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Italian Pages 302 [153] Year 1992
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LA FENICE
EDIZIONI
1992
Giovan Battista Pellegrini
Ricerche linguistiche balcanico-danubiane
LA FENICE
EDIZIONI
1992
Alla memoria di Jàdnos Balàzs
© copyright 1992 by LA FENICE EDIZIONI s.n.c. Via Antonio Pignatelli 32 - 00152 Roma
ISBN 88-86171-00-5 Printed in Italy
INDICE
Premessa 1.
2.
3.
Concordanze
pag.
lessicali tra Italia nord-orientale
balcanico-danubiane.
L’etimologia ungherese e
i
e regioni
prestiti dall’italiano.
Continuatori balcanico-danubiani del Veneto «balo-
ta». 4.
Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana ed occidentale.
9
13 37
63
71
5.
Sull’elemento latino dell’albanese.
6.
It. ant. forneccio, alb. furrégi «fornicatio»
7.
Il lessico dell’arbéresh ed
8.
Convergenze linguistiche italo-romene.
201
9.
Rumeno iele
227
10.
11
—
i
.
turchismi.
nota etimologica.
Una corrispondenza lessicale veneto-balcanica: «mòro». Una concordanza veneto-balcanica nella terminologia della «pipa».
12
101
Mn > un nel latino dalmatico.
Appendice Indice lessicale-onomastico
153 161
237
PREMESSA
Ho già riunito pel passato alcuni miei saggi linguistici — editi in riviste varie (anche poco note) o in miscellanee — che costituiscono una serie di volumi raggruppati secondo le tematiche trattate (Arabismi, Dialettologia ladina e friulana, Dialettologia e filologia veneta, Linguistica italiana, Toponomastica veneta) ed ora alcuni gentili amici mi sollecitano a continuare con analoghe sillogi. Ho pensato pertanto di raccogliere nel presente volumetto (al quale seguiranno altri ma di diverso argomento) i miei brevi studi che si riferiscono ad alcuni problemi di balcanistica includendovi anche tre ricerche specificatamente ungheresi. L’interesse remoto per codeste esplorazioni, piuttosto marginali rispetto ad altri lavori miei più ampi ed impegnativi, mi è stato suscitato, fin dal periodo degli studi universitari (purtroppo per me brevissimo a causa del servizio militare in piena guerra), quando seguivo soprattutto i corsi del mio Maestro, Prof. Carlo Tagliavini, e vari lettorati di lingue balcanico-danubiane. Del Tagliavini lessi poi alcuni saggi che si riferivano alle lingue suddette, specie al romeno e all’albanese di cui egli fu, unitamente all’ungherese, un conoscitore eccezionale, noto in tutto il mondo. Egli aveva insegnato linguistica romanza e lingua e letteratura romena all’Università Eòtvòs Lorànd di Budapest (giovanissimo) per ben 14 semestri ed era particolarmente apprezzato non soltanto da vari linguisti, ma anche da magiaristi e balcanologi insigni. Gli argomenti trattati nei miei scritti, quasi sempre brevi e limitati — che qui ripubblico con pochi ritocchi e qualche ripetizione di troppo — sono certo di portata piuttosto ristretta se si confrontano con quelli assai vasti, e spesso fondamentali per la disciplina, dovuti a Carlo Tagliavini. Nel mio volumetto sono privilegiati, di norma, i temi che si riferiscono ai contatti linguistici italiani (specie dell’Italia Nord-orientale o del Meridione) con le lingue della Penisola balcanica e con l’area danubiana; sono spesso posti in risalto alcuni tratti specifici del lessico e del «latino balcanico» (una nozione alla quale credo con convinzione), con i vari elementi del vocabolario dialettale italiano i quali sottendo9
‘
no ovviamente rapporti di ordine storico ed in particolare di probabili punti di partenza italiani e di direzioni individuabili nella romanizzazione della penisola dell’Haemus. Anche per i saggi magiari si può notare la prevalenza, nella trattazione, per i prestiti (dall’italiano in ungherese) e delle tracce toponimiche in Italia da ascrivere con sicurezza o con maggiore o minore probabilità agli Ungari medievali, ben noti per le loro temutissime scorribande a cavallo in Occidente. Analogamente per l’albanese € romeno si noteranno soprattutto varie annotazioni lessicali nell’ambito del filone latino o di quello turco . Alcuni brevi saggi trattano di problemi specifici che si riferiscono a singole voci o ad un fenomeno fonetico che ha avuto particolare diffusione nella Dalmazia romana e poi romanza. Nella speranza che il mio libretto non risulti del tutto inutile e che esso sia stimolante per alcuni particolari e per ulteriori approfondimenti, do qui l’elenco delle riviste o miscellanee dalle quali gli articoli sono stati ripresi. 1. Concordanze lessicali tra Italia nord-orientale e regioni balcanico-danubiane: in «Annales Universitatis scientiarum Budapestinensis de Rolando Eòtvòs nominatae. Sectio linguistica», Tomus ‘XX, Budapest 1979, pp. 7-22. 2. L’etimologia ungherese e i prestiti dall’italiano, da: «Rivista di studi ungheresi» 3(1988), pp. 73-83, e da Appunti su alcuni italianismi dell’ungherese, «Giano Pannonio». Annali italo-ungheresi di cultura I, Padova 1978, pp. 15-30. 3. Continuatori balcanico-danubiani del veneto «balota», , «Linguistica 16. In memoriam Stanko Skerlji Oblata», II., Ljubljana 1976, pp. 119-123. 4. Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana e occidentale, in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XXV: Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari, Spoleto 1988, pp. 307-349. 5. Sull’elemento latino dell’albanese da: Alcune osservazioni sull’elemento latino dell’albanese, in «Studia Albanica», 201, (1983). Convegno sull’origine del popolo albanese, Tirana 1-6 luglio 1982 pp. 63-83 ed in albanese: Disa vazhgime mbi elementin latin tè shqipes, «Studime Filologjike» 36, 3, pp. 85-102 e da I rapporti linguistici 10
interadriatici e l’elemento latino dell’Albanese, in «Abruzzo — Rivista dell’Istituto di studi abruzzesi» 19 (1980), pp. 31-71. 6. It. ant. fornecchio, alban. furrégì «fornicatio», da «Revue Roumaine de Linguistique» 25 (1980), pp. 379-381. 7. Il lessico dell’Arbéresh ed i turchismi, in Le minoranze etniche e linguistiche. Atti del 2° Congresso internazionale I, Piana degli Albanesi 7/11 settembre 1988, edito nel 1990 dal Comune di Piana degli Albanesi (Bashkia e Horésse Arbéreshéve), pp. 327-362. 8. Convergenze linguistiche italo-romene, in Studi albanologici, balcanici, bizantini e orientali, in onore di Giuseppe Valentini, S.J. Firenze 1986, pp. 147-167. 9, Rumeno «lele». Nota etimologica, in Zbornik za filologiju i lingvistiku (dell’Università di Novi Sad) 9 (1961-62), pp. 245-251. 10. Una corrispondenza lessicale veneto- balcanica: «moro», «Quaderni veneti» (diretti da G. Padoan) 5 (1987), pp. 76-84. 11. Una concordanza veneto-balcanica nella terminologia della «pipa», in «Abruzzo. Rivista di studi abruzzesi» anni 23-28 (1985-1990). Scritti offerti a Ettore Paratore ottuagenario, pp. 387-398. 12. MN>UN nel latino dalmatico, in «La parola del passato. Rivista di studi antichi», fasc. LII, Napoli 1957, pp. 55-58 e Voltiomnos, Volsovnus e Delminium, in Studi in onore di P. Meriggi, «Athenaeum» 47 (1969), pp. 252-254. Gli articoli sono riediti secondo l’edizione originaria salvo quache ritocco ed integrazione; si noterà inoltre qualche rinvio interno in parentesi quadra. Dedico questa raccolta di studi alla memoria dell’Amico prof. Jànos Baldzs che, oltre ad averci procurato importanti studi di linguistica comparativa generale e di filologia classica, è stato un grande interprete dei rapporti culturali italo-magiari, formatosi come studioso (per lo meno in parte) anche alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ove fu brillante allievo di Giorgio Pasquali insegnando anche all’Università di Roma per alcuni anni. Ringrazio infine gli amici Sergio Nogarin, Maria Teresa Vigolo, Monica Genesin e Enzo Croatto per il gentile aiuto concessomi nella correzione delle bozze di stampa. 11
CONCORDANZE LESSICALI TRA ITALIA NORD-ORIENTALE E REGIONI BALCANICO DANUBIANE
Questa comunicazione ha il duplice scopo di tracciare un panorama generale, sia pure molto succinto, relativo alle varie convergenze lessicali tra Italia nord-orientale (in particolare dialetti veneti, friulani, ladini e istrioti) e area balcanico-danubiana, ove si parlano, come sa, lingue di origine assai diversa tra di loro. Inoltre è mio intendimente portare qualche chiarimento o suggerimento, sia pure ancora non del tutto perfezionato, sulla storia e sull’area di alcune parole attestate nelle suddette regioni, ritenute per lo più di etimo oscuro o assai dibattuto. Accanto all’elenco delle convergenze linguistiche, ed in specie lessicali, è ovvio che sarà d’obbligo di ricercarne una giustificazione storica per cui è necessario fin da principio indicare alcuni filoni lessicali nei quali rientrano le voci analoghe, dovute ad identica etimologia o a mutuazioni. 1.
si
2. Dovrei innanzi tutto isolare uno strato comune, d’epoca preromana, che può interessare il Veneto e il Friuli e d’altro lato anche le regioni adriatiche dell’altra sponda o soffermarmi sulle caratteristiche comuni della terminologia alpina in specie tra alto veneto, ladino dolomitico, friulano e dialetti bavaresi, sloveni con eventuali diramazioni sino ai Carpazi. Ma su tale tema preferisco rinviare alle informatissime ricerche di J. Hubschmid o di C. Battisti e G. Alessio, e per la nomeclatura botanica, soprattutto a alcuni brillanti saggi di V. Bertoldi!. Ne ho fatto già qualche cenno nel mio Di V. Bertoldi si veda ad es. Relitti prelatini comuni alle Alpi ed ai Carpazi... «Archivio glottologico italiano» XXIV (1930), pp. 87-98; di C. Battisti è utile il contributo 1 Balcani e l’Italia nella preistoria. «Studi etruschi» XXIV (1955-56), pp. 271-299; le principali etimologie «mediterranee», che interessano anche la Balcania, 1
13
articolo «Evoluzione linguistica e culturale dei paesi alpini» del 1975?; pertanto mi basterà citare solo pochi esempi corrispondenze quali friul. ven. grèbano dirupo», «greppo, «luogo scosceso e stente selvaggio, eremo, catapecchia cadente, rovina brulla» (V. Pirona 404), vic. grèbano, sgrèbano, pad. venez. trev. grèbani #cia «greppi», vals. sgrèbane «grillaia», «carogna» (Prati, Et. ven 79) che secondo il DEI III, 1867 (s.v. grèbano, Ramusio XVI «dirupo» e mar. «scoglio lungo la costa») sarebbe di origine medi terranea da un ‘graba/"greba «roccia» «parete rocciosa» parallelamente allo slov. greben «cresta di montagne» (v. Pleterinik I 242 greben «der Grat, die Klippe, der Gebirgkamm»). In realtà, rivedendo materiali riuniti dall’ Alessio3 — e si noti anche Olivieri Diz. et it. 358 — 9, il quale mette insieme grava «pietra, ghiaia» di | raba «roccia» donde gravina [cosent.] «burrone, canale erosivo» e forse l’it. sett. rava «frana»; da una forma greb- dipenderà la voce grebina «cresta di monte», donde ven. grèbano, sgrèbano «balza dira o» 4 —, Ci si accorge che l’origine slovena della voce (e pertanto indoeuropea), già sostenuta da vari studiosi, tra cui anche il REW 3857 greben (slov.) «Fels», sembrerebbe forse preferibile. Essa è riesaminata con puntuali confronti nel recente dizionario etimologico del Bezlaj 173, che spiega la voce greben col senso originario di «pettine» O Grat®, essa raggiunge il romeno greabiàn «garrese» e l’ungh rinviere gereben «Scapecchiatoio» , «particolare pettine», per cui basti alla ampia discussione del TESz. I, 1049. D’altro canto non si possono ignorare gli amplissimi materiali lessicali riassunti dallo Stampa
di
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| ’ sono esposte da G. Alessi ssio nel volume Le lingue indoeuropee nell’ambiente mediterraneo i
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Nel vol ume «Le Alpiierp pi e l’Europa. Cultura e politica»
1297-67.
G. Alessio,
4.
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14
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5
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pp.
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Veneto»
che
di può accettare l’ipotesi dell’origine slovena della nostra famiglia parole (REW 3837)...». Più convincente è l’origine da un comune sostrato di un’altra voce, tipicamente alpina, che indica «lo spazio cioè il all’aperto ove pernottano le pecore, addiaccio, stazzo» e «tamerile», assai ben esplorato da J. Hubschmid (ZRPh. 66. 13, 23, che si 35) il quale presuppone una antica base preindeuropea ‘tamara continua nelle Alpi orientali, in friulano, veneto (ivi soprattutto nella toponomastica), nel ladino centrale inoltre nel ted. carinz. tummer, tumper «Hirde, Finziunung» e nello sloveno dial. tamar, tamor, tamàra «die Viehhiirde, die Pferche» (Pleter$nik Il, 655-66) onde il verbo tamariti «in Pferchen einschliessen, pferchen» (ibid)°. E se dovessimo continuare ad esaminare il filone del sostrato non finiremle mo mai di citare ampie concordanze, a volte ingannevoli, tra regioni predette per le quali si era invocato pel passato soprattutto una amplissima diffusione della lingua illirica, di cui in realtà sappiano assai poco.” Le corrispondenze sono spesso illustrate dalla toponomastica, e qui vorrei ancora una volta ricordare il tipo Tergeste (Trieste) che sta di certo con Opi-tergium (Oderzo) — queste due città di verosimile origine venetica — e Tergolape (Tab. Peut.) nel Noridi un cum, a cui si soleva aggiungere il citatissimo tergitio negotiator epitaffio pannonico da Scarbantia (Sopron), equazione in parte contedel il stata, ma non so se a ragione o a torto.® Potrei citare anche caso in Mayer, lacus Pelso, detto pure lacus Pelissa inferior (v. attestazioni lacus in altro si che il ripete Balaton, nome cioè lago Spr. Illyr., I, 263), da “pele-s, ad es. Pelso, il Neusiedlersee, con vari tentativi etimologici,
si
Bari (Laterza). pp.
ivi Parole oscure del territori, o alpino. «Archivio lA in particolare p. 558. 347-571, pp. XLVI MOD), Olivieri, Dizionario etimologico italiano?. Milano . i (Ceschi eschina), 388-9; è d notare che ad es. G. Devoto ha dedicato a rava «frana» un contento autonomo. Rava «frana» e Ravenna in «Atti Ist. . Ven » XCIII (1933-34), _ i pp. 953-962 poinin Scritti minori, II, Firenze 1967, pp. 54-61. > F. Bezlaj, Etimoloski slovar slovenskega Jezika. A-J, Ljubljana 1977. 3
riferiscono all’area lombarda (1937), 148-90 g.v. «greben» si 2 del tipo greben, non e le sue conclusioni: «Considerando la vasta area RH
Tale voce preromana si continua spesso anche nella toponomastica del Veneto, specie nella forma Tambre (Alpago, BL) ecc. 7 Per un corretto ridimensionamento del concetto di «illirico» si veda ad es. H. 155-83. Kronasser, Illyrier und Illyricum. In «Die Sprache» XI, 1-2 (1965), pp. La Prosdocimi, 8 in G.B. Pellegrini-A.L. Mi basti rinviare alle mie brevi note bibliografia). la 601-2 principale (ivi 1967, Padova-Firenze 1, pp. lingua venetica. 6
15
‘pelso, nel senso di «scialbo» «pallido», cioè dal colore;
oppure potrei
allegare confronti, ad es. con l’oppidum Palsicium (Passicium Palsacium, Palsatium) del Veneto, menzionato da Plinio (N. H. III, 131) e di incerta localizzazione,’ oppure col nome di persona Pelsonia o col toponimo a. prussiano Pelesen.'° Pare comunque difficile accordare il limnonimo pannonico, come spesso si fa, col tema preromano ‘pala/ ‘palla, “pella che indica di norma la «roccia», voce più volte indagata da Hubschmid!, onde anche i nomi del M. Pelmo/Pèlf o M. Pelsa, montagne dolomitiche attraverso un ‘pelisa, cfr. a.a ted. felisa «Fels»!2.
Qui ci interessa in realtà di fare il punto e di trovare convergenze specifiche tra latinità dell’Italia nord-orientale — ciò che significa soprattutto «latinità aquileiese» — e latinità balcanico-danubiana cioè in connessione con gli elementi latini delle lingue balcaniche. Il problema è in prima linea storico poiché coinvolge l’individuazione delle vie e l’epoca di romanizzazione dei Balcani, problema ripreso recentemente nel volume di H. Mihàescu, La langue latine dans le sudest de l’Europe, Bucarest 1978; rielaborazione interamente rinnovata di un precedente volume pubblicato nel 1960 in romeno." I Romani sono venuti a contatto fin dal III sec. a.C. con stirpi prevalentemente illiriche della Penisola Balcanica meridionale a causa delle azioni di pirateria esercitate da queste genti. Le guerre contro di esse si protrassero per quasi due secoli e mezzo dal 229 al 9 3.
Anna Karg, , Die Ortsnamen des antiken Venetien und Istrien. «WòG6rter und Sachen» XXII (1941/42), p. 118 e p. 179-80. 10 V.H. Krahe: «Indog. Forschungen» XLIX, p. 273. Ad es. nel fondamentale contributo Vorindogermanische und jungere WortI schichten in den romanischen Mundarten der Ostalpen: ZRPh. 66 (1950) | pp. 1-94, in | particolare pp. 66-72. V. i miei Nomi locali del medio e alto Cordevole, Firenze 1948, nr. 184 (= DTA © ’
À
, 11/4).
Cioè Limbà latina în provinciile dunàrene ale imperiului roman. Bucuresti 1960 (si veda anche la mia recensione in «Cultura neolatina» XX, 1960, pp. 299-300). 13
|
16
a.C.14 È
importante rintracciare le vie di penetrazione romana, le
direttrici secondo cui si è estesa la romanizzazione nella Penisola balcanica settentrionale e cioè nella Dacia. E infatti probabile che la strada seguita da Traiano per la conquista nel 105 sia stata poi battuta con particolare intensità ed anche qui non sono mancate ipotesi diverse; mi basterebbe rinviare ad una polemica a questo proposito tra due archeologi italiani, A. Degrassi e Sandro Stucchi. Quanto alla diffusione della latinità nella regione danubiana, il Mihàescu ha notato che gli inizi dell’espansione della lingua latina si colopossono far risalire ad un’epoca anteriore alla conquista. La nizzazione della Dalmazia era già iniziata intensamente nei decenni anteriori alla nostra era. Così pure la Pannonia era percorsa da correnti di commercianti romani, e già nel I sec. a.C. erano stati inviati nella Dacia esperti agrimensori dall’Italia. La lingua latina si è diffusa per ragioni principalmente commerciali lungo le arterie che portavano dall’Italia, attraverso il corso del Danubio, a Bisanzio. Da Aquileia si poteva raggiungere tale città attraverso vari itinerari e lo studioso romeno ne indica i principali in direzione Est e Sud-Est. La via di terra che portava alla Dalmazia partiva da Aquileia, passava per Tergeste (Trieste), per Parentium, Pola, T'arsatica (Fiume) e seguiva la costa verso Senia, procedeva per Scardona, Salona, Narona, Scodra, Dyrrachium, Apollonia ed arrivava ad Aulona (Vallona, alb. Vloré). Ma il viaggiatore poteva dirigersi da Aquileia a Bisanzio soprattutto attraverso Emona (Lubiana), Siscia, Sirmium, Singidunum (Belgrado), Serdica (Sofia), Philippopolis (Plovdiv) e Hadrianopolis (Edirne). Sempre da Aquileia si dipartiva
di
I.I. Russu, Illirii. Sugli Illiri e sui loro rapporti con Roma v. anche il volume 1969, — specie Romanizarea. Bucuresti onomasticd pp. 43-6. Istoria - Limbà si 14
15 S$. Stucchi, Il coronamento dell’arco romano nel porto di Ancora. «Rendiconti Accad. archeol. di Napoli» n.s. XXXII (1957), pp. 149-64 e Contributo alla conoscenza della topografia dell’arte e della sioria della Colonna Traiana. Il viaggio marittimo di Traiano all’inizio della seconda guerra dacica. «Atti Accademia di Udine» s. VII, vol. I (1957-60): A. Degrassi, La via seguita da Traiano nel 105 per recarsi nella Dacia del 1946-47, ora in Scritti vari di antichità 1, Roma 1962, pp. 567-81 e v. la replica a Stucchi, Aquileia e Trieste nelle scene della Colonna Traiana? del 1962, ora in Scritti vari di antichità, III, Venezia-Trieste 1967, pp. 173-85.
17
una via importante che portava ad Emona, Poetovio (Ptuj), Savaria (Szombathely); Scarbantia (Sopron) e Carnuntum (Petronell) sulla riva destra del Danubio, e tale fiume era utilizzato per la circolazione di persone e di merci. Per recarsi da Ovest ad Est vi era pure una via settentrionale della Dacia e seguendo la valle del Trotus essa, giungeva a Tyras presso l’estuario del Dniester. Mi pare utile di rammentare l’enorme estensione mitteleuropea della circoscrizione metropolitana del Patriarcato aquileiese specie verso Oriente; da tale estensione possiamo inferire che Aquileia è stata certamente un centro di irradiazione linguistica verso l’area danubiana in epoca romana, tardo-antica e alto-medievale. I confini della Metropoli nel sec. V raggiungevano a Nord e Nord-Est Castra regina (Regensburg-Ratisbona), Batavis (Passau), Vindobona (Vienna); Carnuntum (Petronell) e Brigetio (Komàarom); essi includevano nella Pannonia prima Scarbantia, Savaria, Poetovio e, nella regione della Sava (Savia), Aemona (Lubiana) ecc.!6, 4. La latinità aquileiese ci è nota purtroppo in forma assai frammentaria dalle numerose epigrafi rinvenute nella città (nuovi recuperi di importanti materiali sono assai comuni quasi ogni anno) e nei centri friulani vicini; ci si può inoltre avvalere delle fonti indirette rappresentate, in prima linea, dalle caratteristiche lessicali dei dialetti friulani che ne rappresentano la diretta continuazione (lo studio di tali caratteristiche è uno dei compiti programmatici dell’impresa dell’ASLEF (conclusosi nel 1986) e del futuro dizionario
etimologico friulano (di cui abbiamo posto recentemente le basi). Le caratteristiche del latino epigrafico aquileiese, o più genericamente della X Regio Augustea, sono state studiate esaurientemente da
le
Orientano cartine inserite da Gian Carlo Menis nel suo articolo «I confini del patriarcato d’Aquileia», in Trieste 41° Congresso della Società filologica friulana, Numero Unico del 1964, pp. 29-37 e precisamente Tav. 1. «Confine della Metropoli di Aquileia nel sec. V», Tav. 2. «Confine della diocesi di Aquileia», Tav. 3. «Confine dello Stato patriarcale nella prima metà del sec. XIII». Si veda inoltre: Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Venetiae — Histra Dalmatia a cura di P. Sella e G. Vale. Carte topografiche, Città del Vaticano 1947. 16
18
Alberto Zamboni in una serie di contributi usciti negli ultimi anni!?. Pur nel quadro di una relativa unità, (del resto ben nota) del latino volgare, lo Zamboni ha potuto isolare alcuni fenomeni che collegano le testimonianze aquileiesi e dell’Italia Nord-orientale prevalentemente al latino occidentale, ma egli non manca di segnalare alcuni tratti di tipo orientale che appaiono con maggiore intensità nelle regioni balcanico-danubiane, esaminati ora soprattutto dal Mihàescu (essi si continuano spesso nel romeno). E verosimile inoltre che il latino noricese ed in parte pannonico rappresenti spesso una emanazione latino aquileiese, come attestano le epigrafi e la romanizzazione con elementi provenienti sovente dalla X Regio. A livello di neolatino conviene segnalare alcune concordanze forse non casuali tra i dialetti friulani, ladini, veneti (e a volte istrioti) e lingue balcaniche, in particolare romeno. Non mi soffermo, qui sulla nomenclatura religiosa accolta da Sloveni e Croati; come conseguenza della dipendenza ecclesiastica da Aquileia tale terminologia non poteva non essere propagata che da tale metropoli, per lo meno per gran parte dei termini, come ha mostrato P. Skok in una serie di articoli.!8 Attraverso la mediazione slava meridionale molte voci sono state trasmesse anche all’ungherese, come è da tempo risaputo.!.
di
17
V.A. Zamboni, Contributo allo studio epigrafico della X Regio Augustea
(Venetia et Histria). Introduzione. Fonetica (Vocalismo); «Atti Ist. Veneto», CXXIV (1965-66), pp. 463-517; Vocali in iato e consonantismo; ibid. CXXVI (1967-68), pp. 77-129 Morfologia; «Mem. Accad. Patavina» LXXX (1967-68), pp. 139-70; Il lessico; «Studi linguistici friulani» 1 (1969), pp. 110-82. 18 P. Skok, La semaine slave. RESI. V (1925), pp. 14-23 e VIII (1928), pp. 87-8; Terminologie chrétienne en slave: L’église, les prètres et les fidèles. RESI. VII (1927), pp. 177-98 e X (1930), pp. 186-204. 19 Si possono scorrere i termini ecclesiastici ungheresi nei due fondamentali volumi di Kniezsa Istvàn, A mayar nyelv szlav jòvevényszavai. Budapest 1955; un cenno anche in L. Benko, The lexical stock of Hungarian, nel volume miscellaneo The Hungarian Language edited by L. Benko and S. Imre, Budapest 1972, pp. 181-4, ma non mancano i prestiti latini diretti nella terminologia ecclesiastica, v. ibid. pp.
186-8.
19
Ed ora ricorderò alcuni esempi di concordanza lessicale in qualche caso veramente indicativa (anche se tali considerazioni sono soggette sempre a riserve a causa dell’imperfetta conoscenza del lessico neolatino). Tra le varianti latino volgari che hanno rimpiazzato per «fegato» il lat. iecur è ben noto che per influsso del gr. ovxot6v fegato d’oca ingrassata con i fichi’ ebbe un ficatum che si continua nel rom. ficat (arom. hicat), forma antica che venne poi alterata in Italia, Gallia ed Iberia in ficatum, fécatum. Anche l’Italia nordorientale, la zona alpina e la Dalmazia si accordano con la Dacia (eccezionalmente anche il campidanese conosce figàu, figadu, Wagner, DES I, 518, che pare ivi una innovazione). I dialetti veneti, hanno figà, figào, il friul. fiàt, 427, l’engad. ha fiò (Peer 181), il gard. fuyà, bad. (come Rocca Pietore) figè*! Laste figé. L’area veneta comprende in questo caso anche il ferrarese figà e, secondo i dati dell’AIS I, 139, si nota tale distribuzione: area veneta, ladina centrale, friulana e istrioto tipo ficatum, inoltre margine orientale della Lombardia, P. 229 (Sonico), 238 (Borno); 249 (Bagolino), 259 (Toscolano), 256 (Brescia), margine settentrionale dell’Emilia, P: 427 (Baura di Ferrara); altrimenti in Lombardia, Svizzera lombarda e ladina ecc. domina ficatum, fécatum e, spesso con metatesi, fidik, fédak o durum”. La voce doveva esser nota anche al dalmatico, cfr. vegl. fekuàt, donde è passata al s. cr. di Ragusa pikat da pikàt (Skok II, 655). Non casuale è probabilmente l’innovazione vétéranus ‘vecchio’ per vétus , vèclus che riunisce il romeno bdtrîn (arom. betîrn 5.
si
jap
20 Alcune osservazioni su tale argomento si trovano già nel mio articolo Osservazioni sulle concordanze tra romeno e «italo-romanzo» nord-orientale. Anale Societàtii de limba romànà 3-4 (Numàr jubilar si omagial lui Radu Flora), Zrenjanin 1972-73, pp. 393-402. 24 V. il mio Schizzo fonetico del dialetti agordini, «Atti Istituto Veneto» XCIII (1954-55), pp. 281-424, in particolare p. 297. 22 Anche la distribuzione del tipo ficatum contro ficàtum, fécàtum non fornisce alcuna prova od indizio per accogliere l’ipotesi della cosiddetta «unità ladina» o «retoromanza»; Vv. su ciò il mio articolo «Studi di onomasiologia friulana». «Atti dell’Accademia di Udine» 1976-78, s. VIII, vol. III, pp. 5-44 (con esempi paralleli).
20
istrorom. betar) al friulano. Nel significato di un “vecchio”vèétèranus è già noto in S. Girolamo (Epist. 50, 53) e data l’origine dello scrittore (Da Stridone nell’Illirico), l’attestazione non è forse casuale per l’area. Il friul. dice vedrdn - e «uomo (o donna) che abbia oltrepassato l’età consueta del matrimonio senza sposarsi» (N. Pirona) e la toponomastica veneta conosce una Tore ve(d)rana «torre vecchia» (veteranus si continua anche nell’Italia meridionale). Una voce tipicamente balcanica è come si sa, conventus che ha assunto ivi il senso di «conversazione» o di «parola» attraverso una evoluzione semantica condizionata dal gr. Guiàia e dell’a. slavo zbor «assemblea, conversazione»? Si noti il rom. curvînt «parola», l’alb. kuvént «conversazione, colloquio» «accordo», il ngr. e biz. rovBévtos, rovBévta, -tioua, «conversazione» «compagnia» e xovBevtidEw «parlare» «conversare» (Andriotis? 167), cfr. conventare «riunirsi» (in Tertulliano, De anima 54) e v. REW 2194. Anche nel Veneto si conoscono derivati di tale voce ad es. poles. (Rovigo) kontarse (evidentemente da covent- > coent- > cont-) «wagen», etimo proposto dal Salvioni («Romania» 43, 383) ed ora confermato dalla forma feltrina mi covente «oso», specie no covente «non oso». E sorprende la perfetta coincidenza di una espressione romena quale îmi pare ràu «mi dispiace» col feltr. parer riu «dispiacere», ad es. someiar ai sò ne se par riu «assomigliare ai propri familiari non deve dispiacere» («non pare male») — v. DFR 85%, ove il rom. rdu e il feltr. riu continuano il lat. reus nel senso di«cattivo», come nei dialetti periferici e nei ladini dolomitici ove si ha spesso ruo”‘. Coincidenze veramente puntuali tra romeno e Italia nord-orientale sono state già segnalate dal Densusianu e recentemente da Maria 23 24
te). 25
p. 85
V. Mihàescu, La langue latine. Cit. p. 300. Da raccolta personale; la voce non è stata inclusa nel DFR (v. nota seguen|
V. Br. Migliorini-G.B. Pellegrini, Dizionario del feltrino rustico, Padova 1971,
(= DFR).
i miei Appunti etimologici e lessicali sui dialetti ladino-veneti dell’Agordino, «Atti Istituto Veneto» CVII (1948-49), p. 179, ruo «brutto, orribile (si dice specie del tempo, ma anche di persona); nella frase fa ràùo «fare il finimondo, eccedere»; v. anche C. Tagliavini, DLiv, 272. 26
V.
21
Iliescu?’. Il nostro Maestro C. Tagliavini ha illustrato” da vari anni il caso unico del romeno che per «ape» usa albinà, ritenuto tipico ed
esclusivo della lingua balcanica. La voce trova invece un bel riscontro nei dialetti ladini e alto-veneti ove albina significa «alveare» e proviene da alvina (connesso con alveus), voce rara attestata dal grammatico Flavius Caper (fine del II sec.): alvearia non alvina (CGL VII 107), mentre ora G. Alessio” vi ha aggiunto il ligure ant. arbinale, albinarium (Rossi, Gloss. lig. 15) che è una formazione ibrida. Credo di aver indicato correttamente i paralleli veneti e ladini dell’aromeno zmuticare «verstimmeln» che era sempre menzionato come l’unico continuatore del lat. muticus (hapax di Varrone, RR I, 48) «spezzato», REW 535787. Si tratta del ven. sett. smodegda(r) «lussare», «sfasciare» e del lad. centr. smudié «idem». Non condivido qui l’opinione di G. Alessio”! il quale pensa invece al lat. *moticare per motitare «muovere spesso» (Gellio), con sostituzione di suffisso, voce che troverebbe un riscontro anche nel éalabr. muticare «togliere, spostare, cambiare». '
Concordanze specifiche tra romeno e veneto-friulano-ladino non mancano di certo; spesso voci che si ritenevano tipiche ed esclusive del latino balcanico si ritrovano proprio nella nostra area 6.
O. Densusianu, Opere. II Lingvistica. Histoire de la langue roumaine, Bucuresti 1975 (riedizione a cura di B. Cazacu, V. Rusu e I. $erb), 102-107; Maria Iliescu, SCL IX (1958), p. 411, e soprattutto Concordante intre limba romànià dialectele retoromane; SCL XXII, 4 1971, pp. 369-75 e Considerazioni sopra il lessico fondamentale friulano in Italia linguistica nuova ed antica. Studi linguistici in memoria di O. Parlangéli, Galatina (Congedo Editore) 1976, pp. 513-26. 2 C. Tagliavini, Appunti etimologici rumeni. 3. Albinà «ape» e paralleli ladini, in Omagiu lui Ramiro Ortiz cu prilejul a douàzeci de ani de învàtàmànt in Romània, Bucuresti 1929, pp. 172-7; ma v. anche C. Battisti, Introduzione ad A. Majoni, Cortina d'Ampezzo nella sua parlata. Forlì 1929, p. XIV (con analoga spiegazione, ma meno
nord-orientale ed alcune potrebbero risalire ad irradiazioni lessicali dalla metropoli di Aquileia. Nel doppione facilla di contro a ‘flacula (REW 3137, 1, 2; FEW III, 1934, 363-4) — quest’ultimo nato forse per influsso di flagrare o di flamma — vorrei precisare che accanto al rom. fachie «torcia» e a voci ricordate nei citati dizionari etimologici, anche il Friuli ha fale «fiaccola» accanto all’ant. fagla (esempi in N. Pirona 290). Tale forma permette di interpretare forse alcune forme venete (come mi suggerisce l’amico A. Zamboni), anche se non vi mancano difficoltà fonetiche. Per «mannello di frumento» e spesso per «covone» nei dialetti veneti si conosce il tipo fdia, fàaga che il Prati, Et. ven. lascia inspiegato a causa di una attestazione antica del Codice padovano del Gloria I, p. CXXII, falia (a. 895). Ma non vorrei escludere che tale forma risulti da una falsa restituzione dello scriba o da un errore; si noti che il mannello può assomigliare ad una fiaccola primitiva e che il bellun. rustico ha faia nel senso di «fiammifero», probabile trasposizione da «fiaccola». Del resto anche il Salvioni nelle Postille postume (edite in REW-Faré 3138) spiegava il ven. fagia, faja da un supposto ‘fagula «covone» che egli peraltro traeva da ‘facus (asterisco!) «fagotto»3, Conmr’è noto, la penisola balcanica conosce derivati di facùla e cioè il bizant. e ngr. @&xha, onde probabilmente il rom. faclà (e il derivato più comune ficlie), il s. cr. faklja e baklja, vaklja, oltre a fagla (Vodice), slov. fagla (dialetti interni) v. Skok I, 96, il quale
27
si
documentata). ? G. Alessio, Problemi storico-etimologici rumeni, «Acta philologica», tomus V Roma 1966 (della «Societas Academica Dacoromana»), pp. 7-48, in particolare p.
45.
3% 31
22
V. ora i miei, Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa 1977, pp. Problemi storico-etimologici cit. pp. 44-8.
119-23.
32 Ad es. «Cu la fagla Tisifone brustulla/La barba, cumò a chist, cumò a chel» (in Bosisio, sec. XVIII). Il nesso -gl- è ancora conservato in protonia in varie voci friulane, ma la riduzione di -gl- a -l- è tipica di tale parlata ed in contrasto col ladino. 33 V. ad es. T. Cappello, Contributo alla conoscenza dei dialetti bellunesi. «Atti Istituto Veneto» CXVI (1957-58), p. 17, ove fàia del dialetto di Mel (Belluno) «fiammifero» è derivato erroneamente dal tirolese fair «Feuer». 34 Nel REW, fagòtto è derivato da 3128 ‘facellum «Biùndel» (dal gr. phakelos) con mutamento di suffisso e al 9703 è tratto dal prov. fagot dal gr. phdakelos citato. Mentre il DEI, II, 1583 ritiene fagòtto sostanzialmente di origine oscura, il Prati, VEI 407 riconosce la dipendenza della nostra voce dal franc. fagot «involto» (sec. XII), ma non crede alla dipendenza di questo dal gr. phdakelos e respinge l’origine da facula del veneto fagia (secondo noi a torto). 35 Tale voce non è riportata dal Bezlaj citato.
23
considera facla voce tipica della latinità balcanica (ma l’alb. ha invece flaké «fiamma», «fiamma della lampada» «incendio»). Qui dovremmo menzionare anche l’ungh. fdklya che è considerato un latinismo anche dal TESz. I, 831. Hanno qualche interesse, per la diffusione balcanica, e contemporaneamente anche veneta, i continuatori del gr.-lat. flegma «infiammazione», «riscaldamento»; l’italiano per via dotta ha flemma «umore grosso, acqueo, freddo generato nel corpo» e figurato «calma nel procedere» (DEI II, 1666). La voce si continua nel s.cr. flegma «muco» e nel Kosmet flama (a Peé) «costipazione» che pare un prestito dall’alb. flamé «malattia dei quadrupedi» e «essere mitico», anche «Cholera avium», voce che il Meyer, EWAS 107, riporta alla parola succitata (con dubbi ora espressi dal Cabej, «Bul. Sh.» 1, 1962, p. 99). In dialetti s. cr. ad es. a Poljica il senso di flegma è identico a quello assunto da dialetti veneti e istrioti (e non sono in grado di stabilire se si tratti di prestito) e cioè plema (con freso con p-che denota antichità) «acquavite debole e cattiva», flema «plavi$» (cioè «idem») in dialetto croato (Zumberak). Per il veneto si noti a Vittorio Veneto (Treviso) frema «prima e ultima grappa (torbida, acquosa) (Zanette 240) e a Belluno fiema «idem», per l’istrioto l’Ive 172 riporta per Sissano flema «calma» e «ultimo avanzo di acquavite che emana dal distillatore, di color pallido e bianchiccio», inoltre cfr. friul. fleme «il prodotto della prima distillazione vinosa per ottenere l’acquavite» (N. Pirona 324). Il DEI III, 1649 segnala il calabr. froma «schiuma che esce dalla bocca» dalla voce gr.-lat. predetta, attraverso ‘fleoma < gr. phlégma «muco, siero» (Rohlfs, N. Diz. Cal. 280). Sempre lo Skok I, 539
riporta per Smokvica a Cùrzola, un relitto dalmatico che ritroviamo nella toponomastica veneta e cioè fu «buca» «tana» «caverna naturale nella terra e nella roccia ove trovan rifugio vari animali». Tale rarità proviene da un deverbale di fodère «scavare» (REW 3401) da un ‘fédium-a, non attestato, che può esser confrontato con l’it. merid. foggia nel senso di «fossa». Tale forma potrebbe venire dalla nostra voce che abbiamo postulata, ma anche (e più probabilmente) da fòvea, come riconosce il DEI III, 1675. Giustamente lo Skok annota che «taj etimon nije mogué za fuz...» ed aggiunge che fòvea avrebbe dato, come sa, il tipo fòiba
si
24
(0 altrove fòpa), cfr. soprattutto il friul. fòibe «cavità imbutiforme nelle rocce calcari» (N. Pirona 328); a questo proposito va notato che il lemma dello Skok I, 523 fojba, Pisino, Istria, è assai incompleto e inesatto. Ciò che interessa di sottolineare qui è invece la corrispondenza col tipo toponomastico del Veneto Fòza dell’Altipiano di Asiago che l’Olivieri, TV 101 deriva per l’appunto da un ‘fòdia per fòvea, poi anche tedeschizzato nel cimbrico Ftiische (da fòza,
fiiza).
7. È certamente una emanazione del latino di Aquileia la denominazione di un «tipo di aratro» nei dialetti èakavi dell’Istria e nel litorale della Dalmazia sino a Bibinje a Sud di Zara, oltre che nell’istrioto. Si tratta di vrganj con la variante varganj (Vodice) ecc., derivato di *òrgànium (REW 6096, ove è riportato Distr. vargafio, vergafio «aratro», Ive 26) da òrganum e formatosi per influsso di ordinium (REW 6097) «aratro». Soltanto nel friulano òrgànum, òrginum -a, in seno al dominio linguistico italo-romanzo, ha acquistato il significato restrittivo di «aratro»”’; si veda ora anche Skok I, 58 citato anche il veglioto orgain. Risale ad òrgdnum (> s.v. argan ove il s. cr. jargan (Posavina), l’ungh. jérgany (zona attraverso àrgano), del Tibisco) «Baum mit dem das stecken gebliebene Schiff von der Sandbank an die Hòhe gehoben wird», v. anche TESz. II, 262 (dall’a.
è
1825).
Un esempio di concordanza nella conservazione di una voce latina ritenuta esclusivamente di area balcanica è offerto da scoria. Se infatti scorriamo il lemma del REW 7739 o del FEW XI (1964) p. 322, constatiamo che scéòria «Schlacke» sarebbe continuato soltanto dal romeno scoare «scheggia di ferro», voce dialettale dei «Munti apuseni», dal ngr. skira, dall’alb. zgjyré «ruggine» e dall’alb. verrebbe il rom. più comune zgurà (la voce è pure entrata nel s. cr.
Com’è noto, i nomi locali più antichi dell’Altipiano di Asiago, tedeschizzato a partire dal sec. XII (?), sono tutti di origine latina o prelatina. Sull’adattamento fonetico v. anche i miei Studi cit. p. 80. | 37 V. il mio articolo in «Studi linguistici friulani» 1 (1969), pp. 49-55 (con varie indicazioni anche ergologiche). 36
25
zgura, Zgura, Skok III, 274). Secondo il M.L. tanto l’it. scoria, il friul. skurie, quanto il fr. scorie e lo spagn. e port. escoria sarebbero di tradizione non popolare, la qual cosa è di norma esatta fatta eccezione per la voce friulana. Si ignora spesso che in friulano il nesso -rj- è conservato”® per cui non è necessario pensare a cultismo per il friul. scurie «rosticcio, scoria che si separa dai metalli fusi» e anche «briciola», discurià «purgare, pulire, nettare i metalli dalla scoria» (N. Pirona 996, 247). La sopravvivenza scoria nel filone latino popolare è dimostrata anche dal livinallese (lad. centrale) $kéie pl. «la sporcizia che rimane nel forno dopo aver cavate le brace col reddble (tirabrace) e che sono tolte col skoàè (fruciandolo), v. Tagliavini, DLiv. 294, ove l’etimo proposto è certamente esatto poiché in molti dialetti alpini -rjsi riduce a -j39. Rimane così confermata una convergenza tra latino balcanico e area alpino-friulana per la quale il Tagliavini manifesta qualche dubbio secondo noi ingiustificato‘. La famiglia di voci che fa capo a scòria è infatti assai più vasta ed io vi riunirei anche l’agord. (BL) skira «placenta» «seconda», fassano (s)koradura idem“; ritengo inoltre che sia in parte responsabile del ven. e it. regionale curare (ad es.) il pesce (per pulire...) il nostro scéria (+ curare); ma di ciò discorrerò più ampiamente in altra sede. [v. il mio articolo I] continuatori del lat. scoria (REW 7739) e alcuni nomi della «placenta», in Zbornik u èast Petru Skoku, Zagreb 1985, pp. 379-386].
di
In epoca romanza tanto dal Friuli, quanto dal Veneto, in particolare da Venezia, si diffondono una grande quantità di ele8.
Su codesta particolarità ha già richiamato l’attenzione degli studiosi A. Prati, Spiegazioni di nomi di luogo del Friuli. RLiR XII (1936), pp. 44-143, specie nella premessa introduttiva. Si noti inoltre ‘panaria > friul. panàrie, mentre il veneto ha panèra e casi analoghi. 39 V. anche A. Prati, La riduzione ladina del nesso rj nei nomi locali. In Ricerche di toponomastica trentina. Rovereto 1910, pp. 60-1. ‘0 C. Tagliavini, Il dialetto del Livinallongo. Saggio lessicale. Gleno (Bolzano) 38
1934.
41 L’Elwert, Die Mundart des Fassa — Tals. Heidelberg 1943, p. 57, crede erroneamente che il fassano koradura «Nachgeburt» venga da ‘corporatura (si tratta di curatura).
26
menti lessicali nell’area balcanica-danubiana. Dal Friuli tali elementi sono penetrati in epoca assa antica (spesso anteriore al 1000) nei dialetti sloveni e dallo sloveno tali voci si estendono all’ungherese. ‘l'ra le mutuazioni più antiche vanno segnalate le voci che non presentano ancora la palatalizzazione di CA e di GA (avvenuta verosimilmente in friulano verso il sec. XII); tra queste basti menzionare fòcacea (REW 3396) > friul. ant. fogacia > slov. pogata e di qui verosimilmente ungh. pogdcsa (dall’a. 1395), TESz. II, 235, che ne riconosce l’origine dallo slavo meridionale. Tale voce è divenuta tipica della Balcania, si noti il s. cr. pogaéa (Vuk) e forme analoghe in bulgaro, romeno, alb. (pogace), ngr. moydto0a ed anche ted. Pogatscherl ecc., Skok II, 694. L’origine friulana del termine è sostenuta soprattutto da A. Grad con buone argomentazioni??. Analogamente ‘pònticana da pònticus (mus) (REW 6651) passato per l’ant. friul. pantegana (ora pantiane), è stato mutuato dallo sloveno podgana e di qui probabilmente accolto dall’ungherese patkdny (v. peraltro la discussione in TESz. III, 132). Dal friulano, secondo una mia supposi-
zione, potrebbe esser giunta in Ungheria una voce tanto comune quale forint «fiorino» secondo due spie fonetiche da me sottolineate3. Quanto all’influsso lessicale friulano sullo sloveno, può esser ora sufficientemente indicativo uno spoglio del recente dizionario etimologico di F. Bezlaj del 1977, giunto col primo volume alla lettera J. [col secondo a O]. Tale opera contiene numerose voci friulane per lo più limitate alla Slavia italiana e ai dialetti. Resta comunque sempre cospicuo il numero di voci friulane accolte anche dalla lingua letteraria slovena ed esplorate, nella massima parte, da K. Strekelj, Fran Sturm e
-
V.A. Grad, in «Atti del Congresso di linguistica e tradizioni popolari, organiz«Società filologica friulana». Udine 1969, pp. 101-6. Inoltre «Slav. Revija dalla zato XI, 1948, pp. 40-8. | 43 V. il mio articolo Alcuni italianismi dell’ungherese e loro vie di diffusione; in Il problema della traduzione ... Napoli 1975, pp. 17-31, in particolare pp. 23-4; inoltre Appunti su alcuni italianismi dell’ungherese. «Giano Pannonio» I (Padova 1978), pp. 27-30. [v. qui 2]. 42
|
27
recentemente da A. Grad. In alcuni miei contributi ho tentato di riunire il filone sloveno presente nei dialetti friulani che potrà esser accresciuto da ulteriori spogli dei materiali raccolti ad es. dall’ASLEF, ancora in corso di pubblicazione‘ [ora ultimato nel
1986].
9. Per l’influsso veneziano dovrei soffermarmi a lungo poiché esso è assai numeroso ed interessa tutte le lingue balcaniche, il turco ed anche l’ungherese. Un orientamento generale, ormai invecchiato, è rappresentato dall’articolo di C. Tagliavini, 1 rapporti di Venezia coll’Oriente Balcanico. Cenni sulla diffusione degli elementi veneti nel lessico delle lingue balcaniche del 1937. Il Maestro cita ivi la principale bibliografia sull’argomento relativa all’influsso veneto nel neogreco, nel croato e sull’influsso italiano, specie veneto, nel rumeno, ungherese, albanese e turco. Egli non manca di aggiungere esempi e illustrazioni personali e varie precisazioni. Il T. ricorda inoltre una sua opera manoscritta che contiene «un dizionario etimologico» di oltre 2500 parole, opera premiata dalla «Fondazione Pezzini Cavalletto» la cui pubblicazione integrale seguirà tra non molto, come afferma lo studioso. Non mi consta che tale contributo sia mai stato pubblicato integralmente. Il Tagliavini ne ha forse estratto vari lemmi per i suoi lavori sugli elementi italiani del croato‘ o per altre note più brevi. -—
4 Si veda Noterelle linguistiche slavo-friulane, «Annali Ist. orientale di Napoli», sezione slava, XVIII (1975), pp. 129-54 e Contatti linguistici slavo-romanzi con particolare riguardo al Friuli, nel volume Lingua, espressione e letteratura nella Slavia italiana, Quaderni Nediza 2, Trieste 1978, pp. 21-41. [v. anche Appunti etimologici friulani (elementi slavi), in Festschrift J. Hubschmid zum 65. Geburtstag, Bern 1982, pp. 565-578]. L’articolo del Tagliavini è apparso in «Atti della XXV riunione della S.I.P.S.» vol. III, fasc. 1, Roma 1938, pp. 115-23. Si veda anche del T. Sugli elementi italiani del croato, in Italia e Croazia. Roma 1942, pp. 377-454. 46 Ad es. Osservazioni sugli elementi italiani in turco; «Annali Istituto superiore Orientale di Napoli» N.S. I (1940), pp. 191-204; Gli elementi latini in albanese; «Cultura neolatina» V (1941), pp. 90-3, ecc.
‘
28
10. Sui rapporti linguistici italo-ungheresi abbiamo già discorso a lungo anche nel precedente convegno le cui relazioni e comunicazioni sono ora pubblicate nella rivista interuniversitaria «Giano Pannonio» I (1978), per cui rimando agli articoli ivi contenuti e alla relativa bibliografia. Tra le voci ungheresi penetrate profondamente nel lessico italiano vorrei soltanto apportare una aggiunta agli articoli assai ricchi di M. Fogarasi e precisamente per quanto si riferisce alla storia di cocchio“? e al suo significato assunto nei dialetti alpini ove è venuto al indicare una slitta particolare. Ad es. nell’Agordino (prov. di Belluno) il kòéo adattamento di kocsi, it. cocchio è una «slitta robusta con due cavicchi e una sola traversa, con due bastoni posti nella parte anteriore che servono per il traino e sono innestati verticalmente nei pattini». Serve per il trasporto di tronchi di legname“ [v. qui 2]. 11. E non vorrei tralasciare di accennare ad altri motivi di concordanza lessicale tra Venezia e il Friuli e la Penisola balcanica con frequente inclusione dell’Ungheria. Ne ho discorso già nel mio articolo «Convergenze italo-balcaniche negli elementi di origine orientale» del 1968, ora in «Saggi di linguistica italiana», Torino 1975, pp. 420-44. Si tratta spesso di turchismi, come si sa, molto diffusi nella penisola balcanica che hanno raggiunto a volte anche Venezia, o di turchismi di origine araba che trovano esatti corrispondenti in arabismi veneziani. In un contributo recente ho segnalato varie voci di origine orientale attestate in documenti friulani antichi“; è evidente che tali orientalismi sono penetrati in terra friulana attraverso Venezia. Alcuni gentili recensori dei miei Arabismi°° hanno inoltre segnalato varie corrispondenze delle parole
47 «Cocchio» e la sua origine ungherese, in «Lingua nostra» XXIII (1962), pp. 33-8 e Ancora a proposito di «Cocchio», ibid. XXIV (1963) pp. 77-8. 48
Da raccolte personali.
V. il mio articolo Voci orientali in documenti friulani, in Studi filologici e storici in memoria di Guido Favati («Medioevo e Umanesimo 29), Padova 1977, pp. 503-19. 50 Gli arabismi nelle lingue neolatine con particolare riguardo all’Italia. Brescia (Paideia) 1972. Si vedano ad es. le gentili recensioni di B.E. Vidos in «Studi it. di 49
29
orientali da me illustrate per l’Italia anche nella lingua ungherese e G. Manzelli nella sua tesi di laurea patavina ha continuato con buoni risultati tale ricerca sulle corrispondenze”. Il Vidos ed il Fogarasi mi hanno dunque segnalato i riscontri ungheresi di voci quali findzsa «tazza», ibrik «bricco», gyaura (1548), cfr. giaurro («Relaz. ambasc. veneti» del XVI sec.) «infedeli (per i Musulmani)», csizma «stivale», venez. cisma (Boerio), bicska, bicsak «coltello», venez. bizzaco, buzogdany «nota mazza turca» che ho riscontrato anche in documenti friulani del sec. XVI, busdocan ecc.; kaftàn, venez. caffetà (tessuto) e martaloc(z) «filibustiere» che ricorre nel poeta bellunese B. Cavassico (sec. XVI) e come nomignolo a Venezia, Marteloso. Come si sa, la voce risale al turco martalòz che significa «volontario armato, detto specialmente soldato cristiano in Turchia» a sua volta dal greco àuoapta\6t «armato» da dopatovw «armo» (dall’it. armata), in rapporto col s. cr. martolos (a. 1400), martoloz (1586, Vuk) che si equivale spesso ad «aiduco», martulos (martulosi aliti hajduki, Vitezovié) «soldato turco irregolare, cristiano» e nella poesia popolare anche «eroe»; cfr. alb. tosco armatolos «guerriero», «uomo d’arme» (Leotti), v. Skok II, 300. Il grecismo si è diffuso attraverso la vecchia organizzazione militare turca della Balcania. Da notare la parallela degradazione semantica in ungherese e nel veneto antico (ove si è passati al significato di «scellerato», «brigante», «spia» )° Il DEI I, 292 segnala soltanto la voce storica armatoli «soldati greci di una milizia civica in Grecia dal sec. XVI al XIX, < gr. armatoldi «uomini d’arme».
di
12. Ci rimane ora da discutere di alcune parole appartenenti alle due aree sunnominate e note per lo più anche all’ungherese, le quali, nonostante le approfondite discussioni e le ampie ricerche, restano a volte di origine misteriosa. Qui mi accontento di apportare unicalinguistica teorica e applicata» I (1972) n. 3, pp. 589-92 e di M. Fogarasi, AGI LVIII (1973), pp. 183-8. 51 G. Manzelli, Contributo allo studio delle concordanze italo-ungheresi e balcaniche nei prestiti di origine orientale (tesi di laurea dattiloscritta, a.a. 1974-75, diretta da M. Fogarasi). 2 V.M. Cortelazzo, Corrispondenze italo-balcaniche nei prestiti dal turco, in Omagiu lui A. Rosetti la 70 de ani. Bucarest 1965, pp. 147-52, in particolare p. 148 nota.
30
mente qualche elemento nuovo di giudizio, a volte trascurato nei dizionari etimologici. Secondo le mie fonti, anche l’ungherese conoscerebbe kacsul(y)a «specie di copricapo», voce rara citata dal Cioranescu 123 con la quale viene collegata kacsulia «capra bianca con testa nera» (sarà forse di origine romena?) ed il DEI I, 655 riporta l’it. (raro) caciula f. «sorta di berretto di pelo usato in Romania» che si equivale al romeno ciéciulà (voce diffusissima) passato anche al neogreco katsula cd ivi si aggiunge «di origine incerta». Per avere soltanto una idea delle varie proposte suscitate da codesta voce basti scorrere il lemma cdciulà nel Cioranescu 1. cit. o vedere lo Skok II, 38 s.v. s. cr. kasula considerato un prestito più recente rispetto a koSulja «camicia», derivato dal lat. balcanico casulla diffuso attraverso la chiesa. Lo Skok cita le numerose corrispondenze balcaniche e ritiene che il citato casulla sia sorto per aplologia da un precedente ‘casulula. In realtà il lat. casula dim. di casa «piccola capanna» (noto alla toponomastica italiana), nel latino tardo, oltre al significato di «sepolcro» è conosciuto col valore di «Kleid mit Kapuze» (S. Agostino), se è la medesima parola, cfr. greco
tardo xovoo6hLov contaminato da cuculla (Walde-Hoffmann I, 175).
Lo Skok suppone inoltre che il suffisso sia stato sostituito onde da ‘casulula sì passerebbe a casupula > fr. chasuble ecc. v. REW 1752, ove sono riunite varie forme ed ipotesi. Anche il Mihàescu 296 menzione casubla che figura in Gregorio di Tours (Vit. Patr. 8, 5, p. 691,1): «diacono cuidam huius casublam tribuit», ecc., inoltre casulla (Note tir. 11, 76). Con la voce romena è più strettamente imparentato l’alb. késulè «berretto, berretta da notte, cappello» (Leotti 452) ed esatti corrispondenti si osservano nell’area veneta, riuniti ora dal Prati, Et. ven. 31, il quale dichiara tali parole di etimo sconosciuto; si noti il ver. caciola «berrettina», il poles. caciola «calotta» «zucchetta», comel. cazzòl «cappello stracciato e logoro», valsug. ciula «cappellaccio», bellun. ciula «berrettino» (anche ciulìn) ecc. il Prati vi associa anche il port. cachola «capo, zucca» (burl.) e il sic. cacciotta «pioppino» (sorta di cappello a cencio); in un articolo dell’ID VI (1930) p. 260 il medesimo autore vi aggregava anche il piem. ciula «borsa de’ testicoli», «stupido» per cui mi pare sia veramente difficile trovare una soluzione plausibile
dell’intricato problema.
Forse si può apportare qualche elemento di giudizio più valido se riesaminiamo con nuovi confronti l’ungh. talp che pure è 13.
31
studiato a fondo nel TESz. III, 831, con vari significati, di cui quello fondamentale pare essere «superficie inferiore del piede», «la pianta del piede», «la parte inferiore di qualcosa». Pur costituendo tale voce un grosso problema etimologico — esclusa una etimologia ugrofinnica che pare invece essere ammessa dal Bàrczi (Sz6fSz. 299),
Benk0 sembra propenso a derivare la voce, in forma dubitativa, dal m. a. ted. talpe «zampa», la cui origine rimane oscurissima. Qui i riscontri sono veramente amplissimi ed in primo luogo conviene ricordare il friul. talpà «zampare, calpestare: cui a talpàt pardut sul semenàt... Anche talpassà, talpinà, tolponà e talpade «zampata», «pesta» «impronta d’una zampa e anche del piede dell’uomo sul terreno» (N Pirona 1187), v. anche REW 8545 ‘talpa «Pfote, Tatze» (ove si riconosce che il rom. talpà «pianta del piede» deriva verosimilmente dall’ungherese; si veda ora Tamas, EWb. 761-2, con ampia discussione e bibliografia). Molte voci venete, che vanno associata a quelle citate del friulano, sono riunite dal Prati, Et. ven. 184; tra queste ricordo ad es. talpa, talpén (valsug.) «ceppaia», talpén (pad.) «toppo. ceppaia», poles. talpén «barbicone, ceppaia, toppo», venez. talpon «toppo, ceppaia», trev. e bellun. talpén «pioppo», venez. tolpo, tolpén, toléto «palo di rovere da palafitta» ecc. Il Prati conclude la sua succosa disamina con l’ammettere come etimo possibile un ‘talpa di origine prelatina nel significato di «piede, ceppaia, tronco albero» e codesta mi pare una buona ipotesi che potrebbe esser sostanzialmente valida anche per l’ungherese. È pure da vedere l’articolo del FEW XIII (1966) ‘talpa «tatze», ove si cita l’ampia diffusione del tipo nel gallo-romano, in alcuni dialetti tedeschi (ted. svizz. talpe «tatze», «pfote» e turingio talpen «schwerfàllig gehen», slesiano talpe «hand»). Il Wartburg cita anche la nostra forma ungherese, ma assegna ad essa, secondo una tradizione, un etimo ugrofinnico, cfr. finnico talla «lamina» tallaa «pedibus calcare» (ciò che è invece escluso dal TESz. cit.). Data la particolare area della nostra enigmatica voce (che manca al bavarese e a tutte le altre lingue germaniche) cito testualmente: «Dieser geographische befund macht es sehr wahrscheinlich, da die Germanen das Wort der Sprache alteinsàssiger stàmme entnommen haben, und es auch im gallorom. aus einer vorlat. Sprache Stammt». E qui il W. il
da
32
incnziona una vecchia ipotesi preromana del Tagliavini per spiegare il nome talpa «Maulwurf»53, ma propende poi per una origine illirica. Pur non essendo incline ad accettare l’ipotesi illirica, dato che il concetto di tale lingua è stato da tempo ridimensionato e pcopraficamente circoscritto e qui non spenderò tante parole**, mi pure veramente assai probabile pensare ad una voce di sostrato anche per l’ungherese. E non va sottaciuto un tentativo di J. Ilubschmid55 del 1952, di spiegare le voci alpine ‘talpa/‘talta col medesimo senso di «ceppaia», «pedale di pianta» col sostrato (accostamento del relitto preromano già da me individuato fin dal 1947 senza ulteriori ricerche v. «Archivio per l’Alto Adige» XLI p. 190). lo HH. p. 337 propone di isolare un tema preromano *tal- onde con suffisso prelatino -pa- si avrebbe *talpo, ven. tolpo «trave», «palo», «sostegno» «puntello» (Pfosten). Egli richiama alcune attestazioni della toponomastica, ad es. a. 1120 a Ceneda (Doc. Marca Trev. 1; 14): «in loco qui vocatur Talponus, in loco Talpone ecc. Secondo H. la radice sarebbe da identificare in tal- «schneiden», cfr. lat. taliare «spalten», «schneiden» da cui anche il deverbale tdya, tàe (friul.) «tronco». Il tipo ‘talta, noto anche al Cadore, sarebbe un tal-to «das Abgeschnittene» col -to- ie. dei participi passati. Egli aggiunge peraltro: «Schwierigkeiten bereitet aber die Beurteilung des Nebenform talpa. Denkbar wàre ein Verbalsubstantiv mit -pa Suffix...». Comunque alla fine della sua interessante nota lo studioso svizzero resta in dubbio se si tratti della radice "tal- «tagliare» oppure di tal(tel, variante di st(h)el-) «stellen» ... oder ob von einem dritten, sonst nicht nachweisbaren Stamm auszugehen ist, mag die spàtere Forschung entscheiden». Se l’ungh. talp dovesse veramente esser ascritto a codesto ampio raggruppamento di voci, l’ipotesi di un relitto di sostrato, di una voce che i Magiari hanno appreso dal sostrato pannonico, non pare davvero inverosimile; il significato 53 C. Tagliavini, ZRPh. XLVI (1926), pp. 27-54, in particolare p. 51-3 (con confronti amplissimi di tipo «trombettiano»). 54 V. qui la nota 7. 55 J. Hubschmid, Friaulische Wòrter aus Collina. «Vox Romanica» 12 (1951-52), pp. 336-41. -
33
potrebbe esser stato quello di «ceppo, pedale, parte bassa di qualco-
sa», «piede». D’altro canto bisogna riconoscere la difficoltà della mancata rotazione tedesca (v. FEW 1. cit. 66 n. 6), qualora la voce fosse stata accolta dal tedesco in epoca assai antica (anteriore al VI sec. ), ma non si può teoricamente escludere che essa sia stata mutuata da alcuni dialetti tedeschi quando la seconda Lautverschiebung era già conclusa. 14.
E per finire, un ultimo problemino etimologico italo-magiaro.
