Manzoni e la critica
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Lanfranco x

Caretti

COLLEZIONE

METROPOLITAN'

TORONTO LIBRARY Languages

NUOVA

SCOLASTICA SERIE

LANFRANCO

MANZONI

EDITORI

CARETTI

E LA CRITICA

LATERZA

1973

ta

ata Proprietà letteraria riserv ari li S.p.A., Roma-B

Fig Gius. Laterza & "1° € 21:0015:0)

FEB2/6 19800

3

PREMESSA

Questa antologia della critica manzoniana si divide in due parti distinte, ma tali tuttavia da potersi integrare tra loro vantaggiosamente. Nella prima parte, la saggistica in senso

stretto (tra la più qualificata, per originalità e aggiornamento metodologico, o almeno la più informata e immediatamente

rispettivamente Manzoni,

utile)

dedicate

è distribuita

al

noviziato

in tre

sezioni

poetico

del

alla grande lirica sacra e civile e al teatro,

e infine al romanzo nei suoi molteplici aspetti, storici e letterari. In questa prima parte, l’intento è prevalentemente « didattico », e quindi la successione delle pagine scelte coincide con lo svolgimento. della carriera artistica dello scrittore, che è dunque il vero protagonista delle tre sezioni: dalle prime prove poetiche, dipoi rifiutate, sino all'alta esperienza dei Promessi Sposi. E tuttavia i brani qui rappresentati, al di là della loro funzionalità pratica, illustrativa e interpretativa, tendono anche a testimoniare, soprattutto nella sezione dedicata al romanzo, il maturarsi storico dei problemi critici intorno al Manzoni: dai grandi saggi del De Sanctis alla polemica crociana e postcrociana, alle note gramsciane e agli esiti più recenti, tra conclusioni storicistiche

e indagini linguistiche e stilistiche. Nella seconda parte, dove sono raccolti giudizi di

6

PREMESSA

scrittori italiani e stranieri sul Manzoni (dal Foscolo a Carlo Emilio Gadda: dal 1826 al 1960), l'ordine delle pagine è invece quello della loro prima stesura o stampa, indipendentemente dall’argomento. Questa volta dunque i protagonisti sono proprio î

lettori, sia pure

questi eccezionali

lettori, ora con-

senzienti ed ora diffidenti, che con i loro interventi,

oltre ad arricchire con fertili illuminazioni critiche la prima parte del volume, registrano significativamente le reazioni di gusto e di umore, di poetica e di ideologia, che il Manzoni è venuto via via susci-

tando attraverso i tempi: dal primo Ottocento al Novecento. Il curatore del presente volume, oltre alla scelta e all'ordinamento dell’opera, necessariamente selettiva,ha anche « antologizzato » se stesso, ma nel modo più discreto ovviamente, adoperando sue pagine precedenti per costituire le note informative e di primo orientamento critico che introducono, anonimamente e in corsivo, ciascuna delle tre sezioni della prima parte. LANFRANCO

CARETTI

Parte Prima

MANZONI E I CRITICI

I

fe

: 33, O A

IL NOVIZIATO

POETICO

II noviziato poetico del Manzoni è lungo e labo. rioso: dal 1801 sino alla vigilia della conversione religiosa, cioè sino al poemetto Urania che è del 1809. Quasi un decennio, dunque, in cui il nostro scrittore è venuto sempre meglio assorbendo la tradizione letteraria, classica e moderna, e ha approfondito i temi della propria meditazione interiore. I testi di ‘questo periodo sono tuttavia per la maggior parte spe-

rimentali e i veri valori poetici vi sono infrequenti e comunque mai rilevanti. Tanto è vero che il Manzoni stesso ha in seguito rifiutato le liriche degli anni giovanili, e non solo per il diverso spirito che le animava rispetto a quelle che seguirono la conversione, ma anche e soprattutto per la loro acerbità e provvisorietà artistica. Come si presenta la primissima produzione poeti-

ca del Manzoni? Diremo sommariamente: un ingenuo e spesso poco controllato umore polemico, di ascen° denza razionalistica, per non dire addirittura giacobina,

in

ogni

modo

antitirannico

e

anticlericale,

espresso con impeto appassionato in forme stilistiche ancora legate alla tradizione letteraria antica e recente. Così appare il poemetto di quattro canti in terzine Il trionfo della libertà, composto nel 1801 secondo il modello delle « visioni » montiane e in cui | è espressa dantescamente l’esecrazione sdegnosa per

10

MANZONI

E I CRITICI

la tirannide religiosa e per quella politica ed è invece esaltata la nuova libertà a cui il poeta incita la propria terra, la Lombardia; come pure il sonetto Capel bruno:

alta fronte;

occhio

loquace,

ricalcato

a sua volta sul celebre « autoritratto » dell’Alfieri, ma dove è appena leggibile l’incerta e impacciata presentazione di un giovane desideroso di gloria (La gloria amo...) e ancora dubbioso del proprio destino (gli uomini e gli anni mi diran chi sono). Nonostante gli evidenti prestiti danteschi, alfieriani e foscoliani, più interessanti risultano il sonetto dedicato a Francesco Lomonaco nel 1802 e l'ode Qual su le Cinzie cime, che è del 1803 ed è modellata sull’ode A Luigia Pallavicini, mentre ancora ci riconduce agli sciolti pariniani e foscoliani l’idillio Adda del 1803 e ci richiamano al Parini satirico, oltre che ad Orazio, l’epicureismo letterario e il dissimulato moralismo dei Sermoni (1803-1804). Ma tra le poesie rifiutate della prima giovinezza un posto a sé occupano i versi che il Manzoni scrisse nel 1805 per consolare la madre

Giulia Beccaria, addolorata per la morte improvvisa del conte Carlo Imbonati, suo diletto amico dopo la separazione dal marito. Qui, più nitidamente che al-

trove, emergono Manzoni

l'alto e rigoroso ideale di vita del

e la sua poetica intessuta

di vive esigenze

etiche. Permangono gli echi pariniani e alfieriani, ma non mancano i frammenti dove si avverte una mano più esperta e un accento

come

più decisamente

nella bella rievocazione

del cieco

originale,

e

ramingo

Omero, sorretto soltanto dalle fide amiche, le Muse,

oppure nell'alto programma di vita che il poeta immagina di ricevere dall'ombra di Carlo Imbonati apparsagli in sogno. Un noviziato, dunque, intenso e vario, durante il quale il Manzoni apprese a dominare l’impeto dei sentimenti, a illimpidire e rassodare l’appassiona-

mento morale. Si riceve dalla lettura di questi versi

|

IL NOVIZIATO

POETICO

11

giovanili l'impressione di una natura pensosa e schiva, di un temperamento forte e insieme delicato. Le idee di libertà e di indipendenza politica si associano a quelle di un'arte severa e mai asservita: Parini e Alfieri forniscono, sotto questo punto di vista, i mo-

delli prediletti. Ma solo raramente questi generosi affetti trovano il modo di esprimersi adeguatamente: la poesia manzoniana,

avanti la conversione,

fatico-

samente cerca, tra frequenti reminiscenze, quella novità di tono e di stile che saprà trovare solo in seguito, negli inni sacri, nelle odi, nei bellissimi cori delle tragedie.

IL « TRIONFO

Tutto il poemetto

DELLA

LIBERTÀ »

è espressione irruente; e a vol-

te anche furibonda, di alcuni sentimenti e ideali stret«tamente connessi, che nell'animo del giovanissimo poeta dovevan costituire come un nodo compatto; e pertanto esso non è da considerare come l’effimero sfogo di un entusiasmo accettato senza sufficiente controllo. Quei sentimenti e quegli ideali non erano una facile adesione alla moda del giorno, al concitato vociare della propaganda. Egli li aveva a lun«go covati,

li aveva

anche

ombrosamente

e tenace-

mente dissimulati per difenderli dall'ambiente ostile in cui viveva — sia nei collegi, sia nella famiglia — che, guai se avessero potuto sospettarlo. Epperò con la vittoria di Marengo egli dovè sentirsi proprio lui, personalmente, alfine liberato. Quel giorno era il pri: mo della sua nuova vita, della sua vera vita, giacché egli sentiva di acquistare, ora, con la libertà, l’intera sua dignità umana. E per un felicissimo concorso di eventi tutto questo coincideva con lo sboc-

ciare della sua adolescenza, quando ride la vita, e l'umano sentire è più generoso e puro. Quali speran-

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MANZONI

E I CRITICI

ze? Essere libero, poi, professare apertamente le proprie convinzioni, i propri sdegni, i propri amori, significava soprattutto per lui essere poeta, avviarsi

alla gloria e forse già toccarla: Ed io puranco, ed io vate trilustre, io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume a me fo scorta ne l’arringo illustre. E te veggendo su l’erto cacume ascender di Parnaso alma spedita, già sento al volo mio crescer le piume. Forse, oh che spero! io la seconda vita VivrÒ...

(IV, 181-188).

[...] il Trionfo della Libertà riuscì un’opera di sicura impronta manzoniana. Piuttosto che soffer-

marsi a vagliare sporadiche anticipazioni di posteriori atteggiamenti stilistici e morali, che senza dubbio vi si ritrovano e sono già state segnalate da altri, conviene invece assumere e considerare il poemetto nel suo insieme. Quel che sembra più distante dal « tono » manzoniano e meno conciliabile con esso è la sua violenza verbale, il suo linguaggio incendiario,

la sua, per usare

un termine

mistico

che

non è qui del tutto fuori luogo, la sua « smisuranza ». Ma fatta la debita tara all’irruente inesperienza del « giovanile ingegno », rimane che alla sorgente del poemetto c’era una vibrante aspirazione alla poesia, anzi alla grande Poesia dantescamente concepita come giustiziera e vaticinante. Appunto per questo, malgrado la sua passione per il Monti e il suo inevitabile rifarsi al macchinismo delle « visioni », il Man-

zoni nasceva felicemente immune d'ogni labe dica. Dell’ingenuo entusiasmo che lo anima e lo muove si può anche sorridere, perché esso non pe realizzarsi poeticamente; ma a considerarne

arcasomsepl’in-

dubitabile sincerità, bisogna convenire che esso è l’e-

TROMBATORE

- IL

« TRIONFO

DELLA

LIBERTÀ »

13

lemento più positivo di tutto il poemetto. Questo-tono da poeta-vate il Manzoni non lo ritrovò più nelle altre sue cose giovanili, nelle quali si manifestò piuttosto la preferenza per i toni meditativi e moraleggianti, quando non addirittura, e certo’ con una caduta nel deteriore, il gusto dei trastulli parnassiani (questi, veramente, d’accatto). Ma la poesia di tono

alto e solenne, fatta di impetuosa quenza,

rimaneva

sempre

e commossa

elo-

la sua segreta aspirazione.

[..] Per molti e sicuri elementi il Trionfo della Libertà ci appare ormai non come un effimero trascorso di gioventù ben presto cancellato e dimen-

ticato,

e neanche

come

il fatidico fiat di una por-

tentosa storia poetica; ma come l'originaria, tumultuosa, e tuttavia sufficientemente chiara organica e

sicura impostazione del carattere Alessandro Manzoni.

e della poesia di

Arida, angusta, e deformata da gravi mutilazioni morali, fu la sua adolescenza. Ritroso e privo di cordiali effusioni il suo legame col padre. Mortificato

dalla lontananza e inerte per la scarsa cura il suo ricordo vivo della madre. Nessun mamente

sentito e corrisposto.

altro affetto inti-

Le relazioni

coi su-

periori e coi condiscepoli, tranne con uno o due, guastate e amareggiate dalla diffidenza, dal timore, dal l'abito divenuto necessario della simulazione e della dissimulazione. Continuamente in uno stato di guerra e di rivolta, sia pur larvata e soffocata. Ma appunto qui, nel suo ribellarsi, fu il principio della sua salvezza, la radice fruttuosa del suo personale carattere. Egli non si uniformò all'ambiente in cui viveva; e per resistere e per sfuggire alle leggi che lo governavano dovette rifugiarsi nell’idoleggiamento di un diverso vivere sociale e umano, nell’idealizza-

| mento rettorico dell’antichità che aveva appreso dai libri e che sembrava ora rivivere nei fasti contem| poranei, nella fatidica e plutarchiana mitopeia dei

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MANZONI

E I CRITICI

giacobini. La constatata incompatibilità tra le norme del Vangelo e la pratica che egli ne vedeva in coloro che avrebbero dovuto esserne incarnazione lo persuadeva alla condanna delle forme e della dottrina del cattolicesimo, inducendolo a riconoscer per vero solo quel deismo che era la nuova religione del-

l'aristocrazia intellettuale e della democrazia politica. Dalla cultura classica ritraeva l'ammirazione per l'antica Roma repubblicana, per la Roma dei Bruti e degli Scevola; e di questo orgoglio romano, così facile in ogni adolescente, si alimentava il disprezzo per l’imbelle e corrotta Roma papale, e si accendeva

il suo primo sentimento di italianità. Infine, negli studi letterari, nella lettura degli antichi e nuovi poeti, a cui irresistibilmente lo traeva l’inclinazione naturale, si formava

l'amore poetica. lescente, trasfuse

e cresceva

la passione

dominante:

della poesia, o piuttosto l'amore della gloria Questo era il mondo intimo del Manzoni adoe questa fu la vivente realtà morale che egli nel Trionfo della Libertà. E non tenerezza

o dolcezza

di affetti, nulla neanche

di quel vago o

di quel morbido, che per tanto proprio di quell’età, piegava al verso il giovane poeta; ma

sentimenti

gidi e virili, ispirati e dominati dalla nuova ne dell'uguaglianza e della libertà.

ri-

religio-

GAETANO TROMBATORE * I « SERMONI »

La composizione

dei sermoni

manzoniani

avvie-

ne tra il 1803 e il 1804, in un'epoca particolarmente adatta, soprattutto nella Milano dell’epoca. A parte * Da L'esordio del Manzoni, in « Giornale storico della letteratura italiana », LXXIV (1957), pp. 285-286, 295-297. i

BEZZOLA

- I « SERMONI »

15

la grande tradizione pariniana, che pure era ancora vivissima, la prima e la seconda Cisalpina ed il primo

Regno

Italico avevano

visto rinascere

impetuo-

samente il gusto della:polemica e dell’invettiva. Tra il 1796 e il 1799 libelli, pasquinate, satire di ogni tipo erano state messe in circolazione: nelle biblioteche milanesi

se ne conservano

raccolte

curiosissime,

e

chissà quanto materiale è naturalmente andato disperso. Con il ritorno degli austrorussi, tra il 1799 e il 1800, ci fu l'ondata opposta, con nuove satire, nuovi poemi, nuove invettive, e la fine del breve interregno reazionario determinata dal secondo avvento dei francesi fu salutata una volta di più dalla comparsa di scritti di ogni genere, celebrativi, polemici anche polemicissimi come l’In morte di Lorenzo Mascheroni del Monti (non dimentichiamo, per parte nostra, Il trionfo della libertà proprio del giovanetto . Alessandro,

dove

tanta

parte

x

è concessa

all’invetti-

va, e dall'invettiva alla satira c'è solo un passo). Con lo stabilizzarsi delle istituzioni, con lo sparire di certe situazioni vergognosamente anomale, con l’involuzione già chiara del regime politico, sempre più diretto a restringere ogni libertà di parola e di stampa, ci fu un ritorno al moralismo generico, alla satira di costume che in fondo anche se crudele non offende

nessuno

o quasi;

il Monti,

che sapeva

divi-

nare i gusti del momento con una abilità che ha veramente dello straordinario, fu il primo a muoversi in tal senso, e diede fuori la sua stupenda versione delle satire di Persio, corredata da una dedica al Melzi e. di note al lettore, dove non sapresti cosa

ammirare di più, l'eccezionale facilità nel superare i punti più ardui del difficile testo latinò, l'incomparabile maestria nel giro del verso, l'abilità anche ar-

| tigianale nel valersi dei grandi predecessori nel cam| po dell’endecasillabo sciolto per dare vita a un tipo | di verso « satirico » utilizzabile e riproducibile come

OA

16

MANZONI

E I CRITICI

modello, proprio per la sua perfetta qualità. Non si è forse badato a sufficienza all'efficacia della versione montiana, al suo valore di lezione proprio in quel momento (la grande edizione del Parini, curata dal Reina, era uscita da poco, presso la medesima stam-

peria, e nel revival pariniano che ne era seguito l’ambiente era quindi psicologicamente il più adatto). Fatto sta che proprio allora il Foscolo gettò in carta una buona parte dei suoi Frammenti di sermoni, fatto sta che anche il Manzoni, cresciuto d’età, fatto un poco più esperto della vita, volle tentare una descri-

zione satirica del mondo che lo circondava, in chiave esclusivamente morale. L'atteggiamento del Manzoni è sicuramente ed aspramente polemico, e dobbiamo dolerci del fatto che su quel periodo della sua esistenza. ancora così scarsa sia la luce (in attesa dell’edizione dell’epistolario, da cui attendiamo parecchio); non dimentichiamo del resto che per quasi settant'anni il poeta tentò di cancellare anche il ricordo di quell'epoca forse moralmente discutibile ma tanto importante per la sua esistenza successiva, per gli atteggiamenti ele scelte che seguirono. Con gli amici della maturità e

della vecchiaia il Manzoni parlava liberamente di ricordi, di persone,

di avvenimenti,

ma

nulla lasciava

trapelare della parte da lui presa nella vita della gioventù dorata milanese di quel tempo (un brevissimo accenno alla lettera al Fauriel del 19 marzo

1807).

Del resto, ripensando più tardi alla sua situazione di allora, figlio molto incerto di don Pietro Manzoni, probabilmente

di uno

dei fratelli Verri (ma quale?)

con una madre che conviveva pubblicamente a Parigi con l'amante Imbonati, era anche logico che Alessandro provasse una certa vergogna, accresciuta

dal fatto che il suo carattere diritto e fiero lo aveva sempre portato ad aggredire la verità, a polemizzare con i mormoratori,

a disprezzare

la falsità e la

BEZZOLA - I « SERMONI »

17

« operosa calunnia », come egli stessò più tardi ebbe a definirla. Ragazzate s'intende, ma prese sul serio da un ragazzo-che faceva sul serio e che anche “attraverso la poesia voleva indicare o almeno accennare un suo stile di vita. Ecco quindi come, nella turbolenta ricca e corrotta Milano della seconda Cisalpina, tra gli eredi del giovin signore pariniano e i nuovi ricchi borghesi, non mancassero

certo tipi

da descrivere, situazioni da fissare e da bollare in un verso talora fin troppo greve d'’intenzioni satiriche per giungere alla satira vera. Anche qui facit indignatio versus, e talvolta l'indignazione è fine a se stessa, non riesce a filtrarsi e a decantarsi in poesia,

perché le mancano il freno e l’approfondimento che vengono dall'esperienza di vita; allo stesso modo, la ricerca

tecnica

e stilistica

sa

ancora

di scolastico,

l’erudizione e la classicità formale prevalgono sulla semplice e perciò più efficace linearità della satira, pensieri e intenzioni si perdono in giri troppo grevi per essere ironici. Eppure, nonostante tutto, qual-

cosa c'è e si muove: anche se una gran parte del quadro e della lingua viene dal Parini (l'edizione del . Reina, l'ho già detto, è del 1801-1804 e tra i sottoscrit-

tori figura anche il Manzoni, accanto all’Alfieri, al ‘ Monti e al Foscolo) c'è tuttavia nel Manzoni una certa

‘rigidità espressiva che non è dovuta solo ad inesperienza tecnica, ma anche a un atteggiamento morale ben definito. Una moralità laica, s'intende, un po' ‘ astratta e un po’ chiusa forse, ma sentita e viva: avvertiamo fin d’ora nel Manzoni quell’atteggiamento così personale e così sincero che, pochissimo tempo dopo, gli detterà il memorabile « credo » dell'Imbonati, con quel sentir così forte, in apertura di verso: b 7 i

« Sentir », riprese, « e meditar: di poco esser contento: da la meta mai non torcer gli occhi, conservar la mano

18

MANZONI

E I CRITICI

pura e la mente: de l’umane cose tanto sperimentar, quanto ti basti per non curarle: non ti far mai servo; non far tregua coi vili: il santo Vero mai non tradir né proferir mai verbo che plauda al vizio, o la virtù derida ».

(vv. 207-215)

. Una moralità pariniana senza dubbio, ancor più che alfieriana, ma espressa da uno che la viveva, non che se ne paludava per moda o per pompa. Si continua nel Manzoni l'affermazione di un atteggiamento chiarissimo, attraverso Il trionfo della libertà e i sonetti e i sermoni, si insiste sull’originalità del pensiero, sull’indipendenza e sulla purezza della propria personalità. E chi diceva così, anche a diciott’anni, come

per i Sermoni, o a venti, come

per l’Imbo-

nati, era orgogliosamente cosciente di dire la verità. Tra i Sermoni, possiamo lasciare da parte Amore e Delia, non limato e rifiutato, e Della poesia, tutto centrato su una polemica letteraria. Non che manchino in tutti e due gli spunti degni di interesse (l'alto concetto in cui la poesia è tenuta nel secondo, la feroce satira della società nel primo), ma da una parte si sente che non si è raggiunta la misura, dall'altra la satira ha riferimenti letterari cronisticamente troppo precisi per interessarci ancora, Meglio il Panegirico a Trimalcione, dove si riesce davvero — tra qualche fatica e lentezza — a delineare un ritratto spietato e crudele di un'umanità abbietta: spogliato del paludamento letterario, pesante e ostentato fin troppo (« d'armi eleusine, in guerra con Pluto, l'immenso

Stuol dei piccioli Ascani, il ferreo Marte —

che in

remota selvetta il santo rito — d'Ilia rinnova », ecc. ecc.) rimane una vicenda di un realismo crudo e doloroso, alla Ruzante, quale il Parini stesso non avreb-

be osato forse metter nel suo poema.

Trimalcione

BEZZOLA

- I « SERMONI »

è laido sì, ma anche discendente veri

disperati,

« gente

19

da una serie di po-

di nessuno », come

Renzo

e

Lucia secondo don Rodrigo: senza forzare oltre, questa rapida e spietata maniera di vedere le cose come veramente sono e non come si vorrebbe che fossero il Manzoni non la smise più, anzi la portò innanzi continuamente, modificando il linguaggio, abbandonando ogni tradizione pur di meglio aderire alla ve-

rità — e al bisogno della verità —

che nutriva den-

tro di sé. Il sermone più bello, il più compatto e unitario anche se costò tanta fatica al Manzoni, è quello al Pagani,.e non per niente l’autore lo mise in testa alla sua raccoltina, come premessa e, quasi manifesto. C'è tutto infatti, dall’affermazione epicurea dell'esordio [...] fino alla riconferma

della passione poetica, alla

confessione di un travaglio interno, di un senso di solitudine e di distacco che non gli dava tregua; insieme,

l’orgogliosa

coscienza

del sentirsi

nato

alla

poesia, il divino ardere interno della vocazione; che prende moto dal v. 29: Me da la palla spesso e da le noci. Poi, la descrizione del vano arrabattarsi di tanti esseri umani spregevoli o ridicoli o dappoco e infine, una volta di più, una dichiarazione quasi programmatica di non smentibile impegno realistico: « Fatti e costumi — altri da quel ch'io veggio a me ritrosa — nega esprimer Talia ». Non è lungo il sermone (novantasette versi in tutto) e la brevità gli giova, serve al discorso che, pur conciso, non si affa-

stella, e insieme concede alla esposizione chiarezza e vigore più che sufficienti per colpirci. Soltanto la poesia può dare pace al Manzoni: avviatosi quasi fanciullo ancora per la via alpestre, imboccato il « calle ascreo », nel desiderio di una gloria nuova e sua, di un

«intatto

sentier », coi Sermoni

venne

a fare

prove nuove, tentando modi a lui ancora ignoti, cer“‘cando un più soddisfacente contatto con la realtà.

20

MANZONI E I CRITICI

Non vi riuscì in tutto, ma ormai la via gli era aperta per orizzonti di ben più vasto cerchio.

-

Guipo BEZZOLA *

« IN MORTE

Giunto

DI

CARLO

a Parigi, il Manzoni

IMBONATI »

non poté fare a me-

no di riaccostarsi cautamente agli illuministi, al Vol taire, al Condorcet, all’Helvétius. Più di ogni altro agiva su di lui, per il pensiero

ed il sentimento

ad

un tempo, J. J. Rousseau, la cui Nouvelle Héloise aveva rappresentato con la sua sensiblerie una spiritualità entusiastica, di cui era bell'esempio Giulia stessa. [...] ritengo che si debba

pensare

all’effetto che sul-

l'epicureismo del Manzoni, sul suo sdegnoso appartarsi di saggio, dovette fare non soltanto l’entusiasmo della madre, ma l'ingresso in una società che tanto fascino aveva sull’immaginazione e sulla coscienza del giovane, e che poteva farlo uscire’ dall'isolamento, volgendolo verso una élite, ed ispirandogli ancora fiducia nella società. Questa svolta è rappresentata dal carme In morte di C. Imbonati che, per quanto scritto nei primi mesi del soggiorno parigino, risente della gioia fiduciosa del giovane

che aveva

trovato

in una

società

intel-

lettuale, consona alle sue aspirazioni, un cenacolo di virtuosi, degni di essere celebrati attraverso la figura del conte Imbonati. Il Manzoni adulto rinnegherà questi versi come delicta juventutis (lettera al Fauriel del

3 marzo

1826), per scrupoli moralistici;

ma

nel 1805 egli approvava apertamente l’unione libera della madre con l’Imbonati, ed il suo soggiorno a LS Da I Sermoni manzoniani - Testo e critica, in « Lettere Italiane », XVIII (1966), pp. 374-377.

GOFFIS

- IN MORTE

DI CARLO

IMBONATI

21

Parigi è anzi un atto di protesta verso i pettegoli milanesi. Del resto ben poco scandalo destava nei ceti intellettuali l'unione dell’Alfieri con la contessa d'Albany; e dopo la morte del grande tragico la contessa

era divenuta

il centro

di un salotto letterario,

ed era molto rispettata da letterati e artisti, proprio per essere stata l’amic& dell’Alfieri; tanto che il Lamberti poteva scrivere il maligno epigramma che comincia: « Sull'Arno ammirano i forestieri — una reliquia del grande Alfieri ». Né meno riconosciutae rispettata era l'unione di Sofia di Condorcet con il Fauriel.

Il Carme,

tutto

esaltazione

dell’Imbonati,

non soltanto ricorda l’« incolpato costume » di lui, ma a chi volesse dubitare che il giovane Manzoni fosse a conoscenza dei reali rapporti che l’Imbonati ebbe con Giulia Beccaria, precisa: «...lei che amasti ed ami ancor, che tutto, — te perdendo, ha perduto ». Più tardi il Manzoni rifuggirà dal ricordare quel legame illegittimo; ma è difficile dire quanto sul pietistico scrupolo influisse lo scrupolo stesso di donna Giulia. Stabilito tuttavia quale fu l'atteggiamento spregiudicato assunto dal Manzoni nel 1805, dobbiamo completare le notizie sulla sua moralità, precisando che c'è qui un moralismo più risentito che nel III “sermone. In espressioni come « secol sozzo », « fetida belletta » (vv. 5-6), e, quando si parla dell’educa-

zione giovanile, il « sozzo ovil di mercenario armento », la « fetente mangiatoia », dobbiamo riconoscere che il disgusto ha trovato strade involute: ripetizioni, forme dantesche, non slancio ed impulso, ma sco-

lasticismo

.

e frasi fatte, che però non

bastano

ad

annullare l’effetto polemico, anche se ne diminuiscono molto la validità. «Il carme si presenta come eccezione, nella serie delle poesie manzoniane improntate alla satira, per la celebrazione della virtù: quasi risposta all'amaro



22

MANZONI

E I CRITICI

finale del terzo sermone; nello stesso tempo che ribadisce l'atteggiamento di disgusto del Manzoni per la « belletta » che Talia gl’impone di rimescolare. Siamo dinanzi ad una frattura dell’apatia epicurea, nel momento

stesso in cui pare si voglia confermarla, e

ad un avvio verso una moralità più aperta e dichiarata. L'uomo che il Manzoni venerava « come virtuo-

sissimo », e cui era grato « come re»

di sua

madre,

in questo

all’angelo

tutela-

letteratissimo

carme

ha la stessa funzione di tante apparizioni di illustri personaggi evocate nella letteratura settecentesca (Verri, Alfieri, Foscolo, Monti) e preromantica;

e se

la concezione trae la prima origine dall’apparizione di Laura al Petrarca nel secondo canto del Triumphus Mortis, come ispirazione siamo vicini al Parini della lettera «4 dicembre » dell’Ortis. La sconfortante rappresentazione del mondo muove dall’ode del Monti Per il giorno onomastico della mia donna (« Forse il partirmi — da questa terra, ov'è il ben far portento, — e somma lode il non aver peccato? », vv. 120-122), non tanto per le parole, quanto per il tono di esse, e culmina con espressioni tratte dall’Ortis: « Ove il delitto — turpe non è, se fortunato; dove — sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo »*. I mali del mondo sono visti ancora attraverso ‘un velo di esperienza letteraria. Ma il carme è d'interesse grande per queste esperienze anche in altro senso. Non possiamo limitare la nostra osservazione a riconoscere certe affinità, se

non aggiungiamo che esse a volte implicano un particolare atteggiamento umano, o addirittura religioso, molto significativo per chi vuol giudicare l'animo del giovane Manzoni fuori dagli schemi delle interpretazioni tradizionali. 1 Vv. 129-131. Cfr. Ortis milanese, lettera del 4 dicembre da Milano: « chiama ‘virtù’ il delitto utile e ‘ scelleraggine’ ‘ l'onestà che le pare dannosa ».

GOFFIS - IN MORTE DI CARLO IMBONATI Il Russo ha rilevato nel suo commento

di stampo

dantesco,

pia unzione:

che

implicano

alcuni versi

anche

gesti di



quand’ei l’umido ciglio,

e le man

giunte

alzando inver lo loco onde a me mestamente sorrise, e: « Se non

venne, fosse

| ch'io t'amo

23

tanto,

io pregherei

che ratto

quell’anima gentil fuor de le membra prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo di Quei, ch’eterna ciò che a Lui somiglia ». (vv. 89-95)

E con il Russo possiamo notare che si tratta non ‘soltanto di gesti, ma di un sentimento della morte sviluppato in episodio di alti sensi cristiani, anticipante i tanti episodi di morte sublime: di Ermengarda, di Adelchi, di Napoleone, della madre di Ce-

cilia: « Come da sonno », rispondea, « si solve uom, che né brama né timor governa, dolcemente così dal mortal carco

mi sentii sviluppato; e volto indietro, per cercar lei, che al fianco mio mi stava, più non la vidi ». (vv. 112-117)

Si deve rettificare il giudizio, però, nel senso che l’aura di questa morte è più di Campi Elisi che di oltretomba cristiano, che gli ultimi versi ci richiamano il mito di Orfeo; ed anche è opportuno ag| giungere che i passi di pietà religiosa che ho citato, ed altri ancora, come: «Non è questa», disse — « quella città dove sarem compagni — eternamente »

(vv. 222-224), oppure:

« Dille che î fiori, —

mio cener spande, io gli raccolgo, —

che sul

e gli rendo im-

24

MANZONI

E I CRITICI

mortali » (vv. 229-231), sono

discorsi messi in bocca

a Carlo Imbonati, spirito religioso. Ma questa esi genza di verità nella rappresentazione del gentiluomo, o quella di letterarietà nel ricordo di Orfeo, non

sono sufficienti a spiegare la piena adesione del Manzoni a stati d'animo

di serenità,

a una

intimità

di

sentire, che se è rappresentata è anche vissuta. In altri termini, se il Manzoni qui non esponeva propri pensieri in ordine all’aldilà, esprimeva tuttavia una propria tendenza verso forme di pacata religiosità. E mi pare questa conclusione di notevole interesse per giungere ad una conclusione più generale: che il Manzoni fu certo in gioventù un accanito anticlericale ed antiecclesiastico, ma non ebbe un pensierò ateo, mentre alimentò spesso una vaga aspirazio-

ne alla fede. Quanto al traviamento dei suoi costumi ho già fatto giustizia dell’errata interpretazione biografica delle « erbe dell'orto epicureo », in cui avrebbe trovato ristoro l'animo esasperato del Manzoni; le quali sono, invece, metafora

dell’apatia. Posso in-

dicare conferma della nuova interpretazione, proprio nelle parole di Carlo Imbonati: Tu, cui non piacque su la via più trita la folla urtar che dietro al piacer corre e a l'onor vano e al lucro :

(vv. 135-137) — La visione notturna, scaturita dalla convinzione del Manzoni di dovere eccezionalmente -cantare le virtù dell’Imbonati, si impernia su due toni complementari. Il primo è di pacatezza, dolcezza, affetto in

Carlo, che rimpiange di non aver potuto guidare sulla via della virtù il giovane, aspetta di ricongiungersi con

Giulia in Cielo, e narra con

tranquillità il suo.

distacco dalla terra, luogo di vizi e di peccato, ostile al « giusto solitario », mentre afferma con parole alte

GOFFIS

- IN MORTE

DI CARLO

IMBONATI

25

il proprio amore per la poesia, e celebra Omero con versi che meritarono l'incondizionata approvazione del Foscolo. A questo punto il tono soave di Carlo giunse a confondersi con quello del giovane Manzoni, più eloquente e narrativo, commosso nel parlare del proprio desiderio di incontrare l’uomo amato e tanto lodato dalla madre, del dolore dei sopravvissuti a lui. La prima scena è dominio del giovane: ed è’ sentimentale. La seconda e centrale è eticosatirica: con impostazione generica nelle parole di Carlo, autobiografica in quelle del Manzoni, rievocante la propria educazione nei collegi ecclesiastici mediante espressioni di grande sdegno per la forma di bassa cultura che vi ha trovato. Nel seguito è difficile discernere i due toni o le personalità dei due interlocutori: dove l’Imbonati professa la propria

ammirazione

per l’Alfieri e per il Parini,

riprende

spunti dell'ultimo sermone, contro i poetastri, che possiamo dire sia qui rifatto con maggior consape-

volezza letteraria, ma col ricupero perfino di espressioni!. Ed è notevole in questo carme che si dice moralistico, e che è certamente più impegnato degli ultimi sermoni, l'insistenza su motivi di poetica e di satira letteraria. In particolare si rilevi il significato autobiografico del discorso sullo schifo provato dall'Imbonati per il mondo

corrotto, che serve a porre

in luce l'atteggiamento del giovane Manzoni, il vero protagonista,

« cui non

piacque

su

la via più trita

— la folla urtar che dietro al piacer corre — e a l'’onor vano e al lucro », ma «la pacata compagnia di quelli — che, spenti, al mondo anco son pregio e norma ». « Segui tua strada » è l'esortazione conclu1 « L'orma stampò de l’italo coturno » — v. 173 — deriva certo da « Primo signor de l’italo coturno» — v. 134 —; e «cantò per me: ‘Torna a fiorir la rosa'» — v. 177 — è fi ezione di «reciterà: ‘Torna a fiorir la rosa’ » — _v.9I7 —.

26

MANZONI

E I CRITICI

siva, che per naturale reazione suscita nel Manzoni il discorso .sulla strada da lui sino ad ora percorsa e sull'educazione letteraria ricevuta. « Aridi bronchi », « insipida stoppia », « fetente mangiatoia », sono termini adatti ad indicare l'alimento culturale imposto al giovane, cui si contrappone lo studio spontaneo dei « prischi sommi », sufficiente a spuntare anche l’acume dell’« operosa calunnia »; sì che appena, dantescamente, il Manzoni sente il bisogno di dire che. di questa non si cura, perché altro è il suo impegno: «ond’io lieve men vado a mia salita, — non li curando » (vv. 164-165). Espressione poetica intensa, che ‘ induce ad effetto musicale il senso orgoglioso del proprio ascendere, e ne fa impressione fresca di un atteggiamento morale. E quale è la salita che il Manzoni sta affrontando? Dopo la lunga parentesi sulle opinioni dell’Imbonati intorno alla poesia ed ai poetastri, introdotta per riprendere spunti dei Sermoni e dar forma nuova al mito del poeta disinteressato, mosso da una vocazione e da un orientamento di « giusto solitario » si viene al punto a lungo preparato,

per

cui, anzi,

tutto

è stato

preordinato:

non

tanto di precetti morali aveva bisogno il moralissimo Manzoni, quanto di esprimere la propria posizione poetica, chiarirla a sé ed in forma impegnativa dinanzi al mondo. La richiesta « Deh! vogli — la via segnarmi, onde toccar la cima — io possa, o far, che s'io cadrò su l’erta, —

dicasi almen:

su l’orma pro-

pria ei giace » (vv. 203-206) è così poco pertinente al colloquio con l’'Imbonati, il quale si mostra qui semplicemente una controfigura del Manzoni, che è ripresa del concetto e delle parole stesse del sonetto alla Musa; ed è opportuno ricordare di quello i due ultimi versi (« Deh! fa che, s'io cadrò sul colle ascreo, — dicasi almen: su l'’orma propria ei giace »), i quali chiariscono, se ancora fosse necessario, che cosa sia la « salita » su cui cammina il Manzoni: il colle ascreo.

GOFFIS

- IN

MORTE

DI CARLO

IMBONATI

27

Non, dunque, carme moralistico, anche se talora le espressioni ne sono pungenti e molto impegnative; ma carme che in forma di colloquio presenta una poetica, e la posizione personale del Manzoni in letteratura; presentazione ufficiale, che coglie quanto già era stato detto sull'argomento nelle poesie precedenti, e segna la fine del noviziato manzoniano;

una

laurea con cui il giovane poeta prendeva posizione

nella società letteraria italiana e francese. CEsARE

STILE

E METRICA

FEDERICO

DEL PRIMO

GOFFIS *

MANZONI

La cultura classica del Manzoni è tutta nei primi anni, si fonda

tutta su quegli anni passati nei col-

legi dei Somaschi con pochi libri e lungamente e che Libri usati quasi di cui tradusse sima

mano,

e dei Barnabiti. Solidissimi studi, grandi, letti a dovere, ripensati poi aiutarono l'artista, e quale artista. tutti in latino, Virgilio e Orazio,

anche due frammenti,

e Cesare,

Cicerone,

con discretis-

Livio, Sallustio,

Ta-

cito. Sarà per questo, o è una mia illusione, che cominciando a comporre, e a comporre in versi, non ebbe dispersioni, non ebbe scadimenti, gli scadimenti

arcadici d'un Foscolo e d’un Leopardi, per esempio. La mente lucida, prima di tutto, ma anche il sapore della parola tolta alla sua fonte. Di letture classiche italiane quasi neppur l'ombra, e « vecchio » e « ammaliziato » si commoveva al ricordo delle « novelle del Soave », degli « sciolti del Frugoni »; dice perfino che riprovava un «vivo sentimento di simpatia », un « palpito al core ». Del resto la tradizione * Da La lirica

va Italia, pp. 68-74.

di Alessandro

Manzoni,

Firenze, La Nuo-

28

MANZONI E I

CRITICI

classica italiana pesò sempre poco sul suo gusto e sulla sua formazione. Beata assenza, si sarebbe ten-

tati di dire, che lo fece più libero di idoleggiare e di foggiare la prosa che più amava. E l’aiutò in questo la maggiore

esperienza,

che sempre

più accreb-

be, e della prosa francese del settecento prima e della prosa francese del seicento poi, nei due distinti tempi anch'essi separati dalla conversione. Pur con questa calma di cominciamento, con que-

sto senso certo della parola ricalcata su un continuo esame

del latino, scrivendo versi non potè fare a me-

no anch'egli di sperimentare delle forme, e tre specialmente; che furono la terzina, e la derivò dal Monti, e passarono a traverso il Monti influenze dantesche e più petrarchesche (dei Trionfi); il sonetto, e lo tolse ora all’Alfieri, ora al modo freddo e di-

stante dei cinquecentisti; l’endecasillabo sciolto, e riecheggiò con varia mistura il Monti, il Parini, il Frugoni. Tentò anche l’ode, l'ode classica, e mai nulla di men manzoniano uscì dalla sua penna; nemmeno il sentore della sua rigorosa mente, della sua indi gnatio. L'impaccio del metro, lo studio delle rime due volte gli legarono l'ispirazione. E certi valori verbali furono assaporati come

per ozio, con un gusto

tutto classicistico e di tradizione. Fate che passino dieci anni, i dieci anni di noviziato, e non temerà più allora di derivar le forme da un Frugoni, anzi le assoggetterà a sé; ed ecco la Risurrezione, la Pentecoste, il Cinque maggio, ecco il secondo coro dell'Adelchi per la morte d’Ermengarda. Rifacciamoci dunque dal primo Manzoni per stabilire un benché minimo rapporto; rifacciamoci da quelle terzine e da quegli endecasillabi, d’andamento a volte prosastico ma consapevole. Niente grandezza d’estro, certo, ma niente, neppure, sbilanci. S'ha l'impressione ch'egli studi se stesso, e faccia il passo secondo le sue forze, ma sicuro. E la ponderatezza, come se-

DE ROBERTIS

- STILE

E METRICA

DEL

PRIMO

M.

29

| gno già d’un equilibrio grande, la prenderemo come annuncio della grande mente che si maturava. Questo solo è il punto dove uno riconosce parentela tra il primo e il secondo Manzoni; una relazione, un Tapporto di limite. Da un facile a un difficile dominio. E vuol dire, in arte, da un gusto per il particolare, per certe date immagini, per certe ricche minuzie, a un gusto tanto più vasto e complesso e ar-

| monico. La distanza è incommensurabile, quasi quanto quella che passa dal suo primo discredere al credere. Anche il carme In morte di Carlo Imbonati, ‘che forse è il frutto più serio di questi anni, e tocca | un tema che sotto la profonda serietà morale accenna una voce segreta, una voce profetica, anche quel carme non raggiunge questa profondità se non con un continuo insistere e scavare nell’intimo del comandamento

e nel senso

delle parole. Cautamente,

didascalicamente. E sapete che la grande lirica man..zoniana ha il passo ben altamente veloce, guardatura d'altezze inaccessibili, e brucia nel suo volo gli spazi, dico gli spazi dei secoli e dei tempi. GIiusEPPE

* Da Poesia

sri

1944, pp. 136-138.

i È

#5

del Manzoni,

DE

ROBERTIS *

in Studi, Firenze,

Le Monnier,

LA GRANDE

LIRICA

E IL TEATRO

Dopo il soggiorno parigino, fondamentale per la | maturazione ideologica e interiore del Manzoni, e dopo la profonda crisi religiosa che portò il nostro autore dal giovanile razionalismo all'ortodossia della fede, l’arte manzoniana s'avvia impetuosamente per una nuova strada. Essa rompe, infatti, i legami troppo rigidi con la tradizione letteraria alfieriana, foscoliana e montiana, e cerca di rinnovare le forme espresdella lirica anche col sacrificio talvolta dell’elefi sive \ganza esteriore, ma sempre a vantaggio della schiettezza dei nuovi contenuti morali. La poesia manzoniana perciò si palesa, dopo il 1810, come una poesia antilirica e antipetrarchistica, e assume piuttosto for. me corali e drammatiche. Voltando le spalle all’ele| gia amorosa o agli sfoghi autobiografici o all’invettiva polemica, canta, nelle nuove strutture dell'inno, . le speranze degli umili e degli oppressi, la bellezza dei domestici affetti, il candore delle fedi ingenue. Animato da questo fervore di intensa solidarietà umana, il Manzoni ha concepito una collana di dodici

| inni dedicati alle dodici più grandi feste religiose del| l’anno. In verità

ne scrisse compiutamente

soltanto

| cinque, di cui quattro tra il 1812 e il 1815: La Risur«rezione, Il Nome di Maria, Il Natale e La Passione. Sia pure in misura diversa, questi primi inni testi_ moniano il laborioso F | {®

>$

va

v

rinnovamento

del

nostro

lin-

32

MANZONI

E I CRITICI

guaggio poetico e la novità dello spirito manzoniano, ma ancora serbano traccia del travaglio onde sono nati, sì che difettano di unità stilistica e di naturalezza espressiva. Spesso tendono a toni eloquenti e celebrativi, e s'affidano indulgentemente alle facili suggestioni ritmiche, alla esterna sonorità. Dopo avere pubblicato, verso la fine del 1815, primi quattro inni sacri, il Manzoni, sempre più pi, sideroso di volgersi ad una forma di poesia vicina al vero, cioè ad una realistica rappresentazione dei caratteri e degli affetti umani, fu tratto a cimentarsi nel teatro. Già nel gennaio del 1816 pose mano infatti alla prima tragedia, Il Conte di Carmagnola, portata definitivamente a termine nel 1819 e data alle stampe nel 1820. L'argomento è storico, la struttura anticlassica, ovvero sottratta alle leggi delle unità drammatiche, i personaggi distinti in storici e ideali. L’azione abbraccia un periodo di sette anni, dal 1425 al 1432, e il protagonista è il condottiero Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola. Il nodo della vicenda è costituito dall’ingiusto sospetto che viene fatto cadere sul conte di Carmagnola dal governo veneziano. Il Carmagnola è infatti accusato di tradimento perché dopo la battaglia di Maclodio, da lui condotta vittoriosamente contro i suoi antichi Signori di Milano, non ha voluto infierire sui vinti ed ha lasciato liberi i prigionieri. La sua magnanimitàè in-

terpretata come segreta intesa col nemico, e perciò il conte è condannato a morte nonostante l’appassionata difesa che di lui fa il senatore Marco, il quale crede alla sua onestà e gli è amico fedele. La tragedia non ha nell’insieme una salda organicità e i suoi personaggi, tranne Marco e a tratti il Carmagnola, sono

delineati con approssimazione e convenzionalità. Il meglio dell’opera andrà ricercato nelle intime dolorose riflessioni di Marco, e anche nel commosso congedo del Carmagnola dalla moglie e dalla figlia. Qui

LA GRANDE

LIRICA E IL TEATRO

33

il condottiero superbo piega l'animo ad una pensosa e crisiiana rassegnazione: cessati il turbamento e lo . sdegno per il torto subìto, il Carmagnola, anticipando quello spirito di pace che sarà poi così vivo in Adelchi e in Ermengarda, esalta il perdono e la virtù redentrice del dolore. Ma soprattutto spicca nella tragedia, per fervore poetico, il coro dell’atto secondo, _ a cui il Manzoni ha affidato un'alta e solenne meditazione civile,

e dove si succedono,

con

ritmo

incal-

zante, la descrizione della battaglia fratricida di Maclodio, la deplorazione per l'evento funesto, l’esortazione alla lotta comune contro lo straniero, l'afferma-

zione della santità di questa lotta e l'augurio di una più vasta fratellanza dei popoli. Con il coro del Carmagnola entra dunque nella poesia manzoniana il tema politico, che ben presto si approfondisce,

nella coscienza

del Manzoni,

e si

dilata a meditazione

storica e a giudizio morale.

1821

della

è infatti l'anno

rivoluzione

Il

piemontese,

della reggenza di Carlo Alberto e delle congiure lom. barde, cioè l’anno delle grandi speranze italiane, e nello stesso tempo è l’anno delle due celebri poesie | politiche del Manzoni, Marzo 1821 e Il Cinque Maggio, e della seconda tragedia, l’Adelchi, dove il motivo dell’Italia lacerata e serva è stupendamente fissato nel primo dei due bellissimi cori. L'ode Marzo 1821 fu composta d'impeto tra il 15 e il 17 marzo, quando parve ormai imminente

il pas-

saggio del Ticino da parte dell’esercito piemontese per aiutare i Lombardi a liberarsi dagli Austriaci. An-

| cora impacciata, come il coro del Carmagnola, da una

certa macchinosità formale e concettuale, questa poesia prende vigore e più libero slancio nella seconda parte, dove il poeta afferma il sacro diritto di ogni popolo alla libertà e rimprovera solennemente gli stranieri perché non vogliono concedere agli italiani quella indipendenza che essi hanno pur voluto per la 2 - Caretti

Mi

34

MANZONI

E I CRITICI

loro patria e per la quale, a loro volta, hanno combattuto. Il coro ‘tocca il suo culmine proprio nella strofa finale, dove le meravigliose giornate del nostro riscatto vivono nella commossa fantasia del Manzoni come una grande pagina storica già felicemente compiuta e ormai affidata alla memoria dei testimoni superstiti.

Al Cinque Maggio il nostro autore attese non appena ebbe notizia della morte di Napoleone. L'ode non fu subito stampata, ma se ne divulgarono varie copie manoscritte in Italia e all’estero. Qui veramente, come poi nei cori dell’Adelchi, l'intento politico si fonde compiutamente con la severa meditazione cristiana, la storia è interpretata come manifestazione

del divino e la commossa rievocazione degli ultimi giorni dell’uomo potente, e alla fine relegato in solitudine, vibra di umana pietà. La poesia vive appunto di questo alto tono solenne, di questa interiore vibrazione, e trova la sua efficacia espressiva nella rapidità incalzante dei pensieri e delle immagini, nella fulmineità degli scorci, nella energia sempre tesa che la sorregge da cima a fondo. La struttura è perfettamente armonica. L'ode si divide infatti in due parti perfettamente eguali, ciascuna di 54 versi: la prima parte è dedicata alla rievocazione della vita grandiosa e drammatica di Napoleone, sino all'apice della sua potenza mondana, sino a che egli poté addirittura sentirsi arbitro dei destini del mondo intero, a cavallo dei secoli XVIII e XIX; la seconda parte è invece, per contrasto,

il momento

dell'esilio, della so-

litudine. Alla rappresentazione imperiosa e vividamente mossa della prima parte, tanto nervosamente veloce quanto storicamente oggettiva, sospesa tra lo squillo delle vittorie e il mesto suono delle sconfitte, su- i bentra la più pacata e intima analisi dell'animo dell'imperatore nell'isola remota, sotto l'onda implacas bile dei ricordi, al cospetto della morte. 4

LA GRANDE

||

Nell'anno

LIRICA

E IL TEATRO

35

stesso in cui il Conte di Carmagnola

| passava alla censura e veniva pubblicato, il Manzoni si accinse a scrivere la seconda tragedia. Nel 1820 ‘infatti, tornato

da Parigi,

cominciò

la composizione

dell’Adelchi e vi attese sino a che non l’ebbe com| piuto e stampato nel 1822, benché nel frattempo avesse anche dato inizio alla stesura del romanzo. . La elaborazione dell’Adelchi si intreccia dunque stret“tamente con quella delle odi politiche e con l'ultima fase di revisione della Pentecoste. Concepita verso

la fine del 1820 e terminata nel 1822, quest'opera risente tanto del fervore di speranze suscitato dagli ‘avvenimenti politici piemontesi del 1821, e di cui è

diretta eco nell'’ode Marzo

1821, quanto

dell'amara

delusione che seguì poco appresso, quando ogni speranza di riscatto si mostrò fallace e gran parte degli amici del Manzoni conobbero processi, condanne e | carcere. Anche qui, come nel Carmagnola, l’argomento è storico e la struttura è interamente libera dalle unità drammatiche, L'azione risale agli anni 772774, agli anni cioè che videro la fine del dominio dei Longobardi in Italia e l’inizio della dominazione dei Franchi.

dominano

Sullo

sfondo

cruento

della guerra,

in cui

le figure dei due re antagonisti, Desiderio

«e Carlo Magno, si delineano i drammi intimi di Adel-

chi e di Ermengarda,

entrambi figli di Desiderio ed

entrambi sacrificati alla ragione di Stato. Adelchi, "combattuto tra l’amore della giustizia e della pace e la dura legge dell’obbedienza al padre, che lo costringe ad impugnare le armi-e a trovare la morte in

battaglia, ed Ermengarda, andata sposa a Carlo Ma‘gno e da lui ripudiata, e tuttavia ancora innamorata dello sposo e consumata dai ricordi del tempo felice, sono infatti le innocenti vittime predestinate, i personaggi nobili e generosi, ma sventurati e vinti, della tragedia. Di fronte a loro, i due re rappresentano invece i personaggi politici, chiusi nel loro egoismo,

36

MANZONI

E I CRITICI

schiavi delle proprie ambizioni. Intorno si muove la folla dei Longobardi e dei Franchi, cioè dei guerrieri che si contendono il suolo d'Italia, mentre gli Italiani assistono inerti alla crudele contesa nell’illusione di ricevere dai nuovi invasori, i Franchi, la libertà che ad essi hanno tolto i Longobardi. Nel primo coro, il coro dell'atto secondo, il Manzoni ha tratto profitto da questa situazione per inserire, come già nel Carmagnola, la propria meditazione politica e ha rinnovato così, con grande felicità artistica, il tema della secolare schiavitù italiana e della necessità di non contare sull'aiuto straniero, ma soltanto sulle proprie forze, per rinascere a popolo libero, a nazione indipendente. È un toro epico, con andamento di ballata popolare, dove il Manzoni ha egualmente sentito e rappresentato sia l'affanno dei Longobardi, smarriti e sconfitti, sia la faticosa e infine trionfale marcia dei vincitori, e l'oscura tragedia degli Italiani. La morte di Adelchi in combattimento, il suo estremo congedo dal padre, e la morte di Ermengarda,

distrutta dall'interna pena, insieme con la caduta del-

le speranze di libertà vanamente nutrite dagli Italiani oppressi, concludono la tragedia che ha una struttura più organica del Carmagnola e una sua patetica e severa bellezza lirica: un misto insomma, assai suggestivo, di tenero e forte. Che è poi la nota dominante del secondo coro, quello intonato sul corpo esanime di Ermengarda, ormai prossima a spegnersi. È una delle più belle pagine poetiche della nostra letteratura: qui la triste riflessione sulla infelice sorte terrena dell’innocente è non solo mitigata, ma addirittura risoltain fiduciosa allegrezza dalla sicura fede in un premio riparatore, oltre la vita, e quindi dal riconoscimento del valore provvidenziale della sofferenza. E vi è anche quella rara capacità, già espressa x dal Manzoni nel Cinque Maggio, di rievocare con ted

| 39

rica intensità e con fulminei scorci un'intera esisten-

LA GRANDE

LIRICA

E IL TEATRO

37

za, con i giorni lieti e i giorni tristi, con le dolci tre\ pidazioni e i cari momenti di felicità, e quindi l’ama“rezza del disinganno e lo squallore della solitudine. La Pentecoste è in ordine di tempo il quinto e ultimo inno sacro che il Manzoni ha interamente com- piuto e pubblicato. Cominciato il 21 giugno 1817 e interrotto dopo dieci strofe, ripreso e rifatto a par| tire dall'aprile 1819, fu infine condotto a termine, dopo una nuova interruzione, tra il 26 settembre e il 2 ottobre 1822. Questa lunga e travagliata elaborazione at-

testa l'importanza che questa poesia venne via via as| sumendo nella coscienza manzoniana; mentre la data conclusiva, ottobre 1822, colloca non a caso la redazione definitiva dell'inno, sotto il rispetto concettuale e formale, al di là non solo dei primi quattro inni sacri, ma anche delle odi politiche e dell’Adelchi. E in verità la Pentecoste

riassume,

in un organismo

| perfettamente strutturato, e in un discorso poetico felicemente essenziale, i momenti più alti della me-

. ditazione morale del Manzoni e ne illustra la padro| nanza ormai espertissima del linguaggio poetico, interamente rinnovato nel lessico e nelle immagini, e dello stile, mirabilmente conciso e vigoroso nel suo sempre efficace e ben calcolato giro sintattico. L'inno dissipa prima di tutto quell’ombra di pessimismo etico che grava sulle poesie precedenti e apre il cuore

di tutti gli uomini non soltanto alla speranza del pre_ mio supremo, al di là della vita, ma conforta la loro | fiducia nella presenza attiva della Provvidenza anche | în questo mondo, nella nostra quotidiana esistenza. L'inno esalta, infatti, il grande evento della discesa

dello Spirito Santo sulla terra e quindi è proprio la celebrazione della Chiesa di Cristo militante nei secoli: dalla piccola e umile Chiesa degli Apostoli sino . alla Chiesa trionfante, la cui parola e la cui luce ormai sono giunte in ogni paese, presso ogni popolo. _ Non più dunque soltanto l’immagine del Dio confor-

38

tatore,

MANZONI

ma

estraneo

E I CRITICI

alle vicende

umane,

dominate

dalla violenza dei forti (come Desiderio o Carlo Magno, come i Longobardi o i Franchi), ma l'immagine di un Dio assiduamente sollecito delle stesse sorti mondane dei fedeli e degli infedeli, degli umili e dei superbi, dei giovani e dei vecchi, non più divinità remota e quasi inaccessibile, ma presenza viva, vigile e affettuosa.

LA GRANDE

LIRICA

MANZONIANA

Ma, questa grande lirica del Manzoni, che cosa ha di grande veramente? Non solo la densità, il peso e la forza delle parole, il peso logico pari a quello dell'anima; non solo la rapidità, che fu sua ispiratrice e tiranna, e sempre egli le obbedì [...]; non solo i subiti trapassi, e quegli accoppiamenti istantanei, fulminei, che piacevano al De Sanctis, e che si potrebbero commentare curiosamente con osservazioni del Foscolo, dov’egli parla del « chiaroscuro », sebbene il Foscolo volga, spesso, al quadro, al colore, e il Manzoni a qualcosa di più pensatamente complesso e direi sotterraneo; non tutto questo soltanto; ma una potenza di valori poetici sempre compressa e tumultuante che trova la sua forma in quel comporre corale, col più drammatico contrappunto di parti che mai si conosca nella nostra poesia. Comincia quasi folgorando, quasi per ispirazione demonica,

con

la Risurrezione,

un poco

ristagna

col Natale, ripiglia poi in due cori e in un’ode, ora con più velocità e libertà; e scoppia alla fine con quel coro immenso esultante dell'ultima parte della Pentecoste, slanciantesi sui due « a solo » delle prime par-

ti. Intorno alla composizione e natura della Penteco- | ste difficile sarebbe non trovarci tutti d'accordo. Ma :d

DE ROBERTIS

- LA

GRANDE

LIRICA

MANZONIANA

39

io dicevo che il miracoloè già in quel suo primo co| minciare, è nella Risurrezione, e più di tutto in quella strofe spinta che nel solo giro di sette versi intona tre voci diverse, e scopre dietro quelle voci tre persone indefinibilmente poetiche e potenti. Che parola si diffuse Tra i sopiti d'Israele! Il Signor le porte ha schiuse Il Signor, l’Emmanuele! O sopiti in aspettando, È finito il vostro bando: Egli è desso il Redentor.

{vv. 29-35)

Un impeto

di gioia al ricordo, le grida dei « so-

piti d'Israele », e quel subito trasportarsi del poeta al tempo lontano come testimone e attore, nella gloriosa allocuzione fino al v. 42. Trapassi di tempi, | intrecciarsi di parti e, per più rapidità, consumato ogni legamento, scavalcata ogni giuntura. Ecco, co«me in una macchia, in brevissimo, dichiarata la no-

vità grande del comporre corale della poesia manzoniana; ecco quella che io chiamerei l’irruenza manzoniana; e i confini delle strofe sono rotti da ben altro che da artifici metrici,

lievitano

e sobbollono

per la immissione violenta d'una vita tumultuante, vita di intere genti e di epoche.

Ma il secondo coro dell'Adelchi quasi moltiplica questi valori poetici, e crea una lirica di tal comples| sità e potenza, che pare insieme offrire la misura . d'una forma d'arte eccelsa ed esaurirla. Guardiamo . da vicino la difficile composizione, e la più difficile | unità. Come in un «oratorio », la parte dello « sto. rico » tien la compagine del tutto; e lo storico qui _è il poeta, che narra di Ermengarda morente, e poi

40

MANZONI

E I CRITICI

risoffrente per quest'ultimo assalto avanti la morte. Personaggio centrale il coro, un coro di suore diviso in due tempi, e l'uno umanamente mesto, mestamente accordato, l’altro perentorio e quasi violento e placantesi alla fine in una sorta di catarsi. A dar senso alle due parti corali, a dar più senso al delirio dell'anima « impaurita », quel parlare sommesso dell'altra voce, come fosse il poeta cangiatosi in testimone a difendere il valore e la bellezza del lungo patire della infelice. Distinguo ora veramente le persone e le parti. Ermengarda sul letto di morte, che ha

detto:

« Parlatemi

di Dio », ha

sentito

ch«ei

giunge ». Le suore intonano il canto: « Sgombra, o gentil ». Il poeta, umano, presente, partecipante, sa il tormento dell’« ansia mente », conosce tutta la storia, e rifà questa storia, della felicità perduta, degli

« irrevocati dì ». Impossibile dimenticarla, e non può neppur ora, sul punto di morte. Vedete, s'era un poco assopita, con quella volontà di pregare Dio: ecco di nuovo prostrata. E le suore per questo ripregano,

dicono crudeli parole. « Te dalla rea progenie — degli oppressor discesa ». Ermengarda non sapeva perché soffriva così, non

aveva

mai veduto

oltre il suo

dolore. Ora sa. Quelle parole l'hanno toccata nel profondo: ha sentito pesare la mano, la mano riparatrice della « provida » sventura. Il passato è passato, è scontato; può morire in pace, ora. Senti l’ultimo canto sgombro d'ogni affanno e, commista, la sua voce, in quel castissimo smorzato. Con la faccia lieta come un dì, apparirà dinnanzi a Dio, felice come

quando sognava la felicità. Difficile decidersi. Ma quasi verrebbe voglia di tentare a dirittura la realizzazione scenica di questa inquietante « partitura ». Con quel variare di voci e di tempre, con quella giusta differenza di toni, con quell’intrecciarsi di parti regolato da un’arte secre-

DE

ROBERTIS

-

LA

GRANDE

LIRICA

MANZONIANA

41

| tissima, ma sopra tutto portato innanzi da un'ispirazione multanime. GIiusEPPE

IL CRISTIANESIMO

DEMOCRATICO

DE

ROBERTIS *

DEGLI

« INNI

»

Nel 1815, quando la reazione era già molto avanzata negl’intelletti, sì che la lega de’ prìncipi si chiamava:- Santa Alleanza, e si uccideva in nome della Santa Fede, fra il rumore de’ grandi avvenimenti,

‘usciva in luce un libriccino, a cui nessuno badò, in| titolato Inni. Foscolo chiudeva il‘ suo secolo co’ Carmi; Manzoni apriva il suo con gl’Inni. Parevano due mondi opposti. Lì era l’Umanità senza l’anima e sen. za Dio. Qui dopo lungo obblio di secoli ricompariva ‘il Cielo. Il Natale, La Passione, La Pentescoste erano le prime voci del nuovo secolo. Natali, Marie e

. Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura, ma©teria insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. . Mancata era l'ispirazione, da cui uscirono gl’inni della Chiesa, i canti religiosi di Dante e del Petrarca, e i quadri e i templi e le statue de’ nostri antichi artisti. Su quella sacra materia

avea soffiato il seicento

e l’Arcadia, insino a che disparve sotto l’ironia e il sarcasmo del secolo XVIII. Ora la poesia faceva an. che lei il suo concordato. Ricompariva quella vec| chia materia, ringiovanita da nuova ispirazione. Onde veniva all'Italia quella nuova ispirazione? | Dissero d’oltremonte. Narrarono che il giovine Man‘ zoni, partito d’Italia tutto pieno di Alfieri, fosse ve‘nuto di Parigi romantico e cattolico, capitato in quei circoli intedescati, gi

che facevano

opposizione

all’im-

o» Da Poesia del Manzoni, in Studi, Firenze, Le Monnier,

1944, pp. 139-141.

42

MANZONI

E I CRITICI

pero, o piuttosto alla rivoluzione, e proclamavano la legittimità e il diritto divino. Parve al giovine ve- . dere mondo nuovo, e gl’Inni uscirono da quel primo entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era nuova di pace. La giovine generazione sorgeva tra queste illusioni; e mentre il vecchio Foscolo fantastica-

va un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l’ideale di un paradiso cristiano, e lo riconciliava con lo spirito moderno. Il medesimo fu di Cesare Beccaria. Anche lui era stato a Parigi, e n’era venuto volteriano ed enciclopedista. Da Parigi veniva la rivoluzione, da Parigi

veniva la reazione. L'Italia era uscita dalla sua solitudine intellettuale ed era al seguito, riceveva l’impulso. Il centro più vivace di quel moto europeo in Italia era sempre Milano, dov'erano più vicini e più potenti gl’'influssi francesi e germanici. Là s’inaugurava nel Caffè il secolo XVIII. E là s’inaugurava nel Conciliatore il secolo XIX. Manzoni succedeva a Beccaria, e i Verri e i Baretti del nuovo secolo i Pellico, i Berchet, i Grossi, i D'Azeglio.

erano

Il fenomeno non era solo italiano, era europeo. Fin dal secolo scorso cominciata era una più stretta comunanza intellettuale nella colta Europa, aiutan-.

do a ciò anche le guerre napoleoniche, L'imperatore portava in Germania le idee francesi e riportava le idee tedesche a Parigi. Il nemico galoppava dietro

al suo cavallo. Parigi diveniva un centro attivo di scambi intellettuali, di esportazione e d’importazione. Le idee locali, manifatturate a Parigi, prendevano faccia europea. In quel centro vivace di formazione e di diffusione l’ammiratore di Alfieri, l'amico di

Goethe, di Cousin e di Fauriel, s’iniziava alla vita europea, prendea l’aria del nuovo

secolo.

DE SANCTIS

- CRISTIANESIMO

DEGLI

« INNI »

43

Ma l'uomo nuovo, che si andava in lui formando, non cancellava l'antico; anzi vi s'inquadrava. Ri-

maneva l’erede di Beccaria, il figlio del secolo XVIII, l'ammiratore d'’Alfieri. Il sentimento religioso non ‘operò in lui come reazione, o negazione, cacciando violentemente dal suo seno le convinzioni e i sentimenti antichi; anzi consacrò quelle convinzioni e quei sentimenti, ponendoli sotto la protezione del cielo. Il nuovo cattolicismo aveva i suoi furori, le sue vendette, le sue esagerazioni. Il romanticismo era

una vera reazione, perciò esclusivo ed esagerato. ‘Quanta passione in quei romantici! Respingevano il paganesimo, e riabilitavano una mitologia nordica.

Volevano la libertà dell’arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice delle forme classiche, e vi sostituivano il gotico, il fanta\\rstico, l’indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio e il convenzionale dell’imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico idolatravano il brutto. A una superstizione tenea dietro l’altra. Ciò ch'era i legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano, grossolano; artificiale in tanta distan-

za di tempi, in tanta differenza

di concepire

e

di

sentire. Manzoni in tutte queste violenze d’idee e di stile non vede altro se non un contenuto religioso redivivo sulla terra, Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. La sua anima giovanile, già piena di . un mondo morale, i cui nobili accenti odi suonare ‘ne’ versi per la morte di Carlo Imbonati, accoglie

que’ sentimenti religiosi come compimento e corona di quello. Ritorna la Provvidenza sulla terra, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speN ranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce, si apre Re . è PIPICI de . . . | a sentimenti miti: su’ disinganni e sulle discordie | mondane spira un alito di perdono e di pace. Que-

44

MANZONI

sto è il paradiso

E I CRITICI

cristiano,

vagheggiato

negl’/nni.

Senti che lo spirito nuovo in quel ritorno delle idee religiose non le assimila,

abdica, e penetra in quelle idee e se e vi cerca

e vi trova

se stesso.

Perché

la base ideale di quegl’Inni è sostanzialmente democratica, è l’idea del secolo battezzata

sotto il nome

d’idea cristiana, l'eguaglianza degli uomini tutti fratelli di Cristo, la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli oppressi, è la famosa triade, libertà, uguaglianza, fratellanza, vangelizzata, è il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e armonizzato con lo spirito moderno. Onde nasce un mondo ideale, riconciliato e concorde, ove si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che nel suo dolore pensò a tutti i figli di Eva; ivi è Maria, nel cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lagrima; ivi è lo Spirito, che scende aura consolatrice ne’ languidi pensieri dell’infelice; ivi è il regno della pace; che il mondo irride, ma che non può rapire. Il nunzio di Dio non si volge alle vegliate porte de’ potenti, ma ai pastori ignoti al duro mondo. La madre compose il figliuolo in poveri panni, nell’umil presepio. Il povero, sollevando le ciglia al cielo che è suo, volge in giubilo i lamenti, pensando

a cui somiglia. La schiava non

so-

spira più, baciando i pargoli, non mira invidiando il seno che nutre i liberi. Lo Spirito scende placabile, propizio ai suoi cultori, propizio a chi l’ignora. Il fanciulletto nella veglia bruna chiama Maria, il navigante nella tempesta ricorre a Maria. Gli uomini sono nati all'amore, nati alla scuola del cielo.

Questo mondo ideale contiene in sé il mondo morale, come l'aveva concepito il pensiero moderno. È il mondo della libertà e dell’eguaglianza tolto a’ filosofi e rivendicato alla Bibbia, alla rivelazione cristiana. Certo, la realtà non era d'accordo con questo ideale, chi pensi cosa era allora la Santa Fede e

ii e

DE

SANCTIS

- CRISTIANESIMO

DEGLI

« INNI »

45

| la Santa Alleanza. Ma il poeta era la nuova generazione, pura di passioni giacobine e sanfediste, avida di pace dopo sì lunga lotta, aperta alle illusioni, facile a’ rosei ideali. Dopo così violente espansioni nel mondo esterno lo spirito si raccoglieva in sé, diveniva contemplativo e religioso, si creava nella sua solitudine un mondo ideale. Ivi realizzava quella so| cietà che vagheggiavano Beccaria e Filangieri con una fede robusta, fiaccata dall’esperienza; ivi trovava Dio accanto al fanciulletto, alla femminetta, alla schia-

va, al povero, all'oppresso; ivi costruiva quel regno della libertà e dell’eguaglianza, di cui ogni vestigio dopo tante illusioni e speranze era scomparso sulla terra. Il mondo religioso, ridotto vacua esteriorità, riacquistava un contenuto, riconduceva nelle sue forme l'antico ideale oscurato nella coscienza, e, spo-

| gliatasi la sua rigidità dommatica ‘ lava come

arte e come

e dottrinale, bril-

morale. FRANCESCO

DE SANCTIS *

IL « CINQUE MAGGIO »

Il Cinque Maggio è celebre per lo «stile pindarico »: effettivamente procede per un incalzare di larghi periodi giustapposti, succedentisi secondo una coerenza commossa, ma lucida. Non ci sono « voli », ‘passaggi richiamati da arcane analogie; qui tutto è

terso — abbiamo a passo | nascosto che lega questa | pra un succedersi di temi stapposti, bilanciati alla

a passo riconosciuto il filo logica poetica e corre soe di toni incatenati e giuloro volta sui due diversi

x x

* Da La letteratura italiana fe secolo | Manzoni), Bari, Laterza, 1953, pp. i ti?]

XIX,

vol. I (A.

46

MANZONI

E I CRITICI

piani da cui li considera il poeta. Si tratta dunque di una commozione profonda, ma per nulla affollata e tumultuosa, di una commozione che anzi si svolge secondo una linea continua di ascesa durante la quale le grandi opposizioni terrene che dividono l’eroe dal mondo dei contemporanei; la plebe dal vate, e sono dapprima drammaticamente rappresentate, a poco a poco si fondono e si concentrano scrutate in: fondo all’animo di Napoleone e si placano infine,

conciliate entro un senso di umana fralezza alla quale sovrasta la misericordia divina. Una linea lungo la quale l’annunciarsi, l'affermarsi per gradi e alla fine il placarsi della tensione lirica conferisce un non so che di drammatico, quasi di Mistero. In questo impasto di commozione e di chiarezza, è stato facile a noi — del resto in pieno accordo con la critica più recente — riconoscere una singolare realizzazione della complessa forma interna che è propria del Manzoni e traluce sino dalla duplice tonalità della prima strofa di cui tutt'intera l’ode non è che uno sviluppo armonico di variazioni. A Ci resta

da vedere

[...] come

questa

singolarità

si rifletta su tutta quanta l’espressione verbale e le conferisca un suo preciso e unico valore. Possiamo cominciare da quella concitazione su cui corre l'ode: tutta quanta, come ha visto da un pezzo il De Sanctis che vi ha scorto: «una corrente continua, la rapidità, il calore con cui il poeta ha dovuto concepirla ». Alludeva forse il De Sanctis ai famosi tre giorni che non dettero pace al poeta sin che non giunse all'ultimo verso? In ogni caso alludeva romanticamente a una « possente impressione immediata ». Ve-

dremo più innanzi che l’interpretazione del De Sanctis è per lo meno semplicistica: la concitazione del Cinque Maggio muove da stimoli ben più profondi; ma è pure innegabile che in essa trovi eco una com-

mozione

subitanea. Ce lo attesta, come

abbiamo

vi-

TERRACINI

- IL « CINQUE

MAGGIO »

47

sto, lo stesso «ei fu» iniziale riecheggiato lungo tutta l'ode («ei fu... ei provò... ecc. ») a conferirle

‘un inconfondibile

andamento

epico, ricco

di toni

marziali, dall’incalzare dei quali traluce appunto la subitaneità di quella commozione. Tutto il resto è sul piano di una evocazione e - contemplazione pensosa, che ora si allarga allacciando due sestine, come

nel commosso

inizio e nel cul-

» mine centrale dell’ode, ora rimane costretta in an"damento binario di coppie di versi incalzantisi in virtù di sintagmi simmetrici e esatti!, incalzantisi sempre, anche quando l'onda melodica dell’intonazione indugia adagiata su due coppie successive ?, ‘| prima nell’ascesa, poi nella discesa conclusiva.

