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Italian Pages 252 Year 1973
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NINO
BORSELLINO
- ATTILIO
MARINARI
LEOPARDI Introduzione all'opera e antologia della critica
BULZONI
EDITORE
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TUTTI
I DIRITTI
© 1973 By BULZONI ROMA
RISERVATI
EDITORE
- VIA DEI LIBURNI,
APR 2.5 1986
- S.r.l. 14
NINO BORSELLINO Introduzione a Leopardi
La
Tranne le ovvie correzioni dei refusi di stampa, si riproduce qui inalterata l'introduzione a un paperback leopardiano non più in commercio: G. Leopardi, Opere, Roma, Casini, 1966, vol. I. Potrà valere in questa sede, si spera, come approccio preliminare all'esperienza poetica e intellettuale di Leopardi, esclusa ogni intenzione di sovrapporla all’antologia della critica come modello di lettura integrale.
Leopardi, oggi Centotrenta anni ci separano dagli estremi documenti della poesia leopardiana, i due canti, La ginestra o il fiore del deserto e Il tramonto
della luna, che il poeta compose in una villa alle falde del Vesuvio, vicino Torre del Greco, dove era andato ad abitare con l’amico Antonio Ranieri mentre a Napoli infuriava il colera. Tanta distanza di tempo sarebbe sufficiente per raggelare l’opera di qualsiasi altro poeta, sia pure collocandola nelle dimensioni della classicità. Con uno scrittore come Leopardi ci sentiamo invece condizionati da un rapporto di contemporaneità che, senza escludere il riconoscimento
della sua autorità di classico, scuote le
nostre quiete abitudini di lettori di poesia. In particolare uno di quei due canti, La ginestra, ci appare sempre più .come una sorta di testamento provvisorio, il cui patrimonio ideolo: gico e sentimentale lo stesso poeta, un anno prima della morte, non ebbe il tempo di precisare. Ciò non toglie che ai nostri giorni esso non abbia trovato i suoi interpreti e i suoi destinatari o, più semplicemente, una coincidenza di atteggiamenti umani e intellettuali che sradica comunque la poesia leopardiana dal chiuso ambito, in cui la si è pur voluta limitare, della sua commovente e privata infelicità e la fa balzare nel mezzo della nostra storia contemporanea. Indirettamente, per esempio, uno scrittore come Albert Camus, l’autore del Mito di Sisifo, dello Straniero,
della Peste, il fermo assertore di un esistenzialismo come tragica coscienza della desolata condizione umana, ci ha negli anni del dopoguerra riproposto come attuale l’eroica disperazione di Leopardi. Più direttamente, collegandosi al rifiuto leopardiano d’ogni facile consolazione, propagandato da progressisti e spiritualisti dell'Ottocento, e all’appello pet una fraterna solidarietà contro un comune doloroso destino, cui La girestra 5)
si richiama, storici, critici e filosofi, come Luigi Salvatorelli, Walter Binni e Cesare Luporini, sollecitati da motivazioni etiche, democratiche o marxiste, hanno rivendicato un Leopardi eroico o progressivo, aperto comunque al futuro, che spetta all’interprete ancora valorizzare. Certo ha sempre meno presa sulla nostra sensibilità l’immagine, accreditata da autorevoli lettori della poesia leopardiana e ancora fortemente resistente nelle scuole, di un Leopardi « idillico », il poeta che fa delle belle immagini uno strumento di consolazione della sua tragedia quotidiana. La sostanza di quella poesia, davvero unica, ci si rivela oggi, anche nelle sue prove più felicemente risolte, di specie drammatica: reca i segni evidenti di un conflitto tra natura e ragione che fu personale e storico, proprio cioè dell’età in cui Leopardi visse e che il De Sanctis chiamò « ferrea », ma che si proietta al di là del suo tempo e della sua persona e che può sempre dirsi esemplare per il suo rifiuto di ogni soluzione facile e mistificatoria. Parallelamente alla sua opera, anche le vicende del personaggio Leopardi, così povere di tratti esteriori e di quel colorito romantico che è proprio di tanti altri suoi contemporanei,
ci appaiono
più contrastate
o
almeno non esclusivamente imprigionate dentro quella « storia di un’anima » che il poeta stesso vagheggiò di scrivere sdoppiandosi in figure di romanzi rimasti allo stadio del progetto, ma che poi si volle mitizzare. La sua fu certo anche « una vita strozzata », come la chiamò Benedetto Croce;
non tanto però in ragione delle logoranti infermità del poeta, quanto piuttosto per gli effetti, che egli più duramente degli altri ebbe la capacità di avvertire, di un teso contrasto tra le speranze, e le costrizioni, della solitudine e gli impegni, e le delusioni, dell’esperienza. È questa sofferta tensione che dà all’umana vicenda di Giacomo Leopardi non il colorito patetico di una lacrimevole storia, ma l’eroico rilievo della consapevole infelicità. Solitudine ed esperienza
La vita di Giacomo Leopardi si svolse fino all’età di ventiquattro anni nel chiuso ambiente di quello che egli chiamò il « natio borgo selvaggio », la cittadina di Recanati, dove il poeta nacque il 29 giugno 1798. Qualche mese
prima della sua nascita Recanati era stata occupata, come
gli altri centri delle Marche, dalle truppe francesi che avevano sostituito alle amministrazioni pontificie delle repubbliche democratiche. Gli avve10
nimenti politici di quel travagliato periodo avevano esasperato l’ostentato atteggiamento reazionario del padre di Giacomo, il conte Monaldo, figura che si potrebbe dire pittoresca di sdegnoso avversario di ogni innovazione, tenacemente attaccato anche nelle forme esteriori (pet cui s’imponeva la foggia tradizionale dei nobili e la spada) agli usi prerivoluzionari. Alla rigidità politica del padre faceva da pendant la rigidità di carattere della madre, Adelaide dei marchesi Antici, donna severa e niente affatto espansiva, tutta intesa a sanare le economie familiari, delle quali Monaldo si mostrava
incurante, assorbito com’erta da una sua non spregevole atti-
vità di poligrafo e dalla passione dei libri con i quali arricchiva la vasta biblioteca del palazzo, che poi volle, in contraddizione con i suoi principi oscurantisti, aperta al pubblico. La biblioteca divenne presto il soggiorno preferito del precocissimo Giacomo, non insensibile ai giuochi d’infanzia, che anzi egli stesso organizzava per i minori fratelli Carlo e Paolina, ma sempre più infervorato dai successi che prontamente ricavava da uno studio « matto e disperatissimo », dal quale in sette anni uscì con un patrimonio di nozioni eccezionalmente estese e approfondite, ma guastato nel corpo, che gli restò deforme, e indebolito nella vista fino a rischiare la cecità. Nel 1812, a quattordici anni, aveva già compiuto gli studi sotto la guida di un precettore, il gesuita Sebastiano Sanchini, il quale fu allora licenziato « perché — scrisse il padre — non aveva più altro da insegnargli ». Intanto per proprio conto apprendeva il greco, l’ebraico, il francese, l’inglese e lo spagnolo, provandosi in esercitazioni poetiche ed erudite. Già nel 1809 aveva scritto quella che è forse la sua prima poesia, il sonetto La morte di Ettore; nel 1811 traduceva ed esponeva in ottava rima L'Arte poetica di Orazio; nel 1812 componeva due tragedie, La virtà indiana e Pompeo in Egitto, mostrandosi in quest’ultima, la sola rimasta, alfierianamente
ostile alla tirannia di Cesare. I suoi interessi oscillano in questo periodo tra erudizione settecentesca e cultura classica, con la tendenza, ancora in parte fanciullesca, di andare « in traccia dell’indagine più pellegrina e recondita », dalla quale nascono nel 1813 la Storia dell’astronomia, nel ’14 una serie di lavori di filologia greca, nel ’15 un più elaborato repertorio d’erudizione, non privo però di vana saccenteria, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Tutta questa produzione della puerizia e dell’adolescenza reca del resto il segno di una fervorosa assimilazione e quasi di un’emulazione dell’erudizione paterna; è congestionata e aneddotica e trova la sua sodLi
disfazione, aridamente accademica e provinciale, nell’esibizione della dottrina e nelle compiaciute confutazioni delle false opinioni del passato, secondo lo schema messo in voga dal più vacuo enciclopedismo settecentesco. Monaldo non si sognava certo di possedere l’acume filologico del prodigioso Giacomo, ma ne improntava la nascente ideologia, come di mostra l’Orazione agli Italiani scritta da Leopardi per la sconfitta del Murat e tutta ispirata all’idea reazionaria che era da preferire un’Italia divisa e occupata dallo straniero ma in pace, anziché un'Italia libera e unita ma nel disordine e nella guerra. I suoi puerilia recano tuttavia qualche traccia di quello che sarebbe stato il futuro Leopardi: accenti vagamente
malinconici,
atteggiamenti
eroici.
Ma, a partire dal 1816, l’orizzonte culturale del Leopardi comincia ad apparire più personalmente definito ed allargato. La cultura classica non provoca più soltanto la sua curiosità retorica e grammaticale, ma lo interessa nella dimensione dei suoi valori che l'addestramento filologico (continuato con un lavoro su M. Cornelio Frontone, finte traduzioni da) greco, come l’Inzo a Nettuno, e finti ritrovamenti: le due anacreontiche adespote) gli consente di precisare in concreto, anche nei suoi aspetti linguistici e di stile; la lettura dei moderni, dall’Alfieri.al Foscolo, dal Goethe a Madame de Staél lo fa uscire dal chiuso della sua educazione familiare e lo induce a fare i conti con le esigenze di una realtà culturale nuova che gli offre anche i modelli comparativi per comprendere e giudicare la situazione spirituale degli antichi e dei moderni che sempre più poi sentirà come sua dialettica, o conflitto, interiore. Le polemiche sul romanticismo, suscitate dall’articolo della Staél sull’utilità delle traduzioni, lo vedono ancora schierato, in una Lettera ai
compilatori della Biblioteca italiana del luglio 1816, tra i difensori della tradizione con argomenti che egli riprenderà nel 1818, ma in un contesto molto più ricco di motivazioni, che testimoniano un suo accoglimento di fatto di gran parte delle esigenze dei romantici: il Discorso di un Ita liano intorno alla poesia romantica. AI di là, però, di queste resistenze su posizioni attardate, il fatto nuovo di questi anni per Leopardi è costituito dalle relazioni che egli va stabilendo con editori e letterati dell’Italia settentrionale. Nello Spettatore italiano e straniero, periodico dell’editore Stella di Milano, appare nell’estate del ’16 la traduzione del primo libro dell’Odissea e l’anno dopo anche quelle del Moretuzz pseudovirgiliano e della Titanomachia di Esiodo, oltre a qualche scritto erudito e grammaticale. Contemporaneamente anche i contorni delle sue esercitazioni poe12
tiche, senza uscire dall'ambito del tirocinio arcadico ed accademico in vario stile (con l’abbozzo di un’altra tragedia, Maria Antonietta, la stesura di una cantica, Appressamento della morte, e dei Sonetti in persona
di ser Pecora fiorentino beccaio), acquistano un maggiore risalto compo-
sitivo. Ancora scarsamente personali sono i versi del Prizzo amore ispirati da Gertrude Cassi-Lazzari, la cugina venuta da Pesaro col marito a trovare i Leopardi, per la quale Giacomo concepì un’improvvisa passione di cui registrò tutti i moti, con lucida capacità d’analisi, in un Diario d’amore. Ma l’episodio più importante di questi anni è l’amicizia contratta, attraverso un carteggio iniziato nel marzo 1817 e divenuto via via più fitto, con Pietro Giordani. L’autorevole letterato piacentino ebbe il merito di comprendere prontamente la grandezza dell’ingegno del suo giovane amico che definì « smisurata, spaventevole » in una lettera del 1819 a Pietro Brighenti. « Non vi potete immaginare — aggiungeva — quanto egli è grande, e quanto sa a quest'ora: chi dice che 4 Recanati non si può saper tutto (scusatemi) non sa quel che si dica. Immaginatevi che Monti e Mai uniti insieme, siano il dito di un piede di quel colosso ». Le lettere di Giacomo e gli appunti dello Zibaldone, cominciato anche a scrivere nel ’17, denunciano con una concitazione e un ardore, che sono il segno di uno sfogo lungamente trattenuto, la maturazione di una crisi sentimentale e intellettuale che investe duramente il retrivo ambiente di Recanati incapace di ascoltarlo e di capirlo, quello soffocante della famiglia che gli impedisce qualsiasi autonoma iniziativa, la sua stessa educazione che gli ha fatto guadagnare lo scherno dei concittadini e familiari, presso i quali la sua cultura è giudicata saccenteria, la sua malinconia posa da filosofo e da « eremita ». In quelle lettere e nelle pagine dello Zibaldone è anche chiaramente disegnato l’urto con l’ideologia paterna. Il distacco dalla fede tradizionale, come del resto da ogni credenza religiosa, che non gli preme neppure di confutare ora che sta dolorosamente constatando dentro di.sé e in ciò che lo circonda la- vanità delle cose, la realtà del « solido nulla », è testimoniato fra l’altro dalla decisione di dismettere la veste di abatino che gli era stata fatta indossare dopoché, rivelatasi la sua deformità fisica, i genitori lo esortavano a darsi alla carriera ecclesiastica. In politica il suo passaggio alle idealità risorgimentali si configura per ora in una generica professione di fede patriottica, nel fastidio per l’avvilita condizione degli Italiani, in uno spasmodico desiderio di gloria e di azione: stato d’animo 13
fondamentalmente alfieriano, sincerissimo nella sostanza ma psicologicamente esacerbato e letterario nelle motivazioni, quale poteva generarsi in una calda fantasia giovanile mortificata nel piccolo centro pontificio di Recanati, dove gli avvenimenti risuonavano a troppa distanza e senza il fervore immediato ed anche la concretezza delle proposte e della partecipazione. Nascono in questo periodo (settembre e ottobre 1818) le due canzoni gemelle, All’Italia e Sopra il monumento
di Dante, stampate
a
Roma nel dicembre successivo. Sul principio del 1819 scrive altre due canzoni che non stamperà, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, nelle quali Leopardi stenta ad investire la materia cronachistica, prolissamente enunciata nei brutti titoli, con la sua accorata
riflessione sulla giovinezza e la bellezza tron-
cate dalla morte. Ma proprio in quell’anno si compie, come egli stesso poi precisò, la sua « mutazione totale » e «il passaggio dallo stato antico al moderno », cioè dall’immaginazione poetica e dalla speranza di una raggiungibile felicità alla coscienza della « infelicità certa del mondo », quando, « privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura », cominciò a sentire la sua condizione « in un modo assai più tenebroso » e « a divenir filosofo di professione (di poeta che era)». Probabilmente
però il punto di solidificazione di questa tragica coscienza va spostato a dopo il fallito tentativo di fuga da Recanati del luglio dello stesso anno. Leopardi non era mai uscito da Recanati, se non per una breve gita concessagli dal padre fino a Macerata in compagnia dell’amico Giordani, che era andato a trovarlo nel settembre del ’18. Ma il progetto di lasciare il paese fu scoperto. Monaldo fu informato che Giacomo aveva chiesto il passaporto per uscire dagli stati pontifici e lo costrinse a rinunziarvi. La lettera che in quell’occasione aveva preparato per spiegare al padre la sua decisione e che poi non fu recapitata è un toccante documento delle condizioni di vita del poeta, ma anche una ferma rivendicazione dei suoi diritti a un’esistenza adeguata alle sue esigenze giovanili e ai suoi meriti, e ciò nella piena e disperata coscienza della probabilità di un definitivo smacco: « Voglio piuttosto essere infelice — scrive— che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi ». Ma tra il ’19 e il ’22, svanita per il momento la possibilità d’evasione, egli è dominato proprio dalla noia, un sentimento che Leopardi poi definì « il più sublime dei sentimenti umani », « il maggior segno di gran14
dezza e di nobiltà, che si vegga nella natura umana », in quanto consiste nel « considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che ‘tutto è poco e piccino alla grandezza dell'animo proprio ». È la prima grande stagione della poesia leopardiana. Nel settembre del ’19 compone uno dei suoi capolavori, L’infinito, seguito da altri idilli, tutti del biennio 1819-21: Alla luna, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria, e l’abbozzo del Passero solitario. Contemporanea è la stesura delle sue maggiori canzoni, Ad Angelo Mai (1820), Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto
minore (1821), Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi (1822), intramezzata da altri abbozzi e disegni di opere diverse: una favola pastorale, Telesilla, una sorta di romanzo autobiografico, il primo disegno di « certe prosette satiriche », insieme a una gran massa di altri appunti e pensieri raccolti nei fitti quaderni dello Zibaldone. In questo periodo assumono anche una certa consistenza i suoi progetti di lasciare Recanati e di procacciarsi un lavoro. Nel novembre 1822, dopo che l’anno prima aveva viste deluse le sue speranze di essere chiamato alla cattedra di letteratura latina nella Biblioteca Vaticana, parte per Roma, ospite dello zio materno Carlo Antici e fiducioso di poter ottenere almeno un impiego statale, se non d’essere utilizzato per qualche attività culturale. Ma anche queste speranze si riveleranno vane, poiché, fra l’altro, le diffidenti gerarchie ecclesiastiche lo giudicano ormai compromesso con gli ambienti carbonari come autore di canzoni patriottiche. Roma intanto lo delude: « le mura e gli archi e le colonne e i simulacri », che aveva accoratamente evocato nella canzone All’Italia, non lo commuovono. Le stesse piazze, le chiese, i monumenti insomma dell’urbe antica e pontificia gli ‘sembrano inutilmente sproporzionati alle dimensioni degli abitanti: spazi immensi che sembrano costruiti per giganti, ma sono frequentati da uomini troppo piccoli. Le donne, sulle quali il tratello Carlo vuole notizie da Giacomo, gli sembrano tutte indifferenti e noncuranti; gli spettacoli non molto superiori a quei pochi cui ha assistito a Recanati; e, quanto ai letterati, quelli che ha conosciuto, scrive a Monaldo, gli « hanno tolto la voglia di conoscerne altri ». « Secondo loro — ‘aggiunge — il sommo della sapienza umana, anzi la sola vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un let‘terato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma ». Solo la visita al sepolcro
15
del Tasso, nel convento di S. Onofrio al Gianicolo, lo commuove. « Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma », — scrive al fratello in una lettera in cui esprime anche la sua simpatia per la Roma popolare, « delle donne e degli operai occupati al lavoro », che scopre lungo la strada che conduce a quel luogo: « in una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione ». A Roma comunque, dove intanto prosegue i suoi studi, conosce il grande storico Niebuhr, ambasciatore prussiano presso la Curia, e il filologo Mai, bibliotecario della Vaticana, che già gli aveva ispirata la canzone per il ritrovamento dei libri del De republica di Cicerone. Nel maggio 1823 fa ritorno a Recanati, dove nel settembre compone Alla sua donna, l’ultima delle canzoni, stampate tutte insieme nell’agosto dell’anno successivo a Bologna. Il 1824 è tutto occupato dalla stesura delle Operette morali, interrotta soltanto o, secondo altri preceduta, da un incompiuto e acre Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, e seguita da una serie di traduzioni di moralisti greci (Isocrate, Epitteto, Teofrasto). Intanto è invitato dall’editore Antonio Fortunato Stella a recarsi a Milano per programmare e dirigere un’edizione di tutte le opere di Cicerone. « Tanta — scrive in quel periodo all’amico Brighenti — è la mia noia del soggiorno in questa città sciocca, morta, microscopica e nulla, ch'io rinunzierei volentierissimo ai comodi corporali che ho qui, per gittarmi a vivere alla ventura in una città grande, cercando di vivere colla penna ». Ma sa di non poter contare neppure su un temporaneo aiuto del padre, e perciò s’assicura il mantenimento da parte dello Stella. A Milano giunge alla fine di luglio 1825, ma vi si trattiene poco, fino al settembre successivo. Soddisfatte le prime esigenze editoriali, è impaziente di lasciare la città che gli sembra « uno specizzen di Parigi » con la sua apparenza di grande centro, dentro il quale non riesce ad inserirsi e fa vita da « letterato solitario », per stabilirsi a Bologna, dove invece, già facendo tappa per Milano, ha avuto buone accoglienze in un ambiente preparato dal Giordani e dal Brighenti e dove debolmente spera 16
in un impiego. A Bologna si mantiene con un modesto stipendio dello Stella in acconto sui « lavori fatti e da farsi » (un commento alle Rizze di Petrarca e le due Crestomzazie italiane della prosa e della poesia, apparsi rispettivamente nel 1826, ’27 e ’28) e‘con qualche altra entrata che ricava
da lezioni di greco e latino. Queste, fatte da mezzogiorno alle tre del pomeriggio, gli « sventrano la giornata » e lo « annoiano orribilmente », ma per il resto non ha da lagnarsi. I letterati bolognesi dapprima lo guardano con un certo sospetto, supponendolo superbo, poi lo trovano affabile e ne sollecitano la pratica. A uno di questi, il conte Carlo Pepoli, Leopardi indirizza nel marzo 1826 un’epistola in versi, sui temi del suo pessimismo già enunciati nelle Operette, che recita egli stesso il lunedì dopo Pasqua nell'Accademia dei Felsinei, interrompendo, fors’anche in omaggio alle convenzioni accademiche delle letture in versi, il silenzio poetico che manterrà fino alla primavera del ’28. In questo periodo frequenta una colta gentildonna, Teresa Carniani Malvezzi, della quale Leopardi subisce il fascino, ma che poi giudicherà aspramente, ed è in affettuosa amicizia con altre donne letterate, Antonietta e Adelaide Tommasini. In com. plesso il soggiorno a Bologna gli è gradito, tranne che per il clima di cui soffre la rigidità. Per questo l’inverno 1826-27 preferisce trascorrerio a Recanati, ma per tornare a Bologna nell’aprile successivo. Frattanto alla fine dell’anno precedente aveva raccolto e pubblicato i suoi Versi e nel giugno del ’27 presso lo Stella le Operette morali, che in quell’anno arricchisce di due altri dialoghi, il Dialogo di Plotino e di Porfirio e Il Copernico, composti a Firenze. A Firenze Leopardi era giunto alla fine di giugno. Giordani che vi si era stabilito da qualche anno ne prepara l’accoglienza che sarà caldissima presso gli intellettuali riuniti nel gabinetto fondato da Gian Pietro Vieusseux. Qui conosce Manzoni, che gli suscita, come testimoniano le lettere di questi anni, simpatia e stima come persona e un apprezzamento, sia pure non entusiastico, come narratore. Ma a Firenze la sua salute non è salda: la malattia degli occhi gli impedisce di lavorare come vorrebbe e perfino di leggere, la preoccupazione di dover soffrire la rigidità del clima, di cui si mostra sempre più intollerante, lo spinge a cercare nuovi « quartieri d’inverno ». Decide perciò di trasferirsi a Pisa dove si stabilisce per quasi un anno, dal novembre 1827 all’estate del ’28. Pisa è l’unica città che gli piaccia a pieno. L’aria che vi si respira è di primavera; il lungarno «è uno spettacolo così ridente che innamora »; anche la lingua è bella; le botteghe, i caffé, i palazzi sono tutti di grade19,
vole architettura: «Nel resto poi — scrive alla sorella —, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai veduto altrettanto ». A ciò aggiunge la sua buona salute e un buon alloggio con « una camera a ponente, che guarda sopra un grand’orto, con una grande apertura, tanto che s’arriva a veder l’orizzonte, cosa di cui bisogna dimenticarsi in Firenze ». In quest’'ambiente e con questo stato d’animo Leopardi riprende nella primavera del ’28 a scrivere versi, « ma versi veramente all’antica — come scrive ancora alla sorella —, e con quel suo cuore d’una volta ». Compone in aprile, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, Il risorgimento, inaugurazione in ritmi arcadici della sua stagione poetica più felice, e un capolavoro, A Silvia. In questo periodo gli è offerta una cattedra di letteratura italiana nell’università di Bonn; ma egli, che non sa adattarsi nemmeno al clima delle città italiane, deve rinunciarvi. In giugno lascia Pisa e va a trascorrere l’estate a Firenze. Qui conosce Vincenzo Gioberti, uno dei primi e più intelligenti lettori della lirica leopardiana, che accompagna il poeta a Recanati alla fine di novembre. Presso i suoi il Leopardi resta per tutto il 1829 e fino all’aprile del ’30. A Recanati compone, pur tra l’aggravarsi delle infermità, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (agosto-settembre 1829) e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (ottobre ’29aprile 30). Nel febbraio del ’30 l'Accademia della Crusca vota l’assegnazione di un premio letterario preferendo alle Operette, che ricevono solo il suffragio di Gino Capponi, la Storia d’Italia di Carlo Botta. Ma gli amici fiorentini si adoperano per assicurare al poeta un minimo di sussidio perché si possa mantenere un anno a Firenze, e Pietro Colletta scrive al Leopardi in questo senso curandosi di non offendere la sua sensibilità col nascondere la provenienza del sussidio che il poeta avrebbe poi potuto rimborsare con i proventi di qualche suo lavoro. Leopardi accetta, e in
maggio giunge a Firenze. Le sue condizioni di salute sono tutt'altro che buone, tuttavia i suoi progetti per qualche attività redditizia (l’unica che gli era stata proposta, peraltro con scarso stipendio, era una cattedra di storia naturale a Parma!) e i suoi contatti s’intensificano. Nonostante
la
sua ripetuta professione di apoliticità (perché « gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatto gl’uomini all’infelicità ») e la sua derisione dell’ideologia abbracciata dai suoi amici « della felicità delle masse » (perché il suo « piccolo cervello non concepisce una 7assa felice, composta d’individui non felici »), sembra pro18
vata la sua frequentazione delle riunioni liberali fiorentine che gli guadagna la schedatura presso la polizia granducale. « Agli amici suoi di Toscana » dedica intanto nell’aprile 1831 la prima edizione fiorentina dei Canti con parole che esprimono, insieme all’intensità di un affettuoso rapporto, l’inesorabilità di un commiato: «Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d’ogni diletto e di ugni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quanto io votrei ». Ma l’amicizia che lo stringe sempre di più è quella rinnovata e rinforzata in questi anni, dopo la conoscenza fatta durante il suo primo soggiorno fiorentino, con l’avvocato napoletano Antonio Ranieri, un giovane liberale dal temperamento espansivo, col quale Leopardi può, in un legame sempre più stretto di fervida e disinteressata convivenza, sfogare in parte la carica affettiva che la sua stessa precarietà fisica .non era riuscita a consumare. Proprio in quegli anni Leopardi s’innamora di una signora fiorentina, Fanny Targioni Tozzetti. Il suo amore questa volta non è solitario vagheggiamento, semplice infatuazione o evento ideale, ma piena realtà sentimentale con una sua tesa parabola di speranza e di delusioni: la passione, dominandolo, gli dà dapprima « gran diletto » e « gran delirio », poi, con i primi disinganni, un languore amoroso che è « desiderio di morir », infine, consumato « l’inganno estremo » che aveva creduto eterno, una sorta di quiete disperata che, spegnendo i palpiti di quest’estrema illusione, scopre per l’ultima volta « l’infinita vanità del tutto ». A questa esperienza sono legati i canti detti di Aspasia dal titolo dell’ultimo componimento ispirato a Fanny e scritti con molta probabilità tra il settembre 1831 e la primavera 1834: I/ pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia.
Come è vissuta e realmente sofferta l’esperienza sentimentale del Leopardi di questo periodo, altrettanto è concretamente determinata l’esperienza dello scrittore. L’ultimo Leopardi è un intellettuale più partecipe, polemico e, se si vuole, contraddittorio. Da una parte deve respingere il sospetto che egli sia l’autore di uno « scelleratissimo libro » di Monaldo, i Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831 (precisazione che fa con una lettera pubblicata nell’Artologia del Vieusseux del marzo 1832), o comunque di condividere lo spirito oscurantista di quei « sozzi, fanatici do
dialogacci », come egli in una lettera a Giuseppe Melchiorri li chiama. Dall’altra deve reagire all’assurda pretesa di attribuire ai suoi scritti « una tendenza religiosa » o a quella, più diffusa, di considerarli la conseguenza dei suoi mali: « Quali che siano i miei mali — scrive all’erudito tedesco Luigi De Sinner, col quale aveva stretto in Firenze una calda amicizia — io ho abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre quelli che io ho espressi in Bruto minore. È stato per conseguenza di que-
sto stesso coraggio, ch’essendo condotto dalle mie indagini a una filosofia disperante, non ho esitato ad abbracciarla tutt’intera; così come, dall’altra parte, non è stato che per effetto della viltà degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del pregio dell’esistenza, che si son volute considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze particolari, e ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che non si deve che al mio intendimento. Prima di morire, voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità, e pregare i miei lettori di sforzarsi di distruggere le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei mali». C’è in questa lettera (qui tradotta dalla sua redazione in francese) la stessa tensione polemica e la stessa lucida osservazione di sé che ispira il coevo Dialogo di Tristano e di un amico (maggio 1832), l’ultima delle sue operette, preceduta dall’altro breve Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un
passeggero. Frattanto il sodalizio tra Giacomo e il Ranieri si rafforza. Dal settembre 1831 al marzo 1832 i due sono insieme a Roma; quindi tornane a Firenze, donde Ranieri si allontana fino alla primavera 1833, quando rientra da Napoli. Qui decidono di trasferirsi, mettendosi reciprocamente a disposizione le loro sostanze (Leopardi ha finalmente ottenuto dalla famiglia un assegno mensile), nel settembre di quell’anno. Poco dopo, il 5 ottobre, Giacomo può scrivere al padre: « La mia salute non è gran cosa. Pure la dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole degli abitanti mi riescono assai piacevoli ». Ma ancora in aprile il giovamento del clima gli pare « appena sensibile », anche dopo che è passato in un appartamento di Capodimonte, «a godere la migliore aria di Napoli abitando in un’altura a vista di tutto il golfo di. Portici e del Vesuvio, del
quale contempla ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente ». Le condizioni del malato, a stare alle testimonianze di Augusto ‘von 20
Platen che lo visita nella primavera del ’34 e ai troppo minuti ragguagli che il Ranieri volle impietosamente rendere pubblici a più di quarant'anni dalla morte del poeta guastando la memoria di un così fervido sodalizio, erano aggravate da un modo disordinato di vivere che faceva « del giorno notte e viceversa », oltre che da una capricciosa incostanza nelle cure e financo da una fanciullesca golosità di sorbetti e dolciumi. Non tanto, tuttavia, da non poter frequentare talora gli spettacoli in un palco del Teatro del Fondo dove il Ranieri lo ricorda « appoggiato del gomito destro sul parapetto, farsi il solecchio pe’ lumi che lo ferivano » e godersi il Socrate immaginario di Galiani e Paisiello, o da non potersi trattenere amabilmente cordiale in conversazione con letterati, come lo stesso Platen o il purista Puoti, alla cui celebre scuola si reca in visita nel 1836 suscitando l’eccitazione degli alunnni e in particolare nel giovanetto De Sanctis il germe di una crisi, che fu poi salutare per il grande critico, delle sue convinzioni linguistiche e grammaticali. Comunque in questi estremi anni napoletani Leopardi non smette di scrivere. Continua ad elaborare i suoi Persieri (apparsi postumi, in numero di centoundici, nel 1845 a cura del Ranieri) che aveva cominciato a raccogliere dopo aver interrotto gli appunti dello Zibaldone (dicembre 1832): a distanza riprende la polemica contro le illusioni politiche dei suoi amici toscani con i Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi (1835), dove ancora una volta ironicamente confuta le obiezioni al suo pessimismo; indirizza ai suoi oppositori
napoletani il‘capitoletto satirico dei Nuovi credenti; progetta nella corri. spondenza col Sinner finanche un viaggio a Parigi in compagnia del Ranieri e possibilità di collaborazione a riviste francesi. Nel ’35 s’accorda con l’editore napoletano Saverio Starita per la pubblicazione di tutte le sue opere in sei volumi. Nello stesso anno escono i Canti, comprendenti anche due altre canzoni scritte in quegli anni, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna scolpita nel monumento sepolcrale della medesima; nel ’36 il volume delle Operette morali, sequestrate in seguito anche queste, come i Canti, dalla polizia borbonica. Nella
primavera dello stesso anno scrive Il tramonto della luna e La ginestra. Compone questi due ultimi canti nella villa di un parente del Ranieri vicino Torre del Greco, dove era stato portato a villeggiare per consiglio dei medici e donde rientra a Napoli nell’inverno successivo. Intanto le sue sofferenze sono al limite. Scrive al padre il 27 maggio 1837: «I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati 21
con l’età a un grado tale che non possono più crescere: spero che supe rata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo ». Non resisterà neppure un mese: muore assistito dal Ranieri il 14 giugno
1837.
