Dizionario della critica d'arte Vol. 2
 8802025789

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LUIGI GRASSI MARIO PEPE

DIZIONARIO DELLA CRITICA D’ARTE

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LUIGI GRASSI MARIO PEPE

DIZIONARIO DELLA CRITICA D’ARTE diretto da Luigi Grassi ura di L. Grassi e M. Pepe

Volume II

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© 1978 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino Tipografia Sociale Torinese corso Monte Cucco, 108 - 10141

ISBN

88-02-02578-9

Torino

M.A.C.

(Movimento

per

l'arte

concreta).

Movimento

fondato a Milano nel 1948 come ripresa e sviluppo degli orientamenti del Concretismo, quali si erano affermati in Lombardia nel decennio precedente; fondatori del M.A.C. furono G. Dorfles, G. Monnet, B. Munari, A. Soldati; prima manifestazione pubblica la mostra alla Libreria Salto di Milano nel dicembre del 1948; dal novembre del

1951

si pubblica un Bollettino, e varie si susseguono

le

mostre; una delle più importanti quella del 1951 alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma; in quell'occasione

G. Dorfles redige il Manifesto de/ M.A.C., in cui riafferma la distinzione tra pittura ‘ astratta’ e pittura ‘concreta ‘; in sostanza il M.A.C. tentava « di opporsi al dilagare di espressioni ambigue, in gran parte di derivazione post cubista, che erano venute proliferando nell'immediato dopoguerra» (G. DORFLES, 1973, p.80); e ciò mediante la ricerca di forme pure, del tutto svincolate ed indipendenti da ogni rapporto naturalistico. Altra aspirazione è quella alla sintesi delle arti; così chiarisce il problema F. Passoni: « Sintesi è il diretto concorso di tecnici e artisti, sul piano della stretta collaborazione, per il raggiungimento finale di un Concreto il quale aderisce alla Funzione in armonia di colleganza fra il mondo della forma, lo spazio e l'applicazione pratica dell’opera collettiva » (rip. in I. TOMASSONI, 1971, pp. 43-44). Nel 1955 il M.A.C. si fonde con il francese gruppo Espace, v. (M.A.C.- Espace), presentandosi nel maggio alla Galleria del Fiore di Milano con una mostra dal titolo significativo: Esperimenti di sintesi fra le Arti. Ma l'emergere di orientamenti contrastanti al suo stesso interno, l'affiorare di nuove problematiche, in particolare le suggestioni dell’Informale (v.) allora in piena affermazione, portarono ad un rapido esaurirsi dell'esperienza del M.A.C., la cui attività si concluse nel 1958. [P.]

Maccaronesche, Macchia.

Pieghe. V. Panneggio.

Nel significato di chiazza

che sollecita l’im-

maginazione del pittore, il concetto di M. risale ad un me-

morabile precetto di LEONARDO (1452-1519): « Non resterò di mettere fra questi precetti una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l'ingegno a varie invenzioni. E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai

ridurre in integra e buona forma » (n. 63). Ciò significa che

l'osservazione dall'esterno di una M. informe stimola ed insieme rivela alla mente dell'artista un nucleo interiore dell'immagine, che tende a manifestarsi anzitutto come un

ran esa 5

19. Grassi-Pepe, Il

primo schizzo (v.). Leonardo non adopera la parola schizzo: ma nel sec. XVI, schizzo e M. vengono identificati (es., G. VASARI, 1568: schizzi «fatti in forma di una machia », I, p. 121). D'altra parte, mentre la M. per Leonardo costituisce il punto di partenza, per quanto concerne la realizzazione dell’opera d’arte, l'abbozzo (v.) ne rappresenta, per dir così, il punto d'arrivo. G. VASARI (1568), come si è accennato, parla dell'aspetto di M. che è spesso tipico di quei disegni che gli artisti accennano «in una sola bozza del tutto. E perché dal furor dello artefice sono in poco tempo con penna o con altro disegnatoio o carbone espressi solo per tentare l'animo di quel che gli sovviene, perciò si chiamano schizzi » (/ntroduzione alle tre Arti: della Pittura, |, p. 121). Talora però il Vasari si serve della parola M., non in riferimento al nucleo primo dell'opera d’arte, ma per esprimere un modo di fare abbozzato, impressionistico. Per es., a proposito di Giorgione, parla a un certo momento di «macchie di color di carne » in due teste dipinte di sua mano (III, p. 417). E la parola M., nei diversi significati di prima idea o di visione abbozzata, ricorre sovente presso i critici d’arte del sec. XVII, e successivamente. Un singolare critico del fenomeno coloristico della pittura veneziana, M. BOSCHINI (1660), considera il tratto (v.) e la pennellata (v.) dei mezzi espressivi che derivano dalla pratica, dall’abitudine di un artista; invece la M. è veramente l'intuizione prima, il nucleo dell’opera d’arte, ed equivale alla invenzione, v. (facoltà creativa del pittore). Nella sua Carta del navegar pitoresco spiega infatti: «La machia adonca nasse de maniera — el trato / d'artificio de dotrina » (p. 332). E altre variazioni semantiche del termine M. si leggono presso C. C. MALVASIA (1678). Egli usa l’espressione: « bella macchia », in merito ai paesaggi del Guercino, in cui « sempre vi si scorge una somma facilità di mano esercitata, e sicura » (Il, p. 298). Ma, prima ancora, con acume critico aveva scritto del percorso giovanile dello stesso Guercino «Era sino da quei principii il dipingere del Barbieri tutto fondato sul naturale, dal quale religiosamente copiava ogni cosa nella sua stessa rozzezza, e semplicità; prendeva

il lume assai d'alto per ottenere l’effetto d'una gran macchia; ch'egli sapea dolcemente accordare, e pareano le sue cose dipinte a chiaroscuro anzi che no» (Il, p. 280).

Importanti le definizioni di F. BALDINUCCI (1681), le quali ormai si richiamano ad un tradizionale uso orale del termine M.: «I Pittori» — scrive difatti — «usano questa voce per esprimere la: qualità d'alcuni disegni, ed alcuna volta anche pittura, fatte con istraordinaria facilità, e con un tale accordamento, e freschezza, senza molta matita o colore, e in tal modo che quasi pare, che ella non da mano d'Artefice, ma da per sé stessa sia apparita sul foglio o su la tela, e dicono: questa è una bella macchia ». Inoltre: « Anche appresso i Pittori usasi questo termine ne’ ritratti ch'essi fanno, senza avere avanti l'oggetto, di-

290

Macchiaioli

cendo ritrarre alla macchia, ovvero questo ritratto è fatto alla macchia» (v. Ritrarre alla macchia). D'altra parte il termine M. nel senso di fare abbozzato, largo o preciso, ricorre presso A. M. ZANETTI (1771). Il quale dice di G. B.° Piazzetta: « Gran Maestro d'ombra e di lume, fu il nostro Piazzetta... poiché non solamente usò nelle opere sue d'un certo gusto di macchia, siccome dicono, ma ne segnò e decise con dolce precisione tutte le parti, che in essa macchia sono comprese, col mezzo de' riflessi, e con l’arte di fortissimi scuri opportunamente disposti con l'ajuto sempre della verità » (p. 456). Dai pittori italiani del sec. XIX il concetto di M. sarà adottato per designare un orientamento figurativo di valore generalmente antiaccademico, in quanto all'immagine artistica realizzata dal disegno lineare si sostituisce quella costruita in ogni caso dalla pennellata, che con rapida intuizione pittorica esprime il sentimento provato dall'artista. | pittori toscani chiamati macchiaioli (v.) intesero la M. come il giustapporsi di zone di colore, di toni che concorrono a definire le forme non in modo impressionistico. Un teorico dei macchiaioli, Adriano Cecioni (1836-1886) nega pertanto che «macchia voglia dire abbozzo »; la M. realizza la sintesi del vero mediante il rapporto tra zone diverse di colore-tono: « Il vero risulta da macchie di colore e di chiaroscuro, ciascuna delle quali ha un valore proprio

che si misura col mezzo 1955, p. 166).

del rapporto » (rip. in L. GRASSI,

Il concetto di M. assume, al contrario, il significato di nucleo

della

immagine indistinta nel costruirsi dell'opera d’arte presso V. IMBRIANI (1867/1868), il teorico della ‘ macchia’ a Napoli. Importante è il suo opuscolo, su «La quinta Promotrice »: dove la M. è definita ‘idea pittorica’, prima impressione soggettiva dell'opera d’arte. Dice ad un certo punto Vittorio Imbriani: «La macchia è tutta quanta dell'artista: è il modo suo proprio di afferrar quel tema che si propone; è la sua idea, è la parte subjettiva del quadro; mentre invece l'esecuzione è la parte objettiva, è il soggetto che si fa valere e si impone» (p. 51). La M. è allora niente altro che intuizione (v.), immagine interna (parte subjettiva), rispetto alla espressione, v. (parte objettiva); e B. CROCE (1904) in un suo saggio identificava precisamente il suo concetto di intuizione con l’idea pittorica, o M. dell’Imbriani. Ciò si spiega perché l’Imbriani, essendo scolaro del De Sanctis e al corrente della filosofia hegeliana, si trova già sul percorso che conduce all'atteggia-

mento crociano. Con la differenza che il Croce considerava la intuizione-macchia, una immagine già chiara e determinata, identica alla espressione (v. anche Macchiaioli).

Coni

(ch

Macchiaioli. Il termine che designa quello che a ragione è ritenuto il più importante l’Ottocento italiano fu adoperato giativo sulla Gazzetta del Popolo pittori che avevano esposto alla

movimento pittorico delin senso ironico e spre(1861), riferito ad alcuni ‘ Promotrice‘ fiorentina

dello stesso anno: tra di essi G. Fattori, T. Signorini, S. Lega, S. De Tivoli, V. Cabianca, O. Borrani; si trattava

di un gruppo di artisti che — assieme ad altri non presenti all'esposizione del ’61, soliti riunirsi in una sala del Caffè Michelangelo in via Larga —, già da anni, almeno dal 1855, andavano ricercando un modo nuovo di fare pittura: parallelamente alle istanze di rinnovamento politico essi tendevano ad un sovvertimento delle regole ‘ accademiche ‘, in nome del ‘ vero ‘, della ‘realtà’, di un rapporto diretto con la natura. Telemaco Signorini, che si considera il teorico del movimento, scriverà più tardi (1889): « Sapete, secondo noi, l’arte grande qual'è? È quella che esige dal-

l'artista non cultura storica né talento immaginativo, ma osservazione coscienziosa e esatta delle infinite forme e caratteri di questa natura, che vive contemporanea a noi »

(rip. in L. VENTURI, 1956, Macchiaioli, p. 161). Il mezzo ritenuto idoneo per realizzare tali aspirazioni fu un procedimento pittorico che, negando validità alla nitida costruzione del

disegno lineare, esaltasse il valore del colore, l'intensità del rapporto luce-ombra, con il conseguente rifiuto di una inattuale iconografia: «I macchiaioli rinunciarono ai soggetti storici, alle scene sentimentali, per dipingere gli amici, gli animali, verso cui andava la loro simpatia, i paesaggi che erano la cornice della loro vita contemplativa » (L. Venturi, cit., pp. 161-162). Per la loro pittura si parlò dunque di macchia (v.), e tale definizione usata — come si è detto — dalla critica tradizionalista per denigrarne i risultati fu accolta con atteggiamento polemico e di sfida dapprima dal Signorini e poi — rispondendo ad una reale ricerca stilistica — divenne di uso comune sino a comprendere, con . indebita

estensione,

i pittori toscani

di orientamento ‘ve-

ristico’ operanti, ormai al di fuori di ogni collegamento con l'originario movimento dei M., sino agli inizi del Novecento. Altri nomi proposti — sempre con intenti spregiativi — dopo la mostra del 1861 furono quelli di ‘ effettisti ‘ e ‘ progressisti’, usati da Yorick (cfr. P. BUCARELLI, 1956, p. 14). Può solo stupire che ‘ macchia’ — voce documentata nella letteratura artistica fin dagli inizi del sec. XVI ed usata sino ad allora con implicazioni positive — fosse assunta, almeno inizialmente, quale strumento di denigrazione e facile ironia; si trattò peraltro di un evidente eccesso

di zelo

espresso da una critica incapace di avvertire i valori e i significati presenti nelle opere degli artisti poi definiti M., ma — certamente in modo inconsapevole — pronta ad intendere attraverso quali mezzi formali si attuasse il rinnovamento da loro ricercato. La fortuna del termine fu comunque notevolissima; raccolto subito dagli artisti stessi, venne utilizzato largamente dalla critica, che contemporaneamente approfondì e dibatté il problema

attenzione

di una

definizione

ed un impegno

lievo assunto dal movimento

della ‘macchia’,

strettamente

con

dipendenti

una

dal ri-

pittorico che da essa era stato

definito. Scriveva nel 1865 il critico napoletano F. Netti: «Una parola, che è l’intercalare di quasi tutte le discussioni artistiche, e che in molti casi è una buona sfuggita pe' giudici d’arte imbarazzati, è la parola ‘“macchia‘. Ne ignoro l'origine, e non comprendo la ragione del significato di questa parola; ma poiché tutti l’accettano, subiamola. Suol dirsi ‘macchia’ l'impressione generale del colore o dell’effetto, tal che un quadro finito ha la sua macchia, e quando il quadro si limita a dar un cenno del colore o dell'intonazione, lo stesso quadro dicesi ‘macchia’» (rip. in P. BAROCCHI, 1972, p. 246). Un significato teoricamente più determinante assunse presso l’altro napoletano V. Imbriani, per il quale la macchia finì per costituire una sorta di ‘idea pittorica’ quella che crocianamente sarà poi definita intuizione (v.); ma per il problema si rinvia alla voce Macchia. Il primo che comprese il valore della ’ poetica’ dei M., dei quali difese pubblicamente l’opera con felice intuizione critica, fu il fiorentino Diego Martelli (1838-1896), cui si deve la fondazione di un settimanale, il Gazzettino delle Arti del Disegno, che divenne palestra di vivaci polemiche e stimolanti discussioni. È tuttavia in una conferenza del 1877 — allorché il movimento dei M. aveva di fatto concluso il suo percorso — che il Martelli fissa quella che è stata definita «la prima, pur nella sua sintesi, vera storia del movimento

macchiaiolo » (R. DE

GRADA,

1967,

p. 16); ri-

levante è la precisa puntualizzazione dell'importanza dell'apporto napoletano, segnatamente di Domenico Morelli: « Si può dire che fosse quella la prima volta che si sentiva parlare a quel modo, e si discorreva di tocco, di impressione, di valore e di chiaroscuro» (D. MARTELLI, 1877, p. 92); come anche è bene chiarito il significato della « venuta di Nino Costa Romano fra noi» (cit., p. 93). Il Martelli è ben consapevole del significato innovatore, rivoluzionario della ‘ macchia‘: « Si doveva dunque combattere e combattendo

una

bandiera,

ferire,

era

e fu trovata

quindi

necessaria

la ‘macchia’

un'arma

ed

in opposizione

Madonero

alla forma... e fu detto che la forma non esisteva e siccome alla luce tutto risulta per colori e per chiaroscuro così si volle solamente per macchie ossia per colori e per toni ottenere gli effetti del vero » (cit., p. 93). Come prova la larga partecipazione di artisti di diversa provenienza quello dei M. deve essere considerato un fenomeno italiano e non toscano, che si inserisce nel più vasto movimento del realismo (v.) europeo, parallelo all'Impressionismo (v.) francese; ma da esso indipendente. Il movimento dei M. nasce nel segno di un rifiuto del logoro ‘ accademismo — neoclassico o romantico che fosse — e di una conseguente ansia conoscitiva del ‘vero ‘; si esaltò così in esso «una netta affermazione della possibilità umana di conoscere il mondo in tutta la sua consistenza oggettiva, attraverso la diretta osservazione ed esperienza » (C. MALTESE, 1960, p. 171). Peraltro ha giustamente rilevato P. Bucarelli (cit., p. 19) la rivoluzione della ‘ macchia’ ebbe una

rapida fine: «Il grande ideale del ‘vero’ s'immiserì nella piccola soddisfazione d'imitare la natura con pedestre fedeltà, l'adesione vivace ai fatti contemporanei che era stata una delle conquiste del realismo si ridusse alla descrizione episodica della vita borghese e paesana ». AI movimento dei M. — oltre a quelli indicati quali presenti all'esposizione fiorentina del '61 — parteciparono con intendimenti e risultati diversi numerosi altri artisti, tra i quali si ricordano almeno: G. Abbati, C. Banti, G. Boldini,

A. Cecioni, U. Liegi, R. Sernesi.

Macchiati

[P.]

de’ paesi, I. Zone o parti dei paesaggi

eseguiti a macchia, cioè con fare di macchia. L'espressione è adoperata da G. VASARI (1568), a proposito dei

due famosi paesaggi condotti da Polidoro da Caravaggio e da Maturino, poco avanti il 1527, nella cappella Sannesi in San Silvestro al Quirinale: « Et a S. Salvestro di Monte Cavallo, per fra Mariano, per casa e per il giardino alcune cosette; et in chiesa li dipinsero la sua cappella e due storie colorite di S. Maria Maddalena, nelle quali sono i macchiati de’ paesi fatti con somma grazia e discrezione, perché Polidoro veramente lavorò i paesi e macchie d'alberi e sassi, meglio d’ogni pittore » (IV, p. 421). [G.]

Macchietta.

Piccolo schizzo (v.), abbozzo (v.), anche

caricatura (v.); derivato da macchia (v.), macchiare. Può in particolare indicare le piccole figure inserite in un paesaggio; come a proposito di Domenico Ghislandi scrive F. M. TASSI (1793): «Soleva introdurre nelle sue architetture paesi molto belli, e di grande forza, ne’ quali era solito rappresentare de' rottami, ed avanzi di una ben regolata architettura, con macchiette molto naturali fatte di tocco con molta franchezza » (Il, p. 22). [P.]

Macchina. Per estensione del significato originario di complesso

ordigno meccanico, la voce M. fu assunta nel sec. XVIII per indicare una composizione pittorica, di carattere scenografico e decorativo. Chiarisce H. LACOMBE (1751) che ci si serve di questa voce « pour marquer l’assemblage de plusieurs parties d'un Tableau, qui concourent a former un tout parfait, comme les Pièces d’un ouvrage méchanique, tendent à produire par leur arrangement un méme effet... L'on appelle encore grande Machine, un Tableau d'une vaste & riche ordonnance » (« per denotar l'unione di più parti d'un Quadro, che concorrono a formare un tutto perfetto, come i pezzi d’un’opera meccanica tendono a produrre colla loro coesione uno stesso effetto... Chiamasi anche Gran Macchina un quadro d’un ampia, e ricca ordinanza »). Le M., intese in questo senso, non potevano essere apprezzate dai critici neoclassici; così F. MILIZIA . (1797) accoglie il termine nel suo Dizionario, per avvertire: «Si crede che i Pittori antichi non conoscessero le macchine pittoresche, dove tutto ha da essere in moto e in gran moto... le idee delle grandi macchine ripiene di figure in grandi movimenti, /

non

sono

entrate che nella testa de’.

291

moderni, non già di Michelangelo, di Raffaello, de’ Caracci, di Guido, né di Domenichino: eglino non ebbero questa gloria. Questa gloria fu riserbata a Cortona, e alla greggia de’ suoi imitatori, Giordano, Solimena, Corrado, ecc. ». Questa accezione spregiativa è sostanzialmente rimasta nell'uso, se pur non frequente, che della voce è stato fatto successivamente; anche nel linguaggio della critica contemporanea. [P.]

Machinatio.

È una delle tre parti nelle quali secondo

VITRUVIO (ante 27 a. C., I, III, 1) si deve dividere un trattato d'architettura; il concetto di M. corrisponde a quello di

’ meccanica’, e comprende il riferimento a’ macchine” per uso civile e militare. Nell'opera di Vitruvio l'argomento è sviluppato nel lib. X.

Machine

à habiter.

[P.]

È la definizione della casa se-

condo Le Corbusier (1887-1965); il principio funzionale e razionalista che informa tale definizione fu da Le Corbusier concretamente tradotto in case d'abitazione, fin dalla casa Citrohan (1920-22), rimanendo quale elemento di costante riferimento nella sua pratica architettonica e urbanistica. Secondo C. BRANDI (1952): «Il macchinismo, assumendo vieppiù, nella coscienza comune, la rappresentazione di ciò che è civiltà e cultura nei rapporti quotidiani della vita pratica non poteva non influenzare nel modo più evidente, quella, delle attività artistiche ossia l'architettura che più si trova in contatto con le esigenze pratiche della vita di ogni giorno » (p. 194). Proprio contro questo aspetto machiniste presente nell'opera di Le Corbusier ha spesso preso posizione la critica; scriveva G. C. ARGAN (1956) a proposito della chiesa di Ronchamp: « Questa sorta di funzionalismo, dove la funzione architettonica si confonde con la funzione religiosa, francamente mi ripugna: che dopo la machine à habiter, Le Corbusier voglia ora brevettare una machine à prier? » (p. 239). [P.]

Macigno. Pietra arenaria di color grigio, adoperata per elementi architettonici e sculture. Esplica F. BALDINUCCI (1681): « Sorta di pietra bigia, della quale si fanno conci per gli edifizi, e le macini da mulino. Pigliasi alcuna volta per pietra in universale». Come tale la voce è frequentemente usata dal sec. XVI; si veda, ad es., G. VASARI (1568) nella Vita di Donatello: «Ma quello che gli diede nome

e lo fece per quello che egli era conoscere,

fu una Nun-

ziata di pietra di macigno, che in Santa Croce di Fiorenza fu posta all'altare e cappella de' Cavalcanti» (II, p. 302).

[P.] Macinare. Voce in uso nel linguaggio tecnico dei pittori sin dal sec. XIV. Secondo CENNINO CENNINI (fine secolo XIV): « Saper tritare, o ver macinare » (cap. IV) è una delle operazioni necessarie all’arte della pittura. Si tratta della capacità del pittore a preparare i colori, che gli artefici medioevali dovevano approntare ‘ macinando ‘’ o ‘tritando’ sostanze per lo più minerali o comunque naturali. Ancora nel sec. XVII F, BALDINUCCI (1681) esplica: « Macinare dicono i Pittori, per stritolare minutissimamente i colori sopra d'una pietra col macinello, e di poi incorporarli con acqua, o con olio di noce o di lino, per rendergli atti a poter dipignere ». [P.]

Macinatore,

Macinello.

Strumento

ligneo

un

tempo adoperato dai pittori « per macinare i colori sopra d'una lastra di Porfido, o d'altra pietra dura» (F. BALDI-

NUCCI, 1681).

Maculoso.

[P.]

V. Colori.

Madonero. Voce dialettale veneta con la quale fin dal sec. XVI sono designati quei pittori di sacre immagini che dal XIV sino al XIX secolo svolsero la loro attività nella città di Venezia, da dove inviavano le loro opere nei paesi

292

Madonna

balcanici. I M. — che sono così detti per avere trattato nizialmente il tema della Madonna col Bambino — sono considerati gli ultimi eredi della tradizione bizantina, che si ridusse peraltro presso di loro in una meccanica ripetizione di forme stilistiche e tipi iconografici; emerse in ogni caso qualche personalità di maggior rilievo, quali quelle di Andrea Rico da Candia, Michele Damasceno, E. Zanfurnari, E. Zane, G. Clontza; e andrà ricordato che iniziò la sua attività quale M. anche un grandissimo artista, cioè D. Theotocopuli detto il Greco. Poiché quasi tutti i M. provenivano dall'isola di Creta la loro arte è anche designata come ‘ veneto-cretese ‘. [P.] Madonna. Assai ricca la tematica iconografica relativa a Maria, madre di Cristo; dalla fine del sec. Il — allorché si datano le più antiche figurazioni cimiteriali — sino all'età moderna, quello della M. — isolata, in scene della sua vita, col Bambino, in episodi della vita del Cristo, ecc. — è uno dei soggetti più frequenti dell’arte cristiana. Mentre si rinvia alle singole voci (ad es., Annunciazione, Assunzione, Dormitio Virginis, Immacolata Concezione, Incoronazione della Vergine, Pietà, ecc.) per i temi relativi alla vita della Vergine e del Cristo, si fornisce qui di seguito una indicazione dei più frequenti ed importanti attributi con i quali è rappresentata la M.:

Advocata:

reperibile

in figurazioni

cimiteriali;

è Maria

orante, in tunica e dalmatica, con preziosi ornamenti; avanti ad essa il Bambino. Blacherniotissa: dalla chiesa costantinopolitana di Blacherna; la M. è raffigurata in piedi con le braccia alzate, nell'atteggiamento di orante. Figurazione propria dell'arte bizantina. Derivazione è la M. P/atytera (v.). Della misericordia : rappresentata in piedi, nell'atto di accogliere sotto un ampio manto i fedeli, di solito inginocchiati in preghiera. Non anteriore al sec. XIII, Dell'umiltà: è la M. che tiene in braccio il Bambino, ma seduta a terra; il tema ebbe notevole diffusione nell'arte italiana dei secc. XIV e XV. Glycofusa: frequente nell'arte bizantina; la M. è raffigu-

rata nell'atto di avvicinare amorevolmente il Bambino alla guancia. Galactotrafusa: è la Vergine che allatta il Bambino, la cui più antica raffigurazione risale al Il secolo (Catacombe di S. Priscilla). Tema frequente nell'arte cristiana orientale; da esso

deriverà la Madonna

del Latte, tema assai diffuso

nell'arte dei secc. XIV e XV. Kyriotissa: rappresentata in piedi, nell'atto

di stringere

al petto con le braccia il Bambino; tema diffuso dal sec. VI

nell'arte bizantina. Madre di Dio: è la tipica figurazione

della M. dall'arte

cristiana più antica; Maria sorregge tra le braccia od in grembo il Bambino; detta anche Theotokos; ma indicata più

comunemente come Madonna col Bambino. Odighitria: così detta dal monastero di Odighio a Costantinopoli; raffigurata in rigida posa frontale, sorreggente sul braccio destro il Bambino benedicente, e recante nella mano sinistra il rotolo della legge. Platytera: sviluppo e derivazione dal tipo della Blacherniotissa (v.); la Vergine orante reca sul petto un grande medaglione con l’immagine del Cristo. Diffusa nell'arte bizantina del sec. VIII. Regina: è il tipo della M. rappresentata con diadema ed in vesti sontuosamente adorne di gemme (come nei mosaici dell'arco trionfale di S. Maria Maggiore a Roma), in episodi diversi (Annunciazione, Adorazione dei Magi, Presentazione al tempio, ecc.), ma più frequentemente in trono, tra angeli adoranti. [P.]

Madreperla.

È propriamente la parte interna di con-

come già notava F. BALDINUCCI (1681), « per far bellissimi ornamenti di grotte, e fontane, pavimenti, mosaici, tarsie, bassirilievi, et anche figurette tonde. E qualche buon Pittore se n'è servito per dipignervi dentro capricci, e figure ».

[P.]

Maestà. Aspetto di grandezza (morale, nell’armonia, ecc.), che si riflette nella maniera (v.) o stile di un maestro, o in un'opera d’arte (edificio, dipinto); o in una figura, o nei volti rappresentati in un quadro o scultura. Il termine M. è trecentesco, ma assume il significato di valutazione o apprezzamento critico qualificativo, segnatamente nella letteratura artistica del sec. XVI. Ad es., B. VARCHI (1547),

tra i primi a ragionare sulla affinità tra la poesia dantesca e l’arte michelangiolesca, nel suo De/la Maggioranza delle arti, così scrive: « Et io per me non dubito punto che Michelagnolo, come ha imitato Dante nella poesia, così non l'abbia imitato nelle opere sue, non solo dando loro quella grandezza e maestà che si vede ne’ concetti di Dante, ma ingegnandosi ancora di fare quello, o nel marmo o con i colori, che aveva fatto egli nelle sentenze e colle parole» (p. 57). L'uso del termine M. presso G. VASARI (1568) è relativo: all'aspetto grandioso di un’opera, figura, ritratto, volto; o si riferisce al mutamento e miglioramento di stile in un artista. Ma si legga a proposito della facciata di un edificio, in proporzione al volto umano (I, p. 91): « Per l'aspetto suo primo la facciata vuole avere decoro e maestà et essere compartita come la faccia dell'uomo» (/ntroduzione alla Architettura). Nella Vita di Andrea Pisano: riesce più facile ad un pittore che ad uno scultore, trovar quei contorni che all'opere « arrecano maiestà, bellezza, grazia et ornamento » (I, p. 376). Inoltre: nel Cenacolo, Leonardo « alle teste de gli Apostoli diede tanta maestà e bellezza, che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando poterle dare quella divinità celeste, che a l'imagine di Cristo si richiede» (III, p. 396). D'altra parte, Raffaello, dopo vedute le opere di Michelangelo « migliorò et ingrandì fuor di modo la maniera e diedele più maestà » (IV, p. 78). Nel suo sistematico trattato controriformistico sulla pittura, o nella /dea del Tempio, G. P. LOMAZZO (1584 e 1590), adopera il concetto di M. nel senso vasariano, o in riferimento al programma « eclettico » del suo scolaro Ambrogio Figino. Pertanto: Raffaello « compose nelle sue figure tutte le membra con... maestà e proporzione », al pari degli antichi (1590, I, p. 286); Tiziano «ha conseguito il vanto del comporre e collocare i ritratti con che ha dato loro tanta maestà e bellezza che di gran lunga avanza la natura » (1590, I, p. 291). Infine, « il Figino nostro discepolo... va componendo con parte de l’'ombre, lumi et accuratezze di Leonardo, con le maestà armonice di Raffaello, con i vaghi colori del Coregio e col dissegno d’intorno di Michel Angelo » (1584, II, p. 382). L. DOLCE (1557) informa di una singolare accezione del concetto di M. in rapporto alla rappresentazione di un volto visto di faccia, o girato in modo che di esso si veda un occhio intero e un altro soltanto per metà. La definizione è Volto

in M., o con

«un

occhio

e mezzo »: « Chiamano

i pittori un volto in maestà, quando si fa tera, che non gira più ad una parte che ad e mezzo, quando il viso svolta in guisa degli occhi intero e l'altro non più che

tutta la faccia inaltra; e un occhio che si vede l'un mezzo » (p. 179). G

Maestà, Iconografia della, Per analogia col più antico

(sec. IV) tema iconografico della Maestà di Cristo (v.), nei secc. XIII-XIV si afferma l’uso di dipingere ‘in maestà’ l'immagine della Vergine; che è raffigurata frontalmente, seduta in trono col Bambino in grembo, attorniata spesso da schiere di angeli e santi. Di tali figurazioni costituiscono esempi famosissimi le M. di Duccio (Duomo di Siena) e. di Simone Martini (Palazzo Pubblico di Siena). [P.]

chiglie bivalvi e in specie delle ostriche perlifere; per la sua colorazione e per la resistenza della materia la M. è

Maestà di Cristo. Tema iconografico cristiano (Maie-

stata variamente

stas Domini) consistente nella rappresentazione del Cristo

utilizzata, in specie tra i secc. XVI e XVII,

293

Maestro

in trono, come signore e giudice; particolarmente frequente in mosaici e miniature dalla prima arte cristiana sino all’età romanica. [P.]

gister rimase piuttosto per l'ingegnere e il semplice costruttore » (G. BECATTI, 1951, pp. 36-37). In età altomedioevale e poi medioevale — sino al sec. XIV — la voce magister

Maestria.

è ampiamente testimoniata in iscrizioni, firme, documenti; può dirsi che in tale epoca magister fosse l'appellativo comunemente riferito a chi operava nelle diverse attività ar-

Termine che risale al sec. XIV, rinviando al

concetto di maestro (v.), e senza essere ovviamente esclusivo della critica d’arte. Riveste il significato costante della abilità professionale, non soltanto in merito alla grande pratica, o esercizio di mestiere, invece sempre in rapporto alla originalità in grado eminente, quale si manifesta in un ‘maestro ‘”e nelle sue opere. In realtà il concetto di M. non ha una vicenda semantica, per cui basti qualche esempio. G. COMANINI (1591), dopo la descrizione di una «dotta allegoria» dell'’Arcimboldi, fa rivolgere dal Figino agli altri interlocutori del dialogo, una domanda che implica una risposta di incondizionato assenso: « Credete voi che in questa tavola, oltre la vaghezza, vi si ritrovi la maestria? » (p. 266). La M. dunque, considerata qui insieme alla vaghezza (v.); o unitamente ad altri sostantivi di qua-

lificazione. Così C. RIDOLFI (1646/1648) scrive di « pretiose teste lavorate con molta maestria e tenerezza » (I, p. 239) da Francesco Beccaruzzi. L. PASCOLI (1730/1736), nella Vita di Giuseppe Passeri, informa degli esempi che il suo maestro Carlo Maratti gli suggeriva di osservare: « Additavagli quelle [le opere] di Tiziano, e del Coreggio, e gli diceva, che l'uno esser dovea suo maestro per la singolar bellezza del colorito, e l’altro per la sublime maestria ed angelica purità del dipignere » (I, p. 218). Infine, nella Guida di Perugia, B. ORSINI (1784) considera condotti « con molto studio, e maestria» (p. 49) i quadri di Giulio Cesare de Angeli, nella Confraternita di S. Agostino; o altrove vi si legge, a proposito di tre paesaggi di Gaspare Dughet,

nel palazzo Crispolti, di « maestria del frappeggiare » (p. 98). Il termine M. continua ad essere adoperato anche attualmente nel senso di perizia professionale unita alla originalità. [G.]

Maestri

di

prima

classe.

Si tratta,

secondo

G. B. AGUCCHI (1607/1615), dei maestri italiani e di altre nazioni che hanno contribuito alla rinascita della pittura nella prima metà del sec. XVI, in modo eminente. Tali sono:

Raffaello mana;

e Michelangelo,

Tiziano,

capo

della

«il primo de’ Lombardi» Sarto, il Beccafumi

protagonisti Scuola

della

Veneziana;

(p. 246); Leonardo,

e Baldassarre

Scuola

Ro-

Correggio,

Andrea

del

Peruzzi, rispettivamente

esponenti di « prima classe » della Scuola Toscana, comprendente dunque maestri Fiorentini e Senesi. « Fuori d’Italia» — aggiunge mons.-Agucchi — «Alberto Duro formò la Scuola sua, et è meritevole della lode, che al mondo è nota: e la Germania, e la Fiandra, e la Francia hanno havuti molti altri valorosi artefici, c'hanno havuto fama, e nominanza» (p. 246). Dopo questi M. di prima classe, si è manifestato nella pittura un nuovo declino (v.), dovuto all’imperversare dei manieristi. Agucchi non adopera il termine manierista (v.), ma parla di artefici i quali si contentavano « di pascer gli occhi del popolo con la vaghezza de’ colori, e con gli addobbi delle vestimenta » (p. 247). Il merito di aver nuovamente recuperata la perfezione dell'arte spetta, secondo l’Agucchi, a Ludovico, Agostino e

Annibale Carracci. Maestro.

[G.]

Il latino magister (da magis’ maggiore’ con il

suff. -fer, che indica opposizione tra due), da cui deriva l'italiano M., era riferito a persona superiore per autorità, di. gnità, esperienza, e come tale preposta al comando; si avevano così, ad es.: il magister equitum (capo della cavalleria), il magister morum (censore), il magister sacrorum | (colui che presiede ai riti sacri); in seguito passò ad indicare

chi istruiva i fanciulli (magister puerorum); anche gli architetti dapprima erano detti magistri, specie se costruttori . di opere pubbliche e militari; successivamente, affermatasi

per

influsso

di

i

o

la voce

J

SÙ pe

greco

e

{

architectus,

«il nome

di ma-

tistiche: si pensi ai magistri comacini (v.), già ricordati nel VII secolo; o al marmoraro romano che nel IX secolo si firma Christianus magister (monumento nella chiesa di S. Prassede a Roma);

del Cardinale Pietro o ancora nel IX se-

colo all'autore dell'altare d'oro di S. Ambrogio a Milano: Vuolvinius magister faber. Dai secc. XIII-XIV si registra la forma volgare’ maestro ‘ (anche ‘ mastro ‘); negli scrittori d'arte essa compare con CENNINO CENNINI (fine sec. XIV); è interessante notare che fin dal Cennini M. è usato con una duplice significazione; può infatti indicare sia colui che insegna («E quanto più tosto puoi, incomincia a metterti sotto la guida del maestro a imparare », cap. li), sia genericamente un artista di valore (« Affaticati e dilettati di ritrar sempre le miglior cose che trovar puoi per mano fatte di gran maestri », cap. XXVII). Tale duplicità di significato è costante nella letteratura artistica, e può registrarsi anche presso uno stesso autore, come già si è visto nel Cennini; così, ad es., L. GHIBERTI (ca. 1450) ricorda che Phyloxenio «seguitò la prestezza del maestro [Nicomaco] e trovò certi abbreviamenti della pittura» (p. 28); ma nel secondo Commentario adopera comunemente M. quale appellativo riferito ai diversi artistii Taddeo Gaddi « fu dottissimo maestro » (p. 34); « Bonamico fu eccellentissimo maestro» (p. 35); Ambrogio Lorenzetti «fu famosissimo e singolarissimo maestro» (p. 37); ecc. G. VASARI (1568) a proposito di Andrea d'Assisi detto l’Ingegno dice che fra i discepoli del Perugino fu « miglior maestro di tutti » (III, p. 325), ma precisa subito dopo che nelle sue opere diede «tal saggio di sé, che si aspettava che dovesse di gran lunga trapassare il suo maestro » (III, p. 326). M. è quindi sia colui che essendo a capo di una bottega (v.), trasmette il suo insegnamento ai discepoli (v.), sia l'artista che si segnala per la qualità delle sue opere, e che pertanto può esser preso a modello anche indipendentemente da un rapporto diretto di scuola. F, BALDINUCCI (1681) nel suo Dizionario, esplicando la voce, avverte le diverse implicazioni ad essa relative: « Uomo ammaestrato e dotto in qualche jarte o in qualche scienza... colui che insegna la propria professione, arte, o scienza...

titolo d'uomo perito in qualche professione... padrone di bottega». È in ogni caso implicita l'abilità, la capacità, l'eccellenza, un grado che si raggiunge con il lavoro assiduo: « Niuno dubiti capo e principio di questa arte, e così ogni suo grado a diventare maestro, doversi prendere dalla natura. Il perficere l'arte si troverà con diligenza, assiduitate e studio » (L. B. ALBERTI, 1486, p. 94, n. 55). Dal sec. XvI M. ha un concorrente nel termine profes-

sore (v.), che è preferito allorquando si voglia distinguere l’attività specializzata, professionistica, dell'artista da quella del dilettante (v.) e del conoscitore (v.). M. diviene sempre più un termine generico, di uso corrente per designare un artista che si sistema tra i ’ grandi’: « Non si può dire a bastanza quanto Annibale s’internasse, e si facesse proprie le migliori parti del Coreggio, così nella dispositione, e ne’ moti delle figure... e colorirle con la dolce idea di quel gran maestro » (G. P. BELLORI, 1672, p. 23); « scrive il Vasari nelle Vite de Pittori in quella di Tiziano... che Michelangelo doppo haver veduta con esso lui la Danae famosa di quel raro Maestro, gli disse, che era un peccato, che a Venezia non s’imparasse da principio a disegnar bene» (G. B. PASSERI, ca. 1678, p. 8); secondo F. MILIZIA (1797) occorre « consultare le opere de’ predecessori... senza que' gran Maestri il solo studio della natura ridurrebbe l'artista al punto in cui si trovò il primo inventore dell’arte ». In questo senso vanno registrati i titoli di alcune fortunate collane di recente pubblicazione: / Maestri del colore, I Mae-

294

i

Maestro

stri della scultura; denominazioni

che evidentemente sono di facile ed immediato intendimento da parte di un pubblico prevalentemente di non specialisti, come è quello cui esse sono dirette. Un residuo di più qualificante significazione del termine va peraltro registrato a proposito della consuetudine, tuttora viva, di indirizzare l’appellativo di M. ad artisti che abbiano raggiunto nella considerazione della critica una posizione di particolare preminenza. Andrà infine ricordata la qualifica di maestro d’arte, che in base alla legislazione scolastica italiana si consegue con il diploma di Istituto d’arte, accompagnata dall’indicazione della specializzazione camo, ecc.).

(in ceramica, ferro battuto, ri[P.]

di

La larghezza e la diffusione dell'espressione «M. di... », così come la utilizzazione di nomi ipotetici, è bene testimoniata dal XXXVII volume dell’A//g. Lexicon d. bild. Ktinstler (1950), fondato da U. Thieme e F. Becker e curato da H. Vollmer,

dedicato

interamente

di un nome sicuro e ai monogrammisti namen und Monogrammisten).

Maestro

di legname.

ai maestri

privi

(Meister mit Not[P.]

Così erano detti in età rina-

scimentale gli intagliatori, i carpentieri, gli artefici addetti ad eseguire modelli o comunque impegnati a lavorare il legno in specie relativamente a imprese architettoniche. L'espressione — così come le corrispondenti forme latine: magister a lignamine, magister lignaminis, faber lignami-

nis, ecc. — compare di frequente in documenti dei secc. XV

Maestro

di.

L'espressione

(Meister

von...) nasce in

Germania nella seconda metà del sec. XIX e risponde alla necessità allora avvertita dai conoscitori (v.) di attribuire (v. Attribuzione) opere d’arte a noi pervenute anonime o ad artisti già noti per sicure testimonianze figurative della

loro attività o a personalità appositamente create; all’affermazione e alla diffusione dell'espressione non sono estranei gli interessi dei mercanti d’arte e le richieste dei maggiori

collezionisti,

che in mancanza

di un nome

certo

ripiegano su nomi ipotetici proposti dai critici, tali comunque da consentire una individuazione che permette di raggruppare un nucleo di opere più o meno consistente, e che è sottintesa come provvisoria: ipotesi — basata sul riconoscimento di ricorrenti elementi stilistici — per una sempre possibile ulteriore definizione. Le prime proposte in tal senso risalgono ai maggiori storici dell'arte tedeschi — appartenenti alla categoria dei ‘ conoscitori’ — della seconda metà dell'Ottocento: W. von Bode (1885, Meister der Pellegrini-Kapelle), Schnitgen (1889, Meister des Marienlebens), Tschudi (1898, Meister von Flemalle), W. Suida (1905, Maestro della S. Cecilia), ecc. Dai primi decenni del sec. XX l'espressione diviene di uso corrente;

lumi

è significativo

di B. BERENSON

scimento

che nella

dedicati

prima

edizione

dei vo-

ai pittori italiani del Rina-

(1894, 1896, 1897, 1907) essa ancora non compaia,

mentre è ampiamente testimoniata negli elenchi del 1932 (Maestro del Bambino Vispo, Maestro del Trittico Carrand, Maestro della Natività di Castello, ecc.). Rientra nello stesso genere di definizioni la creazione di personalità ipotetiche, individuate di solito dal nome

di un

artista già noto di cui si segnala la derivazione, l’alunnato, la vicinanza stilistica: Alunno di Benozzo, Amico di Sandro, Compagno di Bicci, Compagno dell’Orcagna, Pseudo Avanzo, ecc.

Da rilevarsi come mentre per alcune delle personalità ipoteticamente costruite si è giunti in un momento successivo alla loro identificazione con artisti altrimenti già noti (ad es., I“ Amico di Sandro‘, proposto da B. Berenson, successivamente inteso quale Filippino Lippi nel momento giovanile, o il’ Maestro del Trittico Carrand‘, che P. TOESCA (1917) ha chiarito trattarsi di Giovanni di Francesco, o an-

cora

il “Maestro

delle

tavole

Barberini’

identificato

da

F. ZERI (1961) con Giovanni Angelo di Antonio da Camerino, ecc.), per altri maestri la critica successiva ha con-

e XVI riferentisi

a commissioni,

pagamenti, ecc.

Magico. L'interesse per i rapporti tra ‘magia’ ed arte è particolarmente vivo nella critica d’arte moderna, parallelamente e in rapporto con le ricerche e i significati attribuiti alle culture primitive ed arcaiche; queste infatti in modi più consistenti e con implicazioni più determinanti sono collegate a fenomeni ‘ magici‘, che non risulta peraltro sempre agevole distinguere dalle credenze religiose; è stato comunque rilevata l’esistenza di «tutta una serie di fenomeni e di atteggiamenti, legati all'impiego di forze misteriose da parte dell'uomo, che si riflettono nella produzione di determinanti oggetti o figure, o che ispirano temi di iconografie artistiche, i quali, pur nella loro estrema varietà, esigono una considerazione distinta da quella delle tipologie e delle iconografie religiose» (G. F. Hartlaub, in EUA, VIII, 1958, col. 731). Idoli, feticci, demoni, streghe, rapporti astrologici e pratiche alchimistiche, immagini oniriche: sono alcuni dei temi e dei filoni che, pur potendosi considerare

in modo

autonomo,

hanno

indubbi

riferimenti

al M., in un intrecciarsi di rapporti che conducono ad una problematica assai complessa e di grande importanza per alcuni momenti ed aspetti della produzione artistica nelle diverse età, dalle civiltà preistoriche sino all'età contemporanea (ad es., nel Surrealismo, v.). Ed è in relazione alla determinante inerenza di tali fenomeni

al prender forma dell'arte che A. BONITO

OLIVA (1972) ha

proposto la nozione di ‘territorio magico ‘: « Nel territorio magico si spalancano tutte le confluenze di spazio e di tempo e il procedimento del fare è il connettivo con il presente storico... Il mondo così viene continuamente aggredito, ma non per soppressione; bensì per ridurlo a sostanza

fluida e ad affermazione di analogia... La magicità non è trasfigurazione reale dei fantasmi ma capacità di vedere per linee orizzontali e polisensoriali » (pp. 33-34). [P.]

Magnificenza (lat. magnificentia). Virtù legata alla idea di nobiltà, regalità, elevatezza morale ed intellettuale, che si manifesta nella pittura, scultura e, soprattutto, nell'architettura. Il concetto di M. è presente nella concezione

e realizzazione dell’arte sacra e profana, anche sul piano allegorico della iconologia, quale manifestazione di grande liberalità, e di effetto sui sensi di cosa magnifica, a partire dal sec. XVI. Ne accenna B. VARCHI (1547), in rapporto

tinuato ad utilizzare la denominazione originariamente proposta; esemplare il caso del’ Maestro del Bambino Vispo ‘, la cui costruzione risale ad O. SIREN (1904): in questo caso non sono intervenuti chiarimenti e definizioni tali da fornire gli elementi necessari per la diversa identificazione anagrafica di questo anonimo pittore, variamente conside-

a pittura e a scultura, nella famosa

rato fiorentino, iberico o franco-fiammingo. Di rilevante interesse è l’uso che dell'espressione fa R. LONGHI (1940) nel contesto della ricostruzione dei rapporti tra Masolino,

bellezza

Masaccio e la contemporanea cultura figurativa, con la notazione di vari ‘ maestri‘, quali: il ‘“Maestro del 1419; il ‘ Maestro della Crocifissione Griggs ‘, il ‘ Maestro del cassone degli Adimari ‘, il citato ‘ Maestro del Bambino Vispo‘.

[P.]

inchiesta

sulla « mag-

gioranza» delle arti. E nel clima della Controriforma, è decisiva la classificazione proposta dal cardinal G. PALEOTTI (1582), in merito alle quattro cose necessarie per la lode dell’arte sacra: a) confessio, manifestazione nell’arte della grandezza divina; b) pu/chritudo, ossia vaghezza, morale;

c) sanctimonia,

ossia

le componenti

spi-

rituali che rientrano nell'opera d'arte; d) magnificentia, ossia «la parte che tocca a’ letterati et alle persone d'alto intelletto nella cognizione delle cose che si hanno da fìgurare » (p. 498).

Una definizione allegorica della M. si legge nella /cono/ogia di C. RIPA (1593). La M. si può rappresentare in due modi:

Maneggio, come una «donna vestita, et coronata fisonomia simile alla Magnanimità, terrà

d'oro, haverà la la sinistra mano

sopra un ovato, in mezo al quale vi sarà dipinta una pianta di sontuosa fabrica » (pp. 405-406). L’ovato è quindi il simbolo di M. nell’edificare. L'altro modo: « Donna vestita di incarnato, porterà li stivaletti d'oro, haverà nella destra mano un'imagine di Pallade » (p. 406). Gli stivaletti sono il simbolo

della regalità. Nel periodo neoclassico-napoleo-

nico, alla definizione del Ripa si riallaccia A. L. MILLIN (1806) nel suo Dictionnaire des Beaux-Arts: « Cochin a combiné dans un seul les deux emblèmes donnés par Ripa... Les anciens n’ont pas figuré la Magnifîicence; mais la Liberalité est souvent représentée sur les medailles romaines » (« Cochin ha unito in uno i due simboli dati dal Ripa... Gli antichi non hanno raffigurato la Magnificenza; ma la Liberalità è spesso raffigurata sulle medaglie romane »). [G.]

Maiestas

Domini.

V. Maestà di Cristo.

Maiolica.

Voce documentata sin dalla prima metà del

sec. XV (DEI, 1968), ma più comunemente adoperata dalla metà del sec. XVI per designare un particolare tipo di ceramica (v.). Si pensa che l'origine del termine vada posta in rapporto con il nome latino dell'isola di Maiorca (Majorica), isola delle Baleari, importante centro commerciale

sin

dall'età medioevale. « Si dice in latino questo castello Diruta... sono molto nomati li vasi di terra cotta quivi fatti... Sono dimandati questi vasi di majorica et quivi portati » (L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, Bologna, 1550; rip. in TECNICHE, 1973, p. 97). Meno convincente il collegamento con la produzione ceramica della città di Malaga (opus de Melicha). La M. è propriamente una ceramica rivestita di smalto stannifero, da cui deriva il predominante colore bianco del

fondo. In Italia si ebbe una fiorente produzione tra i secc. XV e XvIlI, allorché si affermarono alcune famose fabbriche conosciute dal luogo di produzione: Casteldurante, Castelli, Deruta, Faenza, Forlì, Gubbio, Pesaro, Siena, Urbino. Fuori d'Italia famosa la manifattura olandese di Delft, attiva fin dal sec. XVII, nella cui produzione, accanto. alla rielaborazione di modelli italiani, si rivelano assai determi-

nanti le influenze cinesi.

[P.]

Maneggiare

295

circonda l'immagine o le figure che si intendono onorare. Nelle interpretazioni pittoriche e scultoree dal sec. XV essa è spesso realizzata anziché da cornici mediante una ghirlanda angelica. [Pd]

Maneggio,

Maneggiare. Letteralmente: saper trat-

tare con le mani la materia dell’opera d’arte, dimostrando esercizio e perizia tecnica. Ma se il M., o il M. è atto direttamente manuale nel caso della modellazione dell’argilla; figuratamente, il gesto dell'artista che «maneggia », si realizza con strumenti specifici come il pennello, nel caso del pittore, e lo scalpello, nel caso dello scultore. Il concetto è criticamente chiaro presso gli scrittori d’arte del sec. XVI. Nel Dia/ogo di pittura, a proposito del colorire (v.) un dipinto, che non dovrà esser condotto a compiutezza con eccessiva diligenza (v.), P. PINO (1548) osserva: «Parmi anco che molto riesci l’esser netto e delicato nel maneggiare e conservare i colori » (p. 117). L. DOLCE (1557), più precisamente: « Né creda alcuno che la forza del colorito consista nella scelta de’ bei colori... ma nel sapergli maneggiare convenevolmente » (pp. 184-185). Nell'ambiente veneto, l'esercizio del pennello, inteso come impasto (v.), giro (v.), andamento (v.), ritmo pittorico, è ovviamente valido; conviene peraltro M. con misura il colore. Più complessa è la definizione che del M. fornisce G. P. LOMAZZO (1590); il quale collega il termine ad un sistema concernente la discrezione (v.) della pittura e delle sue parti (cap. XVIII dell'/dea). Da un lato, la « discrezione» insegna a comporre e a disporre le parti dell'opera, determinando l'ammaestramento del pittore, che in tal modo acquista la sicurezza di non errare; dall'altro, «le sue parti sono l'avvertenza, l’essempio, il paragone, la differenza, il modo, il maneggio e l’istoria » (I, p. 295). Sono fonti in gran parte di ascendenza retorico-classica. Tale non sembra peraltro la categoria del M., che è dimostrazione di esperienza operativa esterna, ma anche mentale: « Imperoché egli non

è altro che l'isperienza delle cose, e solo comprende il possibile delle opere e riguarda quelle con pruova sicura secondo il modo della essercitacione; e però senza lui non può essere il pittore. Si genera questa dal lungo prat-

ticare et intendere con pazienza e accuratezza e dal continuo desiderio d'accordare la scienza con la prattica » (I,

p. 296). Malleatura.

Dal

latino tardo malleare

’ battere

con

il

martello ‘, deriva M., voce di raro uso nel senso di scultura a sbalzo (come in F. COLONNA, 1499). V. anche Opus mallei. [P.]

Successivamente, il concetto di M. presenta oscillazioni semantiche limitate, stabilizzandosi. Notevole è la fortuna

del termine nell’area francese della letteratura artistica, dove il Lomazzo è stato tradotto, rappresentando un riferimento autorevole,

anzi

indiscutibile.

In Italia,

intanto,

il pittore

Mallei, Opus. V. Opus.

perugino L. SCARAMUCCIA (1674) esalta la «freschezza, e maneggio de' colori» (p. 103) in una delle tele di Tiziano

Malta. Nella lingua latina ma/tha indicava una mistura di pece, cera e gesso, usata per unire tra di loro materiali diversi; con lo stesso termine era designata una sostanza naturale, una sorta di bitume, adoperata nelle regioni orientali per intonacare le pareti. Nella terminologia architettonica — sin dal sec. XIV — la voce è riferita ad una materia costituita da un elemento legante (di solito calce) mesco-

nella Chiesa della Salute in Venezia. G. B. PASSERI (ca. 1678) contrappone tuttavia « la facilità di una vaga maniera »,

lato con sabbia ed acqua, la cui proprietà specifica è quella di indurire. Usata nella preparazione degli intonaci e per collegare tra di loro elementi strutturali in pietra o laterizio.

Mandorla.

[P.] Elemento decorativo o simbolico compreso

in una forma ovoidale simile a quella della mandorla. Il termine è usato nel senso indicato sin dal sec. XVI, ed è così esplicato nel Vocabolario di F. BALDINUCCI (1681): « Ornamento dell'Ordine Gottico, di figura ad angolo acuto, quale facevano sopra le porte, finestre, nicchie, tabernacoli, e simili». Il frequente uso della M. nell'arte gotica non deve peraltro far credere che il motivo sia originario di quell'età; esso compare infatti sin dall'arte paleocristiana, in particolare nella scena dell'Ascensione di Cristo. La M. è in effetti una trasformazione del nimbo (v.) che

evidenziata dal « pennello veloce », come fattore indubbiamente

di successo,

che tuttavia è inferiore al serio studio

della composizione, prospettiva, anatomia, degradazione e distribuzione, da parte di un grande pittore come il Domenichino (p. 21). D'altra parte, nel significato lomazziano di’ ammaestramento ‘, il Passeri scrive che Camillo Mariani istruì il Mochi al « maneggio di sasso, e di scalpello » (p. 131); e del Baratta riconosce l'abilità nel « maneggio del marmo » (p. 334) nella figura dell'America, da lui eseguita sui disegni del Bernini, nella Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona. In Francia, ad es., A. FÉLIBIEN (1666/1688), nonostante il suo atteggiamento classicista, riconosce motivi qualificanti in Giorgione, il «maniment de son pinceau », e « l'Art de

manier les cheveux»: che così acquistano « une molesse et un certain tour», I, p. 275 («maneggio del suo pennello »... « arte di maneggiare i capelli »... «una morbidezza e un certo giro »). In Inghilterra poi, J. RICHARDSON (1719) riferisce il criterio del metodo dell’attribuzione (v.) a varie catego-

296 i

Manichino

rie (grazia, effetto grandioso, invenzione, espressione, composizione, colorito, disegno), tra cui il M. Singolare è che, tra Illuminismo e Neoclassicismo, la voce M., en-

trando a far parte definitivamente dei grandi dizionari delle Belle Arti (v.), rimanga esclusa da quello del MILIZIA (1797). AI contrario, il concetto è ampiamente svolto da C. H. WATELET e P. C. LÉVESQUE (1792): «Un bon maniement de pinceau est essentiel» al pittore, ma «un peintre qui fait des ouvrages estimables à d’autres égards, mais qui n'a qu'un mauvais maniement de pinceau, est un artiste habile, mais qui ne possède pas le métier de son art» («un buon maneggio del pennello è essenziale... un pittore che fa opere pregevoli per altri versi, ma che ha un cattivo maneggio del pennello è un artista abile, ma non possiede il mestiere »). Non diversamente, rielaborando il Lévesque, A. L. MILLIN (1806), ribadisce la essenzialità del M. del pennello per un buon pittore; distinguendo peraltro tra un « bon maniement » e un « mauvais maniement », nel senso che il M. può rappresentare una esteriore abilità, ma non significa di per sé vero e proprio possesso del mestiere. Infine, A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849) ricollega semplicemente il M. all'esercizio ed esperienza manuali di un artista: « Maneggiare, dicesi in tutte le arti l'esercizio degli strumenti proprj a ciascuna di esse; come il maneggiare con maggiore o minore abilità il pennello, lo scalpello, il compasso, ecc. ». [G.] Manichino. La voce (dal fr. mannequin, risalente all'ol. mannekijn, dim. di man’ uomo’) è usata dal sec. XIX per indicare un modello di legno snodato, adoperato in sostituzione di quello vivente da pittori e scultori. G. VASARI (1568) nella Vita di Fra Bartolomeo ricorda l’uso fattone dall'artista: « Aveva openione fra Bartolomeo quando lavorava

tenere

et arme grande e quello lissime lare tra disuso.

le cose

vive innanzi, e per poter ritrar panni

et altre simil cose fecie fare un modello di legno quanto il vivo che si snodava nelle congenture, vestiva con panni naturali dove egli fecie di belcose» (III, p. 493). Il M. fu adoperato in particoi secoli XVIII e XIX; successivamente è caduto in [P.]

