La critica cinematografica 8843041975, 9788843041978

Come ragionano i critici? Quali sono le premesse su cui fondano i loro giudizi? Il libro analizza la critica cinematogra

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Italian Pages 128 Year 2007

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La critica cinematografica
 8843041975, 9788843041978

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r edizione, maggio 2007 © copyright 2007 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel maggio 2007

da Eurolit, Roma

ISBN 978-88-430-4197’8 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art 171 della legge 22 aprile 1941. n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno

0 didattico.

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pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore

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00187 Roma.

tel 06 42 81 84 17 fax 06 42 74 79 31

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Alberto Pezzetta

La critica cinematografica

Carocci editore

Ringraziamenti

Ringrazio per i consigli e i su�erimenti Barbara Crespi e Paolo Mereghetti che hanno letto una prima versione di questo testo. Grazie anche a Vincenzo1.o Buccheri. E a Lorenzo Pellizzari •per le sue ricerche sulla critica cintmatografica nel corso di questi anni. N111,1

li I h,u,ulw • unu11ur�n.a1u "tali., hussola un approfondimento

(§) contiene

Indice Premessa

9

1.

Funzioni e leggende della critica

1.1.

"Professione ingrata, difficile e poco nota"

1.2.

Un'identità incerta tra storia e teoria

1.3.

"Inutile ma necessaria"

1.4.

Tra gli autori e il pubblico

Per riassumere...

11 11

13

17 20

25

2.

La critica in Italia dalle origini a internet

2.1.

La nascita della critica

26

2.2.

Gli anni trenta e quaranta

2.3.

I dibattiti del dopoguerra e gli anni cinquanta

28

2.4.

Gli anni sessanta e settanta

2.5.

Dagli anni ottanta a oggi

Per riassumere...

26

29

32

34

37

3.

I luoghi e i generi della critica

3.1.

La recensione

38

38

40

3.2.

Altri generi

3.3.

Nell’epoca multimediale

43

3.4.

Usi impropri

3.5.

Nell’epoca dell’homevideo: un po’ di filologia

45

Per riassumere...

47

50

5

La critica come argomentazione 4.1.

Retorica e generi di discorso

51

4.2.

Le basi dell’argomentazione

56

4.3.

Premesse e gerarchie di valori

4.4.

Interpretazione e selezione dei dati

59

65

Per riassumere...

5.

Le forme del ragionamento

5.1.

Tecniche di argomentazione

5.2.

L’associazione

5.3.

Il paragone

5.4.

L’analogia e la metafora

5.5.

La dissociazione

5.6.

Criteri di verificabilità

67

71

Per riassumere...

73

74

76

81

6.

Lo stile della critica

6.1.

La dìsposìtio

6.2.

Velocutio 86

82

82

Per riassumere...

89

7.

Metodi, temi e miti

7.1.

Metodi

7.2.

Temi

7.3.

Il mito dell’autore

7.4.

I generi

7.5.

L’autoriflessività

105

Per riassumere...

109

6

63

90 92

94

102

90

66

66

51

8.

Le oscillazioni del giudizio

8.1.

L'attribuzione di valore

110

8.2.

Dinamiche della rivalutazione

8.3.

La stroncatura

ili

117

Per riassumere...

Bibliografìa

110

119

121

7

Premessa l;a parte della retorica delle premesse mettere le mani avanti e dire che cosa non è quanto si sta cominciando a leggere. È inevitabile nel caso di un libro dedicato a un oggetto sfuggente come la critica cine­ matografica. Quella che segue non è una storia della critica, anche se coglie alcune tappe della sua evoluzione. Non è neanche una storia delle teorie del cinema, o un saggio sui metodi di analisi dei film. I/intenzione, invece, è quella di partire dal basso, dalla critica così come viene esercitata quotidianamente, nella sua forma più ordina­ ria: la recensione. Studiosi come David Bordwell (1989) hanno scritto saggi su come si interpretano i film, e hanno lasciato in un angolino la “critica gior­ nalistica”, concentrandosi invece sui film studies e le strategie messe in atto dalla saggistica accademica. Ma la critica informa, spiega, analiz­ za, interpreta ed emette giudizi. Vale a dire, fa le stesse cose di un saggio accademico: alcune, certo, in modo molto più sommario e semplicistico. Al tempo stesso si sbilancia, rischia e decide “in diret­ ta” se un film è bello o brutto. Questa funzione della critica è stata periodicamente contestata; agli occhi di alcuni, è anche uno dei moti­ vi per cui la “critica dei quotidiani” è inferiore rispetto all’analisi che si libra al di sopra della pratica del giudizio o, peggio, delle stellette. Questo libro non vuole difendere un metodo; piuttosto, si sforza di capire i presupposti e i valori, non sempre esplicitati, che stanno alle spalle di qualunque tipo di critica. Per questo chiede aiuto alla reto­ rica e alla teoria dell’argomentazione, solitamente trascurata dagli studiosi di cinema. Così da fare luce sul modo in cui si sono costituiti .1 Icuni miti critici consolidati e capire perché è inevitabile che meto­ di e giudizi cambino nel corso del tempo.