Le risposte: della ragione
La vita di Leopardi, se seguita da presso, non ci appare come la storia senza reale svolgimento della sua anima, ma come una vicenda inquieta, contrastata, di un uomo tutt’altro che contemplativo, mai chiuso in un disprezzo del mondo, anche se costretto in aspra e orrida solitudine, sempre pronto anzi a misurare la sua esperienza con quella degli altri in un confronto umano ed anche civile. Allo stesso modo un’interpretazione del suo pensiero come distaccata enunciazione di un’arida dottrina del nulla, proiezione della sua personale ‘impossibilità di vivere non ci può accontentare. I concetti di Leopardi sono piuttosto gli « invidiosi veri » dell’eretico, che i desolati sofismi del negatore: hanno ancora una carica provocatoria che non ci lascia indifferenti, che li fanno parte del nostro sentire. Nessuna definizione caratterizza meglio la fisionomia di Leopardi come pensatore che quella acutamente datagli dal Luporini di « grande moralista ». È una definizione che lo affianca a quella categoria di scrittori, rara nella letteratura italiana, ma non in quella europea, cui appartengono Erasmo e Montaigne, Pascal, Kirkegaard, Nietzsche e, si potrebbe aggiungere, il nostro Guicciardini: filosofi non sistematici, ma « elaboratori di immediate esperienze umane, specifiche di un’epoca, di una classe, o di una rilevante personalità, anche se presentate sub specie aeternitatis, il cui pensiero è caratteristicamente
contrassegnato
da un’accentuazione
ot-
timistica o pessimistica della visione del mondo e delle cose, che, come tale, esula dalla pura indagine scientifica ». Certo, sottolineare la portata di questo pensiero come dato acquisito della spiritualità’ moderna significa anche respingere la tentazione di dilatarlo nelle dimensioni di un’etica formatrice o di rimpicciolirlo nell’ambito polemico di un’ideologia di contestazione, spiegabile alla luce della « delusione storica » sopravvenuta con le crisi delle speranze rivoluzionarie nei primi decenni dell'Ottocento, e operante solo nel suo tempo, come smentita delle nuove illusioni borghesi-risorgimentali. La filosofia leopardiana 4a
(se pure è lecito adattare sbrigativamente questo sostantivo all’esperienza
intellettuale di Leopardi) eredita da più settori dell’illuminismo settecentesco (da Rousseau per la problematica di natura e ragione, dai sensisti e dai materialisti per la speculazione sulle particolari categorie psicologiche e morali dell’utile, del piacere, dell’assuefazione, dell’amor proprio) e mu: tua dagli ideologi della Restaurazione, specie da M.me de Staél, temi non occasionali di analisi della società, delle civiltà e delle nazioni, dei loro comportamenti e delle loro forme politiche, delle lingue e delle letterature (con la conseguente discussione sul romanticismo) e soprattutto il tema che gli stava particolarmente a cuore della contrapposizione tra antichi e moderni. ste Ma queste ascendenze e questi incontri non determinano tale filosofia all’origine. La sua maturazione è prima di tutto di natura sentimentale; i dati culturali l’arricchiscono e storicamente la circoscrivono, ma solo quelli dell’esperienza la determinano e la inverano. Nasce intanto da un
disagio esistenziale, al momento in cui l’individuo percepisce la certezza ineluttabile della perduta felicità. E poiché tale crisi che è crisi della nostra presenza come esseri destinati a godere, coincide con lo sviluppo della ragione, è questa la responsabile della nostra infelicità. Così, nell’età dell’uomo, felice è lo stato del fanciullo, infelice quello dell’adulto; la sua coscienza non .può essere che dolorosa. Parallelamente, nella storia delle civiltà sono le più progredite che guastano le perfette condizioni della natura, poiché il loro accrescimento di vita spirituale non può essere che accrescimento d’infelicità. Trasferita alla storia della poesia, questa vicenda dell’uomo trova la sua corrispondenza nella distinzione tra poesia d’immaginazione e poesia di sentimento; la prima è propria dei classici ed è caratterizzata da una piena aderenza alla vita che l’immaginazione o fantasia esalta; la seconda, prodotto di età filosofiche, è propria dei moderni, i quali però non possono essere soddisfatti dalla ragione, cui hanno sacrificato la felicità della natura, e perciò ora la esasperano dolorosamente come sentimento, che è il momento della ragione esacerbata, non la sua contrapposizione. Tuttavia questa prima risposta a quello che s’è chiamato il disagio esistenziale di Leopardi è chiaramente mitica. La dialettica natura-ragione che fa da centro a questa provvisoria sistemazione delle idee leopardiane è inficiata da una remora psicologica, dalla resistenza che ancora il poeta oppone al convincimento, d’altronde inevitabile, che l’infelicità è per l’uomo un dato non solo storico, ma originario e perpetuo. In questa 23
prima fase del suo pensiero natura e ragione sono ancora entità divinizzate e contrapposte come dispensatrici rispettivamente di bene e di male; e Leopardi avverte l’incongruenza con le sue premesse antimetafisiche di una eccessiva attribuzione di responsabilità a una sola, seppure la più distinta, delle facoltà umane. Le attenua perciò, sviluppando suggerimenti desunti dalle critiche, proprie del pensiero della Restaurazione, alla corruzione dell’uomo, che deviano la condanna della ragione in sé al suo eccesso, da Leopardi considerato funesto. La soluzione di questo nesso di problemi appare però più radicalmente attuata nei confronti del concetto di natura che Leopardi ribalta sostituendo all’ottimismo roussoiano la considerazione materialistica della na: tura indifferente, anzi « per necessità della legge di distruzione e di riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce, e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti ». Questo concetto pessimistico della natura resta inalterato fin nelle ultime enunciazioni’ del pensiero leopardiano e si traduce nel quadro grandiosamente desolato e rovinoso della Ginestra. Ma l’altro contrapposto concetto di ragione subisce ulteriori ridimensionamenti. La polemica condotta negli estremi anni napoletani con gli spiritua listi, col « secol superbo e sciocco » che, nell’esaltazione dello stato umano e della benignità della natura, ha « volti addietro i passi » dalla strada segnata fino allora dal « risorto pensier », cioè dal razionalismo settecentesco, lo induce ad una ferma riabilitazione della ragione: essa è sicuro strumento di conoscenza della condizione precaria degli individui, innocentemente succubi della potenza distruttrice della natura, e garanzia d’ogni virile e magnanima accettazione del « comun fato ». Non si tratta di un’estrema e improvvisata riabilitazione o di un espediente polemico. Al punto estremo della parabola percorsa, tra le asprezze e gli urti di una difficile esperienza umana, dal suo pensiero, Leopardi ritrovava i termini di quella aspra dialettica ancora irrigiditi nel loro contrasto, ma capovolti: di fronte alle mistificazioni dello spiritualismo la ragioneha ripreso la sua funzione positiva di garante della dignità individuale, ed essa sola può ispirare un sentimento che non sia la sciocca lusinga del « forsennato orgoglio » degli uomini o della loro viltà, ma la partecipe, benché dolorosa, consapevolezza di una necessaria solidarietà.
24
I « capricci » leopardiani
Il pensiero di Leopardi si può cogliere nel vivo della sua elaborazione nelle fitte pagine dello Zibaldone. Ma anche quelle decennali annotazioni, che registrano spesso spunti della riflessione più peregrina, ma che si ESITO al ’32, non soddisfano appieno l’esigenza di una esauriente conoscenza del mondo intellettuale leopardiano, la quale si deve giovare di tutta la maggiore produzione dello scrittore, anche, anzi soprattutto, dei Canti. Le note dello Zibaldone si avvantaggiano comunque, per la ricostruzione del pensiero leopardiano, di una immediatezza e spontaneità che non si avverte per esempio nei Pensieri, dove l’intensità della riflessione sembra talora irrigidita da una pretesa di epigrafica saggezza che non può tradurre la tensione morale del pensatore, e a volte lo sforzo di più particolareggiate argomentazioni lascia scoperto il cavillo, quando non proprio il sofisma. Resta a lettura compiuta dei Pensieri il sospetto che essi conservino un residuo irrisolto di sofferta autobiografia, di quell’amaro desiderio di vendicarsi del mondo, di cui Leopardi scrive già nel °20 al Giordani, progettando la stesura di alcune « prosette satiriche », e che ad apertura dei Pensieri emerge senza schermi ironici, dolente, nella disarmata constatazione che gli uomini sono succubi di una « lega di birbanti ». È un sospetto che tocca anche le Operette morali, solo limitatamente, però, alla querula sentenziosità di tanta parte del Parizi o della gloria, che risente dell’oratoria panegiristica del Giordani,-o di qualche pagina dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, che pur hanno l’intonazione fascinosa dei paradossi antichi. Era forse inevitabile che Leopardi, proponendosi di dare un’immagine di sé compiuta e distaccata come pensatore, dovesse irrigidire quel vibrante amalgama di riflessione e confessione, proprio di tanta parte dello Zibaldone e delle Lettere, in una maschera di perentorietà e di derisione, che è l’aspetto più gelido e quasi irritante della sua prosa e della sua poesia satirica. Si direbbe un Leopardi diverso da quello che nello Zibaldone sembra lamentare la mancanza di contatto con il pubblico constatando come « ciascuno oggi scriva solo per i propri amici »: egli stesso, infatti, al momento di presentare al pubblico la sua filosofia, non è disposto a pagare il prezzo di questa comunicazione con uno sforzo di persuasione (che è anche ricerca del vero) e con la rinunzia all’impassibilità. D’altra parte, è proprio questa impassibilità la condizione psicologica e mentale da cui nasce l’invenzione di quelle prose aeree e rarefatte che Z5
sono le Operette. Le progettate « prosette satiriche », pensate alla maniera dei dialoghi di Luciano, ma risciacquate con l’acido corrosivo dei romanzi di Voltaire, si svolgono al momento della composizione in personalissime allegorie cui la filosofia fornisce di volta in volta un tema che il prosatore sviluppa assecondando l’estro di un’ispirazione riflessa, « alla maniera di », o delle proprie variazioni, come in certi capricci musicali o pittorici. Un esame più approfondito dello stile e delle strutture delle Operette accentuerebbe probabilmente il carattere « fantastico » della loro ispirazione e le ascriverebbe più decisamente a quel settore « bizzarro » della nostra letteraturain cui soggiorna tanta produzione dialogistica dal Rinascimento all’Illuminismo. Siamo lontani ovviamente dall’eccentricità immediatamente profanatrice dell’Aretino o dalla caustica aggressività dei dialoghi bruriani, ma
meno
lontani dalla estrosità
farraginosa
dei Marmi
di Doni,
ancor meno da quella pensosa e polemica di Gelli e Boccalini e dalla struttura lucianea dei dialoghi di Gasparo Gozzi. Gli scherzi del Gozzi però si trascinano dietro con il loro angusto buon senso piccoli brandelli della società settecentesca; il bizzarro dei « capricci » leopardiani è invece una sorta di creazione ir vitro, provoca un riso stridulo e breve in un paesaggio che non ha altre determinazioni spaziali e sociali, se non quella di essere abitato da una specie che si chiama uomo. Il prologo di questa triste commedia leopardiana è appunto una storia di questa specie, la Storia del genere umano, favola della scontentezza degli individui che gli accorgimenti e le premure paterne di Giove non riescono a distogliere dal loro innato « amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo », mentre i suoi tempi interni sono riempiti da una tematica non organicamente svolta, che tocca varie corde del pessimismo di Leopardi. Il Dialogo d’Ercole e d’Atlante, il Dialogo della Moda e della Morte e la Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi sono scherzi ispirati a quello che è stato chiamato il suo « pessimismo storico »: il primo allegorizza, con l’invenzione della terra divenuta una palla ammaccata e sgonfia che non si risente neppure quando cade di mano ad uno dei due mitici giocatori, la condizione presente del mondo, dove ormai la vita è spenta; il secondo ipotizza la conclusione del contrasto tra moda e morte dal momento che le mode sono già tali da indicare il presente secolo come il « secolo della morte »; la terza propone un premio per l’invenzione di automi virtuosi in mancanza di uomini o donne che abbiano qualche virtù. Spostati sul versante « cosmico » del pessimismo leopardiano sono 26
invece una serie più fitta di dialoghi, dei quali si può indicare brevemente il tema centrale: l’umanità può scomparire, la natura non se ne avvede (Dialogo di un folletto e di uno gnomo); l’infelicità non può mai cessare, perché l’uomo, amandosi troppo, s’ostina invano di cercare la felicità (Dialogo di Malambruno e di Farfarello); l’infelicità regna dovunque, anche sulla luna (Dialogo della Terra e della Luna); la natura nel suo « perpetuo circuito di produzione e di distruzione » è indifferente alle sventure umane (Dialogo della Natura e di un Islandese), la molteplicità dei mondi accentua la consapevolezza della nullità del nostro (Il Copernico); solo la vita che non si conosce è bella (Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere). Altre operette svolgono temi più particolari, relativi per esempio alla fenomenologia della coscienza infelice e alla dottrina delle sensazioni. Il Dialogo della Natura e di un’Anima constata che l’infelicità è maggiore nelle anime grandi; il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
che prolungare la vita significherebbe prolungare i mali, mentre, potendo accrescerla, bisognerebbe accrescere le forze e le sensazioni; il Diglogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare che la vita è un sogno, la noia una passione, come il dolore, in quanto « desiderio puro della felicità », la solitudine un male sopportabile con l’assuefazione; il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez che solo il rischio può fare amare la vita; il Cantico del gallo silvestre, infine, paragona il risveglio, il momento « più comportabile » del giorno, alla giovinezza, lamentandone però la brevità. Ancora più occasionali e circoscritti gli spunti di riflessione che ani mano La scommessa di Prometeo (scommessa perduta dal momento che Prometeo non riesce a dimostrare la perfezione della sua creazione, rivelandosi l’uomo il più imperfetto e malvagio degli esseri viventi), il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue Mummie (vana interrogazione sulla sensibilità nel trapasso dalla vita alla morte), l’Elogio degli uccelli (supposizione di una loro favolosa letizia), il Frammento apocrifo di Stratone Lampsaco (ipotesi materialistica' della fine del mondo).
di
A parte vanno collocate nello schema di questa ripartizione i dialoghi di Plotino e di-Porfirio, di Timandro e Eleandro e l’ultimo di Tristano e di un amico. Il primo, perché anticipa il Leopardi fraterno e solidale della Ginestra (uccidersi è ragionevole, irragionevole è vivere, e tuttavia, dice Plotino, « viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della nostra
specie, Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci
Li;
incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compier nel miglior modo questa fatica della vita »); gli altri due perché lo scrittore, rinunciando a quell’impassibilità che è quasi programmatica per tutte le Operette, scende in polemica con i suoi critici e detrattori a difendere le ragioni del suo pessimismo con l’impegno che è tipico degli anni fiorentini. Eleandro ricorda verità « dure e triste, o per isfogo dell’anima o per consolarsene col riso »; Tristano rifiuta di far contrizione davanti all’affermarsi dell’utilitarismo delle scienze statistiche economiche politiche morali o alla mezza cultura delle « enciclopedie portatili », dei manuali, delle gazzette, e deride l’idea di una sostituzione delle masse agli individui. Quanto a lui, lascia agli altri l’illusione di poter essere felici: suo unico desiderio è la morte. È un dialogo questo che tradisce la necessità di una confessione immediata. L’immagine di Filippo Ottonieri, il solitario sapiente della città di Nubiana, nella provincia di Valdivento, distaccato raccoglitore delle proprie sentenze, è lontana: Tristano non è un travestimento, è Leopardi. — Una lettura cursoria delle Operette, fatta per aggredirne immediatamente la sostanza intellettuale e sentimentale, non è consigliabile. Questi frammenti, che sembrano tolti da una sorgente remota di saggezza, hanno un loro personalissimo involucro stilistico che necessita di un acclimatamento. È una prosa d’impasto artificiale, ma non libresca (come perlopiù la si è definita dal De Sanctis in poi), che nel suo primo. accostamento può far scambiare per sentore di chiuso e stantio la sua inodore rarefazione. L’inventario delia lingua delle Operette, come è stato fatto recentemente da Emilio Bigi per significativi campioni, ha limitato la presenza degli arcaismi, dei preziosismi, del lessico decorativo, caro ai fanatici della prosa puristica (come il Cesari e il Puoti), e delle forme sintattiche improntate agli schemi stilistici della retorica accademica e celebrativa, come quella dei panegirici del Giordani. Ha rilevato invece la frequenza abbastanza assidua del linguaggio familiare e popolaresco, di forme irregolari e sprezzature, di un gusto insomma fantasioso e scherzoso, estraneo però alle compiaciute determinazioni, ai vezzi del realismo minore, che risulterebbero troppo dissonanti in un simile contesto. Ciò non esclude la letterarietà della prosa di Leopardi, anzi la ribadisce, ma ridimensionandola nell’ambito
della
tradizione
bizzarra
e «comica » (in senso
retorico)
e
estraniandola da quello del paludato classicismo. Va petò precisato che la suggestione che esercitano queste prose leopardiane è di ordine diverso da quella provocata dal gustoso manierismo 28
delle scritture bizzarre: s’affida piuttosto che allo scatto nervoso e al ghiribizzo, al ritmo del discorso e alle sue risonanze. È di natura musicale;
ma di una musica che è preludio al silenzio: come quella solennemente scandita dal bellissimo coro del Ruysch, quando la vita « cosa arcana e stupenda » per i morti, come per i vivi la morte, non è più che un vestigio, o come l’altra recitata nel canto del gallo silvestre, prima della fine di tutte le cose, quando « un silenzio nudo e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso ». Bisogna allora concludere col giudizio che delle Operette diedero gli scrittori della Ronda ascrivendosele alla loro disimpegnata poetica della prosa d’arte? Tutt'altro. Le rassicurazioni che Leopardi stesso dava alle preoccupazioni del bigotto Monaldo giurando di aver voluto fare « poesia în prosa, come s’usa oggi; e però seguire ora una mitologia ed ora un’altra,
ad arbitrio, come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. », hanno un uso interno e familiare. La posizione di quel libro come testo letterario e di pensiero, come opera « pericolosa », è pubblicamente chiarita nell’ultimo dialogo, laddove Tristano invita l’amico a bruciarlo. « Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore ». Il suo carattere è qui, in questa oscillazione, tra capriccio e malinconia (riflessa anche nel titolo, scherzoso nel sostantivo, serio nell’aggettivo): insomma, nel suo riso dolente.
Paradosso della poesia Quell’impressione di unilateralità, talvolta persino di angustia che resiste anche davanti alle pagine più intense delle Operette si scioglie interamente a contatto dei Canti, il libro maggiore di Leopardi e il più grande della moderna lirica italiana. Il paradosso della poesia leopardiana consiste in questo, che quanto più l’arco di quel mondo intellettuale si restringe nel reticolo dei versi, nella stretta geografia delle immagini poetiche, tanto viù quel discorso si fa persuasivo e penetrante, perde anche i suoi confini individuali. Oggettivamente questo paradosso si spiega in rapporto alla partico. lare natura del pensiero leopardiano, originato non da presupposti concettuali, ma da una dinamica emozionale che tende spontaneamente a condensarsi in poesia. La filosofia di Leopardi, traducendosi in quello che dovrebbe essere il linguaggio naturale di ogni filosofo, la prosa, sembra 29
fare uno sforzo d’adattamento, e le parole conservano una spoglia alle-. sorica che è il residuo di quell’emozione o di quel sentimento originari deviati (e ciò sia detto senza rimettere in discussione i notevoli risultati
degli artifici leopardiani) a un livello di artificiosità. Nella grande poesia di Leopardi, invece, le parole si riconsegnano nude alle emozioni, hanno una loro irripetibile essenzialità. Questo non significa che il suo vocabolario lirico si collochi a un grado zero della scrittura poetica: Leopardi non è in questo senso un innovatore:
non è Dante e neppure Pascoli o
Montale. Il suo linguaggio è quello della tradizione lirica italiana, da Petrarca a Foscolo; ma questa fedeltà non ne intacca il tono originale semplicemente perché egli sentì come immediatamente suo quel linguaggio che una precoce consuetudine con i classici, coltivata nell’isolamento degli « studi diletti » e delle letture, gli faceva amare con la trepida ansietà di chi è consapevole che quello della poesia è un altro dei beni irreali, delle illusioni che la moderna civiltà si portava via. Era, in altri termini, il linguaggio delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, e quindi anche il linguaggio della sua ragione. E chiaro d’altra parte che una simile fedeltà alla poesia, sentita con tanta trepidazione e ansietà, separa nettamente Leopardi dalla tradizione classicistica, ne fa insomma uno schietto romantico, il più romantico
dei
poeti italiani. Lo spazio europeo in cui è ormai tradizionalmente collocato è quello abitato da Schiller, Hélderin, Shelley, Vigny: lo spazio cioè degli spiriti romantici, nostalgici della classicità. Con questa differenza tra la sua poesia e, poniamo, quella di Schiller, che mentre in questa il mondo ideale (di idee e slanci morali) è un fatto precostituito che non cancella del tutto la tesi nel suo travestimento letterario, in quella il mondo intellettuale è lo stesso mondo poetico, nasce come emozione e come poesia. Non per questo tuttavia la poesia di Leopardi ha potuto godere di una diffusione larga e immediata. Anzi la sua fortuna fuori d’Italia è stata sempre limitata, fin da quando De Sanctis si stupiva a Zurigo che anche tra il pubblico e gli studiosi interessati alla cultura italiana si conoscesse a stento il filologo e non il poeta. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, la sua nuda bellezza, priva degli allettamenti propri di tanti prodotti romantici, non giova a questa poesia; essa ha creato addirittura un caso estremo di intraducibilità. D’altra parte il ripudio (anche teorico) di Leopardi d’ogni altra forma d’espressione se non quella soggettiva della lirica, l’unica, secondo lui, connaturata allo spirito moderno, non ha consentito neppure un’indiretta fortuna della sua poesia presso la ge30
neralità dei lettori, che gli scrittori raggiungono più immediatamente con altri mezzi, per esempio col romanzo o col dramma, generi per la loro natura più carichi di riferimenti sociali, anzi confezionati con gli ingredienti della socialità. In realtà il lettore non è lusingato dal Leopardi. Infatti né l’autore si preoccupa di interessarlo precostituendosi una sua leggenda da figlio del secolo, come Lamartine o Musset, o di cantore dei bisogni del popolo, funzione alla quale fu pure chiamato, o anche soltanto di personaggio di eccezionale e squisita sensibilità, né la sua opera accresce quel potenziale così accattivante per il pubblico, di fittizie situazioni drammatiche patetiche elegiache che (ne sia prova il Corsalvo: un’eccezione che dimostra ia regola) una così dolorosa ispirazione prolifera. La dinamica interna di questa poesia tende a una sorta di assolutizzazione oggettiva dei dati dell’esperienza personale, non però secondo i modelli che saranno fissati dalle poetiche simboliste e mallarmeane, ma attraverso i movimenti di un intensissimo discorso lirico, in cui quella trama di dati rifluisce per essere di volta in volta riproposta e riassorbita nei termini di una più generale e reale condizione umana. È evidente allora che le dimensioni letterarie di questo discorso non possono essere circoscritte entro i sistemi chiusi della lirica tradizionale: la misura della canzone
petrarchesca, dell’ode, del carme
foscoliano, alla
quale dapprincipio Leopardi s’adatta per convenzione e che poi occasionalmente fa propria, gli è aliena, non per un polemico rifiuto delle forme tradizionali né perché esse ripugnino alla sensibilità di un romantico (la lirica dell'Ottocento sta lì a dimostrare il contrario), ma perché questa misura è fatta semmai per contenere la densità di una situazione lirica esemplare e paradigmatica, quale per esempio quella petrarchesca, non la fluidità dell’originalissimo discorso leopardiano. Nei Canti (parola dive nuta improvvisamente nuova appena fermata nell’epigraficità del titolo) il secolare patrimonio verbale e stilistico della tradizione italiana si ricompone senza sforzo e deliberate rotture nella libera disposizione di una mobile struttura. Ma questa forma è un traguardo cui la poesia leopardiana perviene percorrendo le tappe di una storia interiore che procede dalla nostalgia dell’antico alla scoperta della memoria, fino alla coscienza,
non più solo individuale, dell’umano. Antico. - Il primo tempo di questa storia, compreso tra il 1818 e il 1822, èoccupato da una produzione poetica che ha anche aspetti contraddi
dittori, per cui, per esempio, il classicismo delle canzoni civili convive col verismo basso-romantico di quelle ispirate a fatti di cronaca e la semplicità immaginosa degli idilli con l’autobiografismo patetico ed elegiaco delle cantiche. Ma guardato nella ricostruzione dei Canti (che poi è quella che vale ai fini di un giudizio), dove sono raccolti le canzoni e gli idilli e dei minori esperimenti solo qualche testimonianza, questo primo tempo è contrassegnato da uno stato d’animo radicale, cioè da un rifiuto e da una esaltazione. Leopardi non nega tutt’intera la storia dell’uomo: nega il presente, le civiltà moderne; esalta, o meglio s’ostina ad esaltare, l’antico, le epoche remote. Questa nostalgia dell’antico è per il momento il contenuto della sua poesia. I luoghi di queste epoche remote in cui la fantasia del poeta s’accampa sono a volte circoscritti dalla memoria di un eroico episodio (la Grecia delle Termopili in AWItalia, di Maratona:in A un vincitore nel pallone) o di eroiche virtù civili (Sparta e la Roma arcaica in Nelle nozze della sorella Paolina); altre volte sono un più indefinito passato (la patria
di Dante, in Sopra il monumento di Dante o l’Italia « de’ nostri alti parenti » in Ad Angelo Mai), oppure paesaggi mitologici (l’età dell’oro di Alla primavera) e società primordiali, quasi ferine (Inno ai Patriarchi). La forma di questa nostalgia dell’antico può però anche essere il personaggio: Bruto o Saffo. A questo punto non c’è più la prosopopea o l’invocazione delle passate età, ma il travestimento di Leopardi in panni antichi. Il fatto non è senza importanza; indica il passaggio a una poetica più esplicitamente soggettivistica, che non ardisce ancora rompere lo schema ideologico e formale delle canzoni. Insomma Leopardi non vuole ancora autenticare direttamente, in prima persona, la sua « ideologia » del rifiuto, la condanna del mondo presente, facendo di sé un mito; la proietta perciò in figure esemplari cui la fama e il compianto secolari ha conferito la necessaria autorità. La posizione di Bruto minore e dell’Ultimo canto di Saffo nell’architettura dei Canti non è casuale. Il primo chiude la serie delle canzoni celebranti la virtù antica, col ripudio di questa stessa virtù, rivelatasi una favola (« Stolta virtù, le cave nebbie, i campi / dell’inquiete larve / son le tue scole, e ti si volge a tergo / il pentimento »); il secondo segue al vagheggiamento della natura primitiva di Alla primavera e dell’Inno ai patriarchi svelando l'inganno delle « amene sembianze » dell’universo per l’anima sensibile. Queste due estreme condanne dei suicidi Bruto e Saffo sono perciò l’addio di Leopardi alle due parallele illusioni della virtù e 32
della natura: avanzi del resto di beni ormai perduti cui il poeta sembra aggrapparsi disperatamente, ma non senza le contraddizioni che il più complesso dei componimenti di questa serie, Ad Angelo Mai, chiaramente espri. me lasciando irrisolto il contrasto tra Pealazione dell’ardimento intellettuale e la coscienza della vanità del conoscere e rovesciando l’inno alla virtù degli avi in una commemorazione della loro sublime infelicità, che è tale perché contrapposta al tempo e al destino. Intanto la soggettivazione dell’antico si realizzava a un livello poetico diverso da quello delle canzoni, al livello dell’idillio, il tipo di componimento che Leopardi elabora nel ’19, desumendone schema e titolo dai « quadretti » greci di Mosco. Nella prefazione alla Telesilla, l’abbozzo drammatico scritto in quell’anno, la poetica dell’idillio è dichiarata nella volontà di congiungere « forza e verità moderna della passione... alla semplicità e agli altri pregi antichi », calandole in una « rappresentazione di oggetti pastorali e campestri che non sono comici per se stessi, in luogo dei plebei tanto cari agli inglesi e ai tedeschi », cioè in sostanza nel tentativo di risolvere il contrasto tra le ragioni del sentimento affermate dai ro-
mantici e l’esigenza di una forma pura, riflesso della natura e della vita, quale si era realizzata nelle opere dei classici. Gli idilli perciò non si servono più del repertorio di azioni e figure dell’antichità che riempie le canzoni; partono piuttosto dall’osservazione di abitudini e situazioni umili e quotidiane, donde s’origina una trama di indefinite sensazioni e riflessioni (L’infinito) e anche di disperate e morbide effusioni (La sera del dì di festa, Alla luna). Ma la passeggiata al colle, lo sguardo al di là della siepe sull’infinito dello spazio, rinconducono, non appena si oda il vento stormire tra quelle piante e interrompere i « sovrumani silenzi » e la « profondissima quiete », al finito del tempo e alla comparazione tra le « morte stagioni, e la presente e viva »; il « solitario canto dell’artigian » provoca addirittura un balzo angoscioso sui fantasmi delle antiche età che non evita l’enfasi: « Or dov'è il suono / di quei popoli antichi? or dov'è il grido / de’ nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’atmi e il fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano? ». Insomma, neppure i quadretti campestri o borghigiani degli idilli possono chiudersi all’irruzione della più + forte illusione della giovinezza poetica di Leopardi, la nostalgia dell’antico. Tuttavia, nella nuova più naturale dimensione degli idilli, questa illusione diventa una sola delle inquiete interrogazioni che il poeta volge al destino; nel migliore dei casi (L’infinito) è appena un’evocazione. Le 33
domande o le conclusioni leopardiane non sono qui demandate a degli alter ego dell’antichità. Il contatto e l’osservazione del quotidiano semplifica e interiorizza questa viva problematica dell’esistenza, poiché nel rapporto con le cose e col mondo familiare la poesia leopardiana non può più commisurarsi col tempo storico, coll’antico, ma con un suo tempo più proprio, personale. E già gli idilli sono gli inizi di questo secondo tempo, il tempo della memoria. Memoria. - Ciò che chiude definitivamente questo primo tempo della poesia leopardiana non sono comunque le solitarie meditazioni dell’artista o le variazioni nel suo sistema di comporre, ma una vicenda concreta, Ja
sua uscita da Recanati: la sua esperienza. La nostalgia dell’antico è mitologia della solitudine, la sua vanificazione è effetto di quell’esperienza. Il primo soggiorno romano distrugge rapidamente quei « simulacri ». degli avi che Leopardi vedeva dentro di sé come vivente condanna dell’epoca presente, e il primo componimento scritto qualche mese dopo il suo ritorno a Recanati non ne conserva più alcun segno. La canzone Alla sua donna infatti non nasce col calore delle precedenti canzoni o degli idilli; è dettata piuttosto da una ipotesi che è sentimentale, ma si presenta in termini concettuali. Lo dice lo stesso Leopardi nelle sue argute annotazioni all’edizione bolognese del ’24: la donna del poeta « è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora o debba mai nascere; sa che ora non
vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; idee di Platone,
la cerca
nella luna, nei pianeti
la cerca
del sistema
tra le
solare,
in
quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all'amore col telescopio ». Ma col telescopio Leopardi, che non era né un poeta metafisico, né un neo-guinizzelliano teorico dell'amore, non avrebbe potuto neppure continuare a fare poesia. Alla sua donna ha perciò il valore di un congedo, elegantemente recitato e indirizzato alla più ricorrente delle illusioni poetiche, l’illusione dell’amore. La ripresa, cinque anni dopo a Pisa, della produzione in versi di Leopardi è registrata dai settenari del Risorgimzento con un’esultanza che ha bisogno intanto di uno sfogo provvisorio (in questo caso il facile ritmo metastasiano) e che ha fatto pensare all’esplodere di un improvviso stato di grazia. La realtà è diversa. La stessa esperienza che aveva allontanato 34
Leopardi dalla poesia o comunque l’aveva deviata verso la prosa delle Operette; adesso ve lo riconduce. Il soggiorno pisano, che gli è così grato per l’amabilità del clima, del paesaggio e delle persone,
matura
una crisi che era cominciata
nei primi
contatti con l’ambiente fiorentino e nell’avversione che Leopardi concepisce verso gli atteggiamenti praticistici di quella cultura con conseguente svalutazione della poesia. Scrive al Giordani il 24 luglio 1828 da Firenze, dove aveva fatto tappa da Pisa, prima di rientrare a Recanati: « In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere per questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl’individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini, né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente e certamente di tutte queste discipline secchissime ». Questa polemica difesa della poesia, pur partendo da una ingegnosa incomprensione degli sforzi compiuti dagli intellettuali del tempo, sia pure con ingenua pedanteria o velleitario estremismo, per rompere la crosta aristocratica della nostra cultura, ha un suo valore generale che comunque non interessa ora discutere. Rilevante intanto è la sincronia di questi atteggiamenti polemici con la nascita della nuova poesia leopardiana, quella detta ormai per convenzione dei « grandi idilli », e che si è soliti considerare come una poesia incontaminata, immateriale, una sorta di respiro dell'anima di purezza musicale. Questa sincronia ne mette invece in luce l’« impurità », fa emergere l’ideologia leopardiana, la quale non è un’apparizione improvvisa degli ultimi canti, ma un fondo costante di questa umanissima poesia, modificato dall’esperienza, esplicito e più dichiaratamente combattivo alla fine. Le ideologie dei poeti sono però sempre delle mitologie: figurazioni del loro destino che le stesse ideologie aiutano a conformare. Così l’ideologia individualistica di Leopardi, avversa ad ogni soluzione mistificatoria
35