Maniera. Nella vicenda storica, questo fondamentale concetto della letteratura artistica assume tre differenti significati: a) modo di operare riconoscibile, o stile individuale, di un artista; 5) stile di un periodo, o regione geografico-artistica, o gusto (v.); c) manierismo (v.), se è giusto ravvisare, in un passo vasariano sulla «bella maniera », un

significato

caratterizzante

stilisticamente

in senso

ma-

nieristico. Nel Libro dell'Arte di CENNINO CENNINI (fine sec. XIV) già ricorre il termine M. nella accezione di un riconoscibile quanto particolare modo di eseguire un dipinto, da parte

dell'artefice. Rivolgendosi al giovane discepolo, il Cennini scrive infatti: dopo l'abitudine a ritrarre dai migliori maestri, «poi a te interverrà che, se punto di fantasia la natura t'arà conceduto, verrai a pigliare una maniera propia per te » (cap. XXVII). I concetti di M., pratica (v.), stile (v.), in riferimento ad un modo di operare riconoscibilmente — come quando ciascuno di noi scrive con una propria grafia — ricorre in un passo soltanto in apparenza difficile del Trattato di Architettura di A. AVERLINO detto il FILARETE (1464), a proposito della dissomiglianza fra gli uomini: « Qui ci sarebbe da dire alcune cose le quali lascerò a li speculativi. Che se uno tutte le fabbricasse, come colui che scrive o uno che dipigne fa che le sue lettere si conoscono, e così colui che dipigne la sua maniera delle figure si cognosce, e così d'ogni facultà si cognosce lo stile di ciascheduno; ma

questa

è altra

pratica,

nonostante

che

divaria o tanto o quanto, benché si conosca per una mano» (p. 28).

ognuno

pure

essere fatta

Nella celebre lettera di RAFFAELLO (1483-1520) al papa Leone X (attribuita anche al Castiglione, o al Bramante) si tratta della difficoltà di conoscere gli edifici antichi da quelli moderni; difficoltà superabile « perché di tre maniere di edifici solamente si ritrovano in Roma, delle quali la una è di que' buoni antichi, che durarono dalli primi imperatori sino al tempo che Roma fu ruinata e guasta dalli gotti e da altri barbari; l'altra durò tanto che Roma fu dominata da’ gotti e ancora cento anni di poi; l'altra, da quel tempo sino alli tempi nostri » (p. 54). Raffaello usa dunque la voce M. al plurale, in rapporto alla successione di tre stili architettonici: quello romano «del tempo delli imperatori » (p. 55), che è il più eccellente, quello genericamente detto dei goti e quello moderno, che non ha ancora raggiunto il grado degli antichi. Lo stile « gotico » è chiamato anche da Raffaello «maniera dell’architectura tedesca », p. 56 (v. anche Maniera tedesca). Il termine M. come modo di operare individuale di un maestro, ricorre poi nella preziosa guida del patrizio veneto M. MICHIEL (1521/1543). Ad es., in casa di messer Antonio Pasqualino in Venezia, a proposito di due teste dipinte da Gentile da Fabriano con un uniforme incarnato, il Michiel annota: « Ambedoi questi ritratti... par che si somiglino in le tinte delle carni. Ma al mio giudicio questa convenienza delle tinte proviene dalla maniera del maestro che facea tutte le carni simili tra loro e che tiravano al color pallido » (p. 148). Una accezione decisamente negativa della parola M., in riferimento alla pittura del Cinquecento, leggiamo invece nel Dialogo della pittura di L. DOLCE (1557), a proposito del confronto tra Raffaello e Michelangelo. Dice il Dolce che in tutte le sue opere, Raffaello « usò una varietà tanto mirabile, che non è figura che né d'aria né di movimento si somigli, tal che in ciò non appare ombra di quello, che da pittori oggi in mala parte è chiamata maniera, cioè cattiva pratica, ove si veggono forme e volti quasi sempre simili » (p. 196). L'uso spregiativo del termine sarebbe dunque invalso primamente presso gli artisti medesimi del sec. XVI, consapevoli della ripetizione di forme e di volti, secondo moduli privi di qualsiasi giustificazione espressiva, da parte di taluni pittori, talora meno dotati di immaginazione, comunque pratici dei segreti del mestiere fino al virtuosismo. Certamente sarebbe interessante conoscere qualche nome tra i pittori che nell'ambiente veneto di Ludovico Dolce si consideravano i responsabili della ’ cattiva pratica ‘; e proprio in quanto, nel Dia/ogo, il giudizio su autentici manieristi, quali Perin del Vaga e il Parmigianino risulta favorevole, se non entusiasta. D'altra parte, è stato lo stesso Dolce ad abbozzare genericamente una condanna della pittura manierista, quando asserisce che tali artefici « si sono messi a fare alle teste, massimamente delle donne, il collo lungo, tra perché hanno veduto per la maggior parte nelle imagini delle antiche Romane i colli lunghi, e perché i corti non hanno: grazia; ma sono ancora essi passati nel troppo e la piacevolezza hanno rivolta in disgrazia » (p. 176). Né va dimenticato che già LEONARDO (1452-1519) aveva intuito il rischio inevitabile dei manieristi, quando raccomanda ai pittori «che

mai nessuno

deve imitare

la maniera

del-

l'altro, perché sarà detto nipote e non figliuolo della natura; perché, essendo le cose naturali in tanta larga abbondanza, piuttosto si deve ricorrere ad essa natura che ai maestri, che da quella hanno imparato » (n. 78). D'altra parte, lo studio ed esercizio sui maestri antichi e moderni è considerato da V. DANTI (1567) un metodo valido (non diversamente pensava il Cennini) per formarsi una propria M.: «Molti si vanno aiutando con le figure fatte da altri, o antichi o moderni, facendosi da sé stessi una maniera col continuo ritrarre questa e quella cosa » (p. 240). Ma le varianti semantiche, le innumerevoli aggettivazioni specificative, l’uso storico e critico più ampio possibile della parola M., si trovano nelle Vite di G. VASARI

(1568). La M. continua a corrispondere quivi allo stile in-

Macchiaioli 7, ADRIANO CECIONI, Il caffé Michelangelo (Milano, coll. privata); 2, SILVESTRO LEGA, Ragazza con scialle rosa (Genova, coll. privata).

Macchiaioli 1, TELEMACO d'Arte

SIGNORINI, Lavandaie a Settignano (Roma, coll. privata); 2, VINCENZO CABIANCA, Viareggio (Roma, Galleria Nazionali

Moderna).

Macchiaioli 1, GIOVANNI FATTORI, d'Arte Moderna).

La rotonda di Palmieri (Firenze, Galleria d'Arte Moderna); 2, GIOVANNI

FATTORI,

Lo staffato (Firenze, Galleria

Manierismo FRANCESCO

MAZZOLA

detto

il PARMIGIANINO,

Madonna

con

Bambino

e Santi (Bologna,

Pinacoteca

Nazionale).

Manierismo JACOPO

CARRUCCI

detto

il PONTORMO,

Visitazione

(Carmignano,

Pieve).

Manierismo FRANCESCO

MORANDINI

detto

il POPPI,

La

Carità

(Firenze,

Galleria

dell'Accademia).

Maniera

dividuale, ma il termine si intende anche per denotare lo stile collettivo, o generale, di un periodo (es.: M. antica, vecchia, moderna), o un’area geografica, più o meno vagamente caratterizzata nel senso storico ed artistico (es.: M. greca, tedesca,

ecc.),

positiva o negativa

diligentissima,

o un esito o valutazione

delle opere

critica

(es.: M. dura e crudetta,

delicata e dolce, difficile, minuta, morbida

e pastosa, nuova e vaga, leggiadrissima, bella, barbara, goffa, secca, stentata, tagliente, capricciosa, sfumata, bruttissima, ecc.).

Che

poi il Vasari abbia indicato anche nel senso

uso storico del termine M. equivalente a Manierismo

di un (v.),

è stato sostenuto da C. H. SMYTH (19683), il quale si appoggia al seguente passo del Proemio alla Ill parte delle Vite: « La maniera venne poi la più bella, dall'avere messo in uso il frequente ritrarre le cose più belle; e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe aggiugnerle insieme e fare una figura in tutte quelle bellezze che più si poteva; e metterla in uso in ogni opera per tutte le figure, che per questo si dice bella maniera» (III, p. 377). Si tratta senza dubbio di un passo significativo, che all'Autore suggerisce una certa classificazione dei motivi formali di una M. detta « bella », che si ravvisa come scelta di parti-prototipo nelle opere di un gruppo di pittori (Pontormo, Rosso, Parmigianino, Salviati, lo stesso Vasari, ed altri). Ma non conviene troppo generalizzare. In effetti Vasari adopera la voce M. per indicare diversi significati, facendo seguire al termine un genitivo di specificazione (la «maniera di Leonardo »), o un aggettivo (« maniera antica, secca, bella, bellissima »). La « bella maniera », entro la « maniera moderna » propria del Cinquecento, viene bensì riferita dal Vasari a taluni pittori quali il Parmigianino e il Rosso, ma tutto il Proemio è in funzione del «miglioramento » delle arti fino alla perfezione: e il discorso allora comprende anche Leonardo, Fra’ Bartolomeo, Andrea del Sarto, Giorgione, Raffaello, Giulio Romano, Correggio, Sebastiano del Piombo, fino al vertice, cioè Michelangelo. Non possiamo pertanto attribuire al Vasari l'intenzione (che se mai in lui fu piuttosto vaga) di fissare uno stile della « bella maniera » (quello dei manieristi, v.) in relazione ad un preciso gruppo di pittori del Cinquecento, mentre altri ne rimarrebbero decisamente esclusi. Il pensiero vasariano va sempre considerato nel più ampio contesto delle singole Vite e biografie, dove la terminologia critica assume sovente accenti e significati variabili. La distinzione tra M. e manierismo (v.) andrebbe pertanto risolta diversamente: lasciando-alla-prima parola un significato più ampio e variabile, quale risulta del resto dalla storia stessa del concetto, e riconoscendo alla seconda parola un valore semantico riferibile concretamente ad alcuni centri, momenti,

aspetti dell’arte del sec.

XVI.

Muovendo del pari dalla constatazione del diverso e arbitrario uso che modernamente è stato fatto e si fa del termine di M., J. SHEARMAN (1963) esprime una tesi simile a quella dello Smyth: che si debba cioè risalire a quel significato particolare che la parola M. aveva assunto nel Quattrocento e nel Cinquecento, sia in riferimento al raffinato comportamento, soprattutto femminile, della vita cortese (ad es., Giusto dei Conti loda nella sua dama la virtù, la beltà, la maniera, e il savoir-faire), sia in rapporto alla qualità che distingue determinate opere ed artisti; qualità che il Vasari tenta di caratterizzare (genericamente) ricorrendo soprattutto alle parole grazia (v.) e facilità (v.). A differenza dello Smyth, lo Shearman non tende però a ravvisare un uso storico del concetto di M. nel Cinquecento: non soltanto, osserva Shearman, il Vasari adopera M. variandone spesso il significato, ma non fornisce neanche una definizione del vocabolo, rivolgendosi ovviamente a lettori che ben conoscevano l’uso che della parola si faceva da tempo nella letteratura. Pertanto la M. era intesa dal Vasari stesso e dalla sua generazione, non in senso

barbara

297

discriminativo e storico: « But only of a greater or lesser approximation to an absolute standard of perfection », Il, p. 207 («Ma solamente di una approssimazione maggiore o minore a un assoluto standard di perfezione »); che è poi in sostanza l'obbiezione da noi già rivolta alla tesi centrale dello Smyth. Conviene aggiungere che, molto prima dello Smyth, Shearman, ecc., a commento della importante Mostra napoletana di Fontainebleau e Ja maniera Italiana, R. Longhi (1953) proponeva fra l’altro di sostituire la parola M. al termine, bene o male, generalmente adottato, di Manierismo (v.); sia ricordando che il Vasari già adoperava esclusivamente

lemmi quali «maniera », « maniera moderna», sia citando il Tommaseo, che nel suo Dizionario si schierava in proposito contro la diffusione degli ‘ismi’, che è dire le desinenze astratte delle parole. « A questo concreto buon senso linguistico italiano » — spiegava il Longhi — « volle attenersi la Mostra già nel suo titolo; per significare insomma che non si trattava di una tendenza programmatica, nata con l'etichetta bell'e pronta o con l'emblema già inalberato, ma di un impulso configuratosi, via via, nelle persone, ben distinte, dei manieristi; legate soltanto dal pensiero recondito che non si potesse fare arte se non variamente ‘ ammanierando ‘ » (in L’Approdo, gennaio-marzo, pp. 55-59).

Ma sulla esigenza di mantenere la distinzione tra M. e manierismo, v. (parola che, dal Lanzi in poi, ha assunto diffusione e importanza internazionali) si è detto in precedenza. Innumerevoli sono, d'altra parte, le varianti semantiche del concetto di M., tramite aggettivazioni specificanti e accostamenti a termini affini o distanti. Ne registriamo solamente alcune. Quella di Nicola Poussin (riferita da G. P. BELLORI, 1672); il quale traduce, ad uso dei pittori, una definizione di Agostino Mascardi (1636), identificando stile (v.), M., gusto (v.), in rapporto all’ingegno di ciascuno, ossia alla originalità personale: «Lo stile è una maniera particolare, et industria di dipingere, e disegnare nata dal particolare genio di ciascuno nell’applicatione, e nell’uso delle idee, il quale stile, maniera, o gusto si tiene dalla parte della natura, e dell'ingegno» (p. 461). Si tratta di

una

definizione

dall'eloquenza.

classicista E, sul

del concetto

piano

delle

teorie

di M., derivante \del classicismo

configurato nella idea (v.) della bellezza, si pone allora il significato di M. intesa negativamente come far di pratica, fantasticando senza imitazione (v.), quale si legge, a riprovazione del far di M. dei manieristi (v.), in un passo noto di G. P, BELLORI (1672): «L'arte, che da Cimabue, e da Giotto, nel corso ben longo di anni duecentocinquanta erasi

a poco

a poco

avanzata,

tosto fu veduta

declinare,

e di regina divenne humile, e vulgare. Sì che, mancato quel felice secolo dileguossi in breve, ogni sua forma; e gli Artefici, abbandonando lo studio della natura, vitiarono l'arte, con la maniera, o vogliamo dire fantastica idea,

appoggiata alla pratica, e non all'imitatione » (pp. 19-20). Infine, una definizione neoclassica del concetto di M., distinto dal gusto (v.), si legge nelle Opere di A. R. MENGS (1787): « Qui convien fare un altro riflesso, ed è quello della differenza, che passa tra il gusto di un pittore, e ciò che nell'arte chiamasi maniera. Il gusto consiste... nella scelta. La maniera è una specie di bugia, ossia finzione, ed è di due specie: cioè, una, che vien fatta con tralasciare molte parti; ed un’altra che inventa, e crea molte parti nuove ».

In altri termini, la M. è considerata nel senso di ‘ riduzione ‘ stilistica rispetto al vero, e di inventiva di nuove forme della rappresentazione. E mentre l'ottimo « gusto » migliora il vero naturale — conclude Mengs (p. 18) —, la « maniera » si limita a produrre in esso dei mutamenti. [G.]

Maniera

barbara.

Significa generalmente stile nor-

dico, oltramontano, gusto gotico contrapposto, più o meno polemicamente,

all’arte

mento

al mondo

canonico

italiana

rinascimentale,

classico.

nel

riferi-

298

Maniera

Si legga pertanto il riconoscimento della grandezza del Direr, da parte di G. P. LOMAZZO (1584), accompagnato però da una riserva di giudizio, a proposito della esigenza di un rapporto tra la maniera e la natura, in direzione della facilità (v.): dalla quale facilità sono riuscite opere molto belle « a Raffaello, a Polidoro et ad Alberto Durero, pittore, benché tenesse una maniera barbara, studiosissimo et intelligentissimo, che solo ha fatto più istorie, fantasie, guerre e capricci, che non hanno fatto, per così dire, tutti gl’altri insieme » (II, p. 222). La M. barbara rappresenta altresì il timore di un ritorno anticlassico alla architettura gotica, da parte di architetti che derogano errando dalle regole vitruviane, che si permettono le così dette licenze (v.), che costruiscono edifici alla moderna, nel gusto barocco. Tale è il senso di un passo del trattato di T. GALLACCINI (1621): « E quell’'architetto non opera, senza errare, formando i disegni, e i modelli delle fabbriche, il quale da essa si parte, fidandosi

più nelle capricciose, e sregolate invenzioni, che nelle regole degli ottimi Architetti, come fanno quelli, i quali dal lavorare i legnami, e gli stucchi e dalla Pittura, si son dati all'Architettura: i quali colle loro licenze (e ciò sicuramente credo) son per far tanto, che una volta ritorni in Italia la maniera barbara, e venga del tutto abbandonata l'antica, e la buona architettura » (p. 38). [G.]

Maniera chimerica. Specificazione in senso spregiativo della voce maniera (v.), da parte dello scrittore d’arte bolognese C. C. MALVASIA (1678). Il quale, per «maniera chimerica, dilavata » intende le manifestazioni manieristiche

di parecchi pittori della Scuola Michelangelo.

romana

dopo

Raffaello

e

Maniera

dilavata. Voce riportata da F. BALDINUCCI

(1681); ed « è quella di chi colorisce, senza forza o rilievo; le cui pitture, per la debolezza della tinta, tengono più del chiaroscuro, che del colorito naturale». Si tratta, in altre parole, di un modo svigorito di dipingere, fin quasi all’effetto monocromo.

È quella

del pittore che, dopo il

vertice della perfezione raggiunta da Michelangelo, secondo lo schema storiografico vasariano del «miglioramento » e del conseguente declino delle arti, è proteso a scongiurare la decadenza delle maniere (v.) mediante lo sforzo dottrinale rappresentato dalla scelta e composizione di componenti e parti formali desunte dai migliori maestri. Naturalmente,

si tratta di una

illusione

e di un convinci-

mento assai diffusi nella cerchia degli artisti e degli scrittori d'arte, dopo la morte di Taddeo Zuccari; illusione di cui si rende interprete segnatamente G. B. ARMENINI (1587), ingenuamente ottimista sul rimedio al declinare dell’arte della pittura, consistente nel seguire « alcune regole e precetti, i quali sono come fondamenti immutabili dell’arte » (Proemio, XXVIII). In virtù di tali regole e precetti, gli artisti avrebbero pertanto la possibilità di acquisire quella «dotta maniera», capace di opporsi e di scongiurare la tendenza involutiva della pittura. Si tratta pertanto di una dottrina delle maniere, conseguente allo studio di un patrimonio figurativo istituzionale, inteso come una precettistica. D'altra parte la figura del pittore dotto, filosofo, in possesso della scienza del disegno esterno (v. Disegno); tale cioè da raggiungere l’identità arte-natura, sicuro fino a non aver più bisogno, nell’imitazione (v.), della squadra, misure e compasso, è quella propugnata da F. ZUCCARI (1607), nel suo l'/dea de' Pittori, Scultori et Architetti. Lo Zuccari parla fra l'altro dell'intelletto dell'artista, che «riceve facoltà di essere, e poter essere intelligente, e dotto, e di bene operare», lib. II, cap. |, p. 4; ed. D. Heikamp

1961, p. 224 (v. anche

forte, o gagliarda.

Maniera MUCCIA

Dottrina).

Specificazione del

forzosa.

Espressione critica di L. SCARA-

(1674), pittore perugino amico del Boschini e am-

miratore, fra l’altro, dei pittori bolognesi, relativa al primo stile, più ricco di contrasti di luce e ombra, di Guido Reni.

Così, a proposito di un quadro nella piccola chiesa di San Tommaso in Bologna, si legge: « E nella picciola Chiesiola... di S. Tomaso [il Genio e il Girupeno, interlocutori del dialogo, osservarono] una bellissima tavola di mano

di Guido

;

della sua prima, e più forzosa maniera»

Maniera nella ducci,

Vita

furbesca. del

detto

pittore

bolognese

il Mastelletta,

[G.]

(p. 54).

[G.]

Riferisce C. C. MALVASIA (1678), che

Giovanni costui

Andrea

facendo

Don-

staccare

abilmente le figure dipinte su fondi oscuri, nascondendo la natura dei contorni, raggiungeva risultati pittorici sorprendenti, ma scansava in tal modo le difficoltà. Il singolare scrittore d’arte bolognese scrive infatti: « Fu il suo fare una maniera furbesca; perché non altro maggiormente adoprando che il nero, cacciando il tutto in ombra, veniva a scansare non solo le difficoltà, ma a confondere, e a perdere entro quelle oscurità i contorni, onde sopra di essi

non si potessero fare i conti; ed ascondendo in tal guisa le scorrezioni e gli errori quando ve ne potessero esser stati, e su que' scuri poi maravigliosamente spiccando le prime piazze de’ chiari, alla prima ferivano la vista, e con estrema vaghezza appagavano il gusto » (Il, pp. 67-68) Il Malvasia, citando il Vasari, asserisce

dei Goti. V. Maniera tedesca.

dotta.

Maniera

termine ‘ maniera ‘, che F. BALDINUCCI (1681) attribuisce ai pittori amanti dei contrasti chiaroscurali, per conseguire un deciso spicco di forme in rilievo. [G.]

che il Puligo

tava gli errori press'a poco al medesimo

Maniera

Maniera

chimerica

occul-

modo.

Naturalmente, questo parere limitativo del Malvasia sui procedimenti pittorici del Mastelletta, corrisponde ad una precettistica del pittore bolognese, che peraltro la critica moderna non condivide come limite poetico di questo estroso e valido maestro del sec. XVII. (V. anche Cacciare). [G.]

Maniera

grande. Modo di dipingere grandiosamente,

largamente, subordinando o abolendo i particolari, nella composizione (v.). La quale consiste in gruppi di figure dilatate, in una dimensione cioè maggiore del naturale. Il concetto di M. grande, che assume importanza nella teoria e nella letteratura artistica del XVII e XVIII secolo, dal punto di vista teoretico-classicista corrisponde allo « stile grande » che G. B. AGUCCHI (1607/1615) e successivamente G. P. BELLORI (1672; nella Vita del Domenichino), attribuiscono a Michelangelo; o equivale alla «maniera magnifica» definita dal Poussin. Ma nella critica concreta la M. grande poteva anche significare sovrabbondanza di gusto barocco;. o sbagliata tendenza al grandioso, da parte di qualche pittore poco dotato. In merito, è dimostrativo quanto afferma G. BAGLIONE (1642) nella Vita del padre Giuseppe Valeriano che, come pittore sembrava imitar Sebastiano del Piombo, volendo « che le sue pitture dessero nel grande con figure assai maggiori del naturale con far loro gran

teste, mani ampie, e smisurati piedi sì, che restavano tozze più tosto, che svelte, si come havea l'humore alla maniera grande, ma poco si accostava alla buona e perfetta » (p. 83). In Francia, R. F. DE CHAMBRAY (1662), nella /dée de /a perfection de la peinture, elogiando incondizionatamente gli Antichi (v.), parla, fra l’altro, della esagerazione dei Moderni (v.) — tali per questo autore sono Michelangelo o i pittori barocchi — nella Grande manière; che già peraltro A. BOSSE (1649), nei Sentiments sur la distinction des diverses manières, identificava positivamente con il lato grandioso del bon godt. D'altra parte, nella scena dello sdegno di Polifemo negli affreschi della Galleria di Palazzo Farnese, Annibale Carracci, riferisce G. P. BELLORI (1672), non senza partecipa-

Maniera ponentina zione critica, «l'impeto di Polifemo viene animato con lo stile il più grande, e "| più vehemente; e se ne forma l'atto terribile; mà oltre la gran maniera, Annibale ci lasciò l’essempio del moto della forza, descritto da Leonardo da Vinci... nel suo trattato della pittura » (p. 60). Lo stesso Bellori riassume poi le Osservationi di Nicola

Poussin

sulla pittura, in cui si legge la definizione

della

Maniera magnifica, consistente in quattro cose: « La prima cosa... è che la materia, et il soggetto, sia grande, come sarebbono le battaglie, le attioni heroiche, e le cose divine », sì che il pittore « dalle minuzie a tutto suo potere si allontani»; la seconda cosa è che il « concetto » della mente sia elevato; la terza è che «la struttura, o compositione delle parti sia non ricercata studiosamente, non sollecitata, non faticosa, ma simigliante al naturale » (p. 416); la quarta parte della Maniera magnifica riguarda lo stile, definito derivandone lo schema dal Dell'Arte storica di A. MASCARDI (1636). Nella linea teoretica classicista tracciata dall’Agucchi, dal Poussin e dal Bellori, prosegue, nel clima teorico classicista della Accademia Reale di Londra, J. REYNOLDS (1778), quando nel terzo Discorso accademico, nella M. grande, o stile grande, in rapporto all'idea della bellezza ravvisa soltanto le capacità e il genio dei pittori eminenti: « Molte sono le vie per le quali un Artista minore può camminare; ma, non essendo l’idea della

bellezza se non

una, non vi può essere

se non

una sola

maniera grande di dipignere ». Essa consiste nel «non badare alle accidentali differenze della Natura »; o nell’ « esprimere distintamente e colla maggior precisione le forme generali delle cose. Un contorno sicuro e determinato è uno de’ caratteri dello stile grande nelle pitture », p. 71 (« In moderate attempts, there are many walks open to the artist. But as the idea of beauty is of necessity but one, so there can be but one great mode of painting... For though the Painter is to overlook the accidental discriminations of nature, he is to pronounce distinctly, and with precision, the general forms of things. A firm and determined outline is one of the characteristics of the great style in painting »,

p. 97).

Maniera

[G.]

greca.

Espressione con la quale fin dal se-

colo XV si indicava lo stile e il gusto che più recentemente (sec. XIX) si sono definiti col termine bizantino (v.). Già L. GHIBERTI (ca. 1450) riferisce la M. greca all'arte di Cimabue; G. VASARI (1568), nella Vita dello stesso Cimabue distingue tra la «buona maniera greca antica» e « quella goffa moderna di que’ tempi»; ma adopera comunemente l'espressione per designare opere d'arte in rapporto con forme ‘ orientali’; come quando descrive i mosaici de Battistero di Firenze: « Nel secondo grado sono pur di mu-

saico alla maniera greca le principali cose fatte da Dio da che fece la luce insino al diluvio » (I, pp. 269-270). O quando ancora ricorda come la basilica di S. Marco a Venezia (I, p. 183) dopo molti incendi «fu sopra i medesimi fondamenti finalmente rifatta alla maniera greca». Ancora nel sec. XVIII G. BOTTARI (1754) nota che la chiesa dei SS. Apostoli di Firenze «tien molto della bella maniera Greca antica » (p. 101). V. anche Greca, Alla. [P.]

Maniera

gretta.

Specificazione

del termine

ma-

niera (v.) che significa modo di operare poveramente, senza

franchezza, artificio, invenzione. È F. BALDINUCCI (1681) a dire che la M. gretta « si oppone a quello, che noi diciamo manierona ».

Maniera

î

[G.]

ideale. Si tratta del metodo, dice il pittore

| perugino L. SCARAMUCCIA (1674), degli artisti che eseguono ‘ a memoria cose già vedute. La chiara definizione ricorre in F. BALDINUCCI (1681): « Termine usato da Luigi Scara. muccia Pittor Perugino, nel suo Libro intitolato, le finezze

de' pennelli Italiani, per esprimere la maniera di quell’Artenell'’operar suo non istà tanto avviticchiato al

fice, che

299

naturale, che si scordi del tutto, di ciò che ha osservato nel più bello della natura, e nell'opere de’ più subblimi Maestri ».

Maniera

legnosa.

Specificazione del termine ma-

niera (v.) riportato da F. BALDINUCCI (1681), per indicare soprattutto i pittori che, pur dotati di qualità (colorito, invenzione, ecc.), fanno apparire troppo incisive e dure le

loro figure nello sforzo di imitar Michelangelo «nel muscoleggiare, e abbigliare le figure; il che fa conoscere quanto sia la differenza da colui, che nell’opere và a seconda d’un'altro, benché singulare nell'arte, a quello che seguita un chiaro lume del proprio intelletto, che le ragioni del ben fare alla mano somministra ». [G.]

Maniera lombarda. Genericamente, F. BALDINUCCI (1681) intende per M. lombarda quella degli « Artefici, che anno procurato d’immitare il bello e natural modo di colorire de’ più celebri Pittori Lombardi ». In realtà questa specificazione concerne la distinzione delle maniere (v.) quale era stata avviata da Mons. G. B. AGUCCHI (1607/1615), e proseguita da G. MANCINI (1617/1621). Il primo non distingue tra M. lombarda e ’ maniera bolognese ‘, come fa il secondo. Il problema è infatti questo: originariamente la M. lombarda comprendeva la scuola, o le scuole lombarde vere e proprie, e quelle della regione emiliana. Lombardo, ad es., era considerato il colorito (v.) del Correggio. [G.]

Maniera

magnifica. V. Maniera grande.

Maniera

manierosa.

Maniera

nera. V. Mezza tinta.

V. Manieroso.

Maniera oltramontana. Modo di dipingere settentrionale,

nordico,

proprio

dei pittori fiamminghi,

olandesi

e tedeschi, considerati al di là dei monti, da parte di artisti e scrittori d’arte italiani. La contrapposizione critica tra gusto italiano e gusto oltramontano, non sembra anteriore, almeno come aggettivazione del termine maniera (v.),

al sec.

XVII. Ad es., C, C. MALVASIA

niera troppo (II, p. 7), a vaert, che a del giovane

Ma

già R. F. DE CHAMBRAY

cendo

(1678) parla di « ma-

manierosa appunto, leccata ed o/tramontana » proposito del pittore fiammingo Dionigi CalBologna, come è noto, fu maestro, fra l’altro, Guido Reni.

in francese

(1662)

e fantasticando

aveva

fornito,

sull'etimo,

una

tradusingo-

lare definizione del termine oltramontano: « Tramontains. Je me serts aussi du Terme de framontains en parlant d’Albert Dùrer, que je dis avoir esté le plus grand Maistre des Tramontains. Les Italiens appellent ainsi presque tous les Peintres estrangers, mais particulierement ceux d'Allemagne et de Flandre, qui habitent les Paîs du Septentrion; parce que le vent du Nort, qui leur vient de ces quartiers là, se nomme en langue italienne la Tramontana » (« Oltramontani. Mi servo del termine oltramontano per parlare di Alberto Direr, che ho detto essere uno dei più grandi maestri oltramontani. Gli italiani indicano così anche pressoché tutti

i pittori

stranieri,

ma

particolarmente

i tedeschi

e i

fiamminghi che abitano i paesi settentrionali; il motivo è quello per cui il vento del nord che proviene da quelle parti si definisce in lingua italiana la Tramontana »). Questo brano della /dée fa parte di un Avertissement au lecteur,

senza numerazione di pagina.

[G.]

Maniera

pittoresca. V. Pittoresco, Il.

Maniera

ponentina. Modo di dipingere occidentale-

nordico, da parte di pittori italiani dei secc. XV-XVI, che risentono della scuola fiamminga. L'espressione « M. ponentina », in riferimento ai modi fiammingheggianti, è adope-

300

Maniera punteggiata

rata dal patrizio veneto M. MICHIEL (1521/1543), nella Notizia d’opere di Disegno, pubblicata da Jacopo Morelli, a proposito dei fratelli Francesco e Bernardino Zaganelli da Cotignola (o di Girolamo Marchesi, parimenti da Cotignola), in riferimento ad una pala d'altare già nella scomparsa chiesa

di S. Anzolo,

in Cremona.

Il testo

del Michiel

è,

fra l’altro, lacunoso: « L’ancona del presepio all’altar grande, alla maniera ponentina, con il puttino che illumina le figure circumstante, fu de mano de... Codignola » (p. 91). Un altro dipinto ‘ ponentino ‘’ ricordato dal Michiel, si trovava ugualmente in Cremona in casa del priore di S. Antonio. Si trattava di una Lucrezia di Altobello Meloni, che il Michiel considera

scolaro di ‘ Armanin ‘, che è dire del Romanino:

«La Lucrezia che si ferisce, in tela, a colla, alla maniera ponentina, a figura intera, fu de man de Altobello da Melon cremonese, giovine de buon instinto e indole in la pittura; discepolo de Armanin » p. 92. (Su A. Meloni, cfr. L. GRASSI,

in Proporzioni, 1950).

Maniera

[G.]

punteggiata.

Procedimento tecnico del-

l'incisione (v.) su metallo, in uso tra il sec. XVI e il sec. XVII,

quando questo metodo appare perfezionato. Alla M. punteggiata appartengono un gruppo di procedimenti affini, che si chiamano ‘opus mallei’, ’ granito’, ‘maniera a lapis’. La M. punteggiata quasi del tutto abbandonata, consisteva nel sostituire sulla lastra il segno con il punto — mediante

il bulino, la puntasecca, l'acquaforte — in una

sequenza grafico-compositiva di effetto granoso. Mentre I” opus mallei’, preferito dagli incisori nordici, si realizzava battendo col martello su appropriati punzoni, la «maniera a lapis», più complessa per l’uso simultaneo di rullette-bulino-puntasecca, risultava come un disegno a matita. Il più noto divulgatore della M. punteggiata è stato il Bartolozzi. [G.]

Maniera

risentita.

Specificazione

della voce

ma-

niera (v.) redatta da F. BALDINUCCI (1681), nel duplice significato di: a) modo di esaltare muscoli delle figure con gagliardia e ardire, da parte di un artista; 5) vivacizzazione delle maschere ricavate dal volto di un uomo morto, mediante colpi di stecca, da parte di uno scultore, che in tal modo supera le « languidezze cagionate nel cadavero dalla morte ». Maniera secca. Modo di disegnare o dipingere mediante contorni incisivi, senza morbidezza. L'espressione ricorre sovente nelle Vite di G. VASARI (1568). Ad es., Tiziano si discosta

dalla « maniera secca,

cruda e stentata »

e duro, che la sua maniera è statuina (vocabolo introdotto all'età nostra), affermano ch'egli non ebbe furia, o fierezza di Spirito, e che le sue opere da’ suoi discepoli erano migliorate » (p. 115). Alla difesa raffaellesca del Sacchi, si appoggia il Maratta: « Suole però Carlo riprovare con senso concitato l'Opinione vulgata del nostro secolo, che non si debba seguitar Raffaelle per esser di maniera secca, e statuina, rispondendo, che piuttosto il loro cervello è formato di sasso, o di macigno, ed apporta il testimonio di Nicolò Pussino Sapientissimo Pittore, che per l'Eccellenza chiamar solea Raffaelle il Divino » (p. 116). [G.]

Maniera

stomachevole.

Specificazione in senso

spregiativo della voce maniera (v.), da parte del pittore e scrittore di idee classiciste G. B. PASSERI (ca. 1678), adoperata (p. 12) per condannare gli esponenti del tardo manierismo (v.), prima della ‘riforma’ dei Carracci e del Poussin. ‘ [G.]

Maniera

svelta.

Voce

riportata da F. BALDINUCCI

(1681) per indicare, nelle arti figurative, uno stile garbato, rappresentato da forme sottili, allungate. Si tratta, dice Baldinucci, del « contrario di maniera tozza, atticciata, maccianghera », ossia grossolana. [G.]

Maniera

tedesca.

Stile che erroneamente, nell’ar-

chitettura, era stato attribuito ai Goti. L'equivoco

per cui,

come già notava Scipione Maffei (1732) nel Dell'/storia di Verona (in Opere, V, ed. Venezia 1790, pp. 248-253), veniva detto « gotico » uno stile che con i Goti non ha attinenze storiche, è stato tramandato da G. VASARI (1568), nel Proemio

alle tre Arti: dell'’Architettura; ed ha rappresentato un tòpos, in cui M. ‘gotica’ è sinonimo di lavoro o M. ‘tedesca ‘ « Ecci un'altra specie di lavori, che si chiamano tedeschi, i quali sono di ornamenti e di proporzione molto differenti da gli antichi e da' moderni. Né oggi s’usano per gli eccellenti, ma son fuggiti da loro come mostruosi e barbari, dimenticando ogni lor cosa di ordine, che più tosto confusione o disordine si può chiamare » (I, p. 83). Il distacco tra i moderni e gli architetti ‘tedeschi’ sarà, nel clima illuministico, precisato da T. TEMANZA (1778): «La varietà di cui l'uomo è sì vago, e l'interesse ch'è il fomento delle arti, hanno, per mio avviso, impegnato gli Architettori del secolo XV, a scostarsi da quella maniera tedesca, che Gottica comunemente s’appella, di cui nei secoli precedenti, erano state vestite tutte le fabbriche

dell'Europa » (p. XI). Sulla voce M. tedesca si legga anche

il Wértenbuch der Kunst di R. HEIDENREICH-W. JENNY (1940/

(VII, p. 308), di Giambellino e seguaci. E, a proposito del Mantegna, nella Camera degli Sposi: « Se bene ebbe il modo del panneggiare crudetto e sottile, e la maniera al-

1953), sotto: Maniera

quanto

’ammanierato’. Modo di dipingere capriccioso ed affettato, che dagli scrittori d'arte del sec. XVII, ed in età neoclassica, è stato attribuito come difetto, vizio riprovevole, ai pittori manieristi (v.); ma anche ad alcuni maestri del tardo barocco.

secca,

vi si vede

nondimeno

ogni

cosa

fatta

con

molto artifizio e diligenza » (III, p. 247). Molto chiara e precisa la definizione di F. BALDINUCCI (1681): «Maniera secca. Di quell'Artefice, che nell'opera sua procede in tal modo, che fa vedere più di quello, che la natura nel naturale, da esso rappresentato, è solita di far vedere: ovvero di colui che dintorna seccamente, cioè senza alcuna morbidezza, l'opere sue: et anche di colui, che per poca intelligenza di chiari, e scuri, di disegno, e d’invenzione, non dà loro, né rilievo, né abbigliamento, né verità ».

i

Maniera

i

statuina.

Modo

di dipingere

[6]

producendo

un improprio effetto di compattezza statuaria. Il termine, dice G. P. BELLORI (ante 1696) era di recente acquisizione nella terminologia artistica. Egli lo adopera nella Vita di Carlo Maratta, in difesa del classicismo di Raffaello, nei confronti del quale alcuni scrittori d’arte (ad es., il veneziano Marco Boschini) erano tutt'altro che favorevoli. In difesa di Raffaello si schiera allora Andrea Sacchi, maestro del Maratti, contro i precettori presuntuosi che «nelle loro Scuole e ne’ loro Libri insegnano, che Raffaelle è secco,

Manierato

tedesca (Deutsche Kunstweise).

(dal lat. manuarius ’ della mano ‘). Anche:

Alcuni esempi. A. FÉLIBIEN (1666/1688) considera M. il di-

segno del Rosso Fiorentino: « La grande facilité qu'il avoit à dessiner, étoit cause, qu'il n'étudioit pas assez l'antique et le naturel. Aussi toutes ses figures sont, pour user des termes de l’Art, maniérées », II, Entretien, III, pp. 102-103 («La grande facilità del disegno fu causa che egli non studiò abbastanza l'antico e il naturale. Anche tutte le sue figure sono, per usare un Successivamente, sempre

termine artistico, manierate »). a proposito dei manieristi,

l'abate L. LANZI (1789/1808) avverte il fascino dell’artificio cromatico nel Beccafumi: « Il suo modo di colorire non è il più vero, avendolo ammanierato di un rossigno che pure affascina e rallegra» (I, p. 236). E di Federico Zuccari scrive che fu «più manierato di Taddeo, più capriccioso nell’ornare, più affollato nel comporre» (I, p. 326).

Manierismo

Ma ecco che G. N. D’AZARA (1787), annotando gli scritti del neoclassico A. R. Mengs, con severità parla dell'aggettivo M. riferendolo ai pittori di estrazione barocca: « La peggior taccia d'un pittore è dirglisi amanierato. Giordano, Solimena, Corrado, con tutta la sua scuola, sono modelli di amanierati » (p. XXXIV). Nel significato negativo, l'aggettivo M. appare svolto infine nei lessici neoclassici sulle Belle Arti, tra cui quelli di F., MILIZIA (1797) e di A. L. MILLIN (1806). Il primo scrive, fra l'altro: « Si dice ammanierato l’affettato. Affettazione è una pessima imitazione della semplicità, della naturalezza, della nobiltà, delle grazie ». E il secondo ripete (analogamente derivando dalla grande Enciclopedia): « Le maniéré est donc une imitation vicieuse de la simplicité, du naturel, de la noblesse et des graces» (« Il manierato è dunque una imitazione viziosa della semplicità, del naturale, della nobiltà e delle grazie »). [G.]

Maniere. Modi, scuole, stili differenti nelle Arti del Disegno (v.), in genere; o presso singoli artisti che, mutando stile, manifestano diverse M. durante il proprio percorso.

301

È certamente non

moderna

ritoccare,

e lodevole la tesi di Luigi Crespi:

rispettare

il dipinto originale e le maniere (v. Restauro). Il suo resta peraltro un atteggiamento professorale alquanto saccente, nei confronti di un colto gentiluomo illuminista, qual’era l’Algarotti.

Manière criblée. Espressione francese (in it.’ maniera crivellata ‘, ma di raro uso) con la quale si designa un tipo di incisione su metallo (di solito rame) affermatosi nella seconda metà del sec. XV ad opera di artisti tedeschi. Il procedimento è simile a quello della xilografia (v.), ma una volta incisa la lastra col bulino, si percuotono le parti ri-

levate con punzoni forniti di ornati diversi, sì da ottenere una superficie operata; la quale poi inchiostrata e stampata traduce particolari ed originali effetti. [P.]

Maniere de gli edifici - Maniere

de l’edifi-

care. Espressioni che compaiono nella dedica del Libro IV delle Rego/e di Sebastiano Serlio (1537); esse riguardano l'insieme delle norme e delle indicazioni relative ai diversi ‘’ordini‘; i passi in cui compaiono

sono

in ogni

intanto il

caso i seguenti: « Ho voluto incominciar da questo quarto

proprio criterio storiografico: che non è quello di ordinare ie M. cronologicamente, bensì sulla base delle distinzioni stilistiche. A cominciar da Cimabue: «il quale, sì come dette principio al nuovo modo di disegnare e di dipignere, così è giusto e conveniente che e’ lo dia ancora alle vite, nelle quali mi sforzerò di osservare il più che si possa l’ordine delle maniere loro, più che del tempo » (I, pp. 189-190). Nella storiografia del sec. XVII, G. B. AGUCCHI (1607/1615) distingue quattro specie o M. di pittura in Italia: « La Romana, la Vinitiana, la Lombarda, e la Toscana. Fuori d’Italia Alberto Duro formò la Scuola sua, et è meritevole della lode, che al mondo è nota: e la Germania, e la Fiandra, e la Francia hanno havuti molti altri valorosi artefici, c'hanno havuto fama, e nominanza » (p. 246). Successivamente, G. MANCINI (1617/1621) divide le M. in Romana, Toscana, Lombarda, Bolognese, Oltremontana. D'altra parte, P. TESTA (1612-1650), nel suo frammentario trattato della

libro a mandare fuori, che è più a proposito, et più necessario de gli altri per la cognition delle differenti maniere

pittura,

Ma non sembra possibile ormai rinunciare al termine di M. nella storia dell'arte, sia perché esso si riferisce a specifiche strutture formali, entro molteplici varianti e momenti del sec. XVI, escogitate ed affermate da singole personalità, sia per una esigenza distintiva, nei confronti della parola

G. VASARI

(1568), nel Proemio

si attiene

delle Vite, delinea

al programma

classicista

del

Poussin,

predicando l’esigenza per i pittori di «tenersi forte in non dare in maniere» (p. 236), per conseguire il Bello (v.) e la « pittura ideale », che è poi il codice estetico del classicismo. Non diversamente, PIETRO DA CORTONA (1652) raccomanda al pittore di evitare «maniere fantastiche e stravaganti » (pp. 220-221), per essere stimato « valent'huomo ». È una disapprovazione del manierismo, da parte di un pittore barocco, che peraltro amava il mondo classico, come dimostrano le sue opere. Interessante è poi, nel sec. XVIII, l'esigenza di rispettare le singole M. dei pittori evitando di ritoccarne malamente i dipinti, quale viene manifestata efficacemente dal canonico L. CRESPI

(1756),

in una

lettera

al conte

Francesco

Algarotti

(in

G. BOTTARI-S. TICOZZI, 1822/1825, III, p. 299). Si legga: vi fosse a’ nostri dì chi, studiando di proposito le

«Se

magistrali maniere de’ nostri antichi valorosi uomini, e procurando d’imitarle, si azzardasse, a seconda delle maniere cui più si approssimasse, di ritoccarle, pur pure

si potrebbe soffrirlo, benché in questo caso ancora sarebbe cosa degna di biasimo, ma nel vedersi che tutt'altre ma‘niere si studiano, non la forte del chiaruscuro, ma la debole del delicato e tenero; non la grandiosità del contorno, ma la delicatezza, ed il minuto de’ dintorni; non la prontezza del pennello, ma lo stento ed il finimento... io per me non potrò giammai accordarmi col Bellori in dire, che ‘sia superstizione di alcuni che consentono piuttosto alla caduta totale d’una pittura egregia, che a mettervi un puntino di mano altrui, benché perito ed eccellente’. O qui sta il punto; il trovare un tal pennello eccellente; e poi può essere perito, ed eccellente un pittore nella sua maniera, e, ciò non ostante, non essere capace di ritoccare una pittura di maniera differente dalla sua ».

|

de gli edificij, et de’ loro ornamenti... Nel quarto, che è questo si tratterà de le cinque maniere dell'edificare, et de gli ornamenti suoi: Toscano, Dorico, lonico, Corinthio, et Composito » (cit. in R. DE FUSCO, 1968, pp. 370-371). [P.]

Manierismo. Da maniera (v.). Si intende per M. un complesso

di manifestazioni

figurative

che,

entro

le singole

correnti e periodi della pittura, scultura e architettura del sec. XVI, in Italia e in Europa, presentano aspetti variamente

definiti « anticlassici» o « antirinascimentali». Studiosi recenti, prescindendo dalla fortuna assunta dalla parola M. nella critica d’arte, e poi nella letteratura, propongono di sostituire ad essa il termine di « Maniera » (v.) o di parlare di «tardorinascimento », o adoperare espressioni quali « Antirinascimento », o « crisi del Rinascimento ».

maniera, da cui ovviamente M. deriva, e che significa stile individuale di un artefice, o collettivo di un periodo. La parola maniériste (manierista), per indicare il modo di

operare detestabile di taluni pittori come il Cav. d'Arpino, e persino il Lanfranco, estraneo alla vicenda del Manierismo già si legge nella classicistica /dée de /a Perfection de la Peinture di R. F. DE CHAMBRAY (1662, p. 210). D'altra parte, il termine

M. ricorre nella Storia pittorica della Italia

di L. LANZI (1789/1808), a proposito degli imitatori fiorentini di Michelangelo. | manieristi erano soprattutto il Vasari e i suoi seguaci: ma anche i pittori attivi in Roma, da Perin del Vaga a Daniele da Volterra, da Marcello Venusti a Marco Pino, da Siciolante da Sermoneta agli Zuccari, al Roncalli, a Girolamo Muziano, Raffaellino da Reggio ed altri, incluso il Cavalier d’Arpino. Secondo l'abate Luigi Lanzi, dopo il Sacco di Roma (1527), « pochi han merito nel colore, molti nel disegno; pochi vanno immuni del tutto dal manierismo»

(I, p. 138).

Una coscienza del M., come di una corrente figurativa stilisticamente positiva nelle arti, diversa dal Rinascimento (v.) e dal Barocco (v.), si produsse in ritardo nella critica d'arte, tramite molteplici contraddizioni. In proposito al seguito della critica della pura visibilità (v.), il M. viene praticamente inteso come stile di passaggio dal Rinascimento al Barocco. Ma

in una

sua

conferenza,

M.

DVORAK

(1920)

ravvisava,

nella visione pittorica allucinata di EI Greco, la singolare testimonianza di tendenze spirituali ed artistiche tra il 1560 e l’inizio del sec. XVII, rivalutando pertanto il M., in sin-

302

Manierista,

Manieristi

u

cronia con la formazione delle moderne correnti dell'Espressionismo (v.) e del Surrealismo (v.). Ma decisivo è stato il contributo di due saggi fondamentali, rispettivamente di

W. FRIEDLAENDER (1925) e di N. PEVSNER (1925). Nel primo dei quali, l'uso del termine anticlassicismo (v.), in rapporto al M., tende a significare la deroga dalle forme classiche (la «grazia» di un Raffaello), che, nella profonda inquietudine morale e mentale di un Pontormo, di un Rosso, di un Beccafumi, altera le proporzioni formali; e tale corrente

anticlassica, positivamente considerata, viene riferita al periodo tra il 1520 e il 1590. Lo stesso periodo storico è comprensivo del fenomeno del M. nel secondo saggio; in cui il Pevsner poneva correttamente in rapporto il fenomeno stesso con la profonda crisi religiosa del sec. XVI, cioè con la Riforma protestante, la riforma Cattolica e la Controriforma (v.). In realtà oggi si suole suddividere — sia pure in linea approssimativa — la vicenda del M. in tre periodi diversamente caratterizzati; una prima fase dal 1510 al 1530, una seconda dal 1530 alla conclusione del Concilio di Trento (1563), un terzo momento « internazionale»

fino al 1600. Ma vi è del resto un M. nel Seicento, che si fregia, ad es., dei nomi del Cav. d'Arpino,

del Morazzone,

del Cerano, Spranger, ecc. Ulteriori ricerche sul M. e sul concetto di maniera (v.), tra cui quelle di C. H. SMYTH (1963), vorrebbero ravvisare in un passo vasariano sulla ‘bella maniera‘, esaltata da un gruppo di pittori quali il Pontormo, il Rosso, il Parmigianino, il Salviati e lo stesso Vasari, un uso storico del termine: che invece in lui assume differenti significati, e nel proemio alla terza parte delle Vite riguarda la ‘ maniera moderna’ in funzione del « miglioramento delle arti ». D'altra parte il difficile tema del rapporto tra il M. e la crisi della società del tempo ha continuato a destare l'interesse degli studiosi del fenomeno; che peraltro è stato sempre più inteso come il prevalente rispecchiarsi dei miti, simboli, magia, scienza, religione e psicologia di una civiltà. Ma

così

procedendo,

ai motivi

salienti

del

percorso

dei

singoli artisti in rapporto alla società, è stata sostituita piuttosto la storia delle idee a quella dell'arte. In questo senso, si segnala il volume sull'argomento di A. HAUSER (1964/1965) — per il quale M. significa disgregazione del Rinascimento, all'origine della stessa crisi della civiltà e dell'arte moderna — e quello di A. CHASTEL (1968), sulla crisi stessa del Rinascimento. Che poi Michelangelo possa venire incluso tra i manieristi GANTI (1960) ed altri, non

(v.), come suppongono G. BRIsembra accettabile. Tra i ma-

nieristi e Michelangelo il rapporto è indubbiamente stretto e innegabile: ma, se è vero che nelle sue opere compaiono modi, forme e motivi cari a quei manieristi che sovente dal grande Buonarroti li derivano (la «linea serpentinata », il « contrapposto », la composizione piramidata, il cangiantismo dei colori, il gigantismo delle immagini, la profonda alterazione dei canoni classicisti), è altrettanto vero che il suo ideale artistico eroicizzato rappresenta un aspetto ori-

ginale e inimitabile del suo linguaggio.

[G.]

Manierista, Manieristi. Pittore, artista o artisti partecipi del Manierismo (v.); i quali pertanto seguono il senso peggiorativo, o la suggestiva vicenda critica della rivalutazione di quella corrente dominante nella pittura, scultura e architettura del sec. XVI,

Il termine, al plurale, ricorre già nella /dée de /a perfection de la peinture di R. F. DE CHAMBRAY (1662), polemico contro i pittori moderni che, anziché Guido Reni, apprezzavano il D’Arpino, il Lanfranco, «et d'autres semblables maniéristes », p. 120 (« e altri simili manieristi »). L'uso del termine M., al plurale, nel significato di pittori intemperanti, estranei al vero naturale, deroganti rispetto ai princìpi este-

tici classicisti della disposizione (v.), e della unione (v.), appare già da tempo ricorrente quando, nel Saggio sopra la pittura, F. ALGAROTTI (1762) osserva: «In moltissimi difetti, quanto alla disposizione, sogliono cadere i manieristi,

che non guardano la natura... La ragione dei loro sbattimenti non apparisce il più delle volte nel quadro, o non si rende almeno probabile. Sogliono essere intemperanti nello spruzzare di lumi, o sia risvegliare, i luoghi del quadro che si chiamano sordi. Ciò fa senza dubbio un ottimo effetto, ma si vuole usarne con discrezione non picciola. Altrimenti si viene a togliere dal totale quella unione, quel riposo, quel maestoso silenzio, come diceva Annibale [sc. Carracci], che dà tanto piacere » (p. 109). Brano, questo, di un razionalismo illuminista efficace, degno delle successive considerazioni di A. M. ZANETTI (1771) sui pittori veneti (Veronese, Schiavone, ecc.); nei confronti dei quali l'operar di maniera, o di sola pratica è, nella rappresentazione di alcuni momenti e situazioni, ammissibile, ma non

generalmente: speditezza, natura negletta; « ed altri e poco dissimili erano i caratteri di quello stile, per cui s’instituì la biasimevole

setta

de’ Mantieristi,

cioè dipintori

di sola

pratica » (p. 301), e « confessar conviene che buono e necessario talora è l’uso della maniera, o pratica spezialmente

nel rappresentare momenti impetuosi, figure in aria, e altre simili cose, in cui non si può far uso interamente del naturale... Ma il volere formar tutto con le sole idee, e tirar ogni cosa dalla tavolozza e dal pennello, come dicono, è vizio» (p. 301). Interessante, di ordine squisitamente filologico, è la interpretazione semantica della voce M., rispetto a manierato (v.), e a manierismo (v.), nel vocabolario neoclassico di A. L. MILLIN (1806). M. è il seguace dei maestri di una scuola,

non

è semplicemente

l'artista

viziosamente

affet-

tato: « D'après différents passages de Lanzi, Storia pittorica, ce mot ne doit s’entendre que du peintre qui imite, qui suit la manière

des maîtres

d'une école; c'est un sectaire

en peinture. Maniériste, mème en ce sens, est plus italien que francais; et, malgré l'autorité de quelques lexicographiques, il ne peut étre employé dans le sens de maniéré. Les Italiens diront d'un maître, qu'il introduit un maniérisme, c’est-à-dire, un genre qui, en quelque sorte, fait secte » (« Dai differenti passaggi della Storia pittorica del Lanzi, questa parola non va intesa come relativa al pittore che imita, che segue la maniera dei maestri d'una determinata scuola; è un seguace in pittura. Manierista in questo senso

è più italiano che francese; e malgrado l'autorità di qualche lessicografo, non può essere impiegato nel senso di manierato. Gli italiani diranno d'un maestro che introduce un manierismo, vale a dire un genere che, in qualche modo, fa setta »). Sulla esigenza della critica d’arte moderna, di distinguere tra i M. ed altri artefici che, nell'arte del Cinquecento,

3

tali non

possono

chiamarsi,

v. Manierismo.

[6]

Manierona. Efficace e barocco accrescitivo del termine maniera (v.), nel significato positivo di Maniera grande (v.), adoperato da M. BOSCHINI (1660). Ad es., il singolare e barocco critico della pittura veneziana, in merito alla « Probatica piscina » del Tintoretto, nella chiesa di San Rocco, esclama: «L'è d'una manierona cusì alta, / che 'l rende

maravegia; e tutti el dise » (p. 105). O si legga — sempre nella Carta (Vento IV) — il giudizio del pittore Odoardo Fialetti su Jacopo Bassano: « Zà dal Fialetti, del Bassan parlando: / Quel manieron, quel sprezzo cusì grando / primo è a cognosser, ma l’ultimo a intender» (p. 304). La voce amplificatoria M. piacerà poi agli artisti e scrittori italiani, poiché infatti F. BALDINUCCI (1681), nel suo Vocabolario Toscano, ne fornisce la breve definizione: « Manierona. Termine col quale esprimono i nostri Artefici, il modo,

la guisa, o la forma d’operare magnifico e franco, contrario del tutto all’operar gretto e stentato ».