9

1. Funzioni e leggende della critica 1.1. “Professione ingrata, difficile e poco nota” «A Holly­ wood si sente spesso dire: “Tutti hanno due mestieri, il loro e quello di critici cinematografici”», scriveva Francois Truffaut nel 1975, raccogliendo le proprie recensioni. «Chiunque può diventare critico cinematografico; al candidato non si chiederà che un decimo delle conoscenze richieste a un critico letterario, musicale o d’arte. Un regi­ sta, oggi, deve accettare l’idea che il suo lavoro potrà essere giudicato anche da qualcuno che magari non avrà mai visto un film di Mumau» (Truffaut, 2003, pp. 16-7). Molti anni prima, quando non era anco­ ra un regista ma solo un giovane critico combattivo, Truffaut non accettava questa idea. In un articolo pubblicato su “Arts” nel 1955, e intitolato I sette peccati capitali della critica^ fustigava una “professio­ ne ingrata, difficile e poco nota”, che nella Francia dell’epoca non era all’altezza dei propri compiti. 11 primo difetto stigmatizzato nel critico medio era «l’ignoranza totale della storia del cinema» (1988, p. 195); seguivano l’assenza di immaginazione, lo sciovinismo, la presunzione. Tale elenco di accuse ha una lunga tradizione: nel 1916, sulla rivista “La Vita Cinematografica”, un tale Carmine Crespo (cit. in Pellizzari, 1999, p. 37) accusava i critici di ignoranza, malafe­ de, schiavitù alle mode... 11 ventitreenne Truffaut esigeva una critica colta e competente, non solo di storia ma anche di tecnica. Trentanni dopo, regista afferma­ to da tempo, guarda serenamente la realtà, con buon senso e prag­ matismo. Considera con ironia le proprie battaglie giovanili e le proprie idiosincrasie pro o contro un certo regista. Riflette sull’in­ fluenza del mercato: «Commerciali o no, tutti i film sono commer­ ciabili^ (Truffaut, 2003, p. 13), anche se c’è chi nasce con più privile­ gi rispetto agli altri. Smonta i presupposti alle spalle di alcuni giudi­ zi di valore: i francesi amano Alfred Hitchcock perché meno sottoposti alla brutalità quotidiana della televisione; mentre i newyorkesi, sensibili a un altro tipo di esotismo, accolgono come una ventata d’aria fresca un film intimista cecoslovacco. E infine

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ammette il limite insormontabile della critica: non riuscire a condur­ re il pubblico nelle sale dove si proiettano film come Notte e nebbia (1956) di Alain Resnais, sui lager nazisti, o Vidas secas (1963) di Nelson Pereira dos Santos, sulla fame e la siccità nel Nordeste brasi­ liano. Anche se poi succede sempre l’imprevisto: e nel 1973 un film su una donna che muore di cancro - Sussurri e grida di Ingmar Berg­ man - diventa un successo internazionale. Forse solo perché il pubblico viene ipnotizzato dai rossi sensuali dell’arredamento... Nello stesso testo, Truffaut racconta la propria vocazione e appren­ distato di critico. A parte i dettagli pittoreschi e psicoanalitici sulla clandestinità, il brivido della trasgressione e la paura, il momento fondamentale in cui il giovanissimo Francois diventa potenzialmen­ te critico è quando compie l’esperienza di vedere più volte un film apprezzato. A quel punto si accorge di quanto sia «affascinante pene­ trare sempre più intimamente nell’opera che ci piace, fino quasi a provare l’illusione di riviverne la creazione» (Truffaut, 2003, p. 11). Truffaut esordisce come critico nel 1950, sul bollettino del cineclub del Quartiere Latino: nel suo articolo paragona la versione finora conosciuta di La regola del gioco (1939) di Jean Renoir con quella integrale appena ritrovata. André Bazin, fondatore dei “Cahiers du cinéma”, lo incoraggia e gli insegna a essere “concreto”, ossia ad «analizzare e descrivere il proprio piacere» (Truffaut, 2003, p. 13): il passaggio dall’impressionismo cinefilo alfesattezza dell’analisi coin­ cide con quello dal dilettantismo al professionismo. Nel 1959 esor­ disce nel lungometraggio con I quattrocento colpi-, da regista, conti­ nuerà a scrivere sui film degli altri; il suo // cinema secondo Hitch­ cock, la cui prima edizione risale al 1966, è tradizionalmente considerato uno dei più bei libri di cinema mai scritti. L’esperienza di Truffaut non è per forza esemplare del critico medio. Non tutti considerano il proprio lavoro come un modo di “avvici­ narsi sempre più al cinema”, o come un’anticamera della regia. Né tutti userebbero metafore dalla connotazione erotica («penetrare sempre più intimamente nell’opera», Truffaut, 2003, p. 11) per descrivere il proprio rapporto con i film; di certo 1’“ entusiasmo” che Truffaut considera essenziale per fare critica è stato accurata­ 12