Ma parlando di ritmo e di intonazione siamo ormai passati alla grande sintassi dell’ode. I periodi si . succedono seguendo fedelmente la struttura .melodiica di ogni strofa; ciascuna di queste costituisce come un mondo a sé, a meno che l’impeto non porti il poeta a campare il suo discorso sull’ampiezza di » un'intera coppia, guidato in questo caso dalla con| sonanza

della comune

rima tronca finale. Non è sol-

‘tanto l’aggiustarsi della sintassi alla corrispondenza che lega da una strofa all'altra i due membri delle comparazioni, ma sono l'ansia di un'ambizione incoercibile e la risposta di una dubbia e alterna for1 Tipiche le strofe formate dai vv. 79-84 (E ripensò...): 43-49 (Tutto ei provÒ...). 2 Ad. es. le due strofe in serie Lui folgorante... e Vergin di servo... presentano la combinazione 4:2 che è la più coinune. Invece la seconda strofa (Muta pensando...) è ordinata secondo la cadenza 2:4. In qualche caso la clausola conclusiva dell’intonazione è attenuata perché subordinata a sua volta a una più ampia cadenza in ascesa che si con. clude soltanto nella strofa successiva. Così la intonazione 34.

conclusiva di l’assalse il sovvenir si perde nell'attacco E disperò della strofa seguente. Questo agganciamento ritmico

è particolarmente chiaro in Tutto ei provò.

nelle

due

strofe

che

fanno

perno

48

MANZONI E I CRITICI

tuna che ruotano lungo due strofe attorno a « tutto ei provò »; è infine il « crescendo » dei tre imperativi (« scrivi... allegrati... sperdi ») della perorazione finale. Una

sintassi

dunque eminentemente

poetica,

an-

che nei particolari minori della sua struttura. Fin dal principio (« siccome immobile... » e immediatamente dopo « così percossa... sta » e via di seguito) è tutto

un procedere per una serie di rotte impressioni; poco importa

se il poeta

si soffermi

su una,

con

un

istante di riflessione: «folgorante in solio »; tosto un’altra succede: « quando con vece assidua... ». L'effetto di questo incalzare a scatti di impressioni giustapposte è molto semplicemente ottenuto ponendole in evidenza mediante ovvie prolessi, ora di apposizioni del soggetto, ora di complementi circostanziali, in modo che cada su di esse, come si dice, l'accento psicologico di ogni proposizione. È un procedere così costante e saldato all'andamento naturale del discorso, che di questo fare prolettico appena appena ci accorgiamo quando dà luogo a vere e proprie inversioni del complemento di specificazione: « di ‘mille voci al sonito... del creator suo spirito... dei dì che furono... ». In realtà prolessi e inversioni

non

sono

affatto; queste più minute sfaccettature di un lampeggiare di impressioni sono la forma naturale richiesta dal particolare momento lirico !. Tanto è vero che esse sono spoglie affatto di quell’enfasi retorica 1 Forse in un caso solo si può riscontrare in una di queste inversioni il riflesso di un modulo particolare; è l’esempio, unico in tutta l'ode, fornito da prode remote invan, con l'avverbio che termina tutta la traiettoria di uno sguardo ansioso (tesa... scorrea... a scernere), da ogni elemento della quale è grammaticalmente separato con calcolata indeterminatezza. Sarei incline ad avvicinare questo distacco a un vezzo pariniano, in particolare quando il Parini ne fa una sorta di immaginosa onomatopea sintattica (« che mal può la dovizia — dell’ondeggiante al piè veste coprir »).

TERRACINI

- IL « CINQUE

MAGGIO »

49

che per solito si accompagnava a questi costrutti; tutt'al‘più di quella retorica sopravvive una certa so-. lennità che si addice a quella prospettiva di poetica lontananza su cui l’ode, come tutta la lirica manzoniana, è profilata. : Si tratta in sostanza di una forma antica ormai logora e prossima ad esaurirsi; il Manzoni è capace

all'occasione di ringiovanirla con l’audacia naturale ‘e discreta che gliè propria e di conferirle una scioltezza tutta nuova, in grazia del resto di una libertà sintattica perpetuata a sua volta da una tradizione . secolare della nostra lingua. Questo rinnovarsi di una forma

antica,

stico, diviene

immersa

in un

particolarmente

nuovo

ambiente

interessante

stili-

quando

«prendiamo a considerare le poche inversioni che coinvolgono addirittura il complemento oggetto, poche per vero e più marcate e concentrate nella prima | parte dell’ode che più indulge a questo procedere | impressionistico. Eppure anche queste inversioni più

forti passano inavvertite per la ragione che abbiamo ‘detto e per altre ancora. Anzitutto è evidente che irraggia su di esse il riflesso del comune andamento | discorsivo e piano che predomina nell’ode e anzi spicca nelle parti riflessive (« e scioglie all'urna un can| tico... sperdi ogni ria parola... »); in secondo luogo entra in gioco una sorta di equilibrio, metrico a un tempo e sintattico, che interviene direi col suo peso _a neutralizzare la forza della inversione prolettica. Un esempio evidente ne abbiamo visto nelle due strofe «La procellosa e trepida... tutto ei provò: la glo-

‘ria... » che fanno l'una da contrappeso all'altra. Un

altro caso probabilmente si deve scorgere in « e i dì nell’ozio chiuse... » dove l'inversioneè tutta contenuta nella porzione a intonazione sospensiva della frase, che riversa tutto il suo peso sulla parte conclusiva prolungantesi per ben quattro versi, fino al

50

MANZONI E I CRITICI

finale della strofa! Possiamo dunque affermare che in linea generale si deve soprattutto al potere irraggiante della piana sintassi discorsiva su cui corre l’ode, se in essa trovano posto adeguato tutti quei tratti della forma poetica tradizionale che il Manzoni, per le note ragioni prospettiche, conserva, ma ad un tempo rinnova sì da appaiarle alle forme e agli atteggiamenti nuovi che assorbe dal romantici-

smo: come sarebbero il procedere per antitesi e l'affidarsi all’espressività di un lessico spoglio di paludamento letterario. All’interno dei grandi periodi liricamente sovrapposti il discorso si svolge su una forma semplicissima, di brevi proposizioni coordinate: « sta... né sa... sorge... e scioglie... cadde... e disperò »; non ci sono praticamente subordinate; i due « quando » stan fuori del racconto, sono pensieri evocati (« né sa quando »), e circostanza temporale parimenti evocata (« quando con vece assidua »); le relative hanno tutte

una funzione eminentemente descrittiva come di grandi epiteti («il Dio che atterra e suscita »). Né esce dal tono discorsivo la vena sentimentale che movimenta l’ultima parte dell’ode con le sue esclamazioni e imperativi, anzi suggerisce con molta discrezione l’illusione del parlato. Del parlato questo discorso ha pure la apparente approssimazione dei nessi congiuntivi, dove il polisindeto affidato al potere evocativo

del semplicissimo

« e », ora rallenta e

addolcisce la successione delle azioni, ora ne esprime la incessante alternativa, o anche una ansiosa progressione (« e il giunge, e tiene un premio »); all’asindeto sono affidate analoghe, e anche più spiccate, funzioni che abbiamo già avuto occasione di ricordare. 1 Ad una punta di enfasi giustificata dal tono eloquente della strofa Lui folgorante in solio attribuirei le inversioni

del primo e dell'ultima coppia di versi, che ne costituiscono addirittura l'ossatura. È

|

TERRACINI

- IL « CINQUE

MAGGIO »

Si

Ma si tratta, manco a dirlo, di una pura illusio‘ne; non è sintassi scritta questa, piuttosto una sin‘tassi che conta su relazioni implicite, ma chiarissi-

me; il ricordarle brevemente ci riconduce a quell’im| pressionismo e a quella concitazione in cui abbiamo | riconosciuto l’atteggiamento dominante del poeta. Per intenderci meglio sarà bene rifarci alla spo-

. glia «immobile » che richiama la terra « percossa », ‘| così come « immemore » corrisponde a « attonita » e a « orba » risponde « muta ». Ma la reale funzione di questa corrispondenza! si rivela soltanto quando ci facciamo a considerare la complessa struttura. Non soltanto essa lega ciascun termine di una serie della comparazione a un termine dell'altra, ma i tre ter-

mini di ciascuna serie sono alla loro volta ordinati secondo una calcolata gradazione (« immobile, immemore, orba » ecc.). Orbene, possiamo affermare

più in generale che i valori semantici del lessico manzoniano, in forma più o meno complessa, sono ordi. nariamente determinanti in funzione di un termine

correlativo. Qualche volta si tratta di vocaboli che la collocazione sintattica pone in opposizione (« dal Manzanarre al Reno »). Più spesso è una opposizione decisa e semanticamente rilevata: « immensa invidia... pietà profonda », ecc. ecc. Tutto il cosmo terreno del Cinque Maggio può dirsi costruito su opposizioni che riecheggiano con infinite variazioni l’'op| posizione

ra»)

più potente

e significativa

da cui l'ode prende le mosse.

(«ei...

la

ter-

Esse rappresen-

1 Il Manzoni fu lodato per l'esattezza di queste simmetrie, in forza delle quali traslati e similitudini acquistavano ‘ ‘una chiara evidenza descrittiva, quando non fu accusato di mostrarsi con esse più tecnicamente abile che poeta. Ma sappiamo pure come la potente fantasia del Manzoni obbe5» disce sempre a un'esigenza razionale. La similitudine manzo‘miana va dunque intesa in questo senso [...]; anche in que|sto caso il Manzoni accoglieva una forma poetica tradizio— nale, ma le infondeva uno spirito affatto nuovo.

52

MANZONI

E I CRITICI

tano la favolosa attività dell’eroe e l’inanità delle sue vicende, il prepotente incalzare della sua brama di potere e le discordi reazioni del mondo...: in una parola, il gioco di queste opposizioni viene ad esprimere il molteplice pullulare della vita. È un procedere tutto a scatti, qualche volta limitato e ordinato da un termine riassuntivo !, più spesso abbandonato a se stesso sì da suscitare semplicemente un’'impressione di moto e di spazio, o il continuo trascinarsi di ormai spente vicende, come abbiamo visto. Ma in ogni caso questa successione di impressioni bilanciate su una coppia di termini richiede che ciascuno di questi sia perfettamente delimitato; questa esigenza si ripercuote in particolare sull'uso dei tempi dell’ode, dove la vicenda delle azioni è prospettata per una semplice successione di forme: « cadde, risorse e giacque; ei si nomò », allineate l'una accanto all'altra senza sfumature esplicite di circostanza o di aspetto, od opposte crudamente: « stette... sta... », l’aoristo

per Napoleone

evocato,

il presente

per il mondo privo di lui. p Entro il netto contrasto dei due piani verbali, zone di sfumature delicate in discreta penombra certo

non

mancano,

benedetta

struttura

ma

per

riconoscerle

composita

con

questa

della lingua manzo-

niana, dove tutto par sciolto e invece è tutto un gioco di serrate corrispondenze, ci converrà rifarci an-

cora una volta alla comparazione iniziale, L’impercettibile intervallo temporale che separa l’azione indicata col verbo principale « stette » da quella richiesta dal participio « dato », e fa di questo grammaticalmente un ablativo assoluto, è pressoché annullato dalla circostanza che questo participio è posto 1 Il tutto ei provò, analogo al sempre del Coro: « Ahi! tenebre. — Pei claustri solitari. — Tra il canto delle vergini — Ai supplicati altari — Sempre al pensier tornavano... ». nelle insonni

TERRACINI

- IL « CINQUE

MAGGIO »

53

| sulla stessa linea sintattica e metrica di due agget‘tivi predicativi (« immobile, orba ») allineati alla loro volta ad un epiteto (« immemore ») descrittivo !. Proseguendo per questa via, né «chinati i rai fulminei », e tanto meno

possono

« le braccia al sen conserte »

dirsi veri e propri ablativi assoluti, equipa-

rati come sono a un aggettivo predicativo. Essi, a guardar bene, rappresentano una condizione di immobilità appena raggiunta. Analogamente nel Coro di Ermengarda « sparsa le trecce morbide, lenta le. palme e rorida », ecc. (dove l’audacia stilistica del . Manzoni

sa piegare compostamente

a sé un accusa-

tivo alla greca) questa fusione di aggettivi e di participi si risolve nella resa di un palpito di vita. Questa intenzione si ritrova in forma più delicata e distesa nel Coro, ma non sì che una lievissima anno-

tazione verbale non si possa perfino riconoscere nel guizzante « tremulo », ultima fiammolina di vita che — ravvivata da una ferma speranza — sarà ripresa

».con l’immagine del « trepido » occidente del sereno finale. Variando la forma di questi impercettibili trapassi il cristiano Manzoni ama figurarsi « l'uomo in punto di morte ». Qui è di rito citare don Rodrigo morente: « stava l’infelice immoto, spalancati gli oc| chi, ma macchie

senza nere;

sguardo, pallido il viso e sparso di nere ed enfiate le labbra... ». Qui si

tratta di una immobilità,

o piuttosto di una

cessa-

zione di vita, offerta allo sguardo attonito di Renzo.

Ad ogni modo la prima comparazione dell’ode con 1 Si noti che | contengono

immemore,

nella loro stessa

immobile struttura

ecc. una

alla loro volta

connotazione

ver-

bale e vanno qui intesi come decomposti in-memore, inmobile ecc. 2 Forse nessuna delle liriche manzoniane conosce un’ugual delicatezza di penetrazione psicologica come quella che il . Manzoni raggiunge con la foritura di aggettivi attributivi di cui circonda Ermengarda: /a pia, la mesta, la tenera, gentil ». tac

54

la sua

MANZONI

asciutta

struttura,

E I CRITICI

ci ha permesso,

se non

mi

inganno, di afferrare il processo che ha portato nel delicato mondo delle preferenze manzoniane al predominio dell’aggettivo!, del vecchio aborrito aggettivo; ci ha mostrato per così dire col ralenti non solo

l'equiparazione di aggettivo e participio passato, ma soprattutto come in grazia di essa si crei uno schema sintattico-metrico che si ripete in tutta l’ode: « vergin... sorge... sommessi... si volsero... arbitro s’assise... alta... scorrea... valida venne... pietosa il trasportò », nel quale la posizione predicativa conferisce all’aggettivo un valore pregnante eminentemente verbale (secondo del resto la natura che gli è propria), valore per il quale una qualità viene a essere

considerata come l’effetto di un'azione in via di compiersi o che

si è compiuta.

Ed

è questa

una

pro-

prietà che si attaglia assai bene a una fantasia come quella del Manzoni, più attenta alla sostanza interiore che all'apparenza del mondo e degli atteggiamenti umani. i Più in generale possiamo vedere come l’uso dell'aggettivo rifletta quella potenza di concentrazione che domina tutta quanta la struttura dell’ode. Tranne spunti che sfiorano il semplice epiteto esornativo 1 Ci troviamo qui nel cuore del problema prospettato dal DE LorLIs nel Saggio sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, che per il Cinque Maggio (e gli Inni e i Cori) epigraficamente conchiude: «la lingua poetica è quella ancien régime, ma ci sta dentro tutto quanto è meno classico... »; la pallida figura di Napoleone appare «laggiù sopra una roccia perduta dell'Oceano — vero Golgota galleggiante — mondata di ogni orpello stile empire e ammodernata, cioè romantizzata nel supremo amplesso del Dio che atterra e suscita ». Un miracolo appare al De Lollis questo impasto; ora il miracolo è formalmente ottenuto grazie all’irraggiamento che ha fermata la nostra attenzione. Si potrebbe in-

vocare anche la definizione che Russo ha dato della forma poetica del Carducci, Il linguaggio poetico del Carducci (nel vol. Carducci senza retorica) di impostazione affatto simile

a quella del.De Lollis.

TERRACINI

- IL « CINQUE

MAGGIO »

55

(i « floridi sentieri ») o sanno di esattezza prosaica \ («vera gloria, l'ardua sentenza »), che ci sono difatti serviti di spia per notare un certo rilassamento del tono lirico, prevale l’epiteto determinante, voluto. L'aggettivo è per Manzoni una cosa seria; anzitutto, a liberarlo dalla servitù del sostantivo, egli

ama staccarlo metricamente per mezzo dell’enjambement: «trepida — gioia; ultima — ora», ecc. In secondo luogo egli fa dell’epiteto un elemento richiesto dalla simmetria delle opposizioni (« immensa in-

vidia... pietà profonda »). Infine prevale un tipo di | epiteti che valgono, come le forme predicative, per . tutta un'espressione dispiegata. Per lo più è una lieve, latente connotazione verbale che sfocia in un effetto largamente descrittivo: « deserta coltrice, stanche ceneri, cruenta

polvere »; in altri casi sono for-

me che potremmo chiamare brachilogiche o ellittiche, perché come frementi di circostanze sottintese e implicite nella stessa loro aggiustatezza a un pre. ciso momento della situazione, come l'alternarsi dei due aggettivi sostantivi « di quel securo!» prima e « del misero » poi, o il « giorno inerte », o infine «l’uom fatale », il cui valore pregnante è del resto più tardi richiamato da « come aspettando il fato ». . Russo dalla coppia di epiteti all’inizio de La Passione Cheti

e gravi oggi al tempio

moviamo

1 L'aggettivo sostantivato è forse fra tutti i tipi di aggettivo quello in cui il Manzoni più chiaramente sentiva una impronta verbale. L'esempio più evidente è dato da ancor cara, improvida del Coro, in grazia della presenza dell’avverbio. Nel caso

di quel securo, al riferimento di uno stato d’animo si aggiunge una connotazione ammirativa (cfr. quel Vigoroso, il Bramato, il Risorto che costellano La Resurre. zione). In altre condizioni l'aggettivo sostantivato assume ‘invece una significazione ironica: « Vorrei un po’ sapere chi “sarà quel voglioso che verrà quassù... Venga, venga quel tanghero!...» esclama don Rodrigo.

56

MANZONI

E I CRITICI

prende l'occasione per scrivere una finissima pagina sulla doppia aggettivazione prediletta dal Manzoni, e ne ritrova gli esempi più suggestivi in due « ritratti» dei Promessi Sposi, nella « giovinezza avanzata ma non trascorsa » di Cecilia, e nella figura « grave e vivace » del cardinal Federigo. In questi ritratti il

guizzo di vita interiore è colto per due trari. In questo modo, nella forma tutta Manzoni imprime all’antitesi romantica, obiettivato quel momento riflessivo che bile dal suo umorismo, o se si vuole quel spirito d'indagine psicologica che cerca stato

apparente

una

vibrazione

punti consua che il si riflette è inseparasuo sottile sotto ogni

di vita. Il caso

più

calzante di questa penetrazione — direi allo stato puro, perché libero da ogni intenzione descrittiva — l'abbiamo visto nella progressione segnata dalla terra « percossa, attonita », « orba », ecc.; e un altro ne ritroviamo nella « procellosa e trepida gioia ». Entro una tonalità più commossa, evocante le illusioni di Ermengarda, con levità di tocchi successivi, il poe-

ta raggiungerà a questo modo l'espressione di un sentimento rarefatto come di sogno: « lievi pensier virginei, quando ancor carà, improvida... ». Può recare qualche sorpresa a noi avvezzi all’agile esercizio della critica stilistica vedere come la critica del secolo scorso si sia accanita col Manzoni forse più che con altri poeti a soppesare la proprietà di questa o quella voce, animata del resto dallo stesso Manzoni, con qualcuno dei suoi commenti chiarificatori che a noi paiono peccare talvolta di una modestia un tantino eccessiva. Questa arrendevolezza manzoniana è forse minore di quanto a noi paia: essa nasce non soltanto dalla sua educazione retorica, ma dalla sua esigenza di chiara aggiustatezza delle parole, che lo portava a soffermarsi sul particolare. D'altra parte è innegabile che questa insistenza po-

teva fargli perdere di vista i valori d'insieme. Può

TERRACINI

- IL « CINQUE

MAGGIO »

57

‘darsi ad esempio che il Manzoni abbia effettivamente | cercato invano, come

ha dichiarato, di evitare il fa-

moso sovvenir; ma a noi pare oggi di indicare la ‘ragione che gli ha impedito di trovare di meglio: ed è la levità stessa del ricordo espressa da questo . verbo, la levità che spiaceva al Tommaseo perché la giudicava inadeguata ad un verbo così forte come «assalse », ed invece vi si adegua meravigliosamente

è per antitesi: è l’insinuarsi ad uno ad uno dei ricordi sino a far groppo tutti insieme: è l’antitesi che contiene in germe lo sviluppo della strofa successiva: « e ripensò le mobili tende... e disperò... ». A questo modo già siamo penetrati nel mondo lessicale del Manzoni. La concitazione stessa con cui è condotta l'ode, l’eloquenza civile con cui s'inizia, il tono di preghiera con cui si conchiude, l'alto livello da cui si pone il poeta esigevano una materia linguistica capace di creare una certa lontananza, e qui il Manzoni si trovava a suo agio nella tradizione della poesia italiana. La cornice è quella di tutti gli Inni, e più direi delle Tragedie — e tra queste dell’Adelchi — appena appena accennata da «ei», da « correa », forme tra le quali non manca « fia », a far compagnia discretamente alma, periglio » nonché a ta », e a quanti latinismi biasimati, in quest’ode.

‘no questa abbondanza. sdruccioli;

ferma

a « spirto, polve, rio, aere, « sonito, solio, urna, eruensono stati elencati, e anche I commentatori attribuisco-

all'esigenza dei

tutto può darsi, ma

decisamente

molti

la lettura

quest’impressione.

non

Diremo

versi con-

piut-

tosto che, preso a uno a uno, ciascuno di questi vocaboli non è affatto un latinismo, ma trova nel testo

(e ne abbiamo dato qui esempi più che a sufficienza) la sua piena giustificazione semantica e stili-

stica ad un tempo. Ma nemmeno a considerarle nel loro complesso, queste voci possono dirsi latinismi nel senso corrente della parola; esse rappresentano

È

19 ì

ti

58

MANZONI

E I CRITICI

piuttosto quella più larga gamma di possibilità lessicali che la più classica delle lingue romanze trova nel latino fin dalle origini,

traendone

un

aspetto

di

composta nobiltà, la stessa che è raggiunta ad esempio da certo sapore virgiliano di alcuni epiteti: « deserta coltrice, rai fulminei, la stanca mano », e fa da alone alla loro intrinseca necessità espressiva. Qui il poeta non supera, anzi approfondisce, una tradizione di lingua poetica che sentiva ben viva e ben sua. Il cosmo linguistico degli Inni è letterario, lo sappiamo; ma tutta questa atmosfera di lontananza si fa attuale, composta come è da un discorso corrente su una sintassi semplicissima, e popolata da un robusto sistema di azioni esattamente determinate, intrecciate a impressioni e immagini piegate sottilmente alle vicende di quelle azioni. Ma al di sopra di questa sfera di irrequietezza terrena, ben altra forma di dizione si spiega liberamente sul piano di una ferma religiosità. Sono parole piane, là dove suonano più schiette, appena rilevate dalla sostenutezza di una tradizione biblica che conferisce ad esse una connotazione di certezza durevole, foggiata immutabilmente nei secoli: « chiniam la fronte, del creator suo spirito », espressioni che stanno sullo stesso livello del cristianissimo « forse ». Al « Dio che atterra e suscita » o all’endiadi di « si-

lenzio e tenebre » non sarebbe difficile trovare riscontri biblici, ma non si tratta certo di reminiscenze letterarie, è la forma gettata nello stampo perpetuo e arrendevole di una preghiera. Negl'istanti in cui più libero e alto si libra lo spirito religioso, il Manzoni sente la parola dei testi sacri come la sostanza stessa della sua poesia; così l'hanno sentita i grandi Padri della Chiesa, così il richiamo ai Salmi risuona nel Cantico di Frate Sole. Un'impressione

di ferma

certezza

emana,

come.

TERRACINI

- IL

« CINQUE

MAGGIO »

59

‘dicevamo, da queste parole piane e durevoli, e culmina in quella che domina tutto il finale, la « speranza » (prima era « ansia, procellosa... gioia ») conferendole un significato assoluto così come al suo contrario « e disperò ». In questa sfera si rende parimente assoluto il significato di « immortal », dei «campi eterni », di « premio »; si trascolora di un valore trascendentale — amor divino più che umana commiserazione — il significato di « valida, pietosa »; si annulla quello di « gloria ». Nonostante il « sui » il « sovvenir », se c'è un poeta che, in fatto di lessico, non è possibile cogliere in cerca di « evasione », è il Manzoni: anche dal Cinque Maggio dobbiamo escludere ogni velleità di questo genere. Anzi la stessa audacia sintattico-strutturale del lessico manzoniano esige, come abbiamo visto, che ogni termine compaia non distorto da un

significato ben noto alla tradizione, s'intende alla tradizione letteraria entro la quale il poeta si muove. In ultima

analisi, non

solo alla sintassi, ma

che allo stesso lessico dell'Ode

si estende

an-

il carat-

teristico atteggiamento del discorso manzoniano, proteso verso le parole fraterne e comuni. Ci imbattiamo quindi in movenze formali che ci rammentano immediatamente i Promessi Sposi: « La mattina seguente don Rodrigo si destò don Rodrigo », « quel cielo di Lombardia così bello quando è bello », ci rammentano quell’apparente giocare che l'umorismo manzoniano fa sulla fissità di una parola rovesciandone il significato col semplice mutamento dello sfondo sul quale essa si staglia. Ma qui il gioco è oltremodo serio; l’apparente identità verbale cela un’an-

titesi fra la terra e il cielo che il poeta ama talvolta rilevare scopertamente:

è la simmetria,

cercata o no

che fosse, fra « il premio ch'era follia sperar » e « il premio che i desideri avanza »; fin troppo scoperta

Edad! the

60

MANZONI

E I CRITICI

è la domanda « fu vera gloria? » cui non sappiamo perdonare un'ombra di pedanteria finché non la sentiamo risolta dalla « gloria che passò ». BENVENUTO

TERRACINI *

LE « TRAGEDIE »

Questo è il genere tragedia per il Manzoni: prendere un eroe e calarlo in una « situazione storica determinata », che è quanto dire costringerlo ad agire in un contesto comunque ripugnante all'azione. La lunga polemica sostenuta col sighor Chauvet nell'apposita Lettre mira a sgombrare il campo dell’autore drammatico da ogni possibile convenzione arbitraria, ma anche, in sostanza, da ogni possibile facilitazione: niente regole a priori (le unità di tempo e di luogo) ma anche niente invenzioni romanesques,

niente

intrighi,

niente

passioni

exagérées

artatamente portate al calor bianco, niente acceleratori artificiali dell’azione. L'amore è bandito per ragioni moralistiche (si sa che il Manzoni è d’accordo

con

Bossuet,

Nicole,

Rousseau nel giudicare

i tragediografi ancien régime degli avvelenatori pubblici), ma anche perché l’amore è la passione che più facilmente si presta a. creare grandi contrasti: in breve tempo e attraverso incidenti minimi, cioè perché è lo strumento con cui un autore può più facilmente mandare avanti l’azione senza derogare alla legge delle due unità (« Il est difficile de trouver une tragédie où l’action marche avec plus de rapidité et de suite, précipitée par les oscillations et les obstacles mèmes qui semblent devoir l’arréter, que celle d'Andromaque ». Lettre à M. Chauvet). L'eroe * Da Analisi stilistica, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 266-276.

BOLLATI .- LE

« TRAGEDIE »

61

‘deve stare faccia a faccia con circostanze ‘reali, scientificamente

determinate;

storiche

dev'essere

solo

in quella fossa dei leoni che è la storia. Assistere ‘al suo calvario, e riflettere, e disporci a sentimenti di « indulgenza », di « giustizia » e di « bontà », que-

sta è la ragion poetica della tragedia, che fa tutt'uno con

la sua ragion morale.

Vero

storico

e vero

poe-

tico convertuntur attraverso il grado intermedio del‘la moralità commossa, della «riflessione sentita » (« C'est de l’histoire que le poète tragique peut faire ressortir,

sans

contrainte,

des

sentiments

ce sont toujours les plus nobles, et nous

humains;

en avons

tant besoin! »).

Nel grafico della tragedia avremo dunque due curve: una discendente, che ha per punto d'arrivo l'immancabile fallimento del protagonista; e una ‘ascendente che riproduce il processo di sublimazione sentimentale-morale nell’autore e nello spettatore (i quali sono supposti essere nient'altro che testi-

moni: « nous ne sommes que témoins »). Ma se queste sono, per chiamarle così, le istruzioni fornite dallo stesso Manzoni, nelle sue tragedie la catarsi prevista non porge alcun effetto catartico, rivelandosi quella soluzione fittizia e consola-

toria che di fatto è: il dramma, per fortuna, resta aperto, e nella sua insolubilità ritiene quanto c'è in esse di autentico e di poetico. È il dramma che ab‘biamo detto dell’azione buona impossibile o frustrata, e del tormento,

del senso

di colpa, dei travagli

«che ne conseguono. Nel Conte di Carmagnola l’autore colpisce que‘sto bersaglio soltanto di striscio. Un errore, una sorta di scambio di persona lo induce ad assegnare il «ruolo principale al personaggio meno dotato. L'as‘sunto puntava su «un uomo d'animo forte ed. ele-

‘vato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla debolezza e colla perfidia dei suoi tempi, e con |

62

MANZONI

E I CRITICI

istituzioni misere, improvvide, irragionevoli, ma astute, e già fortificate dall’abitudine e dal rispetto, e

dagli interessi di quelli che hanno l'iniziativa della forza... » (Lettera all’abate Gaetano Giudici del 7 febbraio 1820). Ma la probità dimostrativa porta il giovane trageda a distanziare da sé quest'uomo, a guardarlo da fuori, lo storico e il moralista sia pure perturbati e commossi prevalendo sul poeta e facendogli mancare l'opportunità d’una identificazione piena con l'eroe;

cosicché

Francesco

di Bartolomeo

Bussone,

più che diventare il protagonista, offre soltanto un esempio della tipica antitesi romantica ora enunciata. Egli e il tema coincidono per linee affatto esterne, senza sua consapevolezza, senza sua partecipazione, se non per la rovina che finisce per travolgerlo stupefatto e sdegnato. Insomma il Carmagnola è un eroe semplificato, da imagerie populaire, senza alcun rovello interiore. È una somma di virtù e di buoni sentimenti che s’accresce ad ogni passo, e grava in modo irrimediabile sul già precario bilancio d'un linguaggio da libretto d'opera (che’ forse altro non è se non la degenerazione sentimentale della vasta eredità montiana, fortemente condizionata dagli intendimenti discorsivi e dai freni prosastici di chi versifica dialoghi e psicologie della vita « reale ») !. Dice di sé il conte: 1 Riferisce il ToMMASEO:

(il Manzoni)

« ripeteva con pia-

cere il detto mio, che un libretto d’opera ha lingua più illu-

stre... che il poema di Dante » (cfr. Colloqui col Manzoni di N. Tommaseo, G. Borri, R. Bonghi ecc., con introduzione e note di Cesare Giardini, Milano 1944). Il « detto » del Tommaseo è nell’opuscolo JI! Perticari confutato da Dante, cenni di N. Tommaseo, Milano 1825, e suona esattamente (p. 15): « Dicano i propugnatori dell’italico illustre di Dante, qual differenza sia tra la lingua illustre di Dante e la lingua d’un libretto d’opera seria ». Com'è riferita nei Colloqui, la battuta risponde a questa domanda. La suggestione di questo discorso trae alimento dalla

TY

BOLLATI

- LE « TRAGEDIE »

63

Dubbio

veruno

Sul partito che scelsi in cor non

sento,

Perch'egli è giusto ed onorato: il solo Timor mi pesa del giudizio altrui

(Atto

è

I, scena

II).

Questo timore, che peraltro si rivelerà fondato, quanto il condottiero, sicuro di sé, concede agli

ondeggiamenti dell'animo. Se deflette dalla sua linea di fierezza, ciò accade di preferenza in direzione d'un. sentimentalismo magnanimo, come nella scena II dell'atto III, quando si commuove alla vista di prigionieri catturati dal suo esercito (« O prodi indarno, o sventurati... A voi — Dunque fortuna è più cru-

del? Voi soli — Siete alla trista prigionia serbati? »); ma subito nel liberarli ritrova accenti di imperturbabile grandiosità: )

Tolga il ciel che alcuno

SI

Più altamente

di me

pensi ch’io stesso.

È inevitabile che un personaggio siffatto, « ardente » « sdegnoso » e « leale » cada senza sospetto nel tranello tesogli dagli « uomin di Stato » della Serenissima e lasci la testa sul ceppo, tra il pianto delle sue donne: in una scena finale da miserere verdiano, con evocati squilli di tromba e rintocchi fu-

.nebri (« E quando squilleran le le insegne agiteransi al vento — al tuo compagno. — E il dì che quando — Sul campo della strage il suon

trombe — Quando Dona un pensiero segue la battaglia, il sacerdote, — Tra

lugubre, alzi le palme... » ecc.); con attacchi

scoperta, nelle tragedie manzoniane, di dantismi quali (citiamo alcuni dei più evidenti): « il ‘desiato volto » (Adelchi I, 1); «mon avesse mai — Viste le rive del Ticin Bertrada » agri. I, III); « Trova il mio prego — Grazia appo te? » (ivi, III); «la bella — Contrada attraversai, che nido è fatta — Del longobardo e da lui piglia il nome » (ivi, II, III).

64

MANZONI

E I CRITICI

vieppiù cantabili (« No mia dolce Matilde... »); men-

tre fluisce la piena inarrestabile delle « parole estreme »: «tenero fior », « infocate lacrime », « dolente madre », « degno sposo », « tristo destin ». La tragedia sarebbe da consegnare senza indugio al museo desanctisiano dell’« arcadia » romantica — anche fatta la debita parte al gusto storico e al movimento delle scene di battaglia — se il dramma di cui si parlava più sopra non si insinuasse nella partitura attraverso una figura secondaria e lasciata in tronco, quella del senatore Marco, amicissimo e confidente del Carmagnola. A lui è affidata quella coscienza di cui il condottiero da Bussone, passiva vittima di eventi per lui incomprensibili, è del tutto destituito !. Nelle sue entrate sentiamo impegnato l’autore. È Marco che disserta, con argomenti e moti del verso che scavalcando gli Inni Sacri rimandano

all'’ode in morte dell’Imbonati, sulla « grandezza »: sulla essenza, sull'arte, sull'amore della grandezza, e aggiunge sfumature e temperamenti che la fanno

meno

elementare, e meno

vulnerabile, di quel che

non sia nel Conte (« V’ha una prudenza — Anche pei cor più nobili e più schivi », atto I, scena v). È lui che indica, nell’antinomia tra il buon volere e le circostanze

avverse,

il nodo

della

amaramente denuncia l’inefficienza mento troppo rettilineo:

situazione,

d'un

e

comporta-

È ver se v'ha mortal di cui La sorte invidii, è colui che nacque In luoghi e in tempi ov’uom potesse aperto Mostrar l’animo in fronte, e a quelle prove Solo trovarsi ove più forza è d’uopo Che accorgimenti. (Atto I, scena 1 Prima

d’ogni altro GoeTtHE ha indicato in Marco

perfetta rappresentazione coscienza

delicata ».

dei dubbi

e dei tormenti

V) « una

d'una

BOLLATI

- LE « TRAGEDIE »

65

Ma quel che più conta è che Marco non si limita a questi enunciati. La vicenda, sottraendolo al comodo

decoro

di confidente

e di amico, lo afferra a

un certo punto nel suo rugginoso ingranaggio, ed egli è chiamato ad agire, a decidere: tra l'amicizia per il Conte e la ragion di stato, tra l’inchinarsi a una patria scellerata e il salvare una vita cara. Sceglie il peggio, lascia l’amico al suo destino, e subito parte per una lontana missione e di lui non sapremo più nulla: impreveduta sparizione, brusco troncamento che è la risorsa teatrale inaspettata del Carmagnola. Il monologo commiato di Marco, d'’altra parte, riscatta la tragedia, l’accentra nella sua figura e la ricollega a un ordine di riflessioni pertinenti non solo al senatore in angustie, ma soprattutto al moralista-poeta. Lasciamo l'attacco baritonale (« Dunque è deciso!... Un vil son io») e corriamo

alla struggente

autointerrogazione:

O Dio, che tutto scerni, Rivelami il mio cor; ch’io veda almeno In quale abisso son caduto, s’io Fui più stolto, o codardo, o sventurato.

(Atto IV, scena

II)

dove per un momento l’ornato solito del linguaggio si assottiglia fino a valori minimi, e metro e parola e significato vanno spontaneamente, naturalmente insieme. E saltiamo subito alla conclusione: Oh empi in quale abbominevol rete Stretto m’avete! Un nobile consiglio Per me non c'è; qualunque io scelga è colpa.

A questi non molti endecasillabi l’autore ha affi‘dato il messaggio tragico dell’opera: nell’agone storico-politico, l'azione è per se stessa iniqua: « qua3 - Caretti n

66

MANZONI

E I CRITICI

lunque io scelga è colpa ». Marco exit, il dramma è consumato.

Nell’Adelchi il tema diventa dominante, il personaggio centrale ne è il portatore, e la vittima, da un capo all’altro della tragedia. Aggiustata la messa a fuoco sul protagonista, anche il quadro generale si fa più nitido, il linguaggio e il verso più funzionali. Adelchi, come vedremo tra poco, rilutta alla parte di eroe che la storia gli ha assegnato; ha l'animo dell’esule, pur tra i suoi Longobardi: e la luce malinconica di questo esilio si diffonde sulle cose attorno, crea una mesta lontananza

di rimpianto

che ren-

de probabili i battifredi e le mura, e i duchi, e i conventi, e il « fior di Francia », e il « santo avel di Pietro », insomma tutto l’arredo e il paesaggio storico di cui è intimamente contessuta la vicenda. Così pure rende plausibile, e congruente a un gusto finalmente precisato di litografia romantica, il linguaggio di base, che trae i suoi migliori effetti « medioevali » dal repertorio stesso della tradizione neoclassica e puristica; tanto più efficace quanto più liso e senza pretese di parer altro: si vedano (a caso) la « fida scorta », il « brando vendicator », le «memorie acerbe », l’« arti inique », il « soave rag-

gio d’april », per non dire del « guiderdone », delle « poma », dell’« aure » e per tacere affatto del « comple »,. che offese crudelmente

l’orecchio

del Foscolo.

A quello stesso deposito non attinsero del resto a piene mani e con risultati non indegni i primi traduttori di Walter

Scott, primo fra tutti l’I. R. pro-

fessor Gaetano Barbieri?! Con questi materiali di ricupero l’autore .

! Le tragedie manzoniane

e le prime traduzioni

riesce italiane

di Scott, dovute al Barbieri, si incontrarono sui banchi della tipografia Ferrario. Questo editore pubblicò infatti Kenilworth nel 1821, Ivanohe nel 1822.

BOLLATI

- LE « TRAGEDIE »

67

‘spesso — ed è spettacolo straordinario — a edificare strutture di solida praticità o eleganti pinnacoli svettanti in più spirabil aere; come può essere esemplificato allo stadio più elementare da versi quali Oh Mosa errante! Oh Lavacri di Aquisgrana!

tepidi

dove la non superabile ovvietà lessicale e retorica non impedisce affatto che si verifichi la magica reazione della poesia: per merito di quell’enjambement, ‘che scinde l'atomo inerte « tepidi lavacri » liberandone insospettata energia; per l'incidenza parnassiana di Mosa e di Aquisgrana, che restituisce a « errante » una dignità indefinita; grazie infine al nostalgico movimento di metronomo che coordina i vari elementi. .» Benemerito di questi e di altri prodigi che s'’incontrano nella tragedia è dunque Adelchi, cioè la felicità — se così si può dire — la coerenza, la compiutezza del suo dramma. Adelchi è, come il Carmagnola, un eroe, un uomo di animo elevato aspirante a: grandi imprese. Ma laddove il Conte si dibatteva « colla debolezza e colla perfidia dei suoi tempi », tempi nei quali peraltro, osservava non senza

ragione

il Tommaseo,

era perfettamente

integra-

to !, per Adelchi non si tratta più di circostanze particolari, è ormai questione di principio. La chiave è nei versi famosi

del finale, nel superbo

commiato

di Adelchi dal padre: 1 Più precisamente il TomMASEO afferma che tra il Senato veneto, doppio e crudele, e il Carmagnola dedito alla ignobile professione

del capitano di ventura, non si sa chi iscegliere: «la giustizia morale, e quindi l'affetto del lettore, mon sa da quale parte posarsi, perché da niuna delle due parti trova, non dico virtù assoluta (che sarebbe troppo pretendere)

ma

né anco

sufficienti

mente giudicare», Ispirazione

:#

ragioni

per

e arte, Firenze

poter

retta-

1858, p. 363.

68

Godi

che

MANZONI

E I CRITICI

re non

sei; godi che

chiusa

All’opra t’è ogni via; loco a gentile Ad innocente opra non v'è: non resta Che far torto o patirlo. Una feroce Forza il mondo possiede e fa nomarsi Dritto: la man degl’avi insanguinata Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno Coltivata col sangue; e ormai la terra Altra messe non dà (Atto V, scena

V)

Commiato irrevocabile dalla politica, commiato dalla storia, sede di questa. Dimissioni dal rango di eroe mondano. Ripudio dell’azione, raggiunto dopo le penose, frantumate, casuali peregrinazioni guerresche in cui consiste la trama della tragedia (anche questo disordine è funzionale). Ma non senza alta protesta, come documentano i versi appena citati. Non senza crudele sofferenza. Il finale edificante della tragedia reca una pace posticcia, è uno scadimento elegiaco nel pianto. La morte si offre all'eroe come una provvidenziale via di scampo, accettata con sollievo, e proprio per questo non ha il minimo valore risolutivo. Resta vero e autentico il dolore dell’immedicabile impotenza: ..La gloria? il mio Destino è d’agognarla e di morire Senza averla gustata... ..Oh! mi parea Pur mi parea che ad altro io fossi nato... Il mio cor m’ange Anfrido: ei mi comanda Alte e nobili cose; e la fortuna Mi condanna

ad inique;

e strascinato

Vo per la via che non mi scelsi, oscura Senza scopo; e il mio cor s’inaridisce...

(Atto III, scena 1)

BOLLATI

- LE « TRAGEDIE »

La risposta di Anfrido:

69

« Soffri e sii grande, il

tuo destino è questo » condensa epigraficamente il ‘nucleo della tragedia e rinvia, chi voglia, a sondare le affinità segrete tra Adelchi e l’'« anima » leopardiana, a scrutare comparatisticamente le due vie se-

guite dal milanese e dal recanatese nella ricerca di una risposta a domande che l’epoca poneva identiche a chi avesse orecchio da raccoglierle. Una delle conseguenze più rilevanti del fallimento di Adelchi, è l’instaurazione del binomio oppres-. sori-oppressi secondo un’accezione tutt'altro che univoca. Il patrocinio dell’oppresso, questa costante manzoniana, trova nell’Adelchi il contesto più favorevole a un suo rovesciamento in invidia per l’oppresso, che per definizione è oggetto e non soggetto di storia, deve subire l’azione anziché intraprenderla. Tra il « far torto » e il « patirlo » la scelta d'un cuore sensibile non è dubbia. Commiserazione e pietà per chi soffre, esecrazione per chi fa soffrire, e sollievo per sapere la vittima immune da errori e crimini inevitabili, formano un composto che soddisfa insieme la ragione, il senso di giustizia e i più cari affetti dell'anima. Nell’Adelchi i Latini oppressi dai Longobardi, a parte che restano molto in ombra, sono compianti nel corso della tragedia, ma ammoniti, non senza qualche durezza, nel coro Dagli atrii muscosi. Invece tutte le condizioni più favorevoli alla definizione di oppresso si realizzano in Ermengarda. La naturale tenerezza e remissività femminile, e l’atroce violenza dell'essere ripudiata dal-

l'uomo amato, la escludono dalla vita senza privarla del bene dei suoi « terrestri ardori », passione e angoscia amorosa. Dolcissima vittima e affatto incolpevole, è ben degna d'essere, in uno, compianta e

invidiata: =

Te collocò la provida Sventura in fra gli oppressi.

i

70

MANZONI

E I CRITICI

Sconfitta anche lei, anche lei frustrata: ma non era chiamata, come l’inquieto, spaesato suo fratello, a grandi cose. La sua morte è un sereno congedo. Adelchi non può né vivere secondo le sue alte aspirazioni, né quindi

veramente

morire. GIULIO BOLLATI *

L'« ADELCHI », TRAGEDIA DELLA GRAZIA L’Adelchi

fu scritto

tra il 1820 e il 1822, e rap-

presenta quella fase più patetica del cristianesimo manzoniano, non più di tono catechistico e dottrinario come negli Imni sacri, e non ancora il cristianesimo

riposato e sereno, umanamente

imparziale

e

storico, dei Promessi Sposi. C'è diffusa una tenerezza elegiaca in tutta la tragedia, come in una specie di ideale convalescenza dal peccato, l'uomo e il poeta sentendosi gratamente penetrato dallo Spirito quasi per un particolarissimo privilegio. È ,il momento più acuto del giansenismo teologico, che sparirà nel romanzo, dove rimarrà però igiansenismo morale, atteggiamento rigoristico e satirico di confessore d’anime. Il Manzoni, in questo momento, can-

ta ancora con l’ebbrezza malinconica di un eletto, e tutta la vicenda drammatica è percorsa da questo sentimento tenero, ineffabile, patetico della grazia; di quella grazia che si concede non a tutti, ma solo ad alcuni privilegiati. Il romanzo, invece, sarà più propriamente il poema della invisibile giustizia di Dio, di Colui che giudica e non è giudicato, di Colui che flagella e che perdona, e, più manifestamente, la satira inclemente o deDe A. MANZONI,

Tragedie,

Torino,

Einaudi,

1965, pp.

RUSSO

- L’« ADELCHI »

71

della giustizia iniqua di questo mondo. In tutta l'opera giovanile, e per il tragico divino sgomento che

ha accolto nell'animo durante la conversione, e per gli insegnamenti e le esortazioni dei suoi catechizzatori giansenisti, il motivo della grazia è quello che più domina la fantasia del Manzoni. In seguito, poiché il cristianesimo dello scrittore si è svolto, senza negare la primitiva ispirazione, tale motivo si è su-

‘bordinato e trasfigurato in quello della giustizia. Della grazia possono essere partecipi soltanto alcuni, gli eletti; della giustizia di Dio tutti: da ciò l'’afflato religiosamente più universale del romanzo. Nelle liriche giovanili, ecco, rapidamente, i motivi della grazia che ricorrono come ispirazione fondamentale. Nel Natale c’è il misero figliuol del fallo primo, gravato all'’imo d'ogni malor, « Donde il superbo collo — più non potea levar », se non sopraggiungeva una « virtude amica », a trarlo in alto. Nella Passione, l’invocazione al gran Padre, perché il san.gue del Figlio discenda, a disperdere l’insana parola dei suoi ciechi crocifissori, come pioggia di mite lavacro, quale rigenerazione dell'umanità del popolo ebraico: « Tutti errammo; di tutti quel sacro — Santo Sangue cancelli l’error ». Nella Risurrezione, ci sono i sopiti d'Israele, privilegiati dalla Grazia, a salire nel cielo (« I! Signor le porte ha schiuse! — Il Signor, l'’Emmanuele! »). Nella Pentecoste, ricorre tutta un'invocazione perché Dio discenda placabile spirito su tutti, e l'inno è l'epopea più larga di quel piacevole alito, di quell'aura consolatrice, di quella bufera e sgomento che è la discesa dello Spirito nell'anima. Infine, nel Nome di Maria, c’è l’invocazione della salvezza, ancora una volta, della prole d'Israello. Costei, Maria, è uscita dalla loro fede, è

‘ceppo davidico, con Lei erano i pensieri degli antichi vati della Bibbia: « Ella vi salvi, Ella che sal‘va i suoi ». NI

RA

72

MANZONI

E I CRITICI

Anche le stesse poesie politiche risentono di questo afflato della grazia, se la grandezza dello stesso Napoleone è giustificata e celebrata, perché il massimo Fattore volle in lui del creator suo spirito sì vasta orma stampar, e posare accanto a lui sulla deserta coltrice. Ciò che poi può ripetersi per un’opera di un più ampio respiro come l’Ade/chi, che è la tragedia degli illuminati, degli eletti, in conflitto con

i sordi,

con

i ciechi,

la tragedia

degli uomini

di religione nel loro scontro con i politici puri, con la barbarie della forza e della politica. Il lavoro giovanile, in cui spunta l'ispirazione della giustizia, è invece il Carmagnola; l’ingiusta giustizia di Venezia in conflitto con la giustizia della storia. Manca però nella tragedia un afflato fortemente religioso di cotesta giustizia della storia. La giustizia della storia ha qualcosa di troppo trito, contenzioso, pettegolo, mondano, ed essa deve salire ad essere la giustizia divina, la sola buona per trascinare in pienezza, profondamente, l’anima lirica dello scrittore. Soltanto nell'ultimo atto il Carmagnola diventa un personaggio religioso, quando si mette al disopra non solo della giustizia dei suoi giudici ma anche di quella ideale della storia. La giustizia è solo quella di Dio, e quasi solo allora spunta la poesia. Questo alitare elegiaco della Grazia nell’Adelchi costituisce la nota più suggestiva e più profonda della poesia di quell’opera. Sennonché, il sentimento in fieri, l’irrequieto pathos dello scrittore dà un più pungente e più incontenibile senso lirico alla tragedia, quel senso lirico ha sempre qualcosa di episodico, e non di cosmico, La parzialità teologica, della

Grazia concessa solo ad alcuni e negata ad altri, diventa anche parzialità estetica. C'è un dualismo insanabile nell'opera: da una parte ci sono gli eroi puri della forza (e del peccato, possiamo aggiungere, che non si cancella), e dall’altra gli eroi puri

RUSSO

- L’« ADELCHI

»

73

della religione. Per gli uni, la città terrena, e per gli ‘altri la città celeste: manca l’unità della fede, su cui s'accordino e discordino i vari personaggi. Da ciò, l'impetuosa zampillante poesia di alcune parti della tragedia, e da ciò anche la sua frammentarietà. Non si ha veramente tragedia senza comunio-

ne in un Dio; almeno due miti diversi dominano la fantasia dello scrittore, quello della forza e quello della gentilezza cristiana e del perdono, ma non sempre quei due miti si compenetrano l’uno con l’altro, così come deve essere in un’opera irrequietamente ma vigorosamente unitaria. I personaggi hanno un rilievo personale, e, per dir così, autarchico: ciascuno fa il piedistallo a se stesso, e ciascuno canta le sue ire e le sue ambizioni e geme i suoi do-

lori e le sue rinunzie, tutto per sé. Un avviamento questo all'arte del futuro narratore, che sbozzerà, con versatile interesse, le figure più diverse, le fisionomie sfumate con infinita varietà di sentimenti. Ma,

nel romanzo, il medesimo cielo respirerà su tutta quella folla di personaggi, e qui si schiude soltanto per alcuni; in questo, la superiorità e la compattezza dei Promessi Sposi. Luici Russo *

I CORI DELL’« ADELCHI »

Definirei [...] il primo coro un’epopea dolorosa della guerra. Il poeta non parteggia per i vincitori © per i vinti, ma

tutti accomuna

in un

suo elegiaco

compatimento cristiano. C'è questa indulgenza, diffusa di mestizia, per il popolo oppressore di ieri, i Longobardi. superbi (« le donne superbe, con palli__* Da Parere sull’« Adelchi», in Ritratti e disegni storici, Serie Quarta, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 3941. Ì

74

MANZONI

E I CRITICI

da faccia, — i figli pensosi pensose guatar »), come c'è una romantica consentimentalità per i giubilanti vincitori di oggi, i Franchi, per tutte le pene, i disagi, gli oscuri perigli che essi hanno affrontato: « lasciar nelle sale del tetto natio — le donne accorate, tornanti all'addio... ». E infine affetto e pietà e dolorosa rampogna si mescolano nelle parole del poeta per il popolo italiano, che « s'aduna voglioso, — si sperde tremante », e « Con l’agile speme — precorre l'evento, — e sogna la fine — del duro servir ». L’affetto, esacerbato dalle imbelli speranze del popolo italiano, così diventa amaro

rimprovero

ai de-

lusi, e sarcastico invito al volgo disperso che nome non ha, perché torni alle sue superbe ruine. Ma anche questo motivo

più strettamente

nazionale

si co-

lora del sentimento cristiano dello scrittore. C'è un certo suo pessimismo contemplativo, che vorrebbe concludere che è meglio passare ‘nella schiera degli oppressi, anzi che appartenere alla progenie degli oppressori

(il motivo

di Ermengarda

e di Adelchi mo-

ribondo); ma c'è un altro pessimismo attivo, che comanda all’uomo e ai popoli l’opera e la virtù, per il loro riscatto interiore. Nel Coro è sublimata la stessa tragica contraddizione di Adelchi; esso non fa eco alla rovina di Desiderio o all’epopea gloriosa di Carlo, ma al dissidio doloroso, profondamente cristiano, di Adelchi, combattuto tra l’« opra » e la persuasione che, in questo mondo, « loco a genti le, — ad innocente opra non v'è ». Il motivo che un popolo può riscattarsi, se questo riscatto è uno

sforzo interiore, era un motivo assai comune nella propaganda nazionale del primo ottocento; ma nel Coro manzoniano esce colorato da questo sentimen: to angoscioso per la dura fatalità di questa neces

sità del combattere. Come in alcune parlate di Adel chi, così nel Coro c’è lo stesso drammatico cristia

| nesimo: un cristianesimo che vuole che tu sia atte

RUSSO

- I CORI

DELL’« ADELCHI »

75

a fare, soffrendo, mentre pur teoricamente vorrebbe che tu patissi, non facendo. La morale di fra Cristoforo militante e quella di Adelchi moribondo,

avvicinate e contrastanti riosa l'una | poesia.

sull’altra,

in

fra di loro, e mai vittouna

nota

d’intensissima

Su un'analoga contraddizione dolorosa nasce anche il Coro di Ermengarda; il desiderio di sgombra-

‘re

dall'ansia

mente

i terrestri

ardori,

e il bisogno

incontenibile di richiamare alla fantasia gli irrevo-. cati dì. È la stessa logica di Adelchi, trasferita in un mondo femminile. Ma il secondo Coro ha qualcosa di più contingente che non ci sia nel primo, che è un canto assolutamente liberato, librato assai in alto, sulla ruina di un impero e la nascita dolorosa di uno nuovo, e la perplessità della sorte di un popolo sempre soggetto. Di fatti, la parte più intensamente lirica

del coro di Ermengarda è nelle strofe centrali; nelle . prime, il poeta è ancora legato ad una situazione di fatto: Ermengarda moribonda e morta. È la voce del poeta che parla anche lì, ma non del tutto disviluppata dalle vicende particolari della scena. Da ciò, la controversia dei critici, che si sono domandati, se sono le suore che pregano e ricostruiscono

poeticamente la vita di Ermengarda, o se è il poeta

che interviene a esprimere i suoi sentimenti, ad ac|‘ compagnare con un suo commento lirico il trapasso della donna. ‘Ormai la critica ha abbandonato la tesi che fu i del De Sanctis e del Carducci, che il Coro, cioè, sia

la voce delle suore o di pietose vergini della razza oppressa che si stringono intorno «alla morente; e ben da tutti si riconosce che esso è invece la soliÈ,

taria voce del poeta, il « cantuccio » in cui egli, se-

condo le note avvertenze premesse al Carmagnola, parla in prima persona, e che, al solito, come nel L È È

ai

3 ;)

76

MANZONI

E I CRITICI

primo Coro, sublima il dramma

interno degli stessi

protagonisti. Ma l’equivoco in cui sono caduti insigni critici, pur sta a testimoniare questo sopravvivente e ambiguo legame con la situazione di fatto. Mentre nelle strofe centrali « Ahi nelle insonni tenebre... » fino alla reiterata

invocazione:

« Sgombra,

o gentil... », la liberazione lirica è assoluta, e la rievocazione del dramma di Ermengarda ha una pienezza lirica, in cui tutte le didascalie precedenti della tragedia sono dimenticate. Segue poi un'ultima parte, anch'essa con un suo ritmo suggestivo e patetico, ma dove. è venuto meno il rapimento del ricordo lirico e si esplica piuttosto la moralità del poeta, la poesia di questa moralità, intorno al motivo della provvida sventura che ha voluto collocare la donna, discesa dalla rea progenie degli oppressori, fra la schiera incolpata degli oppressi. Distinguendo

queste

varie

fasi nel Coro,

non

si

vuole deprimere una parte per esaltare l’altra, ma solo mettere in rilievo la diversa ispirazione della poesia e giustificare gli stessi equivoci della critica per la parte introduttiva, di cui qualche peso va al poeta stesso. Se si vuole intendere che cosa sia la piena libertà lirica, conquistata d'un colpo d'ala, fin dalle prime battute, si ripensi al primo Coro dov'è obliterata la scena di fatto della tragedia, e si allarga, ex abrupta eloquentia, la grande scena della storia umana, della storia dei popoli contemplata con passione nazionale e con ancora più viva com‘passione storica e cristiana, dall'occhio altissimo del poeta.

In questo

secondo

Coro poi è già visibile

(ma

non manca neanche nel primo), lo schema, caro alla

musa delle zione ra »)

manzoniana, in cui la rappresentazione lirica passioni si alterna con la poesia della meditamorale (le riflessioni sulla « provida sventue con la fede parenetica finale (« Dalle squar-

RUSSO

- I CORI

DELL’« ADELCHI »

71

‘ciate nuvole... »): preannunzio sistematico della complessa ispirazione del poeta nel romanzo. LuIicr Russo

*

L’« ADELCHI » IN SCENA

L'Adelchi non è l’opera di uno scrittore teatrale ‘ specializzato, è inoltre un'opera di contenuti misti, talora contrastanti: il rigore storico contro certe deformazioni dello spirito romantico, la bellezza lirica e l'esaltazione morale, il reale e l’ideale. Non era questa, della pura realtà e della pura idealità, l’insuperabile antitesi che, secondo il De Sanctis, annullava la drammaticità dell’Adelchi? Be-

ne, allora: rinunciamo a tentare una fusione dei due strati, presentiamo indipendentemente l’uno e l’altro, nel momentoin cui a turno prevalgono, con le rispettive caratteristiche di stile. Ne sortirà una rappresentazione

dei suoi dette

mista, ma

essenziali

pedanterie

valori.

storiche

almeno

Alla

non

radice

manzoniane,

impoverita

delle

cosid-

stanno

intui-

zioni genuine di pensiero: vibra sul frontespizio dell’Adelchi un fermento di indagine storicistica, la coscienza

di un'evoluzione

nazionale,

di cui

sarebbe

grave privare il dramma, per ridurlo alla liricità o al misticismo di pochi brani. Ed ecco, nel « Teatro Popolare Italiano », proprio nella sua struttura di palcoscenico, delinearsi una zona, che definiremo

« obbiettiva », destinata a ospi-

tare ciò che del dramma è antefatto o discorso storico. Una zona di confine tra realtà e fantasia, una cornice, un riquadro di dati immutabili di contro

alla libertà fantastica delle vicende, composto di fat* Da Parere sull’« Adelchi », in Ritratti e disegni storici, -Serie Quarta, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 104-107.

}

78

MANZONI E I CRITICI

ti e figure irriducibili all’arte. Non il sistema delle didascalie brechtiane, non la semplice alienazione di brani e arie inseriti nella rappresentazione, ma una vera e propria « aggiunta » dall’esterno, una dimensione nuova che, partendo dal boccascena incontro al pubblico, tenti di avviarlo più consapevole alla percezione del fatto artistico. Dal boccascena verso il fondo del palco, si stende la seconda e più ampia zona, quella propriamente teatrale. Il suo impianto, ideato per l’Adelchi,

fornisce una base anche per gli spettacoli avvenire. In essa, libera restando la ricerca di un tono proprio ad ogni spettacolo, le combinazioni plastiche — con marcata simpatia per gli effetti simmetrici, i parallelismi, gli incroci, le ortogonalità — vengono assicurate da una doppia serie di carrelli laterali,

che sviluppano una scenotecnica orizzontale e di rapido smistamento. È in questa zona, dunque, che agiranno i personaggi dell’Adelchi: qui è il campo, non più delle obbiettività e delle verità enunciate, ma della verosimiglianza d’arte. sli In Adelchi, data la TRA natura dell'opera, è probabile che tale verosimiglianza si traduca in una semi verità: autentici e ortodossi (quanto a epoca, estrazione, origine etnica), saranno

certo

gli elementi esterni, i costumi in ispecie, così legati alla concretezza fisica dei personaggi. Ma l’autore qui è presente

ovunque,

e tutto pervade con il suo

giudizio morale, col suo gusto, con le sue passioni. Ecco perché la foggia alto-medievale si colora in Adelchi,

Ermengarda,

Anfrido,

di una

primitività

e

di una linearità più marcatamente spirituali, per accompagnare. le tre figure nella loro cristiana ascesi, in quel cammino di umiltà e di rinunzia che è il particolare itinerario dell’eroismo: manzoniano. E in Desiderio si sottolinea il re barbaro, E Carlo si am-

it

ì

GASSMANN

- L’« ADELCHI » IN SCENA

79

‘‘manta di ufficialità, lampeggia di ori e di insegne, \ rutilante e oleografico come una figura di leggenda popolare. Sul fondo, ancor più svincolata dal peso dei dati obbiettivi, s'apre la terza zona, il regno tutto sog| gettivo

dell'autore:

là non

si narrano

fatti, ma

si

ricavano significati, si stagliano simboli. È la zona più forte secondo la gerarchia spirituale, ma anche “Ja più lontana e impalpabile, come protetta dalle reazioni affettive del pubblico, attraverso dimensioni tangibili dello spettacolo. I Dispositivo (permanente anche esso, come i carrelli della parte mediana) di questo settore, è una larga fascia di fondale, atta a ricevere colorazioni e proiezioni: | grafiche, ma

non indicazioni propriamente scenosimboli e atmosfera, estasi figurative,

‘ slanci lirici. In quel grande foglio, giudizi e volontà, definisce il bersaglio razione. | In Adelchi, un simbolo mobile, un sterà questa zona, quasi intitolando dramma: la croce, che sarà croce di combattimento, croce semplice degli

l’autore scrive della sua ispi-

oggetto, sovrai capitoli del preghiera o di umili e croce

dei potenti e dei designati, croci di nuvole sul libero cielo di Martino, falangi a croce, croci della

morte degli eroi, e anche di quella morte da cui sembra non sapersi destare il popolo italico. Ogni altro elemento dello spettacolo accompagnerà a suo modo questa triplice divisione di settori. La luce sarà cupa, piatta, pesante, laddove la rappresentazione confinerà con la storia; parteciperà, sottolineandoli, ai conflitti dei personaggi nella zona mediana (arrivando a dividerli in chiari e scuri con primitiva evidenza); aggiungerà di volta in volta un’'annotazione

ambientale

o umorale

o

metafisica

alla geometria del fondale. Parimenti la musica. Essa avrà una sorda e neu-

80

MANZONI

E I CRITICI

tra trattazione ritmica negli inserti epici; troverà nel romanticismo cristiano e nazionale di Verdi il congeniale complemento della sua dimensione edificante e celebrativa. La sfera di mezzo, il dramma

vero

e proprio, verrà lasciato spoglio di musica, perché meglio canti quella contenuta nel testo, e per non mescolare

i colori espressivi in una generica ricerca

del bello o del nobile o del commovente. L’insieme delle tre zone, il totale dei suoni e degli aspetti e delle idee che compongono lo spettacolo, resta, per noi, un pezzo appunto di teatro, una piattaforma artificiale che noi attori, tecnici, spet-

tatori, circondiamo

e osserviamo e adoperiamo. No-

stri quindi,

più dell'autore,

e non

considereremo

i

margini, i contorni, il perimetro di quest'isola teatrale. Là apertamente si dichiarerà il nostro lavoro tecnico, la nostra volontà

di fare spettacolo,

e assu-

meranno importanza le presentazioni di cose e persone, la preparazione alla recita, le apparizioni, le entrate e le uscite, il modo

di attendere fra una sce-

na e l’altra, il regime dei siparietti, dei sipari, degli entre-actes, dei saluti, del trapasso dall’una all’altra delle zone di cui lo spettacolo si compone. Di due fattori non abbiamo parlato; e sono quelli

essenziali, cui è affidata la sintesi di tante e così diverse sollecitazioni spettacolari. Testo e recitazione, gli elementi primi del fatto teatrale, ai quali il nostro tentativo si propone di aggiungere importanza e chiarezza, isolando la funzione dominatrice della parola. Ecco dunque individuato per Adelchi quel coefficiente unificatore che potrà dare compattezza al no-

stro schema di spettacolo: lo stile, il verso manzoniano e il modo di renderlo attraverso la recitazione, costituiranno il pedale costante, l'amalgama della rappresentazione. In Adelchi, due saranno le caratteristiche salienti della recitazione: il calore e

GASSMANN

- L’« ADELCHI » IN SCENA

81

la musicalità. È attraverso queste due componenti che si manifesta più tipicamente lo spirito del Manzoni drammaturgo, .che è spirito di un controllato ‘romanticismo. Il calore dei suoi personaggi non è l'esplosione di umanità, la vitalità disordinata e irrefrenabile dei caratteri shakespeariani; sempre una

idea, una

grazia, un

freno,

sono

presenti

a

regi-

strarli. Caldo, sì, Desiderio di barbarie, Carlo del ‘suo diritto e della sua machiavellica dialettica, di

senso della natura il Diacono, di combattuta purezza Ermengarda, di passione politica Svarto e Guntigi, della sua solitudine Adelchi: ma sempre sentiamo il Manzoni dietro di essi, a infondere quel calore e subito a stemperarlo, con la bonarietà previdente di chi — lungi da lasciar liberi i suoi eroi di svilupparsi e magari di perdersi — già conosce la via per ricondurli a un predestinato approdo. Analogamente, la musicalità dell’Adelchi non è ebbrezza lirica di suoni, ma composta armonia ove, più degli

effetti e delle immagini e degli accordi di sillabe, vibrano i riposti incanti dello spirito. Musicalità più luminosa che canora, che rende delicati e inconsueti i problemi della recitazione. La poesia

del Manzoni,

come

osserva

Natalino

Sapegno, è antilirica, almeno nel senso petrarchesco di liricità. Forma, lingua, metrica, balzano da un processo

rigorosamente

oggettivo,

per

un’esigenza

‘di verità, per tener dietro all’evolversi e al matu‘rare dei contenuti. Lo stile delle tragedie è rivolu‘zionario rispetto alla tradizione precedente; ha un che di secco e incompiuto, il ritmo rotto e il lessico mescolato di un linguaggio che si sta formando, sotto la spinta di ideali morali e sociali e patriottici.

Quindi l'uso di metri brevi e marciabili (i settenari e meglio i doppi senari dei cori d’Adelchi — ancor più in là della popolaresca scansione parisillabica — 1 decasillabi della battaglia di Maclodio, stretti pa-

ij

82

MANZONI

E I CRITICI

renti delle strofette religiose e delle poesie civiche d'occasione), l’aggettivazione aggressiva, l’aprirsi ed espandersi dei vecchi schemi, qui ancora frammisto al permanere di andamenti aulici, di arcaismi e convenzioni classiche; ma già preparatore della semplicità nobilmente popolare che troverà poi nel romanzo la sua piena maturazione. Le preoccupazioni della naturalezza, l'aspirazione alla discorsività della prosa, risultano evidenti dalla gran parte delle variazioni che la seconda stesura del dramma operò rispetto alla prima, testimonianze di un minuto lavorio per una forma il più possibile diretta e parlata. Ci sono,

è vero,

gli esempi

contrari,

attribuiti al gusto dell’enfasi, semmai di un tono veridicamente

ma

non

vanno

alla nostalgia

antico, di un mondo

pri-

mitivo ove gli alti sentimenti e gli alti gradi del potere conservano una terminologia ieratica. In questi punti Manzoni supera gli stessi arcaismi dell’Alfieri. Comunque, tra queste punte di arcuazione lirica e di medievali irrigidimenti, il discorso manzoniano si svolge con la morbidezza e l'equilibrio di una larga prosa musicale. L'appunto del Tommaseò, che rimproverava alla versificazione di Adelchi una troppo frequente poggiatura (di suono e di senso) sull'ottava sillaba, conferma quanto sia lineare l’archi-

tettura metrica del Manzoni. Attento all'atmosfera dei passi più che alla risonanza del singolo verso, egli costruisce quasi racinianamente, con un eloquio tanto diretto da sfiorare la monotonia, con tersa esiguità di vocabolario, con disdegno per i trucchi dell’oratoria. In questo aspetto, Manzoni appare anche più sorvegliato

di Racine:

raramente

troviamo

usate le forme retoriche tradizionali. O almeno, es. se non

compaiono

come

virtuosismo

esteriore,

ma

solo a interpretare momenti più tesi o accidentati della vicenda. Vedasi il triplice efficacissimo « e », nella scena di Albino (« ...e l’avrete; e tosto; e qui... >)

GASSMANN

‘© l’ansimante .0 il celebre

- L’« ADELCHI » IN SCENA

meccanica

della

« vidi, oh, vidi»

scena

83

di battaglia;

del Diacono,

che è il

grido di un'anima, non i’artificio di un letterato. Ma dove Manzoni più si differenzia da Racine è nell’impostazione dinamica della poesia. Il francese “amava conchiudere il pensiero nell’ambito di ogni A)

singolo

verso;

con.

arresti e cesure.

èmai di proclamare sciolto

e non

in più la rima

Il Manzoni,

ad

per contro,

accentuare non

mancò

la sua predilezione per il verso

rimato:

« Lo sciolto parmi veramente

il più bello dei nostri metri, quando è ben maneg| giato. Parmi ch'esso abbia, come l’esametro latino, il pregio di prendere ogni colorito... ». Così scriveva a Claudio Fauriel nel 1806. E ancora: « La mancanza... della rima io la credo piuttosto che una difficoltà di meno, un aiuto e una scusa di meno... ». Nes-

sun poeta è più incline di lui all’enjambement; all'opposto di Racine (e di tutta la tradizione classica. del resto) egli sdegna la scommessa di esaurire il . concetto

nel singolo verso,

e tenta

un

continuo,

ro-

tondo procedere del discorso da un verso all’altro. Ne segue un canto steso, largo, che più realisticamente

imita

la vita

e la natura

dell’uomo,

libere

da schemi e limitazioni fittizie, concatenate e impre| vedibili sempre.

