra formazione e lavoro 135. Calogero Caltagirone, Responsabilità etica del filosofare. “Alfabeti” per un ethos condiviso 136. Francesco Magni, La sfida del “caso” Inghilterra. Formazione iniziale e reclutamento dei docenti 137. Mario Martinelli, La mediazione pedagogica. Un percorso da Socrate a Reuven Feuerstein 138. Augusto D’Angelo - Mario Toscano (edd.), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978) 139. Giuseppe Bertagna (ed.), Educazione e formazione. Sinonimie, analogie, differenze 140. Massimo Zorzin, Giovanni Battista Montini: un’idea di chiesa, le sue chiese. Il «Piano» per la costruzione delle «ventidue nuove chiese del Concilio» a Milano. Prefazione del Card. Giovanni Battista Re 141. Emilia di Rocco - Elena Spandri (edd.), Mondi di fede e di invenzione. Intersezioni tra religione e letteratura 142. Bruno Rossi, Il potere dell’educazione 143. Emanuele Bernardi, Giovanni Marcora visto da Washington. Il ministro dell’agricoltura nelle carte americane (1974-1979). Presentazione di Gianni Mainini 144. Francesca Bocca-Aldaqre, Un Corano che cammina. Fondamenti di pensiero educativo, didattica e pedagogia islamica 145. Stefano Biancu (ed.), Riforma e modernità. Prospettive e bilanci a 500 anni dalle Tesi di Lutero
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146. Sofia Alunni, Secolarizzazione gioachimita e teologia politica. Il messianismo di Giuseppe Mazzini. Prefazione di Massimo Borghesi 147. Antonio Russo, Walter Kasper. Cattolicismo vivente sotto la parola di Dio. Con una lettera all’autore di Walter Kasper 148. Angelomichele De Spirito, Niccola Nisco. Una vita per la patria e l’amore coniugale 149. Giuseppe Mari, Competenza educativa e servizi alla persona. Prefazione di Giuseppe Vico 150. Vincenzo Filippone-Thaulero, Max Scheler. Rivelazione, religione, visione del mondo. Opera omnia Filippone-Thaulero / 3, Presentazione di Vincenzo di Marco. Introduzione di Giovanni Ferretti 151. Jean Piaget - Evert Willem Beth, Epistemologia matematica e psicologia. Ricerca sulle relazioni tra la logica formale ed il pensiero reale. Traduzione a cura di Emilio Gattico 152. Madre M. Vojtěcha Hasmandová SCB, «Sono nel palmo della mano di Dio». Lettere dal carcere. A cura di Sr. Remigie Anna Češíková. Traduzione di Anežka Žáková 153. Benigno Zaccagnini, Le radici della speranza. Lettere scelte di un credente prestato alla politica. A cura di Aldo Preda. Con scritti di Guido Bodrato, Pierluigi Castagnetti, Erio Castellucci 154. Sebastiano Serafini, La bioetica in Italia. Da una storia di battaglie etico-politiche a spiragli di dialogo tra pensiero cattolico e pensiero laico 155. Barbara Marchica, Identità e finalità del Personal Counseling. L’interazione tra la teoria di Lonergan e la pratica pastorale. Analisi di un caso individuale e di gruppo. Prefazione di Andrea Toniolo. Postfazione di Gerard Whelan 156. Philippe Chenaux - Christian Sorrel (edd.), Le Saint-Siège, les églises et l’Europe / La Santa Sede, le chiese e l’Europa. / Études en l’honneur de / Studi in onore di Jean-Dominique Durand 157. Rocco Pititto, Metafore dell’esistenza e desiderio di salvezza. Un viaggio interiore 158. Attilio Nicora, Stare con il Signore, andare verso i fratelli. Scritti sulla presenza pubblica della Chiesa e dei cattolici. Prefazione del card. Pietro Parolin 159. Pasquale Bua (ed.), Roma, il Lazio e il Vaticano II. Preparazione, contributi, recenzione. Presentazione del card. Angelo De Donatis 160. Martin Lutero, Confessione sulla cena di Cristo. A cura di Antonio Sabetta. Postfazione di Giuseppe Lorizio