mente represso da intere generazioni cresciute sotto l’ombra dell’i­ deologia, E non tutti condividono con lui la necessità della precisio­ ne e l’appello alla concretezza cui ancorare il piacere della visione. Sospeso tra professionalità e dilettantismo, oggettività e soggettività, lo spazio in cui si situa il critico è «mal definito» (ivi, p. 13): ciò che scriveva Truffaut nel 1975 vale ancora oggi. Molte cose sono cambia­ te, certo. La storia e la metodologia della critica cinematografica sono entrate tra le discipline universitarie. Le recensioni dei critici del passato sono raccolte e studiate come documenti storici e letterari. Ma, nella prassi corrente, lo statuto della critica cinematografica rimane incerto, come gli spazi in cui si esercita, che nell’Italia contem­ poranea sono sempre più ridotti. Già nel 1982 Morando Morandini (eie. in Pellizzari, 1999, p. 145) aveva definito il critico cinematografi­ co come un “animale in via di estinzione”. I a professionalità del critico non è certificabile da diplomi, non è richiesta dal mercato del lavoro, e non si può neanche insegnare. Si parva licet, non si insegna a scrivere recensioni, così come non si inse­ gna a scrivere romanzi: e se è vero che fioriscono i corsi di scrittura creativa, sono meno diffusi quelli che insegnano a fare i critici, data anche la scarsa spendibilità del titolo. Eppure mai come in questi anni si discute del ruolo della critica cine­ matografica, e la critica parla di se stessa. Dal 2002 è protagonista anche di un festival ad Alessandria, “Ring”. La diffusione di inter­ net accresce, se non la lettura della critica, di certo la produzione di recensioni, saggi e sproloqui. E le riviste italiane ospitano periodica­ mente dibattiti e diatribe che, dopo pochi anni, appaiono remote o incomprensibili.

1.2. Un'identità incerta tra storia e teoria Che cosa sia la a iùca cinematografica sembra presto detto. Certo, come notava ( Visetti (1975, pp. 98-9), l’espressione è ambigua, e designa vari aspetti. La critica è il singolo testo, la recensione scritta od orale. La trinca è un insieme di testi riconoscibile: un genere di scrittura gior­ nalistica o saggistica, facilmente identificabile come tale sui giornali (la pagina della recensioni) o sugli scaffali delle librerie; questo, 13