Sempre a proposito dell’enjambement, si noti poi come quello manzoniano non faccia nemmeno leva ‘sui punti di forza e d’enfasi (procedimento frequente presso Alfieri), ma anzi tenda a lasciar scivolare i versi uno di sotto all’altro, con morbido e fitto fluire. Si ha così una larga serie di rinvii, che dànno

“al discorso dramma,

ma

non un

già la trascinante contrappunto

aggressività

di motivi

del

segreti, di

‘sentimenti compressi al fondo delle coscienze: il mondo morale del poeta, la sua umanità infiammata e trattenuta e riofferta all'esperienza dell’arte. Di questo «valicare del senso da verso in verso » parlava

8400

MANZONI

E I CRITICI

Goethe, osservando come l’elocuzione se ne avvantaggiasse in nobiltà e potenza, scansando « ogni acutezza epigrammatica di cadenze ». L’Alfieri veramente sembra la più precisa antitesi del Manzoni drammaturgo: tanto espresso e voliti-

vo quello, quanto questo è soffuso e indiretto. Se si dovesse ricollegare il Manzoni a un tragico italiano più legittimamente che all’Alfieri, si risalirebbe fino al Maffei della Merope, per quel tanto di bonarietà moralizzante e di indulgenza ai toni lirici o descrittivi, per la narrazione piana ed aperta, per lo stile più letterario che istrionico. Facile a recitarsi, in confronto, l’Alfieri, ad onta delle sue asprez-

ze e dei rapidi trapassi. Le difficoltà

diventano

gli

appigli più saldi per chi s’accinge a scalare la tragedia alfieriana: la si può vincere col temperamento, o con la tecnica, o semplicemente rispettandone la feroce punteggiatura, l’irta ma univoca partitura metrica.

Per

Manzoni

non

v'è ricetta,

del tessuto vieta all'attore appoggi

la

trasparenza

troppo

scoperti.

I cambi di tono stessi vanno calibrati con misura, sono più propriamente degli snodamenti, lenti assestamenti sui diversi ripiani della sensibilità. Ermengarda in agonia non può giovarsi dei manierismi del morire scenico; anch'essa scivola verso il buio, a poco a poco spegnendosi attraverso le lunghe spire del-

le sue battute (fino a sette, nove endecasillabi senza puntuazione), insieme esalando il respiro fisico e la faticata grazia dello spirito. VITTORIO GASSMANN *

* Da Appunti alla regia, in « Quaderni del Teatro Italiano », I, Torino, Einaudi, 1960, pp. 120-125.

polare

Po-

RAIMONDI

DALLA

- DALLA

POESIA

POESIA

LIRICA

LIRICA

E TRAGICA

AL

ROMANZO

85

AL ROMANZO

Per arrivare al punto critico della propria carriera di poeta, il Manzoni ha bisogno di un decen- nio, durante il quale, fra Milano e Parigi, egli si misura, in un ciclo di prove piene di promesse e già ricche di accenti personali, con i temi e le forme ‘ della letteratura neoclassica, dall’Alfieri al Monti, dal

Parini sino quasi al Foscolo, modulandoli su un registro di moralismo zione

pariniana,

meditativo

sembra

avere

dove, una

oltre alla le-

parte

risolutiva

la saggezza stoica dell’idéologie, filtrata attraverso la splendida, affettuosa intelligenza ‘del Fauriel. Tuttavia, anche se distingue assai presto. fra verità e culto dell'io nel gusto, si direbbe,

di una

demistificazione

ideologica in cui lo confermano soprattutto i dialoghi con l’amico francese, l'entusiasmo del giovane scrittore si muove ancora all’interno di un linguag| gio poetico cristallizzato e ne asseconda le strutiure decorative, le funzioni

mitiche:

d'accordo,

al massi

. mo, col Fauriel riformista delle Reflexions préliminaires della Parthénéide che, se da una parte « les objets et les phénomènes de la nature inanimée n’ont et ne peuvent avoir de caractère et d’intérét poétique, qu’autant qu'ils ont quelque rapport, quelque

convenance avec nos sentiments intimes », dall’al. tra «la mythologie grecque n'est autre chose qu’une personification ingénieuse et brillante des phénomè. nes généraux les plus évidents de la nature physique et morale » in quanto « les ètres dont elle peu| ple l'univers ne sont qu’une des manières diverses dont l'homme peut envisager les forces et le mouvement de la nature, quand il cède à la tentation ou

. au besoin de s’en faire une idée fixe et absolue: sont des fantòmes;

mais des fantòmes

| l'imagination humaine

une raison

ce

qui ont dans

d’exister ».

}

86

MANZONI

E I CRITICI

Comunque sia, si tratta di un equilibrio di compromesso che si rompe non appena il ritorno al cattolicesimo, maturato

come un dramma

austero dello

spirito che si scopre di colpo sull’abisso pascaliano, obbliga il Manzoni a una scelta radicale anche nei confronti della poesia: non già, però, nel senso ua po’ facile di uno

Chateaubriand,

a cui bastava,

dirà

più tardi il Sainte-Beuve, un’immaginazione cattolica, ma in quello, tanto più arduo e più laborioso, di una sensibilità cristiana da vivere sino in fondo in un tempo che di continuo pareva smentirla. Non si sottolineerà mai abbastanza il fatto che gli Inni Sacri segnano nella storia del Manzoni una svolta capitale, dove è già in giuoco tutto il suo futuro di romantico. Proprio nel momento che lo scrittore prende consapevolezza del suo se stesso più vero e profondo, la poesia dell’« io » scompare in una poesia del « noi » per virtù di una riduzione o mortificazione sublimatrice dell'esperienza personale che, accanto alla pertinace diffidenza verso ogni iperbole soggettiva, postula un ordine misterioso, un vincolo di comunione fra gli uomini e le cose: e questa comunione mette per sempre fuori causa la nossibibilità mediatrice della mitologia. Negli Inni Sacri le immagini del classicismo mitologico non trovano più posto, essendo mutata rigorosamente la forma interna del discorso lirico, che deriva ora la propria for-

za innovatrice dal linguaggio biblico, riscoperto alla maniera di Pascal, in « un sens dans lequel tous les passages s'accordent », come rivelazione di una dinamica

interiore, come

presenza

di un

ritmo

vitale

che nella sua dialettica ricupera anche il vuoto e l’« angoisse » della nevrosi moderna. Insieme con la voce vittoriosa di una poesia fulminea, fatta di annunci corali e di intense sequenze meditative (« È risorto: or come a morte — la sua preda fu ritolta? ») il Manzoni, senza paura degli squilibri e delle appros-

RAIMONDI

- DALLA

POESIA

LIRICA

AL ROMANZO

87

| simazioni che si porta dietro, a costo pure di un eccesso di oratoria cristiana, patristica e barocca, met-

. te così alla prova una logica poetica di tipo biblico, | regolata da un rapporto sostanziale, da una corrispondenza organica tra il mondo fisico e l’universo interiore. Ora, come insegna il Frye, un framework of images, per quanto sia connesso sempre al belief,

| più ancora che un'espressione della fede, è semplicemente un modo per organizzare delle immagini, per perseguire delle metafore. Chi esamini tale struttura per gli Inni Sacri, troverà alla fine che essa gravita intorno ai temi dell’aridità, del risveglio, della luce e del soffio interiore, in una regione di analogie esistenziali abbastanza prossima, fra l’altro, a quella che secondo l'Abrams circoscrive a un livello di archetipi la lirica romantica inglese. Si pensi solo alla Pentecoste, sebbene si tratti dell'esempio più alto e più maturo, con « il sol che schiude — dal pigro germe il fior; — che . lento poi sull'umili — erbe morrà non colto », con «noi T'imploriam! Ne’ languidi — pensier dell’infelice — scendi piacevol alito, — aura consolatrice: — scendi bufera... », e soprattutto con quel genere nuovo di similitudine, integrata da una sinestesia prodigiosa e tranquilla, che è « come la luce rapida — piove di cosa in cosa, — e i color vari suscita — dovunque si riposa; — tal risonò moltiplice — la voce dello Spiro ». Anche la Staél, in una pagina dell'’Allemagne che il Manzoni doveva certo rammen- tare poiché vi si discorre dei sujets historiques e del

. plus d'imagination che essi richiedono, era ricorsa a un'analogia molto simile: «La poésie fidèle fait ressortir la verité comme le rayon du soleil les couleurs, et donne aux événements qu'elle retrace l’éclat que les ténèbres du temps leur avaient ravi ». Ma è -evidente, e per questo la coincidenza, casuale o me-

no, risulta preziosa, che per lo scrittore della Pen-

i}

88

MANZONI

E I CRITICI

tecoste il rapporto fra i due termini della similitudine è divenuto dinamico, per così dire bilaterale: il fenomeno della luce, ripreso secondo la legge del suo irraggiarsi, assimila l'evento commemorativo alla tensione stessa della natura, e il prodigio della « voce ‘moltiplice » si rifrange sulla realtà fisica con una forza tutta intellettuale, di spiritualità che erompe vittoriosa, Se si deve

credere a uno studioso anglosassone la cui analisi fa testo al proposito, anche nella struttura della metafora romantica si ha un processo del tutto affine, sia pure con un gusto dell’irrazionale o

dell’incomposto

da cui invece

sembra

estranea,

nel

suo bisogno di un ordine che le dia fondamento e certezza, la parola manzoniana. È già stato osservato da più di un critico che nella prassi e nella teoria linguistica del Manzoni la metafora perde la iunzione decorativa che le assegnava il sensismo, secondo cui essa «doit toujours former une image qu'on puisse peindre », per assumere quella evocativa e gnoseologica, poiché «on ne peut faire de la poésie sans idées », di una illuminazione dentro il reale. Molto

più tardi, oramai

vecchio,

lo scrittore

dichiarerà che « il traslato, rivelando un’analogia tra due oggetti, fa intravvedere una legge sotto la quale cadono, un ordine al quale appartengono l’uno e l’altro ». Ma è un principio già immanente agli Inni Sacri e alla loro poetica delle armonie della natura, come avrebbe detto un Di Breme, che sanziona appunto il trapasso, nel destino di un poeta, dalla concezione mimetica della parola come mirror, i due termini sono dell'’Abrams, a quella conoscitiva del lamp: quantunque poi ciò non escluda affatto che nella pagina le vecchie consuetudini continuino a mescolarsi alle nuove e le divise neoclassiche riemergano magari ‘sotto l'aspetto di allegorie eclettiche. Non per nulla, negli abbozzi degli Inni, e an-

RAIMONDI

- DALLA

POESIA

LIRICA AL ROMANZO

89

che altrove, si ha l'impressione più di una volta di un conflitto dello scrittore con la propria memoria, di una ricerca, tutt'altro che agevole e sicura, per adeguarsi a un sentimento del reale da cui emana ‘anche un'idea drammatica dell'uomo sulla terra. Ciò che si apre al Manzoni col grande esperimento della poesia cristiana, è in fondo un sistema . di analogie che, mediando fra loro la natura e il tempo, restituiscono

alla poesia il senso

della storia,

al di fuori delle armature neoclassiche od ossianiche accreditate,

a esempio,

da un

Monti,

sulla linea di

un’interiorità biblica che non passa attraverso Chateaubriand o De Maistre, ma prende forza da Bossuet,

in una

chiave

tutta

agostiniana,

e più ancora

da Pascal o da Nicole. Almeno per chi lo legge come il Manzoni di quegli anni turbinosi, appena uscito dalla scuola anticelebrativa degli [déologues e sempre in colloquio fraterno col Fauriel dei Derniers jours du Consulat, il testo sacro rivela anche, nella luce misteriosa di una dimensione verticale, una realtà storica tanto più complessa e ambigua quanto | più investe il mondo segreto degli uomini, alle radici della responsabilità o della colpevolezza. E per riceverne subito una conferma, con un intervailo di qualche anno che in questo caso non comporta alcun anacronismo, non c'è da far altro che aprire le Osservazioni

sulla morale

cattolica,

a una

delle

| pagine dell'esordio, che annuncia già di lontano, nella sua eloquenza larga e infiammata, la voce di Federigo. Proprio per questo non era sfuggita al De Robertis dei Primi studi manzoniani: « Quello che è e quello che dovrebb’essere la miseria e la concupiscenza, e l’idea sempre viva di perfezione e di ordine che troviamo egualmente in noi, il bene e il male, le parole della sapienza divina, e i vari discorsi de-

gli uomini, la gioia vigilante del giusto, i dolori e le consolazioni del pentito, lo spavento e l’impertur-

90

MANZONI

E I CRITICI

babilità del malvagio, i trionfi della giustizia e quelli dell’iniquità, i disegni degli uomini condotti a termine

fra mille ostacoli, o rovesciati

da un ostacolo

impreveduto, la fede che aspetta la promessa, e che sente la vanità di quello che passa, l’incredulità stessa, tutto si spiega col Vangelo: tutto conferma il Vangelo: la rivelazione d'un passato, di cui l’uomo porta nell'animo suo le tristi testimonianze, senza averne da sé la tradizione e il segreto, e d'un avvenire, di cui restava

solo un'idea

confusa

di terrore

e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto gli occhi... ». Nel lume di queste premesse non può destare sorpresa che il Manzoni, allorquando s'incontra, da lettore come sempre solitario, con la Staél dell’Allemagne,

con lo Schlegel del Cours de littérature dra-

matique o anche col Sismondi della Littérature du Midi, cioè con i testi che gli trasmettono i paradigmi critici ufficiali della nuova coscienza letteraria romantica in un alone di spiritualismo cristiano, si riconosca immediatamente in un sistema drammatico per il quale «tout est tragédie dans les événements

qui intéressent

les nations »; né stupisce, del

resto, che, introdotto da un dibattito tutto interiore di cui rimane appena qualche eco nelle lettere al Fauriel, maturi ora in lui un mutamento di « idee », sempre più distante dai princìpi del classicismo, che si conclude con la riscoperta di Shakespeare e con un'ipotesi di dramma che dovrà essere, secondo la formula ripetuta tante volte dallo scrittore, una storia dell'animo umano. Nel giuoco delle convergenze e delle sollecitazioni di cui si giova tutta l’opera manzoniana, Shakespeare, si direbbe, s'inserisce al momento giusto per precisare in una materia più

accesa e laica la poetica del vero

sentimentale

an-

nunciata dagli Inni Sacri e per trarne fuori ia matrice storica, aggregandovi la passione, l'inquietudine

| RAIMONDI

- DALLA

POESIA

LIRICA

AL ROMANZO

91

del problema politico. Egli permette anche di con‘ ciliare l'impegno del moralista e l’interesse contemplativo dell'osservatore dinanzi al teatro dell’esistenza (« Shakespeare sovrasta ogni altro, perché è più morale, Più si va in fondo del cuore, più si trovano ‘i princìpi eterni della virtù... ») nella misura in cui l’azione, l'intreccio degli eventi si traducono in analisi introspettiva, in verità interiore del personaggio che si rivela a se stesso di tra le ambagie del cuore. Dice il Manzoni in un frammento giustamente fa-. moso dei Materiali estetici: « V'è una tragedia che | si propone di interessare vivamente colla rappresentazione delle passioni degli uomini e dei loro intimi sensi sviluppati da una serie progressiva di circostanze e di avvenimenti, di dipingere la natura umana, e di creare quell’interesse che nasce nell'uomo al vedere rappresentati gli errori, le passioni, le virtù, l'entusiasmo, e l'abbattimento a cui gli uomini sono si

trasportati

nei

casi

più gravi

della

vita, e a

considerare nella rappresentazione degli altri il mistero di se stesso ». Questo Shakespeare naturaliter cristiano è per molta parte lo Shakespeare lirico della sensibilità romantica, tutto spostato verso i monologhi, verso le grandi meditazioni

perte

degli eroi in crisi, verso

dell’« io » profondo

le sco-

che si realizza come

ne-

gandosi mentre esce dalla storia. E viene proprio da ricordare il Guizot della Vie de Shakespeare, uno dei pochi testi che meritano di stare accanto alla Lettre

à M.

Chauvet,

quando

osserva

per

un

verso

‘che l’animo dell’uomo è « la scène où viennent jouer

leur ròle les événements de ce monde », e per l’altro, che «le monde offre maintenant au poéte des

esprits pareils àà celui d’Hamlet, profonds dans l’'ob‘“sservation de ces combats intérieurs ». Parlando poi degli Amleti moderni, il Guizot ha certo in mente uno stato d'animo le cui implicazioni politiche posI bo

92

MANZONI

E I CRITICI

sono essere subito estese anche al liberalismo complicato del Manzoni; il quale, non vi è dubbio, proietta la sua disposizione di intellettuale utopista o irresoluto nei personaggi dei propri drammi, registrando di pagina in pagina gli entusiasmi o gli smarrimenti della sua coscienza dinanzi a un presente ancora ambiguo che si erge di là dal testo, e si arresta poi all’antinomia fra potere e morale, forza e giustizia, per scrutarvi il dramma dell'uomo che è anche quello, perenne, della storia. Ciò che per il Wallenstein

schilleriano

resta

ancora

un

duro,

di-

sperato punto di partenza a cui il politico non può sottrarsi (« Ich muss Gewalt ausiiben oder leiden... da herrscht der Streit, und nur die Stàrke siegt... dem bòsen Geist gehòrt die Erde... »), diventa per Adelchi una verità finale, oramai ai margini dell’azione: « ..non resta — che far torto, o patirlo. Una feroce — forza il mondo possiede ». Ma è appunto perché il contrasto si converte sem-

pre in un'esperienza interiore che il personaggio assorbe alle origini del proprio essere, nel buiodi una forza vitale che si svuota e quasi si dissecca, il linguaggio della drammaturgia antiaristotelica manzoniana riprende e approfondisce la tecnica dell’analogia dinamica con nuovi trapianti attivi di lirismo biblico. Ne possono dare la misura, al tono più denso, il soliloquio di Marco nel Carmagnola: «O Dio, che tutto scerni, — rivelami il mio corj ch'io veda almeno — in quale abisso son caduto, s'io — fui più stolto, o codardo,

o sventurato...

il rio timor

che a

goccia a goccia ei fea — scender sull’alma mia... non sono — che all'orlo ancor del precipizio; il velo, — e ritrarmi poss'io... », oppure la confessione di Adelchi: « Il mio cor m'ange, Anfrido: ei mi comanda — alte e nobili cose; e la fortuna — mi condanna ad inique; e strascinato — vo per la via ch'io non mi scelsi, oscura, — senza scopo; e il mio cor s’inaridi-

RAIMONDI

- DALLA

POESIA

LIRICA AL ROMANZO

93

sce, — come il germe caduto in rio terreno, — e balzato dal vento »; e infine, la grande elegia di Ermen-

garda: « Come rugiada al cespite — dell'erba inaridita, — fresca negli arsi calami — fa rifluir la vita, — che verdi ancor risorgono — nel temperato albor; — tale al pensier, cui l'’empia — virtù d'amor fatica, — discende il refrigerio — d'una parola amica... Ma come il sol che reduce — l'erta infocata ascende, — e con la vampa assidua — l’immobil aura incende, — risorti appena i gracili — steli riarde. al suol; —

ratto così dal tenue —

obblio

torna

im-

mortale — l'amor sopito, e l'anima — impaurita assale, — e le sviate immagini — richiama al noto duol

».

Se la storia invita l'uomo che la contempla a discendere nel mistero di se stesso, il poeta del sistema romantico shakespeariano è chiamato per l’appunto a ricostruire quell'uomo interiore che il passato lascia inabissare sotto gli eventi, a « pénétrer dans les profondeurs de l’histoire », a « deviner tout ce que la volonté humaine a de fort ou de mystérieux, le malheur de religieux et de profond », in una parola a cogliere il dedans, la faccia interna della verità storica. Ed è la tesi, come annunciano già le citazioni,

della Lettre

à M.

Chauvet:

una

tesi che

giustifica dentro il sistema aperto manzoniano l’incidenza di una ragione storiografica moderna a cui lo scrittore non può rinunciare, ma che insieme, ove

si complichi il rapporto fra uomo e società tanto da iscrivere anche i sentimenti nella dialettica dei pregiudizi, dei fenomeni collettivi, rimette in discussione alla fine la stessa ipotesi drammatica del Carmagnola, e dell’Adelchi perché in sospetto di quel romanesque già addebitato al genere classico e al suo ‘ordine artificioso. Bisogna intanto abituarsi all’immagine di un Manzoni in equilibrio dinamico, dentro una rete di istanze che non sempre si armoniz-

94

MANZONI

E I CRITICI

zano tra loro, sotto la spinta di una riflessione che si trasforma facilmente in ironia e non s’acqueta mai nelle conclusioni provvisorie, anche se sa attendere. Ciò non significa, d’altra parte, che la sua esperienza

di scrittore

proceda

per

integrazioni

neces-

sarie e univoche, lungo un solo binario di segmenti che si sommano via via: esistono anche per lui i tentativi, i ristagni, le strade laterali. Così, la crisi della nozione di tragedia, che sarebbe semplicistico interpretare in termini psicologici di superamento del pessimismo e che piuttosto consegue dall’estendersi di una demistificazione sociologica paradossalmente cristiana e illuministica, si compie attraverso il riconoscimento del realismo comico shakespeariano, che discende in un secondo tempo anche in una pagina della Lettre, e con la rinunzia al personaggio tragico, all’« anima bella » schilleriana che faccia da portavoce

all’io

dello

scrittore;

mentre

si consuma

in

un breve giro di esperimenti il progetto di Spartaco, e nel canto funebre per Napoleone brucia ciò che resta ancora dell'entusiasmo manzoniano per una problematica figura di eroe moderno. Ma i segni di questa crisi si prolungano poi sin dentro il romanzo, in una commistione di impasti forti e pittoreschi, che possono anche piacere. Ad ogni modo nella mente del Manzoni, in mezzo alle tristezze di quei primi mesi del ’21 che distruggono tante illusioni e chiamano gl’intellettuali a un acre esame di coscienza, l’idea del romanzo ‘ è chiara sin dal principio. Più ancora delle lettere così stupende, che lo scrittore indirizza al Fauriel, conviene leggere quella, assai meno nota, del Visconti al Cousin, con la data, sembra, dell’aprile: esattissima trascrizione dei dialoghi fra l’apprendista romanziere e l’amico sul manoscritto quasi ancor bianco del Fermo e Lucia. La mappa che visi

disegna è di una compiutezza tanto più memorabile,

RAIMONDI

- DALLA

POESIA

LIRICA

AL

ROMANZO

95

se si pensa che più tardi, nella lettera al Fauriel del 3 novembre, lo stesso Manzoni parlerà della pagina del Visconti come del projet del roman, trasmesso per un primo giudizio agli amici di Francia: «La tragédie d'Adelgive ne sera pas achevée dans cette année; car Alexandre a été entraîné par la lecture de Walter Scott à écrire un roman en prose, Walter Scott,

dit-il,

a révélé

une

carrière

nouvelle

aux

romanciers; le parti qu'on peut tirer des moeurs, des habitudes domestiques, des idées, qui ont influé sur. le bonheur et sur les malheurs de la vie à différentes époques de l’histoire de chaque pays. Alexandre donc a entrepris de représenter les Milanais de 1630, les passions, l’anarchie, les désordres, les folies, les ridicules de ce temps-là. Une peste qui a ravagé la Lombardie précisément à cette époque; quelques anecdotes très intéressantes de la vie du cardinal Borromeo, le fondateur de notre Ambrosienne;

meux procès que nous fame,

chef-d'oeuvre

le fa-

appellons de la Colonne

d’autorité,

de superstition

In-

et de

bétise, va lui fournir assez de matière pour tenter la fable du Roman sur des faits avérés. Mais dans ce mélange de la partie historique avec la poétique, Alexandre est bien décidé à éviter la faute où est tombé Walter Scott. Walter Scott, vous savez, ne se gèéne pas quand il croit trouver son compte à s’éloiger de la vérité historique. Tout en conservant les résultats généraux, il se permet de faire tant de changements aux circonstances et aux moyens qui les ont amenées, que le fond des événements n'est plus le méme. Manzoni au contraire se propose de conserver dans son intégrité le positif des faits auxquels

il doit faire allusion; sauf à ne les effleurer que très rapidement. Les développements et les détails seront réservés à l’exposition des fictions qui doivent figurer comme partie principale dans son ouvrage ». Il nuovo romanzo manzoniano prende dunque l’av-

ene,

96

MANZONI E I CRITICI

vio dalla mitologia del pittoresco storico alla Scott che in quegli stessi anni esaltava, per tacere d'altri, un Thierry o un Pùskin, ma con una consapevole riforma interna, solo in apparenza integratrice, che dietro i temi della follia, del disordine e della società nasconde una contestazione inquietante, anche

se famigliare per lo scrittore, imposta da una ricerca dolorosa e senza illusioni sul significato stesso della storia, quando per l'appunto si voglia seguire in essa «i vari svolgimenti e gli adattamenti della natura umana nel corso della società; di quello stato così naturale

all'uomo

e così violento, così voluto e così

pieno di dolori, che crea tanti scopi dei quali rende impossibile l'adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i rimedi

piuttosto

che cessare

un

momento,

di quello stato che è un mistero di contraddizioni in cui l'ingegno si perde, se non lo considera come uno stato di prova e di preparazione ad un’altra esistenza ». E neanche a farlo apposta, questa convinzione che il Manzoni storico enuncia nel Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in, Italia, sarà anche la scoperta finale di due semplici come Renzo e Lucia. D'altro canto, chi voglia riflettervi un poco, il principio della contestazione regge tutti i congegni di un romanzo dovelo spazio romanzesco viene assoggettato agli sdoppiamenti della coscienza narrativa, dove la letteratura nel suo aspetto di istituzione sociale o di pregiudizio indotto e il rapporto fra scrittore e pubblico costituiscono un problema all’interno di un racconto che dovrebbe già presupporlo risolto come antefatto indispensabile del suo codice letterario. E bisogna anche aggiungere che l'ampliamento della prospettiva romanzesca e la rottura dei reticoli tradizionali provocano una specie di ingorgo di tutti i temi, di tutte le ossessioni manzoniane: quasi a dar ragione nei fatti a Federico Schlegel allorché pensava che il romanzo

RAIMONDI

- DALLA

POESIA

LIRICA AL ROMANZO

97

è un compendio, un'enciclopedia dell'intera vita spi-

rituale di un individuo, così come, d’altronde, uomo ne custodisce uno dentro di sé. Ezio

ogni

RAIMONDI *

_ * Da Alessandro Manzoni e il Romanticismo, in « Lettere Italiane », 4, 1967, pp. 443-450.

14 - Caretti pi

(9)

IL ROMANZO

Già i primi Inni Sacri, che pure celebrano più che non rappresentino la verità rivelata e che conservano perciò le tracce più evidenti del laborioso rinnovamento del nostro linguaggio lirico, testimoniano la novità manzoniana, nello spirito che li anima e nello stile, soprattutto là dove gli aggettivi-epiteti risultano in gran parte sottratti alla loro con-

sueta funzione decorativa ed eloquente e spiccano per una loro interna inarcatura morale e per le intime

risonanze

che riescono

a sprigionare.

E

ancora

più nelle Tragedie, dove avviene la prima, scoperta manzoniana dei ‘“ personaggi” e delle plebi afflitte, sia pure in ambienti e situazioni di eccezionalità drammatica; l’esornativa e il declamato, il gusto insomma del gesto sovrapposto, cedono il campo, per larga parte, alla illuminazione dell’interiorità più segreta, alla riduzione dell'epico. all'umanamente dolente, con modi e forme che se deflagrano le strut-

ture del ‘“ genere” senza ancora volgere interamente le spalle al linguaggio e allo stile tradizionali, mostrano tuttavia di esprimere, anche attraverso stilemi classici, inediti significati e comunicano trepidazioni recondite, sospensioni impreviste, dischiudendo

un mondo di teneri affetti e di accorate meditazioni, lampeggiamenti inattesi di rara sensibilità sentimentale. Ma questa operazione di sempre più accentuata

100

MANZONI

E I CRITICI

diseroicizzazione

della materia

e dello stile,

di

in-

treccio sempre più approfondito di ‘“ ragioni” e di “fatti”, si afferma risolutamente e felicemente solo nel romanzo, lasciati cadere, e non certo a caso, gli alti esperimenti lirici e tragici. È una parabola coerente e fatale a cui concorrono anche le contemporanee pagine di saggistica morale e di storia: le prime, e cioè quelle della Morale Cattolica, rivolte a sperimentare e a reperire lo stile dell'alta oratoria religiosa o, come è stato ben detto, le “ voci” di alcuni grandi personaggi dei Promessi sposi; le seconde, e

cioè quelle del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, intese a delineare, con denuncia

critica,

la drammatica

trama

di eventi

lut-

tuosi che insieme confondendo oppressori ed oppressi già lascia intravedere l'inserzione degli umili nell'ampio quadro della storia e spiana la strada all'introduzione del romanzo e al rapporto intrinseco che lega in esso la vicenda privata di Renzo e Lucia e la tragica cronaca ufficiale dei loro tempi. Una parabola che trova il suo coronamento negli anni 1821-

1825 con l’ultima e definitiva redazione della Pentecoste e la rifinitura dell'Adelchi, da un lato, e il carteggio col Fauriel e la prima (Fermo e Lucia, 18211823) e seconda stesura del romanzo, dall'altro. Poco più di quattro anni, ma un periodo intensissimo e quasi frenetico di lavoro durante il quale il Manzoni fu preliminarmente tratto a credere di doversi addirittura creare, ai fini del romanzo vagheggiato, una lingua artificiale, di laboratorio, quasi si trattasse di partire da un degré zéro de l’écriture e spettasse esclusivamente allo scrittore di costituire per via analogica (tenendo come punto di riferimento il francese) la nuova lingua del romanzo italiano, e quindi si indusse a quella provvisoria e laboriosa conversione del dialetto milanese nel toscano, trami-

te fondamentale

il Cherubini, che costituì il primo

IL

ROMANZO

101

riconoscimento consapevole della lingua toscana come insostituibile istituto, e che prelude alla successiva esperienza diretta del fiorentino parlato come ultimo grado di una ricerca coerente di un mezzo linguistico duttile e vivo, di base nazionale, e tuttavia modernamente aperto, sul pieno dell’espressività, anche a forme e innesti non toscani. Il Manzoni creava così in Italia, si può dire dal nulla, il romanzo moderno, e impostava pragmaticamente la questione della lingua come problema.

stilistico dell'adeguamento della forma espressiva alla natura intima dell’opera d'arte, facendo confluire nei Promessi sposi tutte le sue esperienze di storico, di moralista

e di scrittore,

e armonizzando

tra loro

i

corrispettivi piani stilistici (quello della narrazione storica, quello dell’oratoria morale, quello della distensione o del raccoglimento lirici, quello dell’annotazione intellettuale o del commento ironico, e soprattutto quello arduo del “ parlato” dimesso e familiare) in un organismo sintatticamente compatto e organico che trova, appunto nella magistrale variatio dei diversi registri, la sua dinamica e suggestivamente

mutevole

continuità

di autentica

prosa

di romanzo. Che se poi si vorrà riconoscere che in un'opera di così inusitata novità e di così ardita progettazione, concepita e attuata e culturale ben poco idoneo, segni di artificio velleitario e e non tutto vi appare risolto ralezza e l’estro felice di altri

in un ambiente sociale permangono episodici di sforzo intellettuale, con la spontanea natugrandi narratori euro-

pei dell'Ottocento, non si dovrà dimenticare che il

Manzoni, sull’ardua via del romanzo, non aveva pressoché nulla di esemplare a cui riferirsi, e non solo in Italia ma anche all'estero, e che egli è, in ordine di tempo, il primo grande innovatore della tradizione

romanzesca

settecentesca

e il primo

di una nuova forma di narrativa moderna.

creatore

}

102

MANZONI

E I CRITICI

Nel 1825, infatti, i Promessi sposi sono già un libro interamente compiuto perché le modifiche che intercorrono tra l’edizione ‘ ventisettana” .(Milano, Ferrario, 1827) e quella del ‘40 (Milano, Guglielmi e Radaelli, 1840-1842)

non

alterano sostanzialmente

la

struttura e lo stile dell'opera. Eppure negli anni 1821-1825 il Manzoni non aveva a sua disposizione, per l'obiettivo che si era proposto, niente altro che il romanzo francese del Settecento e Walter Scott. Stendhal nel 1820 lavorava, proprio a Milano, al suo De l’Amour e solo nel 1826, con l’Armance, si avviava al romanzo, mentre Balzac era ancora ben lonta-

no dal mettere mano ai primi tomi della sua grande Comédie

humaine. In quanto a Tolstòj, a cui troppo

di frequente stortura

si confronta

storica

e perciò

il Manzoni con

ingiusto

con

evidente

proposito

ri-

duttivo, doveva seguire a mezzo secolo di distanza avendo ormai dietro di sé una splendida tradizione di romanzo e soprattutto l'attivo fermento creativo e intellettuale degli scrittori e dei pensatori democratici della Russia ottocentesca. Il Manzoni, invece, ebbe in Italia immediati predecessori e contemporanei di troppo più piccoli di lui (fu lui a precedere De Sanctis, e non viceversa!) e tuttavia, con le sole sue forze, ha condotto ad estrema maturazione un

complesso processo intellettuale e morale che affonda le radici nel suolo patrio e in quello europeo del secolo precedente, e si è costituito una poetica e una teoria linguistica massimamente efficienti deducendole dalla sua personale meditazione e dal suo stesso travaglio creativo, sperimentando e realizzando, come scrittore, una forma d’arte interamente nuova e ricca di futuro. Ha superato così i limiti dell’illuminismo e ha conferito una precisa e originale fisionomia al romanticismo

italiano; ha inventato

il

personaggio moderno, il personaggio di romanzo che invano cercheremmo nell'Ortis e nel teatro alfieria-

È| È

IL

ROMANZO

103

no; ha saltato oltre l’autobiografismo, la réverie lirica e il mero patetico; ha felicemente calato nella narrazione uno spirito religioso polemicamente antifilisteo (mentre la Francia postrivoluzionaria esprimeva, a livello cattolico, il veramente reazionario Dialeaibriand ); ha sottratto alla storia il carattere

di semplice cornice scenografica e ne ha rappresentato invece la tragica connessione con il destino degli uomini, grandi e piccoli; ha oggettivamente delineato i personaggi senza sacrificarne la natura individuale al rigido disegno di una provvidenzialità inefusibile, e ha piuttosto insistito rigorosamente sul tema della responsabilità morale di ogni individuo aprendo nuovi orizzonti alla più sottile, penetrante e anche spregiudicata analisi psicologica; ha dimostrato la legittimità artistica dei personaggi ‘ negativi” anticipando così il “ tipico” dei grandi romanzi. realisti; ha saputo soprattutto operare un montaggio sapiente dei vari piani del romanzo, eliminando senza indulgenza ogni divagazione esorbitante e ogni compiacimento edonistico, e realizzando, con fulminei raccordi a distanza e ben bilanciate corri-

spondenze interne, un organismo romanzesco perfettamente equilibrato. Si può ben dire, perciò, che si è trattato di un’opera di eccezionale impegno, fondamentale per la nostra cultura e per la nostra arte narrativa, condotta innanzi dallo scrittore con la fermezza di un metodo implacabile, senza cedimenti, sì da uscirne alla fine stremato. La forza del Manzoni scrittore, quale oggi ci appare, consiste dunque nell’assiduo rapporto tra il

dato ideologico e il dato inventivo, in cui risiede poi l'esigenza più profonda di tutta la grande arte narrativa del secolo scorso. Chi si limita perciò ad applicare all'opera manzoniana strumenti differenziati e si volge a descrivere separatamente quei dati, come se fossero distanti e irrelati tra loro, manca in

È

104

MANZONI

E I CRITICI

pieno il bersaglio, e soprattutto è tratto a confondere le proprie provvisorie estrapolazioni con il vero giudizio critico. Perché la lezione manzoniana, quella che è destinata a durare oltre il tempo, non può essere reperita soltanto nel sistema ideologico, su cui incombono i limiti di un'età storica ormai remota, e neppure nella mera espressività linguistica, e strut-

tura stilistica, a cui hanno fatto seguito ben più arditi e sconvolgenti esperimenti moderni, ma risiede sostanzialmente nella ferma energia e nell’assidua pazienza con cui quel sistema, tradotto in ardito strumento di conoscenza, ha cercato animosamente, e felicemente trovato, la propria adeguata e insostituibile forma artistica.

LA

RELIGIONE

MANZONIANA

Parlare della religione del Manzoni significa aprire un capitolo poco noto al di fuori d’Italia, nella storia del risveglio cattolico al principio del, secolo XIX. Eppure il Manzoni può ben essere annoverato tra i grands convertis dell’era romantica, per quanto sarebbe probabilmente più corretto chiamare la sua una riconciliazione piuttosto che una conversione. Cattolico di nascita e di educazione, egli era infatti passato gradualmente, come molti Italiani, dalla in-

differenza religiosa alla miscredenza aperta e militante. Ritornando in seno alla Chiesa, egli percorse il cammino

di molti dei suoi contemporanei;

ma non è

sempre facile inquadrare i suoi punti di vista con quelli dei suoi correligionari e persino con quelli della stessa Chiesa romana in quel periodo. Una venatura di austerità giansenista lo isola di fronte alla faciloneria che molti suoi compatrioti sogliono affettare nei confronti dei problemi religiosi. Più tardi, quando il conflitto fra Stato e Chiesa aprì un tra-

PASSERIN

D’ENTRÈVES

- LA RELIGIONE

MANZONIANA

105

gico solco tra i cattolici italiani, il Manzoni non nascose mai le sue convinzioni democratiche e liberali, e il suo attaccamento alla causa italiana. Si può facilmente comprendere perché la religione del Manzoni sia recentemente stata oggetto di molte discussioni tra gli storici italiani e si siano finanche potuti affacciare dei dubbi sulla sincerità e purezza del cattolicesimo manzoniano. Questa

difficile

questione

[...] è resa

ancor

più

oscura dalla reticenza del Manzoni stesso. A diffe- . renza di molti altri sensazionali convertiti, egli evitò sempre di parlare della sua esperienza più segreta, e in verità di se stesso. Personalmente, sono propenso a credere che la controversia accesasi in Ita-

lia a proposito della religione del Manzoni non sia sempre stata spassionata, e che sarebbe parimenti ingiusto descriverlo come un cattolico bigotto, o come un eretico malgré lui. Rimane il fatto che, nonostante la sua reticenza, il Manzoni proclamò sempre la sua adesione senza riserve agli insegnamenti della Chiesa,

la quale a sua volta non

pose

mai

in

dubbio la sua ortodossia. Eppure d'altro lato, l’opera sua è ispirata interamente dai grandi ideali che l'età dei lumi aveva radicato nel cuore dell'Europa ottocentesca, tro gli abusi terpretazione tempi, poteva

Essa costituisce un atto di accusa cone la superstizione, un invito ad un’indel cristianesimo. che, almeno in quei certo apparire pericolosa e sovversiva

al partito reazionario sia nello Stato che nella Chiesa. Forse il modo migliore di apprezzare la posizione del Manzoni è di considerarla nella cornice' di quel cattolicesimo liberale che è stato un potente lievito di progresso nei paesi cattolici durante il secolo scorso. Ma è ancor più importante ricordare che 11 Manzoni, spirito veramente religioso, riuscì a trasporre i suoi problemi molto -oltre l'orizzonte della sua epoca e della sua patria, molto al di sopra delle tra-

106

MANZONI

E I CRITICI

scurabili sottigliezze della controversia politica © dogmatica. Solamente questo poteva rendere così eloquente il suo invito e così salde le sue convinzioni. Quelli che si sono azzardati a porre in dubbio la genuinità del cattolicesimo manzoniano ignorano, a mio avviso, che anche per un figlio pio e devoto della Chiesa vi possono essere molte dimore nella casa

del Padre;

essi trascurano

anche

l’antica

sag-

gezza di Roma nel conciliare l’intransigenza sui prin. cìpi con una notevole larghezza di idee circa quelle che lo stesso Manzoni chiamava « opinioni partico lari ». È per tutte queste ragioni che la religione del Manzoni riveste una così grande importanza per la comprensione della vita spirituale italiana non sola ai suoi tempi ma anche in epoca posteriore. Se non altro, il caso del Manzoni, come quello del suo gran de amico e confidente, il Rosmini, e di tanti altri,

serve a provare che non tutto era oscurantismo nel campo cattolico durante la grande crisi del Risor gimento.

È

Sui princìpi, comunque, Manzoni non vacillò mai Qualunque sia stato il ruolo che le influenze gian seniste

possono

aver

giuocato

nel suo

ritorno

alla

fede, nessuno è mai riuscito a rintracciare nella sua opera una prova veramente convincente di gianse nismo, se si eccettuano naturalmente quell’ardore ap passionato, quell’indefettibile impulso alla sincerità che lo ricollegano direttamente al Pascal. Per quante forti potessero essere le sue simpatie liberali, che lo resero in gioventù critico severo del « confessio nalismo » e in epoca posteriore convinto oppositore del potere temporale, Manzoni, diversamente dal l’Acton, non condivise mai l’illimitato ottimismo de credo dei Whigs. E infine, cosa di non minore impor tanza, Manzoni era singolarmente immune, come

sap

piamo, da quel peccato di orgoglio nazionale, al qua le molti dei patrioti italiani — compresi i cattolic

PASSERIN

D’ENTRÈVES

- LA RELIGIONE

MANZONIANA

-107

— si abbandonarono durante il Risorgimento. È certamente possibile riscontrare nelle sue opere alcune delle idee che furono volgarizzate nella cosiddetta scuola neo-guelfa, nello sforzo di conciliare religione e patriottismo. Il Manzoni fu tra i primi a indicare ai suoi compatrioti i benefici che eran loro derivati dalla presenza del papato in Italia !. Nella sua controversia con il protestante Sismondi, egli si era sforzato di confutare l'accusa secondo la quale il cattolicesimo era la causa della corruzione d'Italia: una. «nuova affermazione del celebre atto di accusa del Machiavelli contro la Chiesa romana, che riecheggia durante tutto il Risorgimento. Ma egli mise anche ben in chiaro che il suo scopo era di difendere la religione cattolica, non la religione degli Italiani. È soprattutto questo che fa del Manzoni prima di ogni altra cosa uno scrittore cattolico, e che rende la sua voce stranamente familiare per alcuni, distante e

straniera per altri. Non mi stupisce che il cattolicesimo del Manzoni debba rappresentare un ostacolo per molti lettori stranieri. Non è una questione di dettaglio insignificante e trascurabile. Il primo traduttore inglese dei Promessi

Sposi,

il reverendo

Charles

Swan,

trovò

necessario dire ai suoi lettori che gli sarebbe piaciuto vedere nel romanzo «il nome della Vergine Maria sostituito da quello di Cristo »; ma, egli aggiungeva in tono di scusa, «i personaggi del dramma sono cattolici ». Egli si rammaricava pure « che l’autore, nello svolgimento della vicenda, si fosse basato per la dispensa dal voto di Lucia sull'autorità della Chiesa, piuttosto che su quel che è richiesto da Dio,

dalla coscienza e dalla ragione... ». Qui almeno il reverendo

Swan

giungeva più vicino a coglier nel se-

1 Discorso sopra in Italia, cap. V.

alcuni

punti

della storia

longobardica

108

MANZONI

E I CRITICI

gno, e avrebbe potuto trovare una miglior ragione di litigio. ; Un altro, più recente studioso inglese ha messo in rilievo come sia l’idea della sottomissione all'autorità quella che costituisce allo stesso tempo il perno e la « tensione » del romanzo manzoniano. È ben chiaro che la comunione di vita rappresentata dalla Chiesa esercitava un fascino potente sull’animo del Manzoni. Egli non poteva concepire la religione come un affare meramente individuale: si sarebbe tentati di supporre che il motivo primo ed originario della sua conversione fosse «la necessità di comunicare in ispirito con altri uomini ». Non c'è dunque da stupirsi se la sua poesia, come fa notare un critico contemporaneo,

non

è mai

tanto

grande

come

quando essa si spiega nei larghi e solenni accenti di un « corale ». Ma, pel Manzoni, la Chiesa non era

soltanto il tramite della grazia, il vascello della sal vazione,

il riflesso

terreno

della

città celeste:

essa

era anche l’espressione della profonda, quasi primordiale solidarietà che lega l’uomo all'uomo, e che invero è il primo passo verso la redenzione. Molto è stato scritto di recente sulla predilezione del Manzoni per gli « umili ». Ma non si è prestata sufficiente attenzione, per quanto io sappia, al fatto che l’umil tà è comunque pel Manzoni il valore religioso più alto, quello supremo: umiltà, non in senso tolstoiano e, per così dire, anarchico, ma, nuovamente, nel significato essenzialmente cattolico di riconoscimen-

to del fatto che l’uomo non è abbastanza forte per agire senza l’aiuto e la compagnia di altri uomini e senza la guida di rappresentanti di Dio, da Dio designati. Di qui quel sentimento di diffusa remissione e di perdono che traspira dal modo con cui il Manzoni tratta i suoi personaggi:

sono

fortemente

por-

tato a credere che nonostante tutta la sua austerità e il suo

rigore, Manzoni

non

abbia

mai

realmente

PASSERIN

D’ENTRÈEVES

- LA RELIGIONE

MANZONIANA

109

concepito la certezza che qualcuno dei suoi perso1naggi meritasse la dannazione eterna. L'immagine che la sua arte ci dà del Redentore è quella del crocefisso dalle braccia spalancate, non quella del Cristo dei giansenisti dalle mani levate per pochi. Lascio a giudici migliori di me il decidere quanto dell’atteggiamento che ho descritto sia caratteristico della fede cattolica, e quanto sia semplicemente, e ‘senza qualifiche, cristiano. Il prestigio della tradizione, la certezza del dogma, la « bellezza della santità » — ecco i motivi che vengono subito in mente: quando si pensa alla rinascita cattolica degli inizi del secolo XIX. Ma nessuna di queste spiegazioni si adatta veramente al caso del Manzoni, ed è essenziale ricordare come la sua nozione della religione divergesse profondamente dalle varie interpretazioni o re-interpretazioni del\cattolicesimo che erano correnti negli anni immediatamente precedenti la sua conversione. Non v'è traccia del cupo, messianico misticismo

del De Maistre;

ancor

‘quell’apprezzamento « estetico » lo Chateaubriand aveva messo già detto, la vera chiave della del Manzoni è Pascal: Pascal e cattolici » francesi

aveva

studiato

del secolo

meno

vi si trova

della religione che di moda. Come ho esperienza religiosa i « grandi moralisti

XVII,

che il Manzoni

a fondo e che egli tanto

Da essi, assai più che dai romantici,

ammirava.

egli aveva

at-

tinto la sua ambizione di comporre un ideale traité de l'homme, o, secondo quanto egli dichiarava più ‘modestamente, di arrivare a conoscere un poco « quel

guazzabuglio del cuore umano ». Da essi più specificamente, egli aveva attinto la convinzione che il cristianesimo è l’unica spiegazione possibile della natura umana, .che è stata la religione cristiana «che

ha rivelato l’uomo all'uomo » !. La fede del Manzoni 1 Osservazioni

sulla Morale

Cattolica,

Al lettore.

110

MANZONI

E I CRITICI

è essenzialmente una certezza morale: la rende così notevolmente moderna. ALESSANDRO

MORALE

E POLITICA

PASSERIN

NEI

ed è ciò che

D'ENTREVES *

« PROMESSI

SPOSI »

Nei Promessi Sposi non si trova traccia de «la consapevolezza dell'ufficio dello stato e della sua autonomia ». Crediamo che non vi si incontri neppure la parola « stato », certo, non vi fa spicco la nozione relativa. Vi s'incontrano invece governi e popoli,

o per meglio dire, governanti e governati. Individualismo cristiano e umanitarismo settecentesco vi si si associano,

rafforzandosi

a vicenda

in una

visione

della vita sociale, che potrà peccare di unilateralità, ma che in quel tanto che vede è di una concretezza mirabile. Al di là delle soprastrutture istituzionali, e in disparte da ogni astrazione e da ogni mito, ‘il Manzoni cristiano

e umanitario,

moralista

e artista, co-

glie la realtà effettiva dell'uomo. Domina sovrano l’interesse morale, trasfigurato religiosamente, ma non alterato nei suoi connotati essenziali di umanità; e perciò il Manzoni tiene sempre lo sguardo sulle sorti degli individui, incurante o ignaro del resto. Ogni interesse politico è dal romanzo manzoniano completamente assente. Si veda il modo con cui è rap-

presentata la guerra per il Monferrato, « quella bella guerra », in cui pure uno dei protagonisti — ricordato sullo stesso tono degli spagnuoli e dei francesi, di Venezia e di Urbano VIII — è Carlo Emanuele I, salutato, al suo tempo e al nostro, campio* Da Il nostro

Manzoni,

in Dante

Torino, Einaudi, 1955, pp. 209-213.

politico e altri saggi,

SALVATORELLI

- MORALE

E POLITICA NEL.ROMANZO

lil

‘ne dell'indipendenza italiana. Se don Gonzalo abbia | fatto o no spropositi all'assedio di Casale, il -Manzoni non vuol decidere; ma è disposto « quando la cosa

fosse realmente

così, a trovarla

bellissima,

se

fu cagione che in quella impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno e, ceteris paribus, ‘anche soltanto un po’ meno danneg-

giati i tegoli di Casale » (c. XXVII). Disposizione d’a-

“nimo

umanitaria, cristiana, rivolta a negare

radical-

mente il valore politico-storico della guerra. E il sentimento del Manzoni in proposito si esprime, non meno efficacemente che nella forma diretta, in quella ironica, con l'osservazione, sempre in quell’esordio al capitolo XXVII, che la corte di Madrid, per escludere il Nevers dalla successione al ducato di Mantova, « aveva bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste) ». I pretesti addotti dai politici a giustificare le guerre, vuol

dire in sostanza

il Manzoni,

sono

cavilli, pol-

vere negli occhi per il grosso pubblico: il fatto della guerra rimane un ricorso alla violenza. Figure

di politici nei Promessi

Sposi non

sono

soltanto don Gonzalo o il cancelliere Ferrer; ma anche il conte zio, che fa compiere a padre Cristoforo,

con quattro chiacchiere al padre provinciale, quel certo viaggio a piedi da Pescarenico a Rimini; e il padre provinciale medesimo, che sacrifica padre Cristoforo senza aver cura di informarsi come stavano

le cose,

e del danno

che ad altri, ad innocenti

perseguitati, poteva portare l'allontanamento di lui, ‘e solo si preoccupa di domandare qualche omaggio da parte di don Rodrigo all’Ordine, per « l'abito ». Tanto poco pensa il Manzoni a distinguere ed a mettere in valore, ciascuno nel proprio campo, gli istituti della Chiesa e dello Stato, ch'egli ci rappresen«ta — come in questo caso — dignitari ecclesiastici e laici sullo stesso piano e con la stessa fisionomia

112

MANZONI

E I CRITICI

di puri utilitari (il cardinal Federigo e padre Cristoforo sono altra cosa: sono fuori e sopra ogni istituto, sono semplicemente cristiani). Perfino certi personaggi privati, di cui si rappresentano cattive azioni private, sono raffigurati sotto l’aspetto di politici sacrificanti religione, morale, umanità, alla ragion di stato particolare. Così il padre di Gertrude, nessun tratto isolato del quale è malvagio per capriccio personale: la malvagità è nell'insieme, nell’assunto stes-

so, nel sacrificio dell'individuo alla grandezza della famiglia: perciò è detto in un momento culminante « il principe », aggiungendo: « non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre ». Lo stesso patriottismo — non mancante di alte manifestazioni artistiche, come l'ode Marzo 1821, e il coro della battaglia di Maclodio — sbocca nel-

° l'umanitarismo morale, e potrebbe dirsi una derivazione di questo. Nell’ode Marzo 1821 ha gran rilievo il principio morale di giustizia, di uguaglianza fra i popoli, il rimprovero agli stranieri che avevano gridato a stormo: Dio rigetta la forza

straniera;

ogni gente sia libera, e pèra della spada l’iniqua ragion.

(vv: 54-56)

Ma più caratteristico è il passaggio nel coro di Maclodio dalla condanna delle discordie italiane, che

fatalmente schiudono la via allo straniero, a quella dello straniero medesimo, che profitta dell'occasione per opprimere altrui. Tu che angusta a’ tuoi figli parevi, tu che in pace nutrirli non sai, fatal terra, gli estranei ricevi; tal giudizio comincia per te. Un

nemico

che

offeso

non

hai,

SALVATORELLI

- MORALE

a tue mense

E POLITICA

insultando

NEL

ROMANZO

113

s’asside;

degli stolti le spoglie divide; toglie il brando di mano a’ tuoi re. Stolto anch’esso! Beata fu mai gente alcuna per sangue ed oltraggio? solo al vinto non toccano i guai; torna in pianto dell’empio il gioir. Ben talor nel superbo viaggio non l’abbatte l'eterna vendetta: | ma lo segna; ma veglia ed aspetta; ma lo coglie all'estremo sospir.

(Atto II, Coro, vv. 105-120)

Per un momento il Manzoni sembra qui aderire a una concezione che potremmo chiamare « storicistica ». La dominazione straniera è un « giudizio »,

una nemesi storica; un popolo che non ha saputo vivere in pace entro i propri confini è giusto che soggiaccia alla dominazione straniera, e chi viene a soggiogarlo non è se non lo strumento di questa giustizia storica. Ma poi il Manzoni si riprende subito, ritornando ai suoi concetti di giustizia assoluta, di umanità

inviolabile, alla sua negazione

di tutti i va-

lori che da questi concetti prescindano. Il conquistatore straniero non è più l’esecutore di un destino: egli è reo alla pari del conquistato, e come lui, perché reo, infelice. La legge vera, la soluzione vera, è la fraternità universale:

ner telai.

Tutti

fatti

a sembianza

d’un

Solo,

figli tutti d'un solo Riscatto, in qual’ora, in qual parte del suolo, trascorriamo quest’aura vital, siam fratelli; siam stretti ad un patto;

maledetto

colui che l’infrange,

che s’innalza

sul fiacco che piange,

che contrista uno spirto immortal! (vv. 121-128)

{

i

114

MANZONI

E I CRITICI

Intanto, però, il « fiacco che piange » e colui che s'innalza a schiacciarlo sono la realtà. Adelchi morente dice al padre: Godi

che

re non

sei; godi che chiusa

all'’oprar t'è ogni via; loco a gentile, ad innocente opra non v'è: non resta che

far torto,

o patirlo.

Una

feroce

forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto: la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l'hanno coltivata

col

altra messe

sangue;

non

e omai

la terra

dà. (Atto V, scena

Nel romanzo, ro, conferma

VIII)

Ludovico, il futuro padre Cristofo-

con le sue azioni la sentenza

di Adel-

chi: per difendere gli altri contro le ingiustizie « doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare » (c. IV). Quando Renzo, alla fine del terzo capitolo del romanzo,

esclama: « A questo mondo c'è giustizia finalmente », il Manzoni commenta: « Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica ». Non è solo Agnese ad osservare che « la legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto » (c. VI), e che «i poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni » (c. XXIV). Questa seconda volta il cardinal Borromeo in per-

sona approva con un: «è vero purtroppo ». Ed è il Manzoni direttamente a far l'osservazione circa Renzo in casa del curato, per il tentativo di matrimonio clandestino, che appare oppressore ed è oppresso, con la famosa conclusione finale, resa più aspra dalla finta restrizione: « Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo » (c. VIII). Ironia beffarda che richiama i passi

SALVATORELLI - MORALE E POLITICA NEL ROMANZO

più atroci

del Giorno

pariniano.

Siamo

115

ai culmini

dell'arte letteraria, e insieme della rivolta umana contro le iniquità sociali. Ed è sempre il Manzoni, direttamente, a rappresentarci le astuzie del notaio

criminale, tenuto — per incarico del potere statale — ad arrestar Renzo, come vani raggiri di un « furbo matricolato » (c. XV): condanna sottolineata dalla raccomandazione finale ai furbi di esser sempre i più forti. Neppure lontanamente il pensiero

del Manzoni si sofferma a considerare che si trattava di una autorità governativa, procedente per interessi statali. Il punto per lui è che si faceva danno a un umile, torto a un innocente. Il criterio manzoniano dell’autorità è ben noto: è nella famosa formula del romanzo « non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio », principio « che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca » (c. XXII).

E prima,

nel Discorso

storico, ai contestato-

ri della legittimità della donazione di Pipino in nome della sovranità dell'impero bizantino, egli aveva risposto

che « sugli uomini

la è potestà e non

pro-

prietà »; l'imperatore bizantino voleva considerare quelle città come sue: « ma le città sono piene d’uomini e gli uomini non sono cose ». Ogni concetto di legittimismo patrimoniale è negato senza discussione. In ambedue i casi è da rilevare una nuova prova che il Manzoni non considera lo Stato, entità astratta trascendente gli individui, ma concretamente governanti e popoli: concretezza di moralità cri‘stiana, ma anche di schietto pensiero settecentesco. LUIGI

SALVATORELLI *

* Da Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Tori«no, Einaudi, 1949, pp. 181-185.

ara) ct filet dadi pi -

116

MANZONI

E I CRITICI

IL REALISMO

[...] l'ideale Esso

non

manzoniano

è già un

mondo

vente nella immaginazione cora

realtà,

ma

MANZONIANO

semplice

polemico,

satirico,

fatto, ma

è un vero

com'è

ha un gran vantaggio. puramente

di uomini aspirazione,

spirituale

colti, non perciò

lirico,

l’idea in opposizione

organismo

storico, ove

vi-

ancol

l'ideale

vive ne’ più, alterato, pervertito, invecchiato, pure diversamente graduato, dal più basso al sommo della scala, da don Abbondio sino a Federico Borromeo. L'idea è dunque lo stesso fatto sociale, così co-

me si mostra ne’ suoi diversi aspetti, e i giudizi, le tendenze, le simpatie dell'autore non sono elementi postumi

e personali

e soprapposti,

ma

sono

parti

anch'esse di quell’organismo storico, entro il quale se molti facevano altrimenti, tutti giudicavano nella loro coscienza allo stesso modo. Abbiamo così la base di un vero romanzo storico, dove l’idea non fa stacco, perché nelle sue varie gradazioni, nella sua purità eroica, nella sua mezzanità, ne’ suoi pervertimenti trova riscontro nelle simili gradazioni dello stesso fatto sociale, o che gli avvenimenti sieno inventati, o che sieno positivi. E la grande originalità del romanzo è appunto questa, che la sua base non è una storia mentale preesistente a’ fatti e impostasi a quelli, ma è una storia reale e positiva, nella quale si sviluppa naturalmente tutta quella serie d'idee che costituiscono il mondo morale del poeta. Quello che a Manzoni pareva un genere ibrido, è appunto la grande novità che caratterizza questo secolo, e dov’egli è sommo, l’aver sostituito agl’'ideali assoluti e astratti storie concrete e positive, in cui quelli acquistano un limite e diventano veri organismi storici. E il secolo in questa via ha talmente camminato, che oggi siamo giunti proprio al-

DE SANCTIS

- REALISMO

MANZONIANO

117

l'opposto, all’assorbimento dell'ideale nel « realismo »: dico assorbimento, e non eliminazione o negazione; che sarebbe non un progresso, ma un’assurda caricatura. L'originalità del romanzo è dunque in questo, che ‘l'ideale non è una idea del poeta, un suo proprio mondo morale foggiato dal suo spirito e che faccia stacco

nel racconto,

ma

è membro

effettivo

ed or-

ganico: d'una storia reale e concreta. Non è un ideale realizzato dall’immaginazione con processi artificiali, ma è un ideale divenuto già una vera realtà storica, e còlto così come si trova in una data epoca e in

un

dato luogo;

onde

nasce

la perfetta

obbiettività

del racconto, e la concordia e l'armonia della composizione nella maggior semplicità dell’intrigo, sic-

ché tu leggi tutto di un fiato sino all'ultimo, disegno ti rimane innanzi e non lo dimentichi

e il più.

L’autore non vi si mescola, se non come un tuo aiuto,

una specie di cicerone, che ti dà la spiegazione e l'impressione di quello che vedi, non senza qualche malizia a tue spese;

ma

chi ben nota, il suo spirito

erra per entro al racconto come un alito armonico e sereno, che regola e contiene i movimenti serbando nell’alterno corso delle cose e degli uomini l’equilibrio e la misura. Ciò che Manzoni andava cercando, e che gli parve non raggiunto e non possibile a raggiungere, cioè l’unità della composizione e l’omogeneità de’ suoi elementi, ancorché alcuni storici e e alcuni inventati, è perfettamente conseguito, anzi

‘è qui la sua originalità, qui il grande posto che tie-

ne nella storia della nostra letteratura.

Il suo ro-

manzo storico non è solo un bel lavoro artistico, ma è un vero monumento, che occupa nella storia dell'arte quel medesimo luogo che la Divina Com-

‘media e l'Orlando Furioso.

i

- Questa nuova posizione presa dall'arte sotto la forma di romanzo storico, e penetrata ora in tutt’i

hi

)

118

rami, che

MANZONI

ha questo

E I CRITICI

effetto, che non

si appropria

natura

e storia

nifestazione, ma un vero mondo

hai più un come

una

ideale

sua

ma-.

storico nel tal tem-

po e nel tal luogo, che dà non ad una idea estranea e mentale, sura,

cioè

ma a

al « suo

dire

vita

ideale », il limite piena-e

concreta.

e la miDico

suo

ideale, perché l'ideale non è un mondo a parte, segregato dalle cose, nella sua perfezione logica e morale, .e non è neppure il genere e la specie delle cose, non fil loro tipo o esemplare, rappresentato sotto forma individuale; ma è un proprio e vero individuo, dove si spoglia la sua perfezione e prende un carattere e una fisionomia, cioè un complesso di parti buone e cattive, di elementi sostanziali e accidentali, che gli tolgono la sua generalità e lo fanno esser questo e non quello. Sicché l’ideale non è l'uno e lo stesso nella infinita varietà della natura e della storia, ciò che fu detto l'uno nel vario, ma è il proprio e l’incomunicabile, l'individuoo il vivente, di là dal quale non sono che astrazioni. Ciascuna cosa che vive, ha un ideale suo, il « caratteristico », che la fa esser

sé e non

altro; ciò che si dice indi-

viduo. Non si vive che come

individuo. E meno

la

vita è sviluppata: minore è la forza caratteristica o individuale, più rassomiglia a genere o tipo; e più la vita è ricca e varia: più vi è scolpita la sua individualità, più il suo ideale vi s’incorpora e vi si distingue. Ma se ciascun individuo ha un ideale suo, segue che ci ha di ogni sorta ideali, belli e brutti, buoni e cattivi, e che don Abbondio e don Rodrigo, e fin Tonio e Griso sono personaggi non meno ideali e non meno poetici che Lucia e Borromeo. Anzi chi va a fil di logica, è sforzato a conchiudere che base

‘così dell’arte come della vita è non il perfetto, ma l'’imperfetto, se è vero che l'ideale, perché viva, dev'essere un individuo, avere le sue miserie, le sue

passioni e le sue imperfezioni. Cosa dunque farà l’ar-

DE

SANCTIS

- REALISMO

MANZONIANO

119

tista? Cercherà non l'ideale, ma l'individuo, così com'è; avrà innanzi un modello non mentale, ma

vivente;

terrà

che mettono

dietro in moto

non

alle idee, ma

natura

alle forze

e storia, e producono

l'individualità, cioè a dire la vita. E chi guarda alla storia dell’ideale nel mondo moderno, vedrà che dalle cime del più astratto ascetismo essa è uno scendere

lento, ma

assiduo

verso

la terra,

incorporan-

dosi sempre più ed entrando in tutte le differenze e le sinuosità della vita. In questo cammino noi ci siamo lasciati oltrepassare, rimasti stazionarii e vuoti

e oziosi siamo

arcadi, più sognando

risvegliati,

che vivendo;

e cominciamo

una

nuova

ora

ci

storia, e

la pietra miliare della nostra nuova storia è questo romanzo, dove risuscita con tanta potenza il senso del reale e della vita. In effetti la straordinaria

importanza

di

questo

lavoro non è solo che un mondo mentale sia calato in modo nella storia, che vi acquisti tutte le apparenze della realtà, ciò che sarebbe lo stesso processo

antico e consueto recato a maggior perfezione; ma che quel mondo sia modificato nella stessa sua sostanza, e sia non apparenza di realtà, ma realtà positiva, parte organica di un'epoca storica. Non è

l'ideale artificiosamente realizzato con processi artistici, sì che la realtà divenuta la sua faccia o la sua

apparenza vi sia abbellita e perfezionata; ma è l’ideale limitato

imperfezioni ©

nella

sua

natura,

dell'esistenza,

non

partecipe

più un

di tutte

ente

le

logico

un tipo, ma divenuto una vera forza vivente, non

più una individuazione, cioè a dire un'apparenza d'individuo, ma una vera individualità: ciò che dicesi il limite e la misura dell'ideale. Ora Manzoni ha pochi pari nella finezza e profondità di questo pH; ‘senso del limite o del reale, che è il segno caratteri“stico di un mondo adulto e virile. Tutto ciò che esce dalla sua immaginazione, ha il carattere severo di

ihdada

120

MANZONI

E I CRITICI

una realtà positiva, esce cioè limitato, misurato,

così

minutamente condizionato al luogo, al tempo, a’ caratteri, alle passioni, a’ costumi, alle opinioni, che ti balza innanzi una individualità concreta e piena, un vero essere vivente. I più studiano ad abbellire,

a produrre

effetti maggiori

del vero;

il suo

studio

è a limitare disegni, proporzioni, colori, secondo natura e storia, sì che tu dica: — È vero —. Il mara-

viglioso e l'eroico, il perfetto, ciò che dicesi l'ideale, non lo alletta, anzi lo insospettisce, e mette ogni cura a ridurlo nelle proporzioni del credibile e del naturale. Dove i più si affannano ad ingrandire, lui si affanna a ridurre in giusta misura. Onde quel suo mondo religioso e morale, preconcetto nella mente con' tanta perfezione, entrando nella storia tra avvenimenti veri e finti, vi s'innatura e vi s’'incorpora, imperfetto appunto perché vivo. O per dir meglio, se quel mondo si può chiamare imperfetto di rincontro alla sua esistenza logica e mentale, è perfettissimo come mondo vivente, e perciò mondo dell'arte.

Certo,

niente

vi è di più maraviglioso,

che

la conversione dell’Innominato. Il pianto di Lucia, che ispira nel Nibbio un sentimento nuovo, la compassione produce in lui una trasformazione così profonda, che lo converte, lo fa un altro essere. Si vegga con quanta industria il poeta, un fatto così

straordinario che il volgo attribuisce a miracolo della Madonna, riconduce nelle proporzioni di un fenomeno

psicologico.

E se Borromeo

compie

il mira-

colo con la sua .ardente parola, si dee non solo a quella fiamma di carità che lo divora, a quella sua eroica esaltazione religiosa, ma a qualità più mondane che pare diminuiscano il santo, eppure lo compiono e lo perfezionano. Perché il poeta allato al santo fa apparire il gentiluomo, l'uomo di mondo e di esperienza, dotato di cultura, di un tatto squisito, di una grande conoscenza de’ caratteri e delle

DE SANCTIS

debolezze umane,

- REALISMO

MANZONIANO

121

che indovina i pensieri e le esita-

zioni più occulte de’ suoi interlocutori, e sa tutte le vie che menano al loro cuore, sì che vince le ultime resistenze dell’'Innominato e di don Abbondio,

e più si accosta e si abbassa a quelli, più il santo ci si fa accessibile, più lo sentiamo a noi vicino. Veggasi pure, che se le parole di padre Felice fanno un così grande effetto, si dee a quel complesso di fatti e di circostanze, che lo ispirano e lo mettono ‘in comunione con gli uditori, e lo rendono eloquen-. te più che non sono tutt’i nostri oratori sacri presi insieme. Nondimeno

l’Innominato

e Borromeo

sono

qui i

personaggi più ideali, nel significato ordinario di quella parola, cioè a dire più perfetti, più vicini al loro tipo, l'esemplare più puro del mondo religioso e morale del poeta, l'uno come affermazione, l’altro come negazione. E se dovessero avere nel romanzo una parte fissa e durevole, verrebbe stanchez-

‘za ed uniformità da quella santità e da quella malvagità in permanenza. Questo sarebbe il caso, se la conversione dell’Innominato fosse base del racconto, e non

piuttosto,

Ond'’è ch'essi gitive, meteore

com'è,

sono

una

sua

apparizioni

che illuminano

parte

accessoria.

straordinarie

e fug-

e passano, lasciando

dietro di sé stupore e ammirazione. È una specie di epopea che fa la sua ultima apparizione nel nostro mondo borghese, messa al seguito di Renzo e Lucia.

Lucia è un personaggio anch'esso ideale, cioè vi‘cinissimo al suo tipo, ma di altra natura e forse tra’ più originali della poesia italiana. Nuova alla vita, d’'indole soave e pudica, purissima, tutta al «di fuori, semplice di fede e di cuore, il poeta che vagheggiava un tipo femminile del suo ideale, ha trovato nel contado un modello, che verso quel tipo si può dire imperfetto, e perciò appunto è perfetto

122

MANZONI

E I CRITICI

nel giro della sua vita propria. Essa non ha immaginazione e non ha iniziativa, non ha ricchezza sufficiente per rappresentare degnamente l'ideale del poeta. È un ideale, se posso dir così, inizìiale e passivo, rimasto

così com'è

stato

stampato

e fazionato

dalla madre e dal confessore, senz’alcuna discussione e opposizione interna, senz'alcuna deviazione o

transazione venutale dall'esperienza della vita, senz'alcuna capacità di malizia e di riflessione. La vita, appena

schiusa,

rimane

lì, ignorante

e incosciente,

e senz’alcuna forza di resistenza e di difesa. Fanciulle simili vennero poi in moda, Ildegonde e Lide e Marie ed Eugenie, nuove Arcadie e nuove pastorellerie. Sono degenerazioni di quella ‘giovinetta così semplice e così terribile nella sua debolezza. Perché ella è in fondo il sentimento religioso e morale comune a tutti, alterato e diminuito nell’esercizio della vita, e in quel cuore adolescente intero, tranquillo, sicuro, naturale come in sua propria sede, che toc-

co appena manda suoni tanto più terribili, quanto meno consapevoli. Che sa Lucia, quale terribile effetto debbano produrre sull’animo dell’Innominato queste parole così semplici: « Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia »? Il nome di Dio pronunziato con energia di predicatore da padre Cristoforo, irrita e provoca don Rodrigo; uscito con sem-

plicità, senza alcuna intenzione di effetto, da quelle labbra innocenti e supplichevoli, vince e trasforma l’Innominato. « Perdona tante cose! ». Frase vaga, come un suono musicale, ma terribilmente concreta

per quell'uomo che si vede sbucare avanti tutta la serie de’ suoi delitti. Quell’ideale rifuggitosi nell’ingenuo e inconscio petto di una fanciulla è una immagine

assai più poetica e più persuasiva,

che non

le parole più ardenti e più calcolate di padri e di cardinali. Certo è in lei non so che troppo elevato, troppo tipico, che ce la tiene a distanza, come fos-

DE SANCTIS

- REALISMO

MANZONIANO

123

se una Madonna, è in lei troppo della santa, ed assai poco di quel femminile, che ci rende così amabili le Giuliette

e le Margherite;

corretta

dalla vicinanza

damente

concepiti

soverchia

idealità,

di due personaggi

stupen-

e umanizzati,

Renzo

e Agnese,

la

«cui bontà nativa profondamente modificata e variata dalla esperienza della vita, dall'azione della so«cietà, dalla qualità degli avvenimenti, comunica loro una compiuta e interessante individualità. Agnese è una Lucia in reminiscenza, così buona e credente, così educata e fazionata, ma divenuta nel cor-

so degli anni, tra gli accidenti della vita e in quell'atmosfera paesana un po’ come tutte le altre; larga di maniche, con non troppi scrupoli, con la sua malizia, col suo saper fare, massaia, ciarlona, semplice e vera nella sua volgarità, con tutti gli abiti

buoni e cattivi contratti nella bassa sfera in cui è nata, la è una brava donna di villaggio. La stessa bontà è in Renzo, con gli stessi abiti contratti nella sua

sfera, ha l’aria del paese;

quella sua

ce lo rende

forza ed inesperienza

giovanile,

pagnata con un ingegno ineducato, ma

amabile

accom-

pronto, vivo,

perspicace, pieno di spontaneità e di originalità ne’ suoi giudizi e nelle sue mosse improvvise, spesso spiritoso senza

e con la sua

cercar

lo spirito, col suo

«lega de’ birboni »; sempre

latinorum,

vero.