L’ungh. conosce bagé «tabacco scadente», «residuo di tabacco nella pipa», «tabacco che si mastica» con attestazione recente dal 1836 secondo il TESz. I, 216. Pur tra varie difficoltà il Benko ritiene possibile il collegamento con bagoly «civetta», ma ivi non si citano le perfette corrispondenze italiane. La voce infatti ritorna nell’Italia nordorientale, ma anche in Lombardia, e ne fa un brevissimo cenno il Tagliavini, NCCom. 21, ove si riporta il comel. bdgu «residuo del tabacco nella pipa», cfr. friul. bago «scolatura di tabacco della pipa» (N. Pirona 1336) e dapprima si rinvia, come voce oscura, alla base elementare “bau- (REW 909), ma a p. 151 si aggiunge che il punto di irradiazione della voce deve essere il Friuli da dove essa è penetrata nello slov. bagus «der in der Pfeife zurtuckbleibende feuchte Tabak» (Pleter$nik I, 9) e nell’ungh. bago (Gombocz-Melich I, 225-226). Lo Skok I, 90 cita bagov del Banato «tabacco scadente», il rom. bàgdàu nel medesimo senso come prestito dall’ungherese ed aggiunge che la medesima voce è nota allo sloveno, slovacco e ai Sassoni di Transilvania. Altri dati sono riuniti dal Tamàs, E. Wb. 97 s. v. rom. bdàgdàu «Pfeifensaft» «culot, chique» con varie attestazioni nella poesia popolare, anche rom. bogoi «scrumul ràmas în pipa si pe care bàtrînii îl pun în gurà, bagdaos «Kettenraucher», «gros fumeur». Il T. ribadisce la connessione con bagoly «Eule» che non mi risulta molto evidente. A dir vero, data l’ampia diffusione della parola nell’area danubiana e balcanica, non mi pare molto verosimile una sua propagazione a partire dal Friuli, e ciò anche per altre considerazioni che coinvolgono il costume del fumare e l’uso della pipa, particolari che in questo momento mi sfuggono e che richiamano l’ambiente turco (?). D’altro canto non si può ignorare la diffusione 34
tecnicismo che risulta assai ampia in Italia se consultiamo una serie di vocabolari dialettali. Nei dialetti veneti e lombardi la forma è
‘del
piuttosto bàgol(o). Alcune forme sono riportate anche dal Prati. Et. ven. 8 ad es. bago (ver.) «colaticcio della pipa, gruma, roccia», valsug. bàgolo «idem» e l’A. soggiunge: «Facilmente da un “bavo iratto da bava»: ipotesi per me assai dubbia. Si noti anche primierotto (l’rento) bàgol! «deposito formato dal fumo e dalla saliva nel fornello della pipa» (Tissot 17), oppure bormino (Sondrio) bàgol il «tabacco imbevuto di saliva che rimane in fondo alla pipa», accanto a bàgola «caccherello delle capre e delle pecore» (Longa). Molti dizionari italiani settentrionali riportano per lo più bàgol (o bàgola) in tale liltimo significato, v. ad es. milan. bàgo! «sterco pecorino» (Cherubini 1, 56)” v. anche Prati, Et. ven. 8 s. v. bàgola, che oltre a «coccola», in alcuni dialetti significa anche «pillacchera» e «cacherello», ove l’etimo da baciula dim. di. baca risulta plausibile (REW 859). Non direi invece che bàgo (1) «residuo del tabacco della pipa» possa senz’altro spiegarsi come traslato dalla voce bàgola, bàgol «sterco delle pecore e capre», ma tale ipotesi non si può nemmeno recisamente mettere da parte. Desideravo soltanto rimettere sul tappeto alcuni problemi etimologici che non mi sembrano definitivamente risolti come materia di nuove discussioni, dato che essi interessano tanto agli studiosi italiani, quanto ai colleghi ungheresi. E siamo grati agli studiosi magiari che tanto impegno hanno sempre posto e continuano a porre per i nostri studi di linguistica storica e di etimologia per i quali essi debbono esser riconosciuti come dei grandi maestri.
°
Anche il Gombocz-Melich, EtSz. I, coll. 225-6 (v. anche Magyar Nyelv VIII, 243) riunisce bagé «residuo del tabacco nella pipa» a bagoly «Eule»; ma è ipotesi assai incerta e forse da scartare. [v. qui 11].
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L’ETIMOLOGIA UNGHERESE E I PRESTITI DALL’ITALIANO
Non è difficile provare che proprio negli ultimi anni o negli ultimi decenni ricerche etimologiche sono quasi ovunque vivissime lo dimostrano i poderosi strumenti bibliografici, di lavoro e di consultazione, che sono stati dati alla luce o che sono in via di realizzazione. Dovrei qui stilare un lungo elenco di opere più o meno ampie — e direi più spesso monumentali —, ma mi limiterò a menzionare solo le principali. In prima linea, dopo che il FEW del Wartburg può considerarsi quasi ultimato, dobbiamo citare e lodare il poderoso LEI di M. Pfister!, dedicato all’italo-romanzo, realizzato secondo il modello dell’opera citata del suo grande Maestro. Tale opera che ormai ha raggiunto il fascicolo 30°, in circa 10 anni che si sta pubblicando, ha ora esaurito tutta la lunga lettera A. Nel frattempo — sempre con riferimento al dominio italiano — si è concluso in cinque volumi, anche il DELI di M. Cortelazzo e P. Zolli, opera originale per la ricchezza e precisione delle datazioni, di notevole serietà scientifica e di ottima divulgazione per le etimologie’. Non mi soffermerò sul REW rinnovato dal Salvioni ed edito e completato dal Farè (Milano 1972) e nemmeno sul ricco Lessico Supplementare (Lexicon etymologicum) di G. Alessio (Napoli 1976). J. Corominas, oltre ad averci procurata una nuova edizione del dizionario etimologico castigliano (in collaborazione con J.A. Pascual, Madrid 19801983, opera quasi ultimata), ci ha ammannito ora anche il DECat.,
le
ec
Alludo al Lessico etim. it. da me recensito più volte: in «Studi mediolatini e volgari» XXVII (1980), pp. 260-263; ibid. XXX (1984), pp. 228-232 e ibis. XXXII (1986), pp. 142-149, ibid. XXXIV (1988), pp. 236-242. 2 V. la mia recensione in «Studi mediolatini e volgari» XXVIII (1981), pp. 1
i
175-185.
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in avanzato stato di pubblicazione. È inoltre quasi
pronto un dizionario etimologico romeno ad opera dell’indefesso J. Hubschmid, e da poco si è conclusa la pubblicazione del Dizionario etimologico finnico e cioè: Y.H. Toivonen, Suomen kielen etymologinen sanakirja, Helsinki 1974-1981 (con la collaborazione di E. Itkonen, di Aulis J. Joki e di Reino Peltola), opera parallela anche nei tempi di realizzazione al poderoso dizionario etimologico ungherese di cui stiamo ora parlando. L’abbreviazione di quest’ultimo, TESz, è ormai tradizionale e si tratta di edizione dell’Akadémiai Kiadé di Budapest, diretta e in gran parte redatta da Lordnd Benko, A magyar nyelv tòrténeti-etimolégiai szétara il cui primo volume (A-Gy) è apparso nel 1967 (ed io ebbi il piacere di ammirarlo, tra i primi, proprio nel nostro Istituto di Padova); il secondo (H-O ) apparve nel 1970, il terzo (O0-ZS) nel 1976 e finalmente il ricchissimo e preciso Indice (Mutat6ò) nel 1984 (sono ben 493 pagine con elenchi per tutte le lingue citate). Mi pare opportuno ricordare, a proposito di studi etimologici, che proprio a Budapest si è tenuto nell’agosto del 1974 un grandioso convegno internazionale organizzato dal «Magyar Tudomanyos Akadémia Nyelvtudomanyi Intézete» (Istituto per gli Studi Linguistici dell’Accademia Ungherese), dedicato unicamente alle nostre ricerche etimologiche i cui atti uscirono nel 1976, incentrati sulla «teoria e metodo dell’etimologia» (Az etimolégia elmélete és médszere): un prezioso strumento, anche bibliografico, per seguire la problematica e i principali filoni del lessico ungherese, esplorato dai migliori specialisti viventi e per i rapporti sugli studi etimologici in altre nazioni (ebbi il piacere di parteciparvi con una comunicazione dal titolo Observations sur les recherches d’étymologie en Italie, edita alle pp. 243-249). Introdusse la Konferencia con il discorso generale l’Accademico Lordnd Benko trattando delle più recenti ricerche di etimologia in Ungheria (Az etimolégiai kutatdsok ujabb fejlodése Magyarorszagon, pp. 15-20). E opportuno ricordare che anche in America le ricerche di etimologia hanno avuto grande sviluppo e rilevanza soprattutto attraverso i raffinati e paradigmatici contributi di Yakov Malkiel, la cui attività straordinaria è elencata nel vol.: Y.M., A Tentative Autobibliography. A Ph. Special Issue, 1988-89. Si veda in italiano il suo 38
iccente volume, Prospettive della ricerca etimologica, Napoli (Liguori) 19088.
Dovremmo ora elencare i contributi e le opere principali di climologia ungherese che hanno preceduto la grandiosa opera del l}enkO. Esse sono ben note agli specialisti, ma ci limiteremo ad un breve elenco senza citare con precisione i dati bibliografici. Si potrebbe iniziare con Magyar Tajszétar della Magyar Tudòs Tàrsasay del 1838, cui segue per importanza il Budenz del 1873-1881, il S5zinnyei del 1893-1901, il Laké in tre volumi e Indice (Budapest 1971). Ma l’opera che ha di certo preparato anche la realizzazione ‘del ‘TESZ è soprattutto il dizionario incompiuto di Zoltàn Gombocz v Janos Melich, Magyar etymolégiai szétar. 1. kòt. 1-X Fiizet, II. kòt. \/- XVII. Fiizet, Budapest 1914-1944 (che non va oltre la F). Certamente molto importante, anche se in forma ridotta, il vocabolario (ristampato anche recentemente) di Géza Bàrczi, Magyar széfejo szotar, Budapest 1941 (l’Autore morì poco dopo la citata Konferen-
cia ).
Prima ancora di presentare il TESz e di apportarvi qualche modesta postilla che si riferisce soprattutto ad alcuni prestiti italiani, O poco più, è d’uopo fare alcuni cenni e considerazioni generali sul prado di estrema e varia composizione del lessico magiaro che tuttora si presta ad ulteriori ricerche sull’origine più precisa di molte voci. Non v’ha dubbio che si tratta di un lessico complesso e composito e che tale varietà è la conseguenza di circostanze preistoriche, protostoriche e storiche (etnostoriche), ma anche di legami e contatti antichi e moderni con molti popoli con i quali «i cavalieri della steppa» sono venuti in contatto in Oriente. Bisogna poi riconoscere subito che anche l’ungherese possiede un vocabolario occidentale, europeo (anche se spesso notevoli sono state le tendenze puriste). Per codeste circostanze eccezionali nel lessico ungherese, accanto all’originario nucleo ugrico ed ugrofinnico (per il quale è fondamentale A magyar székészlet finnugor elemei. Etimolégiai szétar (1. A-Gy) di Gy. Laké e K. Rédei, 2. edizione, Budapest 1972), si potranno individuare tante famiglie lessicali di prestiti antichissimi, antichi e moderni europei, assorbiti soprattutto dopo l’insediamento 39
definitivo nella haza quando la natio ungarica diverrà una delle più forti potenze medioevali dell’Occidente. Accanto dunque all’antico filone ugrico, caratterizzante per fissare la posizione originaria della lingua, con le convergenze genericamente «uraliche» e più strettamente ugro-finniche (ma forse il nucleo di parole che l’ungherese ha in comune col finnico non è prevalente, anche se fondamentale), bisogna tenere in considerazione gli accatti antichi avvenuti nelle sedi protostoriche e dovuti a varie lingue asiatiche. Sono pertanto importanti gli antichi prestiti iranici e successivamente quelli più recenti avvenuti quando i Protoungheresi, trapassata la catena degli Urali in direzione meridionale, incontrarono gruppi di Alani (pare antenati del gruppo osseto, cioè di un iranico particolare parlato in aree prevalentemente caucasiche). Di qui sono venute voci assai comuni quali asszony (in origine «principessa» ), hid «ponte», vért «corazza». Vennero inoltre accolte varie voci turche con diversa cronologia, ma specialmente dal ciuvasso parlato lungo il Volga (non lontano dal tartaro e dal baschiro). Un nucleo notevole di lessico turco penetrò attraverso i contatti con altri popoli turchi (Peceneghi, Cumani, ecc.) e non mancano turchismi più recenti anche di origine araba (essi si ritrovano nella Penisola Balcanica e parzialmente anche in Italia) (v. ad es. M. Fogarasi, AGI 58, 1973, 183-188). Si sa che l’apporto slavo è considerevolissimo (anche se la struttura fonetica delle parole è sovente assai alterata nelle mutuazioni); non mancano i germanismi, forse meno antichi (ma assai cospicui quelli dal tedesco assunti nel secolo passato). Non dobbiamo poi scordare l’influsso latino (soprattutto nella sfera religiosa: templom dal lat. templum è veramente eccezionale) e dalle lingue romanze (specie dall’italiano e dal francese) di cui mettiamo qui sotto in luce qualche esempio con osservazioni complementari (o nuove ipotesi) circa una origine territoriale forse più puntuale. La struttura del TESz per certi aspetti richiama, nella stesura dei lemmi, alcune affinità con le opere etimologiche del Corominas. Alle datazioni delle voci con vari esempi seguono i significati (ridotta al minimo la traduzione in lingua tedesca). La discussione etimologica — come nel Corominas — è molto prudente, specie all’inizio della discussione. Una grande quantità di termini è definita di origine
è
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incerta o dibattuta, non accertata e sovente è utilizzata la definizione di «vAndorszé», cioè di «parola vagante» in cui è difficile poter ricostruire con precisione le vie e la cronologia sicura dei vari trapassi da lingua a lingua. Qui alcuni studiosi di «prestiti» — tra i quali soprattutto il benemerito romanista magiaro-olandese (un po’ di scuola italiana), B.E. Vidos — hanno attribuito a volte un valore eccessivo alle attestazioni racimolate da varie fonti, che spesso sono scalate di pochi anni o di pochi decenni nel seguire il passaggio tra le
varie lingue dei termini, fondandosi quasi unicamente sulle indicazioni degli anni. Ma si sa quanto sia pericoloso attribuire una datazione assoluta a quelle che troviamo registrate nei dizionari o altrove, spesso dovute a circostanze aleatorie, dato che i documenti esplorati non sono certo conosciuti dalla loro totalità e più spesso sono inediti. Non è infatti difficile fornire a qualsiasi dizionario etimologico delle retrodatazioni, ed a volte assai notevoli. Esse possono sovvertire facilmente le filiere che erano state costruite apparentemente con tanta precisione. Il lettore troverà invece nel TESz una notevole abbondanza citazioni da varie lingue e dialetti che hanno rapporto col lemma, cioè con la voce magiara. Ma non mancano ovviamente i casi in cui, sia pure tra varie incertezze, si indica con verosimiglianza qual è l’antecedente della parola ungherese. Alla fine degli articolini, e dopo ampi dibattiti, è sempre riunita una ricca serie di indicazioni bibliografiche in cui si discorre della parola trattata e con un particolare asterisco si mette in risalto il contributo specifico o quello che si ritiene più importante per la verosimile etimologia. Ci è sembrato che la bibliografia relativa ai prestiti dall’italiano e soprattutto dai dialetti (specie dall’Italia del Nord) sia di molto accresciuta dopo il primo volume e che le voci italiane siano state trattate, a partire dal secondo, con maggiore profondità anche per l’ausilio che veniva ai redattori da dizionari dialettali più circoscritti (quale sia la varietà delle parlate popolari in Italia è a tutti ben noto!). Sull’elemento italiano in ungherese? la bibliografia è assai vasta a
di
3 Sarebbe qui superfluo di rifare la storia della relazioni tra i nostri popoli amici sul piano storico-culturale poiché la bibliografia, anche recente, è assai copiosa. Tra
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partire dal saggio di Sindor
K&6ròsi, A magyar nyelvbeli olasz elemek, edito a Fiume nel 1892. Il noto contributo del Karinthy del 19474 mi dispensa dal citare, salvo in casi eccezionali, la bibliografia precedente, poiché in esso si trovano le indicazioni essenziali. Ivi sono inoltre distinte le parole di sicura origine italiana da quelle probabili, per le quali può essere ancora discutibile la segnalazione di un tramite preciso, e sono poi elencate le voci erroneamente interpretate come di provenienza nostrana. Buona parte dei materiali esaminati dal K. era già stata presa in considerazione dai dizionari etimologici ungheresi ed in particolare dal Bàrczi, edito nel 19415. Ora possiamo disporre del citato TESz., ove i canali di trasmissione dei prestiti Sono esaminati meticolosamente e l’informazione anche dialettale italiana è di norma eccellente, non soltanto per l’utilizzazione di vari dizionari delle nostre parlate popolari, ma anche dell’AIS6. I progressi nella definizione più precisa delle fonti di origine dei prestiti italiani o, «italoromanzi», rispetto alla monografia del K. e al Magyar széfejto szétàr di Géza Baàrczi sono assai considerevoli. Ci proponiamo qui di apportare qualche integrazione o precisazione e, assai timidamente, qualche nuova proposta circa l’origine e le vie di penetrazione di alcuni italianismi, ora universalmente riconosciuti dagli specialisti, ora ritenuti per lo meno dubbi. Anche noi siamo pienamente consci che in codesto settore delle mutuazioni linguistiche ungheresi si debba attribuire un ruolo di primaria importanza all’Italia nord-orientale cioè al Veneto e al
lavori, ormai invecchiati e divulgativi basterebbe citare un agile volumetto del Prof. Carlo Tagliavini del 1940 (v. qui sotto) o la fondamentale miscellanea di studi Italia ed Ungheria, dieci secoli di rapporti letterari a cura di M. Horànyi e T. Klaniczay e tante altre opere. Da parte italiana e per il tema che vengo ora a trattare brevemente, va menzionato soprattutto il volume miscellaneo Venezia e Ungheria nel Rinascimento a cura di V. Branca del 1973. 4 Karinthy Ferenc, Olasz jòvevényszavaink, Budapest 1947 (= K.). 5 Bérczi Géza, Magyar széfejtò szétàar, Budapest 1941 (= B.). 6 Non ho trovato quasi mai fonti dialettologiche italiane importanti che siano trascurate; in una mia recensione dell’opera, in corso di preparazione, suggerirò alcune integrazioni bibliografiche che mi sembrano utili o indispensabili per quanto concerne l’elemento italiano in ungherese.
i
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Friuli, oltre che all’Istria e alla Dalmazia, ruolo ben riconosciuto dagli studiosi ungheresi. Ripeto ancora le annotazioni del Kardos, riportate anche dal Fogarasi (art. cit., p. 200), ove si ribadisce che «Per l’aspetto geografico — a proposito di scambi lessicali — le zone decisive sono il Friuli, l’Istria, la Dalmazia, Venezia con i suoi dintorni e l’Italia settentrionale fino a Bologna». Il Benko, The Hungarian Language’, pp. 188-89, osservava che il numero considerevole di italianismi nell’ungherese può essere spiegato mediante i lunghi e diversi contatti culturali e linguistici tra Ungheria e Italia durante tanti secoli. Non si può negare che nei tempi più antichi, religiosi di origine italiana hanno avuto una parte importante nella cristianizzazione dei Magiari. Il dominio degli Arpadi, ecc. sulla Dalmazia ha inevitabilmente portato a dei contatti con le città italiane settentrionali e soprattutto con Venezia. Egli poi sottolinea altre occasioni, del resto ben note, nella storia dei due popoli in cui avvengono incontri di carattere culturale, politico e commerciale. Non si dovranno sottovalutare, secondo noi, i verosimili trapianti in terra magiara di emigranti, lavoratori e mercanti, in varie epoche anche antiche, dal Veneto e soprattutto dal Friuli di cui si ha qualche eco nei documenti medievali. Ma questo aspetto degli studi, che costituisce una premessa fondamentale per lo studio e per la localizzazione dei punti di irradiazione di alcune voci, ritenute genericamente «italiane», oppure vdndorszavak, dovrà essere ulteriormente esplorato. In alcuni casi possono esserci di grande aiuto le spie fonetiche e l’area specifica di alcune parole. Ma a parità di condizione, qualora non ostino difficoltà di ordine storico o culturale, si dovrebbe dare la precedenza all’Italia nord-orientale. Dovrei anch’io insistere con Laszl6 Hadrovics sull’argomento delle «circostanze» che hanno occasionato il prestito — e bisogna spesso constatare che spesso ci sfuggono —, sulla cronologia delle attestazioni — qualora si possano raccogliere con una certa esattezza — e quindi sullo studio oculato delle carte medievali. Egli ha giustamente valorizzato i documenti latini e volgari della Croazia e Dalmazia che può considerarsi uno Edito da Mouton, The Hague, Paris 1972, di pp. 380 (e contemporaneamente a Budapest). 7
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ponti di trasmissione di elementi veneti e vorrei aggiungere forse anche «dalmatici»® all’Ungheria?. Mi limiterò a poche osservazioni a proposito di alcune parole elencate nel TESz. e ripresenterò subito alcuni interrogativi o proposte che i più esperti colleghi potranno subito respingere o eventualmente accogliere con altri argomenti, più validi dei miei. Mi avvalgo anche della tesi di laurea inedita di Méria Sziklay del 1943. Tale lavoro dattiloscritto, conservato nel nostro Istituto di Glottologia, è stato diretto da Carlo Tagliavini il quale certamente vi ha profuso consigli e suggerimenti bibliografici (com’è noto il Maestro possedeva una biblioteca specializzata anche di linguistica ungherese che si poteva difficilmente consultare in altre Università ed in genere in Italia); la tesi della Sziklay non risulta sostanzialmente inferiore al contributo del Karinthy redatto indipendentemente pochi anni dopo”. dei
Non è sempre agevole distinguere tra gli elementi neolatini dalmatici e veneti, ma spesso può essere decisivo il diverso trattamento fonetico tanto delle vocali quanto (e soprattutto) delle consonanti (alludo ovviamente al dalmatico preveneto illustrato soprattutto da Matteo Bartoli nel 1906). ° Molta attenzione alle parole di difficile etimologia e verosimilmente di origine italiana, ha riservato Laszi6 Hadrovics nel prezioso volumetto Jévevényszévizsgalatok, Budapest 1965 (specie pp. 81-117 «Régi olasz jòvevényszavaink kòrébol»), opera passata in rassegna in uno studio del Fogarasi (AION-4, VIII, 1968, pp. 187--205) con parecchie osservazioni originali. Una breve presentazione degli italianismi trova anche nel volume collettivo The Hungarian language (a cura di L. Benko e Samu Imre) (9) del 1972, precisamente nel capitolo di Benko, The Lexical Stock of Hungarian, pp. 171-225, in particolare pp. 188-9. Dirò subito che tra gli italianismi studiati da Hadrovics non convince la spiegazione di bicsak «temperino» «coltello», derivato dall’it. ant. (raro) bicciacuto (Boccaccio) «spada a due tagli» (?), o come propone Fogarasi (art. cit. p. 202) «scure a due tagli». Non conviene per codesta parola abbandonare la spiegazione tradizionale del turco bigak (10) come del resto ammette ora la Kakuk (Recherche sur l’histoire de la langue osmanlie Budapest 1973); è particolarmente utile osservare come la voce turca (forse per mediazione balcanica?) è stata accolta anche nel veneziano del sec. XVI, ad es. nel Calmo che, nelle Lettere, usa bizzacho e nel Caravia, secondo le indicazioni fornite da M. Cortelazzo, da miei lavori ed ora da Gianguido Manzelli nella sua recente tesi di laurea patavina (a.a. 1974-75). 10 Méria Sziklay, Le parole italiane nella lingua ungherese, tesi di laurea diretta da Carlo Tagliavini nell’a.a. 1942-43, di pp. 11-162 (= Sz.). 8
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Il Tagliavini in alcuni suoi scritti minori ha qua e là dei cenni anche agli italianismi dell’ungherese ed è interessante una sua opinione esposta peraltro assai vagamente (v. ad es. nel volumetto In Ungheria, Roma 1940, pp. 37-38) — e ricordo di averla sentita ripetere oralmente in varie occasioni — circa l’origine del celebre tokaji. Cito le sue parole: «... è anzi probabile che le colonizzazioni occidentali nella regione del Tokaj e l’arte di fabbricazione del celebre vino non sia dovuta a Valloni, come credono alcuni, ma a coloni italiani che avrebbero portato le pianticelle di vite dall’Italia, probabilmente dal Friuli; la terminologia della vinicultura e viticultura della regione del
Tokaj, purtroppo non sufficientemente studiata, contiene interessanti relitti di origine italiana».- E da notare che il Tagliavini poco prima aveva sottolineato la presenza di toponimi in Ungheria che richiamano stanziamenti di coloni italiani. Egli tende infatti ad attribuire ad olasz in nomi locali anche antichi, per lo meno in qualche caso, il valore che ha nell’ungherese moderno e cioè «italiano» e non sempre di «vallone» o in generale di «homo romanae originis» (v. anche Sziklay, p. 13). Ha quindi una grande importanza l’interpretazione corretta dei nomi di villaggi quali Olaszfalu, Olasztelek (telek «cavità di terreno»), Olaszi, Bodrog-Olasz, Olasz-Liszka, ecc. per i quali normalmente gli studiosi ungheresi pensano a colonie di Valloni. Anche nella spiegazione di un termine vinicolo fondamentale quale ricava il dolcissimo vino, pare che furmint, il noto vitigno dal quale gli argomenti addotti dai linguisti magiari (specie dal Bàrczi) pendano decisamente per una origine vallone, come sostiene anche il TESz. I, 990-91 (con ampia bibl.) ove si cita una attestazione del 1623 (furmint szolo). Si noti il confronto con l’a. fr. fromentel «una specie di eccellente champagne» e il fr. vin de paille, ted. Strohwein cioè «szalmabor», e si ricostruisce un a. vallone ‘fourmint (= furment) o "formint (= forment) «furmintsz616». Anche se tale spiegazione pare ormai pacifica, vorrei soltanto richiamare la forma furmint da fru mentu del friulano e alcune notizie citate dalla Sziklay (p. 15) — che per ora non sono in grado di controllare — relative a insediamenti friulani in Ungheria. Nel Lajstrom di Demeter si accenna al Friuli, ad Udine e a Cividale: «Furmint nevu szòllonk van Friaulbél (Foro Juliumbé1), Udine és Cividale vidékeirol».
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Un altro punto di discussione potrebbe esser fornito, ancora una volta, dal nome ungherese di Venezia Velence (il toponimo si ripete nella toponomastica magiara come del resto in quella italiana)!!, Tale nome presenta una storia del tutto particolare rispetto ai corrispondenti adattamenti della nostra città lagunare nelle lingue centroeuropee ed orientali, ove prevale di gran lunga come base di partenza la forma — secondo noi di origine bizantina — Venetici, Veneticus (colpus) ecc. Si noti ad es. il s. cr. Mleci da Bneci (< Venetici), lo slov. Benetke (pl.) onde il ceco Bendtky, il ted. Venedig", il turco Venetik, armeno Venedig e l’arabo Bundugiya. Anche lo Skok aveva sottolineato l’eccezionalità dell’ungherese Velence che pare presupporre la forma dotta Venezia e attraverso Venence con dissimilazione Velence!!. E tuttavia difficile poter procedere da una supposta forma "Venizia o “Veniza, come suppone il Karinthy p. 34, forma che non è mai esistita; si dovrebbe dunque pensare ad un latinismo poiché le forme correnti in loco ed in Italia erano Veniesia, Vegnesia (con /-) ecc. con evoluzione popolare da Venetia e ftj risolto come in palagio o gufàr da acutiare ecc.; si noti l’adattamento italiano della forma veneta Vinegia, Venegia. Restano per me ancora alcuni punti da chiarire nella forma Velence, qualora si escluda del tutto una possibile ascendenza da un Venetici o Veneticae (insulae o
simile).
È poi veramente singolare il caso dell’omofonia perfetta dell’ungh. szent «santo» col veneto e friul. ant. sent, senta'‘. Anche il Melich!7 menzionava, in forma approssimativa, tale convergenza, reputata ormai da tutti come casuale e optava per l’etimo, da tempo consolidato, slavo eccl. svetù (cfr. anche romeno sfint), slavo merid. svet, con la conservazione della vocale nasale e la perdita di v nel nesso consonantico iniziale, fenomeno fonetico normale. Sarebbe peraltro utile ristudiare la diffusione di sent e spesso sent nell’area slovena che ricopre in parte la Pannonia, ed in ogni caso non mi convince l’origine tedesca di tale forma (a. a. ted. sankti gen. lat.) secondo ad es. lo Skok!8, mentre per lo meno per lo sloveno un veneto-friul. sent poteva essere reso facilmente con sent/Sent. Lo Skok annota poi alcuni incroci avvenuti tra svetù > sfînt in romeno e sanctus > sînt!. Forse non pare necessario ricorrere anche per l’ungherese ad un eventuale incontro delle due forme accennate, anche etimologicamente assai diverse in origine. dimostra convincentemente che l’ungh. vendég «ospite» proviene dal veneto venèdego; ciò si spiega bene con la missione in Ungheria del veneziano (San) Gherardo / Gellért, ben nota agli storici. 16 Comune nei testi veneziani antichi come si può vedere da A. Stussi, Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, Pisa 1965, passim e pp. 250 e 252; per il friulano mi basti rinviare a N. Pirona 1010 sent «santo» ed ivi citazioni di testi. [v. il mio articolo Veneto ant. sent(o) «santo» , «Studi mediol. e volgari» XXVII (1980), pp. 139-162].
Kiss Lajos, Dizionario etimologico dei toponimi (in corso di allestimento) [informazioni gentilmente trasmessemi dall’amico Pal Fabian], v. anche TESz. Ill, ll
1111.
12 V. anche il mio volume Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa (Pacini) 1977, pp. 20-21. 13 P. Skok, «Roma» et «Venezia» chez les Slavez, in Mélanges Hauvette, Paris 1934, pp. 13-19 e ERHSIJ, pp. 137-8, s.v. Beneci, gen. -etaka. 14 V. Bàrczi Géza-Benko Lorànd-Berràr Joldn, A magyar nyelv tòrténete, Buda1967, pest p. 127: Venecce > Venence > Velence. 15 Trovo la forma in arabo b.nadiga nei Diplomi arabi dell’Arch. fiorentino ... editi da M. Amari, Firenze 1863, p. 70, XXIII r. 7 (all’a. 1208). A proposito di Venetici (nelle fonti storiche = «veneziani»), venèdego in dialetto = «veneziano» è importante il contributo di Jànos Baldzs, Veneti e veneziani: i primi ospiti in Ungheria, «Atti Istituto Veneto» CXXXVII (1978-79), 669-677, in cui lA.
Venedici
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17 18
Melich Jàdnos, Szlav jòvevényszavaink, Budapest 1903-1905, pp. 401-403. Si notino i nomi P. Skok, ERHSJ III, pp., 365-6 s.v. Sut- (
gezime, N. Pirona 237. Si terrà presente che le sibilanti palatali 2 e $ erano assai più comuni nei dialetti veneti antichi, come lo sono tuttora in varietà friulane e ladine. Mi pare che anche rézsa «rosa» (B. 262, K. 32) possa rappresentare una mutuazione da un ven. résa con /- lievemente palatilizzato e si noti anche in slov. e croato roza «fiore» (come nel friul. rose che può indicare oltre a «rosa» anche genericamente «fiore»). Analoga osservazione vale per kdamzsa «cotta», «gonnà», «panciotto» (B. 148, Sz. 45, K. 33) per la quale il TESz. II, 338 (dall’a. 1395) dà la preferenza al latino, mentre il derivato kamizdl (ivi, 336) «blusa» sarebbe venuto dal ted. Kamisol. Come riscontro cito soltanto il bellun. camisol di analogo significato «giacchetta» (del costume antico), Nazari 68, oppure il friul. camisole «corpetto, camiciola, panciotto» (N. Pirona 94), il rover.-trent. camisola «nel contado è una sottoveste di lana che portano le donne in tempo d’inverno sopra la camicia» (Azzolini? 231) ven. giul. camisolìn «farsetto, corpetto, giubberello», camisola «vestimento che si porta sopra la camicia e sotto il giustacuore degli uomini» (Rosamani 153). Analoga la palatilizzazione in kdmzsa che abbiamo già visto ad es. in mazsola e possiamo aggiungere rizsma (B. 211. Sz. 36 e K. 12) da risma it. e ven. di origine araba. 23 Cioè Atlante storico-linguistico-etnografico friulano; ©. ALI 1134 (inedito, con le risposte ora passate anche all’ASLFEF per il Friuli). 24 Per la pronuncia palatilizzata del veneto antico rinvio ai miei Saggi di linguistica italiana, Torino (Boringhieri), 1975, p. 127.
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Nclla spiegazione di kapitàny «capitano» (Sz. 45, K. 33, definito vandorszé6» in TESz. IL, 359-60) può restare il dubbio se la -ny finale iì dovuta a palatalizzazione ungherese o se alla base si debba
livonoscere il latineggiante capitaneus ben noto nella forma capitanio anche nel Veneto. Di origine veneto-friulana è tdnyér «piattatér ant. 1 ancora conservata (come nel friul. fino al sec. lo» XVI e dopo), e poi dissimilata, cfr. le varianti ungh. talnyir, tanyir e il s. cr. taljur (Marulié) poi tanjur (qui da «tagliatore»), Skok, |'RIISJ II, 439. Per golyò «testiculus» e «sfera» (B. 38, Sz. 121, K. ‘7, TESzZ. I, 1030 «di origine incerta, forse dall’it. dial. coié») è verosimile l’origine dal lomb. occid. coié (ad es. berg.), ma diffuso probabilmente da Venezia ove i Bergamaschi erano assai numerosi. Veneto è certamente bityer «bicchiere di grappa», non registrato dal l'Sz. (ma v. Sz. 81, K. 41) entrato, pare, con la terminologia pergale militare, dal ven. biéér e con corrispondenze fonetiche analoghe a fàatyol cioè é prepalatale = ty. Per la spiegazione di pesztenye «castagna» (B. 94, K. 31, Sz. 45) che il TESz. I, 1035 riporta al bavar. kestene, escludendone l’origine italiana, latina o slava da altri supposta, vorrei solo ricordare che il ven. sett. conosce kastéha che in genere si spiega da “castinea per castanea (REW 1742). Potrebbe venire realmente dal friulano o dal veneto la voce egres «uva immatura» o «ribes» (B. 58, Sz. 25, K. 31, TESz. I, 713), cfr. infatti il friul. grest, agrest «uva acerba» «qualità d’uva che rimane acerba» (N. Pirona 404) da agrestis (REW 295) e analogamente ereklye «reliquie» (B. 65, Sz. 25, TESz. I, 783) che figura nella forma ariquile nei Testi friul. ant. editi dallo Joppi (sec. XIV)? e N. Pirona 19. Non vedo i motivi per non attribuire alla nostra regione anche kdarpit «coperta di lana villosa» (B. 154, Sz. 29, K. 31) che il TESz. II,
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25 V.L. Galdi, Contributo alla storia degli italianismi della lingua romena, AGI XXXI (1939), pp. 88-141 specie p. 135. 26 Da notare che anche l’albanese conosce, come prestito latino, géshtenjé «castagna» (Leotti 257). 27 V. Joppi, AGI IV (1878), p. 335.
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389 giudica di origine incerta. Conviene ricordare attestazioni di area veneta e dalmata ad es. carpetta, carpita «coperta» anche «specie di giacca», a. 1307 «una carpeta francisca de tela investita viridi» (Dipl. Levant. I, p. 68) e v. altre attestazioni in Sella, GL. lat. -it., p- 128 (a. 1454 «carpeta vetus fulcita de pellibus», Venezia). Si veda anche il Lex. Lat. medii aevi Jugoslaviae’®, p. 627 karpith (ove la voce è peraltro un magiarismo) e cfr. ven.-giul. carpita «gonnella» (del vecchio costume rovignese) e «sorta di panno peloso per far coperte
da letto» (Rosamani 179). Quanto a bédstya (B. 17, Sz. 56) «bastia», «bastione», spesso spiegato dal lat. mediev. bastia, oltre a rimandare a Hadrovics pp. 82-84, sono ora da vedere i documenti veneto-dalmati riportati dal Lex... Jugoslaviae pp. 109-110”. Non mi convince invece l’origine italiana dial. di esperes (a. 1405 ca. esperesth) «arcidiacono» (B. 68, Sz. 25, TESz. I, 737) da una forma "arziprest (?), "arsprest , “asprest che è supposta; non conosco un a. ven. prest «prete» che è spesso citato. Secondo Horger, MSzay. 47 presto sarebbe da preosto cioè «prevosto» e non da praesbiter che non conserva -s- in alcun dialetto italiano per cui si postula praebyter (REW 6740, 2); cfr. s. cr. jesprist che peraltro verrebbe dall’ungherese secondo Skok, ERHSJ I, 60. Da precisare ulteriormente l’origine, non di certo it. sett., di kandallé «caminetto» (B. 149, Sz. 29, K. 14, TESz. Il, 343) poiché anche se caldano pare verisimile per la fonetica (si deve ammettere una metatesi), sorprende l’accatto da dialetti toscani ove soltanto è diffusa codesta parola nel senso di «braciere», «scaldino» (v. AIS V, 940, 941). Chiaramente erronea è la spiegazione di Karinthy 36 di palacsinta «noto dolce» dall’it. placenta (anche il B. 233 cita it. placenta «focaccia», «lepény», inesistente in questo senso). Si tratta 8 Lexicon latinitatis medii
aevi Iugoslaviae, vol. I, Ad es. a. 1390 «... pro defensione confinorum ligneam costruxit...»; Codex XI 445/9 a. 1348 «... fortificatam prout erat bastia que erat ante civitatem %
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Zagabriae 1973. regni nostri unam bastiam unam bastiam munitam et
Jadre...»
ecc.
placenta
un prestito dal rumeno placintà che risale al lat. (11: W 6556). Dall’ungherese pare provenga anche il s. cr. palatinka (AKOK, ERHSIJ II, 590). Mi chiedo inoltre quale sia la reale etimolovii di barka che ha anche il senso di «arca» (v. Sz. 22 «barca, piscina, granaio, tavola che serve da coperchio di una bara, porta-calce da muratori», B. 16 e K. 31). Il TESz. I, 250, come i suoi predecessori, pensa all’it. barca. Per il senso di «arca», «granaio» forse si può
di
inenzionare barca «mucchio di fieno» («barcam aut medam feni») da Istria, Sella p. 58 e v. Prati, Et. ven. 11 che cita il valsug. limago harco «stalla di montagna» venez. barco «tetto del pagliaio sostenuto da quattro stili» e nel comel. «fienile» primier. barch «fienile di legno in montagna», barchessa (poles., venez.) «porticato, tettoia», «Ccapannone» (secondo il Prati di origine prerom. da un“ b areca) Anche in ital. è noto barca «catasta di covoni, cumulo di biade ammucchiate che si fa prima della battitura e sistemazione che si fa poi della paglia», voce che sembra distinta da barca («imbarcazione») c di origine prelatina; forse celtica, cfr. irl. barc «casa di legno», ecc. GDLI-UTET II, 67°. Nonostante varie ricerche, non mi riuscito di rintracciare una voce dialettale italiana che sia un chiaro antecedente di csentéz «obulus» (Sz. 68, K. 41, TESz. 1, 500 a. 1800 czentés); per il momento è quindi verosimile che si tratti di una riduzione di «centesimo», cfr. anche centin. Ribadisco ora ed amplio la spiegazione che ho già proposta (a Napoli) a proposito dell’ungh. kagylé «conchiglia» ed anche «chiocciola», la cui etimologia è di norma ricercata nella nostra lingua. Il Barczi 145-6, lo dichiara un probabile prestito dall’it. cochiglia, ma il trapasso fonetico non sarebbe ben chiaro. Il Karinthy 38 ripete più o meno la medesima spiegazione con un punto interrogativo ed anche la Sziklay 135 sotto kagylé«conchiglia», «ricevitore del telefono», riporta molte varianti del secolo passato (gagy6, kagyalla, kagyll6, kagyé, kagyu, kagyula) e accetta la spiegazione da cochiglia secondo la trafila: «in ungherese ‘kokilya poi ‘kogilya e quindi con
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Mi basti rinviare a A. Prati, Etimologie Venete, Venezia-Roma 1968, p. DEI I, 437 s.v. barco (di origine preromana). 30
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scambio dell’articolazione linguale della palatale o dell’a. palatale si avrebbe kogyila, kagyila, kagyla, kagyla e finalmente kagylé, ove la -é è indice del diminutivo e non di -a italiano» (si rifà a Szarvas, Nyr XII, 337 e ad Horger, MNy XXVIII, 259). Il problema ripreso dal Benko (MNy LXIV, 1968, pp. 154-61) che cita — v. anche TESz. II, 303-4 — una ampia informazione storica e propone come etimo le forme it. region. cochiglia, cochilla, «cesiga, kagyl6». A dir vero mi pare poco verosimile ricorrere per tale concetto a forme dotte e letterarie rare quali cocchiglia, cochiglia (v. GDLI-UTET III, 241) che compaiono in Sannazaro, G. Bartoli, ecc., (il napol. conosce per «conchiglia» còcciulas, còncula e quaquiglia, Altamura-D’Ascoli 1970, p. 92). Tali forme riproducono il fr. coquile da conchilia incrociatosi con fr. coque «bacca», «coccola». Difficile è poi risalire a cocilla attestato in Br. Latini secondo il DEI II, 995, sicuro francesismo antico. Dalla carta dell’AIS III, 459 «chiocciola», si vede come al P. 368 (Pirano, Istria) compaia kòégia e al P. 397 Rovigno (istrioto) kuguya; per «Guscio della conchiglia» l’AIS III, 460 riporta al P. 316 Cortina d’Ampezzo-Zuel kogé ya voce confermata dal Majoni 27 cogoia «guscio della lumaca, conchiglia». Le varianti attestate dal TESz. cit. sono ad es. kdgyillé (1724), kdgyu (1818), kdgyula (1832), kagyaban e particolarmente interessante per la nostra ipotesi la forma gdgy6ò, oltre a kdgyalla, kagyolla, kagyojja, ecc., sempre nel significato di «chiocciola». A me sembra che la patria di origine della nostra voce (con le citate varianti) debba esser ricercata nella medesima area dialettale italiana che ha dato all’ungherese ad es. osztriga e cioè il litorale veneto-giuliano (eventualmente dalmatico). Propongo pertanto di tenere in considerazione le voci per «chiocciola» dei dialetti giuliani e istrioti già accennate; ma si veda soprattutto il triest. cagoia «chiocciola, conchiglia, lumaca», Kosovitz, 1889, pp. 77-78 e il Rosamani p. 142 che cita numerose varianti e precisamente, oltre al triestino cagoia, le forme istriane coga, coghia, cogoia, cogola, cuguaia, cuguia, ecc. Non è difficile scorgere delle connessioni con le forme ungheresi sopra menzionate. Ad es. gdgyò può essere confrontato con coghia tipico di Pirano e quest’ultima forma può provenire da precedente coghila con } > i, ben noto ai dialetti veneti, ecc. Quanto alla spiegazione etimologica è sempre utile un articolo di
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Prati, Sui nomi veneti della lumaca e della chiocciola, AGI XVII, 1913, pp. 425-32 (riassunto in Et. ven. 32 s.v. cagoja). Il Prati, art. cit. p. 432 ricorda il triest. kogoja, a Rovigno e Fasana kuguja, kaguja ed accetta la spiegazione di H. Schuchardt, Rom. Etym. II, p. 31, accolta anche dal Vidossi (Studi sul dialetto triestino n. 58, p. 285) e cioè un cuculia, coculia risultato di un incontro tra cocula e conchylium (v. anche REW 2011, 4 *‘cocula *conculium). Il Prati menziona anche la forma di Capodistria (Koper) kogola (su informazione del Vidossi, nativo di quel luogo). Anche il DEI I, 663 ha cogoia (triest.), cfr. irpino, cucuglia «conchiglia», dal lat. “co n culium + cochlea, e si cfr. anche cògolo e cùcculo. Per la trafila fonetica penso che kagylé che trova precisi antecedenti in Istria, possa venire da un cogota (poi kogija), ma i problemi della trafila fonetica dovranno essere ulteriormente approfonditi e non escludo che si possa postulare una forma intermedia ‘cagoila con ? svoltosi in il (kagéla > kagdéila e di qui l’ungh. kagyl6°); del resto si può ammettere che la palatalizzazione di g in ungherese sia stata promossa da ? seguente. In ogni caso mi pare che la via di penetrazione da me indicata sia più probabile di quella finora postulata dai dizionari etimologici ungheresi. Fd infine vorrei nuovamente accennare ad una mia timida proposta per spiegare o meglio per perfezionare l’étimo dell’ungh. forint, studiato con approfondimento delle fonti soprattutto da Hadrovics, pp. 99-100. Non mi pare che alcuni problemi nella mutuazione di tale nome così comune siano stati ancora risolti e ne è la riprova anche l’articolo del TESz. I, 953 che riassume la precedente bibliografia. Il Benk& (The Hungarian Language, cit. p. 188) sistema la nostra voce tra i prestiti latino/neolatini di difficile collocazione precisa. Conosciamo assai bene gli antefatti, l’origine fiorentina della preziosa moneta d’oro coniata nel 1252, anche secondo l’informazione di Giovanni Villani (v. GDLI- UTET VI, 14-15, fiorino! con varie attestazioni dugentesche); ci è ben nota la sua rapida A.
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È da notare che laterale palatalizzata è conservata a lungo ad es. in friulano i Testi friulani pubblicati dallo Joppi (cit.) e tanti altri ad dimostrano es. come indizi. 31
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diffusione a Venezia e l’introduzione in Ungheria da parte di Carlo Roberto d’Angiò nel 1335. Le prime attestazioni in latino d’Ungheria (1282/1336) si presentano costantemente secondo la forma florenis e debbono ritenersi latine anche per fl- intatto. Identiche forme si notano del resto in Croazia ad es. sec. XIV unum de puro auro florenum vel ducatum (Lex ... Jugoslaviae, p. 465). L’oscillazione -inus / -enus è frequente nei dialetti italiani e soprattutto nel veneto (ad es. magazino / magazeno anche nell’it. regionale, dozzina/dozzena, ecc.), v. Rohlfs, Gramm. st. III, $ 877, 979. Sono latineggianti anche le attestazioni dell’antroponimia antica in cui compare ad es. un Anthonio Florentos (a. 1403) o Florynthushaza (1415), ecc. Ma non sono veramente certo che qui Florentus accenni a «fiorino», mentre la moneta appare chiaramente in forme quali Forintveru (che batte, conia fiorini) e qui ormai nella forma ungherese. Dalla moneta si traevano dei sopranomi professionali e ciò dimostra la sua ampia diffusione. Di contro a florenus, florinus forme latine o latineggianti s’impone assai presto la forma volgare forint che offre la nota anomalia dell’epitesi, finora inspiegata, di -t. Quanto a fo- è facile supporre che esso presupponga una riduzione da un flo- poiché fio- sarebbe rimasto verosimilmente intatto come conferma la successione fio- ad es. in fiék «cassetta» o in fiéka «uccellino», «piccolo»; flo- si riduce a fo- secondo una norma fonetica dell’ungherese assai nota per cui non fa difficoltà presupporre come base un florin non fiorin con riduzione del nesso iniziale come nel toscano, ecc. Per tale forma non è una ipotesi tanto stravagante pensare al venez. ant. (che conserva fl- fino alla prima metà del ’300) o al friulano o al tergestino o all’istriano antico. Assai più complessa risulta la spiegazione di -t finale che, d’altro canto, non è ignoto ad altre voci ungheresi di origine italiana, ad es. tulipdnt «tulipano» (che ormai indica il fiore e non più il noto copricapo orientale)?’, rubint «rubino» e marcipdnt accanto a marcipàn «marzapane», riconoscibile nella forma ant. a. 1792 Marczipàntot (TESz. II, 843, ove si accoglie l’etimo errato ormai tradizionale V. per tale epitesi di -t in ungherese le osservazioni di Bàrczi-Benko-Berrar, A nyelv EYar ny magyar tòrténete, cit., p 132. 32
p.
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per tale voce, v. invece i miei Arabismi II, pp. 590-99 e Cardona LN XXX, pp. 34-37). Non mi convince l’ipotesi che -t di forint debba spiegarsi da Florentus retroformazione di Florentinus ed anche il TESz. |. cit. ammette chiaramente la difficoltà di spiegare -t ed accenna alle incerte proposte. Nel serbo-croato si ha pure forinta (Vuk), ma la documentazione allegata dallo Skok, ERHSIJ I, 525, non è antica e fa pensare a parola presa dall’ungherese (lo Skok accenna ad una riduzione analoga di fl- in f- davanti a r, cfr. Furjan per Flurjan). Anche lo
sloveno conosce florint, florinta forma regionale derivata dall’ungherese. Conviene richiamare lo Schuchardt® il quale attirava l’attenzione su forme quali florin, plaz, plovan, frequenti tra gli Sloveni di Trieste e provenienti dal Friuli (0 meglio: relitti del tergestino). Anche Fran Sturm cita lo slov. florin accanto a fiorin e deriva il primo dal friul. florin. Ora ritengo che sia possibile pensare al friulano come ponte di trasmissione della voce florint, ma con un ulteriore sostegno che mi viene dalla presenza del -t ascitizio. Gli specialisti delle parlate friulane conoscono assai bene il fenomeno del -t epitetico friulano specie dopo -n; si tratta probabilmente di una reazione alla tendenza di sopprimere la nasale finale divenuta velare®”. Anche se non ho finora reperito una forma friulana florint nei documenti antichi, ritengo che essa fosse possibile poiché il fenomeno dell’epitesi è diffusissimo per cui non pare assurdo immaginare che florint circolasse nel sec. XIV in Friuli. Sul fenomeno si può vedere una bibliografia specifica fornita da U. Pellis, da G. Marchetti, da G. Francescato ed ora soprattutto dal nostro ASLEF®. Nella redazione delle carte di tale atlante ci capita ogni H. Schuchardt, Slawo-deutsch und Slawo-italienisch, Graz 1884, p. 36. Fr Sturm, Refleksi romanskih..., in «Casopis za slov. jezik, knjizevnost in zgodovino», VI (1927), p. 81. 35 A tale tendenza il friulano reagisce, oltre che con l’epitesi di -t, anche col labiale nasale dentale (-m). della a passaggio 36 V.G. Marchetti, Lineamenti di grammatica friulana?, Udine 1967, p. 88; G. Francescato, Dialettologia friulana, S.F.F., Udine 1966, pp. 216, 218, 393 (per la Carnia); Ugo Pellis, L’epitesi nel friulano, in «Forum lulii», 1 (1909), pp. 5-12. Numerosi esempi si possono ricavare dallo spoglio dell’ASLEF (Atlante storicolinguistico-etnografico friulano da me diretto), Padova- Udine 1972 e sgg.; si noti san gudnt «San Giovanni» (nei nomi di piante), frésint «frassino», ecc. 33
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giorno sott’occhio casi di epitesi di -t nelle varietà friulane”7. Si potrebbero ricordare anche le forme verbali di 3. pl. che in alcune varietà specie cargnelle hanno -int per il più comune -in e che ingannano i dilettanti locali i quali le ritengono un riflesso della desinenza latina-NT. Ma ad es. ad Ovaro si ha klamint «chiamano» o ant «hanno» accanto a Udint per Udin «Udine» o ant per «anno». Tra i testi ant. pubblicati dallo Joppi% noto ad es. nel Quaderno della fraternita di S. Giovanni in Udine all’a. 1439 «lu lent del cesendeli» (lent per len «legno») oppure: «Spendey per la chostion de Ramanzaz per stimà lu terent soldi X» (cioè terént = terén «terreno»), ecc. Sembrerebbe pertanto di poter avanzare l’ipotesi che una forma friulana florint sia stata recepita dall’ungherese fin dal sec. XIV e che essa sia stata regolarmente adattata in forint; analoghe osservazioni si potranno fare per tulipdant, rubint, marcipànt, ecc., verosimilmente di mediazione friulana’. Ma osservo ancora una volta che le mie sono soltanto proposte che mi piace di sottoporre al vaglio dei più esperti colleghi ungheresi. È comunque accertato che un filone abbastanza cospicuo di italianismi dell’ungherese proviene dall’Italia nord-orientale la quale ha fruito, per vari motivi, e soprattutto per la contiguità geografica, di circostanze più propizie per reciproche mutuazioni lessicali‘. Mi soffermo ancora a menzionare l’ungh. bagé [v. qui 1,14] «tabacco scadente» «residuo di tabacco nella pipa» ecc. con attestazioni recenti secondo il TESZ I 216 (dal 1836), ove l’etimo era di certo errato (cfr. un. bagoly «civetta»). Il Benk6 — penso stimolato dalla mia comunicazione di Visegrdd — mi informò gentilmente di essersi 37 L’amico A. Zamboni mi segnala il friul. carnico afent «acino», «granello di sabbia». 38 V. Joppi, AGI IV (1878), p. 217. 39 Eda tener presente che lungo la «strata Hungarorum» che attraversava la Slovenia e il Friuli avvenivano scambi commerciali; gli Ungheresi acquistavano nell’Italia settentrionale pietre preziose, spezie, oggetti d’oro, sete, lana, tessuti ecc., v. ad es. M. Unger-O. Szabolcs, Magyarorszdg tòrténete, Budapest 1973, p. 46. ‘0 Come osservava anche il Kardos, A magyar humanizmus olasz kapcsolatainak alakulasa és jellege, 1. «OK» 17 (1963), pp. 113-137.
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nuovamente occupato della nostra parola con la citazione di una serie di paralleli in varie lingue vicine, per cui egli definisce tale termine come una particolarità «asburgica» anche per l’area, ciò che appare subito verosimile. Si noti slov. bagus (Pleter. I 9), nel Banato bagoy «tabacco scadente» (Skok L 90), romeno bdgdu sempre nel medesimo significato (dall’ungh.) o bogoi. Sottolineavo soprattutto la presenza della parola in Friuli, nel Veneto e in Lombardia con la citazione del Prati, Etim. ven. 8 ven. bago e valsug. bdgolo con un etimo poco verosimile. Vedo ora qualcosa di nuovo in Bezlaj, ESSJ 1 (1977), 8 bdaga col medesimo senso e varie citazioni tra cui ceko bago «pezzo di tabacco da masticare», ted. austr. Baga, Bago, alem. Bakch derivati da tabacco dato che in ceko si nota anche bako passato al tedesco e accolto dallo sloveno e ungherese, con citazioni bibliografiche che non sono in grado di controllare. Non sono pertanto sufficientemente informato se il Bezlaj abbia indicato un etimo ed una via di diffusione verosimile [v. anche qui 11,8]. | Aggiungo ora qualche nota nuova sempre relativa ad un lessico «periferico» forse proveniente dall’Italia del N-E o che ebbe come punto di irradiazione tale zona. E il caso di berbence (TESz I 281) «scatola» «astuccio», di origine dibattuta. Forse dal s.cr. o meglio sloveno brentica che propriamente significa «piccolo mastello» o «piccola bigoncia», oppure dal romeno berbintà, bdrintà, berbenita «tinozza» che il Cioranescu 77 reputa di derivazione ungherese; così anche il Tamàds EWUER 101 il quale definisce il termine «ein ràtselhaftes Karpatenwort wie afin [«mirtillo nero» ]...», con varie osservazioni e riscontri. Se fosse più verosimile l’ascendenza slava — ma non mancano varie difficoltà! — si potrebbe indicare la fonte di tale brenta -ica proprio nei dialetti veneti e friulani che conoscono brenta, brente nel senso delle lingue slave meridionali. Mi basti allora rinviare a Prati, Etim. ven. 25 brenta? e brento «bigoncio» brent (bellun.) «tino» e nel sec. XIII a Trento brentam vini, definita parola prelatina, si veda soprattutto J. Hubschmid, ZRPh. 66 (1950), 36-38 s.v. fassano brenta «grosse Waschzuber», ove si citano anche forme slave merid. Si potrebbe aggiungere anche gli idronimi Brenta (che si ripetono nel Veneto), ant. Brinta. Ma a dir vero, il termine magiaro rimane ancora sub judice. 59
A proposito di brilidns «brillante», affine all’it. brillante e giudicato una «nemzetkòzi szé6» (fr. brillant, ted. brillant, russo briliant ecc.), non avrei dimenticato di segnalare l’eventuale origine elementare, imitativa di brillare/prillare «girare vorticosamente» «girare attorno a un centro» (radice «glottogonica» per qualcuno!) da pri. Tale etimologia è sostenuta ad es. da A. Prati, VEI 199 (incline, forse troppo, a tali spiegazioni); vedo che il TESz ha in genere utilizzato ampiamente il DEI di Battisti- Alessio (ed in parte mio) e quasi mai il VEI del Prati (è non v’ha dubbio che il DEI rimane tuttora l’opera etimologica più vasta e con maggiori novità, ovviamente non tutte indovinate, come capita sempre). Quanto all’it. ciao (da s’ciao), saluto di origine veneta (forse veneziana) che per la sua brevità sta diffondendosi in molte lingue e mi risulta anche in Ungheria (v. ad es. Corominas Pascual II, 696-98 s.v. esclavo ove si cita chau «férmula despedida propria del habla familiar» dall’it. sett. ciau «idem»), ne accenna anche il TESZ IIT 744-45 s.v. szervusz (dal ted. austr. Servus!). Il parallelismo con la citata formula di saluto italiana è perfetto dato che in origine (s)éa(v)O era saluto di deferenza uguale al «servitor suo» (che si sente ancora nel Veneto) ed equivalente a «schiavo», cioè «servo suo». Ora nessuno si accorge, usando tale saluto, assai confidenziale, che non molti decenni or sono era invece un saluto di molta reverenza. Analogamente l’it. addio in italiano è ora confidenziale, mentre non lo è affatto l’adiés in spagnolo. Esatta è la spiegazione del TESz I 495 per csemelét «Kambelotkleid», a. fr. camelot, it. cam(m)ellotto, ove è facile esser ingannati dall’attrazione di cammello; così il DEI I 703 propone come etimo (con la definizione «drappo fatto di pelo di cammello») l’etimo greco kameelòte, mentre si deve ricorrere all’ar. hamlàt (con è lunga) in forma di pl. da haml, hamla «rauhe, haarige Seite des Stoffes»; si noti soprattutto l’esatto esito del ligure che ha ant. giameleto (Rossi 117 e sua Appendice 155) con -àt > -et(0), poi eventualmente sostituito da -otto (ne parlo a lungo ora nel recente volume Ricerche sugli arabismi italiani con particolare riguardo alla Sicilia che esce a Palermo, 1988). Per marcipdn (:-ant)- che trova riscontro in tante lingue europee (e nei rispettivi dizionari etimologici) è opportuno abbandonare interamente la vecchia spiegazione che risale all’olandese Kluyver, divulgata 60
sicuramente dal Lokotsch (1452 ar. mautabàn — anche TESz II 843) — ed accogliere quella da me proposta in Arabismi... 575-599 (e già prima in Contatti linguistici arabo-veneziani, o da R. Cardona, indipendentemente in LN 30, 1969, 34-37). Si tratta infatti dall’ar. martabàn «contenitore per spezie e dolci». Tale oggetto di porcellana si fabbricava nel medioevo nel Martaban sul versante orientale del Golfo di Bengala e di qui il nome, passato poi al noto dolce. Se ne ha ora la piena conferma che ho esposto nel breve articolo MartabanaMarzapane, in LN 37, 1976, 92. Per rassz «razza» (TESz III 349) «voce internazionale» era opportuno, data l’importanza, citare la definitiva etimologia individuata da G. Contini, SFI XVII, 1959, 319-327 (e v. i complementi di F. Sabatini, ibid. 22, 1962, 365-382 e di R. Coloccia, ibid. 30, 1972, 325-330); non dunque da ratio o da generatio, ma dal fr. ant. harraz, haras «allevamento di cavalli, deposito di stalloni», dal nome di località (?). E vorrei concludere le mie brevi postille con qualche appunto sull’etimo di ungh. kurva «meretrice» e si noti anche kurafi «figlio di noto spagn. puttana!» (a. 1488 kurwafji) TESz Il 689 e 689 (aggiungi hi de puta!). Mi stupisce come tutti gli etimologisti della voce slava — onde quella ungh. e di tutte le lingue balcaniche — abbiano dato la preferenza allo slavo Kkuri(ca) nel senso di ungh. tyuk «gallina» con evoluzione analoga al noto fr. cocotte, etimo che risale già al Miklo651, s.v. kurùdva, cita i vari riscontri sich, LP 324. Il Berneker SEWD. slavi formalmente uguali (tranne l’ucraino ove chyra sarebbe un prestito recente del ted. hure «puttana» ) ed esclude in sostanza che le voci slave vengano dal germanico (got. hors «Ehebrecher», «adultero»). Dopo aver scartato varie ipotesi, l’autore ricorda anche la voce greca (alla quale noi diamo la preferenza) che sarebbe «urverwandt». Si tratta secondo noi dell’etimo esatto e cioè il rapporto diretto, risalente all’ie., tra lo slavo kurva ed il greco x6gFa = x6pn, una ipotesi alla quale avevo pensato da vari anni, specie dopo che il miceneo attestava il digamma col suo chiaro ko-wa, cioè xopgFa = x6pn e ko-wo = xrogFs cioè rovmos (per le attestazioni mi basti rinviare a M. Doria, Avviam. allo studio del Miceneo, Roma 1965, 227). Del resto -v- conservato era apparso in dialetti greci (v. Frisk. GEW I 920-921) ad es. arc. e corinz. xogFa «Jungfrau, Màdchen»
il
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ecc. Che dal senso da «vergine» si possa passare a quello opposto, non deve affatto stupire. In slavo la «fanciulla» ha preso un senso diverso mediante un processo di degradazione semantica che è comunissimo in lingue e dialetti anche per il nostro concetto. Ricordo ad es. l’ar. parlato mar’a (mrà) in origine «donna» (Frau, Weib) che è ora, più spesso, passato ad indicare la «donna di facili costumi»; e chi non ricorda signorina divenuta la segnorina del secondo dopoguerra? Copre del resto un arco semantico assai vasto anche l’it. donna, ecc. Non deve stupire dunque se lo slavo kurva rappresenti in sostanza una degradazione del greco x6pn, x6pFa. Su kurva ha scritto un interessante articolo anche P. Agostini (Una parola balkanica e la sua etimologia: «kurva» in «Balkan Studies» 27, 1986, pp. 369-375); ivi è notevole l’ampio spoglio di dizionari con varianti semantiche e formali. I rapporti etimologici fondamentali sono esatti. Ma all’idea del prestito dello slavo dal greco, attuatosi in epoca piuttosto tarda,
CONTINUATORI BALCANICO-DANUBIANI DEL VENETO «BALOTA»
la
personalmente preferisco pensare ad una voce comune con significato simile che in slavo ha subito un noto processo di degradazione semantica. Ma per i particolari si potrà discutere ulteriormente.
È merito di Liszl6 Hadrovics di avere impostato una numerosa serie di ricerche etimologiche con un metodo originale cha ha dato ampi frutti, fondato sullo studio globale di tanti dati, ma in primo luogo saldamente ancorato al minuzioso esame delle fonti e dei motivi storici e culturali che hanno occasionato i prestiti. I suoi contributi alla storia e all’etimologia di varie parole ungheresi costituiscono autentiche piccole monografie concentrate nel settore del lessico giudicato di norma «di etimologia difficile» nei dizionari specializzati; essi sono ora in buona parte riuniti in due volumetti: Jòvevényszé-vizsgalatok [Indagini sui prestiti] del 1965! e Szavak és szélasok [Parole ed espressioni] del 1975?. In questa seconda miscellanea, nel capitolo quinto dedicato ai «prestiti italiani» (olasz jòvevényszék, alle pp. 78-94) PA. ha l’occasione di occuparsi della voce ungherese per «palla» (pp. 86-89) che presenta varie corrispondenze
Edito in «Nyelvtudomanyi értekezések» [Dissertazioni linguistiche] nr. 50, Akadémiai kiadé, Budapest 1965 (di pp. 115), ove l’A. discute con ricerche d’archivio nuove e con proposte etimologiche originali, di cinquantasei parole ungheresi di cui 25 si riferiscono ad elementi slavi, 13 sarebbero prestito dal tedesco e 19 dall’italiano. Sull’opera dello Hadrovics si veda anche l’ampia rassegna critica di Miklé6s Fogarasi, Risultati ed insegnamenti di un metodo complesso nelle ricerche etimologiche, in AION-Ling. VIII (1968), pp. 187-205; v. anche la mia comunicazione patavina Postille alle voci di origine italiana riportate dal TESz, in «Atti del Convegno linguistico italo-ungherese», 27-29 ottobre 1976 [v. qui 2]. 2 In «Nyelvtud. értekezések» cit. nr. 88, Budapest 1975 (di pp. 135); tale studio è suddiviso, oltre all’introduzione, alla bibliografia e all’indice delle parole, in otto capitoli di cui il IV riguarda i prestiti dallo slavo, il V dall’italiano e il VI dal tedesco. 1
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nelle lingue slave e balcaniche, oggetto di tante discussioni, come si può vedere anche dai più recenti dizionari etimologici. Egli, dopo ampio esame delle fonti archivistiche, propone per tale famiglia di parole una spiegazione interamente nuova e originale che riteniamo assai probabile, ma incompleta nella formulazione e giustificazione fonetica (sostanzialmente mancante). In questo breve articolo cercheremo di integrare le osservazioni di Hadrovics ch’egli ha esposto in forma, secondo noi,
plausibile per quanto attiene i particolari della mutuazione. L’opinione corrente relativa alla parola ungh. labda «palla» (in vari sensi) è che si tratti di uno slavismo, mentre lA., indicando altrove la vera fonte etimologica originaria, pensa esattamente il contrario e ritiene che sia stata, la voce magiara a diffondersi nell’area slava meridionale e balcanica in generale. Si può verificare l’ipotesi slava ad es. a partire dal dizionario etimologico del Bdarczi del 19413, ma anche prima come si desume dalla bibliografia citata dal medesimo autore; la forma ungh. labda (dal sec. XV) e ant. anche lapta (accanto a lapdt «pala») verrebbe dallo slavo, cfr. s. cr., slov. lopta «palla» e anche «specie di pala» (lopata) ecc. Ampie indicazioni fornisce inoltre Kniezsa nella monumentale opera del 19554 sull’influsso slavo in ungherese, s.v. labda con i significati: 1. pila Ball, 2. globus, Kugel (a. 1493 e 1533 lapta). Il Kniezsa, secondo la tradizione, ritiene di poter risalire alla forma slava lopiùta, cfr. il russo loptà, laptà «pala del remo» ed anche «racchetta» e unitamente il s. cr. lopta «Ball», il kajkavo lopta «pila», slov. lopta «Spielballen» ecc. Secondo Kniezsa, L.cit., il mutamento e il traslato di lopta «pila» in labda «golyé», cioè «pallottola», «pallino»° sarebbe avvenuto in ungherese. Anche il TESZ6 II, p. 701, s.v. labda, ripete in sostanza la 3
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Géza Bdàrczi, Magyar széfejtò szétàar, Budapest 1941, p. 181. Istvan Kniezsa, A magyar nyelv szlàav jòvevényszavai, Budapest 1955, I, pp.