almeno, fino alla proliferazione odierna sul web. La critica è un mestiere, sia pure aleatorio e non sempre ufficialmente riconosciuto. La critica è un’istituzione, un fenomeno culturale: tant’è che se ne scrivono storie, ed è oggetto di insegnamento accademico. Tante forme e tanti aspetti sembrano comunque riconducibili a un comune denominatore: la critica parla di film. Ma in che modo? La critica informa, spiega, classifica, valuta, analizza, divaga. Come ha sintetizzato Prédal (2004, p. 51), la critica «è per vocazione ermeneuti­ ca, per fatalità normativa, per comodità impressionista e in pratica estetica». Ma non sempre svolge tutte queste funzioni, e comunque non è la sola a informare, classificare, analizzare... Il suo prestigio è certo superiore a quello della cronaca giornalistica, che pure le ha eroso spazi enormi negli ultimi decenni; ma rispetto al discorso sul cinema prodotto nelle università, fa la figura della parente povera. Eppure, fino alla seconda metà degli anni trenta, scrive Cherchi Usai (1990, p. 3), «il termine “critica” equivaleva a quanto di meglio la pubblicistica sul cinema potesse offrire». Per Louis Delluc e Jean Epstein, fare critica cinematografica era anche riflettere sul linguaggio delle immagini, del movimento, e progettare il cinema del futuro. Lo stesso fanno, negli anni quaranta, le recensioni di Antonio Pietrangeli su “Cinema”, in cui si elaborano i germi del neorealismo. Il caso più noto di critico-teorico è quello di André Bazin: le sue recensioni (poi raccolte in Che cosa è il cinema^ 1979) partono dai film di William Wyler e di Vittorio De Sica per analizzare il linguaggio del montag­ gio, la natura del realismo e discutere l’essenza stessa del cinema. «Il tempo ha la tendenza a trasformare la critica in teoria», afferma Prédal (2004, p. 5). Per quanto la sua prospettiva sia ristretta, la critica si incarica inoltre di una prima analisi del presente, su cui si fonderà la storia di domani. Lo storico e il teorico non possono prescindere dalla critica: non solo come materiale di partenza, ma anche perché la scelta stessa degli oggetti di studio presuppone seel­ ie critiche e opzioni di gusto, coscienti o meno. Ma è anche vero che da quando la storia e la teoria del cinema si sviluppano in quanto discipline autonome, la critica, come scrive Cerchi Usai (1990), si trova “indifesa” e messa in ombra. 14

Il cinema entra nelle università italiane all’inizio degli anni sessanta: a Pisa, nell’anno accademico 1961-62, si apre un insegnamento di Storia c critica del cinema, tenuto da Luigi Chiarini. Le prime cattedre nascono all’interno degli istituti di storia della letteratura e, qualche volta, di storia dell’arte e di filosofia. Così come la critica cinemato­ grafica subisce il modello di quella letteraria (cfr. PAR. 2.1), il cinema invoca dignità di oggetto di studio affiliandosi ai valori estetici conso­ lidati della letteratura. Nel mondo accademico italiano l’idealismo crociano e il marxismo convergono nell’imposizione di un modello storicista. Il risultato è che il cinema viene insegnato innanzitutto tome storia: storia degli autori, evoluzione delle poetiche, lotta delle ideologie. Non solo: la storia del cinema tende a diventare l’unico modo culturalmente valido in cui è possibile parlare di cinema: a tutto scapito della critica, che produce solo discorsi frammentati e legati al contingente. Già Emilio (Zecchi la definiva «semplice sottoprodotto 1 inematografico» (cit. in Pellizzari, 1999, p. 131). IJ n 'altra conseguenza del predominio storicista è la sottovalutazione della tecnica e delle strutture economiche produttive: aspetti consi­ derati impuri e devianti rispetto a una considerazione del cinema come fatto artistico. E che, espunti dalle aule accademiche, sono i rascurati anche dalla critica, quasi sempre prona ai paradigmi cultu­ ral i dominanti. Il fenomeno non è solo italiano: uno dei rimproveri rivolti dal giovane Truffaut al critico medio (1988, p. 196) era l’igno­ ranza di che cosa fosse un piano-sequenza. All’inizio degli anni sessanta, la.diffurioiie.distrutturalismo, semio­ logia, psicoanalisi e altre scienze umane provoca un boom della iconiche si contrappone al mero studio storico, rivendicando una < onoscenza più profonda dei meccanismi linguistici e simbolici del icmo filmico. Ma se la teoria ambisce al rigore della scienza creando un proprio linguaggio, la critica perde ulteriormente rilevanza. Agli occhi dei teorici, essa è il luogo dell’effìmero: si esercita su quotidia­ ni e rotocalchi; non usa un linguaggio scientifico; si basa sull’im­ pressionismo soggettivo e non su dati verificabili; si rivolge a un pubblico non specializzato, in cerca solo di elementari giudizi di valore. E per questo vogliono rifondarla: nelle loro mani, la critica si 15