In

tutti e due c'è una certa vena di comico, che nasce ‘appunto da quelle imperfezioni e abitudini e inespe-

rienze penetrate in quel fondo di bontà e di sincerità. Protagonisti del mondo ideale sono padre Cristoforo, che è il suo cavaliere errante, il suo tipo; don Rodrigo, che è il suo lato negativo; e don Abbondio, che è il suo lato comico. Lo studio dell'autore non è di accentuare quei tipi, anzi è di raddolcirli e indi‘viduarli, introducendovi un complesso di circostanze e di condizioni particolari e locali. Padre Cristoforo è una buona natura guasta dal-

124

MANZONI

E I CRITICI

l'educazione, insino a che, percossa la mente da un fatto di sangue, si spoglia la ruggine e ricomparisce di sotto il buon metallo. La sua vita è una lunga espiazione, una reazione contro l’uomo antico, Le stesse sue cattive abitudini si trasformano. Quel suo umore battagliero e avventuroso diviene energia e iniziativa nel bene. Quel suo falso orgoglio, quel « fare stare » i prepotenti, prendono forma di ardente carità, di olocausto della sua persona al bene de’ prossimi. Sotto altro nome è sempre lo stesso Ludovico, mutato scopo e indirizzo e teatro. Ma le macerazioni, le penitenze, le volontarie umiliazioni non valgono a spengere in tutto l'antico Adamo, che pur talora risorge e si ribella, ciò che rende più drammatica la vittoria del convertito. Il suo ideale è l’umiltà

evangelica,

il perdono

ancora più in animo

delle offese, che brilla

naturalmente

violento. L'oppo-

sizione non è così importante, che costituisca un serio interesse drammatico, ma basta a gittare una va-

rietà di accento e di colore in un ideale troppo assoluto di santo. i Don Rodrigo è lo stesso ideale preso a rovescio: natura violenta e inculta, guasta ancora più dalla falsa educazione e dalle male abitudini della sua posizione sociale. Non è già un tipo di malvagio, un vero contro-ideale. Questo è certo il posto assegnatogli nel romanzo, questo il suo significato, ma solo come genere. La sua individualità è prodotta da un complesso di motivi storici. Egli è il nobilotto degenere di villaggio, l'antico feudatario che reputa tutto intorno, uomini e cose, come roba sua, e cerca far valere il suo diritto con la forza, circondato di bravi. Il mondo non è più lo stesso: ci è lo Stato e la legge; ci è un'ombra di borghesia incontro a lui, il podestà, il console, il notaio, l'avvocato; questo lo

rende anche più cattivo, costringendolo a congiungere con la violenza l’intrigo e la corruzione. La sua

DE SANCTIS

- REALISMO

MANZONIANO

125

vita non ha scopo; l’ozio rode in lui tutto di elevato vi avea posto natura e lo volge Pesa su di lui l'atmosfera della sua classe. lo spinge e lo frena, è questa interrogazione: diranno di me i miei pari? —. Onde nasce glio, il falso punto in un primo passo,

ciò che al male. Ciò che — Cosa il punti-

d'onore, che lo rende ostinato e cangia la velleità in volontà,

e lo tira di grado in grado sino al delitto. Le beffe del cugino e i ritratti de’ suoi antenati operano più in lui che la stessa sua libidine. Una scommessa è il piccolo principio, da cui nascono avvenimenti molto serii, dov’egli si trova imbarcato e inchiodato al di là di ogni sua intenzione. Casi simili hanno per lo più a movente la libidine o la passione; il motivo è qui un puntiglio, un voler « spuntare l’impegno », motivo

comico,

pure altamente

tragico per

l’importanza che ha nella coscienza di tutta una classe. Chi guarda ben addentro, vedrà che don Rodrigo non è il peggiore de’ suoi pari. Ci è nel fondo del suo cuore un avanzo di buoni sentimenti, che lo rende pensoso innanzi alle parole di padre Cristoforo, e benché spesso tra banchetti e stravizi, pur non

vi si mostra

così cinico, come

i suoi compagni

di orgie. Egli è come tutti gli altri, pure il men tristo di tutti gli altri. Il suo peccato è di esser nato tra quei pregiudizi, e in quell’atmosfera viziata: ciò che falsifica nella sua coscienza la nozione del bene e del male, e gli dà un torto concetto dell'onore. Pure la fatalità della sua posizione morale non lo giustifi«ca e non lo assolve. C'è un mondo superiore, le cui leggi non si violano impunemente. L'espiazione di don Rodrigo, così piena di terrore e di compassione, è la reintegrazione nella coscienza di quel mondo superiore offeso. Il sentimento umano che se ne ‘sviluppa, è quel medesimo che provano padre Cristoforo e Renzo innanzi alla sua agonia. Così don Rodrigo, lo scelto antagonista dell'ideale manzonia-

7

il

126

MANZONI

E I CRITICI

no, rimane un individuo storico e reale. Se per la sua lotta con padre Cristoforo e per la sua espiazione riflette in sé negativamente quel mondo religioso e morale, ciò è conseguenza e corona

di una idealità

ancora più profonda, il tipo del nobile degenere nel tal secolo e nel tal luogo. Con la stessa chiarezza e decisione è concepito il don Abbondio. Esso è l’ideale alterato e indebolito nell'esercizio della vita e spesso sacrificato per quella specie di codardia morale che accompagna i popoli nella loro decadenza. Come in don Rodrigo, così in don Abbondio il senso del bene e del male è oscurato, e il mondo è guardato e giudicato a traverso di un'atmosfera viziata. Il demonio del potente don Rodrigo è l'orgoglio; il demonio del debole don Abbondio è la paura. La contraddizione fra il suo do.vere e la sua paura genera una situazione di un comico tanto più vivace, quanto più egli cerca dissimularla. E la dissimulazione non è già ipocrisia e doppiezza, che lo renderebbe odioso e spregevole, ma è un fenomeno ella medesima della paura. La quale gli fabbrica un mondo sofistico fondato sulla prudenza, o l’arte del vivere, col suo codice e con le sue leggi, un vangelo a cui crede e vuol far credere, e che gli forma i suoi giudizi e gli detta le sue azioni. E perché tutti indovinano, fuorché lui, il vero motivo de’ suoi giudizi e delle sue azioni, scoppia il riso. Natura buona e pacifica, sincera e passiva, subitanea nelle sue impressioni, originale ne’ suoi giudizi, con scarsa coscienza di sé e con nessuna coscienza degli altri, egli è l’inconscia macchina da cui esco-

no tanti avvenimenti. Il puntiglio di don Rodrigo e la paura di don Abbondio sono le forze ignobili che con sì piccola sapienza generano questo mondo poe‘ tico. Il quale si restaura con l’espiazione dell’uno, e si purifica e si afferma con la correzione dell'altro.

La saviezza mondana di don Abbondio invano rical-

DE SANCTIS

- REALISMO

MANZONIANO

citra e si dibatte contro il mondo

127

ideale evangelico

di Federico Borromeo, oscurato, ma nella sua coscienza. Così un mondo glio e dalla paura è alzato nel mondo

non cancellato nato dall’orgosuperiore della

‘carità e dell'amore. Se don Abbondio nel suo signifi«cato generale si rannoda a quel mondo superiore e forma il suo lato comico, pure rimane un individuo

compiutamente libero, con una idealità sua propria, ‘col suo carattere, con la sua fisionomia, co’ suoi fini

e co’ suoi mezzi. Questi personaggi principali hanno intorno a sé una moltitudine di personaggi secondari che pel loro significato si rannodano a padre Cristoforo, o a don Rodrigo, o a don Abbondio: la quale relazione rimane così in astratto, e non impedisce il loro libero e individuale movimento nella storia, con grande varietà di classi, di costumi, di opinioni e di caratteri.

Vi domina

soprattutto

il comico,

come

Perpetua,

l’oste e Tonio nella loro bassa sfera, e in una sfera «più ampia donna Prassede e don Ferrante. Come i personaggi, così son condotti gli avvenimenti. I quali, se hanno una relazione manifesta col

mondo ideale ov’è l'obbiettivo del romanzo, pure l’oltrepassano, e si sviluppano liberamente e largamente, ciascuno nel giro della sua esistenza particolare. La monacazione di Gertrude, la carestia e la peste di Milano possono sembrare avvenimenti troppo sviluppati a quelli che concepiscano un romanzo come una logica artificiale con equilibrio di proporzioni.

Questi ed altri avvenimenti, rimanendo nel loro senso generale uniti col tutto, vi stanno come parti or1ganiche, dotate di attività propria, vere e compiute persone poetiche, che in quell'armonia universale

hanno fini e interessi propri. Così l'ideale religioso e morale che è la finalità del romanzo,

l'ultimo suo risultato, va a profondarsi

nella infinita varietà dell'esistenza particolare, attin-

128

MANZONI

E I CRITICI

gendo in recessi inesplorati del mondo reale novità e originalità di forme e di movenze, di cui non era esempio nella nostra letteratura, ed esce di colà misurato e limitato in modo che vi perde la sua purità logica e la sua perfezione mentale, internatosi e mescolatosi nel gran mare dell'essere con tutte le imperfezioni e gli accidenti della storia. L'istrumento di questa misura dell’ideale è l’analisi. L'ideale nella sua purità è sintesi, esistenza abbreviata e condensata, che ti ruba i limiti, e ti dà una immagine dell’infinito. Come lo spirito si fa più adulto, più decompone, limita e analizza, più l'’esistenza si squaderna. L'analisi è il genio del mondo moderno,

la porta del reale. E quanto

la nostra

let-

teratura fosse rimasta estranea al mondo moderno, si può argomentare dalla sua grande povertà d’analisi. Ciò che ivi trovi, sono

vuote

generalità,

succe-

dute alle sintesi pregne e vigorose di Dante, a quel suo veder alto e da lungi, vedere in blocco. E come la sintesi di Dante vi è degenerata l’analisi di Machiavelli,

succeduta

l’acutezza,

che è la sua

carica-

tura. Manzoni apre il nuovo secolo, cercando nuova base nel suo reale storico o positivo, e spiegandovi una potentissima forza di analisi.

L'analisi è il suo antidoto contro

quell’onda

di

vecchi e nuovi ideali, che invadeva le letterature euro-

pee. È lei che lo premunisce contro le sue proprie tendenze idealiste, e lo tiene sempre nella giusta misura, nel vero. Quando sviluppa con tanta facondia e con tanto vigore i principi fondamentali del suo ideale evangelico, sentimenti di carità, di amore, di umiltà, di sacrifizio, di perdono, per bocca di padre

Cristoforo o di Borromeo o di padre Felice; puoi trovarvi a ridire, senti qua e là non so che di enfa-

tico e di polemico, non so che di preconcetto e di mentale introdotto artificialmente, e puoi giudicare il poeta di eloquenza e di unzione secondo a parec-

DE SANCTIS

chi

scrittori

- REALISMO

moderni;

ma

MANZONIANO

quando

129

analizza,

riesce

sempre ammirabile, e a paro co’ più grandi, primo, anzi unico in Italia. La coscienza della sua straordinaria potenza di analisi genera nel poeta la tendenza o l'inclinazione a guardare le cose anche più delicate e fuggevoli non

nella loro idealità astratta, ma

nelle condizioni

e ne' limiti della loro esistenza: ciò che dicesi il senso o il genio del reale. Le sue analisi non sono mentali e dottrinali, decomposizioni d'idee secondo una. certa logica e una

certa

dottrina

in veste

poetica,

come è spesso in Dante. Sono analisi naturali e psicologiche, che ti danno la cosa vivente, come l’ha fatta la natura e la storia, introducendoti ne’ più

delicati misteri della vita. Ciascun personaggio ha un suo proprio modo di guardare il mondo, una sua propria posizione morale e intellettiva formata dal temperamento,

dal carattere,

dall’educazione,

da un

complesso di circostanze naturali, psicologiche e storiche, che costituisce

la sua personalità,

cioè a dire

il suo ideale. Sicché il vero interesse non è nella posizione che occupa ciascun personaggio dirimpetto al mondo religioso e morale preesistente nell'immaginazione del poeta, ma nella ricca originalità della sua esistenza individuale. FRANCESCO

LINGUA

DE SANCTIS *

E STILE

Ne’ Promessi Sposi linguaggio e stile non è costruito a priori, secondo modelli o concetti. L'è conseguenza di un dato modo di concepire, di sentire * Da La letteratura italiana nel secolo XIX, Manzoni), Bari, Laterza, 1953, pp. 64-75. 5- Caretti

4

vol. I (A.

130

MANZONI

E I CRITICI

e d'immaginare. Lo stile è la combinazione delle due forze che aveva lo scrittore in così alto grado, la virtù analitica e la virtù immaginativa. Uso a decomporre, a distinguere, ad allogare secondo una certa misura o limite interno, che non è altro se non il senso del vero, l’espressione è sempre precisa e giusta, cioè vera, ed è insieme semplice, perché l’interna misura esclude ogni esagerazione ed ogni complicazione. Tutto è a posto, e tutto è nel suo limite;

niente v'è di sì complesso, semplicizzato; perciò tutto

plice. Queste

virtù

che non sia distinto e è vero e tutto è sem-

intellettuali

sono

forze morali, perché tutto è armonia

in lui anche in quella men-

te. Il suo senso del vero è fortificato dalla sua sincerità, il suo vigore analitico è aiutato dalla sua serenità e imparzialità, e quel suo gusto del semplice è anche semplicità morale, che lo tien lungi da ogni affettazione e ostentazione, da ogni ricerca di effetti artistici che non sieno inclusi naturalmente e immediatamente nel suo argomento. Questa è la base solida e direi organica del suo stile, non fabbricato per meccanismi

o processi

esterni, ma

nato

e formato

nel suo spirito. Dico la base, perché se questo basta allo scienziato, non basta all'artista. Ci è il disegno, non ci è il colorito. Ma come il poeta s’interna nelle più minute latebre del suo argomento, scopre sempre lati nuovi, che stuzzicano più la sua curiosità e rinfrescano le sue impressioni. Scartando tutt’i luoghi comuni poetici e tutte le reminiscenze, esplorando tutto con osservazione diretta, gli brilla innanzi un mondo psicologico tutto nuovo, a cui il suo spirito non rimane indifferente, a cui anzi ha la più. viva partecipazione. Perciò mentre tutto esprime con

precisione ed esattezza di scienziato, in quell’espressione, non

sai come,

si mescolano

sue impressioni, che la rendono

e si fondono

animata

le.

e spirito-

sa. Dall'alto del suo osservatorio, sempre presente

È

DE SANCTIS

a

- LINGUA

E STILE

131

sé, è non dominato, ma dominando, ciò che lo col-

| pisce più è il contrasto tra quello che le cose sono ‘e quello che paiono, velati gli occhi da ignoranza e da passione: ciò che dà alla sua espressione una leggiera tinta ironica, una forma, nella quale il reale | vero si afferma di contro all'apparenza. Ma perché ‘il mondo va così, e non può andare altrimenti, quel-

l'ironia non è senza una cert’aria di benevolenza, esi sendoci nella più parte de’ casi debolezze da compatire, perché debolezze della stessa natura umana. . « Così va il mondo », nota il poeta, « o piuttosto così andava nel secolo decimosettimo »; correzione ironica piena di garbo, che fa ammettere ridendo il rim| provero e gli toglie ogni asprezza. Riserbando la sua indignazione per le singolarità vituperevoli di questo o quell’individuo, quando s'incontra in casi comuni e generalmente tollerati, l’universale tolleranza si ri‘vela in quel carattere benevolo della sua ironia, come quando dice de’ soldati in guarnigione che in. segnavano la modestia alle fanciulle, e alleggerivano ‘ i contadini delle fatiche della vendemmia. Così la sua . analisi

è mescolata di malizie, d’ironie, di motti

ar-

guti, di riflessioni piccanti, e la sua espressione è così colorita, che spesso nelle cose si sente l’impressione, e nell'impressione traspariscono le cose:

il suo stile, mentre

onde

è sempre semplice e preciso, è

| insieme sempre spiritoso. Ed è ancora altamente pit: toresco, perché il poeta, oltre ad una eminente fa-

coltà di analisi, possiede una potente immaginazio. ne. Appunto perché le cose fanno sul suo spirito una così viva impressione, le qualità più astratte, le no| zioni più astruse, i fenomeni più spirituali prendono ‘faccia e gli si movono

innanzi come

esseri animati.

E come tutto nasce da osservazione diretta delle cose nella loro individualità, quei colori non hanno |niente di comune,

e nascono

vi sorprendi mai ripetizione

con esse le cose. Non

o reminiscenza

di co-

132

MANZONI

lorito; tutto è nuovo,

E I CRITICI

perché tutto è proprio e non

si rassomiglia che a sé stesso, a quel modo che nessun individuo si rassomiglia con altro. Onde avviene che tanti personaggi, tanti fenomeni, tante malizie, tante apparizioni lasciano nel tuo spirito sempre una immagine, che te ne conserva la memoria. Fino

il Griso e il Nibbio, fino Gervasio

e Tonio, chi può

dimenticarli? attaccati i loro nomi a certi tratti plastici e caratteristici, che ti s'improntano nell’immaginazione. Nessuna

malizia ti sfugge, nessuna

ironia

ti lascia indifferente; non ci è apparizione sì piccola e insignificante, che non abbia una sua faccia propria, se non altro, per dirti che la è piccola e insignificante. Vedi la forma sprezzante, con la quale è indicata la morte di Griso, come

d'un animale senza

pensiero, senza parola e senza rimorso, senza alcun vestigio di senso umano. E non perché non pensi e non parli, ma perché il poeta con l’aria di chi guarda e passa, non degna raccogliere pensieri e parole di un essere così insignificante e volgare nella sua malvagità. Questa potenza e proprietà di colorito tu non l’incontri solo nell'analisi, ma ancora più nella rappresentazione, quando alla descrizione e al discorso succede il dramma, cioè a dire quando tale personaggio, tale avvenimento, ben descritto, bene analizzato, entra in una data situazione. Mentre si ope-

ra e si parla, il poeta è là che dà il rilievo, scolpendo le figure, animando gesti, movenze, positure, dipingendo al di fuori tutta la vita interiore così bene esplorata, e cogliendo a volo le sinuosità più fug-

gevoli e più delicate della rappreseniazione. E tutto questo mondo è così sempre tutto intero innanzi al poeta, che analisi e rappresentazione s'’illuminano a vicenda, entrando l'una nell'altra, e l'una all'altra specchio e rilievo, di guisa che spesso un tratto analitico ti rischiara tutta l’azione, e un gesto, una pa-

rola ti richiama

tutta l’analisi. Don Abbondio

è il

DE SANCTIS

- LINGUA

E STILE

133

personaggio meglio analizzato e più compiuto. Lo incontriamo nelle più varie situazioni, sempre diverso e pur sempre quello. La sua nota fondamentale è la pusillanimità, che nelle situazioni più ac‘ centuate prende la forma acuta della paura; e la sua diversità è apparente, è nelle varie gradazioni

di quella nota, come sono le sue stizze, le sue impazienze, la sua poltroneria, e fino il suo coraggio, quel tale coraggio della paura. Veggasi come così varie situazioni di animo sono illuminate da tratti analitici, ecome talora un suo gesto, una sua parola

ti richiama l’analisi, e gli caccia d'improvviso e a sua insaputa il gran segreto della sua natura a tutti manifesto,

fuorché

a lui, qual è il motto

famoso:

« il coraggio uno non se lo può dare ». Spesso l’analisi è il frontespizio della rappresentazione, ed hai un vero processo logico, una specie di premesse e di conseguenze; talora è in antagonismo e ne vengono grandi effetti estetici, come quel don Abbondio in quello stato di perfetta quietitudine, quasi di uomo contento

che faccia il chilo, col suo

famoso:

« chi

è Carneade? » rimasto proverbiale, còlto a volo e fissato in caricatura, con

quella zimarra, con

quel ca-

mauro, in quella figura grottesca, e da quel securo lido lanciato subito in pieno mare tempestoso. Queste intime commessure delle cose scrutate e connesse con

tanta virtù intellettuale, e allogate,

rilevate,

armonizzate con l'occhio sicuro di un artista consumato, producono nell'unità dell'insieme anche l’unità del colorito, espressione immediata delle cose e delle loro

impressioni

sul poeta, e così preciso

e giusto

| e semplice, perché la visione è chiara e l’impressione è vera. Tale esce qui lo stile nelle sue forme intellettuali PC » e fantastiche dalla sorprendente combinazione di due da ‘forze amicamente operose, un grande vigor logico e una immaginazione potente. Il suo carattere è la ì

ian

134

MANZONI

E I CRITICI

precisione congiunta con l'evidenza nella massima semplicità. O per dirla con una parola, è la naturalezza, quell’'immergersi e obbliarsi della mente nella natura e parer una con quella. Il che se desideri nelle parti serie e ideali, dove senti alcuna volta una certa ineguaglianza, un certo sfoggio come d'idee e di colori uscenti più da previsione mentale che da visione immediata, trovi sempre e in grado eccellente nelle parti mezzane e comiche della vita e nelle sue analisi. Chi disse che lo stile è l’uomo, disse una mezza verità. La verità intera è questa, che lo stile è la cosa nel suo riflesso e nel suo effetto sulla mente. Da questo lavorìo esce la cosa impressionata, sì ‘che tu ti accorgi che la è passata per la mente e ne ha

ricevute le impressioni. La storia dell’arte è la storia di questa unione. Talora la mente accoglie in sé la cosa con poca serietà, e resta lei, e vuol comparir

lei, e per volerla a sé, la snatura. sua esagerazione e convenzionali.

troppo abbellire, troppo assimilarla Questo chiamano eleganza, che nella conduce sino a’ processi artificiali A questa eleganza oppone Manzoni

la sua naturalezza, sì che la cosa esce dalla sua mente

nella integrità e nella verità della sua natura e delle sue impressioni. In questo senso Manzoni è il vero padre della nuova letteratura, il cui carattere a’ nostri giorni è la naturalezza. Pur voi vedete da quello che si è discorso finora, come si richiedono maggiori mezzi e maggior potenza di mente a produrre questa

naturalezza, che a produrre quella eleganza. Perché se è facile copiare artificialmente e riprodurre l’eleganza, difficilissimo è ottenere la naturalezza, la quale presuppone lo studio e l'intelligenza e l’amore delle cose, quali te le dà la natura e la storia, e una grande virtù nella mente di assimilazione e di pro-

duzione. Onde avviene che i più, come

sono molti

che si dicono scrittori popolari e realisti, correndo appresso

alla naturalezza,

trovano

l’insipidezza, che

DE SANCTIS

- LINGUA

E STILE

135

è la cosa uscita dalla mente senza sapore e senza . colore, senza quell’impronta spirituale, che le viene dalla sua dimora e dalla sua trasformazione nella mente.

Tale lo stile, e tale la lingua. Il grosso materiale è qui la lingua parlata e intesa dall’un capo all’altro d'Italia, intramezzata

di lombardismi

e di tosca-

nismi, che le comunicano la vivacità del dialetto. Sco: po della lingua nonè l’eleganza, che la impoverisce, la cristallizza in classificazioni arbitrarie e convenzionali, con un'aria di solennità artefatta; ma scopo è qui la perfetta similitudine sua con le cose, una espressione di quelle la più precisa e la più immediata, nella quale conformità consiste la sua bontà. Ond'’ella ti riesce ricca, variata, mescolata di forme e di accenti, sempre propria e plastica, tale che assicuri la più rapida e la più evidente trasmissione

delle cose ne’ lettori. E perché il popolo concepisce appunto così, e vede per immagini e in modo vivo e pronto, scegliendo le vie più brevi, tutto ellissi e scorciatoie e troncamenti e abbreviazioni, come si vede ne’ suoi dialetti, si comprende la grande popolarità di una lingua simile, e come di tutte le prose italiane questa sia che si legga tutta e volentieri da

| tutte le classi. FRANCESCO

ROMANZO

COME

DE SANCTIS *

POEMA

La grandezza dei Promessi Sposi non si compren-

de con un'analisi minuta ma con una considerazione sintetica della loro fisionomia, dove si rispecchia uno .___* Da La letteratura italiana nel secolo . Manzoni), Bari, Laterza, 1953, pp. 85-90.

XIX,

vol.

I (A.

136

MANZONI E I CRITICI

spirito che ha conquistato, in un silenzioso e gigantesco

travaglio, un'unità

perfetta e assoluta.

I Pro-

messi Sposi sono la forma ultima a cui è giunto lo spirito del Manzoni, la sintesi delle sue ignote esperienze, la sublimazione della sua vita nelle trasparenze dell’arte. Non le singole frasi ci guidano a quella grandezza, ma i problemi della sua esistenza e della sua mente. Nel romanzo le « osservazioni » sono

diventate

mondo

creature,

paesaggi,

vivo e luminoso;

avvenimenti,

un

sono penetrate dovunque,

hanno animato senza tregua la sua fantasia. Il Gioberti ha avuto per un momento un'intuizione simile, ma, non facendo opera di critico, è pas-

sato oltre: questa invece dev'essere il punto di partenza per interpretare i Promessi

Sposi. L'esame del-

la fantasia d’un poeta non basta a svelare il segreto della sua arte: tutto il suo spirito vi confluisce, e la fantasia lo regge e lo illumina. Per sentire l’armonia di quel capolavoro bisogna conoscere la pace solenne dello spirito del Manzoni, da cui discende quello sguardo sapiente, comprensivo, fermo, pietoso, che si stende

su

tutte

le vicende

umane' e sul

teatro stesso delle nostre fugaci miserie. Chi è penetrato nell'intimo del romanzo e perciò vede riflesso il tutto nelle parti, sente il respiro della fede anche nella pagina che descrive il temporale foriero del termine della peste: chi non ci vede quest'elemento, non la comprende. La stessa compostezza del suono è l’eco d’una compostezza intima, d’un’incrollabile sicurezza in una verità eterna che cancellerà le prove angosciose del mondo che passa. Il Manzoni è un grande che noi abbiamo intuito più che compreso. Bisogna abituarsi alla meditazione, e immedesimarsi nella calma religiosa di quello spirito

mite

e dominatore,

che

è germinato

attra-

verso molti secoli di elaborazione dell'idea cristiana ed ha sviluppato nella sua arte uguale e tersa, più.

MOMIGLIANO

- ROMANZO

COME

POEMA

‘©

137

fedelmente di ogni altro poeta, la parola di Cristo e la sua contemplazione del mondo. Da quella serenità superiore alle febbri e alle agitazioni umane discende la serenità senza fremiti della sua visione di ogni cosa, di ogni spettacolo: egli ignora, si può dire, l’esclamazione, il moto violento: Dio gli ha donato ‘un po’ della sua armonia. Non altrimenti si spiega, nella sua origine prima, quella solidità non intaccabile, quella lucidità senza macchie, il senso continuo che ci dànno i Promessi Sposi. d'un intelletto potente che penetra, sembra, senza fatica dovunque con una lampada inestinguibile. L'atteggiamento più costante del Manzoni di fronte allo spettacolo della vita ed ai suoi problemi è una tranquillità grave, the non gli permette un attimo di scompostezza nemmeno dinanzi ai quadri più comici. Quante volte lo specchio del suo sguardo ci richiama l’immagine pura e solenne dei vegliardi che ai casti pensieri della

tomba

già schiudon

la mente,

ci fa pensare alle « liete voglie sante » della canizie, al modo come deve guardare il mondo l'uomo che dopo una vita imperturbata si avvicina al transito eterno! Solo chi ha conquistato questo dominio, può irradiare una luce così uguale da ogni sua pagina, vedere con tahta precisione la natura d’un sentimento fra le complicatezze infinite della nostra psicologia, scoprire ùn tal numero non di: eleganti acutezze

ma

di verità morali

inconfutabili,

non

la-

sciare quasi mai un'incertezza sull’evidenza della coni dotta dei personaggi di fronte ai casi più vari, man-

‘tenersi così calmo pur nella commozione più profon\da, segnare con tanta nettezza i contorni della cose, | dipingere i paesaggi con un così semplice nitore. Da ogni pagina s'’irradia questa certezza che ha dis-

138

MANZONI

E I CRITICI

sipate in sé tutte le nebbie, placati in sé tutti i dissidi. La fede equanime, senza passione, è la chiave che ha aperto alla fantasia del Manzoni le porte del mondo, e -gliel'ha spiegato dinanzi in una chiarità contemplativa che nessun altro poeta nostro ha co-

nosciuto. Il sugo dei Promessi Sposi è, più che nella chiu-

sa stanca, nelle parole di fra’ Cristoforo ai due fidanzati, che esprimono la concezione manzoniana della vita e il suo ideale di felicità terrena: « Ringraziate il cielo che v'ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a un'allegrezza raccolta e tranquilla ». Questo è il senso cristiano del romanzo: anche qui, la provida sventura. Il dolore purifica ed eleva. Come Ermengarda, Napoleone, il Carmagnola, così molti personaggi di questo capolavoro sono innalzati dai travagli della vita: Lucia, che nelle ore scial-

be dice poco al nostro spirito, si trasfigura in mezzo alle prove tremende, non perché il Manzoni si sostituisca a lei, ma perché le nostre forze più grandi vengono su dal profondo nei momenti solenni; Renzo, che può ubriacarsi dopo l'onore d’aver fatto da scorta a Ferrer, diventa quasi l’uguale di fra’ Cristoforo in mezzo agli appestati morenti e dinanzi a don

Rodrigo percosso da Dio, e ci sembra, alla fine della sua odissea, qualcosa più che il montanaro impulsivo dei primi giorni; fra’ Cristoforo, l’Innominato, Gertrude devono alla tragedia la loro purificazione; il Cardinale deve alle rinunzie continue, alla regola del sacrificio il fascino che esercita anche sugli uomini più gretti; don Rodrigo deve al terrore e al tormento della peste gli unici giorni di serietà spiritua-. | le, e forse l’indulgenza di Dio. In altri persona sa i

3

MOMIGLIANO

- ROMANZO

la virtù del dolore non

COME

POEMA

si vede; sono

139

le altre facce

del romanzo, ma spesso si scolorirebbero quando mancasse l'atteggiamento religioso del poeta. Il dolore nella compagine dei Promessi Sposi ha una parte preponderante, e nulla è così profondo in questo capolavoro come quello che scaturisce da tale sentimento. Fino al matrimonio per sorpresa l’arte è grande ma, in genere, di un ordine relativamente inferiore: poi, quando comincia l’errar malinconico degli esuli e le loro vicende s’innestano nella tragedia di tutto un popolo, il romanzo diventa poema. Perché i Promessi Sposi non sono

sol-

tanto un’odissea cristiana luminosamente coronata per la condotta, in complesso, rassegnata e sublime di Renzo e Lucia, ma la storia degli errori, delle debolezze, delle angosce di un'età, fra cui ora si profonda e spicca, ora si disperde come sommersa in un

mare

gonisti.

tempestoso

Fuso

la vita

tormentata

dei

col libro che più conosciamo,

un altro che abbiamo

prota-

ce n'è

appena intravvisto, forse per

un'eccessiva censura del Goethe, e che non è meno grandioso e pensoso: gli errori e le angosce d’un’età: la sommossa, nata da una carestia aggravata dalla ignoranza sopra tutto dei più colti, dei più coscienti

e quindi dei più responsabili; la peste, nata dalla carestia e dall'invasione, ma terribilmente aggravata dall’ignoranza e dall’insensibilità umana; le credenze superstiziose, la leggenda degli untori e la cieca condanna dei giudici; l’iniquità della giustizia alleata alla prepotenza; l'oppressione spagnuola; il flagello della guerra. Renzo e Lucia sono i personaggi su cui si riverbera con più continuo dolore il dramma di

quegli anni: ma il dramma ha anche una vita artistica in sé e per sé, che va rivendicata contro la | sensibilità comunemente troppo scarsa di fronte al l’arte severa e commossa del Manzoni, storico, giu-

dice, poeta dei grandi fatti del tempo. È una stor-

140

MANZONI E I CRITICI

tura da raddrizzare: nel capolavoro manzoniano la storia milanese del secolo XVII non è secondaria né riguardo allo spirito né riguardo all’arte di tutto il romanzo. Questi fatti sono continuamente infusi di un'austera costernazione cristiana, apprezzati con una sapiente e dolorosa indulgenza, e assommano in sé, non meno che le vicende dei protagonisti, l'amara, rassegnata, penetrante esperienza che del mondo

aveva

acquistato

il Manzoni

nelle sue osser-

vazioni solitarie. ATTILIO

RIFLESSIONE

MORALE

E PROSA

MOMIGLIANO *

DI ROMANZO

Giovita Scalvini, nel suo messi sposi, notava che in l'uniforme e dell’insistente, re liberi per entro la gran

saggio questo non ci varietà

rale », e spesso

di essere

si avverte

del 1829 sui Proromanzo c'è delsi sente « spaziadel mondo mo«non

sotto

la

gran volta del firmamento », che copre « tutte le multiformi esistenze », ma sotto quella del « tempio che copre i fedeli e l’altare ». Questo giudizio, quantunque ripetuto o rinnovato poi da altri che gli scemarono verità e vigore col portarvi le loro passioni di parte, nasceva nel suo primo autore da un'impressione di cui è innegabile. la schiettezza;

e, a mio

avviso, merita

d'essere

ap-

profondito e più precisamente determinato, perché apre la via alla giusta interpretazione critica di uno dei maggiori capolavori della nostra letteratura.

Da che il senso d’angustia che sembra provarsi talora nella lettura dei Promessi sposi, o, piuttosto, * Da Alessandro 1948, pp. 197-202.

Manzoni,

Milano

- Messina,

Principato,

CROCE - RIFLESSIONE MORALE...

adi

1.DI

quando il Manzoni sia posto a paragone con altri poeti? In quel romanzo non si fa sentire nella sua forza e nel suo libero moto nessuno di quelli che si chiamano gli affetti e le passioni umane: l’anelito al vero, il travaglio del dubbio, la brama della felicità, il rapimento dell'infinito, il sogno della bellezza e del dominio, le gioie e gli affanni dell'amore, il dramma della politica e della storia, gl’'ideali e le memorie dei popoli, e via dicendo; le cose, insomma, che forniscono materia ad altri poeti. Non che l’autore non ne abbia esperienza e conoscenza; ma' le ha oltrepassate e sottomesse a una volontà superiore, perché egli è salito dal tumulto alla calma ed è pervenuto alla saggezza. E a quale saggezza! Non alla saggezza che risente simpaticamente le diverse passioni umane, pur tenendovisi di sopra e collocando ciascuna al suo luogo e componendole nella propria armonia; ma alla saggezza del moralista, che non vede se non il bianco e il nero, di qua la giustizia, di là l'ingiustizia, di qua la bontà, di là la mal vagità, di qua l'innocenza, di là la malizia, di qua la ragionevolezza, di là la stortura e la fatuità, e approva le une e condanna le altre, spesso con sottile

ponderazione da casista. Il mondo, così vario di colori e di suoni, così strettamente

congiunto

in tutte

le sue parti, così inesauribile e così profondo, si semplifica, per non dire s’'impoverisce, in questa vi‘sione, e di tutte le innumeri corde dell'anima qui vibra una sola, quella che, per esser sola, dava allo

Scalvini l'impressione dell’insistente e dell’uniforme. Il motivo ispiratore del Manzoni sembra essere il motto: Dilexi iustitiam, odivi iniquitatem. Questo carattere del sentimento che domina nei Promessi Sposi risalta in piena luce, non solo se si .«pongano loro accanto le opere di contemporanei poeti stranieri e italiani (per esempio, del Goethe, del Foscolo, del Leopardi), ma anche se li si paragoni

io

142

MANZONI

alle opere

anteriori

E I CRITICI

dello stesso Manzoni.

gioverà cominciare a considerare non, come

Le quali si è fat-

to di solito e troppo esclusivamente, quasi abbozzi e parti del futuro capolavoro, ma per sé, come tali che offrono motivi e forme, che non si ritrovano più nel romanzo. In esse risuonano note che il Manzoni non ardì ritentare; e, se la parola « poesia » si prende, come

si usa comunemente,

con riferenza a certi

particolari toni di passione, sarebbe da dire che quel-

le rappresentano veramente la poesia del Manzoni, laddove nei Promessi sposi già s’inizia il lungo periodo della riflessione della prosa. [...] Chi si colloca al cuore di queste prime opere e ne rivive i contrasti —

i contrasti che sono poesia

— pensa che il Manzoni avrebbe ben potuto accentuare e ampliare sempre più l'aspetto storico o dialettico del suo spirito, le passioni e gli affetti, e lasciar accanto o sopra di essi la sua fede religiosa; la quale per se stessa non portava all’'angustia notata dallo Scalvini, che fu effetto invece delle conseguenze che il Manzoni ne trasse, del rigido moralismo che credette di dover assidere signore nella sua anima. Se al Vico, che egli aveva studiato in quel primo periodo e aveva vivo e presente, fu possibile esser tutt'insieme, con candidezza, pio credente e storico grande e realistico, il Manzoni avrebbe potuto essere credente e poeta di passione, come già si era

dimostrato anima

e come

romantica

poteva sempre meglio attuarsi:

insomma,

e non

solo moderato

ri-

formatore letterario in nome di alcune dottrine romantiche. Ma abbiamo detto: « avrebbe potuto » per modo di dire, cioè per far ben comprendere quale fosse allora lo stato del suo spirito. In realtà, egli non. poteva, perché tutto il suo abito mentale e morale premeva a dar diverso avviamento alla sua fanta-. sia. Da una parte, egli doveva dunque sempre più

CROCE - RIFLESSIONE

MORALE...

143

| castigare i vari sentimenti e passioni, deprimerli,.ve-

larli e lasciare scoperti di essi solo gli effetti morali; dall'altra parte, venirsi liberando dall’incubo della storia, della storia, diciamo, come cosa seria, come unica realtà o realtà con la quale, in ogni caso, bi-

sogna fare i conti: in luogo della storia, avrebbe serbato la semplice notizia dei fatti storici come sequele di mali e di beni, e di mali piuttosto

che di

beni, prove più che d'altro della infelicità, stoltezza e follia umana. Il che importava che si sarebbe trasferito sempre più col sentimento e con la fantasia nel trascendente, nel mondo di là, come sola forma di vita razionale, guardando al mondo di quaggiù come a una valle di errori e di prove. Il termine di questo trapasso è rappresentato

che sotto l'aspetto dello : sotto quello puramente mente l’opera della piena ra nella quale raggiunse Coerenza,

ben inteso,

dai Promessi

sposi,

svolgimento morale, e non poetico, sono da dire veramaturità del Manzoni, l’opela maggiore coerenza. ossia

sicurezza

e fermezza

di atteggiamento -pratico e morale e non di logica, come alcuni credono, perché a chi la considera criticamente, la concezione del Manzoni scopre le sue molteplici incrinature. Le quali non m'’indugerò qui a mostrare, sia per essere state, altre volte, da altri e da me stesso, messe in luce nelle teorie manzoniane sulla storia, sull'arte, sulla lingua, sulla vita morale, e via dicendo, sia per la ragione che una critica

della filosofia manzoniana si sperderebbe facilmente nel generico,

ossia nella critica del cristianesimo

e

della trascendenza, e più in particolare del cattolicesimo o neocattolicesimo. Anche nel fondo dei Promessi

sposi, chi avesse

il cattivo

gusto

di trattarli

come realtà e non come favola, e vi polemizzasse | contro — che sarebbe presso a poco come se si prendesse a polemizzare contro un dio greco, splendente nel suo marmo pario — ritroverebbe queste contrad-

si x:

144

MANZONI

E I CRITICI

dizioni, perché anche in essi tutto è voluto e mosso

dall’Onnipotente e nondimeno gli individui sono concepiti come causae sui. La vittoria che il Manzoni, nei Promessi sposi, ha

ormai ottenuta sui sentimenti e gli affetti umani, ai quali ha sovrapposto il sentimento etico, non abolisce già e cancella questi sentimenti e affetti, ma, con l'assoggettarli, dà a essi tutti una medesima impronta,

o, se si desidera

altra immagine,

a volta a

volta li rischiara, colorisce e getta nell'ombra volgendo sopr'essi, unica face, la face della morale. Donde il suo modo particolare di ritrarre i caratteri e di porli in azione, e di narrare gli avvenimenti. Quando si è lamentato che i caratteri dei Promessi sposi non abbiano l'immediatezza, la spontaneità e l'abbandono di quelli dello Shakespeare, si è caduti in un equivoco critico; e si chiami pure, colui che v'è caduto, Francesco

De Sanctis, Shakespeariani so-

no ancora i personaggi della tragedia, e Adelchi ha dell’Amleto ed Ermengarda appartiene alla famiglia delle Ofelie, delle Cordelie, e delle Desdemone. Ma shakespeariani non possono essere quelli dei Promessi sposi, le Lucie e i fra’ Cristofori e gl’Innominati, così diverso com'è il sentimento di quest'opera dal tragico sentimento cosmico shakespeariano; e perciò, nel miglior caso, quel paragone non vale a segnare un'altezza e una bassezza d’arte, ma ad accusare una

diversità qualitativa. Tutto, nei Promessi sposi, dev'esser ben delimitato, perché laddove, nello Shakespeare, il mondo è in balia delle forze che lo formano e lo sconvolgono, nel Manzoni è sorretto e corretto

dall’ideale

morale.

Nei Promessi

sposi, nono-

stante le meravigliose descrizioni di paesi, di aspetti della natura, di viaggi (basti ricordare la fuga di Renzo fino a raggiungere l’Adda o il ritorno di lui alla sua terra e la gita a Milano), non è dato neppure rilevare spunti paesistici, come si trovano finan-

CROCE - RIFLESSIONE

MORALE...

che in opere di minori artisti italiani nei (per es., del Tommaseo);

145

e contempora-

e mi piace che il più

recente storico e critico del Manzoni, il Momigliano, abbia avvertito che « chi è penetrato nell'organismo spirituale del Manzoni e perciò vede riflesso il tutto nelle parti, sente il respiro della fede anche nella pagina che descrive il temporale foriero del termine della peste ». Non direi, per altro, come ora si comincia

a dire

con

soverchia

insistenza,

che

i Pro-

messi sposi sono un poema religioso, o per lo meno

non lo direi senza determinare e restringere il detto con aggiungere che sono il poema di una morale religiosa, il mondo appercepito da un fermo e intransigente moralista. BENEDETTO

POESIA

CROCE *

0 ORATORIA?

[...] Siamo trapassati dall’accenno del protagonista storico, all’accenno di quell’altro protagonista che è il mondo morale, che vive e s’agita nel romanzo. Il seicento, se dà pretesto al Manzoni per effondere il suo ‘argutissimo gusto storico, il suo gusto ironico

della stampa antica, si offre poi propizio perché l'artista vi intessa la trama dei suoi sentimenti morali e religiosi. Quanto alla poesia di questa vita . morale, doppio è il procedimento dello scrittore nell'esplicarla; dove c’è difetto, ottusità, insensibilità, il bozzetto satirico, ma senza sorda durezza ed ari| dità, ma piuttosto sempre con quel finale sorriso di

penitente indulgenza; e dove c’è pienezza o appena un barlume di luce, l’analisi psicologica, piena di

un pathos reticente, il ritratto che è vita interiore, 19 » Da Alessandro

IPP dà

Manzoni,

Bari, Laterza,

1952, pp. 7-10,

146

MANZONI

E-I CRITICI

la storia religiosa, drammatica o pacifica, di personaggi come Lucia, fra’ Cristoforo, il Cardinale, l’Innominato.

;

Ciò che ha suggerito al De Sanctis una distinzione fra personaggi medi e ideali, fra personaggi conoreti ed astratti: la quale distinzione, nella sua aria innecente, era invece una presa di posizione nel cam-

po di quell’altro problema che si è affacciato alla critica romantica: se I Promessi Sposi fossero, cioè, un’opera d’arte o non piuttosto un'opera di propaganda. I personaggi ideali o astratti sarebbero i personaggi del dover essere, i personaggi esemplari della favola, i personaggi costruiti a scopo di parenetica cattolica. Il problema fu largamente dibattuto dalla critica, si giunse da taluni ad esaltare nei Promessi Sposi quest’arte, per dir così, finalistica; e critici di parte cattolica approvarono con piena soddisfazione

cotesta

tesi, che i critici laici, invece, ponevano

quale limite dell’arte manzoniana. Anche lo stesso Manzoni parve accedere a tale interpretazione oratoria

dell'opera sua, se, in una

lettera

al marchese

di Montgrand, su cui ha richiamato l’attenzione il Crispolti, egli dichiarava che il suo romanzo era stato « press’a poco un ballo di beneficenza ». Sia pure in tono scherzoso, e sempre con quell’umiltà arguta con cui il Manzoni

amava

discorrere delle cose sue,

ci sarebbe il riconoscimento da parte dell’artista stesso di questo carattere oratorio ed edificante del suo capolavoro. Il problema, come è noto, è stato ripreso nei nostri tempi, e, se il giudizio del De Sanctis era su questo punto un po’ oscillante e contraddittorio, il Croce, con maggior rigore, è arrivato a concludere nettamente che I Promessi Sposi sono un’opera di oratoria, e sia pure di bellissima oratoria. E ad evitare ogni scandalo, per tale affermazione, il Croce ha aggiunto: « Quando si dice dal critico che il ca-

RUSSO

- POESIA

O ORATORIA

147

rattere di un'opera è oratorio e non poetico, non si vuol già dire che quell’opera non possa essere eccellente, e nemmeno che non possa essere piena di poesia, ma solo che l'intonazione generale di essa risponde a un proposito etico o politico o altro che sia, onde la poesia vi è come asservita o frenata ». Ma apro il bel volume del Momigliano, e vi leggo un giudizio antitetico. Per il Momigliano, il Manzoni nei | Promessi Sposi, è «un limpido e luminoso poeta: un equilibrio interiore, un assoluto possesso del suo spirito dà a tutto quanto egli dice l’aspetto d'un fine intaglio: riflessioni, sentimenti, fatti, personaggi, luoghi, tutto si specchia nella sua mente come nell’acqua immobile di un lago ». Ed ecco profilarsi netta un'antinomia critica, ancora più acuta che non fos‘se ai tempi della critica romantica: I Promessi Sposi sono un'opera di mera poesia o un’opera di bellissima oratoria? Quale il tono fondamentale del romanzo? A molti parrebbe segno di nobiltà e sensibilità estetica e di generosità sentimentale applaudire, senz'altro, ai Promessi Sposi come a un’opera di mera poesia; ma, così facendo, si salta entusiasticamente

il problema,

e noi pur dobbiamo

affron-

tare questo problema che non è nato per l’arbitrio di un critico, ma si è formato lentamente ed è presente e latente in tutta la critica ormai di un secolo, e fu problema caro allo stesso Manzoni. La tesi poi dei Promessi Sposi come oratoria potrebbe essere ap-

plaudita per ragioni non del tutto disinteressate; da un lato il lettore giacobino potrebbe polemicamente gioire di questo limite dell'opera manzoniana, e potrebbe ripetere con particolare voluttà la frase di Giovita Scalvini che nei Promessi Sposi « non ti senti spaziare libero per entro la gran varietà del mondo morale », e « t'accorgi spesso di non essere sotto la gran volta del firmamento che cuopre tutte le multiformi esistenze, ma pensi d’essere sotto quella

148

MANZONI

E I CRITICI

del tempio che cuopre i fedeli e l’altare ». E, d'’altro lato, il lettore piagnone potrebbe compiacersi che così sia, esaltando

nel Manzoni

l’artista che ha

saputo mettere l’arte a servizio del bene e della fede, ad maiorem Dei gloriam. Così i due avversari, come succede spesso agli avversari, per ragioni diversissime, si troverebbero

ad andare

d’accordo.

Io accennerò brevemente a quello che è il mio punto di vista, e che ho avuto modo di sviluppare nel corso

di un

mio

perpetuo

commento

critico

al

romanzo e alle liriche e tragedie manzoniane. Questo problema di poesia e oratoria non sorge soltanto per i Promessi Sposi, ma s'impone anche per l’opera giovanile del poeta, per il cantore degli Inni Sacri e delle poesie civili e delle tragedie. Direi che fin d’allora l'ispirazione manzoniana è assai complessa. Sempre, a base di ogni lirica o tragedia, noi troviamo l’ispirazione etico-storica, di cui si diceva innanzi, la quale passa irrequietamente attraverso

menti:

un momento

di abbandono

tre mo-

fantastico,

più

propriamente lirico; un momento meditativo e storicamente illustrativo; e infine un momento oratorio vero e proprio. Cito come esempio tipico Il Cin-

que Maggio. In quell’inno abbiamo precisamente l’avvicendarsi di mirabili quadri rappresentativi, assai animati e grandiosi: Napoleone morto, Napoleone fulmineo operante, Napoleone pensoso al tacito morir d'un giorno inerte. È questa la parte più propriamente

lirica, di cui dicevamo

innanzi.

Ma

ecco

una

strofa di carattere meditativo: « Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza », con quel che segue. Dopo un grande quadro, la pausa della riflessione. In cotesto avvicendarsi di quadri e di riflessioni d’indole morale sarà sempre tutta la bellezza della poesia e l'eccellenza dell’arte manzoniana. In fondo all’inno, dopo nuovi grandi quadri, le strofe di carattere oratorio, e fra le quali bellissima quella della mano che

RUSSO

- POESIA

O ORATORIA

149

avvia Napoleone « ai campi eterni, al premio — i desideri avanza,



dov'è silenzio

e tenebre

che —

la

gloria che passò », e, dopo, assai meno bella, di oratoria per dir così non riuscita, l’altra strofa: « Bella Immortal! Benefica — Fede ai trionfi avvezza». Ci può essere dell’oratoria bellissima, come, metti, la chiusa del Principe di Machiavelli, e come qui la strofa dei « campi eterni »; ma in Bella Immortal

ci dispiace quella personificazione della Fede, quella allocuzione come da un pulpito, quell’elogio da missionario alla Fede «ai trionfi avvezza », quell’« allègrati», che è un verbo un po' troppo vistoso e assai poco intimo, che giunge fuori tono in una scena di alta tragedia. E per questo abbiamo parlato di oratoria non riuscita. Ma, in questo momento,

non

è quistione

di ciò.

Quello che importa fissare è che nel Cinque Maggio è già rappresentato nettamente lo schema dell’ispirazione manzoniana, che è sempre rale, la quale si traduce, con vece sia rappresentativa, in meditazione e in fine in oratoria religiosa. E il

ispirazione moassidua, in poee gusto storico, sentimento mo-

rale abbraccia e complette ed eguaglia e dà l’unità di tono a coteste fasi successive dell’espressione. E le liriche migliori, La Pentecoste, il Cinque Maggio, i due cori dell’Adelchi, sono quelle dove è più pieno l'equilibrio di questi tre momenti; e dove tale equilibrio è turbato, o c'è prevalenza di oratoria come in altri Inni Sacri e poesie politiche, o vi fa i

. suoi sforzi un intellettualismo storico e programma‘tico a cui sono commiste alcune scaglie di poesia. Estendiamo questo nostro canone d’interpretazione al Coro di Ermengarda: anche lì alle strofe di . abbandono lirico, dove è rievocato il virgineo amore . della protagonista,

succedono

le strofe dell'alta me-

ditazione etica sulla provida sventura che ha voluto collocare Ermengarda tra gli oppressi, lei discesa

pra +4

150

MANZONI

Pi

E. I CRITICI

dalla rea progenie degli oppressori; e infine la strofa parenetica ultima: « Dalle squarciate nuvole, — si svolge il sol cadente,

pora — rio —



e, dietro

il trepido occidente: —

il monte,

impor-

al pio colono augu-

di più sereno dì », dove, si badi bene, ricorre

lo stesso motivo oratorio della Risurrezione: « Nel Signor che si confida — col Signor risorgerà »; ma qui sapientemente

dissimulato

e tramato

attraverso

l’immagine delicatissima di quel « trepido occidente». Orbene, anche nei Promessi Sposi, noi abbiamo questa alternativa di momenti lirici e di momenti di raccoglimento riflessivo o storico, e altri spunti di parenetica cattolica e di persuasione morale. Ma se di un atteggiamento fondamentale si deve parlare, bisogna pur dire che l’atteggiamento fondamentale è quello poetico, se non altro per quell’equilibrio e quell’armonia che tempera e governa tutto il racconto.

E questa alternativa dei tre momenti

non

semplicemente si svolge da un episodio all’altro, ma spesso corre nel cuore dello stesso episodio, e vorrei dire, talvolta,

nel cuore

di uno

stesso

periodo.

Talvolta il periodo prosastico manzoniano è un nesso lirico-meditativo-pratico, e in cui l'eccellenza della disciplina artistica consiste nel rapporto armonico dei tre toni; e sarebbe facile documentare questa affermazione con l’analisi. E gli Sposi Promessi restano inferiori artisticamente, a parte per la pagina meno elaborata, per un non raggiunto equilibrio di questo triplice modo. O troppa storia, o troppa oratoria, o troppa vena romanzesca, senza quella giusta misura nel loro rapporto interno, che costituisce l’olimpico dominio

artistico, l'armonia, della redazione

definitiva. Quindi non mero poeta, il Manzoni, come vorreb-

be il più diffuso e indiscriminante estetismo, e nemmeno, come vorrebbe il Croce, poeta prima nelle liriche e nelle tragedie, e oratore nel romanzo,

ma

n

RUSSO

- POESIA

poeta e spirito meditativo

O ORATORIA

151

ed oratore

liriche, nelle tragedie e nel romanzo.

sempre

nelle

Ciò che non

una diminuzione, ma il riconoscimento di una complessa ricchezza del mondo manzoniano.

è

più

I Promessi Sposi sono dunque un capolavoro, il capolavoro rispetto. all'opera più giovanile, perché lì questo equilibrio dei tre momenti è più pacato e più costante,

e questo

in forza

del più profondo

senti-

mento cristiano dell'autore, che complette e stringe unitariamente tale vicenda assidua della fantasia, della riflessione e dell’esortazione, e sa infrenare l'uno e l'altro momento. Nell'opera precedente, invece, non

sempre è realizzata questa alta disciplina. Basti pensare all’Adelchi, in Manzoni è, per dir un cristianesimo da ab aeterno, mentre nei o sordi a quella intimamente

cui ancora il cristianesimo del così, teologicamente parziale, è

privilegiati che godono la grazia vi sono

altri che restano

frammentaria:

da

una

naggi di religione, contemplativi mengarda,

Adelchi,

estra-

grazia. Però la tragedia rimane il diacono

parte

i perso-

ed elegiaci —

Martino



Er-

e dall’al-

tra i politici puri, gli eroi rozzi della forza — Desiderio, Carlo Magno, Svarto. E le due schiere parlano due lingue diverse, non s'intendono; manca il vero urto

tragico. Per cozzare,

bisogna

pur avere

una

fe-

de comune e parlare lo stesso linguaggio. Così la tragedia ha parti bellissime, di assai vigorosa e, se si vuole, anche di più abbandonata e ingenua poesia che non

sia nel romanzo,

sodica,

evade

che

dalla

ma

ordinata

è una

poesia

architettura

epi-

del-

l’opera. Ci sono le esplosioni di barbarica collera di Desiderio o di Carlo, gli avvolti e cupi e ardenti soliloqui di Svarto, le effusioni elegiache di Adelchi e di Ermengarda; ma tutte queste parti hanno qualcosa di solitario, come la parlata, mettiamo,

del dia-

152

cono

MANZONI

Martino,

E I CRITICI

che finisce con

l’essere anch'esso

un

bellissimo monologo, a cui Carlo Magno risponde, alla fine, approvando con parole di troppo compassata e convenzionale pietà, perché, in qualche modo, le sue parole leghino con l’appassionata eloquenza del messo di Dio. Poesia, ripeto, antologica, e che,

per ciò appunto, incontra l’approvazione e la preferenza dei critici rapsodici e crestomatizzanti; ma nell'unità di un’opera d'arte sta pur la forza e l’eccellenza dell'insieme e di ogni sua parte. Frammentarietà dell’Adelchi e unità dei Promessi Sposi che si spiegano col sentimento meno e più profondo, meno e più complesso e maturo dell’artista. Giacché c'è una differenza fra l'ideale cristiano delle liriche e delle tragedie, e quello più progredito e dominato del romanzo: lì soltanto i buoni, i privilegiati, i favoriti dalla Grazia, i trasumanati dalla morte vicina, hanno il sentimento del Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola; mentre

qui nel romanzo vagi, sentono

anche i mediocri, e gli stessi mal-

nel loro cielo, inclemente, la presenza

della divinità. Da don Abbondio, per quanto ingrettito dalla sua paura, a don Rodrigo, imbestialito nei capricci della sua passionaccia, tutti rendono un qualche omaggio alla legge di Dio. È questa l’unità poetica del romanzo. Direi anche che, per questa via, si può risolvere la tanto dibattuta questione del giansenismo manzoniano: nell'opera del poeta lirico e del tragedia predomina un cristianesimo, come dicevo avanti, ancora teologicamente parziale, e lì il Manzoni è soltanto il poeta della Grazia che si concede ab aeterno esclusiva agli eletti. Nell'opera del narratore invece il cattolicesimo manzoniano è diventato più pieno e più integrale, ormai libero da alcune riserve e parzialità teologiche, e lo spirito e la intransigenza giansenistica in lui permarrà non più

RUSSO

- POESIA

O ORATORIA

153

come teologia, ma soltanto come rigorismo morale. Sennonché nel romanzo si farà posto a tutti i figli di Eva, e il poeta della Grazia si sublimerà e si pacificherà nell'altro più equanime e onniveggente poeta della Giustizia, la giustizia di Colui, come dirà fra’ Cristoforo, che giudica e non è giudicato, che flagella e che perdona. E il portatore di questa nuova più complessa, più profonda, più equanime fede non sarà più Adelchi, l’eroe elegiaco, ma fra’ Cristoforo, l'eroe militante: il cristianesimo dell'uno, che geme sulla feroce forza che possiede il mondo e sulla ingiustizia seminata dalla mano insanguinata degli avi, è un po' il cristianesimo del santo solitario, che, come il tacito fiore delle inospiti spiagge, spiega davanti a Dio solo « la pompa del pinto suo velo, — e spande ai deserti del cielo — gli olezzi del calice, e muor ». Ma il cristianesimo dell’altro affronta il bestiale potente nella sua tana, e minaccia fiero il suo « Verrà

un

giorno », e, ai suoi

fortati, inculca l’ammonimento:

poveri

protetti

scon-

« Non vorrai tu con-

cedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? ». Per questo più profondo sentire cristiano, tutto calato nella vita, e tramutato da elegia impotente in giustizia quotidiana, noi sentiamo più compatta anche la stessa unità poetica del romanzo. Né si

tratta di un sentimento, che rimanga astratto come sentimento programmatico,

che si faccia valere sem-

plicemente come un contenuto più complesso, ma di

un sentimento che nasce come forma. Fra’ Cristoforo non è semplicemente interprete più profondo di una fede, ma è anche figura poeticamente più complessa. E questa vigoria investitrice del più largo ed equo cristianesimo del Manzoni, nel romanzo, la si coglie, . direi, quasi sensibilmente, nell'altra figura di don » Rodrigo. Don Rodrigo è un mediocre tirannello; pu-

154

MANZONI

E I CRITICI

re anche lui acquista una sua grandezza per quel lontano e misterioso spavento che internamente l’ossessiona. La religiosità del narratore ha finito con l'ingrandire di sé la piccola anima del personaggio: una religiosità che non si bea e piange in se medesima, ma si diffonde su tutto e presta qualche cosa a tutti. Anche l’iniquo deve portare in se stesso il suo tormento e la sua condanna, e anche l’anima più rozza deve provare questo spavento germinale

del divino. E don Rodrigo deriverà questa sua terribile grandezza, possiamo dire come materialmente, dall'incontro col suo antagonista, fra' Cristoforo, che non è l'antagonista di un momento, di un colloquio, ma è l'antagonista eterno della sua fantasia, è l’ipostasi della sua stessa coscienza. Fra’ Cristoforo è presente sempre nella vita di don Rodrigo: a tavola, quando il padrone di casa guarda preoccupato il non desiderato ospite; poi nel colloquio tempestoso; poi nel soliloquio, quando il rabbuffato tirannello contempla i ritratti sdegnosi dei suoi maggiori, poi nella passeggiata per passar la mattana, e nei motteggi postumi di Attilio, e infine nel sogno incubo, della peste. E negli ultimi momenti della sua vita, lì, sul giaciglio del lazzaretto, chi vigila su lui, moribondo? È sempre il nostro cappuccino. « Può esser castigo, può esser misericordia », commenta quella morte prossima, e così trista, il frate con Renzo. Ebbene, noi possiamo dire che la presenza perpetua di fra’ Cristoforo, nella vita di don Rodrigo, è un po’ il suo castigo, ma anche la sua misericordia. Don Rodrigo è un bestione, ma, penetrato e bagnato nell'atmosfera del sentimento manzoniano, anche lui diventa un personaggio tragico: direi anche, un personaggio religioso, suo malgrado, E questo è il segno dell’arte grande e profondamente unitaria: quando le immagini le più iontane e diverse, i personaggi

RUSSO

- POESIA

O ORATORIA

155

più dissimili, nascono con lo stesso suggello, come ‘se fossero un'immagine e un protagonista solo. Lurici Russo *

MANZONI

E IL ROMANZO

STORICO

[...] Walter Scott ha trovato un continuatore che,

sia pure in una sola opera, ne ha sviluppato in modo grandioso e originale le tendenze e lo ha superato in più aspetti. Alludiamo naturalmente ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Lo stesso Walter Scott ha riconosciuto questa grandezza di Manzoni. Allorché quest’ultimo a Milano gli disse di essere un suo discepolo, Walter Scott rispose che in tal caso l’opera del Manzoni era la sua opera migliore. È però molto caratteristico che, mentre Walter Scott poté scrivere tutta una serie di romanzi sulla storia

inglese e scozzese. Manzoni si sia limitato a quest'unico capolavoro. Ciò non dipende certo da un limite del talento personale di Manzoni. La sua capacità inventiva per l'intreccio, la sua fantasia nel rappresentare caratteri delle più diverse classi sociali, la sua sensibilità per l'autenticità storica nella vita interiore ed esteriore dei personaggi sono qualità ch'egli possiede in grado almeno pari a Walter Scott. Anzi proprio nella ricchezza e nella profondità con cui sono delineati i caratteri, nella completa uti-

lizzazione dei grandi contrasti tragici per delineare la psicologia dei personaggi, Manzoni è perfino superiore. Come creatore di figure individuali egli è un poeta superiore a Walter Scott. * Da Introduzione ai « Promessi Sposi », in Ritratti e disegni storici, Serie Quarta, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 11-19.

156

MANZONI

E I CRITICI

Come poeta veramente grande egli ha trovato quel tema in cui è superata la caratteristica oggettiva che rende la storia italiana poco adatta per un vero romanzo storico che possa trascinare il lettore e in cui i contemporanei possano rivivere il proprio passato. Egli infatti, ancor più dello stesso Walter Scott, confina nello sfondo i grandi avvenimenti storici, sebbene li delinei tutti con quella concretezza dell'atmosfera storica di cui Walter Scott era stato il maestro. Ma il suo tema fondamentale non è, come sempre in Walter Scott, una concreta crisi della storia nazionale, bensì la situazione di perenne crisi

di tutta la vita del popolo italiano in conseguenza della divisione dell’Italia e del carattere feudale-reazionario che le continue piccole guerre e la soggezione a potenze straniere avevano impresso alle singole parti del paese. Manzoni descrive quindi direttamente soltanto un episodio concreto della vita del popolo italiano: l’amore, la separazione e il ritrovarsi di un giovane e di una fanciulla, entrambi di condizione contadina. Ma nella sua rappresentazione il fatto si sviluppa in modo da diventare la generale tragedia del popolo italiano in una situazione di avvilimento e spezzettamento nazionale. Senza mai usci-

re da una concreta cornice locale e temporale; da una psicologia condizionata dall'epoca e dalla classe sociale, il destino dei due protagonisti diventa la tragedia del popolo italiano in genere. Con questa grandiosa e profonda concezione storica Manzoni crea un romanzo che per l'efficacia dei sentimenti umani supera perfino il suo maestro. Ma se si considera l'intimo carattere della materia trattata, si comprende come questo romanzo dovesse necessariamente essere unico, e come una ripetizio-

ne non avrebbe potuto esser tale che nel senso peggiore.

Walter

Scott,

nei suoi

romanzi

riusciti, non

si ripete mai; infatti la storia stessa, la rappresen-

LUKACS - M. E IL ROMANZO

STORICO

157

tazione di determinate crisi porta di volta in volta elementi nuovi. Questa inesauribile varietà di argomenti non si offriva al geniodi Manzoni nella storia italiana. L’accortezza dello scrittore si manifesta nell'aver seguito l’unica via che conduceva a una grande visione della storia italiana e nell’avere al tempo stesso compreso che ivi la perfezione era raggiungibile solo in un singolo caso. Ciò naturalmente ebbe le sue conseguenze anche per lo stesso romanzo. Abbiamo già messo in evidenza quei tratti umani e poetici che per certi aspetti innalzano Manzoni al di sopra di Walter Scott. Ma la mancanza di quella base storica che Goethe ammirava in Walter Scott, non può farsi sentire solo nei contenuti. Essa ha anche profonde conseguenze artistiche: la mancanza di quell’atmosfera di storia universale, che in Scott si avverte

anche quando

de-

scrive per esteso piccole lotte di clan, si manifesta in Manzoni anche come un’interna limitazione dell'orizzonte umano delle sue figure. Nonostante la verità storica ed umana, nonostante la profondità psicologica che il poeta conferisce loro, nelle loro manifestazioni vitali esse non si possono innalzare a quelle altezze storicamente tipiche che formano i punti culminanti dell’opera di Walter Scott. [...] La forma artistica, in quanto to concentrato

e intensificato

rispecchiamen-

dei tratti

importanti,

generali e individuali, della realtà oggettiva, non può mai

essere

trattata

isolatamente,

semplicemente

in

se stessa. Proprio la storia del romanzo storico mostra con la massima chiarezza come dietro problemi in apparenza soltanto formali, soltanto di carattere stilistico — per esempio dietro la questione se i grandi personaggi della storia debbano essere pro| tagonisti o solo figure secondarie — si nascondano problemi ideologico-politici della massima importan«za. E anche l’intera questione se il romanzo storico

158

sia un genere

MANZONI

a sé stante

E I CRITICI

con

proprie leggi artisti-

che oppure, rispetto alle leggi generali del romanzo, non si distingua in linea di principio da esso, può essere risolta solo in rapporto e in connessione alla posizione generale che si assume di fronte ai decisivi problemi ideologici e politici. Abbiamo visto che la decisione di tutte queste questioni dipende dalla posizione degli scrittori rispetto alla vita del popolo. Il ricollegarsi alle tradizioni del romanzo storico classico non è una questione estetica in senso stretto, una questione

di me-

stiere. Non si tratta del fatto che Walter Scott o Manzoni siano superiori, dal punto di vista estetico, poniamo a Heinrich Mann, o almeno non è qui l’essenziale; ciò che invece importa è che Walter Scott, Manzoni, Puskin e Lev Tolstòj abbiano colto e rappresentato la vita del popolo in una maniera storica più profonda, più autentica, più umana e più concreta anche rispetto ai più grandi scrittori del

nostro tempo; come pure che la forma classica del romanzo storico rappresentasse un modo adeguato di espressione del sentimento della vita dei suoi, autori, che il tipo classico dell’intreccio e della composizione fosse perfettamente idoneo all’intento di rendere evidenti

l’essenziale,

la ricchezza

e la multila-

teralità della vita del popolo come fondamento del divenire storico. Mentre nel romanzo storico del nostro tempo, anche negli autori più capaci, c'imbattiamo ad ogni passo in un contrasto fra il contenuto ideologico, il senso della vita che deve essere espresso e i mezzi letterari dell'espressione. Gyròrcy LUKACS *

* Da Il romanzo 83, 465-466.

storico,

Torino,

Einaudi,

1965, pp. 81i

GRAMSCI - M. E GLI UMILI

MANZONI

E GLI

159

UMILI

Atteggiamento « democratico » del Manzoni verso gli umili (nei Promessi sposi) in quanto è d'origine « cristiana » e in quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di classe!. Su questo punto dei rapporti tra l’atteggiamento del Manzoni e le teorie del Thierry nel Man: zoni si complicano, o almeno hanno aspetti nuovi nella discussione sul « romanzo storico » in quanto esso rappresenta persone delle « classi subalterne » che non hanno «storia », cioè la cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato. Il carattere «aristocratico » del cattolicesimo manzoniano appare dal « compatimento » scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstòj); come fra’ Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. Sul libro dello Zottoli, confrontare: FiLIPPO CRISPOLTI, Nuove indagini sul Manzoni, nel « Pégaso » dell'agosto 1931. Questo articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per comprendere l’atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli « umili ». Ma, in realtà, mi pare che il Crispolti abbia ragione contro lo Zottoli, sebbene il Crispolti ragioni « gesuiticamente ». Dice il Crispolti del Manzoni: « I/ popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non si ‘| piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso oc1 Queste no legate al Medioevo e ‘rapporti tra

invase, ecc.

teorie del THIERRY sono da vedere in quanto soromanticismo e al suo interesse storico per il per le origini delle nazioni moderne, cioè nei razze germaniche invaditrici e razze neolatine

160

MANZONI E I CRITICI

chio severo con cui vede i più di coloro che non sono popolo ». Ma non si tratta di volere che il Manzoni « aduli il popolo »; si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono « popolani »: questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno « vita interiore », non hanno personalità morale profonda; essi sono « animali », e il

Manzoni è « benevolo » verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. In un certo senso il Manzoni ricorda l’epigramma su Paolo Bourget che per il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita per avere una psicologia. Da questo punto di vista, il Manzoni (e il Bourget) sono schiettamente catto-

lici; niente in loro dello spirito « popolare » di Tolstòj, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. Lo stesso Crispolti, nella frase citata, inconsapevolmente confessa questa « parzialità » (o « partigianeria ») del Manzoni: il Manzoni vede con « occhio severo » « tutto » il popolo, mentre vede con « occhio severo » «i più di coloro che non sono popolo »: egli trova « magnanimità »,« alti pensieri », « grandi sentimenti » solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua totalità è bassamente animalesco. Che non abbia un gran significato il fatto che gli «umili ». abbiano una parte di prim'ordine nel romanzo manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone il « popolo » nel suo romanzo, oltre che per i personaggi principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra’ Galdino, ecc.), anche per la massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.):

GRAMSCI - M. E GLI UMILI

‘ma appunto

il suo

atteggiamento

161

verso

il popolo

non è « popolare-nazionale », ma aristocratico. [...] Tra il Manzoni e gli « umili » c'è distacco sen-

timentale: gli umili sono per il Manzoni un « problema di storiografia », un problema teorico che egli crede di poter risolvere col « romanzo storico », col « verosimile » del romanzo storico. Perciò gli « umili » sono spesso presentati come

« macchiette » popo-

‘lari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il popolo e Dio c'è la” Chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella Chiesa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstòj, non

Certo

il Manzoni.

questo

atteggiamento

del Manzoni

è sen-

tito dal popolo e perciò i Promessi sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione, non come un’epopea popolare. [...] In un

[...] articolo pubblicato nel « Marzoc-

co » del 9 settembre 1928, il Faggi (Tolstoj e Shakespeare) esamina l'opuscolo di Tolstòj su Shakespeare:

L. ToLstTòJ, Shakespeare, nover,

1906.

eine kritische Studie, Han-

Il volumetto

contiene

anche

un

ar-

ticolo di ERNEST CrosBy su L'atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi lavoratrici e una breve lettera di Bernard Shaw sulla fisionomia! dello Shakespeare. Tolstòj vuole demolire lo Shakespeare, partendo dal punto di vista della propria ideologia cristiana; la sua critica nonè artistica, ma

morale e

religiosa. L'articolo del Crosby, da cui prese le mosse, mostra, contrariamente all'opinione di molti illustri inglesi, che non c'è in tutta l'opera dello Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le masse lavoratrici. Lo Shakespeare conformemente alle tendenze del suo tempo, parteggia manifestamente per le classi elevate della società: il suo 6 - Caretti

162

MANZONI

È I CRITICI

dramma è essenzialmente le volte che egli introduce o dei popolani, li presenta ripugnante, e li fa materia

aristocratico. Quasi tutte sulla scena dei borghes: in maniera sprezzante € o argomento di riso. Ne

Manzoni, la tendenza è analoga, stazioni ne siano attenuate.

sebbene

le manife

La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare « pensatore », non contro Shakespeare « artista » Secondo lo Shaw nella letteratura si deve dare il pri mo posto a quegli autori che hanno superato la mo rale del loro tempo e intraveduto le nuove esigenze dell'avvenire;

Shakespeare non fu « moralmente » su

periore al suo

tempo,

ecc.!. ANTONIO GRAMSCI *

MANZONI

TRA DE SANCTIS

E GRAMSCI

Una lettura veramente critica di Gramsci esige che non ci si fermi in nessun momento alla pagine singola, neppure in quei casi dove essa sembra con densarsi in una formula perspicua da accogliere da respingere

a prima

vista, bensì

si

sappia

ogn

volta risalire dal giudizio e dalla notazione partico 1 In queste note occorre evitare ogni tendenziosità mo ralistica tipo Tolstòj e anche ogni tendenziosità del « sennc di poi» tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia dell: cultura,

non

di critica

artistica

in senso

stretto:

si vuole

dimostrare che sono gli autori esaminati che introducon( un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propagan da e non dell’arte e che la concezione del mondo impliciti: nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionale-popo lare ma di casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un’oper: è subordinata alla ricerca del perché essa è « letta », e « po polare », è « ricercata » o all'opposto, del perché non tocc: il popolo e non l’interessa, mettendo in evidenza l’assenzi: di unità nella vita culturale nazionale, * Da Letteratura pp 72-74, 15-71.

e vita nazionale, Torino, Einaudi,

1950

“dal

SAPEGNO

- M.