Manieroso. Da maniera (v.). Pittore di modi artificiosamente raffinati e ricercati; in genere, partecipe della cultura figurativa del manierismo (v.). L'aggettivo M., ora per indicare un fenomeno pittorico positivo, ora per significare un aspetto artistico negativo, ricorre prevalentemente nella

Manualistica

letteratura artistica del sec. XVII. PIETRO DA CORTONA (1652) definisce «stile manjeroso » (p. 26) il modo di dipingere del Cavalier d’Arpino, non in senso svalutativo, bensì per sottolineare la profonda differenza di questo stile, rispetto al naturalismo del Caravaggio. D'altra parte, l’atteggiamento classicista di F. SCANNELLI (1657) si esplica in una limitazione della pittura del Lotto mediante l'uso dell'aggettivo M.: « Lorenzo Lotti Pittore assai manieroso, e sufficiente di quei tempi, e mai sempre laudabile » (p. 239). Invero, M. BOSCHINI (1660), sensibile e aperto alla capziosa fantasia formale dei manieristi, parla bene della loro « manierosa maestria » (p. 136). Ma C. C. MALVASIA (1678) non approva la « maniera troppo manierosa appunto, leccata ed oltramontana » (Il, p. 7) del fiammingo-bolognese Dionigi Calvaert. G.

Manifattura. si esegue

Lavoro realizzato a mano o luogo dove

il lavoro stesso.

Può assumere

anche

ficato di impegno da porsi nel lavoro, come

il signi-

presso V. GIU-

STINIANI (ante 1620): « Ed il Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure » (p. 123). Nel senso di luogo nel quale si eseguono oggetti è sinonimo di fabbrica (v.); ma mentre con questa voce si indica il luogo o l'edificio dove si attua una produzione con procedimenti prevalentemente industriali, M. è legato all'idea di un lavoro artigianale; come tale la voce è riferita ai luoghi di produzione di oggetti delle cosiddette ‘arti minori‘; ad es., M. di Sèvres (porcellane), di Arras (arazzi), di Napoli (pietre dure), ecc. [P.] Manifesto. ii significato

Dal sec. XIX nell'uso corrente di avviso

murale

o affiche;

ma

ha assunto già intorno

alla metà del secolo la voce è usata per indicare un programma politico (Manifest der Kommunisticher Partei — Manifesto del Partito Comunista — redatto da C. Marx e F. Engels, e pubblicato a Londra nel 1848). Nel linguaggio degli artisti — e conseguentemente della critica — si afferma nel primo decennio del sec. XX, quale prestito del linguaggio della politica, ugualmente in relazione al programma

di un

gruppo

o di un movimento.

M. è pertanto

una affermazione di poetica, la dichiarazione delle ragioni perché si fa arte e perché la si fa in un certo modo. Del 1909 è il primo M. del Futurismo (v.), redatto da F. T. Marinetti e pubblicato il 20 febbraio sul parigino Figaro; ad esso seguono vari altri M. futuristi (/ Manifesti del Futurismo, ed. Lacerba, Firenze, 1914, poi in ARCH. FUT,., I, 1958, pp. 15-100); del 1918 è il M. ‘dada’ di T. Tzara; nel

1924 si ha il primo M. del Surrealismo. mine è ormai

assicurata,

La fortuna

ed ogni gruppo,

del ter-

o corrente

arti-

stica, si impegna a redigere un M. per motivare e chiarire le ragioni della sua arte. [P.]

Mano.

In quanto parte del corpo mediante la quale l’ar-

tista realizza il suo lavoro, la M. è stata intesa dagli scrit-

tori d’arte, in ogni epoca, quale elemento di immediato riferimento all'attività dell’artista stesso; s'intende con di-

versità di implicazioni: accanto ad un uso generico del vocabolo sono da registrarsi più complesse significazioni, che giungono ad affrontare la problematica del rapporto tra ‘intelletto ‘ e M. L'uso generico è certamente il più diffuso; se ne offre qualche esempio: già PLINIO (23/24-79) parlando della pittrice laia di Cizico ricorda: « Nec ullius velocior in pictura manus fuit», XXXV, 148 (« Nessun'altra mano fu più veloce a dipingere di quella di costei»). Ove è da rilevarsi la identificazione di una parte (la M.) con il tutto (la pittrice), ossia un fenomeno di sineddoche. In autori dal sec. XVI in poi è assai frequente l’espressione « Di mano di... », « Di sua

mano »; come appare, ad es., in P, SUMMONTE (1524): « Have il signor

Sannazaro

oggi

in poter

suo

un

picciolo

qua-

dretto, dove è la figura di Cristo in maiestate: opera bona, | di mano d'un chiamato Petrus Christi» (p. 163). Così in |

Ì /

303

M, MICHIEL (1521/1543): « La statua equestre sopra la piazza del Santo de bronzo de Gatta Melata fu de mano de Donatello» (p. 6). E ancora G. BAGLIONE (1642) ricorda nella Vita di Girolamo da Sermoneta che nella cappella Sforza in S. Maria Maggiore di Roma «la tavola dell’altare ha di sua mano la Madonna assunta con gli Apostoli » (p. 24). Alla M. possono essere riferiti attribuiti laudativi; può essere così « dotta » (G. VASARI, 1547, p. 61), « delicatissima » (L. DOLCE, 1557, p. 145), « valorosa » (L. SCARAMUCCIA, 1674;

p. 96), « dotta e pronta » (A. M. ZANETTI, 1771; p. 170), ecc.; ove

si tratta

sempre

di qualità

che

riguardano

l'artista.

M. può essere anche sinonimo di ‘opera’, ‘modo pingere’, come si vede in questo passo di L. LANZI 1808): «lo

so che

la cognition

erudita

di di(1789/

di vari stili non

è

l’ultimo termine a cui mirano i viaggi e le premure di un curioso: è di conoscer le mani d'ogni pittore almeno più celebre » (I, p. 14). Nell'ambito della precettistica interessa in particolare l'‘’esercizio’, la ‘ pratica’, la ‘ prontezza’ della M.; LEONARDO (1452-1519) raccomanda: « II pittore deve prima suefare la mano col ritrarre disegni di mano de’ buoni maestri » (n. 60); per P. PINO (1548) «la prontezza di mano è cosa de grande importanza nelle figure, e mal può oprare un pittore senza una sicura e stabil mano» (p.118). G. VASARI (1568) avverte: «Quando poi averà in disegnando simili cose [modelli non viventi, ossia cose ‘immobili e senza sentimento ‘] fatto buona pratica et assicurata la mano, cominci a ritrarre cose naturali» (I, p. 118). La M. segna

anche la individualità stilistica di un artista, finendo per identificarsi con il concetto stesso di stile (v.); come appare evidente in questa osservazione di FRANCISCO DE HOLANDA (1548): « Un valente maestro, anche se lo vuole e si sforza di riuscirvi, non può cambiar tanto la propria mano né guastarla... Infatti chiunque la osservi con cura, troverà qualche tratto da cui riconosce che è uscita dalle mani di una persona esperta » (p. 79). Più complesse le implicazioni del rapporto tra M. e ‘intelletto” (o ‘ingegno ‘, ‘testa’, ecc.): ove M. corrisponde a‘ pratica‘, gli altri termini a ‘teoria ‘; il rapporto è esplicito in F. MILIZIA (1797): « Raffaello adoperò più la testa che la mano... ma senza destrezza di mano la più gran testa rimane inerte. Le Arti sono nulle senza l'unione della teoria colla pratica ». Il concetto era stato già formulato da L. B. ALBERTI (1436) in questi termini: « E l'ingegno mosso e riscaldato per essercitatione molto si rende pronto ed espedito al lavoro; e quella mano seguita velocissimo, quale sia da certa ragione d'ingegno ben guidata » (p. 100, n. 59). ’ Ingegno’ e M. sono secondo B. VARCHI (1547) indispensabili allo scultore: « Allo scultore bisogna una continova diligenza e star sempre intento, non meno coll’ingegno che colla mano, per fare proporzionata et accordare tutte le parti della sua statua» (p. 48). G. Vasari (cit.) affronta il problema con maggiore larghezza; egli insiste sulla necessità che «la mano sia, mediante lo studio et essercizio di molti anni, spedita et atta a disegnare»; così che «quando l'intelletto manda fuori i concetti purgati e con giudizio, fanno quelle mani che hanno molti anni essercitato il disegno conoscere la perfezzione et eccellenza dell’arti et il sapere dell'artefice insieme » (I, p. 116). Considerazioni sono ancora in G. B. ARMENINI (1587); A. R. MENGS (1787) infine ribadisce la necessità dello « studio della speculativa» unito all’«esercizio della mano»: « entrambe hanno da andar sempre unite» (p. 282). [P.]

Manualistica.

La M. — da ‘manuale’, libro che può

essere tenuto in una mano — è un tipo particolare di trattazione nell'ambito della letteratura artistica (v.), il cui scopo preminente risulta quello di fornire in forme facilmente ac-

cessibili e ricapitolative i risultati di studi specifici; essa si distingue dunque in particolare dalla trattatistica (v.), che aspira a dare una risposta originale — sia pure attraverso norme e precetti — alla varia problematica; la M.

304

Manuelino,

si pone dunque — nelle forme più valide — quale tentativo di ‘“volgarizzamento ‘ di princìpi teorici, che sono sempre sottintesi, o di acquisizioni storiografiche; il significato positivo di divulgazione cui adempie la M. scade peraltro talvolta in forme di sciatta e superficiale approssimazione, sì che il termine risulta anche adoperato con significato spregiativo, riferito in specie al modo sommario e privo di qualsiasi apprezzabile originalità con cui è sistemata e trattata la materia. [P.]

Manuelino, Stile. Dal nome del re del Portogallo Manuel | (1495-1521) prende nome uno stile architettonico e decorativo che può considerarsi una interpretazione nazionale del tardo-gotico (v.), all'affermazione della quale danno - il loro apporto elementi di diversa provenienza: arabi, indiani, italiani (rinascimentali), spagnuoli (’isabelliani’ e ' platereschi ‘). Tali apporti si compongono tuttavia in una originale unità, cui conferisce un tono caratterizzante la vivace esuberanza ed il naturalismo delle forme decorative, dense di una scoperta e sensuosa plasticità. Come esempi tipici di stile M. si citano: il Convento di Cristo a Thomar — in particolare le finestre della Sala capitolare —, la chiesa del Gesù a Setubal, la torre di Belem a Lisbona, le incompiute cappelle della chiesa di Santa Maria a Batalha.

[P.]

Marcapiano. Voce di conio recente (sec. XX) con la quale si indica l'elemento a fascia che nella facciata di un edificio segna ed indica la sua divisione in piani. [P.]

Marchand Marchio.

amateur.

V. Antiquario.

Contrassegno — simile al bollo (v.) — posto

su opere diverse (ceramiche, metalli preziosi, bronzi, mobili, ecc.) per garantirne l'autenticità. L'uso di M. è reperibile fin dall'antichità ed il loro studio è di grande utilità per stabilire provenienza, attribuzione, datazione di singoli oggetti. [P.] Marina. Dipinto avente per oggetto la rappresentazione di un paesaggio marino, per lo più con porti, vascelli, imbarcazioni varie. La M. diviene uno dei ‘ generi‘ pittorici più apprezzati nel sec. XVII; già G. MANCINI (1617/1621) notava a proposito di A. Tassi: « Ha fatto gran passata in questa sorte di pittura dove sia misto il mare, vascelli, edifitij e figure » (I, p. 252); nel secolo successivo L. PASCOLI (1730/1736) lodava Claudio di Lorena «per l'eccellenza non meno dell'arte, con cui s'acquistò quel nome immortale, che i paesi, le marine, le prospettive dipinte da lui gli conserveranno sempre » (I, p. 20). E. DELACROIX (1857) comprendeva le voci Mare, Marine, tra quelle abbozzate per il suo Dizionario delle arti belle; conformemente alla sua ‘ poetica‘ e al suo gusto ‘ romantico ‘ egli lamenta la incapacità dei pittori di M., che si preoccupano di mostrare troppa sapienza facendo « dei ritratti delle onde», senza preoccuparsi « che la molteplicità di particolari troppo minuziosi... distoglie dallo spettacolo principale, che è l’immensità o la profondità di cui una certa arte può dar l’idea» (p. 19). [P.]

Marmo (lat. marmor). Da un punto di vista mineralogico il M. è un calcare cristallino metamorfosato; nell'uso corrente — in particolare in riferimento ai prodotti artistici — la denominazione si estende a «tutti i materiali lapidei, da costruzione e da ornamentazione, di cui è possibile il polimento » (A. Moretti,

in EAA,

IV, 1961,

p. 860).

La stessa etimologia del resto richiama esplicitamente all'idea di ‘lucido’, ‘lustro’: « La v. lat. è un prestito antico (Ennio) dal gr. marmaros, pietra, masso roccioso, probabilmente relitto egeo, passato al significato di marmo per influsso di marméiro, io brillo, marmareos splendente » (DEI, 1968). Già F. MILIZIA (1797) aveva notato a tal proposito: «La parola Marmo significa lustro; onde gli an-

Stile tichi davan questo nome ad ogni pietra che acquistava lustro. Ora per marmo s'intende quella pietra calcaria ch’è suscettibile di pulimento ». E ancora A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849) la indicava quale « materia suscettibile di polimento o lucentezza » e richiamava l’uso comune «di chiamar marmo ogni specie di materia liscia e brillante, indipendentemente dalle distinzioni stabilite dai naturalisti ». Più di recente M. PIERI (1964) catalogando e descrivendo i M. antichi — nel Il capitolo del volume I Marmi d'Italia — dichiara di adoperare il vocabolo secondo il significato merceologico, «intendendo per marmi antichi tutte quelle pietre per uso ornamentale e di costruzioni che venivano tagliate, segate e ben spianate nelle loro superfici o addirittura lucidate » (p. 13). Peraltro la distinzione tra M. e pietra (v.) non è in effetti sempre avvertita dagli antichi scrittori; ad es., G. VASARI (1568), al cap. | dell'/ntroduzione alle tre Arti del Disegno (Delle diverse pietre, che servono agl’architetti per gl’ornamenti, e per le statue alla scoltura, |, pp. 47-71) non distingue tra pietre e marmo. A. AVERULINO detto il FILARETE (1464): «Il marmo

è una

pietra che, benché

non

sia fine, niente

di meno ell'è più gentile e più nobile che non è niuna dell'altre » (p. 71); il M. è assimilato alla pietra, ma è avvertita la sua singolare qualità. Allo storico dell'arte interessa in particolare la nomenclatura delle diverse specie di M. adoperati nella scultura e quali materiali ornamentali; una prima distinzione è tra M. ‘ antichi’ — cioè usati dai Greci e dai Romani — e M. ’ moderni‘, distinzione che — come avverte A. Moretti, cit. — non ha soltanto valore storico ma si riferisce al fatto che numerosi M., usati dagli antichi, attualmente non sono più scavati e di alcuni non si conosce neppure la località di provenienza.

Si fornisce una elencazione delle principali specie, secondo la classificazione data da M. Pieri (cit., cui si rinvia per una più ampia e dettagliata informazione) integrata — per i M. ‘antichi’ — con le indicazioni contenute nella voce Marmo in EAA, IV, 1961, pp. 860-866 (redatta da A. Moretti), e confrontata con il capitolo della cit. /ntroduzione vasariana. Per quanto si riferisce ai M. ‘ moderni’ si è utilizzata la classificazione del Pieri secondo il colore. Africano: denominato dai Romani marmor chium perché estratto nell'isola egea di Chio. «La denominazione moderna di questo splendido marmo, non vuol alludere alla sua provenienza, bensì alla sua colorazione scura o nerastra, che, a plaghe, caratterizza tutte le sue varietà » (A. Moretti). Alabastro antico: detto dai Romani marmor alabastrinum, ma anche onyx; secondo Plinio derivava il suo nome da Alabastra, città egiziana presso la quale vi erano varie cave. Caratterizzato dalla semitrasparenza e da venature variamente disposte. Dapprima molto raro a Roma, in seguito largamente usato, sia nella statuaria che quale materiale ornamentale; poiché di alabastro erano molto spesso piccoli vasi destinati a contenere unguenti e profumi il termine passò ad indicare il vaso stesso (v. Vascolare, Tipologia). Numerose le varietà: bianco, cotognino, a onice, a occhi, a tartaruga, fiorito, dorato, ecc. Basalto: è l'antico /apis basanites, roccia vulcanica assai dura; i Romani ne adoperarono varie qualità (verde, nero, color caffè).

Bianchi: sono denominati modernamente M. bianchi quelli a colorazione prevalentemente bianca; il più noto è il bianco statuario di Carrara; altre varietà: il M. di Candoglia, il M. di Valle Strona, il botticino (tendente al grigio o al giallognolo), il travertino, ecc. (cfr. M. Pieri, pp. 194-196). Bianchi sono anche alcuni graniti (cfr. M. Pieri, pp. 200-201). Bianco e giallo: è il marmor phengite dei Romani, cavato in Cappadocia. Su di un fondo bianco si hanno venature gialle di diversa intensità. Bianco e nerò antico: corrisponde al marmor proconnesium dei latini, così detto perché cavato nell'isola di Procon-

Marmo

neso. M. costituito da chiazze bianche candide alternate ad altre di un nero intenso. Bianco e nero di Francia: corrisponde all'antico marmor celticum;

su

di un fondo

nero

si hanno

irregolari

vene

o

chiazze bianche. Bigio antico: è l'antico marmor batthium; caratterizzato dall'unione irregolare dei due colori; di grana grossa, presenta numerose varietà (bigio venato, bigio brecciato, ecc.).

Bigio morato: detto dai Romani marmor /luculleum perché introdotto a Roma dal console Lucio Lucullo da un'isola del Nilo. « Il suo colore volge al nero senza giungervi tanto da apparire un marmo nero leggermente ricoperto dalla polvere » (M. Pieri, p. 21). Brecce: dette anche M. mischij «sono marmi brecciati uniti da cemento violaceo o verde scuro » (M. Pieri, p. 200). Tipica è la breccia di Seravezza; anche il verde antico (v.) è una breccia. Nota il Vasari: « Ecci un'altra pietra chiamata mischio dalla mescolanza di diverse pietre congelate insieme e fatta tutt'una dal tempo e dalla crudezza dell'acque » (1, p. 55). Brecce antiche: sono varie qualità di brecce, tra le quali

si segnalano: 1) il rosso brecciato, ossia il marmor lydium, misto di rosso e bianco; 2) la breccia corallina, rosso vivace con frammenti brecciati bianchi, rosa o giallognoli; 8) la breccia della Villa Adriana, assai rara; marrone scuro con macchie di giallo, rosso, verde, bianco, nero; 4) la breccia di Settebassi, così detta perché rinvenuta

quale elemento decorativo nella villa di Settimio Basso sulla via Tuscolana;

« costituita

da elementi

di solito oblunghi,

305 colore tendente

al rosso, al rosso violaceo o al pavonazzo

chiaro, da cui il nome. Gialli: se ne conoscono varie qualità; assai noto il giallo di Siena, di un giallo dorato con macchie e venature di vario colore. Cfr. M. Pieri, p. 96. Giallo antico: detto dai Romani marmor numidicum, perché estratto in Numidia, e denominato anche /ibico. Molto ado-

perato a Roma. « Il suo colore è di quel giallo che assomiglia all'avorio invecchiato, ha tessuto compatto, grana finissima » (M. Pieri, p. 18). Giallo e nero: detto dai Romani marmor rhodium perché cavato nell'isola di Rodi. È un M. nero con venature gialle. Giallo tigrato: detto dai Romani marmor corinthium, perché cavato presso Corinto in Grecia. Su di un fondo giallo paglierino si hanno venature o macchie di giallo più intenso.

Granito: varie sono le qualità dei graniti antichi. | Romani conoscevano le seguenti: 1) /apis pyrhopoecilus, o granito rosso, o granito degli obelischi; mostra tutte le gradazioni del rosso, dal rosa al rosso cupo. Si estraeva presso Siene, in Egitto, da cui anche il nome di syenites. Descritto dal Vasari come « pietra durissima... picchiata di neri e bianchi e tal volta di rossi»

(I, p. 57); 2) /apis psaronius, per la sua somiglianza con la colorazione delle penne dello storno (gr. ydp). Si estraeva in Egitto, presso Siene. Detto anche modernamente granito del Foro, per l'uso largamente fattone nel Foro Romano (ad es., le colonne del Foro Traiano); « Il quarzo bianchissimo serve di fondo, con punteggiatura nera » (M. Pieri,

bianchi o colorati in giallo o in rosso, legati da un cemento

p. 31);

grigio-violaceo o rosso sangue » (A. Moretti). Broccatello antico: anticamente marmor schiston,

8) /apis syenites, diverso dalla syenites rossa è un granito bigio, detto anche granitello antico, costituito di parti bianche e grigie. Largamente adoperato in età romana. Il Vasari lo indica come granito bigio; 4) lJapis haethiopicus, estratto presso Siene in Egitto, di colore quasi del tutto nero, spesso confuso con il basalto (v.); 5) /apis ligusticus proveniente da cave liguri; creduto per errore un granito, mentre si tratta di una qualità di roccia verde serpentinosa. Grechetto duro: detto dai Romani marmor porinum; forse derivava il suo nome dall’analogia col tufo (gr. r&poc) per la sua struttura leggera. Simile per la colorazione e la durezza al M. pario (v.); si distingue per la grana più fine. Largamente usato dagli antichi come statuario e in architettura. Greco duro: corrisponde al marmor parium dei Romani, così detto perché cavato nell'isola di Paro. Detto anche lychnite, Iychneum per il suo colore bianco, era «il più noto e pregiato degli statuari antichi» (A. Moretti); deve la denominazione moderna alla sua durezza. « È certo che l'appellativo di pario divenne sinonimo di candido o bianchissimo » (M. Pieri, p. 15). Greco fino: è il marmor pentelicum dei Romani, spesso confuso con i bianchi di Carrara. La denominazione antica si deve alla localizzazione delle cave sul monte Pentelico presso Atene. Usato dai Greci quale statuario, dai Romani fu largamente adoperato in architettura. « La sua colorazione, bianca nel materiale fresco, passa con la prolungata esposizione agli agenti atmosferici, ad un caratteristico, tenue giallo-oro che conferisce alla roccia una particolare nobiltà » (A. Moretti). Greco giallognolo: detto dai Romani marmor lesbium perché cavato nell'isola di Lesbo nell’Egeo. È uno statuario di colore giallo chiaro, assai apprezzato perché simile a quello della pelle umana. Greco livido: anticamente denominato marmor thasium, Uoipne sembra provenisse dall'isola di Thasos nell'Egeo. un bianco, simile al marmo di Carrara, ma di grana più grossa; di mediocre qualità.

prove-

niente da cave presso Tortosa, nella Spagna occidentale. II nome moderno deriva dalla sua somiglianza al tessuto detto broccato;

ha infatti parti gialle assai varie, ma simili

al colore dell'oro. Campanino: secondo G. VASARI (1568) quelli « che si dimandano campanini son quella sorte di marmi che suonano quando si lavorano et hanno un certo suono più acuto degli altri » (I, p. 63). Come conferma anche F. BALDINUCCI (1681) si tratta di M. duri, facili a spezzarsi, provenienti da cave di Pietrasanta. Carrara: detto dai Romani marmor lunense, dalla denominazione dei monti apuani e dalla città di Luni. Caratteristica la colorazione bianco-candida; la grana è varia, e può essere minutissima, media o più consistente. Largamente adoperato sin dall'antichità sia quale statuario che per i diversi usi architettonici. Scrive G. Vasari delle cave di Carrara: «In quelle s’essercitarono tutti gli antichi; et altri marmi che questi non adoperarono per fare que’ maestri che furono sì eccellenti le loro statue » (I, Cipollino: è il marmor carystium dei Romani, minato perché cavato a Karystos nell'Eubea. bande bianche, bianco-verdi, bianco-grigie con

p. 61). così denoHa grosse vene di un

verde più intenso. « Pare che il suo nome di cipollino sia dovuto al fatto che facilmente si divide a strati, a somiglianza della cipolla » (M. Pieri, p. 19). Il Vasari nomina il cipollaccio (« Di color verde acerbo e gialletto, et ha dentro alcune macchie nere quadre picciole e grandi, e così bianche alquanto grossette », |, p. 54) ed il cipollino («il più pendono in verdiccioe son pieni di vene, che servono per diverse cose e non per figure », |, p. 63). Cottanello: il nome moderno deriva dalla omonima località in Sabina, da dove si estrae. Di color rosso pallido, con vene bianche, usato dai Romani ed in epoca moderna quale materiale decorativo (pavimenti, colonne, ecc.). Fior di pesco: detto dai Romani marmor molossium, perché

proveniente da cave dell'Epiro, paese abitato dai Molossi. Usato per colonne e per pavimenti è di grana molto fine; su di un fondo bianco si hanno macchie e venature di un 20. Grassi-Pepe, ]

II.

306

Marmoraria

Greco turchiniccio: detto dai Romani marmor tyrium perché È uno statuario

cavato in Fenicia presso la città di Tiro. bianco tendente al turchino.

Imetto: detto anticamente marmor dr vato dal monte Imetto presso Atene. al grigio verdognolo,

con

venature

perché ca-

E un bianco tendente grigiastre,

usato

parti-

colarmente in architettura. Alla rottura emana odore fetido, sì che è anche detto cipolla o marmo greco fetido. Lumachella bianco antica: corrisponde al marmor megarense, così detto dai Romani perché proveniente da cave presso Megara in Acaia. È un M. tenero, usato in statuaria. Lumachelle: qualità di M. « costituiti da calcare mescolato a resti di conchiglie fossili, disposti in vario modo e colorati » (M. Pieri, p. 198). Mischio: v. Brecce.

Neri: tra le diverse qualità si segnalano: il portoro (nero con venature e ramificazioni giallo-dorate), il nero di Varenna, il nero Gazzaniga, il nero d'Iseo, ecc. (cfr. M. Pieri, p. 197). Nere sono anche alcune dioriti (cfr. M. Pieri, pp. 201-

202). Nero antico: è il marmor

taenarium

dei Romani,

così de-

nominato dal promontorio Tenaro nella Laconia. Sulla grana molto fine di color nero scuro spiccano sottili e brevi vene bianche. Palombino: denominato anticamente marmor coralliticum, perchè cavato in Frigia nella valle del Coralio; ha colorazione che va dal bianco al giallognolo; usato particolarmente per urne funerarie. Pavonazzetto: detto anticamente marmor synnadicum, perché cavato presso la città di Sinnada, o phrygium, dalla

regione in cui si trovava la suddetta città. È un M. dal fondo rosso violaceo o rosso bruno, con brecciature biancastre di diversa grandezza. Usato dai Romani per colonne e rivestimenti pavimentali. Pavonazzo: colore giallognolo con macchie scure (nere, violacee). Si estrae nelle cave di Carrara. Una sua varietà è il pavonazzetto, che presenta un fondo bianco con vena-

ture assai intrecciate di un colore che va dal rosso al nero violaceo (cfr. M. Pieri, p. 198). Peperino: detto anticamente /apis albanus perché cavato nella zona vulcanica dei monti Albani. Di un color grigio macchiato di scuro; deriva il nome moderno dalla somiglianza che ha con i grani del pepe. Usato esclusivamente in architettura. Porfido: detto dai Romani /apis porphyrites, per il colore rosso intenso simile alla porpora; proveniente da cave egiziane. « Questo è una pietra rossa con minutissimi schizzi bianchi condotta nella Italia già dell'Egitto... si gli dà il pulimento con viene di lustro sari, I, pp. 48, mentale, detto

lo smeriglio e col cuoio strofinandolo, che molto pulitamente lavorato e finito » (G. Va51). Largamente usato come materiale ornaanche romano o pietra romana, per la grande

quantità ritrovata a Roma. Se ne conoscono varietà: nero (rarissimo); verde (/apis Lacedaemonius) detto anche porfido serpentino; grigio, o vaiuolato, con fondo grigio molto chiaro e cristalli bianchi e neri. Portasanta: detto anticamente marmor iassense dall'isola di laso, in Asia Minore presso le coste della Caria (da cui anche marmor Carium). La denominazione moderna deriva dal fatto che di questo M. sono costituiti gli stipiti delle porte Sante delle quattro basiliche giubilari (S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni, S. Maria Maggiore). Ha colorazione estremamente varia; frequenti vene sanguigne o biancastre;

«una delle specie più apprezzate è quella che presenta macchie pavonazze che tendono all'azzurro » (M. Pieri, p. 19). Rossi: le qualità sono assai varie; si ricordano: il rosso di Verona, il portasanta, il rosso di Levante, il rosso di Carrara, ecc. (cfr. M. Pieri, pp. 196-197). Tra i rossi si annoverano anche varie specie di graniti e porfidi (cfr. M. Pieri, pp. 200-201). Rosso antico: non si sa come venisse anticamente designato. Si tratta di un calcare cristallino, con grana finis-

sima, di colore che varia dal rosso vivo al cupo, venato più spesso di bianco, meno frequentemente di nero o grigio

verdognuolo. Non è chiaro se possa identificarsi con l'a/abandicum ricordato da Plinio, e così detto perché cavato in Asia Minore presso la città di Alabanda. Travertino: denominato anticamente /apis tiburtinus perché cavato presso Tivoli. Ha un colore bianco tendente al giallo; di solito poroso, « se compatto

a sufficienza può prendere

un bel pulimento» (M. Pieri, p. 14). Usato esclusivamente in architettura,

sia quale materiale

da costruzione che da ri-

vestimento. Secondo G. Vasari la migliore qualità si cava presso Tivoli, « che 'è tutta specie di congelazione d'acque e di terra, che per la crudezza e freddezza sua non solo congela e petrifica la terra, ma i ceppi, i rami e le fronde de gli alberi. E per l'acqua che riman dentro non si potendo finire di asciugare quando elle son sotto l’acqua, vi rimangono i pori della pietra cavati, che pare spugnosa e buccheraticcia egualmente di dentro e di fuori » (I, p. 64). Tufo: diverso dal tufo calcareo (tofus scaber) è il tufo vulcanico detto dai Romani /apis ruber; largamente usato in architettura. « Il suo colore va dal giallo chiaro, al fulvo, al rossastro e talvolta al nero » (M. Pieri, p. 14). Turchini: sono i bardigli, tendenti ad un colore azzurrognuolo, talvolta con venature a varia disposizione. Se ne

ricavano alcune varietà nelle Alpi apuane (cfr. M. Pieri, p. 196). G. Vasari vi si riferisce allorché nota: « Sono nelle montagne di Carrara... molte sorti di marmi... alcuni che traggono in bigio» (I, p. 60). Verde antico: detto dai Romani /apis atracius, così detto perché si cavava presso Atracia in Tessaglia; denominato anche verde atracio. Molto apprezzato nell'antichità. Di color verde vivace, con macchie di verde più scuro, bianco e nero. Verde ranocchia: detto anticamente /apis ophites, per il color verde simile a quello di un serpente (gr. gt). Proveniente da cave africane, era assai raro; se ne conoscevano due varietà: l'augusteus (ondato) e il tiberianus (fiorito). Verdi: diverse le qualità; si ricordano i verdi di Chatillon, il verde di Varallo, il verde di Prato, ecc. (cfr. M. Pieri,

pp. 197-198).

[P.]

Marmoraria. Presso i latini con M. si intendeva la scultura in marmo o pietra (PLINIO 23/24-79, XXXVI, 14, 15), diversa della statuaria (v.), ossia l'arte di gettare le statue in bronzo. Il termine compare in scrittori rinascimentali, o nel significato generico di scultura (B. CASTIGLIONE, 1528, pp. 66,

67), o con consapevolezza dell'uso particolare fattone nell'antichità, come appare da questo brano di B. VARCHI (1549): « Plinio... dice che l’arte della scultura, che i Latini chiamano marmoraria, fu molto innanzi della pittura e della statuaria, cioè del gittare le statue di bronzo » (p. 40). [P.]

Marmorario (lat. marmorarius). L'artista o artigiano che lavora il marmo, v. (v. anche Marmoraria); la voce nell'età medioevale fu usata in particolare per indicare quei maestri che provvedevano a lavorare e decorare cornici, elementi architettonici vari, suppellettile ecclesiastica, pavimenti. Come tale essa è riferita comunemente ai gruppi familiari dei Cosmati e dei Vassalletto, e atutti gli altri maestri — detti anche ‘ Marmorari romani’ — impegnati nell'Italia centrale, tra i secc. XI e XIV, all'esecuzione di lavori del tipo indicato. [P.]

Marmoratum,

Marqueterie.

Opus. V. Opus.

Voce francese con la quale si indica

l'intarsio eseguito sul rivestimento di un mobile. A differenza dell’intarsio (v.) vero e proprio che è eseguito sul massello, la M. riguarda il sottile strato di rivestimento detto anche ‘ placcatura ‘. [P.]

Martellina.

Piccolo martello d'acciaio. F. BALDINUCCI

(1681) ne descrive

due tipi: il primo,

usato

dai muratori,

— Massa

307

«che da una parte ha la bocca, cioè il piano da picchiare, e dall'altra il taglio »; l'altro adoperato dagli scultori per lavorare le pietre molto dure, « col taglio dall'una e l'altra parte, intaccato e diviso in più punte a diamante »; in tal modo la M. «macera la superficie smossa dalla subbia, che per altro sarebbe difficile a tagliarsi ». IPS

fontane... ed in altri luoghi per ornamento, come mensole ». La deformazione in senso caricaturale, propria del M. è precisamente notata dal QUATREMÈRE DE QUINCY (17551849): «La parola mascherone porta seco l’idea di una maschera fatta a capriccio, di una testa d’'immaginazione, la quale esprime un carattere che si accosti alla cari-

Martello

Va notato che nel sec. XVI con M. si indicano anche pitture di soggetti strani — simili alle grottesche (v.) — delle quali si raccomanda di non far uso nell'interno degli edi-

(lat. tardo martel/lus; forma

pop. marculus,

martulus, dim. di marcus). Strumento costituito da un piccolo blocco di metallo, innestato su di un manico ligneo,

catura ».

« per uso di battere e di picchiare » (F. BALDINUCCI, 1681). Lo stesso Baldinucci ne distingue vari tipi: la martellina (v.); il M. ‘da battere a mazzetta‘; quello ‘da Legnajuoli‘; il M. “da mettere in fondo‘; il M. ‘d'appianare’; e ancora

fici sacri (C. BORROMEO,

quelli

desco H. Muthesius (1861-1927), promotore e ispiratore del Werkbund (v.). Il M. è un concetto anticipatore dell'industrial design (v.); Muthesius tende infatti ad una corretta funzionalità e praticità di ogni prodotto: « E dal momento che oggi soltanto gli oggetti fatti a macchina sono ‘fabbricati secondo la natura economica del secolo‘ sono gli

‘“da tasso’ e ’ da tirare ‘.

Martyrion

[P.]

(gr. uoprsgtov). Il termine greco M. e il cor-

rispondente latino memoria furono riferiti dai primi Cristiani ai luoghi in rapporto con la vita di Cristo o con eventi narrati nella Bibbia. Ben presto però essi passarono a designare un luogo di culto cimiteriale, rilevante per la presenza delle spoglie di un martire. Dall'età costantiniana si costruirono veri e propri edifici monumentali — le stesse basiliche — destinati al culto di martiri; ma la nozione di M. è più strettamente collegata ad un altro tipo di edificio — di cui il primo esempio risale alla stessa età costantiniana (Chiesa degli Apostoli di Costantinopoli, eretta per custodire i corpi degli apostoli Andrea e Luca e del loro discepolo Timoteo) — sorto non in rapporto ad un preesistente culto o memoria sepolcrale, ma proprio per conservare il corpo o le reliquie di un martire. Come tale il M. ebbe una rapida diffusione in Oriente e in Occidente; e sin dal V secolo si generalizzò l'uso di costruire un piccolo sacello, destinato a M., annesso ad un più ampio complesso chiesastico. Va comunque notato che per tali edifici non esisteva una precisa tipologia; sembra «che per

i martyria siano stati adottati tutti i tipi architettonici

in

uso per i comuni edifici di culto: dalla basilica semplice a quella con transetto, dall'edificio a pianta centrale con

1577, p. 44; G. PALEOTTI, 1582,

p. 445).

[P.)

Maschinenstil.

Termine adoperato dall'architetto te-

unici da prendere in considerazione trattandosi di creare un nuovo stile, un Maschinenstil/. Anche Muthesius cita come esempi pratici di questo nuovo stile “le stazioni ferroviarie, le sale d'esposizione, i ponti, i piroscafi, ecc.‘ » (N. PEVSNER, 1945, p. 17). [P.] Maschio. Nel procedimento di fusione in bronzo (v.) sinonimo di modello (v.) — o anima (v.) — sul quale si forma la figura da gettare; in questo senso voce di raro uso. Nella terminologia architettonica M. — o ’ mastio” — (dal fr. maître), indica la torre principale di un castello — detta anche ‘’dongione’ (v.) — o l'insieme di un castello. [P.] Massa (lat. massa ’ pasta, quantità, mucchio ’). Il significato originario del termine nella lingua italiana (secolo XIV) è quello di «quantità di persone o di cose» (DEI, 1968); nel linguaggio della critica d’arte la voce compare

in

autori

della

seconda

metà

del

sec.

XVII

e senza transetto, nella sua ricca varietà di forme alle sem-

(M. BOSCHINI, 1660, p. 374; R. F. DE CHAMBRAY, 1662, p. 62;

plici celle con e senza abside » (F. W. Deichmann, in EAA,

L. SCARAMUCCIA, 1674, p. 95), ed è usata nel senso che rimarrà corrente, cioè per indicare in una composizione, in specie pittorica, la ‘ quantità’ — di colore, di luce, di ombra, ecc. — che costituisce l'insieme della composizione. Nel sec. XVIII il termine è accompagnato da più varie e qualificanti specificazioni, che indicano una presa di coscienza delle possibilità referenziali ad esso inerenti; A. M. ZANETTI (1771) scrive a proposito di Tiziano: « Negl'ignudi principalmente si astenne dall’introdurre masse di scuri gagliardi, ed ombre forti » (p. 99); Giorgione « maneggiò con libertà le masse degli oscuri» (p. 90); il Veronese « abbozzava... i suoi quadri, e spezialmente i panni con certe masse piane » (p. 163). B. ORSINI (1783, 1784) adopera spesso M. nei suoi scritti; tra le altre specificazioni si hanno quelle di «massa luminosa» (1784, p. 56), «massa di riposo » (1783, p. 22). F. MILIZIA (1797) avverte: «In un quadro... una gran massa di lume non deve esser tagliata da una sola gran massa d'ombra ». Secondo A. C. QUATREMERE DE QUINCY (1755-1849) il vocabolo M. è più adeguato se riferito all'architettura: « Pare che si adoperi la voce massa, nell'architettura teorica, o descrivendo le sue opere, in un

IV, 1961, p. 895).

[P.]

Maschera. La voce interessa il linguaggio della critica d'arte — e in particolare la terminologia archeologica — per i riferimenti alle M. funebri (ad es., le M. auree da Micene, le M. applicate alle mummie egiziane, le M. dei canopi etruschi, ecc.) e alle M. teatrali, che i ritrovamenti

testimoniano colo a. C. In collegamenti tale riguarda

essere state usate in Grecia fin dal VII sevarie culture, anche più recenti, la M. presenta con culti magici e cerimonie rituali, e come la storia delle tradizioni popolari.

Da G. VASARI (1568, I, pp. 48, 66, 78, 89, 103) la voce M. è

usata. nel

senso

mascherone

che

più comunemente

viene

(v.).

riferito

a

(Pal

Mascherone. Accrescitivo di maschera (v.); dal secolo XIV nella terminologia architettonica indica un elemento per lo più decorativo, costituito di solito da un volto umano o da una

protome

d'animale, trattati in modo

grottesco

o

caricaturale, e collocato alla bocca di una fontana, o sulle chiave di un'arcata, o in uno spigolo, su mensole, ecc. In età tardo-manieristica coinvolge talvolta porte e finestre,

realizzate in forma di M. (come nel Palazzo Zuccari a Roma); eccezionale la sua utilizzazione quale chiusino di fogna (come nella cosiddetta Bocca della Verità, oggi nel portico di S. Maria in Cosmedin a Roma). | caratteri del _M. e la sua utilizzazione risultano chiaramente esplicati nel Vocabolario di F. BALDINUCCI (1681): « Sorta di scultura, che rappresenti un volto o faccia, che abbia del maccianghero grossolano, simile a quella, che fingonsi avere

i Satiri, i Bacchi, i Venti: e per lo più si suole mettere alle

senso che si accosta di più al letterale e positivo della voce stessa ». Nell'uso contemporaneo il termine risulta adoperato in senso prevalentemente generico, ed è spesso inteso quale sinonimo di volume (v.). Si veda, ad es., quanto G. C. ARGAN (1968) scrive a proposito

di Giotto:

« Ad Assisi

la deter-

minazione dello spazio era in rapporto con l'invenzione della storia figurata e lo spazio era definito dalla dislocazione delle masse e dai gesti delle figure. A Padova i contorni che chiudono le masse impediscono che i gesti si estendano oltre le figure » (Il, p. 16). [P.]

308

Massiccio

Massiccio. Sinonimo di robusto, solido, come esplica F, BALDINUCCI (1681): « Che à dell'essere del masso; e si piglia ancora per grosso, solido, forte ». Come tale il termine risulta più frequentemente adoperato in relazione ad opere architettoniche; così G. VASARI (1568) scrive: « L'ordine dorico fu il più massiccio ch’avesser i Greci e più robusto di fortezza e di corpo » (1, p. 73). A.C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849) registra vari usi della voce nella terminologia architettonica (sinonimo di solido di un muro;

massa corporea e una aspirazione all'esistenza » (rip. in N. Abbagnano, cit.). È questo l'orientamento operante nelle ‘ poetiche” del Cinquecento; si veda B. VARCHI (ca. 1548): «Si può vedere manifestamente dalle bellezze che si veggono ne' corpi artificiali, perciò dono della materia propriamente e l'arte... Dovemo dunque confessar noi diciamo grazia non nasce da’

che in essi non proceprincipalmente, ma delche quella bellezza che corpi né dalla materia,

corpo di un muro composto di pezzi di pietra; nome generico di varie parti di un fabbricato: M. di una scala, di

la quale di sua natura è bruttissima, ma nasce dalla forma » (p. 88). Il Varchi qui riecheggia definizioni già da qualche anno formulate da LEONE EBREO (1535): «Sappi che la

un ponte, di una fondazione,

materia, fondamento

ecc.). Ma indica anche

come

il termine possa riferirsi ad ogni elemento architettonico che sembri « l'opposto di ciò che si è convenuto di chiamar leggiero,

svelto, delicato, ecc. ». D'altronde



egli nota —

M. «non dà un’idea così svantaggiosa come la parola pesante »; vi sono molti casi infatti «in cui il genere massiccio non solo è adottabile, ma cessario ».

Massicotto.

Mastaba.

conveniente

ed anche neIP]

V. Colori.

Termine

arabo con il quale si designa un

monumento funerario dell’antico Egitto, consistente in una costruzione a forma di piramide tronca, con pianta di solito rettangolare, destinato alla sepoltura di faraoni o dignitari. Dalla M. sembra derivare la piramide (v.). [P.]

Mastina, Bellezza. Non è del tutto chiaro il significato di questo aggettivo, che qualifica un certo tipo di bellezza architettonica. Tale aggettivo nel sec. XVI era peraltro inteso negativamente, nel senso cioè di aspetto grossolano. Il pittore e scrittore d'arte di mentalità neoclassica, ma aperto al Gotico e al Barocco, B. ORSINI (1784), nella Guida al forestiere per l'augusta città di Perugia, in merito alla chiesa di Santo Spirito formula questo giudizio: «Moderna è questa fabbrica, e la sua vastità non corrisponde alla bellezza dell’architettura, che è mastina » (p. 335). La interpretazione dovrebbe allora essere la seguente: dal momento che questa fabbrica è M., cioè di una vastità e aspetto barocco (moderno), essa non corrisponde alle norme della bellezza architettonica vigente, cioè quella neoclassica. In tal modo l'avverbio « che», andrebbe con l'accento, « ché », nel significato di perché. [G.]

Mastos.

V. Vascolare, Tipologia.

Materia. Nell'uso comune è ciò di cui è composta una opera d'arte (bronzo, marmo, pigmenti di colore, tela, ecc.); la nozione, in questo senso, è assai affine a quella di ‘ materiale’ (« Tutte le materie, con cui si fabbrica », F. BALDINUCCI, 1681). Nel linguaggio della critica d’arte contemporanea il termine ha però acquistato un significato più qualificante, essendo stato assunto per denotare una ricerca espressiva che considera in modo privilegiato la M. stessa intesa non come un mezzo per realizzare l’opera d'arte ma come elemento fornito di autonoma validità; più usato in questa accezione l'aggettivo materico (v.). Esiste peraltro un più complesso problema, che è quello di una definizione concettuale della M.; si tratta di questione di specifica competenza filosofica, che ha avuto però consistenti implicazioni anche nei riguardi delle arti, sia per quanto è inerente ad una sistemazione teorica del concetto di arte (v. Estetica) sia a livello di meno specialistiche sistemazioni. Ciò si verifica in particolare in autori del sec. XVI, che si rifanno alla interpretazione platonica e aristotelica della M. intesa quale soggetto passivo, alternantesi nei due massimi filosofi greci con l’altra di M. quale potenza (cfr. N. ABBAGNANO, 1968). Rilevante, ed orientativa per il pensiero estetico cristiano, è d'altra parte la

posizione di Plotino (203-270), secondo il quale la M. «non è anima, né intelletto, né vita, né limite... né potenza... essa è veramente il non essere, un'immagine illusoria della

di tutti li corpi inferiori, è da sé de-

forme e madre d'ogni deformità in quelli; ma informata in tutte sue parti per partecipazione del mondo spirituale, si rende bella » (p. 320). P. PINO (1548, p. 102) e V. DANTI (1567, pp. 220-221, 262-263) riprendono il concetto di ‘attezza della M., già elaborato nella Poetica di B. DANIELLO (15836); in particolare il Danti si esprime in modo assai esplicito: « L'’intelletto del perfetto artefice comporrebbe il concetto della

cosa

perfettamente,

avendo

massimamente

le mani

atte a metterlo in opera, ma la materia alcuna volta, in che ha da esprimere e dimostrare esso concetto, manca di conveniente attezza da potere essere espressa » (p. 263). Un tentativo di superamento della rigorosa opposizione tra M. e ‘forma’ sembra potersi avvertire nel card. G. PALEOTTI (1582); egli appunta la sua attenzione sull'’immagine’, che si sostanzia di entrambe divenendo però altra cosa: « Nelle imagini si possono considerare tre cose: l'una è la materia della quale elle son fatte...; la seconda

è la forma data dall'autore a tal materia con disegni, lineamenti et ombre, etc.; la terza è ciò che risulta dalla materia e figura insieme, ch'è quella cosa che chiamiamo imagine, rappresentante un'altra cosa, della quale essa è similitudine » (pp. 254-255). Che il concetto di M. quale dato ‘informe‘, grezzo,

valido solo in quanto

atto a rice-

vere la ‘forma’ dall'artista, fosse tenacemente radicato ci viene confermato dal senso che comunemente era — ed in effetti è tuttora — riferito all'aggettivo ‘ materiale ‘ significativa l’esplicazione del Baldinucci (cit.): « Per semplice rozzo; e dicesi di tutte le cose che non sono raggentilite e ripulite dall’arte ». Nella nostra epoca, come si è detto, la M. ha acquistato nella coscienza degli artisti in primo luogo, e conseguentemente nella critica, una diversa posizione, sino a divenire

non soggetto ‘’ passivo” ma elemento ‘ attivo ‘, nel processo del fare artistico. Può essere significativo che già un critico ‘formalista’ quale H. FOCILLON (1934) avesse intuito le possibilità inerenti alla M.: « La forma, fintanto che non vive nella materia, è solo una visione dello spirito... (p. 117) ... la forma non agisce come un principio superiore che modella una massa passiva, perché si può osservare che la materia impone la sua propria forma alla forma... le materie comportano un certo destino o, se si vuole, una certa vocazione formale. Esse sono forma... e, per ciò stesso,

chiamano, limitano, o sviluppano l'arte » (p. 119).

Materia

la vita delle forme

del[P.]

dei colori. Espressione usata dal pittore e

trattatista veneto C. SORTE (1580, p. 281), che nelle sue Osservazioni nella pittura tende a fornire prescrizioni e indicazioni di carattere tecnico. La trattazione più specifica sull’uso dei diversi colori fornita dal Sorte è quella relativa al « disegno de' paesi» su carta (corografia o cartografia), essendo questa la sua precipua attività. [Pi Materiale. Come aggettivo è sinonimo di rozzo, volgare; « e dicesi di tutte le cose che non sono raggentilite, e ripulite dall'arte » (F. BALDINUCCI, 1681). In questo senso la voce è caduta progressivamente in disuso nel linguaggio della critica d’arte. Come sostantivo indica l’insieme delle ‘materie’ (pietre, calce, sabbia, legnami, mattoni, ecc.) necessarie per la co-

Mec

struzione di un organismo architettonico. Il discorso sui M., nella trattatistica architettonica, è prevalentemente tecnico, come, ad es., in L. B, ALBERTI (ante 1452, capp. IV-XII); ma l'interpretazione del significato che essi assumono nel processo costruttivo diviene compito della critica.

Osserva G. NICCO FASOLA (1949): « Un vero architetto s'indigna sempre, come l’Alberti, contro il cliente che impone un materiale per fare sfoggio di ricchezza e di vanità, e quando è il costruttore a cercar di nascondere la povertà della

sua

idea

sotto

un materiale

costoso,

questo

è del

genere più miserabile. Il materiale di maggior valore per un edificio è pertanto quello giusto, che meglio lo esprime » (p. 237). [P.]

Materico.

L'aggettivo M. — direttamente derivante da

materia (v.) — si afferma e diffonde nel linguaggio degli artisti e della critica intorno al 1950, parallelamente al prender forma di un'arte « che proprio dell'importanza conferita alla materia fa il suo primo privilegio » (G. DORFLES, 1973, p. 50). Secondo la definizione di B. SANI (1971) si tratta di « una ricerca estetica per la quale la materia di cui è fatta l'opera d’arte non si distingue in alcun modo dall'immagine, ma è essa stessa immagine, ovvero realtà capace di significazione e comunicazione di per se stessa ». Rientrano nel gusto M. artisti operanti in particolare nelle correnti dell’Informale (v.) e del New Dada (v.), per quanto si possano reperire precedenti di opere basate sul valore ‘ intrinseco ‘ della materia nei primi dadaisti (v. Dadaismo), nei Surrealisti (v. Surrealismo) e in particolare nei dipinti cosiddetti ‘ polimaterici” — ossia realizzati con materiali diversi — del futurista E. Prampolini. Come nota il Dorfles (op. cit., p. 51) non è possibile indicare con precisione chi si debba considerare l’iniziatore della pittura materica; si tratta di un fenomeno che acquista consistenza in luoghi diversi, in modo autonomo o per l’incrociarsi di rapporti; un

gusto M. è evidenziabile già nelle opere dello statunitense d. Pollock, del francese d. Fautrier, degli italiani E. Baj e R. Crippa; ma i maggiori interpreti di tale ricerca sono indicati dalla critica nello spagnuolo A. Tapies e nell’italiano A. Burri. Per quest'ultimo andrà rilevato come la stessa storia della sua pittura sia «tracciata dall'uso delle materie » (I. TOMASSONI, 1971, pp. 104-105): catrami, muffe, gessi, sugheri, sabbie, carte incollate, sacchi, legni, carte, plastiche, ecc. Scrive a tal proposito G. C. ARGAN (1960): «Le materie che, Burri sceglie sono per lo più i resti di cose che hanno avuto una lunga storia nel mondo, una lunga consuetudine con gli uomini, e da questi sono state poi abbandonate, affidate al flusso di un'esistenza senza storia che le riporta passo passo al terriccio informe, alla

polvere » (p. 262). L'affermarsi dell'aggettivo M. per designare forme espressive contemporanee ha avuto una rispondenza nello stesso linguaggio della critica in relazione a fenomeni di età diversa. Così G. L. MELLINI (1964) parla di « gusto materico » rilevabile nelle prescrizioni del Libro di Cennino Cennini; il Mellini — che considera l’origine di M. nell'uso contemporaneo empirica e non critica — parla di « poetica materica dei colori» di Cennino; rilevando come

« nelle materie

e nei colori... gli artisti prefigurino e inseguano le loro immagini poetiche, le sorprendano allo stato sorgivo » (p. 45). P [P.]

Matrice. Nella tecnica dell'incisione (v.) è la lastra di materiale diverso (legno nella xilografia, v.; rame nella acquaforte, v.; pietra nella litografia, v.; ecc.) dalla quale si ottengono più esemplari mediante il procedimento di stampa. È anche la forma cava preparata per un getto o conio. [P.] i Matroneo. Voce dotta, dal latino medio matroneum, in uso dal sec. XIX nella terminologia architettonica per in-

dicare quella zona riservata alle donne negli edifici cristiani di culto (propriamente detta pars o /ocus mulierum).

Art

309

In particolare si riferisce ad un loggiato praticabile — detto anche galleria (v.) — che si sviluppa nell'alto delle navate laterali di un edificio basilicale aprendosi sulla navata centrale, o sovrastante il deambulatorio (v.) e aperto sul vano della cupola negli edifici a pianta centrale. L'uso del M. è reperibile — sia pure con diffusione e intendimenti diversi — dalla più antica architettura cristiana sino all'età gotica. [P.]

Mattone.

Voce di dubbia etimologia, forse collegata

ad una base mediterranea ma(t)ta (nel significato approssimativo di ‘ zolla‘, cfr. DEI, 1968), in uso dal sec. XIV per indicare « una sorta di lavoro di terra, fatto con proporzionata misura, di forma quadrangolare, e cotto in fornace »

(F. BALDINUCCI, 1681). Il M. è propriamente un «manufatto da costruzione,

ottenuto

per essicazione

o cottura

di un

impasto d’acqua e argilla, il cui peso consente al muratore la posa in opera con una mano sola » (DAU, III, 1969). Da segnalarsi la distinzione tra M. crudo e M. cotto; il primo — largamente adoperato dalle più antiche civiltà mediterranee — era fatto essiccare con procedimento di solito assai lungo al sole; il secondo di più rapida produzione è ottenuto mediante cottura in fornace. Una superficie piana ricoperta di mattoni si dice ‘ mattonato ‘ o ‘ ammattonato ‘. F. BALDINUCCI (1681) registra l'espressione: « matton sopra mattone », con la seguente esplicazione: « Dicesi un muro sottilissimo fatto di mattoni, che non ecceda in grossezza,

quella di un di essi mattoni».

Mausoleo

[P.]

(gr. uavobieroy; lat. mausoleum).

Il termine

fu riferito originariamente

al sepolcro monumentale

ad Alicarnasso

di Mausolo

in onore

(377-353

eretto

a. C.), sa-

trapo della Caria, e considerato dagli antichi una delle sette meraviglie del mondo. Già in epoca romana il termine fu assunto per designare una sepoltura gentilizia, per lo più di grandi dimensioni, collegata alla forma etruscomediterranea del tumulo (v.). Come voce dotta M. ricompare nel sec. XVI per indicare genericamente una qualsiasi sepoltura monumentale.

Mazzonaria

[P.]

(lat. med.

massoneria

‘muratura ’). Pit-

tura di ornamenti architettonici; scrive CENNINO CENNINI (fine sec. XIV): « E lavorrai quelle cornicette con gran piacere e diletto; e per lo simile, base, colonne, capitelli, frontispizi, fioroni, civori, e tutta l’arte della mazzonaria, che è un bel membro dell'arte nostra e vuolsi fare con gran diletto » (cap. LXXXVII). La voce è peraltro caduta ben

presto

in disuso.

Mazzuolo.

[P.]

Strumento adoperato da scalpellini e scul-

tori per sbozzare; è una sorta di « martello di ferro senza tempera », (F. BALDINUCCI, 1681). [P.]

Meandro.

Con il nome dell'omonimo fiume dell’Ana-

tolia occidentale, il cui percorso presenta un andamento regolarmente sinuoso, già presso i Greci ed i Latini si indicava

un

motivo

ornamentale,

sica’ dal Paleolitico dell’arte

superiore

greco-romana.

reperibile

nell’area

‘clas-

sino al pieno svolgimento

Il M. è costituito

da una

linea, o

più linee parallele, che si piegano ad angolo retto, così da determinare una serie replicata di elementi iscritti in uno spazio quadrangolare. Tipico dell’arte greca, come conferma il suo sinonimo ‘greca ‘. [P.] Mec

Art.