298-99.
Osservo per inciso che golyé «palla» è un prestito dall’italiano e precisamente da «coglione», nella forma settentrionale koié(n), forse diffusa da Venezia e attraverso una variante senza -n comune ad es. al bergamasco (i Bergamaschi erano numerosi a Venezia). ’ 6 A magyar nyelv tòrténeti-etimolégiai szétàra (diretto da Lordnd Benko), II, Akadémiai kiadé, Budapest 1970 (in questi giorni è uscito il terzo volume conclusivo della fondamentale opera; pare che sarà seguito da un supplemento). 5
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medesima spiegazione con la citazione delle fonti tradizionali e i seguenti significati: 1. «Spielball», 2. «Kugel», 3. «spielballàhnlicher Gegenstand, Bestandteil» e 4. «Ballschlegel» (la variante s. kajk. labda «palla» e slov. dial. labda sarebbe stata presa dall’ungherese). Credo che la fonte dell’equivoco (così pare anche a me), di collegare due famiglie di voci che hanno origine assai diversa, risalga al Berneker, SEWb. I, pp. 732-3, ove sotto lopata «pala», «badile», «remo», «scapola», ecc., attestato da tante lingue slave a partire dall’a. bulg. (slavo eccl.) lopata «nt6ov» «Wurfschaufel» (pala da grano), viene citato anche il russo lopta «Schaufel, Ruderblatt» «ein flaches Ding das am Ende breiter wird», «ein Stock, eine Art Schaufel, Ruder mit dem man den Ball wirft» (cioè una specie di «racchetta» ), «Ballspiel», e ciò che crea maggiore confusione anche il s.cr. lopta «ball», slov. lopta idem, slovacco lopta «idem» (dallo slavo verrebbe l’ungh. labda, lapia «Ball» .. «schwerlich umgekehrt», come aveva sostenuto il Miklosich, Et. Wb p. 174 «ohne das r. Wort zu beachten»). La voce lopata verrebbe, con Ablaut, da lapa «palmo della mano», cfr. lit. lopeta «Schaufel», lett. lapota «Spaten», «Schusterblatt», a. pruss. lopto «Spaten» ecc. (v. anche per il lit. lopeta, Fraenkel, LEW I, 339-340 s.v. lapas, ove è citata una ampia famiglia di parole tra cui lopeta). Anche il Vasmer, REWD. II, pp. 14-15, sotto russo laptd ripete le osservazioni del Berneker («Magy. labda, lapta «Ball» ist entlehnt aus d. Slav., nicht umgekehrt») e ivi si aggiunge anche che sarebbe erronea la derivazione dal ted. Latte, it. latta «Schlag» «die fùr das p keine Erklàrung bietet». Per completezza cito, oltre al SadnikAitzetmiller, Handb. p. 263, nr. 475 (s.v. lopata ove si ripetono le annotazioni già citate), anche il Pokorny, IEW, p. 679 che sotto le radici lep-, lop-, lop-, «flach sein, Hand-, Fussflàche, Schulterblatt, Schaufel, Ruderblatt», lopa «Hand, Pfote», elenca i numerosi derivati ie. tra cui il russo ecc. lapa «Pfote, Tatze», abg. lopata «Wurfschaufel», russo lopata «Schaufel», lopatka «Schulterblatt» (ecc.) e l’alb. lopeté «Schaufel», uno slavismo. La forma ufficiale albanese, ora citata dal Fjalor i gjuhés shqipé p. 276, è lopaté-a (badile, vanga, remo); in romeno si conosce lopata «pala» «pala del remo» slavismo, ed anche lopta «palla» che il Cioranescu DERum. p. 485, deriva dall’ungh. lapta; si veda a questo proposito l’ampio lemma del Tamdàs, 65
Etymologisch-historisches Wòrterbuch der ungarischen Elemente im Rumiinischen, Budapest 1966, p. 509 s.v. loptà «Spielball» (il quale per la voce magiara ripete la nota bibliografica che ribadisce l’origine slava della parola). Non minore confusione (a giudizio mio) appare nell’articolo lòpata (s.cr.; Vuk) dello Skok, ERHSJ II (1972), pp. 318-19 «pala», «scapola» e vari richiami al traslato toponimico (anche in molti dialetti italiani la «scapola» è derivata dal lat. pala, palòta, così anche in dial. ven. sett.). Lo Skok cita accanto a lopta anche lofta (Palmotié) = lovta (Ljubi$a) «palla» etc. (si riconosce poi che la variante s.cr. — kajk. lapta è un prestito dall’ungherese). Nel Rjeénik VI (1904-1910) p. 155 s.v. lopta «globus, pila, follis» ... si aggiunge «Misli se da je, kao i slovaè. lopta, od mag. labda, lapta ..». Se accettiamo la brillante proposta di Hadrovics dobbiamo subito sottrarre alla famiglia di voci che fanno capo allo slavo lopata ecc. il magiaro labda, lapta (da cui proviene allora il s.cr. ecc. lopta) «palla» (con varie accezioni) poiché quest’ultima parola avrebbe una storia interamente diversa e rappresenterebbe un prestito di origine romanza 0, per esser più precisi, veneta. E merito di H. aver attentamente esaminato i contesti in cui compare labda «palla» nei documenti antichi in latino, anche della Dalmazia, e di averne precisato i significatti. Egli sottolinea infatti, acanto al senso di «palla da gioco», soprattutto l’accezione militaresca che compare fin dal 1493 (fortezza di Jajce): «Pulveres pixidorum tria vasecula cum medio. Laptes septuagintas igneas decem et quattuor»; ad Eger a. 1508: «Laptha ignea magna decem et octo 18; Laptha ignea parva novem.»; a. 1520 (ca.) Lapta wlgo twzes; 1528 (Gyula) «1 ferreum instrumentum ad proiciendum ignem vulgo lapta»; a. 1549 «Pila pro igne cum pice laptha»; a. 1554 (Gyula) «testaceae crematoriae vulgo zeneslapta 23», e seguono poi varie citazioni di passi in ungherese in cui si vede chiaramente come tale lapta si equivale a una «palla incendiaria» (tiizes lapta) una palla infuocata che si scagliava contro i nemici, una pallottola o simile. In testi paralleli veneto-dalmati compare al posto di labda, lapta un termine che ha tutta l’aria di essere perfettamente equivalente e precisamente bal(!)ot(t)a. Ritrascrivo alcuni passi riportati sempre dallo Hadrovics; da Zara a. 1351: «Item baliste XII a pexarola cum 66
pexarolis et sagitamentum etiam pro dictis balistis in ea quantitate, que fuerit opportunum. Item sclopi VIII, cum quibus prohici possint sagitamenta et balote cum igne» (MonSlavMerid. 3, 205); è chiaro come osserva lo H. che balotas cum igne si equivale perfettamente a tiizes laptak sopra menzionato («palle incendiarie»). All’a. 1528 sempre da doc. zaratino: «Vna balota de fero de spingarda». Nel Du Cange ballota è fatta equivalere a «pilula seu glans ferrea vel plumbea» ecc. Aggiungo qui un brevissimo campionario lat. mediev. tratto da Sella, Gloss. lat. -it. p. 53 s.v. balota «palla, pallottola», a Pola sec. XIV; «ballotis a sclopo de ferro et plumbo» a Belluno a. 1379; balotam ferream aut plumbeam» ad Adria a. 1402; inoltre «Cerebotanis utebantur, lapides seu balottas de girla (cioè «creta») ... proicienles», Udine a. 1425 (Sella cit. p. 148), ecc... Dal Battaglia, GDLI-UTET II, 18 traggo le seguenti informazioni: ballotta 3. ant. proiettile; piccola palla che si lancia con la balestra (più per la caccia che per combattimento [ma ciò vale per gli esempi italiani riportati], con le segg. citazioni da Folgore di S. Gimignano (XIII sec.) «Di settembre vi do diletti tanti ../.. bolz°e balestre dritt’e ben portanti/archi, strati, ballotte e ballottieri»; e da Leonardo da Vinci «L’aria sia piena di saettume di diverse regioni: chi monti, chi discende, quali sia per linea piana; e le ballotte delli scoppietti sieno accompagnate d’alquanto fumo dirieto al lor corso». Si tratta di voce di origine italiana settentrionale (v. DEI I, 417 e Prati, VEI 95 il quale dichiara espressamente l’origine veneta di ballotta, ballottare, mentre ballottaggio verrebbe dal francese), e il Boerio3 p. 59, cita balota, oltre che nel senso di «pallottola, voto (piccola palla di cenci o altro con cui si raccolgono i suffragi degli squittinii)» anche «pallottola di terracotta» e.v. anche sotto balotina «... ad uccidere gli smerghi colle pallottole di terra cotta detta volgarmente balote ch’essi tirano colla balestra». Si tratta di un derivato di bal(l)a col suffisso -èttus, voce di origine francone o ant. alto tedesca: balla (REW 908, 1, Gamillscheg, Rom.
Germ. I, p. 248). Quanto al suffisso il Rohlfs, Gramm. storica della lingua italiana III (1969), p. 155 1146 -òtto, attribuisce a tale variante di -ittus un ... fondamentale valore diminutivo che peraltro in dialetti it. setten67
trionali si trasforma spesso in accrescitivo. Lo Hadrovics sottolinea giustamente gli analoghi contesti e le perfette corrispondenze di significato nei testi lat. mediev. e ungheresi tra ballotta (e varianti tra cui anche balocta) e ungh. lapta, labda «palla incendiaria» di ferro o di terracotta. Egli propone di spiegare la voce ungherese — è il primo per quanto mi consta ad aver avuto tale intuizione — e slavo-balcanica come prestito dalla succitata parola veneta. Ma, a questo punto, non mancano le difficoltà di ordine fonetico ch’egli cerca solo in parte di superare. Lo H. osserva ad es., che nei prestiti da lingue neolatine in ungherese sia rimasta intatta soprattutto la parte della parola dopo aferesi sillabiche (egli l’accento e che pertanto siano molto comuni cita forme piuttosto banali quali Alessandro > Sandro e più tipico per il s. cr. a Zara Anastasia divenuta la Sveta (santa) Stosija patrona della città). Ma anche pensando ad un balota ridotto a lota, le difficoltà permangono ed esse sono gravi per qualsiasi assenza di traccia della labiale. Egli stesso osserva che sarebbe seducente («csdbité volna») poter partire da balocta poiché -ct- spesso si trasforma in -pt- in ungherese come insegnano esempi quali iktat > iptat, hektika > heptika, ròktòn > ròptòn ecc. Ma poi si rende anche conto che tali forme con -ct- erano soltanto grafiche, dovute a false ricostruzioni degli scribi e che alcuna persona avrà mai pronunciato balocta. In sostanza lo H. si accontenta di aver presentato un quadro esauriente e convincente delle equivalenze veneto-ungheresi e di aver trovato in certo senso una spiegazione plausibile per labda, lapta (onde le forme slave). Sono i documenti esibiti e l’ambiente culturale che essi evocano a confermare la sua supposizione. Ma penso si possa giungere ad una interpretazione ancor più persuasiva qualora si risolva correttamente l’aporia fonetica. Secondo noi è infatti possibile ricorrere ad una metatesi con successiva perdita, non tanto insolita, della vocale mediana postonica (secondo la legge cosiddetta di Horger). Ritengo che la metatesi, abbastanza antica (prima del sec. XV) in area danubiana sia stata favorita anche dalla presenza dell’articolo la, e mi immagino pertanto la seguente trafila: la balota > la labota e con ritrazione d’accento sulla prima sillaba tipica del magiaro- (la) làbota e successivamente lab(o)ta, con assimilazione poi lapta o labda. I
le
68
fenomeni di metatesi sono molto comuni anche in ungherese e mi basterebbe rinviare, per gli esempi, ad un capitoletto della nota opera A magyar nyelv tòrténete?. Ma analoghe trasformazioni sono frequenti anche in prestiti dall’italiano, e qui citerei l’esempio di mazsola da ant. malozsa cioè it. malvasia, studiato minuziosamente da L. Hadrovics, Jéòvev. cit. pp. 106-108, oppure cfr. kandallé «scaldino»® da caldano (se tale etimo è corretto), ammesso anche dal TESzZ II, 343, ecc. Quanto alla caduta di vocali interne nei prestiti potrei citare un ampio campionario specie per -e- ed -i(basti ricordare l’ungh. kdamzsa dal lat. camisia o meglio dal veneto kamiza; TESz II, 338). Si noti anche csdklya se viene da zagaglia, come stato supposto anche da Hadrovics, Jéòvev. cit. p. 96. Ma può indicare il medesimo fenomeno come già in atto nella storia dell’ungherese a partire dal 1000, per cui mi basti rinviare al volume di L. Benkò e Samu Imre, The Hungarian Language, Budapest 1972, p. 65 (si ricordi ad es. ant. urusag > orszàg «stato», holovan > halvany «pallido», bukurut, bukrut > bokrot
è
si
(accus.) «cespuglio», ecc. Mi pare comunque che l’ipotesi di Hadrovics, da me perfezionata, sia preferibile a quelle sinora prospettate e che peccano a causa di un evidente fraintedimento. Tale abbaglio sarebbe assai simile a quello commesso da chi mettesse insieme, per il rispetto etimologico, lit. palla ($. cr. lopta) con pala (S. cr. lopata) unicamente a causa della quasi perfetta coincidenza fonetica (e in una pronuncia it. sett. palla si equivale quasi a pala) e per una falsa interpretazione, veramente ingannevole, di racchetta (cfr. russo loptà o slavo in genere lopata) che casualmente sta in rapporto complementare, nel gioco, con la palla dialetti veneti la palòta può essere equivalente a «racchetta» (anche e a «scapola» ).
in
Bdrczi Géza-Benko Lorand-Berràr Jolàn, A magyar nyelv tòrténete, Budapest pp. 128-129. 8 Per i prestiti italiani in ungherese è sempre comodo il panorama generale offertoci da Ferenc Karinthy, Olasz jévevényszavaink [i nostri prestiti italiani], Budapest 1947 (e si veda anche la mia comunicazione citata alla nota 1). 7
1967,
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TRACCE DEGLI UNGARI NELLA TOPONOMASTICA ITALIANA ED OCCIDENTALE
Il contributo degli studi toponomastici alla storia! consiste — tra vari aspetti generali e particolari — anche nell’individuare i tipi di stanziamento umano che divergono da quelli usuali in determinate aree di antico incolato. E tra le singolarità degne di grande attenzione primeggiano le tracce che siano bene identificabili di popoli differenziati e di gruppi etnici i quali siano individuabili attraverso una corretta analisi dei nomi luogo, fondata sulle antiche attestazioni e tanto meglio se comprovate da altri indizi. Oltre alla ricerca delle vestigia di schiatte preromane che in Italia e altrove in Europa sono assai comuni, spetta al toponomasta il compito di rilevare le numerose impronte, impresse nella facies toponimica di varie regioni, da popoli e tribù che si sono stanziati, più o meno stabilmente, in vari luoghi durante le loro migrazioni specie quelle «barbariche» altomedievali o tardo-antiche. E peraltro singolare il caso degli Ungari che hanno lasciato molti e sicuri ricordi della loro presenza, collegata alle rapide e intense incursioni (kalandozdàsak) in Occidente ed in particolare in Italia tra la fine del secolo IX e la prima metà del X. Possiamo esser certi che con le loro numerose e feroci scorribande di guerrieri a cavallo, di cui si ha memoria anche in una notevole quantità di toponimi di spiegazione sicura o probabile, essi non hanno mai (o quasi mai) dato origine ad insediamenti stabili. Possiamo invece essere altrettanto certi che i nomi di vari popoli e schiatte d’epoca tardo antica e alto-medievale, qualora siano individuabili con un buon metodo di esplorazione, ci indiziano quasi sempre il costituirsi 1.
di
V. ora una esemplificazione fondata su varie regioni europee nel mio articolo Toponomastica e storia; «Fondamenti» (Brescia, Paideia) Nr. 7 (1987), pp. 27-53. 1
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di villaggi e di paesi, di nuclei di popolazione che effettivamente ha preso possesso stabile di tanti territori segnalatici anche dal nome locale.
Un caso, oserei dire paradigmatico, in cui si può constatare con evidenza, come i dati toponomastici possano realmente integrare le scarse notizie sulle migrazioni tardo antiche di un popolo germanico orientale, menzionato dagli storici, con alcuni particolari topografici offertici dal toponimo, ci è fornito ad es. dai Tàifali di cui si perde ben presto ogni segnacolo. Ma è l’etnico cristallizzatosi in due diverse aree della Romània che ci addita ancora la loro individuabilità e vitalità sul terreno. Si tratta di un ramo o gruppo di Goti (di Visigoti) o comunque di una popolazione germanica orientale, ai Goti strettamente affine, che le fonti storiche ci documentano come dapprima stanziati ad Oriente del Danubio (e a Sud) venuti poi a contatto con i Romani. Riporto alcuni passi degli storici antichi d’epoca tarda, ove si menzionano i Taifali. Si veda ad es. Aurelius Victor, Libellus de vita et moribus imp. 47.3?%, Eutropio a. 369) VIII, 2.1 ove si accenna alla Dacia abitata tra l’altro anche dai Taiphali, Victophali e Thervingi...°; Mamertinus, Panegyrici latini III, XVII, 1, ove pure si accenna ai Taifali associati ai Gotit e soprattutto Ammianus Marcellinus XXXI, 3, 1: «Qua rei novitate maioreque venturi pavore constrictus a superciliis Gerasi fluminis ad usque Danubium, Taifalorum terras praestringens, muros altius erigebat...° e nel medesimo autore 2.
2 Traggo le informazioni e i passi delle fonti dal volume, assai preciso e ricco, compilato dagli storici romeni, Fontes Historiae Dacoromaniae, Il. Scriptores: 2 Ab anno CCC usque ad annum M, Bucuresti 1970; v. pp. 26-27 «Hic cum animadvertisset Thraciam Daciamque tanquam genitates terras possidentibus Gothis Taifalisque atque omni pernicie atrocioribus Hunnis et Alanis extremum periculum instare nomini Romano, accito ab Hispania Theodosio,... imperium committit». 3 Fontes cit. pp. 36-37, VIII, 2.1.2. «... Daciam, Decibalo victo, subegit, provincia trans Danubios facta in his agris, quos nunc Taiphali et Victophali et Thervingi habent; ea provincia decies contena millia in circuitu tenet». 4 Fontes cit. pp. 80-81, XVII, 1 «Gothi Burgundos penitus excident rursumque victis armantur Alemanni itemque Tervingi, pars alia Gothorum, adiuncta manu pro Taifalorum adversum Vandalos Gepedesque concurrunt». 5 Fontes cit. pp. 132-133.
22
XXXI, 9, 1 (Gratianus) 3. «Repedando enim congretatosque in cuneos sensim progrediens, Gothorum optimatem Farnobium cum va-
statoriis globis vagantem licentius occupavit, ducentemque Taifalos nuper in societatem adhibitos: qui si dignum est dici nostris ignotarum pentium terrore dispersis, transire flumen direpturi vacua defensoribus loca. 4. Eorum caterves... trucidasset omnes ad unum ut ne nuntius quidem cladis post appareret... obtestatus prece impensa superstitibus pepercisset, vivosque omnes circa Mutinam Regiumque ct Parmam, Italica oppida, rura culturos exterminavit...»°. Notizia fondamentale ai nostri fini toponimici. Inoltre Notitia dignitatum: Or. V, 317, Oc. VII 1668, Zosimos, II, 31°, Iordanes, Getica 891, La bibliografia storica sui Taifali non è di certo vasta anche la scarsità delle informazioni degli antichi. Ne accenna comunper il Gamillscheg, RG II, 141 nota 1, il Battisti 1956, 630-314 a que proposito dei Goti ove egli fa un cenno anche alle colonie taifale emiliane, costituitesi, come abbiamo visto, all’epoca di Graziano dopo il 357. Egli accenna pure alla presenza di tali schiatte germaniche al principio del sec. V nella Gallia e si pone il quesito se i Taifali della Gallia fossero gli stessi che troviamo prima nel Modenese: «cioè se essi hanno abbandonato le loro sedi in Italia per emigrare in Gallia. Se questi Taifali fossero rimasti solo in parte, dopo l’eventuale partenza del grosso della popolazione per la Gallia, nelle province di Reggio, Parma e Modena con tutta probabilità essi sarebbero stati ormai romanizzati prima della venuta in Italia degli 3.
Ostrogoti. Invece nel caso della loro sopravvivenza nazionale, data
Fontes Fontes Fontes Fontes
cit. cit. cit. cit.
pp. 150-151. pp. 208-209 «Comites Taifali». $ pp. 210-211 «Equites Taifali». ° pp. 306-307 «(O Kowotavtivos) dietéheoe mé6hguov ovdéva ratWpIonOs' “emi d6viwv de Gaip&hwv, Zuuvdir0oy yévovus...». 10 Fontes cit. pp. 420-21 «... adhibitis sibi Taifalis et Astringis nonnullis...». ll E. Gamillscheg, Romania Germanica Il, Berlin-Leipzig 1935; C. Battisti, L’elemento gotico nella toponomastica e nel lessico italiano, in Settimane di studio II. I Goti in Occidente- Problemi, Spoleto 1956. 6
7
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la dimostrata presenza di stanziamenti gotici e longobardi nella zona modenese, essi si sarebbero linguisticamente fusi con i nuovi invasori...». Il Battisti non accenna nel suo intervento ad alcun problema toponomastico che invece ci interessa assai da vicino e che in parte era stato già intravisto dagli studiosi emiliani. Anche per la Gallia non sono sfuggiti tali problemi ai toponomasti francesi ed in primis ad A. Vincent 19372 p. 132 che dedica un paragrafo (il 310) ai Taifali nella
sua fondamentale illustrazione della toponomastica francese. Egli infatti accenna a «nombreux établissements (di Taifali) dans le Poitou», informazione che viene confermata nella citata Notitia dignit. ove si accenna a Pictavis (Poitiers). Ed il medesimo A. rinvia a Gregorio di Tours il quale menziona un «beatus Senoch, gente Teiphalas... Pictavi pagi quem Theifaliam vocant oriundus fuit...». Si notino i toponimi derivati per cui la regione di Nantes ha ancora il nome di Tiffauges (1050-69 castella... Theophalgia e cfr. Touffailles (Tìet G.) = ai primi del sec. IX Theufales, 1262 apud Thofalles; Chaufailles XIV sec. curatus de Chofalli, ca. 1412 de Chofaliis e v. DR 182-cant. S et L. XIV s. Chofalli ora Taifali detto Theofale «installés par les Romaines»; Tiffauges in Vandea (en Mortagne-sur-Sèvre), a. 1269 Tyfauges, 1270 castellum Theoffagiarum (suffisso -icus); Tivauche (Corsaint) (Còte d’Or) 1046-8 villam cui Tivalges vocabulum
est.
4. Mi pare invece quasi dimenticata (ma non da tutti!) la preziosa testimonianza toponimica emiliana illustrata soprattutto da Olivieri 1920, 132-133!1, ma già accennata dagli eruditi locali emiliani. Si tratta di Tìvoli e Crocetta di Tivoli presso San Giovanni in Persiceto (Bologna) nella pronuncia locale Taìval; l’Olivieri osserva «E un caso nel quale il nobilitamento ufficiale del nome (cioè la resa ufficiale mediante l’attrazione del nome più celebre Tivoli)... richie-
derebbe di essere corretto...». Nei dialetti vicini infatti si dice anche Taiéval e bisognerebbe ricondurre il nome alle forme più vicine all’etimo e soprattutto alle documentazioni più antiche. Tale località fu donata nel 752 alla Badia di Nonantola mentre prima spettava al contado di Modena. Essa compare assai spesso nei documenti. Riporto qui alcune attestazioni (che traggo da una mia pubblicazione in corso di stampa): circa 752 Tavialo, 831 in fundo Talpalo, a. 1017 Carzoleto qui vocatur Taivolo veclo; a. 1022 Carzoleto qui vocatur Talvalo veclo; a. 1075 ...magistri de loco Taivalo; a. 1168 Tavialum; a. 1168 Tavialum; a. 1191 de loco Tarvalo; a. 1240 in curte Taivali... ab ecclesia de Taivallo; a. 1300 ...ecclesie sanctorum Senixii et Theopuntii de Thoyvallo ecc. Nel complesso — a parte alcuni errori dei notai — il vecchio etnico si è cristallizzato nelle forme documentarie secondo una fonetica regolare con -f- reso per lo più con -v- ecc. Pare comunque che abbiano avuto il nome dell’etnico germanico due località, come si intuisce dai documenti. Di recente hanno parlato del nostro nome locale tanto F. Violi, quanto il suo allievo M. Calzolarit6.
Mi sono soffermato a lungo sul nostro toponimo che si rifà ad un etnico germanico poco noto poiché si tratta di esempio veramente paradigmatico in cui i dati storici, sia pure sporadici, sono pienamente confermati dall’indagine toponimica e da ciò risulta che abbiamo a che fare con tipici nomi che denunciano insediamento stabile e forse, continuazione anche di lingua e nazionalità in zone estranee, per lo meno per qualche tempo che non possiamo precisare. Come abbiamo già detto, nel caso degli indizi toponomastici che si riferiscono agli Ungari la situazione è assai diversa anche se dai toponimi possiamo ricavare indizi utilissimi per una conferma dei rapidi passaggi delle antiche popolazioni magiare. In molti casi la tratta di una illustrazione di nomi locali emiliani (specie dell’area attorno è che ho scritto in collaborazione con Marinella Zanarini (ricercatrice bologneèCento) se) e che uscirà a Ferrara (in corso di stampa). 16 V. Franco Violi, Saggio di un dizionario toponomastico della pianura modenese, Modena 1946, pp. 46-47 nota e Mauro Calzolari, La pianura modenese nell’età romana. Ricerche di topografia e toponomastica, Modena 1981, pp. 131-32. 15
A. Vincent, Toponymie de la France, Bruxelles 1937. 13 A. Dauzat et Ch. Rostaing, Dictionnaire étymologique des noms de lieux en France, Paris (Larousse) 1963, alle singole voci. 14 D. Olivieri, Di alcuni nomi locali dell’Emilia e delle provincie limitrofe, «Studi romanzi» XV (1920) pp. 115-136. 12
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Si
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spiegazione e il perché di determinati nomi derivati da etnici antichi, specie medievali, risulta indubbiamente assai complessa e non ci sovvengono indicazioni più concrete. 5. Non mancano trattazioni specifiche, anche se spesso antiquate e qua e là incerte, sul nostro argomento. Ne dette un primo saggio Tito Zanardelli, I] nomi etnici nella toponomastica, Roma 1902! e contemporaneamente, ma con restrizione alla regione veneta, D. Olivieri, Nomi di popoli e di santi nella toponomastica veneta del 1901!8, Buoni appunti si trovano ora in trattazioni più ampie, ed un breve quadro del problema è inserito da Mario Doria nel suo lavoro Toponomastica fra tardo antico e alto Medioevo, ove si passano in
rassegna i principali popoli stranieri che offrono tracce sicure tra i nomi locali italiani. Per quella francese si può vedere ad es. il capitolo di A. Vincent 1937 «Noms de peuples barbares» (alle pp. 129-132, $$ 301-311). Per la Francia il V. osserva che i toponimi da etnici barbarici sono soprattutto di due tipi formali; a) quelli in cui il popolo è fissato nella forma locale senza alcun suffisso e a volte nella forma fossilizzata di genitivo pl. in -6rum, b) quelli derivati per mezzo del suffisso atono -ia o -ica (ad es. Burgundia > Bourgogne o Alamannica > Allemanche). La tipologia dei nostri toponimi è in realtà assai più varia, specie in Italia, ma nel complesso si notano spesso nella Romània e pure in Italia varie finali di genitivi plurali. Ad es. tra i derivati di Goto, anche in Francia e Spagna si ha sovente Gotorum (Gamillscheg RG I, 301-302 e 359-360), ad es. Monigueux (Aube), Villegoudou, Morgoudou (Tarn), Goudou (Nuaille, Dordogne), Godorvilla (ant., Charente) ecc. In Spagna Villatoro (Burgos, ant. Villa Otoro), a. 1220 in villa in Campos Gotorum. Anche in Italia proprio in alcuni etnici e forme equivalenti non mancano esempi del genere, quali Galloro (cioè Forum Gallorum nella 17 Si tratta di un estratto degli «Atti della società romana di antropologia», vol. VIII, fasc. II, 1902, di pp. 16. 18 In «Ateneo Veneto» XXIV, Venezia 1901, pp. 21-35. 9 In «Archivio per l’Alto Adige. Rivista di studi alpini» LXXIV (1980), pp.
159-220.
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:
Gallia Cisalpina), Paganoro (Pieri, TVA 96) in Toscana, Romanoro in Emilia (e Frassinoro, Modena), Lombardore (Torino) in Piemonte (a. 1019 castrum Longobardorum), a. 1207 Lombardor (Olivieri, DTP 00), Refrancore (Asti) < rivus Francorum (Olivieri, DTP 87). Inoltre in Lombardia: Lombardone (Cernusco-, Como) = sec. XIV Lombardore da Lombardorum (Olivieri, DTL 307), Lonvadore (Sospiro, Cremona) dialett. Longadér a. 1155 de Longovardore a. 970 castrum Longobardorum (Olivieri, DTL 308), Romanore frz. di Borgoforte, Mantova = a. 1014 selva de Arimanni, a. 1090 de {rmanore che proviene pertanto non da un nucleo di Romani, mentre accenna ad uno stanziamento di long. Arimanni, (v. Serra, Vie 15,25) e Bognetti, RIL 1938/39, Olivieri, 1939, 222-6; Saviore (Val - e Ponte Saviore) nella Valcamonica, Brescia, sec. XII Seviore, forse da uno Schwa- cioè da Suaviorum «degli Svevi», come Soave-Suavis da Schwaben, lat. Suavi?, Olivieri, DTL 490-1. Rientra in questa categoria anche Moròlo a Sud di Roma (Rignano Flaminio) all’a. 996 Mauroro (RJ, 1, 135). E soprattutto il Serra, Cont. 1931, 244-258 che ha riunito spesso dalle carte medievali, ma anche dalla toponomastica moderna, un lungo elenco di etnici e antroponimi nella forma di gen. pl. e da tale elenco estraiamo pochi, ma significativi esempi, quali, per il Piemonte: Sarmatorum da Sarmatae a. 901 Sarmadorium, oggi Salmour (Cuneo); in Lombardia Arimannorum (da arimannus «exercitalis» qui sequitur scutum regis, in loco Armannore (sec. XI) presso Cremona. In Romagna: Brittonorum (da Brittones etn., 0 Brittò cogn.), Bertinoro (Forlì), in Toscana Barbarorum (da barbari ), Pago Barbaroro a. 991 presso Firence
ze.
Ma le formazioni negli etnici divenuti toponimi nel caso di gen. pl. sono del tutto eccezionali e generalmente antiche, mentre anche nel caso dei «Goti» le forme pietrificate risalgono più spesso in Francia a Gotos (Gueux, Marne), Gotones (Goudon, Tabes, Hautes-Pyrénées), Gotiscus, Gotisca (Le Goudeix, Aubuson, 6.
20
Ben noto è
il
passo dantesco del Parad. III
119 vento
di Soave.
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Greuse, Sylve-Godersque, Nîmes, Gard)) Gotoniscum -a (Goudouneix, Aubusson, Creuse)), Gotia (Goize, Maine et-Loire), Gotanica (Goudargues, Uzes, Le Card), Gutina (La Gutine più volte nel Dép. Aude). Anche in Spagna prevalgono Gotos, Gotones e Gutina. In Italia è pure frequente Go-thicum -a (Gòdego, Treviso, Gòdega, Treviso, Gòdeghe Vicenza) e soprattutto il nom. Gothi (Gudi, Guit cioè Goito), raro è Gotos e Godaria (ant. in Romagna). Non manca poi del tutto il gen. pl. dato che Monghidoro nella montagna del Bolognese è di certo monte Gothoru m, come confermano le forme d’archivio”. E qui potremmo aggiungere una ampia serie di casi in cui l’etnico s’è fatto toponimo anche in casi in cui tale nome viene ad integrare le nostre conoscenze sulla storia degli insediamenti medievali. Non mancano pertanto interessanti reliquie della presenza di Marcomanni, di Sarmati, di Gepidi, di Alani, di Baiuvari (in zone lontane dall’Alto Adige), di Svevi, di Sassoni, di Burgundi e soprattutto degli Slavi e dei Bulgari (spesso associati ai Longobardi nelle loro migrazioni in Italia).
-
Anche nella disamina più precisa dei continuatori di Ung rus, argomento centrale della nostra relazione, bisogna tenere in considerazione alcune formazioni suffissali che ci sembra debbano essere privilegiate, come dico qui sotto. Nella ricerca degli antichi etnici che dovrebbero denunciare la presenza di antichi stanziamenti di popoli venuti di fuori o di loro particole anche minime, se non di singoli individui, il toponomasta dovrà sempre vagliare con grande attenzione i casi di non infrequenti omonimie o di varie interferenze provocate sovente da comuni appellativi geografici o da altre formazioni antroponimiche che possono facilmente trarre in inganno. È ovvio che le attestazioni antiche qui verranno incontro sovente per evitare allo studioso eventuali equivoci; ma ciò non sempre accade ed il linguistica dovrà 7.
’ Vv. | F. Violi, 1 nomi locali dell’Emilia-Romagna, in Cultura popolare nell Emilia-Romagna. Le origini e i linguaggi, Milano, 1982, p. 266 la forma dialettale è mongoddòr e all’a. 1223 Monte Gotorum. 78
operare a volte su materiali recenti e malfidi dai quali non è consipliabile trarre conclusioni di ordine storico e antropogeografico. Nel
caso ad es. dell’individuazione delle arimannie e degli arimanni disturba in parecchi casi la quasi congruenza con Romanus alcuni esempi sono illustrati dal Bognetti e da D. Olivieri”? — oppure con Alemanni. Per quanto concerne l’etnico Ungarus e derivati, dato che l’agglutinazione di articolo è fenomeno comune, essa viene ad oscurare la limpidità delle spiegazioni e soprattutto con l’appellativo longaria o longòria che in generale significano «una fetta di terreno in forma allungata», assai comune nella toponomastica italiana, ed anche in quella urbana. Ma sussistono sempre varie incertezze poiché ùngaro, come tanti altri etnici — di cui ci ha dato ad es. un bel saggio A. Prati” — può assumere significati particolari e poteva esser impiegato di frequente come nomignolo, generalmente con sfumature negative nel medioevo. Ad es. il DEI (V, 3952) riporta un unghero del sec. XV col significato di «schiavo» o di «lavoratore» e ancor più il Settia* sottolinea la presenza di un Ungarus nelle carte medievali ancor prima che il popolo delle steppe si affacciasse alla ribalta della storia occidentale”, ciò che mi riesce per il momento difficile a spiegare. Il Prati testé citato non accenna ad ùngaro, ma riporta invece unnico (poetico) cioè degli «Unni» nel significato di «barbarico» ed analogamente ràndalo «barbaro», vandàlico, d’uso quasi quotidiano in italiano anche odierno e ritengo europeo. Fra i significati particolari assunti dal nostro nome di popolo che precede magiaro rinvio ai significati riuniti dal Frau
22 V. G.P. Bognetti, «Arimannia» e « Faramannia» nella toponomastica lombarda e veneta in RIL vol. LXXII (1938-39) e la recensione (che a volte corregge le interpretazioni etimologiche del B.) in «L’Italia dialettale» XV (1939), pp. 222226. 23 A. Prati, Nomi e soprannomi di genti indicanti qualità e mestieri, «Archivum Romanicum» XX (1936), pp. 201-256. 24 V. A.A. Settia, L’espansione normanna, le incursioni saracene e ungare, in La Storia dell’UTET vol. II, Torino 1985, pp. 263-306, in partic. p. 302. 25 Va peraltro ricordato che in Fòrstemann, Altdeutsches Namenbuch. I. Personennamen Bonn 1900 col. 933 è attestato il ted. Hungar nel sec. IX (820 e 821).
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1981”, ove si registra ad es. il feltr. rust. ùngari, term. scherz. per indicare i «pidocchi» (secondo Migliorini-Pellegrini 117); ma si possono immaginare altri sensi, tra il quale pare evidente quello di «feroce, barbaro» e che sta probabilmente alla base di soprannomi e nomi alto-medievali dovuti alla nomea ben conosciuta dei cavalieri delle steppe che si erano creata in Europa. Già negli Annali di Nonantola si parla delle orde degli invasori e della battaglia presso il Brenta avvenuta nell’899, ed un codice del secolo XI della cattedrale di Modena contiene una invocazione, spesso citata, in cui si chiede
protezione contro i Magiari: «Nunc te rogamus, licet servi pessimi, / Ab Ungarorum nos defende jaculis...?7, 8. Degli Unni nella toponomastica italiana pare che non siano state reperite tracce precise, mentre è ben noto quali proliferazioni di forme, che si riferiscono a città travisate dagli storpiamenti, abbiano determinato le leggendarie imprese di Attila. Si può avere una ricca messe di notizie e di attestazioni tra l’altro dal contributo di G. Serra, Da Altino alle Antille. Appunti sulla fortuna e sul mito del
nome «Altilia», «Attilia», «Antilia»°8, Ne è persino coinvolta Aquileia che, secondo una leggenda raccolta dal D’Ancona, avrebbe avuto il nome di Attileja, corruzione di Aquileia. Il vescovo Cartuicio nella sua «Cronaca Hungarorum», scritta fra il 1095 e il 1114 per re Coloman, racconta che il «rex... civitatem novam aedificavit, eamque ad honorem nomini sui et ad memoriam posterorum Aquilejam nominavit unde ab Aquila (cioè Attila) rege Hungarorum nomen sumpsit». Ed è ben noto che Attila è spesso qualificato re degli Ungari: «Ab Attila Ungarorum rege Aquilegia, civitas nostra funditus destructa est»”?.
il
26 V. G. Frau, «Hungarus» nel dominio linguistico italiano, in «Annales Univ. Scient. Budapestiensis...». Sectio linguistica, T. X (1979), pp. 65-78. 27 Mi basti rinviare a €. Tagliavini, In Ungheria, Società Dante Alighieri, 1940 p. 24 e soprattutto alle numerose citazioni analoghe del discorso introduttivo a questo Congresso di Gina Fasoli. 28 Tale importante contributo è stato poi ripubblicato in Lineamenti di una storia linguistica dell’Italia medioevale I., Napoli (Liguori) 1954, pp. 1-66. 2 V. G. Serra, op. cit. p. 11; si veda Chron. Venetum del Diacono Giovanni.
80
Quanto alle tracce degli Avari nella nomenclatura toponimica, il pare che esse siano ben poche ed incerte in Italia ed anche Doria che formulata 1981, p. 166 esclude a questo proposito ogni ipotesi già egli definisce «poco persuasiva», ed io aggiungo più spesso errata. Così Cassacco in Friuli non può venire — come pare sostenere il Kranzmayer®, dal turco-tataro hasak «cosacco» dato che il toponimo allinea perfettamente con i paralleli e numerosi nomi prediali in -acco e sarà forse un Cassia(c)cu da Cassius? Pure assai incerto è anche Varengo (in Piemonte), v. Olivieri, DTP 359 ed il lomb. Avero (Mastrelli 1978 Longob. e Lomb. 36) direi di escludere, senza pentimenti, anche Varena (ant. Avarena) presso Cavalese in Val di Fiemme, per il quale qualche studioso locale ha proposto la connessione con gli Avari, associati nelle migrazioni ai longobardi3. Più sicure sono invece le orme toponomastiche degli Avari nella Penisola balcanica ed in particolare in Jugoslavia, ove troviamo con una certa frequenza Obre, Obrijeé, Obrov (Ilirska Bistrica e Bijelo Polje), Obrovac (Baéka Palanka, Banja Luka, Novigrad) e Obrovac Sinjski, toponimi che risalgono indubbiamente alle forme slavizzate degli “ABapeis, "ABagoi e degli Avares, Avari e cioè ad es. russo obri(n), pl. obre (slov. ober «gigante») v. Vasmer, REW II (1955) 2443.
si
*
e
Passiamo dunque ad esaminare invece i numerosi continuatori di Ungarus e derivati per i quali non manca per l’Italia una bibliografia abbastanza ricca e abbastanza sicura che si è ulteriormente 9.
E. Kranzmayer, Ortsnamenbuch von Kirnten, 1 (1956), p. 62. V. ad es. G.B. Pellegrini, Osservazioni sulla toponomastica prediale friulana, «Studi goriziani» XXIII (1958), p. 106 e G. Frau, Dizionario topon. del Friuli Venezia giulia, Udine 1978, p. 41. | 32 C.A. Mastrelli, La toponomastica lombarda di origine longobarda, in 1 Longobardi e la Lombardia. Saggi. Milano 1978, pp. 35-46, V. p. 36. | 33 V. le mie ipotesi su Varena in I nomi locali del Trentino orientale, Firenze 1955, 3%
3ì
P
“72. 34
buona
V, Doria art. cit. p. 166; gli altri toponimi sono stati da me ricavati da una geografica della Iugoslavia, ma essi mancano, per le mie conoscenze, di
carta
attestazioni antiche e pertanto sono incerti.
81
accresciuta proprio negli ultimi anni’. Rimane per me ancora fondamentale il noto volume di Gina Fasoli%%, al quale si debbono aggiungere varie note sulla toponomastica piemontese, lombarda, emiliana e soprattutto su vari toponimi dell’Italia nord-orientale, ove prevalgono tracce toponimiche importanti specialmente in Friuli, già illustrate da C.C. Desinan e da G. Frau?’. La Fasoli 1944, 74 osservava giustamente che «l’impressisone che essi (gli Ungari) facevano nelle popolazioni locali era del resto tale che ai luoghi dove avevano sostato, ai guadi che avevano attraversato, rimase per generazioni il loro nome: Guado Ungaresco, cioè Vadus Hungarorum «guado forse presso Nove e Castigliano sul Brenta», Guado dei Pagani, Porto Ungaresco, Campo d’Ungheria, Campi Ungareschi, Lòngara, Langaresca, Costa Ongaresca anche presso Rosà di Bassano del Grappa che conosceva a lungo il nome di Ungaresca, Casa Pagana ecc.; sono nomi che si trovano un po’ dappertutto e che attestano il loro passaggio anche nei luoghi dove le fonti narrative non li ricordano». Ed in effetti i tipi toponimici più validi per indiziarci i percorsi dei terribili cavalieri sono proprio questi, esemplificati dalla Fasoli. 10. Dalla bibliografia degli illustri studiosi ungheresi, specie del nostro periodo, non possiamo attenderci tante precisazioni locali sui percorsi seguiti dai loro progenitori (che pare fossero mescolati ad altri elementi etnici) nella kalandozdas prima e dopo l’insediamento definitivo nella haza; in particolare non possiamo pretendere da loro discussioni sulla localizzazione di nomi locali citati dalle fonti latine. Codeste ricerche spettano invece agli storici, archivisti e toponomasti delle singole regioni ove hanno avuto luogo le tremende scorribande.
35 Ricordo soprattutto i due studi di C.C. Desinan, Gli Ungari nella toponomastica friulana, nei suoi Problemi di toponomastica friulana. Contributo 1, Udine (S.F.F.), pp. 99-115 e G. Frau, «Hungarus», sopra citato. 3 Gina Fasoli, Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, Firenze (Sansoni) 1945 (nella «Biblioteca storica Sansoni» N.S.); si legga inoltre il discorso introduttivo del convegno dovuto alla medesima studiosa. 37 V. qui la nota 35.
82
Anche nel volume di G. Gyòrffy, Istvan Kiraly és muve del 197735 — o nel breve saggio divulgativo di Gyula Kristé6, A magyar kalandozdàsok?? — la sezione dedicata alle varie incursioni è molto ricca di notizie e offre spunti nuovi ed originali circa una visione generale e le cause delle scorrerie. Esse vanno attribuite non al popolo ungherese, ma da una loro casta di guerrieri, una media borghesia battagliera ed espertissima nel cavalcare e nel predare con destrezza. Veniamo a sapere tanti particolari sulle depredazioni, sugli oggetti particolari che venivano asportati, sulle tasse e sui riscatti imposti alle varie popolazioni che subivano un reale flagello dagli antichi abitatori delle steppe asiatiche. In generale gli argomenti toponomastici nella bibliografia magiara sono molto sfumati o addirittura trascurati. Cercheremo ora di riassumere, di integrare e di commentare gli scavi toponimici nel settore citato che son dovuti ai benemeriti autori menzionati. Non dimenticheremo di sottolineare quali possano essere i nomi locali che hanno tutte le qualità per segnalarci gli insediamenti o meglio quelli che ci indiziano il passaggio dei terribili predoni o altri nomi che invece sono assai dubbi e converrà spesso scartare. Proprio in Friuli potremo indicare, soprattutto mediante le verosimili ipotesi del Desinan, quali sono le vie percorse dalle orde selvaggie e depredatrici degli invasori i quali hanno tenuto in allarme per oltre mezzo secolo buona parte dell’Europa centrale. Di tali vie ci è giunto sovente il ricordo nel nome sino ai nostri giorni per cui qua e là si possono supporre gli itinerari percorsi che non si scostano di molto dalle vie tradizionali che risalgono per lo più all’epoca romana. Ma non dimenticheremo di valorizzare anche alcune osservazioni sulle incursioni ungare dovute ad Aldo Settia inserite in alcuni suoi lavori i quali tendono spesso a sminuire — e forse a ragione — l’estrema ferocia delle incursioni, come ci vengono 11.
di un noto contributo fondamentale per lo studio dell’insediamento nella «patria» e per il periodo iniziale di storia ungherese. degli Ungari 39 Kristé Gyula, A magyar kolondozdsok, in Latéhatàs vàalogatàs a magyar kulturàlis sajtébél 1986, Junius, pp. 127-132. 38
Si
tratta
83
narrate nelle Cronache latine. Pare ovvio che quasi tutti
i popoli barbarici si caratterizzassero anche per le loro crudeli efferatezze che in quell’epoca erano assai comuni. Il Settia sottolinea anche l’errata interpretazione ottocentesca di un diploma imperiale del 10284 nel quale si legge in realtà «via vel strata Ungarorum» e non vastata Ungarorum — un’area collocata di norma nel medio Friuli fra il Tagliamento e il Torre o dall’Isonzo al Livenza di qua e di là della via Postumia —, una espressione più volte ripetuta dagli storici, specie friulani, per designare un’area particolarmente devastata dagli Ungarifl, Anche il Settia è assai prudente nell’attribuire costantemente agli Ungari e alle loro incursioni vari toponimi che possono avere altra origine e significato“2.
12. G. Frau 1981, p. 75, a prescindere dalla Venezia Giulia, Veneto e Friuli, menziona per la Lombardia un prato detto d’Un‘0 V. A.A. Settia, L’espansione normanna e le incursioni saracene e ungare in La Storia UTET, vol. Il, Torino 1985, pp. 299-304; Idem, Gli Ungari in Italia e i mutamenti territoriali fra VIII e X secolo, in Magistra barbaritatis. 1 Barbari in Italia, Milano (L. Scheiwiller) 1984, pp. 185-218 e soprattutto Chiese e fortezze nel popolamento delle diocesi friulane, in «Atti del Convegno Intern. di studio Il Friuli dagli Ottoni agli Hohenstaufen», Udine, 4-8 dic. 1983, pp. 217-244; ivi alle pp. 217-229 il Settia, tra l’altro, annota: secondo storici friulani « Vastata Ungarorum»... essa indicherebbe un’area... (v. sopra il testo), ma che in realtà non è mai esistita. L’espressione deriva infatti dall’errata interpretazione ottocentesca di un diploma imperiale del 1028 nel quale si legge invece correttamente «via vel strata Ungarorum» (V. MGH, Conradi II. diplomata, Berolini 19572, doc. 132, 9 ott. 1028, p. 178), concessione al patriarca di «quandam silvam sitam in pago Foroiulii in comitatu Warienti comitis (via) vel strata Ungarorum usque in illum locum ubi fluentum Flumen nascitur». Fd il Settia ricorda poi come sia stato C.G. Mor (L’ambiente agrario friulano dall’XI alla metà del XIV secolo, in Contributi per la storia del paesaggio rurale nel Friuli-Venezia Giulia, Pordenone 1980 p- 217 nota 4) ad aver corretto forse per primo l’errore nel quale era caduto egli stesso. ‘1 Come osserva il Settia, loc. cit. alla nota precedente: «Non si tratta di un’area geografica, né tantomeno di un’area devastata, bensì della stessa via Postumia, nota con tale nome già dal secolo precedente» (in un diploma di Ottone del 29 aprile 967, MGH, Conradi I. Henrici et Ottonis I. diplomata, Berolini 1956, DOC. 341, p.
gli
466).
‘2
84
I
V.
i
contributi citati alla nota 40, passim.
vheria nel Mantovano «sul quale fu costruita la chiesa di San Pietro d'I Ingheria», inoltre un Ungheria (Varese), ricordato da T. Zanardelli 1901213, Per il Piemonte non dimentica la Costa Ungaresca nella valle del ‘Tànaro (v. qui sotto); per la Liguria già lo Zanardelli 1902, 12, iveva richiamato un Ungarello in provincia di Genova e assai più importante è in Emilia l’antica via Ungaresca o strada Ungarista (a.
presso Forlì che corre da Ovest ad Est parallelamente alla via l'milia. Importante è pure la fossetula de Ungariotum (a. 1155) citata dalla Fasoli p. 180 nella zona di Medicina che pare presentare il suffisso greco -otes‘. Per il Lazio la Fasoli p. 69 riporta l’antico l’ortus Ungariscus la cui localizzazione è incerta, mentre per la Calabria l’attuale colonia albanese (arbéresh) di Lungro in provincia di (osenza, attestata dal 1276, ed anche Ungri (Catanzaro) già dal 1072, altro non rispecchierebbero che l’etnico Ungarus-i. Una contrada di Bologna si chiamava Ungaria, ma non so quale fondamento abbia qui tale nome in rapporto con le incursioni. 1074)
13. Recentemente si è tornato a discutere sulle tracce ungariche nei toponimi della Lombardia e soprattutto del Piemonte. Alessandro Caretta*5 si sofferma a commentare sulla base dei documenti storici le incursioni nel basso contado lodigiano (in particolare nella fascia meridionale all’altezza di Maleo-Codogno-S. Angelo Lodigiano) che puntavano su Pavia provenendo, attraverso la via Postumia, da Aquileia e Verona. Ma non risulta che in quest’area siano Nell’articolo sovra citato I nomi etnici nella toponomastica, specie p. 12 i estratto). | 44 Ne tratto anche nel mio contributo toponomastico emiliano qui citatodialla nota «luogo 15, unitamente a Medicina (che proviene dal lat. medicîna nel senso di cura»). | | 45 V. anche Mario Fanti, Le vie di Bologna. Saggio di toponomastica storica, il il Bologna 1974, p. 645 sub via Schiavonìa; secondo Giudicini più antico nome di questa strada sarebbe via d’Ungheria, menzionata all’a. 1294; essa farebbe pensare alla dimora in Bologna di genti provenienti dall’Ungheria, prima, e poi dalla Schiavonia. | | 46 Al. Caretta, Le incursioni ungariche e i castelli Basso Contado Lodigiano, in «Archivio storico lodigiano» S. 22, XXVII (1979), pp. 5-16. 43
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state rilevate impronte toponimiche speciali delle nostre scorribande e dei predoni spesso denominati unicamente Pagani, onde il toponimo Paganoro (riferito spesso anche ai Saraceni). Quanto al Piemonte si hanno studi abbastanza recenti sull’Albese (Cuneo), v. PaneroMoschetti‘7. Delle 14 (o assai di più?) incursioni compiute dagli Ungari in Italia ben otto almeno interessarono anche il Piemonte. E tuttavia importante osservare come spesso le fonti storiche che alludono ai saccheggi dei barbari, in questo periodo (primi del sec. X) possano confondere con facilità e faciloneria gli Ungari con i Saraceni, pure artefici di note invasioni illustrate soprattutto da C. Patrucco, non senza varie esagerazioni*®. Sulla riva destra del Tànaro — come abbiamo accennato — a monte di Alba (a circa 20 km.) pare indiziare una incursione anche il nome tuttora vivo di Costa Ungaresca di fronte a Narzòle che si trova sulla riva sinistra. Tale toponimo compare già nel 1014 in una bolla del Papa Benedetto VIII a favore della abbazia di Breme (Pavia): «per fluvio Tanaro a prato qui dicitur Scrosco usque ubi dicitur Costa Ungaresca...»; il nome della località è più volte ripetuto identico nelle carte successive. La Fasoli p. 196 afferma peraltro che «non possiamo decidere se furono Ungari o Saraceni o Ungari e Saraceni (insieme) i barbari che devastarono la rocca di Alba e impoverirono la chiesa» ecc. La conferma ulteriore che la denominazione non sarebbe casuale pare venire da ritrovamenti archeologici che peraltro debbono sempre essere vagliati dagli specialisti del periodo medievale. Sicuro è comunque il significato del toponimo ed esso starebbe a dimostrare che «un tratto della riva destra del Tànaro (Costa) era abitato più o meno a lungo dagli Ungari». 14. Tale ipotesi, a dir vero, non ci pare interamente convincente e dovrebbe essere suffragata da altri elementi. Gli Ungari nell’899-900 Francesco Panero e Maria Ottavia Panero Moschetti, Alcune notizie sulle incursioni ungare nell’Albese nel X secolo, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo», 68 (1973), pp. 39-44. 48 C. Patrucco, I Saraceni nelle Alpi occidentali e specialmente in Piemonte, in «Bibl. St. Subalpina» XXXII, Torino 1908. 49 V. anche le osservazioni di A.A. Sattia, L’espansione cit. pp. 302-303 e 305-306. 47
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nella primavera successiva si limitarono a devastare la regione delle Langhe e lasciarono il loro nome nel toponimo più volte mentovato. Il medesimo Panero”° si sofferma inoltre a richiamare l’attenzione degli specialisti sul nome Ungarisco che designa una località nei pressi di Viacona d’Acqui (a circa 5 km. a S-O) sul fiume Bormida, attestato da una carta e come annota l’A. «il nome è connesso con la presenza ungara in loco, tuttavia non esistono altri documenti altrettanto chiari al riguardo». Un altro toponimo analogo si trova sulla strada che da Susa porta a Torino nei pressi di Bòrgaro, cioè una Via Engresca, verosimilmente via Ungaresca, oggi via di Pianore, detta anche via Paganorum”!: una strada che nel medioevo collegava l’Italia con la Francia per la quale gli Ungari passavano durante le loro scorrerie. Sempre il Panero ricorda poi dalle carte piemontesi le attestazioni di Ungarus come antroponimo, anche nella forma dubbia Ungar e gli esempi citati sono assai numerosi, ma direi non di certo dimostrativi della autentica presenza di antichi Magiari. Più interessante è invece l’esistenza presso Casale Monferrato, in un documento del 1203, di una via Ungarda (BSSS n. 40, 1907, carta 64) che potrebbe corrispondere al più comune e più sicuro Ungaresca, ma la formazione mi riesce di spiegazione incerta. Mentre i vari Ungari dei documenti (nelle forme Unguer, Ungar, Uncher) — secondo l’A. — ci assicurerebbero che «in parecchi casi gli Ungari fatti prigionieri durante le scorrerie, accolsero successivamente la cultura occidentale e furono educati dai loro padroni secondo la morale cristiana». Ipotesi tutte da verificare che non possono convincere interamente, dato che la singola attestazione del nome non può automaticamente confermare la presenza di qualche stanziamento sia pure isolato. E forse qui l’A., preso dell’entusiasmo di scoprire qualcosa di nuovo è stato trasportato a formulare ipotesi che possono rivelarsi inconsistenti, come avverte molto prudentemente ancora Aldo Settia”?, e
50 V. Fr. Panero, Gli Ungari nei diplomi dei re d’Italia (sec. X), in «Bollettino... Cuneo» sovra citato 69 (1973), pp. 55-59. si V. Fr. Panero, Toponimi ed antroponimi nel Piemonte medievale, «Bollettino... Cuneo» cit. 70 (1974), pp. 103-105. 52 V. A.A. Settia, «Pagana» , « Ungaresca» , « Pelosa» : Strade medievali nell’Italia del Nord, in «Studi storici», Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci 3 (1986) anno 27, luglio-settembre, pp. 649-666 in particolare pp. 655-659.
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Ma le spie più consistenti, e direi in buona parte bene accertate salvo eccezioni delle quali dico più sotto — per quanto concerne le tracce delle orde ungariche o qualche stanziamento dubbio in loco ci vengono dalla toponomastica dell’Italia Nord-orientale. A dir vero bisognerebbe premettere che la regione friulana e quella veneta sono state forse più intensamente esplorate (ed in particolare negli ultimi anni) e ben due contributi validi sono stati dedicati espressamente ai nostri problemi, come abbiamo già detto, da parte di Giovanni Frau e di C.C. Desinan®ì. Mi avvalgo, infatti, nell’elenco commentato che faccio qui seguire, soprattutto dei reperimenti e delle corrette analisi ed osservazioni dei due studiosi friulani. Mi pare utile, innanzi tutto, graduare i nomi locali che attestano o paiono documentare la presenza ed il passaggio di genti ungare nelle sunnominate regioni, secondo alcune categorie. In testa ritengo corretto di porre i nomi delle strade che alludono al nostro etnico, tanto nelle carte latine, quanto in quelle romanze e nelle sopravvivenze di toponimi attuali. E risaputo che il percorso dei Barbari nelle loro scorribande seguiva di norma itinerari delle strade romane che ancora nel medioevo, se pure mal ridotte, erano regolarmente percorse. Lo annota anche Dante Olivieri in un suo importante saggio del 1934 Di alcune tracce di vie romane nella toponomastica italiana®‘, 192-93, ove egli affianca, per stabilire la diffusione medievale delle vie antiche, al tipo via regia, via francigena (o francexia), via romea, anche via ungaresca. Egli dunque ribadisce che «gli Ungari nelle loro terribili incursioni alla fine del secolo IX, seguirono le vie romane (e non soltanto in Italia) che talora, dopo le loro gesta, venivano ribattezzate come viae Ungarorum». Egli ricorda subito quella fra il Tagliamento e Livenza e di cui è menzione già in un diploma di Berengario (a. 888?) ed in uno di Ottone I (a. 967) — ricordato dal Filiasi*5. Per quanto riguarda il 15.
—
gli
v. qui le note 26 e 35. 54 In AGI XXVI (1934), pp. 185-208. 55 V. D. Olivieri, art. cit. p. 193, ove lA. rinvia a G. Filiasi, Memorie storiche dei Veneti primi... II, 162. 53
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Veneto si cita spesso la strada Ongaresca in quel di Piove di Sacco a Sud di Padova, nominata anche nel Cod. dipl. padov. di A. Gloria all’a. 883 (2) e fu detta Ongaresca anche la via che oggi è più lrequentemente detta la Stradalta, corrispondente ad un lungo tratto della antica via Postumia nel territorio di Oderzo (Opitergium), come indica con precisione Adolfo Vital 1911 (Di un’Ongaresca nel distretto di Conegliano). Secondo codesto studioso in altro lavoro del 19317 una via medievale partiva da Treviso dalla frz. Carità a Lovadina (Spresiano) e prendeva il nome di Cal Ongaresca; più avanti si incontrerebbe il ponte dell’Ongaresca sulla strada ConeglianoCodogné (ove sarebbe pure nota una Spinada Ongaresca). Un frammento di tale strada di un km. e mezzo si chiamerebbe al pari Ongaresca nella frazione di Santa Fior di sotto, segmento che giunge a toccare la ferrovia presso Pianzano (Godega di Sant’Urbano, Treviso). Ed ancora una Ongaresca è attestata a Caneva di Sacile, a S. Lucia di Piave-San Vendemmiano. Naturalmente è da notare che nei documenti medievali tale Ongaresca è detta regolarmente anche Postumia. Nel Friuli — come ribadisce il Desinan p. 106 — la citata Stradalta o Napoleonica corrispondente all’antica Postumia, come è noto, da Aquileia portava al Quadruvium, divenuto Codròipo e proseguiva per Opitergium-Oderzo. Di tale importante arteria stradale romana il tratto più importante è indicato come via Ungarorum o Ungaresca, mentre, come abbiamo già veduto qui sopra, cade e deve essere dimenticata la dizione Vastata Hungarorum. Essa corrisponde al segmento tra Codroipo da un lato e Palmanova-Strassoldo dall’altro per continuare verso oriente donde penetrarono gli invasori per razziare in Occidente. Come precisa il Desinan, la via Hungarorum è attestata anche a Lucinicco presso Gorizia, a Mossa, San Lorenzo, 16.
A. Vitali, Di un’Ongaresca nel distretto di Conegliano, in «Nuovo Archivio Veneto» XXI P. II (1911), pp. 496 e sgg. 57 A. Vital, Tracce di romanità nel territorio di Conegliano. Contributo allo studio topografico dell’agro opitergino, in «Archivio veneto» IX (1931), pp. 1-58 (con carte allegate). 56
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Farra d’Isonzo, v. Di Prampero58 79-80. Dal Prontuario del Di Pram-
pero cito le seguenti attestazioni: a. 888 sicut via Hungarorum cernitur (Joppi), a. 960 sicut via Hungarorum, 963-67 inter flumen Liquentiam usque ad duas Sorores et viam publicam quam stratam Hungarorum; a. 1286 de facto aptationis stratarum Theutonicorum et Hungarorum... E qui si citano anche alcune osservazioni di A. Prati 1936, p. 125, nr. 3195. Altro tratto dell’Ungaresca si individua tra il Ponte della Delizia e Sacile con direzione Sud-Nord ed altro ancora da Brugnera a Sud di Sacile per Palse in direzione di Roveredo in Piano e San Quirino nel Friuli occidentale.
la
Bisogna qui ricordare che secondo tradizione storiografica peraltro sorretta da precise indicazioni toponimiche — proprio lungo le vie ongaresche si determinarono, dopo i probabili massacri di popolazione e abbandono dei luoghi per il terrore della kalandozdàs, gli spopolamenti che provocarono subito dopo l’immissione di contadini slavi (o Slavi alpini, cioè Sloveni) richiamati dai Patriarchi a riavvivare l’agricoltura e a ripopolare le cosiddette pustote o poderi abbandonati. In seguito a tali massicce immissioni con insediamenti stabili si formò in quelle zone un cospicuo numero di toponimi slavi che caratterizzano varie aree della campagna friulana. Su codesto filone di nomi locali ho discorso anchio in più occasioni e ancor meglio il Desinan®°. Secondo quest’ultimo (p. 198) si potrebbe individuare anche una terza via di penetrazione ungara anche se essa risulta meno precisa e meno attestata. Sarebbe la via alla quale accennava anche il Vital cit. e cioè il tratto da Caneva a Valleghèr, 17.