TRA

DE SANCTIS

E GRAMSCI

163

lare alla visione d'insieme con un attento lavoro ‘di comparazione, e quasi direi d'integrazione, che tenga conto di tutti i dati espliciti ed anche impliciti nell’ambito di un determinato problema. Chi legge i Quaderni del carcere come una sorta di zibaldone e non riesce a vedere ad ogni passo, oltre l’apparente frammentarietà degli appunti, l'immagine del libro o dei libri che l’autore si proponeva di elaborare e di cui era chiara già nella sua mente tutta la linea costruttiva, è fuori strada; è condannato fatalmente ad isolare il dettaglio prescindendo dall’organismo architettonico in cui quello soltanto prende le sue esatte proporzioni e il suo reale significato, e pertanto a fraintenderlo. Anche i dubbi e le ri-

serve

espressi a proposito

su Manzoni,

nel volume

delle pagine

Letteratura

di Gramsci

e vita nazionale,

e non solo dai recensori più frettolosi, sì anche da taluno di quelli che mostravano di rendersi conto della portata storica radicalmente innovatrice del libro nel suò complesso, debbono essere riportati, io credo, a questo difetto di metodo.

Altrimenti,

si sa-

rebbe evitato di scambiare quelle pagine, per esempio, per un giudizio in stretto senso (in senso crociano) « estetico » sull'opera letteraria del Manzoni,

o addirittura come una specie di « stroncatura » dei Promessi sposi, e ci si sarebbe accorti subito che esse si collocano invece agevolmente nel piano di una geniale ricostruzione della storia della cultura e della formazione degli intellettuali italiani, nella qua-

le la personalità dello scrittore

lombardo

viene

a

prendere il suo giusto posto e si inserisce con tutto

il suo peso e il suo significato esemplare. Il che non toglie poi che quei rilievi gramsciani, prendendo le mosse da una concezione della storia culturale che

implica, senza mai isolarli e sopravvalutarli, anche i fatti letterari e li riporta alle loro radici storiche,

mentre propongono

e applicano una nuova metodo-

164

MANZONI

E I CRITICI

logia della critica letteraria specificamente intesa, offrono tutta una ricca serie di spunti e di suggerimenti validi anche ai fini del giudizio più precisamente estetico e rappresentano quindi nello svolgigento della critica manzoniana un momento particolarmente vivo e importante e l’avvìo ad allargare e innovare una problematica ormai esausta e stagnante. È pur certo, ad ogni modo, che, ad evitare ogni pericolo di fraintendimento, avrebbero dovuto bastare le parole, quanto mai chiare ed esplicite, di Gramsci: Si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di

critica artistica in senso stretto: si vuole dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell’arte e che la concezione del mondo implicita nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionalepopolare ma di casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un'opera è subordinata alla ricerca del perché essa è letta, è popolare, è ricercata o all'opposto del perché non tocca il popolo e non l’interessa, mettendo in evidenza l'assenza di unità nella vita culturale e vita naz., pp. 77-78, nota).

Dove è chiaro, da una parte, si proponeva affatto di stroncare

nazionale

(Letter.

che Gramsci non i Promessi sposi,

e inoltre che egli dava all'impostazione della sua ricerca una prospettiva che non ha nulla a che vedere coll’angusta visuale di ogni analisi formalistica, additando

così, in via subordinata

anche

ai let-

tori di poesia la possibilità di esaminare i fatti in un modo nuovo e quindi di ricondurli a più giuste proporzioni (nel che soltanto è implicita anche, non diciamo una svalutazione, ma un’esatta limitazione dei valori stessi letterari del capolavoro manzoniano). [..] È chiaro ormai in che senso il problema di. una valutazione critica del Manzoni si imponesse al-.

SAPEGNO

- M. TRA DE SANCTIS

E GRAMSCI

165

l'attenzione di Gramsci: come una ripresa, appunto, e una discussione delle conclusioni desanctisiane alla luce di un concetto più avanzato della storia italiana e dei suoi problemi. De Sanctis aveva giustamente messo in rilievo la novità dell’opera del Manzoni, in quanto essa si poneva

e aveva coscienza

di

porsi in contrasto con tutta la tradizione precedente, petrarchesca e aulica, rettorica ed aristocratica, della nostra letteratura; aveva pertanto sottolineato il senso profondo della sua poetica realistica, in. quanto esigenza e proposta di soluzioni narrative, e cioè antiliriche e prosastiche, e di linguaggio popolare. In questo senso, Manzoni era per lui lo scrit-

tore moderno per eccellenza, il rappresentante più insigne della cultura borghese uscita dalla rivoluzione, quello che meglio di tutti rispecchiava in sé l'equilibrio e l'umanità di quella cultura. Già nel De Sanctis tuttavia s'intravvedeva a tratti la consapevolezza dei limiti di quelle posizioni ideologiche, dove esse venivano considerate come l’aspetto culturale della Restaurazione e identificate abbastanza precisamente in un ideale di conciliazione provvisoria che tenesse «a pari distanza i clericali col loro misticismo e i rivoluzionari col loro materialismo », combattendo

i gesuiti e i reazionari

senza

intaccare

per altro il principio religioso e i privilegi costituiti, ammettendo e predicando il progresso purché si trattasse di un « progresso pacifico e legale ». Già il De Sanctis aveva acutamente sottolineato, attraverso l’analisi dell’attività dei minori manzoniani, le varie

forme possibili di deviazione e d’involuzione implicite nelle posizioni della corrente moderata o cattolico-liberale. E anche su un piano più strettamente letterario,

analizzando

la dialettica

interna

del

mondo poetico manzoniano, l'esigenza realistica in conflitto con le velleità moralizzanti e idealizzanti e i diversi successivi tentativi di risoluzione di questo

166

MANZONI

E I CRITICI

conflitto, era giunto a dare dei Promessi sposi quel giudizio che rimane sostanzialmente valido proprio per l'equilibrio con cui vi si contemperano la simpatia del lettore e la diffidenza del critico, il senso della grandezza del libro e quello dei suoi limiti, l'ammirazione per l’artista e ie moderate riserve nei riguardi del moralista e dell'apologeta. Ad ogni modo, la indagine desanctisiana puntava risolutamente sull’affermazione del rinnovamento operato dal Manzoni nella nostra storia letteraria, attraverso la distruzione della rettorica tradizionale e la scoperta di

un'ispirazione moderna; nonché sul carattere progressivo della personalità manzoniana e di tutta la corrente culturale moderata, o almeno delle sue figure più eminenti, in rapporto con la lotta nazionale in corso.

Gramsci tiene ferme alcune di queste premesse, ma conduce l’analisi più a fondo e su un terreno più ampio. È indubbio anche per lui che il Manzoni incarna il momento di più alta e combattiva co-

scienza della borghesia italiana; la fase in cui ‘essa abbandona, per quanto riguarda il problema nazionale, l'atteggiamento astratto e rettorico e si colloca

su

un

piano

di concretezza:

mentre

Foscolo

è

ancora « l’esaltatore delle glorie letterarie e artisti che del passato » e «la sua concezione è essenzialmente rettorica », in Manzoni

« troviamo

spunti nuo-

vi più strettamente borghesi (tecnicamente borghesi). Il Manzoni esalta il commercio e deprime la poesia (la rettorica) ». (Gli intellettuali, p. 41). Donde la importanza anche della sua poetica realistica e delle sue teorie linguistiche; e delle sue stesse ricerche storiografiche intese a indagare concretamente il processo di una storia della nazione italiana: C'è un periodo, manico,

quello dell’egemonia

in cui però il legame

del diritto ger-

tra il vecchio

e il nuovo

SAPEGNO

- M. TRA DE SANCTIS

E GRAMSCI

167

| rimane quasi unicamente la lingua, il medio latino. Il problema di questa interruzione ha interessato la scienza e, cosa

importante,

ha interessato

anche

intellettuali

come il Manzoni (vedi i suoi scritti sui rapporti tra romani e longobardi a proposito dell’Ade/chi); cioè ha interessato nel principio del secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione italiana dall'antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale. (Gli intellettuali, p. 25).

D'altra parte è evidente che Gramsci non può accettare per buona l’interpretazione in complesso positiva che il De Sanctis, in quanto egli stesso partecipe, anzi tra i rappresentanti più notevoli di quella esperienza, aveva dato del movimento romantico italiano e dei gruppi politici che ebbero parte direttiva nel Risorgimento. Perché a lui sono chiare ormai le insufficienze di quella classe dirigente, la sua scarsa coscienza nazionale, la sua angustia nel modo di concepire l’azione e la sua timidezza nel modo di tradurla in atto, angustia e timidezza che avevano la loro radice in un preciso egoismo di casta. Anche sul piano della storia culturale si pone pertanto il problema di vedere fino a che punto quella poetica realistica non fosse viziata da questa assenza di una reale disposizione democratica; in quali limiti cioè si possa parlare di una reale rottura con la tradizione rettorica e accademica.e della conquista effet-

tiva di una soluzione popolare-nazionale dei problemi letterari. Partito dalla documentata dimostrazione del fatto che «in Italia la letteratura non è mai stata un fatto nazionale, ma di carattere cosmopolitico », che « la letteratura italiana è staccata dallo sviluppo reale del popolo

italiano, è di casta, non

riflette il

dramma della storia, non è cioè popolare-nazionale », “che « in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo; cioè dalla nazione, e sono invece legati a una tra-

168 dizione

MANZONI E I CRITICI di casta,

che non

è mai

stata rotta

da un

forte movimento politico popolare o nazionale dal basso » (Letterat. e vita naz., pp. 82, 88-89, 105); Gramsci riesamina, nel quadro del « nesso di problemi » che è il criterio conduttore della sua indagine, anche il problema manzoniano della lingua e l'effettivo significato della poetica dei romantici lombardi, e giunge alla conclusione che, come questi non hanno veramente operato una dissoluzione dell’accademismo tradizionale né sono giunti a istituire un legame profondo con l'anima della nazione, così il Manzoni stesso non è riuscito veramente a superare, né nella scelta del contenuto né nelle solu-

zioni formali, la posizione aristocratica della cultura precedente. Gramsci affronta il suo problema da molte parti diverse: come esame del contenuto del romanzo, per concludere che la scelta di personaggi umili, trattati per altro in un « rapporto di protezione paterna e padreternale » (Lett. e vita naz., p. 72), non è

sufficiente a determinare un mutamento reale di prospettiva;

come

problema

di formazione

intellettuale

e morale, per stabilire che il Manzoni « ha subìto la Controriforma » e « il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocratismo giansenistico e un paternalismo popolaresco, gesuitico » (ivi, p. 76); come soluzione linguistica e formale infine, per ribadire che « il Manzoni sciacquò in Arno il suo lessico personale lombardizzante, meno la morfologia e quasi affatto la sintassi che è più connaturata allo stile, alla forma personale artistica e all'essenza nazionale della lingua » (ivi, p. 167), sì che il suo stesso desiderio di

uno strumento espressivo popolare e nazionale approdava infine a una proposta di riforma dall’alto,

a una « egemonia fiorentina con mezzi statali » (ivi, p. 168), contro la quale giustamente insorgeva la coscienza storicistica di Graziadio Ascoli. Neanche con .

Ì

j

j

SAPEGNO

- M. TRA DE SANCTIS

E GRAMSCI

169

Manzoni si è attuata insomma quella condizione che sola potrebbe determinare una svolta essenziale nella storia della nostra letteratura, e cioè il suo distacco definitivo e pieno dalla tradizione aristocratica e cosmopolitica, la conquistata aderenza alle correnti profonde della vita popolare-nazionale, l’instaurazione di una cultura e di una letteratura che si pongano risolutamente « il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri » (ivi, p. 103). Anche nel Manzoni l’« atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale ma aristocratico »; i suoi personaggi umili « non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda », «sono presentati come macchiette..., con bonarietà

ironica, ma

ironica », con

un

tono

di « com-

patimento scherzoso »; « tra il Manzoni e gli umili c'è distacco sentimentale », perché il suo cristianesimo

non

mocratico,

riesce ad esser davvero ma

rimane

cattolico

evangelico

e de-

e paternalistico,

e

l'atteggiamento dello scrittore « verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo, di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana » (ivi, pp. 73-75). Il Manzoni esercita insomma sul piano culturale una funzione in tutto analoga a quella che esercitano sul piano politico e sociale le forze più attive e consapevoli della borghesia risorgimentale: di parziale rottura, cioè, delle condizioni secolari di arretratezza del paese,

Po

senza per altro la volontà e la capacità di condurre fino in fondo la rivoluzione intrapresa, con la premessa e la remora di una intatta diffidenza nei riguardi delle forze popolari, di fronte alla cui iniziativa si mantiene un atteggiamento

listica nell'intento di preservare dominio politico e ideologico. ‘proprio per bocca del Manzoni, te di quel processo, si affermino

di guida paterna-

la continuità del preNon è un caso che nella fase culminancontemporaneamen-

170

MANZONI

E I CRITICI

te una netta e insistente richiesta dell’indipendenza nazionale e un’altrettanto netta e insistente subordinazione dell'esigenza della libertà rispetto a quella dell’unificazione; che son proprio i limiti in cui la classe dominante italiana volle rigidamente mantenuto e circoscritto, in un interesse di casta, lo svolgimento della sua azione rivoluzionaria. Così impostato, il problema di una valutazione della personalità del Manzoni, anche da un punto di vista letterario, si rivela in tutta la sua complessità ed è ben lungi dal ridursi ad una banale « stroncatura ». Gramsci tiene conto di tutti i dati della questione;

riconosce

i limiti, ma

anche

la serietà pro-

fonda dell’episodio culturale preso in esame; distingue con cura gli elementi progressivi del suo personaggio a paragone degli atteggiamenti contemporanei più tipicamente reazionari; come pure distingue

fra gli uomini dell'età manzoniana impegnati comunque in uno sforzo di rinnovamento e desiderosi di raggiungere una coscienza nazionale dei loro problemi, e le piccole

figure più o meno

rappresentative

della successiva rapida involuzione della borghesia italiana. Manzoni non è un padre Bresciani, quantunque anche in lui « si possano trovare notevoli tracce di brescianesimo » (ivi, p. 77); c'è in lui « una vena giansenistica ed antigesuitica », per quanto, proprio attraverso il suo esempio, si possa dimostrare

‘« che il cattolicesimo,

anche

in uomini

superiori e

non gesuitici come il Manzoni... ,non contribuì a crea-

re in Italia il popolo-nazione neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento antinazionale-popolare e solamente aulico » (ivi, p. 74). D'altra parte lo scrittore lombardo sta di mille cubiti al di sopra dei cattolici e dei brescianeschi delle più tarde generazioni (il che, tra parentesi, spiega il tono di cautela e di più o meno confessata diffidenza che costoro adoperano discorrendo

di lui, anche quando lo esal-

SAPEGNO

- M. TRA DE SANCTIS

E GRAMSCI

171

tano per spirito di parte): « c'è una differenza tra il Manzoni e il Crispolti: il Manzoni proveniva dal giansenismo, il Crispolti è un gesuita laico; il. Manzoni era un liberale e un democratico del cattolicesimo (sebbene di tipo aristocratico) ed era favorevole alla caduta del potere temporale; il Crispolti era

un

reazionario

nerissimo,

e lo è rimasto » (ivi,

p. 189). Più da vicino affrontano un problema di natura in stretto senso letterario quegli appunti di Gram-. sci, in cui l'atteggiamento del Manzoni nei riguardi dei suoi personaggi è studiato attraverso il confronto

con una cultura e una letteratura, come quella russa dell'ottocento,

sorretta

trimenti democratica zione:

da una

coscienza

ben

al-

e rivoluzionaria della sua fun-

il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il popolo e Dio c'è la Chiesa, e Dio non si incarna nel popolo, ma nella Chie sa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstòj, non il Manzoni; ...nel Tolstòj è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nell'uomo colto. Ciò appunto è il tratto più rilevante della religione del Tolstòj, che intende l’evangelo democraticamente, cioè secondo il suo spirito originario ed originale. Il Manzoni invece ha subito la Controriforma... L'importanza che ha la frase di Lucia nel turbare la coscienza dell’Innominato e nel secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante folgorante come è l'apporto del popolo, sorgente di vita morale e religiosa, nel Tolstòj, ma meccanico e di carattere sillogistico (ivi, pp. 75-77).

Anche qui siamo lontanissimi da un proposito di critica banalmente e superficialmente demolitoria; si tratta invece dell’impostazione, sia pure in forma

172

MANZONI

E I CRITICI

sommaria e appena abbozzata, di un problema molto importante. Mentre sembra che l’analisi resti esteriore e tutta intesa a rilievi meramente di contenuto, in realtà viene affrontata, di scorcio, la questione del concetto moderno di letteratura realistica; e il

giudizio di Gramsci, che parrà sacrilego solo a una mentalità inficiata di sciovinismo, stabilisce, di passaggio e senza insistervi troppo, una distinzione di toni e di valori, che potrà riuscire sommamente opportuna a misurare oggettivamente la portata dell’arte manzoniana al di fuori di ogni prospettiva meschinamente provinciale. È chiaro che Gramsci non ci ha dato, né voleva darci, un saggio sui Promessi sposi in quanto opera

artistica; ciò non toglie che egli offre anche allo storico della letteratura spunti preziosi. Dopo la pubblicazione delle sue pagine, anche il problema critico sul romanzo esige ormai. un'impostazione diversa e più ampia. Si dovrà riprender più a fondo l’ana-

lisi della formazione mentale del Manzoni, dalla prima fase giacobina alla conversione giansenistica fino al cattolicesimo più rigoroso, ma anche più angusto, dell'età matura (un suggerimento utilissimo per quanto si riferisce al trapasso naturale dall’ideologia al cattolicesimo, è nel volume 7! materialismo storico, p. 47). Si dovranno

studiare più attentamente

i di-

versi momenti del suo sviluppo artistico, e in particolare se e fino a che punto si possa rintracciare un’involuzione di criteri etici e sociali, e anche di risultati poetici (nei particolari, e non nel complesso), nel passaggio dalla prima redazione del romanzo a quella definitiva. Si dovrà rivedere e descrivere, nelle loro origini e nelle loro

distinte

fasi, le idee

manzoniane sulla lingua (e sui limiti di questa riforma linguistica abbiamo visto come Gramsci esponesse, in abbozzo, un'opinione che ci sembra esattissima e definitiva). Si dovrà infine, nello studio dello

SAPEGNO

- M. TRA DE SANCTIS

scrittore lombardo,

muovere

E GRAMSCI

da una

173

considerazione

più larga della storia civile e culturale del suo tempo (andar più a fondo cioè sulla via iniziata dal De Sanctis), e al tempo stesso vedere l’opera del Manzoni più che finora non si sia fatto sullo sfondo di un'esperienza europea, che in lui si riflette, ma che da noi e nell'opera sua trova una soluzione soltanto parziale e non scevra da timidezza. NATALINO

MANZONI

SAPEGNO *

« RIVOLUZIONARIO »

Sullo scarso carattere nazionale-popolare dei messi sposi, sull’atteggiamento verso gli « umili « società protettrice degli animali », ci sono i giudizi di Gramsci, accompagnati dalla riserva si tratta « di una ricerca di storia della cultura,

Pro» da noti che non

di critica artistica in senso stretto ». Tuttavia è pro-

prio questa scissione tra giudizio sociologico-ideolologico e giudizio estetico che occorrerebbe superare.

Non è soltanto il confronto con Tolstoj, da lui utilizzato, che dà ragione a Gramsci.

Il disprezzo dei

nostri superciliosi critici per Walter Scott non impedisce ai suoi personaggi, armigeri o porcari, di es-

sere la sostanza reale del processo che si svolge nelle sfere superiori.

Se essi non

sono,

né possono

esse-

re consapevoli di « fare » la storia, sono però consapevoli di viverci dentro, di esserne parte integrante, mentre Renzo e Lucia, dice il De Sanctis, « avrebbero così poco immaginato di essere materia storica

come un pastore potrebbe immaginare di essere re. La storia non è mossa da loro; anzi è la storia che * Da Ritratto di Manzoni 1961, pp. 101-103, 106-114.

ed altri saggi, Bari, Laterza,

174

muove

MANZONI E I CRITICI

loro » e «il genio malefico

della storia » è

don Rodrigo. Naturalmente questa differenza

è in

prima istanza quella tra la storia inglese, il cui carattere nazionale-popolare garantiva quella « medesimezza umana » tra inferiori e superiori che Gramsci non riscontrava nei Promessi sposi, e la storia

italiana, specie nel periodo trattato. « Trovi qui, — dice sempre il De Sanctis — un quadro animato della dominazione straniera, con un’aria quasi di indifferenza, che aggiunge allo strazio; perché il dominatore non ha coscienza della sua violenza, e il dominato non ha coscienza della sua servitù... » Tuttavia ciò non basta, perché il carattere molecolare del processo storico permane anche quando il popolo è apparentemente tagliato fuori dalla storia. La guerra dei trent'anni rappresenta pure un pe-

riodo di passività per il popolo tedesco. Però nel Campo di Wallenstein, Schiller, non senza il concorso di Goethe, aveva potuto rimediare almeno parzialmente all’astrattezza dell’impostazione del dramma del condottiero facendo vedere come questo si innestasse sui vari sentimenti e atteggiamenti del suo composito esercito, i quali, se non riflettono certo una coscienza nazionale-popolare, stanno almeno

ad indicare che le azioni luogo in una

zona

dei reggitori non

rarefatta in cui non

hanno

trovano

im-

pulsi né resistenze se non nelle loro interne contraddizioni. Invece il Manzoni, anche nei cori delle tragedie, dà la parola al popolo solo per ribadire la sua naturale estraneità alle vicende. [...] Tuttavia il paternalismo del Manzoni è così animato da sete di giustizia e da orrore dell'oppressione, che se non è democratico è pure rivoluzionario. C'è qualche cosa in lui che è assolutamente nuova e originale nella letteratura italiana: il senso della responsabilità della società nei confronti dell’individuo. Il cattolico Manzoni invita alla rassegnazione,

CASES - M. « RIVOLUZIONARIO »

175

però solo dopo avere spietatamente smontato l’atro“ce meccanismo che produce la. monaca di Monza, con una così rara e ammirevole mancanza di rispetto per certe istituzioni, a cominciare dalla famiglia, che si lascia addietro Diderot e che dovrebbe bastare a bandirlo dalle nostre scuole se ci si accorgesse del veleno dell'argomento. Certo il quadro degli orrori feudali che egli ci dà è un quadro conchiuso, visto nella prospettiva del passato e senza nessun mordente polemico at-. tuale. Per il Manzoni, come per Hegel secondo Marx, c'è bensì stata una rivoluzione, ma non ce ne sarà più. Diderot e Voltaire avevano lavorato per lui, ed ora egli poteva permettersi il lusso di bruciare solennemente i settanta volumi dell'edizione di Kehl. Ragione per cui, nonostante la sua passione per la verità storica, è. proprio lui a peccare di antistoricismo e a sostituire al decorso storico un astratto e atemporale conflitto tra responsabilità e moventi egoistici. Ciò è particolarmente visibile nella Storia della colonna infame, scritta con l’esplicito intento di rifare, confutandole parzialmente, le Osservazioni sulla tortura. Ora il Verri aveva ristabilito la verità per mostrare come l’uso della tortura portasse al delitto giuridico: da buon illuminista egli prendeva dunque lo spunto da quest’ultimo per condannare gli stessi istituti della società feudale che ne erano responsabili. Invece il Manzoni, per cui la tortura era

(grazie

a quei

tali con

cui organizzava

i suoi

autodafé casalinghi) un ricordo del passato, vuole dimostrare che non si trattava tanto di essa, quanto delle « passioni perverse » dei giudici, i quali, tortura o no, avrebbero potuto giudicare rettamente

se

da quelle non fossero stati travolti. È chiaro come questa impostazione manzoniana trasponga i proble«mi dal campo storico conoreto a quello degli « eterni » conflitti morali, dalla grande morale alla piccola,

175

MANZONI

E I CRITICI

secondo il motto di Mirabeau /a petite morale tue la grande, condannato nel dialogo Dell'invenzione e significativamente illustrato con l'esempio di Vergniaud, che aveva votato contro coscienza la morte di Luigi XVI per evitare la guerra civile. Ma chi legga la Colonna infame dovrà riconoscere che con la leva di questa « piccola morale » il Manzoni ha scritto pagine ancora più illuministiche di quelle del Verri, pagine degne di stare a paro della storia del dente d’oro in Fontenelle o dell’Epistola sulla tolleranza nella capacità di dissolvere i mostri alla luce della ragione. Poiché qui la luce della ragione è rafforzata dalla luce del trascendente, è l'arma di cui Dio

si serve per confrontare la semplice, irrefutabile realtà con le infami macchinazioni dei giudici. È sempre così, che attraverso la « piccola morale » cattolica si finisce per ritrovare la grande? No certo, e nemmeno nel Manzoni. Ci sono anche gli « elementi di brescianesimo » visti da Gramsci. Ma di qui a dire che la religione manzoniana è « eredità della Controriforma » ci corre. Il Manzoni, che non per nulla ebbe in antipatia il Tasso fin da giovane, ci sembra proprio agli antipodi della Controriforma, per cui la realtà è ovvia, quindi sostanzial-

mente indegna di essere esaminata davvicino, e le « perverse passioni » si purgano nel confessionale senza bisogno di fare tanto chiasso. Sembra anzi impossibile che nel paese della Controriforma, dove Iddio è un pacifico e remoto alibi per la viltà di don Abbondio, sia apparso un Dio così attivo, petulante, rompiscatole, nominato (e non invano) in ogni pagina; un Dio «che affanna e suscita, — che atterra e che consola »; un Dio che serve da criterio ermeneutico della realtà, da avallo di quella sua ferrea necessità di sapore capitalistico-ricardiano che

appare

per esempio

insieme

da monito

nelle pagine sulla carestia, e ad operare,

sia pure paternali-

CASES - M, « RIVOLUZIONARIO »

sticamente, ma intelligentemente

177

e umanamente, en-

tro questi limiti. Marx ha detto una volta che gli economisti borghesi sono come i teologi, costretti a dimostrare che tutte le religioni sono sbagliate e inventate, fuorché la loro. Il Manzoni è in qualche modo la realizzazione di questa metafora, poiché in lui Dio è la garanzia che l'ordinamento feudale è tramontato senza colpo ferire e che ora si tratta di rimboccarsi le maniche e di mettersi al lavoro. Il « brescianesimo » del Manzoni consiste nell’aver egli contrabbandato in Italia il suo Dio giansenistà, conosciuto a Parigi e sorto dalle ceneri dell’edizione di Kehl, senza avergli fatto pagar dogana al confine, e anzi presentandolo come genuino prodotto nazionale e contraffacendo

il marchio di fabbrica, di

modo che lo si potesse confondere con quello della Controriforma (i cui rappresentanti, del resto, non si lasciarono mai ingannare). Sicché, esortando alla rassegnazione davanti al suo Dio attivista cattolico della borghesia, finiva indirettamente per esortare a rassegnarsi

al Dio feudale, al residuo

del Medioevo,

e alla società che egli incarna, C'è nel Manzoni qualche cosa di quella borghesia milanese che fa un gran baccano assicurando che se andasse a Roma instaurerebbe subito il laburismo inglese e il paradiso elvetico, mentre in realtà a Roma ci va, ma soltanto per combinare l’intrallazzo coi latifondisti meridionali. Il Manzoni era più furbo, e a Roma non mise mai piede. Il suo intrallazzo col Dio del padre Bresciani lo combinò

a Milano, e si chiamò

niente-

meno che / promessi sposi. Il De Sanctis vide bene, a Zurigo, che per condurre a termine questa geniale operazione il Manzoni aveva dovuto isolarsi « nel silenzio del gabinetto ». Tuttavia l’attività artistica, a ditferenza di altre, si esaurisce nel proprio prodotto, è « priva di interesse », per dirla con Kant. L'efficienza rivelata dall'alchimia moderata del Manzoni

178

MANZONI.

E I CRITICI

è dunque qualitativamente diversa da quella dell’alchimia politica’ su cui è stata edificata l'unità italiana. Se qui il risultato impone di discutere la validità di un'impostazione di cui risentiamo anche a un secolo di distanza, là è da vedere al contrario se non sia proprio il « silenzio del gabinetto », il

carattere lievemente artificiale — e quindi ideologico e predicatorio — della creazione manzoniana a costituire

non

solo l’indubbio

limite, ma

anche

la

causa essendi di un capolavoro della forma romanzesca che non avrebbe potuto sorgere altrimenti. CESARE

NOVITÀ DEI « PROMESSI

CASES *

SPOSI »

Non a dispetto, come si dice, dei suoi presupposti morali e polemici, sì proprio in virtù di quei presupposti, il romanzo è una grande opera di poesia, la cui validità si commisura,

come

è proprio dei

capolavori, in rapporto all'ampiezza dell’orizzonte culturale e alla sua attitudine a comprendere e a modificare la complessa realtà di un'epoca e di una civiltà determinata. Polemico è già il nucleo primo dell'invenzione: quel porre al centro del racconto ed elevare a simboli della dignità umana conculcata, ma insopprimibile, un filatore e una contadina, quello spostare l’attenzione dai personaggi degli eroi e dei grandi alla gente umile e anonima, che a molti dei contemporanei,

e perfino

a un

Tommaseo,

ap-

parve atteggiamento paradossale e deprecabile; e un lievito di insistente polemica, in cui riaffiorano tenaci i motivi antifeudali e antiumanistici della cul* Da I « Promessi Sposi» e la critica « Notiziario Einaudi », marzo 1956, pp. 5-6.

progressista,

in

SAPEGNO

- NOVITÀ

DEI « PROMESSI

SPOSI »

179

tura lombarda settecentesca, accompagna e sottoli‘ nea, ora ironica ora sdegnosa, la rappresentazione | sempre calda di affetto e di pietà della vita dei poveri,

svela,

sotto

il-fasto

pesante

del

cerimoniale,

gli idoli di orgoglio e di crudeltà, di boria e di violenza che ispirano la condotta e regolano il costume dei ceti dominanti; ‘scopre, illuminandolo di luce cruda, l'oscuro fondo di cupa tetraggine, di simulazione, di aridità o di vigliaccheria, dei personaggi d’autorità, tirannelli e politiconi, prelati di mondo e avvocati azzeccagarbugli, nobili puntigliosi e ridicoli pedanti, bigotte con la loro smania di filantropia invadente ed inutile e grandi signore depravate e perverse;

suscita

ad ogni passo la satira

pungente

di una società con i suoi pregiudizi e le sue superstizioni, i suoi riti artificiosi e la sua cultura

stica, nonché

della politica

in sé e di coloro

scola-

che

l'incarnano, dell'immortale ragion di stato, dei « mo-

tivi d'interesse e di riputazione », a cui i governanti ubbidiscono, procedendo ora con grossolana violenza,

ora

con

ranti della poveri ».

imperizia,

miseria,

con

della

stoltezza

fame,

del

sempre,

« sangue

incu-

de’

Né questo fermento polemico è da considerare come elemento secondario, marginale ed episodico, o peggio ancora come un'arbitraria e fastidiosa intrusione dell'ideologia religiosa dello scrittore, che costringa e raffreni la sostanza poetica in funzione di un'apologia angustamente confessionale; è vero invece che esso investe tutta la struttura del libro e ogni particolare; in esso convergono e si compongono fantasia e sentimento, invenzione e riflessione;

si accordano, in un ritmo alterno, temperandosi a vicenda, i momenti e i toni umoristici e comici e ‘quelli tragici eloquenti o solenni. Un medesimo impulso di alta e combattiva tensione morale ispira la vivacissima commedia del personaggio di don Ab-

180

MANZONI E I CRITICI

bondio, e, su un piano diametralmente diverso, la psicologia sottile, penetrante, spietatamente rivelatrice di Gertrude; anima la mossa, incalzante descrizione, tutta in chiave ironica, dei tumulti milanesi e la drammatica rappresentazione della care-

stia e della peste. Il moralismo giovanile dello scrittore, traducendosi in una religiosa, si riconosce ora

alta e severa concezione e si articola in una ma-

teria ben altrimenti ricca e concreta, ma senza perder nulla del suo rigore e della sua forza battagliera. E quella religiosità, che è stata fin dal principio ed è tuttora per molti lettori ragione di scandalo, di diffidenza e di tenace antipatia, quando la si consideri nella sua genesi e nella sua situazione

stori-

ca, in quella fase della cultura e della vita italiana,

appare per quello che veramente è, nella storia della creazione poetica, al di fuori e al di sopra dell’ideologia particolare dello scrittore, lo strumento di una interpretazione critica, straordinariamente nuova e

attiva in quel tempo e in quella società, la condizione e l'avvio al sorgere e al maturarsi, in Italia, di un’arte realistica in senso moderno. Propriò per il tramite della conversione e dell'adesione al cattolicismo, l'ideale morale del giovane Manzoni si riempie di un contenuto vero e acquista una forza espansiva, riconoscendosi nella faticata saggezza e nella secolare esperienza degli umili; e, inversamente, il principio egualitario cristiano per la prima volta scende con lui dal cielo sulla terra e diventa criterio di interpretazione e discriminazione delle vicende ‘storiche e degli atteggiamenti umani. I limiti, che pur si palesano evidenti a un'indagine retrospettiva, di quella posizione mentale, servono tutt'al più a definire il grado di evoluzione di una società, quando appunto i Promessi sposi si leggano in funzione meramente

nuano

documentaria;

la sostanza

non

toccano

e non

atte-

poetica del libro, né il suo evi-

SAPEGNO - NOVITÀ DEI « PROMESSI

dentissimo

SPOSI »

181

significato storico. Talché, se il confron-

to con altre situazioni, altrimenti progressive e mature, dell'Europa contemporanea, può riuscire illu-

minante per lo storico che si proponga di illustrare le insufficienze e le debolezze della nostra rivoluzione nazionale e borghese; diventa poi assurdo, e precisamente antistorico, quando lo si assume

come cri-

terio di giudizio in sede letteraria. Nell'ambito della civiltà del Risorgimento, non è possibile scorgere altra opera più rappresentativa, sul piano dell’arte, né più nuova e feconda, che i Promessi sposi, se non forse le musiche congeniali di Verdi (Leopardi sta a sé, e a quella civiltà si contrappone con un virile, se pur sommario, rifiuto, lacerando bruscamente il velo delle consolanti illusioni metafisiche e « inaugurando il regno dell’arido vero »). Un rapido sguardo alla trama ed ai personaggi del libro (vivi, del resto, nella mente di ogni lettore) potrà servire di conferma a quanto s'è detto riguar-

do alla novità e alla forza del suo contenuto. Al centro della storia stanno i due popolani, i « promessi sposi », la cui esistenza passerebbe su questa terra inavvertita, senza lasciarvi traccia, se essi non

finissero proprio per caso, e senza volerlo, a capitar fra i piedi dei grandi e dei prepotenti e ad inciampare così nelle loro trappole. Uno è Renzo, che sembra davvero riassumere in sé tutte le doti di un certo mondo contadino: la bontà generosa, la giustizia istintiva, la religiosità schietta, la laboriosità ilare e serena, la freschezza non corrotta dei sentimenti; Renzo, di cui la vicenda è tutta una coperta inin-

terrotta battaglia contro l'orgoglio dei dotti, di quelli che san leggere virsi a tempo del latino dei decreti contro le ingiustizie dei signori che

e le stregonerie e scrivere e sere della scrittura, han fatto la leg-

ge e l’adoperano secondo i loro fini e il loro capriccio; e questa battaglia egli la combatte

senz’altra

182

MANZONI E I CRITICI

arma che le sue idee chiare e non artefatte, la sua fiducia tetragona nel trionfo del bene, la forza sana delle sue braccia e delle sue spalle addestrate da sempre alla dura fatica: è la figura più lieta e franca, la più cordiale e convincente che il Manzoni abbia saputo inventare. E poi c'è Lucia, in cui la fede ha creato una sensibilità più alta, più delicata e sottile; un pudore, una ritrosia, una superiore gentilezza d'affetti, che reca con sé una luce ineffabile e la

proietta su tutte le cose e persone con cui s'incontra:

una

creatura

che non

sembra’ di questa

terra,

e pur rimane una contadina, con il suo modo di sentire semplice e quadrato, ben circoscritto in una precisa misura di tempi e di luoghi e di educazione. Intorno ai due protagonisti brulica tutto un mondo di umili; contadini, artigiani, barcaioli, barocciai, po-

vera gente tormentata dalla crudeltà

dall’ingiustizia degli uomini e

della sorte, ma

non

distorta

e .soffo-

cata, tuttavia umana e solidale: sempre pronta al bene nei pensieri e nelle opere. E c’è la vita del villaggio, con i suoi interni squallidi e le sue magre cene

e i suoi focolari

spenti;

e la chiesetta,

la ca-

nonica, il convento dei cappuccini; e le campagne bruciate dalla siccità, devastate dalle invasioni soldatesche, spopolate dall’epidemia; e le lunghe strade che corrono il mondo pieno di sorprese e di malincontri; e le osterie; e infine anche la città, ma come

la vede il contadino,

stupenda

e vasta, ma

irta di

insidie e di tranelli, la città del popolo, stremata e atterrita dal contagio, ovvero eccitata e fremente nei

giorni di gazzarra.

E nello sfondo, il paesaggio

fa-

miliare di Lombardia, con i suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la sua mite luce autunnale. 1

‘Questo fondo popolano tiene una parte grande, più grande che a volte non si pensi, e predominante, nella struttura del romanzo. Anche il quadro storico, in cui tutta la vicenda s'inserisce, non

tocca se non

SAPEGNO

- NOVITÀ

DEI « PROMESSI

SPOSI »

183

di passata gli eventi politici, diplomatici, bellici, quel. li insomma che formano essenzialmente e quasi esclusivamente la trama di una storia nel senso corrente del termine, e si specifica piuttosto in una serie di quadri d'ambiente e di costume, per cui si delinea, non il corso solenne dei fatti, sì il colore, la fisionomia minuta e variegata di un'epoca. E quando un | avvenimento di vasta portata — il malgoverno spagnolo, la carestia, la guerra, la peste — penetra nel racconto,

è visto

non

in una

considerazione

astrat-

ta e disinteressata da storico professionale, bensì in quanto aderisce alla vita degli umili, li agita, li fa soffrire, reca un improvviso sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze. Naturalmente, in quella rappresentazione vasta e complessa di un periodo storico visto nei suoi riflessi umani e quotidiani, debbono penetrare anche i grandi, i personaggi illustri, i rappresentanti dei ceti e degli ordini privilegiati; ma vi entrano, come è giusto, in funzione

subordinata:

o per antitesi, co-

me le ombre che hanno il compito di delimitare e porre in rilievo le zone di luce; ovvero come elementi di sostegno e di conforto del concetto che regola la rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di potenti che s'adeguano al mondo degli umili e si mettono al loro servizio. Forse soltanto a proposito dei personaggi di quest’ultimo tipo (il Cardinale, fra’ Cristoforo, per certi ‘aspetti anche l’Innominato, con la sua vicenda esemplare e lievemente stilizzata) è lecito parlare di un residuo irrisolto di intenzioni moralistiche (quasi un'eco e un riflesso della splendida oratoria dei predicatori francesi del gran secolo, trasferita su un piano di persuasione popolare e raccontata): solo la sapienza e la discrezione infinita dell’artista, e il freno dell’ironia, riescono quasi sempre a salvarli, trattenendoli in un difficile equilibrio sull'orlo dell’oleografia. Ma quanto

184

MANZONI E I CRITICI

agli altri personaggi, che abbiamo detto antitetici, sono proprio quelli in cui il lievito polemico opera più direttamente e in modo più palese, sia che incarnino

gli aspetti

ridicoli,

tronfi,

artefatti,

baroc-

chi, le forme vuote di una civiltà pomposa e puntigliosa; o sia che impersonino i malvagi, i violenti che ignorano il timor di Dio, gli esclusi per i quali è presso che impossibile ogni redenzione, prostrati nel fango della loro viltà, della loro abiezione, dei loro delitti; e qui la polemica stimola, e non impaccia, la libertà della fantasia,

l'orrore o il disprezzo

si mutano in drammatica perplessità e aiutano a penetrare più a fondo, onde la grandezza del male è sentita in termini di tragedia, investita dalla commozione, riscattata dalla pietà del poeta (storia di Gertrude, morte

di don Rodrigo),

e il comico

non

ha

nulla di piccolo e di caricaturale, anzi si distende in pagine luminose, che son tra le più ilari e cordiali ed umane del romanzo (don Abbondio, don Ferrante, donna Prassede). Un alto sentimento religioso circola in ogni parte

di quel mondo, penetra in ogni vicenda, sfiora anche i personaggi più tristi e i più vili. L'intervento di Dio negli accadimenti piccoli e grandi è in ogni momento così forte che ti sembra di poterlo toccar con mano: è una presenza paterna, amorosa con la fede semplice e intatta dei suoi contadini, della povera gente: « quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa! c'è anche per noi »; «lasciamo fare a Quel lasSU »; « tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà ».

E in questo mondo

basso, più triste che lieto, l’ope-

ra di Dio la senti soprattutto

nelle tribolazioni, ne-

gli affanni, e in quegli spiragli di luce che s’aprono improvvisi in mezzo alle tenebre dell'angoscia e chiu-

don le porte alla disperazione. La provida sventura del coro d'Ermengarda, il « Dio che atterra e suscita, — che affanna e che consola » dell’ode napo-

SAPEGNO

leonica,

sono

- NOVITÀ

anche

DEI

« PROMESSI

SPOSI »

il filo conduttore,

la trama

re

185

se-

greta del romanzo, ma espressi in termini più semplici, familiari, popolareschi. È il tema che palpita nelle parole di fra’ Cristoforo ai due sposi finalmente ricongiunti: « Ringraziate il Cielo che v'ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a un’allegrezza raccolta e tranquilla ». Ed era già nella chiusa dell'addio ai monti: «chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande ». E ritornerà anche nelle meditate conclusioni, in cui Lu-

cia e Renzo condenseranno alla fine il frutto e il « sugo » di tutta la loro esperienza. Il pessimismo cristiano dell’Ade/chi s'è schiarito e intenerito in questo dono di fiducia e di attesa, in questa luce di « allegrezza raccolta e tranquilla ». Questa morale, con quel che comporta di rassegnato e di umbratile, è il limitein cui si appuntano le diffidenze e le riserve dei lettori più restii (suonava ostica già a qualche democratico dell’ottocento, che l’applicava con visione alquanto miope alla lotta politica in corso, e vi fiutava un invito, tutt’altro che conforme ai sentimenti dello scrittore, alla

rassegnazione e alla non violenza di fronte all'Austria e al clericalismo retrivo). Limite, ad ogni modo, come s'è già detto, d'ambiente e di situazione storica, d'ideologia storicamente condizionata, insomma,

non

di arte. Perché la moralità non si sovrappone al racconto, ma lo compenetra e l’illumina dal di dentro: la senti anche nei paesaggi e negli oggetti e nelle peripezie più naturali (nel gran « notturno » drammatico e musicale del capitolo VIII, nella fuga di Renzo da Milano all’Adda, nella descrizione dell’afa -e del temporale che mette fine al contagio), ma appunto la senti come un elemento e una luce delle

186

MANZONI E I CRITICI

cose e degli avvenimenti,

una nota che li completa,

e li arricchisce. La sua funzione è, non di fine, bensì di strumento, che fa più penetrante ed intensa l'analisi psicologica e asseconda la ricerca del naturale, del concreto, del vero, nella scelta degli oggetti e nel modo di rappresentarli. Parallela alla novità del contenuto, si accampa l'altra, fors'anche più vistosa, della forma e del linguaggio, quello incomparabile apporto di invenzioni verbali e stilistiche, per cui col romanzo manzoniano nasce la letteratura moderna d’Italia; e tale no-

vità della forma deriva anch'essa, riprendendo in modi di gran lunga più maturi e concreti le esigenze della generazione dei Verri e del Parini, dallo stesso fondo morale e polemico: come la vita « non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego », così an-

che la letteratura non può proporsi « soltanto per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa quasi altro che divertirsi », non può ridursi a privilegio di una minoranza. Anche qui al senno dei posteri, con tutto il tesoro delle successive esperienze letterarie europee e anche italiane, riesce abbastanza facile scorgere certi limiti e timidezze del realismo

dere

manzoniano;

l'enorme

ma

sarebbe

importanza

stolto rifiutarsi di ve-

di quella

svolta

storica.

Sta di fatto che solo con molto stento, e con alterne

fasi di superficiale adesione e di ripiegamenti involutivi, la cultura italiana è giunta a prender coscienza della sua portata e a maturarne i frutti; né l’efficacia esemplare di quell’insegnamento può dirsi a tutt'oggi veramente esaurita. NATALINO * Da Ritratto 1961, pp. 142-150.

di Manzoni

SAPEGNO *

ed altri saggi, Bari, Laterza,

DE CASTRIS

DAL

- DAL FERMO

AI PROMESSI

« FERMO » AI « PROMESSI

SPOSI

187

SPOSI »

Un primo sguardo al sistema strutturale dei Promessi Sposi ci avverte che si tratta d'un mondo espressivo organizzato dall’intreccio dialettico di due direzioni fondamentali: un realismo narrativo accanitamente perseguito in funzione d'un ideale di coerente oggettività, e insieme una costante massiccia e capillare presenza del narratore, dell’io-regista e angolatore focale della vicenda; il cui compito massimo e la cui costitutiva ambizione sembrano tuttavia consistere nel rendere quanto più possibile impersonale, interno ai fatti e alle situazioni, il senso sapiente che li governa, nel celare e incorporare il giudizio, la prospettiva, nel livello immediato dell'azione, nella varietà fattuale e nell’autonoma sin-

tassi della vicenda, Della direzione diciamo ascendente di questo processo

formativo,

cioè

della invisibile

esorcizzazione

idealistica del reale, integrato appunto sistematicamente da una verità che lo sovrasta e lo giudica, la critica manzoniana — più o meno consapevolmente — ha fornito descrizioni assai fini; mentre, per

quanto riguarda l’altra direzione fondamentale, basterà ricordare la capostipite intuizione del De Sanctis, quando, per definire il realismo

del grande

ro-

manzo, parlava appunto di misura dell'ideale, di funzione umanizzante dell’ironia. Tuttavia il centro unitario ed organico del sistema espressivo dei Promessi Sposi è nella dialettica tra le due operazioni, nella regia onnipresente che le collega e le misura in straordinaria

armonia:

e che, nel momento

stesso in cui s'impegna a giudicare e integrare la | realtà, riesce a rifiutare e frantumare il giudizio ne-gli stessi elementi strutturali della rappresentazione, a inglobare dunque il processo astrattivo e com-

188

MANZONI

E I CRITICI

pensatorio dell'ideale in una delicata scelta di mediazioni oggettive, di figurazioni autonome. Le idee calme e grandi son lì, nel corso medesimo dei fatti, si sprigionano naturalmente da questi, come se questi le contenessero e le rivelassero automaticamente, nel loro oggettivo disporsi e confrontarsi. La realtà è, sì, portata a Dio, ma Dio sta a sua volta nella realtà medesima: ed ogni conto sembra tornare senza che lo scrittore mostri di averlo addomesticato ideologicamente, di averlo corretto in flagrante. Una trasformazione del mondo rappresentata come realtà del mondo, una deontologia e una speranza in figura di ontologia e di certezza: questo risultato, ambiguo ed aperto, è veramente il senso profondo ed organico dei Promessi Sposi. Senonché, a intendere il significato di tutto questo nella storia integrale del Manzoni, non basta, crediamo, limitarsi a descrivere tale complessa re-

gìa, e sorprendere nelle sue definitive valenze questo modo di organizzare in un sistema di segni una precisa visione

Manzoni,

del mondo.

quel sistema

Se, in ordine

ci appare

un

all’arte

risultato

del

con-

cluso, in realtà esso è il risultato di una ricerca orien-

tata e complessa: e pertante solo dalla identificazione del suo fieri, dalla illuminazione cioè di un processo

di intenzioni strutturali e di scelte « formali »,

quel sistema può rivelare interamente la direzione e la realtà attiva dei suoi significati. Una intima legge di necessità governa ed orienta il fare artistico manzoniano dalle tragedie al romanzo, e, ancor più direttamente e intenzionalmente, dall’abbozzo al romanzo;

una necessità non generica ed ovvia, ma

cretissima

e tutta

manzoniana:

riconoscibile,

con-

come

nell’aperta intenzione della sua poetica storica, così nel capillare assiduo travaglio che ne tenta l'attuazione, che sempre più ne sperimenta l'integrale verifica. Ed è questa necessità a determinare la pro-

DE CASTRIS

- DAL

FERMO

AI PROMESSI

SPOSI

189

fonda conversione strutturale che rinnova l’infuocata materia del Fermo e Lucia nella pacificata sostanza dei Promessi Sposi, condizionando il progresso della ventisettana nei diversi livelli del suo organismo « formale »: nel passaggio da una lingua approssimativa ed eterogenea ad una lingua intensa e unitaria, che, istituzionalmente convenzionale, si

ricolma poi ben più concretamente di virtù realistica nella dinamica funzionalità dello stile, della concertazione sintattica, della orchestrazione organica dei piani del racconto; e, a livelli più complessi, nella diversa misura e destinazione degli interventi extra-narrativi (soppressione delle parti moralistiche e interruttive,

maggior

ricorso

all’anonimo),

nei ta-

gli e nelle sospensioni degli episodi e dei capitoli, nella risolta organicità degli sfondi storici con le vicende « private », nella costruzione più motivata e coerente dei personaggi e delle loro azioni, nella maggiore interiorità delle « cause » narrative, delle sfumature psicologiche e dei contrasti morali. Il rapporto,

insomma,

tra il Fermo

Sposi del 1827 è del tutto analogo una

sceneggiatura

provvisoria

e i Promessi

al rapporto

ed una

definitiva

tra re-

gìa, tra un canovaccio che tutto accoglie e un controllato montaggio, una vigile scelta formale. Senonché, come insufficiente e parziale ci sembrava un esame rivolto a descrivere il sistema strutturale del romanzo senza preoccupazioni di carattere genetico, altrettanto insufficiente, e illusoriamente diacronico, ci sembrerebbe un esame che si fermasse a

puntualizzarne, in sede psicologica o stilistica che sia, il progresso artistico e l’affinamento espressivo. Si tratta certamente di un processo di illimpidimento e di ascesa dell’ispirazione: ma d’un processo la ‘ cui ragione direttiva non fu già un astratto ideale -di bellezza, bensì una precisa e concretamente orientata volontà di poetica. Si tratta di una ricerca che

î

190

MANZONI

E I CRITICI

oggettivamente realizza un progresso estetico, .ma che non può spiegarsi, e caratterizzarsi criticamente, come pura ricerca di maggiore espressività, quan-

do non si liberi questa parola dalla sua neutralità e non la si ricolmi di significati storicamente manzoniani. Quel travaglio di correzione fu certamente una complessa scelta formale: ma proprio in quanto condotta in funzione di un ideale di « forma » arti stica, che per Manzoni

nasceva,

e sempre più si ma-

turava, come mediazione operativa di un ideale più generale, d'una visione del mondo e d'un programma

organico

di ricerca.

La forma tragica aveva disilluso la poetica storica del Manzoni: riprecipitando, ad onta d'ogni paziente e progressiva riforma, nel « romanzesco » di Adelchi quell’inesausto bisogno di ragione e di verità. E da quel fallimento drammaticamente sorgeva l’esigenza e il recupero d’una « forma » nuova, che insieme accogliesse i fatti e le loro ragioni, e rendesse possibile l’oggettiva autonomia del loro integrarsi e dialettico illuminarsi. Sicché, dopo la faute di Adelchi, Fermo

e Lucia

rappresenta

questo

entusiastico

rinnovato tuffo nella storia, quest’ansia di libertà nel reale, questa violenta passione di fatti, di fonti vere;

e, insieme, questa praticamente

illimitata pos-

sibilità di commento, di integrazione morale e di esplicita demistificazione, Proprio il grande spazio strutturale della forma narrativa consente una accumulazione grandiosa, oggettivamente eloquente, di dati reali ed episodi storici, e, insieme, il massimo impiego esplicito di quello strumento di giudizio, di quell’intervento diretto dello scrittore. Male e bene, caduta e riscatto, sono lì a fronteggiarsi in misure massicce,

realizzando,

in tale compensazione

prov-

visoria di opposti, una prima rudimentale dialettica tra ideale e reale. L'ambigua, passionale ed anarchica, libertà strutturale del Fermo è un getto conti nuo, che investe tutto e tutto accoglie del materiale

DE CASTRIS

- DAL FERMO

AI PROMESSI

SPOSI

191

storico di cui dispone: materia grezza che si infittisce senza un interno equilibrio, e appena ingenuamente presume di bilanciarsi polarizzandosi antagonisticamente attorno a fatalismi analoghi ed opposti, a misure estreme e irrelate di cronaca pessimistica e di mitologica catarsi, nell'alveo d’uno storicismo crudo e meccanico o di un moralismo violento e sopraffattore. Sulla resistenza irredimibile del male, romanzescamente

accolto

dalle fonti tradizio-

nali (basti pensare alla « signora » di Monza e al conte del Sagrato), si sovrappone l’altro determinismo del bene (il trionfo della purezza cristiana in Federigo e in Cristoforo), anch'esso romanzescamente schematizzato sull’aneddotica esemplare delle fonti religiose (com'è

stato abbondantemente

mostrato,

soprattutto Bossuet e Massillon). È l'estrema libertà della forma aperta, che invocherà poi una sua interna regolamentazione « formale »: quando. di questa parola si cerchino i significati intenzionali, le articolazioni in fieri di quel programma di rivelazione morale della storia e di cattura conoscitiva della realtà. In questo senso appunto i Promessi Sposi rappresentano la correzione dell’abbozzo: perché realizzano

un

mazione

complesso

di scelte

e una

organica

siste-

della materia grezza già registrata e prov-

visoriamente

sistemata

nel canovaccio

del Fermo;

e

definitivamente ‘attuano quella epicizzazione della realtà storica e quella realistica oggettivazione dell'ideale evangelico che erano il dover-essere della poesia manzoniana,

e, più immediatamente,

l'ideale rap-

presentativo in funzione del quale Manzoni aveva ripudiato il genere tragico. Dopo lo « scoppio » della vecchia forma nella struttura aperta e « irregolare » | dell’abbozzato romanzo, i Promessi Sposi segnano il -ritrovamento della forma nuova: quella necessaria alla volontà poetica del Manzoni, all’intenzione di « sliricarsi », all'ambiguo ideale storiografico-morali-

192

MANZONI

E I CRITICI

stico, all'effettivo operare « epico » della ispirazione manzoniana. Il loro centro sistematico è nell’attuazione di una onnipresente regìa, oggettivamente riuscita alla costruzione di una ragionevolezza interna dell'azione (nel suo coerente ascendere dalla irrazio-

nalità del reale alla provvidenzialità dell'ideale realizzato), e tuttavia intenzionalmente perseguìta come strumento di recupero della razionalità obbiettiva dell’azione (scoperta, cioè, del ritmo provvidenziale della storia). La loro novità e il loro progresso sono nella messa in opera e nella prodigiosa organizzazione di strumenti più ambiguamente dialettici, più oggettivamente occultanti; nel continuo sistematico processo di straniamento della realtà (giudizio e angolazione metafisica), tuttavia perfettamente oggettivato e realisticamente ridotto perché perpetrato da un io lirico e morale che a sua volta si-

stematicamente autonomia

scompare,

strutturale

autostraniandosi,

dell’azione;

nella

nella fatica, dun-

que, di misurazione interattiva che lega la storia degli uomini all’epifania della Provvidenza, sino a far sì che l'una appaia contenere in sé l’altra, come suo senso e ratio immanente, come sua intrinseca norma e principio di autonoma spiegazione. Ogni pur minimo segno del sistema strutturale dei Promessi Sposi concorre pertanto, come vedre-

mo, ad una rappresentazione estremamente aderente alla storia oggettiva (l'epoca, i costumi, l'invenzione estremamente concorde alla verità, anzi costruita su pezze d'appoggio documentarie; tanto da apparire necessaria appunto e soltanto, come voleva la poe-

tica della Lettre, ad un maggior rilievo della storia stessa), e insieme estremamente « montata », condotta su un piano di costruita e preordinata provvidenzialità. Tutto il male e l’irrazionale vi appaiono straniati, idealisticamente corretti e razionalmente destinati;

ma

sempre

dall’interno

delle azioni, delle

DE CASTRIS - DAL FERMO AI PROMESSI

SPOSI

193

motivazioni oggettive, della psicologia autonoma dei personaggi. Tutto credibile, e, insieme, capillarmente tendenzioso: sembra davvero uno sviluppo autonomo, aperto a infinite soluzioni, ma poi concluso nell'unica coerente e possibile. È un determinismo esterno, metafisico, che Manzoni ha saputo rappresentare come interno, storicamente prodotto dalla razionalità ineccepibile di quelle azioni e di quei personaggi. Perché come tale lo credeva e lo voleva possibile: e credeva di attuarlo attraverso una totale e . implacabile eliminazione del romanzesco, dell’imprevisto, del casuale, del finalistico e dell’immediatamente esemplare e tipologico, dell’orribile senza luce e della purezza senza umanità, del male puro e del bene esclusivo. All'interno d'una vivissima e sovrabbondante materia, disponibile a tutte le utilizzazioni e già utilizzata in direzioni disparate e talora incoerenti, la conversione sistematica da cui nasce la ventisettana

procede

a realizzare

una

sorprendente

mi-

sura di « epicità oggettiva », il risultato di una massima interiorizzazione fenomenologica della logica provvidenziale: esorcizzando senza remissione tutto il repertorio dell’« interessante » tradizionale, classicistico, secentesco, e altresì romantico; tutta la dram-

maticità plateale del gusto romanzesco, tutto il fatale e il catartico ch’erano i topoi delle religioni letterarie e delle mitologie tradizionali, e che tornavano ad esserlo, mutatis

mutandis, nella mitologia ro-

mantica; e attuando invece, nell’ambigua organicità che solo l’arte. poteva concedere, il sogno di una religione razionalizzante, di una storia cristianizzata, di una umanità protetta e riscattata dalla morale del Vangelo. ARCANGELO

LEONE DE CASTRIS *

* Da L'impegno del Manzoni, Firenze, Sansoni, 117-123. 7 - Caretti

1965, pp.

194

MANZONI

STRUTTURA

DEI

S'impara, checché

E I CRITICI

« PROMESSI

SPOSI »

si dica in contrario,

a cercare

fra gli scartafacci, quasi lo stesso che nei libri perfetti (nocturna

versate

manu,

versate

diurna,

è il

caso). Questo libro degli Sposi promessi! è pur sempre fertile di sorprese, e aiuta, s'intende, a trovarne nei Promessi Sposi. Il Manzoni lo cominciò in un anno pienissimo, il 24 aprile 1821, lo compì il 17 settembre 1823; alla fine del secondo tomo, o al prin-

cipio del terzo, s'era al 28 novembre nove

mesi

durò

a scrivere

i primi

1822, Dician-

due tomi, meno

che dieci gli altri due. Si dirà: nel primo tempo ebbe altro cui attendere: il Marzo 1821, il Cinque maggio, e finire l’Adelchi, ed essere dentro alla terza ripresa della Pentecoste, con più vasto respiro, dopo che aveva scritta e compiuta la Morale cattolica. Ma

c'è quasi di più, proprio in riguardo al libro in sé, come dire porre le basi, sistemarlo; e nella prima sistemazione,

al secondo

to a gomito,

insieme

mendi

della monaca

tomo,

ecco

congiurare,

di Monza

trovarsi, gomi-

i due episodi tre-

e del conte

del Sa-

grato; tra i quali nei Promessi Sposi getterà, a dividerli, i sei e sette capitoli culminanti nel divinissimo diciassettesimo (con andamenti di poema), la fuga di Renzo (e negli Sposi promessi, detto di pas-

sata, tre o quattro ‘pagine di appunti, poco più d'una traccia: quello fu veramente il premio e la grazia d'una storia ben complessa, e quasi il riscatto d'una lunga fatica). Al terzo tomo, comincia quella che io chiamerei la seconda parte del libro, con la scena tra il cardinale Federigo e il conte del Sagrato; prosegue nel tomo quarto con la fila di « quei successi, 1 È da intendersi propriamente romanzo

il cui vero

titolo è Fermo

la prima e Lucia.

redazione

del

DE ROBERTIS

- STRUTTURE

DEI

PROMESSI

SPOSI

195

varii e molteplici », che « si riducono a tre principali: fame, guerra e peste ». Ma tutto, all’improvvi‘so, diventa provvisorio, precipitoso, verso la fine; e

dei capitoli conclusivi dei Promessi Sposi non più che un abbozzo. (Io dico che questo peserà nella stesura definitiva, dove appunto parve ad altri, e pare a me, che al Manzoni mancasse la fantasia a dar la giusta durata, trattenere un poco il corso degli eventi, per allontanar l’idea d'un dramma a lieto

fine, quando tutto s’aggiusta, anche l’arte e il ritmo. del narratore). Perché mai, nei Promessi Sposi, tra i due capitoli di Gertrude e i due, o poco più, dell’Innominato, interpose, a dividerli, ad allontanarli, quella serie di vicende che avranno Renzo (sempre lui) a protagonista? Guardiamo un po’, pensiamo allo sviluppo. estravagante che assumono negli Sposi promessi le parti dove campeggiano la monaca di Monza e il conte del Sagrato, ed Egidio terzo personaggio. Certo quell'idea (la tentazione, direi) di comporre e colorire nel gusto del romanzo nero, del romanzo popolare, di spingere le cose agli estremi, quell’idea

deve aver operato, più d’ogni altro, a peccare contro la misura. Prenderemo un esempio piccolissimo, ché l'imponenza di certi sviluppi sono nella memoria di tutti; ci fermeremo a un riflesso linguistico, a un tratto d'espressione parecchio significante, a noi sembra (tomo

II, cap. VIII):

« Fatta

così la risoluzio-

ne, si rivolse al conte e disse: “Dugento doppie, signor conte: l'accordo è fatto”. ‘“ Cinque e cinque,

dieci”, rispose il conte »: nell’infame contratto, ricordate, tra il conte del Sagrato e don Rodrigo. « E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse

alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese... ». Infatti, nel Cherubini: « Cinqu e cinqu des, detto del prendersi mano a mano in segno d’amicizia e umione »; ancora: « quando si vuol esprimere

196

MANZONI

E I CRITICI

reciproco accordo, alludendo con ciò all’atto di toccarsi la mano ecc. » (il Manzoni, apposta ritardando,

mettendo comune,

la cosa sotto gli occhi: che accennando

«... una formola

il numero

delle dita di due

mani congiunte... »). E per citare un esempio diverso: quel capitolo intero del tomo, dato a don Ferrante e alla sua strana famiglia; quasi una storia a sé, prolungata tanto, con cento minuzie; sussurrante di manie, pettegolezzi e vecchiume (e il simile si direbbe delle stesse vesti). Qui musa è la dismisura, e risultato ultimo, per quel serbare

i contatti

tra i due episodi, estesi fitti, una specie di soffocazione. Ma portata a termine questa esperienza, il Manzoni fu salvo; ridusse quei tanti capitoli in armonia col tutto, e per un bisogno d'ordine e di verità diede a Renzo una parte, che Renzo assunse da par suo: una pausa nel grande dramma. Sarà

una

mania,

certo

(una

delle

tante...),

care nelle cose dell’arte le belle proporzioni.

cer-

Per il

Manzoni, appunto, trovai, molti e molti anni fa, simmetria negli Inni sacri (Il Natale, 56 e 56 versi, e il medesimo ne La Risurrezione); e strutture, dove sempre acquista di valore la poesia, nei cori (come nel

primo dell’Adelchi, che diede da fare alla Censura; che tolse, cassò, per ragioni

sue, contribuendo,

sen-

za saperlo, a sanare uno squilibrio; e il Manzoni dietro, acquietandovisi, per tutt’altre ragioni, ma che venivano a collimare con quelle). Ma questo dei Promessi Sposi mi pare l'esempio massimo, e forse non è tutta invenzione. Sappiamo che la prima edizione era divisa in tre tomi, il secondo cominciando al capitolo dodicesimo, il terzo al venticinquesimo. Ora, quando si dice tomi non si dice parti; trattasi d'una esigenza pratica, e per lo stacco che acquistarono nei Promessi Sposi, al confronto degli Sposi promessi, gl’'inizi di capitoli, per un'arte somma, per un toc-

co maestro,

che difficoltà

dar l'illusione

al lettore

DE ROBERTIS

- STRUTTURA

DEI PROMESSI

SPOSI

197

che quella divisione risolvesse anche un problema d'armonia, un problema di più vasta portata? Ecco dunque:

« Quel

ramo

del lago

di Como... », « Era

quello il second'’anno di raccolta scarsa... », « Il giorno seguente, nel paese di Lucia... ». Ma nell'interno del romanzo, proprio per una forza interna che lo trascende (è la mens divinior, è l’est Deus in nobis);

e sfugge forse, per salvare la nostra superbia, può sfuggire al poeta stesso, ma nelle opere parla, agisce in loro; nell'interno del romanzo, per virtù di quel semplice spostamento, di quel dado gettato per azzardo, e per la individualità che assumono nel nuovo ordine le parti; quattro son esse, e s’appoggiano, o infrangono,

come

contro

tre colonne,

tre impedi-

menti (quasi tante presenze della provida sventura), Gertrude, l’Innominato, la peste (ai capitoli IX-X, XX-XXI, XXX-XXXII). « L’urtar che fece la barca... », e non

sa Lucia contro

chi e che cosa propriamente

sta per urtare; «Il castello dell’Innominato... », e cerchi il lettore cinque pagine addietro chi è questo « terribile uomo », prima

di vederlo

in azione;

« La peste... », tremenda parola (« La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero... » più grande di quei timori, che il periodo, sospeso a lungo, sembra misurare). Ora, queste quattro parti, sono di durata pari, o all'incirca; se non fosse l’ultima che, s'è detto, sulla fine si fa lieta e corriva. Nella prima e nell'ultima, i due protagonisti sono

insieme, vicini; entrano,

sul

bel principio, nel loro mare di guai che nemmeno sospettano, ne escono, con che amari ricordi. E nel mezzo i due grandi a soli, lì Renzo qui Lucia; e Lucia che non avrebbe osato distrarre la mente da ciò ‘che oscuramente le sovrastava, sempre internata neldla sua parte (« Io non sono andata a cercare i guai... »), di tempo in tempo (Gertrude, l’Innomina-

198

MANZONI

E I CRITICI

to, la peste), a così crudeli scadenze, sola (ma nell'animo, incrollabile, « la fiducia in Dio »). Se non è tutta invenzione (è tale davvero?), non s'ha da vedere in quest’armonia di parti, in queste simmetrie, il più alto segno della raggiunta perfezione (quell’architettura tanto simile al segreto e all’ineffabile della

musica); l'organismo vivo del libro, dove tante volte le potenze dello scrittore sono fin troppo « dimostrate », e nell'ultima somma si traducono in un puro rapporto di cifre sublimi? Il bello era a sentir Renzo, dice il Manzoni preparandosi a concludere (sentirlo « raccontare le sue avventure », e « le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire »); e a Lucia pareva, dice, « così in confuso »,

« che ci mancasse qualcosa » (« e io, cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai:

son

loro che sono

venuti

a cercar

me »). Sic-

ché, « dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero... ». Negli Sposi promessi manca per l’appunto quest'unisono:

è Lucia,

essa

sola, a concludere;

e quanto perde la morale («il sugo di tutta la storia »), senza la forza di quell’accordo, trovata invece da una « donnicciuola ». Ma nei Promessi Sposi, tro-

vata da tutti e due (« da povera gente » dice). E penso che sarebbe mancato qualcosa, a finire la simmetria, in quest’ultima parte, usciti i due protagonisti dai guai, senza la lezione dei guai (appresa, dico, da loro due insieme). GIiusEPPE

CONVERSIONI

DE ROBERTIS *

STILISTICHE

Si direbbe che Fermo e Lucia, oltre che un abbozzo, costituiscono anche il journal dei Promessi * In « Paragone », 2, 1950, pp. 5-8.