della condizione infelice dell’uomo, si traduce in una nuova mitologia del passato, questa volta però, caduta l’illusione dell’antico, del passato individuale, della giovinezza come bene perduto, fallace in sé, ma reale nella memoria. È il momento di A Silvia, in cui l’immagine della fanciulla che racchiude le belle speranze del « vago avvenir » si delinea nell’irrompere ‘di una vitalità giovanile (lo splendere della sua «beltà » negli occhi « ridenti e fuggitivi », il « perpetuo canto ») frenata da una presaga inquietudine (« e tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi ») cui rispondono gli interrogativi (« O natura, o natura... »; « Questo è quel mondo? »), che sono in realtà le conclusioni dettate dall’esperienza del poeta; è il momento del Passero solitario, concepito nel ’19, ma realizzato
nella stagione dei « grandi idilli » con la finzione di attualizzare uno stato d’animo che è di molti anni posteriore (come dimostrano gli ultimi versi) con la situazione poetica; è infine il momento delle Ricordanze. Qui la mitologia della giovinezza si fa più esplicita. Il « possente errore » della felicità, il « primo giovanil tumulto / di contenti, d’angosce e di desio » è per Leopardi « dell’arida vita unico fiore »; ma questo acuto rimpianto nasce in relazione con le immagini, i suoni della Recanati, ritrovata intatta dopo anni di lontananza, che danno a quell’età una consistenza, uno spessore di realtà che il presente più non possiede. Nel vuoto, nella crisi, che Leopardi sente come assenza dal mondo, la memoria lo riconduce all’esistere, gli dà la disperata coscienza di esserci: « Qui non è cosa / ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / non torni, e un dolce rimembrar non sorga. / Dolce per se; ma con dolor sottentra / il pensier del pressiio un van desio / del passato ancor tristo, e il dire: io fui ». Nella variatissima modulazione di questo canto, dove l’insorgenza di una carica polemica mai esaurita, che si traduce nell’aspra invettiva contro il «borgo selvaggio », il « soggiorno disumano » di Recanati e la sua gente « zotica, vil », si alterna all’accorato rimpianto di una giovinezza irrecuperabile, Dna alla fine con disadorna, quasi corriva effusione nella rievocazione di Nerina (« Dove sei gita... dolcezza mia »; « I giorni tuoi / furo, mio dolce amor »; « Ahi tu passasti, eterno / sospiro mio »), si conclude il discorso poetico del Leopardi più individualistico,
intessuto sul filo della memoria. Gli idilli successivi indicano infatti uno spostamento dell’io leopardiano verso la condizione di tutti. Ma non si tratta di uno spostamento nel tempo: tra l’io che si riconosce nella memoria e l’io che si riflette negli altri c'è una stretta contiguità. 36
Umano. - Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio furono tutti scritti di seguito, nel giro di un mese straordinariamente felice per l’attività del poeta, il settembre 1829. Ma nell’architettura dei Canti tra il primo e gli altri due vi si pose il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, finito di comporre nell’aprile dell’anno successivo. L’interruzione ha il valore di una pausa meditativa. Il Canto notturno raccoglie le interrogazioni di A Silvia e delle Ricordanze sostituendo i monologhi dell’io leopardiano con la confabulazione lunare del pastore, personaggio fittizio, scelto per la sua condizione irrelata nel mondo (« errante ») e nella storia, privo perciò di memoria, posto là, insomma, in una indefinita tappa dei suoi pascoli deserti visitati solo dal suo gregge e dall’infaticabile percorso della luna, ad indicare l’« umano stato » nel suo grado originario e assoluto. Il palazzo di Recanati, il « paterno ostello », dove le voci di fuori giungono per rimescolare l’interna agitazione del poeta, è lontano, ma sono molto meno lontane le piazzuole e le viuzze del villaggio popolate dagli artigiani, dai contadini, dalle femminette e dai fanciulli della Quiete e del Sabato, perché Leopardi nel Canto notturno è già uscito dal ritiro aristocratico della memoria per riflettersi negli altri a un livello umile, all’unico livello cioè, in cui l’infelice « stato mortale » può apparire demistificato e ridotto alla sua nuda semplicità. Nella Quiete e nel Sabato anche il materiale illustrativo acquista una nettezza più limpida, un’evidenza più ferma ed oggettiva. I « veroni » diven. tano « balcgni », « terrazze », « logge »; le « voci alterne » che « sonavan » insieme alle « tranquille opre de’ servi » « sotto il patrio tetto » o « al. bergo » sono sostituite dal « grido giornaliero » che « l’erbaiol rinnova / di sentiero in sentiero » o dal « lieto romore » che fanno «i fanciulli gridando / su la piazzuola in frotta »: le parole perdono cioè la pregnanza di cui il poeta le ha soggettivamente caricate nel vagheggiamento della memoria per acquistare il significato definito delle cose lasciate là a parlare da sole, come semplici manifestazioni di comuni eventi. È questo il punto limite toccato dallo speciale verismzo di Leopardi: un verismo niente affatto impersonale o bozzettistico, ma trepido, commosso, che non po‘trebbe mai ridurre al rango di contadinella la « donzelletta » pronta a ornarsi di fiori per il giorno della festa né a spensierato ragazzo il « garzoncello scherzoso » osservato nella sua « età fiorita » e che nel Sabato, il risultato di maggior equilibrio di questa fase poetica, sembra quasi trattenere il pessimismo del poeta dal turbare la quieta superficie di quella confidente umanità. 37
Proprio il commosso equilibrio del Sabato non farebbe sospettare la nuova irrequietezza dei canti di Aspasia. Ma l’esperienza, ancora una volta, la spiega. L'amore per la Fanny, durato due anni (1831-1833), ridà a Leopardi quella coscienza del presente e una nuova calda percezione della vita che egli precedentemente con la memoria aveva’ allontanato nel passato, ma insieme ne provoca l’ansietà per un bene che è vano pensare di mantenere. Da qui l’associazione dei due momenti dell'amore e della morte già nel primo di questi nuovi canti, Il pensiero dominante, dove il calore della passione è registrato non in immaginazione o in réverie, ma nella forma di una poetica riflessione che non ignora il carattere illusorio dell'amore, piuttosto lo esalta per la sua forza sentimentale che inorgoglisce il poeta e gli rende fastidiosamente ridicole le altre intellettuali passioni e « secco ed aspro / il mondano conversar ». Si direbbe che l’amore sia qui ancora soprattutto argomento polemico per un’invettiva contro la vana superbia della sua età: « Or punge ogni atto indegno / subito i sensi miei; / move l’alma ogni esempio / dell’umana viltà subito a sdegno. / Di questa età superba, / che di vote speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica; / stolta, che l’util chiede, / e inutile la vita / quindi più sempre divenir non vede; / maggior mi sento. A
scherno / ho gli umani giudizi; e il vario volgo / a’ bei pensieri infesto, / e degno tuo disprezzator, calpesto ». In Amore e morte la riflessione sul sentimento sta più strettamente dietro al suo oggetto affidandosi al ritmo di una scansione sintattica che ricorda il lontano Coro dei morti delle Operette. L'amore agisce come energia, forza vitale che fa nascere o ridestare il coraggio nell'uomo e lo volge in opere, « non in pensiero invan, siccome suole »; ma il suo primo effetto è il languore, manifestazione del timore di un’impossibile felicità, cui succede l’invocazione della morte come .bene supremo quando l’amore si rivela per quello che è, per affanno. Così si attua anche il paradosso dell’amore: energia vitale e insieme tendenza alla morte, sentimenti entrambi belli per la coscienza dolorosa in quanto sono tutti e due intensificazione dell'umano come virile consapevolezza del destino dell’uomo: « Ai fervidi, ai felici, / agli animosi ingegni / l’uno o l’altro di voi conceda il fato, / dolci signori, amici / all’umana famiglia, / al cui poter nessun poter somiglia / nell’immenso universo, e non l’avanza, / se non quella del fato, altra possanza ». Il tono animoso che sorregge i due primi canti di Aspasia lega queste liriche d'amore all’estremo e più fermo documento ‘del doloroso ardimento 38
leopardiano, La ginestra. Negli anni che intercorrono tra queste composizioni Leopardi s’era congedato dalla sua potente illusione col breve A se stesso, in cui la tetraggine demoniaca e distruttrice dell’abbozzo di un Inno ad Arimane (uno stato d’animo che, svolto, ci avrebbe consegnato un Leopardi maudit) si condensa nei termini più umani di un disperato compianto di sé scandito come un solenne wemento mori. Ma, nonostante la tardiva rievocazione amaramente ironica dei versetti di Aspasia, l’esperienza era stata acquisita come valore positivo. « Certo — scriveva in uno dei suoi fondamentali pensieri (1’82°), che vale anche come ricapitolazione
ideale di quell’esperienza — all’uscire di un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi; conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda infiamma tutte le altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e ormai può far giudizio se e quanto gli convenga sperare o disperare di sé, e per quello che si può intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma per dir così più potente di prima, cioè più atto a far uso di sé e degli altri ». Stare dentro la vita era, come s’è visto, il”desiderio sempre deluso, ma costante, di Leopardi; ma questo sentircisi in mezzo è il fatto nuovo dei suoi ultimi anni. La cultura italiana, pur con i suoi limiti, non l’aveva ignorato né disprezzato, l’aveva discusso, tentava di contraddire e rimuovere il suo pessimismo. Leopardi insomma non è nell’Italia del tempo né un poeta innocuo né un intellettuale isolato. Una società comunque in evoluzione gli chiede delle risposte che non siano quelle per lei elusive delle interrogazioni del destino cui il poeta non può rinunciare, se ancora egli se le pone nei modi elegiaci delle canzoni sepolcrali (Sopra un basso rilievo e Sopra il ritratto di una bella donna) e con la ripresa idillica del Tramonto della luna. E Leopardi reagisce a quelle richieste satiricamente rinverdendo nella Palinodia gli argomenti del Tristano e tentando nei Paralipomeni la beffarda nullificazione dei primi tentativi risorgimentali. La risposta tuttavia non poteva venire da questi adattamenti in versi di una disputa che conserva le punte acri del risentimento intellettualistico, ma da un nuovo ripensamento del destino nella forma del discorso lirico che era propria di Leopardi, quel discorso appunto che gli detta l’immagine quoti-
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diana della minacciosa presenza della natura, del « formidabil monte sterminator Vesevo », e della sua fragile vittima sempre risorgente, la « lenta ginestra », simbolo del destino dell’uomo ed anche prefigurazione dell’« umana compagnia », di una solidarietà consapevole creata non perché gli uomini si combattono fra di loro, ma perla « guerra comune » contro
« l’empia natura ». Una risposta come questa non poteva essere raccolta dalla società del tempo, in lotta per le più immediate soluzioni dei suoi problemi. E del resto non era facile intenderla. Noi stessi ancora oggi ci domandiamo che cosa essa veramente sia: se un messaggio o l’ultimo e più commosso discorso di Leopardi sull’infelicità. 1966
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ANTOLOGIA DELLA CRITICA a cura di Attilio ‘Marinari
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CRITERI E SCOPI
La scelta dei brani critici qui presentati non ha alcuna pretesa di organicità e non intende in alcun modo offrire una sintesi di ciò che di più importante, nelle varie epoche, è stato scritto intorno al Leopardi. Essa si prefigge, invece, lo scopo di sottolineare i motivi di fondo della problematica leopardiana (o, meglio, quelli che oggi appaiono tali alla luce di una ricerca critica che è tra le più vive e folte e dialetticamente articolate) e di segnare una direzione sulla quale ci si possa muovere per tentare di risolvere i problemi di volta in volta affioranti, in una visione quanto più possibile coerente ed unitaria della personalità e dell’opera poetica del Leopardi. Il che è realizzabile solo a certe condizioni essenziali: tra queste, da una parte, la ricostruzione della trama di rapporti che legò il Leopardi alla cultura e all’ideologia del proprio tempo (di qui la necessità di sottolineare, ad esempio, i modi del suo porsi di fronte alle teorie dell’illuminismo settecentesco e dell’insorgente spiritualismo, nonché alle opposte poetiche classicistica e romantica), dall’altra il rifiuto di far coincidere l’indagine sul Leopardi con quella condotta su una particolare zona della sua poesia (considerata come
« culmine » o « essenza »
della poesia stessa) e, di allargare, invece, questa indagine a tutti i momenti della esperienza di vita, di cultura, di lavoro, che furono propri del Leopardi: momenti che, considerati sia diacronicamente, sia nella loro fortissima capacità di sintesi, permettono di ricostruire il senso della presenza leopardiana nella nostra cultura. E chiaro che, in questa chiave, si proporrà un panorama critico teso a superare, all’interno dell’opera leopardiana, i tradizionali contrasti filosofia - poesia, atteggiamento didascalico - poesia « pura », ecc., ed a teorizzare, al contrario, la necessaria « impurità » della poesia leopardiana, come di quella che convoglia ed esprime, praticamente in ogni suo mo-
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mento, l’intero bagaglio di sensibilità e di pensiero di una personalità particolarmente forte e vibrante, particolarmente reattiva nei confronti di tutto ciò che — ai più diversi livelli — la circondasse o la toccasse. Ed è altrettanto chiaro che si citeranno brani (come quelli desanctisiani) composti in epoca lontana dalla nostra, ma tali da contenere gli spunti di una visione non parziale (o comunque limitante) del Leopardi e, soprattutto, tali da riproporre alla nostra attenzione il « fatto » concreto della poesia leopardiana, perché esso venga osservato non
astoricamente,
ma nei suoi
legami con l’autore, con l’epoca, con l’intero corpus degli scritti del Leopardi; perché venga letto al di là di schemi interpretativi più o meno astratti e dogmatici; perché venga sentito nei suoi valori di « contemporaneità » e di « esemplarità », Si offrono qui, d’altra parte, numerosi esempi di lettura testuale, che perseguono il doppio scopo di stimolare ad un approccio diretto — che si vorrebbe il più possibile folto e meditato — al testo leopardiano e di offrire gli strumenti interpretativi che appaiono oggi più convincenti e, sotto diversi aspetti, più fecondi di risultati. Si fa spazio, infine, alla voce di studiosi i quali, pur perseguendo tesi di fondo abbastanza lontane da quelle che guidano questa scelta, ci hanno dato pagine leopardiane notevoli per rigore ed intelligenza critica. ATTILIO
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MARINARI
DE SANCTIS E LEOPARDI
La produzione letteraria del Leopardi suscitò nei contemporanei reazioni molto contrastanti: risposte fortemente polemiche nell’ala cattolica della nostra critica ottocentesca (Tommaseo, Colletta, Cantù); moti di entusiasmo tra coloro che, come il Giordani, guardavano alla cultura del proprio secolo nei termini di un impegno morale e civile da realizzarsi nell’ambito del classicismo laico; ammirazione e sgomento in chi, come il Gioberti, aspirava ad un effettivo rinnovamento del costume e della cultura, ma restava legato ad una visione moderata e legalitaria del fatto politico e ad una concezione dichiaratamente teistica del mondo e dell’uomo; delusione e definitivo rifiuto da parte di quei gruppi che — pur tanto distanti tra loro quanto potevano esserlo i mazziniani e gli uomini dell’Antologia — erano uniti dalla comune fede nell’avvenire e nella possibilità di operare a renderlo migliore. Il compîto di accogliere tutte queste istanze, di tentarne un bilancio critico e di riproporre, infine, alle generazioni successive un « problema Leopardi » — naturalmente irrisolto, ma sapientemente impostato in tutti i suoi aspetti — sarebbe toccato a F. De Sanctis, che al Leopardi dedicò, in ogni fase del suo magistero e della sua ricerca, lungo studio ed amore. Ed è perciò che questa serie di testimonianze critiche si apre nel nome del De Sanctis, riportando i brani essenziali di uno scritto nel quale N. Sapegno si propone di ricostruire, attraverso « l’itinerario dell’esperienza leopardiana del De Sanctis », il suo progressivo sforzo « per accostarsi ad intendere e valutare in termini rigorosi la modernità del lirico di Recanati ».
Leopardi era cresciuto e s’era maturato in contrasto con lo spirito del secolo, del quale sembrava respingere caparbiamente la fede nel progresso e l’anelito rivoluzionario, per chiudersi nei confini di un’infeconda e morbosa concezione pessimistica della natura e della storia umana. Sì 45
che [...] l’esperienza del recanatese pareva sottrarsi ad ogni tentativo di innalzarla e adoperarla in funzione di quella critica militante che il De Sanctis consapevolmente si proponeva, strumento di educazione e restaurazione della serietà morale e della coscienza politica ai fini del risorgimento effettivo della nazione aperto con la conquista dell’indipendenza. Si capisce come gli scritti sul Leopardi dovessero configurarsi, quali di fatto si configurano, in una serie di posizioni contraddittorie, o per meglio dire dialettiche (ma di una dialettica tormentata e sempre insoddisfatta), le quali tutte sembrano appuntarsi non tanto in una definizione, quanto piuttosto in una domanda: come accade che questo poeta lirico ed antiromantico (secondo la peculiare accezione del romanticismo manzoniano)
suoni
pur
così
attuale
ed « interessante », così
universalmente
umano e insieme così legato ad una situazione reale e presente? come è possibile che questo «accanito negatore di tutte le speranze progressive dell'età nuova si trasformi ogni volta in un maestro di morale eroica e in uno stimolo d’azione? Già nelle lezioni giovanili del ’42-’43, da un lato si afferma la specifica natura dello spirito di Leopardi, « sempre fuori della storia, solitario e meditativo », ma al tempo stesso egli è sentito come una « voce del secolo » e riaccostato a Byron ed al romanticismo europeo: poeta « non sociale », ma « individuale e universale » [...]. Sono proprio tutti, o quasi, i temi, che troveranno più ampio sviluppo nella critica leopar-. diana più tarda del De Sanctis [...]. Essa si presenta piuttosto come elemento di suggestione e di stimolo per la critica posteriore, che non come un corpo organico e in qualche modo concluso in se stesso. E pur tuttavia, guardando più da vicino, è possibile distinguere fra la caratterizzazione dell’atteggiamento poetico fondamentale, che attinge a poco a poco a una precisa formulazione, anche oggi densa di indicazioni preziose, e la definizione della morale eroica dello scrittore e della sua funzione storica, che rimane fino all’ultimo piuttosto un’intuizione acuta e un’esigenza geniale del sentimento che non
‘un concetto rigorosamente determinato. [...] È da rilevare anzitutto la delimitazione sicura del momento idillico della poesia leopardiana (motivo che sarà poi ripreso in modo unilaterale ed esclusivo dalla critica posteriore, e specialmente da quella dell’età crociana); ma è da sottolineare anche che questo. momento idillico è visto nella sua qualità circoscritta, come momento appunto specifico di una 46
certa cronologia ideale e temporale, e non come formula complessiva buona per l’interpretazione di tutta quella poesia, ed è perciò inteso nella sua reale portata, come conquista di immediatezza e di modernità del senti: mento e della forma
[...], tutt'altro dunque che nei modi formalistici ed
esclusivamente letterari su cui insisteranno i più tardi esegeti. E accanto a quello idillico resta presente sempre l’altro Leopardi, che al poeta idillico si sovrappone e fino ad un certo punto l’include in sé, il LeopardiByron delle lezioni giovanili, con la sua profonda e combattiva sostanza d’affetti e l'ampiezza del suo messaggio umano: donde l’attenzione dedicata con particolare intensità a quei canti che la critica formalistica tende a mettere in secondo piano, dalla canzone Ad Angelo Mai, e dal Bruto e dalla Saffo, all’altra canzone Alla sua donna e al Pensiero dominante e ad Amore e morte
[...]. Per questa via De Sancttis arriva ad afferrare salda-
mente almeno uno degli aspetti della modernità leopardiana (l’aspetto soggettivo e poetico di questa modernità), e perviene anche da ultimo ad articolare con varia intensità il suo giudizio nell’analisi minuta dei sin goli canti. Altro discorso è da fare per quanto' si riferisce all'impostazione del più vasto e comprensivo problema storico. Il carattere eroico della moralità leopardiana è bensì affermato costantemente in ogni fase dell’indagine, dall’introduzione giovanile all’Epistolario fino alle pagine estreme, e culmina in un brano famoso del bellissimo saggio Schopenhauer e Leopardi, dove è splendidamente ritratta la fisionomia « virile » dell’opera del recanatese, da intendersi come una perenne battaglia contro ogni spirito di inerzia e di rassegnazione [...]. Ma nello sforzo di dare una soluzione ragionata al contrasto non ‘ risoluto nell’animo del critico fra la condanna del pessimismo leopardiano e l'intuizione del suo valore positivo, il De Sanctis non riesce neanche qui a superare la formula, che era già nelle lezioni del ’42 e che si ripeterà fino all’ultimo immutata, dell’antitesi fra l’intelletto e il cuore, fra il pensatore e il poeta: formula, nella struttura stessa psicologica che essa assume, insufficiente ed approssimativa, e con la quale il contrasto viene ad essere piuttosto riaffermato che non risolto. La soluzione poteva venire solo da uria più ampia visione storica, nella quale la vicenda interiore del poeta fosse vista non isolatamente, ma nei suoi rapporti con la realtà intimamente contraddittoria della vita e della cultura italiana ed europea del secolo XIX. Per questo il momente di maggiore approssimazione a una formula più comprensiva, nell’ambitc 47
di questo itinerario desanctisiano,
è rappresentato
non
tanto dal saggio
definitivo e rimasto incompiuto (dove il problema della personalità totale di Leopardi è intravisto solo a tratti ed in margine [...]; sì piuttosto dalla pagina dedicata al poeta nell’ultimo capitolo della Storia della letteratura, dove veramente l’esperienza del maggior lirico dell’Italia nuova è sentita nel suo valore essenziale, come una svolta fondamentale della nostra cul-
tura e al vertice della nostra vicenda letteraria. È degno di nota che, in questo capitolo appunto, siano anche sottolineati più nettamente i limiti della già prediletta esperienza manzoniana: limiti sia della concezione cattolico-liberale che sottostà a quell’esperienza. sia della poetica ancora parzialmente realistica che l’esprime. E Leopardi è presentato proprio, nel suo messaggio in apparenza tutto negativo, come
il giusto liquidatore di quella provvisoria conciliazione, di quel connubio abbastanza confuso di remore tradizionalistiche e di istanze rinnovatrici il rappresentante di un nuovo « energico sentimento del mondo morale »,
il simbolo di quello sforzo di ripiegamento su se stessi in vista di una più realistica coscienza degli scopi da raggiungere, che il De Sanctis propone agli individui e alla nazione come compito ormai urgente ed imprescindibile [...]. In questa adesione, per quanto meramente sentimentale, del critico alla virile polemica del poeta, è uno dei punti più alti e più suggestivi della critica militante del De Sanctis; mentre il compito di rilevare e descrivere, nella sua funzione positiva, il senso di quell’aspra polemica antispiritualistica, è forse il problema più vivo che il grande critico abbia lasciato in eredità agli interpreti moderni del Leopardi. NATALINO
SAPEGNO *
* N. Sapeno, Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari, Laterza, 1961, pp. 166-71 (passim) [il saggio fu pubblicato la prima volta in « Società », IX, 1953].
48
LA POESIA
EROICA
DI G. LEOPARDI
Il brano qui riportato è datato al 1960. Ma la presenza del Binni nel discorso critico sul Leopardi risale al 1947, ed è una presenza molto importante, perché col suo saggio La nuova poetica leopardiana egli indicava effettivamente un nuovo modo di guardare al Leopardi ed alla sua opera. Superate infatti (com’egli stesso scriveva) « la tradizione grammaticale formalistica » e «la critica crociana di stretta osservanza », il Binni tentava, attraverso una «storia di poetica », di « utilizzare ogni dato, ogni indicazione biografica, rettotica, sicuro di vederla’ scendere
al punto essenziale in cui tutto si trasforma da esperienza vitale o letteraria in elemento di disegno artistico, di costruzione poetica ». Egli tentava, cioè, di restituire, alla poesia ed alla critica, tutta intera la personalità del Leopardi e soprattutto di rivendicarne — contro l’interpretazione intimistica e rinunciataria del Croce e dei suo epigoni — gli aspetti più vivi, più coraggiosi, più impegnati: quelli, appunto, da lui definiti « eroici ». Una forte spinta in questo senso era venuta, d’altra parte, già nel 1935, dal Salvatorelli (cfr. in seguito), il quale operava, però, in una sfera d’interessi politico-storiografici, non specificamente letterari. Il suggerimento del Salvatorelli sarebbe stato ripreso, anche nel 1947, dal Luporini, che già nel ’38 aveva suggerito, ancora su un piano prevalentemente « di pensiero », una visione del Leopardi diversa da quella crociana, di tendenza esistenzialistica (cfr. in seguito).
L’immagine crociana del Leopardi che pur contribuiva — in accordo con altre e diverse e sensibili interpretazioni sollecitate dal gusto della poesia pura di origine postsimbolistica ed ermetica — a rilevare fortemente la grandezza e la perfezione della poesia idillica, il supremo valore lirico dei canti del periodo pisano-recanatese e la loro coerenza con gli spunti più profondi e moderni della poetica dello Zibaldone, aveva in sé il grosso 49
rischio di una riduzione inaccettabile della intera personalità leopardiana e delle sue possibilità di altra poesia, di una incomprensione di altri aspetti e motivi del grande poeta e, a ben guardare, finiva per impoverire la stessa poesia idillica privandola dei suoi fermenti più generali, del suo vitale rapporto dialettico con altri motivi e tensioni poetiche, spirituali, morali, non riducibili nell’ambito della natura e della poetica idillica, sino al rischio poi di definizioni, che non mancarono, di Leopardi come ultimo, seppur divino, « pastorello d’Arcadia ». Sicché le stesse sublimi figure poetiche idillico-elegiache di Silvia o Nerina potevano perdere quella profonda risonanza elegiaca, che sale dall’ansia di un recupero, nell’armonia del ricordo, di una disperata tensione alla felicità e alla partecipazione personale alla vita, acuita dalla diagnosi, denuncia e protesta pessimistica sulla situazione esistenziale degli uomini, che nel Leopardi erano ben motivi autentici e radicali, pertinenti alla sua natura, alla sua posizione ideale e alla sua esperienza vitale e storica, e non vane, inutili o sol patetiche aspirazioni di un uomo chiuso alla vita e alla storia, incapace di vivere e di esprimersi se non nella direzione della contemplazione e del ricordo. i | E infatti, se nessuno — ed io meno d’ogni altro — vorrà negare la perfezione della poesia idillica, il tono lirico supremo attinto dal Leopardi nella dorata maturità del periodo pisano-recanatese (da A Silvia al Canto notturno), occorrerà pur rendersi conto che quella poesia, nella sua limpidezza luminosa e malinconica (in cui comunque l’elegia è essenziale componente e il quadro armonico e limpido vive nell’onda di un rimpianto e di una vibrazione sentimentale fortissima), non avrebbe raggiunto tale perfezione se non fosse cresciuta entto una dialettica vitale e poetica più complessa, non avrebbe raggiunto la sua purezza se non fosse stata filtrata attraverso un eccezionale tormento di pensiero e di cultura, se non fosse stata sorretta da una partecipazione intensa del poeta ai grandi problemi della crisi romantica e da una forza spirituale e morale che solo giustificano l’assolutezza di quella voce e la distinguono da un dono puramente istintivo e gratuito di bel canto. E come non poteva essere indifferente alla poesia leopardiana il suo profondo tormento speculativo (donde la comprensione almeno della prosa poetica delle Operette e del rapporto fra queste e i grandi idilli in critici pur fedeli alla preminente vocazione idillica del Leopardi), così non poteva essere indifferente alla poesia l'impegno morale ed eroico della personalità del Leopardi e del suo pensiero come aveva in qualche modo avvertito il 50
De Sanctis quando aveva notato che la morale eroica è la parte più poetica del pensiero leopardiano. Solo che quella parte poetica del pensiero leopardiano era poi, più di quanto sembrasse al grande critico romantico, parte non solo del pensiero ma dell’animo da cui quel pensiero traeva tale suo accento energico e così essa stessa era radice potenziale di poesia, era un modo del profondo sentire leopardiano, della sua originaria disposizione di esperienza vitale e sentimentale che nello svolgimento del poeta (tutt’altro che statico ed evasivo, tutt’altro che incapace di impegno e di vita nel presente e nella storia) venne cercando espressione poetica prima più parzialmente entro forme insufficienti e immature, e nell’intreccio con il più urgente motivo idillico. E poi — espresso totalmente il motivo idillico, risolto in intera poesia il momento idillico — raggiunse la poesia in una più compatta zona (dal ’30 alla morte) in cui tutta la personalità leopardiana, con tutto il suo pensiero, con tutte le sue esigenze culturali e morali, si realizza in un supremo sforzo di affermazione di se stessa e in una direzione di poetica che non si può assolutamente comprendere nelle sue ragioni interne ed artistiche, e nei suoi risultati, se si resti fermi alla postulazione di un Leopardi unicamente idillico, e se non si comprenda la radicale pertinenza anche di motivi non idillici alla personalità e all’animo poetico leopardiano. Una tensione eroica (risolvendo in questa parola un complesso modo di sentire e di vivere le cui implicazioni culturali e storiche rimanderebbero ad una lunga diagnosi della situazione del Leopardi nella crisi romantica e nell’epoca della restaurazione e del Risorgimento) è radicale nella personalità leopardiana. E variamente se ne avverte vibrare l’accento nella lunga esperienza delle canzoni (per non dir poi della forza esasperata che assume in tante lettere giovanili, fra disperazione e ansia di vita in cui la stessa letteratura è sentita come mezzo di affermazione di una personalità eccezionale e ripresa storica di temi alfieriani e foscoliani): sia nelle canzoni patriottiche in cui più chiaramente si configura in bisogno di azione e di intervento personale, condotto fino a certa patetica sproporzione (l’arzzi, qua l’armi) e tuttavia, seppure poeticamente ancora improduttivo e appesantito e sviato da limiti di classicismo e di nazionalismo
letterario, già qui dotato di un timbro di decisione, di coraggio, di impegno personale di cui non si può negare l’autenticità sentimentale e morale e la spinta a traduzione poetica. E se ugualmente nella canzone Ad Angelo Mai, in quella Nelle Nozze
Dil
della sorella Paolina, o in quella A un vincitore nel pallone, l’impeto eroico
che tende a riprendere le posizioni poetico-combattive dell’Alfieri, o l’appassionata ammirazione per Colombo e l’esaltazione delle virtù eroiche delle donne romane, e della bellezza del rischio, si sviano di nuovo entro linee poetiche ancora incerte e risentono negativamente di una meno chiarita visione filosofica e culturale, a tutto ciò non manca una radice personale non
mentita, un
accento
genuino
dicoraggio,
un’autentica
esigenza
di
assoluto impiego delle proprie forze interiori e poetiche che trovano poi, in un più risoluto e maturo raccordo di questa tensione eroica con le nuove conclusioni della indagine pessimistica (capovolto l’originario rousseauismo in una intuizione negativa della natura e dell’ordine delle cose) nuova e più forte e personale espressione nel Bruto minore e nell’Ultimzo canto di Saffo. Dove più coerentemente la posizione di denuncia della
situazione umana e di protesta contro l’ordine ferreo ma inaccettabile delle cose, contro una realtà sostanzialmente sbagliata in cui i valori vivono battuti e pur non meno profondamente desiderati e onorati, si trasformano nell’urgente e coerente sostegno di una espressione poetica che vive il suo eroismo disperato e suicida in contenuti filosofici universali più adatti alla profondità dell'impegno leopardiano e sembrano, sulle soglie delle Operette, avviare il Leopardi ad una poesia più vicina a posizioni romantiche europee. Ma certo, nella dinamica dello svolgimento leopardiano, quegli spunti eroici erano ancora incapaci di imporsi come elemento continuo e dominante nella poesia e nella poetica leopardiana e finivano per essere .rias-
sorbiti come base intima di risonanza e di tensione dentro la poesia idillica (magari fino alle forme esplicite dell’invettiva contro Recanati che nelle Ricordanze ha pure una sua funzione di tensione rispetto al grande finale) che non con autonome capacità di propria intera espressione.
Mentre ebbero la forza di farsi autonoma e costante direzione poetica quando tornarono a premere urgenti, e legate a tutta una nuova maturazione dell'animo leopardiano, ad una nuova tensione del pensiero, a un nuovo alto senso del proprio valore e del valore delle proprie idee e delle posizioni ideologiche cui esse si riferivano, quando la conclusione e l’effettiva realizzazione dell’ispirazione idillica coincise con l’apertura di speranze nuove e di nuove possibilità di vita tanto più stimolanti. Ciò soprattutto dopo l’analisi e lo scavo intellettuale e poetico delle Operette (in cui capriccio melanconico, analisi e denuncia si impastano preparando la poesia idillica ma insieme formulando posizioni che sol dopo di questa 22
verranno riassunte in prospettiva più decisamente polemica ed eroica), dopo l’altissimo ultimo confino recanatese. Sicché gli elementi non idillici, la rinnovata tensione del pensiero, il senso alto del proprio valore, delle proprie idee e delle posizioni ideologiche e culturali cui esse si riferivano, vennero a prender nuova forza e coerenza proprio quando la conclusione e l’effettiva realizzazione intera dell’ispirazione idillica coincise con l’abbandono di Recanati, « nido di sogni » ma anche prigione e limite di affermazione vitale, con l’apertura di speranze nuove e di nuove possibilità di vita tanto più energicamente accettate e stimolanti al termine del soggiorno recanatese. In cui il compenso della grande poesia era stato però pagato al caro prezzo del timore di una perpetua esclusione da.una vita di attività e di affetti e di rapporti culturali ed umani, in climi di maggior vitalità culturale e di stimolo intellettuale, cui il Leopardi intensamente aspirava, tutt'altro che interamente soddisfatto (come sarebbe stato di un uomo solamente idillico, di uno spettatore alla finestra) del cerchio incantato del ricordo e della stessa grande poesia del ricordo e del rifugio nella rievocazione triste e dolce dell’infanzia e dell’adolescenza. WALTER
BINNI *
* W. BinnI, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1962 (nuova ed.), pp. XIV-XXI.
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« IL VESSILLO
SPLENDENTE
DELL’UMANITA’
AVVENIRE »
Si riporta qui il brano del Salvatorelli al quale — come prima si ricordava — praticamente risale la genesi dell’interpretazione « progressiva » del Leopardi. Si noti come in esso si faccia scaturire dal « pessimismo politico » (un pessimismo non generico, ma legato alla cultura ed all’ideologia dell’epoca) la fede nella « umanità avvenire », e si guardi ancora come, all’interno di questa ricerca, balzi in primo piano il messaggio della Ginestra. Le intuizioni del Salvatorelli (che, proposte nel 1935, furono da lui stesso riprese nel 1940) sarebbero state da altri
svolte, ed anche in parte corrette (come si può verificare confrontando questo brano con quello del Timpanaro; cfr. oltre).