Corrente

artistica

affermatasi

a Parigi

circa

il 1965 per impulso del critico P. Restany; la Mec Art, detta anche Tipo Art o Arte meccanica, si collega per certi aspetti alla Pop Art (v.), aspirando ad una circolazione tra il pubblico popolare in virtù del costo limitato delle opere prodotte in serie; si tratta in genere di tele emulsionate,

sulle

quali con particolare procedimento tipografico vengono riportate immagini fotografiche. In ogni caso «la Mec-art

310

Mecca

punta con decisione al superamento del metodo artigianale, i con un nuovo sistema di produzione e anche di diffusione. Proprio questa maggiore possibilità di moltiplicare in serie, industrialmente, l'immagine finisce con l’incidere sullo sviluppo nuovo dell'immagine stessa e sul colloquio col pubblico » (G. BALLO, 1968, p. 436). Quali esponenti di questa corrente si ricordano: S. Beguier, G. Bertini, P. Bury, A. Jaquet, M. Rotella.

[P.]

Mecca. Procedimento di doratura (v.), così detto dalla omonima città araba, da dove probabilmente si diffuse in

Occidente; la doratura a M. è propriamente un'argentatura: « Vi si impiega infatti la foglia d'argento, sulla quale si passa poi una vernice giallina (appunto, la mecca) a base

voce italiana M., con la quale si indica un disco di metallo, realizzato mediante fusione o col procedimento del conio, che reca sulle due facce immagini o scritte commemorative; scrive F. BALDINUCCI (1681): « Si fa a memoria d’uomini illustri, di forma simile alle monete; la parte dove è il ritratto della persona, in onor della quale è fatta, chiamasi il ritto; e l’altra parte, ove è Impresa, leroglifico, o Emblema, dicesi il rovescio di essa». L'arte della M. ebbe una particolare fioritura durante il Rinascimento italiano, allorché la praticarono, tra gli altri: il Pisanello, Matteo de’ Pasti, Bertoldo di Giovanni, Niccolò Fiorentino, B. Cellini. Si hanno allora anche trattazioni ad essa relative, come quelle di G., VASARI (1568, cap. XII dell’/Introduzione alla

Scultura) e di B. CELLINI (1568, capp. XV-XVII).

[P.]

di una lacca che imita l'oro » (E. Bacceschi, in TECNICHE,

1973, p. 221).

[P.]

Meccaniche,

Meccanico

Medagliere. Voce relativamente recente (sec. XIX) con la quale si indica una raccolta numismatica (v.) o il mobile atto a contenere una collezione di monete o medaglie,

Arti. V. Arti liberali.

(dell’arte).

Termine

adoperato

nel

se-

colo XVIII, da alcuni scrittori d'arte, per significare l'insieme dei procedimenti e dei ricettari tecnico-operativi, concernenti la solidità e durata dell’opera d’arte nel tempo. In questo senso si considerava molto superiore la ‘diligenza” (v.) e l'esperienza tecnica scrupolosa dei pittori dall'XI al XIV secolo, cioè dei così detti Primitivi (v.), nel confronto con i pittori moderni. Un esempio. particolarmente dimostrativo di questo argomento tra quelli giustificativi per la rivalutazione dei Primitivi, è offerto da un passo di una lettera del padre G. DELLA VALLE (1782/1786) al card. Giambattista Rezzonico. Si legga, infatti: « Parmi, Eminenza, che la poca attenzione, che si usa attorno al meccanico dell'arte, debba lasciare un gran vuoto nella serie delle produzioni, e che i nostri Pronipoti ammireranno ancora le seccature di Giotto, senza poter avere le nostre tele » (Lettere senesi sopra le Belle Arti, I, p. 15; lettera datata: Siena, 10 luglio 1781). Le ’ seccature ‘ di Giotto, cioè il modo di dipingere con campiture cromatiche compatte e continuate, a tempera e ad affresco, da parte dei pittori del '300, rappresentano ancora una riserva di giudizio critico basato sul pregiudizio del miglioramento (v.) della pittura nella imitazione (v.) naturalistica. In compenso però, secondo Guglielmo Della Valle, la insuperabile tecnica, ossia il M. che i Primitivi possedevano, significa un merito del tutto originale: è praticamente un apprezzamento incondizionato. [G.]

Mecenate.

Dal nome

G. Maecenas

(ca. 69-8 a. C.),

detto anche



con termine

più antico (sec. XVII) —

netario ‘.

‘mo-

[P.]

Medaglione. Voce in uso dal sec. XVI, connessa con medaglia (v.), di cui è un evidente accrescitivo; genericamente M. indica un elemento circolare od ovale di varia materia e destinazione; in modo più specifico può riferirsi ad una custodia per reliquie, ad una miniatura, ad un cam-

meo, o ad oggetti simili. Più frequentemente peraltro il termine si riferisce ad un motivo decorativo presente in monumenti architettonici, costituito da un disco contenente

figure od ornamenti a basso rilievo, o più raramente in pittura; « suppongosi sospesi e fermati da grossi chiodi, da cui esce per lo più da ogni lato, come ondeggiando, una fettuccia o nastro che si ritiene essere il legame del medaglione » (A. C. QUATREMÈRE

DE

QUINCY,

1755-1849).

Nel

linguaggio archeologico — o più propriamente numismatico — il termine designa « gli esemplari antichi che si distinguono dalle comuni monete per grandezza o esecuzione e quindi in particolare una serie di emissioni romane di età imperiale, non facilmente definibile nelle sue caratteristiche » (L. Breglia, in EAA, IV, 1961, p. 944). Il M. romano è da intendersi come una ‘moneta’ che, pur con-

servando la sua natura di oggetto di scambio con valore convenzionale, ha quale fine precipuo quello propagandistico, e come tale si presenta solitamente realizzato con grande accuratezza e singolare precisione formale. [P.]

Medici

e speziali. V. Arti.

Medioevale, Arte. Se l’uso dei termini ‘ Medioevo‘ e

consigliere di Augusto e protettore di letterati, con M., che ne è la traduzione italiana, si indica colui che protegge, incoraggia, sovvenziona l’attività di un artista o di un movimento. La voce è usata in questo senso sin dal sec. XVI; si veda, ad es., F. DA SANGALLO (1547): « Ma non sono più li tempi de' Mecenati, che le opere della pittura e scultura erano pagate con tanto peso di talenti d'oro » (p. 72); F. MILIZIA (1797), che intende i M. quali ‘’protettori‘, ‘ promotori ‘, avverte: « Intelligenti giovano, ma ignoranti nuocono moltissimo... che si lagna di mancanza di mecenati, si lagni piuttosto dell'eccesso di mecenati ignoranti ». Per designare il fenomeno nel suo insieme è adoperata dal sec. XIX la voce Mecenatismo; questa forma di protezione delle arti si è attuata, e tuttora si attua per ragioni e finalità diverse (prestigio, amore disinteressato per l’arte, pubblicità, ecc.); come tale sono evidenti i rapporti con il collezionismo (v.), che è in effetti uno dei modi nei quali essa si realizza, e con il quale condivide la varia proble-

è anteriore nella lingua italiana al sec. XIX (ma C. Keller aveva pubblicato già nel 1688 una Historia medii aevi), il costituirsi del concetto di una età di mezzo (media aetas, media tempestas, media antiquitas), tra quella ‘antica’ e quella ‘ moderna‘, risale alla metà del sec. XV, ed è riconducibile alla consapevolezza umanistica « di un distacco e di un superamento in atto nel paragone tra il rinnovamento artistico, politico e religioso dei secoli XV e XVI e la rovina civile, artistica e politica dei secoli precedenti » (L. GRASSI, 1970, p. 93). Si ha dunque un atteggiamento di orgogliosa esaltazione delle esperienze in atto, avvalorata dal confronto con le realizzazioni delle epoche immediatamente precedenti, e dalla coscienza di un ideale congiungimento con il mondo antico: da qui il convincimento di una ‘età di mezzo‘, intesa come epoca di decadenza

matica relativa al significato del fenomeno

atteggiamento

e alle sue mo-

tivazioni.

[P.]

Medaglia. Da una supposta forma tardo latina medialia, collegata a medialis (moneta

di mezzo

denaro)

deriva

la

’ medioevale‘

e di oscurità;

(e di tutte le voci da queste

così il concetto

di Medioevo

derivate)

«nasce,

non

nella

coscienza dei primi rappresentanti dell'età moderna, da un di decisa

polemica:

polemica

religiosa

di

riformati contro il papato e la Chiesa romana... polemica di umanisti contro una cultura in netto contrasto con i nuovi valori degli studia humanitatis; polemica di artisti che esaltavano la pura e serena bellezza dell’arte antica di

Megalografia

fronte alle incomprese manifestazioni artistiche dell'età di mezzo, confuse tutte nell'unico dispregiativo epiteto di ‘gotiche ‘, cioè a dire barbariche » (R. MORGHEN, 1970, pp. 15-16). La consapevolezza di un rinnovamento fu avvertita con particolare sensibilità dagli artisti, sin dalla prima metà del sec. XV: è L. B. ALBERTI (1436) per primo che, nella lettera dedicatoria

al Brunelleschi

del

Trattato

della pittura,

segnala la ‘novità’ delle contemporanee realizzazioni, riconducibili non solo alla dignità degli antichi — e in epoca immediatamente precedente «mancate e quasi in tutto perdute» — ma addirittura superiori per le carenze dei necessari riferimenti: «tanto più el nostro nome più debba essere maggiore, se noi sanza precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e scienzie non udite e mai vedute » (p. 7). Si origina da questi convincimenti la nozione di Rinascimento (v.), che presuppone come necessaria quella di “Medioevo”. Di lì a qualche anno L. GHIBERTI (ca. 1450) avrebbe confermato come con la fine del mondo antico « tutte le statue e le pitture furon disfatte e lacerate... e così si consumaron colle statue e pitture e volumi e commentarij e lineamenti e regole [che] davano ammaestramento a tanta ed egregia e gentile arte » (p. 32). La ’rinascita‘ si precisò allorché l’arte cominciò con Giotto « a sormontare in Etruria ». È dunque ben avvertita a Firenze in questi anni la « coscienza

della nascita di un’età nuova,

con caratteri opposti a quelli dell'età precedente », tale da realizzarsi con «un programma di distacco da un mondo vecchio... caratterizzato da due motivi: il ritorno al mondo antico e al sapere classico; la proclamazione che un’epoca della storia umana, quella medioevale, era ormai conclusa »

(E. GARIN, 1967, p. 11). Tale disposizione ebbe la sua definitiva sistemazione

nel

Proemio delle Vite di G. VASARI (1568); e si trattò di una sistemazione destinata, per il settore delle arti, ad una secolare fortuna. Con la caduta dell'impero di Roma « rovi-

narono

del tutto

parimente

gli eccellentiss[imi]

artefici,

scultori, pittori et architetti, lasciando l’arti e loro medesimi sotterrate e sommerse fra le miserabil stragi e rovine

di quella famosissima città. E prima andarono in mala parte la pittura e la scoltura come arti che più per diletto che per altro servivano: e l’altra, cioè l'architettura, come necessaria et utile alla salute del corpo, andò continuando, ma non già nella sua perfezzione e bontà » (I, p. 177). L'arte

si riprenderà da tale caduta solo quando sarà ritrovato l'ordine buono antico (v.), da cui deriverà «il miglioramento di queste arti » (1, p. 184), fissato storicamente nella persona

dato

di Cimabue,

«principio

gnere »

al-quale è attribuito il merito di aver

al nuovo

(I, p. 189).

modo

È stato

di disegnare

osservato

(J.

e di dipiSCHLOSSER,

1924/1964) come il Vasari delinei del Medioevo una sorta di caricatura, «disegnata con gli occhi dell’odio che sovente vedono più acutamente di quelli dell'amore »; 0sserva lo Schlosser che ciò che il Vasari ha rilevato: «le forme malsicure, vacillanti, le figure che si muovono sulla punta dei piedi... tutto ciò è visto bene dal punto di vista dell'antichità classica, o da quello del Rinascimento, ma solo da quel punto di vista» (pp. 5-6). Si trattò comunque di un punto di vista destinato a durare, sull'onda di tutte le poetiche ‘classiciste’ succedutesi sino agli inizi del sec. XIX, e sostanzialmente accettato dalla stessa cultura illuminista, che identificava Medioevo e Cristianesimo, considerato quest’ultimo come esempio tipico della superstizione che impedisce il funzionamento della ragione. Fu solo infatti con il Romanticismo che, attraverso l'esaltazione delle memorie

e delle antichità nazionali, si aprì la strada

alla comprensione

dell’arte M.; compito

che, almeno

ini-

zialmente, fu assolto dalla storiografia tedesca e anche da . quella francese. La rivalutazione del gotico (v.), fenomeni

quali quello del Gothic revival (v.), la sistemazione filologica di un enorme materiale fino ad allora confuso od erroneamente interpretato, l'affermarsi degli studi di storia del-

311

l'arte M. quale vera e propria specializzazione, sono fatti che danno la misura del rivolgimento verificatosi durante il corso del sec. XIX. Permangono tuttavia difficoltà sulla definizione cronologica del periodo M. e di conseguenza

dell’arte di tale epoca; osserva a tal proposito L. Grassi (cit.): « Dopo tante distinzioni... dopo il superamento della posizione

umanistico-rinascimentale,

che

condannava

in

blocco l’età di mezzo, non è dubbio che il concetto di Medioevo è divenuto impreciso nei suoi limiti cronologici: ma vi rimane sotteso quel carattere unitario dovuto a certi motivi fondamentali e costanti... Più ragionevolmente si pone oggi l'inizio del Medioevo a partire dalla discesa dei Longobardi in Italia (568); e dal Medioevo si esclude ormai non solamente il Quattrocento, ma ancora il Trecento italiano» (p. 94). [Pi]

Medioromana,

Arte. Viene in tal modo talvolta indi-

cata

dell'età

l'arte

romana

flavio-traianea;

così,

ad

es,

S. BETTINI (1953), che a proposito delle intuizioni del Wickhoff, nota come questi fosse riuscito ad « accorgersi che l'arte medioromana, nella sua piena originalità linguistica (illusionismo), s'era trovata, nei confronti dell’arte greca, in una relazione analoga a quella della pittura impressionista a confronto con l’arte ‘ classica’ del Rinascimento toscano » (p. XXIX). [Pa]

Medium. Dal latino medius’ mezzo”, la voce M. si è affermata

nella lingua inglese nel sec.

XIX, diffondendosi

poi

come termine di uso internazionale per indicare la sostanza liquida nella quale viene disciolto il pigmento (v.), così da costituire la materia necessaria per stendere il colore sulla

superficie appositamente preparata. Per estensione M. può anche riferirsi alle diverse tecniche di preparazione del colore (acquerello, olio, guazzo, tempera, ecc.). Nel linguaggio della critica d'arte contemporanea è usato con significato ancor più comprensivo, designando genericamente qualsiasi elemento usato nella realizzazione dell’opera d'arte; è pertanto sinonimo di ‘ materiale‘, ma anche di ‘ mezzo espressivo ‘. [P.]

Megalite

(gr. usyas ‘grande’ e X9og ’ pietra 7). Gene-

ricamente grande pietra o masso; in modo più specifico con M. — o ‘megalito’ — si indicano monumenti sepolcrali preistorici come i do/men (v.) o i menhir (v.). Si parla anche di una architettura ‘ megalitica ’, e pertanto di culture ’ megalitiche’, in relazione alla diffusione in epoca protostorica in gran parte delle regioni europee occidentali di modi costruttivi basati sull'impiego di pietre di grandi dimensioni.

Megalografia

[P.]

(gr. uéyas ‘grande’ e yeah ’ pittura /;

lat. megalographia). Termine documentato solo da un passo di VITRUVIO (ante 27 a. C.), e di dubbia interpretazione. Secondo R. Bianchi Bandinelli (in EAA, IV, 1961, pp. 959960) è stato riferito: a) alla grandezza delle opere; b) a pitture raffiguranti cose di tale grandezza da dover essere ridotte mediante l'artificio prospettico; c) a pitture di contenuto elevato, nobile; d) a serie di grandi quadri con cicli mitologici e storici o sostituenti statue. Il passo vitruviano è comunque il seguente: « Ambulationibus vero propter spatia longitudinis varietatibus topiorum ornarent ab certis locorum proprietatibus imagines exprimentes... locis item megalographiam habentes, deorum simulacra seu fabularum dispositas explicationes » (VII, V, 2). S. FERRI (1960) — che sostiene l’interpretazione del termine indicata alla lettera d) — propone questa traduzione: « Invece nelle passeggiate coperte l'ornamento pittorico fu costituito — data la lunghezza degli spazi parietali — da una serie variata di paesaggi, prendendosi gli elementi e le immagini da determinate proprietà di vari luoghi... parimenti, al posto delle statue usando la grande pittura: simulacri di dèi, o scene

mitologiche in serie » (p. 271).

[P.]

312

Megaresi,

Megaresi, Vasi. Denominazione con la quale si indica una famiglia di vasi, databili ai secc. III e Il a. C., prodotti in vari centri ellenistici (Grecia, Asia Minore, Siria, Pale-

stina, Russia meridionale, Italia, ecc.) caratterizzati dalla forma emisferica, dalla mancanza di piede e di manici e dalla presenza di una decorazione a rilievi impressi. Il riferimento alla città di Megara è pertanto fittizio. Alcuni di tali vasi — rinvenuti nella Grecia centrale e di datazione più antica



sono

detti ‘vasi omerici’,

con scene tratte da episodi episodi mitici.

Megaron.

dei poemi

Nella terminologia

per le decorazioni

omerici

archeologica

o da altri [P.]

con

M. si

indica « una casa a sala rettangolare con vestibolo aperto, forma caratteristica dell'architettura della regione egea in età preistorica e storica » (F. Matz, in EAA, IV, 1961, p. 975). Caratteristica di questo tipo di abitazione la presenza di un focolare al centro della sala. Nei poemi omerici peraltro la voce M. si riferisce sia all'ambiente principale della casa (atrio, sala) che all'insieme della casa principesca, e si estende a designare anche il gineceo ed il talamo. [P.]

Melici,

Rilievi. Si tratta di una serie di piccole e sot-

tili tavolette

di argilla,

probabile

rivestimento

di oggetti

lignei, databili tra il 480 ca. e il 430 ca. a. C.; la denominazione deriva dall'isola di Milo (Me/os) da dove provengono sedici esemplari. | rilievi, realizzati a stampo, « sono

opere

di semplice

motivi

dell'arte

artigianato

ionica

che

ha fatto suoi

ed attica » (W. Fuchs,

i grandi

in EAA,

1961, p. 990).

Melinum.

Voce greca (uedoypaota) che vale origi-

‘scrittura

musicale‘;

adoperata

da VITRUVIO

(ante 27 a. C.) in un passo relativo alla pittura triclini e nel quale sembra assumere il valore di morta ortofrutticola ‘; festoni di foglie e frutta » 1960, p. 265). Il brano vitruviano è in ogni caso il « Tricliniis

hibernis

non

lographia nec camarum

est

utilis compositione

coronario

adatta ai « ‘natura (S. FERRI, seguente: nec

me-

opere subtilis ornatus »,

VII, IV, 4 (« Nei triclini d’inverno non sono indicate, per la loro composizione, né la me/ografia né i sottili ornamenti delle ghirlande alle volte »). Il termine M. che compare in

tutti i codici vitruviani, è stato corretto da vari editori moderni in megalographia (v.); ma il Ferri, cit., propone di conservarlo, fornendone

la interpretazione indicata.

Membrificare,

Membrificazione.

[PS]

Disegnare le

membra del corpo umano nella struttura anatomica della figura considerata nella appropriata dinamica del moto. Tale è il pensiero di LEONARDO (1452-1519), il quale nel Trattato della pittura disapprova gli artisti che compongono le parti figurate di una istoria (v.), membrificando (cioè disegnando le strutture delle membra del corpo) con lineamenti troppo «finiti», precisi in apparenza, ma rigidi in modo che l’idea vitale della composizione si annulla. Dice infatti: « O tu, componitore delle istorie, non membrificare con terminati lineamenti le membrificazioni d'esse istorie, ché t'interverrà come a molti e varî pittori intervenir suole, i quali vogliono che ogni minimo segno di carbone sia valido... perché molte sono le volte che l’animale figurato non ha i moti delle membra appropriati al moto mentale, ed avendo egli fatta bella e grata membrificazione ben finita, gli parrà cosa ingiuriosa a trasmutare esse membra più alte, o basse, o più indietro che innanzi. E questi tali non sono meritevoli di alcuna laude nella scienza » (n. 185). Più oltre Leonardo, parlando del modo di riconoscere una

buona zioni

pittura, tra le condizioni sieno

accomodate

ravvisare coerenza tra il moto fisico delle membra figurate, e il moto mentale del pittore che le ha ideate. L'uso del verbo M. e del termine M. non è frequente nella letteratura artistica. Ma presso L. SCARAMUCCIA (1674) troviamo «reiterar più volte una medesima membrificazione »

(p. 197).

Membro,

[G.]

Membra

degli ornamenti,

Mem-

bratura. Voci ricorrenti nella terminologia architettonica, riconducibili ad una interpretazione antropomorfica delle forme architettoniche; notava A. C. QUATREMERE DE QUINCY (1755-1849): « Avendo l'architettura trovato sempre nel corpo umano un tipo ed un modello intellettuale di proporzioni,

di rapporti e di combinazioni, è cosa naturale che pigliasse altresì a prestanza molti nomi e termini che son proprj del corpo medesimo. Un edificio, essendo pertanto considerato un corpo, le parti di questo chiamansi membri ». Secondo G., CARENA (1853) “membri d'architettura ‘ è « denominazione generica delle parti variamente figurate, di cui può comporsi un’opera d'architettura ». In questo senso nell'uso attuale è più comune ‘membratura ‘, «termine generico che indica qualsiasi elemento compositivo di un organismo architettonico » (DAU, IV, 1969). Per F. BALDINUCCI (1681) con l'espressione ‘ M. degli ornamenti ‘ « gli Architetti comprendono generalmente i nomi delle principali, e secondarie parti (da essi dette membri) degli ornamenti della Architettura »; e fornisce successivamente una elencazione, con relativa esplicazione di termini che hanno specifico riferimento nella nomenclatura relativa agli Ordini architettonici (v.). [P.]

Membro spiccato. Espressione adoperata da B. VAR-

V. Colori.

Melographia. nariamente:

IV,

[P.]

Vasi

pone « che le membrifica-

alla condizione

de’ membrificati,

cioè ai gentili membra gentili ai grossi grosse membra ed ai grassi grasse similmente » (n. 403). Si tratta cioè di

CHI (1547); nel riportare le argomentazioni

di coloro

che,

nel tema del paragone (v.) tra le arti, sostenevano la preminenza della scultura, egli così si esprime: « È ancora

gran fatica l'avere a ritrovare in un marmo e poi condurvi mediante lo scarpello alcun membro che tocchi più membra in qualche attitudine difficile... o veramente fare un membro spiccato, come sarebbe un braccio avesse in mano alcuna cosa, come

in aria, e tanto più se si vede nel bellissimo,

anzi miracoloso Bacco di M. lacopo Sansovino » (p. 48). È dunque ‘spiccato’ un M. che sporga o si distacchi in modo assai accentuato dal corpo. [P.]

Menhir.

Voce

del dialetto bretone (men ‘pietra” hir

‘lungo‘) designante «il tipo di monumento preistorico consistente in una pietra, a forma approssimativa di parallelepipedo, posta verticalmente sul terreno » (V. Bianco, in EAA, IV, 1961, p. 1023). Il M. — in italiano detto talvolta

‘ pietra fitta” — mento,

è probabilmente,

un monumento

funerario,

almeno utilizzato

in un primo moin seguito

con

generico significato religioso. | M. se disposti in fila sono detti alignements, in circolo cromlech.

Meniano

(lat. maenianum, più frequentemente usato al

pl.: maeniana’ balcone, veranda ‘). Il nome deriva da C. Maenius, censore nel 318 a. C., cui si fa risalire l'erezione di impalcature sovrastanti le tabernae veteres del Foro, adatte ad accogliere gli spettatori in occasione di rappresentazioni teatrali. In età romana maenianum corrispondeva a quello che oggi diciamo ‘ balcone‘. « Per estensione dal primitivo uso furono chiamate ‘ maeniana ‘’ le partiture orizzontali dello spazio destinato agli spettatori... negli edifici classici romani per pubblici spettacoli » (DAU, IV, 1969). La voce, corrotta in ‘ mignano ‘, è testimoniata nell’area centromeridionale italiana, in specie a Roma, dalla metà del XV secolo, quale sinonimo di balcone, in specie se si affaccia sul cortile (cfr. DEI, 1968). Peraltro, come nota A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849), M. si era diffuso in Italia per indicare, in modo generico, «i piccoli terrazzi, i bal-

coni o loggie, sì aperte che chiusi con gelosie per vedere al di fuori senz'essere veduti ».

|.

Meschino

Menisco

(gr. unvioxos “falce di luna, lunetta’). Indica

l'oggetto di forma diversa (mezzaluna, tridente, punta, ecc.) che veniva posto sulla testa di statue o sulle sommità templari — acroteri (v.), antefisse (v.), ecc. — per impedire che gli uccelli posandovisi le sporcassero. [P.]

Mensola

(lat. mensula ’ piccola tavola’, dim. di mensa

‘tavola da mangiare’). munque « ogni struttura è incastrata, sottoposta per sostenere elementi 1969). Già F. BALDINUCCI

Terminé generico, che indica coche sporga da una parete in cui nella parte libera a carichi e usata sovrastanti in aggetto » (DAU, IV, (1681) aveva esplicato: « Sostegno,

o reggimento di trave, di cornice, o d'altro aggetto ». Un tipo particolare di M. è il modiglione (v.); se di grandi dimensioni si indica come mensolone (v.); G. VASARI (1568, I, p. 83) adopera anche « mensoline », che riferisce, assieme ad altri termini (risalti, rotture, viticci, tabernacolini), ai lavori da lui definiti ‘tedeschi’ — ossia gotici — e giudicati assai severamente. Pa

Mensolone.

Mensola (v.) di grandi dimensioni (F. BAL-

DINUCCI, 1681). Nella terminologia architettonica può anche designare particolari di sostegno « giudicati grandi non in relazione all'importanza dell'elemento da essi portato nell'insieme

architettonico,

ma

in quanto

le loro

dimensioni

sono ai limiti della capacità di resistenza a flessione dei materiali »(M. Munari, in DAU, IV, 1969, p. 15). Nel Dizionario

di A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849) si fornisce questa esplicazione: « Grosso e largo pezzo di legno posto orizzontalmente sul muro di una scala, al quale sono attaccati i noccioli ed i travettini della scala medesima». In tale significato disuso.

Meraviglia.

il termine

è caduto successivamente in [P.]

Concetto retorico-poetico che, nel signi-

ficato di effetto imprevedibile e piacevole di stupore, si afferma nella teoria e nella critica d'arte soprattutto a partire dal sec. XVI e (in maniera prevalente) durante l'età barocca (v. Barocco). L. DOLCE (1557) già asseriva la connotazione tra il motivo prospettico-ottico degli scorci nel disegno e nella pittura, e la M., scrivendo,

sui movimenti

delle immagini:

« Aviene

anco che le figure, o tutte o alcuna parte di esse, scortino. La qual cosa non si può far senza gran giudicio e discrezione. Ma si debbono al mio parere gli scorti usar di rado, perché essi, quanto più son rari, tanto porgono maggior maraviglia » (p. 180). Il motivo della M. come sorpresa, è evidente anche più tardi, quando, nel Figino, G. COMANINI (1591) parla di M. a proposito delle sorprendenti immagini fantastiche (ma icasticamente formate su brani di « natura morta », p. 266) dell’Arcimboldi. D'altra parte, nel clima controriformistico, G. PALEOTTI (1582), avanzando gravi riserve moralistiche

sulle grottesche (v.), informa come esse potessero derivare fra l’altro ai pittori dai geroglifici: « Altri le derivano dalle guglie egizziace ripiene di figure ieroglifice, ch'aveano sensi alti nella loro lingua; e dicono che i pittori poi, vedendo che quella varietà ‘portava vaghezza e meraviglia, si valsero di quelle forme, poco curandosi del significato » (p. 432). Rimanere attoniti, stupefatti contemplando un’opera d’arte; e dimostrazione di genio da parte dell'artista, è il predominante valore barocco del concetto di M., come è evidente leggendo intanto un passo diF. SCANNELLI (1657), sull’E/lemosina di S. Rocco di Annibale Carracci: « Quivi l’inventione è rara, la dispositione molto sufficiente, l’attitudini singolari, ed i concetti, e pensieri diseminati in ordine alla più propria espressione, sono così insoliti, e spiritosi, che oltre il rappresentare adeguatamente ogni minima parte, danno motivo di gustosa maraviglia al riguar-

dante » (p. 339). La M. quale pittura: ecco

un motivo

lo considera

a proposito

caro

riprova

di eccellenza

a G. P. BELLORI

delle capacità

nella

(1672), che

inventivo-illusio-

nistiche

313 di Annibale

Carracci,

o della « Grazia » di Guido

Reni. Pertanto: nei riquadri all'altezza della volta nella Galleria Farnese, Annibale realizzò un effetto di sott’insù prospettico-vedutistico originale: «non già nel modo, che sogliono vedersi le cose in iscorto, mà contentandosi solo

di appagare l'occhio; e così con la licenza de’ più dotti maestri, uscì dalle regole, con meraviglioso effetto » (p. 64). E all’inizio della Vita del Reni (ante 1696): « Quello ancora, che all'età nostra rivolse gli occhi, e le voci degl'Uomini alla Meraviglia, ed alla celebrazione del Nome di Guido, fu certamente la venusta compagnia della Grazia, con cui egli temperando i colori, si fece superiore a ciascuno »

(PAD)

[G.]

Merlatura.

Merletto.

V. Merlo.

Da merlo (v.), il diminutivo M. è voce che

dal sec. XVI è usata per indicare un tessuto trasparente realizzato mediante fili di diversa natura e colore, fornito di guarnizioni terminanti a punta (perciò anche ‘pizzo’).

I migliori esempi di M., sono dovuti a manifatture veneziane e francesi, operanti nei secc.

XVI e XVII.

[P.]

Merlo (lat. med. meru/us). Dal sec. XIV indica « una figura quadrata di muro, posto per termine del medesimo » (F. BALDINUCCI, 1681). Il M. nasce come elemento di difesa e sembra derivare « dalla struttura delle opere difensive primitive in legno, nelle quali alcuni pali sporgevano in altezza rispetto agli altri» (DAU, IV, 1969). L'insieme dei M. costituenti il coronamento di un edificio dicesi ‘ merlatura ‘ (sec. XVI). Dopo l'introduzione delle armi da fuoco fu rafforzato (merlone), ma perdette col tempo ogni utilità pratica, assolvendo solo ad una funzione decorativa; il citato Baldinucci nel sec. XVII lo definisce infatti « ornamento delle muraglie»; ma

ricorda anche

che «questi mer/i usa-

vano gli Antichi fare sopra le mura della Città, o sopra la parte più alta delle Torri e Palazzi, non tanto per ornamento [come ormai fortificazione ».

Merlone.

Merz.

accadeva

al suo tempo], quanto per [P.]

V. Merlo.

Nome

dato dall'artista tedesco

Kurt Schwitters

(1887-1948) — partecipe per certi aspetti alle poetiche del Dadaismo (v.) — alle sue composizioni, realizzate per lo più utilizzando materiali ed oggetti di rifiuto. La nascita del M. si data al 1919, allorché Schwitters aveva eseguito una grande composizione, nella quale aveva inserito un ritaglio di giornale con le lettere MERZ, residuo della dicitura PRIVAT UND COMMERZ BANK. Da allora l'artista usò il termine per designare tutta la sua arte. « È perfettamente inutile ogni arzigogolo inteso a interpretare questa parola, per quanto sia interessante vedere come Schwitters

abbia ‘ sfruttato’ artisticamente

il concetto

(commerciale)

avuto

e come

vi abbia

di Kommerziell

parte, almeno

in un

secondo tempo, l’idea dell’Ausmerzen (eliminare). Chissà, può darsi che inconsciamente gli sia piaciuta anche la rima con Herz’ cuore‘ » (W. SCHMALENBACH, 1960, p. 145).

Meschino.

Termine e concetto

dalla critica del sec.

adoperato

XVIII, di orientamento

[P.] e chiarito

classicista;

già

nel Dizionario di H. LACOMBE (1751) si esplica che gusto M. è «terme employé par les Artistes... pour signifier un goùt trivial & rampant dans la composition » (« voce usata dagli artefici... per denotare un gusto triviale, e cascante nel comporre »). Più ampia la trattazione di F. MILIZIA (1797), che fornisce varie esemplificazioni figurative alle quali deve riferirsi l'attributo di M.: « Il disegno se è di piccole e strette

forme... La composizione... se non spiega tutte le ricchezze del soggetto... l'esecuzione se è timida e secca... lo stile, se è piccolo,

freddo,

è offerto secondo

leccato ». Un tipico esempio

di M.

il Milizia dall'arte « di certi pittori olan-

314

Mescolanza

de’ colori sfumata et unita

desi, che si sono avviliti ne' più sucidi soggetti di pidocchiosi e d'ubriachi». [P.]

Mescolanza

de’ colori

sfumata

et unita.

Espressione con la quale L. DOLCE (1557) contrappone alle «cattive tinte » di un pittore quale Lorenzo Lotto un gusto classicista, nel quale si esprime un orientamento ‘moderato’ e antimanieristico, in linea con i suoi interessi pre-

velentemente

letterari;

il brano

del Dolce

è comunque

il

seguente: « Ora, bisogna che la mescolanza de' colori sia sfumata et unita di modo che rappresenti il naturale e non

resti cosa che offenda gli occhi»

(p. 184).

[P.]

Mesi, Lavori dei. Tema iconografico la cui massima diffusione si ha nell'arte cristiana di età medioevale, allorché acquista un carattere didascalico e paradigmatico, alludendo sia alla fatica con la quale l'uomo deve riscattarsi dal peccato originale, sia alle esemplari occupazioni quotidiane del cristiano. Rappresentazioni dei M. si erano già avute nell'arte antica, note in particolare attraverso mosaici

di arte romana (esempi al Louvre, all’Hermitage di Leningrado, a Zliten in Tripolitania); altra fonte per le figurazioni medioevali furono certamente le illustrazioni di calendari romani; il più importante esemplare pervenutoci è il calendario scritto da Philocalus nel 354 e noto attraverso le

tarde copie della Biblioteca

di Stato di Vienna

(sec. XV)

e della Biblioteca Vaticana (sec. XVII). Le più antiche testimonianze del tema propriamente relativo al lavoro dei M. si hanno in due manoscritti da Salisburgo della prima metà del IX secolo (Biblioteca di Monaco; Biblioteca Statale di Vienna); sono peraltro rare le figurazioni dei secoli immediatamente successivi; si deve giungere al sec. XII — in età romanica — per ritrovare una più ampia utilizzazione di questa iconografia, largamente presente in manoscritti liturgici e in cicli scultorei; particolarmente frequente in chiese e cattedrali francesi (Amiens, Autun, Chartres, Sens, Verzelay, ecc.) e italiane (Arezzo, Pieve; Genova, cattedrale; Lucca, duomo; Parma, battistero; Verona, San Zeno; ecc.). Andrà notato che le occupazioni dei singoli M. variano da regione a regione, in relazione alle diverse usanze e alle diverse condizioni climatiche. Dal sec. XIV si registra una progressiva scomparsa del tema dai grandi cicli scultorei; i lavori dei M. divengono argomento caro alla decorazione di manoscritti illustrati, prestandosi a variate notazioni paesistiche; i più alti esempi si hanno nelle Très Riches Heures du Duc du Berry (Chantilly, Museo Condé) e nel Breviario Grimani (Venezia, Biblioteca Marciana). In età rinascimentale interessano prevalentemente le connessioni tra i M. e le concezioni astrologiche (affreschi del Palazzo di Schifanoia, a Ferrara); si hanno ancora più tradizionali rappresentazioni, quali i tondi robbiani del Palazzo Medici di Firenze, oggi al Victoria and Albert Museum di Londra; ma già dal sec. XVI è da registrarsi la scomparsa di ogni interesse per l'iconografia dei mesi. Andranno peraltro rilevate le indicazioni — invero assai generiche — fornite da C. RIPA (1593) nella sua /conologia (pp. 418-423); qualche più specifica attinenza al tema si ha nella parte che tratta dei Mesi secondo l'Agricoltura, ove ritornano le occupazioni ed i lavori dei mesi.

i

[P.]

Messaggio. Il dibattito sulla possibilità di intendere l'opera d’arte quale M. è strettamente connesso con il problema dell’arte quale fenomeno di comunicazione (v.); il termine, propriamente pertinente alla teoria dell'informazione, ha trovato nel settore degli studi di Semiologia ed Estetica contemporanei una notevole circolazione, per poi diffondersi, di riflesso, nel linguaggio della critica d’arte ove per lo più risulta privo delle originarie implicazioni teorico-concettuali. Interessanti considerazioni sul rapporto tra arte e M. sono in C. BRANDI (1966); indagando sulla ‘ struttura’ dell’opera d’arte e partendo dal convincimento che « si dà messaggio

solo per uno scopo, e scopo del messaggio è di comunicare un'informazione» — non rilevandosi tale particolarità nell'opera d'arte — egli giunge alla conclusione che l'esser fenomeno di un'opera d'arte «non è volto ad un punto di arrivo perché il punto di arrivo di un'opera d'arte è l’opera d'arte stessa» (p. 30); solo ‘ sussidiario” e ‘ collaterale‘ è un punto di arrivo fuori dell’opera: ne consegue « l’apparente conformazione di messaggio » e la considerazione che l'opera d'arte «non può trasmettere un messaggio che in via secondaria e collaterale» (p. 32). Di opposto avviso è C. MALTESE (1970): considerando l’arte quale fenomeno di comunicazione mediante oggetti (egli parla appunto di «messaggio oggettuale »), insiste sulla determinante inerenza del M. nella natura del fatto artistico; il Maltese adopera l’espressione « oggetto-messaggio », come nel brano seguente chiarificatore anche per i concreti riferimenti: «L'’osservatore medio è per ragioni storiche evidenti sempre meno in grado di ‘leggere’ il significato reale della grandezza dell'oggetto-messaggio: molte chiese tardo-bizantine di Atene o di Salonicco, semisoffocate dai palazzoni moderni in cemento armato a sei o otto piani, appaiono certo assai più minuscole o irreali di quanto non apparissero quando erano circondate dalle casupole a uno o due piani di mezzo secolo di molti secoli or sono » (pp. 141-142).

Messapici,

[P.] Vasi. È così denominata dagli archeologi

una categoria di vasi a decorazione prevalentemente geometrica — databili tra il VI e il Il secolo a. C. — prodotti nella Messapia, regione che corrisponde all'odierna penisola salentina. « Il termine di ‘iapigia‘, una volta impiegato per designare questa ceramica, è stato sostituito da ‘ messapica‘, cui nelle pubblicazioni più recenti si comincia ora a preferire ’ salentina’ » (M. A. Del Chiaro, in EAA, IV,

1961, p. 1081).

Mestica

Es

(dal lat. miscere ‘ mescolare ’). Come termine

della tecnica pittorica indica dal sec. XVI la preparazione che si dà alle tavole e alle tele prima di dipingervi; come tale — ad es., per G. VASARI (1568) — è sinonimo di imprimitura (v.). Ancora in questo senso è esplicato nel Vocabolario di F. BALDINUCCI (1681): « Composto di diverse terre, e colori

macinati

con

olio di noce,

o di lino; serve

per dare alle tele o tavole, che si vogliono dipignere; e dicesi anche dagli Artefici imprimitura ». In senso generico si adopera per indicare la mescolanza dei colori sulla tavolozza. [P.]

Mestichino. Strumento di acciaio, una sorta di piccolo coltello flessibile, « del quale si servono i Pittori per portare i colori sopra la tavolozza, e quelli mescolare a lor

bisogno» (F. BALDINUCCI, 1681).

Mestiere

[P.]

(dal lat. ministerium ‘funzione ‘’). Attività pro-

pria delle Arti meccaniche (v.), quindi manuale, considerata tradizionalmente inferiore a quella richiesta dalle Arti liberali (v.), che è intellettuale. La nozione di M. — nel senso indicato — può dunque farsi risalire alla scissione operata dalla civiltà rinascimentale tra arte (v.) e artigianato (v.), arti ‘ maggiori” e ‘ minori’ (v. Arti minori), con l'affermarsi di un prevalente apprezzamento per le forme artistiche nelle quali sia prevalente l'operazione mentale. La svalutazione del M. appare assai esplicita nel Dizionario del critico neoclassico F. MILIZIA (1797): « È ogni arte meccanica e manuale. Anche le Arti liberali hanno il loro meccanismo;

ma questo loro meccanismo

richiede del

talento. Il mestiere della Pittura non si restringe al solo maneggio del pennello... E tanti Pittori che posseggono il solo mestiere

della

Pittura,

sono

artigiani

buoni

e anche

eccellenti, ma non artisti ». L'arte è dunque dell'artista (v.), il M. dell’artigiano (v.). Nel sec. XIX si afferma anche la voce Mestierante, per indicare chi attende ad un’arte o ad una professione in

et,

SENI

«Sl

Metallo

315

:

de

modo indegno, senza scrupoli di onestà; come tale è riferita talvolta anche ad artisti. [P.] Meta (lat. meta ‘cono, piramide, termine’). Genericamente piccola costruzione conica o piramidale; in senso più specifico « è quella colonnetta conica, posta nel circo alle due estremità della spina, attorno alla quale i carri o i cavalli dovevano girare » (DAAC, 1971). [P.]

Metabolism,

Metafisica,

Gruppo. V. Gruppo Metabolism.

Pittura, L'appellativo M. riferito alla pit-

tura fu usato per primo da Giorgio De Chirico durante il suo soggiorno parigino tra il 1911 e il 1914; la genesi del termine è bene documentata da ricordi e posteriori dichiarazioni dell'artista: « Intorno a me la masnada internazionale dei pittori ‘ moderni’ s’arrabattava stupidamente tra formule sfruttate e sistemi infecondi. lo solo nel mio squallido atelier della Rue Campagne-Première, cominciavo a scorgere i primi fantasmi d’un'arte più completa, più profonda, più complicata e, per dirlo in una parola a rischio però di far venire le coliche epatiche a un critico francese: più metafisica» (1918; rip. in P. BAROCCHI, 1974, p. 386). E ancora: «La parola metafisica con la quale battezzai le mia pittura sin da quando lavoravo a Parigi negli anni sottili e fecondi dell'avantiguerra destò pure tra gli intellettualoidi delle rive secuane stizze, malumori e malintesi non trascurabili » (1919; rip. in P. Barocchi, cit., pp. 386-387). Il termine ebbe una immediata fortuna; nel 1919 appare il volume di Carlo Carrà: Pittura metafisica, una raccolta di saggi, tra i quali si segnala quello intitolato appunto: Pittura metafisica, ove sono chiaramente precisati gli intendimenti e le convinzioni degli artisti che accettavano di porsi, sotto la bandiera ‘metafisica’: rifiuto dell’Impressionismo (v.) e di ogni pericolosa deviazione ‘ modernista ‘: si imponeva

il ritorno

alla tradizione

rinascimentale,

alla

‘forma pura’ della plasticità: « Noi che ci sentiamo figli non degeneri di una grande razza di costruttori (Giotto, Paolo Uccello, Masaccio, ecc.), abbiamo sempre perseguito figura e termini precisi e corposi anche quando in Italia si sperdevano ad accarezzare le nebbie celestineviolette dell'impressionismo » (ed. 1945, p. 198). Queste affermazioni, e la diretta partecipazione di alcuni artisti alle esperienze ’ metafisiche’ e all'attività del movimento Valori plastici (v.), spiegano come i due fenomeni siano stati talvolta confusi: in effetti essi sono espressione di un atteggiamento ‘antimodernista’ che viene precisandosi, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, in forme diverse ma con obbiettivi ben precisi di restaurazione, in polemica diretta con le più recenti tendenze innovatrici, in particolare con il Cubismo (v.) e il Futurismo (v.). In ogni caso il più originale interprete della pittura M. — cui aderirono ciascuno con la propria personalità e i propri particolari interessi: C. Carrà, F. De Pisis, G. Morandi, A. Savinio — è universalmente considerato Giorgio De Chirico. A lui — come si è visto — risale l'uso del termine; sono di De Chirico le prime intuizioni, ben presto tradotte in termini pittorici, sull'esistenza di un territorio esplorabile dall’artista che non coincide con quello della comune esperienza, non

è contenibile

nei confini

della ’ realtà‘, ma

si

sostanzia di una vitalità ‘ magica ‘; carico di enigmi, si colloca in una dimensione in cui il sogno è suggeritore di inedite e inquietanti analogie: è questo l'aspetto che ha fatto considerare l’esperienza dechirichiana come anticipatrice di quella surrealista (v. Surrealismo): « La pittura di De Chirico... presenta proprio quegli aspetti che i surrealisti cercheranno poi di sviluppare» (M. DE MICHELI, 1966, p. 192). Le intuizioni di De Chirico — come è stato opportunamente rilevato dalla critica — erano orientate e sostenute da letture di Schopenhauer, di Nietzsche, di Weininger; esse coincidono con la produzione degli anni al-

l'incirca tra il 1910 e il 1919: in essa sono peraltro già evidenti i segni di quel richiamo all'ordine, alla tradizione, al ‘mestiere’ (si veda l'articolo // ritorno al mestiere, 1919; rip. in P. Barocchi, cit., pp. 397-401), che ne caratterizzeranno in maniera enfatica e preponderante il corso della

attività successiva. L'esperienza ‘ metafisica’ — nella quale C. MALTESE (1960, pp. 323-325) ha bene individuato l'aspetto ‘ironico’, sostenuto da un sostanziale scetticismo — si conclude intorno al 1920; pur con le sue interne contraddizioni, con le sue ambiguità, con la irrisolubile problematica che la contraddistingue, essa si pone come un momento di rilevante significato nel percorso della cultura artistica italiana del sec. XX; non a caso la evocazione di una ‘realtà’ onirica e magica aspira sempre a ricomporsi in una dimensione ‘classica ’: riconquistato il mestiere, riaffermata la continuità con la tradizione, esaltati i valori della ’ plasticità’, ed esauritasi ben presto la tensione originaria, il passo verso una soluzione in linea con gli orientamenti politici che andavano prevalendo era assai breve, ed avrebbe condotto — attraverso il movimento Valori plastici (v.) — alle più conformiste ed ‘ufficiali’ elaborazioni di Novecento (v.). [P.]

Metafora epistemologica. diverso

dal tradizionale,

Il nuovo rapporto, ben

deterministico

criterio

metafisico

di Ordine, che caratterizza la cultura contemporanea nei confronti degli artisti, ha dato luogo ad una serie di interrogativi. Una risposta in questo senso ha stimolato le indagini sulla così detta Opera aperta (v.). In proposito, vorremmo osservare che già nel Rinascimento (v.) le opere incompiute, il non-finito (v.) di Leonardo e di Michelangelo, provocando una serie di domande presso i contemporanei, introducevano de facto il moderno concetto di ‘opera aperta’. Vero è peraltro che, il procedimento espressivo dall'abbozzo (v.) all'opera compiuta, tendeva generalmente al modello compiuto della forma. Ma l’’ opera aperta’ teorizzata da Umberto Eco, la quale dovrebbe equivalere ad una sorta di M. epistemologica, è sempre esistita nella formatività artistica. Comunque, la definizione di U. ECO (1962) è questa: « Ogni forma artistica può benissimo essere vista, se non come sostituto della conoscenza scientifica, come metafora epistemologica: vale a dire che, in ogni secolo, il modo in cui le forme dell’arte si strutturano riflette — in senso lato, a guisa di similitudine, di metaforizzazione,

appunto,

risoluzione

del concetto

il modo in cui la scienza o comunque vedono la realtà » (p. 42). Ma

sembra

giusta,

in merito,

in figura



la cultura dell’epoca

la opinione

di C. BRANDI

(1966): che cioè anche la scienza e la cultura non sfuggono, ma si pongono dialetticamente all’interno di un sistema gravitazionale di cui l’arte è partecipe. Si legga: « Alla definizione dell'arte come metafora epistemologica, che ha proposta Eco... noi contestiamo di rappresentare una riattivazione della concezione deterministica dell'arte, seppure in un linguaggio più temperato che nel positivismo ottocentesco. Scienza e cultura saranno a loro volta espressione di un modo di porre la realtà, ossia di un'imposta-

zione ontologica, e l'arte rifletterà questa, e non la scienza e la cultura, contrapponendosi o componendo, con un rapporto dialettico che dovrà essere esaminato di volta in volta » (p. 127). [G.]

Metallo. materia

Secondo

cavata

dalle

F. BALDINUCCI viscere

dersi»; egli poi distingue

della

(1681): « Qualunque terra,

tra M. naturale

ed

atta

a fon-

(oro, argento,

rame, ecc.) e M. artificiale (bronzo, ottone); la voce è spesso

adoperata dagli scrittori d'arte in senso generico, in luogo del M. specifico con il quale è realizzata un'opera; così, ad es., G. VASARI (1568) nella Vita di Donatello: « Fece per la Signoria di quella città un getto di metallo, che fu locato in piazza in uno.arco della loggia loro, et è Giudit che ad Oloferne taglia la testa » (II, p. 309). [P.]

316

Metodo

Metodo.

Il termine nel linguaggio della critica d’arte

ha prevalentemente il significato di procedimento tecnico, riferito sia alla pratica operativa dell'artista che a quella interpretativa del critico. Scrive il neoclassico A. R. MENGS (1787): «Poiché la pittura è un'arte liberale, essa ha da avere necessariamente un metodo e se ha un metodo ha da avere per conseguenza regole sicure e certe » (p. 203). Ma E. DELACROIX (1857), portavoce della sensibilità romantica negatrice di regole e prescrizioni, negli appunti per un Dizionario delle Arti Belle nota: « Metodo (Ne esistono per disegnare, per dipingere, ecc.?) » (p. 11). Nei riguardi dei procedimenti della critica si parla, ad es., di M. morelliano (v.) — o M. ‘ sperimentale’ — per designare il sistema proposto da G. Morelli (1816-1891), inteso ad esaltare le capacità del conoscitore (v.), esplicantesi in quel fondamentale momento costituito dalla attribuzione (v.). I due termini — M. e ‘attribuzione’ — ritornano nel titolo di un ben noto volume di B. BERENSON (1947); è in esso ripubblicato il Frammento sul metodo dell'attribuzione, redatto nel 1894 e già pubblicato nel 1902, quale ripresa e svolgimento delle proposte morelliane. [P.]

Metopa

(gr. uersrn).

Nella terminologia

architettonica

relativa agli ordini classici M. indica la lastra — liscia, scolpita, o anche dipinta — che nel fregio della trabeazione dorica è alternata ai triglifi (v.). Del termine fornisce una precisa etimologia VITRUVIO (ante 27 a. C.): « Inter trigliphos

quae sunt intervalla metopae nominantur. ’Oràs enim Graeci tignorum cubicula et asserum appellant, uti nostri ea cava columbaria. Ita quod inter duas opas est intertignum, id uetérn est apud eos nominata », IV, II, 4 (« Gli intervalli... tra i triglifi si chiamano metope. | Greci, infatti, chiamano òrat i letti

o piani di posa dei travi e delle assicelle, come

i la-

tini cava co/umbaria, cioè ‘ buchi da piccionaia‘’ e lo spazio tra due èrat in latino ‘intertignum‘, è in greco petòrn»). La M. nasce infatti come riempimento dello spazio compreso tra le aperture — èrat — delle travi sostenenti il tetto, le cui testate erano ricoperte dai triglifi. Tali forme, originarie delle primitive strutture lignee, allorché dovevano essere limitate alle parti lunghe del tempio, si estesero successivamente a tutta la trabeazione (v.), divenendo elemento tipico dell'ordine dorico. [IPA

Mettere

di bolo. È una delle parti necessarie — se-

condo CENNINO CENNINI (fine sec. XIV, cap. IV) — alla preparazione della pittura su tavola. Consiste nello stendere sulla tavola già ingessata una vernice di colore rossastro, detta appunto bolo (v.), che facilita l'adesione della foglia d’oro successivamente applicata sulla tavola stessa. Precise prescrizioni sono fornite ai capp. CXXXI e CXXXII. [P.]

Mettere

d’oro. È l'operazione di doratura di una ta-

vola (CENNINO CENNINI, fine sec. XIV, cap. alla stesura del bolo, v. (v. anche Mettere cedente alla azione del brunire (v.), ossia indicazioni del procedimento sono date cap. CXXXIV.

IV) successiva di bolo) e prelucidare. Ampie dal Cennini al [P.]

Metterza, Sant'Anna. Traduzione del tedesco Anna Selbdritte; l'espressione designa un tema iconografico affermatosi nell'arte tardo-gotica tedesca, ma diffuso anche in Italia (ad es., la tavola di Masolino e Masaccio agli Uffizi) e consistente nella raffigurazione di Sant'Anna che tiene in grembo la Vergine con Gesù Bambino tra le braccia. ‘ M.‘ vale dunque ‘messa terza’, riferito appunto a Sant'Anna, rappresentata insieme alla Vergine e al bambino. [P.] Mezza bozza. Dicesi di una bugna (v.) o bozza avente un medio risalto; che non è pertanto né piana né rustica.

Voce di raro uso. Mezza

distanza.

[P.] In una

pittura di paesaggio

si in-

dica talvolta con M. distanza il piano immediatamente suc-

cessivo al primo; l'espressione è più frequente nella lingua inglese (middle distance). [P.]

Mezza

figura. Genere, o ‘taglio’ compositivo in cui.

l'immagine di una persona appare dipinta o scolpita a metà. Si tratta sovente di un ritratto che, rappresentando metà della figura o persona, si distingue dalla forma, o dimensione, del così detto busto (v.). Ma la distinzione tra la M. figura e ‘ busto” non è sempre precisa. La dizione M. figura ricorre comunque abitualmente nella letteratura artistica, a partire dal sec. XVI. Si legga, ad es., quanto annota M. MICHIEL (1521/1543) visitando a Venezia la collezione di Pietro Bembo: « EI quadro in tavola della Nostra Donna che presenta el puttino alla circoncisione fu de mano del Mantegna, ed è a mezze figure » (p. 44). E poi, in casa di Messer Antonio Pasqualino, il Michiel informa che «La mezza figura di nostra Donna, molto minor del naturale, a guazzo, fu de man de Zuan Bellino, reconzata da Vincenzo Catena » (p. 149). Successivamente, le diciotto mezze

figure di Santi francescani dipinte dallo Spagna in S. Maria degli Angeli, in Assisi, sono citate da G. VASARI (1568): « In Santa Maria degl’Angeli dipinse nella cappella piccola, dove morì S. Francesco, alcune mezze figure, grandi quanto il naturale » (III, p. 325). Quanto al sec. XVII, G. B, PASSERI (ca. 1678) nella Vita dell’Algardi,

in merito

ai ritratti della famiglia

Mellini, da lui

scolpiti per l'omonima cappella in S. Maria del Popolo: « Vi è il Deposito del Cardinal Mellini, che fù Vicario, e il suo

Ritratto

che

è una

mezza

figura»;

mentre

quivi,

al contrario, il ritratto di Urbano Millini «è la sola testa col busto» (p. 208). Infine, nelle Vite dei pittori berga-

maschi, a proposito dei ritratti «tizianeschi » di G. B. Moroni, F. M. TASSI

(1793)

ricorda

«una

mezza

figura vestita

pure alla spagnuola in casa Rivola, due in casa Morandi, due presso il signor Francesco Alessandri » (p. 169).

Mezzamaiolica. Mezzana

V. Ingobbio.

oscurità.

Intensità media di una tinta, di

cui il pittore e disegnatore ricopre la superficie della carta, per attingere effetti di rilievo, adoperando per contrasto ombre scure e lumi. È una massima di LEONARDO (14521519), nel Trattato della pittura: « | pittori, per ritrarre le cose di rilievo, debbono tingere le superficie delle carte di mez-

zana oscurità e poi dare le ombre più oscure, ed in ultimo i lumi principali in piccol luogo, i quali son quelli che in piccola distanza sono i primi che si perdono all'occhio » (n. 215). [G.] Mezza

tinta.

Si scrive

anche

unitamente:

mezzatinta,

assumendo il significato di tinta intermedia tra due o più colori diversi, ma più luminosi o più scuri; o il senso di grado medio di una medesima tinta, secondo il chiaroscuro (v.). Lo stesso fonema indica anche la tecnica della incisione su lastra metallica granita.