NENCIONI

- CONVERSIONI

STILISTICHE

199

sposi; perché alla sua pagina par consegnato ciò che al poeta a tu per tu col suo lavoro veniva in mente, sia che attenesse all'opera organicamente, sia che l'opera stessa, potentemente viva, reagendo sull’autore, glielo suscitasse dentro. Una partita doppia in cui l’« avere » ci sembra raccolto in quelle digressioni o persecuzioni amare, ora mordenti ora solenni, dove traluce la scuola dei moralisti e degli oratori sacri francesi. Ma tutto ciò che i Promessi sposi potevano

essere

e non

sono

stati si può mietere

con:

larghezza. Brani di crudo, magari sguaiato realismo (Renzo gridante con la bava alla bocca [Fermo e Lucia, p. 110]; la scena della vecchia dell’Innomi-

nato [ivi, p. 349 seg.]; per non citare quello truce, tenebroso della storia di Geltrude), talvolta tuffato in atmosfere da romanzo nero, talvolta trasposto in chiave di compiaciuto tecnicismo (la specificazione della flora comasca nell'apertura del romanzo [Fermo e Lucia, p. 18], propagginatasi poi nella vigna di Renzo); psicologismo aggressivo, chirurgico (il rimprovero del padre guardiano al padre Cristoforo « balordo » [Fermo e Lucia, p. 115 seg.]); velati approcci con la passione e con la cattiveria;

umorismo

facile,

quasi faceto, come nell’addio di Ludovico alle ruvide lane, al mondo e al barbiere (ivi, p. 68); confessioni autobiografiche; resti di antiche pompe; gusto insistente

della

notazione

di: costume,

del ritratto,

del colore. Per ognuno dei quali aspetti è stata trovata o può trovarsi una fonte, magari su indiscrezio-

ne dello stesso autore, magari in quel tristo seicento da cui il Manzoni

ha preso,

se non

altro, il gusto

della citazione peregrina; e ne è stata indicata o può indicarsene la ripresa o lo sviluppo nella nostra

| letteratura posteriore, Il ritratto di don ValerianoFerrante: «...capo di casa, ultimo rampollo di una famiglia illustre, che purtroppo terminava in lui, uomo

tra la virilità e la vecchiezza, era di mediocre

200

MANZONI

E I CRITICI

statura, e tendeva un pochetto al pingue, portava un cappello ornato di molte ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano penzoloni e d’altre non rimaneva che un tòrso: sotto a quel cappello si stendevano due folti sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte per sé, e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una minestra: sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di merletti finissimi di Fiandra lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa di... sfilacciata qua e là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico d’argento mirabilmente cesellato, e col fodero spelato gli pendeva dalla cintura; due manichini della stessa materia, e nello stesso stato della gor-

giera uscivano dalle maniche strette dell’abito, e un anello di diamanti sfolgorava talvolta, nell’una delle due sudicie sue mani: talvolta; perché quell’anello passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d’un usuraio; e in quegli intervalli, don Valeriano gestiva alquanto meno del solito » (Fermo e Lucia, p. 495); e il ritratto

di donna Prassede

« se-

duta su una gran seggiola con le mani posate e distese sui braccioli di qua e di là dei quali pendevano le maniche della zimarra di un damasco rabescato a fiori,... col volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero che copriva la fronte, e una enorme lattuga che girava intorno alla gola e sul mento » (ivi, p. 506);

due ritratti

come

questi, tra la caricatura

di un picaresco e la malizia di un Fra Galgario, sono stati, ahimé, soppressi nella conversione,

quando

la

sublimata tipicità dei personaggi li ha fatti parere un divertimento indebito. Ma basterebbero questi due ritratti e l’esaminato ritrovamento di Lucia a farci sospettare che Fermo e Lucia non siano soltanto l’abbozzo e il journal dei

a n

NENCIONI

Promessi

- CONVERSIONI

sposi, ma

STILISTICHE

anche un’opera

a sé —

201

non

im-

porta se incompiuta — da quelli diversa e scritta da un diverso artista; e a farci esprimere il rammarico già espresso a proposito della ventisettana: che Fermo e Lucia siano stati considerati troppo poco per se stessi e troppo in funzione dei Promessi sposi. Neppur qui intendo negare il diritto alla compara-

zione; sostengo anzi che la comparazione, a cui, data la natura una e trina del romanzo, è difficile sottrar-

si, dovrebbe, se condotta in modo rigoroso ed esauriente, individuare e porre nella giusta luce tanto i caratteri propri di ogni stesura quanto i mutamenti

avvenuti pedisce sensi — è il non

nel passaggio dall'una all'altra. una obbiettiva ricognizione in statico e dinamico — dell’opera concepire il confronto che come

natoria;

conseguenza

di una

dicotomia

Ciò che imquesti due manzoniana gara elimi-

estetica eret-

ta a rigido principio critico. Un esauriente confronto tra la forma interna di Fermo e Lucia e della ventisettana porterebbe, credo, a conclusioni analoghe a quelle che scaturiscono

dalla comparazione linguistica. Intanto i motivi fondamentali della ricerca e quindi dell'evoluzione manzoniana sui due piani non sembrano eterogenei. Al fastidio della parola qua talis, dell’oreficeria verbale, che condusse il Manzoni alla elaborazione di un sistema di segni funzionali, corrispose il fastidio del romanzo, dell’arte come finzione; il bisogno di uscire

dalla favola e dal suo futile piacere, restando nella poesia; la volontà di sciogliersi da temi, modi, canoni secolari e prestigiosi (« Se noi inventassimo ora una storia a bel diletto, ricordevoli dell’acuto e profondo precetto del Venosino, ci guarderemmo bene dal riunire due immagini così disparate come quelle che si associavano nella mente di Fermo; ma noi -trascriviamo una storia veridica; e le cose reali non sono ordinate con quella scelta né temperate con

i

202

MANZONI E I CRITICI

quella armonia che sono proprie del buon gusto; la ‘natura e la bella natura sono due cose diverse » [Fer-

mo e Lucia, p. 491]), di rompere con la tradizione, di espungere ciò che, con una presenza centrifuga e porosa, arrestasse l’attenzione del lettore, e far sì che ogni elemento corresse, ovvio ed essenziale, al suo centro di verità. Una conversione siffatta doveva trasporre in tutt'altra chiave la primitiva partitura: dal senso, potremmo dire, al soprasenso; così come la progressiva convenzionalizzazione del linguaggio ne esaltava l’acme simbolica e poetica a spese della preziosità. Caso esemplare (e direi limite) di ciò è la biblioteca di don Ferrante; la quale in Fermo e Lucia, intonata al suo pittoresco ritratto, che la precede immediatamente, si riduce, nonostante le intenzioni, ad un quadro di costume e quasi di genere, con solo qualche sentore d’equivoco e qualche scoperto intervento dell’autore. Tant'è vero che questi, alla fine, non bastandogli un don Ferrante macchietta e volendo elevarlo ad archetipo, ha sentito il bisogno di dichiararne il significato ideale in una postilla accolta tra le varianti: « Don Ferrante era quello che doveva essere, quello che sono sempre stati e saranno sempre gli uomini provetti i quali già da gran tempo hanno veduto dove stia la perfezione del sapere, hanno adottato un sistema e chiuso il numero delle loro idee. La loro avversione, i loro sospetti, le loro ire non sono già contra gli uomini nuovi, ma contra le idee nuove... » (Fermo e Lucia,

p. 852). Postilla che non è interpretazione autentica del don Ferrante presentato, ma proponimento di rimpastare un personaggio di alta tipicità: il nuovo don Ferrante, privo di ritratto e manovrato a doppio

filo, dall'Anonimo e dall’Autore, cui il lettore può dare tutti i volti e tutti i significati, fuorché quello letterale. l La biblioteca

convertita

di den

Ferrante

è, nei

E S PR T

NENCIONI

Promessi

- CONVERSIONI

sposi, il centro

STILISTICHE

di gravità

203

delle allusioni,

sparse qua e là nel romanzo, ai dotti e agli ignoranti, alla scienza falsa e alla vera, e ai limiti di questa. Un lettore sensibile avverte subito che non si tratta, non può trattarsi di una semplice canzonatura del peripateticismo seicentesco; che il senso vero è qui il soprasenso, ammiccato dall'autore con un mezzo tecnico che in questo brano ha la sua applicazione più concertata: un'ironia seria ed ilare, senza precedenti nella nostra tradizione, neppure in Fermo e Lucia,

dove

è acre,

sanguinosa.

Quell'ironia

agisce

sul piano tanto della forma interna che dell’esterna, con effetto analogo: d’aggirare le cose e puntare oltre le parole, portando temi e stilemi tradizionali, scelti, come

tali, di proposito, a risultati che li smentisco-

no. Ecco un altro aspetto della ricerca manzoniana: il nuovo ottenuto senza l’abolizione del vecchio, usando anzi il vecchio, ma guardandolo dall'altra sponda. È, tutto sommato, ta, che si attua senza

una sincronizzazione indiretsostituzione o alterazione di

materia, mediante un mutamento di prospettiva, cioè del rapporto tra i motivi o stilemi tràditi e il ‘“ fuoco” dell'autore. Si legga, in Fermo e Lucia, il noto passo sulla dottrina magica di don Ferrante: « Della magia aveva pure una cognizione più che mediocre, acquistata non già colla rea intenzione di esercitarla, ma per ornamento dell'ingegno, e per conoscere le arti così dannose dei maghi e delle streghe e potere così entrare a parte della guerra che tutti gli uomini probi e d’ingegno facevano a quei nemici del genere umano. Il suo maestro e il suo autore era quel Martino del Rio il quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la materia a fondo, aveva sciolti tutti i dubbi e stabiliti i principi che per quasi due secoli . divennero la norma della maggior parte dei letterati -e dei tribunali, quel.Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti

204

MANZONI

E I CRITICI

stregoni, e che ha saputo col vigore dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione pubblica, che il metter dubbio sulla esistenza delle streghe era diventato un indizio di stregheria. A un bisogno don Valeriano sapeva parlare ordinatamente e anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva

i segreti dei consessi

delle streghe,

come se vi avesse assistito » (Fermo e Lucia, p. 497). La prima parte è un

quadretto

di costume,

se non

di genere, intonato su un’ironia elementare che non vale, nella seconda, a filtrare lo sprezzante giudizio sul secolo « professore d’ignoranza e dilettante d’enciclopedia » con cui l’autore entra in scena; giudizio non meno aperto, per quell’ironia posticcia, della condanna del popolo che promoveva o tollerava gli untori (Fermo e Lucia, p. 583). A che giova poi riprendere l'intonazione prima? A'far sentire ancora di più il logoro di quei modi impiegati con sì indifesa confidenza, la durezza di quella modulazione; a scadere nel comico più ordinario, servito, com’era inevitabile, da una materia verbale non meno stanca e vischiosa, che sornuotano, per colmo di disgrazia,

tessere dantesche. i La conversione è invece condotta con procedimento coperto, diffidente: i mezzi sono gli stessi, ma sapientemente graduati e scalati entro una prospettica distanza. È la tecnica dell'ironia concertata. Proprio a proposito della dottrina magica di don Ferrante, sentendo che l'argomento non offre margine

di sicurezza

ad un'ironia metafisica

in proprio, il

Trasorittore l’affida all’Anonimo: se la veda lui, che vive nel mondo. di don Ferrante. E l'Anonimo fa il

dover suo, dandoci un impassibile sorriso sul volontario e frivolo asservirsi dell'umano sapere: « {Nei segreti] della magia e della stregoneria s'era internato di più, trattandosi, dice il nostro Anonimo, di scien-

NENCIONI

- CONVERSIONI

STILISTICHE

205

za molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare. Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuto altra mira che d'’istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de’ maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell’infinite specie che, purtroppo, dice ancora l’Anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malie, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate erano le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia...» (I Promessi sposi 1840, p. 471 seg.). « Ugualmente vaste e fondate... »: l'ironia passa ora nelle mani del Trascrittore, conseguendovi la più divertita malizia; come in quel perfido passo sulla filosofia antica, che manca

in Fermo

e Lucia:

« Della

filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava di continuo lettura di Diogene Laerzio.

imparando di più, dalla Siccome però que’ siste-

mi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore...» (ivi, p. 740); dove l’ordinarissima

normalità

è

in ragione diretta dell'indice di reticenza e di pregnanza, sì che il tutto equivoca tra il significato proprio, affatto legittimo, e il soprasenso imposto, se altre spie non bastassero, da quel « belli », così felicemente (per chi sa che cosa «bello » può significare per il Manzoni) preferito, fin dalla prima edizione, alla variante « ingegnosi ». Ma subito dopo, scendendo da quel culmine, il Trascrittore passa le redini dell'ironia nelle mani di don Ferrante, dove . si modula festosamente: « E più di una volta disse, _con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose

206

MANZONI E I CRITICI

tanto chiare quanto si potrebbe credere » (ivi, p. 471). Ognuno vede quanto siamo lontani dalla grezza ironia che nell’abbozzo tiene tutto l'episodio sotto una luce fissa. Questa tecnica permette al Manzoni d’impiegare impunemente

i più consacrati

stilemi;

e con

tanto

più frutto, quanto più sacri essi sono. Si guardi la spericolata climax in crescendo a lode, diciamo così, di Valeriano Castiglione, autore di quello Statista. regnante che terminò per don Ferrante la questione del primato tra il Segretario Fiorentino e Giovanni Botero; o si prenda l’elencazione, scandita dall’anafora e dal parallelismo, a conclusione dell’architet-

tatissimo periodo sulle cognizioni di don Ferrante in fatto di filosofia naturale: cose che avrebbero mandato in visibilio il più arcigno maestro di rettorica. L'interessante è che nell’abbozzo la climax è assai meno

spericolata, l’elencazione contratta, minimizza-

ta o (per rettificare il senso del tempo) in germe. Se, per un momento, ci immedesimiamo nell’arcigno maestro

condo messe

di rettorica,;

non

dirò entrambi,

ma

il se-

brano non può appagarci. Vediamo 'le' predi quell’ottima dispositio, e non le troviamo

mantenute;

pregustiamo

i flexus e i nexus,

le itera-

zioni, gl’incisi, le riprese nell’ascesa della parabola; e quel digradare a cascata, attraverso una variante isocolia, di cui abbiamo nell'orecchio modelli egregi; ma deploriamo l'occasione sciupata. « Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle

fonti, e non teneva nella sua biblioteca, né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride; giacché come abbiam detto

Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto semplicemente: sapeva però le cose più importanti e le più degne di osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave nell'alto mare, che l’unica

NENCIONI

- CONVERSIONI

STILISTICHE

fenice rinasce dalle sue ceneri, che la salamandra

207

è

incombustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio lentamente indurato » (Fermo e Lucia, p. 498). Tutt'altra cosa, ineccepibile, la conversione definitiva, che, lungi dal mutare lo schema della prima stesura, sretoricizzandolo, svolge tutte le risorse della

sua dispositio. « Della filosofia naturale s'era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse ‘ d'Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno... ». L'avvio par quasi lo stesso, con due invece di tre coordinate, che però là, stipate di notazioni pedanti e impacciate di adipe verbale, avevano

una funzione

di logica, qui iterano uno stesso ritmo, come a prendere più forte lo slancio e a dirigere oltre l’attenzione del lettore. « .. non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum del Cardano, al Trattato del-

l'erbe, delle piante, degli animali d’Alberto Magno, a qualche altr’'opera di minor conto... » [questo nuovo crescendo a ritmo ternario, oltre che creare, con lo spiegamento di citazioni prestigiose, il clima del parturient montes mancato nell'abbozzo, inarca l’accumulato slancio, così superbamente da reggere, nella discesa epifanica, lo snodarsi più articolato e diramato]

« sapeva

a tempo

trattenere

una

conversazio-

ne ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l'abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come . le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle

— conchiglie; come

il camaleonte

si cibi d’aria; come

208

MANZONI È I CRITICI

dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andare de' secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura » (I Promessi sposi 1840,

p. 471).

Ma, gettata la toga di Cornificio, dobbiamo domandarci perché il Manzoni, invece di dissolvere lo schema rettorico dell’abbozzo, lo ha portato alla fio-

ritura estrema; perché lui, che tollerava la rettorica a patto che fosse « discreta, fine, di buon gusto », si è compiaciuto di questa, indiscretissima. Dove se n'è andato l'ideale della lingua parlata (sia pure dalle persone colte), della lingua non letteraria? O forse, nella biblioteca di don Ferrante, a fianco dell’astrologia, della magia e della scienza cavalleresca, la rettorica rivendicava un seggio? Qui, mi pare, sta la

risposta: don Ferrante, letterato del secolo suo e epistolografo all’Achillini, non poteva esser presentato che con la tecnica della sincronizzazione indiretta; quella stessa che consente al Manzoni di usare i luoghi più comuni, le frasi più fatte, isolandole dal contesto entro un castone di distacco o d'’ironia. Nella biblioteca di don Ferrante la rettorica, malgrado le apparenze,

non

regna;

serve

il ritmo, non

retto-

rico ma poetico, che incalza oltre le clausole, i capiversi, i paragrafi, in riprese e concatenazioni maliziosissime; serve di veicolo a un'’ilarità così eterea,

così libera, che gode financo, preziosamente, e della propria concertazione, Questo, diciamo pure, preziosismo

di sé

manzoniano

è

una conferma che la prosa dei Promessi sposi costi‘ tuisce un frutto letterario;

letterario, anche

se isti-

tuzionalizzato. Aveva ragione il Caix negando la fondatezza teorica del sistema della tabula rasa; aveva

ragione di affermare che «la lingua, come l'arte, la scienza, la religione ed ogni manifestazione dello spirito umano, ha una tradizione, un'eredità che s’in-

grandisce, si eleva, si perfeziona per il lavoro delle

NENCIONI

generazioni, e modificare,

- CONVERSIONI

STILISTICHE

e che noi possiamo ma

non

209

svolgere, ampliare

disconoscere,

se non

vogliamo

tornare nell'infanzia ». Ma in pratica neppure il Manzoni, nonostante certi-rigori della teoria, aveva applicato quel sistema; né certo era suo proposito, neppure in teoria, di impoverire e municipalizzare la cultura e la lingua italiana. Tanto poco municipale è la sua prosa, che in un linguaggio che avrebbe voluto coincidere con un dialetto i modi più municipali, se non siano, come accade soprattutto per quelli lombardi, ironizzati dallo scrittore, sanno troppo di natura. A malgrado o meglio in virtù delle sue contraddizioni il Manzoni è giunto al nuovo e importante risultato di creare una lingua letteraria che, sincronizzata direttamente o indirettamente con la norma istituzionale

contemporanea

e, per lo più, sovramu-

nicipale, feconda l’attualità di questa con la tradizione e l'invenzione dell’autore, conseguendo una unità a più dimensioni. GIOVANNI

I VERSI

‘[...] questa Manzoni

faccenda

NELLA

NENCIONI *

PROSA

dei versi

nella prosa

del

(versi a bizzeffe) è fin troppo insistita, per

tornarci su noi. Vorremmo solo giustificarla come un « colmo » creato

da un particolare stato d'animo;

e

non una pura esigenza d'orecchio. Un’onda c'è, l’onda del verso; ma è il sentimento che chiama l’onda. Quindi qualche cosa di vivo. Versi appena avvertiti, dissimulati, attaccando una descrizione di paese:

È Pescarenico una terriciola..., * Da Conversioni dei « Promessi Sposi», della letteratura italiana », 1956, pp. 63-68.

in « Rassegna

210

MANZONI È I CRITICI

che pare un endecasillabo del Pascoli, tanto vagola su ritmi più che non cammini per accenti. A dar l’ora del giorno: Intanto il sole era andato sotto;

a chiudere un capitolo, una scena: E tutt’e

tre

salirono

Altri, allegri come ballo

il principio

Andiamo, andiamo, è giorno fatto;

o di suono

in silenzio.

d'una canzone

signora sposina,

severo, quasi foscoliano:

alla quiete

solenne

della notte,

che si fa, altrove, più severo: alla

quiete

solenne

della morte.

Questa è l’istantanea del dottore: con gli occhi fissi e con le labbra strette

e questa è Lecco ;

che s'incammina

Renzo

a diventar città.

sull'Adda,

e vide l’acqua luccicare e correre;

Renzo in cammino: Renzo

s'incamminò

con

la sua

pace;

a

ANGELINI

ancora

Renzo verso

- I VERSI

NELLA

PROSA

211

casa,

sotto un bel cielo e per un bel paese.

. O quest'altro (ma non elidete la copula, come certi antichi lisi versi di Dante): mille visi e mille barbe

in

in aria,

o, che è lì vicino, e non è men bello, dalla vista di tanti visi fitti,

e pare aspetti la rima. Ancora, e come a caso: una

cintura

lucida

di cuoio,

martellato e fermo, quanto quest’altro è fragile, fuggevole, come un capriccio di vento pennacchioli

argentei e leggeri.

Uno è popolaresco e grande, in un andirivieni

di montagne;

un altro par d'un moderno, andando

con lo sguardo dietro il suono.

Don Abbondio e le berlinghe nuove: Le contò, le voltò, le rivoltò.

Piazza deserta: Non

incontraron

anima

vivente.

212

MANZONI

Annuncio

E I CRITICI

di sciopero:

Gli operai milanesi

Comari

alzan la cresta.

in capannello:

Così, a corserelle

e a fermatine...

Case sparse sul pendio, come

branco

di pecore

pascenti.

Un fiore che s’arriccia, si contrae, sensitivo, nell’afa che precede

la burrasca.

O questi altri, parlati, intonatissimi con Lucia che

soffre e prega: il Signore c'è anche per i poveri; fatemi

tornar

salva

con

mia

madre.

E chissà se il lettore s'è mai accorto che l’ùltimo periodo dell’« Addio » famoso è in endecasillabi travestiti, dimessi, Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto, e non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne...

Oppure, che mette i brividi, questo sulle dita di don Rodrigo appestato: | livide ‘tutte, e sulla punta

nere,

che pare concertato, ed è certo dei più sapienti versi, quasi messo

lì a chiudere una terzina. Chiude infat- .

ti un periodo. moroso,

E riferiamone

un

altro, lungo, ru-

en de

ANGELINI

rideva

allora

- I VERSI

NELLA

PROSA

213

sgangheratamente.

La cocotte di Gozzano?

No, la monaca

di Monza.

Né indugeremo a vendemmiar settenari in questa melodia lunga; ma due soli, che esaltano il pudore di Lucia, quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, : che

senza

trema

nelle

tenebre

saper di che,

spiccati, paiono, dal coro dell’Ermengarda,

e dànno

a tutto il periodo un occulto, misterioso tremore. Staccatosi dalla lirica, il Manzoni aveva abban-

donato il verso; ma il verso non abbandonò travestì; e, a tacita orma,

lui; si

s’insinuò nella sua prosa,

ne ritmò i particolari, per dar loro una specie di universalità, com'è privilegio del verso, che più facilmente si stampa nella memoria. Ma nessuno pensi d'avere, così, scoperta la formola del periodo manzoniano, come fu scoperta, poniamo, quella d’annunziana

in un impegno

dattilico.

Non ostante la presenza di molti e molti versi (qualche pedante li ha anche contati) il periodo manzoniano delude tutti gli schemi, sfugge tutti i modelli, rompe le formole: nuovo e vario, libero e fresco co-

me l'apice d'un getto. CESARE

ONOMASTICA

ANGELINI *

MANZONIANA

« Alessandro Manzoni, ponendo mano alla tela del suo romanzo, in fatto di nomi l’ebbe sulle prime pa* Da La poesia della lingua, in Capitoli sul Manzoni chi e nuovi, Miîlano, Mondadori, 1966, pp. 155-159.

vec-

214

MANZONI

E I CRITICI

recchio malcerta. A parte quello luminoso della ‘ promessa sposa” che dal primo momento gli brillò nella fantasia come stella ferma e propiziatrice, i più degli altri subirono delle oscillazioni. » Così Antonio Baldini, in una di quelle Microscopie manzoniane, uscite le più sul « Corriere della Sera », che col sopratitolo « Quel caro magon di Lucia » sono state poi raccolte da Ricciardi in un leggiadro e sempre proficuo volumetto. (L'assunto di Baldini verteva sui soprannomi dei bravi, parte rintracciati nei gridari del tem-

po, parte faticosamente elaborati dall'autore, salvo poi a depennarne il maggior numero dalla redazione stampata.) Ma qui sembra imporsi un supplemento d'inchiesta: perché fin dall'inizio quel brillare saldo e propiziatorio? Perché Lucia ebbe il nome di Lucia? È questa una domanda del tipo che di tanto in tanto giravamo a Baldini, così che, ora che non gliele possiamo più rivolgere, la presente scheda si configura come una specie di lettera postuma. Ma è, di più, una domanda che fatta a priori può apparire insensata (a meno di voler estendere alla Lucia manzoniana le procedure divinatorie adottate per trivellare l'omonima dantesca, certamente pregnantissima di significato); una domanda dunque, che è lecito formulare solo dopo aver trovato la risposta,

ossia dopo aver congegnato

in forma

di ri-

sposta un dato di fatto un po’ sorprendente. All'interrogazione stimolerebbe, per la verità, la generale faticosità dell'invenzione (quella onomastica naturalmente) manzoniana, quale Baldini stesso documenta per i cognomi, illustrando la metamorfosi di Spolino in Tramaglino, entrambi così professionalmente «.motivati » (nel senso tecnico dei linguisti), dunque così illuministicamente striduli e caricaturali. Che i | partiti sfumati di Perpetua si chiamassero Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna, ecco una moda- : lità di tipizzazione adatta, faccio per dire, a Candide

|

i

CONTINI

o magari

- ONOMASTICA

ai Paralipomeni

MANZONIANA

della

215

Batracomiomachia,

ben di qua dall’abisso oltre il quale sta il sincero, impregiudicato, courbettiano realismo dei Flaubert, e addirittura, su tal punto di scelta, la prassi dei Balzac, anzi degli Stendhal; restando peraltro inteso che questo è un illuminismo permanente, se perfino Musil, nella sua tetra, fatale novella della Grigia (mediocre scampolo tanto apprezzato da Hofmannsthal), non si terrà dall’infliggere a una sua comparsa (l'eroe è denominato Homo) la vera e propria smorfia di Mozart Amadeo Hoffingott.

La domanda

su Lucia, per maggior esattezza, an-

drebbe, a tenore della risposta, formulata in termini un po' diversi. E cioè: perché Lucia è Lucia? E perché Agnese è Agnese? La punta della domanda ri siede proprio nella congiunzione. Detto ancora più in chiaro: se la consecuzione Lucia-Agnese fosse contenuta in un altro testo, familiarissimo al Manzoni per frequentazione press’a poco quotidiana, la molla della sua scelta, per solito così difficoltosa, apparirebbe palese. L'ordine è infatti, non solo topograficamente,

quello

indicato:

di Lucia

si discorre

da un

po’, ed essa è già in scena, quando viene nominata,

e dapprima in sua esclusiva funzione,

«la

buona

Agnese (così si chiamava la madre di Lucia) ». Quel testo esiste, ed è incluso nientemeno. che nell’ordinario della messa: è, verso la fine del Canone della Consacrazione, il Nobis quoque. In questa formula il celebrante,

nell'atto

di confessarsi

peccatore

fra

i peccatori, invoca per mera grazia la partecipazione alle gioie celesti cum, dice al Signore, tuis sanctis apostolis et martyribus: cum.. Seguono vari nomi «di santi, poi alcuni di sante, nel cui centro de « (cum) Lucia, Agnete ».

La lettura intera di questo canone

si assi-

femminile

è,

216

MANZONI

ai fini dell’ermeneutica

E I CRITICI

manzoniana,

eccezionalmente

istruttiva e ribadisce, se mai occorresse, che quell’incontro non è accidentale: il cristiano supplica di poter abitare (« cum) Felicitate, Perpetua, Agatha, Lucia, Agnete, Caecilia, Anastasia ». Ciò porta molto

più vicino delle Litanie dei santi, dove la serie comune Agata-Lucia-Agnese-Cecilia è preceduta dalla Maddalena e seguita da Caterina e Anastasia. Perpetua costituisce ovviamente l’elemento. discriminante: tuttavia,

poiché

questo

nome

non

sopravviene

che

nella redazione a stampa, va considerato primitivo unicamente il binomio centrale Lucia-Agnese, salvo il perdurare successivo dell'efficacia dell’intera serie, attiva non soltanto nel richiamo di Perpetua (la quale non per niente entra in scena prima di Lucia), ma

anche (a romanzo

infatti avanzatissimo)

in

quello della prima innominata Cecilia, la morticina che la madre consegna a un tempo al monatto e al Paradiso (« addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme »). Qui si aggancia di necessità una nuova domanda: come mai la bambina si precisa in Cecilia, e come mai soprattutto si modifica in Perpetua la Vittoria del Fermo

e Lucia, munita

cioè di un nome

avver-

tito dal Manzoni abbastanza onesto (troppo nobile, forse, per una serva di curato?) da poterlo assegnare a una delle sue figlie? La risposta a questi spostamenti in positivo si collegherà probabilmente all'unico in negativo: quello per cui la domestica dell’Azzecca garbugli, nel Fermo e Lucia (cioè al tempo che il suo datore di lavoro era Pettola o Duplica) chiamata Felicita, diventa, lei, innominata.

Anche su

costei è illuminante un capitoletto di Baldini: solidale col « manutengolo dell’oppressore », « c'è da supporre che Felicita si andasse a confessare da don



CONTINI

- ONOMASTICA

MANZONIANA

217

Abbondio e non da padre Cristoforo ». Se quello, prima fosse solo accessibile repertorio, si definisce anche manzonianamente come un canone onomastico di sante, si capisce che la collaboratrice del complice di Rodrigo ne venga espunta, annessa in cambio l’innocente già virtualmente presentata nella gloria celeste. Quanto ad Agnese e a Perpetua (Lucia non è certo di ostacolo all'apologeta), non è dubbio che, ad onta delle loro peccadiglie, l’autore le collochi dalla parte dei giusti, come oves alla destra del Fi-. gliuol dell'uomo. Non si perda di vista che il Nobis quoque è l'atto di speranza d'un peccatore: « Nobis quoque peccatoribus famulis tuis, de multitudine miserationum tuarum sperantibus, partem aliquam et societatem donare

non

digneris »;

aestimator

« intra

quorum

meriti sed veniae,

nos

consortium,

quaesumus,

largi-

tor admitte ». Per l’identificazione del fedele, di questo fedele, con l’orante sarà troppo temerario notare che nel canone maschile dei santi è Alessandro, il patrono stesso dello scrittore? Il ragionamento fatto fin qui ricopre gli effettivi muliebri, quelli, superfluo specificare, che l’auiore, implicito e discreto giudice (niente dell’arroganza dantesca), scorta nel regno dei cieli. Non si pretenderà dopo tutto che sia esibita come esemplare, non diciamo Gertrude, ma Prassede (ex-Margherita), « una

vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare;

ma

che

purtroppo

può

anche

guastare,

‘come tutti gli altri ». Il testo liturgico indicato non dà invece ragione dei personaggi maschili; né l'’inverso privilegio potrebbe stupire chi conosca o intuisca la profondità, tenacia e si dica pure ardore

dell'inclinazione manzoniana verso l’anima femminile (aggiunta capitale, quelle sante sono tutte martiri: leggasi, forse, eterno femminino martirizzato).

r e

218

MANZONI

E I CRITICI

Ma non è detto che una qualche categoria di sacralità non presieda anche all'elezione dell'oncmastica. virile, cominciando dal protagonista. Non so se Fermo (lo Spolino) non ritenesse, al pari di Abbondio, un aroma lombardo e anzi lariano (Abbondio è il patrono di Como e il titolare d'una fra le più suggestive basiliche del Nord, ma san Fermo passava per bergamasco ed è l’eponimo d'un paese alle porte di Como): l'abbandono del color locale inerente al suo trasferimento in Lorenzo, o piuttosto all'approvazione che il Tramaglino esercita di Lorenzo (nome già assegnato al sagrestano, che si sca! ad Ambrogio), sarebbe mai suscettibile, giusta le esperienze compiute, d’una qualche razionalizzazione? Baldini veramente aveva in pronto l’ingegnosa soluzione che Lorenzo, festeggiato il dieci agosto, succeda al santo del giorno precedente. Si può nondimeno avanzare un'altra constatazione, a rigore non esclusiva dello scatto di calendario. Risalendo, e di non poco, il medesimo Canone della Consacrazione, un nuovo elenco di santi si trova incluso, subito do-

po il Memento dei vivi, nella preghiera Communicantes: ivi ha il suo luogo il nome che cerchiamo, memoriam venerantes ... Laurentii; come ha il suo luogo nelle Litanie dei santi. Queste, anzi, ci danno alquanto di più: «...Sancte Bartholomaee... Sancte Laurenti... Sancti Gervasi et Protasi ...Sancte Ambrosi ..Sancte Antoni ...Sancte Dominice... » (di essi il solo Bartolomeo, preceduto da Filippo — come, sia insinuato per curiosità, fu battezzato uno dei maschi Manzoni, — figura, quale apostolo e martire, anche nella Communicantes). E ora si leggano, nell'ordine, pur diverso, del loro ingresso in scena, i nomi dei comprimari: Tonio e Gervaso, Menico, il detto sagrestano Ambrogio, Bor-

tolo; quasi tutti, si osserverà,

al pari di Renzo-Lo-

CONTINI

renzo

- ONOMASTICA

(eccetto che quando

MANZONIANA

219

gli fanno rappresentare

la parte di Antonio Rivolta), in forma di ipocorismi. Questo connotato familiare, così come la diversità

di origine, distingue il contingente maschile dal femminile, si dica pure gli umili dalle umili. Contingente assai esiguo;

ma

si pensi quanti sono, e pure

individuatissimi, gli innominati del Manzoni (la cui tendenza vera, questo succo esce anche dai presenti appunti, è all’anonimato); per citarne uno solo, perché il suo grandioso effato « Ho moglie e figliuoli » . ricalca, si direbbe non preterintenzionalmente, l’immortale incipit portiano G'hoo miee, g'hoo fioeu, l’interlocutore prudente dell’osteria di Gorgonzola. Chi rimane fuori — non dei nomi della « storia », si capisce, ma di quelli dell’« invenzione »? L’aperta e omologa eccezione è dei ribaldi e dei tiepidi; dove non mancano, è ben noto, i grandi della terra. L’altra di primo acchito non ovvia è quella degli ecclesiastici, dai più oscuri e defilati all'eroico. E potrà

dispiacere che, sia sotto veste di Cristoforo sia sotto veste di Lodovico, l'amato frate sia disgiunto dai suoi protetti. A modo suo, e mutatis mutandis,; si è già

pronunciato al riguardo l’intelligentissimo libro: nessuno

verrà,

spero,

in testa

di dire

che

« A

sarebbe

stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato (il marchese) per un brav'uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v'ho detto ch'era umile, non già che fosse un portento ‘umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari ». GIANFRANCO

* Nel « Corriere della Sera », 20 agosto

CONTINI *

1965.

220

MANZONI

MANZONI

E I CRITICI

E LA LINGUA

D'importanza capitale nell'’annosa questione della lingua fu l'intervento di Alessandro Manzoni. Se il Monti rappresentava le esigenze del classi cismo, il Manzoni era il portavoce delle istanze romantiche. Ma non solamente delle esigenze letterarie: la grande innovazione manzoniana consiste nel trasformare quella che fino allora era stata una disputa di letterati in un problema civile, che coinvolge tutta la nazione italiana. L'esigenza che lo moverà per tutta la vita è quella che il giovane non ancora ventunenne esprimeva in una lettera all'amico Fauriel, il 9 febbraio 1806: « Per nostra sventura, lo stato dell’Italia divisa in fram-

menti, la pigrizia e l'ignoranza quasi generale hanno posto tanta distanza tra la lingua scritta e la parlata, che questa può dirsi quasi come lingua morta », e ciò toglie la possibilità di « erudire la moltitudine ». Nel 1821, nella sua piena maturità (è l'anno del Marzo 1821 e dell’Adelchi, e l’anno d'inizio del romanzo)

il Manzoni

manifesta

la sua idea in versi in

di lingua,

d’altare,

cui canta l’Italia una

d'arme,

di memorie,

di sangue e di cor,

e in una lettera al Fauriel (13 novembre 1821) pone l’intero problema. Mentre uno scrittore francese usando una certa espressione sa già quale effetto produrrà sul suo pubblico, perché ha « un sentiment presque sùr de la conformité de son style à l’esprit général de sa langue », il fatto che in Italia non si tratti

verbalmente in lingua nazionale di grandi questioni, e che le opere concernenti le scienze morali siano così poche fa sì che, se non èx toscano, « il manque

MIGLIORINI

- M. E LA LINGUA

220

complètement à ce pauvre écrivain ce sentiment, pour ainsi dire, de communion avec son lecteur, cette certitude de manier un istrument également con-

nu de tous les deux ». Come si fa a giudicare se scrive in « italiano », se questo termine è definito in mo-

di tanto diversi? Eppure « dans la rigueur farouche et pédantesque de nos puristes il y a, à mon avis, un sentiment général fort raisonnable; c'est le be-

soin d'une certaine fixité ». Se questi sono

Manzoni

i pensieri

ebbe sempre,

e i sentimenti

e che egli viene

che

il.

rimuginan-

do in occasione della stesura di Fermo e Lucia, i modi in cui egli si propone di ovviare alle difficoltà sono ancora molto eclettici: il faut penser beaucoup à ce qu'on va dire; avoir beaucoup lu les italiens dits classiques, et les écrivains des autres langues, les francais sourtout; avoir parlé de matières importantes

avec

ses concitoyens...;

avec cela on peut

acquérir une certaine promptitude à trouver dans la langue, qu'on appelle bonne, ce qu'elle peut fournir à nos besoins actuels, une certaine aptitude à l’étendre par l'analogie, et un certain tact pour tirer de la langue francaise ce qui peut étre mélé dans la nétre, sans choquer par une forte dissonance...

Ma nel lavorare al primo testo edito del romanzo (quello che leggiamo nell'edizione 1825-27) egli viene lentamente abbandonando questo criterio di mettere insieme una lingua composita e si volge all'uso vivo toscano, come i libri glielo possono insegnare. Nelle sue ricerche, egli s’accorge con lieta sorpresa che v'è una concordanza molto maggiore tra i modi fiorentini e quelli dei vari dialetti italiani e in particolare quello che a lui più importa, il milanese. La .« lingua toscano-milanese » che egli dice di vagheg“giare, in una lettera al Rossari del 1825, è quella che si manifesta in tali concordanze: il Manzoni

222

MANZONI

E I CRITICI

scopre con gioia che impiparsi dell'Olanda è modo lombardo-toscano; se si ha in milanese matt de ligà e in toscano matto da legare, così bisogna dire, anche se il Cherubini traduce pazzo da catena. Il viaggio del Manzoni a Firenze nel 1827 fu come una rivelazione; quella lingua tanto faticosamente cercata nei libri, eccola viva, agile, reale, nei fioren-

tini colti con cui venne a contatto. Desiderò d'avere il Vocabolario milanese del Cherubini riveduto dal dottor Gaetano Cioni e dal canonico Giuseppe Borghi; dopo aver lavorato in Firenze stessa a raccogliere le osservazioni del Cioni e del Niccolini sulla lingua del romanzo, chiese al Cioni (il 24 novembre 1828) « d'avere quel mio libro ritoccato da voi, in modo che un lettore toscano non abbia a trovarsi fuor di casa nella seconda lettura ». Poi man mano venne fermando le riflessioni sul concetto dell’« uso »: si veda quel che scrive al Borghi a proposito della

parola orda: « dove l’uso si fa intendere, il vocabolario non conta più nulla per me » (lettera del 25 febbraio 1829), e, a proposito della parola innéggia: «voi sapete che il vocabolario è per me un'autorità ‘ in quanto rappresenta il vostro uso di costì: ...tanto le sue testimonianze quanto il suo silenzio... ai to-. scani, e ai fiorentini in ispecie, non mi paiono da opporsi in nessun modo » (lettera del 7 aprile 1829). Il Manzoni con sempre nuove riflessioni si consolida nella sua idea che come norma dell'italiano letterario debba valere l’uso toscano, anzi (date le varietà che si presentano nell'àmbito della Toscana) l’uso dei fiorentini colti. Nel decennio 1830-1840 egli lavora a un’opera sulla lingua, che anche nei decenni successivi occuperà molto

del suo tempo, ma

che egli non

arriverà mai

a completare: ce ne rimangono numerose notizie e parecchi abbozzi. E attende (subito dopo il suo secondo matrimo-

MIGLIORINI - M. E LA LINGUA nio, 1837) a riscrivere

i Promessi

Sposi,

223 valendosi,

oltre che degli aiuti del Cioni e del Niccolini, quelli di una fiorentina, Emilia Luti, dama

di

di com-

pagnia. delle due ultime sue figlie. La revisione dei Promessi Sposi, su cui non possiamo qui minutamente soffermarci, ma di cui pure

‘dobbiamo dar cenno per chiarire la posizione manzoniana, mirò anzitutto a eliminare quelle espressionì che il Manzoni aveva accettato dalla tradizione letteraria senza che avessero riscontro nell’uso par-

lato fiorentino: parole e modi arcaici (o almeno stantii) o dialettali.

In numerosissimi altri casi il Manzoni sostituì parole e locuzioni che potremmo dire di tono letterario con altre di tono familiare: accidioso - uggioso; adesso - ora; ambedue, ambo, entrambi - tutt'e due; con-

fabulare - chiacchierare; ecc. Molte volte si tratta delle varianti fonetiche fioè rentine sostituite a varianti letterarie: dimandare domandare; imagine - immagine; lione - leone; obbedire - ubbidire; publico - pubblico; sofferire - soffrire; ecc. (ma egli sostituisce anche, si osservi, angiolo con angelo, limosina con elemosina). Il Manzoni accetta inoltre la pronunzia toscana o per gran parte dei vocaboli con vo; sostituisce gli imperfetti di prima persona in -a con gli imperfetti in -0o. Il pronome egli è spesso abolito o sostituito con Îni: tuttavia in tutto il romanzo egli è ancora adoperato 61 volte (in 18 delle quali si riferisce a CDio)g Il mutamento

non è solo di stile, ma vuol essere

anche di lingua: non soltanto cioè il Manzoni sce«glie, tra due varianti ugualmente possibili e di tono ° diverso, quelle più conformi al toscano familiare, “ma si propone anche un fine paradigmatico, e cioè vorrebbe che le forme più stantie venissero colpite

| d'ostracismo. Insomma

egli non

si contenta

di ri-

224

MANZONI E I CRITICI

manere nell'ambito della lingua quale essa è, ma vorrebbe mutarla o almeno contribuire a mutarla nel suo

sistema,

riformarla

quale

istituzione

sociale.

Fortunatamente le esigenze artistiche hanno quasi sempre il sopravvento sulle esigenze dottrinarie. Per esempio il Manzoni trova-un po’ letterario natio, e alcune volte lo sostituisce con nativo; ma nel famoso passo: « Addio, casa natia, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato... » (Cap. VIII), introdusse addirittura natia, mentre nella prima stesura aveva scritto natale. Le intenzioni che egli si proponeva nella revisione (anche se involontariamente un po’ travisate per il maturarsi delle concezioni manzoniane attraverso i decenni) e l'accoglienza fatta al testo riveduto (in

particolare

l’aneddoto

della lettura

comparativa

di

un passo nelle due edizioni, fatta dal Giusti) furono

narrati con grande brio dal Manzoni al marchese Casanova nella lettera del 30 marzo 1871. Non sempre il Manzoni riuscì a adeguarsi all’uso fiorentino del 1830-40 in modo perfetto o con 'sufficiente approssimazione: dubbi furono elevati già allora, e altri più severi sono

stati presentati più tar-

di. Né sempre questa adeguazione fu artisticamente felice. Ma il romanzo raggiunse ugualmente lo scopo che il Manzoni si proponeva: di raccostare lo scritto al parlato, di dare un colpo mortale ai fronzoli retorici che per secoli avevano aduggiato la letteratura italiana. Il trattato sulla lingua a cui il Manzoni lavorò per tanto tempo senza giungere a compierlo, per un

certo gusto nel soffermarsi sui sempre nuovi dubbi che la meditazione gli presentava, doveva constare anzitutto di un primo libro, di carattere filosofico, sulla natura delle lingue. Un secondo libro doveva esaminare le varie soluzioni proposte per la questio-

MIGLIORINI

- M. E LA LINGUA

ne della lingua (ci rimane

il frammento

225

in cui il

Manzoni esamina « Il sistema del padre Cesari », oltre alla precisa formulazione pubblica del proprio sistema, di cui ora diremo). Infine il terzo libro doveva trattare del modo di diffondere quella forma «di lingua che egli riconosceva come veramente tale (e anche di questa parte ci rendiamo conto abbastanza bene attraverso alcuni scritti pubblicati). Nella parte filosofica, fondata sulla lettura e sulla meditazione di grammatici e pensatori dei più vari. indirizzi, ma specialmente dei sensisti e degli ideologi francesi, il Manzoni torna spesso su alcune idee fon-

damentali: bisogna studiare che cos'è la lingua in generale, e non esclusivamente la bella lingua; ciascuna

lingua costituisce un tutto; l’« uso » è signore

delle lingue, e unico signore, ché qualsiasi altro criterio (analogia,

ecc.) deve cedere

di fronte

a

esso.

Mentre il Manzoni andava saggiando con minuzia e circospezione i principi generali di filosofia della lingua, precisava sempre meglio le proprie idee sulla lingua italiana. Dopo varie occasioni di esporre il suo sistema, occasioni che gli si presentarono un momento e che per la sua incontentabilità lasciò cadere, si decise nel 1846 (mentre durava la stampa

delle Opere varie cominciata nel 1845) a esporre compendiosamente il suo parere sulla questione della lingua, a proposito della pubblicazione della prima parte del Prontuario... per saggio di un Vocabolario metodico della lingua italiana di Giacinto Carena. Qui per la prima volta il Manzoni afferma in pubblico di professare « quella scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in Parigi », e perciò ritiene che il beneficio che il

Carena ha fatto agli studiosi col suo Prontuario sarebbe stato ancora maggiore se egli avesse lasciato da parte quelle locuzioni « che non sono dell’uso 8- Caretti

226

MANZONI E I CRITICI

vivente di Firenze ». « Ciò che costituisce una lingua, non è l’appartenere a un'estensione maggiore o minore di paese, ma l’essere una quantità di vocaboli adeguata agli usi di una società effettivamente vera. » L'errore in cui comunemente si cade è quello di « associare al nome di lingua non l’idea universale e perpetua d'un istrumento sociale, ma un concetto indeterminato e confuso d'un non so che letterario ». D'altronde, il fatto stesso che si disputi da tanto tempo sulla lingua è una prova « che gl’italiani non possiedano in effetto una lingua comune ». Per arrivarci, c'è chi consiglia di ricorrere anzitutto al « dialetto » di Firenze, e poi a quelli delle altre città. Ma « quando si tratta di sostituire l’unità alla molteplicità, se uno dice: questo sia il primo, la logica aggiunge: e l'ultimo ». E siccome «la Toscana ha bensì lingue pochissimo differenti, ma non ha una lingua sola », a Firenze bisognerà fermarsi. E bisognerà che il consenso diventi possesso effettivo e completo

in tutta

quanta

l’Italia;

e non

solo, nella

cosiddetta lingua scritta, ché «la formola lingua scritta non è che un vero abuso di parole, che enuncia e propaga un concetto, non metaforico, ma falso » (solo la lingua parlata in una società effettiva e continua ha carattere d’universalità, mentre la lingua

scritta non

è che un

«fortuito

e vario

mescu-

glio »). L'’aver tante voci per una nozione sola non è ricchezza, ma miseria: quando il Carena soggiunge alla voce

panna

quattro

altre denominazioni,

«cosa

ci

giova d'aver un’abile e esperta guida, se ci conduce a un crocicchio, e ci dice: prendete per dove vi piace? ».

;

Quanto sarebbe bello se i fiorentini si fossero una buona volta decisi a dare all'Italia un vocabolario della lingua da loro effettivamente usata, simile a quello dell’Accademia francese! Certo, il Manzoni ri-

i n

MIGLIORINI

- M. E LA LINGUA

227

conosce che le condizioni dell’Italia non sono quelle della Francia, e che non è detto che si possa conseguire per mezzo di questi « aiuti artifiziali » quello che la Francia ha conseguito con l’aiuto delle cir.costanze. « Ma è il solo mezzo d’accostarsi, più che sia possibile, a un tal resultato. In mancanza sole, disse il Franklin, accender le candele. »

del

Il Manzoni è arrivato alla fomulazione definitiva della sua teoria: le meditazioni filosofiche e la conoscenza delle teorie precedenti lo conducono non a una definizione o a un'analisi storica, ma a un programma politico-civile: egli mira a conseguire un fine, l'unità linguistica, e cerca di giungervi per la via che gli sembra la più logica. BruNO

* Da

Storia

pp. 609-615.

MIGLIORINI *

della liliena italiana, Firenze,

Sansoni,

1960,

x 4

Da: “Me

Aa aW LIL i

Parte

Seconda

VERITÀ

E-FINZIONE [1826]

Istorica dunque sia la tragedia del Carmagnola; e s'anche si vuole, giovi a illustrare lo stato d’Italia d'allora, i suoi prìncipi, i caratteri de’ condottieri stipendiari, e la politica tenebrosa del governo de’ Veneziani. Il merito dunque e il demerito in questa parte del lavoro deve aggiudicarsi secondo che vi

avrà preservato

possibilmente

la verità de’ fatti e

l'uso politico ch'egli ha ricavato dalle circostanze storiche dell’avvenimento ch'ei rappresenta. [...] A poter conoscere

quale uso

l’autore ha fat-

to della storia, e quali circostanze ha voluto o dovuto sottrarvi ed aggiungervi, importa di raffrontare il transunto con la narrazione storica dell’avvenimento. Per ora accenneremo in via di assioma che a nostro parere non ha bisogno di prova, — ma che pur nondimeno a suo luogo ci studieremo di dimostrare — questo principio: che l'illusione senza la quale non esisterebbe arte veruna d'immaginazione e molto meno poesia drammatica, non acquista potere magico irresistibile se non allorché la verità e la finzione, ritrovandosi faccia a faccia e in contatto non solo perdono la loro naturale tendenza a cozzare fra loro, ma s'aiutano scambievolmente a riunirsi e confondersi e parere una cosa sola. Bensì al critico, segnatamente d'ogni tragedia che intende d’illustrare la storia, tocca di separare la materia

232

‘ MANZONI

E GLI SCRITTORI

de’ fatti dagli abbellimenti ideali, e osservare la proporzione e l’arte con cui sono stati frammisti e gli effetti che ne devono risultare [...]. Carmagnola, contadino piemontese,

mentre

ancor

giovinetto pascolava gli armenti, fu ingaggiato da un soldato di quelle bande che in Italia combattevano per chiunque le pagava; la propensione di non riconoscere legge che la sua volontà, naturale ad ogni uomo e di non render conto delle sue azioni, si rinvigorirono in lui. Meritò di salire a’ gradi più alti e divenne condottiero di bande. [...] Guerreggiò le guerriglie del duca di Milano in Lombardia e nel Piemonte e gli diede vinta e schiava la repubblica genovese. Meritò quindi l’onore di avere una moglie del sangue della casa regnante; finché la sua superbia, le sue ricchezze e la sua celebrità militare lo re-

sero intollerabile e sospetto a quel tiranno, egualmente crudele e più codardo di tutta quella sanguinaria razza Visconti; ma meno dissimulatore, perché trattò il Carmagnola con aperto disprezzo. Il condottiero per vendicarsi, andò ad eccitare a dar guerra allo Stato di Milano il principe suo naturale in Piemonte, che non gli diè retta. Andò a’ Veneziani ch'erano appunto allora richiesti da’ Fiorentini a far lega contro i Milanesi e il Visconti mandò un assassino a trucidare Carmagnola in Treviso. Dall’allusione a queste ultime circostanze incomincia

la tragedia;

l’azione fino alla catastrofe

per-

corre lo spazio di sette anni durante i quali la vita del Carmagnola è interamente connessa sì nella storia e sì nel dramma con la storia de’ Veneziani che il poeta tocca appena di volo. Noi suppliremo forse con maggiore imparzialità — qualità di cui non ci crediamo meno dotati di lui, ma che un poeta non penda senz'intenzione a veder ogni cosa in favore

del suo Eroe e in danno di coloro de’ quali fu vittima, è un assunto

che richiederebbe

potere più as-

FOSCOLO

sai dell'umano.

- VERITÀ

E FINZIONE

233

Inoltre richiederebbesi un sovruma-

no potere, a fare che Carmagnola,

senza

tutto la storia, paresse



un

Eroe.

alterare in

Shakespeare

stesso, quando trattava tragedie tratte dalle cronache d'Inghilterra, riusciva a renderle interessanti e

per l'importanza che gli spettatori naturalmente davano a tradizioni nazionali, per l'esattezza con che sapeva delineare i personaggi reali dei re passati, per la varietà d’incidenti e di caratteri ch’ei vi conduceva per la sua intuizione nell’umana natura e soprattutto per il fuoco luminoso, incitante e continuo che la sua immaginazione e il suo cuore inspiravano

‘ne’ suoi versi; e con tutto questo in quelle rappresentazioni eragli necessario di spargere tinte. ideali sovra i caratteri. Ma nell’Otello, nell’Amleto e nel Macbeth, dov'ei non si legava alla storia se non quanto bastava al suo intento, i caratteri sono. sue invenzioni e quindi

più originali insieme e più veri e più pieni perché

vi contribuiva tutta l'umana natura. I Veneziani, l'universo

né pure per fare la conquista

avrebbero mai

confidato

del-

le loro flotte e

truppe nel Mediterraneo se non a' loro patrizi, e anche questi li invigilavano gelosamente. Ma Shakespeare fece che si pigliassero per capitano generale un moro, anzi come gli attori per tradizione perpe-

tua lo rappresentano, un moro negro, anzi un Turco col suo turbante. Ma quanto il poeta aveva più genio, tanto meno guardava a sì fatte apparenze e formalità per penetrar nelle viscere profonde della umana natura, ed eccitarle a mostrarsi; con azione € reazione esplorò e in quali individui si palesano meglio, e in che modi agivano su la sua nazione, e i suoi tempi, Venezia per il popolo inglese era il pae. se delle maraviglie e de’ romanzi, e pare che tanto quanto continui ad esserlo anche oggi. Ma allora anche i filosofi e uomini di stato che dall'Inghilterra

234

MANZONI

E GLI SCRITTORI

andavano a osservare quella città, ritornavano a dire

miracoli, e a profetare che quella repubblica non finirebbe che con la fine del mondo. Shakespeare pose dunque la scena in Venezia, ed ebbe gli spettatori già preparati alla meraviglia. Adottò un eroe mezzo barbaro perché le virtù in sì fatto stato della società sono realmente schiette, ardite e generosissime, e le passioni profonde, impazientissime e veementi, mentre

l’età e il candore e l’anima confidente

dell’eroina veneziana che per ammogliarsi a un sì fatto individuo, sacrifica ogni cosa, e trova la morte, fanno col carattere del marito un contrasto che provoca ad ogni tratto la pietà ed il terrore — ma nessun sentimento d'odio per Otello, né di disprezzo per Desdemona; e tutta l’avversione nostra concentrasi sopra il carattere di Jago al quale nel tempo stesso siamo costretti di dare una parte della nostra ammirazione per la lenta, profonda, efficacissima arte quasi più che umana di maturare e consumare il suo

tradimento infernale. Vero è che Shakespeare in quella tragedia e in altre emancipavasi dalla storia e appena se ne serviva a trovare soggetti e nomi; e se li trovava nelle novelle antiche o nelle ballate gli era tutt'uno. Il suo genio infondeva alle larve forme e vita e anima potentissima e tutta l'illusione della realtà, e se ben si considera il suo dramma della Tempesta parrebbe che avesse anche il privilegio di creare nulla dal nulla. Ma nella nuova tragedia storica nel suo pieno scolastico significato tragico italiano, il Carmagnola, e per il suo mestiere di soldato, per la sua posi zione e per le sue facoltà intellettuali, è tutt'altro che Eroe e in ciò il signor Manzoni non s'illudeva. Bensì cadde nell’illusione di credere che il carattere per sé meschino

di Carmagnola

risalterebbe col sot-

trarre tutte le qualità nobili a’ patrizi veneziani se facesse sì che paressero atrocemente perfidi e iniqui

FOSCOLO

- VERITÀ

E FINZIONE

235

per sistema, e crudeli per codardia. Gli avvenne dunque inevitabilmente che per mettere in opera espediente sì fatto, gli è convenuto

alterare in danno

de’

Veneziani la verità storica di cui pur studiavasi d’essere sì scrupoloso e insensibilmente [...] nel forzarsi di migliorare i caratteri de’ personaggi [...] li peggiorò in guisa che [...] si mostrano o volgari o atroci e sempre freddissimi. I narratori contemporanei del fatto non potendo offerire al signor Manzoni

« nessuna

prova autentica

su la reità o l'innocenza di Carmagnola » gli hanno lasciato quattro tradizioni diverse. La prima serbata da uno storico fiorentino — « ch'ei fu decapitato non perché avesse tradito, ma per la sua superbia insultante verso i cittadini veneti e odiosa a tutti », — la seconda da una cronaca bolognese — « che non osando ritorgli il comando delle truppe lo condannarono come traditore, per levar di pericolo il loro Stato che aveva posto nelle sue mani », — la terza da uno storico milanese — « che la vera ragione si fu l’avidità di confiscargli trecento mila ducati » —, la quarta tramandata da’ Veneziani a tutti i loro storici e seguita anche da un Milanese del secolo scorso — « ch'egli, fingendo di guerreggiare per la repubblica, s'intendeva

dirli ». Il poeta

col Duca

di Milano

a tra-

| esclude

assolutamente

le ultime

due, e

s'attiene alle prime, perché la vendetta dell’amor proprio insultato e il timore gli sembrano le più probabili spiegazioni e possono essere. — Ma che Carma‘ignola non potesse tradire « perché ciò era contrario all'indole sua e al suo interesse », è opinione gratuita, e facile a dimostrarsi per mal fondata; e forse

Manzoni non l'avrebbe addottata se non gli fosse . sembrata attissima a conferire su’ Veneziani le col| _pe di servirsi delle più alte magistrature della re-

i pubblica e del carnefice per vendicare insulti privati,

236

MANZONI

E GLI SCRITTORI

e d'avere sacrificato un illustre guerriero non al pericolo probabile ed evidente del loro stato, ma alla loro pusillanimità sospettosa. Dove autentiche prove e unanimità di testimoni mancano, le circostanze reali intimamente connesse, o accessorie

a un

avvenimento.

spargono

assai

più

lume che non le probabilità suggerite da congetture. Lo sperare sì fatte circostanze dagli storici italiani, specialmente di quell'età quando ogni stato consi deravasi composto d'una nazione diversa e gli scrittori adulavano ed irritavano le animosità nazionali, sarebbe aspettativa delusa. Fra’ forestieri che trattavano e’ fatti di quella repubblica uno storico recente

Daru,

se lascia

talvolta

da desiderare

alcune

qualità necessarie alla perfetta esecuzione del suo lavoro, mostra fuor di ogni dubbio che quasi niun autore antico e nuovo che illuminasse gli annali di quella repubblica gli fu nascosto; ebbe sott’occhi i documenti ch’erano impenetrabili a tutti sino a’ dì nostri negli archivi di Venezia, gli esamina con occhio sagace, guarda i secoli e le nazioni e le loro istituzioni con filosofica imparzialità, e con un' merito non frequente agli storici, mentre pur abbandona il suo cuore propendere a compassione e clemenza per gl’individui che soffrono, non però lascia sfuggire né declamazioni, né insinuazioni maligne, né le sue congetture acute intorno alle nazioni e alle . loro leggi e a’ loro governi. Di ciò ci somministra un saggio più facile ad ammirarsi che ad imitarsi appunto nella sua narrazione della guerra de’ Veneziani guerreggiata da Carmagnola e della sua misera morte.

I Veneziani, rotte dopo lunghissima guerra le forze marittime

de’ Pisani, de’ Siciliani e de’ Genovesi

e insignoritisi del commercio e della navigazione nel Mediterraneo, possedevano nel Levante molte colonie e cominciavano appena allora a stendere il loro do-

FOSCOLO

- VERITÀ

E FINZIONE

237

minio nel continente d’Italia. Serbando per privilegio dell’aristocrazia il comando delle flotte e delle truppe per le loro spedizioni oltre mare, s’appigliarono all'uso, comune allora, di non concedere il comando delle loro guerre in terraferma se non a un

forestiero, tanto più quanto era principio invariabile della loro costituzione di evitare il più lontano pericolo che la loro aristocrazia cadesse sotto di un dittatore domestico. Preferivano condottieri di mestiere con meno timore, perch’erano uomini venali senza patria, né principe, e di poca autorità al popolo veneziano. Carmagnola da principio corrispose alle loro speranze; ampliò il loro dominio di territori e città conquistati al Duca di Milano del quale ei volea vendicarsi; e ardeva del desiderio di gloria e di comando assoluto. Sono le due passioni ch'egli esterna nella tragedia; e forse per non dividere né gloria ‘né comando con altri non secondò mai le galere de’ Veneziani sul Po, né mostrava mai deferenza né rispetto a’ patrizi delegati. [...] nella guerra

de’ Veneziani

condotta

dal Car-

magnola un'imboscata gli pose in mano da otto mila prigionieri; furono disarmati, e lasciati andare a cercarsi fortuna; e a' commissari veneti che se ne dolsero, fu risposto che non ve ne rimanevano più

che quattrocento, — e anche questi, aggiunse il Carmagnola, « io ordino che siano secondo la legge solita, rilasciati ». Istos quoque jubeo solita lege dimitti.

Il Sr. Manzoni adempie la parte di storico citando fra le autorità della sua narrazione le parole imperiose de’ soldati; nella tragedia per altro gli fa dire più sentimentalmente a’ commissari veneziani: « Voi sapete che questo è un uso della guerra, il perdonare quando si vince è pur dolce! ». E ne’ . cuori che palpitano sotto il ferro l'ira si cangia pre- sto in amistà (qui temiamo

Inoltre rimostra

v'è un po’ del concetto).

« che la ricompensa più cara e

|

238

MANZONI

E GLI SCRITTORI

più dolce a' suoi soldati è di potere esercitare la generosità; ch’essi oggi sono generosi perché ieri furono prodi » — e conclude — «non invidiate sì nobile soddisfazione a quelli che avevano messo a pericolo la vita per la vostra repubblica ». Certo l’Eroe qui parla da stolto; e infatti udremo fra non molto ch'egli confessa che andando a stipendi di Venezia egli aveva operato da stolto; e il suo poeta, volere o non volere dovrà confessare ch'ei lo fa anche riconoscere per un di quegli ipocriti che sotto parole sentimentali promuovono i loro bassi

interessi; infatti stando alle parole della narrazione storica dell’autore, i condottieri e i soldati rilasciavano liberi i prigioni per patto reciproco, « perché quella sorte di milizia aveva timore che le guerre

fossero presto finite ». Sta bene per quei manigoldi, ma ogni repubblica o principe che ammettesse nelle sue guerre sì fatto uso, e lo credesse sentimento di generosità, darebbe diritto al suo popolo di mandarli ad esser giudicati da una commissione de inquirendo lunatico.* Un'altra giustificazione addotta dall’Eroe e dagli amici suoi nella tragedia, e dall'autore più gravemente nella notizia storica si è che quasi tutti i prigionieri furono rilasciati non da Carmagnola, ma da' suoi soldati. Or, senza dire ch'egli medesimo rilasciò anche que’ quattrocento che gli rimanevano, un generale che si giustifica colla sua impotenza di impedire che le sue truppe facciano a loro modo, o non

aspettino

gli ordini suoi, non

è eroe

da storia,

e molto men da tragedia. Ma per quanto uso o legge si fosse o com'era più veramente tacito patto fra’ condottieri di rilasciare libere le loro bande come istrumenti necessari del loro comune mestiero, non era legge riconosciuta da' Veneziani, né uso mai praticato. In tutte le loro spedizioni oltremare (e in quell'epoca più che mai,

FOSCOLO

- VERITÀ

E FINZIONE

239

perché cominciavano a essere minacciati da’ Turchi) combattevano sempre con le armi loro nazionali guidate da’ loro patrizi, e nonché rilasciare prigionieri o riceverli, quelle battaglie erano continuate non solamente sino alla vittoria, ma sino alla morte.

Inoltre il loro sospetto che Carmagnola li tradisse dovea acquistar molto vigor di certezza da ch'egli pure in quella campagna si lasciò cogliere in un’imboscata, e i Milanesi gli pigliarono da cinquecento in seicento uomini di cavalleria, e non v'è ricordo né indizio che tornassero liberi a’ Veneziani. Tale è l’uso della storia fatto dal poeta per esaltare il carattere del suo eroe non aggiungendovi tratti ideali, bensì attenuando le sue volgari e odiose fattezze, e sottraendo quel tanto di grandezza reale e di dignità che la storia assegna a’ Veneziani di quell’epoca. Quindi la verità e la finzione nonché im‘medesimarsi fra loro, si danneggiano reciprocamente, e nel tempo stesso non vi si trova alcun elemento di quell’ideale che dà lume, foco e vita e apparenze tangibili all’illusione. Ugo

UN

UOMO

« AFFATTO [1826]

Foscoro *

SINGOLARE »

Qui dentro al tavolino sul quale vi scrivo è il terzo tomo del Romanzo del nostro Manzoni. Divina cosa! Egli s'era scuorato un po’, non per tema di que’ vili imbecilli, ma per quella stanchezza di mente che nasce al pensiero di vedere male accolta un’opera che c$stò tanta pena, e che, dic’egli, non * Da Della nuova scuola drammatica in Italia, in Saggi di letteratura italiana, P. II, Firenze, Le ‘Monnier, 1958, pp. i 589. :597, 601-603,

240

MANZONI -E GLI SCRITTORI

fa male a nessuno.

Io temo, soggiungea,

che mi vo-

gliano far scontare la troppa aspettazione ch'egli hanno di questo libro: aspettazione della quale, a dir vero, non è mia la colpa. Io non verrò certo a Firenze con lui. L'accompagnerà tutta quanta la sua famiglia; se pure non gli si niega il passo, come avvenne altra volta ch'egli volle andare a Parigi. La ragione era: la sua salute bisognevole di distrazione e di moto. Saurau rispose che manderebbe il suo medico; e nol mandò mai: quando Saurau attaccò i cavalli per Vienna, e Manzoni gli attaccò per Parigi. Son già più mesi che da lui e da’ suoi mi fu fatto sentire come sarebbe necessario al figlio maggiore un

educatore

che vivesse

con

lui, divenisse

il suo

amico, Io lasciai cadere un discorso ripetuto più volte e sempre discesomi al cuore, perché il mio bisbetico e tristo e melensissimo umore, foss’anche tollerato, sarebbe stato a dispetto mio intollerante di ogni vincolo, e talor d’ogni consorzio.

Del resto s’egli venisse a Firenze, vedreste un uomo che dall'assenza d’ogni singolarità è reso agli occhi d’ognuno che non gli dissomigli, affatto singolare e mirabile. Una statura comune, un volto allungato, vaiuolato, oscuro, ma impresso di quella bontà che l'ingegno, non che guastarla, rende più sincera e profonda: una voce di modestia e quasi di timidità, cui lo stesso balbettare un poco, giunge come un vezzo alle parole, che paiono essere più mature e più desiderate: un vestito dimesso, un piglio semplice, un tuono

familiare, una

za che irradia per riflessimento

mite

sapien-

tutto ciò che a lui

s'avvicina. Vedereste sua madre, figlia di Cesare Beccaria, che sente d'esser l'anello di due grand’uomini,

ma per mostrarsene degna; vedreste sua moglie donna incomparabile; e sette figli, de’. quali la maggiore è la meno che paia rassomigliare all'anima sua. Questo è l’uomo, direste, il cui nome sarà [adorato?]

i È

TOMMASEO

- UN UOMO

AFFATTO

SINGOLARE

241

di qui a mill’anni, adorato com’io venero oggi il suo volto. Questo è l'uomo che in ogni via che cal-. cò impresse un'orma indelebile; che ha divinizzata la lirica, che ha ricreata la tragedia, che ha insegnata: ‘agl’Italiani la vera via della storia; che ha fatto il romanzo

la lettura del Genio

e della Virtù;

ch'ebbe amici i più buoni del secol suo; che fu pio, semplice, generoso; che trasse il suo genio dal cuore; e potreste aggiungere (questo è forse il maggiore degli encomii): che fu visto più d'una volta pian-

gere sulle sventure degl’infelici. La venerazione ch'egli ha della lingua de’ Toscani, | è degna veramente di lui. Grande studio già fece di quegli scrittori; e ne fe’ spogli; e li rilegge tuttora: e la Pietrasanta, figliuola di Pietro Verri, che fu educata in Camaldoli, è spesso la sua maestra di lingua. Vuol venire in Toscana per consultare qual| cuno sull'opera sua, per apprendere: l'uso è per lui il sovrano giudice; e dice che i Lombardi si credono poterlo signoreggiare,

appunto

perché

nol cono-

scono, non n’hanno il senso. All’uso egli assoggetta anco la lingua poetica: e dimandando io per questa più larghi confini, rispose: non bisogna che la Poesia venga a imbarazzare le cose del mondo. Risposta memorabile in tale poeta. NIiccoLò TOMMASEO *

POESIA ‘E STORIA [1827]

ui

Domenica, 15 luglio 1827

i Questa sera, dopo le otto, sono andato da Goethe. . Lo trovai che era appena tornato dal suo giardino.

|

—‘* Da N. Tommasto

G. P. ViIEUSSEUXx, Carteggio inedito,

+ Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1956, vol. I, pp. 68-69.

PA QAIAPOSET

242

MANZONI

E GLI SCRITTORI

« Guardi che cosa c’è lì, mi disse, un romanzo in tre volumi; e sa di chi? di Manzoni. » Io considerai i volumi, assai ben rilegati, e con una dedica a Goethe. « Manzoni lavora molto », dissi. « Già, dà segno di vita », rispose Goethe. « Di Manzoni, ripresi,

non conosco nulla, se non l'ode su Napoleone, che ho riletta in questi giorni nella Sua traduzione, e grandemente ammirata. Ogni strofe è un quadro. » «Lei ha ragione, disse Goethe: l’ode è eccellente. Ma trova Lei che in Germania uno solo ne parli? È perfettamente come se quell'ode non esistesse; e pure è la più bella poesia che sia stata composta su quell’argomento. » Mercoledì, 18 luglio 1827

« Devo dirLe — furono le prime parole che Goethe mi rivolse oggi a tavola — devo dirLe che il romanzo di Manzoni supera tutto ciò che noi conosciamo in questo genere. Basta che io Le dica che l'elemento interiore, tutto ciò che deriva dall'anima del poeta, è perfetto,

e che l’elemento

esteriore,

le

descrizioni dei luoghi e simili, non la cede di un capello alle grandi qualità interiori. Ciò significa qualche cosa. » Io fui meravigliato e lieto di queste parole. « L'impressione,

continuò

Goethe, che si riceve

alla lettura è tale che si passa continuamente dalla commozione alla meraviglia, e dalla meraviglia alla commozione:

così che non

si esce

mai

da uno

di

questi due grandi effetti. Credo che non si possa andare più in là. In questo romanzo si vede per la prima volta davvero chi è Manzoni. Qui apparisce nella sua pienezza quel suo mondo interiore, che nelle tragedie non aveva avuto nessuna occasione di svilupparsi. Subito dopo, voglio leggere il miglior romanzo



di Walter Scott, forse il Waverley, che an-

cora non conosco, e vedrò come Manzoni si sostiene|

GOETHE

- POESIA E STORIA

243

di fronte a questo grande scrittore inglese. La cultura spirituale di Manzoni si mostra qui tanto elevata, che difficilmente si troverà l’eguale in altri: essa ci ristora, come

un frutto nella sua piena ma-

\ turità. E nella trattazione e nella pittura dei particolari egli è luminoso, come il cielo stesso d'Italia! » «E ci sono anche in lui tracce di sentimentalità? » domandai.

« Nessuna,

rispose, In lui c'è sentimento,

ma senza sentimentalità. Le circostanze sono sentite virilmente e schiettamente. Oggi non voglio dirLe di più. Sono ancora al primo volume. Ma presto gliene riparlerò. » Sabato, 21 luglio 1827 Come questa sera entrai da Goethe, lo trovai che leggeva il romanzo di Manzoni. « Sono già al terzo volume, mi disse mettendo da parte il libro, e mi sono venuti molti pensieri nuovi. »

Goethe zo, per

mi espose

dimostrarmi

poi alcuni luoghi del romancon

quanto

ingegno

è scritto:

«Quattro cose, continuò, giovano innanzi tutto al Manzoni e contribuiscono alla grande eccellenza della sua

opera.

In primo

luogo, che egli è uno

storico

egregio, onde la sua creazione ha conseguito una grande dignità ed energia, che la innalzano molto al di sopra di tutto ciò che ordinariamente noi inten. diamo per romanzo. In secondo luogo il Manzoni è avvantaggiato dalla religione cattolica, dalla quale derivano molte situazioni poetiche, che non avrebbe | conosciuto se fosse stato protestante. In terzo luogo giova alla sua opera il fatto che l’autore molto ebbe a soffrire nelle lotte rivoluzionarie, che (anche se egli non vi partecipò personalmente) colpirono i

‘suoi amici e in parte li rovinarono. E finalmente con|à ferisce a questo romanzo lo svolgersi l’azione nella

244

MANZONI

E GLI SCRITTORI

seducente contrada intorno al lago di Como, la quale si impresse nel poeta sin dalla giovinezza, così che egli la conosce a menadito. Donde un grande e capitale pregio dell’opera: cioè la chiarezza e il mirabile minuto rilievo nella pittura dei luoghi ».