Sviluppato sino in fondo il suo pessimismo, privo ormai di fiducia anche nelle forze naturali, il Leopardi scende in guerra contro tutti i politici del suo tempo. Egli esalta ancora talvolta le passate grandezze romane e italiane (Paralipomeni, c. I, str. 27 ss.), esalta i passati eroi della libertà, Lorenzino de’ Medici, Egmont, Orange (ivi, c. III, str. 27); fa la satira dell’equilibrio europeo protetto dall'Austria, e si dichiara contro il diritto divino dei principi (str. 44). È dunque toto coelo lontano dai filosofi politici della reazione, ai quali apparteneva suo padre. Ma è contrario altresi ai nuovi politici progressisti, ai liberali del tempo [...]. Egli deride la loro idea, — o quella che almeno egli loro attribuisce, — che possa esservi una felicità comune,
al di fuori di quella dei singoli indi-
vidui [...]. A questo ottimismoII replica che la sfortuna della virtù, il dominio e l’abuso della forza sono leggi che non cancellerà « con un Gange di politici scritti il secol novo », in nessuna forma di comune reggimento (Palinodia, vv. 84-85, 92-93); e che «il genere umano e, dal solo individuo in fuori, qualunque minima porzione di esso, si divide in due parti:
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gli uni usano prepotenza, e gli altri la soffrono » (Pensieri; in Opere minori, II, p. 339). E deride « certa scienza politica separata dalla scienza dell’uomo, e per lo più chimerica », della quale si sono serviti ordinariamente gli storici che hanno saleto discutere dei fatti (ivi, II, p. 352). Riducendo l’analisi delle strutture sociali all’osservazione delle sorti individuali, e la valutazione delle azioni collettive, storiche all’esame dei moventi individuali [...], il Leopardi constata « questa specie di lotta di ciascuno contro tutti, e di tutti contro ciascuno, nella quale, se vogliamo chiamare le cose con i loro nomi, consiste la vita sociale »; e ne conclude che l’uomo»-sulla terra non può confidare che nelle sue forze, e non nella generosità del prossimo né nell’umanità (Persieri; ivi, p. 375 s.). Questo
« bellum omnium contra omnes » è rappresentato da lui come una meccanica
sociale:
cgni
uomo
è come
una
molecola
o globetto
che preme
fortemente i vicini e per mezzo di quelli i lontani, e ne viene ripremuto ella stessa guisa (ivi, p. 376 s.).In questa concezione politica, — anzi, per inmomento, antipolitica, — del Leopardi, tutto è settecentesco:
l’individualismo edonistico, la conce-
zione della società come di una semplice somma di individui, l’umanitarismo che ignora le nazioni, la rappresentazione meccanica del giuoco reciproco dei vari elementi sociali, la stessa negazione di ogni politica nel senso tradizionale della parola. Non parrà settecentesco il risoluto pessimismo, a prima vista totale [...]. Ma, a comprendere il ragionamento e lo spirito del Leopardi, occorre riflettere che il Settecento, tutto impregnato di naturalismo scientifico e di meccanicismo, aveva rotto — o almeno aveva avviato la rottura — con il concetto tradizionale, religioso, del finalismo della natura. La natura per il nuovo pensiero scientifico si ergeva di fronte all'uomo, se non nemica, estranea. Si pensi alla poesia del Voltaire per il terremoto di Lisbona, [...] che è in certo modo l’antecedente della Palinodia e della Ginestra leopardiane. Il Leopardi dalla primitiva esaltazione della natura era arrivato, come si è visto già, alla concezione di essa come forza ostile all’umanità, anzi a tutti i viventi. « La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d’ogni genere e specie che ella dà in luce; e SR a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti » (Zi0., II,
p. 4485 s.) [...].
DI
Dalla sconsacrazione e dalla condanna della natura come rea il Leopardi arriva alla nuova fede umanitaria. La sua filosofia, egli dice, non solo non conduce alla misantropia, come molti l’accusano, ma la esclude, tendendo a sanare quel malumore, quell’odio, che tanti portano ai loro simili a causa del male che ne ricevono. « La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, ecc. » (sopra, p. 203). La sua idea fondamentale è ora quella dell’uomo che si trova a lottare quotidianamente con la natura nemica, È questa la concezione che il Leopardi esalta per il suo pessimismo virile: di fronte ad essa, dicono i Paralipomeni, l’età nostra arretrò perché si avvide « esser quella in sostanza amara e trista »; l’uomo vuol trovar vero quel che è risoluto a credere per sua quiete, ed ancora più ciò che è credenza tradizionale (c. IV, str. 15-20). È il motivo che ritorna,
più alto e solenne — pur nel tono ancor più seccamente sprezzante — nella Ginestra, ove il Leopardi trascina la nuova filosofia innanzi allo spettacolo delle rovine prodotte da una grande forza naturale, quella del Vesuvio: Qui mira, e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e volti addietro i passi, del ritornar
ti vanti,
e procedere
il chiami.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
‘vuoi di novo il pensiero, sol per cui risorgemmo dalla barbarie in parte, e per cui solo si cresce in civiltà, che sola in meglio guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci dié. Per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fé palese: e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle. (vv. 52-58, 72-86)
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Belli o brutti che si giudichino questi versi (io li trovo meno brutti che non sembrassero al De Sanctis), il pensiero è chiaro e robusto. Acutamente il Leopardi ha notato nel nuovo ottimismo storicistico della sua età l’aspetto tradizionale, reazionario e passivo. Esso significa per lui sottomissione al destino, o alla divintà che pensa a guidare l’umanità pet le vie più adatte, e i cui giudizi — cioè i fatti di volta in volta realizzati e le situazioni che incombono sull’umanità — vanno rispettati, anzi esaltati. Il Leopardi, che aveva già proclamato in Arzore e Morte il suo proposito [...], ribadisce nella Girestra il suo concetto, che è da uomini il
non chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Solo in tal modo l’uomo potrà far fronte al suo destino e migliorarlo per quanto è possibile: solo se si renda conto che a lui, ed a lui solo, spetta di costruire questo destino contro gli ostacoli naturali. Coloro che dalla natura, cioè da una forza estranea, — o da un potere soprannaturale, — derivano gli ordinamenti umani, sostengono «che la città fu pria del cittadino » (Paralipomeni, c. IV, str. 11): che cioè gli istituti sociali sono un dato che ci proviene dal di fuori e dall’alto, che noi dobbiamo subire e mantenere tal quale. Ma se le menti saranno libere e preparate a ciò che insegnano i fatti e la ragione, allora si vedrà che non dalla natura provengono le istituzioni umane, che esse sono invece opera dell’uomo, e « che il cittadin fu pria della cittade » (ivi, str. 12 s.). E allora, riconosciuto che il male proviene dalla natura, non dall’uomo, il bene dall'uomo e non dalla natura, la coscienza dell’uomo rinunzierà agli odî, alle ire fraterne, accrescimento delle proprie miserie, e si rivolgerà concorde contro il nemico comune: Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccome è il vero, ed ordinata in pria l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra, comune. (Ginestra, vv. 126-135)
Sarà questo un ritorno al carattere primitivo del patto sociale, poiché la « social catena » fu appunto stretta contro l’« empia natura ». E allora, grazie alla conoscenza del vero, si avrà un ritorno di veraci virtù DT
cittadine, la giustizia e la pietà avranno radici ben più salde che non nelle credenze superbe e menzognere. La politica a cui approda il Leopardi è quella di un’umanità universalmente associata, che sostituisce alle guerre intestine per il danno reciproco quella esterna per il soggiogamento della natura a vantaggio comune. Egli suppone, senza formularlo espressamente, un concetto di Stato e di governo puramente strumentali, puramente di organizzazione amministrativa, senza nessun valore finale e trascendente; e salta a piè pari lo stadio nazionale per l’associazione universale che va dall’individuo all’umanità, e in cui il bene di tutti è il bene di ciascuno, e reciprocamente. Non sono pure fantasie poetiche: v’è il presentimento del socialismo, della Società delle Nazioni, dello « stato scientifico », di tanti problemi e di tanti ideali che affannano già oggi l’umanità, anche se il loro scioglimento, — in quanto di scioglimento si può parlare, — sia riservato a un lontano futuro. Il cristiano Manzoni e il razionalista Leopardi partono ambedue dalla considerazione dell’uomo come scopo della politica. Ma la fede trascendente del primo approda alla negazione della politica, alla passività della rassegnazione cristiana; rassegnazione di cui il Manzoni
dette saggio pet-
sonale chiudendosi, dopo il suo capolavoro, in un silenzio di mezzo secolo. La fede razionalistica del secolo lo porta ad agitare, nel punto stesso in cui termina la sua breve vita mortale, il vessillo splendente: dell’umanità avvenire. LUIGI
SALVATORELLI *
* L. SALVATORELLI, I/ pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino, Einaudi, 19495, pp.
58
203-10.
LEOPARDI
PROGRESSIVO
Abbiamo già ricordato l’importanza del ruolo che il Leopardi progressivo del Luporini rivestì, alla base di quello che fu definito il « nuovo corso » della critica leopardiana. Richiamiamo ora l’attenzione sul metodo — che il Luporini fu tra i primi ad applicare e che è, oggi, tra i più fecondi di risultati — di ricostruzione del pensiero leopardiano attraverso i documenti di esso, foltissimi nelle pagine « di riflessione » del Leopardi e soprattutto nello Zibaldone, e sull’esigenza di non limitare questa ricostruzione alla sfera del « pensiero » (inteso quale meccanismo astratto o, comunque, separato e dall’esperienza e dalla poesia), ma di allargarla — come appunto il Luporini ci indica — a-tutto il Leopardi (pensatore, poeta, prosatore, ecc.) nella sua profonda coerenza
umana.
Ancora
vogliamo avvertire come, attraverso questa metodologia di ricerca, venga in primo piano l’aspetto di « cultura » (che è poi rapporto non solo e non tanto col passato quanto con la propria epoca storica in tutte le sue manifestazioni: letteraria, filosofica, politica, ecc.) del Leopardi ed il conseguente « impegno », anche questo non generico, ma tale quale una certa situazione storica, politica (e, naturalmente, anche umana) postulava.
La «filosofia» di Leopardi si risolve tutta, o pressoché tutta, su questo terreno: egli fu un grande « moralista », apparizione molto rara nella tradizione italiana e proprio per questo non facilmente comprensibile presso di noi. Il suo pensiero nasce da una esperienza tragica, acutamente rappresentata e analizzata [...]. I termini in cui si precisa quest’esperienza sono, nel loro scomporsi e ricomporsi, legati strettamente, e in certo modo fisiologicamente, alla vicenda individuale di Leopardi; tuttavia, proprio per quella particolare esemplarità e intensità, hanno un ben delineato valore storico, rappresentano in una sua sfumatura la cris' di una società e di un’epoca (onde la risonanza europea del Leopardi [...]
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Il problema politico si pone in Leopardi decisamente, nella miglior tradizione del pensiero settecentesco, come problema dell’interesse pubblico, dell’utilità comune, e Leopardi non dubita mai un istante di presentare quest’ultimo come problema dell’uguaglianza [...]. A lungo si era tormentato, e continuerà a tormentarsi, sul problema della conservazione della
uguaglianza, cioè su quello che gli appare come la tragedia storica delle democrazie: le democrazie non si conservano. Perché non si conservano? Qual’è la ragione specifica? Perché, rispondeva il Leopardi, ..è impossibile, la durevole conservazione della perfetta uguaglianza, e ia perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile
della democrazia
(I, 433).
Ma perché è impossibile la « durevole conservazione della perfetta uguaglianza? » Qual’ è la radice di questa impossibilità che il Leopardi,. si noti, non deduce teoricamente, ma o constata, o crede di constatare, innanzi tutto, sul piano storico? Siamo qui al punto cruciale della visione politica del Leopardi, alla sua nota più caratteristica, che è l’antiindividualismo. La democrazia si dissolve e conduce, attraverso l’anarchia, al dispotismo, per l’individualismo che si produce in essa [...].
Vi sono due significati della parola libertà: uno, è il significato sano di quella libertà che regge le repubbliche (e che, ricordiamo, si basa sulla « perfetta uguaglianza »): una libertà che « dipende dall’armonia delle parti »; l’altro, è quello del « senso comune della parola », ossia del senso modernamente corrente, la libertà individualistica, la libertà di Clodio, la libertà anarchica, che conduce al dissolvimento della nazione, che « estingue il popolo », e porta al dispotismo: al dispotismo che è [...] per il Leopardi identico alla barbarie [...]. La virtù finisce quindi per essere prevalentemente virtù pubblica, e questo non è casuale, è una nota anzi che torna spesso in Leopardi [...].
Anche le cosiddette « virtù private » vengono a fondarsi e a reggersi su quelle pubbliche: « non intendo di escludere neppure le virtù private e domestiche, alle quali quanto sia favorevole (massime alle virtù forti e gefierose) lo stato popolare, e sfavorevole il dispostico, lo dicano per me le storie antiche e moderne ec ». In tal modo il momento ideale si risolve in quello reale concreto, nell’identità di utile pubblico e di virtù [...]. Ma i due momenti (virtù e utilità) si scindono, e il momento
della virtù
si pone come separato, astratto, ideale,. quando sia rotta quell’armonia di parti, dello « stato popolare », dello stato democratico, e ad esso, alla sua 60
uguaglianza, si sia sostituito l’individualismo:
il « sistema dell’egoismo »,
come ripetutamente lo chiama Leopardi [...].
La corruzione della società si ha nell’estendersi mostruoso della sfera del « privato », del suo prevalere sulla sfera del « pubblico ». Questo estendersi mostruoso è il « sistema dell’egoismo », ossia dell’esasperato individualismo. Leopardi analizza minutamente il nesso fra ‘egoismo e dispotismo per un verso, e per altro verso il rapporto fra egoismo, amor proprio, amor patrio e società [...]. L’egoismo universale è la mancanza di qualsiasi solidarietà sociale (« il bene di ciaschedunoè confidato a lui solo »). Tra egoismo universale e egoismo individuale si stabilisce un circolo necessario che il Leopardi torna a descrivere ripetutamente, ora con toni appassionati, ora con freddo raziocinio [...].
Lo stesso problema della poesia e dell’arte, il cui sviluppo, sotto certi aspetti, può perfino servire di indizio, non è intelligibile in Leopardi indipendentemente dal problema politico e sociale, dominato com’esso è dall’ideale eroico, e drammatizzato in ragione di questo, delle possibilità o meno di azione che dall'ambiente politico e sociale, dall'ambiente civile, si. offrono all'uomo. L’uomo, ci ripete continuamente Leopardi, non è fatto per la contemplazione, per il pensiero, per la preghiera ecc.; esso è fatto per agire e per operare. Solo nell’agire e nell’operare può realizzare il proprio fine e quindi trovare la felicità. Ora, l’agire‘e l’operare dell’uomo — e in generale « qualunque cosa umana » — sono condizio‘nati direttamente o indirettamente dalla vita politica. La stessa « morale »
esce dall’astrattezza speculativa e diventa concreta solo in rapporto alla politica. Ciò è visto molto chiaramente e acutamente dal Leopardi ed espresso con una sicurezza e modernità di tono che contrasta stranamente, a tutta prima, con l’apparato sistematico-mitologico in cui egli, così spesso, suole stringere e connettere anche i suoi più penetranti concetti: [...] La vita, l’azione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione [....]. La vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo (I, 283) [sa]:
Egli si sente soprattutto impegnato di fronte alla propria epoca, un combattente in essa, e la presa di posizione dinnanzi ai suoi tempi è per
lui, di gran lunga, il problema più importante e urgente, più travagliato
61
e drammatico [...]. La ragione che doveva per sempre distruggere la bar-
barie, le superstizioni, instaurare l’uguaglianza e la democrazia, [...] è fallita, la rivoluzione da essa prodotta si è involuta, e ne è nato il dispotismo napoleonico e poi, soprattutto, l’epoca presente, la restaurazione [...]. Questa delusione storica e con essa l’entusiasmo disincantato e quindi smorzato, o cangiato in asprezza e quasi in risentimento, e tuttavia insieme una inconcussa e nascosta fede, riguardo alla ragione e filosofia settecentesca, fremono nelle pagine dello Zibaldone [....]. Vi è almeno un punto, nella storia moderna, in cui si è stati « sollevati dalla barbarie » e questo punto è stato la rivoluzione. In rapporto ad essa nasce il giudizio di Leopardi sulla propria epoca e sui due secoli che l’hanno preceduta [....]. In generale si ritiene che Leopardi neghi il progresso e combatta l’idea di esso. Ora, questo non è esatto. Leopardi si vale moltissimo dell’idea del progresso, se ne vale anzi in un modo immediato e diretto, ‘che sotto molti riguardi la pone fuori discussione. Egli non solo crede al progresso di elementi particolari del mondo umano, come scienza, tecniche, filosofia, linguaggi ecc., ma crede a un generale progresso dell’incivilimento, che traversa i cicli di civiltà e barbarie, inteso in un senso assai preciso di un andar avanti, di un allargarsi di cognizioni e occupazioni, di un estendersi anche geografico dei rapporti umani [...]. Davvero è cosa balorda presentare, in questo senso, il Leopardi come un negatore del progresso, ossia del procedere storico. Ciò che Leopardi nega è altra cosa; egli nega quel che egli chiama, e che allora si chiamava, « perfettibilità », gran tema di discussioni nel ’700, e concetto [...] legato all’antistoricismo dell’età illuministica e al permanere in essa di forti elementi platonici (nessuno più antiplatonico del Leopardi, in prosa come in poesia) [...]. Il Leopardi moralista, se per un verso produce il pessimismo storico — e abbiamo visto su quale fondamento esso vada indagato e quale significato di lotta esso assume —, per un altro verso, ma sul medesimo fondamento, produce quel concetto tutto moderno della felicità come sviluppo di energia vitale, come operosità e attività, e dell’unità fondamentale dell’uomo come prassi, col quale egli reagisce, sulla via aperta dai Parini e dagli Alfieri, alla fiacchezza morale della tradizione letteraria italiana degli ultimi secoli. Ricordiamo: « Nessun uomo fu né sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più e più gran cose degli altri, non avesse in sé maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinari, e per natura e inclinazione sua 62
primitiva, non fosse più disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non sogliono essere ». Questa energia che si trasforma in virtù, in virtù moderna e civile, è tuttavia innanzi tutto lodata nel suo aspetto vitale (« maggior vita e maggior bisogno di vita »), e questo è catatteristicamente leopardiano. L’operare, l’azione è di per sé fonte di felicità, allegria, gioia di vita. CEsARE
LUPORINI *
* C. Luporini, Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 186-7, 199-203, 215-16, 225, 227, 229, 240-42.
63
LEOPARDI E LA CULTURA DEL SUO TEMPO
Lo studio del Timpanaro sulla cultura italiana del primo Ottocento, apparso nel 1965, mentre si riallaccia — e per approfondirle e per discuterle — alle tesi precedentemente esposte dal Salvatorelli e dal Luporini, si propone di dimostrare la necessità di un ancor più stretto inserimento del Leopardi nella cultura del suo tempo, ed in particolare nel clima fervido — ma anche travagliato e contraddittorio — degli anni in cui quel movimento che il Timpanaro detinisce come reazione romantica, con i suoi atteggiamenti fideistici ed il suo diffuso misticismo, poneva in discussione le esigenze di chiarezza e di « positività » del sapere che erano state poste dall’illuminismo, mentre rinnegava i principî secolari dell’estetica classicistica: le esigenze ed i principî, appunto, dei quali la formazione del Leopardi si era nutrita. Da questo studio si stralciano qui alcune pagine significative proprio nel senso indicato. Cfr. però, in proposito, le considerazioni, non convergenti, del Sapegno.
La giusta qualificazione di Leopardi come antiromantico — e quindi contrario all'ideologia cattolica della Restaurazione e, più tardi, allo stesso cattolicesimo liberale degli anni trenta — va precisata e integrata con lo studio dei rapporti tra il Leopardi e l’ala illuministica del classicismo italiano. È vero, il Leopardi portò già nella polemica classicoromantica milanese, con la Lettera ai compilatori della « Biblioteca Italiana » e col Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, una sua nota personale: una nostalgia dell’antichità in quanto più vicina di noi alla natura vergine e incorrotta (dell’antichità in quanto giovinezza del genere umano), che bruciava le scorie del classicismo scolastico e che era in verità assai più russoiana che classicistica nel senso tradizionale. Ma
[...] la scelta antiromantica che il Leopardi compì nel ’16 lo portò
ad accostarsi sempre più al Giordani e ad assorbirne non tanto il purismo 64
(nel quale, del resto, il Leopardi giovanissimo si era spinto molto più in là del Giordani stesso), quanto le esigenze di riforma culturale, il laicismo, il sensismo, di cui il Giordani, formatosi a Parma dov'era stato così forte l'influsso del Condillac, rimase sempre assertore anche nel clima mutato della Restaurazione. Anche il sensismo e il materialismo leopardiano, dunque, non vanno
ricondotti solo alla lettura diretta dei grandi illuministi francesi del Settecento [...], ma anche ai contatti fra il Leopardi e il classicismo illumi-
nista dell'Ottocento, in cui la tradizione sensistica permaneva ben salda. Si deve in parte a questa formazione se la nostalgia dello stato di natura, la polemica contro l’eccesso di razionalismo che conduce all’infelicità, così forti nel Leopardi, non lo condussero a pseudo-soluzioni religiose, ma anzi a una condanna sempre più energica di tutte le correnti spiritualistiche
contemporanee
[...]:
le superstizioni
cristiane
sono,
per
il Leopardi, contrarie alla natura non meno che alla ragione. Per i romantici, invece, l’epoca ideale non era lo stato di natura, ma ritornata »... e battezzata, il Medioevo. [...].
la « barbarie i
L’avversione illuministica per la barbarie e l’ignoranza medievale si unisce alla nostalgia per l’antichità, che rimane un termine di confronto irraggiungibile per la civiltà moderna: anche qui il sostrato del pensiero leopardiano non va cercato soltanto in Rousseau o nella « delusione storica » del fallimento della Rivoluzione, vissuta con particolare intensità dal Leopardi, ma nel classicismo illuminista dell’Ottocento italiano, che mentre lottava contro il mito del Medioevo, non rinunciava a contrapporgli il mito dell’antichità classica, a esaltare Atene e Roma in funzione laica e libertaria. Un altro motivo che il Leopardi desunse dalla sua educazione classicistica — pur sviluppandolo, poi, in modo originalissimo — è il titanismo. Qui bisogna rifarsi, prima ancora e più ancora che al Giordani, all’Alfieri, che fu per il Leopardi giovinetto il principale modello non soltanto letterario, ma umano, il personaggio ideale a cui egli si studiò di agguagliarsi. [...]
A sua volta questo
atteggiamento
alfieriano
di rivolta contro
la
divinità e il fato si nutriva di tutta una tradizione classica, che aveva avuto il suo massimo rappresentante in Lucano. [...] Rimane tuttavia il fatto che, anche all’interno del classicismo illuminista italiano e della tradizione alfieriana — come nel più vasto àmbito
della cultura europea —
il Leopardi occupa una posizione di punta. In 65
lui giunge al massimo grado quella tensione tra « progressismo » e pessimismo che era implicita in gran parte del pensiero e della letteratura di cui egli si era nutrito. [...] Il Poème sur le désastre de Lisbonne di Voltaire è l'esempio più celebre, ma tutt’altro che unico, di questo insorgere di motivi pessimistici all’interno dell’illuminismo; ed è noto che il Leopardi lo lesse e ne risentì l’influsso, specialmente per ciò che riguarda l’antinomia tra infelicità dei singoli e (presunta) felicità collettiva. Ancor più evidente è, come già abbiamo accennato, il pessimismo implicito nel titanismo alfieriano. E anche nel Giordani la fede nella felicità dell’umanità futura, liberata da pregiudizi e «da oppressioni, si alternò a una visione desolata dell’uomo ineluttabilmente infelice. Tuttavia né gli illuministi del Settecento, né Alfieri, né Giordani portarono a fondo la presa di coscienza di questo contrasto. [...] Nel Leopardi ciò non accade. Nel suo pensiero le esigenze progressiste non sopraffanno mai il pessimismo; anzi, nell’ultima fase progressismo e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’originale tentativo di conciliazione tra i due termini, che egli compie, non significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due. Le caratteristiche specifiche della posizione leopardiana appaiono più chiare se ripercorriamo, sia pure in modo necessariamente sommario, l’evoluzione che il rapporto pessimismo-progressismo subisce nel suo pensiero. Nel periodo che va, a un dipresso, dall’inizio della « conversione lette. raria » fino alla grande crisi pessimistica della primavera del ‘19 — ma che per più aspetti si prolunga anche dopo quella crisi, fin verso il ’22 — il Leopardi sembra orientarsi verso una missione di poeta civile quale lo auspicava il Giordani [...]. Il cosiddetto « pessimismo storico » di questa prima fase non è, a rigore, ancora pessimismo, cioè non si è ancora
sistema. È piuttosto l’Italia e dell'Europa repubblicana, libera anche da eccessi di
assolutizzato ed eretto a
vivissima insofferenza dell’atmosfera della Restaurazione, vagheggiamento da superstizioni mortificanti e da razionalismo e di raffinatezza, capace
vita intensa sotto l’impulso di energiche e magnanime
Ma già in questa fase — poi — comincia a manifestarsi, espressione poco felice è stato tesi della radicale e insanabile Bisognerà, tuttavia, stare 66
stagnante deldi una società ascetismo ma di vivere una
illusioni [...].
e specialmente dalla primavera del ’19 in in forma ancora sporadica, quello che con chiamato il pessimismo cosmico, cioè Ja infelicità dell’uomo. [...] attenti a non presentare il passaggio dal
primo al secondo pessimismo come frutto di uno sviluppo puramente concettuale. È giusto, sì, [...] osservare che il Leopardi doveva necessariamente, prima o poi, rendersi conto che quella stessa Natura che aveva dato all’uomo le beatificanti illusioni gli aveva però anche dato la ragione destinata a dissolverle [...]: facile, dunque, da questa esaltazione della Natura madre pietosa, passare alla denuncia della Natura matrigna, proprio in quanto essa non aveva dato agli esseri viventi la felicità obiettiva, non li aveva resi esenti da malattie, vecchiezza, morte [...]. Ma non bisogna dimenticare che la nuova concezione della Natura malefica nasce nel Leopardi, primariamente, non sul filo logico di tali argomentazioni, ma per l’urgere di nuove esperienze pratiche, non sistemabili nel quadro del « pessimismo storico ». Queste esperienze pratiche consistono nell’aggravarsi delle sue condizioni di salute (primavera del ’19) e, già prima, nell’accentuato senso di infelicità per la sua deformità fisica. È questo un punto che può prestarsi con estrema facilità a grossolanissimi equivoci, ma che proprio per ciò va affrontato, non eluso o negato. Il Leopardi ha sempre protestato con piena ragione contro quegii avversari che credevano di potersi esimere dalla confutazione razionale del suo pessimismo presentandolo come il mero riflesso di una condizione patologica (pessimista perché gobbo!), privo quindi di ogni validità generale. Che questa tesi, nata dal livore clericale di Niccolò Tommaseo, ripresa poi dai positivisti alla Sergi e infine riutilizzata da Benedetto Croce, sia da respingere, non c’è dubbio. Ma il vero modo di respingerla non consistenel negare, come pure si è fatto, ogni incidenza della malattia e della deformità fisica nella genesi della Weltanschauung leopardiana, di fare, quindi, del pessimismo leopardiano un fatto puramente « spirituale » o, seguendo un altro indirizzo, puramente politico-sociale. Bisogna invece riconoscere che la malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente precoce ed acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo, dell’infelicità dell’uomo come essere fisico [...]. E quindi l’approfondimento di questo tema doveva prevalentemente orientare il del Leopardi in senso « cosmico ». Il che accade, come abpessimismo biamo visto, in modo ancora episodico nel ’19, e poi sistematicamente
a partire dal ’23-’24. Con piena ragione il Luporini considera come una scelta decisiva per l’ulteriore sviluppo del pensiero leopardiano l’avere, a questo punto, rifiutato il ricorso a Dio, il rifugio nel mistero e nella trascendenza, 67
l’avere, anzi, imboccato la strada opposta, di un ateismo e materialismo sempre più conseguente. [...] Fu il contatto polemico con l’ambiente cattolico- liberale, specialmente nel secondo soggiorno fiorentino e poi nel napoletano, a porre dinanzi al Leopardi il problema di ristabilire, su basi necessariamente diverse che nel ’18-’21, un nesso tra il proprio pessimismo e un atteggia-
mento politico progressista. Il cattolicesimo liberale rappresentava. qualcosa di particolarmente avverso a tutto il pensiero del Leopardi. Era il mito del progresso, privato della carica di lucido razionalismo che aveva avuto nel Settecento francese e riconciliato coi vecchi miti cattolici. [...] A un tale ambiente gli scritti del Leopardi, e in particolar modo le Operette morali, erano apparsi come l’espressione di un ateismo che negava insieme la religione e il progresso; che si opponeva, quindi, totalmente allo « spirito del secolo ». [...] Il bisogno di rispondere a queste accuse di apoliticità e di egocentrismo [...] costituì certamente la spinta decisiva per la ripresa polemica e combattiva, per il nuovo titanismo dell’ultimo Leopardi. Questo movente in qualche misura « esterno » dell’ultima fase del pensiero leopardiano non toglie nulla [...] alla sua profonda sincerità e coerenza: dimostra piuttosto la capacità del Leopardi di reagire al nuovo clima politicoculturale, allargando il respiro umano e sociale del proprio pessimismo, fondando una morale integralmente laica e smitizzata. Al compromesso ideologico attuato dai cattolici liberali il Leopardi contrappone, in quest’ultima fase, una grande ripresa di temi illuministici e materialistici. Non c’è libertà politica, egli afferma, senza libertà dal dogma e dal mito (« Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il pensiero »). È proprio questa esigenza di smascheramento degli « errori barbari » del cattolicismo che fa superare al Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza: alla convinzione del « valore sociale del vero » (per usare una felice espressione del Berardi) il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha dimostrato che nell’epoca attuale il vuoto dell'ignoranza non è riempito dalle gagliarde e magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibrido connubio delle deprimenti superstizioni medievali con un progressismo superficiale e falso, incapace di dare la felicità all'uomo: meglio, allora, quella « fiera compiacenza » che è prodotta da una lucida Aprionei e che costituisce, in un mondo in 68
cui l’azione eroica è ormai preclusa, l’ultima e paradossale forma di « virtù » classicheggiante. I Paralipomeni, con la negazione di ogni differenza qualitativa insuperabile tra uomo e animali, con la rivendicazione del Settecento empirista e antimetafisico contro l’Ottocento cristianeggiante, sono
la punta estrema del progressismo ideologico leopardiano. [...] Un secondo momento è rappresentato dal ben noto passo della Girestra in cui il Leopardi fa appello alla solidarietà di tutti gli uomini nella lotta contro la natura. Nessun dubbio sulla grande potenzialità democratica di questo appello. Soltanto, bisogna parlare appunto di potenzialità, per sottolineare, accanto all’estrema apertura e spregiudicatezza del discorso leopardiano, anche la sua indeterminatezza. Non vi è traccia in esso di preclusioni di classe, di cautele da « liberale », anzi vi è l’esplicita esigenza di far partecipe della nuova morale laica tutto il popolo; ma non c’è nemmeno alcun accenno a una lotta contro l’oppressione politico-sociale, come condizione preliminare per raggiungere la « confederazione » dell’intera umanità. Il Leopardi pensa che i contrasti tra gruppi umani siano secondati, e perciò da mettersi a tacere, di fronte all’esigenza di far blocco contro il nemico numero uno, l’empia Natura. [...] Soltanto, in quest’ultima fase del suo pensiero, egli toglie al proprio materialismo pessimistico quel carattere alquanto solitario e umbratile che aveva assunto negli anni di Bologna, così come, riprendendo il titanismo del Bruto minore, ne elimina quella n aristocratica che il titanismo aveva sempre avuto fin allora. Non c’è più alcuna contrapposizione di principio tra l’eroe e il volgo, anzi il pessimismo agonistico è destinato a divenire un atteggiamento comune a tutta l’umanità, una filosofia popolare. In questo senso si può dire che il progressismo politico non si dissolve semplicemente nel progressismo scientifico, ma gli infonde la propria esigenza democratica. SEBASTIANO
TIMPANARO *
* S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa, NistriLischi, 1965, pp. 140-74.
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LEOPARDI
E LA FILOSOFIA DEL SETTECENTO
La relazione di M. Sansone al I Convegno Internazionale di Studi Leopardiani postulava la necessità di dare all’indagine sulla « formazione e vita mentale » del Leopardi un carattere organico e sistematico che, a giudizio dello studioso, essa non aveva ancora raggiunto perché non sufficientemente attenta tanto a cogliere «il contesto, in cui ogni particolare suggestione va ad inserirsi », quanto ad assumere « ciascuna di esse entro una concezione della vita che, costituitasi precocemente, rimane, nonostante gli sviluppi interni al sistema, sostanzialmente ferma, pur se non assolutamente statica ». E questa « concezione della vita » è tutta permeata, secondo il Sansone, dall’ideologia settecentesca, che né le apparenti « contraddizioni » del pensiero leopardiano (ridimensionate, d’altra parte, dal critico sia qualitativamente sia quantitativamente), né l'imponente edificio mitografico (di origine sentimentale e autobiografica, o culturale, sul versante della formazione umanistico-retorica del Leopardi) valgono ad inficiare. Neppure la forma mentis illuministica di Giacomo Leopardi è smentita, sostiene il Sansone, da quegli esiti della speculazione leopardiana che effettivamente risultano opposti rispetto ad alcuni tra i principali postulati dell’illuminismo stesso (ottimismo, umanitarismo, ecc.), ché anzi tali esiti rappresentano il particolarissimo modo in cui la metodologia sensistica e razionalistica, ma in senso anticartesiano — del Leopardi si realizzò nel complesso e vasto arco delle sue esperienze — naturalmente anche biografiche — e della sua riflessione. Particolare rilievo assume, nel contesto della relazione, il problema del rapporto di Leopardi col romanticismo: rapporto che si configura quasi sempre come un rifiuto ideologicamente e metodologicamente motivato, sia che si tratti dell’opposizione alla « setta » kantiana (potenzialmente prolungantesi fino a certo idealismo al quale il Leopardi è stato dalla critica troppo spesso avvicinato) sia che si alluda. alla « titanica » negazione di ogni visione religiosa e provvidenzialistica della vita umana.