specializza, si dà strumenti analitici nuovi; ma appare subordinata a modelli esterni, secondo una logica di prestito temporaneo, e senza dare nulla in cambio. E di rado ha forza propositiva e fonda nuovi modi di vedere il cinema, come ai tempi di Bazin. Come nota Casetti (1993, pp. 19-21), se le teorie “ontologiche” del secondo dopoguerra avevano come soggetti protagonisti i critici come Bazin, le teorie degli anni sessanta e oltre, che siano “metodo­ logiche” o “di campo”, hanno come protagonisti studiosi discipli­ nari e intellettuali, più che critici,. In certi casi la critica viene tratta­ ta come un relitto del passato dagli stessi interessati: la più celebre rivista francese, i “Cahiers du cinéma”, negli anni settanta smette addirittura di fare critica e di pubblicare recensioni, dedicandosi alla politica calla teoria. Il boom della teoria e la perdita di prestigio della critica hanno conse­ guenze che si fanno sentire fino a oggi: a partire dalla contrapposi­ zione tra critica “militante” e critica specialistica (cfr. PAR 3-1)- La prima, che si esercita sui quotidiani, nel migliore dei casi è ritenuta un mestiere o un artigianato; nel peggiore, un’occupazione provvi­ soria per giornalisti senza competenze particolari. Alla seconda si attribuisce un prestigio infinitamente superiore; dalla teoria e dall’a­ nalisi ha ricevuto l’impulso a un maggior rigore; ma spesso appare un’anticamera per giovani ambiziosi, in attesa di occupazioni cultu­ ralmente più prestigiose ed economicamente più redditizie. In real­ tà, è l’accademia a creare questa contrapposizione. Per essa l’unica forma di critica autorevole appare l’analisi e l’interpretazione di un film secondo i dettami di una data teoria. Ma la critica non è solo questo: è anche battaglia culturale immersa nel presente. In ambito universitario, la critica cinematografica viene promossa a oggetto specifico di studio molti anni dopo la storia e la teoria del cinema. Negli anni ottanta, dopo la sbornia di teoria, si assiste a una ripresa dell’interesse storico. E una nuova generazione di studiosi cambia il modo di scrivere la storia del cinema, svincolandosi dal modello delle storie della letteratura. Il cinema viene studiato nella sua complessità di creazione artistica, prodotto industriale e oggetto di consumo. E la critica cinematografica diventa uno dei tanti mate­

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riali con cui ricostruire l’impatto del cinema nella cultura e la sua fruizione da parte del pubblico. Decisivi, in questo senso, i capitoli che Gian Piero Brunetta dedica alla critica cinematografica nella sua ampia e complessa Storia del cinema italiano (1979-82), che inse­ riscono Io studio della critica all’interno di quello, più vasto, del rapporto del cinema con il pubblico e la cultura del suo tempo. È anche la spinta per riscoprire i critici del passato, a cominciare dai tanto vituperati quotidianisti. ( \)n la diffusione dei cultural studies in campo cinematografico, c’è quindi spazio per una rivalutazione storica e obiettiva del ruolo della 1 1 idea. Ma questo proprio mentre il suo impatto sul cinema e nei inedia è sempre più ridotto. 1.3. “Inutile Ria necessaria” Nella tradizione della riflessione sulla critica si contrappongono (e in certi casi si integrano) la deni­ grazione sistematica e P affermazione di una nobile missione. A volte sono gli stessi critici a sminuirsi, in un atto di umiltà e ammissione dei propri limiti: «Nel microcosmo degli intellettuali, la categoria meno immobile, più superflua, data la sua funzione sostanzialmen­ te parassitarla, è quella dei critici», scrive Morandini (2003, p. 11). E specifica di usare “parassita” nel senso etimologico: il funzionario che in Atene era chiamato a partecipare alla divisione dei sacrifici. Uno che vive di avanzi, in ogni caso. Spesso sono i registi a prendersela con la critica, negandole legittimi­ tà e, a volte, lo stesso diritto di esistere. Morandini (ivi, p. 14) ricor­ da che Elia Kazan paragonava la condizione del critico a quella dcll’«eunuco neU’harem che passa il tempo a contemplare ciò che gli c precluso e proibito». Il critico sarebbe un invidioso, un regista frustrato? Per lo sceneggiatore Ugo Pirro, negli anni settanta, il criti­ co era anche di peggio: un autocrate, un fascista. E definiva la critica uno «strumento autoritario, aristocratico e astorico», una «prevarica­ zione esercitata da poliziotti della qualità» (in Cavallaro et al., 1976, pp. 43-4). Altra accusa classica è quella di chi rimprovera i critici di essere intellettuali snob staccati dalla realtà: spesso la esprimono regi­ sti che, forti del successo al botteghino, aspirano anche a una legitti-