Lunedì, 23 luglio 1827 [...] il colloquio vo l’altro giorno,

ritornò

su Manzoni.

incominciò

Goethe,

« Le dice-

che in questo

romanzo lo storico giovò al poeta; ma ora, nel zo volume, io trovo che lo storico ha giuocato poeta un brutto tiro; poiché il Manzoni sveste d'un tratto l’abito di poeta, e ci si presenta troppo tempo nella sua nudità di storico. E ciò cade nelle descrizioni

teral qui per ac-

della guerra, della carestia

e

della peste; cose già repugnanti per sé, e che, nel minuzioso particolareggiare d’un’arida rappresentazione di cronista, diventano insopportabili. Il traduttore tedesco

dovrà cercar

di scansare questo guaio:

egli dovrà abbreviare per una buona parte la descrizione della guerra e della carestia, e di due terzi quella della peste; così che resti soltanto quello che è necessario a intendere l’azione dei personaggi. Se Manzoni

avesse

avuto al fianco un buon consigliere,

avrebbe assai facilmente evitato questo difetto. Ma, come storico, egli ebbe troppo rispetto per la realtà. Ciò gli dette già da fare anche nei suoi drammi, dove egli peraltro cercò di cavarsi d'impaccio, racchiudendo nelle note la materia storica superflua. Ma questa volta non ha saputo ingegnarsi, né stac- | carsi dal suo materiale storico. È curioso assai. Ma, | appena i personaggi del romanzo ritornano, il poeta. ci sta di nuovo dinanzi in tutta la sua gloria e ci. Sf) i . costringe alla consueta ammirazione. » Ci levammo, avviandoci verso la. casa. «Si può. appena

pensare,

continuò

Goethe,

come

un

poeta.

II E

GOETHE

- POESIA E STORIA

245

‘quale è Manzoni, che ha saputo scrivere un così mirabile libro, abbia potuto peccare, anche solo per un istante, contro la poesia. Eppure la cosa è molto semplice: e la spiegazione è questa. Manzoni è un poeta nato, come lo era Schiller. Ma la nostra età è così grama,

che nella vita umana

che lo circonda,

il poeta non trova più nulla di cui possa giovarsi. Per sostenersi, Schiller si appigliò a due grandi mez-

zi: alla filosofia e alla storia; Manzoni

alla storia

soltanto. Il Wallenstein di Schiller è tale opera, che non trova la simile nel suo genere; ma Lei troverà che appunto questi due potenti mezzi, la sto-

ria e la filosofia, hanno intralciato diverse parti di quel dramma e impedito il suo successo, come pura opera di poesia. Così anche Manzoni soffre di un sovraccarico

di storia.»

grandi cose:

ed io sono felice di udirle. » « Manzoni

. riprese

Goethe,

« V. E., dissi, esprime

ci suggerisce

così buoni WOLFGANG

delle

pensieri. »

GOETHE *

CRISTIANESIMO MILITANTE [1831] Senza una ispirazione, nessuna lode è da sperare alle opere dell’arte: vuol essere la patria, l’amore,

la religione; vuol essere l'orgoglio, la vendetta; l’uso, sano o perverso, ma intero, di una volontà infaticabile; alcuna cosa, insomma, che sia fuori, più su | © più giù, del giro freddo ed oscuro della vita co| mune: e questo quel che e’ si sia, debb'’essere vero, schietto, in cima d’ogni nostro pensiero. Non bisogna voler essere ispirati perché una ispirazione fa 5 * Da G. P. ECKERMANN, Colloqui con .Goethe (traduz. E. | Donadoni), in P. Fossi, La Lucia del Manzoni ed altre note critiche, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 280-282, 284,287.

246

MANZONI

E GLI SCRITTORI

d’uopo; né vuolsi fare, come veggiamo alcuni oggidì, i quali potendo a gran pena credere in Dio, si dànno per credenti nelle fattucchierie, disertano il tempio per andare alla tregenda, e s’industriano di far uscire dalle insanie quel mirabile, del quale «e cielo e terra» alle loro fosche viste hanno difetto. Dal cielo, o vogliam dire dalla religione, è principalmente

venuta

gl'insegnamenti

ispirazione

al Manzoni.

del cristianesimo,

E

di vero

« presi sul serio,

gustati, trovati veri» saranno mai sempre uno dei migliori aiuti all’'ingegno dell’artista. Bella e celeste

è quella dottrina che lo leva altissimo, non per mezzo di speculazione fredda dell’intelletto, ma accendendolo di carità; che gli fa amare in ogni uomo un fratello; lo fa sclamare alla vista del conquistatore: « Stolto anch'esso! » !: gli dà voce di maledire « chi s'innalza sul debole » ?; e gli persuade in cuore « non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio ». E la piena fede dell'Autore, e il suo desiderio di farcene parte, sono così diffusi per ogni pagina dei Promessi Sposi, che ben ci accorgiamo questo non esser libro scritto, come,le novelle dello Scott, a semplice fine di conseguir lode e d'apportare diletto. Per esso il Manzoni desta in noi de’ pensieri ai quali eravamo disusati, ne fa tornare al dubbio di cose che credevamo decise; e non possiamo far di meno di consentire o di ribattere. Il più spensierato o più ritroso de’ suoi lettori, simile a don Abbondio rimprocciato dal Cardinale, sta tra' suoi argomenti è come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono

nosciuta,

sollevato

in un'aria che non

in una

regione

sco-

ha mai respirata ».

Se non che una dottrina, che non solo ispira, ma

obbliga; ingiugne di credere e di far credere; 1 Carmagnola, 2 Ivi.

atto

II, coro.

si fa

SCALVINI

- CRISTIANESIMO

MILITANTE

247

norma d'ogni pensiero, non che d'ogni atto, e ne prefigge formalmente lo scopo; sovrasta agli uomini con gli spaventi e con le promesse; una tale dottrina, diciamo, se dall’un lato giova l'ingegno sublimandolo,

potrebbe,

sott'altri

rispetti,

tòrgli di sua

libertà; vietargli di usare pienamente le sue forze; condurlo a riprodurre l’uomo, non intero qual è, comparato al vero, ma quale debb'essere, comparato alla fede. Con le norme di una siffatta dottrina, l’artista temerà per avventura di far udire quel linguaggio che, troppo abbellendo alcune terrestri cose, potrebbe farnele parer care e desiderabili; frenerà con

un cenno severo ogni trascorrere del cuore; non vorrà dirne che anche nella vita sieno alcuni fuggitivi momenti d’intero bene: non ci metterà sott’occhi un alto spirito per

sue

passioni

impetuoso

e costante

nel male, il che potrebbe essere di pericolo alle giovanili fantasie, ma ce lo mostrerà già tediato delle ‘sue scelleratezze, già pentito, già santo: coll’iniquità sarà la stoltezza, l’astuzia, il dubbio inquieto, la pau-

ra; non quel lasciarsi andare di un'anima, la quale si desta la prima volta al pieno senso dell’esistenza si fida di leggieri, consente a’ suoi desideri credendoli innocenti e senza rischio, e per questa via riesce più innanzi a miseria ed a colpa: gli potrà parere che la moralità abbia luogo un po' tardi. Senza voler ora giudicare se al Manzoni sia bastato l’alto ingegno a scansare così fatti pericoli, mi arrischierò di dire che nel suo libro è non so che di austero, quasi direi d’uniforme, d'’insistente za alcuna tregua mai verso un unico obbietto:

sennon

ti senti spaziare libero per entro la gran varietà del mondo morale: t'accorgi spesso di non essere

. sotto la gran volta del firmamento che cuopre tutte

le multiformi esistenze, ma bensì d'essere sotto quel-

la del tempio che cuopre i fedeli e l’altare. «—_{[...] Ma checché siano alcuni per pensare in si-

248

MANZONI

mil sorta d'argomenti,

E GLI SCRITTORI

a tutti sarà pur forza di con-

sentire in questo: che la religione, sì fervorosamente evangelizzata nei Promessi Sposi, non mira a farne contemplativi,

ma

attivi

e militanti;

rifiuta

il pre-

cetto disgiunto dall’esempio; e ci prescrive all’ultimo, in nome della carità, la pratica di tutti quei doveri, che la filosofia è solita di prescriverci in nome della ragione, Però il Manzoni si è gittato con ogni maniera

di beffe, e senza intermissione mai, ad-

dosso all’inetto don Abbondio, il quale non « chiedeva altro che d'esser lasciato vivere ». Carattere finitissimo, e bello e a meraviglia vero rispettivamente all’arte: ma coloro che ne hanno pòrta la materia hanno fatto in esso un assai tristo guadagno. È nato un nuovo segno per molto esprimere in poco: il nome di don Abbondio diverrà proverbiale, come

i nomi

di don Chisciotte, di Calandrino,

di Falstaff; pronunciato, farà subito ridere e disprezzare, schierando dinanzi alle fantasie la gran moltitudine di quegli uomini i quali « si sono impegnati in un ministero che impone di stare in guerra colle passioni del secolo », con quel bel coraggio che hanno! quella bella conoscenza degli obblighi loro! e quel bel loro zelo della giustizia! Noiosa sementa che non ha mai cessato di rigermogliare in Italia, da quel Celestino, noto per antico disprezzo, insino a noi: i quali tuttodì veggiamo tanti entrare nel sacerdozio per le stesse due ragioni parute ottime a don Abbondio, « procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita ». Persino costoro quanto e’ sieno dappoco, poiché «è il loro pianeta, che tutti abbiano a dar loro addosso; anche i santi »; anche il pazientissimo Alessandro Man-

zoni. Don Abbondio ne muove grandemente a riso, ed è egli veramente il buffone del romanzo: ma non

pertanto ci accorgiamo che il Manzoni sente per lui di quello sdegno che Dante sentiva per « la setta dei

È

|

SCALVINI

- CRISTIANESIMO

MILITANTE

249

cattivi »; e ch'egli pure, come Dante, vuole che gli uomini sieno risoluti nel « correre dietro ad una insegna », e che vogliano essere « fedeli », o che vogliano essere « ribelli », ma vuole che vogliano. Imperocché qual frutto ha fatto in don Abbondio quel lungo sermonare di Federigo? In verità nessuno: ma una parola del cardinale è bastata a volgere tutti i desideri dell’impetuoso Innominato, e a fargli operare nel bene più grandi cose ch'ei non avea saputo nel male. Ma le tante dottrine che siam venuti enumerando, non ci sono mai apprese dal Manzoni per via di ragionamento. Egli non fa del moralista mai, né del teologo; non falsa la natura dell’arte, che tutto vuole vestire d'immagini: anzi è sì lontano dal volerne magistralmente indottrinare, che appone al suo Anonimo quanto tiene forma di una moralità. Egli ha su\scitato fantasmi, che differentemente rispondessero al suo pensiero: e questi si muovono liberi, e ciascuno

vive

di vita sua

propria;

ma

ne

lasciano

a

un tempo scorgere che l’anima, la quale si è in loro incorporata,

li tiene legati e sospesi a sé, come

so-

stanza e vita di tutti. [...] Alcuni, non ponendo ben mente allo scopo dei Promessi Sposi, hanno censurato la scelta dei

due protagonisti. A detta loro, Renzo e Lucia, persone di volgo, non c’inducono grandemente né a pietà né ad ammirazione: perciò che in essi la volontà sembra

oscura, e che dentro a cosiffatti animi siansi

convertite in ignaro istinto quelle massime che nella “\puerizia

furono

senza

esame

imparate,

e giusta

le

quali e’ regolano la vita. Aggiungono che i torti e i disagi riescono tanto più molesti, quanto il cuore fu meglio educato a sentire e la mente a comprendere. Lasciando stare che tali sentenze sono super‘be e illiberali, e che la depravazione soltanto, più frequente in chi è in maggiore altezza, offusca ne-

i È

È

250

MANZONI E GLI SCRITTORI

gli animi la conoscenza del retto e li fa ruvidi e veramente volgari; e lasciando anche stare che gl'’istinti del corpo soltanto sono vili, o di misero aiuto all'artista, ma alti e da ammirarsi sempre quelli dell’anima; e che a questi (i quali meglio diremmo rivelazioni) furono consegnati gli uomini, anzi che al maturato consiglio della ragione; ci bisogna aver sempre riguardo a ciò: che il Manzoni intese a diffondere la dottrina di Colui, il quale « ha scelte le cose deboli del mondo, per isvergognare le forti; le cose ignobili e le cose spregevoli e le cose che non sono, per ridurre al niente quelle che sono »!. Ed egli ha scelto Renzo e Lucia, per isvergognare e ridurre al niente i Rodrighi e gli Egidii; per additarne come l’occhio di Dio, dinanzi al quale cessa ogni disuguaglianza, sappia scernere in fra la turba gl’ignobili e spregevoli che in lui bene confidano, e la sua mano sollevarli sulla malvagità illustre e tremenda. Egli ne ha già fatto cenno, che nei palagi «è insegnata una religione » la quale « non bandisce l’orgoglio, anzi lo santifica, e lo propone come un mezzo per ottenere una felicità terrena ». Coloro che abi tano in essi son di quelli che « hanno sempre ragione ». Perciò ha cercato nei tuguri due povere anime, due foresi che vivono del loro lavoro: Renzo orfano, e Lucia colla sola guardia della madre; ai quali è sempre fatto torto, e sanno patire e perdonare, miti e rassegnati sempre, perché la loro religione non è la suaccennata, « una larva come le altre »: e questi sono divenuti « primi », e per l'opposto sono divenuti « ultimi »? coloro che « possono insultare e chiamarsi

rire

offesi, schernire

e

lagnarsi,

1 SAN

Paoto,

essere

Corint.,

2 San MATTEO, XIX, 80.

e chieder

sfacciati

I, I, 27, 28.

ragione,

atter-

e irreprensibili ».

SCALVINI

- CRISTIANESIMO

MILITANTE

251

Altri citerà Dante !: E l'animo di quel ch’ode, non posa Né ferma fede, per esempio ch’aia la sua radice incognita e nascosa Né per altro-argomento che non paia.

Ma Dante, altiero e ghibellino, ritraeva schifamente l'animo da chiunque non fosse conosciuto per fama o per infamia. Il suo cuore era in Alemagna: officina d'ogni tirannia e d'ogni vassallaggio, che per secoli hanno afflitto tutta Europa. E chi, in quella barbarie di tempi, cercava gli abituri della povera plebe, quando non fosse per manometterla o farnela uscire a parteggiare? Dante pellegrinava da castello a castello; né altro vedeva nel mondo fuorché imperatori, e re, e papi; e Cane, e Moroello, e Guido. I

villani « gli puzzavano »; e gli doleva di veder « cambiare e mercare » colui il cui avolo aveva limosinato %; né gli sarebbe paruto di mal fare, potendo pur rendere la religione stromento di vendette e di carneficine. Ai tempi di Dante prevaleva il dogma alla dottrina, nei nostri la dottrina prevale al dogma. Né vi ha dubbio che la più bella lode del cristianesimo, quella che lo ha più largamente sparso fra gli uomini, non sia la promulgazione della loro eguaglianza. Esso ha posto i plebei alto come i patrizi, più alto di loro; e fatti consapevoli i deboli e bisognosi di quel che loro debbano i potenti e felici, in-

segnando che « la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto ». ‘Cristo ha messo in terra il seme di una pianta che crescerà vieppiù robusta e più florida sempre, e fini‘rà con nutrire de’ suoi frutti tutte le genti: la su-

1 Parad., XVII, 130. 2 Parad., XVI, 55-83.

252

MANZONI

E GLI SCRITTORI

perbia si stancherà di portare la scure alle sue radici, e non sarà finalmente più mestieri d'irrigarle di sangue. Dalla dottrina di Cristo escono tutte le nuove teoriche dell'uguaglianza civile fra gli uomini: ne esce quel nostro guardare vieppiù sempre con manco di meraviglia sulle glorie dei conquistatori; la nostra nimicizia ad ogni soverchianza, sia regia o sia popolesca; la poca nostra umiltà dinanzi al solo pregio de’ nomi e del sangue: e cristianesimo, e ciò che oggi, da chi ben intende, è detto liberalismo, operano al conseguimento di un solo fine; il quale è di ravvivare l’amore del prossimo, di toglier di mezzo tutte le viziate cagioni di disuguaglianza, e stabilire il regno della giustizia. E a chi domandasse perché veggiamo essere alcun che d’ostile tra il cristianesimo

e il liberalismo,

se una

è l'intenzione

d’entrambi, molte cose si potrebbero dire in risposta, valevoli a dissipare i dubbi de’ timorati, e a scaltrirli contro le fallacie di coloro ai quali è utile che un siffatto vero non sia divulgato. Se non che ci bisognerebbe troppo più lungo discorso, che il nostro argomente non ci permetta di fare. Basti accennare, che il dogma ha già un tempo fatto violenza alla dottrina per ottenere la preminenza; e a vicenda la dottrina ha quindi potuto, col medesimo intento, fare violenza al dogma: ma verrà giorno che saranno veduti riconciliarsi. Senza il dogma, era impossibile il fondare;

senza

l'esame

e la controversia,

sarebbe

stato impossibile il progredire. E la dottrina del Vangelo splenderebbe forse men bella, mer pura, eziandio nei Promessi Sposi, se prima del Manzoni non fossero stati coloro che l'hanno senza rispetti messa ad esame, e, tentando ancora di sottrarle le sue

vecchie basi, forzatala a dimostrarsi immutabilmente ‘ costituita in verità, Se la dottrina de’ Promessi Sposi, x quanto alla religione, è antica, quanto alla sapienza. w

SCALVINI

- CRISTIANESIMO

MILITANTE

253

e liberalità, ond'è adoperata, ritrae palesemente dalla moderna filosofia.

GIOVITA SCALVINI *

TESTIMONIANZE EPISTOLARI [1827-1828] (15) Qui

si aspetta

Manzoni

a momenti.

Hai

tu ve-

duto il suo romanzo, che fa tanto rumore, e val tanto poco? (a PIETRO BRIGHENTI, Firenze, 30 agosto

1827). (...) Tra' forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l’Italia parla, e che ora è qui colla sua famiglia. (a MonaLpo

LeoPARDI,

Firenze,

8 settembre

1827).

(4) Io ho qui avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità, e degno della sua fama. (ad ANTONIO

FORTUNATO

STELLA, Firenze, 6 settembre

1827). (I Ho veduto la vostra ultima Antologia. Vi assicuro- ch'egli è un bel fascicolo, e che fa onore al Gior-

| nale. L'articolo sul Manzoni potrà trovare molti che abbiano opinioni diverse, ma certo non potrà ragionevolmente esser disprezzato. Solo quella divinizzazione che vi si fa del Manzoni, mi è dispiaciuta, perché ha dell’adulterio, e gli eccessi non sono mai :

* Da Foscolo Manzoni Goethe, Torino, Einaudi, 1948, pp. 219-221, 231-237.

‘254

MANZONI

E GLI SCRITTORI

lodevoli. (a GIAMPIETRO bre 1827).

(...) Ho veduto il romanzo

VIEUSSEUX,

Pisa, 31 dicem-

del Manzoni, il quale, non

ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente

opera di un grande ingegno; e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco a Firenze. È un uomo veramente amabile e rispettabile. (ad ANTONIO PaPADOPOLI, Pisa, 25 febbraio 1828). (5)

Ho piacere che Ella abbia veduto e gustato il romanzo cristiano di Manzoni. È veramente una bell’opera; e Manzoni è un bellissimo animo, e un caro uomo. (a MonaLpo LEOPARDI, Firenze, 17 giugno 1828). GIACOMO

« COGNIZIONE DI VITA [1835]

LEOPARDI *

VERA »

Non si può legger di tutto, come non si può mangiare di tutto; e i petits plats che ora portano in giro appena sfornati, non ci lasciano tempo di fare onore al rosbiffe della Vecchia Inghilterra o all’aromatico prosciutto della Virginia: Invece, son proprio questi cibi che formano muscoli e nervi. Che esercitano laboriosamente, ma nello stesso tempo aiutano, la digestione. Niente dispepsia con questa cucina! La dispepsia è conseguenza della Gastronomia Francese... Ma ecco, in compenso, un libro sul se-

rio; vorremmo darne una specie di resoconto, ma non è possibile riassumere. L'intreccio non è complicato, ma ciascuna parte è indispensabile alle altre. E * Da Lettere, Milano, Mondadori, 819, 825-826, 849.

1949, pp. 783-784, 818.

POE - COGNIZIONE

DI VITA VERA

255

lasciar fuori qualcosa, equivarrebbe a non dir nulla addirittura... È evidente che lo scrittore conosce bene la letteratura inglese, e forse ha preso almeno uno spunto da Walter Scott. Analogamente a come lo Scott si è servito delle memorie e tradizioni del proprio paese, Manzoni ha fatto tesoro di quanto trovavasi negli archivi degli staterelli italiani, ora cancellati dalla carta d'Europa. Le convulsioni dei piccoli stati, se meno importanti all'occhio del politico, di quelle delle grandi nazioni, offrono ai caratteri individuali maggiore

occasione

di affermarsi,

e maggior

campo

alle passioni sulle quali si fonda l'interesse romanzesco. Che cosa ormai si conosce delle grandi e nobili personalità che calcarono quelle scene, una volta che il teatro delle loro gesta è crollato e sepolto sotto la spazzatura rivoluzionaria? Disseppellire quelle figure insieme alle loro virtù, è officio degno e pietoso... Abbiamo familiare quanto si riferisce alle guerre civili inglesi; ci siamo esaltati nelle virtù ed abbiamo pianto sui dolori di quelli che in coteste . guerre ebbero tanta parte. Ma se dobbiamo credere alle memorie che offrirono materia a questo libro, la storia dei piccoli stati italiani sarebbe ricca di figure anche più meritevoli della nostra ammirazione e del nostro affetto. Il cardinal Borromeo è un personaggio storico. Evidentemente lo scrittore attese a: dipingerlo quale egli fu, e gli annali dell’umanità saranno frugati invano, per trovare esemplare più alto di purezza, entusiasmo e virtuosa ispirazione. Si potrebbe sospettare che una certa parzialità per la Chiesa cattolica abbia contribuito allo splendore di cotesto ritratto. Ma Manzoni, non meno di

Lutero, era consapevolissimo delle colpe della Chiesa cattolica... In un certo episodio ha addirittura sollevato una cortina dietro a cui non era mai stato

256

MANZONI

E GLI SCRITTORI

permesso di guardare. Ha svelato un mistero... La coercizione morale, più crudele di qualsiasi tortura fisica, per la quale una povera fanciulla, vittima dello snaturato orgoglio dei genitori, è tratta nel chiostro affinché il fratello possa disporre di maggior ricchezza: tutto questo restava per noi inconcepibile ed imperscrutabile. In libri come The Nun della signora Sherwood, si aveva l'impressione d’essere ancora e sempre nel regno delle congetture, Ma le scene descritte dal Manzoni, ci dànno « cognizione » di vera vita vissuta. Vorremmo offrire larghe citazioni di tali scene... Ma ci limiteremo a un estratto più breve, come saggio della potenza espressiva di questo scrittore. È una pittura di alcuni fra gli orrori della pestilenza che devastò Milano nel 1628, E può anche servire a persuaderci che la pestilenza dalla quale fummo afflitti zuccherino.

recentemente

fu, al confronto, EDGAR

uno

A. PoE*

MANZONI, LIBRO UNIVERSALE [1870...2] [1671]. Manzoni, libro universale: tutti vi possono imparare, dalla portinaia all’astronomo. Io lessi

Manzoni tre volte — mi diceva tale — a diversissime epoche e sempre ne fui ammirato poiché da fanciullo ci scorsi il sorgere e il tramontare del sole, la tempesta e il sereno — il racconto — da giovane, l’amore, la smania per le riforme, la rivoluzione — da vecchio infine, la pace della famiglia, la rassegnazione —

la vanità

del tutto. —

che osa scrivere che Manzoni

Eppoi c'è gente

non presenta grandi

* Da E. CEccHI, Poe e Manzoni, in Scrittori inglesi e americani, Milano, Il Saggiatore, 1962, vol. I, pp. 77-79.

DOSSI - MANZONI,

caratteri.

Non

ne

LIBRO

presenta?

UNIVERSALE

e Federico

257

Borromeo,

e fra’ Cristoforo, e i personaggi delle sue tragedie — e Napoleone — cosa sono?... e il popolo che è il più gran carattere di tutti? Ma pure, dimentichiamoli. Manzoni ne’ suoi libri, presenta lui stesso. Sfido voi a trovarmi un più grande carattere! — [1672]. Chi vanta scioccamente Guerrazzi su Rovani e Manzoni, insiste sulli scopi politici del Livor-

nese. Anche le gazzette hanno scopi politici. Ma questi scopi non sono che transitori, mentre non sussistono che gli « umanitari », e Manzoni ha appunto

tali ultimi scopi, che sono in fin dei conti l’« amore » e il « perdono ». E del resto ci vuol un bel fegato a negare lo scopo anche nazionale di Manzoni. Che è la storia dell'oppressione spagnuola che tu leggi ne’ Promessi Sposi se non la viva pittura dell’austriaca? Né Manzoni è, come altri dice — un quietista. Basta leggere i cori. Manzoni predica anche lui, ciascuno a casa propria, ma predica insieme l’universale fraternità. Lo muove meno l’odio per gli stranieri, quanto l’amore per gli uomini. Per quanto italiano egli non può dimenticare che sotto l’assisa dell'’oppressore batte un cuore di altro uomo. — Sì, Guerrazzi giovò — ma come giovano gli articoli delle gazzette: Manzoni invece come i libri di Storia. —

Non parliamo poi dello stile. Che mi

diventa

lo

sproloquio guerrazziano a fronte la manzoniana sobrietà?... Guerrazzi scrisse libri (e troppi), Manzoni li meditò. — Guerrazzi, come Verdi, non seppe mai .ridere!

Manzoni,

come

Rossini

e Shakespeare,

rise

e pianse in modo insuperabile. [2167]. Entrò nei presenti animi (1865-1875) forse

| per uno scusabile disgusto della paradossale e frondosa odierna letteratura francese, il pregiudizio che “semplicità negli scritti equivale a grandezza. E così

9 - Caretti

258

MANZONI

E GLI SCRITTORI

tu ti senti lodare insipidissima roba, come i bozzetti del De Amicis,

i romanzi

del Farina o del Bersezio,

il pedestre Nerone del Cossa, i cento sonetti del Neri Tanfucio ecc., sì confondendo la veste del pensiero, sempre lodabile se semplice, con il pensiero, che vuol essere acuto o profondo — quindi complesso, quindi non semplice. O leggete un po’ attentamente il così detto semplice Manzoni, e vedrete quali lunghe vedute, quali sottintesi profondi! Altro è semplicità, altro scipitezza. [2305]. Manzoni dice le cose sue, come il lettore vuole — Rovani, come il lettore non vuole — Dossi

parla per suo conto — R. simula

M. dissimula il non credere,

il credere, D. credendo,

non

crede —

M.

cambia le carte in mano al lettore a sua insaputa, R. gliele strappa di mano, D. confonde il giuoco — M. vuole che il bene si faccia per paura di un male di là della vita, R. dice che si fa per necessità,

D.

dice, per utilità — M. par creda nell’altra vita, R. non crede né in questa né in quella, D. crede in questa (la quale credenza, se anche non vera, è quella che onora l'umanità più di tutte) — Satiricamente M. corr. ad Orazio, R. a Giovenale, D. ad Ovidio — Della nuova letteraria vendemmia fatta coll’uva d’Alfieri, Parini, Foscolo, ecc. Manzoni

è il vino —

R. è

il torchiatico, D. la grappa — Del letterario inverno d’Alfieri, e compagni... M. è la primavera, R. l’estate, D. l'autunno. — M. R. D. non furono mai autori di moda, perché non uscendi di moda. [2306]. Manzoni nacque rivoluzionario. Andò sempre all'opposto della corrente di moda (benché seguente la corrente dei tempi). V. in proposito il ma- | gnifico studio su lui di Rovani — Manzoni mise al corrente la nostra letteratura colle straniere che l’aveano

divanzata;

anzi la fece loro antecedere.

;

t

DOSSI - MANZONI,

LIBRO UNIVERSALE

259

[2497]. I Promessi Sposi sono la pietra di paragone d'ogni romanzo che leggo. — Certo, vi ha ‘ libri, che per un istante seducono, sia eccitando le nostre passioni, sia mettendo in opra artifici che ‘paiono, a fiore d'occhio, arte — ma se riapri le eter-

ne pagine manzoniane e ne leggi un periodo, la calma ritorna al tuo spirito, la serenità al tuo giudizio.

[3525]. Nel magnifico funerale di Manzoni, si disse che Manzoni era un Santo perché dopo morto faceva miracoli, risuscitando nientemeno che i morti, cioè la « guardia nazionale ». — La guardia Nazionale ai funebri di Manzoni sentiva di canfora e pepe: ‘avea i cappotti bucati dalle tarme. Parea che il fucile portasse il milite e non il milite il fucile. — Il popolo chiedeva « Chi è questo Manzoni? » — E i preti gli rispondevano che era stato quello che ‘avea posta la tassa del macinato. Va e suda per la gloria! [3563].

Un romanzo

perché

sia perfetto —

essere, per così dire, un palazzo completo — ‘vessere

la sala, la cucina,

deve

ci de-

la chiesa, la cantina,

il

solaio, il giardino... — E tali sono i due divini romanzi dei Cento Anni e dei Promessi Sposi. CarLo

POETA

Dossi *

DELLA VERITÀ [1891]

Ringrazio dell’onorifico invito la cortesia lombar-

da, tanto buona e graziosa nel bel paese

dei Pro-

messi Sposi. ta

ps

* Da Note azzurre, Milano, Adelphi, 1964, Vol. I, pp. 92see. 134, 154-155, 214, 344, 351.

260

MANZONI E GLI SCRITTORI

Mi rallegro con l’arte lombarda di questa imagine del poeta della verità, tanto bene effigiata dallo scultore Confalonieri. Sento ancora profondo l'insegnamento e il piacere della vera sana ed alta cultura lombarda nelle eloquenti parole onde il senatore Negri ha illuminato in tutti i suoi aspetti il genio e l’opera di Alessandro Manzoni. E a questa festa del Manzoni in Lecco, festa non pur nobilmente provinciale ma gloriosamente italiana, io sono onorato di rappresentare la Università di Bologna; ma, anche senza rappresentanza, sarei accorso di gran cuore, come scrittore e come uomo.

Corre una leggenda di avversione mia al Manzoni. Avversario al Manzoni io che prima d'ogni altra poesia seppi a mente il coro del Carmagnola, e ho ancora a mente tutti gli inni sacri e le altre liriche, che a quindici anni avevo letto già, cinque volte, i Promessi

Sposi?

Nel triste decennio avanti il sessanta, quando certi « malvagi uccelli » garrivano con sparnazzamenti delle lor brulle penne sotto il volo dell’aquila'lombarda, io ebbi il torto di pigliarmela con l’opera religiosa del Manzoni. Ma ben tosto mi ravvidi, e credei e credo che pur negli inni sacri, così schivi della dogmatica e della formalità cattolica, risplendano quasi i princìpi stessi della rivoluzione, la fraternità anzi tutto e l’egualità umana, e poi anche la libertà intellettuale e civile, altamente sentiti da uno spirito cristiano con la temperanza della filosofia e dell’arte italiana. E mi dolsi e mi dolgo con rammarico, io che amo sopra tutto la gran poesia in versi, che il Manzoni, giunto alla maggior potenza della sua facoltà poetica con l’Adelchi e con la Pentecoste, quando mostrava più simpatica caldezza di rappresentazione che non il Goethe, più armonica saviezza d’inven-

CARDUCCI

zione che ristesse.

non

- POETA

l’Hugo,

mi

DELLA

VERITÀ

dolsi

e

mi

261

dolgo

che

Colpa le condizioni politiche purtroppo. Ma poiché dalla poesia voltosi alla prosa e nella prosa intesa meglio la propria virtù geniale fece del romanzo la gran vendetta su ’l dispotismo straniero e su "1 sacerdozio

servile ed ateo, io mi costringo

a sen-

tire meno acerbo il rammarico delle grandi opere di poesia ch'egli poteva ancor fare. Il sacerdozio comprese, e smorzò ben presto l’accensione per gl’inni sacri. Don Abbondio era una co| mica ammonizione al basso clero, padre Cristoforo e il cardinal Federico erano un tragico rimprovero al clero alto. Certi ammonimenti e certi rimproveri la Curia romana

non li vuole; e forzò il cattolicismo

a respingere la mano che verso la metà del secolo l'ingegno e la dottrina laica gli porgevano. La Curia romana respinse l’arte sovrana del Manzoni, l’eloquente dialettica del Gioberti, l'alta filosofia

e la virtù incontaminata del Rosmini. E applaudo a quella grande arte lombarda, che in tre tappe (perdonatemi il barbaro termine) rinnovò la coscienza letteraria e civile di nostra gente: la « moralità » col Parini, la « realtà » col Porta, la

« verità » col Manzoni. E come la « verità » intuita in tutti i suoi aspetti da un grande e sereno intelletto, da un animo alto e puro, diviene per se stessa « idealità », io applaudo all’interezza dell’arte in Alessandro Manzoni. Viva l’Italia! GIOSUE CARDUCCI

È

*

* Da Discorso, in Opere, Bologna, Zanichelli, 1939, vol. XX, pp. 421-423.

"

262

MANZONI E GLI SCRITTORI

RITORNO AL MANZONI [1896] Oh! io torno al Manzoni Che libro vivo, fresco, nuovo!

e ai Promessi Sposi! Sì, nuovo, non ostante

che d'allora in poi ci siamo provati, dietro le orme di stranieri, in tante novità!

vità vecchie, esotiche

nate

con

Ma erano,

le grinze. Ma

dunque, no-

erano

piante

che, nel terreno non loro, o non attecchiva-

no o subito tralignavano. Eppure dai Promessi Sposi avremmo potuto imparare a fare analisi psicologiche, pitture d'ambiente, descrizioni naturali (la vigna

di Renzo, ricordate? e ripensate il Paradou dove tutto fiorisce a un tempo, e le piante inselvatichite fanno

doppi

Goncourt,

i fiori) da

Zola;

non

e nei Promessi

vato in formazione

invidiare

Flaubert,

Sposi avremmo

tanti generi di romanzo

i

tro-

che poi

tennero e tengono il campo, cadendo e sparendo via via, perché in essi è fatto elemento principale di vita quello ch'è il più piacevole ma il più fuggevole dei pregi: la novità. Ma i nostri vecchi dal grande capolavoro

manzoniano

imitarono,

non

impararono;

e si sa che l'imitazione in arte è ciò che è la putrefazione in natura: dissolve un genere per dar luogo a un altro; e imitarono poi ciò appunto che persino all'autore pareva la cosa manchevole e assurda del suo quadro: la cornice! Quanto poi alla freschezza, alla vita, alla grazia, all'ordine, alla proporzione, al sorriso di malizia, al senso d’eleganza, queste cose sono rimaste nel quadro. Dunque io torno al Manzoni e al suo immortale romanzo. Lo lessi la prima volta in un agosto come questo, in monti come questi: ! quanti anni sono? 1 I monti di prima sono gui d'Urbino; i monti di poi, quelli di Barga.

PASCOLI - RITORNO AL. MANZONI

Molti,

molti, molti.

chiusi

gli esami,

Lo

in quei

leggevo, primi

265

finite le scuole giorni

e

di vacanza,

che vi compensano, con la loro ineffabile pace, dei molti mesi di fatica e di soggezione. Sono come la pioggia estiva dopo l’afa a lungo durata: si gode come «in quella rinfrescata, in quel sussurrìo, in quel

brulichìo dell’erbe e delle foglie tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre »; si mettono « certi respironi larghi e pieni »! O divino Manzoni, io risento ora

sfogliando il tuo libro quello che sentivo allora leggendo nel cassetto del tavolino i tre piccoli tomi ben rilegati di un'edizione milanese; quando rapito, assente, altro, provavo in me (ma allora non avrei saputo citare Aristotele), mediante la pietà e il timo-

re, compiersi la catarsi di così fatte passioni. GIOVANNI

PASCOLI

*

UMORISMO MANZONIANO [1908] Ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorga nell'umorista si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no, che viene in fine ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta l’umorista di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla l’altro sentimento che pare non abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli parla e comincia a muovere

ora una timida scusa, ora un’at-

. tenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un'’arguta riflessione che ne smonta la serietà e induce a ridere.

Così avviene che noi dovremmo * Da Eco di una notte mitica, dadori, 1952, vol. I, pp. 124-125.

paterna

tutti provar di-

in Prose,

Milano,

Mon-

264

MANZONI

E GLI SCRITTORI

sprezzo e indignazione per don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso un matto da legare don Quijote; eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia per quello, e ad ammirare con infinita tenerezza le ridicolaggini di questo, nobilitate da un ideale così alto e puro. Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Fe-

derigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane. Per la naturale disposizione dello spirito, per l’'esperienza della vita, che gliel'ha determinata, il Manzoni non può non sdoppiare in germe la concezione di quell’idealità religiosa, sacerdotale: e tra le due fiamme accese di fra’ Cristoforo e del cardinal Federigo vede, terra terra, guardinga e mogia, allungarsi l’ombra di don Abbondio. E si compiace a un certo punto di porre a fronte, in contrasto, il sentimento attivo, positivo, e la riflessione negativa; la fiaccola

accesa del sentimento e l’acqua diaccia della riflessione; la predicazione ‘alata, astratta, dell’altruismo, per veder come si smorzi nelle ragioni pedestri e concrete dell’egoismo. Federigo Borromeo domanda a don Abbondio: « E quando vi siete presentato alla Chiesa per addossarvi

codesto

ministero,

v'ha essa

fatto

sicurtà

della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da

PIRANDELLO - UMORISMO

MANZONIANO

265

ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario? Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam

nominare

e ci nominiamo

pastori,

venendo in terra a esercitare l’ufizio, mise forse per

condizione d'aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c'era bisogno dell’unzione santa, della imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredire i comandamenti. Non lo vuole ed è ubbidito! E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine? » Don Abbondio ascolta questa lunga e animosa predica a capo basso. Il Manzoni dice che lo spirito di lui «si trovava tra ‘quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un'aria che «non ha mai respirata ». Il paragone è bello, quantunque a qualcuno l’idea di rapacità e di fierezza che è nel falco sia sembrata poco conveniente al cardinal Federigo. L'errore, secondo me, maggiore o minor convenienza del | nel paragone stesso, per amore del - volendo rifar la favoletta d’Esiodo,

non è tanto nella paragone, quanto quale il Manzoni, s'è forse lasciato

266

MANZONI E GLI SCRITTORI

andare a dir quello che non doveva. Si trovava don Abbondio veramente sollevato in una regione sconosciuta tra quegli argomenti del cardinal Borromeo? Ma il paragone dell’agnello tra i lupi si legge nel Vangelo di Luca, dove Cristo dice appunto agli apostoli: « Ecco, io mando voi come agnelli tra i lupi ». E chi sa quante volte dunque don Abbondio lo aveva letto; come in altri libri chi sa quante volte aveva letto quegli ammonimenti austeri; quelle considerazioni elevate. E diciamo di più: forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose. Tanto vero che, in astratto, egli le intende benissimo: — Monsignore ‘illustrissimo, avrò torto, —

de infatti; ma la vita non

s'’affretta a soggiungere:

si deve

contare,

non



so cosa

rispon-

Quando mi

dire.

E allorché il Cardinale insiste: — E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la « buona nuova » che annunziate ai poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare state a dovere i potenti; ché a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v'era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo. —

Anche

questi santi son

curiosi, —

pensa

don

Abbondio: — in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d'un povero sacerdote. E poiché il cardinale è rimasto in atto di chi aspetti una —

Torno

risposta,

risponde:

a dire, monsignore,

Il coraggio, uno

non

che avrò torto io...

se lo può dare.

:

PIRANDELLO - UMORISMO

MANZONIANO

267

Il che significa appunto: — Sissignore, ragionando astrattamente, la ragione è dalla parte di Vossignoria Illustrissima; il torto sarà mio. Però Vossignoria Illustrissima parla bene, ma quelle facce le ho viste io, le ho sentite io quelle parole. — E perché dunque, — gli domanda in fine il Cardinale, — vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Oh, il perché noi lo sappiamo bene: il Manzoni stesso ce l’ha detto fin da principio; ce l’ha voluto dire e poteva anche farne a meno: don Abbondio « non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era [...] accorto, prima quasi di toccare gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di

molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obbli-

ghi e. ai nobili fini del ministero al quale si dedi‘cava: procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe privilegiata e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta ». In lotta dunque con le passioni del secolo? Ma se egli s'è fatto prete per guardarsi appunto dagli urti di quelle passioni e col suo «sistema particolare » di scansar tutti i contrasti! Bisogna pure ascoltare, signori miei, le ragioni del coniglio!

Io immaginai

una

volta che alla tana

. della volpe, o di Messer Renardo, com'essa si suol chiamare nel mondo delle favole, accorressero a una a una tutte le bestie per la notizia che tra loro s'era sparsa di certe controfavole che la volpe avesse in animo di comporre in risposta a tutte quelle che da tempo immemorabile gli uomini compongono, e da cui esse bestie han forse motivo di sentirsi calun-

268

MANZONI

E GLI SCRITTORI



niate. E tra le altre alla tana di Messer Renardo veniva il coniglio a protestare contro gli uomini che lo chiamano pauroso, e diceva: « Ma ben vi so dire per conto mio, Messer Renardo, che topi e lucertole

e uccelli e grilli e tant'altre bestiole ho sempre messo in fuga, le quali, se voi domandaste loro che concetto abbiano di me, chi sa che cosa vi risponderebbero,

non

certo

che

io sia una

bestia

paurosa.

O

che forse pretenderebbero gli uomini che al loro cospetto io mi rizzassi su due piedi e movessi loro incontro per farmi prendere e uccidere? Io credo veramente, Messer Renardo, che per gli uomini non debba correre alcuna differenza tra eroismo e imbecillità! ».

Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo*che pur di « spuntare l'impegno » egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel’avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dal-

la chiesa, e Renzo anch'egli ucciso. A che giovano l'intervento, il suggerimento di fra’ Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di Monza? C'è la « lega dei birboni », come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune pagine meravigliose esaminando il sentimento della paura nel povero curato; ma non

ha tenuto conto di questo, perbacco: che il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente « ragione d'aver paura », quando vediamo preso, im-.

PIRANDELLO - UMORISMO

MANZONIANO

269

pigliato in un contrasto terribile, uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe bastarci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come fra’ Cristoforo, che va ad affrontare il nemico

nel suo stesso palaz-

zotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere;

ma

questo

dovere,

dalla nequizia

altrui,

è

reso difficilissimo, e però quel coraggio è tutt'altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al

posto d'un eroe troviamo don Abbondio. possiamo,

se non

astrattamente,

sdegnarci

Noi non di

lui,

cioè se in astratto consideriamo il ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse te| nuto conto della minaccia e del pericolo e avesse ‘ adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non è l’eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non

ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha né punto né poco; e «il coraggio, uno non se lo può dare! ». . Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz'altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialità e sa veder più a fondo, sente che il-riso qui scaturisce da ben altro, e non è soltanto quello della comicità. Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perché, pur avendo,

come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sé la ri- flessione che gli suggerisce che quest'ideale non si.

270

incarna

MANZONI E GLI SCRITTORI

se non

per rarissima

eccezione,

e però

lo

obbliga a limitare quell’ideale, come osserva il De Sanctis. Ma questa limitazione dell'ideale che cus'è? è l’effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest’'ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio è appunto questo sentimento

del contrario

oggettivato

non è comico soltanto, ma damente umoristico. « Bonarietà? Simpatica

e vivente;

e però

schiettamente

e profon-

indulgenza? »

Andiamo

adagio: lasciamo star codeste considerazioni, che so-

no in fondo estranee e superficiali, e che, a volerle approfondire, c'è il rischio che ci facciano anche qui scoprire il contrario. Vogliamo vederlo? Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover'uomo di don Abbondio;

ma

nello stesso

è un compatimento,

tempo

signori miei, che

ne fa strazio, necessariamente.

Infatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui,

egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a

ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le coasiderazioni pietose si stringono a

proteggere il povero

curato, tanto più attorno a lui s'allarga il discredito del valore umano.

aver compatimento

Il poeta, insomma,

ci induce

ad

del povero curato, facendoci ri-

conoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che co-

stui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina in don Abbondio, tanto

più si allarga e quasi vapora in una tristezza infi-_ nita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da

questo lato la rappresentazione del curato manzonia‘no, noi non sappiamo più riderne. Quella pietà, in

PIRANDELLO - UMORISMO

MANZONIANO

271

fondo, è spietata: la simpatica indulgenza non è cusì bonaria come sembra a tutta prima. Gran cosa come si vede, avere un ideale — religioso, come il Manzoni; cavalleresco, come il Cer-

vantes — per vederselo poi ridurre dalla riflessione in don Abbondio e in don Quijote! Il Manzoni se ne consola, creando accanto al curato di villaggio fra’ Cristoforo e il cardinal Borromeo; ma è pur vero che, essendo

egli sopra

tutto

umorista,

la crea-

tura sua più viva è quell'altra, quella cioè in cui il sentimento del contrario s'è incarnato. Il Cervantes non può consolarsi in alcun modo perché, nella carcere della Mancha, con don Quijote — come egli stesso dice — genera « qualcuno che gli somiglia ». LUIGI PIRANDELLO *

LA POESIA ONESTA [1911] Ai poeti resta da fare la poesia onesta. C'è un contrapposto, che se può sembrare ficioso, pure rende abbastanza

arti-

bene il mio pensiero.

Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria:

è fra Alessandro

Manzoni

e Ga-

briele d'Annunzio: fra gli Inni Sacri e i Cori dell’Adelchi, e il secondo

libro delle Laudi

e la Nave:

fra

versi mediocri ed immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell'uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore (perché chi ha un candido rispetto per * Da L’umorismo, in Saggi, poesia e scritti vari, Milano, Mondadori, 1960, pp. 139-145.

DR.

MANZONI

E GLI SCRITTORI

l’anima propria, lo ha anche, all'infuori della stima o disistima, per quella cui si rivolge) sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza dei due valori. A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d'Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni

che non sono mai state nel

suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io. e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta

da motivi re-

ligiosi; perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ‘ogni interpunzione, Ne viene che quando ad uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera d’arte, se questi è il Manzoni, non per tanto egli ci diventa antipati- : co, come uno che erra per imperizia o per paura di derogare da quello che in buona fede ritiene sia il giusto ed il vero;

se invece

è il d'Annunzio

egli ci

irrita e disgusta come un individuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una mercanzia sospetta. E se gli imitatori o i minori

danno un'idea ancor più precisa di una tendenza. come quelli che o la esagerano o non la superano

universalizzandosi, si vede che mentre la lirica del Manzoni, anche immiserita in quella dei seguaci, dà pur sempre qua e là alcune strofe degne di essere .

SABA - LA POESIA ONESTA

273

apprese con rispetto, le Laudi si gonfiano ed esplodono nei manifesti stradali del futurismo. Da un manzoniano, anche di non altissimo ingegno, si poteva sempre attendersi qualcosa di buono, perché aveva appreso dal maestro non la necessità di essere un grand’'uomo, né uno scrittore ‘originale ad ogni costo: ma quella di essere, nella vita come nella letteratura, un uomo onesto. UMBERTO

SABA *

L’EPILOGO DEL ROMANZO [1923]

L'acquazzone che coglie Renzo alle porte di Milano è l’ultimo particolare storico registrato nel romanzo. Nel tempo stesso che si lascia la città alle spalle, Renzo viene a disimpegnarsi da quella parte saltuaria di personaggio-testimone storico della quale l’autore, con sapientissima discrezione e senza far-

gliela mai troppo pesare (ch'è il grand'’incerto di personaggi del genere), l'aveva investito quasi ininterrottamente dopo il capitolo XI. Le occasioni che gli facevano

impegno

nute meno,

una

a una parte siffatta sono

dopo l’altra. Mentre

tutte ve-

egli ritorna

a

gran passi nel suo paese, tutta la base del racconto viene ad alleggerirsi e dal romanzo storico si entra nella novella borghigiana con domestico finale. di commedia. L'artista che prima dipingeva sopra una tela accortamente preparata con fondi «illustri » d'oro e d'argento si trova a dipingere sul nudo traliccio: ed è così che, prendendo gusto alla nuova maniera, vi s'indugia forse un tantino più dello stretto necessario. * Da Quello che resta da fare ai poeti, in Prosa, Milano, | Mondadori, 1964, pp. 751-752.

o fissi 274

MANZONI

E GLI SCRITTORI

/

Le acque agitate tornano dunque allo specchio normale. Per altro la peste ha messo in tutto il paesaggio, e particolarmente in quegli abitati lacustri, una sospensione, un vuoto, un silenzio attonito e doloroso. Già pieno di dolce malinconia è quei ritrovarsi di Renzo, all’alba piovosa, sulle rive dell'Adda. «I nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C'era dentro il suo. » La mattina dopo sale a Pasturo in cerca d’'Agnese. Non la rivedeva più da Monza, dalla mattina dopo la loro fuga in barca e baroccio dal paese. « Era ancor presto quando ci arrivò: ché non aveva meno fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore », dice il Manzoni con l’usata malizia. L'’incontro è dei più festevoli. Il giorno dopo Renzo va nel paese di Bortolo, spopolato anch'esso dalla peste, e in pochi giorni gli è facile trovar casa e apprestarla con poca spesa. Poi rieccolo ai paese, trottar di nuovo alla volta di Pasturo, persuadere Agnese di tornare

finalmente

a casa

sua

e inettersi

in

ordine per accoglier Lucia, visto che la peste cramai non fa più danni. I due passano così qualche giorno in quel paese mezzo

vuoto

(morta Perpetua, mor-

to Azzeccagarbugli, e poi amici e parenti senza numero): Agnese annaspando la seta nella casa solitaria, Renzo

incaricandosi

di metterle un po’ in or-

dine l’orto insalvatichito. In quel silenzio: « Una sera, Agnese sente fermarsi un legno all’uscio ». È Lucia che finita la quarantena arriva con la buona vedova che le era stata compagna nel lazzeretto. La mattina dopo capita Renzo, senza saper nulla. « Vi saluto: come state? » son tutte le parole che Lucia dice allo sposo; ma noi non ci meravigliamo, ché a quel fior d’espansività ci siamo

avvezzi,

senza

farci per

altro

ingan-

BALDINI - L'EPILOGO DEL ROMANZO

nare, come molti critici del romanzo no di vederci

freddezza

275

che pretendo-

o chi sa che. Renzo,

senza

por tempo in mezzo, corre da don Abbondio e gli chiede: « Le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? ». Ma la paura di don Abbondio non ha fondo: un po’ di quel mal di capo effettivamente gli è ancora rimasto; e quando Renzo gli dice d'aver visto don Rodrigo nel lazzeretto, nemmeno allora vuol fidarsi che sia mor«to davvero; e occorre la testimonianza d’Ambrogio, il campanaro, il quale ha visto coi suoi occhi arrivare in paese l’erede per fidecommisso dei beni di don Rodrigo. Solo allora viene finalmente rimossa quella gran ‘pietra che gli avevano messa sullo stomaco i bravi incontrati nel primo capitolo. Sparisce il mal di testa e di punt'in bianco don Abbondio diventa un altr'uomo. Gli si scioglie la parlantina, non ha più peli sulla lingua, il suo animo s'effonde, tutta la sua cattiveria di timido rifiata, la sua viltà s’esalta,

e tutt'assieme riesce in fondo anche a far capire il bene che sapeva volere ai suoi parrocchiani. Nulla è più comico di questo suo venire in piena luce alla ribalta proprio all'ultimo capitolo. Con che feroce soddisfazione ora può dire: « intanto, lui non c'è più, e noi ci siamo! »; « Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa, con quell'aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione ». Perde ogni pudore: arriva a far l'elogio della peste. Scherza, motteggia,

. fa persino il galante colla vedova di Milano, piglia perfino l'offensiva contr'Agnese e Lucia, dà del buffone a Renzo. La disinvoltura che poi dimostra col | marchese erede, e la perorazione in favor dello spo-

so, e la diplomazia che spiega nel suggerirgli i modi del contratto per l'acquisto da parte del marchese

ani ieliti

276

MANZONI

E GLI SCRITTORI

della vigna di Renzo e delle due casette degli sposi! Ne vien fuori un altr'uomo, assolutamente: ma per appunto esattamente quello che Poca stare dentro la buccia del primo. ANTONIO

MANZONI

ITALIANO E MILANESE [1927]

È questo romanzo laico, come

BALDINI *

per sua costituzione un libro

il Tom Jones o il Wilhelm Meister. Con-

tiene una figura di prete, don Abbondio, figura comica, forte come Falstaff e forse più comica di Falstaff, e la sua vita continua nella fantasia degli uomini come quella di Falstaff. Ma è impregnato nello stesso tempo di religiosità, di cristianità cattolica, postridentina, come nessun altro libro della letteratura mondiale, (Gli storici italiani della letteratura parlano di un’aura di giansenismo, che l’attraversa —

e certo hanno ragione se credono di sentirci que-

sto, ma se accentuano solo questa delicata sfumatura di tono e non la straordinaria cattolicità del complesso, è solo perché a essi, come italiani, questa è cosa naturale e per sé comprensibile. Una umanità

di stampo

antico,

vecchia

e giovane

a un

tempo, impregnata fino al midollo dallo spirito della cristianità cattolica —

in questa sintesi inverosimil-

mente perfetta ci lampeggia una rivelazione, forse la più alta, dell’italianità. Con questa persuasione nel cuore, si potrebbe parlare di questo come di un libro quasi indistruttibile, per quanto almeno reggano le fibre stesse di quell’antico popolo. i Che I Promessi Sposi si annoverino tra i roman* Da Finale dei « Promessi Sposi », in « Quel caro magoli di Lucia », Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, PP. 2-5.

VON

HOFMANNSTHAL

- M. ITALIANO

E MILANESE

277

zi nati dietro l'impulso delle rappresentazioni di antica vita scozzese di Walter Scott — i primi romanzi « storici » del secolo XIX — si trova in ogni storia letteraria. Ma queste indicazioni non servono a gran cosa, tutto si riduce all'opera singola in se stessa, e mai Scott ha creato qualcosa che si lasci paragonare in composizione e disegno dei caratteri col libro unico del Manzoni. Il secolo XVIII aveva conosciuto solo ragione e realtà immediata. Ora compariva una

generazione, che si dedicava allo studio dei caratteri permanenti, del popolo, dei ceti, della lingua, dei costumi e con ciò anche del passato. Il Manzoni era un italiano e in maniera meravigliosa, — ma anzitutto era un milanese. Lo stato cittadino lombardo a cui egli apparteneva — da secoli ormai dominato da stranieri — inoltre il paese dipendente dalla città, questa era anzitutto la sua patria. Una storia spesso gloriosa, spesso cupa, un popolo ben definito, attivo e savio, un dialetto stimolante, in cui si lascia esprimere

ogni umore,

un maraviglioso

territorio che partecipa della pianura e si spinge fino alle grandi catene di montagne, e in esso i più bei tre laghi d'Europa: ecco la sfera conclusa, che il suo animo abbraccia. Rendere interamente questa completa unità in un'opera d’arte, era il profondissimo colpo, il presentimento fecondo del come una simile composizione fosse da incorniciare e la possibilità di esprimere quell’amata perennità nell’immagine del passato, molto verosimilmente venne dallo scrittore scozzese, e il lombardo lo seppe accogliere; in simili legami di spiriti allora per un momento comincia a brillare l'Europa. Per manifestare sensibilmente l’amore della città,

si dovette scegliere un episodio fosco e pauroso della sua storia; solo così nasce il pathos, che accompa_gna il pensiero che la città ha vissuto simile esperienza, ch'essa ne porta le memorie nelle sue visce-

278

MANZONI

re. Un avvenimento

E GLI SCRITTORI

tale che riguardasse l’intera cit-

tà, minacciasse nello stesso tempo tutte le vite, creasse singolari e paurose concatenazioni e scioglimenti,

era la peste del 1628. E anche, insieme, in quell’epoca dominava un elemento analogo alla presente: allora come

ora stava

la città sotto un dominio

stra-

niero: allora spagnuolo, ora austriaco; — ma ancora più propriamente, nel ritmo più intimo, come tempi di restaurazione e di reazione, sono affini l’inizio del

diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. In questa cornice son collocate le figure, non moltissime,

ma

così

maravigliose

nella

scelta

e nell’esecu-

zione, che tutta la scala del popolo lombardo vi compare, sia secondo i ceti e i gradi di educazione, sia secondo le varietà dei caratteri. Si possono collegare le figure principali in quattro coppie. Allora si starebbero di fronte il signorotto don Rodrigo e il giovane contadino Renzo; la ragazza di campagna Lucia e la « signorina » (la giovane badessa di alta nobiltà); l'ignavo, quasi indegno parroco don Abbondio e il grande cristiano fra’ Cristoforo;

po Innominato e il chiaro cardinal

infine il cu-

Borromeo., Tutti

questi personaggi e molti altri minori sono costantemente collegati fra loro dall'invenzione del tutto, l’azione è così condotta che nulla sembra inventato in grazia di una singola tra le figure, ma tutto solo in funzione della necessità e naturalezza della vicenda, e pure a tutte vengono offerte le occasioni di svelarsi interamente come in una luce traspa-

rente, senza che il narratore si lasci andare mai a spogliarne apposta anche una sola in uno dei suoi impulsi. Quest’altissima vitalità, che è anche un culmine di discrezione, viene attuata da una rappresentazione estremamente modesta, penetrante e precisa, che nel tono somiglia a una relazione, che un amministratore (sia egli amministratore di beni terreni o 3

È Ù

VON

HOFMANNSTHAL

- M. ITALIANO

E MILANESE

279

di anime) fornirebbe a uno più alto, per informarlo in maniera veramente ricavare

un

giudizio.

precisa perché Su questo

tono

egli ne possa —

per

racco-

gliere solo alcuni esempi — si dà notizia delle devastazioni che ha sofferto la casa del parroco dal saccheggio dei soldati, e in maniera del tutto simile delle circostanze, pel cui concatenamento la « signorina » viene spinta a un'’orgogliosa infelicità e infine al delitto. O si fa l'inventario spirituale d'una natura mediocre come Agnese, la madre di Lucia, senz'abbellimenti;, ma anche senza caricare particolarmente sul meno buono, sul comune egoismo di lei,

e nella stessa maniera si stende rapporto sul mondo dei servi e dei banditi dipendenti dall’Innominato, ed è resa con precisa evidenza la singolare mescolanza di orrore e di compiacenza, con cui essi gli sono legati — senza alcun chiaroscuro romantico, ma nettamente, all'antica. Nulla in generale è così lontano dal romantico quanto lo stile di questo libro, che va annoverato tra i capolavori dell’epoca romantica. E persino la sobrietà antiromantica di Stendhal appare quasi affettata, se la si misura con l'immediata, naturale sobrietà di questa narrazione. Huco

MANZONI

A Farewell

come

to Arms:

von

HOFMANNSTHAL *

E HEMINGWAY [1945]

Un addio alle armi;

e non

si legge su una recente copertina Mondadori,

Addio alle armi. mo

La precisazione potrà apparire dettata da un coldi pignoleria. Ma viva la pignoleria, se riuscirà

. * Da «I Promessi Sposi» del Manzoni, in Viaggi e saggi, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 288-291.

280

MANZONI

E GLI SCRITTORI

a sottrarre uno dei più autentici capolavori della letteratura del Novecento a un titolo assurdo, d’un ottocento decisamente minore, vivantiano! i Eppure, eseguito che si sia il restauro, è incontestabile che una leggera aura liberty persiste a circolare attorno al titolo del libro di Hemingway: un libro che insieme con pochi altri, di cui qualcuno

italiano, resta forse la più alta testimonianza poetica della prima guerra mondiale. In realtà, A Farewell to Arms, anche se scritto e pubblicato ben addentro nel nuovo secolo, risulta, oggi, un'opera chiave, arbitra fra due età polemicamente opposte l’una all'altra. In essa sembrano riassunte tutte le esperienze letterarie dell'ottocento; e insieme anticipate quelle di questi ultimi quarant’anni. Il titolo, dunque, così com'è, mezzo ottocento e mezzo novecento, conviene perfettamente ad un romanzo tutto intriso del sentimento, della malinconia e dell’amarezza del

secolo che fu di Flaubert, e al tempo stesso armato dell’incredulità (e dell’empietà) di quello contemporaneo, Ad

un'opera

di tanta

importanza

possono ‘esse-

re riconosciute, non importa se magari voli, tutte le astuzie, tutte le intenzioni.

inconsapePer esem-

.pio: da dove avrà preso, Hemingway, il doppio viaggio del suo tenente Henry a Milano? Dai Promessi Sposi?

Chi lo sa. Ad ogni modo, sia ben chiaro: niente di più dissimile della Milano di Hemingway da quella di Manzoni, dove; se la morte e il dolore corrono le strade, ogni donna ha però il viso di Lucia. Sì, è vero: il Manzoni non seppe, non poté, o non osò (meno moderno, in questo, di un altro milanese a

lui contemporaneo: Stendhal), trarre tutte le con-. seguenze rivoluzionarie, da un punto di vista psico-

logico-sentimentale, che la vicenda esemplare del suo contadinotto

gli offriva. E, restituito

Renzo

Trama-

BASSANI

- MANZONI

E HEMINGWAY

281

giino. alla quiete, e alla noia, delle filande bergamasche, non esitò a porgli in bocca, come « sugo » di tutta la storia, la rinuncia della saggezza e della concretezza cattoliche. Ma d'altronde: perché dovremmo chiedere a Manzoni — a questo Dante scaltrito dagli enciclopedisti e domato dai RR.PP. Gesuiti — quello che mai chiederemmo, che so, al Tolstoi di Guerra e pace, alla sua Natascia che sposa Pierre, e dimentica il principe Andrea? La vita non è appunto così: ansiosa di cancellare il passato, due

lunque esso sia, e di guarirne? La Milano del tenente Henry non è la città della peste, no. Tuttavia, sebbene sia piena d'’ospedali dove i soldati reduci dal fronte riacquistano l’uso delle articolazioni offese e il gusto della vita, ha ben poco di comune con la città della speranza che accoglie e redime i profughi di Olate: Renzo Tramaglino, Lucia Mondella, e il frate Cristoforo. Ciò che Milano fu per Renzo, è stata, per il tenente

Henry,

Go-

rizia, la città testimone dell'amore e della guerra: la città della grande avventura sentimentale, insomma, della quale, a Milano, urge ormai sbarazzarsi. Addio alle armi: e cioè addio alle passioni, alla giovinezza dell'anima e dei sensi. Dentro gli ospedali milanesi, nei caffè, alle corse, negli alberghi propizi ai convegni degli amanti, nell’agio protetto e ipo-

crita della retrovia, tramontano davvero tutte le illusioni... Un amico di adolescenza soleva spesso mettermi in guardia

contro

gli accostamenti

suggestivi,

non

autorizzati dalla prospettiva storica. Hemingway e Manzoni: il paragone, lo so bene, non regge che su un piano di paradosso. Ciò nondimeno, pensiamo un istante al significato che ebbe una città come Milano per i nostri più grandi romantici (Porta, Manzoni); a quel che suggeriva l'odore cavallino delle sue strade a uno scrittore, e a un uomo, come Sten-

282

MANZONI

E GLI SCRITTORI

dhal; ed ecco, forse non

sembrerà

più così arbitra-

rio immaginare che qualcosa di più urgente e più necessario del puro caso abbia condotto attorno ai bastioni nebbiosi di questa città straordinaria fantasie poetiche fra loro tanto diverse. Forse proprio Milano, e la pianura lombarda, e le tristi nebbie che salgono da essa a sfumare gli argini del Po (il paesaggio

più umano,

meno

retorico

del mondo),

era-

no il luogo obbligato, non evitabile, dove, al principio e al termine di un glorioso secolo letterario, stava scritto che si sarebbero dovuti incontrare un certo numero di grandi spiriti, di grandi poeti, tutti ugualmente infastiditi, e sia pure per differenti ragioni, della letteratura e della retorica. GIORGIO

LO

Nel romanzo tissima

« SLIRICAMENTO [1953]

si prega soltanto:

discrezione,

dovuto

ad un

BASSANI *

»

un silenzio di alaumento di rive-

renza e di adorazione, esclude e conclude in una reticenza sublime e inviolabile, la messa, la confessione, la comunione

sì di Lucia e sì dell’Innominato,

sì di don Abbondio, che poi in punto di fede non ha incrinature, e sì degli altri, compresi la Monaca e don Rodrigo,

che, peccatori

e criminali

e sacrile-

ghi, non hanno mica nulla del libertinaggio e dell'empietà filosofica, e non foss’altro per la loro condizione sociale, dovevano adire ai sacramenti e « praticare ».

)

Riserbo, a Sr non davvero ignara e non elusiva: anzi. Da tutto quel che sappiamo del Manii Da I Bastioni di Milano, rino, Einaudi, 1966, pp. 51-53.

in Le parole preparate,

TO U

BACCHELLI - LO SLIRICAMENTO

zoni, ‘scritto

nella

Morale

cattolica,

283

e in ogni-sua

pagina di moralista e d’apologeta; da tutto il confidato o trapelato; ma sopra tutto da quel ch'egli di sé tacque e riservò, proprio dal silenzio sulla sua

esperienza religiosa e mistica, si deduce e s’induce in quella discrezione e in quel riserbo una grande e varia somma spirituale di tremanti e rapite adorazioni agostiniane, di severi scrupoli giansenistici, di fervente ed umiliata fede cattolica, di disperazione nell’umano e di speranza nel divino, di fede rassegnata nel senso sublime ed eroico della parola, che non esclude né ignora, coi salmi penitenziali, coi mistici tutti, e colla messa medesima, gli scoramenti per cui adhaesit pavimento anima, necessari al risorgere della tristezza che chiede ed invoca: Quare tristis est anima mea? Tale inviolabile riserbo, adorante e trepido e scrupoloso, nel procedere dai due drammi, dove la colpa è peccato politico e storico, più d'orgoglio semmai che d'altro, al romanzo, dove tutti i peccati concorrono a travolgere la colpa in ogni sorta di delitto e di perversità, diviene, nel romanzo, un limite ed una inibizione, sensibile certamente, e forse più che ad ogni altro, al Manzoni stesso, prima avviato, negli Sposi promessi!, ad accompagnar l’azione e le passioni con un perpetuo commento teologico-mo-

rale eloquentissimo, e tanto lontano dalla oggi classica « arguzia e misura manzoniana ». Ma proprio in tale limite e mercé tale inibizione si avvera la perfezione poetica del gran libro. Questa che fu una grande conquista artistica, fu detta da lui uno « sliricarsi »; e ammesso

il concetto

e la nomenclatura dei generi letterari, è un detto ve‘ro, a patto d’'intendervi che fu un processo e progresso del mestiere e dell’arte, approssimativi nei .! È da intendere, anche qui, il Fermo

e Lucia.

284

MANZONI

drammi,

esattissimi

E GLI SCRITTORI

nel romanzo.

Mestiere

ed arte,

processo e progresso, importarono: abbandono del verso e adozione della prosa; ripudio della tradizionale lingua classica e lingua poetica e lingua scritta, riformata in lingua moderna e lingua prosaica e lingua dell’uso; oltre, e crediamo più esattamente, che uno «sliricamento », una’ « diseroicizzazione »; infine, nell'arte e nella poesia, una severa rinuncia

del poeta a qualunque effusiva e personale espressione, che limita, e relega il mondo di passione e pensiero e religione, il mondo personale da cui il creato poetico nacque, in una silente reticenza grandiosa e potente, e in un supposto,

lasciato a noi, critico, sto-

rico, biografico, psicologico. Supposto più importante e affascinante, che non, attraente e soddisfacente; sia perché la forza e l’importanza del Manzoni critico e pensatore sta proprio nelle irrisolte e irrisolubili antinomie e contraddizioni logiche; e sia perché il suo pensiero, in quanto tale, si districò dall’originaria e nativa forma mentale razionalistica e astratta, soltanto aderendo e ripetendo,

con

ripetizione

molto

brillante,

ma

ripeti-

zione, il pensiero filosofico del Rosmini. E non è nemmeno da tacere, che, congruente con cotesta forma mentale, conseguente a quel tormento logico, il suo pensiero tendeva, quasi a cercarvi quiete, ad accedere a soluzioni, o per meglio dire deviazioni illusorie, del buon senso, delle buone intenzioni, d'una morigeratezza fittizia, d'un’ironia, d'un umanitarismo

didattico,

moralistico,

pedagogico,

per

cui,

a

mo’ d'esempio, la questione della lingua, grave, piena di senso, vitale per lui poeta, e da lui poeta ri-

solta con una delle più audaci e geniali e felici creazioni d'un proprio e personale e originale linguaggio, intriga lui teorico e pedagogista in una disquisizione e in un programma, il cui più felice atto fu di piantarlo a metà, ma dopo lungo e puntigliosoe

BACCHELLI

- LO SLIRICAMENTO

285

anche impermalito indugio, in gran parte posteriore e postumo al creato poetico, per dimostrare che la stupenda lingua manzoniana era e doveva essere il toscano parlato e poi anzi il fiorentino, onde gli italiani, su esempio

francese,

pur esso

arbitrariamente

e astrattamente interpretato, dovevano adattarsi a fare, in vece dei « latinucci » e degli spogli di testi classici, i « toscanucci » e gli spogli della lingua di

Mercato Vecchio. Più vigoroso e più libero pensiero aver condotto e accompagnato il Manzoni lirico e drammaturgo con l’adesione e adozione di alcuni princìpi critici e polemici del romanticismo. Ma, da parte la loro assai limitata originalità, proprio in quel che hanno di più valido, per esempio la polemica contro le pseudaristoteliche « unità », sono così poco necessarie ed essenziali a comprender la poesia, dov'è tale, delle due tragedie, come poco lo è,

a comprender

la poesia dell’Adelchi ch'è poi quasi

tutta nell'anima di Adelchi e di Ermengarda persone essenzialmente poetiche e liriche, conoscere quale fosse la condizione dei « romani » soggetti e conquistati, sotto i longobardi conquistatori e dominatori. E infine, proprio quel ch'è più intrinsecamente valido, di critica e polemica e letteraria e storiografica, così nel saggio storico suddetto come negli scritti « romanticistici », fa appartenere ormai l’uno alla storia della storiografia, gli altri alla storia del romanticismo, ossia d’un essenziale aspetto di quella rinnovazione del costume e della società e dello spirito e della religione e dell'economia, non che della letteratura e della politica italiana, che fu, nel ricco ed

integro significato della parola, il Risorgimento. E il Manzoni,

romantico

e risorgimentale,

d’efficacissima

azione, benché molto più effettiva che spiegata, ha la sua effettuale e grande importanza nella storia del Risorgimento

e del Romanticismo;

nella storia della

sua poesia, sopra tutto della suprema, Pentecoste, Er-

286

MANZONI

E GLI SCRITTORI

mengarda, Promessi Sposi, costituisce, pur col Manzoni religioso, un antefatto spirituale originario, ma risolto, ma taciuto nel fatto poetico, al punto da renderne,

non

certo

diremo

superflua,

ma

diversa,

separata, la conoscenza, alla comprensione del fatto stesso non essenziale. Ch'è grandezza e limite di poeta, tanto che il Manzoni della sua umana e intellettuale e spirituale biografia, varia e difficile da stu-

diare per lo strenuo rigore delle sue reticenze e silenzi, interessantissima

un Manzoni

e importantissima

biografia,

ricco di una dovizia di movimenti

effetti e pensieri,

che si estende

è

e di

oltre la personalità

in proprio e stretto senso poetico di lui. Complesso nei moventi, semplice negli effetti, il trapasso dello « sliricato » poeta e romanziere, diciam noi, poeticamente sommo

e perfetto, è una pa-

lingenesi, in cui si ravvisano fatti empirici, come l'abbandono del verso; fatti critici, come il rifiuto della poetica classicistica, e la polemica romanticista; fatti d'un empirismo essenziale, come

la creazio-

ne di un linguaggio proprio e nuovo; fatti morali non men che estetici, come la correzione dei residui di eloquenza, che uno spirito ancora affine a quello degli Inni e del Cinque Maggio e delle meditazioni religiose manzoniane, immetteva ancora negli Sposi promessi; fatti, non men che estetici, ascetici, quali il rifiuto e la mortificazione dell’eroico, militare del Carmagnola, epico di Carlomagno, tragico di Adel. chi, amoroso

di Ermengarda,

rio;

eroico,

di ogni

insomma,

passionato di cui

nei

di DesidePromessi

Sposi sussisterà soltanto l’eroico della fede, religioso e santificato, e a patto che rifugga come dal peg gior dei peccati, quel di Lucifero, dall’esprimersi eroicamente.

Sicché, non soltanto dagli Sposi promessi ai Promessi Sposi, a un conte del Sagrato sarà tolto quanto,

romanticamente

e romanzescamente,

ne

faceva.