70
Su queste
basi, è chiaro
che
risultano
messi
in discussione
(una
discussione proposta in termini di documentazione e critica testuale) anche i diversi « presagi » di romanticismo, decadentismo, ecc. troppo a lungo e indiscriminatamente celebrati. I brani che qui si presentano dovrebbero chiarire i termini metodologicamente essenziali di questa folta problematica.
Sulla importanza che la filosofia del Settecento ebbe nella formazione del Leopardi c’è una singolare concordia tra critici e studiosi. E non solo tra coloro che hanno fatto oggetto dei loro studi i rapporti tra il Leopardi e la civiltà del Settecento, o che hanno avuto occasione di accennarvi più o meno largamente e deliberatamente, ma anche tra quelli che hanno rivolto la loro attenzione ed hanno inteso porre in rilievo piuttosto i presagi ottocenteschi e romantici della mente e dell’opera leopardiana — intesi sempre quei presagi, motivi, proposizioni, in funzione del fondamentale impianto settecentesco del poeta, e rilevati proprio sopra di esso — e infine tra coloro che nel Leopardi hanno inteso scorgere e rilevare elementi di singolare modernità, collocandolo, al di là o al di fuori dell’esperienza romantica, sulla
linea del dramma dello spirito contemporaneo, come scetticismo e decadentismo, o, persino, sull’altra dell’auspicata salvezza del mondo contemporaneo per via di una palingenesi politica, per cui si è potuto vedere un Leopardi fautore, avant lettre, s'intende, di una alleanza europea di popoli o addirittura — attraverso uno studio condotto con singolare intelligenza (pur se alquanto forzante) — un Leopardi « progressivo ». Questo punto di vista è necessario qui nettamente ribadire: non c’è impostazione mentale, non c’è idea, non c’è fondamento dottrinario in Leopardi che non sia di impostazione settecentesca. Questa civiltà culturale è la matrice del suo personale sistema ed essa contiene in sé, in realtà, tutti o quasi tutti gli elementi per la conoscenza della personalità leopardiana: specialmente (sebbene neppure totalmente) per quanto si riferisce al metodo ed al tessuto delle sue idee o del suo « sistema ». E diciamo « quasi tutti », perché, accanto alla componente settecentesca, giova tener sempre presente, per intendere appieno lo spirito leopardiano, l’altra classico-umanistica, che sebbene faccia sentire la sua efficacia più apertamente (ma non esclusivamente) nelle dottrine linguistiche ed estetiche ed in generale nel tipo fondamentale di cultura e nel gusto del Leopardi, non manca di aver riflessi spesso assai notevoli nella conformazione del sistema delle idee [....], 71
non foss’altro — nella concezione
per ricordare solo fatti di immediata evidenza — eroica della vita, come
che
ribellione, suicidio e titanismo;
nello sforzo durato tutta la vita, di inserire nella trasposizione cronologica del suo sistema la civiltà classica, o meglio degli antichi (come l’età del
prodigioso vigoreggiare delle illusioni, col congiunto eroismo patrio e personale, o titanismo grandioso delle disfatte); nella tendenza ad attribuire una funzione orfica alla poesia; nella formazione del gusto e delle dottrine linguistiche. È, insomma, l’eredità classica, secondo la tipica conformazione umanistica e plutarchiana e alfierana, inserita in maniera originale nel contesto del « sistema » leopardiano. [...] E dal pensiero settecentesco il Leopardi assunse prima di tutto la concezione della realtà come materia. La direzione materialistica del pensiero leopardiano, pur non mantenendosi rigidamente costante, si fa sempre più palese via via che la riflessione del poeta si viene rassodando e si consolida poi negli ultimi anni della sua vita. E se non appare subito nella sua imperiosa evidenza, è che il problema come tale, il problema cioè dell’essenza stessa della realtà, non interessava direttamente ed immediatamente il Leopardi, volto piuttosto a cogliere il destino delk'uomo, che a sistemare in una visione generale una concezione della realtà. Senza dire, fatto assai importante, che la concezione della realtà si confondeva, o meglio si fondeva in lui con il concetto di Natura, con tutte le oscillazioni e le incertezze che tale concetto in lui comportava. Ma, soprattutto, esso si legava e fondeva e discioglieva nell’altro e preminente del fondamento e metodo della conoscenza, sicché, alla fine, in coerenza con lo svolgimento scettico della sua gnoseologia, la realtà, l’essere, la Natura si definiscono come « orrido mistero ». Con che si ha un primo esempio, di rilevante importanza, di quella trasposizione delle dottrine e degli spunti teoretici
nel singolare impasto del « sistema » leopardiano, cioè di un fatto capitale, capitalissimo per la comprensione del L., e cioè dell’assunzione e coordinazione degli elementi dottrinari entro quella che, per ragioni indicative e senza l’ombra di irriverenza, potremmo chiamare la mitografia filosofica leopardiana. [....]
Ma la componente settecentesca appare in piena evidenza — e rimarrà sempre l’elemento più veramente e severamente teoretico di tutto il sistema — nella gnoseologia leopardiana, che è decisamente empiristica e sensistica. La critica alle idee innate rimane costante attraverso tutto lo Zibaldone, come appare indubbia e ferma la dottrina della loro derivazione dalla sensazione. Locke prima di tutti, e poi gli Ideologi, specialRe
mente Cabanis e Destutt de Tracy, sistematori e continuatori della dot-
trina condillacchiana, sono gli indiscutibili progenitori della gnoseologia leopardiana. La quale, anche sul fondamento dell’accettazione della funzione metodica del dubbio cartesiano, si andò svolgendo verso motivi agnostici con
accentuazioni
sempre
più decise verso un vero e proprio scet-
ticismo. Ma fu un cammino in realtà non pienamente coerente e integrale: pare sussistere nella mente del Leopardi una sorta di compromesso, per cui intorno ai problemi generali, — la struttura, la ragione, il fine dell’universo — è impossibile pronunziare giudizi, ma nelle verità particolari, o meglio nelle « certezze » che sono empiricamente innegabili (prima di tutto il male, l’infelicità, l’insoddisfazione e la noia), non si può che fondarsi sul metodo dell’empirismo o sulla deduzione delle proposizioni generali sul fondamento della sensazione e sull’analisi delle nostra sensibilità. Con che siamo alla professione d’agnosticismo tipica dell’ideologia, e, più in generale, di fronte ad un altro esempio degli inevitabili svolgimenti agnostici e scettici di ogni presupposto empiristico. [...]
Eppure in tutto questo che abbiamo detto, pure se si sia disposti ad accettarlo in ogni sua parte, resta che al Leopardi mancano note fondamentali dello spirito e del pensiero settecentesco: a parte l’avversione alla Ragione (espressa oltre che in innumerevoli pagine deliberatamente teoretiche, anche nella critica al mito rivoluzionario — della Rivoluzione francese — della Ragione), che è già di per sé stesso un fatto assai importante, nonostante gli evidenti presupposti roussoiani, o anzi proprio a
causa di essi; al Leopardi mancò del Settecento la fede nel progresso, il senso. fiducioso della costruzione di una nuova umanità, la fede nelle scienze e nella sua efficacia e, manco a dirlo, la filantropia. La polemica leopardiana contro il principio del progresso e della perfettibilità umana è implacabile, e dura per tutta la vita del suo pensiero. L’idea della perfettibilità (che, è bene dirlo subito, se si consolidava sopra principi religiosi, comportava sostanzialmente una concezione positivamente storicistica della realtà e dell’uomo) sembrava al Leopardi uno dei più grossi inganni del pensiero moderno, e il progresso — se mai si può usare questa parola a proposito di lui — fu da lui concepito a ritroso, e cioè fu decisamente avversato e denegato.
[...]
E non solo queste note settecentesche — tanti — mancano nella compagine spirituale del che abbiamo visto sicuramente appartenergli si niera così particolare che spesso si collocano al
che sono delle più imporLeopardi, ma quelle stesse conformano in lui in mapolo opposto di quello di 73
partenza, e subiscono una reinterpretazione radicale che giunge persino a capovolgerle. Tuttavia tutto questo non vuol dire in nessun modo che Leopardi sia estraneo o superi il pensiero e la temperie spirituale settecentesca, ma semplicemente che è impossibile intenderne la compagine intellettuale, ricollegando parte a parte le sue idee a questo o quell’aspetto del Settecento, e che invece per conoscerla e intenderla storicamente bisogna muovere da quello che egli chiamava il suo sistema e noi abbiamo definito, senza ombra di irriverenza, la mitografia filosofica leopardiana, e che è il primum storico della personalità del poeta. Questo vuol dire che la nostra indagine non può essere condotta come relazione di dottrina a dottrina, come analisi della composizione speculativa del pensiero leopardiano, ma deve arretrare e andare più a fondo: non valutare quanto della filosofia settecentesca possa risultare dall’analisi della filosofia leopardiana, come riportamento di motivazioni teoretiche ad un sistema generale, ma studiare se alla base della costruzione sistematica leopardiana e nell’itinerario del suo svolgersi, possa rinvenirsi un impianto mentale settecentesco, e se il nostro poeta pur dene-
gando, criticando e talora stravolgendo la civiltà intellettuale del Settecento, stesse tuttavia entro i suoi limiti. E se infine, componendo e svolgendo arbitrariamente ed originalmente una sua concezione della realtà, e patendone un travaglio inesausto di approfondimento e dissoluzione, egli si valesse degli strumenti che quella medesima civiltà gli forniva: se cioè a fondamento del dramma e della stessa disperazione logica e morale del Leopardi non vi fosse sempre — insuperata — la tessitura intellettuale, la logica e la ragione settecentesca. [...] [...] Per esempio, il fatto più specioso e più vulgato di tale storia e cioè il mutamento dell’interpretazione della Natura, da benefica e materna in crudele e nemica, appare, ad uno studio attento, come il risultato di uno svolgimento logico assolutamente inevitabile, ma non muta di una linea sola l’edificio teoretico leopardiano. Che la Natura sia buona o cattiva, materna o nemica non importa nulla (tranne qualche particolare e non rilevante articolazione) al destino dell’uomo, anzi di tutti i viventi (la estensione del principio a tutti i viventi, il pessimismo cosmico è uno svolgimento quantitativo e non un mutamento di interpretazione del mondo), e cioè all’affermazione della necessaria infelicità dei viventi ed al dominio del male, come realtà incontrovertibile, l’unica di cui l’esperienza ci impone la certezza; non muta per nulla la gnoseologia leopardiana che
74
resta empiristico-sensistica; non muta la sua etica, che rimane l’etica della ricerca disperata della felicità e dell’egoismo e dell'odio feroce e scambievole tra gli uomini;
non muta la concezione della politica e della società;
non muta il diagramma storico così splendidamente disegnato nella Storia del genere umano. Pure l’umanitarismo, o piuttosto l’apparente umanitarismo degli ultimi anni e consacrato nella Girestra nasce sul fondamento della sua dottrina e non fuori di essa, appare come l’unica forma possibile di liberazione pratica di un tragico destino, ma non muta affatto il senso e la concezione di quel destino, che rimane immutabile anche nel campo dell’etica: è un importante corollario della sua etica pessimistica non l’apertura e l’inizio di una nuova etica. E la ragione è, — e questo è importante per i fini del nost® discorso — che questo interno sviluppo, tormento, logorio si compie tutto in funzione di quell’impianto mentale di tipo settecentesco a cui L. non riuscì mai a sottrarsi. Assumendo le dottrine particolari di quel secolo egli le rimutava ‘ e, come vedremo, ne invertiva la prospettiva, ma quel mutamento lo induceva ad una esasperazione della sua logica, menata sino alla disperazione dello scetticismo, non ad avvisare una logica nuova di cui pur parve sentire talvolta il lontano presentimento e quasi la tentazione. [....] Costituito il sistema, tutto rientra in esso e tutto si conforma sulla sua prospettiva. Questa premessa è fondamentale per evitare sviamenti di interpretazione: cioè per evitare di dichiarare la non appartenenza a L. di motivazioni, proposizioni, principi del Settecento, per il fatto che in lui sembrano denegati, ad evitare di interpretare in maniera indiscreta o troppo ammodernata proposizioni e dottrine che sembravano appartenere all’avvenire ottocentesco e romantico, e che invece o non vi appartengono affatto, o stanno nella mente del L. solo come presagio e segno, sopra un prospettico piano storico, di un nuovo mondo. Al quale però egli rimase sostanzialmente estraneo, pur se quei presagi e fermenti vadano tenuti presenti da chi voglia pervenire ad una conclusiva collocazione storica della personalità del poeta. Così, per cominciare dall’intuizione storica fondamentale dell’età dei lumi, cioè la fede nell’avvento di una nuova età, per essere stato finalmente l’uomo liberato dagli errori e dalle deviazioni impostigli dalla storia, questa intuizione in L. si capovolge: non si tratta più di uno svelamento delle origini naturali dell’uomo per restituirlo — mediante appunto l’opera dei lumi — alla pienezza di quelle origini e dei diritti e della felicità che ne discendono, ma quello svelamento per opera della Ragione è il segno di un decadimento, uno sviamento irreparabile, è la scoperta di una
tÒ)
condizione perduta per sempre e che la filosofia dei lumi ha rivelato nonostante gli inganni pietosi della Natura. È ovvio che in questa prospettiva lo slancio innovativo, la fede escatologica dell’Illuminismo si inaridisce, e i lumi appaiono rischiaratori di un orrido vero, non premessa e promessa di una umanità restaurata nella certezza della felicità. Dunque L. è contro o fuori del Settecento? Un’astratta analisi comparativa potrebbe anche concludere così, e, invece, si tratta del primo caso (e il più cospicuo) dell’assunzione dei motivi settecenteschi dentro la mitografia filosofica leopardiana, di cui conosciamo la natura e il processo. Primo esempio cioè della necessità di interpretare il L. ponendo come primum il suo sistema. Tale posizione risulterà più chiara dal rapido esame degli altri motivi. La posizione empiristica non è in Leopardi orgoglioso rifiuto di un arbitrario innatismo o rifiuto di un altrettanto arbitrario platonismo per la fondazione di una scienza sospesa e confidata tutta alle forze mentali dell’uomo, ma diventa condizione propedeutica per la scoperta di quel vero, che è la definitiva condanna dell’uomo. Così L. sta tutto dentro l’empirismo settecentesco e lo denega e lo dispregia: ma non perché si sia collocato in una condizione speculativa diversa o superiore, sibbene perché anche la dotttina della conoscenza,
oramai inserita nel circolo del
suo pensiero, gli serve come alimento illuminante della sua tristissima mitologia filosofica. [...] C'è tutta una zona del pensiero italiano tra Settecento ed Ottocento, anzi dei primi decenni dell'Ottocento, che reagisce in maniera valida e spesso originale, non solo sul piano teorico ma anche su quello della cultura e del movimento delle idee, al nuovo pensiero germanico e più precisamente al criticismo (l’hegelismo si diffonderà alquanto più tardi, tra il terzo e il quarto decennio del secolo). È la zona culturale che occorrerà percorrere e approfondire attentamente se vorremo intendere l’ufficio, il significato e il carattere del Romanticismo italiano e la sua funzione mediatrice tra la nuova cultura germanica e la vecchia cultura d’Occidente di origine rinascimentale” sostanzialmente italo-francese. È la cultura che sull'impianto illuministico e sulla tenacissima tradizione rinascimentale tipicamente italiana, reagisce al nuovo razionalismo non proprio rifiutandolo, ma trapiantandolo e adattandolo alla situazione culturale italiana ancora resistente ed autonoma; la cultura filosofica dei Gioia, dei Romagnosi, dei Bianchi, dei Soave e di molti altri minori, che culminerà poi, o meglio sarà superata definitivamente, da Gioberti e Rosmini da un lato e da Gal76
luppi dall’altro. Orbene a questo mondo, che poteva essere il suo mondo, quello che veniva a patti con la nuova cultura europea, dopo l’Iluminismo, Leopardi rimane assolutamente estraneo. E non si tratta neppure questa volta di scarsa informazione (Leopardi tra il 1825 e il 1833 vive tra Milano, Bologna, Firenze e Roma, cioè a contatto con la più alta cultura italiana) o peggio ancora di pigrizia intellettuale, ipotesi del tutto inammissibile quando si parla di Leopardi, ma di una sostanziale estraneità del nuovo movimento rispetto alle idee del suo saldissimo sistezza, e allo scavo che il poeta conduceva dentro di esso e solo dentro di esso [....]. E invece egli guardava e satireggiava i riflessi — assai modesti in verità —
della filosofia francese (anche questa volta francese!) della Re-
staurazione, i frutti di quella cultura che A. Omodeo ha studiato così profondamente, la cultura dei Bonald, dei Lamennais, dei De Maistre, degli Chateaubriand, che, sia detto anche questa volta senz’alcuna irriverenza, attardati come lui, sostituivano alla filosofia dei lumi l’ottimismo cattolico,
si appropriavano dell’idea del progresso inserendola in una sorta di teofania originaria, immaginavano l’umanità primitivamente felice e già con tutti i doni derivanti dalla società e poi decaduta per il peccato dell’uomo: un disegno che poteva persino soddisfare il L., se non fosse che era messo come prodromo del nuovo avvento della società felice, delle magnifiche sorti e progressive.
A questi sogni teologici — gli unici che lo interessassero veramente — L. opponeva il suo millenarismo e la sua concezione escatologica della filosofia dei lumi. Sono questi due punti di fondamentale importanza per la comprensione del Leopardi e sui quali è necessario richiamare francamente l’attenzione degli studiosi. L'atteggiamento del Leopardi verso la filosofia dei lumi pare e non è contraddittorio: è una specie di 4770 ef odi che a prima vista sembra irresolubile e non è. In realtà, in tutto lo Zibaldore, e, quel che è più importante, sino alle ultime testimonianze, quali quelle contenute nei Paralipomeni, l'atteggiamento del L. verso la filosofia dei lumi è estremamente coerente. Egli la odia come rivelatrice e depositaria di quel vero, che oramai ha distrutto irreparabilmente le illusioni ed ha svelata la necessaria infelicità dell’uomo: ma proprio perché essa — e solo essa — ha scoperto il vero, cioè il vero assoluto e l’unico vero possibile, al Leopardi si presenta, sul piano teoretico, come la filosofia della verità, come l’ultima e migliore filosofia possibile, una filosofia come momento di una rivelazione, una filoTH
sofia terminale ed escatologica, di una tragica escatologia, ma ormai valida per sempre. [....] | La riprova estremamente eloquente di questa posizione leopardiana è l’atteggiamento del poeta di fronte alla nuova filosofia tedesca, e cioè al criticismo kantiano. Anche qui l’atteggiamento generale è piuttosto che di confutazione e di rifiuto, di indifferenza. Anche qui egli non conobbe quella filosofia non perché ignorasse la lingua tedesca, e non perché non avesse tempo o mancasse di vigilanza intellettuale, ma semplicemente perché quella filosofia, dato il suo impianto mentale, non poteva offrirgli nulla ed era un po’ la filosofia di attardati metafisici: attardati, s'intende, rispetto ai pensatori francesi del Settecento, e, in genere, alla filosofia dei lumi. [....] Orbene Kant è per L. l’ultimo tedesco inventore di [...] poemi metafisici, con questo, che la sua metafisica è così astratta che forse neppure i suoi discepoli riusciranno ad intenderla (Zib. I, p. 1180; II, p. 1138). C'è una nota al Discorso sui costumi degli Italiani (Poesie e Prose, ed. Flora, II, pp. 551-589) che fu composto tra il 1822 e il 1824 (il piccolo problema cronologico andrà affrontato perché in questa prospettiva ha ormai la sua importanza) che è a questo riguardo illuminante. L’Italia, nazione più sensibile e viva e aperta al conforto delle illusioni, è ora — dopo l’avvento dell’età del vero — la nazione più insensibile e perciò più naturalmente filosofica (cioè conformata alla filosofia geometrica moderna), ed è perciò di fatto priva di poesia e di letteratura. Invece i popoli nordici conservano la possibilità delle illusioni e le pratiche religiose: per esempio, nei tedeschi e nei settentrionali in genere, quelle pratiche « sanno affatto d’antico, e niente di moderno, e paiono incompatibili co” tempi nostri e quasi innesti di antichità in essi tempi ». [...] I sistemi che la filosofia moderna, quella vera e geometrica, ha definitivamente bandito, sono dunque come « romanzi d’opinione »: costru-
zioni fantastiche a dimostrazione di alcune opizioni, cioè di credenze personali ed arbitrarie,
e non fondate sull’esame del reale, col metodo della
filosofia esatta e geometrica moderna. Sicché accade che «i più pazienti' ed assidui osservatori, che sono senza fallo i tedeschi, i più studiosi ed applicati ad imparare e informarsi, sono per una curiosa contradizione i più romanzeschi ». « In Germania e in parte anche in Inghilterra v’ha continuamente sistemi e romanzi [le due parole sono usate ormai quasi sinonimicamente] in ogni letteratura, in filosofia qualunque [vuol dire in ogni indirizzo e aspetto della filosofia], in politica, in istoria, in critica,
78
in ogni parte di filologia, fino nelle grammatiche, massime di lingue antiche » (ibid.). Le pretese
sistematiche
o, meglio, sette filosofiche: steriosi o fontastici:
comportano
altresì la formazione
di scuole,
quasi accolita di iniziati, di fedeli di riti mi-
« Da gran tempo
[e cioè da due secoli, da Locke in
poi] non esiste in Europa alcuna setta né scuola particolare di una tal filosofia, molto meno metafisica, fuorché in Germania negli ultimissimi tempi, e credo ancor oggi, la setta e scuola, appunto metafisica, di Kant, suddivisa ancora in diverse sette, e prima di Kant quella di Wolf ». È questa dunque l’idea che L. si è fatta della filosofia critica: cioè appunto
di una filosofia non critica ma d’opinione, non condotta sull’esame della realtà, ma tratta e dedotta da fantasie speculative astratte, quel che egli chiama metafisica. [....] MARIO
SANSONE *
* M. Sansone, Leopardi e la filosofia del Settecento, in Leopardî e il Settecento, Atti del 1° Convegno Internazionale di Studi Leopardiani, Firenze, Olschki, 1964, pp. 135-38, 143-46, 152, 160-64.
ne
I MOMENTI
DEL TITANISMO
Nel brano sopra riportato del Salvatorelli si fa riferimento al titanismo leopardiano come a fatto prevalentemente culturale (di ascendenza alfieriana e, più a monte,
classicistica).
Ci è sembrato
utile proporre,
qui,
sullo stesso problema, un discorso un po’ più ampio, attraverso il quale l'atteggiamento « titanico » del Leopardi appaia articolato nelle sue diverse fasi, e posto in relazione con le diverse esperienze che lo mossero. Il saggio del Bosco è molto utile in questo senso:
anche il Timpanaro per discuterne motivi di ulteriore riflessione.
ad esso si rivolse, d’altra parte,
alcuni
punti, ma
anche
per trarne
Che il titanismo sia componente essenziale della spiritualità del Leopardi, è cosa da qualche tempo così certa, che sta per diventare ovvia. Resta però da determinare l’essenza specifica del titanismo leopardiano [....]. Per la sua prima canzone egli parte da una tipica posizione titanica: Oimé
quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? [...]
al cielo
A rigore, non si può parlare ancora di titanismo romantico, se essen-
ziale caratteristica di questo è la coscienza dell’ineluttabilità della sconfitta, se per esso l’unico fine della battaglia è nella battaglia stessa. Siamo piuttosto ancora in una zona alfieriana: al titanismo dell’Alfieri — per
«protoromantico che egli sia stato — manca infatti la coscienza di quella ineluttabilità. E siamo ancora nel campo dell’azione:
si tratta di agire,
di trascinare
concreti
contro
80
uomini
all’azione, di combattere
« tiranni ». [...]
contro
obiettivi,
Lo sdegno del primo Leopardi è contro la codardia (questa parola è una significativa costante di tutto il Leopardi) dei suoi contemporanei, contro il loro esser paghi della mediocrità; l’impeto della sua ammirazione va verso l’uomo che, solo, ardisce porsi contro i mediocri e i vili,
anche se son essi che fanno l’attuale miseranda storia. Anche per il Leopardi, come per l’Alfieri, la solitudine è la condanna dell’uomo superiore, e insieme il segno della sua superiorità, la ragione stessa della sua gloria. Sempre alfierianamente, egli concepisce lo scrivere come un’azione e un dovere; mediante la sua opera, lo scrittore deve agire sui suoi contemporanei. Scriveva nella dedica al conte Leonardo Trissino della sua canzone al Mai: « ... Diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l’ingegno a dilettare colle parole, giacché la fortuna ci toglie il giovare co’ fatti com’era usanza di qualunque de’ nostri maggiori volse l’animo alla gloria » [...]. Ma presto l’operare, e anche quindi quel suo operare scrivendo, gli si paleserà vano. [...] Il secondo momento del titanismo leopardiano, che ha la sua massima espressione nella canzone su Bruto, parte dunque da questa nuova concezione della virtù come di una « larva » [...]. La canzone è stata ben
definita la « tragedia dell’isolamento »: ma quella di Bruto non è più la solitudine dell’eroe che s’aderge di su una moltitudine di codardi, che scorge una mèta che gli altri ignorano, perché s’acquetano alla meschinità della vita comune e bassa; ma è la solitudine interna dell’uomo che non vede alcuna mèta, e quella già perseguita riconosce come un’illusione;
la solitudine, appunto, di chi si accorge di aver combattuto per una parola, non per una cosa salda. [...] Proprio per questo, il Leopardi si riconoscerà sempre in Bruto. Scriverà al De Sinner il 24 maggio 1832: « Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j'ai exprimés dans Bruto minore. C'à été par suite de ce méme courage, qu’étant amené par mes recherches è une phylosophie désespérante, je n’ai pas hésité à l’embrasser toute entière » (Epist., VI, p. 178). Qui è colto dal Leopardi stesso il passaggio dall’uno all’altro coraggio, e insieme la loro sostanziale identità. Le Operette morali, e specialmente le prime venti di esse, composte come si sa tutte nel 1824, possono essere considerate frutto poetico di questo coraggio intellettuale, espressione del titanismo del pensiero, a cui accennavamo, in un suo particolare momento. [...] Qui il suo titanismo è per così dire raccolto, schivo di esibirsi; il convincimento è così totale, 81
che rifiuta anche lo sfogo della maledizione. Si esprime soprattutto nella fermezza e lucidità dello stile, in cui si riflette un fermo e lucido coraggio; la persuasione, così profondamente negativa che sembrerebbe non poter essere espressa che con un grido lirico o, nel campo biografico, con un disperato gesto, è pacatamente ragionata. [...]
Da questo stato il Leopardi « risorgerà » nel 1828 [...]. E la breve felice stagione dei grandi Idilli. Nei quali senza dubbio altri spiriti, altri toni sentimentali e stilistici (i quali, d’altra parte, come vedremo, sono propri e caratterizzanti di tutto il Leopardi e non solo del poeta di quel biennio) hanno di gran lunga la prevalenza sui titanici [...]. Ma anche quel Pastore errante che non disprezza e non schernisce gli altri uomini, ma si accomuna
a essi; che insomma
è vittima, non
vendicatore
e ram-
pognatore: anche il pastore non rinuncia a porsi le tremende domande, pur sapendo di non poter dare loro risposta; non piega, non s’illude, non cerca conforti chiudendo gli occhi alla realtà [...] e in sostanza com-
batte anche lui, come può, riaffermando sbigottito e sconsolato l’incomprensibilità della legge di dolore che governa la vita. Ma oltre il biennio dei grandi Idi/li, riappare il titano folgorante di prima: non più, s'intende, combattente per la patria e per risvegliare dal l'inerzia i suoi simili, non più neppure inflessibilmente fedele a una credenza che per essere erronea non cessa d’essere magnanima; ma sempre indomito
lottatore contro
la « ferrata
necessità » [...].
Ma c’è da fare un’altra considerazione [...]. Appena apriamo i Canti del Leopardi ci accorgiamo che [...] l'oggetto della poesia trascende costantemente i limiti della personalità del poeta, anche quando apparentemente il tema non è che la rappresentazione lirica d’una personale situazione o d’un personale stato d’animo. Anche quando canta direttamente sé stesso, la sua infelicità, il Leopardi contempla in sé medesimo gli altri, l’infelicità di tutti. Né potrebbe essere diversamente. La propria infelicità egli non 'a considera come effetto di determinati eventi e situazioni, ma come costituzionale, necessaria, perpetua; essa non è propria a lui solo, ma comune a tutti. Se considera determinate creature (e lui stesso) è perché esse sono esemplari di tale perpetua e universale infelicità: lui stesso più degli altri, in quanto egli è la testimonianza a lui naturalmente più vicina, controllabile, e pertanto incontrovertibile, dell’idea che egli si è fatta della sorte degli uomini, anzi di tutti gli esserti. « In nessun modo — dice nell’Ottonieri — si rappresentano o discorrono con maggior verità ed efficacia le 82
cose altrui, che favellando delle proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, in quel che dipende dalla sorte; e che le cose umane, a considerarle in se stesso, si veggono molto meglio e con maggior sentimento che negli altri ». [....] Contrariamente alla tradizionale opinione di origine romantica, la poesia degli ultimi versi delle Ricordanze, quelli di Nerina, pur alti, non sono pari per purezza ai precedenti, non sono esenti da qualche traccia d’enfasi: e ciò avviene appunto quando la rimembranza della dolce e tradita giovinezza si concreta in una determinata figura e, più, in una determinata vicenda di morte. Silvia, pur poeticamente configurata in una precisa personalità, riflette in sé ed esprime una sorte comune che trascende quella personalità: la figurazione di Nerina, pur sulla stessa linea, non è così profonda, perché ha in sé qualcosa di biografico; ella è un po’ « personaggio ». E il Leopardi non può, come abbiamo detto, creare personaggi, cioè figure che abbiano solo in sé stesse e nelle loro personali vicende la loro ragion d’essere, ma crea lievi, fuggevoli figure che riflettono la ragion d’essere, cioè di soffrire, di tutti. UMBERTO Bosco *
* U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1957, PISO LIS: 1401749 51:
83
I DUE MODI
DI GIUDICARE LA RAGIONE
Dalla introduzione del Calcaterra ai Canti estraiamo il brano dedicato all'esame di quelle contraddizioni che lo stesso Calcaterra definisce « il nodo della vita interiore di G. Leopardi ». L'interesse del brano è appunto qui: nella individuazione di questo « nodo » e, soprattutto, di una linea di pensiero e di sensibilità, che, dipanandosi da esso, porta dal « taediurm vitae » alla fede nella « virtù indomita ».
Non vi è contrapposizione tra le prose delle Operette morali, che, come l’Elogio degli uccelli, lodano la natura, provvidente e sapiente, perché ha sparso « la terra e l’aria di animali, che tutto dì, mettendo voci di gioia risonanti e solenni, quasi applaudissero alla vita universale, e incitassero gli altri viventi ad allegrezza, facendo continue testimonianze, ancorché false, della felicità delle cose », allietano gli animi, e le altre, che, come il Dialogo della Natura e di un Islandese, la dicono « nemica scoperta degli uomini e degli altri animali », « carnefice della sua propria famiglia », «un perpetuo circolo di produzione e distruzione », ignaro della « felicità o infelicità degli uomini » e « degli altri animali e di ogni creatura ». La medesima considerazione vale pei canti, nei quali la natura ora è detta « vaga », « saggia », « santa », « altrice », « onnipossente », €
ora « il brutto poter che, ascoso; a comun danno impera », « dura nutrice », « empia madre », « illaudabil maraviglia, che per uccider partorisce e nutre ». La natura è provvida e sapiente in quanto ha dato all’uomo le immaginazioni e le illusioni, che coprono lo squallore e la miseria del vero; appare matrigna crudele, quando, svanita ogni illusione, si disvela all'uomo la realtà dolorosa, a cui è condannato, e quindi egli capisce di non esser se non uno zimbello della natura, che lo tiene a bada con le immaginazioni.. Così si dica del duplice atteggiamento, che molti hanno osservato 84
nel Leopardi, rispetto alla ragione, da lui per lo più maledetta come disvelatrice del nostro verace modo di essere, come « fonte velenosa alla vita », come « carnefice del genere umano », e, in ultima analisi, da lui riconosciuta come « il lume » che « fe’ palese il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci die’ », e rende quindi spregevole il volgere « addietro i passi ». I due modi di giudicare la ragione coesistono negli scritti leopardiani perché coesistono nella nostra condizione. La ragione è una nemica come distruttrice della « felicità a noi destinata dalla natura », cioè
come distruttrice delle immaginazioni; è utile al pensiero, perché lo conduce alla scoperta e alla cognizione della nostra vera condizione, vale a dire che siamo sempre in balìa di illusioni: « Pare un assurdo, esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v'è reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni » [Zib., 99, Per questa via giunse il Leopardi alla suprema disperazione
e pure è altro di 3]. (intendi:
privazione di ogni speranza) ed entro ad essa al tedio della vita, al fastidio di esistere, di cui non può esservi sventura più grave » [....].