Il primo significato è adombrato da CENNINO CENNINI (fine sec. XIV), il quale parla di tre gradazioni chiaroscurali cui il pittore dovrà fare attenzione: « Quando se’ per le chiese o per cappelle e incominci a disegnare, ragguarda prima di che spazio ti pare o storia o figura che vuogli ritrarre, e guarda dove ha gli scuri, e mezzi, e bianchetti » (cap. XXIX). E più oltre: « Poi va’ pure con questi colori di mezzo a ritrovare le scurità » (cap. LXXI). Colore di mezzo o ‘ mezzo colore‘ equivale in effetti a M. tinta. Si legga allora L. B. ALBERTI (1436): « Nelle superficie cave e sperice piglia il colore variazione, però ch'è qui chiaro, ivi oscuro, in altro luogo mezzo colore » (p. 84, n. 47). Ma già presso M. MICHIEL (1521/1543), nella Notizia d'opere di disegno, era esplicita e precisa la dizione M. tinta. A Venezia, in casa di Antonio Pasqualino, il patrizio veneto così descrive una Madonna

di Giambellino restaurata da Vincenzo Catena: « Sono molti anni che la fece et è contornata con li riflessi fieri mal uniti

Miglioramento con le mezze tinte; è però opera laudabile per la grazia delli aeri, per li panni, e altre parti » (p. 150). L'espressione «M. tinta» sarà successivamente adoperata abitualmente nel caso della pittura, dalla critica d’arte. Intanto: la parola demi-teinte fa parte di un breve elenco di termini d’arte che A. BOSSE (1649) premette al suo Sentiments sur la distinetion des diverses manières de peinture, dessin et gravure... Inoltre: G. P. BELLORI (1672) riferisce il concetto di M. tinta alla magrezza dell'impasto (v.), nella Deco//azione del Battista del Caravaggio, a Malta: « Lasciò in mezze tinte l’imprimitura » (p. 209). Nel sec. XVIII, ad es., A. M. ZANETTI

(1771) così descrive il metodo pittorico del Veronese: « Abbozzava egli i suoi quadri... e quasi d'una sola bassa mezza-

tinta che le pieghe

serviagli come con

lumi

ed

di foglio, scrivendovi ombre»

(p. 164).

poi sopra

Infine,

l’abate

L. LANZI (1789/1808) scrive acutamente di Leonardo pittore: « Tenne due maniere, l'una carica di scuri che fanno mirabilmente trionfare i chiari opposti; l’altra più placida e condotta per via di mezze tinte» (I, p. 97). La M. tinta, in quanto procedimento calcografico, è detta anche ‘Maniera nera’ o ‘ Stampa a fumo”, Il metodo fu inventato da Ludwig von Siegen, che ne rivelò il segreto al principe Rupert di Baviera. Si rende scabra la superficie della lastra di rame graffiandola in ogni senso. Ne risulta, al torchio, una impressione di fondo nero, sul quale

il disegno e le zone luminose si ricavano pazientemente raschiando e comprimendo con brunitoi la granitura della lastra. Tale tecnica è stata perfezionata dall'olandese A. Blooteling nel 1672, inventore del rocker, una sorta di pettine ricurvo in acciaio che consente una perfetta grana sulla lastra su cui viene passato in vari sensi ondulatamente.

Sulla invenzione della M. tinta si basa il trattato Scu/ptura or the History and Art of Calcography dell'amatore d'arte inglese J. EVELYN (1662). Il procedimento incisorio della M. tinta era stato comunicato all'Evelyn dal principe Rupert

nel 1661.

Mezzo

[G.]

rilievo. Raffigurazione plastica emergente per

metà, rispetto al piano di fondo di un rilievo (v.). Nella terminologia della scultura l’espressione verbale M. rilievo è inscindibile dai concetti di bassorilievo, altorilievo, tutto tondo, ponendosi come proposta « intermedia » nella ideazione e realizzazione della « veduta » ottenuta dall'artista « rilevando », tramite il modellato. Dopo l'ampio svolgimento della voce bassorilievo (v.), basterà ora qualche utile citazione nella letteratura artistica del passato. Nella lettera a M. A. Michiel, P. SUMMONTE (1524), parlando delle arti in Napoli, dello scultore Pietro da Bergamo, scrive: « Di man del quale maestro Pietro è la porta dell'Annunziata di questa città, opera di mezzo rilevo laudatissima » (p. 405). Da parte sua, M. MICHIEL (1521/1543), nella Notizia d'opere di disegno, ricorda parecchie sculture in M. rilievo di bronzo, in diverse chiese dell'Italia settentrionale. Nel San Francesco di Padova, ad es., «la Sepoltura de bronzo del mezzo rilevo nella fronte del corno sinistro, de Roccabonella con la sua effigie naturale intiera, in abito e forma di studiante, fu de mano del Bellan » (p. 150), ecc. In una sua lettera a B. VARCHI (1547), lo scultore Francesco da Sangallo, esaltando la scultura sulla pittura, lo informa di aver scritto un trattato (perduto) sull'argomento dei rilievi: «lo non vi voglio ragionare de' modi del fare il marmo fuora delle statue tonde, la difficultà del fare i bassi rilievi, e poi quelli che sono di mezzo rilievo, e dipoi uno altro modo che è più che mezzo rilievo, che ne vien poi la statua tonda; queste cose lascerò indistinte, perché in altro luogo n’ho io scritto che un dì vi farò vedere » (p. 77). La importante definizione di G. VASARI (1568) è professionale e storicizzata: « Quelle figure che gli scultori chiamano mezzi rilievi furono trovate già da gli antichi per fare istorie da adornare le mura piane; e se ne servirono ne’

317

teatri e negli archi per le vittorie... trovarono una specie che mezzo rilievo nominarono, et è da noi così chiamato ancora; il quale a similitudine d'una pittura, dimostra prima l'intero delle figure principali, o mezze tonde o più come sono, e le seconde occupate dalle prime e le terze dalle seconde... In questa specie di mezzo rilievo, per la diminuzione dell'occhio, si fanno l’ultime figure di quello basse come alcune teste bassissime, e così i casamenti et i paesi, che sono l’ultima cosa » (I, p. 101). Quella vasariana è pertanto una descrizione del tipo di rilievo « pittorico » in generale. In particolare, il Vasari peraltro rimprovera alcuni scultori moderni (ad es., il Ghiberti), i quali fanno posare «in falso» le immagini, perché « animosi più del dovere, hanno fatto nelle storie loro di mezzo rilievo posare le prime figure nel piano che è di basso rilievo e sfugge, e le figure di mezzo sul medesimo, in modo che stando così non posano i piedi con quella sodezza che naturalmente doverebbono» (I, p. 102). Nel Vocabolario Toscano dell’arte del Disegno, F. BALDINUCCI (1681) sviluppa in particolare la voce Bassorilievo; e definisce il M. rilievo: « quella sorta di scultura che non contiene alcuna figura interamente tonda; ma in qualche parte solamente; rimanendo il restante appiccato al piano, sul quale essa è intagliata ». [G.]

Mezzotondo.

Scultura che, pur essendo

scolpita a

tutto tondo (v.), essendo resecata da un piano di fondo cui essa è relativa (ad es., una cariatide), appare dimezzata nell’effetto visivo del tutto rilievo. La voce è assente dai classici dizionari del Baldinucci (1681) e del Milizia

(1797). Osserva

M. MASCIOTTA

(1967):

« È un genere

di

scultura spesso usato per le figure tombali giacenti sul pavimento o addossate a una parete. Si chiama col nome italiano anche in altre lingue ». [G.] M.I.A.R. (Movimento italiano per l'architettura razionale). Movimento architettonico italiano, costituitosi nel

1928, quale sviluppo

del

Gruppo

7 (fondato nel 1926 da

L. Figini G. Frette, S. Larco, A. Libera, G. Pollini, C. E. Rava, G. Terragni), nel quadro degli orientamenti razionalisti (v. Razionale, Architettura); animatore del M.I.A.R.

fu A. Libera; altri rappresentanti del movimento: P. Aschieri, G. Capponi, G. Michelucci, G. Minnucci, G. Pagano. [P.]

Midiaco, Stile. V. Fiorito, Stile. Migliaccio.

Per la somiglianza con

una torta per lo

più fatta di sangue di maiale e miglio, i fonditori dicono M., o ‘ far migliaccio ‘, «quando per inavvertenza di chi opera, il metallo già fuso viensi a raffreddare, e si rappiglia »

(F. BALDINUCCI, 1681).

Miglioramento.

[P.]

Progresso ascendente delle arti del

disegno (v.) fino alla perfezione dei mezzi tecnici e della maniera (v.). Il concetto di M. è legato soprattutto a quel criterio storiografico, che presuppone un processo artistico evolutivo verso l'imitazione (v.) della natura al limite del perfetto; dopo di che, al raggiungimento del vertice segue inesorabilmente un periodo di decadenza (v.). Questo

è stato soprattutto il metodo storiografico mediante il quale G. VASARI (1550 e 1568) ha spiegato la rinascita (v.) delle arti da Cimabue a Michelangelo; che pertanto appartiene — con Leonardo Giorgione Raffaello Tiziano, ecc. — alla così detta «maniera moderna ». Nel Proemio alla seconda parte delle Vite, scrive, fra l'altro, il Vasari che nella prima età le tre arti del disegno erano ancora « molto lontane da la loro perfezzione»; che «nella seconda poi si veggono

manifesto

esser

le cose

migliorate

assai»;

che

nella terza età (quella « moderna ») l’arte ha ormai «fatto quello, che ad una imitatrice della natura è lecito poter fare, e che ella sia salita tanto alto; che più presto si abbia a temere del calare a basso, che sperare oggimai più au-

318

Milieu

gumento » (Il, p. 81). Per la inattualità

della

storiografia

vasariana, e di altri scrittori d'arte, v. Decadenza.

[G.]

Milieu. Insieme alla race (razza) e al moment (momento storico), il M. (ambiente) è uno dei fattori che per |. TAINE (1865/1869) determinano l'affermarsi dell'arte come della letteratura. (Ma v. alla voce Ambiente). [a]

Militare, Architettura. Categoria di tipo manualistico — che come le altre: architettura civile (v.), architettura religiosa (v.) — intende distinguere nell'ambito della produzione edilizia particolari tipologie e sistemi costruttivi in relazione a specifiche esigenze. Nel caso dell'architettura M. si tratta di tutto il complesso di interventi intesi a rispondere alle necessità di fornire strutture a carattere difensivo (mura, fortificazioni, ecc.), presenti sin dalle civiltà preistoriche. Peraltro «il momento della distinzione teorica di un ramo dell'attività architettonica volta esclusivamente alla progettazione di edifici ed opere militari si fa comunemente coincidere con la rapida diffusione delle armi da fuoco, avvenuta in Occidente nella seconda metà del Quattrocento » (E. Guidoni, in DAU, IV, 1969, p. 53).

#0

Mimesi.

[P.)

V. Imitazione

Minareto

(ar. minàra ‘faro ’). È la torre



di varia

forma — presente dalla fine del sec. VII accanto alla moschea (v.), e dalla quale il muezzin chiama i fedeli alla preghiera. [P.]

Miniatura.

La voce M. deriva da miniare (già in CEN-

NINO CENNINI, fine sec. XIV, cap. CLVII) — ossia dipingere di rosso, col ‘ minio ’ (v. Colori) — che originariamente si riferiva all'operazione del dipingere o sottolineare il titolo di un libro o dei suoi capitoli; il sostantivo corrispondente M. passò poi a designare le immagini dipinte nei volumi stessi, di solito di piccolo formato; e tale significato ha tuttora, riferito in particolare a prodotti di età medioevale. Più antichi i verbi ‘illuminare ‘’ e ‘ alluminare ‘; per essi piuttosto che supporre un rapporto con il ‘lume’ si deve ipotizzare un collegamento con l'allume di rocca, sostanza impiegata per rendere i colori d'origine vegetale insolubili e inalterabili; «io credo che alluminare o illuminare volesse dire ‘dipingere con colori alluminati’, ossia trattati con allume » (F. BRUNELLO, 1971, p. 163). Si ricordino i famosi versi di Dante (Purg., XI, 79-81): «’ Oh” diss’io lui: ‘non

se’ tu Oderisi, / L’onor d’Agobbio e l'onor di quell’arte / Che alluminare chiamata è in Parisi? ‘ ». Infatti il corrispondente francese del verbo italiano è en/uminer (forma che risale al sec. XII); così come la M. è detta en/uminure; la voce francese miniature è invece correttamente riferita a dipinti — di solito paesaggi o ritratti — di piccolo formato, assai di moda nel sec. XVIII come decorazione di scatolette in metallo prezioso o come piccoli quadri veri e propri. « L'accezione... del francese miniature, come illustrazione piccola e minutamente definita, deriva... dall'aver legato la parola alla falsa etimologia dalla radice min- (minus, ecc.), e tale assunzione è valsa anche per l'italiano ‘ miniatura’ » (F. R. Pesenti, in TECNICHE, 1973, p. 338). Di una persistenza del verbo ‘ illuminare ‘ ancora nel sec. XVI ci fornisce testimonianza P. SUMMONTE (1524), che registra peraltro anche l’affermarsi in suo luogo della forma ‘ miniare ‘;: « In arte d'i/luminare, sive, ut frequentius dicunt miniare libri, avemo avuto qua un singular artefice a' tempi nostri: Joan Tedeschino» (p. 165). F. BALDINUCCI (1681) registra ormai solo ‘miniare ‘, di cui fornisce questa esplicazione: « Dipignere, con acquerelli, cose piccole in su la cartapecora, servendosi del bianco della carta, in vece di bianco per i lumi della pittura »; egli riferisce altresì questa interessante notizia sull'uso della voce: « Noi usiamo dire per modo di proverbio, parlando di ritratto imitato eccellentemente; egli è tanto simile, che e’ par miniato ». D'altronde per esten-

sione ed analogia nell'uso corrente, anche contemporaneo, si adopera talvolta l'aggettivo ‘ miniaturistico’ in relazione ad un modo di dipingere minuto, descrittivo, analitico, reperibile spesso in pitture di grandi dimensioni; in tal senso la voce può avere un significato sottilmente spregiativo. Colui che esercita l'arte della M. è detto ‘miniatore ‘.

Miniaturisti,

Maestri.

[P.] riferita ad al-

Denominazione

cuni ceramisti attici la cui attività si data intorno ai decenni centrali del VI secolo a. C. L'appellativo è in relazione con il tipo di decorazioni molto minute che appaiono nelle loro opere: « La decorazione pittorica, spesso di una estrema concisione,

sembra

destinata

soprattutto

a porre

un

ac-

cento centrale sul labbro o a valorizzare dei lunghi spazi neutri » (E. Paribeni, in EAA, V, 1963, p. 38). [Pd]

Minii, Vasi. Nella terminologia archeologica è così designata, secondo l’uso fattone per primo da E. Schliemann, una qualità di ceramica, priva di decorazioni, di buona fattura tecnica ma di modesta qualità artistica, databile all'incirca tra il 2200 a. C. e il 1200 a. C., rinvenuta in Grecia ed Anatolia. Il nome sembra derivare dal colore rossastro di alcuni esemplari (lat. minium). « Le forme dei vasi, tirate al tornio, tradiscono

metallici in rame, bronzo V, 1963, p. 40).

Minimal

l'imitazione

dei prototipi

e oro » (F. Biancofiore, in EAA, [P.]

Art. V. Arte povera.

Minio. V. Colori. Minoico-micenea, Arte. V. Cretese - micenea, Arte.

Minuteria. Contrapposta a grosseria (v.), è voce che si afferma circa la metà del sec. XVI per indicare lavori di oreficeria di piccole dimensioni: « Il lavorare di minuteria si è quell’arte che

si fa con

il cesello, la qual arte si fa

anella, pendenti, maniglie » (B. CELLINI, 1568, p. 71).

Minutezza,

Minuzia,

Minuto.

[P.]

Resa analitica e

volutamente descrittiva di particolari, generalmente in una composizione pittorica; l'arte ‘ minuta” per eccellenza è la

miniatura (v.): «Arriva "| perfetto Artefice... a rappresentare al vivo così isquisite minutezze » (F. BALDINUCCI, 1681). La M. può essere peraltro attributo generico della pittura: « Minuzie che la pittura può meglio sprimere», B. VARCHI, 1547, p. 47), qualità formale apprezzata, particolarità stilistica giudicata in modo negativo. | consensi sono per lo più in relazione ad opere di miniatura, come quando G. VASARI (1568) ricorda l'opera minutissima (v.) di Francesco dai Libri; ma G. P. LOMAZZO (1590) celebra il Mantegna perché «ha dimostro una minutezza e diligenza esquisita nelle membra sua, tanto nelle figure grandi, quanto nelle picciole » (I, p. 291). Avvertimenti ai disegnatori sulla necessità di evitare le M. degli incisori sono dati da G. B. ARMENINI (1586, p. 66). Nel sec. XVIII la critica neoclassica, preoccupata del grandioso e del solenne, prende decisa posizione contro la minutezza. Scrive B. ORSINI (1783): « Il difetto delle moderne pitture è di dare nelle soverchie minuzie» (p. 55); e ancora: « Nella moltitudine delle cose

si dee badare all'armonia

del tutto insieme, né

si dee attendere alle minute cose... che in verità non sono che ceppi per gl'ingegni, durezze, e seccaggini» (p. 61). Condanna

che ribadisce, in modo

ancor più severo,

F. MI-

LIZIA (1797): «L'artista minuto ha perduto il suo tempo in vincere la difficoltà con una pazienza che si potrebbe dare per penitenza; il di cui risultato sarà un’opera ridicola ».

A Pg [P.] Mirabilia. | M. — o più comunemente M. Romae o M. urbis Romae — sono compilazioni illustrative dei monumenti della città di Roma, redatte in età medioevale (dal sec.

XII), ma

circolanti

sino agli inizi del sec.

XVI, e de-

Mitreo

319

stinate ai pellegrini; sono considerate un precedente immediato delle più tarde guide (v. Guida), pur avendo un carattere particolare, che si evidenzia nel tono fantasioso con il quale sono rivissute le glorie e le testimonianze dell'antichità. «I Mirabilia sono... innanzi tutto guide per il romeo ai luoghi di culto, ma ricordano naturalmente anche le cose notevoli profane, le meraviglie della Roma pagana... | Mirabilia appartengono infatti al tempo e all'ambiente dei

non sono proporzionati ai siti, e quando hanno difetto nelle misure, nelle corrispondenze, e nelle proporzioni delle parti » (T. GALLACCINI, 1621, p. 18). Così anche per il critico

Gesta Romanorum e risolvono l’antichità in una fiaba, allo stesso modo di questo libro di favole storico-morali »

La M. in quanto calcolo e attento studio dei rapporti tra le diverse parti di una composizione — in particolare di

(J. SCHLOSSER,

una figura umana — è sovente ritenuta elemento di prima-

1924/1964, p. 55).

[P.]

veneziano secentesco M. BOSCHINI (1660) M. è adeguata corrispondenza delle parti: nelle opere del pittore Fran-

cesco Maffei egli vede « scurzi in positure, / Che la gran massa cusì ben concerta, / Che ognun le guarda con la

boca averta, / Per quela agiustatezza de mesure » (p. 556).

ria importanza

Miriorama. Titolo dato da un gruppo di artisti riunitisi a Milano nel 1959 — il cosiddetto Gruppo T — al ‘manifesto’ da loro pubblicato nello stesso anno. L'attività del gruppo, costituito da G. Anceschi, D. Boriani, G. Colombo, G. De Vecchi, si è svolta nell'ambito delle ricerche di arte cinetica (v.) e visuale (v.). Si dichiara tra l'altro nel ‘manifesto ’: « Consideriamo... la realtà come continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella variazione. Da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto nella coscienza dell’uomo... di una realtà fissa e immutabile, noi ravvisiamo nelle arti una tendenza ad esprimere la realtà nei suoi termini di divenire » (rip. in // Verri, 22 Ap): [P.]

Mischio.

V. Marmo.

Mistici. Sono così definiti da V. MARCHESE

(1846) quei

pittori a lui contemporanei intesi a riformare la pittura con l'esaltazione dei rinnovati valori della religiosità e della morale; il Marchese, noto per le sue Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani (1845), è partecipe del movimento di rivalutazione dei primitivi (v.), che si traduce — nei riguardi dell’arte contemporanea — in un sostegno alle poetiche di movimenti, quali quelli dei Nazareni (v.) dei Puristi (v.), che operavano richiamandosi agli ideali figurativi dei pittori dei secc. XIV e XV. Scrive dunque il Marchese: « Per opera di alcuni artefici alemanni [i Nazareni]... nacquero fra noi le dottrine dei Puristi e dei Mi stici. Costoro, innamorati dei capolavori degli antichi maestri,

deploravano la misera condizione in che era venuta la pittura in patria e fuora... e nell'acerbezza del loro dolore, dopo studiate le cagioni di quella rovina, pensarono di

una riforma » (rip. in P. BAROCCHI, 1972, p. 194).

Misura.

[P.]

Voce di frequente uso dal sec. XIV nel lin-

guaggio della critica d’arte il cui significato è riconducibile al valore etimologico del termine: latino mensura, da mensus, part. pass. di metiri, che vale ‘misurare’, ‘distribuire’, ‘ dividere’; M. è dunque essenzialmente una unità assunta quale elemento di riferimento — v. in questo senso anche ‘ modulo’ — per la misurazione di una quan-

tità: « Distinguimento determinato di quantità » (F. BALDINUCCI, 1681); ma è anche il criterio informatore, il principio ideale che presiede all'operazione; in questo senso il concetto di M. è assai vicino a quello di proporzione (v.), col quale in effetti finisce assai spesso per confondersi; G. VASARI (1568) nella /ntroduzione alle tre Arti: dell'Architettura, al cap. VII — « Come si ha a conoscere uno edificio proporzionato bene » — scrive tra l’altro che occorre vedere «se è stato spartito con grazia e conveniente misura » (I, p. 90); i due termini possono essere anche associati, in una sorta di evidente tautologia: « Ma nel tempio di Diana mutarno forma, ordinando le colonne con la misura e proporzione della donna » (RAFFAELLO, 1483-1520, p. 64). E ancora G. P. LOMAZZO (1584) riferisce che secondo Michelangelo «i pittori e scultori moderni doverebbono avere | la proporzione e le misure ne gl'occhi, per potergli metter in essecuzione » (II, p. 288). Inerente a M. è anche il senso di ‘rapporto’, giusta relazione (v.): «I disegni appariscono mal disposti, quando

per l'arte dello scultore;

osserva

A. BRON-

ZINO (1547): « Bisogna essere molto avvertito nelle sculture d’osservare tutte le misure, come di teste e braccia e gambe e di tutte l'altre membra,

sempre

per esservi

in pronto né si potere difraudare misura

la riprova

alcuna »

(p. 65); e ancora per G. BAGLIONE (1642) la scultura « ha le sue misure, le quali non ponno errare » (p. 43). In riferi-

mento all'architettura è comune l'associazione all'idea di “ proporzione ‘: « L'idea generale di misura entra sotto tanti rapporti nelle combinazioni

dell'architettura,

che vi si po-

trebbe riferire tutta la teoria di quest'arte, perocché le proporzioni sulle quali essa si fonda altro non sono che calcoli

di misura»

(A. C. QUATREMÈRE

DE

QUINCY,

1755-

1849). Il termine e il concetto di M. trovano la più larga applicazione in relazione alla indagine sui rapporti proporzionali istituibili tra le diverse parti del corpo umano, e tra questo e le cose; il tema — la ricerca della perfetta M. delle membra dell'uomo — è particolarmente avvertito dalla trattatistica

rinascimentale che riprende e rielabora formulazioni di VITRUVIO (ante 27 a. C., III, I, 2), ma è già presente nel Libro di CENNINO

CENNINI

che de' avere

(fine sec.

il corpo

XIV, cap.

dell'uomo

LXX: « Le misure

fatto perfettamente »). Il

problema è assai vivo nei secc. XV e XVI: L. B, ALBERTI (1434/ 1435, testo

italiano,

pp. 32, 44-47),

pp. 211-214), A. AVERULINO LEONARDO

L. GHIBERTI

(ca.

1450,

detto il FILARETE (1464, p. 182),

(1452-1519, nn. 259 ss.), P. GAURICO

(1504, pp. 93,

95), P. PINO (1548, pp. 103-106), L. DOLCE (1557, pp. 174-175), sono solo alcuni degli autori che tentano di fissare le esatte M. del corpo umano, o di parte di esso — particolarmente la testa (v.) — proponendo agli artisti un ‘ modello ” ideale di riferimento. Si distingue dal numero di coloro che tendono a proporre delle ‘regole’ matematiche, con una precisa normativa, la posizione ;dello scultore e trattatista V. DANTI (1567, pp. 237-239); egli tende a legittimare le ‘licenze’ anatomiche michelangiolesche, propugnando una sorta di ‘ anticanonismo ’ che finisce però per configurarsi come un nuovo ‘ canonismo‘, « aristotelico anziché matematico » (P. BAROCCHI, 1960, p. 325). Il Danti polemizza con gli scrittori che hanno tentato di fissare le M. del corpo umano ed è convinto della impossibilità e della inutilità di tali operazioni: « Alcuni antichi e moderni hanno con molta diligenza scritto sopra il ritrarre il corpo umano; ma questo si è veduto manifestamente non poter servire, perché hanno voluto con il mezzo della misura, determinata circa la quantità, comporre una loro regola: la qual misura nel corpo umano non ha luogo perfetto, perciocché egli è dal suo principio al suo fine mobile, cioè non ha in sé proporzione stabile... si può negare che per alcun membro possa giustamente ricevere misura, perché una cosa che si ha da misurare bisogna che abbia in sé o punto o linea; la qual cosa in niun membro del corpo umano apparisce precisamente ». Alla M. matematica il Danti propone di sostituire una M. ‘intellettuale ‘: « Con la misura intellettuale vedremo di mano in mano questa artifiziosa proporzione del composto dell'uomo potersi misurare per-

fettamente » (p. 238).

[P.]

Mitreo. Il culto misterico di Mitra, nato nel IV sec. a. C. in Asia Minore ma diffuso dal | secolo anche in Occidente, celebrava i suoi riti in un ambiente detto M., ricavato

320

Mixtum,

ove possibile da una grotta naturale, o stabilito comunque in un luogo sotterraneo o semisotterraneo, nei pressi di una fonte. | M. hanno tipologia assai semplice: sono costituiti da un vestibolo e da un vano rettangolare, coperto a volta, fornito sui lati lunghi di banchi di pietra usati come sedili dai partecipi alle cerimonie di culto. Sul fondo una nicchia, nella quale era spesso sistemato un bassorilievo raffigurante Mitra in atto di uccidere il toro. [PS]

Mixtum,

Opus. V. Opus.

Opus la vicenda della Ut pictura poésis (v.). La equazione pitturapoesia traeva forza del resto dal fatto, che sia il pittore che il poeta costruiscono «immagini» mentali, che poi esprimono tecnicamente nelle rispettive opere. E l’uso delle «immagini », legato al convincimento della supremazia del senso della vista (altra scoperta attribuita a Simonide), si congiunge ovviamente all'arte della memoria, funzionante come facoltà immaginativa. Aristotele approfondisce la tecnica della memoria perché su di essa si basa la teoria della conoscenza. Poiché è impossibile

Mnemotecnica

(composto del gr. uvàyn ‘il ricordarsi”

e ‘tecnica ‘). Termine

entrato

nell'uso

nel

sec.

XIX,

per

significare l'arte della memoria. The Art of Memory di F. A. YATES (1966/1972), è un volume fondamentale su questo importante

argomento

che,

dalla

retorica

(v.) classica

in

poi, interessa la funzione e l'esercizio stesso del pensiero e, tramite complicate teorie e tecniche di memorizzazione, si riflette incisivamente sulla stessa problematica e tematica

delle arti, almeno fino a tutto il sec. XVII. Intanto: le fonti classiche per l'addestramento della memoria sono rappresentate dal De Oratore di Cicerone, dall'anonimo trattato di retorica Ad Caium Herennium libri IV, dalla /nstitutio oratoria di Quintiliano. Nelle età precedenti alla invenzione della stampa, l’arte della memoria è stata ovviamente basilare. Del resto, la memoria consisteva in una delle cinque parti della retorica (invenzione, v., disposizione, v., elocuzione, memoria, recitazione) definite da Cicerone (De /nventione, |, VII, 9). Dovevano esistere trattati greci di retorica, che purtroppo non sono pervenuti, e che l'anonimo autore dell’Ad Herennium non cita, ma presuppone, quando parla ai suoi studenti della « memoria

artificiale». « Un immenso merito

Frances

A. Yates

carico di storia» (p. 7) —

«preme

— su

osserva questa

in se-

zione dell’Ad Herennium. Quest'opera attinge a fonti greche sull'educazione della memoria, probabilmente a trattati greci di retorica, che sono andati tutti perduti: essa è la sola trattazione latina sull'argomento che si sia conservata,

perché

le osservazioni

di Cicerone

e di Quintiliano

non

sono trattazioni complete e presuppongono che il lettore sia già familiare con la memoria artificiale e la sua terminologia. Così essa costituisce realmente la fonte principale, anzi la sola fonte completa per l’arte della memoria classica, sia per il mondo greco, sia per quello latino. La sua funzione di trasmettitrice di quest'arte classica al Medioevo e al Rinascimento è perciò d'importanza unica ». Racconta Cicerone (De Oratore, Il, LXXXVI, 351-354) che inventore dell’arte della memoria sarebbe stato il poeta Simonide di Ceo, il quale dopo essere miracolosamente sfuggito al crollo della sala dove un nobile di Tessaglia aveva offerto un banchetto, poté identificare i corpi dei morti resi irriconoscibili ricordando i posti a cui erano seduti a tavola. Si rese pertanto conto della importanza di una precisa tecnica della memoria artificiale. Nel trattato Ad Herennium questo genere di memorizzazione avviene per « luoghi » e per «immagini ». | primi vengono più agevolmente richiamati da elementi architettonici; le regole per le immagini, inserite nei luoghi, sono di due specie: per le «cose» (res) e per le « parole» (verba). Le «cose»

pensare

senza

un'immagine

mentale,

la me-

moria appartiene allora alla parte dell'anima in cui rientra l'immaginazione. Nel De memoria et reminiscentia — osserva F. A. YATES (1966/1972) — «l’immagine mentale derivata da impressioni

sensoriali

viene

paragonata

a una

specie

di

ritratto dipinto il cui stato di durata viene da noi descritto come memoria (449 b 31); e la formazione di un'immagine mentale viene pensata simile»a un movimento: quello con cui si imprime un sigillo sulla cera con il castone di un anello » (p. 32). Anche Platone ricorre alla metafora del sigillo, ma al contrario la memoria nasconde nell'anima, non le impressioni sensorie, bensì le forme delle Idee trascendenti. La vera conoscenza consiste nel ricordare la realtà, le Idee, di cui le cose terrene rappresentano i confusi si-

mulacri. Mentre le definizioni della memoria dovute ad Aristotele sono state fondamentali per gli scolastici medievali (Alberto Magno, Tommaso d'Aquino), il pensiero di Platone è stato determinante per la M. del rinascimento culminante nella Idea del Teatro di Giulio Camillo. Prima ancora, l’arte della memoria è stata tramandata al Medioevo da Marziano Capella, entro il sistema educativo delle sette arti liberali (v.). In seguito Alberto

e Tommaso

trasferiscono la M. dalla retorica all’etica, considerando memoria

artificiale subordinatamente

la

alla « prudenza », una

delle quattro virtù cardinali. L'importanza del ciclo iconografico dei Vizi e delle Virtù non può allora sfuggire allo storico dell'arte, che potrà rintracciarne anche le eventuali relazioni con l’arte della memoria artificiale, del resto intuite dalla Yates: « L'arte di memoria fu creatrice di una serie di immagini, che deve sicuramente essere traboccata in opere creative d’arte e di letteratura » (p. 84). A partire dal sec. XV abbondano i trattati a stampa sulla memoria. Ricordiamo, anzitutto, la Phoenix sive artificiosa memoria di Pietro da Ravenna (Venezia, 1491), e il Congestorium artificiosae memoriae (1520) di Johannes Romberch, tradotto poi da un umanista scrittore d’arte: Lodovico Dolce. Comune a questi due trattati è la regola, che forse è anteriore: che l’immagine mnemonica collocata entro un luogo non deve essere di dimensione maggiore di quanto possa estendersi la figura di un uomo stante. È la regola (nota acutamente F. A. Yates) adottata da Giotto nelle al-

legorie dei Vizi e Virtù nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Ma lo studio del rapporto tra la M. e le arti figurative rimane da esplorare quasi interamente. Probabilmente anche la Hypnerotomachia Polyphili, il Sogno di Polifilo, scritto dal domenicano Francesco Colonna, risente fortemente delle tecniche della memoria artificiale.

che riveste il tema. Quintiliano spiega chiaramente il funzionamento della M., dicendo fra l'altro: «Insomma: sono necessari alcuni luoghi, che possono essere reali o fittizi, e delle immagini o simboli che sono senz'altro fittizi. Le immagini sono come caratteri con cui annotiamo ciò che si deve mandare a memoria; sicché, come dice Cicerone, usiamo i luoghi come le tavolette cerate e le immagini come le lettere dell’alfabeto » (/nst. Oratoria, XI, II,

D'altra parte, non era stato notato dalla Yates che l’/dea del Tempio della Pittura di G. P. LOMAZZO (1590) si ispira esplicitamente all'idea del Teatro di Giulio Camillo Delminio. Il rapporto Lomazzo-Camillo non è stato tralasciato da Roberto Paolo Ciardi, nella edizione critica dei lomazziani Scritti sulle Arti (1, 1973); il quale peraltro considera più incisiva la suggestione di Cornelio Agrippa, che non quella di Giulio Camillo, sul Lomazzo. Comunque, il capitolo relativo alla fabbrica del tempio della pittura, è estremamente significativo: «In quella guisa che questo mondo è retto e governato da sette pianeti, come da sette colonne,

17-22; cit. da F. A. YATES, 1966/1972, p. 283). D'altra parte, a Simonide si attribuisce anche quel paragone tra la pittura e la poesia (la prima definita « poesia muta », la seconda « pittura parlante »), da cui prende avvio

le quali pigliando ciascuna la sua luce da la prima luce, che è Iddio, la vanno poi qua giù appartatamente infondendo, a beneficio di tutte le create cose, sarà parimenti questo mio tempio di pittura sostenuto e retto da sette governa-

riguardano il tema del discorso, le « parole» il linguaggio

Lavori FRANCESCO

DEL COSSA,

La potatura

delle viti, particolare

del Mese

di marzo

(Ferrara,

Palazzo

dei

mesi

Schifanoia).

Pittura GIORGIO

metafisica DE CHIRICO,

La torre

rosa

(Venezia,

coll. Guggenheim).

a

TTEITIT PITT A

SIT?

IN D

Pittura

metafisica

1, CARLO CARRÀ, La camera incantata lano, Pinacoteca di Brera); 2, GIORGIO RANDI,

Grande

coteca

di Brera).

natura

morta

(Milano,

(MiMOPina-

se osi

=

Fosi Poi

esi

Min latura Pagina

miniata

di un Exu/tet

(Roma,

Archivio

di S. Pietro, cod.

B. 78).

e

321

Moda

tori, come da sette colonne, et imitarò in ciò Giulio Camillo nella idea del suo teatro, ancora che troppo umile e rozza sia questa mia a petto a quella fabrica », I, p. 278 (v. anche Governatori). L'Idea del Theatro dell’eccellen. M. Giulio Camillo, dal manoscritto pubblicato postumo a Firenze e a Venezia nel 1556, è l’abbozzo di un'opera grandiosa che l’autore non poté

completare.

Il teatro

di Camillo

rappresenta

una

distor-

sione del progetto di teatro di Vitruvio, e rispecchia la fase in cui l’arte della memoria si inserisce nella tradizione neoplatonica rinascimentale, ricollegandosi segnatamente a Marsilio Ficino e a Pico della Mirandola. È il momento in cui la M. si arricchisce di connotazioni ermetiche, occultistiche, astrologiche, nonché della tradizione mistica ebraica, che è la Cabala. Si noti in proposito che Giulio Camillo, nel primo trattato del Corpus Hermeticum (scritti riscoperti nel sec. XV e tradotti dal Ficino), aveva letto del Demiurgo creatore dei « sette Governatori, che abbracciano con le loro orbite il mondo sensibile»: sono esseri divini di natura astrale, nei quali poi il Lomazzo ravvisa alcuni

grandi maestri della pittura. Nel corso di questa svolta ermetico-occultistica della M. è singolare il manuale di magia di Cornelio Agrippa: il De philosophia occulta (1533), da cui trasse molto un grande esperto dell'arte della memoria nel clima del tardo manierismo: Giordano Bruno. Autore di opere sull'argomento, quali il De Umbris idearum (1582), i Sigilli (1583), le Lampas triginta statuarum (1578), il De imaginum (1591), Bruno accentua il significato interiore e misterico dell'arte della memoria, ed appartiene, mezzo secolo dopo Camillo, ad « un ambiente del tutto diverso: non la civile Venezia, ma Napoli nel profondo Sud» (F. A. YATES, 1966/1972, p. 187). D'altra parte, allo storico d’arte interessano alcune ipotesi e proposte avanzate dalla Yates: si tratta, da un lato, di verificare l'eventuale suggestione esercitata dall’/dea del Teatro di Giulio Camillo sul progetto del Teatro Olimpico di Vicenza,

mentare

disegnato

dal Palladio;

dall'altro,

conviene

ram-

il motivo della scelta di uomini illustri nelle arti e

scienze, da situare nella « memoria », tra cui Zeusi e Fidia, comune a Cosma Rosselli (autore del Thesaurus artificiosae memoriae, Venezia, 1579), e a Giordano Bruno. Ci troviamo, in merito, dinanzi ad un altro aspetto della magia delle immagini nel Rinascimento: l'immagine (v.) come magia in quanto si riveste di potenza immaginativa (phantastica virtus), da parte del poeta e del pittore. Partecipi dell’Ut pictura poésis (v.) sono congiuntamente i poeti, i pittori e i filosofi. Scrive ancora F. A. YATES (1966/1972): « E così, attraverso Zeusi-il pittore; che è il pittore delle immagini nella memoria, e simboleggia la regola classica (« usa le immagini »), Bruno giunge alla visione del poeta, del pittore, del filosofo, tutti in sostanza identici, in quanto pittori di immagini nella fantasia, come Zeusi, che dipinge le immagini di memoria, espresse dall'uno come poesia, dall'altro come pittura, dal terzo come pensiero » (p. 235). Più ancora è significativo l'esempio di Fidia, scultore della memoria. A tale proposito, Giordano Bruno si richiama anche (a nostro avviso) al criterio albertiano del « per via di porre e per via di levare » (v. Levare e porre), ma segnatamente al sonetto michelangiolesco del ’ concetto’ platonicamente « imprigionato » nel blocco: « Fidia è colui che dà forma... come Fidia lo statuario che modella sulla cera, o costruisce per successiva addizionedi piccole pietre, o scolpisce la pietra rozza e informe, come per sottrazione » (Op. lat. Il [III], p. 135; rip. da F. A. YATES, 1966/1972, p. 235).

In altri termini, Bruno ricorre alla teoria artistica, per chiarire l’atto creativo-immaginativo-mnemonico, dall'idea « interna » alla « estrinsecazione » dell'opera d'arte. La serie di sistemi della memoria del Rinascimento, che Frances A. Yates aveva iniziato a considerare, a partire dal Teatro di Giulio Camillo, si conclude con il sistema di memoria ermetico del filosofo inglese Robert Fludd, in cui si riconosce, sia pure deformato, il riflesso nel Globe 21. Grassi-Pepe, Il.

Theatre di Shakespeare. L'arte della memoria era ben nota, d'altra parte, a filosofi come Francis Bacon, Descartes e Leibniz, i quali appartengono ad una situazione opposta, nei confronti del pensiero ermetico, perché preparano le vie speculative del razionalismo e dell’empirismo, ormai nel clima dell'illuminismo. Conviene citare, anzi, le argomentazioni conclusive della Yates: « Ho scelto di chiudere la mia storia con Leibniz, perché in qualche punto ci si deve fermare e perché è possibile che qui si arresti l'influsso dell’arte di memoria come fattore nei progressi fondamentali dell'Europa. Certo è, tuttavia, che ci furono numerose sopravvivenze nei secoli successivi. Libri sull’arte della memoria continuarono ad apparire, ancora chiaramente riconducibili alla tradizione classica; ed è poco verosimile che le tradizioni di memoria occulta andassero perdute, o cessassero di influenzare movimenti significativi. Probabilmente si potrebbe scrivere un altro libro che estendesse

l'esame dell'argomento

i

ai secoli successivi»

(p. 361).

[G.]

Mobiles. Con questa voce inglese, usata per la prima volta nel 1932, e riferita da Marcel Duchamp alle costruzioni in movimento di A. Calder esposte quell’anno alla Galleria Vignon di Parigi e alla Galleria Levy di New York, si designano opere d'arte realizzate in previsione di un loro movimento, ottenuto mediante impulsi naturali, essenzialmente per mezzo dell'aria. Sembra che in un primo momento il termine fosse riferito anche ad opere il cui movimento era ottenuto con l'ausilio di motorini elettrici o manovelle; ma in seguito si riferì quasi esclusivamente a realizzazioni ‘ mobili’ prive di impulsi artificiali. Se il termine risale al 1932 è da notarsi che sin dal 1914 erano state costruite opere che rientrano in questa categoria, come i ’ Controrilievi liberati nello spazio’ di Tatlin. Fu in ogni caso la produzione di Calder a provocare — come si è detto — la comparsa del termine e a diffonderne l’uso. I M. di Calder rientrano, pur costituendo un'esperienza particolare, nel filone delle ricerche cinetiche (v. Arte Cinetica). F. POPPER (1970) ha osservato a tal proposito: « Attraverso una varietà di materiali investiti d'uno spirito gioioso e ludico, Calder... ha aperto la strada a proposizioni cinetiche dirette a una meta più scientifica: da un lato, esse daranno luogo a una ricerca dell’imprevisto... dall'altro a una dimostrazione di una nuova estetica che mette di fronte, faccia a faccia, l’opera d'arte vivente e lo spettatore, essendosi il creatore quasi totalmente annullato »

(pp. 184-185).

Mockery

[P.]

of Age,

The.

Definizione

inglese di un

gruppo di statuine in porcellana, di squisito gusto Rococò (v.), con evidenti riferimenti satirici al teatro. Il gruppo, nel significato di beffa in cui incorre inevitabilmente l'uomo maturo quando corteggia una giovinetta, è stato ideato nella manifattura di Meissen verso il 1745 dal celebre d. d. Kandler. La composizione è formata dall’anziano spasimante proteso verso la damina, mentre due Arlecchini lo deridono (in DOC, 1974). [G.]

Moda.

| rapporti tra M. — intesa quale complesso di

preferenze e scelte riguardanti l'abbigliamento dell'uomo — e l'arte figurativa sono reciproci; infatti ora è la M. che si realizza mediante il ricorso a forme desunte dall'arte, ora è l’arte che prende ad oggetto nei suoi vari aspetti il fenomeno della M. Il termine può essere inteso anche in senso più generale, per significare il gusto di un'epoca, l'inclinazione ad operare in modo consono alle preferenze del momento. A tal proposito si segnalano alcune interessanti osservazioni di A. SOFFICI (1920): « Veruna forma d'arte è mai stata viva e vitale, che, al momento della sua apparizione e del suo sviluppo, non abbia seguito o iniziato un corso di pensieri e di attitudini mentali momentaneo, passeggero, limitato in un breve spazio di tempo; equivalente, insomma, in tutto e per tutto a ciò che è detto

322

Modanatura

moda... L'arte è moda. L'arte è moda nella stessa guisa che l'anima ed il corpo sono inscindibili. La moda è il rivestimento visibile dell’arte... La moda è l'atmosfera in cui si muovono, respirano-vivono tutti i talenti creativi di un'epoca... Essere alla moda vuol dire esser moderni » (pp. 73-76). [P.]

Modanatura.

Da modano, modine o modulo (v.) de-

rem: modulos fucatos

et, ut ita loquar, picturae lenociniis

falleratos producere non eius est architecti... Quare modulos velim dari non exacto artificio perfinitos tersos illustratos, sed nudos et simplices, in quibus inventoriis ingenium, non fabri manum probes » (« Aggiungo qui una considerazione che mi sembra molto a proposito: l’esibire modelli

nominazione generica che si applica a tutte le parti più o meno importanti che entrano nell'arte di profilare. Sotto questo rapporto ogni genere di modanatura ha il suo nome particolare ». Tra i più comuni tipi di M. — e per i quali si rinvia alle singole voci — si ricordano le seguenti: astragalo, cavetto, gola, listello, scozia, toro. [P.]

colorati, o resi attraenti da pitture, indica che l'architetto non intende già rappresentare semplicemente il suo progetto... Meglio quindi che si facciano modelli non già rifiniti impeccabilmente, forbiti e lucenti, ma nudi e schietti, sì da mettere in luce l'acutezza della concezione, non l’acutezza dell'esecuzione», pp. 98-99). Alla fine del sec. XV si rileva peraltro presso FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI (1489/1492) come il significato di M. non sia ancora definitivamente fissato; ora egli l'adopera nel senso di plinto (v.): «Le base... vogliano essere mezza grossezza di colonna, el suo quadrato e sottoposto modello la terza parte di sua grossezza » (p. 64); ora in quello di ‘modulo ‘: «Se serà d'otto colonne [il tempio eustilo, v.] dividisi in parti vintidue e mezzo. Similmente di queste parti, se serà di quattro colonne o di sette o d'otto, piglisi una parte: quella serà modello » (p. 43).

Modanese.

di esempio

riva la voce M., in uso dal sec. XVI con diverse significazioni, ma tutte riducibili al senso di una profilatura come «elemento di raccordo tra due parti, omogenee o no, di un unico contesto costruttivo o decorativo » (M. Munari, in DAU, IV, 1969, p. 63). F. BALDINUCCI (1681) nota la generi-

cità del termine, | componimento base, cimase, e MÈRE DE QUINCY

« che generalmente comprende la foggia e per lo più de' membri minori, come cornici, simili altre ». Più esplicito A. C. QUATRE(1755-1849) che definisce la M. come « de-

Nel sec. XVI la voce M. acquista stabilmente il significato

Modellare.

V. Colori. Da modello (v.) deriva il verbo M., usato

nel linguaggio delle arti dal sec. XVI col significato primario di lavorare una materia plasmabile, come l'argilla o la cera, anche per preparare un bozzetto (v.) o per formare una opera che dovrà essere poi realizzata in altro materiale (bronzo, marmo, ecc.). Così G. B. PASSERI (ca. 1678), a proposito di A. Algardi: « Davasi continuamente a modellare con la creta nel quale esercizio riusciva assai spiritoso, e d'un gusto squesito » (p. 195). E ancora L. PA-

SCOLI (1730/1736), nella Vita di E. Ferrata: « E tuttoché fosse assai aspro, e crudo il maestro [Tommaso Orsolino], stette il volonteroso, e sofferente giovinetto sotto sua disciplina più di sette anni, nel cui tempo s'applicò indefessamente sempre a modellare, levare, e pulire » (I, p. 238). Per estensione,

nell'uso

corrente,

M. ha il senso

di com-

piere un’opera dandole la forma definitiva, o tracciare — nel disegno o nella pittura — le linee di contorno di una figura. Più genericamente con M. si intende l'operazione di eseguire un modello: « Far modelli di che che sia, tanto di pittura, che di scultura, o d'architettura » (F. BALDINUCCI,

1681). Da M. deriva

costruito

o desunto

da forme

esistenti

in

alla fusione (v.) in bronzo o altro metallo. Anche

in riferi-

mento alla pittura il Vasari accenna all'uso di M., allorché poi ‘modellato’,

voce

che

è in particolare

riferita alla scultura; con essa di solito si indica come è realizzata l’opera in relazione all'affermazione di valori plastici o di volume; sì che può trovarsi anche riferita a pitture e ad architetture nelle quali siano presenti ricerche plastico-volumetriche. [P.]

Modellato.



natura — cui l'artista deve riferirsi nell'esecuzione dell'opera, sia essa architettonica, pittorica o scultorea. Così G. A. GILIO (1564) avverte che l'architetto « prima che cominci la fabrica... ne fa il modello di legno o la disegna in carta » (p. 29); ma nota anche che il pittore « sarebbe bene che facesse... parecchi giorni prima i loro cartoni, schizzi o modelli» (p. 49). A. BRONZINO (1547) parla dello scultore che «farà il suo modello tanto fornito, dove potrà aggiugnere e levare molto più facilmente che il dipintore » (p. 66). B. CELLINI (1546) scrivendo al Varchi avverte che Michelangelo « tutto quello che fa di pittura lo cava dagli studiatissimi modegli fatti di scultura» (p. 80). Il termine è usato frequentemente da G. VASARI (1568); M. è — per gli scultori — « uno esemplo, che è una figura di grandezza di mezzo braccio o meno o più... o di terra o di cera o di stucco, pur ché e’ possin mostrar in quella l'attitudine e la proporzione che ha da essere nella figura che e' voglion fare » (I, p. 97); ma è anche «una statua di terra, tanto grande quanto quella che e’ vogliono buttare di metallo » (I, p. 104), ossia la forma che si prepara per procedere

V. Modellare.

Modello. Da una supposta forma latina modellus, diminutivo di modulus — da cui modulo (v.) — a sua volta derivato da modus; nel linguaggio delle arti compare nella seconda metà del sec. XV nel senso di esemplare da riprodurre, relativamente alla pratica architettonica: scrive A. MANETTI (1423-1491) a proposito di F. Brunelleschi «I modegli ch'è’ faceva per gli edificj... e' gli faceva, che intorno a’ fatti delle simetrie poco v'appariva, ma attendeva

solamente a fare le mura principali » (p. 22). A. AVERULINO detto il FILARETE (1464) dichiara a proposito della sua città ideale, la Sforzinda, «in mentre si pena a'pparecchiare queste cose opportune per lo fundamento d'essa, farò il sopradetto modello, o vuoi dire disegno rilevato » (p. 53). L. B. ALBERTI (ante 1452) adopera la forma latina modulus per indicare progetti da utilizzare per la realizzazione del lavoro (pp. 96-97) e condanna l'uso di M. colorati: « Hoc praetermittendum nequicquam censeo, quod valde faciat ad

scrive: «Usono ancora molti maestri, innanzi che faccino la storia nel cartone, fare un modello di terra in su un piano,

con situar tonde tutte le figure per vedere gli sbattimenti, cioè l'ombre » (I, p. 123); e ancora nota

l'uso del M. come

strumento per l’esercizio del pittore: « Si eserciti in ritrarre figure di rilievo o di marmo [di sasso] o di sasso o vero di quelle di gesso formate sul vivo o vero sopra qualche bella statua antica o sì veramente rilievi di modelli fatti di terra o nudi o con cenci interrati addosso che servono

per panni e vestimenti » (I, pp. 117-118).

Nel sec. XVI si possono indicare altri autori che adoperano M. nel senso indicato: A. F. DONI (1549, p. 16), R. BORGHINI (1584, pp. 148-150), G. B. ARMENINI (1587, p. 136). Nei secoli XVII e XVIII, è da registrarsi come la voce M. — specie nei riguardi dell’arte plastica — assuma sempre più frequentemente il senso di una realizzazione autonoma — e perciò fornita di un suo valore, indipendente dall'opera realizzata — come può vedersi, ad es., in G. BAGLIONE (1642): « Nella cappella Gregoriana in S. Pietro [Prospero Bresciano] fece il diposito di Papa Gregorio XIII con una figura più grande del vivo... e con altre figure intorno tutte di stucco, con animo

di porre quei mode/li in marmo,

metallo » (p. 43). E ancora

G. B. PASSERI

o in

(ca. 1678): « Par-

lavano del Fiamengo [Francesco Duquesnoy] con lodi scarse,

fredde, e di poco momento,

asserendo essere solo abile a piccoli modelli di qualche putto, o d’altre cose di poca

Moderni

considerazione » (p. 105). V. GIUSTINIANI (ante 1620) avverte: « Lo scultore, oltre al perfetto disegno... è necessi-

tato a far bene i modelli, tanto con la creta, quanto con la cera e con stucco... in modo che servano quasi per esempio dell'opera, che si ha poi da fare in marmo o in bronzo » (p. 136). M. è in ogni caso sempre inteso quale esempio cui l'artista — in una concezione imitativa dell'arte — deve attenersi: « Professavasi egli [il Caravaggio] inoltre tanto ubbidiente al mode/lo, che non si faceva propria ne meno una pennellata, la quale diceva non essere sua, ma della natura » (G. P. BELLORI, 1672, p. 212). «L'arte risale agli archetipi della natura, coglie il fiore di ogni bello... sa riunirlo insieme in modelli perfetti e proporlo agli uomini da imitare » (F. ALGAROTTI,

Il di o in

1762,

p. 75).

significato di M. è chiaramente esplicato F. BALDINUCCI (1681): « Quella cosa, che Architetto per esemplare o mostra di ciò opera... È il modello prima, e principal

l'opera, essendo

che in essa guastando,

nel Vocabolario fa lo Scultore, che dee porsi fatica di tutta

e raccomodando,

arriva l'Artefice al più bello ed al più perfetto ». Egli registra anche un altro riferimento che la voce aveva frattanto acquistato: «Modello dicesi anche propriamente a uomo, o donna, che nell'Accademia

del disegno nudo, o vestito sta fermo

per esser da’ giovani studenti, o da’ Maestri dell'arte per loro studio ritratto al naturale». In tal senso si parla sovente di M. ‘ vivente’, per distinguerlo dai M. offerti direttamente dalla natura o consistenti in opere d'arte considerate esemplari. Il neoclassico F. MILIZIA (1797) nota a tal proposito: « Lo studio del modello, cioè di molti modelli vivi, è uno studio preliminare per giungere alla bellezza ideale che risiede nelle scelte sculture dell'antichità ». La poetica classicista di J. -A. -D. INGRES (1780-1867) è chiaramente enunciata in questo suo pensiero: « Guardatelo [il modello vivente]: è come gli antichi... È un bronzo antico. Gli antichi non hanno corretto i modelli, voglio dire con questo che non ne hanno cambiato la natura. Se voi tradurrete sinceramente quello che vi sta davanti, procederete come loro e, come loro, arriverete al bello » (p. 65). Nel linguaggio più strettamente tecnico del sec. XIX è da

rilevarsi la distinzione registrata da G. CARENA (1853) — relativamente all'architettura — tra: «modello in generale » (« rappresentazione in rilievo, e per lo più in piccolo, di un'opera da eseguirsi »); «modello dimostrativo » (« quello che rappresenta il vero, cioè l'opera da costruirsi, non nelle rigorose relative dimensioni delle singole parti... non serve propriamente al Costruttore, ma giova nondimeno a far più chiaro e più certo a chicchessia il pensiero dell’Architetto »); «modello regolare;-o in scala» («le cui parti sono in dimensioni proporzionali alle corrispondenti parti dell'opera da costruirsi... serve di sicura e più facile norma agli operai che eseguiscono

il lavoro »), p. 71. Lo stesso

Carena nota che nell’arte del ‘ gettatore’ M. « è quel corpo

323

duzione: « Prescelti di massima i materiali maggiormente idonei, può... procedersi... all'esecuzione del disegno progettuale fissando, in relazione all'uso, i limiti di variabilità di ciascun fattore... e, qualora necessiti, alla costruzione di un primo esemplare del modello »; inteso quale « rappresentazione significativa di un soggetto di indagine atta a surrogare la realtà ed usata come mezzo di previsione e di controllo » (M. PETRIGNANI, 1967, p. 322). [P.]

Moderazione

e regola.

c. c. MALVASIA

(1678)

individuando i differenti caratteri di Agostino e di Annibale Carracci (il primo «timido nell'arte e guardingo», l’altro « coraggioso al contrario e sprezzante »), riferisce come il cugino Lodovico Carracci avesse stimato opportuno trattenere presso di sé Annibale piuttosto che avviarlo all'arte sotto Prospero Fontana, come aveva fatto Agostino: « Perché d’ingegno vivo troppo ed animoso, conobbe aver più bisogno di moderazione e di regola, che di quell’ardire e velocità che sotto a quel risoluto pittore acquistar solo si potea » (I, p. 265). La M. e regola si contrappone dunque all’«ardire e velocità», qualificandosi in questo caso come una necessità di ordine ‘ didattico ‘, legata al particolare temperamento del giovane, impetuoso

e non

riflessivo, e pertanto corta e ‘ regolata ‘.

bisognoso

di una

guida

ac[P.]

Moderna, Alla. Locuzione adoperata in modo generico o per indicare un procedimento stilistico del quale si voglia puntualizzare la diversità da modi precedenti; tale più specifico uso risulta dal seguente passo di G, VASARI (1568), ove è ricordata l’attività bolognese di B. Peruzzi: « Essendo condotto a Bologna da gl’operai di San Petronio, perché facesse il modello della facciata di quel tempio, ne fece due piante grandi e due proffili, uno alla moderna et un altro alla tedesca» (IV, p. 263). Di un uso più generico fornisce esempio ancora il Vasari nella Vita di M. Sanmicheli: « Fece in Padova il bastione detto il Cornaro e quello parimente di Santa Croce, i quali amendue sono di maravigliosa grandezza e fabricati a/fla moderna » (VI, p. 245). E ancora B. DE DOMINICI (1742/1743), a proposito di F. Grimaldi ricorda che « architettò la bella chiesa de’ Santi Apostoli, alla moderna» (III, p. 11). [P.]