—
A. Di Prampero, Saggio di un glossario geografico friulano dal VI al XIII secolo, Venezia 1882. ° A. Prati, Spiegazioni di nomi di luoghi del Friuli, RLiR XII (1936), pp. 44-143. °8
0 V. ad es. il mio articolo Noterelle linguistiche slavo-friulane, «Annali dell’Istituto Universitario Orientale» (Napoli) XVIII (1975), pp. 129-154. Ma soprattutto si veda C.C. Desinan, Problemi di toponomastica friulana, Contributo Il, Udine (S.F.F.) 1977. 90
Apa
il
figura una Ongaresca e a Nord di Budoia ove compare ino Longiarezza, purtroppo di assai dubbia interpretazione. I ian avanza l’ipotesi che il nome potesse in origine rappresenti Dese derivato di Ungarus col suffisso -icea © -itia poi venta m attratto dal comune longaria, ma qui siamo soltanto Do campo° delle ipotesi non controllate. In area slava (v. anche Fasoli )ad te di Gorizia incontriamo Vogrsko (sloveno) cui corrisponde in esco un Ungrispach e la corrispondenza italiana è Vogheresa o Wi de valle nella di tratta di un corso d’acqua o di un villaggio | che alluda realmente agli presso Gorizia. Non si può escludere Cesta «via la casuale sarà ungara» ra Ogrska ri. In area slovena non la Krka e Ribnica attestata dagli Itinerari, e va pure menzionata battaglia degli Ungari, nota alle Cronache, avvenuta presso il vadus ana (v. Fasoli...). Qui non andrà sottaciuto pres Hungarorm ’ del sul celebre battaglia la Bassano (noto per BrentNon si lngareschi presso Campalto- Tessera (Mestre)‘!. ment her inoltre che proprio ad Udine esiste la contrada Ongaresca he detta Deciani, Tiberio via popolarmente ora isponde alla o de vile ongiaresc’e che il Della Porta, Topon. storica ritiene forse a torto proveniente da una famiglia Ongaro. a una borgata al di fuori della cinta muraria della città. 12 le forme antiche dal Di Prampero 123-24 e cioè a. 1292 in tavella Ongaresca, 1291 in villa Ongaresca de Utino, a. Utino de ecc. villa Ongaresca sca de Utino... de
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— Accanto alle formazioni in -iscus, non manca anche ji molto più rade — quelle in -iss(u); ad es. Ongiaresse, Li Ongiarà (Desinan 106) simile a (L)ongeriaco (forse le numerose forme compos posto in particolare risalto suffisso -iscus poiché questo è assai indicativo e mi fon SL indicazioni del Rohlfs, Gramm. st. III, $ 1121: -esco -isco, OVE sulle
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al XII Lanfranchi e G.G. Zille, Il territorio del ducato veneziano dall i in 1-65 p. particolare Storia di Venezia, Il, Venezia 1958, pp . | di Udine, in Della Porta, Toponomastica storica della città e del comune Udine (S.F.F.) 1928. 61
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91
come esso sia frequentemente usato nella formazione di etnici l’origine è assai discussa e nel complesso oscura —, si noti in latino Syriscus «Siro», Threciscus «Tracio» ed il suffisso è pure impiegato nei cognomi ad es. L. Asinius Hermaniscus (CIL VI, 12, 529) da Hermes (qui pare col valore di diminutivo). Ma si tengano presenti soprattutto gli aggettivi etnici quali arabesco, barbaresco, moresco, turchesco e pure romanesco, pantesco (di Pantelleria), persesco (in Boccaccio), francesco «francese» e Via Francesca che dalla Francia, attraversando le Alpi, portava a Roma. Ci sembra pertanto che le formazioni toponimiche citate, quasi sempre riferite ad antiche strade, siano tra le più sicure spie del passaggio di orde ungare. Il Desinan ha rappresentato in alcune cartine (101 carta 13, 107 carta 15 e 110 carta 16) una ricostruzione delle testimonianze toponimiche graduandone il valore documentario e tentando di tracciare gli itinerari friulani seguiti dai terribili predoni magiari (anche noi, fondandoci sugli schizzi del Desinan opportunamente integrati, riproduciamo un paio di cartine più leggibili) [v. qui fig. 1 e 2]
-—
Fig. 2 -
Principali toponimi isolati del tipo ungaro. nomi dello stesso tipo. toponimiche relative al passaggio degli ungari (secondo C.C. Desinan).
O
Principali gruppi di è* Testimonianze non
-
’
.
Torniamo ora a riesaminare altri tipi toponimici che hanno ancora un qualche valore dimostrativo per le nostre identificazioni, Tra questi vanno. poste in luce le formazioni in -icus di appartenenza, quali ad es. un Pons Ungaricus all’ a. 1252 al quale accenna il Frau 1962, p. 223 in area aquileiese, ma di localizzazione incerta; v. Di Prampero 208 a. 1200-1300 «de locatione facta Comitati Aquilegie de porta trium molendinorum apud Pontem Ungaricum extra Aquilegiam» (e v. Prati 1936, 125). Meglio individuabile sul terreno è invece il mons Hungaricus, v. Di Prampero 79 a. 1209 ad montem Hungaricum et usque ad villam qui dicitur Hago...». Pare di poter identificare qui Hago/Hage, secondo lo Zahn, con Ober-Hag presso Arnfels in Stiria ai confini con la Iugoslavia (Maribor). Ma il Desinan 103 19.
VENEZIA
1 - Via seguita dagli Ungari: proposta di ricostruzione in base alle testimonianze di ordine toponimico (secondo C.C. Desinan).
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G. Frau, La toponomastica del comune di Aquileia, Udine (S.F.F.) 1968, p. 26: Ungaricus (Pons), «di difficile ubicazione» e v. «Aquileia nostra» II (1931) pp. 26. 63
Fig.
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richiama anche all’a. 1209 la Curia de Hag che sorgeva accanto a Nimis e che si equivale forse a la Centa (v. SLF I, 1969, 264-65)64 L’indicazione è simile a: a. 1176/1177 «a monte qui dicitur Garst GI Carso) usque ad stratam Ungarie... oppure ad stratam Ungarorum et usque ad villam que dicitur Hago...». Un Mons Hungaricus è attestato nella Valle del Brenta secondo la Fasoli 200, forse da identificare con Monte Ongar-Longar tra Gallio ed Enego (?). Altro suffisso è -ina presente ad es. in Jof di Ongjarina e Casere Ongiarine nell’alto Venzonese = Ungarina ed in sloveno Vogrsiéek ed ancora presso Zuglio (Julium Carnicum) esiste una Ungarina e non lontano da Arta pure un Ongiarine. Sono toponimi per me assai incerti ai nostri fini, al pari di Ongiarina, con variante Ongiarà e Ongiaresse di Tricesimo che possono alludere a formazioni prediali. Il Desinan 105 è propenso ad attribuire a tali toponimi il siprificato anche di «strada degli Ungari» poiché tali nomi si trovano proprio sulla strata Hungarorum che staccandosi dall’itinerario principale volgeva verso le Prealpi carniche. Longeriaco (ant.) è formalmente un prediale in -acum ed il Prati 1936, p. 85, nr. 150, pensa in effetti ad un gent. Long er ius (cfr. Longeius, Longenius in Perin, Onom. ). Le forme d’archivio sono: a. 1291 Ecclesia S. Danielis de Longeriaco, a 1300 (ca.) in Longeriaco in palude et laco circa ipsam silva de Longeriacho, Di Prampero 93-94. Ma il Desinan 105 propende pure per «ungaro» anche dietro la spia, per me assai tenue, della presenza presso il paese di un doc. del 1409 ove si cita un Demitrius de Ungaria; ma tutto ciò ritengo abbia poco a veder con le incursioni di cui di occupiamo. La Fasoli accenna ad una razzia nel Vicentino che potrebbe stare in rapporto con Lòngara una frazione di Vicenza, da confrontare con Ongarina nelle immediate vicinanze di Verona.
64 Si tratta di una mia nota introduttiva all’articolo di G. Frau, I nomi dei castelli friulani, in «Studi linguistici friulani» da me diretti I (1969), pp. 257-315 in pacticolare v. p. 26, ove propongo di spiegare il toponimo Nimis da un gallico N eme(to) equivalente della denominazione tedesca Hag «siepe, | recinto» e del «bosco sacro», rl. Centa.
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A questo punto sarebbe d’obbligo passare in rassegna anche i che è pure ilo ponimi che procedono dall’etnico Ungarus/Ongro Anche qui valgono le presente nel comune cognome Dall’Ongaro. osservazioni e le riserve presentate più sopra. Codesta serie di nomi risulta piuttosto incerta se vogliamo attribuir loro qualche validità per dimostrare la presenza di autentici Ungari medievali. Come osserva anche il Desinan 100 «un etnico passa spesso a gentilizio (cognome) e soprannome e viene attribuito a persone di origine disparata. Troviamo in Friuli cognomi Ongaro, Dall’Ongaro che riflettono soprannomi di gente emigrata in Ungheria o (spesso!) dispregiativi: òngiar in certe Il zone, come sclaf, todésc significa «rozzo» «incolto» «maleducato». risulta mi peraltro valore dispregiativo è assai probabile, ma non attestato per Ungarus, secondo le fonti lessicografiche da me consultate. Non manca nemmeno in Friuli Ungheria isolato, ad es. Ongerìe a Pozzalis, Ongara e Ungarìa a San Daniele del Friuli (Frau 74) che sono, secondo noi, assai ambigui nel significato. 20.
Ancora più ingannevoli si configurano i numerosi toponimi che vanno ascritti, con maggiore verosimiglianza all’appellativo ricordato longaria o longoria, anche con la o protonica passata ad a: ad es. Angòris, Langòris, Nangòris (Frau, DTVG 27). Codesti toponimi sono diffusi ovunque e qui mi basti rinviare al breve campionario (come del resto ho già accennato) riunito dal Desinan e dal Frau. Il Desinan, Agric. 198265 102-103, dedica anzi un capitoletto ad Angòria ed osserva che tale è la forma odierna, mentre nei documenti compare più spesso con [- poi deglutinato, ad es. Longor(i)a e Longor(i)e. Da osservare la caratteristica della fonetica friulana — non sufficientemente posta in risalto dai linguisti, tranne il Prati — della conservazione eccezionale del nesso -RJ- nelle forme popolari. Si hanno tante varianti del tipo Lingora, Lingorie, Lungares, Nangorie, Ongaries e con suffisso Angoil rate, Longiarute, Longarate, Longarién e si menziona ivi anche 21.
C.C. Desinan, Agricoltura e vita rurale nella toponomastica del Friuli-Venezia Giulia, Pordenone 1982-83, pp. 102-103. 65
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bellun. Longarone ed il tipo bimorfo che chiarisce ancor meglio il significato, Campo Longo o Longora (dalle schede Corgnali)‘° di Prati 1936, p. 50 nr. 11 Codroipo all’a. 1711. Del resto ne parla anche si fa arando il campo delle che breve altre, s.v. angorie agr. «porca più quando questo va allargandosi alquanto verso una delle estremità. Se sono molte diconsi più genericamente curt, curz» (v. Nuovo Pirona 14). Il tipo Longoria -ora ecc. riappare in Emilia, Toscana e altrove. Il Pieri, TVA 348 per il tipo Longoja ant. a. 936 Longoria) faceva ricorso — non necessario — a longurius «perticone, lunga pertica». Quanto a si è assai via richiamare anche comune) (che può più longaria della Longara a Roma che secondo Rohlfs, Studi e Ric. 1972, p. 1017 sarebbe stata il più lungo dei primi rettifili della città. Cito inoltre le Longàre (Cascina -) frz. di Lurago Erba (Como) con accanto longariola «lingua di terreno lunga e stretta», Olivieri, DTL 308 e non mancano vari derivati nel Veneto, v. Olivieri, TV s.v. longaria (citata anche dal Du Cange) e cioè Longara, -e, -aretta, -arina ecc. Come osserva il Desinan p. 100 la discriminante per attribuire nomi locali simili al citato appellativo oppure all’etnico ungarus è segnata principalmente dall’accento e cioè da òngar- proparossitono che può essere (ma non necessariamente) l’ant. Ungarus o ongàr (parossitono) che sta di certo col derivato di longus, longaria ecc. in molti casi la prospettiva è falsata sia dalla circostanza che solo di pochi nomi è nota l’accentazione (anche delle carte friulane), sia dalla frequente giustapposizione di suffissi col conseguente spostamento dell’accento». Ma non si può negare che il tipo òngar- può essere attratto dal suffisso tanto comune -ariu e -aria favorendo la forma (l)ongàr-/(l)ongar-. Da una pur superficiale lettura del ricco Indice della carta del TCI dovuto a L.V. Bertarelli (del 1916) noto ad es. che possono appartenere a ungarus -a: Lòngara (13 Venezia A 1), Casera Lòngara (6 Belluno E 1) e Monte Lòngara (6 Belluno F i); mentre derivarono sicuramente da longaria: Longara (C.) 27
il
il
Lo schedario toponomastico (inedito), dovuto al bibliotecario Dr. G.B. Corgnali è conservato presso la «Società Filologica Friulana» di Udine. 67 G. Rohlfs, Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia, Firenze 1972, pp. 90-108 : strade in Italia e i loro segreti»). («Nomi
Roma, Longarelle (13 Venezia B 1) e Longarella (Piscina) (34 Frosino-
ne, B 4).
Bisogna tuttavia riconoscere che un buon numero di toponimi in Friuli alludono con certezza o con grande verosimiglianza al passaggio degli Ungari, forse, ma meno probabilmente, a qualche loro stanziamento isolato anche se a questo proposito le informazioni storiche mancano interamente. Esse ci sfuggono spesso, come ribadisce il Desinan 111, anche per gli Slavi per i quali tuttavia conosciamo le istallazioni agricole permanenti assicurateci soprattutto da frequenti nomi locali quasi sempre trasparenti ed anche da qualche chiosa delle carte in cui si accenna alla «sclavica lingua». 22. È inoltre verosimile che proprio in area friulana, una delle più battute dai cavalieri delle steppe anche come porta dell’Italia (come lo fu per i Longobardi), lungo le vie ongaresche siano avvenuti dei contatti con le popolazioni locali, non soltanto lotta, stermini, stragi. Così ad es. alcuni autori ungheresi (e mi riferisco in particolare a M. Unger-O. Szabolos, Magyarorszdag tòrténete, Budapest 19735, 46) a proposito dei tempi della honfoglalàas, cioè della conquista della patria, accennano a scambi commerciali che avvenivano lungo la «strata Hungarorum». Pare che i Magiari acquistassero in Italia settentrionale pietre preziose, spezie, oggetti d’oro, sete, lana, tessuti (ammesso che non venissero invece sempre rapinati?) e di ciò v. anche il cenno in Pellegrini 1978, 308. Forse attraverso codesti rapporti commerciali essi impararono qualche secolo più tardi a conoscere la moneta di origine fiorentina, ma assai diffusa nel Veneto ed in Friuli, e cioè il «fiorino». Ho ritenuto che l’ungh. forint possa essere stato mutuato attraverso la forma friulana, come risulterebbe da un paio di spie fonetiche presenti nella voce ungherese e cioè: la conservazione originaria del nesso fl- iniziale che è presupposta con sicurezza dalla forma magiara mediante la nota riduzione di tale nesso e perdita qui della laterale (cioè fl > f-). Non mi pare necessario ricorrere a forme
66
di
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68 G.B. Pellegrini, Appunti su alcuni italianismi dell’ungherese, in «Giano Pannonio. Annali italo-ungheresi di cultura» 1 (1978), pp. 15-30, in particolare p. 30, nota
38.
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latine, spesso citate nei dizionari etimologici magiari, quali floreni, florini (v. TESz. I, 953 e già prima Barcezi 84), ma basterebbe rifarsi ad un venez. ant. o al frl. florin per spiegare la forma magiara. Come ho poi osservato, l’epitesi di -t dopo -n sembrerebbe confermare una mediazione friulana, dato che il fenomeno è assai difuso e tipico delle parlate citate (ad es. è abbastanza diffuso Udint per Udin(e) terent per teren ecc.). Ma a questo proposito bisogna spiegare altri italianismi quali tulipant, rubint, marcipant per i quali ho pure supposto timidamente un intermediario friulano. Non escludo ovviamente che tale consonante anorganica sia passibile di altre spiegazioni e che gli specialisti ungheresi abbiano già superato con altre ipotesi il problema già da tempo da me prospettato. 23. Ancora una osservazione generale a proposito di influssi avari o ungari nelle parlate dell’Italia nord-orientale. Non mi è mai capitato di imbattermi per il friulano in etimi difficili che facciano ricorso a
codeste lingue antiche. E d’altro canto ben noto che per tanti anni il grande linguista polacco Jan Boudouin de Courtenay ha sostenuto che la curiosa parlata resiana nella Slavia italiana o Slovenska Benedija avrebbe risentito nella sua formazione di una mistione slavo-turanica da attribuire evidentemente agli Avari, secondo i cenni degli storici anche friulani che non erano ignoti al linguista più conosciuto, generalmente, come padre della fonologia (anche se la sua produzione è scientifica importantissima e tocca tanti campi di studio). Tale teoria, data l’autorità di chi l’aveva proposta e sostenuta in varie avuto una certa fortuna ed è passata, come capita, pubblicazioni anche a vari manuali”. In realtà il supposto influsso «turanico» nel
il
ha
È a tutti nota l’attività di J. Baudouin de Courtenay nel settore della linguistica generale, considerato di norma il precursore o iniziatore delle teorie fonologiche (fonematiche), mentre pochi conoscono la sua intensa attività nello studio dei dialetti della Slavia italiana ed in particolare della Resia (Udine). Una bibliografia è pubblicata nei volumi russi Izbrannye trudy po obistemu jazykoznanijo, Tom Il, Moskva 1965, pp. 378-381 e v. anche Vonko A. Bizjak, Benetsko-slovenska in rezijanska bibliografija, nel Trinkov Zbornik, Trieste 1946, pp. 123-133. 70 Dall’insegnamento del B. de C., male interpretato, è rimasto segno anche tra la popolazione locale delle valli resiane le quali, se non ritengono (come capitava) di 69
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resiano per spiegare ad es. una particolare «armonia vocalica» ecc. non stato più riconosciuto negli ultimi anni della sua lunga vita nemmeno dallo studioso che l’aveva proposto e le sue teorie sono state controbattute con successo dallo slavista sloveno Fran Ramov$”. Ora ben pochi linguisti informati si rifanno alla vecchia teoria anche se il resiano ha indubbiamente una posizione particolare in seno ai dialetti sloveni che, come sa, sono assai differenti tra di loro”. Si potrebbe qui aggiungere che tanto gli Avari quanto gli Ungari in Friuli sono soltanto passati e pare in varie incursioni, ma che ben difficilmente hanno dato origine a loro stanziamenti e insediamenti stabili anche molto circoscritti. Non escludo che qualche relitto avaro possa essere realmente individuato anche Italia, ma per il momento non pare che se ne conoscano tranne nel caso di voci «archeologiche», come in altre lingue europee occidentali (diversa è forse la situazione per le lingue slave). è
si
in
24. Volevo infine aggiungere che in questa sede ho dovuto parlare spesso, in continuazione, secondo la tradizione (che del resto non può essere sostanzialmente smentita) di barbari, di predoni, di feroci
saccheggiatori ungari dell’epoca delle kalandozasak. Non ho potuto invece sottolineare i rapporti italo-magiari che si istituiscono quasi subito dopo la conquista o meglio l’occupazione della «patria», oppure della evangelizzazione ad opera del veneziano Gellert (San Gherardo) per cui i primi ospiti in Ungheria sembra siano proprio stati i Veneziani, come pare dimostrare la voce ungherese vendég «ospite» da venedego, cioè «veneziano» (come si diceva allora), secondo la brillante interpretazione del Collega e Amico Janos Balàzs”3. Gli intensi contatti storico-politici tra Italia e Ungheria sono esser russe, tendono a differenziarsi spesso drasticamente dagli Sloveni e anche qui gioca in tale direzione la politica. 7" V. soprattutto F. Ramov, Karakteristika slovenskega naredija v Reziji, nel «Casopis za slov. jezik, knjizevnost in zgodovino» VII (1928), pp. 107-121. 72 Si veda ad es. Fr. Ramovì, Historiéna gramatika slovenskega jezika. VII: Dialekti, v Ljubljani 1935 e del medesimo autore la Dialektolo$ka karta slovenskega
jezika, Ljubljana 1931. 73 Jànos Balézs, Veneti e Veneziani: CXXXVIII (1978/79), pp. 669-677.
i
primi ospiti in Ungheria, «Atti Ist. Veneto»
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del resto ben noti ed è fondamentale il periodo degli Angioini che ottengono la corona di Santo Stefano a partire dal 1308/1310 con Carlo d’Angiò, ed in quel periodo vi fu spesso comunanza di storia e di cultura tra Italia e Ungheria. Bisogna inoltre riconoscere che la fortuna medievale del grande stato di Ungheria, uno dei più potenti in Europa, è stata creata anche da quei cavalieri predoni e feroci delle cronache medievali. Essi hanno lasciato tracce cospicue in Italia, quasi analoghe per quanto attiene ai nomi locali, alle precedenti orme
impresse dalle invasioni germaniche. E proprio il popolo magiaro nei secoli successivi e ancor più moderni, direi anche recenti, ha avuto varie comunanze felici con la nostra nazione, una eccezionale padronanza della nostra lingua e cultura che forse non ha pari in nessuno stato europeo”.
SULL’ELEMENTO LATINO DELL’ALBANESE
È per me un motivo di grande soddisfazione ed un autentico onore poter prendere la parola in questo solenne Congresso internazionale di albanologia in terra schipetara. Debbo solo chiedere venia agli illustri colleghi se discuterò di questioni balcaniche ed albanologiche con una competenza ed informazione assai inferiore, a quella del mio Maestro, Prof. Carlo Tagliavini, il quale era stato invitato più volte da questa Accademia delle Scienze, ed in particolare dal compianto e notissimo scienziato Prof. Eqrem Cabej, che io ebbi il piacere di incontrare più volte durante varie riunioni scientifiche internazionali. 1.
poté aderire ai lusinghieri e ripetuti inviti a di male irreversibile che lo aveva da anni colpito. Da causa un grave 31 maggio 1982) egli ci ha lasciato; mi pare doveroso poco tempo (il di comunicarlo ufficialmente e menzionare in questa sede i suoi principali lavori albanologici; in particolare L’albanese di Dalmazia. Contributo alla conoscenza del dialetto ghego di Borgo Erizzo presso Zara, Firenze 1937, una ampia ricerca ripresa e perfezionata dal Prof. Idriz Ajeti, Istorijski razvitak gegijskog govora Arbanasa kod Zadra (Zhvillini historik té folmes gege tek shqgiptarét e rretheve tè Zares), Sarajevo 1961. Ritengo inoltre di notevole rilevanza scientifica il suo contributo Le parlate albanesi di tipo Ghego orientale (Dardania e Macedonia nord-occidentale), Roma 1942, e sempre meritorie le sue rassegne critiche albanesi («Albanese e linguistica in alcune annate _delbalcanica comparata»), apparse secondo Jahrbuch» nel l’«Indogermanisches dopoguerra (dopo la tragica morte di N. Jokl); e non mi dilungherò qui nel ricordare ad es. i suoi lavori minori sulla stratificazione del lessico albanese (Venezia 1948) o sugli etnici dei paesi albanesi d’Italia (Etnikét e 2. Il Tagliavini non
74 Si veda il mio articolo L’insegnamento dell’Italiano in Ungheria, in «Civiltà italiana» III (nr. 1-4 1979), pp. 113-124.
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vendeve shqgiptare tè Italisé), Venezia 1964!. Non v’ha dubbio che con la scomparsa di Carlo Tagliavini, gli studi linguistici balcanicodanubiani, ed in particolare romeni, albanesi ed ungheresi, lamentano in Italia una grande perdita, momentaneamente quasi irreparabile. Chi vi parla ha ricevuto dal Maestro in eredità anche codesta fiaccola — pur fievole nelle mie mani — con l’intento di non lasciare morire del tutto tale ramo di studi proprio a Padova che fin dal periodo medievale ebbe intensi contatti culturali con la Penisola dell’Haemus. Posso peraltro mettere a disposizione la mia esperienza nel settore delle lingue preromane dell’Italia settentrionale e nell’ambito del latino volgare e delle parlate romanze. Una prima considerazione che mi proviene da esperienze dirette con fatti ormai bene accertati da qualche decennio? è ad es. la difficoltà o l’impossibilità d’individuare concordanze di fenomeni linguistici tra la lingua del Veneto preromano, ormai sufficientemente conosciuta per mezzo di un corpus epigrafico assai accresciuto negli ultimi anniî e iscrizioni messapiche o onomastica autenticamente illirica. Ciò nonostante possono ancora sussistere alcune questioni aperte relative ai rapporti tra lingua venetica e documenti onomastici della Penisola Balcanica, specie settentrionale, anche prescindendo dai Veneti balcanici secondo l’interpretazione corretta di ‘Iiàv3.
x
I due ultimi contributi sono editi negli «Atti dell’Istituto veneto» CVI (1947/48) pp. 194-220 e CXXII (1963/64) pp. 551-468. 2 Mi basti ricordare qui il volumetto assai importante di M.S. Beeler, The Venetic Language, Berkeley and Los Angeles 1949 e l’articolo di H. Krahe, Das Venetische. Seine Stellung im Kreise der verwandten Sprachen, Heildeberg 1950, in cui il noto illirista rinuncia definitivamente a considerare il venetico una varietà di illirico, mentre egli assegna a tale lingua una posizione indipendente le lingue indeuropee. Non qui a citare la bibliografia successiva, assai ampia, mi basti rinviare a G.B. Pellegrini e A.L. Prosdocimi, La lingua venetica, Padova-Firenze 1967 ed in particolare al Il vol. del Prosdocimi, ove si troverà una ampia bibliografia alle pp. 283-338; da ultimo v. M. Lejeune, Manuel de la langue vénète, Heidelberg 1974, specie pp. 163-173 e v. da ultimo Giulia Fogolari e A.L. Prosdocimi, 1 Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988. 3 Rispetto all’edizione del Conway, PID 1 del 1933, il corpus delle iscrizioni è all’incirca raddoppiato; v. le principali edizioni citate qui alla nota 2.
’Evetots di Erodoto
(1, 196), che qualcuno ha localizzato neladiacenti*. in Assodato e riconosciuto, credo da tutti i l’Epiro o zone il divorzio venetico-illirico, si ripresentano agli studiosi linguisti, oLOV
nuovi problemi concentrati essenzialmente sulle ben note concordan-
ze dell’antroponimia venetica con quella balcanica settentrionale, non senza alcune diramazioni nella regione «medio-adriatica». Su tali questioni molto dibattute, ma assai incerte, rinvio soprattutto ai noti contributi del Katiéie° il quale, a dir vero, non ha mai parlato — e secondo noi a ragione — della reale presenza di genti venete nella Penisola balcanica e soprattutto nell’area istriana e liburnica, ove è indubitabile che si riscontrano «aree onomastiche» le quali, per vari indizi, sembrano la continuazione di quelle regioni realmente popolate dai Veneti (secondo le informazioni storiche e geografiche antiche, archeologiche e soprattutto epigrafiche), come ha insegnato da tempo J. Untermann con la sua opera (in due volumi) Die venetischen Personennamen (in particolare si veda il capitolo «Das venetischistrische Namengut», pp. 172-1906). E le coincidenze non sono soltanto limitate a particolari formule onomastiche sopravvissute nelle epigrafi latine della regione, ma anche in alcuni temi antroponimici e nella loro formazione che si presentano simili o addirittura uguali. Basterebbe menzionare qui la straordinaria fortuna in area istriana e ancor più liburnica (cioè alto-dalmatica) del nome di persona di gran lunga più diffuso nei testi venetici’, e cioè di Voltiomnos e derivati. A
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1 H. Krahe, «Rhein. Museum» 88 (1939), pp. 97-101, v. Pisani, AGI 31 p. 74 e in precedenza Il problema illirico (tentativo di delimitazione) del 1936, ripubblicato in Linguistica generale ed indeuropea. Saggi e discorsi, 1, Torino 1947, pp. 83-97; da ultimo G. Restelli, Arcana Epiri, Firenze 1972, specie pp. 81-83. 5 R. Katiéié, Die illyrischen Personennamen in ihrem sudostlichen Verbreitungsgebiet, «Ziva Antika» 12 (1962), pp. 95-120; Das mitteldalmatische Namengebiet, ibid. pp. 255-292; Namengebiet im r6mischen Dalmatien in «Die Sprache» 10 (1964), pp. 24-33; Die neuesten Forschungen iiber die einheimische Sprachschicht in den illyrischen Provinzen. Simpozijum di Sarajevo 1964 pp. 31-55; e per l’area liburnica, considerata veneta, v. anche VI. Georgiev, Illyrier, Veneter und Urslaven «Balkansko ezikoznanie» 13 (1953), H 1, pp. 51-113. 6 I due volumi sono usciti a Wiesbaden 1961; v. anche la mia recensione in «Kratylos» VII/2 (1962), pp. 173-180. 7 Basti rinviare a Lejeune, MLV p. 325, con i rimandi alle iscrizioni. L’individua-
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questo proposito orienta bene — sia pure con qualche lacuna — la Karte 32 del citato volume di Untermann (col rinvio alla discussione ai paragrafi 192-98). Ivi è riunita la distribuzione areale dell’antroponimo nelle iscrizioni latine dell’Istria e della Dalmazia liburnica con le numerose varianti del nostro nome che fanno capo per lo più ad una forma Volsomnos, già attestata nelle iscrizioni venetiche del Cadore con -tj- > s. Vi si nota inoltre assai spesso il nesso consonantico -mndifferenziato in -un-, -vn-, onde Volsouna, Volsun, e gli ipocoristici (ora noti anche nel Veneto) del tipo Volso, Volsus, Volsius ecc... accanto a Voltio (ho interpretato la differenziazione di -mn- in -vncome fenomeno di sostrato che si ripete nel dalmatico romanzo, ad. es. dom(ina > duvna ecc. [v. qui 12]. Tali occorrenze — e varie altre — in iscrizioni dell’area balcanica settentrionale come si possono interpretare? Sulla scorta dell’Untermann, ma senza adeguati controlli e con minore prudenza Géza Alféldy, Die Personennamen in der ròmischen Provinz Dalmatia3, crede di poter attribuire al venetico un numero piuttosto elevato di antroponimi (gentilizi e cognomi) delle iscrizioni latine della Dalmazia° e su tale problematica è ritornato il medesimo Untermann, 4.
x
zione di t+j > s nel venetico cadorino è stata da me proposta sulla base della attestazione di Volsomnos (Ca 58 = MLV 217), nell’articolo Noterelle epigraficolinguistiche. Del nesso t+j in venetico o di una iscrizione inedita di Làgole, «Archivio per lAlto Adige» 48 (1954), pp. 419-431 (ma uscito nel 1953, anteriore ad un articolo analogo del Lejeune). 8 Uscito come Beiheft 4 ai BzN. Heidelberg 1969, ed in precedenza v. del medesimo Autore Die Namengebung der Urbevòlkerung in der ròmischen Provinz Dalmatia, BzN 15 (1964), pp. 55-104. ° Si vedano gli elenchi nel citato volume alle pp. 13-17 e specialmente pp. 346-357. Sono attribuiti al venetico anche nomi di persona che compaiono nella Dardania nell’interessante volume di Zef Mirdita, Antroponimia e Dardanisè nè kohén romake, Prishtiné (Rilindja) 1981; trovo infatti sistemati come «Venetici», nel capitolo «Ndarja gjuhésore e materialit onomastik» (pp. 145 e sgg.), il gentilizio Annius e i cognomi Annius, Atrta, Germanus, Laetus, Masclus, Oppius, Pitta, Turellius, Voconia (solo qualcuno di tali antroponimi assona in qualche modo con antroponimia provatamente venetica). 104
Venetisches in Dalmatien, Sarajevo, 1970". Ivi lo studioso tedesco, pur riconoscendo la «veneticità» di molti nomi si pone un problema, per me fondamentale, così espresso (p. 19): «Diese Parallelen reichen wohl nicht aus, um die Sprachen der Tràger der venetisch-istrischen Namengebung vor ihrer Romanisierung anderseits als identisch oder durch geringfiigige, Dialektdifferenzen unterscheiden zu erweisen. Es wird aber — bis auf weiteres — doch ratsam sein, damit zu rechnen, dass die genannten Sprachen einander so àhnlich waren, dass dem Austausch von Einzelnamen, der Uebernahme morfologischer Elemente und Ausbildung einander àhnliche Wortbildungstypen nichts im Wege stand...». Mancando altri elementi concreti di una cospicua presenza di Veneti e della loro lingua (attestata da epigrafi) sarà difficile risolvere adeguatamente codesto oscuro problema. Tuttavia si potrebbe anche supporre che sia diffusa nella Balcania settentrionale una «moda» onomastica emanata dal Veneto (?) o alla presenza di gruppi minoritari veneti in posizione di prestigio sociale, emigrati in tali aree balcaniche. Quanto a mode onomastiche è ben noto che, a partire dall’Alto Medioevo, si diffondono ad es. in Italia (e altrove) nomi di persona germanici che contendono il campo a quelli tradizionali greco-latini ed ebraici. Non va poi interamente sottovalutato il caso dell’antroponimo Venetus (certamente il nostro etnico in origine) che compare qua è là in zone balcaniche e danubiane (v. Krahe, Lexikon p. 125). Ma nel complesso mi pare di dover affermare che le vere ragioni delle strane concordanze sfuggano anche al valente specialista, il collega Untermann. E nuove concordanze tra onomastica delle iscrizioni venetiche cadorine (Alto Piave) e area balcanica sono apparse dopo che alcuni antroponimi sono stati letti più correttamentet!!; tra questi menziono ad es. Aplisikos (Ca 159 e Voltoparikos (Ca 65) che ricordano da vicino Aplo, Aplius, Aplus, Apla, Aplis (della Pannonia e Dalmazia) o Voltuparis CIL Ill 3791 Igg (Pannonia), v. Krahe, Lexicon pp. 7-8 e 130. Sono invece assai pochi gli esempi
si
Apparso nel Godi$njak Knjiga VII del Centar za balkanolo$ka ispitivanja kn. 5, Sarajevo 1970, pp. 5-21. u Da M. Lejeune. Venetica VIII, «Latomus» XXV (1966), pp. 381-413, ma v. anche LVen. cit. 1, p. 568. 10
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antroponimici in cui le iscrizioni venetiche concordano con quelle messapiche (menziono ad es. Moldo nelle iscriz. venetiche e anche nella toponomastica alto-veneta: Moldéi, e messap. moldahias ecc., v. Parlangeli, Studi messapici, Milano 1960, p. 337). 5. Pel passato non sono mancati i tentativi di indicare riscontri diretti tra il Veneto antico e l’Epiro o Albania; essi ci appaiono oggi interamente dilettanteschi, svuotati come sono, nella realtà, del comune supporto illirico. Il vecchio mito dell’unità veneto-illirica è persino riflesso in manuali di vecchio stampo non soltanto linguistici, ma persino antropologici. Pertanto in opere di grande diffusione quali ad es. F.L. Pullè, Italia, genti e favelle, vol. I, Torino (Bocca) 1927 p. 276, si possono leggere affermazioni del seguente tenore: «Le note antropologiche dei Veneti e dei Japigi Messapi dovrebbero corrispondere con quelle dei popoli illirici di cui gli Albanesi sono i rappresentanti moderni...»!3, Ma si può poi facilmente constatare come Pullè fosse in realtà un modesto compilatore quando egli afferma (p. 275): «Dalla analisi comparativa degli idiomi dei Messapi e dei Veneti, prescindendo da quello dei Liburni per la scarsità e incertezza di documenti, risultò la stretta parentela di essi in primo luogo; ed in secondo, l’affinità di entrambi cogli idiomi del ceppo preellenico...». Anche molti riscontri toponimici illirici col Veneto sono ovviamente privi di fondamento, come del resto tanti etimi proposti dal Krahe e soprattutto dalla sua allieva Anna Kargl.
il
12 L’affinità di Plaetor (CIL 1359 Aquileia) con forme liburniche quali PI/a/etoris (CIL III 3149, Apsorus) rimane valida, mentre la corrispondenza con Pletei dell’epigrafe venetica Pa 2 cade, dato che la lezione corretta è sicuramente Pledei. 13 L’opera del Pullè in tre volumi è accompagnata anche da un Atlante in cui si troveranno mescolati vari dati antropologici, archeologici e linguistici. Tale opera non ebbe, a dir vero, grande successo ed è quasi dimenticata. 14 Alludo soprattutto al lavoro della Karg, Die Ortsnamen der antiken Venetien und Istrien, WuS XXII (1941-42), pp. 100-128 e 166-202, un’opera viziata dal preconcetto «illirico» che tuttavia conserva qualche valore se non altro per la ricca informazione. Le principali spiegazioni dei nomi locali veneti antichi sono disseminate nei capitoli introduttivi alle sezioni epigrafiche nell’opera citata La lingua venetica (ad opera mia e del Prosdocimi.
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Anche il benemerito Gustav Meyer, EWAS 164 per spiegare l’alb. ka, ka-u ’Ochs, kaese femm. ’Kuh, non dimentica d’invocare la glossa di Columella attribuita ai Veneti di Altino e cioè «Ceva (vacca) humilis staturae...», sulla quale tanto si è fantasticato mentre la spiegazione, secondo noi corretta, è stata fornita da G. Alessio, Lex. Etym. (Napoli 1976) il quale pensa ad un ie. Keù-d, cfr. gr. “b-0-s fétus’, a. ind. ci-cuh «petit d’animal; enfant...» (Pokorny, IEW 882). Del resto anche E. Cabej («Studia Albanica» VII, 1970, p. 199), tra le concordanze alpine (in questo caso veneto-alpine) — albanesi, accanto a voci ben note quali alb. lopé «vacca», alb. màz, méz «puledro», veneto mus, musso «asino» cfr. alb. mushkè, «mulet», barga «capanna ove si conserva il fieno», cfr. alb. bar «erba, fieno», segnalava anche l’agordino (Belluno) boradèi pl. “bucaneve,, Galantus nivalis — da noi segnalato e investigato” — che ricorda l’alb. boré «neve». Su tali corrispondenze alpino-albanesi aveva richiamato l’attenzione (ma ora le corrispondenze si sono fatte assai più estese!) anche N. Jokl, Zur Frage der vorròmischen Mundarten, «Vox Romanica» 8, 1945-46, pp. 6.
147-215.
7. Assai più delicate, e in buona parte casuali, sono alcune corrispondenze fonetiche evolutive della lingua albanese con analoghi fenomeni dei dialetti rustici (cioè più autentici o arcaici). Come sa, il sistema fonetico e fonologico nel consonantismo è indubbiamente caratterizzato (oltre che dalle opposizioni quali «diesizzato» [o «palatalizzato] —: «non diesizzato»), anche dalla presenza — con alto rendimento funzionale — di foni interdentali, sordo th e sonoro dh. La sorda, di varia originazione (in qualche caso anche da precedente s, ma più spesso da ie. k’: siccare > thek, thi’ «maiale» cfr. lat. sus ecc. )!6 può a volte alternare con f labiodentale ad es. thjeshtré / fjeshtér
si
G.B. Rossi, Flora popolare agordina (con una mia Introduzione), Firenze 1964, p. 96 e soprattutto, G.B. Pellegrini e A. Zamboni, Flora popolare friulana, Udine 1982, p. 106. 16 E sempre fondamentale l’articolo di H. Pedersen, Die gutturale im Albanischen nella KZ 36 (1900), pp. 277-340 (integrato da lavori più recenti dovuti allo Jokl e al 15
Cabej).
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«figliastro» dal lat. filiaster (Leotti 1533 thjeshtré, alb. sic. fjestré, Meyer, EWAS 91). E noto come alcune lingue per «equivalenza acustica» (o meglio per la quasi totale compresenza dei «tratti distintivi») sia possibile tale alternanza: anche nei dialetti veneti rustici essa è comunissima!’. Così in albanese, come nel veneto, la fricativa dentale sonora dh può a volte alternare con la semplice dentale o viceversa, tanto che i due foni possono a volte apparire come due varianti, spesso posizionali, del medesimo fonema. Tanto in albanese quanto nel veneto le caratteristiche spiranti si mantengono assai meglio all’iniziale in fonetica sintattica (quando precede vocale). Non mancano in ogni caso esempi di dh originaria passata al semplice d, cfr. dardhèé «pera» (gr. dX&0d0s?), derr «maiale» cfr. gr. Xxoîpos da ie. 8&h- palatale e si noti anche il lat. adorare reso in alb. con adhéroj, adhuroj «adorare» (term. eccles.!8). 8. Ma l’evoluzione parallela — sempre casuale! — tra albanese e veneto è fornita dalla serie palatale k, €, 6h con i noti esiti interdentali e di fricativa dentale nello schipetaro, come — parallelamente — nel veneto rustico in continuazione di lat. C®i, G®i si ha $ e è (:d), ad es. caelu > dDiél, cinque > Dink (e), centu > Dent e gente > dent gengiva > dendiva. Avviene così — casualmente — che qualche parola albanese di origine autoctona (verosimilmente illirica) abbia una identica forma delle corrispondenti voci venete di origine latina; ad es. dal lat. gener(u) si ha nel ven. dénder «genero» che ricorda subito l’alb. dhéndér «genero» e «sposo novello» per il quale si presuppone generalmente un ie, 8eno-ter, cfr. a. ind. janitar- «padre»; gr. yevetno, yevetoo ($en-or-tr-), mentre io mi chiedo se la voce schipetara possa essere geneticamente più vicina all’archetipo che ha dato il lat. gener di identico significato: ‘gener- con lo sviluppo di un d dissolutore dell’incontro tra n ed r, come ha in albanese (dialettale) lo sviluppo di un parallelo b in mr e ml, cfr. embér’ «nome», dimbér «inverno», zembra «cuore» (articola-
si
to)’.
17 Mi basti rinviare al mio volume Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa 1977, specie pp. 277-280. 18 V. il mio volume Studi cit., pp. 238-242. 19 Qualora si ammetta una base gena-ter (Pokorny, IEW 374) bisogna riconoscere
108
Nell’amplissima diffusione dei foni interdentali nel Veneto che ora addensano soprattutto nel centro-nord, ma che sono ancora noti nelle province meridionali di Padova, Vicenza e Rovigo (secondo noi la città lagunare non ha invece conosciuto tali articolazioni nella pronuncia autenticamente locale) si può riconoscere un tratto veramente caratterizzante rispetto ai dialetti gallo-italici, ladini dolomitici atesini e friulani in seno alla Cisalpina’. Alcuni studiosi?! hanno ritenuto, anche negli ultimi anni, di associare tale caratteristica fonetica all’influsso del sostrato venetico ed anch’io, nel passato, ho tentato di intravedere una pronuncia fricativa della d nella scrizione tipica del venetico con z (si noti ad es. louzerai, louzeropos da “leudh-), ma riconosco ora che il grafema potrebbe corrispondere unicamente a d (come @ = bey = g), anche se la scelta di z etrusco potrebbe forse spettare a qualche particolare ragione fonetica. Non mancano inoltre chiare spie per una pronuncia interdentale fricativa nelle iscrizioni retiche?? che arealmente si toccano qua e là e si sovrappongono al altri tempi in cui si credeva dominio di quelle venetiche. Comunque osservazione codesta all’identità venetico-illirica, per i sostenitori del insensata. sostrato non sarebbe risultata tanto si
in
Conserva invece intera credibilità l’ipotesi in una stretta affinità tra lingua illirica e messapica che alcuni (non senza esagerazione) 9.
per l’albanese il noto fenomeno di nt > nd, ma anche per il senso la voce albanese è assai più vicina al latino gener e non credo che la trafila da me supposta sia tanto inverosimile; v. anche Walde-Hofmann I, 590 s.v. gener che accenna ad una forma base del tipo g.n-ro-. 20 Nel Veneto le interdentali sono diffuse (anche se tale caratteristica non sempre è indicata dagli atlanti e dai dizionari dialettali) in tutte le province venete con maggiore intensità per Treviso e Belluno (campagna, ma spesso anche città): è probabile che tali foni siano risaliti verso la montagna partendo dal Sud e cioè dall’area pavana. 2 Ad es. G. Mafera, Profilo fonetico-morfologico da Venezia a Belluno «L’Italia dialettale» XXII (1958, pp. 131-184, in particolare p. 173, e v. ora M. Cortelazzo, Interpretazione di carte linguistiche, in Guida ai dialetti veneti III, Padova 1981, pp. 208-209; G.B. Pellegrini, Le interdentali nel Veneto, «Atti del laboratorio di fonetica dell’Università di Padova» I (1949), pp. 25-38. 2 G.B. Pellegrini, Osservazioni sulle nuove iscrizioni nordetrusche di San Zeno «Archivio per l’Alto Adige» XLV (1951), pp. 303-329. 109
hanno creduto la fase arcaica dell’albanese. Appaiono inoltre in alcuni casi assai evidenti le corrispondenze interadriatiche nel settore onomastico (antroponimia e toponomastica), illustrate soprattutto da F. Ribezzo e recentemente da Mario Doria”. Quasi tutti gli studiosi sono ora inclini a delimitare il concetto di «illirico» a quello degli «Illyri proprie dicti» di Mela (II 56.5) e di Plinio (N.H. Ill, 144), cioè alla Penisola balcanica meridionale che, nella sezione sud-orientale, secondo la definizione e classificazione del Katièié, fondata sulle «regioni onomastiche», ingloba tutta l’Albania attuale e le regioni albanofone contigue. Anche uno specialista di messapico qual è oggi Carlo De Simone’ dichiara esplicitamente che «la provenienza «illirica» delle popolazioni prelatine delle Puglie è come ben noto attestata dalle fonti antiche ed ha senza dubbio una notevole verosimiglianza storica»; anche se poi egli aggiunge prudentemente «affermare che il Messapico sia tout court l’Illirico d’Italia, presuppone a rigor di termini una vera ed effettiva conoscenza della lingua illirica (che non possediamo) ed inoltre una migliore conoscenza del Messapico di quella attuale. La tesi «illirica» del Messapico può quindi senza dubbio essere inverata, ma non è oggi dimostrabile in termini rigorosi...». Ma il medesimo studioso ha poi facilmente individuato nuovi materiali di concordanza «illirica», non senza qualche riscontro puntuale col messapico, nello studio comparativo dell’Onomastica apparsa nelle nuove iscrizioni della necropoli di Durazzo edite dal Toci nel 1962°, si veda il contributo del De Simone in «Studia Albanica» 1975 2, pp. 95-116 e in BzN 14, 1963, pp. 124-130. Non mancano nei nuovi testi i derivati di un nome bene attestato anche in messapico e ciò daz-io, daz-ta (v.
F. Ribezzo, Italia e Illiria preromana, nel volume Italia e Croazia, Roma 1942, pp. 21-83 e M. Doria, Riflessioni sulle concordanze toponimiche preromane tra le due sponde dell’Adriatico, in «Abruzzo» XVIII (1979), pp. 11-35. 24 V. «Studia Albanica» X (1973), pp. 155-159. 25 V. Toci, «Buletin i Universitetit té Tiranés, Seria Shkencavet shogérore» XV (1962), pp. 70-136 e «Studia Albanica II (1965), pp. 49-99. 23
110
lParlangeli Studi messapici pp. 294-97) che già da vari decenni è stato connesso con l’alb. das, cfr. dashur «caro, amato», desha «amai» (Meyer, EWAS 64, ie. geus- e vedi Cabej, St. gjus. I, 110, s.v. dashur, ove dash- è considerato primario rispetto a desha). A. Meyer, Die Sprache der alti. IIl. Il, 33-34, riconosce l’equazione Dast-o è Dazos -as ecc. con alb. dashès «liebend», dashté «geliebt» che sarebbe sostenuta — ma ciò è ovviamente soltanto una buona ipotesi — dall’iscrizione L. Dastidio Amori (CIL IX 708, Teanum Apul.) ove Amor sarebbe la traduzione dell’indigeno Dastidius. Diversa è peraltro d’opinione di Eric P. Hamp (in «Studia... Whatmough» 1957, pp. 734-89, in particolare 78) il quale propone la connessione di daz- / das- con l’alb., djathté «destro, agile». Ma le nuove epigrafi di Durazzo pongono nuovi problemi comparativi e non soltanto genericamente illirici, ma proprio con riferimento al messapico. Vi si riconoscono inoltre antro-
ponimi ben noti anche alle epigrafi venetiche, tra i quali soprattutto Genthios, un nome ben noto alla storia illirica (basti pensare al re sconfitto nel 167), un elemento onomastico che caratterizza l’area balcanica sud-orientale, ora con numerose attestazioni (che secondo il Lamberz, «Indog. Forsch». 60, 1952 p. 309, troverebbe una spiegazione proprio per mezzo dell’albanese). Tale nome è apparso ben tre volte anche nei testi venetici a Padova e ad Este” ed io ho spiegato, partendo dall’onomastica, da Gentiò, -One, anche il nome locale veneto (non lontano da Opitergium-Oderzo) Zensén, una borgata sul Piave. Quali siano ora i rapporti (dato che mi par difficile una pura coincidenza) tra il Gentios venetico e quello illirico, confesso di non saperlo spiegare. Tra i tentativi più recenti di interpretare voci messapiche o illiriche con l’albanese, oltre al citato contributo dello Hamp (Albanian and Messapic), vanno menzionati numerosi articoli di Vittore Pisani il quale ha accolto pienamente l’ipotesi di strette affinità tra illirico e messapico e di conseguenza non mancano i suoi parallelismi con l’albanese (tutti e tre considerati lingue satem, come pare V. LVen. Pa 13 genteii Pa 5 Gent ed Es discussione del Prosdocimi, LVen. Il, pp. 98-99. 2%
109
GENTEI, IVANTIO! e la
111
anche a me assai verosimile)”. Quanto all’interpretazione — dovuta all’intuizione del Krahe — klodi zis «audi Iuppiter» e alla giustificazione della velare in una lingua satem è da vedere l’importante articolo di H. Oelberg, Zur neutralisierung von Palatalem und Velarem k vor liquida del 1969°. Tra le concordanze più evidenti spicca sempre il messap. beilihi (genitivo), bili-a, biliva, (v. SM 280-81) e l’alb. bir «figlio», pl. bilj, bij, da un ‘bhilios, “bhilia e tante altre equazioni ormai accolte da vari specialisti. 10. Ma ciò che più interessava il mio discorso sull’albanese è costituito dall’elemento latino sovrapposto a quello indigeno e che presenta alcune sue particolarità degne della massima attenzione anche da parte del linguista romanzo. Come è ben noto, tale filone sopravvalutato notevolmente da G. Meyer, è stato via via ridimensionato e ristretto dagli studiosi successivi e soprattutto da H. Pedersen, da N. Jokl e negli ultimi tempi anche da E. Cabej®. Ciò nonostante, pur con la decurtazione di varie decine o di qualche centinaio di parole già attribuite, nel secolo passato, all’elemento latino, bisogna obiettivamente riconoscere che tale strato, dopo quello indigeno (che possiamo attribuire, sia pure ipoteticamente, all’illirico) costituisce il filone lessicale straniero più ricco che suscita un vivo interesse anche nello studioso di balcanistica. Personalmente ritengo che, entro certi limiti, si possa ancora parlare di un «latino balcanico» anche se in seno a tale elemento sarebbe sempre utile
distinguere tra coincidenze complete (alludo alle corrispondenze col romeno e a volte col dalmatico) e coincidenze parziali (spesso infatti i significati della medesima voce latina, divergono notevolmente) e a tale classificazione si debbono aggiungersi le discrepanze nella conservazione di un lessico diverso e antagonista. In generale si può osservare che l’elemento latino dell’albanese si presenta allo studioso con caratteri di più spiccata arcaicità non soltanto per quanto attiene la stratificazione lessicale (qua e là in accordo col dalmatico), ma anche per alcune peculiarità fonetiche. Va inoltre rilevato che il principale serbatoio di voci latine per la Penisola balcanica, passate sull’altra sponda, è senza dubbio costituito dall’Italia meridionale (incluso ciò vale in generale anche per la lingua romena, come da l’Abruzzo) è tempo stato dimostrato”. Ma quest’ultima lingua deve esser stata alimentata, non soltanto da correnti provenienti dal Sud, ma anche da innovazioni emanate dall’Italia nord-orientale con centro nella metropoli di Aquileia, bene collegata mediante una vasta rete viaria con la Pannonia e di qui con la Dacia. Tali voci riuniscono il romeno col friulano, col veneto, con ladino dolomitico ed in parte anche col lombardo, e sembrano assenti, per quanto mi consta, nello strato latino della lingua schipetara. Si dovranno tenere in considerazione, per codesto settore, anche alcune note del medesimo Cabej il quale ha individuato anche alcune rarità latine, prima ignote, nella sua lingua e sovente assenti nell’intera Romània.
e
Col periodo romano assistiamo in genere ad un movimento che porterà la lingua latina, con varia penetrazione, in buona parte della penisola dell’Haemus. I precedenti storici sono ben noti e si riassumono nelle «guerre illiriche» (dal 229 a.C. al 9 d.C.) e alla conquista della Dacia ad opera di Traiano (105 d.C.); un ulteriore afflusso di genti romane o romanizzate continua per alcuni secoli, o, per lo 11.
Cito soltanto gli ultimi ora ripubblicati in Studi di linguistica e filologia, Galatina (Congedo ed.) 1982: Le origini della lingua albanese. Questioni di principio e di metodo («Studia Albanica»), 1964, fasc. 1, pp. 61-68), pp. 241-8; Gli Illiri in Italia («Studia Albanica» 9, 1972, fasc. 2, pp. 249-58; Ricognizioni osche e messapiche pp. ?7
259-76.
8 Uscito in Studi linguistici in onore di Vittore Pisani Il, Brescia (Paideja) 1969, pp. 683-690, ove a p. 686 si cita anche l’alb. quhen «heisse», quanj «nenne» da ie. Ik’leu — «héren» (IEW 605-6) da cui anche il citato messap. klodi. ? Mi basti rinviare soprattutto a E. Cabej, Zur Charakteristik der lateinischen Lehnwòrter im Albanischen, in «Revue de linguistique» VIII n. 1 (1962), pp. 161-
199.
112
Soprattutto da parte di I. lordan, Dialectele italiene de Sud si limbà romàna, uscito in varie puntate in «Archiva» di lIasi, dal num. XXX (1923) al XXXV 30
(1928).
113
meno, attraverso intensi contatti si può dire sino alle invasioni slave che determinarono un diverso assetto politico e linguistico della Balcania e del Litorale. Della romanità linguistica, tuttavia, rimangono abbondanti tracce in tutte le lingue della cosiddetta «lega balcanica»3!; si ha addirittura la sopravvivenza di una lingua ufficiale, il romeno, che quasi miracolosamente è sopravvissuto sino ai nostri giorni, pure separato sostanzialmente fin dal IV-V secolo dalla Romània d’occidente, pressato e circondato da vari popoli di lingua assai diversa e sviluppatosi in un ambiente politico e culturale non di certo propizio alla sua continuità. A differenza della cultura e lingua greca, propagatasi a Nord fino ad una data linea della Penisola, che storici e linguisti hanno indicata con lievi differenze (si ricorderanno tali limiti, tra aree d’influsso greco o latino, secondo C. Jereéek, A. Philippide e P. Skok)®, per mezzo di alcune antiche colonie e attraverso scambi pacifici di natura commerciale, il latino si espande, come nelle rimanenti aree dell’orbis romanus, per mezzo della conquista militare ed in séguito ad un’occupazione del territorio da parte dei militari. Tali conquiste hanno portato assai presto alla fusione dellè popolazioni indigene conquistate (evidentemente non in ogni luogo) con i conquistatori, ad una simbiosi spesso intima, a rapporti amichevoli dei militari, veterani e poi di artigiani e commercianti, in varie città e province. La romanizzazione parziale delle coste adriatiche è di certo proceduta secondo varie direttrici ed in epoche diverse a partire dal terzo secolo a.C. Rimane ancora un’opera fondamentale Kr. Sandfeld, Linguistique balkanique. Problèmes et résultats, Paris 1930. Tra le sintesi recenti menziono H. W. Schaller, Die Balkansprachen. Eine Einfiihrung in die Balkanologie, Heidelberg 1975, e per una ampia informazione bibliografica è ora utile del medesimo 4. Bibliographie zur Balkanologie, Heidelberg 1977. 2 Il decorso delle tre linee è indicato ad es. in una cartina del volume di H. Mihàescu, Limba latinà în provinciile dunirene ale imperiului roman, Bucuresti 1960 (Harta 3). La linea che concede maggiore spazio alla cultura greca è quella di C. Jeretek (si diparte da Lissus-Alessio), mentre quella più limitativa è dovuta a P. Skok (parte subito a Sud di Apollonia); divergenze si notano quasi esclusivamente nella sezione iniziale inclusa nell’attuale Albania, mentre nel rimanente percorso esse quasi coincidono.
L’area dalmatica ed epirotica, come si sa, entra nell’orbita del mondo romano in epoca anteriore di qualche secolo rispetto alla Dacia, il massimo baluardo della latinità orientale. E peraltro verosimile che una delle vie più antiche e più battute nella infiltrazione latina nelle province orientali, sia quella meridionale che partiva dalle coste pugliesi e che diventerà la «via Egnatia»: via di mare la quale raggiungeva Apollonia e Dyrrachium e di qui tagliava lAlbania circa a metà percorrendo la valle dello Skumbi(ni) e lasciando a Sud i laghi di Okrida e di Prespa per toccare Eraclea (ora Monastir-Bitola, in territorio iugoslavo), risaliva con una diramazione in direzione Sudnord attraverso la Tracia orientale verso il Danubio. Tale percorso coincideva nella prima parte con la sunnominata via (che trae il nome da Gnathia o Egnatia, punto di partenza, o, secondo altri, da un Egnatius), costruita tra il 146 e il 125 a.C.; essa portava in realtà a Tessalonica e successivamente a Bisanzio. Sulle direttrici di diffusione della romanità nelle regioni balcanico-danubiane informa e riassume la bibliografia precedente, con eccezionale dovizia di dati (soprattutto mediante una puntuale analisi delle epigrafi e sulla loro varia densità, espressa anche in utili cartine allegate), l’opera di H. Mihàescu nella nuova e ampliata edizione, interamente rinnovata rispetto alla precedente in romeno*, La langue latine dans le sud-est de l’Europe, Bucarest 1978, Vv. special12.
mente pp. 37-168%. Non vanno ovviamente sottovalutate altre vie attraverso le quali si diffondono la lingua e la cultura di Roma, e cioè
3!
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33 V. il titolo in romeno nella nota precedente; tale opera ha riscosso un vivo interesse nell’ambito degli studiosi del mondo antico, ed è stata ampiamente recensita; v. anche la mia nota in «Cultura neolatina» XX (1960), pp. 299-300. La nuova edizione, in lingua francese, è in realtà un’opera nuova con un esame assai minuzioso delle epigrafi e una ricca raccolta di lessico latino tipico delle iscrizioni balcaniche o tratto da scrittori, sistemato per categorie nozionali. | 34 Tale sezione del volume del M. rappresenta la rielaborazione di una serie di otto puntate intitolate La diffusion de la langue latine dans le Sud-Est de l’Europe, pubblicate nella «Revue des études sud-est européennes» (di Bucarest) IX, (1971), pp. 497-510, 4, pp. 659-676, X, 1 (1972), pp. 83-93, XI (973), 1, pp. 97-113, 2, pp. 227-240, 3, pp. 423-441, 4, pp. 689-710, XII (1974), 1, pp. 17-32.
o
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quelle trasversali da Ovest ad Est, lungo la Sava, la Drava e il Danubio (fondamentale è ad es. la penetrazione commerciale per mezzo della navigazione fluviale) e dalle coste adriatiche verso la Dalmazia. Non casualmente Traiano — qualora si dia credito alle interpretazioni di Attilio Degrassi®”, del resto plausibili e accolte da molti, in polemica con lo Stucchi? —, per la conquista della Dacia sarebbe partito dal grande porto di Brindisi (secondo i Fasti Ostiensi il 4 giugno del 105) ed avrebbe raggiunto la Mesia passando l’Adriatico nel punto più stretto. Dopo esser approdato a Durazzo e ad Alessio avrebbe continuato la marcia con le sue legioni nell’entroterra per Ni$ (Naissus) raggiungendo il Danubio a Turnu Severin (Drobetae). Si trattava verosimilmente di vie già battute in precedenza e ben note ai Romani. L’itinerario seguito da Traiano era tra i più brevi per raggiungere la Dacia da Roma, ed attraverso tale direttrice la diffusione della romanità si è fatta sempre più ampia. Ciò significa che è assai verosimile di presupporre una colonizzazione con elementi provenienti dall’Italia meridionale (in gran parte) i quali parlavano un «latino regionale» particolare; essi si saranno poi insediati stabilmente nella nuova colonia. Ciò potrebbe spiegare anche le numerose convergenze linguistiche tra romeno e italiano meridionale, illustrate da vari studiosi tra i quali O. Densusianu, Iorgu Iordan, più recentemente da H. Liidtke e soprattutto, per l’aspetto lessicale, da G. Alessio’’; tali concordanze tra romeno e italiano meridionale sono 35 A. Degrassi, La via seguita da Traiano nel 105 per recarsi nella Dacia, edito nel 1946, ed ora ristampato in Scritti vari di antichità 1. Roma 1962, pp. 567-581, inoltre la replica allo Stucchi, Aquileia e Trieste nelle scene della Colonna Traiana? del 1962, ora in Scritti vari di antichità, III, Venezia-Trieste 1967, pp. 173-185. 36 S. Stucchi, Il coronamento dell’arco romano nel porto di Ancona, in «Rend. Accad. Archeol. di Napoli» n. s. XXXII (1957), pp. 149-164 e soprattutto Contributo alla conoscenza della topografia, dell’arte e della storia nella Colonna Traiana. Il viaggio marittimo di Traiano all’inizio della seconda guerra dacica, in «Atti dell’ Accademia di Udine», ser. VII, vol. I (1957-60). 37 O. Densugianu, Istoria limbii romàne I. Bucuresti 1961, pp. 153 e sgg. e v. ora l’edizione moderna Opere Editie îngrijità de B. Cazacu, V. Rusu si I. Serb. II. Lingvistica, Bucuresti 1975, pp. 220-228; I. Iordan, Dialectele italiene de Sud si limbà
116
riconosciute da tanti altri specialisti della romanità balcanica. In un recente convegno tenutosi in Ungheria (novembre 1978 a Visegr4d)? ho cercato di riesaminare alcune concordanze che mi sembrano specifiche, tra Italia nord-orientale (specie friulano, ladino centrale e veneto) e regioni balcanico-danubiane. A quelle già note ed individuate o sottolineate dal Densusianu, da C. Tagliavini e da Maria Iliescu‘, ho potuto aggiungere qualche unità tanto che si può ora contare su di una ventina di esempi che mi sembrano di qualche rilievo (ho aggiunto i continuatori di faéula, "“exmuticàre, flegma, "fodia «buca» da ‘*fodiare, fodere, da non confondersi con fovea, voce che avrebbe dato altri esiti, scoria, òrgànum nel senso di «aratro», noto al friulano e al litorale della Dalmazia, ecc.)“. Tali riscontri documentano quei rapporti, già noti 13.
romànà, in «Archiva» XXX 81923), pp. 35-50, 148-165, 327-367, XXXI (1924), pp. 207-226; XXXIII (1926, pp. 9-20, 177-192, XXXIV (1927), pp. 11-22, XXXV (1928), pp. 13-30 e 181-204; H. Lidtke, Sprachliche Beziehungen der apulischen Dialekte zum Rumiinischen, in «Revue des études roumaines de Paris» III-IV (1957), pp. 130-146; G. Alessio, Concordanze lessicali tra i dialetti rumeni e quelli calabresi, in «Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Bari» 1 (1954), pp. 3-53. 38 Per confronti e concordanze del romeno con altre lingue neolatine si veda C. Le Tagliavini, origini delle lingue neolatine‘, Bologna 1972, pp. 353-6 (ivi ampia bibliografia). 39 Si tratta di un convegno organizzato dall’Università di Budapest al quale hanno partecipato alcuni studiosi italiani (in particolare dell’Università di Padova, Trieste e Udine); si sono discussi in quella sede problemi relativi ai rapporti linguistici italo-ungheresi; la mia comunicazione Concordanze tra Italia Nordorientale e regioni balcanico-danubiane è ora in corso di stampa negli «Atti» di detto convegno [qui 1]. 40 V. anche il mio articolo Osservazioni sulle concordanze tra romeno e «italoromanzo nord-orientale», in «Analele Societàtii de limbà romànà» 3-4, Zrenjanin 1972-73, pp. 393-402 (con numerosi errori di stampa), ove cito i lavori del Tagliavini e della Iliescu. 41 Ad es. fachie (0 meglio fache, Densus. 289) del romeno trova riscontro nel friul. fagla, fale, il s. cr. fuz, di origine neolatina, risale a “fodium da fodere, come il toponimo veneto Foza (Asiago), il rom. scoara (dial.) e alb. zgjyré si equivalgono al friul. skurie o lad. centr. e alto ven. skéie (pl.), ecc. [v. qui 1]. 117
agli storici ed agli archeologi’, checollegavano Aquileia col Noricum e con la Pannonia, e di qui con la Dacia, attraverso una serie di canali e una rete viaria puntualmente esaminata nell’opera del Mihaèscu“. Ma nella presente ricerca ci prefiggiamo soprattutto’di riprendere in esame elementi latini dell’albanese e di tracciarne in qualche modo
gli
una classificazione mediante una comparazione areale specie per quanto attiene la Balcania. Il nostro intento è poi di porre in risalto tali elementi con i nostri dialetti centrosoprattutto le concordanze meridionali: concordanze che riteniamo in parecchi casi indicative, anche se le nostre conoscenze del lessico romanzo sono di certo ancora imperfette, tanto che conviene sempre ripetere con E. Lozovan4#! che «Pour pouvoir dresser la liste des termes caractéristiques de certaines régions il faut embrasser le domaine roman tout entier ... Il serait impudent d’affirmer que telles concordances de vocabulaire sont caractéristiques de telles régions. Tant qu’il existe des parlers inexplorés ou insuffisamment étudiés, il est prémature d’affirmer que tels mots ont survécu uniquement dans telle région. La prudence nous apparaît encore plus de mise lorsqu’on pense que certains mots ont pu exister en dehors de notre domaine, mais y ont disparu, à des époques relativement récents sans qu’aucun document nous témoigne de leur survie...». Ma in ogni caso ne viene confermata la penetrazione latina soprattutto attraverso la sunnominata via Egnatia, tema di studio più volte toccato in recenti articoli, anche da parte di E. Banfi, per quanto attiene le concordanze fonetiche“.
di
‘2 V. ad es. (anche per le strade romane che collegavano l’Italia nord-orientale alle province del Noricum e della Pannonia) Claustra Alpium lIuliarum. 1 Fontes a cura di J. Sa$el e P. Petru, Ljubljana 1971 (con testo sloveno ed inglese). ‘3 H. Mihàescu, LLSE pp. 51-52 e 106-129. ‘4 E. Lozovan, Unité et dislocation de la Romania orientale, «Orbis» III (1954) i pp. 123-187. 45 E. Banfi, Aree latinizzate nei Balcani e una terza area latino-balcanica (area della via Egnazia), RIL 106 (1972), pp. 185-233; Arcaismi fonetici nell’elemento latino del neo-greco e loro connessioni con la fonetica dei dialetti italo-meridionali a vocalismo siciliano, in «Bollettino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani» XII (1973), pp. 309-321; Problemi di fonetica delle aree latino-balcaniche, in «Akten des internationalen albanologischen Kolloquiums» Innsbruck 1972. Zum Gedichtnis an Norbert Jokl, herausgg. von H. Oelberg, Innsbruck 1977, pp. 269-285.