Fntro quell’'immenso vuoto germina la noia leopardiana. « Or che cosa è la noia? Niun male né dolore particolare (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente
sentita, provata, conosciuta,
pienamente
presente all’individuo, ed occupantelo ». Di quale vita parla egli in questo punto? Della vita svuotata di ogni illusione, riguardata nella sua vanità, per cui « il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione, è semplicemente
un bene, o un minor
male » [ivi, 4043];
della
vita, in cui il dolore stesso e la disperazione non sono altro che nulla: « Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un véto universale e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi » [ivi, 72, 5]. È il lamento estremo del Canto notturno d'un pastore errante E. l’Asia: e tutto rimane sospeso nel vuoto innanzi all’animo che ripete l’antico ammonimento biblico: « È funesto a chi nasce il dì natale ». [...] Il pensiero ultimo, a cui egli giunse, è l’identificazione della morte con la non esistenza: e il non più esistere riguardò come il bene supremo. Eppure quella vuota tenebra dell’inesistenza [...] rende più vive e 85
vitali le illusioni, che entro l’anima si coloriranno come
realtà indefetti-
bile, fin che l’uomo dia il suo fiore in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome.
‘Vana ogni virtù? Sì, può parer tale agli occhi dei mortali, ai quali il dolore fa increscere la vita; ma essa, in ultima analisi, nel cuore del ‘« prode », « di cedere inesperto », acquista un valore più eroico, perché, ridotta a essere soltanto atto di fortezza morale, splende per se stessa su «i casi acerbi e gl’infelici affetti », come luce intima che rivela l’anima superiore alla morte stessa. Inutile la gloria e « simile all'ombra, che, quando tu l’abbi tra le mani, non puoi né sentirla, né fermarla che non si fugga »?. Sì; ma quella sembianza, sebbene illusoria, è pur segno che qualche cosa di noi può vivere alcuni istanti e dare un bene, « quantunque piccolo e incerto ». Perciò piuttosto che giacere in ozio e trapassare inetti, giova seguire « con animo forte e grande il nostro fato, dove che egli ci tragga »: « la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù e di quelli che ti somigliano », cioè agli uomini d’ingegno e di volontà risoluta. Giova sopra tutto nella comune miseria rafforzar con un vincolo d’amore « l’umana compagnia », sì che negli alterni perigli e nelle angosce della guerra contro le forze nemiche della natura ognuno porga e riceva valido e pronto aiuto. Chi nuoce al proprio simile, rivolge l’arma contro se stesso. [...] Questa risolutezza, che dalla più desolata miseria terrena si proietta come eroica libertà morale nell’infinito, finisce col dare alla virtù indomita e disinteressata un valore che le premesse negatrici, a tutta prima, noa sembrerebbero lasciar intravedere. Come la poesia nel Leopardi, [...] così nel suo mondo morale la virtù, per opera dell’« animo forte e grande », rifulge da ultimo più pura e bella, quantunque, a chi la veda « nella polve », possa apparire vana e stolta. CARLO
* G. LEoPARDI, Canti, con intr. e commento 1952, pp. XVIII-XX, XXVI-XXVII.
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CALCATERRA *
di C. Calcaterra, Milano,
S.E.I.,
I « MITI
INTELLETTUALI » DEL
LEOPARDI
Il Battaglia si interessò a varie riprese, ed a diversi livelli, di problemi leopardiani, ma particolarmente significative risultano le pagine da lui dedicate al Leopardi in Mitografia del personaggio e le riflessioni contenute nel suo studio sulla Ideologia letteraria di G. Leopardi, da cui trarremo più di uno spunto (entrambi i volumi apparvero nel 1968). Egli da una parte sottolinea la modernità dell’uomo e del poeta, dall’altra analizza l'ideologia leopardiana nella sua profonda consequenzialità e nei suoi legami con la cultura europea dell’ultimo Settecento. Gli studi del Battaglia hanno inoltre, come elemento caratterizzante, la ricostruzione — quanto più possibile organica e, comunque, documentatissima — dell’ideologia leopardiana attraverso la ricerca delle fonti e l’utilizzazione degli appunti dello Zibaldone. Si tratta di un’operazione non solo legittima, ma di notevole portata sul piano metodologico e largamente positiva sul piano dei risultati: essa è considerata, ormai, uno strumento critico d'importanza fondamentale per chiunque voglia penetrare il senso della complessa ma coerentissima esperienza culturale, artistica ed umana del Leopardi.
Il nucleo centrale della meditazione lirica di Giacomo Leopardi è il tema della felicità. L’alternativa dei suoi toni costituisce il ritmo dei Canti. Questa ricerca di felicità, che il più delle volte approda al deserto della disperazione, ma che conosce la tenerezza della nostalgia e gli abbandoni dell’idillio, segna di passione e di lotta, di rassegnazione e rivolta, d’illusione e disincanto, il « canzoniere » più moderno della letteratura italiana. E per quanto i valori lirici appartengano in proprio all’esperienza leopardiana, cioè discendano dalla più intrinseca situazione spirituale del poeta, è anche vero che la tematica della felicitàe infelicità dell’esistenza, rispetto al destino più personale dell’uomo e ai suoi rapporti con il mondo 87
e con la realtà, giunge alla coscienza del Leopardi dalla più tipica cultura del Settecento. Non averne tenuto il debito conto ha contribuito a gene rare qualche grave incertezza nell’interpretazione della personalità leopardiana e nella stessa valutazione critica dei Canti. [....] Non si sottrae nulla all’originalità della poesia leopardiana ricollegandone i contenuti e le premesse ideologiche a una tradizione letteraria e speculativa di generosa elaborazione. Ma è su questa traccia che l’intervento di Leopardi risulterà più concreto e più storicamente definito, come « voce del secolo » e interpretazione di una crisi ch'era tanto del poeta quanto dell’umanità contemporanea. Né può dirsi ancora superata e nemmeno risolta. Il Settecento, specie con Gian Giacomo
Rousseau,
aveva
collocato
la ricerca della felicità in una prospettiva più generale, in cui rimaneva investita la stessa realtà della storia e della società. I termini con cui si presentava il quesito alla mente del Rousseau e degli Enciclopedisti comportavano una dialettica assai più articolata entro la quale il miraggio della felicità stava in funzione dei concetti di natura e di civiltà. Sono questi, peraltro, i temi costanti della riflessione leopardiana, sia nei Canti e sia nelle Operette morali e nello Zibaldone (anche nell’epistolario). Partendo dal Rousseau e dai « filosofi » illuministi, il Leopardi s’era approntato un sistema di argomenti, di opposizioni e correlazioni, in cui la vicenda di felicità e infelicità s’integrava nel rapporto tra individuo e storia, tra l’ingenuità originaria e il progressivo razionalismo dei tempi moderni, tra la natura primigenia e il sapere in perenne crescita, in ultima analisi, tra la libertà dell’immaginazione e la necessità scientifica e sociale. Sono questi i miti intellettuali a cui Leopardi vincola gli ormeggi della poesia, dopo che li ha macerati in una lunga intensa estenuante meditazione. [....] La trama del pensiero leopardiano corre su due ordini di concetti o motivi. Per un verso: la natura, il sentimento, la ragione; e, per l’altro, la letteratura, la poesia, la scienza, con il corteo di temi correlativi, quali la tradizione, il progresso, la decadenza o corruzione della civiltà, la felicità
e infelicità dell’uomo, e soprattutto il mondo sgomento delle illusioni. Si tratta delle maggiori componenti della cultura del primo Ottocento, e più precisamente dei miti intellettuali comuni all’Illuminismo e al Romanticismo, che alla nozione di Leopardi provenivano da varie direzioni, ma in prevalenza dal Settecento francese, da lui studiato con tenace applicazione. [...] Il concetto di matura è fondamentale per capire la struttura 88
mentale del Leopardi e i motivi della sua lirica [...]. Mentre in un primo
tempo l’idea di natura costituì per Leopardi una specie di rifugio e di fede, poiché ad essa egli affidava la vita del sentimento, dell’innocenza, della verità, e pertanto anche della felicità umana, con gli anni e con la desolata esperienza che si traduceva nei « canti », la natura assunse per lui le sembianze di un mostro, fu la spietata e implacabile matrigna. Si può dire che in questa parabola è racchiuso il dramma leopardiano. Ma è anche vero che il suo mitizzamento era stato elaborato dal Rousseau, il quale, anche lui, non si sottrasse a qualche grave antinomia, contribuendo per la sua parte a stabilire a proposito del concetto di natura più d’un equivoco. [....] Era evidente che la formazione della « società » non si sarebbe mai potuta eliminare, e che non era possibile ritornare allo stato selvaggio e primitivo dell’uomo vagante e ignaro. Il Rousseau, pertanto, svolgeva il concetto di una natura che ammetteva in se stessa, per processo « spontaneo », questa evoluzione dell’umano in senso sociale. Non solo: ma ora lo
scrittore veniva ad ammettere che era stata la cultura a distinguere l’egsere intelligente dal novero delle bestie. E perciò non era possibile cancellarla dalla storia. Cultura e civiltà coincidono. Non solo, ma anche la struttura sociale non può concepirsi assolutamente livellata.-[...] Come si vede il concetto che Rousseau elabora della natura è duplice. Si potrebbe dire che inizialmente appartiene a una concezione anarchica (l’uomo e la sua natura si salvano al di fuori della società e della storia,
col ripudio totale della civiltà e della scienza) e strada facendo si avvicina al sistema comunista
(con l’inserimento
dell’uomo
di natura
dentro una
società organizzata e pertanto con il recupero di tutta l’esperienza storica e intellettuale). Non c'è dubbio che in questo sviluppo del concetto di natura, il Rousseau opera una evoluzione dall’esterno verso l’interno, dal mito verso la realtà. Ora, cioè, si tratta di riportare non più l’uomo allo
stato primitivo e selvaggio delle sue origini adamitiche, ma di ridestario al problema della consapevolezza storico-sociale, etico-giuridica. Cioè, dalla « natura » alla « coscienza ». Lo stato di natura si fa stato di coscienza. S’intende, perciò, che l’itinerario da seguire è alla fine inverso. Cioè non si tratta di restituire l’uomo alla natura abolendo ogni forma di socialità e di riflessione, come sembrava dichiarare lo scrittore nel primo e nel secondo « Discorso », ma si tratta di recuperare i valori della natura, che sono la libertà e la dignità dell’uomo. E, pertanto, è necessaria la sua educazione individuale, che sia capace di prepararlo alla vita della « co89
scienza ». Questo compito il Rousseau l’ha sviluppato nella sua celebre opera pedagogica dell’« Emilio ». [...] Con quest'opera il Rousseau riconduceva la vita dei « sentimenti » nell’ambito e nel controllo della « ragione », sicché alla fine l’educazione del giovane alla vita sociale e politica si risolve in questa conciliazione e collaborazione alla pari del sentimento, inteso come motore unico del vivere e della natura umana, e della ragione, principio d’ordine universale sl] L’opera del filosofo, dell’educatore e del legislatore consisterà appunto nel ripristino di una realtà che è stata deformata e adulterata dal l’erronea azione della civiltà. Il Rousseau, insomma, put evolvendo il proprio concetto di natura e il rapporto tra l’uomo e la società, non rinunziò ai motivi di decadenza, corruzione, traviamento eccetera, ch’egli osservava nella realtà contemporanea, intesi tutti come tradimento del
sentimento di natura. Se, ora, a questo vestibolo del pensiero roussoiano accostiamo il mofido più segreto dell’uomo e dello scrittore delle « Confessioni » e della « Nuova Eloisa », avremo un quadro più complesso e più mosso della sua sensibilità. I fermenti antilluministici che pur si avanzano in seno al suo razionalismo settecentesco, sembrano esplodere in queste altre opere, e annunciano esplicitamente i motivi romantici che costituiscono e integrano
la sua personalità e lo fanno lo scrittore più moderno del Settecento. [....] Tutti questi lieviti e fermenti, comprese le contraddizioni e le incertezze che l’accompagnano, stimolavano la cultura e la sensibilità del secondo Settecento e si consertavano alle nuove dottrine romantiche, che sorprendevano la giovinezza leopardiana e la sollecitavano in più d’una direzione. Non è, certo, il solo Rousseau che troviamo a fondamento della cultura del Leopardi, ma la sua influenza può essere assunta con valore emblematico, come quella che implicava una molteplicità di indirizzi e di tendenze e forniva alla sensibilità intellettuale del Leopardi una pluralità di motivi e una prospettiva di « miti » mentali allo stato di lievitazione e fermentazione. La verità è che nel pensiero roussoiano coabitano i principi dell’ottimismo e del pessimismo, della fede e della sfiducia, dell’ordine e della rivolta, della disciplina e della anarchia. Gran parte del pessimismo leopardiano si nutre di letture roussoiane, anche se i risultati a cui pervenivano o miravano le sintesi dello scrittore francese non coincidessero con gli esiti finali della meditazione leopardiana. Per esempio, il principio dell’uomo di natura che è portato spontaneamente all’amore 90
di sé, che equivale all’amore di esistere, e che la società glielo contende, gettando l’individuo nella delusione e nella disperazione, è accolto dal Leopardi in tutta la sua drammacità. Si veda la pagina dello Zibaldone inclusa’ nei primi capitoli, che appunto riprende le formule dell’autore francese: « Com'è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura ». Questo problema della « felicità » che è essenziale per Leopardi e la sua poesia, costituiva il tema più costante della meditazione settecentesca e stava appunto alla base della costruzione roussoiana. Così Leopardi continua: « Ma pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente, dopo poco tempo, cadere in preda a questa scontentezza. Io credo che nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo modo esser felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi né singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata, insomma come sono
felici le bestie quando non hanno sventure accidentali. Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il volto delle cose e illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali, del che non dovevamo neppur sospettare: « Tout homme qui pense est un étre corrompu », dice il Rousseau, e noi siamo già tali ». Il richiamo al Rousseau si conserta con quello a Goethe del « Werther ». E l’opera del grande scrittore tedesco (« I dolori del giovane Werther », del 1774)*non c’è dubbio che respiri il clima roussoiano, in particolare il mondo sentimentale della « Nuova Eloisa »: « E pure vediamo che questi piccoli diletti nonostante che noi viviamo già guasti, pur ci appagano meglio che qualunque altro, come dice Werther,.e
vediamo
il minore
scontento
dei contadini, ignoranti,
ecc.
(quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei grandi. E l’esser uomo buono per natura,
e guastarsi necessariamente
nella società, può servir.di prova a
questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, e che l’istinto si vien perdendo a proporzione che la naturaè alterata dall’arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, pic-
colo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l’uomo sia fatto per l’arte ecc., giacché la natura gli aveva dato quegl’istinti ch’egli perde ecc. ».
Zi
Questa relazione che sollecitiamo tra il pensiero di Rousseau e la sua trasmissione settecentesca fino alla formazione intelletuale di Leopardi, ci può valere per sgombrare il terreno da una pregiudiziale, che persuaderebbe a vedere nella riflessione dello scrittore italiano (specie nello Zibaldone, che è l’opera da cui noi citeremo
sistematicamente)
una perpetua
contraddizione e, insieme, una scarsa sistematicità logica, quando, appunto, l’una e l’altra gli derivano in massima parte dalla tradizione mentale del Settecento e dagli autori a cui lui s’era educato, compreso il Rousseau. Per valutare il pensiero del Leopardi, che per definizione ha sempre rifuggito dal sistema pur aspirando a una sua coerenza e organicità, bisogna tener ferma questa prospettiva della riflessione critica del Settecento, oscillante tra costruzioni utopistiche e applicazioni pratiche, fra teoresi ed empirismo, con la inevitabile frantumazione del pensiero e le ineliminabili contraddizioni e perplessità che la cimentano. Ma è anche vero che nessun’altra situazione culturale e psichica ha saputo sprigionare tanta drammaticità di pensiero e di sentimento come l’esperienza mentale che va da Rousseau a Leopardi. SALVATORE
*.S. BATTAGLIA, pp. 5-7, 15-16, 18-25.
52
L'ideologia
letteraria di G. Leopardi,
BATTAGLIA *
Napoli,
Liguori,
1968,
MANZONI
E LEOPARDI
Punto d’arrivo della lunga meditazione leopardiana del Sapegno è senza dubbio il saggio che al poeta recanatese egli ha dedicato nella Storia della letteratura italiana della Garzanti, del quale riportiamo qui un
brano .piuttosto
breve, ma
molto
ricco ed intenso.
In esso, infatti,
da una parte il Sapegno chiarisce il complesso rapporto — e segna le effettive distanze — tra l’esperienza socio-culturale del Leopardi e quella del suo grande contemporaneo, il Manzoni; dall’altra, prendendo lo spunto: proprio da questa incolmabile distanza (e dalla incompresione che ne derivò da parte degli ambienti cattolici nei confronti della problematica leopardiana) traccia un panorama « ab origine » della discussione critica sul Leopardi e soprattutto dei limiti che, di volta in volta, essa ha rivelato. Questo brano si presenta perciò anche come un bilancio della più recente critica leopardiana, ed è interessante notare come il Sapegno chiarisca qui la propria posizione nei confronti di critici quali il Binni ed il Timpanaro, che hanno certo contribuito in modo determinante alla « rivalutazione del pensiero leopardiano, illuminato nella sua genesi e sentito finalmente in tutta la sua portata storica », ma le cui intuizioni non possono essere schematizzate e chiuse in sistemi senza che si corra il rischio di rinunciare alla ricerca ed alla formulazione di un « giudizio non puramente polemico, ma storico, e cioè articolato e capace di riflettere tutte le sfumature, e magari le contraddizioni di un’esperienza reale ».
Nei primi decenni del secolo x1x — nel periodo che intercorre tra la fine dell'avventura napoleonica e le prime avvisaglie della rivoluzione nazionale borghese — la civiltà letteraria italiana si libera d’un tratto dai ceppi della sua angustia provinciale e accademica, per opera di due scrittori, Manzoni e Leopardi, e torna a innalzarsi a un livello europeo e universale. Di questi due scrittori pari è la statura mentale e morale, nonché la grandezza poetica, che si misura dall’ampiezza e dall’intensità 93
della prospettiva culturale, dall’adesione lucida e consapevole a tutti i pro-
blemi, ai sentimenti e alle ideologie del mondo contemporaneo; diversissimo il destino e la fortuna immediata, e ancor più diversi, quasi opposti, gli approdi, il contenuto del messaggio civile e ideale, la scelta dei mezzi e degli indirizzi artistici.
Il momento culminante della loro esperienza matura pressoché contemporaneamente e si esaurisce per entrambi nel giro di un ventennio all’iacitca; con lieve anticipo nel Manzoni, più vecchio di ventidue anni, fra il 1812 e il ’30; poco più tardi nel Leopardi, fra il ’16 e il ’37; ma senza influssi reciproci e quasi senza contatti. Su uno sfondo storico e culturale sostanzialmente identico, salta all’occhio la radicale dissomiglianza dei temperamenti. Prendono le mosse e l’uno e l’altro da una prima educazione settecentesca, nutrita di letture in prevalenza francesi o francesizzanti, illuministica e sensistica nell’ideologia e classicistica in letteratura, ed entrambi la svolgono e l’oltrepassano assorbendo non superficialmente i suggeri-
menti e gli stimoli della nuova cultura romantica; senonché gli esiti di un tale processo divergono profondamente. Al temperato ma convinto fervore del cattolicesimo liberale del lombardo, che assimila ed elabora originalmente il corso di un vasto movimento filosofico politico e culturale non soltanto italiano, fa riscontro nello scrittore marchigiano la spietata lucidità di un concetto pessimistico che a quell’ifidirizzo generale reagisce con un energico rifiuto; così come alla poesia del primo tendenzialmente oggettiva, sempre più nettamente rivolta al dramma e al racconto, corrisponde nell’altro la tendenza inversa a un’espressione tutta soggettiva, intesa con crescente rigore a tradurre un contenuto universale in moduli di scoperta autobiografia e in forme di assoluta liricità. Giova in parte, a intender meglio queste divergenze, tener presente la diversità delle condizioni ambientali, sociali e familiari. Mentre la Lombardia, che ha attraversato successivamente, nel giro di pochi decenni, le fasi del dispotismo illuminato e riformatore, del sovversivismo rivoluzionario e del regime napoleonico, è allora forse la regione italiana più progredita, la più aperta alle suggestioni e agli esempi dell’Europa moderna, quella dove più risolutamente si attua in un vivace fervore di idee e di opere il trapasso alle strutture e al costume della nuova civiltà borghese; lo Stato pontificio invece, e in particolare la Marca Anconitana, è una delle zone più arretrate, con la sua economia arcaica e stagnante, la sua cultura chiusa archeologica e accademica, la sua vita sociale ancorata alle norme di un sistema di rapporti gerarchici e corporativi in cui si per94
petua un'eredità di costumi ancora per tanta parte medievalee feudale. La prima educazione del Manzoni adolescente si matura dunque in un clima di non comune libertà e spregiudicatezza, a contatto con un ambiente di cultura fervida coraggiosa smaniosa di novità, in ‘una situazione familiare tutt'altro che oppressiva, anzi tale da consentirgli ‘una larga indipendenza di idee e di azioni; quella del Leopardi, al contrario, in un’atmosfera afosa e retriva, in un mondo provinciale con scarse aperture culturali in senso moderno, nel quadro di un rigido sistema domestico che l’opprime con le sue norme severe e cerimoniose. Il Manzoni insomma non ha che da porgersi' docile all'ambiente e assecondarlo: il suo sforzo sarà, se mai, di contenere e affrenare quel primo empito di fervori polemici, di conquistarsi gradualmente una disciplina, un ordine morale: la battaglia che egli combatte prende posto assai presto e naturalmente nel moto progressivo della società borghese impegnata nella lotta risorgimentale, ne riflette gli intenti e ne riscuote il consenso. Il rap porto tra il Leopardi e l’ambiente che lo circonda è quasi subito di rottura, di aperta ed aspra ribellione, contro il peso della famiglia, contro l’« insensataggine e stupidità » del costume locale, contro l’atmosfera ristretta e stagnante della provincia; la direzione del suo sforzo è tutta verso la conquista di una sempre più vasta libertà morale e intellettuale, si matura in uno slancio polemico di estrema violenza, che non verrà mai meno nel corso della sua breve vita, e tenderà anzi sempre più a fissarsi in un complesso di convinzioni oltremodo ardite e urtanti, tali da non consentirgli più che un esiguo margine di affievolite e non di rado sfocate risonanze. L’itinerario del lombardo segue la strada più normale e la più battuta dai migliori fra i contemporanei: dal giacobinismo all’idea di un progresso moderato borghese, dal teismo volteriano al cattolicesimo liberale, dal classicismo pariniano e montiano al cauto romanticismo del « Conciliatore »; quello del marchigliano si muove invece in una direzione pressoché opposta, non che attenuare e restringere il suo primo slancio di ribellione, lo arricchisce via via e lo esaspera, fino a individuare i suoi maggiori bersagli polemici appunto nel pavido liberalismo, nel generico progressismo, nell’equivoco spiritualismo dei romantici.
Nei riguardi dei contemporanei, delle loro soluzioni illusorie e posticce e delle loro facili consolazioni, il sentimento del Leopardi è di profonda e non celata antipatia, del resto quasi universalmente ricambiata. A dar la misura della generale incomprensione che lo circondò mentre 95
visse e assai a lungo dopo la sua morte, stanno non tanto i giudizi pet tegoli di un Tommaseo, o le reticenze di un Manzoni, o le infastidite reazioni dei liberali del gruppo fiorentino (per esempio, del Colletta O) del Capponi), quanto la recisa condanna anche dei critici democratici, come il Mazzini, che non potevano certo accoglierne l’ideologia materialistica e il duro pessimismo. Anche gli spiriti meglio disposti e più aperti al fascino della sua personalità poetica, quali il Gioberti e poi il De Sanctis, riuscivano a superare questo atteggiamento di pura negazione e a formulare anzi giudizi di schietta ammirazione, se pur limitati a talune zone della poesia leopardiana, solo a patto di stabilire un’arbitraria scissione fra il pensiero, riputato arido e falso, e il sentimento, fra l’intelletto e il cuore. Questa disposizione di radicale ripugnanza verso il pensiero del Leopardi, che precludeva ai critici anche il pieno intendimento della poesia, si è protratta a lungo, fino ai giorni nostri, e ha anzi trovato una delle sue espressioni più aspre e crude in un saggio del Croce, fra i più infelici e meno persuasivi che a lui sia accaduto di scrivere (come oggi, del resto, comunemente si ammette). Soprattutto essa ha creato anche alla critica più volenterosa, anche a quella che si sforzava di sottrarsi alle premesse polemiche della mentalità ottocentesca, tutta una serie di remore e di impedimenti. Dall’ostinato rifiuto di un’ideologia, considerata come mero riflesso di un ingorgo del sentimento e della sventura fisica e morale dell’uomo, discendeva di necessità anche una visione statica’ e sfocata della poesia leopardiana, depauperata della sua sostanza polemica e riflessiva, negata nella complessità delle sue strutture discorsive e nella varietà dei suoi svolgimenti, colta con sensibilità frammentistica solo in talune punte di intensità affettiva e di illuminazione figurativa (in pratica, quasi esclusivamente nei momenti cosiddetti « idillici » e di evasivo ripiegamento nella memoria), anch'esse peraltro fraintese e rimpicciolite, proprio perché svuotate del loro significato ideale. Anche in uno studioso, per esempio, come il De Robertis, che a quella poesia si accostava con animo ben altrimenti aperto e cordiale e che era portato per istinto a rivalutare l’importanza dello Zibaldone e l’umanità delle Operette, perdurava tenace la diffidenza verso i valori logici e polemici e anzi tendeva ad accentuarsi il rigore di una discriminazione in senso estetizzante. Negli ultimi anni la situazione della criticasi è in parte modificata e fino ad un certo punto capovolta: per merito del Binni, con la nuova attenzione portata sull’ultimo Leopardi, dai Canti d’Aspasia alla Ginestra, 96
e per opera del Luporini e del Timpanaro, con la rivalutazione del pensiero leopardiano, illuminato nella sua genesi e sentito finalmente in tutta la sua portata storica e nella sua funzione sovversiva. Non direi tuttavia che, da queste indagini pur altamente meritorie, il problema di un giusto collocamento della personalità del poeta nel quadro dei suoi tempi, ne risulti senz'altro e in ogni sua parte facilitato. Perché, da una parte, insistendo eccessivamente sulla componente illuministica di quel pensiero e accettando un troppo facile schema di opposizione fra classicismo e roman ticismo, si è soltanto ribaltato il criterio di valutazione
tradizionale, col
risultato di lasciarsi sfuggire il nesso dialettico che lega lo scrittore alla cultura contemporanea e ne caratterizza la modernità del messaggio, ben al di là di un meccanico ritorno ai moduli razionali e alle soluzioni letterarie settecentesche. E, dall’altra parte, sottolineando la novità e la maturità degli ultimi canti e contrapponendo in maniera un po’ schematica questa nuova « poetica » a quella delle liriche anteriori al ’30, si è finito col perder di vista la continuità e l’intima coerenza di un itinerario poetico, che fin dall’inizio, e nella stessa fase idillica, contiene i» nuce gli elementi di quell’estrema maturazione e che a sua volta non s’intende appieno se non alla luce di quell’esito finale. Solo da un riesame integrale della formazione umana e culturale del Leopardi, che tenga conto di tutti i
dati, anche psicologici, della sua personalità e di tutte le componenti che vi confluiscono, attraverso i complicati ‘rapporti di adesione e di reazione alla civiltà del suo tempo, e da una ricostruzione minuta della parabola espressiva, nel suo progresso e nelle sue deviazioni, che superiin una visione dialettica lo schema crociano di opposizione fra struttura e poesia, sarà possibile, io penso, ritrovare i fondamenti di un’interpretazione e di un giudizio non puramente polemico, ma storico, e cioè articolato e capace di riflettere tutte le sfumature, e magari le contraddizioni, di un’esperienza reale. | NATALINO SAPEGNO *
* N, Sapegno, Giacomo Leopardi, in « Storia della letteratura italiana », dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1969, vol. VII, pp. 817-20.
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LE « DUE POETICHE » LEOPARDIANE
Abbiamo intitolato questo brano (o, meglio, questa scelta di spunti tratta dalla vasta introduzione del Binni alla recente edizione di Tutte le opere del Leopardi) alle « due poetiche » leopardiane, perché la linea più marcata che si possa rintracciare nell’indagine binniana è proprio quella che individua all’interno dello svolgimento leopardiano almeno due momenti-culmine (quello delle « generose illusioni » e quello della « eroica persuasione ») e ne individua i confini, rispettivamente,
entro la zona
dei « grandi idilli » ed in quella della produzione poetica successiva all’ultimo soggiorno recanatese. In realtà, nell’organico ed articolato discorso che il Binni a varie riprese ha intessuto intorno al Leopardi è questa una delle poche postulazioni non del tutto convincenti. Vogliamo dire: è possibile separare nettamente « due poetiche » nell’ambito della pur dinamica, vivissima, ricchissima tematica leopardiana, o non è, forse, più utile
insistere — come d’altra parte lo stesso Binni fa con molto interesse — su una linea di conquiste e di sviluppo che non intacchi la sostanziale unità della personalità e dell’opera leopardiana (quell’unità che non possiamo non sentire almeno nella vigile presenza intellettuale e morale del Leopardi a se stesso ed al proprio discorso poetico)? Ma tutto ciò si offre qui come motivo di studio e di riflessione (studio e riflessione che non potranno non trarre gran vantaggio dalla lettura delle così ricche e fervide pagine binniane), anche al fine di creare un termine di confronto tra due fasi di una meditazione critica che, come quella del Binni, è stata ed è capace di un progressivo arricchimento.
Dal seno della meditazione
dello Zibaldone, nel *27, lentamente
la
sensibilità e le forze più intere della personalità leopardiana riprendono maggiore accordo e ricambio quanto più i pensieri si spostano sul modo della propria esperienza personale e delle persone concrete e dei loro affetti scomparsi o presenti, mentre una nuova volontà creativa si manifesta
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partendo dal solido terreno della prosa, esercitata, con varie forze, ma inin-
terrottamente dalle Operezze in poi. [....] Il pensiero del 9 aprile 1827 sui morti e sul presunto consenso co-
mune «a favore dell’immortalità dell’animo », non solo demolisce tale consenso con un procedimento analitico e logico di impareggiabile lucidità, ma nell’attrito sentimentale con quel grande tema fa sgorgare una sensibilissima diagnosi del nostro atteggiamento di fronte alle persone scomparse per sempre, del nostro pianto per loro non come « morti », ma come « stati vivi » e così muove il tema sentimentale-poetico del loro ricordo e del tentativo del loro recupero attraverso la memoria di ciò che fu più inconfondibilmente e irripetibilmente loro (quelle mani, quel volto, per dirla con Montale, o le loro phrases farzilières per dirla con Valéry): Allegano in favore della immortalità dell'animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch’io sono per dire è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un'opinione. Se l’uomo è immortale, perché i morti si piangono? [...] [...] che compassione può cadere sopra uno che non è più? — Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perché ha cessato di vivere, perché ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo
noi) di esser
privato della vita e dell’essere.
Questa
disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto. Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria non lui. [...]