Moderni. Sono gli artisti o gli uomini situati nella condizione culturale di un tempo presente, considerato superiore o inferiore, rispetto ad un arco cronologico-storico in cui rientrano i così detti Antichi (v.). Nella letteratura artistica, dal sec. XIV in poi, il riferimento agli Antichi riguarda generalmente i prototipi, modelli, regole, prodotti e formulati dai Greci e dai Romani; cioè i monumenti, le opere, le teorie estetiche tramandate ai M. dalla civiltà chiamata classica (v. Classicismo, Classico; Classica, Arte).

o di tutto rilievo, col quale si fa l’im-

Ed è un riferimento che, configurato nel « mito » della per-

pronta o il cavo nelle Forme d’ogni maniera » (p. 183); presso i pittori e gli scultori « è talora una persona, or nuda, or più o meno vestita, per ritrarne le naturali forme: talora è una statuina di legno... snodata in più luoghi, e per ciò capace di esser posta in ogni voluto atteggiamento » (p. 184). In gest'ultimo significato più comunemente usata la voce Manichino (v.). Nell'uso contemporaneo la voce M. conserva i riferimenti e le implicazioni che essa ha assunto nel tempo; nuove possibilità tuttavia derivano al M. dalle mutate condizioni

fezione, o contestato e rifiutato come tale, rappresenta peraltro un denominatore abbastanza costante. Al contrario, i M., ossia gli « odierni», sono stati sempre variamente individuati, definiti, valutati, nei differenti momenti storici.

di basso, di mezzo,

in cui l'artista si trova ad operare nella civiltà industriale; è stato

così notato

come

«la conoscenza

più approfon-

dita e l’unificazione della tecnica grafica hanno fatto del modello più un elemento pubblicitario, di informazione nei riguardi del committente, che un elemento di guida alla costruzione» (R. Bizzotto, in DAU, IV, 1969, p. 66). D'altronde — nel particolare settore dell'industrial design (v.) — si rilevano delle proposte assai stimolanti, consistenti nell’utilizzazione del M. quale elemento d'indagine alla pro-

Ad es., F. VILLANI (ca. 1400/1405) non solamente considera Giotto degno di essere paragonato ai pittori antichi, ma finanche preferibile a costoro. Ma nel sec. XV gli Antichi hanno, nella valutazione dei contemporanei, cioè nel clima dell’Umanesimo e del Rinascimento, la meglio sui Moderni. Così A. AVERLINO detto il FILARETE (1464) questi moderni; antichi, mi son Si noti che per

afferma: ma poi, venuti in il Filarete

« Ancora a me solevano piacere ch'io cominciai a gustare questi odio quelli moderni» (I, p. 380). i M. sono in genere architetti an-

cora legati, nel tempo del Brunelleschi e dell’Alberti, al gusto gotico. Successivamente, il polemico Benvenuto Cellini — scrivendo a B. VARCHI (1547) sulla «maggioranza delle arti» — prepone Michelangelo agli antichi e ai moderni, in quanto come pittore deriva dai modelli della più

324

Moderni greci

grande scultura: « Oggi si vede Michelagnolo essere il maggior pittore che mai ci sia stato notizia, né infra gli antichi né infra i moderni, solo perché tutto quello che fa di pittura lo cava dagli studiatissimi modegli fatti di scultura » (p. 80). A sua volta, L. DOLCE (1557) impernia la superiorità assoluta di Tiziano nel colorito (v.) in questo modo: « Poi, di colorito non fu mai alcuno che a lui arrivasse. Anzi, a Tiziano solo si dee dare la gloria del perfetto colorito, la quale o non ebbe alcun degli antichi, o, se l'ebbe, mancò, a chi più a chi manco,

(p. 200). D'altra

parte, è interessante

in tutti i moderni »

notare che, nel suo

Trattato delle perfette proporzioni, V. DANTI (1567) quando accenna agli antichi e ai M., lo fa presumendo una raggiunta parità tra i primi e i secondi, in merito alle regole delle proporzioni e degli Ordini architettonici. Tale parallelismo si constata anche in G. A. GILIO (1564). G. VASARI (1568), dopo il Villani, inquadra il rapporto tra antichi e M. nel suo sistema del «miglioramento » e declino delle arti: M. sono i maestri della «terza età », cioè Leonardo, Giorgione, Tiziano, Raffaello, Michelangelo, Correggio, ecc. Si aggiunga che gli scrittori d'arte del sec. XVII, ovviamente, chiamano M. i maestri del proprio tempo, talora parlando di più M. (C. C. MALVASIA, 1678), o di «novelli Moderni » (L. SCARAMUCCIA, 1674, pp. 11-12). Una parte importante, nel confronto tra Antichi e M., era stata peraltro già assunta da A. TASSONI (1620), nel X Libro dei Pensieri diversi, a vantaggio dei secondi. Ragionando sul Paragone delle fabbriche, statue e pitture antiche e moderne, il Tassoni scrive fra l’altro, in un « crescendo»: «Oh se i quadri di Daniele da Volterra, di Polidoro da Caravaggio, di Pietro Perugino, di Giulio Romano, di Cangiaso da Genova,

di Giovanni

Bellino,

del Tintoretto,

dei due

Dossi,

del Frate dal Piombo, del Barroccio; per nominare qualcheduno ancora di quelli ch'io stesso ho veduto dipignere in Roma, dei Caraccioli, del Cavalier Giuseppino, del Cigoli, del Caravaggino, di Guido da Bologna, di Lavinia Fontana, del Pomaranzio, di Carlo Veneziano, del Baglione, del Passignano e d'altri, si potessero confrontare con le opere di que’ Filosseni, Nicofani, Arellii, Amulii, Burlachi, Antidori, Timomachi e Teomnesti antichi, le figure dei quali erano pagate a centinaia di mine e decine di talenti, per la rarità de' pittori eccellenti e per le ricchezze grandi de' principi di quei tempi, quanto vedremmo noi risplendere i nostri!» (rip. in L. GRASSI,

1973,

p. 104, n. 19).

Ben diversa era stata in merito l'opinione del grande collezionista e amatore d’arte Cassiano dal Pozzo (1588-1657). Egli era infatti un antiquario (v.), aveva costituito il Museum Chartaceum, cioè una formidabile raccolta di disegni di antichità romane, era amico di un pittore classicista come Poussin. Carlo Dati (1664), amico e discepolo di

Cassiano, riferisce che egli era solito dire (verosimilmente alludendo al Borromini e al Bernini): « Gran vergogna dell'età nostra, che quantunque sempre rimiri sì belle idee, e norme tanto perfette negli edifici vetusti, tuttavia permetta, che per capriccio d'alcuni professori, i quali si vogliono dispartir dall'antico, l'architettura alle barbarie faccia ritorno » (rip. in L. GRASSI, 1978, pp. 82-83). La disapprovazione dei M., da parte di Cassiano, antecede quella, altrettanto severa di R. F. DE CHAMBRAY (1650), manifestata nel Parallèle de l’architecture antique et de la

moderne. La « mauvaise pratique et l'abus des modernes pour faire au contraire » introduce un tipo nuovo di architettura nordica, «une

nouvelle tramontaine

plus barbare et

moins plaisante que la Gothique», rip. in L. GRASSI, 1973, pp. 135 e 155, n. 6 («la cattiva pratica e l'abuso dei moderni per fare al contrario »... «una nuova tramontana più barbara e meno piacente della gotica»). La Querelle des Anciens et Modernes prosegue il suo cammino soprattutto nella Francia di Luigi XIV, incrociando

presso l'Accademia

reale (v. Accademie), l’altra famosa controversia tra i fautori del Disegno (v.) e del Colore (v.). 1 M., dice Perrault,

sono preferibili: Le Brun è superiore a Fidia e ad Apelle perché tale è il merito del Grand Siècle. In altri termini, si tratta di una supremazia dei M., ma in seno alle dottrine del classicismo. AI contrario,

i teorici

e scrittori d’arte neoclassici

ribadi-

scono il convincimento della priorità degli Antichi sui Moderni. Si pensi all’atteggiamento del Winckelmann: ma basti leggere quanto asserisce A. R. MENGS (1787): « Nessuno de’ moderni ha seguitata la strada della perfezione degli antichi Greci, poiché tutti, dopo che l’arte è stata quasi di nuovo ritrovata, hanno avuto soltanto in mira il vero, ed il piacevole ». E più oltre: « Non credo nemmeno che l'arte verrà più portata a quel sublime grado di bellezza e di perfezione, in cui si trovò presso gli antichi Greci, fuorché nel caso che la medesima ritrovi nella florida Italia un'altra Atene» (p. 12).

Dopo il Neoclassicismo, nel-sec. XIX le vicende della storia del gusto, il sorgere di nuove ’ poetiche‘, il superamento del concetto di bellezza (v.) classica, ecc., hanno modificato profondamente l’idea variabile, che attualmente si ha dei M. nelle arti visive. Si conviene (ma si tratta di una partizione sempre più approssimativa) di chiamare. oggi ‘moderna’ la pittura che, dopo l'Impressionismo (v.) si estende fino alla svolta eversiva rappresentata dai movimenti d'avanguardia, v. (Futurismo, Cubismo, ecc.); e ’ contemporanea’ quella successiva a tali correnti. D'altra parte, al di fuori di tali schemi e convinzioni storiografiche, sappiamo bene che esistono artisti ancora viventi, ancorati peraltro alle correnti tradizionali; che non possono cioè chiamarsi « contemporanei », mentre il significato attuale e precorritore di maestri cronologicamente scomparsi, ne

comunica la «modernità » contemporanea scienza (v. anche Moderno).

alla nostra co[G.]

Moderni greci. Espressione con la quale B. DE DOMINICI (1742/1743) indica i pittori ‘ bizantini” del sec. XIII, anteriori a Cimabue; il passo nel quale essa compare è il seguente: «In quelle Cimabue, appena avea introdotto il toglier que’ contorni, che di nero, o di altra oscura tinta in tutto profilavano le figure (maniera usata da’ moderni greci), e datole appena alcun’ombra, per dar loro quel rilievo, che poi con la scorta del naturale... le diede il famosissimo Giotto » (I, p. 51). [P.]

Modernità M. dell’arte,

dell’arte. ossia

sulla

Sul problema della perenne

impossibilità

teorica

di una

sua

divisione in epoche, sono di particolare interesse alcune considerazioni di A. SOFFICI (1920): « L'arte, filosoficamente parlando, è tutta moderna, poiché è l'espressione simbolica della più profonda vita dello spirito, la quale non ha epoche. È però altrettanto vero che ogni momento storico è caratterizzato da alcune particolarità esteriori e transitorie, le quali, agendo sulla sensibilità degli artisti, influenzano la loro anima in modo da fargli vedere la realtà sotto nuovi aspetti; e, modificando i lor modi d'espressione,

quelle particolarità si rispecchiano successivamente nelle opere che quelli artisti creano» (p. 77). [P.]

Moderno

(lat. tardo modernus).

Attuale

cioè, modo,

stile, gusto odierno (hodiernus), in opposizione ad antico (v.). Nella letteratura artistica e nella critica d’arte, il concetto di M. è ovviamente relativo al tempo e al manifestarsi di fenomeni di gusto, moda, comportamento, ecc., cui esso si riferisce. Pertanto, ciò che si conviene chiamare M. rappresenta una « variabile », sul piano delle arti e del costume, del sentimento estetico di una determinata civiltà, quale si esprime da parte degli artisti, e si rispecchia nelle opere. Con il concetto di M. si intende anche significare un progresso dei mezzi tecnici. Tale, ad es., è il caso di quel pittore Solsternus, il quale nel 1207 fregiava del proprio nome il mosaico della facciata del duomo di Spoleto, dichiarandosi summus in arte modernus, cioè nel

sr

325 senso di eccellente in quel genere di tecnica (cfr. B. TO| SCANO, 1969, p. 141). D'altra parte, la consapevolezza che si manifesta nel sec. XIV, di essere e sentirsi moderni (v.), è più che mai esplicita nel Libro dell'arte di CENNINO CENNINI (fine sec. XIV), quando si legge che « Giotto rimutò l’arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno; ed ebbe l'arte più compiuta che avessi mai più nessuno » (cap. |). Più tardi, L. GHIBERTI

(ca. 1450), per indicare la modernità

di Giotto — ma senza l’uso del termine M. — dirà che Giotto « arrecò l'arte nuova », dopo la «maniera greca » di Cimabue. E poco dopo A. AVERLINO detto il FILARETE (1464), ravvisando nel Brunelleschi il maestro che «risuscitò nella città nostra di Firenze questo modo antico dello edificare » (I, p. 227), condanna il gusto gotico dell'architettura,

cioè

la «praticaccia»

o

p. 228). Nel sec. XVI, G. VASARI

«usanza

moderna»

(I,

n. 40). È una conferma della aspirazione ad una serena armonia propria della poetica albertiana; di fatto egli «ricerca in un accordo largo ed equilibrato la bellezza tratta dalla natura » (L. MALLÈ, 1950, p. 36). Ed in tale operazione la M. è certamente qualità da non trascurarsi. [P.]

Modi, Teoria dei. È la ‘poetica ’ propugnata

dal ce-

lebre pittore francese classicista N. POUSSIN (1647), in una lettera a Paul Fréart de Chantelou, quando per questo amatore d'arte e collezionista stava dipingendo la seconda serie dei famosi Sette Sacramenti. Nella lettera, datata Roma

24 novembre 1647, Poussin ricorre all'esempio di un proprio quadro ora al Louvre, e in quel tempo posseduto da Monsieur Printel: il Ritrovamento di Mosè, ammirato, ma non compreso da Chantelou. In quel dipinto, come in altri di sua mano,

Poussin

applica rigorosamente

la teoria alla

(1568), chiama « moderna »

pittura; dice infatti di avere inteso far corrispondere le ma-

la terza età, cioè la pittura che, con Leonardo, Raffaello, Giorgione, Tiziano, Correggio, Michelangelo, ha attinto il vertice della perfezione entro lo schema storiografico del «miglioramento » e del declino (v.) delle arti del disegno (v.). L'uso costante, ma sempre variabile, del concetto di ciò

niere (i ‘ modi‘) ai temi, cioè ai soggetti che esprimono diversi gradi o tonalità dei sentimenti o passioni. Poussin (è stato accertato) deriva questa sua teoria dei M. dalle Istituzioni harmoniche di Giuseppe Zarlino (Venezia, 1558). I M., o ragione, o forma, risalgono alla musica degli antichi Greci, ed hanno ciascuno una singolare proprietà: il M.

. che si considera M. rispetto all'antico (v.), prosegue nel sec. XVII, G, MANCINI (ca. 1620/1624), nel Viaggio per Roma ravvisa « pitture moderne buone» (p. 49) a villa Mellini. M. BOSCHINI (1660) parla di « operar moderno », a proposito del Tintoretto (p. 531); L. SCARAMUCCIA (1674), infine, considera « novello moderno » (pp. 11-12), cioè assertore di una nuova modernità nella pittura, particolarmente il Poussin; ma ancora il Guercino, il Sacchi, il Camassei, il Romanelli, per essersi « accostati con molta maggior gratia alla verità ». La vicenda del concetto

plementare momenti,

di M. si intreccia, è com-

o si identifica quasi, nei successivi che

qui non

vengono

Antichi, Antico, Antico-moderno,

considerati,

Moderni

aspetti e

con

le voci

(v.).

[G.]

Moderno, Movimento. Espressione con la quale nella critica architettonica contemporanea si designano le manifestazioni susseguenti al fenomeno della rivoluzione industriale (sec. XIX) ed in rapporto con le reazioni da essa

provocate. tanza

Si è da tempo

e la funzione

particolare

riconosciuta

determinante

la grande impor-

della cultura

inglese,

in

per l'impulso di W. Morris (1834-1896), che av-

vertì ed esaltò

il significato

‘umano’

e sociale

dell'arte,

e la necessità di un suo sofferto ed operante collegamento con la realtà. Si spiega così come il movimento M. sia « pervaso da una tensione, a volte drammatica,

fra la necessità

di compiere

un'operazione critica e la volontà di condurre un'azione anticipatrice sostenuta da un intransigente rigore scienti-

fico » (A. Silipo, in DAU, IV, 1969, p. 67). Come tale esso

«dorico » è stabile, grave, severo; il M. « frigio» esprime passioni veementi e furenti; quello « lidio » corrisponde al sentimento triste, al lamento; quello « ipolidio » si riferisce a sentimenti soavi e dolci, producendo gioia in chi contempla un dipinto; quello «ionico », infine, è congeniale alla giocondità, è adatto a temi con danze, feste e baccanali. La definizione

del

Poussin,

di gusto

filosofico

stoico,

è la

seguente: « Cette parole mode signifie proprement la raison ou la mesure et forme de laquelle nous servons à faire quelque chose, laquelle nous astreint à ne passer pas outre, nous faisant opérer en toutes les choses avec une certaine médiocrité et modération, et, partant, telle médiocrité et modération, n’est autre qu'une certaine manière

ou ordre déterminé et ferme, dedans le procédé par lequel la chose se conserve en son étre », ed. Blunt, 1964, pp. 123-124 (« Questa parola modo, significa propriamente la ragione o la misura e forma della quale noi ci serviamo per fare qualche cosa, la quale ci costringe a non passare oltre, facendoci operare in tutte le cose con una certa mediocrità e moderazione e, pertanto queste non sono che una

certa

maniera

o ordine

determinato

è fermo,

dentro

il processo dal quale la cosa si conserva nel suo essere »). La teoria dei M. del Poussin (estesa ad altri pittori) è stata variamente interpretata

e commentata

da P. ALFASSA

(1933),

J. BIALOSTOCKI (1961), A. BLUNT (1964), J. THUILLIER (1969), W. MESSERER

(1972), ecc. Ma già si era occupato del quesito, in rapporto al Poussin, A. FÉLIBIEN (1666/1688). [G.]

si troverà a dover affrontare, sin dai suoi inizi, i complessi

Modiglione. Dal latino mutu/us, attraverso la supposta

rapporti con le altre forme artistiche (nell’aspirazione ad un superamento delle tradizionali distinzioni), con la cultura d’avanguardia, con le tecniche e i procedimenti industriali. Non potendosi riconoscere in uno ‘stile‘, il movimento M. si identifica dunque con le correnti più vitali dell’architettura, affermatesi tra la seconda metà del sec. XIX e i

forma popolare diminutiva mutilio, deriva M., voce propria della terminologia architettonica, usata dal sec. XVI nel significato di mensola (v.), sostegno. Secondo la definizione di F. BALDINUCCI (1681) si tratta di una specie « di mensola di varie forme, che gli architetti pongono sotto il gocciolatojo de’ cornicioni... e fanno ufficio di reggerli». In verità il M. è più genericamente « elemento di sostegno della cornice della trabeazione, per ottenere una maggiore sporgenza della cornice » (DAU, IV, 1969). Per quanto si riferisce alla forma, la più comune è a mensola rovesciata, con ornamenti vari sulla fronte e motivi a volute sui lati.

nostri giorni.

[P.]

Modern style. Espressione inglese corrispondente alla francese Art nouveau (v.) ed usatain particolare in riferimento alla produzione architettonica.

A. C. QUATREMÈERE DE QUINCY (1755-1849) ne registra alcune Modestia.

Qualità apprezzata

nella realizzazione

della

istoria” da L. B. ALBERTI (1436); a suo avviso occorre «copia e varietà delle cose » (p. 68, n. 40); la’ copia’ deve però «essere ornata di certa varietà, ancora moderata e grave di dignità e verucundia » (ibid.); conseguentemente: «adunque desidero in ogni storia servarsi quanto dissi

modestia e verecundia, e così sforzarsi che in niuno sia un medesimo gesto o posamento che nell'altro » (p. 70,

varietà («a controsenso », «a piombo», «a mensola»; «rampanti »), e nota — come altri autori — che i M. sono tipici dell'ordine corinzio: «I modiglioni — egli scrive — sono rispetto al corintio ciò che i mutuli riguardo al dorico ». (V. dunque anche Mutulo). [P.]

Modo (lat. modus). Nella letteratura artistica tale voce viene generalmente adoperata nel significato di stile o ma-

326

|

Modulo

niera in rapporto ad una misura o norma. Ad es., A. AVERLINO detto il FILARETE (1464), nel suo Trattato dell’Architettura, esalta il ‘ modo antico’ di edificare, risorto in Firenze per merito di Filippo Brunelleschi, condannando i «moderni », cioè gli architetti appartenenti ancora alla tradizione del Gotico (v.): « Ancora a me solevano piacere » — scrive (I, p. 380) — « questi moderni, ma poi ch'io cominciai a gustare questi antichi, mi sono venuti in odio quelli moderni ». E già in precedenza (I, p. 228) aveva raccomandato: «Sì che priego ciascuno, che lasci andare questa usanza moderna, e non vi lasciate consigliare a questi maestri che usano questa tale praticaccia. Che maledetto sia chi la trovò. Credo che non fusse se non gente . barbara che la condusse in Italia ». Nel mutato clima della Controriforma, G. A. GILIO (1564) parla dei M. dei pittori in rapporto al concetto, per lui moralistico, di’ convenienza’ nel rappresentar le figure: dalla ignoranza dei pittori «nasce il non sapere distinguere il vero dal finto e dal favoloso, il poetico da l’istorico, i tempi, i modi, l'età, i costumi e l'altre qualità convenevoli a le figure che fanno» (p. 15). Infine, G. B. PASSERI (ca. 1678), nel Proemio delle Vite, considera rischiosa l'imitazione delle opere di scultura e di pittura di Michelangelo, ricorrendo al concetto di M. nel senso di maniera o stile: « Ma lo studiare dall'opere sue (non d’Architettura) è di grandissimo pericolo di guadagnare un modo stravagante, et alterato » (p. 9). Probabilmente imitar Michelangelo architetto non è pericoloso, dato il sistema degli ordini classici, che rappresenta un più generale e uniforme rispetto delle norme del costruire nei M. classici. Nella critica d’arte del nostro tempo la parola M. continua ad essere adoperata nel signi-

disegnate

a ciascun’ordine convenienti» (I, p. 16). Sulle. possibili varietà di misura inerenti al M. si esprime in modo ancor più esplicito V. SCAMOZZI (1615): «Non è misura sempre ferma, e terminata a guisa del palmo, del piede, del braccio... ma una portione rationale, overo regola homogenea, con la cosa regolata: hor maggiore, et hor minore: a giudicio, e volontà dell'Architetto » (Il, p. 4). Nella pratica peraltro si era soliti assumere quale M. la metà del diametro della colonna, misurato all'imoscapo (v.): «Si cava dalla grossezza della colonna, misurata nel vivo dell'imoscapo, ratta da piede pigliandone la metà, e questa metà sarà il modulo» (F. BALDINUCCI, 1681). La libertà di assunzione dell'elemento modulare, non desumibile esclusivamente

dalla misura

della colonna,

è ribadita

da A. C.

QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849): «È preso da una delle parti che costituiscono la disposizione degli edificj, o da una frazione qualunque d’una.di queste parti... ogni architetto può farsene uno a piacere ». E ancora di recente per G. C. Argan è « misura variabile, che l'architetto sceglie liberamente... e dei cui multipli e sottomultipli... si vale per determinare la proporzione di tutti i membri dell’edificio » (in EUA, XI, 1963, col. 61). G. Castelnuovo lo definisce «entità numerica o geometrica, o per traslato, un pezzo o membratura che, semplicemente ripetuto o composto... costituisce un insieme tale da risultare... commensurabile al modulo stesso assunto come unità, secondo multipli interi o frazioni semplici di esso » (in DAU, IV, 1969, p. 113). Una ben nota recente applicazione è costi-

ficato di sigla, variante formale riconoscibile nelle componenti dello stile particolare di un artista. [G.]

tuita dal modulor (v.) di Le Corbusier, desunto dalle misure del corpo umano. L'architettura contemporanea ha largamente utilizzato il principio modulare, in specie negli elementi prefabbricati; osserva a tal proposito G. C. ARGAN (1958, Modulo) che «proprio nello studio dei problemi

Modulo

della stato

(lat. modulus

‘piccola misura’). Corrisponde

secondo VITRUVIO (27 a. C.) al greco èuBamnp: « Modulus, qui graece îufathp dicitur, cuius moduli constitutione ratiocinationibus efficiuntur omnis operis distributiones », IV, III, 3 (« Il modulo, che in greco si chiama èuBarhg; stabilito questo modulo, con dei calcoli si effettuano le distribuzioni di tutti i membri dell’opera »). Nello stesso paragrafo Vitruvio indica anche quale, secondo l'autorità dei maestri (« quemadmodum a praeceptoribus accepimus») debba essere il modo di dedurre il M. per l'ordine dorico: si misuri la facciata del tempio dallo stilobate dividendola in 27 parti se tetrastilo (v.), in 42 se esastilo (v.); una di queste parti sarà il modulo. Sui complessi problemi linguistici e logici della corrispondenza di èufathp e modulus, cfr. S. FERRI (1960, pp. 52-56), che avanza notevoli perplessità sulla identificazione operata da Vitruvio; il Ferri la fa risalire in generale all’imbarazzo in cui il latino si è trovato « dovendo tradurre vocaboli senza possedere il concetto corrispondente » (p. 54). Per Vitruvio, in ogni caso, il modu/us è una unità di misura in base alla quale è possibile fissare i rapporti tra tutte le parti del tempio; prescrive, ad es., per il tempio dorico: « Crassitudo columnarum erit duorum modulorum, altitudo cum capitulo XIIII. Capituli crassitudo unius moduli, latitudo duorum et moduli sextae partis... epistylii altitudo unius moduli cum taenia et guttis; taenia moduli septima », IV, III, 4 («...La grossezza — o altezza — del

capitello sarà di un modulo, la larghezza di due e 1/6... L'altezza dell’epistilio con tenia e gocce un modulo; la tenia 1/7 di modulo»). Il termine attraverso Vitruvio fu familiare alla trattatistica rinascimentale, che non lo assunse peraltro quale elemento di misura fisso e costante, specie nelle suddivisioni; così J. VIGNOLA (1562) suddivide il M. per gli ordini ‘toscano’ e dorico in 12 parti, per il corinzio in 18; A. PALLADIO (1570) lo divide per il dorico in trenta ‘ minuti‘, per gli altri ordini in sessanta; d'altronde egli avverte: « Potrà ciascuno facendo il Modulo maggiore, e minore secondo la qualità della fabrica servirsi delle proportioni, et delle sacome

prefabbricazione, è facile intuire dove e come sia affrontato e risolto il problema, non più della as-

sunzione del singolo oggetto-standard a modulo, ma della definizione teorica del modu/o-oggetto, cioè di un principio ideativo che fosse anche il fatto-base della costruzione » (pp. 113-114). Si tenga presente che a suo avviso il M. «non è una forma base, ma una virtualità formale... è anzitutto un principio di progettazione» (p. 109). [P.] Modulor. Unità di misura modulare (v. Modulo) proposta, chiarita ed applicata dall'architetto Le Corbusier (cfr. i suoi volumi Modulor, 1948, 1955). Il M. si basa su di una scala umana, secondo un rapporto proporzionale

fisso (1, 618...) applicabile ad ogni elemento e strutturale.

Modus.

compositivo [P.]

Voce

latina dal significato generico di ‘mi-

sura’. Da notarsi il particolare uso che ne fa PLINIO (23/24-79) a proposito di Parrasio: « Extrema corporum facere et desinentis picturae modum includere rarum in successu artis invenitur», XXXV, 67 («Invece rendere l'estremità dei corpi e saper racchiudere e limitare il giro dei piani di scorcio, là dove termina l'oggetto rappresentato: questo raramente riesce bene»). Osserva S. Ferri che qui M. «assume il valore di ‘linea di contorno’ o perigraphé (v.) a meno che non voglia tradurre il greco tropos o tropé, il ‘giro’, cioè, del corpo» (in EAA, V,

1963, pp. 138-139).

Molochino.

[P.]

V. Colori.

Molteplicità-unità. Una delle cinque coppie di concetti — o schemi visivi antitetici — coni quali secondo H. WOLFFLIN (1915) può spiegarsi l'evoluzione storica dell'arte moderna. Il passaggio dalla M. all'Unità segna lo svolgersi dalla visione dell'arte primitiva, disordinata nella indipendenza dei singoli particolari, ad un’arte — quella ‘ classica’ — in cui « il particolare è condizionato dal tutto, ma non per questo cessa di essere una cosa a sé » (p. 63).

\Storicamente le cose sono anche più complesse; un con. fronto tra l’arte del sec. XVI e quella del sec. XVII rivela due diversi tipi di ‘unità’: «L'unità molteplice del secolo XVI e /'unità unitaria del sec. XVII. In altre parole: il sistema articolato di forme del periodo classico e il fluire (illimitato) del barocco » (p. 320). Ad avviso del Wolfflin nell'età barocca si realizza «la elaborazione di un motivo unitario dominante »; la cui affermazione si raggiunge « per mezzo di valori di natura plastica, come avviene in Rubens, o di valori più spiccatamente pittorici, come avviene in Rembrandt» (pp. 320-321). [P.]

Momento

estetico. Espressione adoperata da B. BE-

RENSON (1948), e da lui così chiarita: « È quel fugace istante, così breve da esser quasi senza tempo, in cui lo spettatore è una sola cosa con l’opera d'arte che egli guarda, o con l'attualità di qualunque genere che lo spettatore medesimo vede in termini d'arte, come forma e colore... il momento estetico è un momento di visione mistica » (p. 130). Si evidenzia il parallelismo della concezione berensoniana con l'estetica dell'Einfih/ung (v.) e si afferma — in ogni caso — la convinzione del rapporto diretto tra opera d'arte e spettatore, risolto in termini di ’ simpatia‘ irrazionale, con implicazioni di ordine mistico e spirituale. [P.]

Monocroma,

Pittura. È stata così definita una corrente

artistica operante intorno al 1960 nell’ambito di ricerche neo-concrete, in opposizione all’Informale (v.). Tra gli artisti partecipi di questo indirizzo si ricordano: P. Dorazio,

L. Fontana, H. Mack, P. Manzoni, M. Rothko. « Il fatto di valersi d'una pittura monocroma non costituisce che uno degli aspetti di quest'arte... Il principio unitario posto alla base del raggruppamento era quello di cercare ‘quegli elementi della formatività che costituiscono il dipinto come struttura dinamica’» (G. DORFLES, 1973, pp. 84-85). [P.] Monocromato. Letteralmente pittura di un solo colore (dal gr. pévos ‘solo’ e ypéua ‘colore ’). Il termine — monochromaton — presso PLINIO (23/24-79, XXXIII, 117; XXXV, 15, 29, 64) sembra riferirsi a quel tipo di procedimento pittorico in cui, tracciato il disegno, si riempiva con un unico colore l’interno dell'immagine; così come, a titolo esemplificativo, accadeva nella pittura vascolare arcaica a figure nere o rosse. Il brano più interessante è

in ogni caso il seguente: «De picturae initiis incerta... omnes umbra hominis lineis circumducta; itaque primam talem, secundam

singulis

327

Monotriglifo

BOTS:

d Eu

coloribus

et monochromaton

dictam,

postquam operosior inventa erat; duratque talis etiam nunc », XXXV, 15 (« Sugli inizi della pittura regna grande incertezza... tutti però concordano nel dire che nacque dall'uso di contornare l'ombra umana con una linea. Pertanto la prima pittura fu così: la seconda fu a colori unici, detta poi monochromatos quando già era in uso quella più complicata, a vari colori. La pittura monocromatica dura tal quale anche adesso »). Nel linguaggio della critica archeologica il termine M. si usa più comunemente in riferimento ad un diverso genere di pittura. « Ci si basa a questo proposito fondamentalmente sul passo di Quintiliano (/nst. or., XI, 4, 46) in cui si dice che nella pittura singulis coloribus alcune parti erano rese

Pittura, cap. XXV), pur non adoperando la voce M., aveva definito un tipo di pittura ad esso assimilabile, identificandola con il chiaro scuro (v. Chiaroscuro), «forma di pittura, che tragga più al disegno che al colorito »; come si vede « nelle faciate de’ palazzi e case in istorie, mostrando che quelle siano contrafatte e paino di marmo o di pietra con quelle storie intagliate» (I, p. 138). È poi G. MANCINI (1617/1621) che, citando esplicitamente Plinio, riferisce il M. ad un «modo di dipingere a terretta verde, azzurra o rossa », tale che « nella medesima terretta vi è più chiaro e men chiaro per esprimer l'ombre, la profondità e la lontananza» (Il, p. 18). L'identificazione di M. con ‘chiaro scuro’ è operante presso C. R, DATI (1667): « Né altro, a mio credere, erano i monocromati ben lavorati dagli artefici grandi, che i chiariscuri simili a quelli d'Alberto, d'Andrea,

di fra Bartolomeo,

di Polidoro

e d'altri celebri

pittori del

passato e del corrente secolo» (p. 66). E ancora nel Vocabolario di F. BALDINUCCI (1681, alla voce Chiaroscuro).

Fin dal sec. XVII tuttavia la voce Chiaroscuro acquista una sua più precisa significazione, implicando essenzialmente il rapporto luce-ombra. Il termine M. rimane nell'uso, ma come generico riferimento ad una pittura realizzata mediante un solo colore, e nella quale gli effetti chiaroscurali siano ottenuti mediante opportune gradazioni dello stesso colore; come nella cosiddetta grisaille (v.), voce talvolta usata anche quale sinonimo di monocromato.

[P.]

Monofora. V. Finestra. Monogramma in uso una

dal sec.

(lat. tardo monogramma). Voce dotta,

XVIII per indicare

o più lettere intrecciate,

l’insieme

abbreviazione

composto

da

solitamente

di

un nome. Come tale il M. compare su opere d’arte fin dall'antichità greca, ed ha avuto nelle diverse epoche largo uso, sia per significare il nome dell'autore o del committente che per alludere a implicazioni sacrali e simboliche (come nel M. del Cristo, presente in forme diverse nell’arte cristiana, in specie dei primi secoli). Gli incisori che hanno firmato le loro opere con un M. dal quale non è possibile pervenire alla loro identificazione sono detti ‘ monogrammisti ‘,

Monolito

Ra]

(gr. uévos ‘unico’ e X90g ’ pietra‘). Con M.

— o ‘monolite’ — si indica un elemento costituito da un solo blocco di pietra, come i menhir (v.) o gli obelischi (v.). A proposito del corretto uso del termine osserva A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849): « Questa denominazione però non conviene che a quelle opere che sogliono costruirsi di più pezzi in causa della loro grandezza, e che, non ostante una tale grandezza, sono stati presi e tagliati da un sol pezzo ».

Monoptero

(gr. uovértepos ‘ad una sola ala’; lat. mo-

in-

nopteros). Secondo VITRUVIO (ante 27 a. C., VII, pr. 12) è il tempio in cui la cella è circondata da una sola fila di colonne. In un altro passo il termine è riferito al tempio rotondo privo di cella, la cui copertura è sostenuta da un colonnato circolare: « Fiunt autem aedes rotundae, e quibus aliae monopteroe sine cella columnatae constituuntur, aliae peripteroe dicuntur», IV, VIII, 1 (« Si fanno anche i templi rotondi: monopteroi, se costituiti di colonne senza cella, peripteroi gli altri »). [P.]

tendere un tipo di pittura a chiaroscuro monocromo, ossia a mezza tinta di un solo colore, al quale viene data evidenza con toni chiari e scuri del colore stesso. Non risulta però che a tale genere di pittura venisse esteso il

Monotipo. Voce di conio recente, con la quale si indica la stampa tirata in un unico \esemplare, eseguita mediante pressione nel torchio di una lastra metallica, sulla

eminentiora,

termine

altre reductiora.

di monocromato,

Quintiliano

cioè

né la parola stessa

sembra

è nominata

in Quintiliano » (S. De Marinis, in EAA, V, 1963, p. 164). Tipico. di questo genere di pittura il fregio giallo della Casa di Livia sul Palatino. Il termine ricompare, quale voce dotta, nel sec. XVII. Ma già G. VASARI (1568) nella /ntroduzione alle tre Arti (della

quale l’artista ha tracciato un disegno cografico o anche con colori ad olio.

Monotriglifo.

con

inchiostro

cal[P.]

Per VITRUVIO (ante 27 a. C., IV, VII, 8)

è sinonimo di tempio sistilo (v.); non è chiaro in ogni caso il preciso significato del termine, forse riferito ori-

328

Monumentale,

Monumentalismo,

ginariamente al «tempio che presentava il triglifo solo in corrispondenza delle colonne » (DAU, IV, 1969). Ma in seguito adoperato piuttosto ad indicare un tipo di tempio in cui la trabeazione (v.) reca un solo triglifo (v.) corrispondente all'intercolumnio (v.). [P.]

Monumentale,

mentalità.

Monumentalismo,

Monu-

Qualificazioni ed attributi che indicano una

particolare interpretazione delle forme architettoniche, ma riferiti per estensione a qualsiasi espressione artistica ove risultino esaltate ricerche di grandiosità ed enfasi descrittiva; caratteristiche reperibili in una certa produzione di ’ monumenti‘ (v. Monumento). Secondo A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849) il vocabolo (monumental) è stato introdotto nella lingua francese « particolarmente dai viaggiatori che hanno descritto i monumenti dell'Egitto »; ma già il critico neoclassico francese notava che M. « può divenire un aggiunto qualificativo del gusto, del genere di composizione, della esecuzione, dell'aspetto generale d'ogni edificio il cui esterno carattere corrisponda all'idea che formasi d'un monumento ». In una più recente definizione (DAU, IV, 1969) si evidenzia la « subordinazione dello spazio esterno al ‘ monumento ‘ », propria del concetto di ‘ mo-

numentalismo‘, con

la conseguente

immediate

funzionali,

esigenze

« astrazione

distributive

sì che nell'uso corrente siano essi all'urbanistica, siano adoperati per mali diverse, è per lo più implicito un giudizio negativo, che individua

dalle più

e ambientali»;

riferiti all'architettura e qualificare ricerche fornei termini in questione nella grandiosità delle

forme una volontà di vuota magniloquenza nistica retorica.

e di esibizio[P.]

Monumento. Il significato proprio di M. — come è confermato dalla etimologia (lat. monumentum, da monére ’ ricordare’) — è quello di «opera per conservar la memoria degli uomini illustri, o di avvenimenti grandi » (F. MILIZIA, 1797). Il termine ha d'altronde nel linguaggio della critica d'arte utilizzazione più larga, e — specie nell'uso attuale — si estende a comprendere ogni testimonianza lasciata dalle civiltà del passato; sì che tutte le opere d'arte

possono essere considerate, in questo senso, come monumento. Del resto già A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (17551849) aveva

notato

che M. «si appropria

ad una

quantità

di opere artistiche; e quindi si adopera indifferentemente parlando del più grandioso edificio, e della più piccola medaglia». Abbastanza tenace d'altronde è la persistenza anche di un uso restrittivo del vocabolo, riferito di preferenza ad opere, complessi architettonici o architettonico — scultorei, caratterizzati da una particolare destinazione. Si pensi alle nostre ‘ Soprintendenze ai Monumenti‘. Alla voce relativa in DAU (1969), premessa la distinzione tra M. ‘’intenzionali’ («ai quali venne attribuito il valore di monumentum al momento stesso della creazione») e ’ preterintenzionali ‘ (« quelli cui noi diamo valore di M. in base a una visione storico-retrospettiva »), si indicano tre fondamentali categorie:

i M. funebri,

celebrativi, con

i M. onorari

celebrativi,

i M. storico-

relativa esplicazione tipologica.

Da rilevarsi come nel concetto di M. sia reperibile, in forme e modi diversi, la coscienza di una finalità ‘’civile‘, che in

età neoclassica — sulla scorta delle proposte del razionalismo illuministico — diviene particolarmente avvertita; secondo il Milizia (cit.) i M. « debbon essere diretti al ben pubblico »; il Quatremère (cit.) avverte: «I palazzi di Giustizia, del comune, gli stabilimenti di pubblica istruzione, i teatri, i luoghi delle adunanze pubbliche sono da comprendersi nel numero degli edificj, che per loro natura costituiscono i più importanti monumenti ».

Da alcune caratteristiche costanti evidenziabili in certa produzione di M. — grandiosità, enfasi descrittiva, accentuazione iperbolica delle forme — deriva il concetto di monumentalità (v.). [P.]

Monumentalità

Moralità (dell’arte). Concetto esteso, ma nel contempo | ambiguo

e sfuggente.

La conformità

dell'arte alle norme |

della morale è stata infatti intesa storicamente, o può esere intesa in modi diversi. D'altra parte, il motivo della

M. dell'arte è un particolare aspetto dei più generali problemi della estetica (v.), dell’arte (v.), della sua religiosità. Pertanto, se si vuole in proposito risalire a PLATONE (427348 a. C.), notiamo che il rapporto tra le arti e la M., incentrandosi nel più ampio tema della costruzione di uno Stato ideale, regolato da leggi, si risolve nel rapporto arteeducazione. Ad es., nel libro III della Repubblica, il filosofo tratta della importanza della Musica nella educazione della gioventù, in quanto «chi sia debitamente educato nella musica, nettamente

schifando

il brutto, loderebbe

ciò che

è bello e, giovandosene, ed accogliendolo nell'anima, da esso verrebbe nutrito, e diverrebbe buono e onesto » (III, 401-402). Come è noto, derivando tali motivi da Platone, Aristotele (384-322 a. C.) inizialmente accetta la premi-

nenza della Musica rispetto alle altre arti e la identificazione del bello col buono. Ma in seguito egli si accosta ad una corrente estetica come quella dei sofisti, nella quale si cercava di svincolare l'arte e l'imitazione dalla morale. Il verosimile infatti significa autonomia delle arti. Vero è che la catarsi ha in qualche modo valore educativo (e, quindi, morale), oltre che terapeutico e liberatorio. Ma il salto qualitativo di Aristotele rispetto a Platone, è stato grandissimo: si pensi infatti al pensiero estetico rinascimentale, che in riferimento ai concetti di imitazione (v.) e di verosimile, sviluppa e rielabora gli enunciati della Poetica aristotelica. Nella «imitazione » delle azioni, cose, natura, come «dovrebbero essere », l'autonomia delle arti dalla M. è divenuta assoluta. Scopo dell’arte, si afferma durante il sec. XVI, è anche quello educativo: ma soprattutto il fine risiede nel «diletto ». Il rapporto tra l'arte e la M. si risolve, dal sec. XVI in poi, nell'altro: tra l'arte e la religione. Nel clima della Controriforma (v. Controriforma, Arte della), la M. delle arti riveste il significato, prevalentemente moralistico, della subordinazione di esse ai criteri del decoro (v.), della convenienza (v.), degli abusi (v.), degli errori (v.), della pudicizia, liceità, ecc. Il vasto tema dell’arte sacra (proseguendo con vitalità durante l'età barocca) attribuisce in altri termini, alla M. dell'arte il valore di norme, divieti, licenze, estrinseci

alla validità

poetica

delle opere,

e però tali da limitare,

più o meno, l'autonomia espressiva dell'artista. Al contrario, la identità tra la M. e l'arte intesa come venustas (bellezza), decoro, ecc., da Platone si trasmette a Cicerone (106-43 a. C.); e successivamente predomina presso i pensatori cristiani, o nell’estetica medievale. La testimonianza più alta della identità tra la bellezza e il bene è rappresentata, probabilmente tra il Il e III secolo, dallo

Pseudo

Dionigi

Areopagita;

gli scritti

del quale

ebbero

vasta risonanza nel tardo Medioevo, soprattutto a partire dal sec. XII, e dopo che Giovanni Scoto-Eriugena aveva tradotto in latino il De divinis nominibus. Per l’Areopagita il Bello è alla radice di tutte le cose, identificandosi col bene e compenetrando di sé, in diverso grado, l’esistenza degli esseri e delle apparenze naturali: « Bonum autem et pulchrum non separandum in ipsa in uno omnia comprehendenti causa » (in d. P. Migne, « Patro/ogia latina », t. 122, coll. 11382 e 1134). Alla fine del sec. XVIII, nel clima del razionalismo illuministico, il motivo della M. dell’arte registra una svolta. Nella Critica del Giudizio, come è noto, E. KANT (1790) formula il fondamentale concetto del disinteresse del piacere este-

tico. Tale concetto si pone allora all'origine delle moderne estetiche, soprattutto di ispirazione idealistica, in cui la sfera dell’arte risponde ad una facoltà distinta dello spirito; la quale si manifesta come disinteressata e, quindi, morale, autonomia del gusto, sia sul piano espressivocreativo dell'artista, sia su quello fruitivo di chi contempla

le opere. Questo quadro della M. dell’arte si è profonda-

Morelliano,

| mente modificato in questi ultimi decenni. Il principio della libertà creativa e inventiva dei singoli artisti nella odierna società rientra nella M. dell'arte nella misura in cui l’artista è coerente con se stesso, sincero con la propria ’ poetica‘. E il discorso tanto più è valido se l'artista si dichiara ideologicamente «impegnato »: la identità tra impegnocoerenza-moralità, ed arte, dovrà essere ovviamente assoluta. In altri termini, sebbene siano in molti a negarlo, la M. dell’arte sussiste anche nei confronti dell’arte contemporanea, trasferita peraltro all’ «interno » della personalità dell'artista, che è insieme uomo razionale, morale e politico.

[G.] Morality sequences. Espressione usata dalla critica inglese per indicare i temi predominanti in alcune delle serie di pitture ed incisioni di W. Hogarth (1697-1764), ove si afferma l'osservazione acuta e satirica — in chiave appunto ‘morale’ — dei costumi della società dell'epoca.

i

[P]

Morbidezza. Risultato di sorprendente tenerezza, quasi « palpabilità » visiva, nell'uso del colorito (v.) ed impasto (v.), da parte dei pittori; dello scalpello, gradina ed altri strumenti, da parte degli scultori, nell'immagine rappresentata. Il concetto di M., in senso classicista-moderno ed antimanierista, diviene tipico della critica d'arte, a partire dal sec. XVI. Si hanno numerosi esempi, fino al neoclassicismo (v.). Intanto: nell'ambiente veneziano, L. DOLCE (1557) esalta l’effetto illusivo della M., di contro la « durezza »: « E certo il colorito è di tanta importanza e forza, che, quando il pittore va imitando bene le tinte e la morbidezza delle carni e la proprietà di qualunque cosa, fa parer le sue pitture vive e tali che lor non manchi altro che "| fiato » (p. 183). Ed oltre: «Ma bisogna aver sempre l'occhio intento alle tinte, principalmente delle carni, et alla morbidezza, percioché molti ve ne fanno alcune che paiono di porfido, sì nel colore come in durezza » (ibid.). Il motivo del rapporto tra vivezza e M. è introdotto da Giorgio Vasari, nella lettera a B. VARCHI (1547) sul Della maggioranza

delle arti, a proposito degli scultori: « Che dirò io della piumosità de' capegli e della morbidezza delle barbe, i color loro sì vivamente stilati e lustri, che più vivi che la vivezza somigliano? » (p. 61). E lo stesso G. VASARI (1568) ribadisce, nella /ntroduzione al Della Scultura (nelle Vite), l'importanza operativa e poetica della M.: in una figura scolpita « siano i suoi capegli e la barba lavorati con una certa morbidezza, svellati e ricciuti, che mostrino di essere sfilati, avendoli data quella maggior piumosità e grazia che può lo scarpello » (I, p. 95). Ma, anche per talune opere di pittura, la M. è in riferimento

alla « unione», dimostrazione di eccellenza sul piano dell'arte. Così, ancora G. VASARI (1568), a proposito del Noli me tangere di Andrea del Sarto (Uffizi), afferma: « La quale opera, per colorito e per una certa morbidezza et unione, è dolce per tutto » (IV, p. 292).

Nel clima del tardo-manierismo, G. P. LOMAZZO (1584) ha collegato la M. al criterio della proporzione della figura umana in dieci facce, che a suo dire è stata osservata da Raffaello, da Perin del Vaga, Rosso Fiorentino, Mazzolino e Correggio (cioè da pittori molto diversi nella pittura ri-

nascimentale o manieristica). Tali pittori hanno espresso M. «massime nel disegnare e colorire donne giovani con quelle proporzioni e morbidezze che gli si convengono» (Il, p. 252). Il significato qualificante del concetto di M., in rapporto ad unione, maniera, armonia, colorito, ecc., continua a manifestarsi nella critica d'arte del sec. XVII. Ma si veda: G. BAGLIONE (1642), che parla di «morbidezza e unione nel colorire » (p. 26), in relazione a Raffaellino da Reggio; F. SCANNELLI

(1557), che sottolinea la M. di Tiziano insieme

ad altre componenti pittoriche; L. SCARAMUCCIA (1674), il quale ammira classicisticamente « l'armoniosa morbidezza » (p. 94) di Raffaello; B. DE DOMINICI (1742/1743), che considera la « morbidezza della maniera » (I, p. 162) un motivo domi-

Metodo

329

nante di Simone Martini; A. M. ZANETTI (1771), che nella Pala di San Giobbe di Giovanni Bellini, ravvisa la svolta in direzione

giorgionesca

del maestro

«compiuta morbidezza », e nella (p. 53).

veneto,

«tenerezza

evidente

nella

dei contorni»

Il termine qualificante di M., nel sec. XVII, viene adottato dai critici e dai conoscitori in Francia. Si legga quanto

scrive A. FÉLIBIEN (1666/1688) intorno al Correggio: « Personne depuis lui, n'y a si bien peint, ni donné à ses figures tant de rondeur, tant de force, et tant de cette beauté que les Italiens appelent Morbidezza, qu'il y en a dans les peintures qu'il a faites », I, p. 276 (« Nessuno dopo di lui, ha dipinto così bene, né dato alle sue figure tale rotondità, tanta forza, e tanta bellezza che gli italiani chiamano morbidezza, la quale si riscontra nei suoi dipinti»). Nel Dictionnaire des Beaux-Arts di A. L. MILLIN (1806), la definizione della voce M. si può considerare conclusiva: « Morbidesse; ce mot vient de l'italien morbidezza, et nos

artistes l’ont adopté. Les Italiens appellent morbido ce qui est délicat, souple, doux au toucher... Le défaut contraire au mérite de la morbidesse, est un style sec et léché. Le Puget et d'autres habiles sculpteurs ont prouvé que, sous une main savante, les matières les plus dures, telles que le marbre, ne se refusent pas à la morbidesse » (« Morbidesse. Questa parola deriva dall'italiano morbidezza e i nostri artisti l'hanno adottata. Gli italiani chiamano morbido ciò che è delicato, soffice, dolce al tatto. Il contrario della morbidezza è invece uno stile secco e leccato. Puget e altri abili scultori hanno dimostrato, che sotto una mano sapiente anche le materie più dure, come il marmo, non si rifiutano alla morbidezza »).

Mordente.

È propriamente una sostanza che distesa

su di una superficie (legno, metallo, ecc.) facilita l'adesione di metalli in polvere o in foglia. Già CENNINO CENNINI (fine sec. XIV, capp. CLI, CLII, CLIII) fornisce varie indicazioni sul «modo di fare un buon mordente »; ad es., la seguente prescrizione è valida per «panni e adornamenti » e si presta per pitture condotte « in muro, in tavola, in vetro, in ferro, e in ciascheduno luogo »: « Tu torrai il tuo olio cotto al fuoco o al sole... e tria con questo olio un poco di biacca e di verderame; e quando l'hai triato come acqua, mettivi dentro un poco di vernice, e lascialo bollire un poco, ogni cosa insieme » (cap. CLI). Anche G. VASARI (1568) nella /ntroduzione alla Pittura (cap. XXVIII) dà indicazioni sul modo di preparare un M. per mettere d'oro, con il quale si possono preparare superfici d'ogni genere, ma non adatte ad essere lucidate o brunite. Come conferma F. BALDINUCCI (1681), per il quale il procedimento del « dorare a mordente », è adatto per « quel lavoro che non si può, o non si vuol brunire o lustrare ». Dicesi M. anche la soluzione acida (acido nitrico o percloruro di ferro) usata nel procedimento di incisione all'acquaforte (v.); voce con la quale anticamente si indicava la soluzione oggi comunemente detta appunto M. [P.]

Morelliano,

Metodo.

È il così detto ‘metodo speri-

mentale’ proposto da un grande «conoscitore » e collezionista italiano Giovanni Morelli (1816-1891). Nei suoi scritti d'arte — particolarmente sulla Galleria Borghese e sulle Gallerie di Dresda e di Berlino — il veronese-lombardo Morelli (il quale soleva anche firmarsi con lo pseudonimo di Jvan Lermolieff), assegnava importanza determinante a talune componenti « costanti » e ricorrenti, che un pittore riproduce inconsapevolmente in ciascuna sua opera (ripetendo, ad es., la forma dell'orecchio, del naso, della mano). Tali componenti costituirebbero un fondamento rigoroso per l'attribuzione (v.) dei dipinti antichi. Il metodo M., che trasferisce alla critica d’arte le istanze del. positivismo scientifico-filosofico, ha il difetto di svalutare propriamente il complesso di elementi figurativi originali e irripetibili, innalzando invece quei formalismi abituali che un artista

330

Morello

ripete senza accorgersi e che (almeno in astratto) rientrano per gran parte nella cultura figurativa; si trasmettono da maestro a scolaro e comunque ci allontanano dal centro,

dal significato individuale di un'opera. In definitiva Morelli, che pur non mancava di sensibilità e di gusto, presupponendo l'esistenza dell’antitesi tra storico e « conoscitore », e insistendo sul secondo termine, ha creduto soddisfacente,

in linea metodologica, circoscrivere il compito della critica al quesito della « attribuzione». Il suo metodo del resto era già stato variamente abbozzato dal Baldinucci, dal Lanzi e da altri. Egli ne era consapevole: « Alcuni dei miei

avversari

in Italia mi rinfacciano

che questo metodo

spe-

rimentale non è niente affatto nuovo, ma sarebbe già stato raccomandato dal padre Lanzi e dai fratelli de Goncourt

a Parigi. lo non voglio menomamente contraddirli... Ma io credo che nell'uso di qualunque metodo si tratti sempre di sapere ‘“come’ venga usato » (G. MORELLI, De/la pittura italiana, 1897; Proemio datato 1889, p. 4). Il metodo sperimentale del Morelli può infatti aiutare nel processo attributivo, entro certi limiti, perché muove da premesse valide: l'inconscio manifestarsi di particolari strutture grafiche ricorrenti, che un artista si è costituito in precedenza in modo proprio. E non mancò il successo, presso conoscitori e critici d'arte, tra la fine del sec. XIX e la prima metà del sec. XX, quali Gustavo Frizzoni e Bernard Berenson. [G.]

Morello.

V. Colori.

Moresco, Stile. Secondo quanto riferisce M. DE CORDEMOY (1706) il padre gesuita Tournemine, distinguendo tra gotico antico e moderno, caratterizzava quest'ultimo per la leggerezza, l'abbondanza e la bizzarria degli ornamenti. A suo avviso tutto ciò deriva dall'influenza dei ‘mori’, cioè degli Arabi, portando quali esempi le cattedrali spagnole

costruite

sotto

l'influenza

dell'arte

araba,

ad

es.,

quella di Burgos: « Ces édifices sont tous de l'Architecture qu'on vent appeller Gothique Moderne, et que jose me flater qu'on appellera désormais, Moresque », p. 242 («Questi edifici sono tutti dell’architettura che viene chiamata Gotica Moderna e che io ardisco illudermi si chiamerà d'ora innanzi, Moresca »). Cfr. E. VAN DER GRINTEN (1952, p. 58).

Morfologia.

[P.]

La voce, di conio relativamente recente

(sec. XIX) — propriamente studio della forma (v.) — ha riferimento ad una critica (quale, ad es., quella proposta dalla teoria della pura visibilità, v.), intesa ad individuare i valori formali inerenti all'opera d’arte. Osserva C. L. RAGGHIANTI (1954) che avere della forma, dello stile, una « considerazione meramente morfologica» è un modo insufficiente, se pur non illegittimo, di considerare l’opera d’arte: « Nella critica d’arte frequentissimo, anzi senz'altro il più frequente è il procedimento o trattamento morfolo-

gico — rali o utilità o non quella così

anche se mascherato a volte da veli letterari, cultusentimentali — che... si può praticare anche con ausiliaria pure non rendendosi conto o ignorando adeguatamente valutando la ragione, e cioè che morfologia è tale e identificabile e isolabile, perché

la fa essere

la forma»

(p. 188).

Morsura. È l’azione che compie il mordente (v.) su di una superficie da preparare per la stesura di un metallo in foglia o in polvere, o su di una lastra da trattarsi per il

procedimento

Morte

di stampa all’acquaforte (v.).

[P.]

dell’arte. V. Poetica.