118
Quanto alla latinità particolare del dalmatico non vi ha dubbio che la tesi di Matteo Bartoli circa le strette connessioni con le coste italiane meridionali, abruzzesi e pugliesi, è di gran lunga preferibile ai tentativi — che risalgono ad Antonio Ive e a CI. Merlo — di trovarvi rapporti intimi col ladino o «retoromanzo»“. Tale tesi va ora ridimensionata e non deve esser viziata — come lo è stato per tanto tempo - da vecchie prospettive o sovrapposizioni di ordine nazionalistico che hanno spesso traviato studiosi italiani e anche jugoslavi di alta statura scientifica, quali, in qualche caso, persino Petar Skok‘. Lo hanno riconosciuto più volte, col lodevole obiettività scientifica, valenti colleghi quali Vojmir Vinja o Zarko Muljadié che dei rapporti linguistici interadriatici e dei contatti tra le due sponde sono di certo tra i migliori specialisti dei nostri tempi®®. Per la polemica Bartoli-Merlo circa la posizione del dalmatico, mi basti rinviare alle indicazioni bibliografiche riunite da Tagliavini, Origini$, p. 453. L’opera fondamentale sul dalmatico rimane ancora il vecchio contributo di M. Bartoli, Das Dalmatische. Altromanische Sprachreste vom Veglia bis Ragusa und ihre Stellung in der Apennino-balkanischen Romania, Wien 1906 (due volumi). Di A. Ive, che può considerarsi un precursore del Bartoli (il quale, peraltro, lo criticò aspramente), si veda L’antico dialetto di Veglia, AGI IX (1886), pp. 115-187 e 1 dialetti ladino-veneti dell’Istria, Strasburgo 1900 (ove si ribadisce un concetto errato a proposito di tali dialetti che segnerebbero il passaggio tra friulano e dalmatico; sulla erronea posizione scientifica dell’Ive si veda da ultimo F. Crevatin, Per un restauro di un testo vegliotto quasi sconosciuto, in «Ce fastu?» 54 (1978), pp. 62-69. 47 1 numerosissimi lavori di balcanistica e di latino balcanico di P. Skok sono confluiti,in buona parte, nei lemmi del suo grandioso dizionario etimologico, pubblicato postumo, Etimologijski rjeénik hrvatskoga ili srpskoga jezika, Zagreb 1971l’ultimo di preziosi indici molto particolareggiati). Su tale 1974 (4 volumi densissimi dizionario (che a volte è stato elaborato dagli editori non rispettando il pensiero dell’A. anche a causa delle difficoltà di interpretare i suoi disordinati appunti), v. le soprattutto gli articoli di V. Vinja (allievo dello Skok) Romanica et Dalmatica dans Romanica et in Anglica «Studia serbe, croate dictionnaire ou étymologique premier Zagrabiensia» 33-36 (1972-73), pp. 547-571 e ivi 37/1974, pp. 149-185; inoltre F. Bezlaj, P. Skok, Etim. rjeénik hrvatskoga ili srpskoga jezika, in Radovi — knjiga LX della «Akad. nauka i umijetnosti Bosne i Hercegovine», Sarajevo 1977, pp. 21-60. 48 V. V. Vinja, L’Italia meridionale come centro d’irradiazione degli elementi greci nei dialetti serbo-croati della Dalmazia, in Studi in onore di E. Lo Gatto e G. Maver, Firenze 1962, pp. 685-692; Z. Muljaîié, Scambi lessicali tra l’Italia meridionale e la Croazia, in «Abruzzo. Rivista di studi abruzzesi» VIII; n. 1 (1070), pp. 45-55. 46
e
119
14. Si potrebbe tuttavia notare che in alcuni studi recenti sulla latinità balcanica, o sulle disquisizioni relative al latino balcanico, in generale, non si è prestata sufficiente attenzione agli elementi latini dell’albanese ed in genere di altre lingue non romanze della Penisola le quali ci serbano resti cospicui di latinità antica attraverso la t0ponomastica ed il lessico, come si può vedere anche da alcuni saggi di Ivan Petkanov, ed in particolare nella comunicazione generale Les éléments romans dans les langues balkaniques del 1965. Pel passato tutti gli studiosi nell’enucleazione degli elementi del latino balcanico (dal Bartoli allo Skok, dal Barié al Philippide ecc.) facevano spesso ricorso al cosiddetto «albano-romanico» e, a dir vero, ne parlano anche gli studiosi odierni anche se, come si sa, la lingua albanese dopo gli studi etimologici e grammaticali di G. Meyer”° — che aveva evidentemente esagerato nell’attribuire alla lingua schipetara una ricchezza sorprendente di elementi latini”! — ha subìto una notevole restrizione in codesta componente; essa rimane tuttavia sempre fondamentale e degna della massima attenzione anche da parte del linguista romanzo e del latinista. Dobbiamo riconoscere che molti interventi del latino nella morfologia albanese, supposti dal Meyer®?, sono stati criticati e convincentemente esclusi soprattutto da Holger Pedersen® e dal-
4a
In «Actes X Congrès intern. de Ling. et Philol. Romanes» III, Pari 1159-76. [Del Petkonov si veda ora (in bulgaro) il volume: Slavjanski romanskite ezitsi i dialekti, Sofia 1988, ed. della Accademia delle Scienze]. % Come è noto, G. Meyer considerava l’albanese una «lingua neolatina abortita» e nel suo contributo Die lateinischen Elemente im Albanischen, pubblicato in Grundriss der romanischen Philologie di G, Gròber (la seconda ed. fu rielaborata dal Meyer-Liibke, pp. 1038-1057) a p. 1039 così si esprimeva: «... Endlich spielt auch in der Wortbildung das Lateinische eine so grosse Rolle, dass man das Albanesische nicht mit Unrecht als eine halbromanische Mischprache bezeichnet hat». 49
*1
Si
veda
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suo Etymologisches
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Wb.
der albanesischen Sprache, Strassburg
1891 i
Vorrede pp. VIII-IX. In particolare si veda Albanische Studien I.: Die Pluralbildung der albanischen 1883 Einfluss des Lateinischen auf die albanischen Formenlehre i Mamina, del i filologia e linguistica nella Miscellanea filolog guistica in memoria di N. Caix e U Canello, Firenze
2
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3 H. Pedersen, Die Gutturale im Albanischen, in KZ 36 (1900), pp. 277-340, nel volume Albanische Texte mit Glossar, Leipzig 1895, ed in altri scritti SUCCESSIVI: Vv. 120
l’ebreo viennese Norbert Jokl che ha dominato il campo (considerato il massimo specialista di tali studi), tra il 1911 e la 2. guerra mondiale”?, un ramo dell’indoeuropeistica il quale si avvale tuttora di pochi cultori, tranne forse negli ultimi tre decenni. D’altro canto, in molti casi, non convincono nemmeno le spiegazioni grammaticali e lessicali presentate nella recente grammatica storica albanese — forse la prima del genere trattata in forma sistematica — dovuta a Stuart E. Mann (già autore di un criticato Historical Albanian- English Dictionary del 1948) e cioè An Albanian Historical Grammar, Hamburg 1977, con varie ipotesi campate in aria‘. Alla «potatura» dell’elemento lessicale latino nell’albanese hanno dunque contribuito in larga misura il citato Jokl e il suo allievo albanese, all’Università di Vienna, Eqrem Cabej, di cui si è recentemente pubblicata l’opera omnia in sei volumi a Prishtiné-Pristina, nella regione autonoma del Kosova-Kosovo”?. anche il breve articolo informativo di C. Tagliavini, Gli elementi latini dell’albanese, «Cultura neolatina» I (1941), pp. 90-93. 54 La bibliografia dei suoi scritti, e una rievocazione della sua figura di studioso des (deceduto in un campo di sterminio nazista nel maggio del 1942) si legge in Akten 3-21 la di H. e a 67-74 Oelberg) cit. (a cura pp. a pp. Alban. Kolloquiums... rievocazione di E. Cabej. $5 Un buon panorama dell’albanologia è fornito dallo studioso americano (uno dei migliori specialisti viventi) E. Hamp, Albanian in Current Trends in Linguistics 9.2, edito da Mouton (The Hague-Paris) 1972, pp. 1626-1692, e vedi anche Palok Daka, Bibliografi e studimeve dhe e artikujve pér gjuhén shqipe (1945-1974), Tirané 1975 (uno strumento indispensabile per lo studioso di albanese e di linguistica balcanica). 56 Assai più ponderata è invece la morfologia storica del Prof. Shaban Demiraj, Morfologjia historikè e gjuhes shgipe, 2 volumi, Tiranè 1973 e 1976, e di qualche utilità è pure il corso di dispense di M. Domi, Morfologjia historikè e shqgipes, Tiranèé 1961 [ora possiamo disporre di una grammatica storica completa e approfondita, Tiranèé 1986, di ben 1166 opera di Sh. Demiraj, Gramatikè historike e gjuhés shqipe, pagine]. 57 Un grande servizio all’albanologia e alla scienza hanno reso l’Università di Pri$tina-Prishtiné (Kosovo-Kosova) e il Prof. Idriz Ajeti nel pubblicare riuniti i principali scritti linguistici di Eqrem Cabej; essi sono ora facilmente consultabili (sono stati redatti tutti in albanese) nei sei volumi: Dr. Eqrem Cabej, Studime gjuhésore, Rilinda, Redaksia e botimve, Prishtiné 1975-77. Di particolare importanza uhèés shqgipe (con sono i primi due tomi, ove sono editi gli Studime rreth etimologjisé gj del secondo fine alla volume); tali in francese o lemmi inglese dei breve sunto 121
15. Il
Cabej, per l’ampiezza, informazione e profondità dei suoi studi, per la conoscenza diretta dell’ambiente e delle parlate, deve essere considerato, a buon diritto, il massimo albanologo viventi [purtroppo deceduto nel 1981]. In buona parte ancorate alle ricerche del Cabej, ma con diverse conclusioni generali a proposito delle romeno-albanesi del latino e si balcanico, convergenze muovono due studi riassuntivi di H. Mihàescu”8, molto utili ed informati (con qualche deficienza per quanto attiene il dalmatico). E sui risultati di codesti autori nell’ambito del lessico latino, ma senza alcuna visione critica dei problemi, è fondato il recente libretto di Harald Haarmann, Die lateinische Lehnwortschatz im Albanischen, Hamburg 1972 che ci dà una lista degli elementi latini sistemati in precise categorie nozionali*, Tale distribuzione non è di molto migliore di un analogo tentativo inserito nel capitolo L’elemento latino dell’albanese nella mia Introduzione allo studio della lingua albanese, Padova 1977, pp. 224-48 (dispense universitarie che, corrette e aggiornate, mi auguro di poter presto trasformare in un manualetto). Condivido le ampie riserve sull’operetta dello Haarmann espresse nella recensione di Norbert contributi etimologici originali (non si tratta di un dizionario etimologico completo e spesso bisogna ricorrere al vecchio Meyer) erano stati pubblicati in varie puntate nelle riviste albanesi, è precisamente in 27 puntate edite a partire dal 1960 fino alla undicesima in «Bul. Univ. Tirané (dal vol. XIV 1960, 4 al XVII (1963); poi, dalla dodicesima all’ultima, in «Stud. filol.» dal vol. I (1964) al V, 3 del 1968 (complessivamente 984 pagine). Nella nostra disamina delle voci albanesi citiamo, di norma entrambe le edizioni (la prima col numero della puntata e l’anno). Tra gli scritti HO2 compresi nella vasta miscellanea bisogna menzionare per lo meno la grandiosa edizione del Messale di Buzuku: «Meshari» i Gjon Buzukut ... in due volumi (in traslitterazione e in trascrizione con le foto dell’originale), Tirané 1968; esso era stato edito in precedenza da Il messale di Giovanni Buzuku, Città del Vaticano 1958 (senza commento). Una bibliografia completa degli scritti del Cabej si tro a von vi pp. 349-358 (fino all’anno 1976). °3 H. Mihàescu, Les éléments latins de la langue albanai. anaise l e Il PRESE IV ’ (1966), pp. 5-33 e 323-353. 59 Si tratta di un volumetto, senza grandi pretese, edito in «Hamburger Philolo| 19; nella nostra trattazione degli elementi latini dell’albanese gische sudien» : per comodità, facciamo riferimento, all’inizio, a tale opera h se essa offre non pera, anche
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Piuttosto modesto è pure l’articolo recente, in margine al lavoro dello Haarmann, dovuto a Michael R. Dilts, Peripheral Latiniiv in Albanian, «Romance Philology» XXX N. 2 (1977), pp. 283I3}oretzky6°,
298.
Secondo una statistica che fa capo soprattutto alle ricerche del Cabej, sia pure dopo l’ampia ripulitura degli etimi latini supposti del Meyer, si può ritenere che gli elementi latini d’epoca romana non siano molto lontani dalle 800 unità (alle quali dovranno aggiungersi varie voci di origine italiana risalenti all’epoca medievale e moderna e provenienti tanto dal Veneto, quanto dall’Italia meridionale)°!, Il Meyer aveva attribuito etimi latini a ben 1420 voci nel suo EWAS (assai incompleto come raccolta di materiali), di contro a 420 di origine autoctona ie. (720 parole sono ivi giudicate di origine incerta, 1184 di origine turca, 840 neogreca e 540 slava). L’elenco di Haarmann comprende 655 lemmi latini con continuazioni schipetare e spesso con vari significati. Ma conviene ora avanzare innanzi tutto qualche ipotesi anche per il recupero eventuale di voci latine che sono state estromesse, mentre, a nostro giudizio, non se ne hanno le prove sicure per tale rifiuto; ci sembra anzi di poter qua e là confermare l’etimo vecchio con nuove argomentazioni. Non va poi dimenticato che tanto lo Jokl, quanto il Cabej (o altri studiosi), pur intenti a riportare parte del lessico albanese all’elemento «autoctono», sia esso l’illirico, o il trace o il traco-illirico o il dacico (secondo recenti ipotesi di VI. Georgiev), hanno anche individuato alcune voci latine insospettate e spesso assai rare o uniche nella Romània (sia pure perduta) di cui bisogna tenere il massimo conto (ciò che non appare nel volumetto di Haarmann)‘?. Accanto dunque ad un elenco di oltre 400 voci la cui 16.
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.
Uscita in «Indogermanische Forschungen» 82 (1979), pp. 310-312. Per gli italianismi dell’albanese è ancora utile, anche se invecchiato, il lavoro di R. Helbig, Die italienischen Elemente im Albanischen, Leipzig 1903. 62 È molto utile a questo proposito l’articolo del Cabej, Albanische Beitràge zur Kenntnis des lateinischen Wortschatzes, in «Bollettino dell’Atlante linguistico mediterraneo» 13-15 (Studi offerti a Carlo Battisti e G. Rohlfs, Firenze 1976, pp. 36560 61
377.
123
attestata negli scrittori antichi (Buzuku e Budi) mentre l’allotropo kastigoj proviene chiaramente dall’italiano castigare — concha nel lat. tardo anche «volta» (Haarm. 125) > alb. kungé «Apsis,
Chornische, Seitengewòlbe», Leotti 583 kungé «altare», Cabej, Alb. soprattutto SGj. I, 300 voce già attestata in Buzuku (konké)- conùcùla (REW 2061, 2) (Haarm. 133) > alb. kanurkéèz «Kndàuel (von Nàhgarn)», «als Weberschiffchen dienende Spindel mit aufgewickelter Wolle beim Weben des groben Wollstoffs», Cabej, Alb. Beitr. 369 - coopertorium (REW 2906 «Decke»; manca ad Haarm.) > rom. càrpiàtor, transilv. curpiàtor, arom. calpitor «hòlzerner Deckel» s. cr. krpatur «coperta», it. copertoio, friul. koverdér, alb. kuptyré «Deckel», Cabej, Alb. Beitr. 369 — cratis (REW 2304) > alb. graté «Brustkorb», Cabej, Alb. Beitr. 369 e SGj. I, 213 (compare nel Catasto veneto ed in Budi), ma non si può escludere che la voce sia un venetismo — cucurbita, cuculbita (REW 2365; manca ad Haarm.) «zucca» > alb. kulte «Flaschen, Kirbis», Leotti 515 registra kulbe solo nel significato di «specie di pesce» (2), Cabej, Alb. Beitr. 369-70, SGj. I, 297 -fornicium «FEhebruch>» (REW 3453, ove fornicium con la lunga è erroneo; Haarm. 228 ha pure erroneamente fornice da cui il sardo logud. ant. forrithu «fornicazione» e l’alb. fur(r)regi «fornicatio, luxuria», attestato soprattutto da Buzuku e ora voce estinta; Cabej, Alb. Beitr. 369 e SGj. I, 200 furregi, furegi, forniki «kurvèriî» (meretricio). Va aggiunto a codeste voci: forneccio del Fiore (attribuito a Dante) e farneccio (che potrebbe leggersi anche forneccio) di un sonetto di Rustico Filippi (sec. XIII/ XIV) [v. qui 6] - rubia (REW 7409) «Fiàrberròte» > rom. roiba, it. robbia, sp. rubia, pg. ruiva e alb. rrojbé (manca a Haarm.) «Fiàrberdistel, Safflor» (la voce non è registrata in Leotti, ma v. Ndreca 283 rrojbéè/rrolbé bot. «Carthamus tinctorius» «Safranika, 3afranjka»), Cabej, Alb. Beitr. 369-70, SGj. IL, 101 - sagum (REW 7515) «kurzer Mantel», fr. saie «Mantel aus grossen Stoff» ecc., alb. shag «grosse Bodendecke» (la voce manca al Leotti, ma vedi Cordignano 189 shag -u «tappeto, qualunque cosa fatta per stendere sul pavimentela di lino che to, grossolana e gli oggetti se ne fanno»), Cabej, Alb. Beitr. 369-70, SGj. II, 122 — tradère «verraten» (REW 8828) > Beitr. 369 e
126
rom. tràda, it. tradire ecc., alb. truej, truaj «empfehlen» «versprechen» «geloben» «schwòren» (Haarm. 606) (i) truhen «empfehle mich» «flehe an», «begrisse», Leotti 1503 truanj «affidare, raccomandare; bestemmiare, maledire» Cabej, Alb. Beitr. 369-70 vernum, (in)vernum (REW 4126 hivernu; Haarm. 266 ha hiberninum) > alb. vérri «Winterweide» (manca al Leotti; Ndreca 335 vérri «ravnica, zimski pa$njak»), Cabej, Alb. Beitr. 369-70, SGj. Il, 286, ove si esclude l’etimo hiberninum e si preferisce inver-
num
(tempus) col suffisso -i.
Possiamo ora menzionare altre singolarità lessicali dell’albanese; tra gli elementi latini conservati da codesta lingua e universalmente riconosciuti citiamo, ad. es., per la terminologia religiosa, il nome del «Natale» e cioè il bel derivato di Christi natale > Keérshéndelle usato per lo più al plurale Kérshéndella(t) che il Mayer, EWAS 189 traeva da Christi natalia mentre, per ragioni fonetiche, bisogna preferire natale (anche Haarm. 100 ha -natalia) come ha proposto il Pedersen KZ 33,539, e vedi ora soprattutto Tagliavini, Storia di parole p. 509 (1 scritto Il è velare, come sa); v. Cabej XII (1966) 64 = SGj. I, 280, è l’unico riflesso di Chr. n. e che essa si la albanese che osserva voce ove al la forma corrisponde per greco xgLototyevva. La forma attuale della festa, krishtlindje, sembra essere un calco moderno della parola greca. Anche la denominazione del «sabato» è originale poiché risale — come pare verosimile - a Saturni dies (Haarm. 530) e cioè shtundé, shtuné, shétunè (etimo proposto dallo Schuchardt, KZ XX, 1872, 251); il Meyer, EWAS 405 tendeva a risalire al lat. sabbatum e così altri Setundstudiosi, mentre O$tir supponeva una origine da un il rimane Dubbioso di Tagliavicorrispondente illirico Saturnus. ni, Storia di parole 113 e 491, il quale conclude la sua disamina riconoscendo peraltro che «è possibile, per quanto non ancora definitivamente provato, che anche l’alb. e shtundé (tosco e shtuné) «sabato» risalga, in ultima analisi, al lat. balcanico sambata, come ha proposto il linguista croato Petar Skok»; ma all’etimo Saturni dies (denominazione ben nota, passata alle lingue germ. ad es. m. b. ted. sater(s)dach, neerl. zaterdag, ingl. Saturday e alle lingue celtiche: cimr. Sadwrn, bret. (di)sadorn), si attiene — secondo noi a torto — il Mihàescu, ELLA I, 38, mentre non trovo alcun cenno in 18.
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Cabej, SGj. Quanto al nome della «chiesa», l’albanese diverge dal romeno che continua basilica > bisericà (al pari del dalmatico che conosce basalka) e si rifà al tipo ec(c)1lisia > kishé (Haarm. 185) che si alterna con gishé e in antico klishé «Kirche», Leotti 459 kishéè «chiesa, tempio» 1174 gishé «chiesa»; si veda soprattutto Tagliavini, Storia di parole 273, 535 e 538 con ampia bibliografia. Anche lingue celtiche sembrano presupporre una forma analoga all’albanese, cfr. a. irl. eclis, bret. iliz, cimr. eglwys, il basco ha eleiza, eliza. P. Aebischer RLiR XXVI, 1963, p. 163 postula appunto una base * eclisia e forse tale variante si continua nel latino africano, v. i miei Saggi di linguistica italiana, Torino 1975, 447 ove cito Igliz, toponimo dell’Africa settentrionale in scrittori arabi (ma ivi i può rappresentare anche e). Si nota pertanto una frattura nel latino balcanico; l’albanese avrà accolto il termine dall’Italia meridionale. È da tempo noto che di basilica non si ha alcuna traccia nella lingua schipetara, anche se il REW citava sotto 972 basilica un alb. bjeske erroneo; v. Tagliavini, Storia di parole 536-7 il quale ricorda come l’errore sia stato introdotto nella letteratura specialistica da K. Jeretek; questi ignorava il significato dell’appellativo e si era fondato solo su toponimi. In realtà bjeshké (tale è la grafia corretta) vale «terreno boscoso, alta montagna, alpe, pascolo estivo» (Leotti 49) e lo Jokl LKU 165 sgg. ne ha proposto un etimo indeuropeo, v. Cabej I (1960), 59-60 = SGj. I, 68. Altre parole tipiche dell’albanese sono ades. * falcinea (Haarm. 205) > félginjé «Kinnbacken», Leotti 199 «mandibola, mascella», v. Meyer, EWAS 102 felk’ine, ove si cita anche il significato di «Spanne des Daumens und Zeigefinger» e si indica l’etimo corretto derivato da falx, cfr. rom. falcà «Kinnlade», «Wange», v. Densus. 283 e Cioranescu 317 falcd «... el cambiamento semdàntico de «hoz» a «quijada» se explica por la forma caracteristica de la quijada (cfr. sardo cavana «quijada» de cavana «falce» ); pero este cambio solo se da en rumano y en alb. feljkiné < ‘falcinea >»; non figura in Cabej, SGj.
le
19. Mancano, come pare, continuatori di bolea «salamandra» nelle lingue neolatine, mentre l’albanese ne serba traccia in bollé (Haarm. 41) «(harmlose) weissgesprenkelte Schlange», Leotti 52 bollé «lucignola (insetto)», «serpente senza veleno», Mass.-Butt. 21 128
boll/é-a zool. (Callapeltis Aesculapii) «specie di serpente non velenoso, biscia». Già il Meyer, EWAS 41, confrontava la voce albanese col rom. bdlaur «drago» e s. cr. blavor, blavur, ma propendeva per l’etimo belua. Il Cabej, Alb. Beitr. 373 osserva che da [j si avrebbe in alb. un doppio esito e cioè la 1 palatale o la velarizzazione della liquida; egli cita appunto anche bote bota = bollé al pari di cons i-
> késhill, evangelium > evangelum > ungjill «vangelo». Lo Skok ERHSJ I, 169-70 s. v. blavòr «ophisaurus apus, pseudopus apus» accenna alla nostra voce albanese e la ritiene di origine trace o illirica oppure un derivato del lat. belua. Accanto alla conservazione del nomin. imperator > alb. mbret, mret «re» (Haarm. 276), cfr. rom. împiàrat, l’albanese trae da tale concetto anche la denominazione per «Dio» da imperant(Haarm. 275) > peréndi che in origine presenta vari significati anche laici, come ha ora indicato e ribadito il Cabej, XVI (1965), 19-20 = SGj. II, 17-19; l’etimologia latina che risale già al Bopp, ripresa dal Meyer, EWAS 328, era stata scartata dal Pedersen, seguito dal Barié, dal Pisani ecc. i quali pensavano piuttosto a voce ie. da confrontare con l’a. slavo Perunù, lit. Perkunas, a. ind. Parjàanya, ma l’uso della parola nel senso di «regno» (Budi) di «sultano» e cfr. anche peréndesha «imperatrix» (in Blanchus), o di «monarchia» in P. Bogdan (1635), ci autorizza ora ad optare definitivamente per l’etimo latino: una singolarità dello schipetaro. Come afferma il Cabej si tratta di una espressione profana entrata nel vocabolario religioso. | Non mi risulta che il lat. accipiter (Haarm. 2) «Habicht» «Gabelweihe» abbia avuto dei continuatori neolatini poiché è presto prevalso acceptor -ére (REW 68), come conferma anche la glossa di Caper (CGL VII 107.8) accipiter non acceptor (Ernout-Meillet? 8). La continuazione albanese della voce classica è pertanto una rarità e l’etimo di gift (tale è la forma) «sparviero» (Leotti 1169) «nibbio (Mass.-Butt. 244) figura in Meyer, EWAS 226 (sotto K’ift; nell’arbéresh significa anche «aquila»), cfr. neogr. toi@tns. Secondo lo Skok, ERHSJ 1, 357 il s.cr. difta m. (Vuk) «tabernarius» «dutandzija» (peggior.) non avrebbe rapporto con cifut «ebreo» ma starebbe forse in connessione (?) con la voce albanese e neogreca, pur riconoscendo che la metafora non pare attestata; il Cabej non ne parla (ma l’evolu-
lium
129
zione fonetica sembrerebbe regolare almeno per quanto si riferisce al nesso -pt-, cfr. anche pr(a)ebiter > prift «prete»). Singolare è pure la continuazione del nomin. vomis (Haarm. 655) > umb, um (ghego) «Pflugschar», «vomere», già individuata dal Meyer, EWAS 457, mentre le lingue neolatine si attengono a vomer -ere (REW 9448) o a vomerea (REW 9450) (vomer per vomis è più recente, rifatto sugli altri casi). Un derivato originale che sta alla base della voce albanese è maiarium (Haarm. 330) > mahajér «Brachland» (manca al Leotti; Il Cordignano, Diz. it. alb. (1938) s.v. «maggengo -ese» riporta anche majuer e la nostra parola manca al Fjalor 1954). L’etimo è stato riconosciuto da N. Jokl, «Glotta» XXI, 121 sgg, ed è confermato dal Cabej, LLA 197 (ove menziona altri latinismi propri dello schipetaro quali *fundarium, ‘medicaster, "novaster ecc.) e vedi Cabej XIV (1964), 15 = SGj. I, 329-330 (vi è connesso anche majere «terreno disposto come a gradini», pl. di un majàr o majér da “*maiarium con metafonesi). Anche di otus, (Haarm. 404) «civetta» pare che non si abbiano derivati romanzi dato che il REW 6123 cita tra parentesi soltanto lo sp. autillo che esclude per l’aspetto fonetico (per codesta voce v. ora Corominas, DCELC I, 334, di origine incerta, ma probabilmente imitativa a-ut). In albanese si avrebbe come derivato hut, ut, huté «Eule», Leotti 363 hut «balordo, idiota, sciocco, huté gufo, barbagianni» e 1564 ut «gufo». L’etimo risale al Meyer, EWAS 460, il quale riporta anche un rom. uture «Horneule» con -ure tratto dal pl. (voce di scarsa circolazione!). Lo Skok, ERHSJ II 552, riporta ùtina (Vuk, Serbia) aumentativo di ut (Montenegro) «asio otus» e ritiene che essa tragga pure origine dal suo verso al pari della nostra voce albanese e del ngr. bt0s < lat. otus fr. «duc». Il Tagliavini, Origini$ 191 riporta un piccolo campionario di parole di origine latina tipiche dell’albanese tra le quali ad es. pashtrak «multa per abuso di pascolo» < pasturaticum (Jokl. «Glotta» XXV, 1936, 121-2); merger «controdote, arra» < mercarium (non menzionato da Haarm.); kujri «pascolo demaniale; pascoli del comune» < coheres + suffisso -i degli astratti, v. Jokl, «Vox Rom.» VI (1941-2), 207-232 (manca a *
*
Haarm. ).
130
20. Vorrei ora soffermarmi brevemente su poche parole che secondo gli studiosi odierni (specie per l’influsso esercitato da N. Jokl e in precedenza dal Pedersen) non sarebbero di matrice latina, come ribadisce anche il Cabej in vari lavori; oppure esse avrebbero scarsa probabilità di rientrare nel filone dei continuatori diretti da un latino balcanico. Mi limito per ora a pochissimi esempi e mi rendo conto che in alcuni casi non è stata detta ancora una parola definitiva su tale
tema. Non mi convince del tutto, ad es., l’esclusione dallo strato latino del vocabolario albanese di due parole parallele della terminologia della parentela; esclusione accolta dal Cabej, LLA 192 e precisamente nel caso di nip (ghego e tosco) «nipote», pl. nipér e del femm. mbesé «nipote femmina» che erano stati attribuiti, secondo noi con verosimiglianza, al lat. nepos e alla forma attestata nepotia (per il primo v. Meyer, EWAS 310). Va precisato che tali voci si riferiscono tanto al «nipote» (m. e femm.) sia da parte zio. Il Tagliavini, Stratif. p. 214, dopo aver vagliato la di nonno che principale bibliografia sull’argomento, rimane piuttosto incerto circa l’origine latina o indeuropea delle due voci, pur propendendo con esitazione per la seconda soluzione: «... i due termini per «nipote» possono essere sia indoeuropei che latini; la presenza della coppia «nonno-nonna» con voci indeuropee fa propendere per l’origine remota ie., mentre l’assenza di «zio-zia» (dal vocabolario di origine ie., autoctona) potrebbe far propendere per quella latina; ma è probabile che il senso primitivo sia quello di «Enkel-Enkelin» (cioè di «nipote da parte di nonno») e che sull’esempio del lat. nepos, si sia esteso anche per ‘Neffe-Nichte’». A dir vero codesto ragionamento non è interamente convincente per accettare senza grossi dubbi l’origine indeuropea poiché, tra l’altro, non sappiamo o non abbiamo le prove che nip dovesse veramente indicare in origine il «nipote da parte di nonno». Altrove il medesimo studioso (Origini® 189) osservava che «fra i nomi di parentela, mentre le voci per la parentela agnatizia sono, per la maggior parte, di origine ie., quelle per la parentela cognatizia sono di origine latina (si noti ungj «zio» da avunculus, kusheri «cugino» < consobrinus, krushk «pa-
di
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raninfo» < consocer, kunat «cognato», kunat/é-a «cognata», prind «genitore» < parente, fémnìj «bambino, prole» < familia, arom. fàmeal’e «famiglia, bambini» e rom. femeie «donna» )». Ma riprendiamo le argomentazioni fin qui prodotte. A contraddire l’etimo latino dell’alb. nip è stato soprattutto N. Jokl, LKU 17-28. Questi accetta la spiegazione del Meyer (1. cit.) come corretta per l’aspetto fonetico e cioè per quanto attiene la vocale i ed ammette che da un e si avrebbe dapprima un ie. ‘niepé (dato che -om, -am e -m si sono fusi in -é e, come sostiene il Meyer, tale forma intesa come un accusativo avrebbe dato origine ad un nominativo nip sull’accusativo nipné, regolarmente da accus. “niepnéè). D’altro canto lo Jokl, sulla base di altri esempi, ritiene che da una forma nepos, attraverso ‘nep(é)sh avremmo dovuto attenderci “nif con la caduta di -$ finale, cfr. ad es. episcopus divenuto nello scutarino ipeskf, accanto a tante forme (ora la lingua ufficiale ha ipeshkév). In realtà tale argomento fonetico mi sembra piuttosto debole e più avanti il medesimo studioso, per sostenere la sua etimologia ie., si avvale anche dell’argomento poco convincente del parallelismo, nell’origine, del femm. mbesé che «spricht wohl eher fiùr die Herleitung aus heimischen (idg.) Mitteln als fir Entlehnung». Per la forma mbesé «nipote femmina» pare che tutti gli studiosi siano d’accordo nel riconoscere come forma di partenza una variante di nepota (di qui ad es. rom. nepoatà o il veneto nevoda ecc.; forma attestata in Dalmazia CIL III 3173), nepotia frequente in epigrafi della Dalmazia e della Pannonia inferiore o della Mesia (Mihàescu, LLSE 293 cita CIL III 2599, 2690, 2756, 2798, 8441, 8875, 13013 tutte dalla Dalmatia, e dat. pl. nepotiis AE XXIX 1909, p. 240 dalla Pann. inf.; nepotiae pientissimae, CIL III 6155 dalla Mesia infer. e menziona il derivato dalmatico nepoga e alb. mbesé, REW 5891). Non mi pare davvero che tale forma possa esser qualificata «illirica» o di una lingua preromana (mancano gli argomenti e, secondo noi, non è determinante il fatto che tale forma sia stata per ora reperita soltanto nel «latino balcanico»); essa si spiega invece benissimo col semplice latino volgare e rappresenta un mezzo per superare la difficoltà di una confluenza di nepos -ote per indicare tanto il m. quanto il femm. 132
si
(come è avvenuto ad es. in italiano). Come sa, il femm. era piuttosto debole ed è stato rimpiazzato spesso da
neptia, nepoticia, nepotilla, nepticula
neptis nepta,
ecc. (vedi
esempi in Walde-Hofmann IL, 161) e di tali forme si ha attestazione nel latino della Dalmazia (v. sempre Mihàescu, !. cit.). Nepotia è costruito su nepota esattamente in modo parallelo a neptia su nepta per l’equivoco neptis (-a è assai più evidente per il femm.); e da neptia, attestato pure nel latino balcanico (CIL III 10541 Pannonia Infer. e in Dacia) abbiamo il veneto nezza o il fr. nièce, il prov. nesa (Alpi Marittime), ecc. REW 5893. Non vedo pertanto il motivo per ritenere nepotia una voce del sostrato balcanico, mentre essa ha tutti i requisiti per essere definita una normale variante di latino volgare. Secondo noi è pertanto assai verosimile che l’alb. mbesé «nipote f.» continuatore di nepotia (senza difficoltà fonetiche) possa essere restituito al filone latino; caduto pertanto il parallelismo invocato da Jokl, anche nip dovrebbe rientrare nel medesimo strato come forma corrispondente al veneto nievo (come si sa anche cognome, Nievo).
Sembrava accertato che l’alb. fshat (pl. fshatéra, fshatra) «villaggio» «paese» (onde fshatàr «villico, contadino, paesano, agricoltore»), Leotti 229-30, dovesse derivare, al pari del rom. sat (ant. fsat) «villaggio», dal lat. fòssatum (REW 3471; FEW III 740) «Graben» «Kastell». Gli albanologhi hanno invece dubitato e pare a loro esclusa codesta etimologia che a me invece sembra assolutamente certa. Così il Cabej VI (1962) 109-110 = SGj. I, 196-198, dopo aver respinto l’origine da massatum tende a scartare anche l’etimo da già riconosciuto da tanti studiosi (Meyer, EWNAS 112 e Alb. Studien 1, 28; Jokl, LKV 317; incerto, C. Bogrea, «Dacoromania» I, 253-ecc.); egli propenderebbe piuttosto per una voce autoctona, del sostrato (v. anche LLA 170). Si deve invece ricordare che fòssatum aveva il senso di «camp, fortification» e che tale termine appare come @oocoàtoyv in Procop., De aed. IV. 11, per la Mesia Infer. inoltre T'eoiuhagooocGtov, Procop. De aed. IV. 11, in Tracia; come osserva il Mihàescu, LLSE 304-5 «L’évolution sémantique nous fait croire que du temps de l’établissement des Slaves dans les Balkans
fossatum,
el
133
_— les villages romans étaient en liaison étroite avec les chateaux militaires ou se sont formés à partir d’eux» (v. anche P. Skok, ZRPh. L, 1930, 518). Mi sembra inoltre di apportare un nuovo argomento per
l’origine latina delle voci citate, albanese e rumena, mediante un riscontro col latino africano. Il Lewicki in un suo studio sulle sopravvivenze latine nell’Africa settentrionaleS3, riporta la forma toponimica F.satu, F.ssatù in AS-Sammahi che corrisponde a Fassato, Fossato (nella Tripolitania, in Guide italiane) da confrontare con Al-Fustat = il Cairo vecchio. Si tratta dell’ar. fustaàat o fussat «castello», «fortificazione», «accampamento militare» (Dozy, Suppl. II, 266b) dal lat. fossatum, attraverso il bizant. pooodtov; la resa di -st- da -ssrappresenta verosimilmente una ipercorrezioneS. E stato messo in dubbio anche l’etimo latino dell’alb. fluturoj «volare» e di flutur-a «farfalla». Secondo il Cabej, LLA 170 il confronto e l’etimo da fluctulare, flutulare onde rom. flutura, alb. fluturoj sarebbe erroneo. Oltre alla discussione della voce romena in Cioranescu 336 (che pensa in sostanza ad una creazione espressiva), si deve vedere l’amplissimo contributo di G. Alessio, Lat. pa pilio «farfalla» dall’onomasiologia all’etimologia (Bologna 1979) che, per le voci citate, ribadisce l’etimo da flutulare (da flutare, fluere), cfr. il fior. (Firenze, Borgo S. Lorenzo, Prato, Pistoia ecc.) Jiùtola «colombina» (Macroglossa stellatarum L.), Garbini I, 447, 473, 775, 957 e Il 1171, 1189 (ove si stampa, erroneamente, fintola!). Per l’evoluzione di flutare (fluitare) a fiutare, si veda pure Alessio, !. cit.; egli osserva tra l’altro che la forma fluctulare (REW 3384) «wogen» senza asterisco è foneticamente esclusa ed altrettanto fluitulare da fluitare (del Weigand, J. Rum. XVI p. 80). La forma flutare per fluitare è attestata in Lucrezio (III. 189, IV. 77); v. ora Alessio, Lex. Suppl. p. 173, con i lemmi flutare e flutulare «ondeggiare», ove è sistemato anche lit. fiùtola. 3 T. Lewicki, Une langue romane oubliée de l’Afrique du Nord, in «Rocznik orient.» XVII (Cracovia 1953), pp. 415-480. ‘4 Fondata sul passaggio di lat. -st- a s in arabo (Caesar-Augusta > Zaragoza, attraverso l’arabo, ecc.); cfr. in testi veneziani del sec. XIV Tonisto per Tunisi, ecc.
134
==
ua
zz
ona
O
Non mi convince l’esclusione dell’alb. shterpé «arido, secco, sterile» (di donna e di bestia), «infecondo», shterpé «capra o pecora sterile» shterpési «infecondità» (Leotti 1413), secondo Cabej, LLA 170. Mi paiono troppo stringenti i puntuali confronti riuniti dal REW 3072 sotto *exstirpus «unfruchtbar» che abbracciano un'area vastissima della Romània, con significati perfettamente identici, dall’area alpina a quella meridionale è siciliana. E resterei pure in dubbio nella analoga esclusione per l’alb. dérmoj «sfracellare, stritolare, fracassare, sminuzzare» (Leotti 111 dérmonj © Mass. -Butt.- 44). Il Cabej LLA 170 ne esclude l’origine da deramare, derimare, il ma la famiglia lessicale riunita in REW 2578 (tra cui anche rom. dirima «zerstòren» o arum. dirimare «idem»), sembra troppo vicina semanticamente e formalmente (anche se molte volte il verbo è rinforzato da un ex-: sdramdà, sdrami e anche sdrumà ecc.) per ribadito per il separarne la voce schipetara. L’etimo tradizionale è romeno da Cioranescu 377 e si veda Papahagi 379 per l’arum. dàrîm, dàrima «ruiner démolir, détruire, émietter», agg. diàrimat da lat. *‘deramare. Per il Cabej, SGij. I, 112 dovrebbe trattarsi, per albadromcèé nese dérmoj, di una formazione verbale derivata da dromèé, «mie de pain, miette». 1
+
AA
Ritengo inoltre ancora valido il concetto, sia pure un po’ sfumato, di «latino balcanico» che non va concepito come un «gruppo linguistico monolitico» poiché è ovvio che vi si notano un numero altissimo di concordanze col latino del resto della Romània ed in seno a tale latinità particolare balcanica si notano inoltre varie differenze. Anzi, secondo il Barié‘5, analizzando accuratamente le trasformazioni fonetiche del dalmatico, dell’albano-romanzo © del romeno, si potrebbe quasi dubitare dell’unità della lingua latina nell’Europa balcanico-danubiana. Ad una certa unità di alcuni filoni lessicali 21.
Aia:
C'=_
iapiogi
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65 H. Barié, Istorija arbanskoga jezika, Sarajevo 1959, ein precedenza Albanori menische Studien I. Sarajevo 1919. Per lo studio del latino balcanico è pure assai utile il volume di W. Bahner, Die lexikalischen Besonderheiten des fruhromanischen in 1. Limba latina, Sidosteuropa, Berlin 1970 e Al. Rosetti, Istoria limbii romàne Bucuresti 1960.
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«balcanici», ove contano assai più le concordanze albano-romene (e ancor più albano-dalmatico-romene) di quelle romeno-dalmatiche o albano-dalmatiche, concorrono vari fattori che si potrebbero identificare ad es. nei seguenti: 1) arcaismi degli elementi latini dell’albanese (e del romeno) che trovano spesso corrispondenza nell’arcaicissimo sardo; mi limiterò a menzionare armissariu (Haarm. 26) > harm(é)shuer, ha(r)mshuer «Hengst» Leotti 334 harméshuer «cavallo non castrato, intiero, stallone per allevamento», REW 177 admissarius, 2. armissarius ovesi ricorda il logud. ammessarzu, l’ant. it. merid. ammessaro e il rom. armàsariu, harmasar, Densus. 120, vedi anche Lozovan, «Orbis» III (1954), 129, ove si sottolinea come nel Medio evo armessaro fosse corrente nell’Italia meridionale e per lo scambio di ar- da ad- v. anche De Giovanni, ELDM 22 n. 64. Le forme sarde sono ora raccolte dal Wagner, DES I, 114 armissariu (Bitti, Orosei) «cavallo da monta» e Mihàescu, LLSE p. 277 ricorda armissarius, adm- nella Lex Sal. 38.2 ecc. Una concordanza stringente tra Sardegna e latino-albanese si ha nei continuatori di quasillum (Haarm. 482) «piccola cesta nella quale si conservava il gomitolo» > alb. kashile, kacile «Korb», Leotti 390 kacgile «canestro, cesta, paniere»; l’etimo corretto figura in Cabej X (1963), = SGj. I, 254 (contro l’ipotesi del Meyer, EWAS 202 che assegnava la voce albanese allo slavo kosh «cesto» ). Sulla rarità del sardo aveva attirato l’attenzione degli studiosi l’ Ascoli, Studi critici 1, 23, il quale osservava come da «canestrino la voce era passata nella forma logudorese e campidanese a significare «secchio di sughero specie per mungere» o «alveare» (soprattutto pieno)», v. Wagner, LLS 8 e 89, DES I, 3126313 asid du; inoltre G.B. Pellegrini, Saggi di linguistica italiana 388. Già assai antica è la forma cucuta per cicuta (Haarm. 154), attestata da Plauto e dalle iscrizioni di Pompei e continuata dall’alb. kukuté, kokuté «Schierling», «Art Fenchel» (ferula digynia), Leotti 714 kukuté «cicuta»; essa si continua nel rom. cucutà (Densus: 105), nel s. cr. kukuta ed è forma passata. anche nelle lingue celtiche, v. anche Mihàescu, LLSE 176. Un arcaismo dell’albanese è rappresentato anche dalla conservazione di 1lia (Haarm. 273) «Weichen» > ijé,
136
«Hifte / Seite, Flanke», Leotti ijèé «costola, fianco, lato», v. IX (1963) 133 = SGj. 1, 243 (ivi tutta la bibliografia); ma come Cabej si vede dal REW 4260 e FEW IV 545, la nostra voce è assai diffusa nella Romània; si confronti soprattutto il rom. iie e il salent. igghji, iggihia «fianco, parte laterale del corpo», Rohlfs, VDS 267. Da interilia si ha ad es. il sic. ntrigghiu «omento del maiale» (Gioeni 203), e v. soprattutto Alessio Sic. IL, 111. Non molto antica è oblata (Haarm. 304) > blaté, mblaté «Hostie», Leotti blaté «ostia» che è ugualmente assai diffusa nelle lingue e dialetti romanzi, REW 6012, cfr. soprattutto vegl. bluta «Art Gebàck» e otrant. lata «panino piatto», latedda «piccolo panino piatto», Rohlfs, VDS I, 287; altre forme in Alessio, Lex. Suppl. 284; v. Cabej XIV (1964) 24 = SGij. I, 337 e per i derivati gallo-romanzi FEW VII, 266-7 oblatus. Interessante è la continuazione di bubalus (Haarm. 47) > buell, buall (tosco) «Wasserbiiffel», Leotti 57 buall «bufalo», più antico di bufalus (oschismo), come mostra anche la conservazione periferica del primo, v. REW 1351, FEW I, 580, cfr. rom. bivol e bulg. bivol. Il Rohlfs, NDCal. 316 pensa che il calabr. gualanu, wuadanu «bifolco» possa derivare da un “bubalànus «guardiano di bufali»? Il Cabej 1 (1960) = SGj. I, 79 ha espresso qualche dubbio sull’esattezza dell’etimo albanese; da notare che anche il ngr. conosce BovBahos e che la voce arcaica è penetrata nelle lingue celtiche, Mihàescu, LLSE 277. Anche coma (Haarm. 120) > komé «Miàhne» (Tier), Zopt, Leotti 475 kom «crine» denota una certa arcaicità (REW 2071), specie rispetto a it. chioma da "cloma (comula). E utile osservare che la voce è nota al latino balcanico, cfr. rom. coamià «criniera», Cabej XII (1964) 72 kom m., koméè f. SGj. I, 287. ilé, ije
.
2) Alcune evoluzioni semantiche particolari del latino balcanico sono forse dovute in parte all’influsso delle lingue del sostrato e forse ancor più del parastrato greco e poi slavo; citeremo pochi esempi: conventus -um (Haarm. 134) > kuvént «(gesprochenes) Wort», «Unterhaltung, Gespràch»; «Versammlung, Konferenz», «Markt», «Messe», Leotti 539 kunvént -ndi «conversazione, colloquio, intervista, accordo, intesa, conversazione, lettura, discorso», «parola», «assemblea» e kuvendoj «parlare» presenta un riscontro abbastanza 137
puntuale nel rom. cuvînt «Unterredung», «Wort» (Densus. 282), e v. REW 2194, ove si menziona anche il ngr. kuvénda «Unterhaltung», «Rede» il soprasily. far kurvien «sich wundern», l’a. sp. conviento e i derivati rom. cuvîntàa «reden», poles. kontarse «wagen», lig. accoventao «gewalttàtig» (voce giudiziaria), ecc. v. qualche aggiunta in REWSF a. gen. convent «patto». Da aggiungere il feltr. conventar «osare» e, con evoluzione particolare, il friul. coventà «abbisognare, occorre> kKofe(re) «occorrere») da re» (che ricorda convenire co(n)ventare®‘, L’evoluzione particolare del romeno e dell’albanese, come si è proposto da tempo, si spiega mediante l’influsso del greco OuLà La «riunione, assemblea» da cui 6uLheîv «riunirsi» «venire alle mani» e nel greco tardo e moderno «parlare», ngr. rxovpBévta «conversazione», XOovuBevtLdtO «conversare»; v. anche Tagliavini, Storia di parole 340-1 e 552; Sandfeld, Ling balk. 34-35. Circa l’eventualità di uno sviluppo autonomo di conventus > cuvînt si è espressa Maria Iliescu, Contributie semanticà la etimologia lecemului romànesc: cuvînt‘’. La forma deriva da conventus «assemblea», non da conventum «trattato». L’evoluzione semantica da «assemblea > ass. giudiziaria > discussione > conversazione > parola» può esser considerata regolare e si riscontra in altre lingue romanze. Perciò non sarebbe necessario ricorrere all’influsso delle lingue balcaniche. La Iliescu cita il caso di placitum che aveva in latino il senso di «dibattito giudiziario» ed è passato nel retorom. occid. al senso di «parola» ed il valore intermedio sarebbe stato quello di «disputa» (v. Bezzola-Ténjachen 1091 s. v. Wort = pled). Analogamente vorbà dall’a. sl. dvorba «corte» e vorba in Dosaftei ha il senso di «riunione» e in Neculce di «parola». Ma anche quest’ultimo confronto pare invece rafforzare la tesi dell’influsso del parastrato greco e slavo nell’evoluzione di conventus nelle lingue romena e albanese; v. anche le osservazioni di Mihàescu, LLSE p. 300 (ove si cita un articolo di Ivànescu, SCL VIII (1957), pp. 509-513) s.v. conventus «assemblée» con esempi tratti da Niceta e si noti anche
e
convenire
66 Su codesti continuatori di (e varianti) ho intenzione in altra sede. re 67 In «Anale Filologie» (di Craiova) III (1974), pp. 199-205.
138
di ritorna-
ngr. xovBÉvta «conversazione», «compagnia» (prestito dal latino). Evoluzione particolare ed interessante offre la voce Rosalia (Haarm. 507) > Rshajé, pl. Rréshajé «Pfingsten», tipico del latino balcanico e delle lingue slave che hanno attinto al latino. I dati derivato albanese, essenziali sono riuniti dal REW 7376 (ove manca e assai meglio dal FEW X, 485, ma si può ora vedere la ricca esposizione (con bibliografia) in Tagliavini, Storia di parole 252, 513 e 530. Il primo contributo scientifico risale a F. Miklosich, Die Rusalien. Ein Beitrage zur slavischen Mythologie, Wien 1864 e ad esso hanno fatto séguito vari interventi. Nella Roma pagana e in tutto l’Impero si celebrava una festa (di origine orientale), dedicata ai Mani durante la quale si soleva ornare di fiori, ed in particolare di rose (onde Rosaria o Rosalia), le tombe degli antenati. Tale rito, come spesso avviene, è stato poi assunto dai Cristiani specie nelle parti orientali dell’Orbis romanus. Il nome cominciò a designare la festa di Pentecoste poiché le Rusalie si celebravano in primavera nel tempo in cui cadeva la celebrazione cristiana dopo la Pasqua. Si noti oltre alla forma albanese, il rom. Rusalii (anche Duminica Rusaliilor), il ngr. dovodhia, ma la forma rom. viene dallo slavo ant. Rusalija; per le attestazioni nel latino balcanico v. Mihàescu, LLSE 34, ad es. Rosalia CIL III, 11042 (Pannonia), ma anche V, 4488 (Italia super.). Qualche eco della nostra espressione si ha nella Romània occidentale, ad es. nel sardo sett. paska e vrores, Wagner, DES II, 228 e vedi Merlo, Stag. e mesi 170, si noti che nell’a. vallone passò ad indicare il mese di giugno o di luglio (mois de resaille). Nel (neo)latino balcanico mataxa (REW 5403) mantenne il senso di «seta»: alb. (Haarm.) méndafsh, méndash, ménash, «Seide», Leotti 704 méndafsh «seta», rom. matase «seta» e ngr. uetdEL (gr. uétaEa), Cioranescu 510 e Meyer, EWAS 272, il quale osserva che solo in Oriente la voce designa «Rohseide». Eccezionale è lo sviluppo semantico di bùcca nell’alb. buké «pane» (Haarm. 49), v. REW 1357 (impreciso per l’albanese). Il Cabej, Alb. Beitr. 375 menziona l’espressione di Petronio buccam panis «boccone di pane» che pare preluda all’accezione dell’albanese e si noti anche neogr. Boturoa, umovuxnié «morso» e l’alb. pér buké té gojés «fiùr einen Bissen Brot». Il romeno conserva il significato di il
il
139
bùcca
«guancia», «gota» (bucà, anche «natica») mentre da buccata (REW 1358) si ha bucatà «pezzo» (o bucatà de pîne «un pezzo di pane»). 3) Non mancano alcune innovazioni il cui centro va ricercato spesso nell’Italia meridionale (v. lemmi seguenti) e tra queste è indubbiamente paradigmatico ad es. il verbo ‘*(in)uxorare «uxorem ducere» tratto da ux or — concordanza romeno-italo meridionale da tempo segnalata, v. Densus. 220 e anche Lozovan p. 129, Alessio, Conc. p. 31 ecc. — che ha dato origine al rom. însura, macedon, e istror. însura (ove significa anche «prendere marito», con una generalizzazione comune). Il verbo è noto anche al dalmatico uzorizzare, nel veneto di Arbe uzorizare «sposare» (sec. XVI), Bartoli, Dalm. II, 276, Cioranescu 433. Ora possiamo spigolare varie forme nel latino medievale della Dalmazia, ad es. Stat. Cath. 83/a sec. XIV: «Pater uero ... si uero tertio uel pluries se uxorauerit»; Stat. Rag. 86/10 a. 1272 «... statuimus ut aliquis homo uxoratus venerit ad mortem ... de potestate patris in uxorandis filiis...»; Stat. Arbe 80/24 sec. XIV «fuerit uxorizatus ...»; Stat. Tad. 64v/32, a. 1305 «... si
mobilia sufficiant ad talem dotem, cum qua possit congrue uxorari...» (Lexicon latin. medii aevi Iugoslaviae, Zagabria 1978, p. 1229). Com’è noto l’area di inuxorare, uxorari (Pseud. August.) è laziale (roman. nsurare, alatr. assurà), abruzz., napol. calabr. (osserare, nzurare), pugliese e basilisca (v. AIS I, c. 69). 4) Comune centro di diffusione di un gruppo di voci e di varianti
per me significative per il latino balcanico (romeno-albanese, con frequenti riscontri col dalmatico o con altre lingue balcaniche) deve esser stata l’Italia meridionale per cui sono frequenti le concordanze balcaniche con i nostri dialetti abruzzesi, pugliesi, salentini, lucani, calabresi e siciliani. Mi limiterò qui a citare alcuni esempi, con osservazioni complementari, e con l’utilizzazione dell’albanese che a volte è trascurato nel noto saggio di G. Alessio, Conc.: vitricus (Haarm. 651) «patrigno» appartiene alla latinità ar| caica, come dimostra la sua distribuzione nelle varietà neolatine, 140
rappresentata da una cartina del Rohlfs, Romanische Sprachgeographie, K. 6 e p. 37: cfr. sardo centr. vìtriku, brìdiku (Nuoro), bidrigu (logud.), vidriu, birdiu (camp.) «patrigno», Wagner, DES II, 582; alb. vitérk equivalente di njerk rom. iatà vitreg ( (Ndreca 357), cioè di un novercus costruito su Cabej, SGj. II, 295 (manca al Meyer, EWAS) e LLA 179 e 193; e cfr. calabr. sett. vitricha, tata — «patrigno», vitrica «matrigna» e così pure lucano merid., Rohlfs, NDCal. 774. Vedi Alessio, Conc. 52, Sic. Il, 129 (è incerto se la Sicilia abbia appartenuto un tempo all’area di vitricus). Le migliori precisazioni sulla nostra voce sono state fornite dal Tagliavini, Stratif. 127 sgg. e soprattutto in «Mélanges M. Roques» III, 255-264 e si veda anche Origini‘ 392; l’albanese è l’unica lingua che ha conservata la coppia del latino classico
tata vitricus),
noverca,
vitricus/
noverca (> njerké). coctòrius (Haarm. 112) > koftor, koftuer «Heizgeràt», «Feuerstelle» «Herd» (manca al Leotti). La voce albanese è stata illustrata da N. Jokl, Balkanlat. Studien, in «BA» IV (1928) 195-6 ed essa manca al Meyer e ai comuni dizionari albanesi. E attestata da Al. Xhuvani (1922) e in libri scolastici come sinonimo di votér, votra «Herd» ed in uso a Korca; essa continua il lat. coctòrium attestato nell’ant. trad. lat. di Dioscoride. Cfr. rom. cuptor «Backofen», arum. cuptor e istrorom. coptor di significato analogo. Essa attesta la comunanza di latinità con l’Italia mediana adriatica e meridionale; si noti infatti abruzz. cuttura «caldaio, paiolo», chattura e varianti «paiolo di rame» (pentola, a. 1252 coctore), Giammarco, DAM I, 684, 525, calabr. cuttuorru -oriu «molesto, noioso per pigrizia» (lat. coctorius «cottoio») e cutrune «vaso di terracotta rotto o incompleto», Rohlfs, NDCal. 231-2 e Alessio, Conc. 26 che allega altri riscontri meridionali. cannata (lat. tardo, Haarm. 68) > kénaté «Weinmass» «Krug», «Behiàlter», Leotti 440 «boccale, brocca, orciolo, vaso di terra»; REW 1602a, ove si riportano vari derivati dei dialetti it. merid. e balcanici; abruzz. canndta e varianti «boccale di vino, vaso di terracotta simile all’orciolo che serve per tenerci olio, frutta sotto aceto...» Giammarco, DAM I, 404 salent. cannata, cannéto «misura di capacità per l’olio (circa 10 litri), boccale di questa capacità»; cfr. 141
calabr. e sic. cannata «boccale di terracotta», Rohlfs, VDS I, 103 e NDCal. 127. G. Maver, «Kanata», in «Slav. Revija» III (1950), 308-312 aveva tentato di interpretare tale voce, diffusa in varie isole della Dalmazia ecc., nel senso di «festino che si fa a lavori ultimati» (senso analogo al friul. licéf, slov. likof dal m. a. ted. Leitkauf), risalendo al lat. cenata attraverso il dalm. kanata. Ma tale spiegazione è errata, come ha mostrato Z Muljatié, kanata in «Linguistica» VI (Ljubljana 1964), 91-94. Si tratta infatti di cannata «recipiente», attestato anche nell’Alto Douro nella forma di pl. tantum canadas «paga feita em vinho aos trabalhadores rurais»; dunque si ha un noto passaggio semantico da «recipiente-misura» a «ricompensa per un lavoro prestato». La nostra parola è presente anche nell’arum. cànàta «cruche», ove verrebbe dal gr. xavd&ta «pot de terre» (di origine latina), Papahagi 265. c(h)ersydru (Haarm. 97) > kulshedér «Drache», «Ungeheuer», Leotti 509 kKucedrè «essere favoloso di sesso femm. che vive ordinariamente nei pozzi e si pasce di carne umana; mostro rappresentato ora in forma di donna ora di animale chimerico, orca, strega...»; v. Cabej, LLA 183. La voce viene dal greco yépovdpos, ma attraverso il latino e troverebbe una perfetta corrispondenza nell’Italia meridionale, v. Alessio, Lex. Suppl. 101 ch ersydros (-us) «sorta di serpente anfibio» (Lucan.) da cui ad es. calabr. sett. césaru «biscia d’acqua» e gesarazzu, cesarazzu «specie di serpe non velenosa», Rohlfs, NDCal. 161, 299 (senza etimologia) e otrant. cèsandro «serpentello non velenoso, biacco» e anche lèssandro, lìssandro «specie di serpentello non velenoso», lèssandra «biscia d’acqua», Rohlfs, VDS I, 135 e 291 (ma il R. pensa al gr. mod. èyevdga id.). L’Alessio menziona la glossa coluber: xégovègos (CGIL IL, 476.56) e boa: Xépovdpos (ivi III, 376.38). Si deve tuttavia notare la differenza d’accento che nell’Italia meridionale farebbe propendere per una ascendenza greca diretta. Manca al REW, mentre il FEW IT!, 635 cita soltanto derivati dotti (m. fr. Chersydre «sorte de serpent amphibie», ad es. Rabl. ecc.)68. ‘8
E da tener presente che tali voci risultano verosimilmente da contaminazioni
di antecedenti greci di significato affine, v. G. Rohlfs, Lexicon Graecanicum Italiae Inferioris, Tiùbingen 1964, p. 566 s.v. xépovdpos, ove si rinvia anche ad altre voci greche simili.