‘ Tutto in questo pensiero è sottolineabile sia nella sua straordinaria intensità sia nei rapporti con la poesia di Silvia e di Nerina, così come il finale del Dialogo di Plotino e di Porfirio — già così significativo nel nuovo rapporto di pari dignità e nobiltà spirituale e sensibile delle due voci alte e malinconiche [...] — porta in forte, nuova luce — al di sopra del corso intero dell’operetta così importante nella stessa dimostrazione antiplatonica della ragionevolezza del suicidio e nell’attacco a Platone e ad ogni spiritualismo per la crudeltà del dubbio insinuato nell'uomo circa l'immortalità (il grande dubbio operante in Amleto) — il « senso dell’animo » e il sentimento degli « altri » di fronte a cui misuriamo diversamente l’atrocità del suicidio per il dolore che ai cari « altri » con esso produrtemmo [...]. 99
Non tutta la poesia del ’28-’30 si spiega solo alla luce di queste grandi parole e di quelle del pensiero sui morti, ma certo essa, stimolata da una generale ripresa vitale e da un folto intreccio di ragioni interne, trova in quella prospettiva del « senso degli altri », del « senso dell’animo », del recupero degli scomparsi per semzpre, una delle sue ragioni più interne e profonde, che la critica ha trascurato o non pienamente valorizzato quanto
più ha puntato sul semplice e sia pur « grande » idillio o nelle forme del perfetto quadretto « alla fiamminga » o in quelle dei « miti » supremi del « pittore dell'anima sua » e della sua ricordanza. Non è certo da smentire quella perfezione variamente attuata (e comunque non ultimo culmine di una poesia ancora così ricca di nuove e altissime risorse), ma è da giustificare e capire, mi pare, più dall’interno delle sue intere ragioni e delle sue profonde prospettive. [...] Al centro è l’istanza di una poetica che punta sulla estrema autenticità della poesia, sul’ suo profondo dovere di esprimere esperienze realmente vissute e sofferte dal poeta, e non perciò sdegnosamente solitarie, ché al fondo dell’intimo più si recupera l’universalmente umano. [...] È nel periodo pisano (tra fine del ’27 e metà del ’28) che si attua la [...] ripresa della poesia portata ad una delle sue zone più alte e non perciò paradigmatica per: tutta la poesia leopardiana e conclusiva sua méta e, d’altra parte, non così puramente « idillica » come la si è a lungo affermata, tante sono le forze e i motivi che vi confluiscono e vi si svolgono, anche se dominate da una poetica che raccoglie il senso profondo della esperienza vitale, sentimentale, conoscitiva in una specie di più temperata
ed equilibrata misura interiore, corrispondente alla maturazione, a nuovo livello, del rapporto poesia-filosofia in forme di altissimo « canto », di voce fusa e perfetta e pur densa e tutt’altro che aspirante ad una purezza senza passione e tensione:
come ho già indicato attraverso le citazioni di
pensieri fondamentali preambolari a questa fase poetica e che così diversamente configurano lo stesso metodo della rimembranza
e [...] della de-
gustazione dolce-amara del passato, privo di ogni vero nesso sia con le verità disperate che proprio nel periodo pisano e recanatese raggiungono la loro conclusività estrema, sia con il sentimento degli « altri » e con la passione per la sorte comune degli uomini. [....] AI di là del suo impiego nel recupero della dolcezza del tempo passato e del suo urto col presente che a quello ancora vanamente rimanda, il ricordo rivela il suo fondo estremo di amarezza e di acerbità. Il passato e l’epoca delle speranze sono per sempre scompatsi, la persona (simbolo 100
concreto di quel passato luminoso) è totalmente scomparsa e i vivi possono soltanto intrecciarne il ricordo amaro ai loro sentimenti più profondi: ‘non altro che questo. Sulla prospettiva di questo diagramma e della sua mèta finale, scaturita dal lungo attrito della memoria nel continuo urto con il presente e nella sollecitazione coerente della « doppia vista » (l’oggetto e la sensazione attuale rivela la sua allusione più favolosa e sentimentale all’« altro » poetico del passato), le « avventure storiche » dell’esperienza leopardiana sgorgano incessantemente colorandosi insieme del fascino della vita infantile e giovanile delle sue care consuetudini di letizia protetta ed ignara del successivo e inevitabile apparire della verità e della sventura [...]. Sicché la stessa formidabile pressione dei rari, ma strenui e decisivi pensieri dello Zibaldone di quell’anno che mostrano come sia sempre inseparabile la tensione poetica apparentemente più « pura » da quella intellettuale qui condotta a esiti estremi e la ripresa — attraverso quelli — dell’ultima domanda dell’Islandese alla Natura, convergono più energicamente nella genesi del Canto notturno [...]. E così, sfrondata la grazia e la limpidezza dei quadri e delle figure e delle voci dei due canti precedenti, il Canto notturno si apre ad una melodia-lamento e ad una figuratività più profonda [...] in cui la pressione dei problemi e delle interrogazioni (che riassorbono una massa enorme di pessimistici interrogativi dalla sapienza biblica fino alla zona illuministico-preromantica) si esprime in tutta la sua raggiunta circolarità contenuta nel giro delle strofe lunghe e pausate, nel lamento esistenziale funebre, pietoso, affettuoso che ancora contiene nella poetica del vero e del vago, del canto melodico e temperato di malinconica dolcezza una protesta sempre più scoperta e tensiva, che sembra tentare la forza di indagamento di quella poetica e prepararne dentro una svolta ulteriore dell’esperienza e della prospettiva poetica e intellettuale del Leopardi. Con la voce del pastore il Leopardi ha portato sino in fondo la direzione dei canti pisani e recanatesi e non a caso quell’ulteriore poesia si concludeva nell’aprile del ’30, quando il Leopardi stava per abbandonare per sempre Recanati con i « ben sedici mesi di notte orribile » illuminata da quella eccezionale fertilità di poesia e squarciata dalla forza concentrata di alcuni pensieri dello Zibaldone che portano alle estreme conclusioni il pessimismo protestatario del Leopardi nella sua lucidità più paurosa e sconvolgente e, mentre sottendono tutto lo sgorgo della poesia recanatese del 101
°29-30, turno.
particolarmente
animano
il fondo
meditativo
del Canto
not-
[...] Con la partenza definitiva da Recanati nell’aprile del 1830 e il nuovo
soggiorno fiorentino si apre l’ultima grande fase dell'esperienza vitale e della poetica e della poesia del Leopardi: quella in cui la personalità leopardiana — conclusa l’esperienza dei « sedici mesi di notte orribile », di solitudine nel « natio borgo selvaggio » e consumata sino in fondo la poetica della « ricordanza » con tutta la complessa rete di motivi che vi confluivano e tanto la distanziavano da una pura e semplice disposizione « idillica » — si presenta come in un più frontale incontro e scontro con il presente, irrobustita da un più sicuro e consapevole possesso di sé, del senso della sua esperienza e della sua natura eroica, del proprio rapporto col mondo e con gli altri, delle proprie prospettive morali e ideologiche in attrito crescente e più diretto con le ideologie della Restaurazione e dei gruppi liberali moderati e spiritualistici con cui il Leopardi viene a più diretto contatto e contrasto. [...] Proprio dal pieno di questa vera e presente passione e da tutta la nuova disposizione dell’uomo a vivere intensamente e vigorosamente nel presente (senza ricorsi alla memoria e al passato), a esercitare tutte le proprie forze di eroica tensione sentimentale, intellettuale e morale in una virile concentrazione della propria esperienza e del suo valore persuaso, esplode una nuova poetica, una nuova direzione ispirata e consapevole della poesia che, astrattamente paragonata alla luce della presunta poetica e natura totalmente « idillica », sorprese e sconcertò tanti critici leopardiani e che invece dallo stesso confronto concreto con i grandi canti pisano-recanatesi ricava la sigla della sua profonda novità (non della sua decadenza) e insieme la sua intima coerenza con una disposizione leopardiana fondamentale, ora maturata e portata alla sua pienezza più circolare ed intera. Questa nuova poetica che porterà fino alla Ginestra — rivelando in diverse tematiche la sua centrale direzione di energia perentoria e le sue caratteristiche di linguaggio e di ritmo, di musica « senza canto » o che il canto melodico riassorbe in forme sinfoniche potenti e articolate con una nuova misura tensiva e incalzante — si manifesta e realizza nella grande poesia che apre il ciclo dei canti legati alla vicenda esaltante e disperata della passione vissuta e consumata
in un nuovo
scacco
pratico, ma
non
senza una tenace rivalsa interiore, coinvolgendo tutta la forza della matura personalità leopardiana, sdegnosa ormai di ogni rifugio nel passato o nell’astensione e nel disimpegno morale e poetico. [....] 102
Forme di ritmo, di linguaggio, di costruzione tematica che sostanzialmente caratterizzano per tutto il periodo ultimo questa nuova poetica della personalità che si afferma nel presente con i suoi posseduti motivi di nuova certezza e persuasione ideale e morale, con il suo bisogno di completo impiego della sua energia morale e fantastica intornoa temi e termini di ardente aspirazione e di interiore possesso: l’amore prima, l’amore e la morte poi, e più la morte (quando l’esperienza amorosa vien rivelando a poco a poco il suo margine di non coincidenza fra il pensiero amoroso e la donna amata) sentita non come rifugio ed evasione, ma come suprema mèta di possesso eroico di se stesso e della propria disperata e virile concezione della vita e del mondo. [....] La forza scatta dalla folta malinconia e dall’impasto più opaco-elegante del linguaggio in quelle domande e affermazioni supreme: Natura umana, or come, se frale in tutto e vile,
se polvere ed ombra sei, tant’alto senti? Se in parte anco gentile, come i più degni tuoi moti e pensieri son così di leggeri da sì basse cagioni e desti e spenti?
[...]
E quella forza e quelle domande ben dimostrano come lo stesso sorriso di superiorità del finale di Aspasia non segnasse affatto un risolutivo « titanico » orgoglio misantropico e una mancanza di quella passione per l’umano che si viene anzi svolgendo nel « tutti noi »; mentre, d’altra parte, questo stesso amore per gli uomini non discendeva a dolciastra pietà di tipo pascoliano (« è la pietà che l’uomo all’uom più deve »!), ma si prospettava come un amore severo e virile (come è sempre il vero amore) capace di reagire energicamente alle stesse stolte e malvage debolezze degli uomini ai loro errori ideologici e morali. Ché — lo si ricordi bene — anche nel supremo messaggio di solidarietà umana della Ginestra Leopardi non mancherà mai di chiamare gli sciocchi sciocchi, i malvagi malvagi, anche perché — ad un livello distintivo essenziale — per lui « misera non è la gente sciocca » e il « tutti noi » presuppone la accettazione della verità, la conversione dagli errori che mortificano l’uomo e collaborano con gli inganni e la crudeltà della natura. E così la passione umana delle due canzoni sepolcrali non contrasta con quella crescente tensione aggressiva, polemica, satirica in cui si com103
muta la forza che aveva sorretto la poesia dell’esperienza di sé e dell’eroica persuasione nel ciclo amoroso e che ora si elabora in una formidabile pressione combattiva negativa e affermativa, che culminerà nella grandiosa poesia della Ginestra intrecciandosi con il « vero amore » per tutti gli uomini e con l’appello alla loro solidarietà di lotta contro la natura in una suprema unione di tutti i motivi leopardiani più maturi e profondi. WALTER
BINNI*
* G. LeoPARDI, Tutte le opere, con intr. e a c. di W. Binni, Firenze, Sansoni, 1969, pp. LXXXVIII-CX.
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LEOPARDI
E LA DISPUTA
CLASSICO-ROMANTICA
Le pagine che qui riportiamo appartengono al lontano 1910, ma — riprese e ripubblicate dal Monteverdi, per la sua stimolante raccolta di Frammenti critici leopardiani, nel 1957 — ci è sembrato che conservassero molta della loro validità, per così dire, epidittica. Esse contribuiscono a specificare, nel versante della poetica (e, più particolarmente, nell’ambito di un « genere » letterario allora molto discusso, quello drammatico), il ruolo del Leopardi nella disputa classico-romantica.
La semplicità, la sobrietà parevano al Leopardi doti anche più commendabili in quanto che erano, egli credeva, schiettamente italiane e nello stesso tempo veramente classiche: gloriose doti dell’arte romana ed ellenica. Che non bisognava confondere, come facevano spesso i romantici, i veri antichi classici, poniamo, coi classicisti francesi; contro i quali, a mo’ dei romantici, anche il Leopardi si schierava. Il teatro d’Eschilo, di Sofocle, d’Euripide, non aveva niente di comune con quello, per quanto rispettabile, di Corneille, di Racine, di Voltaire, degli innumerevoli epigoni! Giacomo Leopardi voleva, con un nuovo esempio di dramma, tornare alle pure sorgenti della vera arte classica, ed instaurare a un tempo sul teatro (da quant’è che questo, non so se sogno o incubo, ci preoccupa) una sincera e schietta arte nazionale. [....] « Finalmente vorrei che si persuadessero che dal classico al francese ci corre un grandissimo divario, e che se la miglior parte degl’intelletti ha ripugnato alle fole che chiamano romantiche, e sostenuta la sana maniera (le sane dottrine) dello scrivere che chiamano classica, non ha mai pensato che il classico e il francese fossero la stessa cosa; non lo avrebbero cre-
duto gli antichi italiani, non i latini, non i greci [...].
105
Quest'uomo che pensava e che scriveva così, non poteva certo trovarsi d’accordo, nelle competizioni letterarie d’allora, né coi romantici né coi classicisti. Non coi classicisti, giacché, avendo fede di tornare alia pura arte classica, poco gl’importava delle loro definizioni e distinzioni. [...] Il Manzoni è ben altrimenti spregiudicato che il Leopardi. Ed è curioso che questi [...] tenti di disegnare appunto un tipo ideale di tragedia: tipo ch’egli volle anzi applicare in un esempio, e ne nacque la Telesilla. Ed è notevole che il Leopardi abbia di mira appunto la creazione e la restaurazione di un « genere »; mentre il Manzoni nega, d’ogni « genere », la stessa esistenza. Certo con la Telesilla il Leopardi si scostava dalla maniera drammatica tradizionale: di qui, contro i tradizionalisti, le sue fiere parole, le quali poi in realtà dicono assai meno di quello che parevano promettere. Del resto, come si è visto, l'innovazione ha per lui il carattere d’un ritorno all’antico. Egli ripudia i classicisti; non per amor dei romantici, ma per amore dei classici. E alle norme dei classici egli non vuol venir meno. È facile osservare come la sua Telesilla sia ligia, quasi senza parere, alle unità aristoteliche: un’azione unica, anzi circoscritta, che si svolge tra sera e mattina in un medesimo luogo. Le quali unità aristoteliche, se non bastano di per sé a fare un’opera d’arte, le sono però necessarie, come sembra pensare il Leopardi, o per lo meno utilissime. Benché non invano era avvenuta la ribellione romantica;
non
invano i romantici avevano dimostrato di quali inconvenienti, di quali incongruenze fosse cagione al dramma l’osservanza delle unità aristoteliche. Ma il Leopardi vide acutamente il rimedio, e riducendo alla massima semplicità il nodo dell’azione seppe evitare ogni danno. Con che egli ancora una volta si richiama alla tragedia ellenica, respingendo da sé, insieme col dramma romantico, anche la tragedia francese o, diremo, neoclassica. A questo modo per lui le unità aristoteliche apparivano veramente « regole naturali, non arbitrarie », e ad esse pur voleva egli alludere nella sua prefazione: « Servire ai tempi e ai costumi senza mancare alle regole naturali non arbitrarie ». [...] E una volta, abbozzando il libro Della condizione presente delle lettere italiane, egli si propose di lodare l'andamento dell’arte nostra « verso il classico e l’antico », pur « mostrandolo necessario, ma inutile e dannoso senza l’unione della filosofia colla letteratura » e senza la scelta di « soggetti importanti, nazionali, del tempo ». Ora nella prefazione della Telesilla egli conclude così:
106
« Forza e verità moderna della passione, per la prima voltavunita alla semplicità e agli altri pregi antichi. « Ma di queste cose discorrerò di proposito altrove, e mostrerò che non ignoro o disprezzo né l’arte né la natura, e che forse non merito di essere né scomunicato da’ seguaci veri de’ classici, né deriso da’ filosofi e indagatori delle altre sorgenti del bello. « Perché poi se stimano che la controversia fra i romantici ecc. sia stata, se il poeta debba meditare e inventare ec. e se la novità ci voglia in poesia ec., sappiano che questa controversia non è mai stata al mondo fra uomini d’intelletto, non solamente dopo nati i romantici, ma in nessun tempo ».
AncELO
* A. MonteverDì, Frammenti Italiane, 1967, pp. 35-38.
critici leopardiani,
MONTEVERDI *
Napoli,
Edizioni
Scientifiche
107
IL « SAGGIO SOPRA GLI ERRORI POPOLARI DEGLI ANTICHI » E L'INIZIO DELLA MEDITAZIONE LEOPARDIANA
Il Figurelli, dopo aver guardato a lungo — crocianamente, ma certo con gusto e sensibilità critica — al Leopardi come « poeta dell’idillio » (e Leopardi poeta dell’idillio s'intitola appunto la più nota delle sue ricerche leopardiane), ha rivolto in seguito la sua attenzione al periodo della formazione culturale ed ideologica del Leopardi, soprattutto per scoprirne i rapporti con atteggiamenti e posizioni mentali della maturità. Appunto in questo senso è diretto il brano che qui riportiamo e che ci sembra molto efficace nell’indicare — in una fase aurorale ma non perciò meno nette — certe postulazioni e, soprattutto, certe contraddizioni sempre sofferte e mai superate o rinnegate dal Leopardi maturo.
L’interesse del Leopardi non si esaurisce nella rassegna degli errori popolari presso gli antichi. Oltre l'ambizione d’una ricerca e d’una ricostruzione ben più complete e sistematiche di quelle già svolte da altri, anima il giovane autore al lavoro il più profondo interesse, anche se in parte inconsapevole, di intendere il senso e l’origine di quegli errori e, per essi, di conoscere la natura dell’uomo. Postulando la fondamentale identità e inalterabilità della natura umana nel corso della storia del mondo, il Leopardi fissa infatti lo sguardo fin dall’introduzione al valore eterno di quegli errori. « Si vedrà in questo Saggio che gli antichi non andarono esenti dagli errori i più grossolani, ma agevolmente si comprenderà che il volgo dei moderni non cede loro quasi in verun conto. Non pochi anzi dei pregiudizi che regnavano un tempo sono anche al presente in tutto il loro vigore. Dopo queste riflessioni, il rispetto, non altrimenti che il disprezzo per l’antichità, viene a moderarsi, le età si ravvicinano nella mente del saggio, e si comprende che l’uomo fu sempre composto degli stessi elementi ». [....] 108
Serio e commosso quando cerca di ricostruire lo stato d’animo del-
l’uomo
primitivo e ignaro (non diremo ignorante) di fronte allo spetta-
colo dell’universo e della vita che lo anima, il Leopardi diventa ironico e
pungente, e addirittura sarcastico di fronte non alle impressioni che l’uomo provava e prova al cospetto degli elementi, ma ai temerari e presuntuosi giudizi che gli antichi credevano di dedurne (già nella Storia dell’Astronomia aveva avvertito a proposito di Cartesio: « ... non i sensi, ma i temerari giudizi, che noi formiamo sopra le nostre sensazioni, son quelli che ci portano all’inganno »). E perciò la sua ironia si esercita non sul popolo verso il quale è generoso e indulgente ma sui sapienti dell’antichità; quello soltanto ignaro, questi veramente ignoranti perché presumono di sapere e non sarino. [....] Non è, ben inteso, svalutazione della filosofia, della scienza, del sapere, della ragione umana. Anzitutto perché la ironia parodistica è nettamente circoscritta alla civiltà antica e alle prime forme ingenue, empiriche e fantastiche della scienza; inoltre perché l’impostazione dell’opera è illuministicamente tutta volta alla esaltazione della ragione e della sua potenza illuminante, e perché non mancano elogi alla « dignità di quei venerandi bisavoli del sapere ». Ma il fatto che proprio in un’opera di ispirazione illuministica ci siano di tali considerazioni è quanto mai interessante, perché ci addita l’orientamento cui si dirigeva e nel quale si andava formando la personalità del Leopardi [...] la quale, se da una
parte si inquadra nella posizione mentale dell’illuminismo in quanto rifiuta la tradizione e l’antico, opponendovi il progresso del sapere, cioè il mondo moderno; dall’altra se ne allontana e le contraddice, limitando fortemente l'efficacia illuminante della ragione [....]. Malgrado l’adesione alle idee del tempo, e tanto più evidente per essa, c'è la netta tendenza a volgere l’ottimismo illuministico in pessimismo e scetticismo. Cos'è questo pensare e sentire, fermo alla convinzione della incapacità del popolo al progresso e della fondamentale identità della natura umana in ogni tempo e in ogni fase di progresso, se non l’anticipazione dell’irrisione sdegnata e commiserante dei Nuovi credenti e della Ginestra e di tanti luoghi dello Zibaldone e delle Operette morali verso le magnifiche sorti eprogressive dell’umanità e verso il secolo superbo e sciocco? Tanto più che il Leopardi mostra di dubitare non solo della perfettibilità [...] del volgo o della « plebaglia », come dice sovente, ma della stessa scienza e dello stesso progresso del pensiero umano, per giunta
109
con una decisione che non si ritroverà neanche nella sua maturità, quando egli ammetterà tuttavia il progresso nel campo scientifico. Infatti, a proposito della credenza antica che le stelle fossero animate e della smentita appostavi da filosofi antichi, affermato con enorme meraviglia che molti moderni hanno continuato l’errore, persino Ticone « il cittadino del cielo » e Keplero « il padre dell’astronomia moderna, il rigeneratore della scienza celeste, il legislatore degli astri », esclama: « Terribile esempio! Esso ci farebbe quasi credere che gli errori, come le comete, abbiano un periodo; che dopo qualche secolo, quando si è cessato di declamare contro di loro, ricompariscano essi sulla scena sotto un nuovo aspetto [...] ».
Altrove s’intravede già la legge della infelicità ineluttabile della nagura umana, quando il coraggio è proclamato « una delle doti più proprie a render meno infelice che sia possibile la vita dell’uomo », lasciando intendere che dunque l’infelicità è la condizione permanente dell’uomo e intuire la futura esaltazione dell’ardimento e dell’eroismo non tanto come virtù, ma come rimedio allo stato infelice della vita umana. [...] Altro accenno a un argomento pur esso centrale della meditazione leopardiana troviamo nel brano « Ogni arcano è una sorgente d'’illusioni, e un affetto meraviglioso ne fa immaginare mille altri assai più sorprendenti », dove, come in altri luoghi del Saggio, si sente l’amore delle illusioni malgrado la impostazione fondamentale e la loro classificazione come errori. Errori ed inganni le dirà il Leopardi anche nella piena maturità, ma « possente ‘errore », « dolci errori », « ameni inganni », amandoli con tutto il trasporto che ci spinge ai beni perduti. Così perveniamo a cogliere in questo saggio la sensibilità propria del Leopardi, la stessa espressione della quale già si avvia alle forme elette della maturità. FERNANDO FIGURELLI *
* F. FicurELLI, I! « Saggio sopra gli errori popolari degli antichi » del Leopardi, in « Annali dell’Istituto Superiore di Scienze e Lettere S. Chiara di Napoli », n. 6, 1956, p. 8 sgg. dell’estratto.
110
LA RISCOPERTA
GENTILIANA DELLE ED I SUOI LIMITI
« OPERETTE »
Il De Robertis (che pure opera nell’ambito — anche cronologico, perché i suoi scritti leopardiani vanno dal 1922 al 1945 — del « novecentismo » critico) delinea con molta acutezza i limiti della visione gentiliana ed indica — sia pure con perplessità che appaiono evidenti ad un esame globale del saggio — la necessità di una lettura unitaria delle Operette e di un riconoscimento della forza d’intelligenza e di carattere che ne sostanzia l’innegabile esito pessimistico.
Si deve al Gentile il ritorno alle Operette, a uno studio, cioè, più attento di esse, non solo quanto ai rapporti con lo Zibaldone, che erano pur sfuggiti a letterati saputissimi,
[...] ma, sopra tutto, quanto all’opera
in sé, alla sua compattezza artistica, ch'è poi un riflesso d’una compattezza di pensiero, e all’intima sua struttura e architettura. Pure, con tanta novità di sguardo, un troppo, forse, di rigore e d’impegno guastava, fino al punto da far perdere di vista le cose e le pagine vitali, alterando nella mente del lettore l'impressione genuina [...]. Per credere ancora alla poesia, che da tanto l’aveva lasciato, il Leopardi sentiva il bisogno di rifarsi « il gusto alla vita »; [...] non per farsene un’illusione, o una ragione di contentezza; ma unicamente per « compiere nel miglior modo questa fatica della vita ». [...] Il Dialogo di Colombo è, si può dire, tutto pieno di questa consapevole e comandata tristezza. Lo finì di scrivere il 25 ottobre del ’24, e subito il giorno stesso poneva mano all’Elogio degli uccelli. [ ...] Il Gentile giura che il Leopardi qui dentro ha cantato la gioia, e dimostra d’annettere grande importanza a quelle parole del congedo: ‘« Io votrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Avrebbe, a nostro parere, fatto meglio a citare il passo intero 111
(« In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnel. lino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita »), e a ricordarsene. A noi, quella enumerazione così minuziosa, e così volutamente dimessa, dà l’impressione d’una pungente e triste ironia, e pare continuata fino all’assurdo, per gettare un senso d’incredulità su quell’ultimo desiderio. Un'altra volta, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, quasi per riscattarsi dell’espressione di tedio che chiude la strofa di commiato, uscirà in queste parole: Forse s’avess’io l’ale Da volar sulle nubi, E noverar le stelle ad una
ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna...
ma poi, subito continuando: O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce
il dì natale.
Non bisognava dimenticarlo! Ora, fatte queste premesse, l’Elogio degli uccelli a noi non -sem: bra [...] una lirica « sgorgata al guizzo d’una immagine lieta e ridente ». Al Leopardi,
nonostante
la sua
eroica
costanza,
queste
fortune
eranc
fatalmente negate. Certo vi aspirava, e poiché era un’aspirazione sincera, profonda e, direi, fondamentale, dell'animo suo, ne ricavò, nientemeno, il Dialogo di un fisico e di un metafisico, con quell’accento lirico straziato, e il Dialogo di Colombo, una specie di mito, con quell’ombra, solo un’ombra, di gioia incredula: non sapeva illudersi di più. L’Elogio, se mai, è da considerarsi un tema dottamente « musicato » con variazioni accortissime, e ricco, troppo ricco, di cadenze, movenze e accordi, di cui poté fornirgli esempi la sua antica familiarità con i classici; un tema da esteta, 112
fra i tanti che sovrabbondavano
nello Zibaldone
[....]. E ci sarebbero, in
proposito, serie di lunghi pensieri, da poter raggruppare sotto titoli ap-
propriati (vivacità, rapidità, velocità, varietà, uniformità, monotonia,
ina-
zione), dove si potrebbe trovar l’origine di questo Elogio [....]. Pensate! Ad uno ad uno gli argomenti fondamentali del pensiero leopardiano sono toccati in questi dialoghi. L’infelicità, destinata a tutti i viventi; il piacere, vano; l’attività, un desiderio; unico rimedio, la morte. [...] Il Dialogo di Federico Ruysch e il Dialogo di Torquato Tasso sono ricavati con una cuta e una memoria sempre presenti dallo Zibaldone, e in qualche parte rifatti anche su frammenti diversi; ma è che non dovendo quasi più dimostrare, ma discorrere e descrivere, [...] egli assume qui un tono confidenziale, come chi raccontasse cose sapute, ragionasse per via d’esempi o, semplicemente, tenesse dietro a una sua ingannevole fantasia, per il solo gusto di fantasticare.
[...] Non fu il Leopardi stesso
che definì le Operette « un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici »? [...] _ Il Gentile [...] distribuisce, raggruppa e distingue, per fondarci sopra una imponente dimostrazione; che vuol essere una dimostrazione della idea hegeliana. Tutte le Operette, insomma, venti di numero, tolto anche qui un prologo e un epilogo, sarebbero, secondo il suo concetto, ordinate in tre grandi parti, ciascuna di sei: una sorta di trilogia, che movendo dalla negazione dei valori della vita, e culminando in una crisi di dolore e di disperazione, alla fine ricostruisce e ricrea ciò che ha distrutto. E basterebbe, dice il Gentile, come riprova, l'attaccamento che il Leopardi sempre dimostrò per queste prose, oltre la cura con la quale lavorò a otdinarle, secondo un suo disegno. Scarsa riprova! Che le amasse, come egli diceva, più dei suoi occhi, vorrebbe dire soltanto che ne riconosceva la grandezza: esse sole, forse, nella lingua nostra, rendono la serena altezza, assolutezza, e poetico vapore, che è nel greco di Platone. [....]_ Ma infine il complesso di queste meticolose strutture architettoniche nulla persuade [...]. Una volta accettato il punto di vista del Gentile, ciascuna di queste venti prose fotma un’eccezione a sé e come un fomite di discordie. Manca nelle Operette fin l'ombra di ciò che il Gentile ama chiamare « ricostruzione », contrapposta all'idea di rovina e quasi di sfacelo assegnata alla prima parte; e se non proprio da una potenza restauratrice, alla quale è da togliere in ogni modo quel senso di gioia e di allegrezza che il Gentile ha voluto loro attribuire, tutte quante si generano, questo sì, da un superiore equilibrio, da una fantasia fervida
113
e splendente, che balena in tante pagine memorande. Differenza di tono vi sarà certo; ché son toccati argomenti che più o meno lo legavano, l’umana superbia e bassezza, o le ragioni della propria infelicità; ma lo spirito è uno solo, d’una libertà lirica tranquilla e vagamente atteggiata. [....] Veramente sarebbe un’impresa disperata cercare in tutto Leopardi i segni d’una felice facoltà di illudersi. Ogni aspirazione nasceva, in lui, con la coscienza del suo limite. E chi ha voluto spiegare il pessimismo leopardiano come una specie di contrasto tra la ragione che conosceva la vanità delle illusioni e il cuore che si ostinava ad amarle, s’è proposto, a dire il vero, un problema astratto che nella realtà non si è verificato mai. Questo potrebbe, tutt'al più, rappresentare un momento nella vita d’un uomo, e si può ammettere anche lo rappresenti nella vita del primo "Leopardi; ma se coscienza vuol dire « presenza », una volta che il Leopardi aveva assaporato il nulla della vita, era impossibile che costantemente e come istintivamente lo contraddicesse. [...] Quando disperò, fu perché aveva stancato la sua stessa capacità di comprendere e di soffrire. GiusepPE
DE
RoOBERTIS *
* G. De RoBerTIs, Saggio sul Leopardi, Firenze, Vallecchi, 1746, pp. 119-23, 135-38, 142-43, 150-52, 155-56.
114
DALLO « ZIBALDONE » ALLE « OPERETTE MORALI »: I CONCETTI-MITI DELL'UNIVERSO LEOPARDIANO
È essenziale datare lo scritto del Fubini, dal quale traiamo il brano che qui si presenta, per comprenderne l’importanza. Si tratta, infatti, di uno studio edito per la prima volta nel 1932 e che già poneva con molta chiarezza l’esigenza di superare gli.equivoci allora più largamente diffusi sulle Operette morali e, più in genere, sulla prosa leopardiana. A questi equivoci (la fondamentale impoeticità delle Operette dichiarata dal De Sanctis; la ricerca discriminante di « poesia » operata in esse dal Croce e la identificazione della « poesia » con « quei pass? nei quali il poeta... più direttamente si confessa o lascia con minore ritegno parlare il suo cuore »; la « sistemazione » hegeliana operata dal Gentile nella struttura delle Operezte, ecc.) il Fubini oppone non solo una ricerca comparativa che, avvicinando allo Zibaldone le Operette morali, ci aiuti a comprendere la sostanza di pensiero che è ad esse sottesa, ma anche — e sia pure in termini ancora incerti — un'ipotesi di lettura nuova che non cerchi più le linee di demarcazione tra prosa e versi, tra « poesia » e «riflessione », che non cerchi più nel Leopardi la « disinteressata » rappresentazione fantastica, ma l’espressione di un universo poetico in
cui i moti del sentimento e le esigenze dello stile non vivono e non potrebbero vivere « indipendentemente dai concetti » che nutrono gli uni e le altre.
Non si possono studiare le Operette Morali, trascurando lo Zibaldone: non già perché le teorie esposte nell’opera definitiva abbiano bisogno di essere chiarite con i materiali ancora informi della speculazione leopardiana, ma per seguire lo sviluppo dello spirito del Leopardi, che attraverso le discussioni del suo diario è pervenuto alla sua opera definitivan L...] Le pagine dello Zibaldone, nelle quali il Leopardi ha tentato di confermare giorno per giorno la sua originaria intuizione pessimistica, stanno 115
tra la sua primitiva disperazione e l’opera che noi studiamo, ineliminabili. Esse non sono soltanto il precedente: stilistico delle Operette, ma, ben più, il necessario precedente morale. Nella prosa dello Zibaldone il Leopardi si è esercitato a staccarsi da se medesimo, a tradurre in un linguaggio impersonale la sua personale esperienza, a considerare i propri casi come
esempi particolari di leggi generali: in tal modo al mondo della sua esperienza immediata ha potuto sostituirsi un mondo concettuale che hà preso ogni giorno più per lui reale consistenza e ha trovato nelle Operezte la sua più chiara e completa espressione. [...] Non ci si attenda di ritrovare in questi scritti quelli che sono stati gli strumenti della sua ricerca, i concetti filosofici, offertigli dalle sue letture: si può dire che la maggior parte delle osservazioni dello Zibaldone che potevano avere sviluppi filosofici, è stata abbandonata dal Leopardi.
Così, se nello Zibaldone il Leopardi discute a lungo sul fatto dell’assuefazione, che gli sembra provare la falsità di ogni innatismo o sull’amor proprio, che egli considera come unico movente delle nostre azioni, all’assuefazione e all’amor proprio accenna nelle Operette soltanto come a fatti indiscutibili [...]. Parimenti nulla accoglie nelle Operette dei pensieri intorno al bello assoluto, oggetto di così frequenti discussioni nello Zibaldone: nulla perché i pensieri del Parini, in cui ravvisiamo qualcuna delle osservazioni dello Zibaldone su quell’argomento, [...] non dimostrano, come tentavano di fare le pagine dello Zibaldone, il carattere soggettivo del giudizio estetico, ma unicamente le difficoltà che ci impediscono troppe volte di riconoscere il valore vero di un’opera di poesia e perciò sembrano presupporre un valore obbiettivo, indipendente dal nostro giudizio. Chi passi dallo Zibaldone alle Operette, prova, ad una prima lettura almeno, il senso di un impoverimento del pensiero, dell'abbandono dei più schietti motivi filosofici e con questi di non poche acute descrizioni psicologiche: ma riconosce anche, pur che vi rifletta, che quei motivi non al Leopardi appartengono, ma ai filosofi da lui studiati e che egli da essi li aveva mutuati per rafforzare le sue convinzioni pessimistiche, ma doveva abbandonarli, appena queste gli si fossero confermate e chiarite. [....] Anche il trapasso, così brusco, da una concezione della Natura ad una opposta che si rivela nel Dialogo della Natura e dell’Islandese, sì potrebbe spiegare come un moto subitaneo dell’animo del Leopardi, che va oltre le conclusioni del suo pensiero quali si erano formulate nello Zibaldone, e si rivolge contro uno di quei concetti-miti, su cui più ssi 116
era assottigliato il suo ingegno. Soltanto dopo la composizione di quel dialogo a quel concetto tornerà sullo Zibaldone, tentando di sviluppare filosoficamente la sua’ nuova intuizione, così come aveva negli anni precedenti sviluppato nelle molte pagine dello Zibaldone la sua intuizione giovanile. Veramente protagonisti delle Operette non sono tanto quei pallidi personaggi che si chiamano Ruysch o Colombo, Tasso o Malambruno, che pure [...] hanno un carattere proprio ed un valore fantastico,
ma quelli che possiamo chiamare concetti-miti di Felicità, Piacere, Noia, Dolore, Natura, che si sono sostituiti nell'animo del Leopatdi a più concreti oggetti di odio e di amore: la Felicità, assurda e impossibile, ma vagheggiata da una invincibile nostalgia e salutata con trepido affetto ad ogni fugace ed illusoria: apparizione, il Piacere fantasma ingannevole e vano e pur talvolta così vicino a noi da sembrare cosa reale, la Speranza irragionevole e pur mai del tutto vinta, allettatrice ad una vita inutile e pur suscitatrice di liete immaginazioni, Amore, così raro e miracoloso, che ci dona forse l’unica vera beatitudine a noi concessa, la Natura indif-
ferente ed ostile, ma pur desiderata e invocata nelle stesse parole che l’accusano. Qual meraviglia che questi concetti prendano talvolta vere sembianze fantastiche, come Amore nell’ultima pagina della Storia del genere umano e la Natura nei due dialoghi in cui si presenta come interlocutrice? Ognuno di quei concetti, non soltanto questi, che si colorano in un’immagine, raccoglie, come si è visto, intorno'a sé, al pari di ogni immagine poetica, i sentimenti del poeta nella loro complessità: e se non può suscitare una
commozione
profonda,
a cui egli partecipi con
tutto
l’essere, non restano per altro pure astrazioni. Certo .le Operette suppongono un distacco della vita immediata, e perciò una vita sentimentale fatta più tenue e meno intensa dal lavoro dell’intelletto. Certo non si potrà trovare nelle pagine della Storia del genere
umano che esaltano il potere delle illusioni, l’intensità poetica che è nei versi dlela maturità, in cui il poeta rievoca e rimpiange le illusioni della sua giovinezza, o nel pur commosso inno ad Amore, figlio di Venere Celeste, la profondità e la drammaticità di certi accenti del Pensiero dominante [...]. Ma non per questo sono da escludere le Operette dal novero delle opere di poesia, né si deve cercare la poesia delle Operette in quei passi nei quali il poeta, come in qualche sua lettera, più direttamente si confessa, o lascia con minor ritegno parlare il suo cuore. Le Operette, non si dimentichi, sorgono in un momento di relativa calma, lontano dalla dispeELIZA
razione e dall’entusiasmo, dall’accorato rimpianto di un passato irrevocabile e dall’agitazione di una passione attuale: sono sempre, anche quelle che possono parere più fantastiche e commosse come l’Elogio degli uccelli e il Cantico del gallo silvestre, l'esposizione che uno spirito pacato compie dei risultati della sua meditazione e che si anima di vita poetica per il valore sentimentale che quelle conclusioni hanno per lui, ma non può mai tramutarsi in un'immediata espressione dei suoi particolari affetti, né in una vivace e disinteressata rappresentazione fantastica, nella quale i personaggi. interessino di per sé indipendentemente dai concetti che sono chiamati ad esporre nel loro dialogo. Soltanto più tardi, quando le venti operette della prima edizione saranno già da tempo composte, e con esse anche qualcuna di quelle che appariranno nell’edizione definitiva, il Leopardi potrà salutare il risorgimento pieno ed intero della sua vita sentimentale. Meco
ritorna
a vivere
La piagga, il bosco, il monte...