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161. Federica Maveri, Donne inquiete. Cattoliche nel primo Novecento. Prefazione di Edoardo Bressan 162. Patrizia Moretti (ed.), La carità, motore di tutto il progresso sociale. Paolo VI, la Populorum Progressio e la FAO 163. Emilia Palladino - Humberto Miguel Yáñez (edd.), La famiglia a cinquant’anni da Humanae Vitae. Attualità e riflessione etica 164. Maria Eletta Martini, Con ispirazione cristiana nella realtà sociale. Articoli pubblicati sulla rivista «Regnum Christi» dal 1946 al 2006. A cura di Lorenzo Maffei 165. Vittore Mariani - Marisa Musaio (edd.), Pedagogia, relazione d’aiuto e persona anziana. L’accompagnamento personalizzato nelle residenze 166. Elio Damiano, Battista Orizio, Evelina Scaglia, I due popoli. Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico 167. Miguel Cuartero Samperi, Tommaso Moro. La luce della coscienza. Prefazione del card. Robert Sarah. Postfazione di Elisabetta Sala 168. Nicholas Joseph Doublet, A politics of peace. The Congregation for Extraordinary Ecclesiastical Affairs during the pontificate of Benedict XV (1914-1922) 169. Luca Gallizia, La missione dell’università di fronte alla sfida della modernità. Riflessioni alla luce del pensiero di Giambattista Vico nelle Orazioni inaugurali. Prefazione di Giuseppe Mari 170. Fabio Togni (ed.), Giovanni Gentile e l’umanesimo del lavoro 171. Massimo Saba, Santa Sede e Stati Uniti (1797-1942). Prefazione di Giuseppe Dalla Torre 172. Marco Ranica, L’intransigenza nella Curia. Il cardinale Francesco Luigi Fontana (1750-1822) 173. Sonia Claris, L’ABC. Approcci metodologici all’insegnamento della lingua italiana 174. Emanuela Guarcello, Le azioni della pazienza. Impegnare, esplorare, osare 175. Carlo Cardia - Giuseppe Dalla Torre (edd.), Attilio Nicora. Pastore e diplomatico. Sana cooperatio tra Stato e Chiesa, Atti del Convegno, Roma, Palazzo della Cancelleria, Sala del Vasari, 25 ottobre 2018 176. Ermanno Puricelli, La valutazione fattoriale. Strumenti e pratiche per osservare e valutare le competenze 177. Marta Margotti (ed.), Cattolici del Sessantotto. Protesta politica e rivolta religiosa nella contestazione tra gli anni Sessanta e Settanta 178. Erasmo Da Rotterdam, Carme alpestre. A cura di Luciano Paglialunga
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179. Ilaria Lasagni, La Nuova Italia di Mussolini in Cina (1927-1934) 180. Carla Xodo, Agricoltura contadina e lavoro giovanile. Ruolo pedagogico delle fattorie didattiche e sostenibilità ambientale 181. Andrea Marrone, «Il progresso dell’istruzione ha bisogno di libertà». I cattolici e la questione scolastica in Italia tra Otto e Novecento. Prefazione di Giorgio Chiosso 182. Matteo Carnì (ed.), Santa Sede e Stato della Città del Vaticano nel nuovo contesto internazionale (1929-2019) 183. Endre Von Ivánka, Roma, Bisanzio, Mosca. Le concezioni di “impero” e di “popolo di Dio” nello sviluppo culturale dell’Europa orientale. A cura di Michael Konrad. Traduzione di Ida Soldini 184. Giovanni Barracco, Vocazioni irresistibili, vuoti vertiginosi. Il romanzo di formazione negli anni Ottanta del Novecento 185. Calogero Caltagirone, Il “desiderio di essere”. Per un’“etica del compimento” 186. Renato Moro, Il mito dell’Italia cattolica. Nazione, religione e cattolicesimo negli anni del fascismo 187. Francesco Magni, Formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti in Italia. Percorso storico e prospettive pedagogiche 188. Federica Ricci Garotti (ed.), Dialogo sul CLIL tra scuola e università. Studi di caso in Content and Language Integrated Learning 189. Laura Palazzani, Tecnologie dell’informazione e intelligenza artificiale. Sfide etiche al diritto 190. Angelo Tumminelli, Martin Buber a Firenze. Dallo studio del Rinascimento al dialogo con Giorgio La Pira 191. Giacomo Ghedini, Da schiavo a missionario. Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den (1860-1900). Presentazione di Giampaolo Romanato. Nota introduttiva dei Missionari Comboniani 192. Angelo Moioli - Letizia Pagliai (a cura di), Jacopo Mazzei. Il dovere della politica economica 193. Adriana Lafranconi, Apprendere a leggere e scrivere. Come e perché 194. Pierfrancesco Stagi, L’homo religiosus. Forme e storia 195. Andrea Cegolon, Oltre la disoccupazione 196. Claudio Siniscalchi, «Ben venga la propaganda». Süss, l’ebreo di Veit Harlan e la critica cinematografica italiana (1940-1941). Prefazione di Francesco Perfetti
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Stampa: MEDIAGRAF - Noventa Pad. (PD)
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