142
(Haarm. 128) > krushk «Schwiegervater», Leotti 499 «parente, padre della sposa, genitori dei due sposi, suocero, invitato a nozze, persona che accompagna la sposa, paraninfo»; REW 2166, ove sotto cònsòcer non si mette in evidenza la differente accentazione che è presupposta dal romeno e dall’albanese rispetto alle altre lingue ivi citate; v. Cabej, LLA 169 e Alb. Beitr. 373, ove invece si pone in risalto tale accento ritratto che accomuna I alb. col romeno cuscru e che si ritrova ad es. in c6mmater o compa ter > alb. kumtér «Taufpate» e rom. cumdàtru (inoltre in altre voci quali òleaster > voshter). Senza citare le voci albanesi, l’Alessio, Lex. Suppl. 120 giustamente segnala la medesima ritrazione d’accento in alcuni continuatori meridionali, ad es. salent. cruscu «COnsuocero» e cro$ca3 «consuocera» segnalati dal Rohlfs, VDS 173 ed aggiunge che dipenderebbero dal vocativo, «il Rohlfs non rendendosi conto della struttura della voce la ritiene dubbia, mentre è solo antiquata». Il Corominas IV 296 s. v. suegra cita consuegra -0 (Nebrija) da consòcrus ed osserva che dalla forma secondo l’accentuazione classica provengono il rom. cuscru e l’alb. krushk (ipotesi più verosi-
cénsocer
mile).
dux-duce
(Haarm. 182) > duq «Gewehrhahn», ma vedi anche Leotti 138 duq «cannella» e Ndreca 64 duq -i «slavina, Cep» (rubinetto, tappo). Si veda Cabej IV (1961) 68 = SGÌ. I, 148, ove si ritiene assai più probabile l’etimo da dux -ce piuttosto che da ductus, REW 2810a e FEW II, 196-7 (il Meyer, EWAS 77 derivava la nostra voce da ductus, ed Haarm. 183 scinde erroneamente il gruppo di significati dell’alb. dug anche «diinner Rohr, Réhr»). Voce e significato trovano perfetto riscontro nell’Italia meridionale, cfr. salent. duce, doce «cannella della botte, zaffo, turacciolo che chiude il foro della botte, cocchiume»; anche tuce, Rohlfs, VDS 211; cfr. inoltre vegl. dauk, logud. tuge (buone precisazioni già in Bartoli, Das Dalm. I, 290 e ora v. anche REW-SF, ove si riporta l’alb. dus (grafia nea). | nus (Haarm. 221) > fijan «Patenkind», L. 202 fijan «figlioccio». Il Cabej VI (1962) 95 = SGij. I, 183 annota che si tratta di una parola del vocabolario ecclesiastico divenuta popolare solo in una parte dell’Albania; i confronti con i dialetti meridionali e centrali |
ra
143
italiani si trovano in Alessio, Conc. 27 e v. anche REW 3296, cfr. rom. fin e aggiungi avell. figliano «parrocchiano, popolano» (Nittoli 103); per il s. cr. piljun v. ora Skok, ERHSJ II, 658 [in abr. fijanna «parto» ha altra origine, DAM II, 803]. lunter (Haarm. 326) > lundér, lundré «Boot», «Barkasse», Leotti 613 lundré «barca, battello, chiatta, gondola, schifo, tartana, grande barca del lago di Scutari» (manca al REW e al FEW); l’etimo è già in Meyer, EWAS 251 s. v. l’undré, ove si cita il confronto col rom. luntre e ngr. }évtoa. L’Alessio, Conc. 8 e 32 menziona i riscontri meridionali, si noti calabr. luntru «specie di barca per la pesca del pescespada», Rohlfs, NDCal. 375, nap. ant. londre m. (in Luise de Rosa, sec. XV), avell. lontro «pozzanghera» «pozza» «melma» (??), Nittoli 127; abruzz. léndra e lòndra m. «trògolo di legno ricavato dal tronco d’albero», Giammarco, DAM II, 1014 e v. anche Rohlfs, SVS 65 che cita il sic. luntru (Scobar e Senisio «sorta di barca», anche untru «barchetta doganale») e De Giovanni, ELDM p. 35 lunter che oltre il valore di barchetta aveva anche quello di «tino» «mastello» donde il molis. londro. offula (manca ad Haarm.) > alb. néfull «Kinnbacke», REW 6047 e v. Cabej, Alb. Beitr. 367, Leotti nofullé «mascella, mandibola, guancia». Un riscontro puntuale si ha nel napol. gusffolé s. f. pl. «ganasce», Altamura 130, con le varianti uéffule ecc., salent. uèffulu, uèfflu uèffolo «boccata. d’acqua o di vino, sorso di un liquido», «morso», anche vuèffula, gnòffulu, Rohlfs, VDS II, 782, avell. gùffulo «grosso boccone», Nittoli 118. Anche il Cabej, SGj. I, 383-4, oltre a precisare l’etimo (n-ofull «né ofull», agglutinazione), ricorda alcuni derivati it. merid. sarcinarius (Haarm. 528) > shelknuer, shélgéror (tosco) «gebogener Zapfen», ma vedi la definizione precisa in Cabej, LLA 181 «ein mit natiirlichen Haken versehener Pfahl, an dem die Hirten die Kaàsetùcher und die Geràte der Milchwirtschaft aufhàngen», «Pfahl als Stiitze an Weinstòcken», arnese che trova perfetta corrispondenza nel rom. sdrciner, sàlciner «arbre ou pieu sur les branches duquel les pàtres accrochent leurs objets». La voce sarcinarius è attestata in Cesare nel senso di «appartenente ai bagagli da soma» da sarcina e v. anche Lozovan, «Orbis» III (1954), 123-137. Nell’Italia 144
merid. si ha calabr. centro-sett. sarcinaru «grossa trave del tetto, trave maestra», Rohlfs, NDCal. 604, Alessio, Conc. 42; v. anche Cabej, SGj. IL, 132 e Alb. Beitr. 370 [Non so se l’abr. sarcinalo «uomo molto alto» 3taccénoa, possa aver rapporti con la nostra voce, DAM IV, 1829].
galgulus
(Haarm. 244, 245) > garbul, garguil, 243 gargull «storno, tordo, merlo, gargéll «Goldammer», Leotti allodola cappelluta» (ma in realtà si tratta del «rigogolo»); REW 3647 galgulus, ove si menziona il rom. grangur «Oriolus galbula» megl. gaigur, arom. gangur (Puscariu, EW 725). L’Alessio, Conc. 29 cita i corrispondenti nomi del rigogolo in dialetti merid. quali calabr. sett. gràvulu, gràdulu «rigogolo», RohJfs, NDCal. 310 e 306 e v. anche Alessio, Sic. I, 371, ove si cita sic. gàjulu, catan. sirac. djula (Gioeni 129); altri riscontri in REW-SF: march. grèàulo, gravio, glorio. L’etimo della voce albanese è già in Meyer, EWAS 119, v. inoltre Cabej VII (1962), 227 = SGj. 1, 206. In altri casi i riscontri romanzi delle voci tipiche del latino balcanico sono più ampi e non limitati all’Italia meridionale; così ad es. (Haarm. 28) > ashké, ashk, «Bruchstiùck» «Stick einer Schale: Scherbe», Leotti 24 «scheggia di legno, truciolo» che corrisponde al rom. aschie e vegl. yaska, si continua nell’it. merid. aschia, aska (avell. ascola «scheggia, sverza», Nittoli 32), Alessio, Conc. 18-19, ma anche in lingue occid. quali prov. e cat. ascla, port. acha ed inoltre nel sardo logud. ascra (Wagner, DES I, 133, logud. sett. asa «scheggia»), e v. Rohlfs, SVS 22, sic. asca, jasca «scheggia di legno»; REW 736. corda (Haarm. 136) > kordhézé «Darm», «Darmseite», Leotti 483 «intestino, budello, graticciata di budelli che viene arrostita allo
galbulus
e
galbulus,
assula/ascla
spiedo». Ricorda da vicino il logud. korda, kordùle, campid. kòrdula «intestini di pecora arrostiti», Wagner, DES i 380, lo spagn. cordilla «zerschnittene Gedàrme von Hammeln» ecc. (FEW II! 650) che risalgono al gr. xogò1j «Darm als kulinar. Ausdruck», voce passata al latino (Petronio); ma si noti anche il calabr. sett. mazzacorda f. «intestini di agnelli, capretti, tacchini intrecciati a stecco e cotti in tegame», «persona stupida», Rohlfs, NDCal. 400, avell. corda «minugia» Nittoli 81. L’etimo capitina (Haarm. 74) > kaptiné 145
«Zwiebel, Blumenzwiebel» e «testa di animale», cfr. rom. càpatinà, pare escluso dal Cabej, LLA 171 (non so se a ragione). Il Mihàescu, LLSE 28 cita capitina che sarebbe attestato una sola volta (ThLL. II, 348) e l’Alessio, Conc. 21 elenca i corrispondenti termini dei dialetti it. meridionali con significati diversi, ad es. sic. capitìinuda, capitinia «cocca del fuso» (Traina 112), v. anche Rohlfs, SVS 45, calabr. sett. capitìnula, capitinale «verticello superiore del fuso», Rohlfs, NDCal. 132 e vedi DEI I, 735, it. ant. capitino «capocchia del manfanile». nonnus (Haarm. 389) > nun «Pate», «Trauzeuge», Leotti 870 nun (pl. nunér) «padre spirituale, confessore, padrino, compare, parroco», corrisponde al rom. nun «idem», ma anche a voci analoghe dei dialetti it. meridionali, menzionate da Alessio, Conc. 35, ad es. calabr. nunnu, nunn «padrino», Rohlfs, NDCal. 482, lucano nunné, salent. nunnu ecc. Anche sardo logud. e campid. ha nonnu «padrino», nonna «madrina», Wagner, DES II, 171; v. FEW VII 189 nonnus «Mònch», «Kinderwàrter». E probabile che la corrispondenza di rom. scînteie, alb. shkéndìj «scintilla» «lucciola» (da scintilla, attraverso uno “scantilia per influsso di excandere, Cioranescu 734) col calabr. centr. di Gizzeria, prov. di Catanzaro scandiglia «scintilla» (Alessio, Conc 9) possa essere illusoria qualora la forma it. meridionale sia di origine albanese (Gizzeria è una ex colonia albanese). Nell’arbéresh è infatti nota la forma shkéndijé-a «scintilla, favilla» (Piana degli Alb.), e shkendilé-a ad es. a Frascineto (CS), secondo il Giordano. Di virgàriu (Haarm. 664) > vérgar «Ziege (auch Hengst) zum Zuchten», Leotti 1615 «cavallo non tosato» (e vedi Meyer, EWAS 470) si hanno continuatori anche nell’Italia meridionale, ma con diverso significato (che tuttavia ha una origine semantica analoga), v. Alessio, Lex. Supl. 442, ove è tratto da virgarius (da virga «verga») il calabr. sett. virgar «grosso succhiello» l’irp. vergara «succhiello» (Nittoli 245), il napol. vergola, vriala «succhiello» ecc. (è noto il traslato di succhiello e verrina tratti
il
da suculus da sus «maialino» e da verres, per la somiglianza dello strumento col membro del porco)”. L’Alessio, Conc. 33 menziona anche mergere > rom. merge «andare» e alb. mérgoj «Wegnehmen, beiseite legen» (Leotti 716 mérgonj «allontanare, esiliare» ), poiché nel Meridione si hanno tracce di demerctus per demersus da demergere; ad es. calabr. sett. dimiertu, demirté «ramingo, errante, misero», Rohlfs, NDCal. 238, napol. demìerta «ramingo, senza tetto» (da demerctus formatosi su erctus). Rappresenta una convergenza di qualche significato anche la conservazione di cogitare (Haarm. 113) > kujtoj, kuitoj «denken», «bedeuten», Leotti 513 kuitonj «pensare, ricordare, meditare», cfr. rom. cugeta (a. it. coitare) e soprattutto salent. cuscetare, cuscitare «preoccuparsi, darsi pensiero», Rohlfs, VDS 195, tarent. cuscitare «temer danno per alcuno», De Vincentis 78 ecc. v. REW 2027, ove si vede come la voce ricopra un’area assai più vasta; FEW IT! 841-2. Più importante la convergenza di canosa (Haarm. 69) > Kanushé, kanjushéè «Storch» (cicogna); si può ricordare ad es. sic. canusa «capra di pelo bianco», Rohlfs, SVS 31 crapa canusa «capra di manto color cenere», salent. canosa «sorta di pesce marino», verdesca Rohlfs, VDS III, 908 (con diversa etimologia). L’Alessio, Conc. 11 e Lex. Suppl. 72 ricorda la vitalità notevole di -d6sus nell’Italia meridionale e nel romeno (in genere nel latino balcanico) e cita un lungo elenco di aggettivi in -usu, cfr. anche vegl. avarous da avarus. La voce albanese presuppone canòsus da canus «canuto», «bianco» e rappresenta un traslato analogo al rom. barza «cicogna» da un aggettivo del sostrato analogo all’alb. bardhé «bianco», v. Cabej X (1963 147-8 = SGj. I, 265; cfr. anche sopras. chanuoss e valtell. canòs «grigio di capelli», FEW II! 238 canus. L’etimo dell’alb. edh «capretto» che si faceva risalire al lat. haedus (Meyer, EWAS 93) è stato contestato dagli indeuropeisti che preferiscono pensare ad una voce indigena (v. le varie ipotesi in Cabej IV, 1961, 113 = SGij. I, 158). L’Alessio, Conc. 30 menzionava il rom. ied V. G.B. Pellegrini, Tradizione e innovazione nella terminologia degli strumenti di lavoro, in Saggi di linguistica italiana, Torino 1975, pp. 336-7; Prati, VEI, Milano 1951, p. 952 s.v. succhio. 70
E. Giordano, Fjalor Bari 1963, p. 467. 69
146
i
Arbéreshvet t’Italise. Dizionario degli Albanesi d’Italia,
147
che ha un riscontro, oltre che nel sardo edu (Bitti, Lula) «capretto» (Wagner, DES), anche nel Meridione, ove peraltro non si conosce haedus, ma il derivato *haedastru, onde calabr. dastru «becco di un anno o due», dastra «capra giovane di un anno», Rohlfs, NDCal. 236, salent. lastra, rastra, abruzz. rijastré «capra di un anno» la continuazione di una latino è = ae, senza dittongo (ci ecc. Anche attenderemmo “hjedh), offre qualche difficoltà, non sono certo che l’etimo latino vada rifiutato. Avremmo un appoggio indiretto anche nelle aree periferiche della Romània in cui si conserva tale voce piuttosto arcaica. L’albanese, come i dialetti meridionali, continua facies (Haarm. 203) > fagé «faccia», REW 3130, 1 (ma l’area di facies è assai ampia nella Romània). Analogamente caries (Haarm. 79 > gere «tigna», mentre di norma si ha caria (REW
se
1692). I dialetti meridionali, al
pari del latino balcanico, hanno specializzato il Lallwort tata nel significato di «padre», rom. tatà (Densus. 192), alb. tat-é-a e vedi le forme merid. in Alessio, Conc. 48; si noti anche vegl. tuota. Non è forse casuale la conservazione di vèénètus «turchino» tanto in rom. vîndt SGj. «blu, violetto», quanto nel calabr. sett. ove si ha vènetru «giallo verdastro», «rosso scarlatto», vènatu «livido, cianotico», Rohlfs, NDCal. 760, v. Alessio, Conc. 52, ove si cita anche il napol. vèneta «ceruleo» (il Sacchetti conosce invece vinètico «colore del giacinto»). Ricordo infine una concordanza dell’albanese col toscano antico. Nella lingua balcanica si conosce un derivato del greco-latino bardithrun (Haarm. 37) con accento latino: balladér, ballandèr «Wasserfall», Ndreca 19 «vodopad» (cascata); v. Cabej I (1960) = SGj. I, 53 «chute d’eau, cascade» e vedi anche Cordignano 70 per «cascata» balladér (Lumé). G. Folena, Geografia linguistica e testi medievali", ha ritrovato varie attestazioni antiche di baràtro, balàtro in testi toscani antichi (e anche di baratto che sarebbe la fonte del tanto discusso baràttolo). Egli si richiama, al pari dell’Alessio, Lex. Suppl. 39, ai vari toponimi toscani riuniti dal Pieri, quale Balatro, Balatri, Balatrese 71
148
In Gli atlanti linguistici. Problemi e risultati, Roma 1969, pp.
(Pieri, TVA 303) che risalgono a bard4thrum (dal gr. B&padpov «voragine»); è dunque interessante la convergenza albanese-toscana che pare per ora isolata. Il REW 943 sotto barathron (gr.) citava tra parentesi il bologn. balatréòn «dunkler tiefer Ort» e il prov. bara-
trén.
Dal nostro campionario, ancora assai sommario ed incomplenota) che sia stata soprattutto la latinità meridionale ad. espandersi in epoca romana nella Penisola balcanica, risulti pienamente confermata. Le vie di penetrazione di tale romanità (per lo più arcaica), già indicate da storici ed archeologi (ed in primo luogo attraverso la via Egnatia), risultano a mio avviso ulteriormente comprovate anche dall’analisi linguistica per mezzo della presenza di particolari filoni lessicali. E d’altro canto è facile dimostrare di quale e quanta utilità risulti lo studio dei prestiti latini nella lingua albanese, tanto per la storia, in generale, del lessico latino, per testimoniarne la sua debolezza o vitalità, quanto per i linguisti romanzi che proprio nel lessico schipetaro potranno a volte riscontrare varie ipotesi, specie di ordine etimologico ed areale, analogamente a quanto avviene in molti casi per gli elementi latini della Romània perduta (v. ad es. Tagliavini, Origini’, pp. 17022.
to, ci pare che la tesi (del resto ben
173).
211-214.
149
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151
Il. ANT, FORNECCIO, ALBAN.
Il
Meyer-Libke nel
lornicare
REW®
FURRÈOQÎ «FORNICATIO»
registra alcuni derivati popolari del lat.
edi “*fornicium, non attestato; precisamente sotto
lemma 3452 «ehebrechen» che si continuerebbe nell’a. logud. lorricare e nel gallego fornegar, e (con scambio di suffisso) nel logud. lorroyare, gallur. forruggà, inoltre sotto 3453, ove è menzionato l’a. logud. forrithu e il derivato port. forrezinho «unehelich»; vedi anche DEI II1 1692 s.v. fornicare, con un cenno adun “fornicium che si ricostruirebbe sull’a. logud. forrithu!. Apportiamo in questa nota alcune correzioni e aggiunte ai lemmi del REW; ci serviremo per poter meglio sostenere l’esattezza delle nostre osservazioni anche di alcuni dati che ci vengono forniti dagli clementi latini dell’albanese il quale, nella conservazione di alcuni tipi lessicali rari, si accorda, come si sa, con le aree più arcaiche e isolate della Romània ed in particolare col sardo e con l’Italia meridionale (oltre che col romeno). E ben noto il trapasso semantico di fornix -icis da «volta» «arco», «stanza a volta» a «bordello» «lupanare» già in latino; anche nel primo significato fornix, attestato a partire da Ennio, pare avere una scarsa vitalità poiché, già nel primo secolo della nostra era, esso è sostituito per lo più da arcus, tanto che, mentre Cicerone (Verr. 1.7.9.) accenna al Fornix Fabianus, già in Seneca (Const. Sap. 1) si parla dell’Arcus Fabianus (detto anche Fornix Fabius sulla Via Sacra presso la Regia, Cic. Planc. 7.17, Quint. 6.3.67). Fornix aveva assunto nel frattempo il significato di «volta sotterranea», «portico a volta» e spesso «camera a volta» ove abitava il popolino e bazzicavano sopratil
L’esattezza della ricostruzione è riconosciuta anche da C. Battisti, Avviamento allo studio del latino volgare, Bari 1949, p.72. 1
153
tutto le prostitute, come
ci conferma Orazio (Sat. 1.2.30 ss. ed Ep. 1.14.21) o Giovenale (11.173; 3.156). Si noti inoltre Svetonio (Caes. 49) ove una persona (Cesare) che si prostituisce è definita fornix «bordello»: «(Caesarem) Curio stabulum Nicomedis et
Bithyanicum fornicem dicit». Di qui provengono una serie di derivati già latini, usati soprattutto nel latino ecclesiastico, quali: fornicor -aris (Tert. Pudic. 22; Vulg. Gen. 38.24, ecc.) sul modello di moechari «commettere adulterio», ma anche fornicare ed ex-fornicor (Itala) ed i sostantivi fornicator -6ris (Tert. Pudic. 1; 16.22; Vulg. 1. Cor. 5;11), fornicarius, fornicaria «fornicatore» e «prostituta» (Tert. Anim. 35, Pudic. 9.16); si noti in particolare Isid. Orig. (ed. Lindsay) 10.110: «Fornicarius. Fornicatrix est cuius corpus publicum et vulgare est. Haec sub arcuatis prostrabantur, quae loca fornices dicuntur, unde et fornicariae». E qui da notare che mentre si conoscono derivati, per lo meno toponimici, di arcuata?, mancano sicuri continuataori di fornix per via popolare; la qual voce latina (anche furnix) è parente di furnus; furnus (da ie. “"g“hornus) proviene da un “*fornicos o da un “furnic-s «a forma di volta di forno» (v. Walde-Hofmann I, 534 ed Ernout-Meillet® 442). Non mancano invece i derivati toponomastici di forma, formica ed anche formix «arcus, fornix», come ha indicato A. Prati. In latino si conosce anche fornicatio che soltanto in scrittori cristiani indica «adulterio» (Tert. Pudic. 1; 2.16,22; Vulg. Num. 14.33), mentre nei classici ha solo il valore architettonico di «volta» (Vitr. 6.11; Sen. Ep. 95, 53). Non bisognerà peraltro trascurare del tutto l’opinione di G. Alessio° il quale ritiene che fornix — icis possa essersi continuato nel calabr. sett. fuòrnice, fuòrniciu «specie di fagiuolo verde e molto Il tipo arcuata si continua verosimilmente in Arcovata (Cosenza) od in via dell’Arcovata a Firenze, cfr. it. ant. arcovata «fila di archi di un acquedotto». 3 Per l’alternanza di fornus/furnus v. le osservazioni di G. Rohlfs, Romanische Sprachgeographie, Miinchen 1971, pp. 32-33 e la Karte 1. A. Prati, Nomi di luogo, «L’Italia dialettale» VII (1931), pp. 221-5. G. Alessio, Lexicon Etymologicum. Supplemento ai dizionari etimologici latini e romanzi, Napoli 1976, p. 177. ’
+‘
®
154
fino» (Rohlfs, NDCal. 285) «forse con allusione al baccello arcuato (cfr. fàlcula), e deformazione della stessa voce potrebbe essere anc o il calabr. sett. cuòrnice «persona vecchia e scarna» (Rohlfs, NDCal. 223), propriamente ‘curvo come un arco’». L’ipotesi è seducente, ma
oa
andrà
iormente verificata. | dunque ai continuatori latini delle voci suddette è notiamo subito che esse sono note per lo più attraverso un tramite dotto in tutte le lingue neolatine (non mi risultano invece attestate in romeno), data la grande notorietà dei termini nel latino della Chiesa ed in genere medievale. Per il dominio spagnolo il Corominas, DCELC II, 951, osserva che fornix e fornax «fornace» si sono in parte confusi nel significato ed è interessante notare il derivato fornecino ne Poema di Alex. 1016 e nei Cantigos de D. Sancho, ove significa «fornicador» «fornicario» da fornix «lupanare»; sì Conosce pure fornaguero «fornicario» (Alex. 2210; Gral Est. I, 290a 47), e fornagar «fornicar» e fornicar come doppione dotto coni derivati fornicacior, fornicador, fornicario e fornicio (quest’ultimo in Berceo; certamen è di trafila dotta v. qui sotto). Si noti inoltre hornecino «bastar O, adulterino» (Nebrija). Per il portoghese ed il gallego Glbiana citato, per quest’ultimo, fornagar che non trovo nelle mie fonti) .P. Machado” attesta fornizio dal lat. fornicinus ed anche fornezinho la variante fornazinho (sec. XV) accanto ad una serie di voci di tra a dotta e semidotta, quali ad es.; fornicar ma anche fornigar (sec. XV), fornicagào £fornicatiò ne), forrico (lat. forniciu), Jornicio (incerto sec. XIII), fornigador, fornigueiro (sec. XV, fornicariu); forme ana ghe sono registrate anche da A. Nascentes®. Per il catalano, Moll VI (1954) 8-9 attestano: fornicaciò, fornicador -ora, fornica rìu (< fornicatrice), fornicaire (m e.f.), fornicar fornicar — aria, tutte forme di tradizione colta. icie: | parta il gallo-romanza ci informa, come sempre, a dovere,
pi
o.
o
E i I,
co
La voce non è registrata in Jose Ibafiez Fernàndez, Diccionario galego da rima e lego-castelàn, Madrid 1950, p. 88. | © | 1952 José Pedro Machado, Dicionario etimolégico da lingia portuguesa, Lisboa 6
i" pp.
1019-20.
-
-
Nascentes, Dicionario etim. da lingua portuguesa, Rio de Janeiro |
o
1932, p. 347.
155
FEW III, 725, ove sotto fornicàre «huren» si nota ad es. l’ant. fr. forniement «fornication» (raro!), il fr. fornication «pèché de la chair» (dal sec. XII) e il prov. mod. fournicacioun, inoltre fornicateurtrice (circa a. 1200), a. prov. fornicayris «femme de mauvaise vie» (1442), ecc. Il Wartburg ritiene che alcune forme siano di tradizione diretta ed in particolare la prima, ma le altre citate sono certamente prestiti dal latino: «Diese Wòrter aus dem Lat. entlehnt aus Scheu, die volkstiimlichen Bezeichnungen fiùr diese verpònten Dinge zu verwenden. Die Entlehnung ist hauptsaàchlich von der Kirche ausgegangen». Egli riconosce inoltre che anche nelle altre lingue neolatine la famiglia di voci che fa capo a fornicare è costituita da prestiti dal latino. In italiano si conosce fornicare («avere rapporti sessuali con persone di sesso diverso che non è il coniuge», «compiere peccato carnale») fin da Guittone (sec. XIII); il Battaglia, GDLI VI, 196-198 cita inoltre esempi da Fra Giordano, dalla Bibbia volg. ecc. Non mancano sensi figurati fin dal Buti: «intendersela segretamente con qualcuno» ecc. Si hanno i seguenti derivati: fornicato ant. «che ha commesso un peccato carnale, che si è reso colpevole di fornicazione»; fornicatore (Bartolomeo da S.), fornicario, fornicazione (B. Giamboni), anche in sensi figurati; fornicherìa ant. «fornicazione, piacere dei sensi, libidine» (B. Giamboni); fornificare «fornicare» (Ottimo). Tutte voci, come si vede, di origine colta, mentre può collegarsi alla nostra famiglia, per via popolare, farneccio (ant.) che anche il Battaglia VI 601 traduce «farnetico», un errore tradizionale tratto dai commentatori di Rustico di Filippo (o Filippi) il quale usa tale voce. Essa pare a prima vista un hapax del nostro autore, ma, come vedremo qui sotto, non si può escludere che la lezione corretta sia fornéccio. Riprendiamo ora il discorso sul ristretto filone sopra elencato che pare di tradizione ininterrotta. Tale è senza dubbio la voce sarda che è ora bene attestata e precisata dal Wagner, DES I, 534 s.v. forricare del logud. ant. documentata nel «Condaghe di S. Pietro di Silki» (ed. Bonazzi 80), e si vedano le forme tratte da codesto testo (furricare, «forricat Dericcor de Martin», furricait, fornicatila) nel Glossario della Atzori’. Il Wagner menziona anche forrithu (dal
medesimo Condaghe), furrithu, forrizu (et fegit a Orzoco in forrizu) nel 1. cit.) ed Condaghe di S. Michele di Salvènnor (v. anche Atzori, osserva che queste voci non sono più conosciute, ma sarebbe sopravvissuto forrigittu nel logudorese nel senso di «insolente» (Spano) eil campid. volg. farringu «puttaneria» (con adattamento in -ingu che denota azione), mentre il medesimo studioso esclude che il logud. vv forroyare, sass. (non gallurese come nel REW) forrugga «frugare» siano tratti da fornicare poiché nulla hanno in comune con codesta base (al pari di forrokrare stanno con it. frugare, cfr. veneto furegar idem). E certo che il logud. forrithu -izu proviene da un lat. tardo fornicium e di tale formazione si hanno ampie tracce nel latino medievale, mi basti rinviare al Du Cange IL-III (nuova ed. anastatica) 569, ove si ha fornicium «fornicatio» ed anche «muleta stupri» da Carta di Alfonso VI re di Castiglia dell’a. 1115 o da altra del 1018 («Neque pro homicidium neque pro fornicio»). Non ritengo peraltro che la forma citata dal REW, fornicium con i lunga (si notino anche i dubbi in Ernout-Meillet, !. cit) sia corretta poiché si deve postulare un fornicium con i breve, dato che i-cium come suffisso si attaglia bene al significato ed è confermato da altre voci affini; esso è assai verosimilmente continuato per via diretta dal toscano antico farneccio e forneccio (ma forse si tratta di una sola voce, con -0-). È risaputo che nel logudorese tanto 7 quanto i avrebbero dato l’unico esito i, per cui nulla osta che forrithu -izu venga da un fornicium. Tale problema era stato risolto correttamente da E. Parodi a proposito della voce forneccio che compare nel Fiore (attribuito a Dante), come equivalente del fr. ant. soussi, Vv. CXXIX, 13 «la scarsella aveva piena di forneccio» corrispondente al francese «Escharpe ot pleine de soussi» (Rom. de la Rose 13017)" e che molti intendono «borsa piena di truffa, affanno». Ma il Parodi richiama poi la voce farneccio in Rustico di Filippo ove esso significherebbe all incirca «bordello», «roba da bordello» propriamente «adulterio». Il Il «Fiore» e il «Detto d’amore» a cura di E.G. Parodi, Firenze 1922, p. 157 (Glossario). Nel Glossario di Dante Alighieri. Tutte le opere a cura di L. Blasucci, Firenze 1965, p. 844, il nostro forneccio è reso con «adulterio» o forse «truffa». 10
M.T. Atzori, Glossario del sardo antico. Documenti dei secoli XI-XIV, Parma 1953, p. 168 (non esente da vari errori di stampa). °
156
157
Massèrall aveva pensato erroneamente ad una equivalenza di farneccio con farnetice, seguito dal Marti? che traduce «farnetico, pazzia». Sia pure dubbioso, il Vitale'S, nel commento al sonetto XXVI v. 8: «Non dubbiate ch’egli era un bel farneccio!» traduce «Non dubitate che sarebbe stata una bella pazzia» (farneccio = farnètico), ma poi egli richiama l’opinione del Parodi qui citata. Più decisamente opta invece per il confronto con forneccio (del Fiore) G. Contini! col seguente commento: «se non sarà da correggere (o leggere?) forneccio, conforme al lat. medievale fornicium e al forneccio del Fio-
re...».
Per rendersi ragione nell’interpretazione corretta di farneccio © forneccio come «lupanare» o meglio «azione da puttana», «puttanata», «meretricio», basterà rileggere i primi versi del sonetto ove il verso 2. ha «Paleserò del vostro puttineccio...» e il 6. «Che noi stemmo a San Sabio in tal gineccio (equivalente del lat. mediev. 8ynaecium, genicium «lupanare», v. Du Cange). E da notare ora che ì-cium, è suffisso di puttineccio cioè «puttaneccio», cfr. il veneto putanézo, forma che si accompagna ad es. a ladroneccio «ruberia», cicaleccio, e soprattutto ai veneti pattegolezzo (voce da tempo adottata nella lingua italiana), putelézzo «bambinata» (dal ven. putèlo), diavolézzo, «diavoleria», bellunese matéz «matteria» rabiéz «stizza», ecc., suffisso esaminato da C. Salvioni.!5 con funzione diversa da [-cium che forma in prevalenza degli aggetSonetti burleschi e realistici dei primi secoli a cura di A.F. Massèra, Bari 1920 (e nuova ed. riveduta e aggiornata da L. Russo, ivi 1940), p. 161 farneccio «farnètico» Gil sonetto è intitolato dal M. «Di una certa prodezza di una donna libidinosa»). 12 Poeti giocosi del tempo di Dante a cura di M. Marti, Milano 1956, p. 58 son. "1
63
Rimatori comico-realistici del Due e Trecento a cura di M. Vitale, Torino (UTET) 1956, I, p. 159. 14 G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli (Ricciardi) 1960, vol. II, p. 363; v. anche riproduzione del medesimo testo in Poeti del Duecento. Poesia «realistica» toscana a cura di G. Contini, Torino (Einaudi) 1977, p. 13. Si veda ancora Rustico Filippi. Sonetti a cura di P.V. Mengaldo, Torino 1971, pp. 72-73. 15 «Studii di Filologia Romanza», VII, p. 223.
la
158
livi (eventualmente sostantivati)!’. Con queste osservazioni avremmo pertanto guadagnato un verosimile continuatore popolare (sia pure cioè > it. scarsamente attestato) di
fornicare,
fornicium
ant. fornéccio. Ma abbiamo anche la possibilità di ampliare il lemma citato del REW mediante un elemento albanese di origine latina. Si tratta di una voce perfettamente analoga o parallela, sulla quale ha attirato l’attenzione degli studiosi E. Cabej. Pare che la rarità lessicale schipetara sia oggi interamente perduta, tanto nella varietà del tosco (ove non è, del resto, attestata), quanto nel ghego. Ma sono sufficienti le forme messe in luce dal Cabej per assicurarci che essa ebbe un tempo una certa circolazione e che non va sicuramente considerata una voce dotta ripresa dal latino medievale. Essa figura soprattutto nel ghego di Buzuku (nel noto Messale edito nel 1555) che cito secondo la monumentale riedizione critica con commento e introduzione dovuta al medesimo balcanologo”’. Ad es. nei seguenti passi (cito dall’edizione interpretativa in trascrizione moderna): Atti degli Apostoli, Paul. Ep. ad Galatas 5.19, ove «Manifesta sunt autem opera carnis quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus...» tradotto un pò liberamente: «E tè dituna jané puneté e mishit, gi jané kéto: me turpènuom gruonèé e shogit, furégî, e paglana, e pam barshimeja, sherbétyura e idolavet...» (= Cabej II, LXXVII, 2. p. 295); oppure Ep. ad Corinthios I, 6.18 «Fugite fornicationem. Omne peccatum quodcumque fecerit homo, extra corpus est; qui autem fornicatur, in corpus suum peccat», tradotto: «E prashtu ikéni n furegiet. Pérse gjithé kat gi té ketè bam nierîi, anshtèé jashtèé korpit; e aj gi ban furéginé, pérkatenonetàé n dé korp té ti» (Cabej II; LXXXIX, 2 p. 383). Ma la nostra espessione si ritrova ancora — lo ha indicato sempre il medesimo linguista — nella traduzione in ghego del Nuovo Testamento del Kristoforidhi!%, ove la 16 G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, 1969, vol. III, p. 367-80. 17 «Meshari i Gjon Buzukut (1555). Botim kritik. Punuar nga Egrem Cabej (in due volumi): I. Pjesa e parè, Hyrje dhe transliterim, Il. Pjesa e dyté, Faksimile dhe transkribim fonetik, Tirané 1968. 18 Diata e ré ... kéthuem prei grek’i$tesé vietér, $k’ip ndé g’uhé gegéniste prei K. Kristoforidit, Elbasani, Costantinopoli 1872, p. 364.
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frase già esaminata nell’Ep. ad Galatas, 5, 19 suona: «... té tsilaté yané forneki, kurvèni, puganèsi...». Noto invece che in opere analoghe più recenti la voce è già scomparsa; così ad es. in Dhjta e-re tradotto peraltro in tosco (Korge 1930); si ha soltanto kurvéri: p. 497 «Lagoni kurvériné ... ay gè kurveron féjen mbè trupt tè vetéhes’sè ti» e p. 564 «té-cilaté jané pégéresi, kurvéri, ndyrèsi...». Il Cabej discute in varie occasioni del nostro termine! e ne sottolinea l’origine popolare, confermata anche dall’assimilazione di In > rr, come in luquerré «candeliere», taverrè (da lucerna e taverna)esinoti anche furrè < furnus, infernum > ferr, ecc., una assimilazione che abbiamo riscontrato anche nel sardo logud. forrithu (in Kristoforidhi -rn- sarebbe dovuto ad un ritocco arbitrario del medesimo traduttore). Quanto alla finale l’A. sospetta un incrocio col verbo gij «futuo», ma è assai più verosimile pensare ad un semplice ampliamento col noto suffisso -{ col quale si formano gli astratti?’ cfr. da bukur «bello»; bukuri «bellezza» da vogél «piccolo»: vogeli «piccolezza» «infanzia», da dhelpér «volpe»: dhelpèéri «astuzia» ecc. Come abbiamo detto, la forma albanese rappresenta in sostanza un bel parallelo del toscano ant. forneccio per cui il lemma sopra citato del REW 3453, oltre che confermato (con la correzione fornicium?!), può esser ora ampliato mediante i nuovi riscontri da noi riuniti, e cioè con l’aggiunta della voce toscana antica e di quella latino-albanese da fornicium + suffisso -i.
19 Si veda ad es. in Stidime rreth etimologjisé sé gjuhés shqgipe VI, in «Bul. i Univ. Shtet. té Tiranés» XVI, I (1962) p. 113, ora ripubblicato in E. Cabej, Studime gjuhésore, Prishtiné 1976, vol. I, p. 200 e v. anche del medesimo A., Zur Charakteristik der lateinischen Lehnwòrter im Albanischen, «Revue de linguistique» VII, 1, p. 174. Si vede anche H. Haarmann, Der lateinische Lehnwortschatz im Albanischen, Hamburg 1972, p. 126 nr. 288, ove sotto fornice (Ablt.) si riporta furrégi «Unzucht»; sarebbe stato preferibile partire da “fornicium. ° Vedi Dr. Pekmezi, Grammatik der albanischen Sprache, Wien 1908, p.
222.
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IL LESSICO DELL’ARBÉRESH ED I TURCHISMI"
Ho partecipato, dodici anni or sono, ad una «Conferenza sulle minoranze» che si tenne all’Università della Calabria, in cui si discusse soprattutto dell’arbéresh, cioè dell’albanese d’Italia e dei problemi inerenti all’insegnamento di tale idioma. Le opinioni dei presenti cerano piuttosto varie, ma in sostanza lo schieramento dei sostenitori di tale iniziativa (tutti ne riconoscevano la non obbligatorietà) si poteva suddividere secondo due proposte: 1) insegnare la parlata alloglotta locale (era una proposta che sembrava maggioritaria); 2) insegnare l’albanese ufficiale, cioè la moderna gjuhé kombetaré impostasi in Albania dopo la fine della seconda guerra mondiale come 1.
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te: -
o
Faccio seguire qui subito una lista di abbreviazioni delle opere spesso cita-
Arab. = G.B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia, due voll. Brescia 1972. | Arab. Sic. = G.B. Pellegrini, Ricerche sugli arabismi italiani con particolare alla Sicilia, Palermo 1989. riguardo ® | | Bor. = N. Boretzky, Der tiirkische Einfluss auf das Albanische Teil 2. Wòrterbuch der albanischen Turzismen, Wiesbaden 1976. | | | Bor. 1 = N. Boretzky, Der tiirkische Einfluss auf Albanische, Teil. 1. Phonologie und Morphologie der albanischen Turzismen, Wiesbaden 1975. | Convergenze = G.B. Pellegrini, Convergenze italo-balcaniche negli elementi di origine orientale, in «Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo, 1968, pp. 205-35, ora nel volume Saggi di linguistica italiana, Torino 1975, pp. è
.
.
-
420-444.
| | | di Corrispondenze = M. Cortelazzo, Corrispondenze italo-balcaniche nei prestiti da turco, in Omagiu lui A. Rossetti la 70 de ani, Bucuresti 1965, pp. 147-152. Dizdari = T. Dizdari, Huazime orientalishmash nè shqipet, in Bul. Un. Shtet. té «Stud. 161-180; 1, Tir. SSh. Sh. 3 (1960) 239-263, 4 (1961) 181-200, 4-160-177, (1962) Fil.» 1964, 2, 95-119; 3, 75-89; 1965, 1, 47-77, 3, 85-100; 1966, 1, 121, 137 [opera imponente, non completata]. | | | Smirne = Nuovo dizionario turco-italiano compilato da P. Angelico da 1955. Emilia Smirne, Cappuccino, Reggio dal
a
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lingua unificata con prevalenza, nella sua costituzione, del tipo tosco! Questa seconda soluzione era sostenuta soprattutto dal Padre Prof. Francesco Solano che insegnava allora lingua e letteratura albanese presso quella Università, autore, tra l’altro, di una buona grammatica scolastica schipetara. Nel mio breve intervento mi schierai subito a favore della seconda soluzione che presentava vari vantaggi e una reale probabilità di realizzazione. Quale albanese locale delle aree italiane meridionali si Dozy = R. Dozy, Supplément aux dictionnaires arabes, 2 voll. Leyde 1881. FI = Hysen Voci, Fjalor italisht-shgip (rreth 15000 fialé), Tirané 1980. FS = Fjalor i shgipes sé sotme, Tirané 1984. Giord. = E. Giordano, Dizionario degli Albanesi d’Italia/Fjalor i Arbéreshvet’Italisé, Bari 1963. Hony = H.C. Hony, A Turkish-English Dictionary, Oxford 1947. Kazim. = A. de Biberstein Kazimirski, Dictionnaire arabe-francais, nuova ed. Paris
1960 (2 voll. ).
Lok. = K. Lokotsch, Etymologisches Wòrtebuch der europiàischen... Wòrter orientalischen Ursprungs, Heidelberg 1927. MB = C.B. Massolini/U. Buttafava, Vocabolario albanese-italiano / Fjalor shqipitalisht, Roma 1979. Sain. = L. $aineanu, Influenta orientalà asupra limbei si culturei romàne, Bucaresci 1900 (3 volumi), Ska. = A. Skajljié, Turcizmi u srpskohrvatskom jeziku, Sarajevo 1966. Sandfeld = K. Sandfeld, Linguistique balkanique. Problèmes et résultats, Paris 1930.
Stach. = St. Stachowski, Studien iber die arabischen Lehnwòrter im OsmanischTiirkischen, 4 voll. Krakéw 1975, 1977, 1981, 1986. Steing. = F. Steingass, Persian- English Dictionary, London 1957. Tanis = Asim Tanis, Grande dizionario didattico italiano-turco (2 voll.), Istanbul 1986 (manca, per ora, la parte inversa). Si tengano presenti anche le segg. abbreviazioni: ar. = arabo; a. ind. = antico indiano; arb. = arbéresh; alb. = albanese; bg. = bulgaro; pers. = persiano; rom. = romeno; t. = turco; sb. = serbo; sb. cr. = serbo-= croato. Tanto per l’unificazione dell’alfabeto (Alfabeti i Monastirit), quanto per la standardizzazione della lingua albanese, ed i vari convegni tenutisi in proposito in Albania, dà notizie precise M. Lambertz nel suo Lehrgang des Albanischen, Teil III Grammatik der albanischen Sprache, Halle 1959, pp. 29-32; v. ora anche la notevolissima opera (purtroppo postuma) di Namik Ressuli, Grammatica albanese, Bologna 1985, in particolare l’amplissima Introduzione. 1
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sarebbe dovuto insegnare? Non mancano infatti varie differenze in seno alle parlate dell’arbéresh con un inserimento più o meno profondo delle notevoli interferenze (e di un lessico) italiane e con la rilevante difficoltà di costruire una nuova lingua di fondamento calabrese (?), cioè di una regione ove si accentra il numero maggiore dei locutori. Insegnare ed imparare prima l’albanese ufficiale comporta alcuni vantaggi da non sottovalutare. Solo seguendo questa iniziativa si viene ad apprendere una lingua autentica e finalmente standardizzata (la normalizzazione della grafia, come è ben noto, risale già al 1908, al convegno di Monastir/Bitola); per vari particolari, specie linguistici, si tratta di un idioma molto interessante. L’albanese infatti è una lingua indeuropea veramente singolare, ricchissima di lessico con una origine assai differenziata in cui primeggia, oltre al fondo indigeno, un filone latino spesso originale, con alcune particolarità in comune col romeno in seno alla «lega balcanica». Va detto inoltre che l’albanese è, forse, il più tipico rappresentante, a volte paradigmatico, anche per lo studio degli altri idiomi della «Penisola dell’Haemus». 2.
3. Quali siano gli strumenti per insegnare la lingua albanese, costituisce pure un problema di una qualche difficoltà. Secondo noi sarebbe necessario inviare in Albania un certo numero di maestri elementari o di insegnanti di scuola media che abbiano particolare interesse per tale iniziativa (con l’incentivazione di un eventuale soprassoldo) onde essi possano con facilità ripulire la loro parlata dialettale «sciacquando i panni nello Shkumbi». Sono certo che le autorità albanesi li accetterebbero senza tante difficoltà burocratiche e politiche e sarebbero disposte ad organizzare dei corsi specifici onde ridare agli antichi fratelli una parlata corretta e accettabile, con un lessico adeguato alla lingua ufficiale, con un minimo tolleranza per allo del resto non mancano alcuni italianismi (che shqip). E per me quasi inammissibile che si istituiscano presso le Università italiane meridionali tante cattedre di lingua e letteratura albanese che potrebrilassatezza dei nostri costumi universibero essere occupate — data
di
la
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tari — da chi conosce ben poco di scientifico e che esibisce per i concorsi qualche breve articolo o alcune traduzioni senza commento. Ma ritorniamo ora a discutere o meglio a rilevare alcune difficoltà costituite dalle differenze che più o meno si possono incontrare tra le due favelle. Va subito detto che le varietà dell’arbéresh sono state oggetto di parecchi studi, spesso assai approfonditi, a partire dai lavori di M. Lambertz? per giungere a quelli moderni di vari specialisti ed in particolare dell’indoeuropeista americano E. Hamp che dedicò la sua tesi dottorale al dialetto di Vaccarizzo Albanese? e soprattutto alle numerose monografie di Martin Camajt. E non si dimenticherà qualche scritto sull’albanese di Sicilia dovuto ad Antonino Guzzetta e ad altriò. Un lavoro complessivo sul lessico 4.
2 V. specialmente M. Lambertz, Albanischen Mundarten in Italien (mit einer Kartenskizze) «Indog. Jahrb». Il (1914-15), pp. 1-30 e del medesimo A. una serie di ricerche pubblicate col titolo di Italoalbanische Dialekstudien nella «Zeitschr. f. vergleich. Sprachforschung» LI (1923), pp. 259-90, LII (1924), pp. 43-90 e LIII (1925), pp. 66-79 e 282-307; ivi anche uno studio su Giulio Variboba LXXIV (1956), pp. 47-122 e 185- 224). Un buono excursus sulla dialettologia italo-albanese si legge anche nel suo Lehrgang cit. pp. 14-24. 3 Ho avuto l’occasione di consultare la tesi dottorale di E. Hamp depositata in dattiloscritto alla UCLA di Los Angeles. 4 Di Martin Camaj ricordo ad es. Zur albanischen Mundart von Barile in der Provinz Potenza, «Disserationes Albanicae» XII (1971), pp. 127-140; La parlata albanese di Greci in provincia di Avellino, Firenze 1971 (da noi recensita in «Parole e Metodi» III, 1973, pp. 113-118), Die albanische Mundart von Falconara in der Provinz Cosenza, Miinchen 1977, ecc. 5 Di A. Guzzetta menziono Osservazioni sulla parlata siculo-albanese di Piana, in «Boll. CSFLSic.» IX (1965), pp. 237-48; La parlata di Piana degli Albanesi; Parte I. Fonologia, Palermo 1978, e sempre del medesimo A., Per una descrizione funzionale della morfologia del sostantivo nella parlata arbresche di Contessa Entellina, in Studi albanologici, balcanici, bizantini e orientali in onore di G. Valentini S.J., Firenze 1986, pp. 75-107; v. anche M. Sciambra, Stato attuale della parlata di Contessa Entellina (Sicilia), in «Orbis» XIII (1964), pp. 411-19 e Le epigrafi sepolcrali esistenti nella chiesa di Palazzo Adriano, «Shèjzat» IX (1965), pp. 230-39. Su Villa Badessa, oltre ad un lavoro di Camaj, si veda ora O. Veggetti, Villa Badessa. Da isola linguistica a oasi rituale, in «Abruzzo» XXII, 1983 n. 1-3, pp. 1-33 (dell’estratto) e v. da ultimo F. Altimari, La parlata di Macchia: Appunti fonologici, da «Zjarri» XVI (1984), estratto di pp. 26.
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arbéresh, assai meritorio anche per lo spoglio dei autori (forse un po’ manchevole per la Sicilia e per qualche svista nell’elenco dei paesi allogotti), è opera di E. Giordano, Fjalor i Arbéreshévet t’Italisé/ Dizionario degli Albanesi d’Italia del 19636. Qui non mi soffermo a lumeggiare le principali differenze fonetiche e morfosintattiche tra i due linguaggi per le quali si possono consultare i lavori degli specialisti citati ed una breve sintesi di E. Cabej’. Non v’ha dubbio che i principali motivi di divergenza sono dovuti: 1) all’isolamento delle colonie albanesi d’Italia (esse non hanno accolto le innovazioni determinatesi nella madrepatria in circa cinque secoli); 2) alla forte pressione esercitata sulle loro favelle locali dai dialetti italiani meridionali che hanno dapprima occasionato anche un bilinguismo con evidenti fenomeni d’interferenza e successivamente l’indebolimento dell’idioma alloglotto, in particolare per il lessico. Potremmo qui citare vari esempi d’interferenza ecc., ma ci limitiamo a constatare soltanto l’evoluzione contraddittoria ed opposta, cioè da un lato: 1) la conservazione dei nessi con ! (accanto, alla loro risoluzione) in molti casi in cui [ non compare ormai più nello shgipo, specie ufficiale e moderno, mentre esso è ancora attestato negli autori antichi.. È ad es. il caso di gjuhé «lingua» che nell’arb. è più frequentemente gluhé, glas per gjas «assomigliare», glasmé-a «somiglianza», glate «lungo» per gjaté, glishtéj-a «ditale» per gishtéze, glunjézoj -ohem «inginocchiarsi» per gjunjézonj (ora gjunjézoj) e non manca l’arcaico glu «ginocchio» per gju-ri ecc. (ma il Giordano segnala a volte anche forme col nesso già risolto). Non manca ovviamente e parallelamente KI per q, kléné per géné «stato» (part.) da jam, klishè per kishé, gishé «chiesa», kluméèésht «latte» per qumésht, ecc. Ma si dà anche il caso contrario per cui l’albanese conserva bene il nesso che spesso invece è risolto® nelle E. Giordano, Dizionario degli Albanesi d’Italia, Bari (Edizioni Paoline) 1963 (qualche svista nella elencazione delle colonie albanesi). 7 E. Cabej, Storia linguistica e struttura dialettale dell’albanese d’Italia, in Problemi di morfosintassi dialettale, Pisa 1976, pp. 5-30. 8 Ma in Albania si ha la risoluzione del nesso con L in particolare: «nelle regioni gheghe (piuttosto dell’Albania media che dell’orientale) ci porta il passaggio della liquida L alla semivocale j dopo la labiale p, b, nei vari dialetti del fiume Crati nella Calabria centrale in casi come pjot «pieno», bjej «compro», fjamur «bandie6
già
f
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colonie italiane, ad es. cito per bl: bjenj per blenj «acquistare» (ora blej), bjeg-u «pianto angoscioso» per brengé «angoscia», bjuanj «macinare» per bluanj (bluaj); è pj per pl, ad es. pjak-u per plak «vecchio», pjaneps-énj per planepsenj «ingannare», «lusingare», pjasé per plasé «fessura», pjoté per plot(é) «pieno», pjùar, pjori per plori «vomere», pjep-i per plep «pioppo». Anche fl può essere risolto: fjamur-i «bandiera» per flamur; fjas per flas «parlare», fjeté «foglia» per fleté, fje, fjéj «dormire» per flej, fjok-u, «fiocco» per flok, fjutur-a «farfalla» per flutur-a ecc. E evidente che nel secondo caso si tratta di risoluzione di ! favorita dall’influsso italiano”. 5. Quanto alla morfosintassi è ovvio che si notino varie semplificazioni nell’albanese d’Italia e un massiccio influsso delle confinanti parlate italiane. L’interferenza italo-albanese è costantemente sottolineata dagli studiosi sopra citati e non mancano i casi inversi in cui si capisce come l’italiano regionale degli originari albanofoni sia calcato sulla lingua d’origine!. Ma ciò che caratterizza l’arbéresh rispetto allo shgipo è ancor di più il lessico ed in particolare la mescidanza col vocabolario italiano che si può già constatare, ed in larghissima misura, in uno dei primi scrittori quale Giulio Variboba di cui possediamo finalmente una edizione critica affidabile con un prezioso glossario. Da tale lista di parole trascelgo qui sotto gli italianismi evidenti delle due prime
lettere,
ra», Colà conduce inoltre qualche forma come opangé «sorta di sandalo», pure in Calabria, per il tosco opingé e katérdjet «quaranta» di S. Marzano nelle Puglie, nel tosco dyzet. In ogni caso è di origine balcanica il trapasso della liquida (?), scritta Il, alla spirante velare sonora gh (g) a Piana degli Albanesi e nei dialetti italo-albanesi del Molise...». 9 Forse il Cabej, citato alla nota precedente, ha sottovalutato i numerosi casi di interferenza con l’italiano, dato che i parlanti sono da tempo bilingui. 10 ] casi di interferenza sono bene esaminati nei lavori di M. Camaj; v. anche il suo contributo Il bilinguismo delle oasi linguistiche albanesi dell’Italia meridionale, in Bilinguismo e diglossia in Italia, Pisa 1972, pp. 5-13. l1 Giulio Variboba, La vita di Maria, a cura di Italo Costante Fortino, Cosenza 1984; v. il Glossario alle pp. 315-354 (come noto, della nostra opera pubblicò una scadente edizione V. Librandi, Milano Hoelpi 1886). Estraggo dalle prime due lettere i
è
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Giordano nella Prefazione al Dizionario traccia un breve profilo nella «Consistenza del lessico della lingua degli Albanesi d’Italia» (pp. X-XI1) ed a proposito degli «italianismi» egli osserva che «Molti di questi vocaboli sono talmente radicati nel popolo che vengono usati anche dagli scrittori arbéreshé; furono però talmente alterati da essere quasi irriconoscibili da un profano di etimologia; né c’è da meravigliarsi se essi superano il 10% (aggiungo io, probabilmente di più se teniamo presente ad es. il dettato del Variboba), ad es. pitindif-i «collana, pendente», ndiné-a «antenna», arkanxje-a «arroganza ecc.» Nella sua opera il G. non ha accolto — a ragione — la grande quantità di voci italiane meridionali che si possono individuare tanto nel parlato degli Arbéreshé, quanto nei loro scritti, a meno che non siano profondamente svisati. Dalle statistiche che ci sembrano (ovviamente!) molto approssimative, il G. ritiene 1) che i vocaboli dell’arb. comuni con lo shgipo sarebbero il 45% (penserei che in realtà essi siano di più!); 2) che abbastanza numerosi sarebbero i neologismi creati dagli scrittori albanesi d’Italia, circa il 15% tra quelli dovuti unicamente agli scrittori e quelli entrati in circolo anche nelle parlate popolari (ma spesso sono formati con materiale albanese); 3) un’altra categoria di divergenza sarebbe da attribuire a voci isolate riscontrabili in vari paesi degli Arbéreshè ed essa ammonterebbe al 25%, Ma secondo noi non si può negare che tali termini siano presenti nelle parlate dialettali d’ Albania e bisognerebbe condurre in proposito accurate ricerche; 4) il G. attribuisce poi una discreta importanza (sarebbero il 5%) ai grecismi antichi e moderni presenti nelle varietà italiane: «credo che il clero bizantino abbia molto contribuito, spesso 6. Il
i seguenti italianismi: abundar/nj «abbondare», adhurar/nj «adorare», afet-i «affetto», ajut-i, akllamar/nj «acclamare», allminu «almeno», amur-i «amore», amurus «amoroso», anat-a «annata», apost «apposta», ardir-i «ardire», ardur-i «ardore», ark-u «arco», art-i «arte», avertir/nj «avvertire», avis-avizi «avviso», avuka-a «avvocata», bambin-i «bambino», bandit-i «bandito», bandunar/nj «abbondonare», barun-i «barone», bastar/nj «bastare», batirem «battersi», belicé «bellezza», bézonj-a «bisogno», bishé-a «bestia», bondat-a «bontà», bonllatrun-i «buon ladrone», bramar/nj «bramare», bufet-a «tavolo» ecc. Del resto il medesimo Fortino ci ha procurato uno studio sugli italianismi del Variboba; / prestiti italiani in G. Variboba, estr. da «Livia Unione. Rassegna di inf. Italo-Greco-Albanesi», IV, 9, Cosenza 1983.
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in
buona fede o per necessità di esprimersi nella predicazione, alla
penetrazione di questi vocaboli...»; 5) importanza minima invece viene attribuita ad alcuni ispanismi, francesismi, anglicismi importati dagli emigrati arbéreshé rientrati in patria (caso analogo agli americanismi ad es. dei Siciliani ecc.). Il G. conclude il discorso con una considerazione generale e cioè che il 35% del lessico arbéresh non comune con lo shqgipo dovrebbe essere minuziosamente vagliato dal linguista specializzato. Non possiamo dargli torto poiché gran parte di tale vocabolario si dovrebbe ritrovare nei dialetti dello shgipo. Ma esso, tranne in casi del tutto eccezionali, non potrà essere recuperato per la lingua albanese ormai standardizzata. Nelle varie disamine dell’A. ci interessa qui particolarmente quanto egli ci dice a proposito dei turchismi (p. X). Lo studioso riconosce che molte voci dell’albanese d’Italia sono state «riprese» dallo shqgipo per via letteraria attraverso la lettura dei testi albanesi letterari dei secoli XIX e XX e tale operazione pare frequente in Schirò, in Serembe, in Gabriele Dara, in Santori: «... fra questi vocaboli si riscontra anche qualche turchismo, come: adet-i «uso, costume», cibuge-ja «pipa» ecc...». In realtà gli elementi turchi autentici, cioè non ripresi dall’Albania, nell’albanese d’Italia sono ovviamente pochissimi e ciò è facilmente spiegabile. Infatti tra le particolarità lessicali di una qualsiasi parlata italo-albanese si deve sottolineare in prima linea la quasi totale assenza di quell’elemento turco, un tempo (ma anche oggigiorno) molto abbondante in tutte le lingue balcaniche e direi ricchissimo soprattutto in albanese. E peraltro da riconoscere la tendenza ad eliminare tale filone di lessico, per lo meno in parte, sempre più evidente nell’ultimo secolo e ancor più negli ultimi decenni. Tale decadenza è ovviamente da collegarsi al cambiamento (relativo!) di modi di vita e negli ultimi anni, da attribuire anche all’indebolimento della fede islamica con tutta una sua particolare terminologia radicata nella lingua. Non pare qui inutile di accennare brevemente alle premesse storiche che hanno portato ad una islamizzazione di buona parte della Penisola balcanica e soprattutto all’assunzione di una ricchezza eccezionale di elementi che, per quanto conosco dai dizionari, può essere 7.
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paragonata, per intensità e varietà dei campi semantici e grammaticali (ove essa si è anche inserita), vorrei dire all’elemento latino. Bisogna peraltro osservare che la sua consistenza — anche se numericamente altissima — non si può paragonare, per le necessità comunicative, al filone latino data la frequente possibilità di vari omonimi di altra origine. Conviene dunque accennare succintamente al dominio politico e spesso culturale del turco in parte della Balcania ed in ispecie in Albania. La lingua turca che tante orme ha impresso nelle lingue della lega balcanica era la lingua dell’impero ottomano che ha dominato nella penisola per oltre 500 anni; la dominazione turca ha diffuso un aspetto particolare all’intero territorio!?, sia per quanto concerne l’architettura cittadina, sia per quanto riguarda la vita sociale ed ha avuto un ruolo notevole e profondo anche nella mentalità collegata con l’espressione linguistica. 1 Turchi osmanli sono uno dei tanti rami della famiglia linguistica turca (in inglese si può distinguere tra Turkic o Turanian e Turkish) la cui culla è l’Asia e rientrando nel gruppo «altaico» (secondo alcuni linguisti affine all’uralico per cui si era costituito un gruppo «uralo-altaico») sono parenti di varie popolazioni asiatiche... La parlata appartiene alle lingue «turche» di tipo occidentale e del turco j- (le lingue in cui il prototurco j- è rimasto inalterato e non è passato a s- come in altre, secondo la classificazione dell’ungherese G. Németh). Precisamente essa rientra nei dialetti della regione del Mar Nero con le varietà tatare del Caucaso, di Crimea, dell’Azerbaigan (turco azero).
Fondatore dell’impero ottomano
considera un Osman (grafia turca moderna per Othman sultano turco m. nel 1326) dal quale prese il nome anche il popolo. L’organizzazione dell’armata ottomana è stata opera del figlio di Osman, Orkhan fondatore del corpo dei 8.
si
Per le notizie essenziali rinvio all’Introduzione del Bor. I ed a E. Cabej, Introducere în istoria limbii albaneza, testo tradotto in romeno dall’originale albanese (che costituiva un corso tenuto dall’A. a Prishtiné) a cura di Cicerone Poghirc (non mi è giunta notizia che sia stato ancora pubblicato), v. pp. 131-144. 13 Si può vedere ad es. H.W. Duda, Balkantiirkische Studien, Wien 1949. 12
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«giannizzeri» (t. yeniceri) che estese la conquista turca sino ai Dardanelli. Ma l’inizio del dominio sui Balcani può considerarsi la presa di Gallipoli del 1354, poi di Adrianopoli del 1362. Per l’Albania si fissa l’avvio del dominio ottomano all’a. 1385 quando i Turchi si presentarono nel territorio schipetaro chiamativi dal principe Carlo Thopia; nel 1389 avvenne la nota battaglia del Kosovo (Kosovopolje), immortalata dalla poesia popolare serbo-croata. Dopo di questa il territorio albanese, in varie fasi, fu incorporato dall’impero ottomano. Nel secolo XV con i sultani Murat II e Mehmet II fu occupata progressivamente tutta la penisola balcanica e, come è noto, Costantinopoli bizantina cadde nel 1453 prendendo il nome turco-greco di Istambul (dal gr. otijv[eis tv] x6Av). Contemporaneamente l’Albania fu islamizzata al 70%. Ciò significa che tutti i posti di comando passarono nelle mani dei turchi conquistatori o di albanesi islamizzati. Soltanto nel periodo di Skanderbeg (morto nel 1468) si ebbero circa due decenni e mezzo di indebolimento della potenza dei conquistatori. Nell’anno successivo tutte le zone dell’Albania sono ormai soggette ai Turchi (nel 1478 era caduta Kruja, nel 1479 Scutari e nel 1501 Durazzo, ultimo punto di appoggio dei Veneziani), occasionando, tra l’altro, le migrazioni schipetare in Italia e si ricorderà che il dominio della mezzaluna in Albania è durato fino al 1912. E ovvio che un dominio così prolungato e intenso dovesse avere sensibili conseguenze anche nello sviluppo della lingua nazionale. A parte gli influssi grammaticali, bisogna tenere in considerazione la grande quantità di lessico turco adottato dagli Albanesi (e dalle lingue balcaniche). La massima parte dei turchismi fu assimilata in albanese sicuramente per via orale ed altri tramiti sono per lo più da escludere dato che ben pochi Schipetari erano in grado di leggere e di scrivere. Tuttavia esiste una letteratura turco-albanese coltivata da vari autori! i quali scrivono in una lingua fortemente turchizzata. Cito qui un 14 Degli autori di letteratura turco-albanese discorre anche M. Camaj, Albanian Grammar, Wiesbaden 1984, pp. XIII-XIV, ove si cita es. Nazim Berati (morto nel 1760), Hasan Zyko Kamberi, Muhammi Kucgyku (1784-1844) ed altri.
170
csempio tratto dall’opera del Boretzky (Teil 1,23) di Ibrahim Nezimi: Disa mig, disa jarane qgé rréfenin vefané, né zindan po qè né pané secili zuri megané... In quattro brevi versi si notano quattro turchismi”;, oppure di Dalip Frashéri: Ashtu e béjnèé rivajet more dudaman ay asgeri shekavet komi zalliman Anche qui in quattro versetti si notano già quattro (o cinque) turchismi rari!° 9. Non sono codesti i turchismi di grande circolazione nell’albaneÈ in buona parte la massiccia islamizzazione uno dei fattori principali della penetrazione dei turchismi; primeggia infatti in questi il lessico di natura religiosa che ha sostituito in buona parte la terminologia cristiana precedente. se.
15 Traduco i turchismi assai rari: jaran «compagno», vefa «fedeltà», megan «abitazione», zindan «prigione», rivajet «racconto», shekavet «brigantaggio», asqueri (comune «soldato»), komizalliman «la nazione dei tiranni». Traduco le due strofe, secondo le gentili informazioni del Prof. A. Kostallari: I: «Alcuni miei compagni e cari amici / che si mostravano me fedeli, / appena mi videro in prigione / andarono per i fatti loro...». II. «E proprio così che la raccontano / o caro, fedele di Ali, / l’esercito dei briganti / la nazione dei tiran-
a
ni...».
16 Osservo che anche dudaman potrebbe essere un turchismo; come mi informa il Prof. Kostallari, si equivale a «fedeli di Ali». Morè è forma colloquiale, esclamativa, «o te galantuomo» e simili, di origine greca; v. il mio articolo Una corrispondenza lessicale veneto-balcanica: «mòro». «Quaderni veneti» 6 (1987), pp. 121-126 [= qui
10].