Mosaico. Decorazione di una superficie — pavimentale o parietale — mediante l'accostamento di elementi (costituiti per lo più da ciottoli, pietre, pezzetti di marmo o terracotta, paste vitree, smalti, ecc.) inseriti in uno

strato di

intonaco (v.) appositamente preparato; l'elemento base co-

stituente il M. — di forma varia: quadrata, rettangolare, ir-

regolare, ecc. — è detto con vocabolo latino tessera (v.). La voce M. — nell'italiano più antico ‘ musaico ‘ — è traduzione del latino medievale musaicus, probabile derivato dal greco Modo, termine corrispondente al latino Musa, termine «che indicava le grotte dedicate alle Muse, che adornavano i giardini romani» (DEI, 1968). La voce museum compare in Trebellio Pollione (uno degli ‘Scriptores Historiae Augustae‘, di età dioclezianea); musivum — da cui l'italiano ‘ musivo ‘, e ‘ arte musiva” è detta appunto l’arte del M. — si legge in S. Agostino (De civitate Dei, XVI, 8); inizialmente i termini dovevano riferirsi solo

alle decorazioni di volte e pareti; nell’Edictum de praetiis di Diocleziano (301) il musivarius era l'artefice che eseguiva M. parietali in pasta vitrea. Nell'antichità non esisteva in effetti un unico termine per indicare i diversi tipi di M.; così /ithostroton (v. Litostroto) designava un tipo di decorazione pavimentale a lastrine di pietre colorate di forma e dimensioni diverse, secondo alcuni identificabili con l'opus sectile (v. Opus); altre specie di decorazioni pavimentali erano: l’opus signinum (v. Opus), l’opus tessellatum (v. Opus), l’opus vermiculatum (v. Opus); crusta (v.) indicava invece per lo più una lastra di rivestimento parietale, ed era pertanto termine non strettamente pertinente dell’arte del mosaico. «I termini greci per la medesima arte, povcetov, povolwya, povostwotg, Épyov pepovompivov, povoaixby non sono che delle traduzioni dei termini latini che si rinvengono solamente assai tardi, per la maggior parte in epoca bizantina » (D. Levi, in EAA, V, 1963, p. 210). Nel volgare italiano è documentata dal sec. XIV la forma ’ musaico ‘; CENNINO CENNINI (fine sec. XIV) parla di «opera musaica » (una sorta di decorazione ad oro su vetro) e del «musaico di buccioli di penna, e di gusci d’uovo » (cap. CLXXII). G. VASARI (1568) nella /ntroduzione alle tre Arti tratta del M. ai capp. VI (M. pavimentale, |, pp. 88-90) e XXIX (M. in pasta vitrea, |, pp. 143-146); notizie e indicazioni tecniche relative a questo tipo di M. già in PLINIO

(23/24-79, XXXVI, 189) e in TEOFILO (sec. XII, lib. II, cap. XII). Della fortuna del termine ci dà conferma F. BALDINUCCI (1681), che registra ed esplica nel suo

Vocabolario oltre la

voce Musaico (« pittura la più durevole che si trovi... Lavorasi con alcuni pezzetti di vetro riquadrati, di colori diversi... Si commettono sopra stucco forte composto di misture diverse ») le varietà: ‘ Musaico di legname” per la quale rinvia a tarsia (v.); ‘ Musaico di rilievo” (« Componimento di vetri, pietre, e nicchi di varie sorte, col quale per lo più s'adornano grotte e fontane »); ‘ Musaico di vetri colorati’ (« Sorta di pittura che si fa, mettendo insieme vetri di più colori »); / Musaico rustico’ (« Usasi dagli Architetti per adornamento delle fontane di Giardini: ed

è un lavoro fatto di piccoli pezzi di colature

di mattoni

disfatti »). Il M. ha attratto l'interesse e l'ammirazione di diversi scrittori d’arte per la difficoltà dell'esecuzione, ma in specie per la sua incorruttibilità; scrive l'estroso poligrafo fioren-

tino A. F. DONI (1549): « È in se tanto mirabile arte, che infiniti fogli non basterebbono mirabile, che il continuo moto

a scriverne... O quanto è del caminar de gl'huomini non la guasta; ne teme ancho pioggia, ne grandine, ne alcuno ardor di Sole, o neve con altri diacci dell'inverno; et così inviolabilmente resta bellissima molte età, senza mai fare mutazione alcuna ne suoi colori, o oscurare o

chiarire di piu le sue ombre et lumi... cosa che non si vede in alcun’altro modo di dipingere » (pp. 22 v., 23 r.). Nel secolo XVII nota con ammirazione G. B. PASSERI (ca. 1678): « L'arteficio del lavoro di mosaico è mirabile, perché con l'applicazione di congiungere insieme tante piccole schiegge di materia impetrita, e tinte a forza di fuoco con ogni varietà di colori tanto prorij et effettivi quanto misti, e biffati con varietà di tinte è una operazione che ha dell’impossibile e, del miracoloso » (p. 164).

7 E ME Aria + IRÀCRIME i

(N

E,

tara, : 4

Mostro

;

n _ Sotto l'aspetto più propriamente tecnico riveste particolare importanza sia la scelta del materiale per le ‘ tessere’ che la preparazione della superficie destinata ad accoglierle;

331

DI

nell'età romana per il M. in pasta vitrea si procedeva stendendo sull’intonaco una sorta di mastice nel quale venivano inserite le ‘tessere’ (cfr. C. Dufour Bozzo, in TECNICHE, p. 368); in età bizantina — allorché l’arte del M. raggiunse i più alti risultati — sembra si procedesse in questo modo: «La parete destinata ad essere rivestita dal mosaico veniva ricoperta con tre strati di calce... Il primo strato era il più spesso

di tutti, in quanto destinato a servire di base e ad

uguagliare la parete. Le superfici del primo e del secondo strato non erano lisce, ma ruvide, in modo da favorire una migliore adesione dello strato finale... Lo spessore dell’intonaco in triplice strato varia dai 3,5 cm. ai 7,5 cm. Esso era costituito da calce mescolata con polvere di marmo o da mattoni e paglia. Il terzo strato, su cui venivano inserite le tessere, era naturalmente il più fine ed è spesso costituito da sola polvere di marmo e calce. Questo terzo strato, o letto delle tessere, veniva applicato in piccole sezioni,

man

singole esterno

‘sinopie’ o schizzi, che indicavano il contorno delle varie figurazioni... Di solito le tessere veni-

mano...

Il mosaicista

lavorava

seguendo

le

vano disposte in modo da seguire i contorni esterni, in fila semplice, duplice o triplice; poi si riempiva l'interno... Na-

turalmente le tessere erano scelte in funzione del loro colore, che determinava l’effetto del mosaico finito » (C. Dufour Bozzo, cit., pp. 369-370). [P.] Moschea (ar. masgid ‘luogo di preghiera ’). È l’edificio cultuale proprio della religione islamica, in rapporto con la forma della casa di Maometto a Medina, ed orientato sempre verso la Mecca. La M. nacque come ambiente destinato sia ad esigenze religiose (in particolare per la preghiera in comune) che civili (discussioni e decisioni interessanti la vita della comunità); solo in seguito si trasformò in specifico ed esclusivo edificio di culto. [P.]

Moscoforo (gr. pooyogépoc). Tema iconografico proprio dell'arte greca — analogo a quello del crioforo (v.) — consistente nella raffigurazione di un uomo che reca sulle spalle un vitello destinato al sacrificio. | più antichi esempi risalgono al sec. VII a. C., ed è probabile siano in rapporto con simili figurazioni orientali. Il più famoso esempio di M. in scultura è quello proveniente dall’Acropoli ateniese, databile al 570-560 a. C. Frequenti nelle età successive le raffigurazioni del M. e del crioforo in piccoli bronzi e monete; per una serie di essi si è supposto un collegamento con il culto ad Hermes crioforo di Tanagra. Il tema giunge attraverso

l’arte ellenistica

ripreso sotto forma

sino

di Buon

a quella

Pastore

romana,

(v.) dall'arte

e sarà

paleo-

cristiana; le diverse implicazioni che allora assume vanno però ricercate anche «nel significato di quelle rappresentazioni greche in cui il rapporto tra uomo e animale non

è quello di vittima e sacrificatore, ma di divinità o uomo e creatura protetta o compagna » (S. De Marinis, in EAA, V, 1963, p. 248). [P.] Mossa. La voce — come altre (moto, v.; movimento, v.; movenza, v.) di cui è in sostanza sinonimo — indica la capacità di un artista a realizzare figure in movimento, la sua volontà di suggerire il senso del-moto, ed esprimersi mediante immagini dinamiche. Compare più di frequente in autori dei secc. XVII e XVIII; di particolare efficacia l'uso che ne fa C. C. MALVASIA (1678, Il, p. 345), che nel carat-

terizzare retto,

l’arte di Michelangelo,

riferisce

al primo

di Raffaello

e del Tinto-

la «terribilità », al secondo

«la

giustezza », al terzo « le mosse ». La M. è di solito attributo della ‘figura’ (A. M. ZANETTI, 1771; B. ORSINI, 1784); e proprio lo Zanetti ci fornisce un esempio nel seguente passo sul Giudizio Universale di Michelangelo,di un efficace uso critico del vocabolo: « Il maggior pregio di quest'opera...

consiste nel gran maneggio dell'ombre e dei lumi, nelle mosse vivacissime, nuove, e difficili a risolversi delle figure» (p. 132). [P.] Mostra. Con M. — o ‘ esposizione ‘, termini usati sostanzialmente con lo stesso significato — si designa l’iniziativa di presentare opere d’arte mediante la loro sistemazione in ambienti cui il pubblico è ammesso liberamente o mediante il pagamento di una tassa. Le più antiche testimonianze di M. risalgono al sec. XVI, e sono in rapporto con l'attività di corporazioni (come quella dei pittori di Anversa, che dal 1540 organizzava annualmente una esposizione in piazza dei pittori associati) o con festività religiose (come a Roma, ove fin dal sec. XVI, ma con sicura continuità nel sec. XVII, si esponevano pitture nel Pantheon nel giorno di S. Giuseppe, e nel chiostro di S. Giovanni decollato il 29 agosto, giorno in cui ricorreva la festa del

Santo). Il carattere delle moderne M. dipende però strettamente dalla istituzione in Francia, sin dalla seconda metà del sec. XVIII, di esposizioni periodiche — i Sa/ons (v.) — dapprima

poste

sotto

il patrocinio

dello

Stato,

poi



dalla

fine del sec. XIX — affidate agli artisti stessi. Nel 1895 si inaugurava a Venezia la | Biennale veneziana, da ricordarsi come la prima esposizione artistica a partecipazione internazionale. La determinante funzione assunta agli inizi del sec. XX dai mercanti d’arte portò nuovi criteri e nuove tecniche espositive, collegate a precise esigenze di mercato; nei riguardi degli artisti contemporanei si vennero fissando due tipi fondamentali e ricorrenti di M.: quelle ’ personali‘, dedicate ad un artista singolo, quelle ‘ collettive’, comprendenti artisti diversi, per lo più operanti nell'ambito di un medesimo orientamento stilistico. Alle istituzioni pubbliche (sovraintendenze, musei, enti culturali, ecc.) è rimasto affidata prevalentemente la cura di M. storiche, dedicate a singoli artisti (M. monografiche) o a momenti dell’arte del passato; come anche l'allestimento di M. aventi oggetti particolari d'indagine (M. di restauri, di nuove

acquisizioni,

didattiche,

ecc.).

Un carattere

par-

ticolare ha la M. retrospettiva (v.), che avendo per scopo la esposizione di opere più antiche, accanto a quelle recenti, di un artista o di un movimento,

è pur sempre

una

mostra ‘ storica’ in rapporto però con l'attualità. L'importanza delle M. per gli studi storico-artistici è enorme ed ormai insostituibile: esse permettono agli studiosi di vedere riunite opere che altrimenti non potrebbero essere sottoposte ad un confronto diretto, rendendo così possibili chiarimenti, precisazioni, corrette attribuzioni; ed è in occasione di tali M. che si pubblicano cataloghi con schede illustrative e storico-critiche delle opere esposte, spesso tutte opportunamente presentate in riproduzioni fotografiche; sì che la consultazione di tali cataloghi è divenuta per il lavoro dello storico dell’arte elemento ricorrente ed indispensabile. [P.]

Mostro (lat. monstrum ‘prodigio, cosa non naturale’, ecc.). Nel linguaggio delle arti figurative M. indica dal sec. XVI la rappresentazione di un essere vivente (uomo od animale) sottoposto ad una violenta deformazione per fini diversi: nelle civiltà primitive i M. rispondono essenzialmente ad esigenze magico-religiose; in altre aree culturali si inseriscono in ricerche di tipo simbolico, o sono espressione di preferenze irrazionali e fantastiche. Il termine è ampiamente testimoniato da autori del sec. XVI

(G. A. GILIO, 1564; G. VASARI, 1568i G. PALEOTTI, 1582; ecc.).

L'orientamento degli autori che operano in clima controriformistico è quello di accettare la rappresentazione di M. allorché essa sia necessaria e conveniente alla ‘ storia‘; precise indicazioni sono date dal Paleotti (cap. XXXVI, Delle pitture mostruose e prodigiose), che distingue diversi tipi di M. (« Potendo quelli essere o dalla natura o dalla imaginazione, o tenere della qualità dell'uno e l’altro, o non

332

Motista

essere propriamente né l'uno né l'altro », p. 419); la sua posizione nei riguardi di questo genere di pittura è così definita: « Questi mostri della natura diciamo che si possono dipingere, però con occasione quando

ricerchi così il sog-

getto che s'ha per le mani; et allora non solo non averanno deformità, ma più tosto commendazione, per rappresentare la verità di quello che è stato » (p. 420). L'interesse per il ‘ mostruoso ‘ è particolarmente vivo nella critica del sec. XX; accanto a repertori (ad es., E. Valton, Les Monstres dans l'art, Parigi, 1905) si hanno una serie di studi e saggi che intendono spiegare ed interpretare il fenomeno; si veda a tal proposito la voce in EUA (IX, 1963, coll. 705-722), cui si rinvia anche per le indicazioni bibliografiche. [P.]

Motista.

Pittore

singolarmente

dotato

nell’esprimere,

vimento (v.); subito dopo il suo uso nel linguaggio della critica d'arte diviene più raro, per la decisa e definitiva affermazione di ‘movimento’, vocabolo — a differenza di M. — non di origine dotta. Mentre si rinvia a ‘ movimento ‘ per le definizioni e i problemi di origine generale, interessa notare come tra i secc. XVI e XVII M. sia spesso adoperato in un particolare riferimento, ossia in relazione agli effetti che negli atteggiamenti delle figure, in particolare sui volti, producono gli affetti (v.) e le passioni (v.); già LEONARDO (1452-1519) parla di «moti delle parti del volto » conseguenti agli « accidenti mentali » (ridere, piangere, gridare, cantare,

dimostrare

ammirazione,

ira, letizia,

malinconia,

paura, ecc.), n. 281; ne consegue che la figura «non sarà laudabile s’essa... non esprimerà coll’atto [ossia con il moto] la passione dell'animo suo» (n. 364). E ancora

sui volti delle figure rappresentate, i moti o passioni dell'animo. Il termine è adoperato da G. P. LOMAZZO (1584 e 1590), sia nel Trattato della pittura, sia nella /dea del Tempio della Pittura. Nel primo scritto, a proposito dei sentimenti collerici, si legge: « Ora quivi il diligente motista averà d'avvertire, tanto quanto conoscerà soprabondare in un corpo alcuno umore, di fargli fare i moti corrispondenti alla pas-

Leonardo distingue tra «moti mentali senza il moto del corpo» ed altri « col moto del corpo » (n. 366). Una complessa sistemazione delle varietà dei M. — inerenti alle

sione, secondo

indispensabile all'arte del pittore; gran parte del secondo libro del Trattato (1584, capp. IX-XXIII, pp. 113-163) è dedicata alla elencazione ed esplicazione delle diverse qualità

la conformità che tiene con l'istesso umore

che soprabonda» (Il, p. 105). Si consideri inoltre come, nel secondo scritto, l'autore esalta l'arte del pittore piemontese Bernardino Lanino chiamandolo «gran motista nelle faccie clementi » (I, p. 367). Lo studio dei moti, da parte dei pittori, nei trattati Iomazziani si spiega con la teoria dei temperamenti astrali «e le loro modificazioni in occasione degli accidenti » (cfr. R. P. CIARDI, 1973, p. LXVI).

Motivi complementari.

[G.]

Nel processo di trasforma-

zione da una concezione tattile ad una concezione ottica reperibile nell'arte tardo-romana, e quale conferma della evoluzione da una visione naturalistica a una visione astratta, A. RIEGL (1901) individua la funzione dei motivi da lui detti ’ complementari‘, o ‘ complementari negativi‘, o ‘ si/houettes’. | M. complementari — secondo la sua definizione — «non sono imitazioni di prodotti naturali o umani, ma prodotti spontanei dell'arte figurativa, nei quali i popoli romani dell'antichità riconoscevano soltanto ciò che per profonde ragioni desideravano scorgervi; e il fondo diviene anch'esso modulo, elemento attivo » (p. 207). In particolare il Riegl rileva la presenza di tali elementi nei lavori a traforo, nei quali la funzione dei M. complementari è esaltata dall'assenza di ogni intento rappresentativo, e l'evoluzione stilistica si presenta in tutta la sua logica coerenza. [P.]

Motivo.

Filosoficamente è stato definito: « La causa o

la condizione

di una

scelta,

cioè

di una

volizione

o di

un'azione » (N. ABBAGNANO, 1969). Anche nell'uso che del termine ha fatto il linguaggio della critica d'arte è impli-

cita la coscienza di una particolare scelta caratterizzante; in tal modo il M. è inteso quale elemento qualificante e ricorrente di un particolare stile figurativo. La voce compare fin dal sec. XVII nel senso indicato, come provano le seguenti citazioni da M. BOSCHINI (1660): « Ogni motivo e positura / Xe efeto d'artificio e de dotrina» (p. 52); «Acion, scurzi, motivi e positure / Stridi che sbigotisse anca le stele» (p. 457). In relazione alla ‘poetica’ del Futurismo (v.) è interessante la seguente notazione di A. SOFFICI (1920), che tende ad individuare proprio nel superamento del M. — tradizionalmente inteso quale elemento unificatore — il carattere della nuova arte: « Generalmente un’opera d’arte è sempre stata imbastita sopra un motivo (pittorico, letterario) che era una porzione del reale ritagliata nello spazio o nel tempo e inquadrata a sé. L'opera d'arte simultanea consisterà invece in un flusso di sensazioni, senza motivo unico, e senza quadro » (p. 85). [P.]

Moto (lat. motus). Fino alla seconda metà del sec. XIX la voce è frequentemente adoperata quale sinonimo di mo-

diverse ‘ disposizioni’ dell'animo — con categorie, divisioni e suddivisioni, rientranti in una struttura teologizzante di ascendenza neoplatonica, si ha negli scritti teorici di G. P. LOMAZZO (1584, 1590). Il M. è considerato elemento

di M., originati dalle varie ‘ affezioni’ (melanconia, timidità, malignità, avarizia, tardità, invidia, ansietà, fortezza, giustizia, ecc.); il Lomazzo si propone di chiarire con esempi

la « via poi e modo di dare questi moti secondo la diversità delle passioni e de gl’affetti che in vari tempi e varie occasioni possono muovere gl’animi» (II, p. 100). Nell'/dea (1590) chiarisce: « Or tutte queste specie di moti vengono a formare nella pittura il commovimento, il quale dai pittori è ancor chiamato furia e terribiltà dell’arte » (I, p. 302). Ed è lo stesso Lomazzo che conia la voce motista (v.), riferita appunto ad un pittore particolarmente versato nell'espressione dei moti. Un eco della sistemazione lomazziana si può avvertire nella seconda metà del sec. XVII in un passo di G. P. BELLORI (1672): « Deve insieme il Pittore ritenere nella mente gli esempi de gli affetti... nel modo che '| Poeta conserva l’Idea dell’iracondo, del timido, del mesto,

del lieto, e così del riso, e del pianto, del timore,

e dell’ardire. Li quali moti deono molto più restare impressi nell'animo dell'artefice con la continua contemplatione della natura » (p. 9). [P.]

Movenza.

La M. —

così come

il moto (v.), il movi-

mento (v.), la mossa (v.) — riguarda la realizzazione di una immagine dinamica, della quale si apprezza la resa formale; la voce — che risulta adoperata in particolare tra

i secc. XVI e XVIII (L. DOLCE, 1557; G. VASARI, 1568; G. MAN-

CINI,

1617/1621;

PIETRO

DA

CORTONA,

1652;

F. SCANNELLI,

1657; A. M. ZANETTI, 1771; ecc.) — è di solito accompagnata dall’indicazione di altre pregiate qualità; così L. Dolce dice che Michelangelo «è stato il primo che in questo secolo ha dimostrato a' pittori i bei dintorni, gli scorti, il rilievo, le movenzie » (p. 146); G. Mancini a proposito di B. Pacchiarotto nota: « Fu huomo gratiosissimo nelle teste, con buonissimo colorito, movenza, effetto e composition d'historia » (I, p. 193); per Pietro da Cortona, Masaccio fu il primo «che desse principio alle belle attitudini, et alle figure fierezza, vivacità, movenza, rilievo, e gratia naturale » (p. 217). La M. dunque è elemento di una più complessa serie di ‘ categorie’ compositive (scorci, rilievo, colorito, affetto, fierezza, vivacità, grazia) dalla cui sapiente unione deriva la validità dell'insieme. Meritano un cenno particolare gli avvertimenti relativi alle M. di L. Dolce; « queste movenzie — egli scrive — non debbono esser continue e in tutte le figure... ma bisogna temperarle, variarle et anco da parte lasciarle, secondo la diversità e condizion de’ soggetti» (p. 180). Osservazioni

che, riallacciandosi a precedenti albertiani e leonardeschi,

.

ni

Movimento

bene si inseriscono nel programma letterario-classicista dell’autore, sollecitato da un atteggiamento sostanzialmente antimanierista. [P.]

Movimento.

Voce di frequente uso dal sec. XV nel lin-

guaggio della critica d'arte, coesistente con altre affini: mossa (v.), moto (v.), movenza (v.), talvolta da intendersi quali sinonimi, ma usate anche in una accezione particolare; si noti che — a differenza delle altre — M. è voce di origine non dotta, di larga diffusione e di immediato riferimento. La notazione e l'apprezzamento della capacità di rappresentare il M. nelle opere d’arte si basano — nella interpretazione tradizionale, valida ed operante sino agli inizi del sec. XX — su di una concezione naturalisticomimetica dell’arte; F. MILIZIA (1797) chiarisce assai bene che il ‘moto’ «è un attributo essenziale a tutte le opere dell'Arte, che ha per oggetto l'imitazione della natura vivente ». Nel ‘moto ‘ è, a suo avviso, l'essenza stessa della vita; di necessità « qualunque produzione dell’arte ha da comparir viva, e in conseguenza ha d'’àver moto». Si tratta di convincimenti che risalgono alle ‘ poetiche’ primorinascimentali, allorché l'interesse degli artisti e dei trattatisti si rivolge in particolare al corpo umano, alle possibilità di rappresentare la sua articolazione nello spazio; la prima dichiarazione rinascimentale del significato del M. si ha in L. B. ALBERTI (1436); egli intende il M. del corpo capace di produrre «movimento d'animo», ossia partecipazione all’ ‘’ istoria ‘; ma poiché « questi movimenti d'animo si conoscono dai movimenti del corpo» (p. 70, n. 41), al pittore è necessario conoscere in che modo si realizzino figurativamente tali M.: « Così adunque conviene sieno ai pittori notissimi tutti i movimenti del corpo, quali bene impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo » (p. 72, n. 42). Il suo ideale figurativo è per una composizione armonica e misurata, per M. ‘convenienti’: « E conviensi alla pittura avere movimenti soavi e grati, convenienti a quello ivi si facci. Siano alle vergini movimenti e posari ariosi, pieni di semplicità... Siano i movimenti ai garzonetti leggieri, iocondi... Sia nell'uomo movimenti con più fermezza ornati con belli posari e artificiosi. Sia ad i vecchi loro movimenti e posari stracchi » (p. 78, n. 44). L'interesse di LEONARDO (1452-1519) per il corpo umano appare al confronto più analitico, e si esplica anche in una precisa indagine sulla natura e le implicazioni del M.; egli distingue tra “moti semplici’ e ‘moti composti‘ (nn. 276, 277), moto locale’ e ’ moto azionale‘, ed elabora la nozione di “moto mentale’: « Il moto men-

tale muove

il corpo con atti semplici e facili, non in qua

né in là, perché il suo obietto è nella mente, la quale non muove i sensi, quando in se medesima è occupata » (n. 367).

Presso trattatisti e scrittori d'arte del sec. XVI la nozione di M. e l'uso del termine (ma più spesso si adoperano “moto ‘’e “movenza/) ricorrono frequentemente; si segnalano le notazioni di V. DANTI (1567), per il quale il M. è uno degli elementi necessari alla conoscenza delle ’ perfette proporzioni‘ del corpo umano, conoscenza che si realizza mediante l'indagine anatomica: « Chi vuol sapere che cosa

383

onde i pittori lo sogliono dimandare ora furia, ora grazia et ora eccellenza dell’arte » (II, p. 97). Le complesse elaborazioni del sec. XVI non hanno un seguito nelle età successive: la nozione di M. — riferita al corpo umano diviene sempre più di uso comune; qualche esempio: G. P, BELLORI (1672) scrive del Domenichino: « Si affaticava inoltre nelle proportioni e moti delle membra, adattandole alle passioni dell'animo» (p. 315); G. B. PASSERI (ca. 1678) descrivendo l'Annunciazione di F. Mochi per il Duomo di Orvieto: « Si portò a gran segno bene in quelle due figure assai spi-

ritose nel moto » (p. 131); B. DE DOMINICI

(1742/1743) par-

lando della Vergine di Costantinopoli in S. Lorenzo di Napoli attribuita a Colantonio e di altre pitture, nota: « A me pare, che più tosto fossero ritoccate, per la consimil maniera

di moti

di figure,

di

arie

di volti»

(I, p. 205).

B. ORSINI (1784) parla di «movimenti concertati delle figure » (p. 214), «movimento delle pieghe dei panneggiamenti, qualificato come ‘’ esprimente ‘ » (p. 9). La fiducia nel M. è espressa in termini assai espliciti ancora nella prima metà del sec. XIX da J. -A. -D., INGRES (1780-1867): « Trac-

ciando

una figura, proponetevi

prima di tutto di determi-

narne, di ben caratterizzarne il movimento. Non ve lo ripeterò mai abbastanza: il movimento è la vita » (p. 79). In epoca

più recente B. BERENSON (1948) fa coincidere il M. con la qualità, ed entrambi con lo stile. Egli osserva: « Un disegno corretto può essere un’opera preziosa, piena dell’informazione desiderata circa l'oggetto riprodotto, ma rimane un mero

diagramma

se non

ha movimento.

Quando

ha movi-

mento possiamo anche affermare che possiede qualità e stile» (p. 114). Si tratta di convincimenti e considerazioni

che si collocano ancora nella linea delle tradizionali sistemazioni di ascendenza rinascimentale. La rivoluzione figurativa attuata dai movimenti cosiddetti d'avanguardia (v.) del primo Novecento si realizza invece in termini di una rinnovata e diversa coscienza delle implicazioni relative al M.: « Nelle arti l'influsso del concetto di tempo ha creato l'esigenza di reperire nuove dimensioni precisando la necessità di esprimere e descrivere stati d’animo dovuti a rappresentazioni cinetiche e dissociando in modo sempre più progressivo l'uomo dai suoi normali ritmi cronologici e fisiologici in favore dell'adesione al tempo tecnologico

e meccanico tipico della civiltà industriale » (S. Petruccioli, in DAU, IV, 1969, p. 153). Risalgono a tali premesse: l'interpretazione cubista (v. Cubismo), che si realizza mediante una dinamica virtuale delleimmagini nell’atto del loro ‘ scomporsi’, per collocarsi oltre la dimensione classica tridimensionale; la teorizzazione del dinamismo (v.) futurista (v. Futurismo) e le varie discussioni connesse sul M. (v., ad es., in U. BOCCIONI, 1914, pp. 145-148), la distinzione tra ‘moto assoluto’ e ‘moto relativo ‘); il costituirsi e il diffondersi di vere e proprie correnti artistiche — dette ’ cinetiche’ — che si basano sull’utilizzazione programmatica del M. (reale o virtuale), inteso quale fatto primario dell'esperienza artistica (v. Arte cinetica). Collegato a tali esperienze è l'interesse che la critica contemporanea rivela per il problema del M., particolarmente evidente in quei

sia il moto de’ membri, bisogna che prima sappia quello che sono i nervi, per esser quelli ministri del movimento »

settori che si richiamano alle teorie della Gestalt (v. Psicologia della forma). Osserva R. ARNHEIM (1954) che «il movimento potrà servire a rafforzare grandemente l’imme-

(p. 232). Da A. CONDIVI (1553) sappiamo dell’intendimento di Michelangelo di «far un’opera, che tratti di tutte le maniere de’ moti umani e apparenze, e dell'ossa, con una

diata espressività dell’arte ‘astratta’, senza la quale le diverse combinazioni di forma rimangono soltanto un divertimento per lo sguardo» (p. 324).

ingegnosa teorica, per lungo uso da lui ritrovata » (p. 76). L. DOLCE (1557) considera le ‘“movenze” parte della pittura

Il termine è peraltro largamente usato dalla critica d'arte dalla seconda metà del sec. XIX in una particolare accezione: come altri quali corrente (v.), tendenza (v.), con i quali ha anche affinità di significato, è tratto dall’attualità del linguaggio politico; con M. si intende infatti designare un indirizzo artistico contemporaneo caratterizzato dalla rispondenza ad una precisa ideologia; si tratta dunque di fenomeno non collegato a delimitazioni geografiche e non direttamente in rapporto con l’attività di un maestro (superandosi così il concetto di scuola, v.); al costituirsi di un

«necessarissima et aggradevole e di stupore», perché «fa stupir gli occhi de’ riguardanti, vedere in sasso, in tela o in legno una cosa inanimata, che par che si mova» (p. 180); e si impegna a fornire una serie di avvertimenti e prescrizioni (v. alla voce Movenza). Più complesse le elaborazioni di G. P. LOMAZZO (1584), che ritiene il ‘ moto” (alla cui voce si rinvia) essenziale all'arte della pittura: «In questo appunto consiste lo spirito e la vita dell'arte,

334

Movimento italiano per l'architettura razionale

M. presiede di solito una dichiarazione di poetica quale si esprime nella pubblicazione di un manifesto

(v.), (v.);

come si verifica, ad es., nel nel Surrealismo (v.), nel che implicito nel termine mento ‘in avanti’, ad un

Dadaismo (v.), nel Futurismo (v.), Vorticismo (v.), ecc. Da notarsi è l'aspirazione ad uno spostaprogresso, ad un superamento delle precedenti posizioni; sì che spesso il concetto di M. viene a coincidere con quello di avanguardia (v.). [P.]

Movimento italiano per l'architettura zionale. V. M.I.A.R. Movimento

per l’arte concreta.

Mozarabico,

Stile. Dalla denominazione

ra-

V. M.A.C. ‘Mozarabi’

(ar. musta'ribah ‘straniero arabizzato’) con la quale venivano indicati i cristiani spagnuoli sotto la dominazione araba, deriva il termine M., riferito allo stile artistico — in particolare architettonico — fiorito in Ispagna tra i secc. IX ed XI. Esso è caratterizzato

dall'incontro, non sempre

coe-

rente, di forme occidentali con elementi del gusto artistico musulmano (v. Musulmana, Arte) quale peraltro si era già affermato nella penisola iberica nella così detta produzione ispano-musulmana (v. Ispano-musulmano, Stile). [P.]

Mudéjar. Voce araba — corrispondente nel significato originario a vassallo — adoperata nel linguaggio della critica d'arte per designare uno stile svoltosi nella penisola iberica tra i secc. XII e XV; così come riferito agli uomini «il nome sta a designare i musulmani rimasti in terra cristiana dopo la Riconquista », per quanto riguarda l'arte

« sta ad indicare quelle opere che riprendono la tradizione musulmana realizzate da musulmani o da artisti formatisi alla loro scuola » (G. Margais, in EUA, IX, 1963, col. 671). Come tale il M. accoglie anche influenze occidentali (in particolare gotiche), ma si afferma in esso precipuamente la persistenza del gusto islamico; che continua ad essere operante — in specie nelle cosiddette ‘ arti minori‘ e nell’artigianato — anche oltre i limiti di tempo indicati, giungendo sino ai secc. XVIII-XIX. Tra le opere più significative appartenenti allo stile M. si ricordano: la Cappella di S. Fernando a Cordova (1258), l'Alcazar di Siviglia, iniziato da Pietro | di Castiglia (1350-69), le Sinagoghe di Toledo (secc. XIII-XIV), poi trasformate nelle chiese di S. Maria la Blanca e de El Transito. [P.]

Multiplo.

Nella moderna terminologia artistica M. in-

dica un'opera realizzata da un'unica matrice in più esemplari, ciascuno dei quali è considerato un originale (si parla perciò anche di ‘ originale multiplo ‘, definizione usata per primo dal pittore Fautrier). « Gli scopi dell’arte dei mu/tipli (multiple-art) sono affini a quelli dello industrial design che produce su scala industriale oggetti d'uso esteticamente

qualificati, differendone

per il fatto che l'oggetto d'arte moltiplicata non ha una destinazione utilitaria » (B. SANI, 1971). [P.]

Mummia. Mura.

V. Colori.

V. Muro.

Muraglia, Murale.

Muraglione. V. Muro. Voce spagnuola designante un tipo di pittura

eseguito sul muro con mezzi analoghi ma anche diversi dalla tradizionale pittura ad affresco (v.). Il M. nasce infatti nel clima della rivoluzione popolare messicana dei primi decenni del Novecento e si origina dalla necessità di realizzare procedimenti rapidi di pittura su ampie superfici murarie al fine di utilizzare l'arte come mezzo di lotta politica e di emancipazione delle masse incolte. Nascono così i

primi ‘ murales ‘ di D. Rivera, |. C. Orozco, D. A; Siquieros, realizzati talvolta con la pistola ad aria compressa, e in cui le figure venivano tracciate mediante l'ausilio di mascherine. In ogni caso il termine, così come gli altri: ‘ mura» lista’ — per indicare colui che si dedica a questo tipo di pittura — ‘movimento muralista’, pintura mural‘, si diffondono rapidamente nell'area linguistica spagnuola e divengono presto correnti (si v. ad es., il loro largo uso in L, CARDOZA Y ARAGON, 1940). Più ampia circolazione hanno poi avuto nel linguaggio internazionale dopo che la tecnica del M. è stata ripresa in Cile, durante gli anni del governo Allende, da consistenti gruppi di propagandisti delle posizioni politiche progressiste, che si diedero a dipingere, anche con nuovi mezzi (ad es., la bombola spray) le pareti di fabbriche e di case dei quartieri popolari. È sotto questa spinta che il M. — anche in altri paesi — acquista un più deciso ruolo di mezzo di denuncia sociale e propaganda politica. Nascono così gruppi che operano specificamente in questo indirizzo di ricerca; alcuni con una precisa orga-

nizzazione come il ‘ Centro di arte pubblica popolare‘ di Fiano Romano (e si v. il volume a cura di D. Carpitella e M. De Micheli, / Murali del Centro di arte pubblica popolare, Cosenza, 1976), altri a livello di’ partecipazione spontanea ‘ (e si v. il fascicolo ‘ La Biennale 1976‘, a cura di E. Crispolti, in partic. alle pp. 24, 25, 27, 29); sino all’intepretazione da parte della critica — in chiave prevalentemente sociologica



del fenomeno

delle

‘scritte

murali’

(G. CUTILLI,

R, FILIPPI, R. PETRUCCI, 1974).

[P.]

Murare. Innalzare un muro (v.); F. Baldinucci esplica: «Commettere insieme sassi e mattoni con la calcina per far muri o edifizj ». Risultato del M. è la ‘ muratura ‘; “ muratore’ (documentato dal sec. X) è l’artigiano che esegue opere murarie. [P.] Muraria, Arte. Espressione con la quale si indica l'insieme delle tecniche e dei sistemi adoperati per la costruzione di muri (v. Muro). Per le diverse tipologie usate nell'antichità v. Opus. [P.]

Mureo.

V. Colori.

Muricciolo. Murino.

V. Muro.

V. Colori.

Muro. Corrisponde al latino murus o paries, ed è voce usata fin dal sec. XIV per designare « quella parte della fabbrica che è composta di sassi o mattoni, commessi con calcina l'un sopra l’altro ordinatamente » (F. BALDINUCCI, 1681). Come tale il M. ha interessato la trattatistica architettonica

BERTI, cazioni

ante

(cfr., ad es., l'ampia trattazione

1452,

di L. B. AL-

cap. X). Si tratta in ogni caso

eminentemente

tecniche,

anche

di indi-

in relazione

alle

diverse tipologie; per queste si possono utilmente consultare opere enciclopediche, quali il Dizionario di A. C. QUATREMÈRE DE QUINCY (1755-1849) e il Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica (IV, 1969); ove M. C. Vergara Caffarelli fornisce questa precisa definizione di M.: « Struttura composta da elementi di materiale inerte e resistente, riuniti organicamente in modo da costituire un unico in-

sieme costruttivo in genere caratterizzato dall'avere le due dimensioni rispetto al piano verticale prevalenti sullo spessore»

(p. 160).

Diminutivo di M. è ‘ muricciolo ‘, voce con la quale si indica un muro basso, frequentemente adoperato come elemento di recinzione. Con ‘ muraglia‘ o ‘ muraglione’ ci si riferisce ad un M. di grandi proporzioni (fortificazioni, dighe, argini, ecc.). Con la forma ‘mura’ (pl. collettivo) infine si indica l'insieme delle fortificazioni — costituite appunto da una

cinta muraria



che circondano

apprestato a difesa, ecc.

una

città, un

luogo

[P.]

Museo n *

Murrini, Vasi. Sono così denominati vasi o tazze, usati dagli antichi per bevande calde, ricavati per taglio in una pietra semipreziosa, la murrha, che corrisponde probabilmente ad una qualità di onice rossa. Poiché i primi esemplari sembra siano giunti a Roma con il tesoro di Mitridate, si ritiene trattarsi di prodotti di origine asiatica. «| vasi, detti murrini, erano di due tipi: veri, tagliati nella pietra dura... e imitati o falsi in pasta vitrea» (DAAC, 1971).

Musaeum.

[P.]

V. Ninfeo.

Muscoleggiare. Conformare e accomodare tura muscolare

di una figura. F. BALDINUCCI

la strut-

(1681) scrive

semplicemente: « Muscoleggiare. Termine di pittura e scultura, e vale far muscoli». L'esagerazione ridicola nella raffigurazione della muscolatura, si legge descritta dallo stesso Baldinucci alla voce Muscoli alla moda (v.). Un tale anticlassico virtuosismo era già stato riprovato da L. DOLCE

(1557); il quale, anziché M. adopera il verbo ‘ muscolare ‘. Vi sono pittori infatti che «musco/ando » le figure «e ricercandole di soverchio e fuor di luogo, si danno a credere di essere in disegno Michelagnoli, ove essi vengono dilegiati per goffi da coloro che hanno giudicio» (p. 178). Nel sec. XVIII, F. ALGAROTTI (1762) nel Saggio sopra /a Pittura descrive ancora il metodo di «muscoleggiare una fìgura », da parte dei pittori, dopo averne disegnato lo scheletro, per infine «trovar le pieghe con più verità » (p. 89). Muscoli.

A partire dal sec.

XV, nella letteratura

[G.]

arti-

stica, viene considerata indispensabile alla educazione di un pittore o scultore, la notizia o scienza anatomica, ossia

lo studio dei M. e dei nervi, nella positura delle membra del corpo umano. Ma il rapporto dei M. hella struttura della figura umana, dai massimi teorici dell’arte è classicisticamente relativo alla coerenza, o « convenevolezza ». Si tratta,

in altri termini, di un rapporto in cui va osservata l'età, movimento, sforzo delle membra, nella figura rappresentata.

Il motivo è già esplicito in L. B. ALBERTI (1436): « Truovasi chi esprimendo movimenti troppo arditi, e in una medesima figura facendo che ad un tratto si vede il petto e le reni, cosa impossibile e non condicente, credono

essere

lodati,

perché odono quelle immagini molto parer vive quali molto gettino ogni suo membro » (p. 76, n. 44). E LEONARDO (14521519), nel Trattato della pittura, raccomanda: « Non voler fare evidenti tutt'i muscoli alle tue figure, perché ancora ch’essi sieno ai loro siti, e' non si fanno di grande evidenza,

se le membra dov'essi son situati non sono in grande forza o fatica, e le membra che restano senza esercizio siano senza dimostrazione di muscoli» (n. 331). Un medesimo atteggiamento di gusto classicista esprime, in Venezia, L. DOLCE (1557): « Chi adunque va ricercando minutamente i muscoli, cerca ben di mostrar l’ossature a’ luoghi loro, il che è lodevole, ma spesse volte fa l'uomo scorticato o secco o brutto da vedere; ma chi fa il delicato, accenna gli ossi ove bisogna, ma gli ricopre dolcemente di carne e riempie il nudo di grazia» (p. 178). Successivamente G. VASARI (1568) si limita accademicamente a suggerire a

335

in fatto di muscoleggiare (v.) le figure, era peraltro consapevole dei pericoli dell'esagerato michelangiolismo di tanti pittori veneziani. Comunque, la massima classicista « dello star sempre attento à ciò che vien prodotto di bello dalla Natura », sarebbe stata osservata dal Tintoretto, che «in questo proposito soleva dire in sua vita, che la Natura fù sempre l'istessa, e che perciò non devesi variare, ed in particolare, i muscoli alla moda» (pp. 202, 203). La massima dello Scaramuccia ebbe successo, come informa F. BALDINUCCI (1681): « Muscoli alla moda: termine molto espressivo, et usato assai dal Tintoretto... divenuto poi detto familiare de’ nostri Artefici per dispregio di coloro, che non considerando, come la Natura è sempre la stessa, ardiscono muscoleggiare le lor figure più a seconda d'un certo lor nuovo gusto e capriccio, che secondo quello ne dimostra essa Natura ». [G.]

Museo. Dal greco uovociov (lat. museum), luogo sacro alle Muse, e nell'antichità nome di un famoso edificio costruito da Tolomeo Il Filadelfo ad Alessandria d’Egitto nel Ill sec. a. C.: si trattava di una sorta di istituzione culturale, nella quale erano custoditi volumi, manoscritti, statue, og-

getti di varia curiosità. Come voce dotta il termine compare nella prima metà del sec. XVI, adoperato da umanisti e letterati per indicare una raccolta, una collezione antiquaria, una compilazione di carattere generale per lo più

illustrata da tavole esplicative. Tra i primi esempi dell’uso di M. nel senso di raccolta di opere d’arte può indicarsi la denominazione data da P. Giovio al suo palazzo sul Lago di Como, nel quale aveva sistemato una collezione di ritratti di uomini illustri, da lui stesso illustrata (E/ogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Museo loviano Comi spectantur, Venezia, 1546; trad. in it. dall'Orio: Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli Huomini famosi. Le quali a Como ne Museo del Giovio si veggiono. Tradotte di latino in volgare da Hippolito Orio Ferrarese, Fi-

renze, 1551). Ma le più antiche descrizioni del palazzo sono in due lettere di A. F. Doni a L. Domenichi (17 luglio 1543) e ad A. Landi (20 luglio 1543): « Il reverendissimo Giovio in un bel sito sopra del lago s'ha eletto fabricare un Museo, così da lui chiamato, in sì leggiadro luogo che gli pare che la dilettazione l'abbia formato con le sue mani» (rip. in M. PEPE, 1970, pp. 96-100; il passo cit. a p. 98). In questo senso è ancora in C. SORTE (1580): « Messer Bernardino India... come saggio e gentilissimo pittore... i veri ritratti de’ prencipi e degli uomini più segnalati nelle scienze e

nelle arti liberali di tutti i tempi va raccogliendo e se ne fa a sua posta un bellissimo museo» (p. 278). Alla fine del sec. XVI la voce va acquistando il senso di luogo destinato alla conservazione di opere d'arte: « Ha dunque questo gran re [Filippo di Spagna], oltre il suo museo celebratissimo per l’opere di pittura e scultura, gioie, libri et arme in tanta copia, che solamente a mirarli la mente nostra si confonde » (G. P. LOMAZZO, 1590, |, p. 359). Ma con citazioni erudite ed archeologizzanti M. poteva essere ancora riferito ad un luogo — come l'antico edificio di Alessandria — inteso come centro di insegnamento e di ‘ cultura ‘: « | luoghi

pittore di « aver veduto degli uomini scorticati, per sapere

ove studiano

come

secondo Polibio, che in Olimpo monte Filostrato racconta che fu un tempio,

stanno

l'ossa sotto et i muscoli et i nervi, con tutti

gli ordini e termini della notomia, per potere sicurtà e più rettamente situare le membra porre i muscoli nelle figure » (/ntroduzione al I, p. 120). La voce Muscolo, nel Vocabolario NUCCI (1681), è un catalogo dei M. ad uso

Muscoli

alla moda.

Rappresentazione

con maggior nell'uomo e Della Pittura, di F. BALDIdegli artisti,

[6.]

irrealistica

e capricciosa dei muscoli nelle figure in movimento. Nelle Massime ovvero ricordi, in appendice a' Le finezze de' pennelli italiani, L. SCARAMUCCIA (1674) attribuisce questa espressione intesa nel senso di ridicola ostentazione di bravura (di gusto evidentemente manieristico), stranamente

al Tintoretto. Il quale, pur essendo un formidabile virtuoso

si dicono anch'essi Musei, e Stefano

recita,

ci fu un museo, e detto Museo, ove

furon adorate le Muse e dieder responsi » (G. P. LOMAZZO, 1591, Il, p. 607). Si trattava peraltro di una utilizzazione del termine assai limitata ed in rapido disuso: il senso che M. stabilmente ha assunto è ormai quello di luogo destinato alla conservazione di opere d'arte; e come tale è spesso inteso quale sinonimo di galleria (v.); è da avvertirsi però che M. ha una accezione più vasta, confermata dalla corrente distinzione dei M. in diverse categorie: archeologici, di arte moderna, di arte antica, di scienze naturali, della tecnica, etnografici, ecc. S'intende che la finalità dei M. è profondamente mutata nel tempo: sorti come raccolte di raffinati ed eruditi colle-

‘336

Museografia

zionisti essi hanno acquistato una prevalente funzione pubblica e sociale; l'orientamento prevalente della età contemporanea è quello di considerare il M. non come il luogo destinato alla conservazione delle opere d'arte, ma come

un centro di operante cultura, sede di esposizioni, conferenze, proiezioni di film e dibattiti, ed al quale dovrebbero essere annessi centri di studio e di documentazione, biblioteche e fototeche: « istituzione destinata a promuovere

una educazione individuale e sociale... accessibile e comprensibile alla collettività intesa nel senso più ampio e completo » (Z. O. ALGARDI, 1973/1974, p. 57). In questo senso si parla talvolta di M. ‘vivo’, anche come risposta alle

negazioni del M. pronunciate nel nostro secolo; come quando nel Manifesto del Futurismo (1909) si proclamava: « Noi vogliamo distruggere i musei... Musei: cimiteril... Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti!» (in ARCH. FUT., I, 1958, pp. 17-18).

La coscienza di una specifica funzione pubblica e sociale del M. ha condotto alla costituzione di settori specializzati di ricerca e di indagine relativi al complesso di problemi inerenti alla progettazione, manutenzione, utilizzazione, ecc., dell'istituzione, definiti con i termini di museografia e mu-

seologia (v.).

[P.]

Museografia

e Museologia.

Da museo

(v.) de-

rivano queste due voci di conio recente, affini ma di significato sostanzialmente diverso. ‘ Museografia’ è propriamente la scienza che si occupa della costruzione, della attrezzatura, dell'ordinamento e di tutti gli impianti necessari all'istituzione e alla manutenzione del museo; come

tale tende a risolvere problemi sostanzialmente tecnici e di struttura. La ‘ museologia’ — e si tratta di termine ancor più recente dell'altro — designa l'insieme delle ricerche e degli studi che hanno per oggetto il museo in rapporto alla sua funzione sociale, quale strumento di diffusione della cultura artistica, in relazione alla sua specifica natura e ai compiti che si intende attribuirgli. Secondo C. L. RAGGHIANTI (1974) la ‘ museologia’ non è da intendersi solo « disciplina speciale o professionale dedicata ai problemi tecnici e funzionali dei musei », ma « strumento di ricerca, di attività e di educazione

critica », una

sorta

di « critica

in azione » (p. VII). Nell'ambito degli interessi connessi a queste scienze sono sorte istituzioni ed associazioni (American Association of Museums, Associazione Nazionale dei Musei Italiani, In-

ternational Council of Museum - ICOM, ecc.), si sono promossi convegni, curate le pubblicazioni di bollettini e riviste

(Museologia,

Firenze;

Museum,

Parigi;

Museums

Journal, Londra; Museumskunde, Berlino; Musei e Gallerie d’Arte in Italia, Roma, Min. P. lI.; ecc.). [P.]

Museo

immaginario.

Espressione del critico fran-

cese A. MALRAUX (1957), da lui riferita al complesso di elementi forniti dalle riproduzioni fotografiche di opere d'arte, che costituiscono appunto — nei confronti dei musei ‘ reali” necessariamente incompleti — un M. immaginario: « Oggi,

uno

studioso

dispone

della riproduzione

a colori

della maggior parte delle opere magistrali, scopre numerose pitture secondarie, le arti arcaiche... ora noi disponiamo, per supplire ai mancamenti della nostra memoria, di un

numero d’opere significative maggiore di quante ne possa contenere il massimo museo. S'è aperto infatti un museo immaginario, che spingerà all'estremo l’incompleto confronto imposto dai vari musei: rispondendo all'appello di questi, le arti figurative hanno inventato la loro stamperia » (p. 12). [P.] Musica. Tradizionale è il legame istituito tra ia M., la poesia, l'architettura e la pittura. Il rapporto è stato particolarmente rivalutato dalle poetiche cinquecentesche. Ma, intanto,

conviene

ricordare come

VITRUVIO

(ante 27 a. C.),

e Museologia nel De Architectura, avesse introdotto il quesito della relazione tra M. e architettura, sia dal lato della educazione stessa dell’architetto (« Convien poi che sappia la musica per conoscere il valor numerico dei suoni e la loro matematica, e per poter bene eseguire gli accordi delle balliste, catapulte e scorpioni», |, I, 8); sia dal lato dei problemi inerenti alla acustica di talune costruzioni, come i gradini della cavea dei teatri, le macchine idrauliche o altri strumenti (« Parimente nei teatri i vasi bronzei si collocano nelle loro cellette sotto i gradini secondo un calcolo matematico in relazione agli intervalli dei suoni... si accordano colle sinfonie e cori musicali, distribuendosi nella cavea secondo i suoni di quarta quinta e ottava fino alla doppia ottava, in modo che la voce dell’azione, armonizzando di tonalità col sistema dei vasi, li urta e dalla risonanza prende incremento, giungendo agli orecchi degli spettatori più chiara e più dolce. E anche le macchine idrauliche e tutti gli altri strumenti consimili, nessuno potrà costruirli senza la ragione musicale », I, I, 9). Lo studio della musica ratio, di ascendenza

vitruviana, in rapporto alla architettura, si sviluppa successivamente nel clima umanistico della trattatistica o della cultura del secolo XV. L'armonia (v.) delle proporzioni ha infatti un valore numerico-musicale, che in qualche modo identifica architettura e M., come dimostra il brano di una lettera di Leon Battista Alberti (1400-1472) relativo al Tempio Malatestiano

di Rimini.

Scrivendo

allo

scultore-architetto

Matteo

de'

Pasti, incaricato di tradurre e interpretare i suoi progetti, l’Alberti si preoccupa di armonizzare le larghezze ed altezze

delle cappelle della vecchia chiesa di San Francesco, con i pilastri da lui ideati: « Quanto al fatto de li pilastri nel mio modello» — gli raccomanda — «ràmentati ch'io ti dissi, questa faccia chonvien che sia opera da per se, perché queste larghezze et altezze delle Chapelle mi perturbano... Le misure et proportioni de’ pilastri tu vedi onde elle nascono: ciò, che tu muti, si discorda tutta quella musica» (Lettera del novembre 1454 [?], in C. Ricci, // Tempio Malatestiano, Milano-Roma, s. a., p. 587; ora anche in C. Grayson, L. B. Alberti, Opere, Ill, 1973, p. 292). In riferimento alla pittura, il concetto di M. come arte liberale affine alla prima, si intreccia ad altri concetti simi-

lari, quali quelli di accordo (v.), unione (v.), proporzione (v.) e soprattutto armonia (v.). Il motivo controverso del rapporto tra M. e pittura (quello delle « Arti sorelle »), procede con gli altri ricorsi celebri: quelli della distinzione tra le diverse arti, e della « maggioranza » fra di esse. Importante

è, in questo

senso,

quanto

dice LEONARDO

(1452-1519),

nel Trattato della pittura: « La musica non è da essere chiamata altro che sorella della pittura, ...[perché] compone armonia con la congiunzione delle sue parti proporzionali » (n. 25). E subito dopo aver introdotto il legame tra M., pittura, armonia, proporzione, Leonardo non esita a preporre la pittura alle altre arti: « Ma la pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non muore immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica » (n. 25). Questa ragione prodotta da Leonardo per affermare la superiorità della pittura sulla M., in base alla durata, è senza

dubbio

ingenua. E altrettanto sembra esserlo l’altra: della superiorità del senso della vista rispetto all'udito: «La pittura satisfattrice al senso del vedere è più nobile della musica che solo satisfa all’udito » (n. 27). Ma introducendo il motivo della superiorità del pittore, nei confronti del poeta e del musico, Leonardo intuisce quel principio dell'anacronismo (v.), che distingue il modo di procedere del pittore, nella raffigurazione delle cose, diversamente dal poeta; e che sarà fondamentale per definire le arti dello spazio dalle arti del tempo: dal Mancini al Bellori, dal Du Bos al Lessing.

Si legga infatti: «Tal differenza è in quanto alla figurazione delle cose corporee dal pittore al poeta, quant'è dai corpi smembrati agli uniti, perché il poeta, nel descrivere la bellezza e bruttezza di qualunque corpo, te lo dimostra a membro a membro, ed in diversi tempi, ed il pittore

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Movimento

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GU

*

A

Pra, n

PR) | £

1, LEONARDO DA VINCI, Note e schizzi sul movimento umano (Windsor, Royal Library, ms. 19038 verso [B. 21]); 2, Studi sul movimento umano. Incisioni di PIERRE AVELINE su disegni humaine, Parigi, 1773).

di PIETER

PAUL

RUBENS

(ID., Théorie

de /a figure

Natura GIOVAN

morta BATTISTA

RUOPPOLO,

Natura

morta

(Stoccolma,

Nationalmuseum).

Natura , EVARISTO

morta

BASCHENIS,

Stru-

enti musicali (Milano, Pinaoteca di Brera); 2, GEORGES 3RAQUE, Natura morta con uva

Washington, Phillips Gallery).

TATA

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TN

OR = A SII Va

n

e

rn

Nazareni 1, JOSEPH ANTON KOCH, Veduta di Roma dal monastero anni di carestia (Berlino, Nationalgalerie).

di Sant'Isidoro (Stoccarda,

Staatsgalerie);

2, FRIEDRICH

OVERBECK,

Sette

Mutamento

tel fa vedere tutto in un tempo. Il poeta non può porre colle parole la vera figura delle membra di che si compone un tutto, come il pittore, il quale tel pone innanzi con quella verità ch'è possibile in natura... Il poeta resta, in quanto alla figurazione delle cose corporee, molto indietro al pittore, e delle (n. 28).

cose

invisibili

rimane

indietro

al musico»

La distinzione e, insieme, il rapporto tra la M. e la pittura, nella trattatistica controriformista della seconda metà del sec. XVI; e successivamente, nell'età barocca, fino al neoclassicismo, si basa prevalentemente sul concetto di ar-

monia (v.). Artisti quali Leonardo, Michelangelo e Gaudenzio Ferrari « pervennero alla cognizione della proporzione armonica per via della musica e con la considerazione della fabrica del corpo nostro; il quale anch'egli con musico concento è fabricato » (I, p. 343), scrive G. P. LOMAZZO (1590) nella sua /dea del tempio della pittura. Più complicato è il ragionamento di G. COMANINI (1591), nel suo dialogo inti' tolato il Figino. Premesso che la sesta parte della tragedia,

l'armonia, non appartiene né alla facoltà poetica né alla pittura, bensì alla M., nondimeno — aggiunge il Comanini (p. 368) — « così la pittura s'accosta alla musica, come per aventura la poesia fa ». L'esempio dimostrativo di questo accostamento tra M. e pittura è rappresentato dalle strane nature morte con sembianze umane, opera del singolare Arcimboldi; il quale, in questi suoi dipinti, assimila la « virtù fantastica » propria del poeta, alla « virtù icastica » più con-

geniale al pittore. In più: i colori e le forme dell'Arcimboldi sono evidentemente metafore, in cui la qualità, accostamento e intensità dei colori equivale e risponde al sistema delle armoniche consonanze proporzionali della antica M. greca. L' « ingegnoso » Arcimboldi doveva aver comunicato le sue ricerche sullo stretto legame tra M. e colore; nonché le sue intenzioni di metaforico e concettoso pittore, diret-

tamente al Comanini: che fornisce in proposito una difficile analisi delle teorie musicali osservate dal singolare artista. Il quale aveva trovato «i tuoni e i semituoni e’ | diatesseron e "I diapente e ’| diapason e tutte l’altre musicali consonanze dentro i colori, con quell’arte apunto che Pitagora inventò le medesime proporzioni armoniche » (p. 368). Un altro singolare e discusso tentativo di applicazione delle teorie musicali, desunte dalle /stituzioni harmoniche di Giuseppe Zarlino, alla pittura, sarà quello del grande N. POUSSIN

(1647), in una

lettera a Paul

Fréart

de Chantelou.