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[nazione culturale. Ancora una volta è Truffaut (2003, pp. 20-3), che è stato da entrambe le parti della barricata, a esprimersi con serenità sulla quereli* tra critici e registi: il rischio di essere giudicato fa parte del mestiere e del privilegio del regista, ma non lede in nessun modo la sua ‘'superiorità ontologica”; mentre il critico resta qualcuno che comunque viene dopo, un epifenomeno. Constatazione frequente nelle riflessioni sulla critica, si è già accen­ nato, è Tinefficacia. Lo notava nel 1955 il giovane Truffaut (1988, p. 195): «La critica, anche se unanimemente sfavorevole, non potreb­ be mai arrestare la marcia verso il successo di un film a grosso budget». Anche se ammetteva eccezioni: la critica può aiutare il film piccolo e d'autore, come nel caso, allora recente, di La strada (1954) di Federi­ co Fellini, Tre anni dopo, il suo maestro Bazin approfondiva la questione in un testo illuminante e purtroppo mai tradotto in italia­ no, Réflexions sur la critique (Bazin, 1958, pp. 297-309). La critica è certamente “inutile” dal punto di vista quantitativo ed economico, e giustamente non ha influenza su chi il cinema lo fa; ma dal punto di vista dello spettatore, si mostra “necessaria”. Il ruolo che le attribui­ sce Bazin è didattico, non didascalico. Non si tratta si scoprire «mille intenzioni meravigliose che in realtà mai hanno sfiorato lo spirito delfautore»; e nemmeno di ricostruire «il processo psicologico della creazione». Scrive Bazin (ivi, pp. 305-6 ): La missione della critica non è tanto di “spiegare” l'opera, ma di dispiegare [éponou/r] il suo significato (0 meglio i suoi significati) nella coscienza e nello spirito del lettore.

[...] Suo compito è aiutare chi legge a arricchirsi a contatto con l'opera: intellettual­ mente, moralmente e nella propria sensibilità.

La critica aiuta, ma non crea nulla: mette in luce qualcosa che già esisteva nel film. E il risultato a cui arriva non è unico e inalterabile. Bazin parla di significati, al plurale. E prosegue (ivi, p. 308): Nella critica, la verità non si definisce in rapporto a un'imprecisata esattezza misura­ bile 0 oggettiva, ma innanzitutto per l'eccitazione intellettuale innescata nel lettore: la qualità di essa, e la sua portata. La funzione della critica non è offrire su un piatto

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d’argento una verità che non esiste, ma prolungare lo shock dell’opera d’arte il più a

tondo possibile, nell'intelligenza e nella sensibilità di chi legge.

lUzin enuncia due concezioni che attraversano la riflessione sulla H ìi ica degli anni a venire: da una parte la critica come mediazione tra il film e il lettore - Serge Daney parlerà del critico come «traghetta­ li ne» (1997, p. 225; 1999, p- 76); dall’altra la critica come prolunga­ mento del piacere estetico. I 4 prima concezione presuppone un critico-maestro, o meglio Hhiiruta: dotato di un auctoritas non contestabile, e proprio per questo in grado di condurre per mano il lettore alla scoperta della bellezza e della complessità dell’opera. Un critico che comunque fa appello all’intelligenza e alla razionalità. La seconda presuppone un 11 il ito sodale del regista, e armato soprattutto di sensibilità ed empa11.1. Non a caso Bazin specificava di non avere preferenza per un mciodo critico particolare, purché fosse regolato dal “gusto”: «quali­ tà evidentemente indefinibile, ma che è l’unica a permettere di 111 m i nguere l’elucubrazione teorica da un ragionamento accettabile» I B.izin, 1958, p. 306). Si consideri il lessico che adopera Bazin: da una parte “entusiasmo” e shock”, dall’altra “intelligenza” e “morale”. È notevole che l’autore B tetri questa ambivalenza, in un momento (la fine degli anni cin« pianta) in cui la critica comincia ad ambire alla serietà delle scienze umane, e dopo le prime storie del cinema (nel 1949 esce la prima edizione di quella di Sadoul) si annunciano sistemazioni teoriche di ampio respiro, come quelle di Kracauer (1962) e di Mitry (1963-65). In questo contesto, Bazin tiene comunque a riportare il dato emotivo e u’iisibile all’interno dell’esperienza estetica, assegnandogli la stessa ।nipimanza rispetto al lato intellettuale e razionale. In ciò è sicura­ mente isolato: èsolo all’inizio degli anni settanta — e prima delle deri­ ve irrazionaliste di Barthes (1975) - che gli estetologi rivalutano il piacere all’interno jdelTesperienea estetica (Jauss, 1985). Ma Bazin 11 >glie bene la natura ancora una volta ibrida della critica, sospesa tra oggettività e soggettività, scienze umane c discorso letterario. I /