BACCHELLI

- LO SLIRICAMENTO

287

un eroe della ribellione politica tratto da essa e-dall'oppressione a una sorta di eroicità del delitto, ma all'Innominato verrà concesso di riprender le armi soltanto per non

adoperarle.

Ma tutto ciò che tiene,

nella poesia delle liriche e delle tragedie, ii senso e gusto e amor passionato, animato, esaltante, della vita, cadendo sotto la ascetica definizione di fra’ Cristoforo, e del Manzoni, di « allegrezze turbolente e passeggiere », verrà sacrificato, esteticamente e religiosamente. Così anche le allegrie di Renzo sotto quella pioggia che porta via la peste e dà respiro al mondo, sono ammesse in quanto la loro ingenuità stessa,

e vogliam

dire

ragazzaggine,

garantisce

che

presto si comporranno in « una allegrezza raccolta e tranquilla ». E se a cotesta mortificazione cristiana e manzoniana è dovuto il rifiuto di accenti poetici mirabili; come quelli della caccia di Carlo e della mortale passione di Ermengarda innamorata; se la morale e razionale e ascetica condanna, manzoniana estrema, d'ogni passione, quale debolezza eccitata e ingannata, e d’ogni espressione passionata, quale eccitante.e ingannevole, pone alla nuova poesia del romanzo un limite di ritegno, di reticenza, di preterizione, ma

di quanta potenza espressiva pur in que-

sto, proprio come tale; cotesta condanna è la condizione estetica per cui sorge al cielo della poesia, la. grande, alta, pacata luce, che irradia e illumiria il poema romanzesco, opera; se altre mai, di sublime serenità trasumanante; e con ciò per null’affatto romantica, e tutta classica nel significato estetico es-

© senziale. RICCARDO BACCHELLI *

* Da A. Manzoni, Opere. Introduzione, in Leopardi Manzoni, Milano, Mondadori, 1960, pp. 466-470. I DI

e

288

MANZONI

E GLI SCRITTORI

L'ELABORAZIONE DEL ROMANZO [1955]

A cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, si hanno in tre tomi di maneggevole formato, di comoda lettura e facile raffronto, le tre redazioni attraverso alle quali I promessi sposi, con un lavoro che durò oltre un ventennio, trovarono la loro for-

ma definitiva, ch'è quella fissata dal Manzoni e stampata dal tipografo Guglielmini, nell’edizione del 1840. Una redazione precedente, nella quale» per un certo tempo il romanzo s'era intitolato Gli sposi promessi, venne licenziata dall'autore, per i caratteri del Ferrario, in tre tomi fra il 1825 e il 1827. Ed è quella nella quale il romanzo fu dapprima divulgato, sulla quale venne tradotto, e raccolse i giudizi di alcuni grandi contemporanei: il Leopardi, il Tommaseo, il Giordani, il Goethe, il Poe, il Puskin. Quanto alla redazione originaria, o a dir meglio abbozzo o stesura, col titolo:

Fermo e Lucia, è noto

ch'essa venne pubblicata solo in tempi a noi 'vicini: parzialmente da Giovanni Sforza; poco dopo (1915) nella sua integrità, da Giuseppe Lesca; .di nuovo

frammentariamente,

ma

in una

lezione

mi-

gliorata, da Riccardo Bacchelli e Gino Scarpa; infine, nella sua interezza, e in una forma destinata

a largo pubblico, dal compianto Attilio Momigliano. Il Manzoni aveva atteso a tale stesura fra l’aprile del 1821 e il settembre 1823, con una interruzione durante la quale portò a compimento l’Adelchi. Ma terminato ch’ebbe la stesura del Fermo

e Lucia,

si dedicò soltanto dopo alcuni mesi alla vera e propria dipintura del quadro, che gli costò tre anni di durissima applicazione. Come dissi in principio, anche il lettore non specializzato, col sussidio delle note e commenti del

CECCHI

- L'ELABORAZIONE

DEL ROMANZO

289

Ghisalberti e del Chiari, ha ora tutto l’agio di riper-

correre le grandi tappe attraverso alle quali il più bel romanzo che sia stato mai scritto, raggiunse la sua ultima perfezione. Non occorrerà, né si pretende, che cotesto lettore si trattenga in minuziosi e sistematici

confronti

rigo per rigo. Ma

con i tre

tomi della nuova stampa lì sul tavolino, se comincerà non fosse altro a paragonare i diversi testi di qualcuno fra i passi più famosi, che un tempo nelle scuole si mandavano a memoria (ed era pratica tut. t'altro che oziosa e pedantesca), immediatamente vedrà prender risalto a finezze di espressione e sfumature di poetici sensi, pur nell’uno od altro episodio ch'egli credeva di meglio conoscere: da riportarne una impressione come di cosa nuova, e di musicalità e luminosità che per l’innanzi non gli erano mai apparse così portentose. Tanto per fare un esempio, ma allo stesso modo se ne farebbero mille, si ricerchi nella stesura la

lezione originaria del celeberrimo: « Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci... » È come vedere una | pittura .immortale nella disordinata violenza della prima idea, dei primi tratti: « Sur una di quelle soglie stavasi ritta una donna... »: così la stesura del 1821-23. E basterebbe da sola la semplicissima eppure formidabile conquista poetica d’aver presentato, nella redazione definitiva, l’immagine della don-

na non più nella fissità un poco dura dello « stavasi ritta », ma nella lenta solennità di quello « scendeva dalla soglia», che come nello slancio maestoso

| è

d'un gran tema musicale, in sé contiene e introduce

il

movimento ritmico e lirico di tutto l’episodio. Poco appresso, sempre nella primitiva stesura: « Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove

anni,

chiome

morta,

ma

composta,

divise e rassettate

in una veste bianca mondissima...

gp. 10- Caretti

acconcia,

con

le

in su la fronte, ravvolta

Né era tenuta

a

290

MANZONI

E GLI SCRITTORI

-

giacere in abbandono, ma sorretta fra le braccia... Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue braccia quel peso... » E nell’edizione definitiva del 1840: « Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un

cere, ma

vestito bianchissimo...

sorretta,

Né la teneva

a seder sur un braccio...

a gia-

Un tur-

pe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'’insolito rispetto... ». Dell’intelligenza e del gusto di chi legge, bisognerebbe avere un'opinione così negativa da essere perfino

insultante,

per voler

mettersi

a sottolineare,

a

frase a frase, a parola a parola, i mutamenti per i quali l'abbozzo del 1821-23 si è trasformato nel 1840 in un assoluto capolavoro. La redazione intermedia, quella pubblicata nel 1825-27, è, come tutti sanno, naturalmente e infinitamente più vicina all'ultima. Ma

per

in questi

fare

due

un

altro

esempio,

testi più vicini,

capitolo, la descrizione

si vegga

appunto,

al trentacinquesimo

di quel recinto

dove nel laz-

zaretto le balie e le capre allattano i bambini: altro pezzo forte della sublimità manzoniana. Guardandoci bene dallo sforzare i giudizi per comodo di discussione, si può volentieri riconoscere come, nella forma che precedette la revisione del 1840,

già fossero

presenti

tutti

i temi

figurativi

e

le note di sentimento che rendono indimenticabile la scena dei lattanti e delle capre. Ma ritroveremo questa scena nella versione del 1840. E sarà come se essa fosse quasi inesplicabilmente trasportata in una sfera ancor superiore. Fino allora si sarebbe potuto parlare d'uno scrittore grande, anzi grandissimo.

Ma

da allora,

come

nell’addio

della

madre

a

Cecilia e in infiniti altri luoghi, diverrà manifesto che miracoli d'una poesia così potente ed insieme

CECCHI

- L'ELABORAZIONE

DEL ROMANZO

291

così dolce e misteriosa, li aveva compiuti, più di diciotto secoli prima, soltanto Virgilio. Allorquando, fra viva attesa, apparvero I promessi sposi:

nell'edizione,

intendo,

del 1825-27,

è com-

prensibile che poeti e scrittori come, a non dire altri, un Leopardi e un te letteraria finissimi,

Tommaseo, auscultatori d’arnon avessero saputo nascon-

dere che la loro indiscussa ammirazione era venata di qualche sottile incrinatura. Quello di cui invece non si sa capacitarci è che, uscita la edizione definitiva, del 1840, potessero esserci dei lettori, né sem-

bra che fossero

pochi, i quali, tutto

sommato,

ri-

tenevano più spontaneo e saporito il dettato anteriore. Perfino il Giusti, che non era artefice dozzinale, né critico imprudente. Con la consueta bonarietà, lo racconta il Manzoni stesso, in una lettera del 30 marzo 1871 al marchese Della Valle Casanova: « Il Giusti, in uno dei nostri colloqui famigliari, che sono per me un caro ricor-

‘do e un mesto desiderio, mi disse —

Che estro t’è

venuto di far tanti cambiamenti al tuo romanzo? Per me stava meglio prima ». In presenza a suo genero G. B. Giorgini, il Manzoni aveva dunque preso dallo scaffale le due edizioni, ed aveva proposto che,

apertane una a caso, si cercasse nell’altra il luogo corrispondente, se ne leggessero alcuni brani, e dove si trovassero delle differenze giudicasse il Giusti. L'esperienza non ebbe lunga durata. Il Giusti non indugiò a dichiararsi vinto. « Quel giorno più non vi leggemmo avante » conclude il Manzoni; « e

non ce ne fu più bisogno in avvenire ». La trasformazione e il passaggio dall’edizione del 1825-27 a quella definitiva, vennero soprattutto messi in rapporto con la notissima frase d’una lettera

292

MANZONI

E GLI SCRITTORI

del Manzoni (16 giugno 1828), che, a un corrispondente fiorentino, raccomandava, « salva la discrezione, quella tale biancheria sudicia da risciacquare un

po’ in Arno ». Questo della risciacquatura in Arno era un dato di fatto in apparenza così semplice e taumaturgico che suppliva a tutte le spiegazioni, e che fra l’altro lusingava i partitanti e fanatici dell'uso fiorentino.

Ma,

strò il De Robertis: l'edizione

Manzoni

or sono

mo-

già preparando il romanzo

come

dieci anni

per

1825-27, e di certo

anche

s'era abbondantemente

molto

prima,

il

servito del Vocabo-

lario milanese-italiano del Cherubini, che traduceva le voci del dialetto milanese in toscano: spesso in un toscano rettorico, prezioso e antiquato. E parecchie di tali forme innaturali passarono materialmen-

te dal Vocabolario nella edizione suddetta. Solamente dopo licenziata questa edizione, e cominciando a rendersi conto di molte cose che non andavano, il Manzoni ricercò il consiglio di toscani come

G. B. Niccolini

e Gaetano

Cioni, e scrisse

la lettera della risciacquatura. Portò la moglie ai bagni in Toscana, e stette un mese

a Firenze. Più tar-

di, l’istitutrice fiorentina Emilia Luti, ch'egli aveva in casa a Milano, fu la sua principale autorità in questa materia. Ma osservò giudiziosamente il Cantù, che gli sarebbe bisognato meglio « mettersi per mesi e anni nella montagna di Pistoia o nel Casentino, e come l’aria respirare quelle finezze senza cercarle, e assimilarsele ». La verità è che il risultato diretto della risciac-

quatura, consisté forse più nella caduta e sostituzione di fiorentinismi vieti e sforzati, che nel moltiplicarsi di nuovi. Il Pistelli, cui si deve uno dei più sobri ed acuti commenti ai Promessi Sposi, notò, per dirne una, che l’uso della fiorentinissima par-

CECCHI

- L'ELABORAZIONE

DEL ROMANZO

293

ticella: mica, a rinforzo della negazione, è più frequente nell'edizione 1825-27 che dopo la risciacquatura in Arno. La revisione linguistica c'ebbe insomma, e largamente, la sua parte. Ma il testo dell’edizione definitiva del 1840 si perfeziona, e diventa quel-

lo che è, attraverso un'elaborazione molto più complessa e misteriosa; che le proprie ragioni attinge certamente anche dalla filologia, e dall’esercizio e rafimamento del gusto, ma soprattutto da una nuo-

va e più profonda fermentazione della poesia. EMILIO

CECCHI *

LA « MEMORIA STORICA » [1956]

Ora prediligeva i gran larghi corali degli intermezzi storici: la sommossa milanese, la calata dei lanzichenecchi, la carestia, la peste: da cui i singoli personaggi quasi mi distoglievano. Mi abbandonavo

con delizia all’onda di quel ragionare calmo, profondo, disteso per tutti i sensi, alla felicità dei bellis-.

simi episodi fioriti da quelle terre feconde, idilli che parevano

invenzioni

e non

erano

che ritrovamenti,

scoperte, frutto di un lavoro sapiente gran seno

della storia.

di scavo

nel

Che, in pieno romanticismo,

il Manzoni avesse scelto a. sfondo del suo romanzo un secolo come il seicento, così grande e così sconosciuto, mi riempiva di un'ammirazione sempre nuova. Una moltitudine di testimonianze da raccogliere, da sviluppare, da celebrare in altrettanti roman-

zi, a pietoso compenso dei sacrificati anonimi di cui è tessuta la vita, brulicava e vaporava dai grandiosi * Da Le redazioni dei « Promessi Sposi», profili, Milano, Garzanti, 1957, pp. 163-169.

in Ritratti

e

294

MANZONI

E GLI SCRITTORI

paesaggi umani che la guerra, la pestilenza, e le fatali passioni terrestri campivano di luci e d’ombre violente. E per la prima volta, passando dai Promessi alla Storia della colonna infame e poi ai saggi più famosi, intesi come la passione storica nel suo senso più alto e cioè morale, fosse la prima qualità del Manzoni, quella che ne accende la temperatura poetica. Mi apparve allora che una mente e una mano così eccezionali non potevano dare, come quelle di un grande capitano, la loro misura, che impegnandosi per masse

imponenti

e, insomma,

non riu-

scire pienamente che in romanzi di quella bellissima definizione manzoniana del verosimile (« un vero veduto dalla mente per sempre, o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente ») che al romanzo « storico » sembra affidare l’essenza più sottile della storia: l'eterna scommessa su quel che non ha lasciato altra traccia che una parola non detta fra tante parole inutili. È questo il verosimile che il Manzoni ha raccolto, artisticamente ordinato e ricostruito tra-

scrivendo i moti della folla milanese

all'assalto dei

forni: tanto per fare un esempio. Discernere nel'tessuto velocemente trascorrente dei « fatti » accaduti un momento o un secolo fa, quanto di eterno accomuna e distingue le azioni umane, ecco il compito

del narratore che è sempre uno storico. Perché pretendere di fotografare la vita, come oggi si usa, è, a bn riflettere una assai modesta e corta ambizione. Al tempo che andavo facendo, per mio uso e consumo, riflessioni di questo stampo, si faceva un gran parlare, a proposito di certi ottimi scrittori nostri, della narrativa « di memoria »: e veniva da sorridere, almeno per un fedele manzoniano, all’annuncio di questa trovata critica che quasi assumeva di scoprire una poetica del tutto nuova. Fin troppo facile sarebbe stato osservare che tutta la narrativa,

anzi tutta la poesia non

sono

altro che frutto

di



BANTI

- LA MEMORIA

STORICA

295

memoria: ma si sa che i critici han sempre avuto bisogno di formule nuove per dire cose vecchie. Non credo tuttavia che nessuno di quegli scopritori avrebbe accolto la candidatura di pioniere della letteratura di memoria per Alessandro Manzoni: si sarebbe trattato, infatti, di pronunziarsi su quel che sia lecito e desiderabile intendere per memoria storica. Comunque, fu questa per me l'occasione di pormi

il problema:

tanto sentivo che il dettato manzonia-

no sgorgava da un impulso di riflessione e di vagheggiamento del passato analogo a quello che conduce lo scrittore a narrare fatti di cui è stato protagoni-

sta o testimone.

Ne conclusi che se c'è alta forma

di memoria, questa è la storica, una forma quasi trascendente, che per minimi appelli e quasi segni rabdomantici di una trapassata realtà, la interpreta, la ricompone, la restituisce a una costante morale che dal buon senso alle passioni estreme, abbraccia le azioni e i sentimenti umani, in ogni tempo. Della

validità di questa persuasione ebbi, prima e poi, infinite conferme, specie per quel che riguarda i Promessi. Basterà citare, per un esempio, gran parte dei

capitoli XXVIII e XXIX, là dove si raccontano gli effetti e gli aspetti della carestia e dell'invasione nel milanese. La quasi fatale incongruenza delle leggi annonarie nei tempi di crisi, quel lazzaretto (oggi si direbbe « campo di concentramento ») dove i fortuiti mendicanti eran raccolti e poi rinchiusi a forza; infine il talento distruttivo dei lanzichenecchi nei poveri paesi lombardi, trovano nei nostri recentissimi ricordi di guerra e di miseria collettiva dei riscontri e delle conferme sorprendenti. Viene naturale la domanda dove mai il Manzoni avesse constatate e sperimentate le conseguenze oggettive, ottiche, di tali sventure. Chi rispondesse adducendo i

fatti delle campagne napoleoniche in Italia, non convincerebbe: sebbene contemporaneo di quegli eventi,

296

MANZONI

E GLI SCRITTORI

non risulta che il giovane Alessandro allora in collegio, ne fosse testimonio oculare: senza dire che all'andamento di quella impresa non paion convenire i caratteri di invasione scomposta, indisciplinata che le bande alemanne scatenarono in Lombardia. Come sta, dunque che quando leggiamo dei bruciamenti, delle distruzioni, del luridume, soprattutto

dell’orrendo fetore lasciato dalle soldatesche nelle case dei paesetti lombardi ci par di riconoscere le descrizioni di un ipotetico e sublime « inviato speciale » dei nostri giorni? Il fatto è che il genio meditativo e rappresentativo del Manzoni, nutrito ‘dei documenti più disparati e in fondo, meno precisati, ha letto come nel più esatto dei referti quel che potessero lasciarsi dietro le spalle tanto i lontani lanzichenecchi come i loro tardi successori:

cenere, san-

gue, lordura, riuniti in uno spettacolo che, purtroppo, non cambierà mai. « Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode... »: con queste sem-

plici proposizioni che s’incalzano con un ritmo di cui non conosco l’uguale per rendere l’ineluttabilità di una spinta e quasi il suono di una ossessiva’ fanfara guerresca, dimostrano con quali mezzi elementari si possa attingere il tono epico e insieme la più visiva realtà. E quando si legge: « Lo squadron volante dei veneziani finì d’allontanarsi, e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero anch'esso »:

par di udire un ultimo tuono disperdersi squallidamente sulla campagna deserta e allibita. ANNA

* Da Manzoni 1961, pp. 58-60.

e noi, in Opinioni, Milano,

BANTI *

Il Saggiatore,

i

boT

MORAVIA

- REALISMO

CATTOLICO

E DECADENTISMO

— 297

REALISMO CATTOLICO E DECADENTISMO [1960] La prima osservazione che si deve fare a proposito de I Promessi Sposi è che esso è il libro più ambizioso e più completo che sia stato scritto sulla realtà italiana, dopo la Divina Commedia. Più del Boccaccio al quale non interessava scandagliare il fondo delle cose, più di Machiavelli che era un poeta della politica, non più di Dante, forse, ma non me‘no, il Manzoni volle rappresentare l’intero mondo ita-

liano dal vertice alla base, dagli umili ai potenti, dalla semplicità del buon senso popolano alle sublimità della religione. Quest'ambizione manzoniana, naturalmente, non è un carattere esteriore: così per la complessità e difficoltà dei problemi che cerca di risolvere come per la varietà dei fatti che vuole rappresentare, essa appare invece il prodotto in certo | modo spontaneo e inevitabile di una mente universale. A questo punto, però bisogna avvertire che mentre i risultati poetici del poema dantesco ne. ol\trepassano, per così dire, le ambizioni e le annullano, ne I Promessi Sposi i risultati, ancorché notevolissimi, rimangono inferiori alle. ambizioni e di conseguenza non ci consentono di ignorarle. I Promessi Sposi, in confronto alla Divina Commedia che

sembra tutta ispirata e poetica, anche nelle parti didascaliche, presentano larghe zone nelle quali fa difetto la poesia, senza che per questo si possa dire che quest’ultima sia sostituita dall’oratoria. Parti, cioè, che nell’intenzione del Manzoni avrebbero dovuto essere poetiche non meno delle altre, anzi, forse, anche di più; e nelle quali invece, suo malgrado

e senza rendersene conto, egli anticipò quello che già abbiamo definito come un tentativo di realismo cattolico.

298

MANZONI E GLI SCRITTORI

Per distinguere le parti ispirate da quelle della propaganda nel capolavoro manzoniano, bisogna, secondo noi, porsi una volta di più la domanda non nuova: perché il Manzoni scrisse un romanzo storico? A nostro parere, il motivo profondo per cui il Manzoni scrisse un romanzo su. un episodio del diciassettesimo secolo invece che su un episodio dei suoi tempi, si può facilmente indovinare fermando l’attenzione sull'aspetto più ovvio de I Promessi Sposi: l'importanza preponderante, eccessiva, massiccia, quasi ossessiva che ha nel romanzo la religione.

Questo

aspetto,

come

abbiamo

detto,

è ovvio,

specie se guardato con occhi italiani, ma lo è molto meno se confrontiamo I Promessi Sposi con altri capolavori della narrativa ottocentesca, contemporanei o quasi del romanzo manzoniano: Madame Bovary, La Chartreuse de Parme, Guerra e Pace, Pickwick Papers, Vanity Fair, Le Père Goriot, ecc. ecc.

Si vedrà allora che, se si potesse misurare il dosaggio dei vari

contenuti

della

narrativa,

la religione,

non importa se cattolica o altra, non rappresenta più di un cinque per cento del contenuto complessivo dei romanzi

succitati;

mentre

sale invece

a un

buon novantacinque per cento ne I Promessi Sposi. Eppure gli autori di quei romanzi erano immersi nella stessa realtà politica e sociale del Manzoni, che

era poi quella della società europea dopo la Rivoluzione francese. Torniamo a ripetere: l’importanza della religione ne / Promessi Sposi è ipertrofica, ossessiva e per niente corrispondente a una condizione reale della società italiana ed europea dell'ottocento; e proprio in questa importanza eccessiva sta la spie-

gazione del ricorso al romanzo storico da parte di uno scrittore come il Manzoni il quale non era un piccolo realista romantico come lo Scott, ma un grande

realista

e avrebbe

morale

potuto

e sociale

benissimo,

come

lo Stendhal.

di conseguenza,

pren-

MORAVIA

- REALISMO

CATTOLICO E DECADENTISMO

299

dere ad argomento del suo romanzo un episodio di vita contemporanea. Infatti, oltre all'ambizione di rappresentare la totalità della realtà italiana, era presente e anche maggiore nel Manzoni quella di costringere questa realtà, senza sforzature né amputazioni, nel quadro ideologico del cattolicesimo. Ossia, come abbiamo già accennato, un secolo e più prima

del realismo

socialista, il Manzoni

si pose

a modo

suo il problema di un analogo realismo cattolico, cioè di un'opera narrativa in cui, col solo mezzo della poesia, fosse ottenuta un’identificazione completa della realtà rappresentata con l'ideologia dominante o che si vorrebbe che dominasse. [...] S'è detto

dell'importanza

massiccia,

eccessi-

va, ossessiva della religione nel capolavoro manzomiano.. Quest'importanza è rivelata non soltanto dal gran numero di personaggi de / Promessi Sposi che appartengono al clero, cioè dal carattere clericale che il Manzoni volle dare alla società lombarda del diciassettesimo secolo, carattere certamente esagerato rispetto all'effettiva realtà; ma

anche, all'esame

stilistico, dal linguaggio dei personaggi il quale, ogni volta che è possibile e talvolta anche quando non è possibile,

è un

continuo

intercalare

di invocazioni

pie così da far pensare che questi italiani del secolo decimosettimo siano invece degli ebrei dell'età del bronzo. Né questa fittezza di riferimenti religiosi è dovuta a esposizioni sistematiche della dottrina cristiana come avviene in Dante, cioè si presenta come qualche cosa di organico, di necessario, di insepaè. rabile dagli avvenimenti. Al contrario, con l’eccezione delle prediche concettualmente assai modeste del cardinale Borromeo, di padre Felice e di padre Cri. stoforo, quella fittezza, all'esame stilistico, specie nei

dialoghi,

si rivela

tutta

esclamativa,

priva affatto

di necessità drammatica o anche caratteristica; vuta, si direbbe, anzi che alla tranquilla fede

dodel

300

cristiano

MANZONI E GLI SCRITTORI

il quale sa di non

aver bisogno

di sban-

dierarla, all’ansia del convertito timoroso di non sa‘per convincere se stesso e i propri lettori che niente avviene se non sotto il segno della Provvidenza; quasi che ogni accadimento il quale non sembri in

qualche modo collegato con quella, possa parere che la smentisca; il che, in senso psicologico, è propriamente una preoccupazione totalitaria. Insomma, l’importanza della religione ne I Promessi Sposi è eccessiva appunto perché malsicura e tradisce piuttosto

l'insufficienza che la sovrabbondanza di un'intima persuasione. Non che il Manzoni non fosse uno spirito religioso;

lo era,

al contrario,

come

vedremo,

in maniera spiccata e autentica; ma probabilmente non era religioso al modo del realismo cattolico, cioè al modo, tanto per fare un esempio noto, di un Papini, ossia al modo che-ci voleva per far dell’arte di propaganda. E questo, crediamo, è il maggiore elogio che possiamo fare della religione del Manzoni. Sappiamo che questo è un punto delicato e cerchiamo di spiegarci con una metafora. Si potrebbe dunque paragonare il capolavoro manzoniano a una stratificazione geologica. Il primo strato, il più vistoso ma anche, secondo noi, il più superficiale, è quello dell’arte di propaganda, alimentata da una strenua volontà conformistica di adesione al modo cattolico di intendere la vita. Su questo strato cresce e lussureggia la vegetazione del realismo cattolico, paragonabile a una pianta dalle foglie enormi e dalle radici esigue. Il secondo strato è quello della sensibilità politica e sociale del Manzoni, addirittura fenomenale questa e sicuramente unica in tutta la storia della letteratura italiana. A questo strato appar-

tengono

tutte le scene

di genere,

sempre

felici e

sempre percorse da un sottile umorismo, nelle quali il Manzoni illustra la società del tempo: dialoghi

ei he

MORAVIA

- REALISMO

CATTOLICO E DECADENTISMO

301

come quelli tra il conte zio e il padre provinciale, scene d'insieme come il pranzo in casa di don Rodrigo, descrizioni di cerimonie come quella del ricevimento in onore di Gertrude o quello in cui Cristo‘foro si presenta al fratello dell’ucciso. A una profondità, infine, ancora più remota sta il terzo strato, quello dei sentimenti genuini anche se spesso oscuri, religiosi e non religiosi, del Manzoni reale, del Manzoni poeta, del Manzoni, cioè, che oltre a essere

un grande scrittore, era anche quel determinato momento storico. Quest'ultimo strato, così all’ingrosso e per non andare per le lunghe, lo chiameremo con formula riassuntiva quello del Manzoni decadente, dando a quest’ultima parola il significato di moderno e attribuendo al decadentismo il valore di un atteggiamento psicologico, morale e sociale prima ancora che letterario. Al decadentismo del Manzoni dobbiamo la poesia de I Promessi Sposi. Va notato che questo Manzoni decadente è il contrario giusto del Manzoni del realismo cattolico; o meglio ne è l’altra faccia e ne spiega e giustifica, appunto, lo zelo propagandistico. [...] La storia della monaca di Monza fu sempre giustamente lodata come una delle parti più belle de I Promessi

Sposi;

aggiungiamo

che, non

a caso,

è la storia di una lunga e tortuosa corruzione, ossia della trasformazione di un personaggio innocente in malvagio, seguita passo passo, con una mirabile capacità realistica e inventiva che si cercherebbe invano nelle descrizioni delle conversioni ossia. delle trasformazioni dei personaggi malvagi in buoni. Dell'infanzia dell’Innominato, tanto per fare un solo esempio, non sappiamo niente; Gertrude invece ci viene presentata quando, addirittura, sta «ancora

_ nascosta nel ventre di sua madre ». La progressiva metamorfosi dell’innocente bambina prima in disperata bugiarda, poi in monaca fedifraga, quindi in

302

MANZONI

E GLI SCRITTORI

adultera e infine in criminale, è quanto di più forte

sia stato scritto sull'argomento della corruzione. Si confronti la storia di Gertrude con quella analoga della Religieuse di Diderot e si avrà l'impressione di paragonare: un pozzo profondo di acqua nera e immobile a un liquido e veloce ruscello. E questo perché mentre Diderot conosce le cause della corruzione e ce le addita, Manzoni, come nel caso di don Abbondio, preferisce tacerle. Per Diderot la catarsi è fuori del romanzo, di fatto nella Rivoluzione imminente che lo scrittore pare annunziare in ogni riga; per il Manzoni, conservatore e cattolico,

non

c'è catarsi

notevolissima;

se non ma

estetica,

la quale infatti è

le catarsi soltanto

estetiche

sono

proprie al decadentismo. Perfino la corruzione del regno di Danimarca trova una sua pratica purificazione nello squillo delle trombe che, dopo il sanguinoso

convito,

annunziano

cio. Ma la corruzione

l’arrivo

di Fortebrac-

di Gertrude è una corruzione

« bella »; ossia una corruzione misteriosa, oscura, senza cause e, si direbbe, senza effetti: nata da una fatalità ambiguamente storica e sociale, essa si per-

de nel silenzio e nell'ombra della Chiesa. Ad ogni modo, il Manzoni decadente qui è al colmo della sua potenza. La storia di Gertrude non ha mai un momento

di astrazione, mai cade nell’affer-

mato e non dimostrato, nel detto e non rappresentato, come avviene per la storia dell’Innominato. È invece un seguito serrato

e incalzante

di immagini,

di cose, di oggetti, di situazioni, di personaggi. E il Manzoni non si limita a fare lo storico imparziale, come quando riassume in poche pagine la criminale carriera dell’Innominato; al contrario stabilisce fin dall'inizio un suo forte e soggettivo rapporto con la figura di Gertrude; rapporto fatto al tempo stesso di accorata pietà e di raffinata crudeltà. [...] Abbiamo

voluto serbarci per ultimi Renzo e

MORAVIA

- REALISMO

CATTOLICO

E DECADENTISMO

303

Lucia perché, oltre ad essere forse le due figure più belle e originali de / Promessi Sposi, essi sono anche la chiave della concezione manzoniana della vita, della società e della religione. Questi due personaggi non sono ricostruiti storicamente, saggistica-

mente, come Gertrude; sono presentati attraverso il loro agire come don Rodrigo e l’Innominato; ma al contrario di don Rodrigo e dell’Innominato, sono ben vivi e reali. Gli è che la malvagità di don Rodrigo e dell’Innominato sono di testa; mentre le qualità e i difetti di Renzo e Lucia sono intuiti per simpatia. Quali sono queste qualità e questi difetti? Lucia è soave, dolce, discreta, pudica, riservata; ma anche talvolta, leziosa, cocciuta, rustica, inclinata a

compiacersi e a strafare nel senso di una perfezione di maniera. Renzo è schietto, onesto, coraggioso, pieno di buon senso, energico; ma anche, talvolta, melenso, avventato, violento. Come

si può vedere da

quest'insieme di qualità e di difetti il Manzoni ha voluto dipingere due figure di contadini che aveva probabilmente avuto il modo di osservare a lungo nella realtà, magari proprio in uno dei paesi del lago di Como, prima di ricrearle nell'arte. La sensibilità sociale del Manzoni, così sottile e così pronta, va ammirata una volta di più in questi due personaggi umili nei quali sono visibili tutti i caratteri di una condizione inferiore senza però il distacco e la sufficienza che spesso si. accompagnano a questo genere di rappresentazione. In realtà il Manzoni ha saputo vedere Renzo e Lucia con affetto; l’affermazione

ben nota,

alla fine del capitolo

XV:

«...quel

nome per il quale anche noi sentiamo un po’ d'affetto e di riverenza », non è una civetteria letteraria ma la pura verità. Questo affetto è una cosa nuova, ori-

ginale; ai tempi del Manzoni, come del resto ai nostri, fare di due popolani’ gli eroi di un romanzo richiedeva infatti un salto qualitativo non indiffe-

304

MANZONI E GLI SCRITTORI

rente, una capacità di idealizzazione potente. La no-

vità dell’affetto del Manzoni per Renzo e Lucia si può valutare appieno pensando che bisogna arrivare fino al Verga per trovare un altro scrittore italiano che volga al popolo uno sguardo fraterno. Intorno Renzo e Lucia, come intorno due idoli modesti ma davvero venerati, il Manzoni ha raggrup-

pato tutte le cose che amava in cuor suo e contrapponeva alla società di Gertrude, di don Rodrigo e del conte zio. Cioè alla sua società; e, in genere,

alla società quale viene conformata dalla storia. Giacché la storia sembra essere nient'altro che corruzione

al Manzoni;

appunto

e Renzo

perché sono

e Lucia

fuori della

non

sono

storia.

corrotti

L'identità

storia-corruzione, antistoria-purezza si può notare soprattutto nei luoghi in cui il Manzoni mette uno dei

due protagonisti, che sono puri perché fuori della storia, di fronte a un personaggio che è corrotto perché dentro la storia: Renzo e Azzeccagarbugli, Renzo e don Abbondio, Renzo e Ferrer; ma soprattutto Lucia e Gertrude.

Ecco veramente,

in quest’in-

contro, il contrasto fondamentale de I Promessi Sposi, in tutta la sua forza e il suo significato: da un lato, la contadinella

che « diventa

rossa

e abbassa

la testa », dall’altro la giovane badessa lussuriosa e criminale che il Manzoni ci descrive in un ritratto tra i più belli e forti di tutto il romanzo. Per una volta Gertrude non è posta di fronte a un personaggio secondario bensì al suo contrario. E basta paragonare l'incontro breve ma reale e verace tra Lucia e l’Innominato per vedere che il vero contrasto tra il bene e il male ne / Promessi Sposi non è quello tra la santità della religione e l’empietà dei malvagi, come voleva il realismo cattolico, bensì tra la purezza naturale del popolo e la corruzione della storia e delle classi che fanno la storia. Ad ogni modo Renzo e Lucia assolvono ne I Pro-_

MORAVIA - REALISMO CATTOLICO E DECADENTISMO

305

messi Sposi la funzione di agenti catalizzatori intorno ai quali si raduna con spontaneità tutto ciò che il Manzoni amava e vagheggiava. Il Manzoni ha descritto orrori e terrori altrettanto e più di Poe e con una sensibilità non troppo diversa; eppure, quando diciamo manzoniano indichiamo qualche cosa di assai differente dal macabro e dal terribile; qualche cosa

di molle, di dolce, di idilliaco, di familia-

re, di affettuoso; qualche cosa che ci ricorda Virgilio e Petrarca; qualche cosa che nel romanzo prende, appunto,

Lucia

il nome

dobbiamo

di Renzo

il Manzoni

e Lucia.

più famoso

A Renzo e

dell’addio

ai monti e della fuga verso l’Adda, il Manzoni

dipin-

tore dei paesaggi lombardi, il Manzoni creatore delle

più belle immagini e metafore del libro, il Manzoni poeta dell’intimità familiare, il Manzoni, infine, vero religioso, non della religione del realismo tolico ossia del padre Cristoforo e del cardinale romeo, ma della sua religione che è poi quella sa dei due protagonisti. [...] Osserviamo a questo punto che l'ideale la vita povera e semplice, dell'ignoranza e della gione del cuore non è tuttavia nel Manzoni estremo

e perciò

rivoluzionario,

come,

davcatBorstes-

delrelicosì

per esempio,

l’evangelismo integrale e intransigente di un Tolstòj. Il quale, come è noto, volle vivere quest’ideale fino in fondo, fino a farsi contadino e a lavorare i campi; mentre

il Manzoni,

come

è altrettanto

noto, no-

nostante la sua sincera simpatia per gli uomini, non si fece umile e rimase tutta la vita oculato ed economo amministratore della sua proprietà. In realtà l'ideale del Manzoni, come abbiamo già osservato, ha

limiti angusti dettati dal conservatorismo. È l'ideale del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui, è ma non dimentica un sol momento che è il padrone. o L'ideale, per dirlo con Manzoni stesso, del marchese =É

306

MANZONI

E GLI SCRITTORI

erede di don Rodrigo, il quale aveva abbastanza umiltà per mettersi al disotto di Renzo e di Lucia ma non per stare loro in pari. Insommaè un ideale reso del tutto innocuo perché mantenuto con grande fermezza dentro i confini di una determinata società che era poi quella stessa alla quale apparteneva il Manzoni. Questa limitazione paternalistica e padronale si avverte in più punti ne I Promessi Sposi ogni volta che siano in scena Renzo e Lucia, oppure Agnese e altri umili, in una lievissima, quasi impercettibile ma ferma e precisa sfumatura di signorile distacco;

specialmente, però, in quei luoghi in cui l'affetto del Manzoni si tempera di indulgente ironia. È caratteristica della sua complicata psicologia che dopo aver preso in giro la cultura in don Ferrante, il Manzoni si valga di questa stessa cultura per prendere garbatamente in giro anche il povero Renzo che, lui, al contrario

di don

Ferrante,

di cultura

non

ne aveva

affatto. È questa la sua maniera di limitare e rendere innocuo il proprio ideale; una maniera tipicamente padronale in quanto fondata sulla superiorità di una educazione migliore. Tutta la parte di Renzo per strada e all'osteria dopo i tumulti per la carestia, è giocata magistralmente su quest’'ironia indulgente ma fortemente limitativa del buon padrone che vede uno dei suo contadini alzare il gomito e dire una quantità di corbellerie su cose di cui non s'intende e che sono troppo grosse per lui. Qui e in altri luoghi analoghi, al Manzoni che idealizza gli umili,

subentra

il Manzoni

che li vede

come

sono,

beninteso secondo l’esperienza padronale. Si viene così a uno dei caratteri, diciamolo

camente, più sconcertanti perplessità è tanto

del Manzoni.

più forte

in quanto

fran-

E la nostra questo ca-

rattere è legato proprio a Renzo e Lucia, cioè a quelli. che abbiamo definito i due personaggi più belli e

ie al

s

MORAVIA

- REALISMO

CATTOLICO

E DECADENTISMO

307

- originali del romanzo. Si è scritto sovente che la-cosa migliore de I Promessi Sposi sono gli umili, ossia la simpatia del Manzoni per gli umili. Abbiamo già detto che concordiamo con questo giudizio; soltanto c'è umiltà e umiltà. C'è l'umiltà cristiana, virtù universale,

comune

così ai poveri come

ai ricchi;

quale è propria ai poveri soltanto ed è il prodotto di antiche sopraffazioni e umiliazioni. Ora, non neghiamo affatto che il Manzoni abbia inteso esaltare quella prima umiltà nelle figure di Renzo, di Lucia, di Agnese e in genere di tutti i personaggi plebei; vorremmo soltanto che non la si confondesse con la seconda, la quale, purtroppo, c'è anch'essa e in misura maggiore di quanto non sia richiesto dalla verità poetica. ALBERTO

MORAVIA *

MANZONI E IL BISTURI DI MORAVIA [1960] Il saggio

[...] Alessandro

un realismo cattolico,

Manzoni

e l'ipotesi di

è movente precipuo dell’inte-

resse che il volume ha suscitato nel pubblico: e suscita in noi. La lettura della Storia milanese del secolo XVII scoperta

e rifatta se ne avvantaggia,

in quanto

Mo-

ravia getta un sasso, anzi un macigno, nelle acque chete di alcune rituali o edificanti esegesi e chiose del passato e magari del presente: l’acume di Mo. ravia la salva, codesta lettura obbligata, dal divenir

pappa obbligante per il lettore particolarmente sprov| veduto. Ma la intelligenza ossia la valutazione estei

* Da. A. Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico, in Ci: uomo come fine, Milano, Bompiani, 1964, pp. 305-307, 310312, 326-327, 333-335, 337- 339. I

MIRI IR

308

MANZONI

E GLI SCRITTORI

tica e storica del romanzo

domandano,

mi sembra,

qualche correzione di tiro: del tiro critico di Moravia. Nasce in noi il sospetto che in alcun punto del suo scrivere, lucido come il filo di un bisturi, il concettualmente fermo Introduttore si abbandoni a pre-

meditata voluttà: e intendiamo. voluttà sistematrice: quel rigore perentorio, quella spietatezza del giudice che è sicuro della propria dizione, non altrettanto della validità delle prove addotte. Altrove l’impennata del divertissement, fra paradossale e crudele, comune impreveduta al comune desiderio di approfondimento: e resa in parole che non sovvengono alla lettura degli inermi o dei poco predisposti, in quanto assunte nel discorso critico europeo « dopo » il Manzoni: (decadente, oratoria). Moravia si avventa, per eccessi dialettici, contro il Manzoni quietista, contro il Manzoni presunto aedo della non-rivoluzione, cioè della paura conservatrice identificata nella « corruzione » borghese della società italiana e cattolica, in un seguito di eguaglianze a=b=c=d che ci appaiono, è il meno che si possa dire, alquanto gratuite. E ciò mentre il conte Federico Confalo-

nieri veniva romanzo

sepolto vivo allo Spielberg,

ove la componente

e per un

indipendentista

è stata.

avvertita già prima del ‘40, checché ne abbia dipoi opinato il Carducci: romanzo che dice di nuora (Spagna) perché di suocera si possa intendere (Austria). Il censo del Manzoni e il di lui quietismo e conservatorismo pratico e vorrei dire provvisorio (casa, sposa, Brusuglio, parco, riservatezza di vita) non sono più gretti né più incriminabili degli analoghi censo e automobile e pennichella di molti buoni araldi d'un miglior domani che battono, pour le moment le buone e consuete strade dell’oggi. Chi adempie alla immane fatica di predisporre in brevi anni la documentazione oltreché le sequenze imaginifico-liriche dei Promessi Sposi, gli vorremo

GADDA - M. E IL BISTURI

DI MORAVIA

309

pur concedere una libreria, una scrivania, una penna, una seggiola: e se al bruciante suo male darà medicina di silenzio e dell’ombre d’alcuni grandi alberi lasciati a mamma sua dal conte Carlo Imbonati intronato da trombòsi, quel tale, voglio dire quel Lissandrino, non lo danneremo per questo. Certo allo Spielberg si stava peggio. Ma ci è giocoforza riconoscere che le due vocazioni, Spielberg o Promessi Sposi, divergono in disgiunzione assoluta, oltreché inevitabile. E il Manzoni fu sicuramente un malato ereditario (nevrosi: psicosi) e un traumatizzato della vita, già in età tenera: (amori della madre, bambino abbandonato alle durezze d’un collegio). Noi non possiamo

ascrivere

a sua colpa, e tanto

meno a vergogna, o l’eredità nervosa o i traumi o il temperamento amatorio, da cui l’altezza del suo animo e la bellezza unica del suo lavoro emergono a risplendere sul nostro stesso male come lume di aurora che ci arrida. Qualche proposito rassegnato, cioè sommesso ai voleri di una ipostatizzata Provvidenza, non basta a figurarne il tipo che si arrende a tutto pur di campare vita comoda. Aveva orrore alla folla, da cui troppo temeva d'essere stretto: orrore al vuoto, perché temeva di cadere: soffriva di vertigo e d’insonnia: provvedeva la cioccolata una volta l’anno per sé, per tutta la famiglia, come il mezzadro o il colono rimette il grano per l'annata, o provvede a serbar patate o castagne dopo la colta... E va bè! In Moravia un implacabile rigore mentale, una volontà recidente: collocare i Promessi Sposi negli scaffali della nuova biblioteca, guardati a vista dai volumi della nuova critica: incriminare, sia pure tra | sostanziali riconoscimenti, un signore milanese nato

- nel 1785 e operante fra il congresso di Vienna e il quaranta, di non aver condotto il suo romanzo aven-

310

MANZONI

E GLI

SCRITTORI

do riguardo alle istanze mentali o alle situazioni di diritto del 1959; quando proprio quel signore milanese ha romanzato per primo nei poveri, negli umili, negli incorrotti o nei fatalmente oppressi i risorgenti protagonisti della storia umana, della salvezza biologica: e li ha immaginati a dire (in battute inimitabili) e a sentire e patire e volere come tali: in un seicento lombardo, spagnolesco, lanzichenesco, e borromeiano e sinodale e cattolico: (cattolico era, lui non poteva farlo turco). Un seicento che non è se non il grande teatro del suo dramma: « l'Historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo... ». Noi amiamo

« anche » il passato,

e leggiamo

ta-

lora nel passato più veramente che nel futuro. Una storia ci può appassionare e incitare più che un'utopia; ha, per sé, quand'altro

dei molti

non

abbia, il paragone

e magari contrastanti giudizi che ne sono

stati fatti. L'utopia è collocabile nel futuro, come la speranza, e non avrà il riscontro e il collaudo se non dal futuro. Amiamo nel Manzoni l’artista, ossia il

romanziere e lo storico: il consapevole giudice di quegli aspetti della continua irragione umana che nel complesso racconto e nell’ironia sempre vigile dei Promessi Sposi hanno un così ampio, ininterrotto, inevitabile cioè fatale documento. Moravia percepisce, nel capolavoro manzoniano, un intento propagandistico; e i momenti-propaganda

più espliciti, più dichiarati,

non

raggiungerebbero

l’arte: rimarrebbero alla fase oratoria, alla predica; altri passi, altre scene sono invece ascrivibili al « ten-

tativo di realismo cattolico » e costituiscono o almeno informano di sé la grande arte dello scrittore (sono poesia, in termini crociani) ma risultano con- .

troproducenti agli effetti della propaganda: don Abbondio, la monaca di Monza. E poi l'appunto già ri-

volto al Manzoni dalla critica laicale dell'ottocento: |

GADDA - M. E IL BISTURI

« l'importanza

preponderante,

DI MORAVIA

eccessiva,

311

massiccia,

quasi ossessiva che nel romanzo ha la religione ». Il dosaggio cattolico, preti-frati-monache, vi raggiungerebbe il 95%, contro dosi di « religione » del 5% al massimo in Flaubert o Tolstòj, o Dickens. E ancora: Manzoni colloca il suo romanzo « propaganda-arte

mancata

» e « arte

ritrovata

col

deca-

dentismo » nel XVII secolo: « negli anni che il cattolicesimo aveva raggiunto, per l’ultima volta, una sembianza di universalità ». La Riforma, per vero, aveva mantenuto le sue posizioni anche dopo il Concilio, se pure l’Italia e sopratutto la Valpadana avevano sentito indurarsi il proprio usbergo tridentino e cattolico. Moravia,

discerne

sempre

lucido

e fermo,

tre strati nei Promessi

Sposi:

detto strato propaganda intenzionale: lo strato

sensibilità

politica

e sociale

e sistematico,

uno,

il sud-

un secondo

è

del Manzoni,

che Alberto dice grandissima, com'è realmente, « unica in tutta la storia della letteratura italiana ». Alberto vede in questo strato le doti più alte del Manzoni scrittore e i meriti maggiori

del romanzo:

sce-

na del conte zio a colloquio col padre provinciale: pranzo in casa di don Rodrigo; ricevimento per Gertrude finalmente monaca. Aggiungerei dell'altro: tutta l'apertura: i casi di Renzo, i tumulti di Milano, don Abbondio sempre, la carestia, i lanzi, la peste. (I coniugi don Ferrante-

donna Prassede sono due stupendi ritratti mentali e psicologici, nell'ambito privato.) Terzo strato: i sentimenti « genuini », anche se talora « oscuri », del Manzoni: «i religiosi e i non

religiosi ». È lo strato del « Manzoni decadente », dove « decadente » ha valore artisticamente positivo . (per Alberto e... per me) come faisandée ha valore | positivo per la beccaccia appesa, che per tal modo principia a sentire di... fagiano. È lo strato del Man-

312

MANZONI E GLI SCRITTORI

zoni visto « come

un dato uomo

appartenente

a una

data società ». L'aggettivo « decadente », che non mi piace, lo sostituirei con la qualifica « naturalistico »

e magari « deterministico » e magari « drammatico ». «Il

Manzoni

decadente

(sic) è il contrario

giusto

del Manzoni del realismo cattolico. » Non sarebbe stato più semplice dire, lasciando le terminologie d'uso odierno letterario e... sociale: « Taluni sentimenti e giudizi più profondi o magari inconsci o meno confessati di Alessandro Manzoni, che tuttavia affiorano o emergono

dal testo, sono tra quelli che più

contribuiscono alla grandezza dell’opera? Come sempre? ». Se Alberto intende dir questo, sottoscrivo al giudizio. Non tutto, un romanzo, e non il meglio, d'un romanzo, discende (a mio avviso) da una premedita-

zione concettuale, da una pianificazione dialettica. Mi pare che l'intento propaganda sia soltanto un aspetto (forse il più povero) dell’alta e vasta creazione manzoniana, ricca d’interdipendenze e contra| sti che hanno valore di realtà combinatoria (e Moravia dice « realismo »), di realtà logica quasi discendente da un superno decreto, e significato ironico-logico profondo: e attingono agli strati fondi e veritieri del conoscere, del rappresentare. Ciò che incanta,

in quel libro, e incanta

massi-

mamente un lombardo, si può dire per elenco. Annotata, cioè riconosciuta, la verità dei rapporti di fatto (non dei rapporti sistematizzati, quali ci potrebbe dare un utopista, un engagé, o un arrabbiato): tra poveri e poveri, che tirano spesso, oltretutto, a... beccarsi fra loro, come gli immortali capponi; tra umili e potenti; tra sposo in « lieta furia » e curato in fifa: ragionevolissima fifa. Amore illuminato al documento e alla storia: ironizzazione signorile del documento balordo, bravi, gride per il pane, e della storia sbagliata cioè

del male

«inutile » (ter-

GADDA - M. E IL BISTURI DI MORAVIA

313

mine illuministico a sua volta sbagliato): da leggersi perciò alla rovescia, l'uno e l’altra. Incredibile felicità e suprema nettezza descrittiva, la scena « veduta », il personaggio che «ti viene incontro », le vie di Milano e i bravi e il lazzeretto ricostituiti in prosa italiana, ma con l’arte antica e nuova d’un Caravaggio, d'un Canaletto. Forse il vecchio genio italiano non ancora sfibrato dalla verbosità e dalla violenza polemica, dalla fregola del vaticinio. Il suggerimento imaginifico del passato raccolto come una musica, e d'altronde come un dato a noi estrinseco, e alla nostra

faciloneria

fabulante:

da sensi vergini,

stupiti come quelli di un bambino. Per tali caratteri dell'ingegno e dell’opera il Manzoni potrebbe credersi veramente nipote secondo il sangue a colui ch'egli chiama «il conte Pietro Verri »: figlio cioè di uno dei tre papabili tra i fratelli di Pietro:

(l’ottocento

ha ritenuto

Alessandro).

Ma

cert'altri caratteri, più aspri, più chiusi, più selvatici di fronte all’inanità insopportabile del mondo lo direbbero figlio, proprio, del suo padre secondo il registro, cioè di don Pietro: come i più savi pretesero e pretendono, confortati oltretutto da una loro santa certezza: e cioè che la madre di un presunto santo debba essere stata una santa anche lei, prima di andare a convivere more uxorio col conte Giovan Carlo Imbonati, e di ereditarne la terricciuola di Brusuglio, Da tutto il qual caso, viceversa, fiorisce nel mio animo il fiore della gratitudine e del ‘più spagnolesco rispetto per la indiavolata figlia del marchese Beccaria, che riffe o raffe, pervenne a es-

sere la madre

di Alessandro

Manzoni.

CARLO

EMILIO

* Da Manzoni diviso in tre dal bisturi « Giorno », 26 luglio 1960.

GADDA *

di Moravia, nel

hgtài

| NOTA 'BIO-BIBLIOGRAFICA

I]

LA VITA E LE OPERE. —

Alessandro

Manzoni

nasce

il 7

marzo 1785, a Milano, in via S. Damiano n. 20. La madre Giulia Beccaria, figlia di Cesare, e il padre Pietro

Manzoni ormai

erano

andati

è accertato,

sposi

il 12 settembre

e neppure

più

taciuto,

1782.

che

Ma

Alessan-

dro è il frutto di una relazione adulterina tra Giulia e Giovanni Verri, fratello dei più celebri Alessandro e Pietro. Lo scandalo è soffocato col riconoscimento del piccolo Alessandro da parte di Pietro Manzoni, ma di lì a qualche anno Giulia e il marito si separano (13 febbraio 1792). Il M. entra nel collegio dei Somaschi a Merate il 13 ottobre 1791 e vi rimane sino al 1796. Quindi passa nel collegio, pure somasco, di Lugano e infine in quello barnabita, detto dei Nobili, in Milano (1798). Nei collegi, dove trascorre dieci anni,

compie gli studi. Ne esce però disgustato e ribelle, tanto che nel 1801 compone il poemetto Del trionfo della libertà acremente imbevuto di spiriti democratici. Tra il 1801 e il 1804 vive a Milano, nella casa paterna, e per alcuni mesi a Venezia. Scrive sonetti, frammenti di odi, sermoni

e l’idillio Adda. Il 15 marzo 1805 muore a Parigi il conte Carlo Imbonati al quale Giulia Beccaria s'era da tempo liberamente unita e di cui diviene ora l’erede universale. Il M. si stabilisce a Parigi, presso la madre, e scrive il | carme In morte di Carlo Imbonati. Nel 1807, poco dopo la morte del padre, torna a Milano e incontra per la prima volta Enrichetta Blondel, svizzera d'origine e calvinista. Il matrimonio, tra Alessandro ed Enrichetta, è celebrato il 6 febbraio 1808 a Milano, secondo il rito calvinista, nella casa di via del

| Marino

ay

n. 1138. Nel giugno

di quello

stesso

anno

il M.

318

NOTA

BIO-BIBLIOGRAFICA

parte, con la famiglia, per Parigi dove nasce la prima figlia, chiamata Giulia Claudia in onore della nonna e del padrino Claudio Fauriel (23 dicembre). Intanto aveva scritto il poemetto Urania che esce a Milano nel settembre 1809. Il 23 agosto 1809 Giulia Claudia viene battezzata nella chiesa di S. Michele a Meulan. Il 15 febbraio 1810 viene regolarizzato secondo il rito cattolico il matrimonio di Alessandro ed Enrichetta per concessione del papa Pio VII a cui la regolarizzazione era stata chiesta nel settembre 1809. Il 2 aprile Alessandro ed Enrichetta assistono al matrimonio di Napoleone con Maria Luisa

e in questa

occasione

(secondo

testimonianze

che

contaminano fatti diversi e riducono ad un episodio d'eccezione una storia di emozioni e di pensieri che certo ebbe genesi e svolgimento complessi) i due coniugi si sarebbero

trovati

divisi

tra

la folla

e il M.,

còlto

dal

panico e rifugiatosi nella chiesa di S. Rocco, si sarebbe qui convertito miracolosamente. Il 9 aprile Enrichetta inizia, sotto la guida dell'abate Dègola, la propria istruzione religiosa e il 22 maggio abiura solennemente, nella chiesa

di Saint-Séverin,

abbracciando

la fede

cattolica.

Il 2 giugno 1810 i Manzoni lasciano Parigi per prendere poi stabile dimora in Milano, nella casa di via S. Vito al Carrobbio n. 3883 (poi n. 27). Il 27 agosto Alessandro si confessa e il 15 dicembre fa la prima comunione. Nel 1811 assume la direzione degli affari domestici. Il 5 settembre 1811 nasce la figlia Luigia Maria Vittoria, che muore nello stesso giorno. Nel 1812 i Manzoni si trasferiscono

nel palazzo

Beccaria,

in via Brera

n.

1571

(poi n. 6). Negli anni 1812-1815 il M. attende ai primi quattro Inni sacri. Il 21 luglio 1813 viene alla luce il figlio Piero e nello stesso anno la famiglia Manzoni va ad abitare nella casa

di via del Morone

n. 1771

(poi n. 1). Il 23 lu-

glio 1815 nasce la figlia Cristina. Nel 1816 il M. inizia il Conte di Carmagnola, ultimato nel 1820, e nel 1817 la Pentecoste,

condotta

a termine

nel 1822. Il 13 novem-

bre 1817 nasce la figlia Sofia e il 7 giugno 1819 il figlio Enrico. Negli anni 1818-1819 scrive le Osservazioni sulla

morale cattolica è nel settembre 1819 si reca con la fa-

NOTA

BIO-BIBLIOGRAFICA

319

miglia a Parigi da cui riparte il 25 luglio 1820 per rien.trare a Milano, dove giunge l’'8 agosto. Nel 1820 scrive la Lettre à M. Chauvet e inizia l’Adelchi, terminato nel 1822. Nel marzo 1821 compone Marzo 1821 e il 18 luglio il Cinque Maggio. Nel frattempo erano stati pubblicati i cinque Imni sacri e le Tragedie. Il 12 agosto 1821 nasce la figlia Clara, che muore il 1° agosto 1823, e il 17 settembre 1822 la figlia Vittoria. Il 17 settembre

1823 finisce la prima stesura del romanzo

e Lucia) che aveva iniziato il 24 tembre scrive al marchese Cesare Romanticismo. Il 18 marzo 1826 Negli anni 1824-1826 attende alla

(Fermo

aprile 1821, e il 22 setd’Azeglio la lettera sul nasce il figlio Filippo. revisione e stampa del

romanzo, il quale nel 1827 viene alla luce in tre volumi, presso l’editore Ferrario di Milano, col titolo / Promessi

Sposi. Il 15 luglio 1827 il M. parte alla volta della Toscana. A Firenze (29 agosto-1° ottobre) incontra Vieusseux,

Gior-

dani, Leopardi e Niccolini. L' 11 dicembre 1827 è accolto tra gli accademici corrispondenti della Crusca. Il 30 maggio 1830 nasce l’ultima figlia, Matilde. Nel decennio 1830-1840 il M. si dedica soprattutto

alla correzione del romanzo. E intanto hanno inizio i gravi lutti familiari. Il 25 dicembre 1833 muore la moglie Enrichetta e il 20 settembre 1839 la figlia Giulia, che era andata sposa a Massimo d’Azeglio nel maggio 1831. Il 2 gennaio 1837 il M. sposa, in seconde nozze, Teresa Borri,

vedova

del

conte

Decio

Stampa.

Nel

novembre

1840 esce la prima dispensa dell’edizione definitiva del romanzo. Due anni appresso i Promessi Sposi, illustrati dal Gonin, sono interamente. stampati, presso Guglielmini e Radaelli, e recano come appendice la Storia della colonna infame. Anche il decennio 1840-1850 è pieno di | sventure domestiche. Il 27 maggio 1841 muore la figlia Cristina, che aveva sposato Cristoforo Baroggi nel maggio 1839; il 7 luglio dello stesso anno la madre Giulia; il 31 marzo 1843 la figlia Sofia, moglie del marchese Lo| dovico Trotti-Bentivoglio dal 1838. Il 27 settembre 1846 si _ celebra il matrimonio della figlia Vittoria con G. B. Gior-

_

gini. Il 18 marzo 1848 è arrestato e trattenuto come ostaggio dagli austriaci il figlio Filippo, a seguito delle Cinque

320

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Giornate di Milano. Nell'ottobre 1848 il M. è eletto deputato di Arona, ma non accetta il mandato. Nei mesi di settembre e ottobre 1852 il M. si reca nuovamente in Toscana. Scompaiono gli amici: Tommaso Grossi

(10 dicembre

1853) e Antonio

Rosmini

(1° luglio

1855). Il Fauriel era già morto sin dal 15 luglio 1844. Lo lascia anche la figlia minore, Matilde (30 marzo 1856). . Nell'agosto 1856 compie un altro viaggio in Toscana e s'incontra con Gino Capponi. Il 30 giugno 1859 è nominato

presidente

dell’Istituto

Lombardo,

di cui

diventa

poi presidente onorario perpetuo, e il 9 agosto riceve da Vittorio Emanuele il gran cordone dei SS. Maurizio e Lazzaro e una pensione annua. Nel 1860 è nominato sena- — tore

e presta

giuramento

a Torino.

Nel

febbraio

1861,

sempre a Torino, dà il suo voto favorevole alla legge che attribuisce a Vittorio Emanuele il titolo di re d’Italia. In questi stessi anni riceve le visite di Cavour e di Garibaldi. Il 23 agosto 1861 muore la seconda moglie, Teresa. Nel 1862 è nominato presidente della commissione per l’unificazione

della

lingua.

Come

tale,

nel

1868,

presenta

la

relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla. Nel 1868 finisce La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 e continua a interessarsi particolarmente della questione della lingua. S'incontra con Giuseppe Verdi (30 giugno 1868). Il 28 giugno 1872 gli è conferita la cittadinanza romana. Perde ancora due figli:

Filippo (8 febbraio

1868) e Pietro

(28 aprile

1873).

Il 22 maggio 1873 il M. muore. Gli sopravvivono solo due figli: Vittoria ed Enrico. Nell’anniversario della sua scomparsa, a Milano, viene eseguita la Messa da requiem dedicata da Giuseppe Verdi alla sua memoria.

4

NOTA

LA CRITICA. —

tica manzoniana,

BIO-BIBLIOGRAFICA

321

Per la bibliografia e la storia della cri-

si veda:

E. SANTINI,

Storia della cri-

tica manzoniana, Lucca, Lucentia 1951; M. SANSONI, Manzoni, nel vol. II dei Classici italiani nella storia della critica, diretti da W. Binni, Firenze, La Nuova Italia

1956 (e ora 1961°); Ip., A. Manzoni,

nel vol. II della Let-

teratura italiana: I Maggiori, Milano, Marzorati 1956; M. Gorra, Manzoni, Palermo, Palumbo 1959; L. CARETTI, Manzoni e la critica, Bari, Laterza 1969.

Opere

generali e saggi sul Manzoni:

.F. DE

SANCTIS,

Manzoni, a cura di L. Blasucci, Bari, Laterza 1953 (e anche a cura di C. Muscetta, Torino, Einaudi 1955); B. Croce, A. Manzoni, Bari, Laterza 19535 A. GALLETTI, Manzoni, Milano, Mursia 1958*; A. MoMmiGLIANO, A. Manzoni, Milano, Principato 19485; L. Russo, Ritratti e disegni storici, serie IV, Firenze, Sansoni 1965; Ip., Personaggi dei Promessi Sposi, Bari, Laterza 1965; M. SANSONE, L'opera poetica di A. Manzoni, Milano, Principato 1947; G. DE RoBERTIS, Primi studi manzoniani, Firenze, Le Monnier 1949; N. SAPEGNO, Ritratto del Manzoni ed altri saggi, Bari, Laterza 1961; L. CARETTI, Manzoni, Dante e altri studi, Milano-Napoli, Ricciardi 1964; G. ALBERTI, A. Manzoni, Milano, Garzanti 1964; A. LEoNE DE CASTRIS, L'impegno del Manzoni, Firenze, Sansoni 1965; G. PETRACCHI, Manzoni. Letteratura e vita, Milano, Rizzoli 1971.

Studi sui Promessi

Sposi:

N. BusETT9, La genesi e la

formazione dei Promessi Sposi, Bologna, Zanichelli 1921; A. MomiGLIANO, Dante, Manzoni, Verga, Firenze, D'Anna 1944; A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Torino,

Einaudi 1950; G. DE RoBERTIS, Le parti morali degli Sposi Promessi,

in « Letteratura - Arte Contemporanea », 1950-

1951; R. FasanI, Saggio sui Promessi Monnier 1952; G. PETROCCHI, dialogo, Firenze, Le Monnier

Sposi, Firenze, Le

La tecnica manzoniana del 1959; A. Cniavacci, Il « par-

lato» nei Promessi Sposi, Firenze 1962; A. MORAVIA, A. Manzoni o l'ipotesi di un realismo cattolico, in L'uomo

come

fine, Milano,

Bompiani

1963;

V. PALADINO,

La

revisione del romanzo manzoniano e le postille del Visconti, Firenze, Le Monnier 1964; C. VarEsE, Fermo e

322

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Lucia, Firenze, La Nuova Italia 1964; G. GETTO, Letture manzoniane, Firenze, Sansoni 1964; G. BARRERI. SQUAROTTI, Teoria e prove* dello stile del Manzoni, Milano, Silva 1965; E. DE MicHELIS, La vergine e il drago, Padova, Marsilio 1968; G. GETTO, Manzoni europeo, Milano, Mursia 1971.

Studi sulle liriche e tragedie:

U. Bosco, Lettura degli

Inni sacri, in Aspetti del Romanticismo italiano, Roma, Cremonese 1942; G. PETRONIO, Formazione e storia della lirica manzoniana, Firenze, Sansoni 1947; F. ULIVI, Il Manzoni lirico, Roma, Gismondi 1950; P. BIGONGIARI,

Primi capitoli sugli Inni sacri, in « Paragone », 1956 (poi in Capitoli di una storia della poesia italiana, Firenze, Le Monnier 1968);*C.F. GorrFis, La lirica di A. Manzoni, Firenze, La Nuova Italia 1964; G. LoNaRDI, L'esperienza stilistica del Manzoni tragico, Firenze, Olschki 1965; G. BoLLATI, Le tragedie del Manzoni, in A. MANZONI, Tragedie, Torino, Einaudi 1965; B. TERRACINI, Il Cinque Maggio, in Analisi stilistica, Milano, Feltrinelli 1966.

LE EDIZIONI. — La migliore edizione delle opere del M. è tuttora quella ideata e preparata da M. BARBI, con la preziosa collaborazione di F. GHISALBERTI, sotto l'egida del Centro Nazionale di Studi Manzoniani (Firenze,

Sansoni).

Questa

raccolta

è la

più

sicura

logicamente ed è stata vigilata personalmente sino

al secondo

le cure

del

volume,

Ghisalberti

la morte del della Colonna

mentre

rimasto

il terzo

unico

filo-

dal Barbi

è uscito

editore

per

dopo

Barbi: I, / Promessi Sposi e Storia Infame, 1942; II, Opere varie, 1943;

III, Scritti non compiuti. Poesie giovanili e sparse. Lettere pensieri giudizi, con aggiunta di testimonianze sul M. e con un indice analitico relativo ai nomi e alla materia dei tre volumi, 1950. A questo corpus è da aggiungere, come completamento, lo scritto Dell’indipendenza dell’Italia, a cura di F. GHISALBERTI, Milano, Manzoni (ma Firenze, Sansoni) 1947. Il volume

sta edizione

del Barbi

e Ghisalberti

riproduce

Casa del I di que-

critica-

mente la stampa definitiva ,1840-1842 (I Promessi Sposi,

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA storia

milanese

ecc.,

Milano,

323

Guglielmini

e Radaelli),

il

volume II rinnova l’edizione delle Opere varie del 18451855 (Milano, Radaelli), mentre il volume III accoglie gli scritti non pubblicati o non approvati dal M., e che tuttavia vanno conosciuti per il loro interesse estetico e culturale, oltre ad una larga scelta di lettere. Ma

la vera

« edizione nazionale » di tutte le opere manzoniane, comprendente anche gli abbozzi e i diversi apparati critici e di cui il Barbi aveva tracciato il piano generale, ha cominciato appena ora a vedere la luce. Sono apparsi, infatti, i volumi

Poesie

rifiutate

e abbozzi

delle

ricono-

sciute, Le tragedie secondo i manoscritti e le prime stampe e Le Poesie e le tragedie secondo la redazione definitiva, a cura di I. SANESI, Firenze, 1958 e 1961. Intanto l’editore Mondadori

A. CHIARI e F. GHISALBERTI M.

nella

collana

già stati stampati

Sansoni 1954, ha affidato a

la cura di tutti gli scritti del

dei classici

diretta

quattro volumi:

da

D. Isella.

I, Poesie

Sono

e tragedie;

II, I Promessi Sposi, in tre tomi (i P. S. del 1840; i P. S. del 1827; Fermo e Lucia); III, Opere morali e filosofiche;

IV, Saggi storici e politici; VII, Lettere, in tre tomi. Vedranno presto la luce: V, Scritti letterari e linguistici; VI, Postille di letture varie. Edizioni commentate del romanzo: a cura di E. PiSTELLI, Firenze, Sansoni 1923 e 1957 (con nuova presentazione di C. Angelini); D. GuERRI, Firenze, Vallecchi 1925; L. Russo, Firenze, La Nuova Italia 1935 (nuovamente stampato nel 1952); C. STEINER, Torino, SEI 1936; G. PETRONIO, Torino, Padova 1936; D. PROVENZAL, Milano,

| Mondadori 1938; A. GALLETTI, Bologna, Cappelli 1946; E. BIANCHI, Firenze, Le Monnier 1946; A. MOMIGLIANO, Firenze, Sansoni 1951; N. SAPEGNO-A. Asor Rosa, Milano, Feltrinelli 1960; C. AncELINI, Milano, Principato 1963; G. Titta Rosa, Milano, Mursia 1963; E. DE MICHELIS, Bologna, Cappelli 1964; G. GETTO, Firenze, Sansoni 1964; C.F. Gorris, Bologna, Zanichelli 1968; G. LuTtI, Bergamo, . Minerva Italica 1970; L. CARETTI, Bari, Laterza 1970; M. TURCHI, Bologna, Calderini 1971. Si veda anche: M. BARBI, Per un nuovo commento sui Promessi Sposi, in « Annali

Manzoniani », I (1939); In., Proposta di correzioni a tre

324

NOTA

BIO-BIBLIOGRAFICA

recenti commenti dei Promessi Sposi, in « Annali Manzoniani », II (1941) e IV (1943); In., Note postume

sui Pro-

messi Sposi (I-VII), in « Rendiconti dell'Istituto Lombardo », 95-98 (1961-1964). Edizioni commentate delle liriche e delle tragedie: a cura di A. D'Ancona, Firenze, Barbèra 1892 e 1924; M. ScHErILLo, Milano, Hoepli 1907 e 1934; A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni 1908, 1929 e 1957 (con nuova presentazione di A. Chiari); A. MoMIiGLIANO, Torino, Utet 1925; N. BusETTo, Catania, Muglia 1927, e poi Torino, SEI 1935; G. DE RoBERTIS, Firenze, Le Monnier 1926 e 1933; L. Russo, Firenze, Vallecchi 1932 e 1935, e poi Firenze, Sansoni 1945 e 1946; E. CHIoRrBoLI, Bologna, Zanichelli 1948; V.

ArANcIO

Ruiz,

Torino,

Utet

1949;

G. BoLLaTI,

Torino,

‘Einaudi 1965; A. LEoNE DE CASTRIS, Firenze, Sansoni 1965; L. CARETTI, Milano, Mursia 1967; G. TRoMBATORE, Firenze, La Nuova Italia 1970; M. TurcHI, Bologna, Calderini 1971.

Raccolte

complete

o parziali

di opere ‘manzoniane:

Le più belle pagine di A. M., a cura di G. PAPINI, Milano, Treves 1923, voll. 2; Opere di A. M., a cura di R. Bac-

cHELLI,

Milano-Napoli,

Ricciardi

1953;

Opere

varie

di

A. M., a cura di R. BezzoLA, Milano, Rizzoli 1961, voll. 3; Opere di A. M., a cura di L. CARETTI, Milano, Mursia 1962 (nuova edizione accresciuta 1965); Tutte le opere di A.-M.,

Roma, Avanzini e Torraca 1965; Opere di A. M., a cura di C.F.

GorFrFis, Bologna,

Zanichelli

1967.

INDICE Premessa

PARTE

PRIMA

MANZONI E I CRITICI Il noviziato

poetico

.

Il « Trionfo della libertà » (G. Trombatore) I « Sermoni»

(G. Bezzola)

.

:

3 «In morte di Carlo Imbonati » (G. F. Goffis) . Stile e metrica del primo Manzoni (G. De Robertis)

La grande lirica e il teatro . La grande

lirica

manzoniana

(G. De

Robertis)

Il cristianesimo democratico se « Inni » (F. De Sanctis). Il} « Cinque Maggio » (B. Did Le « Tragedie» (G. Bollati). a L’« Adelchi », tragedia della Grazia (L. RISO I cori dell’« Adelchi » (L. Russo) . L'« Adelchi » in scena (V. Gassmann)

| Dalla poesia lirica e tragica al romanzo mondi)

IO

A

(E. Rai-

— 326

INDICE

Il«romanzo

>