Il

pittore francese, nella famosa seconda serie dei Sette sacramenti, mirava a far corrispondere differenti « tonalità » delle passioni ai temi e ai colori delle singole composizioni, come si è detto (v. Modi, Teoria dei). L'affermazione teoretica del rapporto tra M., colore, armonia, prosegue

come

dimostra

con insistenza e profondo convincimento,

la testimonianza

di altri scrittori d'arte da

noi prescelti. Ad es., P. TESTA (1612-1650), nel suo frammentario Trattato della pittura, scrive: « Le ragioni dell’ar-

di stile

337

sue belle forme, i suoi colori e i loro arrangiamenti sono gradevoli agli occhi come i toni e le armonie lo sono alle orecchie: gli uni e gli altri ci riempiono di gioia, ci fanno capire l'abilità dell'artista, come noi siamo capaci di giudicare »). Del resto, anche il celebre pittore neoclassico A. R. MENGS (1787) assegna alla componente soggettiva del gusto (v.) il parallelismo tra la M. e la pittura: infatti « l’Armonia nella pittura è quell’effetto, che piace all'occhio, come l'armonia nella musica piace all’udito » (p. 234). Nel sec. XIX il tema affascinante del rapporto tra la M. e

le Arti, è stato considerato in maniera intensamente suggestiva da un letterato-artista, nel clima «immaginativo » del simbolismo; cioè da W. PATER (1873), nei suoi famosi saggi sul Rinascimento (Studies in the History of the Renaissance). Nel saggio su La scuo/a di Giorgione, il legame tra le arti si identifica con la stessa «coerenza» espressiva di un pittore,

o scultore,

o

poeta,

o musicista.

Bisogna,

cioè,

che ciascun artista, nel varcare i limiti imposti alle arti dalle singole tecniche, non disperda per ciò stesso tale coerenza; sebbene la tendenza di ciascuna arte ad uscire dalle rigide limitazioni sia costante. Tale tendenza assume un valore spirituale, anzi mistico, per il fatto che ciascuna arte si sforza di cancellare il dissidio tra forma e contenuto. L'arte deve essere pura forma; e soltanto la M., dice Walter Pater, « più completamente attua questo ideale artistico, quella perfetta identificazione di materia e di forma». Ed ecco allora il criterio teorico: « Tutte le arti aspirano costantemente alla condizione della musica » (ed. it., Napoli,

1946, p. 145). Non risulta che il motivo del legame tra la M. e le arti sia stato ulteriormente approfondito, o particolarmente derato, nelle teorie sulle arti nel sec. XX.

Musivarius. Musivum,

consi[G.]

V. Mosaico. Opus. V. Mosaico.

Mustellino. V. Colori. Musulmana, Arte. V. Islamica, Arte. Mutamento

di stile. Nella critica d'arte indica il

fenomeno del cambiamento, più o meno brusco o graduale, della maniera (v.) o stile individuale di un artista lungo l'arco del suo percorso. Può significare inoltre il passaggio, o la svolta, da un gusto (v.) fermale di un’epoca, ad un altro diverso o finanche antitetico. Ad es., il M. di stile,

di Raffaello del periodo giovanile « peruginesco » a quello della maturità (influssi di Leonardo e di Michelangelo, componenti

manieristiche,

ecc.),

è stato

decisivo

e vistoso.

Altrettanto dicasi per il M. di stile presso Tiziano, dal distacco dai modi giorgioneschi in poi. Per quanto attiene ai M. di stile relativi ad un'epoca o civiltà figurativa, il ri-

monia nella musica sono per intendere quelle del colorire, avendo quella il grave e l'acuto per termini, e questa [cioè la pittura] il chiaro e scuro » (p. 288). E da un critico classi-

corso ad espressioni come stile Romanico, Gotico, Barocco, Rococò, Neoclassicismo, ecc., giova a distinguere

cista, G. P. BELLORI (1672), come già presso il Lomazzo, la pittura viene « rassomigliata ad una piena musica quando

artistiche,

tutti i tuoni insieme formano l’harmonia » (p. 372). D'altra parte, un trattatista inglese, J. RICHARDSON (1719), antiquario e pittore, trasferisce il rapporto tra la M. e la pittura sul piano del gusto e del godimento,-che sono valori soggettivi nell'ambito mentale di un classicista: «Le plaisir

si può far risalire a molteplici bili o approssimativi. Si tratta rali, di aspirazioni, tendenze, zioni», nel contesto evolutivo

que

nous

donne

la Peinture,-considérée

muet, ressemble à celui que nous

comme

un

Art

donne la Musique;

ses

belles Formes, ses Couleurs, et leur Arrangement agréable sont aux yeux ce que les Tons et leur Harmonie sont aux

oreilles: les uns et les autres nous

réjouissent, en nous

faisant remarquer l’habilité de l’Artiste, autant que nous sommes capables d’en juger», ed. fr., Amsterdam, 1728; I, p. 4 («Il piacere che ci dà la pittura, considerata

come

un'arte muta sembra quello che ci dà la Musica; le

22. Grassi-Pepe, Il.

storicamente e per schemi aspetti differenti delle strutture in senso

sincronico

e diacronico.

Il M. di stile

rappresenta d'altra parte una ‘ constatazione‘

critica, che

fattori più o meno individuainfatti di componenti cultugusti, inquietudini, « invenstorico, che incidono ovvia-

mente sul comportamento individuale dell'operare artistico, e che non è possibile ricondurre al superato principio di causalità. Comunque il fenomeno del M. di stile presenta due aspetti di un solo principio dinamico-spirituale: talora un artista imprime il M. di stile, innovando e inaugurando una ‘ poetica” diversa da quella del suo ambiente o cerchia; tal’altra è l'artista che chiaramente è impressionato e si piega all'influsso (v.), rinnovando così il proprio linguaggio.

Ma i due aspetti,

letticamente

conseguenti

o momenti,

sovente

o simultaneamente

sono

dia-

positivi: non

338

Mutulo

distinguono necessariamente tra un segno positivo ed un altro negativo. La spiegazione del fenomeno del M. di stile è stata variamente tentata. Si pensi al criterio del Kunstwollen (v.), alla rivolta contro l'abitudine, ecc. Ma v. anche le voci Stile, Storia dell'arte. [G.]

Mutulo

(lat. mutulus). Mensola di forma quadrangolare

sporgente sotto il gocciolatoio, in corrispondenza delle metope e dei triglifi, nella trabeazione dell'ordine dorico. La decorazione del M. è costituita da una serie di gocce stiliz-

zate. VITRUVIO (ante 27 a. C.) fornisce dell'origine del M. la seguente spiegazione, che intende la sua presenza in rapporto alle primitive strutture lignee del tempio: « Postea alii in aliis operibus ad perpendiculum triglyphorum can-

therios prominentes

proiecerunt eorumque proiecturas st maverunt. Ex eo, uti tignorum dispositionibus triglyphi, ita e cantheriorum proiecturis mutulorum sub coronis ratio est inventa... ergo et triglyphorum ‘et mutu/orum in doricis operibus ratio ex ea imitatione inventa est», IV, II, 3 («In seguito, altri costruttori in legno in altre opere fecero sporgere assai in fuori i cantherii normalmente ai triglifi, e fornirono di sima queste sporgenze. Di qui, dalle sporgenze cioè dei cantherii, fu trovato l'uso dei mutuli sotto la cornice, come dalla disposizione dei travi eran nati i triglifi... Dunque nei templi dorici la ragione dei mutuli e dei triglifi deriva dall'imitazione del legno »). Nella terminologia architettonica si dicono anche M. le testate delle travi sporgenti dal muro.

[P.]

Nabatea, Arte. È così designata l'arte svoltasi nella regione siro-palestinese, sottoposta tra il III secolo a. C. e il Il secolo d. C. al dominio dei Nabatei, popolo di origine semitica. L'arte N. rivela determinanti rapporti con la cultura ellenistica, che non eliminarono però totalmente la persistenza di motivi orientali. Le più importanti testimonianze sono costituite da resti architettonici (ben note le facciate rupestri di Petra), altorilievi, ceramiche dalle caratteristiche decorazioni vegetali assai stilizzate, tracciate in rosso scuro su di un fondo rosato. [P.] Nabis. Parola ebraica (propriamente ’ profeti’), usata dal poeta Cazalis per designare un gruppo di pittori frequentanti a Parigi l'Academie Julien, riunitisi in ricerche comuni nel 1888; le loro esposizioni si susseguirono annualmente tra il 1891 e il 1900, dapprima in una galleria di rue Peletier, poi da A. Vollard, Durand-Ruel, B. Jeune.

I N. — che furono appoggiati dalla Revue B/anche dei fratelli A. e T. Nathanson ed ebbero rapporti col musicista Debussy — si riallacciavano all'opera di Gauguin e di Toulouse-Lautrec, ma assai determinanti erano i rapporti

con le poetiche del Simbolismo (v.) e con la grafica giap-

cisa ed identificabile da quando nel 1886 espose al Salon des Indépendants H. Rousseau, detto Le Douanier (Il Doganiere), considerato il caposcuola, il riferimento obbligato

per la naiveté moderna.

L’affermarsi del termine N. è fatto

relativamente recente, ed è d'altronde da rilevarsi come tuttora siano proposte e adoperate denominazioni diverse; si può anzi ragionevolmente affermare che per nessun fenomeno artistico è da registrarsi una così ricca serie di proposte intese alla sua definizione; una delle più antiche è Peintres du Coeur Sacré, proposta da W. Uhde nel 1928 in occasione di una mostra a Parigi; lo stesso Uhde nel 1932 — sempre per una mostra a Parigi — definisce i pittori di questa tendenza Les Primitifs modernes; nel 1937 R. Escholier, P. Andry, M. Gauthier presentano una mostra, ancora a Parigi, con il titolo Maîtres Populaires de la Réalité; ma già nel 1933 R. Cogniat aveva intitolato una mostra parigina Peinture naive. Si susseguono peraltro altre denominazioni: Peintres du dimanche (Mostra di Amsterdam, 1941), tradotto nell'italiano Pittori della domenica, espressione che ha avuto una certa fortuna; Peintres Autodidactas, secondo

il titolo

di una

mostra

a Parigi

del 1945,

curata

ponese. Essi tendevano ad un superamento della visione impressionista mediante l’uso del colore inteso quale suggerimento di autonomi valori decorativi e suggestioni emotive, in un senso ieratico di semplificazione della forma, che spiega e giustifica lo stesso termine con il quale il gruppo venne designato. Teorico del movimento fu M. Denis; sua la famosa definizione di un quadro: « superficie coperta da colori disposti in un certo ordine»; in tal modo si « an-

da A. dJakowsky; lo stesso Jakowsky più tardi avrebbe parlato di Peintres de la Semaine des Sept Dimanches (Pittori della settimana di sette domeniche); e ancora: Peintres de l'Instinct, Peintres de l’Instinct et du Coeur, Peintres Immédiats, Peintres laiques; in! Italia si registrano: Pittori candidi; Pittori ingenui; Primitivi contemporanei (titolo dato al volume di O. Bihalji-Merin, Milano, 1960; titolo originale: Das naive Bild der Welt, KòIn, 1959); Neoprimitivismo (v. EUA, V, 1958, col. 249); Arte insita, corrispondente al ceco /nsit-

nulla la distinzione tra pittura di rappresentazione e pittura decorativa: il problema non è più la realtà rappresentata nel quadro... ma il quadro stesso come oggetto fabbricato e che, dunque, vale per ciò che è e non per ciò a cui assomiglia» (G. C. ARGAN, 1970, p. 266). | rappre-

ného Umenia, al tedesco /nsitem Kunst, all'inglese /nsitic Art. Negli U.S.A. si hanno altre denominazioni: Popular Art, Popular Painting, Art of the Common Man (secondo il titolo di una Mostra a New York del 1932); più comune è Primitive Art; recente è Art Non-Concentionnel.

sentanti più significativi dei N., oltre M. Denis, già ricordato, furono: P. Bonnard, A. Maillol, P. Serusier, F. Val-

Andrà

lotton, E. Vuillard. Dopo rapidamente disperdendo.

l’anno

1900

il gruppo

si andò [P.]

Naif. Il termine francese N. — letteralmente: ingenuo, semplice — è oggi adottato internazionalmente per designare quelle forme artistiche che nell'assenza di determinanti rapporti con le correnti e gli ‘ stili” della propria epoca, risultano sostanziate di alcuni caratteri ‘costanti’: « L'idillio naturalistico, il surrealismo misticheggiante, la semplificazione iterativa degli elementi decorativi, la festosità non naturalistica del colore, il gusto primitivo del racconto, la tendenza a coagularsi localmente in modelli di suc-

cesso » (EGA, 1973).È da rilevarsi peraltro che il feno-

meno della naiveté in senso lato è reperibile nell’arte di ogni tempo; il termine N. intende in modo più restrittivo denotare una tendenza manifestatasi in maniera assai pre-

in ogni caso

ribadito

come,

intorno

al 1960

il ter-

mine N. tenda a sostituire ogni altra denominazione: « Le mot de naif en definitive, a prévalu, et avec raison car c’est celui qui vient naturellement à l’esprit de la plupart des gens lorsqu'’ils ont à désigner cet art ou ces artistes, et que c’est bien la naîiveté qui est la clef de tout le phénomène », A. DASNOY, 1970, p. 5 (« La parola naif in definitiva ha prevalso, e con ragione, perché è quella che viene spontanea alla maggior parte della gente quando deve designare quest'arte o questi artisti, e perché è l’ingenuità che è la

chiave del fenomeno »). Il Dasnoy — cui si deve l’indagine più ampia e circostanziata sinora pubblicata sul fenomeno — insiste sul carattere di ‘isolamento ‘, di ‘individualità’ dell'artista N.; registra però l’esistenza di un'altra categoria, quella dei N. per ‘ provincialismo‘, cui aggiunge, in relazione all'affermazione di tale genere in Jugoslavia, quella del naif communautaire (p. 7). Egli peraltro è costretto a concludere con una notazione scon-

340 fortante: e cioè che il pittore N. è stato ormai dalla società,

è divenuto

una forma

recuperato

complementare

della

cultura: « L'artiste naif à present ne peut plus ignorer longtemps qu'il est un naif», p. 233 (« L'artista naif oggi non può più ignorare per molto che è un naif»). In questi termini si profila la fine dell'arte N.; si noti che appena un decennio innanzi O. BIHALJI-MERIN (1960) aveva scritto dei pittori N.: « Le loro immagini di bizzarra primitività sono al di fuori delle polemiche spirituali dei pittori professionisti. Indisturbati e spontanei, i veri pittori ingenui creano seguendo l'impulso del loro cuore» (p. 33). [P.] Naos (gr. vaés “tempio, cella‘). Letteralmente abitazione o dimora della divinità. Nella terminologia architettonica dal sec. XIX la voce è usata quale sinonimo di cella (v.), ed indica perciò la parte interna del tempio greco, di forma solitamente rettangolare; il N. — cui potevano accedere solo i sacerdoti — conteneva la statua della divinità cui il tempio era dedicato. [P.] Narrative Art. Denominazione inglese presente nel linguaggio internazionale della critica d'arte — a partire dagli anni 1973-1975 — per indicare una corrente artistica che si colloca nell’ambito delle ricerche “ comportamentali ‘ (v. Comportamento). La N. Art tende infatti a ridurre l'operazione

artistica

di immagini da

un

al recupero

e alla relativa ’ esposizione‘’

(prevalentemente fotografiche),

commento

‘narrativo’

che

accompagnate

coinvolga

l’esperienza

esistenziale dell'autore. Secondo M. FAGIOLO DELL’ARCO (1975) non può parlarsi neppure di una corrente, « ma della logica conseguenza di quella che si definisce’ Body Art’ (v.), ovvero

l'arte del corpo»; si tratta, a suo

operazione

basata

tradizionale

comunicazione

stica, mirando

sull’individuo-artista

a fissare

attraverso

momenti

avviso,

che

«di

un'operazione

o attimi

una

scavalca

della sua

la arti-

vita

fissati dalla fotografia, commentati da una esplicazione autografa » (p. 3). Tra i partecipi di questo indirizzo di ricerca si segnalano: D. Askewold, B. Beckley, C. Boltanski,

R. Cumming,

F. Vaccari.

Narrazione

[P.]

continua.

V. Rappresentazione

con-

tinua. Nartece (gr. vdedné ‘bacchetta, cassetta‘; lat. narthex). Atrio coperto costituito da un portico (v.), addossato alla facciata degli antichi edifici di culto cristiani, in particolare alle basiliche; ambiente riservato ai penitenti e ai catecumeni. In territorio ravennate è detto ‘ardica’ (dal

gr. biz. v&p9nxa).

Si distingue

un

‘esonartece’,

N. vero e proprio, e un ‘ endonartece'’

ossia il

o ‘ entronartece , ri-

cavato — mancando il porticato esterno — da una parte della navata centrale opportunamente delimitata da transenne (v.). Nelle basiliche precedute da quadriportico (v.) fungeva da N. il lato adiacente alla facciata. [P.]

Nascita

della

Vergine.

Tema

iconografico

stiano, del quale non si hanno testimonianze all'XI secolo; la più antica raffigurazione della

cri-

anteriori N. della

Vergine — o della ‘ Natività di Maria SS.’ — si ritiene sia da individuarsi in una miniatura del Codice Vat. Gr. 1613 della Biblioteca Vaticana, databile al 1025. La scena della N. è spesso inserita nel più complesso ciclo sinottico della vita di Maria. Tra le più famose figurazioni del tema si ricordano: il mosaico di P. Cavallini in S. Maria in Trastevere a Roma, l’affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, l'affresco di Giovanni da Milano nella Sagrestia di S. Croce a Firenze, l'affresco di D. Ghirlandaio in S. Maria Novella a Firenze. [P.]

Nascita

di Cristo.

Uno dei temi iconografici trat-

tati dall'arte cristiana con maggiore ampiezza e continuità. La N. — o ‘ Natività” — di Cristo compare fin dal IV secolo

ed è spesso rappresentata insieme all'Adorazione dei Magi; comunemente — secondo la narrazione evangelica — la scena è ambientata in una grotta o in una capanna.

ù

Nascita

;

[P.],

di Venere. Il tema classico della N. di Ve-

nere, o‘ Venere Anadiomene ‘’ — già nella fronte del Trono Ludovisi del sec. V a. C. — fu ripreso in età rinascimentale da Sandro Botticelli nel famoso dipinto eseguito per la villa medicea di Castello ed oggi agli Uffizi; i complessi significati inerenti alla composizione — e che sembrano prevalentemente in rapporto con le dottrine neoplatoniche informanti la cultura fiorentina sullo scorcio del sec. XV — non ritornano certamente nelle numerose redazioni dei

secc.

dal

XVI al XVIII (ad es., in opere del Correggio, di

Tiziano, P. Liberi, A. Bellucci, C. Cornelisz, P. P. Rubens,

N. N. Coypel), di cui può vedersi in A. PIGLER (1956, Il, pp. 230-231).

Natatio.

un consistente

elenco [P.]

V. Terme.

Natura. Fino alle moderne avanguardie (v.) storiche, che hanno rifiutato, o profondamente alterato il tradizionale

rapporto di N. e Arte, il concetto di N. è stato inteso dagli artisti come il mondo visibile, che è oggetto di imitazione, v. (si rinvia in merito alla voce N. nei Dizionari neoclassici di F. MILIZIA, 1797; A. L. MILLIN, 1806). Intorno al rapporto Arte e N. (v.) abbiamo trattato ampiamente, ma non in modo esaustivo. Consideriamo adesso altre correlazioni del concetto di N., altre sue connotazioni semantiche; e si cercherà di ampliare il ragionamento sul rapporto Arte e N., invertendo i termini: facendo cioè precedere il concetto di N. rispetto a quello di Arte. Già CENNINO CENNINI (fine sec. XIV) adopera il vocabolo N. nel significato di fantasia, inclinazione al disegno e alla pittura, che si risolve nell’acquisire una propria maniera (v.): «Se punto di fantasia la natura t'arà conceduto, verrai a pigliare una maniera propia per te» (cap. XXVII). Successivamente, LEONARDO (1452-1519) riflette sul binomio ‘ pittura-imitazione‘, osservando che la prima (che è una « sottile invenzione ») è figlia della N., o nipote di essa (n. 8). Il significato cenniniano di N. ricorre invece presso P. Aretino (1547), nella lettera a F. Coccio («Invero l’arte è una nativa considerazione de l’eccellenze de la natura, la quale se ne vien con noi dalle fasce », ed. E. Camesasca, Il, 1957, CCCLXVIII, p. 180) e presso L. DOLCE (1557): « Nel vero bisogna che "| pittore, così bene come il poeta, nasca e.sia figliuolo della natura » (p. 186). D'altra parte il canonico confronto tra N. e Arte, in cui si rispondeva variamente che la seconda supera la prima, o viceversa, si ripresenta sovente nella letteratura artistica

dal sec. XVII in poi. Ad es., G. B. AGUCCHI

(1607/1615) ap-

prova quel pittore che non imita semplicemente la N., ma si studia di intendere l’insita intenzione verso l’idea (v.) della perfetta bellezza. E, M. BOSCHINI (1674), nella Breve Instruzione, dirà che «i nostri gran possessori dell’arte, emuli della Natura, abborrivano d'obligarsi al Naturale, ma bensì studiavano di leggiadramente riformarlo, così nel

Dissegno

come

nel colorito»

(p. 738).

Riformare

la N.

mediante l’arte di dipingere, non significa, ovviamente, per il Boschini, inseguire il classicista ideale della perfezione. La posizione del Boschini pertanto si differenzia profondamente da quella dell’Agucchi, e, poi, del Bellori. L'atteggiamento classicista è invece recuperato da L. LANZI (1789/ 1808), il quale scrive che «Annibale insegnò il modo d’imitar la natura sempre mobilitandola colla idea, e di sollevare la idea verificandola sempre con la natura» (I,

p. 348). Un classico, che è stato operoso nell'età romantica, cioè J.-A.-D. INGRES (1780-1867), ritornando in seguito sul rapporto tra l'Arte e la N., nelle sue Nofe e pensieri, lo risolve nella identità richiamandosi al criterio dell'arte che nasconde

Naturalezza

sé stessa in quanto artificio (v.), bravura ostentata: «Il grado più elevato di perfezione dell'arte è quello che essa raggiunge quando assomiglia talmente alla natura che la si può scambiare per la natura stessa. L'arte non riesce mai meglio di quando è celata » (p. 66). Il superamento teoretico del rapporto tra Arte e N. si legge, infine, nel filosofo

kantiano

K. FIEDLER

(1914),

esponente

della pura visibilità (v.). Il problema non sussiste, perché l'arte non imita la N., ma è una forma di linguaggio: « L'arte è subordinata

alla natura,

o

la natura

all'arte?

L'arte

è

soltanto ingannevole visione della natura, o piuttosto l'ideale della sua realtà nella sua purezza, anzi la stessa realtà nel suo profondo aspetto? È un dibattito vecchio di millenni. Ora anche questo problema può venir risolto solo rendendosi chiaramente conto che l’arte non corrisponde propriamente a nessuna delle due tesi, e che una soluzione esatta è impossibile perché l'impostazione è sbagliata. Tutto intero il campo di queste ricerche assume un aspetto affatto differente non appena si parta dal punto di vista che l'arte è semplicemente una forma di linguaggio, per mezzo della quale alcuni determinati oggetti vengono elevati alla sfera della coscienza

Natural

disposizione.

umana » (p. 58).

[G.]

Nel significato di inclina-

zione naturale di un artista, l'espressione viene adoperata

(modificando

così il valore retorico e vitruviano

della di-

sposizione, v., intesa come categoria, divisione della architettura) da vari scrittori d'arte (F. SCANNELLI, 1657, ecc.).

Ma già P. PINO berti

e

di

(1548), elaborando

Leonardo,

ravvisa

nella

considerazioni N.

dell’Al-

disposizione

una

prerogativa del poeta e del pittore, a differenza degli oratori e di altri rappresentanti, sia delle arti meccaniche, come delle arti liberali (v.). Infatti, per costoro vi sono gradi e regole che si imparano, per giungere alla perfezione. AI contrario, i veri poeti e i pittori, imparano bensì regole e misure, ma sono tali per nascita (v. Natura): « Altro non conciede la pittura» — scrive il Pino — «dar agli prencipianti per istruzzione, ch’il modo di disegnare li contorni delle figure semplici, le distanzie over misure proporzionate de' membri, già dette da noi, e l'ordine de’ colori. Altro non si può sperare dalla pittura; ma, se l'intelletto de colui ch'impara è docile e svegliato con la natura/ disposizione, ci imparerà frequentando lo studio e col por mente a chi opera » (p. 122). [G.]

Natural

furore.

Si tratta del furore

(v.) che nei

poeti e nei pittori è in rapporto ad un peculiare stato d'animo di eccitazione e di impeto, nell'atto di operare. Felicemente il manierista G. P. LOMAZZO (1584), sensibile anche alla magia e alla alchimia, tra gli avvertimenti impartiti ai pittori, considera importante il N. furore: « Giu-

dico che "| pittore non dia mai di piglio al penello se non quando sente eccitarsi da un natural furore, il qual non è dubio che così corre ne’ pittori come ne’ poeti, né si

astringa mai a farlo a commandamento altrui, perché non è possibile che possa farsi alcuna opera lodevole a dispetto delle Muse, le quali troppo, si sdegnano di essere mandate a vettura» (Il, p. 418). In altri termini, l'atto veramente creativo deve essere spontaneo, nascente dalla ispirazione.

[G.]

Naturale, Il. Figura, modello, oggetto, cose reali, che il pittore ritrae direttamente dal vero, non a memoria, o di

fantasia. Il procedimento del ritrarre dal N. è già considerato come un precetto positivo nel Libro dell'arte di CENNINO CENNINI (fine sec. XIV); il quale non esita a scrivere: «La più perfetta guida che possa avere e migliore timone, si è la trionfal porta del ritrarre de naturale. E questo avanza tutti gli altri essempi, e sotto questo con ardito cuore sempre ti fida» (cap. XXVIII). Della medesima opinione sarà successivamente G. VASARI (1568), che nella /ntroduzione alla Pittura premessa alle Vite, in merito ai vantaggi dell’esercitarsi nel disegnare,

341

da parte di un giovane artefice, aggiunge: costui « quando poi averà in disegnando simili cose fatto buona pratica et assicurata la mano, cominci a ritrarre cose naturali, et in esse faccia con ogni possibile opera e diligenza una buona e sicura pratica; percioché le cose che vengono dal naturale sono veramente quelle che fanno onore a chi si è in quelle affaticato, avendo in sé, oltre a una certa grazia

e vivezza,

di quel

semplice,

facile

e dolce

che

è

proprio della natura e che dalle cose sue s'impara perfettamente e non dalle cose dell'arte a bastanza giamai » (I, p. 118). Questo elogio vasariano del N. è in contrasto con la sua situazione di pittore manierista. Ma tale elogio

riguarda il metodo di apprendere e l'esigenza di un equilibrio nel rapporto Arte-Natura (v.). Si tratta di una precettistica del resto affermata anche da un altro importante trattatista del manierismo settentrionale: G. P. LOMAZZO (1584), quando parla della coerenza dei panneggi dipinti, in relazione al nudo. Si legga infatti: « E s’una figura siede, o è apoggiata, i panni hanno da posare e ritirarsi dietro al corpo, ritrovando il nudo, e dove non hanno sotto corpo debbono cadere, come la tovaglia d’intorno alla tavola. Ma per vedere e conoscere più chiaramente queste cose

che

io dico, avvertisco

onore,

ad

osservare

et esorto

e veder

una

ogn'uno volta

che

desidera

i panni,

secondo

che si vogliono fare, dal vero. Percioché il naturale a chi intende, è il vero essempio il principio e fondamento dell'arte et il vero maestro » (Il, p. 396). Nel sec. XVII e XVIII, l'uso del termine N., come riferimento più o meno accentuato del pittore rispetto al modello naturale, o in genere, al vero, è molto frequente. Basteranno pochi esempi significativi. G. MANCINI (1617/1621) così definisce la pittura di Annibale Carracci: « Fu pittore universale, sacro, profano, ridicolo, grave e vero pittore poiché faceva di sua fantasia senza tener il naturale davanti». Il marchese V. GIUSTINIANI (ante 1620) distingue i pittori, tra «i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera » (in G. BOTTARI-S. TICOZZI, VI, 1822/1825, p. 127), e viceversa. L. SCARAMUCCIA (1674) parla poi della « Prattica e teorica intorno al Naturale » (p. 197), cioè regole ed esercizi del pittore sul modello dal vero. Modello in posa considera il N., un critico della pittura veneta: M. BOSCHINI (1674), nella Breve /nstruzione premessa alle Ricche miniere della pittura. G. B. Zelotti gli fornisce l'occasione per osservare: «Ma perché l'Arte della Pittura viene al presente più esercitata per interesse, che per premura d'onore, s'è ritrovata quella facilità (per non dire mendicità) di tenersi a canto il Naturale, il quale stancandosi, né potendo obbedire al Pittore lungo tempo nella positiva datagli, bisogna che l'Operante da lui dipendi, e termini, alla meglio che può, la sua fatica » (p. 738). D'altra parte,

il biografo dei pittori napoletani B. DE DOMINICI (1742/1743), condanna il « naturale ignobile » (III, p. 41) del Caravaggio. E, con non minore subordinazione teorica ai princìpi classicisti, disapprova senza appello «il naturale audace ed insolente di Belisario » (Corenzio), III, p. 75. Infine, il canonico Luigi Crespi (1759) inviava a Mons. Bottari notizie della Vita e dell'arte del padre suo Giuseppe M. Crespi, osservando fra l'altro: «Questo continuato valore. però del suo pennello si deve, a dir vero, attribuire alla continua, e non mai interrotta osservazione del naturale, che sempre, qualunque cosa si facesse, teneva davanti, quando operava »

(in G. BOTTARI-S. TICOZZI, 1822/1825, III, p. 444).

Naturalezza.

[G.]

È il merito del pittore che dipinge senza

affettazione, senza essere manierato (v.). Ma la N. può rappresentare, al contrario, un eccesso da parte di taluni pittori.

Il termine

N.

ricorre

frequentemente

presso

gli

scrittori d’arte del sec. XVII. Proponiamo una scelta esemplificativa. G. MANCINI (1617/ 1621) opponendo N. a maniera (v.), scrive di Raffaellino da Reggio: « Hebbe gran vena e spirito, ma però è maniera e non ha naturalezza » (I, p. 223). Poco dopo, F. BOR-

342

Naturalismo

ROMEO (1624) formula moralisticamente l'esigenza che l'artificio (v.) nella pittura armonizzi con la N.: « Nella pittura come negli scritti e negli altri campi l'artificio deve essere curato in quanto non toglie natura/ezza all'immagine » (p. 77). Successivamente, M. BOSCHINI (1674), nelle Ricche miniere, parla di «naturalezza delle Idee», o di «naturalezza dei paesaggi ». Prima ancora, F. SCANNELLI (1657) distingueva la « buona naturalezza» dalla N. eccessiva. Infatti: «L'arte per se stessa non si ritrova » — dice lo Scannelli (p. 244) — « che insufficiente, quando non sia fondamentata sopra il raro talento di buona naturalezza». Ma il Caravaggio viene

della esaltazione delle dottrine del classicismo (v.), sia dal punto di vista del gusto veneziano di dipingere. In questo senso indicano, intanto, alcuni versi de La Carta del navegar pitoresco di M. BOSCHINI (1660); il quale non poteva ap-

chiamato « unico mostro di naturalezza »: che è una espressione implicante, da parte di un autore classicista, una

p. 95, n. 22). Sul piano rigorosamente classicista si pone poi, in Roma, G. P. BELLORI (1664), che nella celebre conferenza L'/dea (premessa a Le Vite dei pittori, ecc., 1672), condanna i pittori che dipingono «di pratica» (manieristi), e coloro che « si gloriano del nome di Naturalisti [i quali], non si propongono nella mente idea alcuna; copiano i difetti dei corpi, e si assuefanno alla bruttezza » (p. 10). Sulla base di analoghe considerazioni, i N. saranno decisamente disapprovati dagli scrittori d’arte dell'età neoclassica (v. Neoclassicismo). Ad es., F. MILIZIA (1781), nel

forte riserva di valutazione critica, nei confronti di un innovatore qual'era Michelangelo Merisi, di cui peraltro lo Scannelli riconosceva le qualità: verità, forza, rilievo, stupendo inganno, ecc.

Naturalismo.

Dall'inglese

naturalism

(1641),

o

dal

francese naturalisme (1748), la voce N. viene poi in uso nella lingua italiana. Nel caso della critica d’arte, N. è genericamente la tendenza dell'artista a porsi come modello esemplare la rappresentazione visiva del mondo naturale. Mentre

in Francia,

come

è noto,

il N. corrisponde

ad una

corrente letteraria fiorita tra il 1870 e il 1890 (esponenti tra gli altri furono Balzac e Flaubert), nella pittura il termine non assume un riferimento storico preciso. Di N., o di pittori ‘naturalisti’, o di particolari ‘naturalistici’ in un dipinto, si può pertanto parlare in concreto, nei casi e momenti storici più diversi. Nel neoclassico Dictionnaire des Beaux-Arts, di A. L. MILLIN (1806), ad es., la voce Naturalisti è espressione italiana riferita a coloro che lavorano direttamente dalla natura, senza appartenere a particolari correnti o scuole (« Expression particulière aux Italiens, pour désigner les artistes qui travaillent d’après la nature, et qui l'imitent plus ou moins parfaitement »). Si può pertanto parlare di N. per il Caravaggio, come per i Carracci; per un dipinto di Vermeer, come per una bambocciata del Cerquozzi, o per un dipinto di Courbet. Nel qual caso peraltro, è più frequente l’uso di parole quali realismo (v.) o verismo (v.). Ma se il termine N. è svincolato da una particolare corrente « storica » della pittura o della scultura, utile rimane tuttavia la distinzione tra il N., che presuppone pur sempre una certa idealizzazione del dato naturale; il realismo, in cui la rappresentazione della realtà viene accentuata al massimo, o assume talora intenzionalità sociali polemiche; il verismo (v.), inteso quale riproduzione oggettiva, imparziale, distaccata, della verità naturale, fino all'inganno (v.), o all'’illusionismo (v.) ottico. In conclusione, è utile una considerazione di G., BALLO (1968): «Realismo, MNaturalismo, Verismo dell'Ottocento rientrano in una stessa tendenza, con varianti minime; l’arte è intesa come imitazione della realtà naturale, ‘ delle cose che esistono e che possono toccarsi’. Sembra dunque in contrasto con Romanticismo... ma ne risente perché aspira alla vita, alla verità, ancora all'esistenza nel suo divenire »

(p. 72).

[G.]

provare

l'introduzione,

a Venezia,

di una

corrente

natura-

listica, quella del caravaggismo riberesco di Luca Giordano giovane, del Langetti, del Loth, di Antonio Zanchi, ecc. Comunque tali pittori erano, dice il Boschini, sicuri di sé: «E per questo i pretende el primo liogo, / Con dir: naturalisti se chiamemo, / Perché le cose al natural copiemo ». Ma costoro (ecco la assenza del ‘ decoro‘), «se i forma un Giove, i retraze un Fachin » (cfr. A. PALLUCCHINI, 1966,

Dell'arte di vedere nelle Belle Arti, osserva: « L'artista che imitasse la natura tale qual è, mancherebbe interamente al suo scopo. Non vale tanta pena rappresentare quello che si ha di continuo sotto gli occhi. Il vero pregio dell'arte è di esporre quello che non si vede mai riunito in un sol soggetto. Perciò coloro che si dànno a copiare la mera natura, sono soprannominati naturalisti, e per quanta manifattura possano

mettere in queste loro copie, non me-

ritano certo applauso grande. Talvolta sarebbero biasimevoli, e tanto maggiormente quanto più fedeli e più esatte riuscissero certe loro imitazioni» (p. 52). Successivamente, L. LANZI (1789/1808), delineando magistralmente la situazione della pittura a Roma alla fine del sec. XVI, scriveva: « Roma non vedeva già da alcuni anni se non due estremi nella pittura. Il Caravaggio e i seguaci

eran pretti naturalisti; l'’Arpino e i suoi eran pretti ‘ ideali ‘. Annibale insegnò il modo d’imitar la natura sempre nobilitandola

colla

idea,

e di sollevare

la idea

verificandola

sempre con la natura» (I, p. 348). Il termine N. dall'Italia era passato in Francia, e compare nel Dictionnaire des Beaux-Arts di A. L. MILLIN (1806): « Naturalisti; expression particulière aux Italiens, pour désigner les artistes qui travaillent d’après la nature, et qui l'imitent plus ou moins parfaitement » (« Naturalisti; espressione particolare agli italiani, per designare gli artisti che lavorano dal naturale, imitandolo più o meno perfettamente »).

Naturalistico. V. Naturalismo. Natura morta. leven, circolante

[G.]

Espressione italiana che traduce sti//- ‘

dal 1650 ca.

negli studi degli artisti dei

Paesi Bassi; questa a sua volta corrisponde all’olandese vie

coye (M. VORENKAMP, 1933), e alla tedesca sti//stehende Sachen, adoperata da J. SANDRART (1675) per le opere del pittore S. Stosskopf. Nella lingua tedesca si affermò però ben presto Sti//-/eben; in quella inglese Sti//-life. Il senso

Naturalismo Naturalisti.

astratto.

V. Astratto-concreto.

Tali sono chiamati i pittori del sec. XVII,

o appartenenti a periodi anche successivi, i quali prendono a modello il naturale (v.), così come si presenta, senza il rispetto per la idea (v.) della bellezza, o il decoro (v.). Entro questa definizione rientrano segnatamente i seguaci del Caravaggio; o ancora: pittori di non stretta osservanza caravaggesca, autori di scene di osteria (v. Bodegon), o della vita popolare quotidiana (v. Bamboccianti); o comunque attenti e fedeli alla rappresentazione della ‘ realtà ‘. Storicamente, risulta chiaro che i N. erano già da tempo classificati e valutati negativamente, sia sotto l'aspetto

di tutte queste espressioni corrisponde a quello di ‘“natura’ immobile, statica, in contrapposizione a ‘ modello vivente ‘: « Pour les rapins hollandais /even (vie ou nature) voulait dire tout simplement ‘ modèle‘ ou ‘ modèle vivant‘; still voulait dire “immobile”. Sti//-leven était donc, par apposition à la peinture de figures ou d'autres ètres animés, la peinture de ce qui ne bouge pas» (C. STERLING, 1952, p. 39); « Per i giovani pittori olandesi /even (vita o natura) voleva dire molto semplicemente ‘modello’ o ‘modello vivente ‘; sti/l voleva dire ‘ immobile ‘. Sti//-Jeven era dunque, in contrapposizione alla pittura di figure o di altri esseri animati, la pittura di ciò che non si muove ». Nelle lingue francese ed italiana l'espressione non trova inizialmente

> Ea

Nazareni corrispondenza; è solo alla metà del sec. XVIII, precisamente nel 1756, che si trova per la prima volta adoperata l’espressione francese nature morte (cfr. C. Sterling, cit.); essa nasce nei circoli accademici con una implicazione di giudizio negativo: «On l’a trouvé en étendant l’idée de ce qui est immobile à celle de ce qui est inanimé ou mort. Félibien dit en 1667: ’ Celui qui peint des animaux vivants est plus estimable que celui qui ne représente que des choses

mortes

et sans

mouvement’»,

C.

Sterling,

cit.

(« La si trova estendendo l’idea di ciò che è immobile a quella di ciò che è inanimato o morto. Félibien nel 1667 dice: ‘ Colui che dipinge animali vivi è da stimarsi maggiormente di colui che rappresenta cose morte e senza movimento ‘»). Divulgata dai critici francesi dell'Ottocento l'espressione fu accolta in Italia e tradotta in modo letterale; in effetti N. morta risulta « una storpiatura della più antica denominazione, che metteva piuttosto l'accento sull’immobilità e silenziosità del modello o, se più piace, sulla sua vita immobile e silenziosa » (S. Bottari, in EUA, IX, 1963, col. 802). Va notato che negli scrittori d’arte italiani tra i secc. XVI e XVII il genere pittorico poi detto N. morta era stato variamente

Giovanni

definito;

G. VASARI

da Udine «riusciva

(1568)

contrafare

ricorda

benissimo...

che a

tutte

le cose naturali, d'animali, di drappi, d'instrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure» (VI, p. 396); il Marchese

V. GIUSTINIANI (ante 1620) colloca solo al quinto posto dei ‘gradi’ della pittura il «saper ritrarre fiori ed altre cose minute » (p. 122); G. BAGLIONE (1642) scrive di Mao Salini: « Si mise a far de' fiori, e de’ frutti, ed altre cose, dal naturale ben' espresse » (p. 288); del Gobbo da Cortona: « Diedesi

a dipingere

i frutti dal naturale » (p. 343).

Manca, come si vede, un'espressione che riunisca — come sarà più tardi con N. morta — sotto un'unica denominazione questo particolare genere; giacché si deve considerare episodica la dizione ‘oggetti di ferma’ (v.), che appare in C. C. MALVASIA (1678, Il, p. 163). Pur con le sue ambiguità e con la sostanziale inadeguatezza linguistica al fenomeno che intende denotare non v’ha dubbio che l’espressione N. morta ha concretamente colmato una lacuna, e a ciò si deve la sua enorme fortuna. La critica moderna ha cercato di individuare origine, significati, motivazioni di un genere figurativo di cui si sono voluti trovare precedenti fin nella pittura antica: ad esso si è così proposto di assimilare la rhiparographia (v. Rhiparographos), gli xenia (v.), certe figurazioni musive di età ellenistica. Elementi frammentari di una notazione naturalistica ricompaiono — dopo il sostanziale disinteresse dell'età medioevale — nei secc. XIV e XV, in particolare nell'ambito del gusto fiammingo; bisogna tuttavia giungere al sec. XVI, e segnatamente agli interessi del tardo Manierismo (v.) perché possa parlarsi di N. morta quale genere autonomo; in essa confluiscono esperienze diverse: l’interesse per l'antico con gli esempi che esso offriva (anche le grottesche, v., rientrano in qualche modo nel genere), le curiosità naturalistiche dell’epoca, il tentativo di superare quanto di enfatico e declamatorio era nelle composizioni di ‘storie’ proposte dalla trattatistica controriformistica. Pitture di fiori, frutta, pesci, cacciagione, strumenti musicali si diffondono così tra la fine del sec. XVI e i primi decenni del XVII in Olanda, Fiandra, Francia, Italia, Spagna, e nonostante il disprezzo della critica ufficiale conquistano l'interesse dei collezionisti borghesi, che prediligono tali composizioni anche per il loro formato ridotto di fronte alle grandi composizioni storico-religiose. Basterà ricordare qualche nome di pittore che trattò il genere: J. Brueghel il vecchio, B. van der Ast, A. Boschaert il vecchio, P. Claesz,

343

La vitalità e la persistenza del genere sono confermate dall'interesse che per esso hanno avuto ancora i pittori dell'Ottocento e Novecento, da Delacroix a Courbet, da Manet a Cézanne, da van Gogh a Matisse, Braque, Picasso. È stato notato, con precisa intuizione critica, che la N. morta

«almeno dal Settecento, sta ’ muovendosi’ in un ordine di sentimenti, di aspirazioni, di necessità fra spirituali e materiali (o artistiche), che, in certo senso, seguono l’andamento, il ‘ movimento ‘ d’interessi, e di leggi, i quali rappresentano, passo passo, l'evolversi, il continuo mutare della coscienza umana, e il loro ordinamento e compensazione dentro il quotidiano realizzarsi della vita, della società » (G. RAIMONDI, 1958, p. 74). [P.]

Navata. Termine in uso fin dal sec. XV (FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI, 1489/1492, pp. 45-46, 410-411) per indicare la parte di un vano longitudinale che deriva dalla divisione del vano stesso in più parti, di solito mediante elementi intermedi di sostegno (colonne o pilastri). La N. è tipica delle basiliche cristiane, e il nome dato a questo organismo architettonico si spiega con le implicazioni sim-

boliche in esso contenute: la N. è intesa infatti come elemento che dà alla chiesa la forma di una nave — anche per la sua conclusione absidale — guidata dal vescovo. N. è propriamente il vano centrale ma comunemente il termine designa anche gli ambienti laterali delle chiese con divisioni interne, delimitati dal filare di colonne o pilastri e dal muro perimetrale; già F. BALDINUCCI (1681) la indicava come

«quella

parte o andito

di Chiesa,

o d'altro, che

è

tra *l muro, e pilastri o colonne, e tra pilastro, e pilastro ». Anche per il corpo del transetto (v.), che può anch'esso presentarsi

come

talvolta il termine sificare una chiesa

Nazareni.

vano

unico o fornito di divisioni, si usa

N. Dal numero

delle N. si è soliti clas-

(a una, a tre, a cinque N.).

Appellativo riferito

ad un gruppo

[PX

di artisti

trasferitisi a Roma da Vienna nel 1810 e stabilitisi nel monastero di S. Isidoro presso Capo le Case — abbandonato poco prima dai religiosi — dove conducevano una vita comunitaria

di tipo monastico.

Non

è affatto chiara l’origine

del nome N. « Alcuni pensano che esso sia stato coniato per ripicco da uno qualsiasi degli artisti tedeschi in Roma che non aderirono alla loro filosofia; altri dicono invece che scaturì dallo scherno del volgo romano. Ma occorrerebbe ricordare che l’espressione italiana ‘ alla nazarena ‘ ha una tradizione assolutamente innocua e del tutto rispettabile, e non significa altro se non ‘’coloro che portano i capelli lunghi ‘ » (K. ANDREWS, 1967, p. 18). Il nome in ogni caso ebbe una rapida fortuna ed è rimasto per indicare quel gruppo di artisti, che con le loro idee e le loro opere costituirono il primo dei movimenti cosiddetti ‘ primitivi” nell'arte dell'Ottocento. Le origini del movimento ’ nazareno’ risalgono alla ribellione che un gruppo di allievi dell'Accademia di Vienna attuò nel 1806 nei riguardi dei metodi tradizionali d’insegnamento, basati sulla copia dei calchi di gesso e di incisioni di antichi maestri: il ‘ modello” che essi si proponevano erano gli originali dei maestri vissuti prima di Raffaello, « nelle opere dei quali avevano scoperto la sincerità e la ’ Verità”, virtù perdute dall'arte dopo Raffaello. In ciò essi furono veramente i primi Preraffaelliti » (K. Andrews, cit., p. 10). Sul piano ‘teorico’ i N. si richiamavano agli scritti di W. H. Wackenroder e F. Schlegel. Il gruppo di Vienna, che nel luglio del 1809 si era costituito in Confraternita di S. Luca (Lucasbund), con un evidente richiamo ad analoghe associazioni medioevali, nel 1810 si trasferì a Roma, attuando — come si è detto — l'ideale di una vita

D. Teniers, J. Linard, il Caravaggio (con il suo Canestro di frutti della Pinacoteca Ambrosiana di Milano), E. Baschenis, G. B. Ruoppolo, P. Porpora, F. de Zurbaran, d. B.

comunitaria. « L'importanza particolare del Lucasbund sta nel fatto che gli artisti che lo componevano... intendevano attuare una salda continuità tra gli ideali espressi dalla loro arte e la vita pratica, e attuarla collettivamente. Questi

Chardin.

ideali erano

G. Metsu,

S. van

Ruysdael,

D. Seghers,

d. D. de Heem,

l'uguaglianza,

la verità nella fede e il patriot-

344

Necessitas

tismo » (C. MALTESE, 1960, pp. 118-119). Il movimento dei N. si inserisce infatti nel generale movimento, sostenuto dagli ideali del Romanticismo, di rivalutazione della religiosità e dello spirito nazionale, nel richiamo allo spirito dell'età medioevale. Le maggiori imprese romane dei N., furono le decorazioni ad affresco condotte in casa Bartholdy — 1816-1817 — (oggi a Berlino Est, Staatlichen Museen) e nel Casino Massimo (1817-1829), cui furono impegnati: F. Overbeck, P. Cornelius, W.

Schadow,

d. Schnorr.

P. Veit, 4. A. Koch, d. von

Questi

richiami

alle forme

al Beato

Angelico,

affreschi



nei quali sono

del Quattrocento

al Perugino,

Fuhrich,

evidenti i

italiano, in particolare

al Pinturicchio,

al Signo-

relli, al primo Raffaello — segnarono la fortuna del gruppo ma anche il suo disgregarsi: solo l'Overbeck rimase infatti stabilmente a Roma sino alla morte (1869); gli altri furono impegnati in lavori in Germania dove la loro fama si era ben presto diffusa, e dove esercitarono una notevole in-

fluenza, in particolare per l’opera di P. Cornelius rientrato nel 1820, chiamato da Ludwig | di Baviera a dirigere dapprima l'Accademia di Dusseldorf, poi quella di Monaco.

Per quanto si riferisce all'Italia è da rilevarsi che la ’ poetica’ dei N. costituisce la premessa del Purismo (v.) di Tommaso Minardi, movimento cui partecipò del resto lo stesso Overbeck. [PS

Necessitas. VITRUVIO

Termine di origine retorica; adoperato da

(ante 27 a. C.) per significare la condizione

costringe

l'architetto

a

modificare,

rendendole

che

adatte

a

particolari situazioni, le leggi della simmetria: « Sunt enim res, quas et in pusillo et in magno theatro necesse est eadem magnitudine fieri propter usum, uti gradus. Diazomata,

pluteos,

itinera...

et si qua

alia

intercurrunt,

ex

quibus necessitas cogit discedere ab symmetria... paulum demere aut adicere, dum id ne nimium inprobe fiat sed cum sensu, non erit alienum», V, VI, 7 (« Vi sono infatti cose che, dato il loro uso, bisogna far di una stessa dimensione tanto in un piccolo che in un grande teatro, come i gradini; ma per i diazomata o precinzioni o cinte, i plutei, le vie di accesso... e altri elementi se capitano, in cui la necessità costringe ad abbandonare la simmetria per non distruggere l’uso... non sarà proibito aumentare o diminuire un poco le misure, purché ciò non sia fatto avventatamente,

ma

Necropoli.

con

avvedutezza »).

Propriamente

[P.]

‘città dei morti’ (gr. vexpéc

“morto ‘ e réXic ‘ città 7). Mentre nell'antica Grecia con N. si indicavano le sepolture sotterranee di Alessandria d'Egitto, in età moderna (sec. XIX) il termine è stato ripreso dagli archeologi per indicare un insieme di sepolture di età precristiana; data l'eccezionale importanza che tali complessi hanno nella ricostruzione delle antiche civiltà la voce è divenuta, nel senso indicato, di uso comune. [P.]

Negazione. Termine che compare nel linguaggio della critica d’arte in relazione alle ‘ poetiche’ di quelle correnti d’arte d’avanguardia (v.), che intendono affermare principi e modi operativi del tutto diversi dalla tradizione, che viene appunto da esse ‘negata’. La N. è così implicita nell’atteggiamento espressionista (v. Espressionismo), ma diviene scoperta nel Dadaismo (v.); M. DE MICHELI (1966) scrive a tal proposito: «La sua negazione... è attiva non solo contro la società, già bersaglio dell’'espressionismo, ma contro tutto ciò che in qualche modo è connesso alle tradizioni e ai costumi di questa società » (p. 156). [P.]

Neoatticismo. per designare

Termine proposto da H. BRUNN (1853)

una corrente

artistica e uno

stile figurativo

affermatisi ad Atene intorno alla metà del Il secolo a. C.; caratteristica degli artisti N. è la frequente apposizione ’A9nvatocs (Ateniese) seguita alla loro firma. Stilisticamente essi si richiamano alle opere ‘ attiche’ dell'età classica o

a modelli

‘ arcaistici’

(v. Arcaistico,

Stile), con

un gusto

per imitazioni che talvolta si qualificano come vere e proprie copie o repliche degli originali. Trasferito a Roma nel I secolo a. C. il N. contribuì alla conoscenza dell’arte classica greca e all'affermarsi di quel gusto classicheggiante che trovò la sua affermazione nell'arte dell'età augustea.

Neobarocco.

[P.] Ritorno di ordine «storico » (nella cri-

tica d’arte tedesca il concetto si esprime anche con la parola Historismus) alle forme del gusto barocco, quale si manifesta nell'arte europea del sec. XIX, dopo il neoclassicismo (v.). Il N. rappresenta un individuale, sovente felice, modo di richiamarsi a qualche grande modello del Seicento, come nel caso del reviva/ rubensiano di Delacroix; o costituisce una vera e propria reazione al troppo classicismo divenuto accademico. La rinascita ottocentesca, più o meno sporadica o consistente, del gusto barocco, ha»‘origini talvolta più complesse: vi interviene talora il desiderio di risalire a origini

etniche anticlassiche, che nella musica si esprime con un Wagner o con Bruckner; e nella pittura, con la teatralità gigantesca dell’austriaco Hans Mackart (1840-1884), chiamato

dai contemporanei

Rubens

redivivus.

Verso la fine del sec. XIX, il N. nella architettura europea viene chiamato variamente nei singoli paesi (ad es., Wi/hel/minischer Stil in Germania; Edwardian style in Inghilterra). In Francia, gli inizi architettonici

del N., e i relativi aspetti

più vistosi, sono evidenti durante il secondo impero napoleonico. Lo dimostra segnatamente il teatro dell'Opera di Parigi (1861-1875) di Charles Garnier. Altro esponente del N., o Historismus, è stato Joseph Poelaert, autore del Palazzo di Giustizia di Bruxelles. In Germania si ricorda il Reichstag di Berlino di Paul Wallot (1884-1894); e in Italia, il monumento a Vittorio Emanuele Il

in piazza Venezia,

a Roma,

opera

di Giuseppe

Sacconi.

[G.] Termine riferito, intorno al 1955, ad

Neobrutalismo.

un movimento architettonico inglese, che si colloca « nell'ambito di una generale revisione critica dei portati metodologici e figurativi del razionalismo » (A. Silipo, in DAU, IV, 1969, p. 186). Sono evidenti fin dalle prime proposte del N. (scuola ad Hunstanton, 1954; centro residenziale a Park Hill, 1955) rapporti con correnti pittoriche d'avanguardia (Informale, v.; Art brut, v.; ecc.); pur tra varie ambiguità e contraddizioni è stato notato (A. Silipo, cit.) come con il N. si attui «una rivalutazione delle valenze espressive dei materiali puri e di tutto ciò che è struttura dell'edificio»; esso d'altronde «si traduce in un rilancio dell'istanza funzionale, come aderenza immediata dell’impianto alla configurazione ed alle sollecitazioni del tessuto naturale su cui l'opera si innesta ». [P.]

Neocinquecentismo.

Rinascita delle maniere (v.) di

alcuni grandi maestri della pittura del sec. XVI (soprattutto in riferimento al Correggio, a Tiziano, a Tintoretto, Raffaello

e Michelangelo),

Annibale mento

Carracci.

da parte di Ludovico,

Poiché

del manierismo

Agostino

e

nella storia dell’arte il supera-

(v.), attuato

dai Carracci

con

con-

sapevolezza critica (cfr. C. LL RAGGHIANTI, 1988), ma con un atteggiamento poetico nuovo e moderno, era stato definito dal Winckelmann in poi, eclettismo (v.) in senso fortemente limitativo; il termine di N. rappresentò intanto il tentativo di una migliore valutazione e considerazione del rinnovamento dei Carracci. Il pieno riconoscimento dell’arte dei Carracci si ebbe, come è noto, a partire dalla famosa Mostra dedicata in Bologna ai tre celebri pittori nel 1956. La fortuna critica dei Carracci ha poi sempre continuato ad espandersi internazionalmente. Ma non va dimenticato che un notevole riconoscimento dell'apporto dei Carracci nella pittura italiana del sec. XVII già era esplicito presso i curatori della Mostra della pittura italiana del '600 e del '700 in palazzo Pitti del 1922

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