Allora, non basterà più al Leopardi la prosa poetica delle Operette e la poesia gli si presenterà spontanea [...]. Eppure dal Leopardi delle Operette al Leopardi di A Silvia non crediamo di scorgere il trapasso da un Leopardi filosofo a un Leopardi poeta, ma da una poesia più limitata nella sua ispirazione [...] ad una poesia in cui confluisce, fantasticamente trasfigurata, tutta la vita di un individuo. Mario
* G. LEOPARDI, Operette morali, saggio introduttivo e commento Torino, Loescher, 19663, pp. 9 e 15-18.
118
FUBINI *
di M. Fubini,
LA « PRIGIONE » COME « METAFORA ESISTENZIALE » NELLE « OPERETTE MORALI »
Lo studio del Ferrucci scopre un versante’ poco battuto della critica italiana: quello del simbolismo sul quale si « postula che un’opera letteraria contenga un senso nascosto o implicito e che tocchi alla strategia del lettore portare alla luce questo significato profondo » (come dice Ezio Raimondi, parafrasando Graham Hough). La « strategia » applicata qui dal Ferrucci è soprattutto psicanalitica (la metafora della prigione sottesa ad ogni esperienza leopardiana, conscia o inconscia, di vita o di arte). Ma è chiaro che essa non può restare unidimensionale, se non si vuol correre il rischio di prevaricare (e, al tempo stesso, di limitare fortemente) la comprensione dei testi, e lo stesso Ferrucci se ne rivela consapevole quando — in questo ed in altri brani della sua raccolta — cerca nella lingua, nelle strutture,
nel dato storico, nel sussidio documentario
altret-
tanti strumenti di penetrazione.
Sappiamo cosa succede all’Islandese. Convinto dapprima che il male stia nel contatto con gli uomini, egli si riduce in solitudine nell’isola nativa. Trovando il clima pessimo e pernicioso, decide di viaggiare [...]. Viaggio che si risolve in disastro, dappertutto l’infelicità lo raggiunge [...]. Questa è la vita: finzione di invito a palazzo e segregazione in una cella. È in atto la metafora esistenziale che, al tempo delle Operette m0rali, ha ormai implicazioni cosmiche: « a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? » chiede l’Islandese prima che se lo mangino i leoni. Tutto il mondo è una prigione: verità che porta al Torquato Tasso, pagina evidentemente simbolica della condizione umana. Nell’ottobre dello stesso anno Leopardi compone l’altra grande ope-
retta, il Dialogodi Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez. [....] [...] nelle parole di Colombo il viaggio ha lo stesso senso della cella 119
in quelle di Tasso, render cara la vita attraverso il rimpianto, la nostalPe4PR RSI
Malgrado le apparenti differenze, Tasso e Colombo sono fratelli; non c'è più azione in una traversata dell'oceano che nella perlustrazione della
propria stanza. Se ora guardiamo all’insieme delle Operette incontriamo a ogni passo una riprova della continuità pressoché ossessiva di questa struttura metaforica: particolarmente evidente nelle pagine che sfuggono al principio del divertimento più o meno letterario (al riso freddo teorizzato da Leopardi
in una lettera) e si addentrano invece nella profondità, tersa e cupa al tempo stesso, dell’esplorazione filosofica. A cominciare dalla Storia del genere umano, introduzione-sommario dell’intera raccolta, dove i temi del Torquato e del Colombo sono sorprendentemente anticipati [...]. Questa operetta, che potrebbe tra l’altro essere interpretata come una metafora della personale evoluzione del poeta (felicità infantile —
noia,
pensieri di suicidio — dolori e susseguente riattaccamento alla vita attraverso le illusioni — ingresso della verità — distruzione delle illusioni, eccetto l’amore), ci offre una sintesi di ogni tema necessario alla chiarificazione del mito leopardiano. [..:]
Nel 1823, dopo il viaggio a Roma, egli ha capito che il suo sistema non può continuare a basarsi su ipotesi così labili come quelle delle illusioni, o della possibilità di essere felici altrove, nel tempo e nello spazio: parallelamente al mutarsi della mitica natura madre in matrigna, tutta la struttura del carcere va rivista e modificata. Se prima il carceriere chiudeva l’accesso al regno della felicità (la ragione, oppure l’incivilimento, oppure Recanati e magari il padre Monaldo), ora la natura stessa è diventata la gran carceriera, l’aguzzina (passando attraverso vari stadi: strumento neutrale nelle mani di Giove nella Storia del genere umano, semplice esecutrice del destino, volgare secondina, nel Dialogo della Natura e di un’Anima): e si può allora capire come la ragione riceva una specie di patetica assoluzione nel dialogo fra Colombo e l’amico. La nuova prigione, quella definita dalle Operette Morali, è sostanzialmente un allargamento smisurato della precedente. Anche qui, come era già accaduto per lo Zibaldone, l’opera non serve solo a definire un’intuizione della realtà: essa ne è al tempo stesso il primo significativo prodotto. In altre parole: le Operette morali non sono tanto la rappresentazione di un universo car-
cerario quanto un perfetto carcere in se stesse. Si pensi a quella prosa vastissima,
120
tutta echi, attonita
senza
stupefazione,
alla sua lentezza così
diversa da quella dello Zibaldone: les jeux sont faits nella vita universale, niente accadrà più veramente. Il diario personale lascia il posto al diario di un cosmo bloccato che ascolta il respiro stranito delle sue vecchie favole; tutto il grande ingranaggio si incanta, perde ogni senso di responsabilità, dà vita al gioco delle parti, ai ruoli capovolti: Ercole e Atlante, Terra e Luna, Copernico e il Sole, la Moda e la Morte. L’opera è piena di sussulti di falsa libertà, movimenti legnosi di pupazzi, come quelli delle macchine immaginate dall'Accademia dei Sillografi; traversate di oceani che sono passeggiatine di forzati, o il viaggio dei tre dèi ne La scommessa di Prometeo che assomiglia troppo a una gita di ispezione; giochi funebri di bussolotti con esito scontato, morti che emergono dalla prigione della morte per ripiombarvi a ore fisse, dèi che mantengono in vita il genere umano attraverso graduali miglioramenti del servizio interno, specchietti e gingilli, Amore e Sofferenza. Se è così, l’universalizzazione del carcere coincide con la chiusura di ogni sbocco. [...] Se il suicidio è la forma estrema di evasione, esso va riconosciuto continuamente in teoria e negato in pratica: come è tipico della struttura carceraria che vieta l’evasione ma non può cancellare l’idea delia libertà, di cui ha bisogno per legittimarsi in quanto carcere. È quello che accade ne La scommessa
di un Metafisico:
il suicidio
di Prometeo
viene
e nel Dialogo di un Fisico e
addotto
come
prova
dell’infelicità
umana, non più accettato però e non ancora esplicitamente rifiutato. [...]
L’universo leopardiano attraversa così la sua glaciazione. La morte non è più il furioso, stordente amplesso sul quale veglia la lucida sterilità della luna: è una cosa frigida che avvolge il mondo intero e gli comunica il suo squallore. Dice la Moda alla Morte: « Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva: tanto che questo secolo si può dire con verità il secolo della morte ». È il vecchio concetto espresso già prima dello Zibaldone, ora capovolto, con il raggiunto primato della morte nei rapporti con la vita, che è anche il senso delle mummie di Ruysch: «come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? » si chiede una di esse, e la risposta è implicitamente negativa. Sogni di questa morte spuntano dappertutto: «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta », annuncia il folletto allo gnomo; « non si trova più regni né imperi ci vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati: non si fanno guerre, e tutti gli anni si as121
somigliano l’uno all’altro come uovo a uovo ». « Il non vivere è sempre meglio del vivere », garantisce Malambruno a Farfarello. [...] Per citare Pascal, al quale sostanzialmente Leopardi risale, oltre gli illuministi: « Dans la vue de ces infinis tous les finis sont égaux et Je ne vois pas pourquoi asseoir son immagination plùtot sur l’un que sur l’autre ». Quanto ha insegnato (forse indirettamente) Pascal a Leopardi! Tranne il bisogno di un Dio, sostegno e distruzione del sistema pascaliano, rifiutato da Leopardi come sbocco troppo pericoloso, l'evasione massima. Tagliare i ponti con l’infinito, dunque, e col futuro dell’individuo e delia specie; ma non solo, vanno anche tagliati i ponti col passato, e infatti un’altra conclusione riguarderà la necessaria infelicità degli antichi, per bloccare ogni rifugio nell’età dell'oro. E più in generale: il « vero » è disastroso ma è l’unica condizione possibile, le illusioni sono belle ma fuori portata (Dialogo di Timandro e di Eleandro); la vita.si basa sulla condanna della vita, generando la « mostruosa contraddizione » che sarà illustrata dalla [...] più convincente definizione del « male assoluto »: Non v’è altro bene che il non essere;
non v’ha altro di buono che
quel che non è; le cose che non son cose... L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, ‘un’irregolarità, una mostruosità. (Zibaldone,
19 aprile 1826)
L’imperfezione è ormai « essenziale ed eterna, non accidentale », e tutto questo finisce con l’ispirare un malcelato senso di sicurezza, di ristoro: Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io l’ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. (Zibaldone,
21 marzo
1827)
Come funziona bene la muraglia! Assai meglio di prima, si direbbe; e della luna non c’è più bisogno. « Notte oscurissima, senza luna né stelle » è quella di Tasso; senza luna è anche la notte di Colombo; droghe, vino, sogni e viaggi hanno preso il suo posto. In una sola operetta essa riappare, nel Dialogo della Terra e della Luna, che è tutta una ciarliera personificazione e perde quindi il primo valore simbolico della luna, che è il silenzio; con un fugace brivido intermedio, quando all’affollarsi di domande della Terra la Luna, quasi trasognata, risponde: 122
Va pure avanti: che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito...
Ma è solo un momento. Il suo. dolce ammonimento di impotenza è ormai diventato la sostanza stessa del globo; ed. ella non veglia alle soglie del carcere, ma vi sta chiusa dentro, fra gli altri oggetti. Quando Leopardi lascia Recanati nel 1825 è maturo per farlo. Il colpo è andato a segno: riuscire a muoversi nel mondo come in una più vasta prigione, e questo è stato possibile facendosi invadere dalla morte, soffocando sul nascere ogni istinto di evasione: «io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente » (Zibaldone, 3 novembre
1825). FRANCO
* F. Ferrucci, Addio al Parnaso, Milano, Bompiani,
FERRUCCI *
1971, pp. 102-06, 126-29.
125
UN
LE « OPERETTE «CIMITERO DI MORTE
Dal volume
della economica
MORALI »: ILLUSIONI BIZZARRE »
mondadoriana
che, intitolato
al Leo-
pardi, « raccoglie gli scritti di Riccardo Bacchelli sull'argomento sino a tutto il 1959 », abbiamo estratto quegli spunti nei quali, discutendo delle Operette morali (sia pure in occasioni ed in tempi diversi), il Bacchelli
delinea, al di là del caratteristico « rondismo » del suo approccio al Leopardi, il ruolo che quest'opera gioca nella produzione leopardiana e chiarisce come, pur con una loro peculiarissima fisionomia, le Operette si inseriscano nel complesso ifer di quella che comunemente è detta la « poesia leopardiana ».
[...] Già ai gloriosi esordi eran due e contemporanee le ispirazioni: d’una lirica di affetti e di contemplazione, e d’una tragica e morale. [...] Il dramma [...] di Virginia romana, dei Patriarchi, dei selvaggi californiani intatti, di Saffo e di Bruto costretti a gridarsi inutili, è espresso nelle nove canzoni che precedono i Canti più propriamente lirici. Voglion esser lirica,
e sono
anzi pur esse lirica morale, patriottica, esortativa, ma
il concetto ultimo, spiegato e spietato nel « Bruto minore » e nell’ « UItimo canto di Saffo », è che il fato nella sconfitta dei virtuosi e dei prodi persegue e suggella la sconfitta dell'umanità. A Leopardi non par tanto iniqua la misteriosa ingiustizia di questo fatto, quanto la sua certissima inutilità. [...] A me pare che cotesta lirica, aggiungendo un riflesso dell’eloquenza passionata di Rousseau a Plutarco, e un senso moderno e sconsolato del deserto spirituale al senso cristiano tradizionale della vanità delle cose, abbia una parentela profonda e remota collo Shakespeare plutarchesco del « Giulio Cesare » e del « Coriolano », cioè delle tragedie più vicine, fra 124
quelle del grande inglese, al concetto classico dell'eroe in lotta col deStino 1]: Ben è vero che Shakespeare ha provveduto anche all’implicito commento lirico, mentre tali clausole severe di Leopardi postulano una tragedia, non che conclusa, consumata nel suo spirito. Ergere per sè stesso al polo la mente, potente quanto deserta ingiunzione stoica, occorre poiché, unica realtà, Preme
il destino
invitto e la ferrata
Necessità gli infermi Schiavi di morte.
E se, dopo le nove canzoni, che stanno per una ragione assai più valida della cronologia a preambolo dei « Canti », come a testimoniare la tragedia consumata, mi si perdoni l’immagine, innanzi il levar del sipario; se egli credette esausta la sua vena ch’era già felice e perfetta [...], il suo silenzio lirico per più anni attesta, non meno di quelle espressioni vigorose, la gravità morale e la pena dell’animo e la serietà di quei pensieri, nullameno
che la finezza del suo istinto infallibile d’artista.
[...]
Nel ’25, già s'era creduto d’avere rinunciato alla poesia e specialmente a quella degli affetti e dell’entusiasmo, per la prosa della satira, imparando, com’ebbe a dire, a sorridere, mutandosi d’Eraclito in Democrito, speculando l’arcano pet inorridir freddamente, sostituendo alla generosità delle passioni una « vana curiosità ». E per qualche tempo aveva potuto credere la satira un pungolo per destare, anch'essa, il sopor d’Italia e del secolo: il programma dunque delle canzoni? Ma quel programma appunto l’aveva condotto alla conclusione d’un ordine di pensieri da non sopportare d’essere ripreso e ripercorso né continuato ed esteso: a che mai, dopo ch’ebbe esclamato: « Oh infinita vanità del vero »? Imparare a sorridere, per la verità, poteva aver avuto, ed ebbe, un significato e una fecondità poetica, come quell’ironia raccomandata da filosofi romantici, della libertà dello spirito di fronte all’oggetto della sua propria tragedia e passione e ai suoi propri concetti. Ed è cotesta libertà in parte che rende possibile la poesia nella possente mole concettuale della seconda parte del Faust di Goethe. Nell’artista Leopardi, che la divinava in modi e necessità sue proprie, la libertà dello spirito di fronte alla sua pena d’uomo e alle superbe angustie dello stoicismo, assunse modi d’una ironia lieve, scherzosa e penetrativa, ch’era anche una disposizione di famiglia (chi ripensi lettere, anedi 740)
doti, le stesse scritture del padre polemista reazionario), adoperata a trattar gli argomenti della sua metafisica e morale, la sua angoscia, le sue visioni e fantasie immaginose. È l’incanto e la grazia sobria ed adusta delle « Operette morali », riuscite per fortuna della poesia quel che Tristano nell’ultima pagina definisce tanto bene « un libro di sogni poetici, d’invehzioni e di capricci malinconici ». [...] « Nei miei dialoghi » (Disegno di dialoghi satirici alla maniera di Luciano, che furono poi le Operette) « io cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importante, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ». Son parole dello Zibaldone (Vol. Int) e annunciano gli argomenti delle Operette nel ’21; ma non è chi non veda come queste siano riuscite qualcosa di profondamente diverso e più importante di una satira. [....] Le Operette nascono da una meditazione ripresa e riapprofondita degli argomenti delle Canzoni, volti anche al medesimo intento patriottico, entusiasta e retoricante, se non avesse patito un geniale inganno della sua grandezza di poeta. Infatti basta rileggere prima di tutte l’Inno ai patriarchi, tanto più ampio nella traccia prosastica ed ivi adombrante un presentimento della Storia del genere umano, e il Bruto minore e un po’ tutte. « Io sono mutato da quel che io fui » dice nel ’25, a Operette compiute, mostrando ancora una volta coscienza del significato spirituale di quell’esperienza avventurosa, mentre dunque prima di cominciarle [...] le designava come un secondo aspetto delle Canzoni. [...] E infatti è interessante notare che, anche nelle Operette infine, Leo-
pardi non solo riprese, come si proponeva, gli argomenti delle Canzoni, ma più veramente e profondamente riprese un corso di riflessioni e di pensieri molto più vasto e maturo, libero d’ogni traccia retorica e di quella infatuazione pindarica e patriotticheggiante per la quale le Canzoni ci sembrano fuor di tono nell’opera sua, e il lavoro suo unico compiuto con illusione e sotto influsso contingente. Infatti, a parte la pienezza d’ogni mezzo proprio ed espressivo, a parte ogni bellezza ed ogni peculiarità d’aria e di tono raggiunti, nelle Operette v'è pure una teologia ed una 126
cosmogonia e una geografia e mitologia, le quali ci riconducono suggestivamente, sulla scorta di un sistema filosofico tanto rigoroso quanto genialmente postulato in modo tutto da poeta, a quegli studi e riflessioni giovanili sui Padri greci teologi e razionalisti, e a quel Saggio sugli errori popolari degli antichi, condotto con tanto accorto gusto dal giovinetto delati 815.a[eal Alle « Operette », nel suo pensiero egli assegnava l’intento d’indagare, inorridendo, l’orribile vero; e vi si proponeva, di tal vero e del proprio pensiero, una formolazione filosofica. [...] Di fronte al suo vero e al suo pensiero, di fronte alle sue desolanti verità ed agli sconsolati effetti della riflessione, il Leopardi delle « Operette » non
insorge,
non
freme,
non
s’indigna,
non
piange
e nemmeno
più si dispera, poich’egli v’è disperato, una volta per tutte e per sempre. Ciò che veramente lo muove a scriverle è un bisogno umano di analizzare, con industria animata e spietata, fredda e lucida come il diamante della sua prosa, gli effetti e le conclusioni morali di una concezione della vita qual’è quella ch’egli s’è fatta; e del resto questo bisogno s’incontra in ogni suo scritto prosastico, sia le « Operette », le lettere, i diari, le note
dello « Zibaldone », i « Pensieri ». Ma nelle « Operette » c’è un bisogno più veramente poetico, e che ne costituisce lo stile: è il bisogno di alleggerire, di divertire l'animo e l’angoscia, di mutare la propria doglia umana e filosofica in fantasiante invenzione di fiabe, apologhi, drammi, in invenzioni e capricci, come dice. Di che qualità e di che stile siano le favole, i dialoghi, le fantasie delle « Operette », s'intende senz’altro, quando si pensi alla qualità dell'animo che in esse cerca di alleviare e di divertire l'angoscia e il peso de’ suoi pensieri, esprimendoli ed esprimendone dialoghi ed incontri di personaggi in forma di scherzo ironico e di superior giuoco intellettuale. D'altronde, all’ironia era anche portato il Leopardi naturalmente, e specie a quell’ardua ironia di chi impara a scherzare sulle proprie pene dalla gravezza insopportabile delle medesime. E in questo senso ha una verità profonda il suo detto d’essersi mutato d’Eraclito in Democrito e d’aver lasciato il pianto per il riso sulla materia del suo stesso dolore. [...] Sono, in buona parte, le « Operette » il prodotto dei lieviti immaginosi ed umoreschi che le letture erudite vastissime giovanili, e la disposizione ironica e melanconica e disperata, avevano destato nel suo spirito incline per natura, non ostante la lucidità del suo intelletto filologico, a concepire la storia, le idee, le religioni, i miti e le filosofie, insomma la 127
storia dello spirito umano, come immenso repertorio di defunte stravaganze, un cimitero di morte illusioni bizzarre. Da tal sorte finale, nella storia del suo spirito, non si salvarono, quand’egli si immaginò filosofo, gli idoli della sua giovinezza, ossia l’amore e il rimpianto di ciò ch'era stato, in antico, giovinezza del genere umano: fede nella gloria, virtù, saggezza. Gli rimasero soltanto, rifugio orgoglioso più che consolazione, i principii della morale stoica. E questo processo si scorge, scrutato con acume singolare di moralistico e filologico scrutatore di se stesso, in « Operette » come « Il Parini » e il « Filippo Ottonieri » da studiare a parte. Ma di quel cimitero suddetto egli era proprio dall’indole incline a sentirne ironicamente, in un ideale paesaggio remoto e funebre, in un paesaggio di ombre e di sepolcreti, appunto la stravaganza, ossia quella che sembra tale quando fantastichiamo sulla lettera di idee e di pensieri e di convinzioni e di religioni passate, senza ricrearne lo spirito e la ragione, in che consiste la storia. La storia, per il Leopardi, era una raccolta sterminata d’errori innumerevoli e di stranezze illogiche e di costumi bizzarri e di passioni ingannevoli. Il libro delle « Operette », che di cotesta messe raccoglie il frutto melanconico e fantasticante, è dunque benissimo definito dall’autore, nel dialogo di Tristano e di un amico, « un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici », « espressione dell’infelicità dell’autore »: benissimo e compiutamente, quando si aggiunga che il libro rispecchia, di cotesta infelicità e melanconia, l’umore ironico e scherzoso e sarcastico ed irridente, ch’esse assumevano quando lo spirito del poeta abbandonava la poesia lirica. [...] E il criterio per gustarle e giudicarle criticamente, sta e deve stare nel distinguere, dove e quando tal satira riesca arguta; dove e quando abbia, come si suol dire, sale ed aceto; e dove poi si trascenda nell’espressione e immagine di quel freddo orrore cosmico, di quello squallore inorridito nella considerazione di un mondo inutile, assurdo, sconsacrato, ch'è propria del Leopardi prosatore, ossia privo di quell’entusiasmo lirico che cotesto mondo pure riempie del suo dolore e della sua disperazione e del loro grido immortale. Dove le « Operette » rappresentano un tal mondo perduto senza vita in un’immensità morta senz’echi, ivi sono grandi e potenti, nell’espressione d’un sentimento e d’un pensiero affranti e stanchi di sè medesimi, ed anche a sè medesimi irridenti. Tale espressione, in alcune di esse raggiunge il sublime, mentre d’altronde stupisce, chi legga il libro, la fervida varietà e la molteplicità dei pretesti e delle invenzioni che il pensiero 128
leopardiano, in sé monotono
e limitato, suscita e muove
nella sua fan-
tasia.l..-]
Una delle vene poetiche che sono da riconoscere e da seguire nelle « Operette », oltre la maggiore delle grandi visioni cosmiche in cui si sublima l’angoscia del poeta, è quella del sorriso su sè medesimo, sui propri pensieri, sull’infelicità propria. Se infatti nelle « Operette » c’è per così dire un’ostinazione ragionativa nell’angoscia e nell’infelicità, la quale si esplica ed è riconoscibile in gran parte dei ragionamenti, e, quando vuol sorridere, ghigna freddamente in arguzie stentate ed illepide: se questo c'è nelle « Operette », v'è pure, e di molto prevalente, oltre l’arguzia inventiva e felice dell’artista, il penetrante ed alato sorriso, che è dello spirito quando, come distaccato da ciò che l’aggrava e lo nutre: affetti, passioni, pensieri stessi; si contempla nell’opera propria, nei risultati della sua fatica, conoscitivi o poetici che siano, e li allontana da sè, li circoscrive idealmente, ne riconosce i limiti, la qualità loro finita e conclusa e perfetta e riposata e luminosa, di contro il travaglio oscuro, illimitato, indefinito, e fecondo, da cui nacquero quelle forme e figure d’arte e di pensiero. Un tale atto dello spirito, un tal sorriso umanissimo e pur superiore a quel ch'è umano, non può essere se non fuggevole e librato: in parte si traduce in grazia, in quelle sempre rare opere che hanno la loro principale ragion d’essere nella coscienza e nel sensò che le formano e pervadono del dono felice. Il loro carattere stilistico sta nella lievità del tocco, che sfiora ciò da cui nascono e ch'è dato tutto come un presupposto, su cui esse sorvolano: sia intensità di passioni, sia profondità di pensieri. L’ardua ed agevole grazia di un tal sorriso contemplativo, più volte s'incontra nelle « Operette.», e, per esempio, in quella biografia intellettuale e immaginaria, che «il Leopardi v’ha finto di sè stesso, nei « Detti memorabili di Filippo Ottonieri ». Ma essa proprio sfavilla dolcemente, e tutta di sé informa, e tutta si esprime in questo dialogo [Didlogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere], che ferma con tanta agilità, con un garbo di stile così impeccabile, un momento tanto vero e tanto fuggevole, uno di quei sentimenti dell’esser nostro tanto intimi e sorgivi e impalpabili, che a dirli e a definirli, quasi pure a farcene coscienza e ragione, si teme di irrigidirli e di mortificarli, e di farli sparire prima di esprimerli. RiccARDO BACCHELLI * * R. BaccHELLI, Leopardi, Milano, Mondadori (B.M.M.), 1962, pp. 18-22, 34-36, 83-84, 287-89, 347-48.
129
IL « MESTIERE
LETTERARIO
» DELLE
MORALI
« OPERETTE
»
Chiudiamo questo gruppo di letture dedicate alle Operette morali riportando alcune riflessioni del Bigi che ci sembrano rappresentare un vero e proprio bilancio critico del problema e, insieme, un forte incentivo per una lettura modernamente chiara e consapevole delle Operette morali. Il Bigi applica qui i metodi della critica stilistica, ma quel che abbiamo voluto cogliere nel suo studio non è tanto un’indicazione di metodo (le poche esemplificazioni specificamente metodologiche presenti nel nostro stralcio vorrebbero, come al solito, rimandare alla lettura dell’opera completa) quanto un’offerta di risultati esemplari per la loro chiarezza e forza di convinzione.
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Alla fine di un lungo processo di ricerca (che appunto in questo brano il Bigi rievoca) ci troviamo, dunque, in possesso di moduli efficacissimi per accostarci a quella che è senza dubbio la più difficile, ma anche la più modernamente viva delle opere leopardiane e che ci appare come il prodotto di una estrema sensibilità culturale, raffinatezza stilistica ed elaborazione intellettuale: specchio di una «chiarezza interiore che rifiuta la letizia e i sogni ma anche il pianto » e che, soprattutto, permette alla propria vicenda di « inquadrarsi in un ordinamento universale, consapevolmente indagato e accettato ».
Soprattutto in alcune brevi ma acutissime osservazioni del Russo mi sembra che l’interpretazione della prosa leopardiana venga impostata nella direzione più aderente, là dove il critico parla di « poesia della mente », di « arte rarefatta e intellettualissima », che, « a dispetto di ogni canone romantico o storicistico, ha la sua poesia ». Ma direi che già il Fubini ci mette su questa via tutte le volte che, a contatto della concreta poesia delle Operette (e specie in alcune analisi di singole prose), in quella innegabile attenuazione dell’affetto e dell’ardore, vede non una mortificazione della poesia, ma una modificazione e caratterizzazione psicologica 130
del tono poetico. Questa a noi sembra invero la strada giusta per arrivare ad una positiva comprensione dell’arte delle Operette: non potla cioè in proporzione diretta ad un affetto verso concetti o altro, e che risulterà necessariamente smorzato, ma în relazione all’effettiva capacità di rappresentare una situazione di sovrumana moderazione affettiva, di alto dominio interiore, in cui gli antichi ardori e le antiche passioni non possono apparire che come ombre remote, che si profilano tacite e incorporee in un animo ormai chiaro e sicuro della vanità delle cose del mondo e della tenuità della vita. Credo che la migliore formulazione di questo atteggiamento si possa ancora cogliere da quella singolare poetica delle Operette che è pure il Tizzandro, se letta senza pregiudizi e con attenzione filologica al significato delle parole. Né odio né ira né amore hanno mosso Eleandro a scrivere: ...11 concetto della vanità delle cose umane, mi riempie continuamente l’animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l’ira e l’odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non è conveniente alla tenuità della vita... .. non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile.
Che cosa ci autorizza a cercare, come solitamente si fa, tra le righe di queste pacate affermazioni una sanguinante agitazione passionale che il Leopardi dichiara invece di avere oltrepassato? Le ragioni che hanno indotto Eleandro a usare cotesto modo di scrivere sono « l’intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione », ed anche, è vero, l’intenzione di « dolersi del fato »; ma non mettendosi « a sospirare, lagrimare e stridere insieme con altri », sì invece «ridendo dei nostri mali» con quella disperazione che « ha sempre nella bocca un sorriso » [...]. Una situazione dunque di estrema chiarezza interiore, che rifiuta la letizia e i sogni ma anche il pianto; una disperazione (è bene non dimenticarlo) nel senso antico di privazione di speranza, una conquistata « indifferenza » verso sé e verso il mondo; e che potrà sì talora incupirsi in grave malinconia, sempre però contenuta in linee limpide e severe, ma anche alleggerirsi in un «sorriso », in « un’allegria » savia, nell’ironia riposata e dolce di Socrate e di Filippo Ottonieri. A noi appare infine come una singolare conferma di questa situazione psicologica, il fatto che essa si presenti, a chi ben guardi, come lo sviluppo storicamente coerente, e vorrei dire necessario, di quello stato 131
d’animo che si è venuto lentamente formando negli anni che precedono immediatamente le Operette, attraverso le assidue meditazioni dello Zibaldone ed altre esperienze minori come il viaggio a Roma. In quegli anni infatti il senso — tipico della poesia giovanile — di una infelicità singolare propria della « sensibilità » sua. e di poche « gentili anime », a poco a poco si trasforma in una ferma e lucida chiarezza interiore, che vede quella infelicità inquadrarsi in un ordinamento universale, consapevolmente indagato e accettato. E se il Leopardi insiste talora in quel periodo sulla propria aridità fantastica, non dimentichiamo che già prima delle Operette quello stato d’animo ha trovato espressioni letteraràiamente e poeticamente assai alte in testi come la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, alcune lettere del 1823, e soprattutto la canzone Alla sua donna, così intensamente poetica nel suo « colorito sobrio e severo » (De Sanctis). Proprio questa nuova ispirazione
e questo nuovo gusto si continuano nelle Operette, e con più ampi e "complessi risultati artistici [...]. Fin dal 1821 la prosa non appariva allo scrittore come strettamente legata ad una situazione necessariamente impoetica, ragionativa, critica, polemica, quanto piuttosto come una specifica forma di espressione, più adeguata del verso a « pensieri poetici, veramente propri e moderni », e « meglio armonizzante con quelle idee che non hanno quasi niente di versificabile », con quelle idee, cioè — come egli dice spesso — tra « filosofiche » e « sentimentali », che nascono dalla conoscenza chiara e ferma della vanità degli ideali e della tenuità della vita. Ma non è proprio questa la situazione psicologica che ci sembrava di poter affermare propria delle Operette? Siamo così incoraggiati a pensare che se il Leopardi, dopo gli ondeggiamenti del ’22-’23 fra prosa e verso, ora, consolidata la sua posizione spirituale, si dedica esclusivamente alla prosa, ciò non avviene perché egli rinunzi alla poesia, ma proprio per il definitivo matutarsi di
una nuova fase artistica. Tale
giustificazione
acquisterà
più concreta
evidenza
se scendiamo
agli aspetti particolari di questa prosa. Il suo aspetto forse più appariscente, se non più importante, è la letterarietà. Letterario appare subito lo SA generale del libro, a cominciare dal titolo stesso che non a caso riecheggia un analogo titolo plutarchiano; letterarie sono le « invenzioni » delle singole operette, che apertamente si configurano come miti, trattati, elogi, detti memorabili, dialoghi di tipo platonico, ciceroniano, rt secondo forme