171
Quanto alla frequenza dell’elemento turco nell’albanese rispetto alle altre lingue balcaniche, osserva il Boretzky (25) che esso non è meno frequente ad es. di quello assai comune nelle altre lingue della Penisola, ad es. del serbo-croato nelle aree profondamente islamizzate e turchizzate (Bosnia-Erzegovina ed anche Serbia). Ma nell’albanese: «es scheint dass die Turzismen eine viel gròssere Rolle spielen (oder spielten) als im Serbokroat. im Bugl. oder gar im Griech. (auch bei modernen alb. Schriftstellern trifft man noch mehr Turzismen an als bei Bulg. oder Griech.)». Si sottolineano poi i motivi strutturali che hanno permesso al turco di penetrare facilmente nel lessico albanese”’. Il Bor., nel suo fondamentale contributo si preoccupa soprattutto di passare ad una minuziosa disamina i principi linguistici che regolano le mutuazioni per l’aspetto fonetico e morfologico. Non si sofferma invece nello stabilire pur modeste statistiche e quali siano i campi semantici che hanno accolto in misura maggiore o minore tali elementi orientali. In realtà, anche mediante una attenta lettura del «Lessico etimologico» (vol. II) si vede che l’elemento turco affiora in tutti i settori anche grammaticali (si noti una discreta presenza di aggettivi, di verbi, anche di avverbi e varie locuzioni). Si potrebbe costruire una fitta rete di campi semantici in cui si incontrano i turchismi, sia pure con diversa gradazione. 10. Bisogna osservare innanzi tutto che la cultura turca, riflessa nella lingua nei numerosi prestiti, è essenzialmente una cultura urbana, cittadina ed è pertanto in tali settori che si addensano i nostri orientalismi i quali invece appaiono assai più rari ad es. nella sfera della terminologia pastorale ed agricola ove prevale di gran lunga l’elemento autoctono. E da tener presente che vocabolario turco diffusosi nella penisola balcanica e in albanese soprattutto (con minime propaggini italiane come vediamo qui sotto) è soltanto in parte autenticamente «turcoturanico» di ascendenza «altaica». Esso infatti, come si sa, specie attraverso l’islamismo e la cultura musulmana, è impregnato di ele-
il
17
172
Si
veda Bor.
I
pp. 26-47.
menti arabi ed assai considerevole è anche l’apporto persiano e di altre lingue orientali. Il Boretzky nei suoi due ottimi volumi — che vengono a rimpiazzare e riassumere vari lavori precedenti sull’argomento!8 — non si preoccupa quasi mai di indicare l’eventuale origine non tradizionale del termine turco (per cui la semplice origine araba o persiana della voce è sistematicamente trascurata). Dà invece qualche buona indicazione molto concisa, ma precisa, Abdulah Skaljié che si occupa del ricchissimo filone turco nel serbocroato (specie della Bosnia ed Erzegovina). Quanto al «balcanismo» degli elementi turchi anche Kr. Sandfeld nella nota opera Linguistique balkanique. Problèmes et résultats del 1930!° si sofferma soprattutto nel sottolineare le convergenze (pp. 159-162) delle locuzioni e l’introduzione di costruzioni calcate sull’osmanli e non dà una vera classificazione degli elementi del lessico penetrati nelle singole lingue. Ma egli ci offre anche una lista (pp. 89-93) di molte parole turche presenti in tutte le lingue balcaniche che hanno subìto la dominazione ottomana con termini «choisis au hasard»; essi sono peraltro sicuramente i più diffusi e di ampia circolazione anche nella parlata comune. Ne cito qui solo una decina come campionario ed aggiorno qua e là la grafia antiguata: | t. asker «soldato» alb. asger e sb.asker, rom, ascheriu, gr. 11.
AaoxrÉoi;
O
bahsis «mancia» alb. bakshish/bakcis, bg. bah3i$, sb. baksis, rom. bahsis, gr. unxdELo1; t. boga «colore» alb. bojé, bg. boja, sb. boja, rom. boià, gr. t.
umtoyia;
i
Ad es. i lavori del pur ottimo Fr. Miklosich, Die tirkischen FElemente in den sidost — und osteuropiàischen Sprachen I, IL, Nachtrag I, IL, Wien 1884-90 e Ueber die Einwirkung der tiirkischen Sprache auf die Grammatik der siidosteuropàischen Sprachen, nelle «Sitzungssber. der Akademie» di Vienna 120 (1889) pp. 1-11. | 19 Oltre alla notissima opera del Sandfeld (che ebbe dapprima una redazione in danese) ricordo, tra i numerosi contributi, per lo meno la buona compilazione di H.W. Schaller, Die Balkansprachen. Eine Einfiihrung in die Balkanphilologie, Heidelberg 1975. 18
|
173
t. budala «stupido» alb. budall-i, bg. budalà, sb. budala, rom. budalà, gr. unovvtahàs; t. bogaz «abisso» «canale» alb. bugaz/bogaz, bg. bu(g)az, sb. bogaz, rom. bo(g)az, gr. umoyd&t.; t. dolap(-bi) «armadio» alb. dollap, dallap, bg. dolap, sb. dolap, rom. dulàp, gr. viovÀ GL; t. inat «ostinazione» alb. inat, inad «rancore», bg. inat, sb. inat, rom. inat, gr. UvVaTtL; t. kayik «imbarcazione» (it. caicco) alb. kajik, bg. kaik, sb. kajk, gr. Halut; t. mahalle «quartiere, rione» alb. mahallé, bg. mahala «sobborgo», sb. mahala, rom. mahalà, gr. uayahàs; t. coban «pastore» alb. coban, bg. còban, sb. còban, rom. cioban,
gr.
T00UTdAVNS.
Quanto alle locuzioni il S. considera il t. séir (seyir) etmek letteralmente «contemplazione fare» (seyir «guardare per curiosità e diletto»), cioè «guardare», ripreso dall’alb. come ad es. béjné sehir zogun «essi guardano l’uccello» (e in alb. seir sehir significa «spettacolo», sehirtar «spettatore»), in neogreco ad es. va xarovyv to dgdro colpi «perché possano vedere l’orco»; in serbo kulu sejr uéinio «egli guardò la torre»; in bulgaro komar jà seir struvase «la zanzara lo guardava». Oppure si noti in turco haber almak «ragguaglio prendere» riflesso nell’alb. marr haber «prendere notizia» «apprendere», gr. maipow yauztépi «apprendere» «sentire». Così il turco ha fornito il modello nell’uso dell’ablativo con «passare» in espressioni quali sehrimizden gegdi «dalla (davanti) nostra città» (uso peraltro anche italiano), riflesso in alb. shkon nga shtépì e priftit «passa davanti la casa del prete» (alb. nga «da»), gr. m&Q0v@ 100 OniTti T0U «passo davanti (dalla) casa sua». A volte attraverso il turco si può risalire ad un modello arabo. Così è ben noto che le favole albanesi e romene S’iniziano con un comune preambolo, ad es. alb. ish mos ish, oppure ishté edhe nuké ishté che significa «era e non era» ed in romeno era si nu era «era è non era» (cfr. anche parallelo A fost odatà cà niciodatà «c’era una volta, come altrimenti mai»). La frase ricalca il turco bir varmis bir yogmus «una volta c’era, una volta non c’era», ma l’espres12.
dò
il
174
sione turca risulta una traduzione dall’arabo kan ma kan che propriamente significa «c’era ciò che c’era», ma poteva indicare tanto «ciò che», «che cosa», ma anche la negazione «non». Di qui la confusione (del resto l’albanese conosce anche la forma corretta: ishté g(é) ishté «C’era ciò che era»). Ma il Sandfeld non si sofferma a lungo sul lessico balcanico di origine turca. Dovremmo innanzi tutto menzionare alcuni suffissi turchi che hanno avuto grande fortuna nelle lingue balcaniche ed in albanese; ad es., e soprattutto: -ci (-dzi) che ha un impiego assai simile al lat. -arius; si noti t. avci «cacciatore» da av «caccia», cevizci «venditore di noci» da ceviz «noce» e si noti pertanto il bg. lovgi «cacciatore» da lov «caccia», oppure sb. klobukdzi «cappellaio» da klobuk «cappello», rom. laptagiu «lattaio» da rom. lapte «latte», alb. lekuraxhi «pellaio» e kundraxhi «calzolaio» da kundér «scarpa». Anche -lik è frequente (prende la vocale a seconda dell’armonia vocalica) e tale suffisso aggiunto ad aggettivi qualificativi li trasforma spesso in sostantivi astratti; si noti t. kalînlik «grossezza» da kalîn «grosso» o uzunluk «lunghezza» da uzun «lungo»; cfr. bg. kaugerlàk «stato di monaco» da kauger «monaco» (< gr.), alb. fishekllék «cartucciera» da fishek «cartuccia», mezellék «complesso di meze» < (vari cibi e antipasti orientali), sahatcillék «orologeria» da sahatci «orologiaio» (da sahat «ora») ecc. 13.
Ritorniamo ancora all’arbéresh ed ai primi turchismi attestati nelle varietà dell’albanese italiano. Il Cabej?° per fissare una cronologia approssimativa nell’assunzione dei turchismi nello shqgipo si avvale dei prestiti già noti all’albanese d’Italia e delle sue varietà. L’ultima ondata di Schipetari giunti in Italia risale al secolo XVIII con la colonia di Villa Badessa in comune di Rosciano (Pescara). In Sicilia e in Calabria incontriamo gli strati più arcaici dei turchismi, già assimilati a partire dalla fine del sec. XIV/secolo XV (e successivi). Essi 14.
V. Cabej, Introducere cit. ed in albanese: Pér njé shtresim kronologjk té huazimeve turke té shqipes, ora in Studime gjushésore, V, Prishtiné 1975, pp. 20
274-280.
175
provengono dai primi contatti con gli invasori dei futuri coloni arbéreshé. Sono voci che appartengono specialmente alla sfera della guerra, degli indumenti, della vita domestica e della vita sociale. Elenchiamo (con pochi commenti) tali parole, quasi integralmente attestate anche dal Dizionario del Giordano, suddivise dunque nei settori della terminologia della guerra, e cioè: bori «strumento musicale, specie di tromba», Giord. 36 borì-a «tromba, flauto, piffero» dal t. boru «canna, tromba»; daulle «grande tamburo», Giord. 67 daùll-i «tamburo» dal t. davul id.; fitil «lucignolo», Giord. 112 fitil id. dal t. fitil; janicar «giannizzero», Giord. 168 janicari id. dal t. yeniceri; mejdam «campo di battaglia», Giord. 268 majdàn-i «duello», «campo di battaglia» dal t. meydan «campo»; tel «filo, corda», Giord. 492 tel-i «funicella», dal tel. Terminologia del vestiario: carcaf «lenzuolo», manca al Giord., dal t. carsaf id.; cohè, cohé«stoffa di lana sottile, panno», Giord. 54 cohé-a «sopravveste muliebre, peplo» dal t. coha «stoffa fine di lana»; carape «calze», Giord. 57 caràpèé-a «calza» dal t. corap, gajtan «cordone», Giord. 126 galtan-i «nappa, nastro» dal t. gaytan, kaytan id.;toka «uncino, fibbia» «cintura», Giord. tok-u «funicella legame», dal t. toka «fibbia»; sénduq, sandék «baule», Giord. 434 séndug-i «cassa, baule» dal t. sandîk, sanduk «cassa». Dalla vita domestica: penxhér «finestra» Giord. 356 pèrher-i «verone, finestra», dal t. pencere id.; hambar «cassone», Giord. 151 hambàr «cassone per conservare il grano», «granaio» dal t. ambar/hambar «cassa, deposito»; zimbil(le) «corba», manca al Giord., dal t. zembil «sporta» «corbello». Dalla vita sociale e dai vari campi: isap «conto» «precetto», Giord. 167 isàp-i «comandamento» «ordine» dal t. hesàp, hisab «conto, calcolo»; monosage «violetta», Giord. 286 idem. dal t. menekse, menevse (dial.) «viola mammola»; nerénxé «arancia», Giord. nerénxè «arancio» dal t. nereng; hon «burrone, precipizio», Giord. 156 hon-i «abisso», da t. huni «imbuto» (2).
inat «odio, rancore», perde «tendina», rraki «acquavite», gott «misero» (cfr. tosco goti «timido»), tepsi «teglia, vassoio» zabit «ufficiale», zaptije «poliziotto», zapt «raffrenare, computare, disciplinare». Evidentemente codesti prestiti turchi debbono esser stati assorbiti dall’albanese in epoca più recente rispetto a quelli sopra menzionati. Il Cabej ricorda anche il primo turchismo attestato nell’area albanese d’Italia e in documenti, cioè harag, «imposta, tassa» (in una lettera indirizzata dallo Skanderbeg ad Alfonso d’Aragona, re di Napoli. 16.
Sono da aggiungere le seguenti voci attestate a Villa Badessa (varietà ora quasi dileguata): sono termini raccolti ai primi del secolo dal Lambertz: bela «fortuna», birbil «usignolo», destemel «fazzoletto», futé «fazzoletto da lutto», haké «diritto», hashohem «rifiutare», 176
il
Cabej cita pochi turchismi
presenti in Gjon Buzuku a. 1555 (di cui egli ci ha procurato una
splendida edizione): dollamé «noto abito turco», cohé (v. sopra), harami «briganteria», kallaus «spia» e «guida», turk «turco». In P. Budi (1618, 1621) incontriamo altre parole quali cohé (v. sopra), pazar «mercato» «bazar», temel «fondamenta», shend «gioia», raki (v. sopra), terezi «peso, bilancia», me dertumè «lamentarsi», sengjar, zinxhir «catena». Altri termini (pochi) il €. elenca, poi, tratti dal Bardhi (1635), da P. Bogdani (1685) che, pur essendo uno scrittore cattolico, usa alcune voci turche appartenenti a vari campi semantici.
t.
15.
Tra gli autori albanesi del Nord
Prima di passare ad un elenco di vocaboli turchi che potrebbero essere appresi, almeno parzialmente, dai locutori in arbéresh (non più di 100 o 200), suddivisi nelle varie sfere nozionali, vorremmo qui accennare assai concisamente a pochi turchismi assunti anche dalla lingua italiana e da alcuni dialetti. Si tratta per lo più di elementi quasi sempre bene integrati e circolanti che non hanno ricevuto particolari trattazioni d’insieme anche per la loro esiguità. Qui non facciamo cenno a turchismi «effimeri» che si leggono occasionalmente in trattati storici, in relazioni di viaggio in Oriente, in qualche opera letteraria ecc., spesso registrati in un noto volume (una serie di schede male affastellate) di F. Zaccaria” e a volte passati, un po’ frettolosamente, anche nel DEI di C. Battisti e G. Alessio”. Tali turchismi sono 17.
“mia
2! E. Zaccaria, Raccolta di voci affatto sconosciute o mal note ai lessicografi ed ai filologi, Marradi 1919. | | 22 C. Battisti e G. Alessio [con la collaborazione mia e di E. De Felice] Dizionario etimologico italiano, Firenze 1950-57 (5 volumi).
-
177
sovente trattati da qualche studioso unitamente agli arabismi che sono ovviamente assai più importanti e numerosi o sotto il titolo di «orientalismi». In casi eccezionali hanno avuto anche una trattazione autonoma. Recentemente Paolo Zolli nel volumetto Le parole straniere del 1976%, sotto il capitolo 8 «orientalismi» (pp. 97-104), dopo aver elencato i principali arabismi, in due pagine si occupa anche dei «turchismi» (pp. 99-100). Nelle note bibliografiche (pp. 114-115) egli rinvia ai miei Arabismi* in cui qua e là esamino anche pochi turchismi dell’italiano e dei dialetti ed egli non dimentica un paio di articoli del compianto R. Cardona. Specie per alcune voci veneziane e liguri (a volte passate nell’uso regionale o antico) sarebbe stato utile menzionare anche il lavoro di M. Cortelazzo, Corrispondenze italobalcaniche nei prestiti dal turco del 1965° con la disamina di una ventina di parole, specie antiche, di origine turca, sicura o probabile. A tale articolo ha fatto seguito un mio contributo Convergenze italobalcaniche negli elementi di origine orientale che corrispondeva, dapprima, ad una mia conferenza, tenuta in serbo-croato, all’Università di Belgrado”6. 18. Lo Zolli considera le seguenti parole di origine turca in italiano: aga «capitano generale» (a. 1538), bey, cane «imperatore P. Zolli, Le parole straniere, Bologna 1976. Gli arabismi nelle lingue neolatine con particolare riguardo all’Italia, Brescia 1972, ora completati dal nuovo volume Ricerche sugli arabismi italiani con particolare riguardo alla Sicilia Palermo 1989 (Centro di studi filologici e linguistici siciliani. Suppl. al «Bollettino», 10). 25 M. Cortelazzo, Corrispondenze italo-balcaniche nei prestiti dal turco, in Omagiu lui A. Rossetti la 70 de ani, Bucuresti 1965, pp. 147-152. Il mio contributo fu pubblicato dapprima in serbo-croato col titolo Italianskobalkanske podudarnosti u elementima orientalnog porekla, in «Prilozi za knijzevnost, jezik, istoriju i folklor» XXX (1969), pp. 56-76) e quasi contemporaneamente in italiano: Convergenze italo-balcaniche negli elementi di origine orientale, «Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo» 1968, pp. 203-235. Si veda ora Saggi di linguistica italiana, Torino 1975, pp. 420-444. [Molto ricco e informato su turchismi, per lo più di scarsa circolazione e antichi, è ora il contributo originale di Marco Mancini, Turchismi a Roma e a Venezia, in Episteme. In ricordo di G.R. Cardona, Roma 1990, pp. 75-112]. 23
24
°
178
della Cina» (dal tataro), giannizzero, muezzin, papasso «prete cristiano orientale» (sec. XV), pascià, caciucco «zuppa di pesce», caffè, bricco, caviale (che non pare di origine turca), pilao «riso cotto», sorbetto (ant. scerbetto, più vicino all’etimo), yoghurt, caffetano «veste» (sec. XV). Più recenti: bailamme «confusione», chiosco, divano, (h)arem, orda. Forse meritava una citazione particolare il caso di tafferuglio di cui ci ha dato una interpretazione persuasiva Bruno Migliorini?7. La voce che significa «confusione», «baldoria», «gozzoviglia» presenta varianti quali tanfaruzo, tafferugia «divertimento, baldoria» (con esempi nel Morgante del Pulci) ecc.; risale di certo all’arabo taffarug propriamente «azione di guardare con diletto» ed è passata all’italiano attraverso la mediazione turca teferriic, «pleasure, trip» «diversion, excursion», attestata anche nelle lingue balcaniche (v. Convergenze cit. p. 433). Tra le parole dialettali lo Zolli ricorda: venez. salì che è l’equivalente di scialle (dal fr.), caffetà e dolama (antiche vesti orientali), cisma «stivaletto» e fisseta «cartuccia» (ant. fisseca). Nel napoletano sono turchismi ciaurro «corsaro» che corrisponde a giaurro «infedele» (per i Turchi e Musulmani), canciarro, cangiarro «pugnale». Altri termini di origine turca, come abbiamo detto, sono segnalati dal Cortellazzo, op. cit. e da me, anche se a volte si può restare incerti sulle vie di penetrazione in Italia di tali orientalismi dato che, soprattutto per Venezia e l’Italia nord-orientale, si può a volte riconoscere un tramite balcanico, specie attraverso lo slavo meridionale. Altro problema è di fissare i criteri per distinguere se si tratti di turchismi o di arabismi dato che il lessico turco ha assorbito, come si sa, moltissime voci arabe senza profonde variazioni fonetiche o di significato. Nelle citate mie Convergenze ho posto a confronto un manipolo di termini che nelle lingue balcaniche sono di origine turca, mentre in Italia (italiano e spesso dialetti siciliani), risalgono direttamente all’arabo. Tali sono ad es. emiro, califfo, sceriffo, sceca (cioè sceicco) in italiano dall’arabo e nella Balcania dal turco. All’it. bagari19.
27
B. Migliorini, Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 300-303.
179
no che io ho spiegato dall’ar. baggalin (pl.) «rigattiere» corrisponde ad es. il sb. cr. bakal, bakalin «commerciante al minuto di coloniali»; all’ant. gal(i)ca «vendita all’asta» (che si faceva in circolo) corrisponde il balcanico (h)alka «cerchio», «anello»; al venez., scafazzo, cafasso «cesto» «gabbia» fa riscontro il sb. cr. kavez, kafez «gabbia» che risalgono all’ar. e t. gafas o kafes ecc. Ma anche in Italia si può distinguere a volte il doppio filone arabo o turco pur avendo la voce in definitiva la medesima fonte. Così ad es. il ligure casana «avventore» e «banco di sconto» — come scrivo in Arab. 347-48 —, data l’attestazione assai antica (a. 1224), poi casana (a. 1488), anche «Monte di pietà», viene sicuramente dall’arabo hazdana «trésor, gardemeuble où l’on conserve les joyaux, cellier, magazin» e «charge de trésorier...», «Schatzkammer», mentre il più recente venez. casnà, già in Sanudo, «luogo del tesoro pubblico presso i Turchi», «erario» rappresenta di certo il t. haznà «tesoro» (e si veda anche haznè e hazinè «tesorieria» «erario», Da Smirne 331 e Hony 134). La differenza della doppia tradizione lessicale qui è assai chiara poiché ci è di ausilio anche la diversa cronologia e la fonetica (cioè la tendenza del turco a spostare l’accento sulla finale, col frequente passaggio di -è in -è)"%. A proposito di alcuni turchismi possono risultare poco chiare alcune osservazioni di M. Cortelazzo espresse nei riguardi dei miei Arabismi?. V. Bor. I pp. 100-111. Alludo a M. Cortelazzo, Italienisch: Etymologie und Geschichte des Wortschatzes. Etimologia e storia del lessico, in LRL IV (1988) [Niemeyer], pp. 401-419; in particolare p. 403a ove si legge: «Pellegrini ha enfatizzato [che risulta equivoco] l’apporto arabo in Liguria, comprendendovi anche evidenti turchismi di provenienza araba, come assapo, bazale, casana, giabba e lo stesso camallo...». Dato che a me piace la chiarezza e la verità (cioè l’etimologia) ritrascrivo quanto è scritto in Arab. 357: «asappo «tanghero, persona grossolana e rustica», dalla voce turca azap (soldato)...» € cito poi il venez. asappo, esapo t. azàp...; p. 347: «bazale «mercato» cioè «bazar» persiano bazar «mercato» e poi cito il Cortelazzo, cfr. gr. matdo. «mercato» (in greco) turchismo»; per casana v. qui sopra; p. 365: «a giabba «a ufo, senza spese», risale certamente al turco gabba «gratis». E come potevo non interpretarlo (credo di aver individuato tale turchismo per primo), dato che mi risuonava 28
2°
spesso nelle orecchie la frase proverbiale bosniaca del mio compianto amico Prof. Frano Trograntié (mio maestro di serbo-croato che egli parlava con molti turchismi) € cioè dZabe: nema dZabe ni u stare babe; p. 360 «camalo «facchino, in arabo hammal 180
20. Passiamo ora all’elenco e ad un breve esame dei principali
turchismi dell’albanese. Abbiamo operato uno spoglio di detto filone che nei dizionari è ancora amplissimo, tenendo sempre presente due dizionari di media estensione e cioè, da parte albanese, il Fjalor italisht-shqgip, di Hysen Voci (redattori: Shpétim Cucgka e Ramazan Hysa) apparso a Tirana nel 1980; come dice il sottotitolo, esso contiene circa 15.000 parole. Da parte italiana ho utilizzato sistematicamente il buon Vocabolario albanese-italiano di Carmen B. Massolini e Ubaldo Buttafava, Roma (Signorelli) 1979. Esso contiene un lessico forse lievemente superiore alla parallela opera albanese citata (ha una Premessa di R. Hysa che è una buona garanzia circa la validità dell’opera). Si tratta, tra l’altro, del primo vocabolario bilingue che si fonda sulla lingua ufficiale. Abbiamo spesso consultato anche il recente Fjalor i shqipes sé sotme, Tirané 1984, opera ufficiale del’Akademia e Shkencave, diretta dall’accademico Prof. Androkli Kostallari. Quanto all’etimologia turx
«portatore», più probabilmente attraverso la mediazione turca...». E continua il €. sottolineando che io cito «etimologie molto dubbie (zimarra, zutta) e voci di larga circolazione europea e ha dichiarato, senza dimostrazione, che anche gli elementi arabi irradiati da Venezia sono molti, limitandosi a citare il solo caso di marzapane». Quanto a zimarra (p. 115) che è verosimilmente un elemento orientale, ho riportato l’etimo dall’ar. sammur «zibellino» che è del FEW XIX 151-3 (e v. anche Wartburg, «Riv. Cult. Cl. Med.» VII, 1965, Misc. Schiaffini, pp. 1170-73, cfr. lig. ant. chimarra e cimarra, zimarra, piem. gimara ecc.)), ma non mancavo di rinviare anche a Corominas IV 814-6. Io mi chiedo se questo sia un procedimento errato o da sottolineare come una deficienza dei miei volumi sugli Arabismi di cui si rilevano, nel contesto di un articolo generale sull’etimologia, soltanto le presunte pecche. Forse che i dizionari etimologici non citano spesso casi di etimi discussi o incerti e varie eventualità etimologiche? Come si comporta il DELI in codesti casi? Quanto a zutta (lig.) «brodo, la cocitura ossia l’acqua in cui furono cotte le castagne», «deposito di certi liquidi» «feccia», ho proposto soluzioni alternative, o dall’ar. sawt «acqua stagnante» o gall. jutta «brodo» dando la preferenza a quest’ultimo a causa di zsonoro. E che dire di marzapane (che credo di aver spiegato per primo, indipendentemente dall’analogo etimo di R. Cardona)? E una voce importante, diffusa da Venezia in tutte le lingue europee. Ma il C. dimentica qui che un termine altrettanto importante, e comunque comune, è stato diffuso dalla città lagunare. Non è forse avvenuto ciò anche per facchino? Si veda ora anche «Lingua nostra» XILIX (1988), 54-56: Talacimanno/Dalismano. 181
ca ci siamo attenuti quasi sempre ai fondamentali volumi (che riassumono la bibliografia precedente) di Norbert Boretzky®0. Ecco dunque il nostro elenco suddiviso in categorie nozionali (piuttosto elastiche): 21.
I) Casa, arredi domestici, attrezzi: baxhé «abbaino» FI 17, MB 16, FS 562 < t. baca, Bor. 23 id.;
—
Lok. 167, rom. bageacdà, bajacdà. — gakmak «accendino» FI 19, MB 31, FS 149 < t. cakmak id. Bor.
31.
gilìm-i «arazzo» «tappeto» FI 33 (e pure halli turchismo < hali) MB 244 «tappeto» < t. kilim «tappeto liscio e senza peli», Lok. 1176 rom. chilim, sb. kilim, cilim. — gemer «arcale» «cintura» FI 35 < t. kemer «cintura», Bor. —
108.
cikrik «argano» FI 36, MB 34 «aspo» «girella» FS 261 < t. cikrik «aspo» «bindolo», Bor. 36, Lok. 448, rom. cicric. — raft (e dollap v. sopra) «armadio» FI 36,-MB 247, FS 1008 < t. raf id. Bor. 111, Lok. 1689, pers. ràht «mobile», rom. raft. — peshqgir «asciugamano» «tovaglia» FI 38, MB 215, FS 882 < t. pegkir, Bor. 105, Lok. 1660 pisgîr, rom. peschir (Sain. 1 293), sb. peskir. — kélléf (e kuti) «astuccio» «scatola» FI 41, MB 127 «guaina», «astuccio» < t. kilif id., dall’ar. gilaf, Stach. Il 40, rom. càlàf, Sain. II 82, Lok. 720. —
—
kové «benna» (?) FI 52, ma MB 137 «secchio» e v. FS 549 < t.
kova Bor. 81.
| hejbe «bisaccia» FI 55, MB 101 «doppio sacco da viaggio che si mette attraverso il cavallo» < t. heybe id. Bor. 62, dall’ar. hagibi(t), Stach. 1 107. | < t. mangal id. — mangall «caldano» FI 64, MB 161 «braciere», Bor. 88 dall’ar. manqal, Stach. II 77, rom. mangal Sain. I, 246. — oxhak (:axhak, uxhak) «camino» FI 65, MB 198 < t. ocak «focolare» «dimora», Lok. 1587, sb. odiak, rom. ogeac. — jasték «capezzale» FI 169, MB 116 «cuscino, guanciale» < t. yastik id. Bor. 69, sb. jastuk, Ska. 364. — partalle «carabattole» FI 171, MB 209 «vecchiume», «cumulo» < t. partal, parsal «disusato», Bor. 103 «logoro, sbrindellato». | — zinxhir (zixhir) «catena» FI 76, MB 329 < t. zincir, zencir fila» Bor. 145, dal pers. zinjir, Steing. 624. Il Giord. 572 «catena, zinxiré (zinshiré) «legame, fune, catena», tratto da autori segnala (Santori). — kuti «cofano», «scatola» FI 89, MB 144 kuti-a < t. kutu «scatola» Lok. 1271, sb. kutija, rom. cutie. — perdé «cortina», «tenda» FI 106, MB 214 «tenda» < t. perde id., Bor. 104, Lok. 1630, dal pers. péàrdià «cortina», rom. perdea Sain. I 290, sb. perde. — bicak «temperino» MB 18 < t. bicak «coltello» «pugnale», Bor. 26, Arab. 34 (t. bicim «taglio»), bg. biékija «lesina». | — carcaf-i «lenzuolo» «mantello di lana», MB 32 < t. garsaf id., Bor. 33, dal pers. garsàb Lok. 691. — cardak-u «pianerottolo» «portico» MB 32 < t. gardak id. Bor. |
—
|
32;
catall «forchetta», «tridente» MB 32 (anche pirun dal veneto) < t. catal «forca» Bor. 33. — dyshemé «pavimento» MB 55 < t. dògeme id. Bor. 46, Lok. 534, rom. dusumea. edificio» < t. yapi «fabbrica», Bor. 69. — japi «costruzione, — kapi «porta» (arcaico) < t. kapi «portone», Bor. 75, sb. kapi! a. — kafazli «grata alla finestra» (architettura orientale), kafaz-i —
L’opera del Boretzky, in due volumi, è indubbiamente un lavoro eccellente e assai vasto. E da tener presente che l’A., nel secondo volume che rappresenta il Dizionario etimologico dei turchismi dell’albanese, oltre al vocabolario generale (che abbiamo utilizzato qui pp. 13-146) ha raccolto e studiato anche i turchismi particolari del dialetto di Drenica (pp. 147-71), del dialetto di Presevo (Presheva, pp. 172-187, della Zadrima (pp. 188-190), di Dibra 8pp. 193-196) e della Caméria (pp. 197-207). Segue inoltre un elenco delle voci albanesi dialettali col rinvio al Dizionario principale. Tale elenco permette di recuperare facilmente le varianti fonetiche. 30
182
183
54 «gabbia» MB 119 < t. kafesli id. Bor. 72, Lok. 993, dall’ar. gafay «gabbia», v. Arab. 150, 254. — kashik «cucchiaio» (Meyer) — più comune è lugé lat. < lingula — < t Kagsik, kagik id. Bor. 77, Lok. 1120, sb. ka$ika «cucchiaio di legno». — kérbag «frusta» «staffile» MB 128, FS 1515 < t. kirbac «frusta» 79, Lok. 1279 cfr. sp. corbacho (e la nota opera del Boccali
de cio).
penxhére «finestra» (raro per dritaré), < t. pencere id. Bor. 104 sb. pendzer, Lok. 1648, dal pers. pengere. Il Giord. 356 ha pexheî «verone» (da testi). — gibrit «fiammifero» (cibrit) < t. kibrit «zolfo», Bor. 109. Recipienti: ibrik «bricco» ben noto all’italiano, v. Arab. 36. — filcehan «chicchera da caffè», FI 83, MB 71 < t. fincan, filcan id. Bor. 51, Lok. 608, dall’ar. fingan «tazza», rom. filigean, sb —
i
fildian.
xhezve «cuccuma» «bricco» FI 110, MB 322 «caffettiera» < t. cezve id. Bor. 141, dall’ar. gadwa, sb. diezva, dZivza, Ska. 240. — bardhak «brocca» «bicchiere» MB 14 < t. bardak id. Bor. 21 i Lok. 230, rom. bardac, v. Convergenze 424 e Arab. 34. canak-u «scodella, ciotola» MB 32, FS 152 < t. canak «pentola» Bor. 32, Lok. 391, rom. ceanac. — tenxhére «pentola» MB 290, FI 237 < t. tencere «pentola i caldaia» Bor. 130, Lok. 2066, rom. tingire. i — dybek «zangola» MB 54 < t. dibek «grande mortaio», Bor. 45, —
-
yi ia po dafuci
i
di
bia
t.
di «botte, barile» MB 78 (ma FI ha solo vozé) : < t. fici, Bor. 52, Ska. 285, sb. fuéija ngr. Bovtto.. — saksì-a «vaso da fiori» MB 259 < t. saksi id. Bor. 115: Lok | 2800, rom. sacsie. «cesta» < t. zembil «corbelli» Bor. 145, «spor(Zenit)dall’ar. | . a» Smirne mbil « «cesto», rom. zambil, zambil Lok. 2193; —
ille Ab O go Da
927;
:
MO
- saraj «palazzo« «serraglio» (dal turco) MB 260 t. saray «palazzo», «castello» Bor. 116. Il Giord. ha saraj-i «palazzo» «P » (da C Cremone i USE
se, 1868-1901).
184
(da
tabak «coppa d’argento» «piatto» tabakà-ja «vassoio» MB 237 t. tabak «piatto» Bor. 125 «piatto d’argento», Da Smirne 775; Lok. 1962a, sb. tàbak che risale, attraverso il t., all’ar. tabdq, Stach. III 109 tubak «Schiissel», «Teller» dall’arabo; Arab. 38, 355, 557. —
-
II) Vestimenti, panni, tessuti: — aski «bretelle», ma è termine raro, FI 58 riporta rripa (striscie) pantallonash (italianismo) o lit. tiranta; il FS 38 segnala pure askì «krahoshte» < t. aski «bretelle Bor. 17. — papuge «babbucce» FI 47, MB 209, FS 850 < t. pabug che è voce pers.: papus «rivestimento del piede» da pd «piede» (chiaramente ie.), passato anche all’arabo babus onde l’it. babbuccia, Lok. 1625. Si tratta di termine ampiamente diffuso nelle lingue europee e di un concetto orientale che trova in turco tanti sinonimi (e che viene a comprovare il principio della «etimologia organica»). Si noti anche lepitkèé «specie di pianelle» FS 601 che allude a calzature leggere. Non è registrato in Giord. ma è voce assai diffusa in Italia. Molti termini analoghi si possono vedere in Tamis II 1324: ayakkabi, kundura (> alb. kundér), garik («ciocia»), pabus, terlik «pantofola», gipidik «pianella senza tacco», ecc. [e v. qui sotto]. — canté «borsa» FI 57, MB 32 «borsa, borsetta, sacco, valigia» < t. canta Bor. 32 id. e Da Smirne 1501 «sacca, borsa da viaggio», Lok. 393, dal pers. èéànta «sacco, specie di cuoio», rom. geanté. 35 < — corap «calza» FI 65, MB 35 < t. gorap «calza» FI 65, MB t. corap Bor. 37, Lok. 439, rom. ciorap, sb. tarapa. Il Giord. 57 registra carapé «calza» (da Santori). . MB 31 < t. calme id. Bor. 32 Ska. 161 sb. — callmé «turbante» calma id. — cember, cimber «velo» «fazzoletto» MB 32 < t. cember «cerchio» «velo». — cohé, xhoké, coké «panno» FI 231 < t. coha «stoffa di lana fine a forma di cerchio» Bor. 37, gr. t06X& =, Lok. 435, sb. èéoha. duvak (dullak) «velo nuziale» MB 54 < t. duvak id. Bor. 45, Ska. 230, sb. duvak. — dygme «bottone» (manca in FS) < t. diigme id. 540, bg. e sb. dugme.
=
185
futé «grembiule» MB 80 < t. futa, fiita «grembiule di seta», Bor. 52, dall’ar. futa «fazzoletto» Kazim. II, 646, Lok. 622, Stach. I —
72;
inxhi-a «perla» MB 113 < t. inci id. Bor. 67, Lok. 910 ha ingi «perla», Ska. 347 indzu. — jaké «colletto, bavero» MB 115 < t. yaka id. Bor. 68, Lok. 927) rom. iacà, sb. jaka, Ska. 359. — jamolli, jamulli-a «coperta di lana» BM 115 < t. yemenli da yemen-, cfr. yemeni «sorta di mussolina», Da Smirne 899, Bor. —
69.
— kadifé «velluto» MB 119 < t. kadife id. Bor. 72, dall’ar. gatifa, Stach. II, 19, sb. kadifa, Ska. 378. — mahrama «fazzoletto» (manca in FS) < t. mahrama, makrama, Bor. 87 id. dall’ar. mahrama Lok. 1361, Ska. 441, sb. mahrama, marama «asciugamano»; meglio dall’ar. magràmi e v. soprattutto Arab. 68, 437. Il Da Smirne 525 dà makrama «sorta di panno ricamato, gran fazzoletto ricamato». - mendil-i «fazzoletto» (manca in FS) < t. mendil id. Bor. 91; Lok. 1391, ar. mandil gr. pavòfjhiov < lat. mantile, v. Arab. 627. — mesht «pantofole» (manca in FS) < t. mest Bor.92 «scarpa di cuoio molle», «sorta di stivale senza tacco», Da Smirne 553; Lok. 1459 t. mest, rom. mest, sb. mestva, Ska. 461. — pambuk «cotone» «ovatta» MB 204 < t. pambuk Bor. 102, dal pers. pànbà < gr. xdupaE, mauBdriov. Registrato dal Giord. 342 per Fjanina, anche mumbak (cfr. veneto bombaso). — pashmangéè «sandalo, scarpa da casa, pantofola» < t. pasmak «sorta di sandalo» Bor. 103, Lok. 265, sb. pasmag. — pirpiri «veste femminile senza maniche» t. pirpiri e pirpiri id. Il Da Smirne 668 dà pirpiri «che appartiene agli artigiani» «abito rozzo da operai». — geléshe «berretto bianco di feltro» MB 242 < t. keles «calvo, tignoso» (?), Bor. 108. — qylah-i «berretto albanese di forma conica» MB 242 < t. kiilah «berretta conica di pelo di capretto», pers. kulah «berretto» Lok. 1232, rom. chiulaf. Il Giord. 403 dà gilaf «cappello a forma conica» (derivato da Schirò).
186
ion
EA
PUPA
denza
sarek, sarrek «turbante» < t. sarik id. Bor. 116, Ska. 551, sb. uk «Calma» id.). di lana bianca» «feltro» MB < t. sayak Bor. 122, _ shajak Ska. 579, sb. 3ajak (lat. saia?). MB 298 < t. tuman «sorta di — tumane «specie di pantaloni» 84, Ska. 623, sb. tumanlije Smirne Da mutande lunghe e larghe»
-
pe
—
o
|
«pantaloni larghi». ’ | — xhep «tasca» MB 322 < t. cep, ceb id. Bor. 140, dall ar. gaib, Lok. 641 «tasca» «sacco». Stach. I 34. Il Giord. 557 cita xhep-i «tasca, saccoccia» (da G. De Rada).
i
soprattutto dolci: FI 21, MB 242 < t. raki° Bor. 112, ben «acquavite» ragì conosciuto nei paesi balcanici; il Giord. 407 cita la voce tratta da autori, rakì-a (Schirò). rotondo» — gjevrek «ciambella» FI 84 < t. gerrek «specie di pane IID)
Cibi, bevande e
o
Bor. 55.
i corbé «zuppa» «minestra» MB 35 < t. gorba id. Bor. 37, Lok. 440, rom. ciorba, sb. éorba. | — jufké «specie di pastasciutta» FS 470 < t. yufka «sfoglia», Bor. 71, Lok. 962, rom. efca. 118 — kagamak-u «sorta di pane condito con olio» MB o «polenta» t. miell < misri) 244 id. Bor. 73; ha me FI o qull kagamak polendé (ma Da Smirme 402 «sorta di polenta in uso presso i pastori». — kajmak «panna» «crema» MB 119 < t. kaymak id. Bor. 73, Lok. 1009 t. kaymak, rom. caimac, sb. kajmak. dolce», «budino dolce» < t. mahdllebi - nuhalebì-a «un cibo 94. ° budino di riso» Bor. | le: — paga «specie di ragù», «cibo preparato con la trippa e con id. 101, Bor. 831 t. FS < paga, paga, certi animali» MB 200 zampe Lok. 1601, rom. pacea. Il Da Smirne 654 dà solo paga «gamba», cuce. «vivanda di peducci». | i id. — pastérmà-ja «carne salata conservata» MB 210 < t. pastirma Bor. 103. «marmellata» «mosto» MB 213 < t. pekmez id. Bor. — pekmez, 104 (e non riportiamo qui tanti nomi di dolci turchi, assai conosciuti nei Balcani). —
|
o
di
187
—
pilaf-i «risotto» MB 226
MB 242 < t. keyf, keyif «soddisfazione», «divertimento» Bor. 107, dall’ar. kaif, Lok. 1007, v. Arab. 69, 365. | — tabut (tavut) «cassa da morto» MB 286 < t. tabut id. Bor. 126; dall’ar. tabiut, v. Arab. 26, 38, 64. Il Giordano 492 dà tavut-i «bara» (Frascineto) ed è voce ampiamente diffusa nei dialetti it. merid. ( dall’arabo). . — tezgeré «barella» t. téskere «barella» Bor. 132, sb. tezgere Ska. 616 e risale al pers. deskere. —
a
o
Religione, superstizioni e folclore: «ebreo» MB 34, cifutéri «ghetto» < t. ciftt id. Bor. 36, dall’ar. jahud «ebreo», Lok. 424, Arab. 368. Il Giord. 60 dà cifut nel senso di «uomo seccante, noioso e spregevole» (dal Diz. del BilotV)
ta
i :
fall «stregoneria», fallxhi «stregone» MB 67 E
fal(1i) fal(1i) ib, sulla caduta di -re negli infiniti ecc. rivestono un ruolo assai modesto per la comparazione italo-romena, data la loro genericità e diffusione. L’utilizzazione del lessico appare a prima vista più fruttuosa, ma sempre incerta per le conoscenze assai limitate per quell’epoca (e vorrei aggiungere anche per i nostri giorni)*, per cui i vari lemmi raccolti dal Densusianu sono soggetti ad ampie restrizioni e riserve. Il noto lavoretto giovanile dell’Ascoli — ormai citato da tutti e rifiutato dall’Autore, v. ad es. «AGI», I, p. 477 — Sull’idioma friulano e le sue affinità colla lingua valaca. Schizzo storico-filologico, Udine (opuscolo privato) 1846, rappresenta una esercitazione di un adolescente, già molto colto; esso in realtà non è esente da gravi errori e non apporta alcun contributo per istituire confronti veramente convincenti e scientifici tra i due idiomi. 34 Come osserva il Tagliavini, Concord. p. 248, il quale cita l’articolo di Urechia (per me inaccessibile) di prima mano: Limba friulanà comparatà cu limba romànià, «Analele Academiei (Società Accademica Rumena»), I, 1868, pp. 180-187. 35 Densusianu, op. cit., pp. 185-201 (Lexique). [Dobbiamo scusarci per varie ripetizioni nei nostri riscontri balcanici, dato che alcuni — sia pure con altre informazioni — sono già citati in 1 o 5]. 36 Sono ben note le incertezze nel ritenere un tipo lessicale tipico ed esclusivo di una regione o di un dialetto; potremo presto avvalerci di un’opera grandiosa, parallela al FEW, dovuta a M. Pfister, il Lessico etimologico italiano (LEI) di cui sono già apparsi parecchi fascicoli (Wiesbaden, Reichert 1979 e sgg.). 33
212
ana
Meritano tuttavia alcune chiose le concordanze che finora appaiono più rilevanti (sempre con le riserve citate) tra le quali ad es. le seguenti: ficatum (D. 84) > r. ficat, mr. hikat, ir. fikot, è diffuso nell’Italia nord-orientale con appendici lombardo or. (figdat/hig dt; figa), eng. sup. (fiò), lad. centr. figè, fiyà, fuya ecc.), [AIS I, 139], friul. fià17; è noto che tale forma è una traduzione del gr. sykotén ed è ritenuta dagli studiosi ora più antica ed ora più moderna rispetto all’adattamento ficatum, ficatum o *fidicum (con metatesi), diffuso nella massima parte della Romània (v. Rohlfs, RS pp. 92-93) ed è difficile risolvere con sicurezza tale problema di eventuale cronologia a causa della distribuzione areale dei due tipi fondamentali per cui ad es. il logud. e nuor hanno (f)ikatu, mentre il campidanese ha preferito figdòu. Nel caso di maggiore arcaicità di ficàtum (sostenuta dal Wartburg)35, voce interamente tradotta dal latino, di contro a ficatum che risente maggiormente del modello greco "sécotum da -tén, il romeno dovrebbe aver recepito la voce dall’Italia Nord-orientale già nei primissimi secoli; essa non rivelerebbe comunque una impronta di latino regionale it. merid. (il sic. fikdtu per fékatu, citato dal D., mi risulta erroneo). — Qualche validità ha il riscontro del r. descult (D. 88) col friul. discélz «scalzo» (N Pir. 245) e ven. descélz(o) che risale ad una forma disculceus per discalceus (REW 2662) non supposta, ma attestata nella Lex salica, come ha indicato la Iliescu®. Così pure spinàalis (CGL III 394) > r. spinare «il filo della schiena» (D. 162) trova riscontro nel friul. spinal (N Pir. 1092 «dorso, spina dorsale», lad. bad. spiné, comel. spiné, engad. spindl, spinél (da la rain) «Wirbelsàule, Riuckgrat» (Peer 470), La forma féi (da fidicu m )di Rocca Pietore (Belluno; in area ladina) che corrisponderebbe a «fegato» secondo C. Salvioni (v. «L’Italia dialettale» XIV, p. 83 nota 19: articolo postumo) non è probabilmente autentica, v. le mie osservazioni in Schizzo fonetico dei dialetti agordini, Atti Ist. Ven. CXIII (1954-1955), p. 297, n. 1. 38 W. von Wartburg, «FEW», III, pp. 491-495 e «ZRPh», 70, 1954, pp. 65 e 72 (1956) pp. 295-297; l’opinione opposta è sostenuta da M.L. Wagner, DES I, pp. 37
*
518-519. 39 M. Iliescu, «Revue de linguistique», IV, 1959, p. 105.
243
surm. spinal idem (Sonder-Grish 208) ed il D. cita anche il berg. spinal‘° (PAIS I, c. 131 per «spina dorsale» ha spindl al P. 382 Montù Beccaria PV) e v. per la diffusione anche Battisti, VDA pp. 208 e 232. Più incerta è la concordanza, prospettata dalla Iliescu, Consid. p. 219, tra l’arum. amaros (T. Papahagi, DDA 89), meglen. maros da amarus (REW 406) + -dsus, suffisso assai vitale nel latino balcanico, ed il friul. mareòs, attestato nello scrittore settecentesco Bosizio: «la pomula d’orar / La casta uliva e mareosa mira» (Georg. 20) «amarognolo» che potrebbe risalire non ad amaròsus, ma ad amaricòsus, voce attestata (REW 402), cfr. campid. marigozu, sp. pg. amargoso ed interessante anche il vegl. markus (con -uiceus?)‘; non vi sarebbero in tal caso per il friulano difficoltà fonetiche. Un riscontro di qualche rilievo è forse costituito da veteranus, nel lat. vg. «vecchio» (D. 194 che rinvia a CGL IV 191 veteranus = antiquus vel vetustus ecc.) > r. bàtrîn, cfr. vegl. vetrun e friul. vedràn -a «uomo che abbia oltrepassata l’età consueta del matrimonio, senza sposarsi» (N Pir. 1261), ma aggiungi nella topon. veneta Tore verana («torre vecchia», con evoluzione fonetica normale, mentre il ven. vetrano è vetraneza, citati dal D. e dal REW 9287, sono di origine dotta (non si dimenticherà tuttavia che anche il sic. e il napol. hanno vitrano, vetrano). Tra le altre concordanze segnalate dal D. — molte delle quali sono troppo generiche per discorrerne qui — si può annotare circàare (D. 217; REW 1938) > r. a cerca anche nel senso di «assaggiare» come nei dial. veneti e ladini centr. cfr. anche friul. cercià, zercià «assaggiare per sentire il gusto di qualchecosa» (N Pir. 115). E un chiaro caso di conservazione incipère (REW 4353) > r. începe cui fa riscontro l’area arcaica del ladino grigionese, ove si ha sopras. entschéiver «anfangen» (Vieli- Decurtins 245), surmir. antsché er «anfangen» «beginnen» (Sonder-Grisch II), v. anche Bartoli, AGI XXI, p. 73 (= SLSp. 121). E qui incerta la connessione con l’engad. Non trovo tale voce nei dizionari bergamaschi di Tiraboschi e di Zappettini. Per la vitalità di -Osu nel latino balcanico v. Mihàescu, op. cit., p. 240 226 ed Alessio, Concord. cit. pp. 11-12 (-6sus ricorre frequentemente anche nei dialetti italiani meridionali). 42 M. Bartoli, Das Dalmatische, II, Wien, Balkankom. 1906, coll. 203, 380, 416 [l’amico Prof. F. Crevatin mi segnala la presenza di forme simili anche nei dialetti veneti dell’Istria]. 40 41
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tschiitschaivir, tschaiver «carnevale» che il Merlo“ connetteva col friul. ant. inscèri, isceri, isser idem (v. anche N Pir. 460 sevrùt scevràt «il penultimo giorno di carnevale») e REW 8481 s.v. suscipère (ivi la bibl.). Di scarso rilievo è invece il mantenimento in romeno (D. > r. fierb che si 224) di ferventem (REW 3264 ritrova nell’Italia meridionale e nell’ibero-romanzo) > r. fierbinte «bollente», cfr. friul. ferbint «cocente, pungente, frizzante» (N Pir. 306) poiché tale conservazione ha un’area assai vasta, v. Rohlfs, RS ricopre rispetto a pp. 78-79, ove si nota come le aree laterali. Interessante è notare come il D. 217 sotto convenire > r. cuvine 3. pers. (oportet = convenit dell Gl. di Reich. 593) oltre a citare varie forme banali che si equivalgono all’it. convenire, menzioni anche il friul. coventà (N Pir. 192 «abbisognare, occorreIl REW 2192 s.v. re») che egli deriva da un convenire ignora la forma friulana mentre cita konvifi e kuni ecc. col medesimo senso. Altrove‘ ho derivato il feltr. coventà «osare» (ad es. no covente parlà «non oso parlare» dal lat. tardo costruito su conventus (REW 3193) onde il rom. curînt «parola» con corrispondenze precise nelle lingue balcaniche, ad es. alb. kuvént «parola» «conversazione» «riunione» «mercato» e kuvendoj «parla-
fervère
fervère
*
bullire
convenitare.
conventare,
re», ngr. kuvénda «discorso» «trattenimento»; il significato della voce feltrina concorda col poles. (Rovigo) kontarse (da “kovent- con caduta di -v-) «osare» e si noti l’a. gen. convent «patto» (Faré). In genere si crede che l’evoluzione semantica della voce romena sia avvenuta per influsso del gr. homiléin“. Non so inoltre se sia
CI. Merlo, Ant. friul. inseri... eng. schischaiver «carnevale», «Annali Univ. Toscane», XI della n.s., 1927, pp. 85-95. 44 Nell’articolo Osservazioni sulle concordanze tra romeno e «italo-romanzo» nord-orientale, «Analele Societàtii de limbà romànà» (di Zrenjanin), 3-4, 1973/1974, pp. 393-402 (l’articolo è uscito senza ch’io potessi correggere le bozze, ed è infarcito di vari errori di stampa). 45 V. anche l’articolo di M. Iliescu, Contributie semanticà la etimologie lexemului romànesc: cuvînt, «Analele Universitàtii din Craiova», III, 1974, pp. 199-203, ove la studiosa cita altri parallelismi semantici che portano ad es. il lat. placitum «dibattito giudiziario» a «disputa» e a «parola» (nel ladino grigionese). 46 L’espressione è riportata in B. Migliorini-G.B. Pellegrini, Dizionario del feltrino rustico, Padova, Liviana 1971, p. 85. 43
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casuale un altro riscontro del feltrino a proposito dell’agg. réus (REW 7274) per cui il r. ha l’espressione îmi pare ràu «mi dispiace» identica a feltr. parer riu «sembrar male, dispiacersi»“. Il Tagliavini, com’è noto, aveva segnalato la notevolé convergenza tra lad. centr. e alto ven. albina «alveare» e r. albinà «ape» che provengono dal lat. tardo alvina (attestato da Flavius Caper, fine del II secolo): alvearia non alvina (CGL VII 107). Tale concordanza che risultava oltre modo specifica in realtà non lo è poiché — come ha indicato l’Alessio‘? — anche il lig. ant. conosce arbinale, albinarium «arnia» (Rossi, Gloss. med. lig. 15) ed ora il Plomteux‘8 segnala i continuatori moderni di tale voce nota nel ligure di Ponente, ad es. Rezzo, Pieve di Teco arbinà «luogo dove si pongono gli alveari». Personalmente ho sottolineato il perfetto parallelismo tra l’arum. zmuticare «verstimmeln», menzionato come unico continuatore del lat. mùticus (hapax di Varrone, RR I, 48) «spezzato» nel REW 5787, col ven. sett. smodegàr «lussare», «sfasciare» e il ladino centr. smudié idem’. L’Alessio vi vuole aggiungere anche calabr. muticare «togliere, spostare, cambiare» che egli deriva da moticare per motitare «muovere spesso» (Gellio, ma io non sono convinto dell’esattezza del suo riscontro). Ho inoltre menzionato altrove”®
il *
46 L’espressione è riportata in B. Migliorini-G.B. Pellegrini, Dizionario del feltrino rustico, Padova, Liviana 1971, p. 85. 47 G. Alessio, Problemi storico-etim. cit. p. 45. ‘8 H. Plomteux, La raccolta dei materiali per un vocabolario di area dialettale ligure. Problemi tecnici, in Convegno per la realizzazione di un vocabolario delle parlate liguri; Consulta ligure, Sanremo 1979, pp. 49-60 v. p. 60. (Il Crevatin m’informa che, dallo spoglio delle schede del LEI cit., la voce pare testimoniata non soltanto in Liguria, ma anche in Piemonte). 49 Si veda il mio articolo Arum. zmuticare, lad. dol. smudié, ven. sett. smodegar. Nota etimoloigica, in Omagiu lui Iorgu Ilordan, Bucuresti Editura Academiei 1958, pp. 667-670, ora in Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa, Pacini 1977, pp. 119-123, con un Poscritto ove respingo le critiche alla mia etimologia rivoltemi da G. Alessio, Problemi storico-etim. cit., pp. 44-48. 5 Rinvio per la trattazione delle nuove concordanze, da me individuate, al mio articolo Concordanze lessicali tra Italia-orientale e regioni balcanico-danubiane che è uscito a Budapest negli «Atti» di un convegno interuniversitario tenutosi a Visegràd nel novembre del 1978 [v. ora anche «Annales Univ. Sc. Budap. de R.E. nomin.: Sectio linguistica» X (1979), pp. 7-22] [= qui 1].
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continuatori veneti di facùla, *fodia da ‘fodiare per fodère (da non confondersi con fovea), di scoria che finora erano noti quasi esclusivamente alla latinità balcanica. E per finire vorrei ancora richiamare un altro. parallelo tra romeno e friulano che rientra sempre nel tema del conservativismo delle aree periferiche. Com’è noto, il romeno per «albero da frutto» usa pom dal lat. pomus (solo a partire da Marc. Empir. si ha mali id est pomi); in friulano vi corrisponde esattamente (per la genericità del nome) pome «frutto delle piante in genere, ma spec. pere, mele, pesche, ciliegie ecc.» e pomdàr (col noto suffisso -arius che nell’Italia superiore distingue la pianta dal frutto, come in francese) che si equivale a frutàr «albero da frutta» (N Pir. 794), REW 6645; del resto anche l’it. ant. pomo ha un significato generico e non si equivale sempre a «melo -a»; v. Rohlfs, RS pp. 89-90. Ma va detto subito che i riscontri del romeno con i dialetti dell’Italia meridionale sono indubbiamente più rilevanti e specifici per delineare, in qualche modo, quel latino regionale che starebbe alla base della romanità carpatico-danubiana sulla quale si fonda la lingua romena. Non manca, come abbiamo detto, a questo proposito una vasta bibliografia spesso illuminante e ne tratta ora anche l’Ivànescu”! il quale intitola uno dei capitoli della sua opera «Dialectul latin popular de la baza limbii romàne: (lucano)-mesodacica». Già il Tagliavini (Concord. p. 256) aveva annotato che i rapporti fra rumeno e i dialetti italiani meridionali trovano la loro spiegazione nelle antiche strade (anche più corte) che partivano da Roma e giungevano al Danubio attraverso l’odierna Albania. La via Egnazia era battuta anche dopo l’abbandono della Dacia Traiana per raggiungere dall’Italia la Dacia Aureliana fino alla venuta degli Slavi”. L’Ivànescu (p. 95) distingue un latino di base per la Dalmazia già in parte differenziato da quello «carpatico-danubiano»: «Cel di Dalmatia ar putea fi considerat la urma urmei, ca identic cu cel din Italia centralà si meridionalà (fàrà unele regiuni din Lucania si Calabria)» in questo Ivànescu, op. cit., p. 94 sgg. | Il Tagliavini, Origini‘, pp. 373-374, condivide l’ipotesi subdanubiana nella formazione della lingua romena, ipotesi sostenuta da A. Philippide nell’opera 51
52
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giudizio lo studioso romeno concorda sostanzialmente col parere del Bartoli, ben noto”3. E certo che la penetrazione latina in Dalmazia ed in Epiro è già antica anche come conseguenza delle guerre illiriche”. La differenza fondamentale per Ivànescu nei due dialetti latini regionali del gruppo appenninico-balcanico-carpatico è rappresentata dal trattamento del vocalismo per cui il latino che sta alla base della lingua romena e del territorio in cui si parlava l’illirico progenitore dell’albanese (indicato dalla regione tra Vrbas, la Drina e il Nord dell’Albania)® aveva trasformato Ì in e, ma non ii in o per cui si ha in romeno da crista > creastà, alb. kreshté, piscis > r. peste, alb. peshk, ma da fùirca > it. centr. forca (it. mer. furca), rom. furcà, alb. furké (l’osservazione non è peraltro esatta per l’Italia meridionale estrema e qui lI. ripete un errore di Iordan). L’Ivànescu non minimizza, come altri studiosi anche recenti”7, le numerose convertuttora fondamentale Originea Romînilor, Iasi 1925-1928. Anche l’Ivànescu — allievo del Philippide — non minimizza gli argomenti che avvalorano, in buona parte, le opinioni del Ph. e di tanti studiosi non romeni; egli sa dare un giudizio equilibrato su problemi tanto dibattuti o parzialmente ancora sub judice. Sulla figura dello studioso isolato di Cluj, v. anche I. Tordan (che fu pure un suo allievo) Alexandru I. Philippide, Bucuresti 1969. °3 Per la nota disputa relativa alle affinità del dalmatico, intercorsa tra il Bartoli ed il Merlo v. C. Tagliavini, Origini‘, pp. 377 e 453. °4 Per la penetrazione latina in Dalmazia, tra le tante opere, è da ricordare anche M. Pavan, Ricerche sulla provincia romana di Dalmazia, «Mem. Ist. Veneto», vol. i XXXII, Venezia 1958. °5 Un riassunto sulla discussione circa la patria degli Albanesi si può leggere anche nel mio corso universitario Introduzione allo studio della lingua albanese | Padova, Stamperia dell’Università 1977, pp. 92-102 (con bibliografia). Tale opinione di considerare u da ù un esito normale nei dialetti meridionali italiani (come nel sardo, dalmatico, albanese e romeno) è esposta da I. Iordan nel suo citato lavoro Dialectele italiene 13, mentre è noto che nell’italiano estremo (ne è esclusa «l’area Lausberg») e cioè la Sicilia la Calabria meridionale e il Salento, i, È ed 6 si fondono nell’unico esito u al pari di é, ì che danno i (errore rilevato anche dal Tagliavini, Concord. p. 253). °7 Mi basti menzionare i contributi — del resto assai importanti — di H. Mihàescu è Les élémentes latines de la langue albanaise 1, e IL, «RESE», IV, 1966, pp. 5-33 323-353 (si veda soprattutto la conclusione). L’Ivànescu, op. cit., p. III, osserva ad €s.: «Asadar termenii de origine latinà care unesc realmente albaneza cu limbile romanice occidentale nu sînt ìn numàr mai mare decît cei care se gàsesc numai în albanezà si romînà...».
85
218
e latino-albanese e ribadisce anzi la vicinanza delle sedi protostoriche in cui si sono formate le due lingue; non esclude pertanto a questo riguardo l’area subdanubiana, pur non rigettando la nota teoria della continuità°%. Egli condivide inoltre i genze
lessicali tra romeno
riscontri puntuali, specie morfologici, individuati da H. Liidtke” tra latino regionale (poi dialetti locali) della Lucania ed Apulia e Penisola Balcanica, anche se è difficile tracciare confini ben netti tra i tipi linguistici meridionali che starebbero alla base del latino balcanico. Accettabile è inoltre l’opinione di Ivànescu — condivisa da altri specialisti tra i quali W. Bahner‘° — che pur riconoscendo una particolare latinità balcanica, bisogna ammettere che a partire dal sec. IV la Dalmazia continua ad avere contatti più stretti con l’Italia rispetto al resto della Penisola dell’Haemus (pp. 99-100); ciò è dimostrato anche dal fatto che il romeno e il dalmatico non partecipano a comuni innovazioni linguistiche e, aggiungiamo noi, anche dalla posizione del dalmatico in seno alla cosiddetta «lega balcanica» ai cui fenomeni linguistici proprio il dalmatico partecipa in misura minima, se non nulla‘. Dovremmo tuttavia rilevare — per un principio di obiettività — 58 Per una chiara esposizione degli argomenti sui quali gli studiosi romeni si fondano per sostenere la «teoria della continuità» v. il volumetto di C. DaicoviciuEm. Petrovici e Ch. Stefan, La formation du peuple roumain et de sa langue, Bucarest
1963.
59 H. Lidtke, Sprachliche Beziehungen der apulischen Dialekte zum Rumiinischen, «Revue des É tudes Roumaines», III/IV, 1957, pp. 130-146 (mette in luce soprattutto le concordanze morfosintattiche). Si vedano le conclusioni della ricerca a sich aus den p. 146: «Fir die Vorgeschichte der romanischen Sprachen aber ergibt obigen Ausfiihrungen, dass sich schon in friihester Zeit innerhalt Italiens Dialektunterschiede herasgebildet haben, und dass nicht ein imaginàres einheitliches Vulgirlatein, sondern verschiedene lateinische Mundarten in die eroberten Provinzen verpflanzt wurden. Dabei hat im sidliche Illyrion und in Dakien die Mundart Apuliens, besonders des mittleren Teils, Eingang gefunden, im sidwestlichen Mittelmeerraum (Sardinien, Pyrenàenhalbinsel) dagegen, wie ich a.a. O. zeigen werde, die Mundarten von Latium, Kampanien und Nordkalabrien, Lukanien war sprachlich eine Ueber-
gangszone». 60 W. Bahner, Die lexikalischen Besondezheiten des friihen Balkan-romanischen, «Forschungen und Fortschritte», 40, 1966, H. IL, p. 340 e v. soprattutto Die lexikalischen Besonderheiten des Friihromanischen in Siùdosteuropa, Berlin 1970. 61 Il dalmatico non partecipa ai noti fenomeni linguistici «balcanici» almeno secondo i parametri fissati soprattutto da Kr. Sandfeld, Linguistique balkanique. 219
una incongruenza nel latino che sta alla base del gruppo «carpaticodanubiano» definito sostanzialmente di origine lucana; se infatti l’accordo esiste per il vocalismo, ci pare di non dover dimenticare qui il contrasto nel consonantismo, dato che proprio l’area Lausberg — un tempo certamente più estesa — conserva ampie tracce di -s finale latino intatto, mentre di tale consonante non si ha la menoma traccia nelle lingue balcanico-carpatiche®2.
Ma conviene ora passare in rassegna alcuni elementi lessicali di particolare spicco per dimostrare gli intimi rapporti tra Italia meridionale e latino balcanico, non ignorando i prestiti latini nell’albanese. I riscontri individuati da I. Iordan (Dial. ital.) sono inseriti nel capitolo intitolato «Stilistice» (IV 63 sgg. «Arhiva» XXXI, 1924, pp. 207 sgg.)%3, ove sono esaminate soprattutto moltissime locuzioni, proverbi, modi di dire paralleli, sulla cui diffusione precisa è assai difficile esprimere un giudizio. Nel complesso non sono molti i lessemi coincidenti in modo specifico. Si tratta comunque di una raccolta di grande importanza in cui l’A. sa utilizzare a dovere le fonti lessicografiche dialettali italiane. Non altrettanto si può dire, per le conoscenze del romeno, a proposito del citato articolo di Concordanze dell’Alessio; ai nostri fini tuttavia esso risulta assai importante e ricco di novità anche se difetta qua e là di una buona informazione, con alcune mende sottolineate, forse troppo pesantemente, da M. Sala nella sua recensione. In realtà i parallelismi lessicali individuati spesso per la prima volta da Alessio conservano piena validità per cui riteniamo indispensabile di rinviare spesso alla sua disamina‘4.
Problèmes et résultats, Paris 1930; v. anche H.W. Schaller, Die Balkansprachen. Eine Einfihrung in die Balkanologie, Heidelberg, Winter 1975 (ove il dalmatico non è mai menzionato). Nel dalmatico è tuttavia molto singolare la via originale nella formazione del futuro il quale continua il futuro anteriore e si diversifica pertanto dalle lingue che usano la formazione analitica, ora con habeo, ora con ‘voleo. 62 V.H. Lausberg, Die Mundarten Sidlukaniens, Halle, Bh. z. ZRPh. 1939, pp. 99 e 144-145; per una eventuale maggiore estensione nella conservazione -S latino nell’Italia meridionale, v. il mio articolo A proposito di alcune forme romanze nelle fonti arabe, ora ristampato in Saggi di linguistica italiana, Torino, Boringhieri 1975, pp. 445-460. 63 Ristampato nel suo volume miscellaneo Scrieri alese, Bucuresti, Editura Academiei 1968, pp. 119-178. 64 Delle concordanze tra dialetti adriatici ed elementi latini dell’albanese discuto nel contributo 1 rapporti linguistici interadriatici e l’elemento latino dell’albanese, uscito in
al
Sono ai nostri fini istruttive alcune importanti innovazioni comuni romeno e ai dialetti meridionali italiani poiché tali particolarità risalgono verosimilmente al latino regionale importato in Dacia. Di grande rilievo è ad es. il caso di (D. 91; Ivànescu 242-243) > însura(re) (rifl.) «sposarsi» (REW 9107 ‘uxoràre), mrum. e irum. *
inuxorare
Tr.
însura (anche da parte della donna, maritarsi) che raggiunge anche il dalm. nella forma uzorizare (nel veneto di Arbe uzorizare, sec. XVI) Bartoli, Dalm. II, 276; si noti nel lat. mediev. di Dalmazia: se uxoraverit (Stat. Cath. 83/4 sec. XIV), uxoratus ... uxorandis (Stat. Rag. 86/10, a. 1272), uxorizatus (Stat. Arbe 80/24, sec. XIV), uxorari (Stat. Tad. 64v/32 a. 1305), v. ora il Lexicon latin. medii aevi Iugoslaviae, Zagabria 1978, p. 1229. L’area di* inuxoràre, uxorare è laziale (roman. nsurare, alatr. assurà), abruzz., napol. calabr. (osserare, nzurare), pugliese e basilisca, v. AIS I, c. 69. La diffusione della nostra innovazione ricopre un’area, in Italia, di poco inferiore all’altra tipica concordanza sintattica e cioè alla postposizione del pronome possessivo, per la quale rinvio a Iordan, Dial. ital. 89 (Arhiva XXXV, 1928, pp. 187-190) e a Rohlfs, Gramm. st. it. IL, 124-126. Sono corrispondenze significative (anche se in alcuni casi si tratta di conservazione di fasi arcaiche) ad. es.: vitricus «patrigno» > r. tatà vitreg, alb. vitérg (equivalente di njerk da un 'novercus costruito su noverca), calabr. sett. vitrich, tatà — «patrigno», vitricà «matrigna» e così pure luc. merid. (Rohlfs, NDCal. 774, Alessio, Conc. 52); tale voce trova pure corrispondenza nel sardo centrale e nel campidanese, Rohlfs, RS p. 37. - coctorium > r. cuptor «forno», alb. koftor, koftuer «focolare» (voce di scarsa diffusione in Albania, studiata da Jokl, Balkanlat. Studien in BA IV (1928), pp. 195-196), cfr. abr. cuttura «caldaio, paiolo», chettura e var. «paiolo di rame, pentola», a. 1252 coctore, Giammarco, DAM I, 684 e 525, calabr. cuttuoru -oriu «molesto, noioso per pigrizia» ecc. (Rohlfs NDCal. 231-232 e Alessio, Conc. 26, ove si trovano altri riscontri
di
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uscito in «Abruzzo» (rivista diretta da E. Giammarco) XIX, 1980, pp. 31-71. Qui sotto non cito la bibliografia e i dizionari albanesi ai quali ho attinto (essi sono menzionati nel citato mio articolo). Per la spiegazione e i confronti delle voci albanesi mi sono servito soprattutto dei lavori, assai importanti, di E. Cabejed in particolare della sua raccolta in 6 volumi Studime gjihésore, Prishtiné, Rilindja 1975-1977 [qui 5]. 221
meridionali). - cénsocer (REW 2166, inesatto!) > r. cuscru, alb. krushk (anche «invitato a nozze»), con l’accento di commater o cémpater onde il r. cumitru o l’alb. kumtér «padrino di battesisalent. cruscu «consuocero», crosca «consuocera» mo»; si confronti (Rohlfs, VDS 173; v. ora soprattutto Alessio, Lex. Suppl. 120. lunter, Iynter > r. luntre «barca a remi» (anche il Sala riconosce l’importanza dei riscontri con l’Italia meridionale), alb. lundér, lundré «barca, battello», ngr. lontra; cfr. calabr. luntru «specie di barca per la pesca del pescespada» (Rohlfs, NDCal. 375), nap. ant. londre m. (in Luise de Rosa, sec. XV), avell. lontro «pozzanghera» «pozza» (forse dal senso di «cavità» ??, Nittoli 127), abr. londro e londra «trogolo di legno ricavato dal tronco d’albero», Giammarco, DAM II, 10146 e si noti che il Rohlfs, SVS 65, cita il sic. luntru (dai dizionari di Scobar e Senisio), Alessio, Conc. 8 e 32. - filianus «figlioccio» > r. fin, alb. fijan «figlioccio», v. Alessio, Conc. 27 che menziona il calabr. figghianu e varie altre forme anche senese, perugino ant. (DEI II 1636), le quali provengono verosimilmente dal Meridione. — sarcinàrius (voce attestata in Cesare) > r. sdrciner, salciner «albero (o palo) sui cui rami i pastori appoggiano i loro oggetti» (voce rara, v. Lozovan, «Orbis» III, 1954, p. 129) cui corrisponde, con significato identico, l’alb. shelknuer, shelgéror, cfr. calabr. centro-sett. sarcinaru «grossa trave del tetto, trave maestra» (Rohlfs, NDCaI. 604), Alessio, Conc. 42. — galbulus e galgulus > r. grangur «Oriolus galbulus», megl. gaigur, arom. gangur idem, alb. garbul, gargull «rigogolo» (il Leotti 243 dà invece il senso di «storno, tordo, merlo, allodola cappelluta», forse inesatti!); secondo l’Alessio, Conc. 29 vi corrisponde ad es. il calabr. sett. grdvulu, gradulu «rigogolo» (Rohlfs, NDCal. 310 e 306) e non mancano altre voci simili nei dialetti meridionali, v. Farè. — Incerta è invece la corrispondenza nel caso di r. scînteie «scintilla», alb. saukéndi «scintilla», «lucciola» (da scintilla attraverso uno scantilia per
il
*
6 La Signora Prof.
B. Valota mi fa osservare che l’imbarcazione monossila è in che tronco benissimo assomigliare ad un «truogolo» un potrebbe scavata pertanto il mio accostamento certo verosimile). Il Crevatin richiama la mia attenzione sulla presenza della medesima voce a Grado, v. infatti Rosamani p. 544 lintra (Grado) «piccolissima barca per trasporti da un luogo all’alto» (Caprin); anche lumbro.
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(e
influsso di excandre, Cioranescu 734) col calabr. di Gizzeria (Catanzaro) scandiglia poiché in codesto caso può trattarsi di una sopravvivenza (relitto) della voce arbéresh in Calabria, dato che il paese è una ex colonia albanese (Alessio, Conc. 9). — capitina, attestato in un testo di latino tardo, come ha indicato la Iliescu‘®) > r. càpatinà «testa» «capocchia», cfr. forse alb. kaptiné «bulbo della cipolla» e «testa di animale» trova un riscontro, secondo l’Alessio, Conc. 21, nel sic. capitinula, capitìnia «cocca del fuso» (Traina Il) e vedi anche calabr. sett. capitìnula, capitìnala «verricello superiore del fuso», Rohlfs, NDCal. 132 (it. ant. capitino «capocchia del manfanile», DEI I, 735). - feta > r. fatà «ragazza» (assai diffuso con altri sensi, v. REW 3269) troverebbe un corrispondente più puntuale nel calabr. merid. fita «puerpera» .(Rohlfs, NDCal. 269), Alessio, Conc. p. 27-‘invitiare (REW 4536) > r. înviàta «imparare», corrisponde al calabr. mbizzarri «insegnare, istruire, mostrare, additare» (Rohlfs, NDCal. 405, sic. mmizzari, Traina 250), Alessio, Conc. p. 31, ed aggiungi abr. ammazzà, Giammarco, DAM I, 127. — ninguère > r. a ninge «nevicare», cfr. calabr. ningi «nevica» (raro), tipo° lessicale che raggiunge a Nord le Marche e l’Umbria (REW 5926). — «rovinasubrupare (v. REW 7451 e Cioranescu 812) > r. a surpa DAM IV Giammarco, cfr. abr. «dirupare», «franare», surraparsa re», 2167. — venètus «turchino» > r. vîndt «blu, violetto» che corrisponde sicuramente al calabr. sett. vènetru «giallo verdastro», «rosso scarlatto» e soprattutto rènatu «livido, cianotico», nap. vèneta «ceruleo» (Rohlfs, NDCal. 760), Alessio, Conc. 52. Nonostante i dubbi del Sala‘7, mi pare esatta l’equazione r. albastru «celeste» e arum. «grigio» (da albaster, REW 319) e reggino rastra «(pecora) bianca di sopra e nera di sotto» o vasra «(capra) di color nero e bianco» (Rohlfs, NDCal. 756); l’arum. conosce infatti nalbastru, oale nalbastrà «oale surà» (Papahagi 726). Vorrei ora accennare alle concordanze morfologiche tra le tante — legate in qualche modo alla comune perdita di -s finale latino, alla quale si suole — e giustamente — assegnare grande importanza per -—
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tina 67
M. Iliescu, «Revue de linguistique» XI, 1969, p. 319, ove si nota che è attestato nel Testamentum Porcelli (ediz. Haereus, Berlin 1912). V.M. Sala, rec. citata, p. 313.
cap i223
il
illustrare le somiglianze tra le due lingue. Ne accenna anche Taglia vini (Concord. pp. 257-258). Si tratta della formazione dei plurali della prima e seconda declinazione in italiano e in romeno che risalgono secondo la tradizione (e sembrerebbe ovvio) ai Nom. lat. in -ae ed in -i (casae, cervi onde it. e rom. case, it. cervi, rom, cerbi); non mancano le discussioni su tale interpretazione anche da parte degli studiosi romeni‘, Vi fa riscontro l’analoga desinenza nella prima coniug. alla seconda pers. sg. -as del latino tu cantas > it. tu canti, rom. cînti. La coincidenza è perfetta ed anch’io sarei dell’opinione di Tagliavini (1. cit.) il quale la pone nel giusto risalto e menziona poi le recenti teorie dovute a vari autori, ma soprattutto all’Aebischer® secondo le quali il Pl. Nom.-Acc. (forse di origine italica) -as, bene attestato nelle iscrizioni latine, avrebbe dato in it. -e per via fonetica e parallelamente -os sarebbe passato ad -i (attraverso -is, forma di Nom.-Acc., con dileguo di -s)!"°, Mentre per l’italiano possiamo disporre di una amplissima messe di forme medievali che — secondo alcuni — rappresenterebbero l’antecedente delle forme volgari, come si sa, per la lingua romena non possiamo risalire molto indietro e pertanto alcune fasi evolutive di detta lingua ci sfuggono interamente. Se risultasse valida — ulteriormente provata — per l’italiano tale spiegazione fonetica — la quale non è per ora condivisa dalla massima parte degli studiosi —, non vedo il motivo per cui essa debba essere esclusa per il romeno ove i risultati finali sono identici. Ma vorrei soltanto ribadire qui che non si può escludere a priori un processo di palatalizzazione di -s finale che dà origine ad -i, per cui non mi sentirei di accogliere senza perplessità la spiegazione che si dà -I
68 Si veda ad es. G. Ivànescu, Les formes du nominatif et de l ’accusatif pluriels de et Ile déclinaison en latin vulgaire, in Recueil d’études romanes, Bucarest, Editura Academiei 1959, pp. 125-153. 9 P. Aebischer, La finale -e du féminin pluriel italien, «Studi linguistici italiani» (del Castellani), 1, 1969, pp. 5-48 e La finale -i des pluriels italiens et ses origines, «bis», II, 1961, pp. 73-111. 70 Si ricorderanno inoltre i meditati studi di B. Gerola (che a tale filone di ricerca
Tre
aveva dedicato vari anni senza poter darci i risultati completi del suo lavoro) Il nominativo plurale in -às nel latino e il plurale romanzo, Géteborg 1950 e Aspetti della sintassi del Nominativo e dell’Accusativo nel tardo latino, «Atti Istituto Veneto», CVIII, 1949-1950, pp. 207-236.
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per
i
monosillabi in -s passato ad -i anche in romeno (noi, voi, dai,
stai, apoi, trei ecc.) fondata sull’analogia dei plurali, come afferma ad cs. il Puscariu”!: «s’a adàugat un -i dupà analogia pluralelor cu care
-
avea comunà idea pluralitàti». Altrove”? ho cercato di fissare sulla base di evoluzioni verificabili in altre lingue e dialetti — le modalità, le lasi, attraverso le quali un -s finale (sonorizzato € palatalizzato o ispirato) può trasformarsi in -i ed ho accolto tale spiegazioen fonetica per i monosillabi italiani in -i da -s latino (potrei aggiungere il caso (t) passato a davés nei dialetti de-avorsu — ma meglio de ladini centrali o a ’ndavéi nei cadorini e antico bellunesi, con un > poi; e in tal caso si tratta di processo analogo a
pos
di
-
pos(t)
è romanzo)”. Non vedo comunque il motivo per il quale, qualora o spiegazione risulti valida per l’italiano, essa non lo debba essere per
ui
1
ci
preme soprattutto sottolineare nuovamente la perfetta convergenza tra le due lingue, a prescindere dal processo linguistico che ha portato ad esiti identici. Desideravamo soltanto di ribadire ancora una volta un concetto ben noto e accolto penso da tutti gli studiosi circa la strettissima affinità in seno alla Romània tra romeno e italiano, tanto nella forma standard toscana, quanto e ancor più nelle sue varietà dialettali. Ma chi affronta codesti temi di comparazione tra idiomi neolatini non di può non rilevare ancora una volta il miracolo della sopravvivenza una lingua sorella o gemella nella sua integrità strutturale romanza. Come osserva giustamente il Niculescu’‘ essa è sopravvissuta in un clima politico, sociale e intellettuale ben lontano da una cultura
I
19-84, Puscariu, Despre legile fonologice, «Dacoromania» II (1921-1922) pp. 1937, roumaine Cluj-Bucuresti pp. specie pp. 55-56; v. anche Etudes de linguistique 71
$.
291-296.
o
| mediolatini e Appunti di fonetica italiana. 1 monosillabi in -i da -s, «Studi ’ olgari», IV, 1956, pp. 225-240. | | i miei Saggi sul ladino dolomitico e sul friulano, Bari, Adriatica 1972, p. 203 — mi sembra più nota 28 [ma l’etimo de-pos(t) — proposto ora da J. Kramer babile]. i ioulesen, Individualitatea limbii romàne între limbile romanice, 2. Bucu | A. 279. 1978, p. resti, Editura stiintificà 722
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ufficiale latina come nell’Occidente. Se la Romania non appartiene oggi alla «Romània perduta»: «este meritul mare al acestor comunitàti lingvistice latine modeste si izolate care au stiut sà;si pàstreze, printr-un puternic si continuu act de fidelitate, limba Romei, maiestas romana, $i sà-si reconstruiascà dupà 11-12 secole, o culturà modernà în concordantà cu a celorlalte popoare romanice».
RUMENO I1ELE NOTA ETIMOLOGICA
È opinione ormai quasi generale tra
linguisti e folcloristi che le lele «spiriti malefici, specie di streghe» delle credenze popolari rumene, debbano il loro nome a motivi tabuistici di evitare una loro diretta evocazione. lele non sarebbe altro che il pronome femminile di terza persona ele (= pron. iele) «esse», mediante il quale il popolo rumeno, non senza un senso di paura, le nomina sfuggendo, con tale eufemismo, al pericolo di pronunciare il loro vero nome che da solo incute sgomento. Tale spiegazione, già proposta nella seconda metà del secolo passato, ormai corrente nei dizionari etimologici e negli studi sulle tradizioni popolari rumene, non è — come sa — l’unica che sia stata i
si
avanzata dagli studiosi. Altre etimologie sono infatti prospettate dai linguisti che partono rispettivamente da voci ungheresi o del sostrato balcanico, da voci turche o germaniche. In questa breve nota ci è parso possibile di battere una via nuova nell’interpretazione delle lele rumene e chiediamo subito indulgenza agli specialisti se la nostra ricerca presenta ancora, per alcuni particolari e per il collegamento tra voci balcaniche ed italiane, lo stadio di abbozzo o di proposta non inverosimile. Contiamo di poter sviluppare in séguito la nostra indagine con sussidi più ampi e con maggiore documentazione, specie se troveremo qualche consenso alla nostra ipotesi: essa si fonda sulla presunzione che le lele rappresentino una sopravvivenza, anche nel nome, della mitologia classica, pur incrociatasi con tradizioni più antiche o più recenti. Tale ipotesi non ci risulta contraddetta da motivi sostanziali di ordine linguistico o storico-antiquariot.
Ringrazio vivamente il mio Maestro Prof. Carlo Tagliavini e l’amico Mircea Popescu che hanno facilitato le mie ricerche permettendomi di consultare, con liberalità, opere difficilmente accessibili nelle biblioteche italiane [ambedue defunti]. 1
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le
lele nel folclore rumeno sono rappresentate, spesso Com’è noto, Vile slave, come streghe nefaste, per lo più vestite alle analogamente di bianco, alate, invisibili tranne durante la notte in cui fanno le loro apparizioni; esse sono normalmente tre (e portano allora i nomi Savatina, Mdàrgàlina, Rujalina), ma possono comparire anche nel numero multiplo di tre (noto numero magico), in sei, nove ecc. La loro apparizione è accompagnata dal vento, dalla bufera; hanno il dono del canto, ma nei campi o nei prati ove esse intrecciano le loro danze notturne non cresce più l’erba. Si divertono ad insozzare i laghi e le fonti con i loro sputi, e molto pericoloso è per l’uomo calpestare le loro bave...; chi ha buone qualità canore deve guardarsi dalla loro invidia. L’uomo «calcat de scuipat, luat din s. de lele» si ammala immediatamente di diverse malattie e soprattutto di paralisi. L’aggettivo rumeno ielit (da lele) significa «colpito da malattia indefinibile cagionata dalle Iele». Gli epiteti più frequenti con i quali sono evocate nella fantasia popolare, oltre a Dînse sono: Iude, Fetele lui Iuda, Driàgaice, Nemilostive, Samovile, Vilve, Nagode, Irodite e soprattutto Viînturite, Vîntoase, Fetele Vîntoaselor, Stàpînele vîntului (con chiara allusione alla bufera, ai venti che le accompagnano), Irodiece, Rusalii ecc.% il Dràganu®? osserva che un comune attributo delle lele è anche presîn da persànus, ed è anzi con tale appellativo che si tenta di ammansire la dzînà cattiva (strega) presso i Macedorumeni. Altri attributi sono menzionati dalla Sàineanu* e dal Bogrea”, tra i quali Dobrele (= Bunele), Sfintele, Soimanele, Joimaàritele (0 Soimaàritele) cioè «che puniscono sfigurando»®.
di
basti rinviare al lemma lele del grande Dictionarul limbii romàne dell’Accademia Romena, vol. II (F-J), p. 451-2, e soprattutto alla ricerca tuttora fondamentale di L. Sàineanu, lIelele, dînsele, vîntoasele, frumoasele. Studiu de mitologià comparativà in «Revistà pentru istorie, archeologie si filologie» (del 1886), poi ripubblicato ed ampliato nel volume Studii folklorice. Cercetàri în domeniul literaturei populare, Bucuresti, 1896, pp. 67-173 (col titolo lelele saù dinele rele dupà credintele poporului 2
Mi
romàn). 3 Ved. Dacoromania, IV, (1924-26), p. 746. 4 lelele cit. p. 93 sgg. 5 V. Bogrea, Etimologii in Dacoromania, IV, (1924-6), p. 823. 6 Ved. Dictionarul limbii romîne moderne, Bucuresti, 1958, p. 835.
228
le
Tra descîntece più diffuse mi basti ricordare quelle raccolte nel noto volume Poesii populare romàne di G. Dem. Teodorescu”, alle pp. 379-385, ad es.:
Voi, Ielelor,
màiestrelor, dusmane 6menilor, stàpànele vèntuluî, Démnele pàmèntului ce prin vàzduhù sburati pe iérba lunecati si pe valuri càlcati, Oppure: Voi, harnicele de voî, voi, vitezele de voli
pe unde mi-atimai umblatù, spuneti-mi ce-ati mai stricatù?... Pe (cutare) l’ati întémpinatù puterea voi i-ati luatù si viéta i-ati scurtatù;
Tra le etimologie proposte nel secolo scorso, poca fortuna ha
avuto quella avanzata da A. de Cihac® il quale sistema la nostra voce
tra gli elementi magiari e cita la frase iele i au luat gura si picioarele
«les mauvais esprits l’ont paralysé à la bouche et aux pieds», inoltre: fug de ele ca de iele... derivato dall’ungherese -1é1 «esprit, àme», «souffler», «respirer». Una spiegazione abbastanza inge-
lehelni
Pubblicato a Bucarest nel 1885; conservo la grafia dell’editore. Dictionnaire d’ètymologie daco-romane. Eléments slaves, magyars ecc. Il, Francfort s. M., 1879, p. 508. 7
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gnosa dette Hasdeu” il quale suppone che lele risalga ad una antica forma balcanica, tracodacica, parallelamente alle Vile slave. E molto interessante, nel tentativo etimologico di Hasdeu, il richiamo alla forma bizantina e greco classica Tehhé nel significato di «vampiro» ecc. (vedi qui sotto):...» Coincidenta lelelor — prosegue Hasdeu — în limba romànà cu ghelele din provincialismul grec, anterior invasiunii slavice, demonstrà pànà la evidentà, cà Grecii si Romanii n’au putut sà le capete uniìi si altii de càt de la vechea poporatiune intermediarà la Traci. Tot de între Dacia si Elada, prin urmare numaî si numaîi acolo le-aù luat mai tardi Sèrbij sub forma de Vile...». Ma il tentativo etimologico dell’Autore non è tra i più felici e non è condiviso dagli studiosi i quali dànno, di norma, una diversa interpretazione delle vile slave!, Maggior credito ha invece riscosso la spiegazione di lele dal turco; bisogna infatti riconoscere subito che una voce turca sta sicuramente alla base di parole rumene che si prestano ad essere confrontate, etimologicamente, col nome oggetto della presente nota; in particolare si ricorderà ielità «vent froid» («vînt rece») trage ielita «suflà un vînt rece» dal turco yel «vento», e cfr. rum. ielcovan (anche elcovan, alcovan) «alcione» (Alcedo hispida), turchismo letterario, propriamente, «gonitor de vînt», cioè turco yelkovan «idem»!!. La connessione delle lele rumene col turco yel (jel «vento») «vento» fu sostenuta dal Miklosich!?, dal Lébel'ò, ed in un primo
de
Nella rivista Columna lui Traian, 1876, p. 144 e soprattutto nello studio Originele pàstorieî la Romàni, ibidem, 1874 (cito i passi, di seconda mano, dal volume di Sàineanu lelele, p. 129). 10 Vedi per il ceco vila, (Vadclav Machek, Etymol. Slovnik jazyka èeského a slovenského, Praha, 1957, p. 566-7; cfr. anche il russo vila «Art Nymphe, die in Bergen, Gewiàssern und in der Luft haust», M. Vasmer, Russ. Etym. Wb., I, p. 200 e A.G. Preobrazenskii, Etimologiteskiì slovar’ ruskogo jazi’ka (ristampa), Moskva, 1959, p. 83, con gli accostamenti slavo-baltici ivi proposti. 11 Ved. Dici. Limbii Romàne, Il, p. 451-452. 12 Fr. Miklosich, Die Tiirkischen Elemente in den Sidost- und Osteuropiàschen Sprachen. Nachtrag, in Denkschr. d. Akademie d. Wissensch. Wien, XXXVII, 1888, 9°
p. 51.
Th. Lébel, Elemente turcegsti, arabegtìi si persane în limbà romànà, Constantinople-Lipsca, 1894, p. 55. 13
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tempo anche dallo Sàineanu!#; essa è ripetuta dal Lokotsch" il quale sistema il rom. iele, ele «Làhmung», «bòse Fee» sotto il turco jel «Wind, Làhmung, Rheumatismus». Tali sono infatti i significati della voce turca; essi trovano un importante riscontro nelle regioni balcaniche che hanno risentito maggiormente dell’influsso linguistico turco, cfr. in particolare l’albanese jel, -i «reuma»!. La forma turca jel è sicuramente indigena nei dialetti turco-tatari, come attestano i dizionari etimologici turchi, ad es. il Vémbéry!’, num. 142, cfr. le varianti Jil, jel, jal accanto a sil, siàl, sal «Wind, windig, kalt... Hauch, Athem, athmen», oppure il Radloff'8 III, col. 345-6 s.v. jàl «der Wind... die Luft... die Epidemie... Seuche... Hauch, Geist». Lo Hony" traduce yel con «wind; flatulence; rheumatism» ... o 1àfi yeller alsin! «said to one who says something indecent or unlucky». Abbiamo citato più ampiamente i significati della voce turca poiché, come vedremo più sotto, riteniamo che il turco yel si sia in qualche caso associato, per la semantica, alle lele la cui origine è più antica. Un etimo germanico che peraltro non ha trovato consensi, è stato proposto da C.C. Diculescu, il quale — com’è noto — accentuò, spesso fuor di misura, la tendenza a spiegare voci rumene col superstrato gepido”’. Secondo il Diculescu?, iele verrebbe da una forma gepida L. Sàineanu, Elemnete turcescì în limba romàndà Bucuresci, 1885. K. Lokotsch, Etymologisches Wòrterbuch der europiàischen Wòrter orientalischen Ursprungs, Heidelberg, 1927, num. 950. 16 Vedi ad es. Fulvio Cordignano, Diz. Albanese-Italiano, Milano, 1934, p. 63: jel (con asterisco che indica turchismo) «reuma» (dialetto ghego); A. Leotti, Diz. Albanese-Italiano, Roma, 1937, p. 383: jél «reuma» (dial. tosco); Fjalor i gjuhés shqgipe, Tirané, 1954, p. 187: jel -i «reumatizmi». 17 H. Vàimbéry, Etymologisches Wòrterbuch der Turko-Tatarischen Sprache, Leipzig, 1878, p. 131, num. 142. 18 W. Radloff, Versuch eines Wòrterbuches der Tiirk- Dialecte, II. Band (ristampa presso Mouton et Co. 1960, ’s-Gravenhage, dell’opera publicata nel 1905), col. 345-6. 19 H.C. Hony, A Turkish-English Dictionary, Oxford, 1947, p. 380. 20 L’etimo del Diculescu non figura, ad es. nella Romania Germanica di E. Gamillscheg vol. IL, p. 238 sgg. (com’è noto il G. ritiene di origine germanica alcune voci rumene contro la tradizione etimologica più comune ed accoglie spesso le proposte del Diculescu). 2 C.C. Diculescu, Die Gepiden, 1 Band, Leipzig 1922, p. 186 ed in Anuarul Institutului de Istorie Nationalà, II, 1924, p. 359 sgg. 14
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Il ll
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corrispondente all’ant. danese elle, sved. dial. ellen, anglosass. ielfe, ted. Elfen... «Hora elelor se chiamà în vechea danezà elledans, sved. dial. ellare-dans...» Tale etimologia fu subito criticata dal Bogrea”? e non mi risulta che sia stata riproposta da altri studiosi. Il Bogrea attiene all’etimo, ormai corrente, e cioè alla identificazione delle lele col pronome femm. ele, come aveva indicato già da alcuni decenni L. S$àineanu nella sua ricerca fondamentale già menzionata”3. Anche il Meyer-Liibke nel REW® 4266,2 (i11e ) condivide tale spiegazione che è confermata dal Dictionarul limbii romàne (dell’Accademia)* e dal recente Dictionarul limbii romîne moderne (Bucuresti, 1958), p. 372”. Se ora anche noi abbiamo la presunzione riaprire la discussione sull’etimo di lele, ritenuto per lo più pacifico, secondo la spiegazione tabuistica sopra ricordata, diremo subito ch’essa ci è stata suggerita da un lemma del DEI‘, e precisamente dalla voce iella di origine romanesca. Com’è noto, tale parola che ormai è diffusa in quasi tutta l’Italia e sta penetrando sempre più profondamente nell’italiano parlato anche all’infuori della capitale, significa «iettatura, sfortuna, disdetta, scalogna». Oltre al Chiappini?’, la registrano anche il Panzini, il Prati, il Gabrieli’ ecc. Nel lemma del DEI, redatto in forma assai dubitativa ed imprecisa, vi si confronta il bovese (greco di Calabria)
il calabrese jeddu «coi piedi rivolti in dentro (di asini, capre) che sembra origine bizantina (gr. m. gellé, gelldu f., «folletto, spettro», gr. ant. Aello f., nome di una Arpia)». Le concise annotazione del DEI hanno il merito di suggerire alcuni accostamenti che forse non sono del tutto infondati; rappresentano inoltre un tentativo, non disprezzabile, di spiegare una voce oscura, jella, sulla quale non mi risulta siano state formulate altre ipotesi etimologiche convincenti. [Nulla si apprende a questo proposito dal DELI di M. Cortelazzo (redattore della voce) e P. Zolli, Bologna 1983, vol. III, 542]. IL DEI ha evidentemente ripreso e corretto alcune indicazioni e confronti già istituti da G. Alessio nel 1941? a proposito del bovese yéddo che il Rohlfs’ deriva dal gr. ÙAh6s «storto», cfr. sicil. di Rametta yeddu «con le gambe storte». Secondo l’Alessio il romanesco yella sarebbe foneticamente distinto dalla voce calabrese e «ricorderebbe il bulg. gele «disdetta al giuoco» (dal turco)» (??). Se la voce bulgara menzionata dall’A. fosse effettivamente testimoniata”, avremmo indubbiamente un buon sostegno per spiegare una famiglia di parole che non si possono ancora accostare con sufficienti garanzie di veridicità. Rimane peraltro l’eventualità di una origine comune del romanesco iella «jettatura» e delle Jele rumene; ma il problema andrà in seguito approfondito poiché richiede ulteriori accertamenti, specie di ordine fonetico*?. Per la voce rumena, usata soltanto al plurale,
Dacoromania, IV, 1924-26, pp. 822-3. Lo S$àineanu, lelele cit. p. 126, a sua volta, cita una frase di Seulescu, il quale per primo avrebbe segnalalto l’equivalenza lele = pron. ele: «Dînsele si lelele, Rusaliile cu pronumele acesta se întelege trei dine Eumenide saù Furil, cari înconjé6ra lumea prin aer»; lo $àineanu ripete la sua rinuncia all’etimo turco anche nel volume fondamentale Influenta orientalà asupra limbei si culturei romàne, Bucuresci, 1900, vol. 1 p. 245. 24 Vol. Il pp. 451-2. 25 Uscito a cura dell’Academia Republicii Populare Romîne sotto la direzione di D. Macrea. 26 Dizionario etimologico italiano di C. Battisti e G. Alessio, Firenze, 1950-57, ved. vol. II, p. 1925. 27 F. Chiappini, Vocabolario romanesco, Roma, 1945 (2 ed.) p. 440 (aggiunte a cura di U. Rolandi). 28 A. Panzini, Dizionario moderno (cito dalla IX ed. a cura di Schiaffini e Migliorini), Milano, 1950, p. 324: iella «iettatura» (dialettale); A. Prati, Prontuario
di parole moderne, Roma, 1952 p. 234 jella (Roma) «jettatura» portà la jèlla «portare la jettatura»: A. Gabrieli, Dizionario linguistico moderno, Milano, 1956, p. 307, jella voce romanesca (sfortuna, iettatura, disdetta). 29 G. Alessio, Nuovo contributo al problema della grecità dell’Italia meridionale in Rend. Istituto Lombardo, LXXIV, 1940-41, p. 706. 30 G. Rohlfs, Etym. Wb. unteritalienischen Grizitàt, Halle, 1930; inoltre: Neues aus Grossgriechenland in Byzantion, XII, 1938, p. 544. 31 L’Alessio mi assicura (lettera del 17-IV-1961) di averla appresa durante il suo soggiorno in Bulgaria (ma egli potrebbe aver frainteso tale espressione, poiché essa non figura in alcuno dei molti dizionari bulgari da me consultati). 32 Se il punto di partenza per l’etimo di jella fosse effettivamente A ella (= Ella) bisognerebbe supporre una dittongazione fuori di metafonia (evenienza assai rara nei dialetti centro-meridionali); si potrebbe, d’altro canto, ricorrere alla prostesi di j-, non ignota ai dialetti meridionali italiani, vedi Rohlfs, Hist. Gramm. It. Sprache, 1, 1949, pp. 540-1.
si
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jeddo,
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non mi pare insensata una derivazione da un latino balcanico “A ellae passato ad ‘Elle > iele, secondo un’evoluzione fonetica normale in rumeno”®. Penserei quindi ad una sopravvivenza balcanica (e forse anche italiana centro-meridionale?) di una divinità della mitologia classica, parallelamente a Diana che si continua anche nel rumeno zîna nel significato di «fata». La fata cattiva, e cioè la strega, o per maggior precisione le streghe rumene, sarebbero invece la continuazione delle Arpie designate da una delle tre, forse la più nota: ’A£&X\6, in latino A èllo, -is e Aélla, pl. "Aellae®5. Anche L. Saàineanu’ ricorda alcune streghe rumene, analoghe alle lele che richiamano direttamente le classiche Arpie: «Aceste dine ale vîrtejulului aduc aminte de anticele Harpii (“Apsmuvia.) saùi «Rdpitéorele» monstri înaripati, repedi ca vîntul...» Le Arpie, come indica anche il nome di una di loro (forse la più famosa), sono «Windgòttinnen «secondo una comune interpretazione condivisa anche dal Gruppe”’. L’Arpia ’A&àhhòo (Hes.) trae il suo nome da dehha ep. Géhàn eol. atvehha «Sturmwind», cfr. nel celtico il cimrico awel f. «Wind, Hauch», da una base "àFeX-L &,-L è, cfr. delAn-mvoy H55. Forse non è un caso che le Iele rumene — e lo sottolinea più volte lo S$àineanu”° —
33 Mi basti rinviare a W. Rothe, Einfiuhrung in die histor. Laut- und Formenlehre des Ruminischen, Halle, 1957 p. 9 e p. 77 (cfr. anche stele di contro a stea); H. Tiktin, Rumin. Elementarbuch, Heidelberg, 1905, p. 32 50. 34 S. Puscariu, Etym. Wb. d. ru,. Spr. Heidelberg, 1905, num. 1942 e REW 2624; H. Mihàescu, Limbdà latina în provinciile dunàrene... Bucuresti, 1960, p. 95, 126. 35 Ved. Pauly-Wissowa, RE, I, 1894, co. 539, Aello (‘ A&A}©) la nota Arpia (Esiodo, Teog. 265 ecc.), inoltre: Aella «die schnellste der Amazonen die von Herakles zuerst getòtet wurde» (Diod., IV, 16); Roscher, Ausfihrl. Lexikon. 1, col. 85-86. 36 Telele cit. p. 144. 37 O. Gruppe, Griech. Mythologie und Religionsgeschichte, II, Minchen, 1906, p. 844. 38 Mi basti citare il recente Griechisches Etymologisches Wòrterbuch di H. Frisk (Heidelberg, 1954), 1 B. pp. 24-25 e J. Pokorny, IJEW p. 82 (confronta la voce greca
con varie forme celtiche). 39
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Telele cit., specie pp. 153-166
(Rolul vîntului în literatura folkloricà).
siano soprattutto «zîne aeriene», come indicano i varî attributi ricordati... vînturite, vîntoase, fetele vîntoaselor ecc. D’altro canto, in rumeno, alle Aellae si è probabilmente che da solo non spiega il «reumatismo» associato turco yel «vento», l’origine delle nostre streghe; le argomentazioni addotte dallo Saineanu‘’, contro l’origine turca ci sembrano tuttora valide. Bisogna quindi ammettere che per etimologia popolare le lele siano divenute anche le Dînse, denominazione secondaria e forse recente. Anche il Bogrea‘! annota l’espressione devînt «boàla bàbeasca, analogà cu de dînsele sì cauzatà de un vînt ràu», ove l’espressione de-dînsele è un sinonimo moldavo di dintru-iele (i.e. boalà) = «reumatism» ...assai verosimile contaminazione tra le malefiche Iele, perniciose alla salute, ed il turco yel «reumatismo». Incerti sono invece gli eventuali contatti (originari o dovuti ad una contaminazione successiva?) tra il gr. ’A&àXO: “aFeXh- e la nota strega -oUs F. (Saffo)! che sopravvive certamente nel bizant. eolica Yyehov pl. YeAhO, Yyehoò, -obs, 1)ì- e nel gr. mod. yehovdes ecc. «folletto», «spettro»*ì. L’origine etimologica di TERA ecc. non è ben chiarita, né ci convince del tutto l’accostamento dello *
Tei,
vii,
vii,
lelele cit. p. 134. Art. cit. 42 Un cenno anche in $àineanu, lelele cit. p. 130, il quale peraltro tende a scartare il rapporto delle streghe rumene con la strigà lesbiana Y&h\O e col neogreco TAO, Tehoù, pl. Tehovdes ecc. Per l’attestazione di TiAA, TeAh@ in Saffo mi basti rinviare a C. Gallavotti, Saffo e Alceo vol. I, Roma, 1956 (Zenobio III, 3). 43 Ved. E.A. Sophoklès, Greek Lexicon, I, p. 326: YEAAO, YERO, Or YEhO, 0Us «hobgoblin, bugbear»...; l’osservazione che tale voce debba connettersi meglio «with the ghoul of the Arabic Nights than with Sapphic TeAh@» non persuade; eldWAov ’EOxovons inoltre cfr. Esichio (ed. K. Latte, 1954 vol. I. p. 368): 1Ò t@Vv dopwv, 16v xapdévov... Taio datuov, Îjv yuvaiîres TÀ veoyvà maLdia paoìv àpndtev... Vedi anche Kretschmer in Glotta, Il, 1909, p. 331. Per il greco mod. basti citare E. Legrand Dict. grec modern- francais, Paris, 1882 p. 222: yehhoy, YEAO «spectre revenement», oppure E. Brighenti, Dizionario Greco modernoItaliano, Milano, 1927 (2 ed.) p. 148: yEhhoY, -Aké «folletto, spettro»; Frisk cit. I, p. 295 «TE hO ... Dazu mer. und ngr. Tuloù «Art Gespenst». 40 41
Tei:
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Schwyzer“ alla radice ye}- «glànzen», cfr. per la semantica il lituano laume (Laumen). Ma non possiamo sottacere le difficoltà di accordare (secondo la frettolosa ipotesi del DEL) il gr. TE\A@ con ‘A&àhéo ecc. poiché bisognerebbe in tal caso postulare una antica alternanza in greco (in dialetti greci) tra -v- (F) e -g-, per ora assai problematica”. Non ci sfuggirà, d’altro canto, l’ipotesi che le due divinità abbiano potuto incrociarsi poiché i significati non sono tra loro lontanissimi: ipotesi che richiede — al pari delle altre presentate in questa nota — ulteriori approfondimenti.
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UNA CORRISPONDENZA LESSICALE VENETO-BALCANICA: «MO RO»
Ricordo di aver sentito varie volte, fin da bambino, l’allocutivo ciò moro! in vari paesi dell’alto Veneto, ma in realtà credo in tutta la regione, e tale espressione mi viene ora confermata anche per Friuli. Essa è tuttora frequente specie nel linguaggio confidenziale e può assumere varie accezioni che vanno dal banale richiamo, a sfumature lievemente di rimprovero o anche minatorie; ma essa può essere usata anche in tono scherzoso od essere interamente neutra (e mòro può equivalersi a «ragazzo», ma tale impiego mi sembra essere meno comune; comunque non ho condotto particolari inchieste in proposito). Sul significato originario di mòro personalmente non ho mai nutrito alcun dubbio poiché mi è sempre sembrato una specie di vezzeggiativo e cioè un particolare uso metaforico di mòro «scuro» «bruno» e soprattutto «nero di capelli», in opposizione a «biondo», uso tuttora assai comune nel Veneto ed altrove. Di ciò! invece non sapevo nulla, tranne che esso era caratterizzante delle parlate venete o d’influsso veneto. Il senso è ben noto poiché ciò si equivale a «ehil!», «ascolta!» una specie di richiamo come e’ tu, a volte marcato, tanto comune che Dante nel De vulg. el., se l’espressione fosse stata usata ai suoi tempi, forse avrebbe potuto caratterizzare la parlata veneta come «la lingua del ciò». Ho sentito molte persone, specie non venete e non esperte evidentemente di linguistica, che di tale veneto ciò fanno un tutt’uno con il pronome italiano ciò: un pronome che ha invece una corrispondenza precisa nel co (tsò) dei testi antichi. D’altro canto, avendo io acquisito fin dai primi anni di studi superiori una mentalità scientifica per lo più rivolta verso la ricerca etimologica, nei frequenti contatti che ebbi con Angelico Prati — fin dal 1943 — mi sono sempre meravigliato come il noto studioso, particolarmente versato nelle ricerche dialettali ed etimologiche, di-
il
Griech. Gramm., 1, 1939, p. 478 n. 7. Ved. ad es. le osservazioni di E. Borguet, Le dialecte laconien, Paris, 1927, (a proposito di una presunta alternanza, non soltanto grafica, tra F e DT). 44
‘5
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scorrendo con me del veneto ciò, propendesse per una spiegazione elementare di richiamo. Fin dal mio primo lavoro glottologico — elaborato durante il, difficile periodo partigiano (ottobre 1943-giugno 1945), avevo posto il ven. éò sotto il vb. éò, édle «torre» dei nostri dialetti, come chiaro imperativo da tuò ) tiò éo, cfr., per l’uso, lit. to’, teh! (esclamazione di sorpresa o di richiamo) e mi era facile indicare un riscontro nel trent. tòi «prendi», «togli» e «guarda» (cfr. il fr. colloquiale tiens, tiens!). Del resto ne aveva parlato chiaramente anche Tagliavini, NCCom. (Venezia 1944), p. 31 «éo 2. pers. sg. del vb. tòli «prendere». Può essere una semplice interiezione o piuttosto una abbreviazione di un più raro èéòli... A Candide l’arcaico tèi...». Ma il Prati rimase quasi convinto dell’esattezza di codesta spiegazione quando ne lesse la medesima interpretazione in G. Màfera, «L’Italia dialettale» XXII (1957-58), pp. 148-9 n. 1, come ho potuto capire durante i nostri incontri pisani. Del resto in Etimologie venete del 1968 (opera purtroppo postuma) a p. 42 egli manifesta ancora una punta di dubbio verso l’etimo citato che invece era assai facile e sicuro: «ciò (ven.) «ehi!» «ascolta!» anche ciò ti (venez.). Nel Cavassico chiò (Il, 319) — Nel trentito toi! e tei!, trent. rover. toi ... «guarda bene, non ardire (segno di minaccia). Interiezioni. Ciò! forse è da cior (trev., venez., bellun., istr.) «torre» ...». A prima vista è ancor più semplice, come abbiamo osservato, spiegare mòro, ma, non da molto tempo, mi sono accorto, e ne ho ora piena convinzione, che le cose non stanno come senza pensarci possono apparire e che la spiegazione — diciamo popolare o tradizionale — è soggetta ad essere interamente sovvertita soprattutto mediante una fitta rete di corrispondenze delle lingue balcaniche. Queste ultime, come è ben noto, formano una specie di «lega linguistica» anche nel settore lessicale, ma qua e là non manca qualche aggancio con l’italo-romanzo nord-orientale, come è stato sostenuto da alcuni studiosi e come ho ribadito anche in alcuni scritti (mi basti rinviare qui al mio contributo Convergenze linguistiche italo-romene, ora apparso in Studi albanologici, balcanici, bizantini e orientali alla memoria di G. Valentini S$.J., Firenze, Olschki 1986, pp. 147-167; ivi la principale bibliografia) [v. qui 8]. Nel nuovo caso specifico, per il quale io amplio qui una compara\)
il
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zione bene consolidata, il responsabile di codeste corrispondenze è il greco, il quale, come ben si sa, non poca parte ha avuto anche nella costituzione di una lega o di una serie di convergenze assai notevoli tra le lingue balcaniche, onde è noto che su basi scientifiche si è costituita una disciplina che ha vari cultori (specie all’estero): la «linguistica (e filologia) balcanica». Conviene riportare innanzi tutto il lemma del Boerio (fin dalla prima edizione del 1829 p. 361): «morè m. T. Mar. ragazzo di scopa. Chiamasi il servo o il garzone che in una barca s’impegna in qualsivoglia fatica e particolarmente nel nettare il bastimento e nel servir l’equipaggio. Morè in greco moderno è il vocativo di morés che vuol dire «nero», ma oltre che in questi sensi usasi come appellativo familiare equivalente ad «Fhi tu!» o simile. Anche noi diciamo vien qua moro; sta quieto moro mio e simili. Queste osservazioni fanno presumere che la voce morè venga da more greco, per la ragione forse che quei ragazzi sono chiamati dall’equipaggio con quelle voci confidenziali». La spiegazione della voce nella nostra nota è in buona parte contenuta in questo lemma, assai puntuale, del Boerio; ma questi rivela subito una scarsa conoscenza del greco, e d’altro canto coloro che si sono poi occupati di morè non hanno saputo presentare un quadro completo del problemino di cui stiamo discutendo. Merita riportare anche un lemma parallelo del DEI, sempre attento ai regionalismi; nel vol. IV pp. 2507-8 leggiamo infatti: morè m. (XIX sec. Boerio) «marò»; v. venez. cfr. l’abr. murè marinaretto che nelle barche da pesca sale sull’antenna per legare la vela; gr. mod. mòré, mòré’ ohé! ohi tu! caro (mio); dal vocat. di méron, morò(n) bambino, da méros matto, semplice, sciocco, fatuo, stravagante, cfr. gr. m. morudéki bambino. Passato al serbo-croato mòre come interiezione». Sempre il DEI III, 2371 riporta marò m. XIX s. mar. ragazzo di fatica nei bastimenti, v. usata nella marina adriatica (ven. morè) dal. gr. mòorés bambino (da pazzo, stolto)». Ma una trattazione assai ampia e precisa della voce veneziana riportata dal Boerio si trova in M. Cortelazzo, L’influsso linguistico greco a Venezia, Bologna (Pàtron) 1970, p. 148 s.v. morè. Essa mi esenta da ripetere una lunga sequela di citazioni, specie marinaresche, tra le quali soprattutto quelle del Diz. di Marina (con lemma redatto da A. Prati). Il greco 239
«usato scherzosamente fin dal II sec. d.C. (Sophocles II, 776) vocat. di uopés «stolto, sciocco», Liddell Scott 1158, è espressione citata anche da Matteo 7.26, di vario e frequente uso e tuttora vivacissima in Grecia ed in tutta la penisola balcanica, Ove ha avuto una straordinaria fortuna...». Si ha pure una forma contratta bre cioè unpé, Boé «chi!» che compare spesso nella letteratura grechesca, ripresa dal Folengo nel Baldus (a. 1522)... Cavalla grisa bre bre — vel — Pospodo - dicant (XXIV, 482-3). Quanto al gr. ant. u®p6s, att. u@gos (forse dal vocativo) «dumm, stumpfsinnig, tòricht» (ion. att.) v. Frisk, GEW II (1970), 285 che cita i derivati pogia, ion. — in f. «Dummheit, Torheit» (ion. att.), uogaivo «stumpfsinnig, tòricht sein», uwe6ona. «dumm, stumpfsinnig werden». L’etimo non pare interamente chiarito e generalmente si richiama l’a. ind. mira«stumpfsinning, tòricht». Il lat. morus -a -um «nàrrisch, albern» (da Plauto) ecc. è un prestito dal greco, v. bibliografia in WaldeHofmann II (1954), p. 114. Quanto al passaggio semantico da «pazzerello» a «ragazzo» o simile, esso non offre alcuna difficoltà e mi basti rinviare al celebre volume di I. Pauli, Enfant, Garcon...,; Lund 1919, per avere varie conferme di tali processi metaforici di spregiativoaffettivo. Del resto si veda anche N.P. Andriote, Etymologiko Lexiko tes koines neo-ellenikes?, Salonicco 1967 p. 224 s.v. uwpò = 10 «Bpépos» dall’ant. uogés. Il Brighenti (Diz. greco-ital) traduce uwES bambino e upopé «ohe!» «ehi tu». Per collegare la voce veneta (ed in particolare veneziana) con espressioni balcaniche mi ha offerto l’occasione — già da vari anni - la lettura attenta del capolavoro romeno «un gioiello romanticopopolare» (come lo definisce L. Renzi) Miorita che già conoscevo fin dall’epoca degli studi universitari nella versione di Ramiro Ortiz (le cui lezioni non ho potuto seguire a causa della guerra). Anche il commento di tale testo da parte di una esperta studiosa romena (a proposito dei vv. 10-13) «Iar cel ungurean si cu cel vràncean, mdàri, se vorbirà ...» non mi aveva interamente soddisfatto a proposito dell’inciso miri, espressione di meraviglia, di stupore (il Renzi, Canti narrativi tradizionali romeni. Studio e testi, Firenze 1969, p. 151 e 159, traduce «ehi»). Studiando — e poi anche insegnando linguistica balcanica, appresi ben presto che si trattava di un grecismo balcanico uwgpÉ
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molto diffuso. Basta infatti consultare il Sandfeld, Linguistique balkanique, Paris 1930, pp. 19-20, e si vede subito che tra le espressioni greche di ampia fortuna figura: «interjection uwpé, femm. poot, à l’origine vocantif. de uogés «sot, fou» ... Elle se trouve en albanais sous la forme moré, mre en parlant aux hommes, mori, mojè, en parlant aux femmes, en bulgare moré et mori, mari, en serbe mòre et en roumain mire, miàri, mà ... Enfin la forme contracte Boé, unto existe dans toutes les langues citées et en turc». Non ritengo del tutto superfluo un breve controllo dei dizionari (specie etimologici). Ampie informazioni per il romeno dà il Diction. limbii romàne VI, fasc. 4 (1966), pp. 260-1: méàri inter. popolare, spesso seguita da un vocativo, con molti esempi tratti dai classici...; esclamazione che esprime differenti sentimenti; di ammirazione, sorpresa (Mdre, ce spui? — che dici?), di afflizione, paura di ammirazione. Anche mdéri (regionale), mireo, mirele. L’etimo è il n. gr. uwpé da uwp6s «prost, nebun», cfr. bg. more. Ma il Collega e Amico M. Sala, dell’Istituto di Linguistica dell’Accademia di Bucarest, mi trasmette varie informazioni supplementari in cui si vede che qualche linguista — a torto! — ha dubitato dell’etimo succitato. Un buon lemma ha il Cioranescu, DER s.v. màre Philippide, Originea con le solite indicazioni. E invece strano come romdànilor Il, p. 722 pensasse al lat. mas «maschio» (??); il Saineanu, Istoria Filologiei p. 345, ancor peggio, ricorreva ad amorem (!). Il Graur, Etimologii romànesti, Bucuresti 1963, p. 58, ci offre pure novità in parte inaccettabili. Ma nel complesso anche gli studiosi romeni accolgono l’etimo greco citato e si veda anche H. Mihàescu, Infl. greceasca asupra limbii romàne ... Bucuresti 1966, p. 178, che giustamente segue una tradizione etimologica bene consolidata. Un ampio articolo per il serbo-croato ha pure P. Skok, ERHSJ Il (1972) p. 456 s.v. more? (Vuk, poesia popolare, ecc.) «esclam. balcanica con la quale il più forte, il più vecchio, il più potente rinforza il tono di superiorità o il tono di effusione verso il maschio o più di rado verso la donna»; egli individua le aree del serbo-croato ove l’espressione è più adoperata (verso la Bulgaria). Il bulgaro ha moré rivolto a maschio e more per la donna; anche lo zinzaro (macedorumeno) usa more. Per l’arumeno v. soprattutto T. Papahagi, Dict. aromîn! (1963) p. 702 more (dall’alb.) e morì ad es. morì hil’e («mai fie-mea»). L’uso
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è ivi più comune davanti a sostantivi femminili. Nel macedone si ha pure more! inter. usata solo per i maschi, anche la forma ridotta bre! ad es. more sinko, nemoj taka! — «figlio, non fare così!» (Reénik na maked. jazik 1, Skopje 1961, 422). Per l’albanese il Leotti (tosco) p. 754 cita moré (nel vocat. usasi con sost. in genere masch., femm. moj); ike, moré, s’andejmi! «o te, o galantuomo, va’ via di costì», ecc. Molti usi colloquiali dell’alb. unificato ci offre ora il poderoso Fjalor i gjuhés sè sotme shqipe, Tirané 1980 (opera diretta dal Prof. Acad. A. Kostallari), p. 1166 s.v. moré «si usa quando si chiama o quando ci si indirizza ad un uomo, ragazzo», € poi si riportano vari contesti in cui compare l’espressione. Del tipico balcanismo ci resta um’eco anche nell’arbresh (albanese d’Italia), v. Giordano, Fjalor i arbéreshvet t’Italisé, Bari 1963, p. 288: moré escl. oh, ah, mòri escl. 0, oh, more escl. e moj. Dopo questa rapida verifica dei principali dizionari delle lingue balcaniche ci sembra che l’etimo greco e il centro di diffusione dell’espressione (che spesso diviene una esclamazione), un allocutivo particolare, sia bene individuato e che non siano emerse nella nostra disamina alcune difficoltà interpretative di ordine fonetico e semantico. Rimane invece ulteriormente dimostrato quanta parte abbia avuto la lingua ellenica anche per costituirsi di un vocabolario balcanico, ove non manca un cospicuo filone greco-bizantino e moderno, inferiore, come adstrato, unicamente a quello turco (che ora alcune lingue balcaniche tendono al eliminare o per lo meno a circoscrivere, non so ancora se con successo!). Ma a noi premeva di dare soprattutto una dimostrazione e di richiamare l’attenzione degli studiosi sulla presenza di una forma analoga a quelle delle lingue balcaniche (passate in rassegna), che è tuttora assai viva nell’Italia nord-orientale. Non aveva mancato di sottolineare qualche convergenza col greco anche vecchio Boerio e possiamo esser certi che nella Terraferma l’espressione si è diffusa da Venezia. La sua spiegazione di moro (ciò —), analoga al più evidente moré (basti la morfologia!), non risultava bene individuata poiché bastava, per il comune locutore, il richiamo del concorrente mòro, di carnagione o di capelli, voce che è pure di origine greca, anche se di tramite latino, e cioè uavbpos ) lat. Maurus, in origine «della Mauritania» (ma già in gr. uadpos, uavo6s, duavoés «scuro», di altra origine).
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UNA CONCORDANZA VENETO-BALCANICA NELLA TERMINOLOGIA DELLA «PIPA»
È noto come tra i tanti meriti del Festeggiato, si debba annoverare anche la fondazione e direzione per molti anni ormai, dell’«Istituto di studi abruzzesi» e la organizzazione di una ampia serie di Convegni. Tra questi fanno spicco quelli internazionali interadriatici ai quali ho avuto il piacere di partecipare più volte anche mediante un paio di relazioni. Ad essi, ed in particolare ai due ultimi, hanno data una larga adesione anche noti studiosi jugoslavi i quali hanno apportato agli incontri, avvenuti oltre che in Abruzzo, soprattutto a Spalato, tutta la loro vasta esperienza in vari campi con comunicazioni quasi sempre tenute nella nostra lingua, la quale ha ancora una buona tradizione di studi nella vicina Repubblica ed in particolare in Dalmazia. Forse troppo poco si è fatto da parte nostra, in tanti campi, ed in particolare a proposito di un certo ruolo avuto anche in Italia da parte dei Croati. Ma vi ha in buona parte provveduto soprattutto lo studio, per vari aspetti lessicali e toponimici, sulle oasi molisane, rappresentate, come bene si sa, dai tre paesi di Acquaviva Collecroce (Kruè O Ziva Voda), di $. Felice del Molise (Stilifié o Filié) e di Montemitro (Mundi miîtar). Tali colonie risalgono alla fine del sec. XV e provengono dall’altra sponda adriatica, dalla zona compresa tra la Cetina e la Nerenta (Neretva). Come ha dimostrato il Resetar nella sua amplissima monografia del 19111, il dialetto è serbo croato di tipo $tokavo-ikavo non senza influenze èakave. La zona circonvicina è tuttora ricca di slavismi toponimici ed è stata studiata, con ricchezza e precisione di analisi, da Marcello de Giovanni’. Possiamo pertanto 1.
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M. Reîetar, Die serbokroatischen Kolonien Siiditaliens, Wien 1911. M. De Giovanni, Il contributo della toponomastica al problema della presenza slava nell’area medioadriatica occidentale, in Romania et Slavia Adriatica. Festschrift Zarko Muljatié, Hamburg 1987, 431-453. 1
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niro
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esser certi che l’area slavofona era un tempo più vasta e si prolungava, saltuariamente, più a Sud soprattutto nel Gargano, come ha intuito G. Rohlfs®.
2. Contatti etnico-linguistici tra le due sponde adriatiche il mare è considerato da qualche geografo quasi un «lago» — si sono avuti sicuramente fin dall’epoca preistorica e vari problemi linguistici investono ambedue penisole, balcanica e italiana, per cui si possono qua e là notare, anche in epoca tarda, alcune convergenze non del tutto da -—
le
trascurare per l’aspetto glottologico. Tra
i primi studiosi che hanno individuato e sottolineato varie corrispondenze nell’importante settore della toponomastica va ricordato W. Helbig fin dal 1876‘ e, dopo vari interventi di storici e di archeologi, oltre che di linguisti, per avere un quadro molto particolareggiato dei numerosi riscontri, spesso assai puntuali, bisogna ricorrere al saggio di F. Ribezzo del 19425 che almeno in parte supera i tentativi panilliristici di H. Krahe e di altri, ma egli non rinuncia ovviamente alla sua teoria «mediterranea» che forse in parte può essere verosimile, ma che risulta sovente semplicistica (e l’esempio paradigmatico in tal senso, della superficialità, ci è fornito dal Saggio di una onomastica mediterranea di A. Trombetti del 19277). Anche C. Battisti nel suo contributo di commento alle considerazioni archeologiche balcaniche della sua nota 3 G. Rohlfs, Ignote colonie slave sulle coste del Gargano, ora in Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia, Firenze 1972, 349-356. ‘ W. Helbig, Studien iiber die iàlteste italische Geschichte, «Hermes» XI (1876),
257-290. ° F. Ribezzo, Italia e Illiria preromana, nel volume miscellaneo Italia e Croazia, Roma 1942, 21-83. A partire da H. Krahe, Die alten balkanillyrischen geographischen Namen, Heidelberg 1925, cui seguirono numerosi contributi «illiristici» del medesimo Autore il quale, negli ultimi suoi anni, sostituì la nozione di «illirico» per lo più con quella assai generica di «alteuropàisch»; v. anche P. Kretschmer, Einleitung in die Geschichte der griechischen Sprache, Gòttingen 1896 (il quale aveva già intuito che era ©
necessario distinguere nettamente tra «illirico settentrionale» ed «illirico meridionale»). 7 A. Trombetti, Saggio di antica onomastica mediterranea del 1925, ma riedito a cura di C. Battisti, Firenze 1942.
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conterranea Pia Laviosa ZambottiS, non manca di sottolineare tante convergenze nel quadro preindeuropeo mediterraneo. Da ultimo si è occupato del medesimo problema Mario Doria nel 1979°, con vari spunti originali. Tra le corrispondenze transadriatiche segnalate dal Doria, spicca indubbiamente: Senna (Liburnia, ora Senj) e Sena Gallica nel Piceno settentrionale; l’etnico TaohàvtioL che designa una popolazione illirica alle spalle di Epidamnum e Apollonia ed il piceno Tolentinum. Ma più intense sono le concordanze nella sezione adriatica meridionale ove incontriamo ad es. Auhdyv (Valona/Vloré), cfr. bruz. Auhdyv (Caulonia) Hec., Aulon monte presso Taranto (Hor. Carm. II 6.18) e il tipo Aulone a S di Taranto; Bavtia (Epiro), cfr. lucano Bantia, sal. Vanze; Butrotum (Epiro) Bovdopwtés (Steph. Byz.) = Butrinto, cfr. bruz. Buthrotus fl. (Locri), umbro (?) Butrium (Strab.) = Budrio; Dirinus fl. (= Drin) etnico Dirini, cfr. apulo Diria (poi Monopolis Guido), etnico Dirini; Peguntium (Dalmatia), cfr. apulo Pegontium (presso Taranto); Rudini (Illiria), cfr. Rudiae, Rudini (Peucetii e Sallentini). Tra i nomi etnici si nota ancora T'ahdBoio, (Illiria, Dardania), cfr. messap. Calabri, KahaBpoi, KahapBpia e KaXhavpoi; Adpdavos (antrop. Illiria), Dardas (Epiro), cfr. i dauni Dardi, Dardensis e Adpodavov (forse sul Gargano); illiro-trace Aoavviov teixos (cfr. frigio «lupo»?), cfr. i Aatvvioi e Daunus (Daunia); A&huuwvov, Delminium/Aahuiov (oggi «Duvno» in Bosnia) e Dalmatia/Delmatia, cfr. nelle iscr. messapiche dalmathii (che è peraltro lezione incerta del Ribezzo!): famiglia lessicale bene interpretabile con l’alb. delmé «pecora»; illir.-epir. INevrEéttor (Strab. VI 277) e liburn. Peucetii (Plinio III 139), cfr. in Puglia IevrétuoLl, Peucetii ecc. Dovremmo poi citare varie concordanze antroponimiche che tuttavia hanno un ruolo assai minore. Dai riscontri toponimici e antroponimici traspare chiaramente che essi non si potranno definire casuali e che spesso si possono interpretare ricorrendo al filone indigeno dell’alba-
8
] Balcani e l’Italia nella preistoria con riguardo alle origini preindeuin margine ad una sintesi archeologica di P. Laviosa Zambotti, dell’illirico: ropee «Studi etruschi» XXVI (1955), 270-299. 9 M. Doria, Riflessioni sulle concordanze toponimiche preromane tra le due sponde dell’Adriatico, «Abruzzo» XVIII n. 1-2-3 (1979), 11-35. C. Battisti,
245
nese. L’ipotesi che alla base vi sia uno strato indeuropeo illirico, ed in particolare nella sezione adriatica meridionale, non è destituita di fondamento anche se le incertezze permangono sempre numerose a causa della totale assenza di testi (iscrizioni) redatti in illirico. Possono parzialmente supplire le iscrizioni messapiche — ora, pare, accresciute dalle recenti scoperte in misura assai rilevante, ma tuttora inedite — le quali, direi quasi universalmente, sono collocate nella sfera dell’illirico (e di qui anche lo shgipo). Anche i contributi dei migliori specialisti, nella interpretazione dei testi messapici non disdegnano i riscontri e qualche proposta etimologica ed ermeneutica che
può venire dallo scarso materiale onomastico della Penisola balcani-
ca!0,
Per l’epoca latina, nonostante il parere negativo di qualche raro glottologo, può venire in discussione come motivo di contatti particolari tra le due penisole, specia lessicali, il particolare latino diffuso e parlato nella penisola dell’Haemus. Sono qui fondamentali gli elementi tipici del vocabolario romeno che spesso concordano con il notevole filone latino dell’albanese ed a volte col dalmatico. Essi non mancano del tutto al neogreco ed al bulgaro. In questo caso si hanno a volte concordanze specifiche con l’Italia meridionale donde è partita — è l’ipotesi ormai quasi universalmente accolta anche dagli storici — la spedizione di Traiano e la colonizzazione e romanizzazione della Dacia con l’introduzione di un latino che fin da principio era di stampo meridionale (per quel poco che ci è dato di discernere)!!, Ma 3.
Menziono alcuni dei contributi più importanti: O. Parlangèli, Studi messapici, Milano 1960; O. Haas, Messapische Studien, Heidelberg 1962; C. De Simone, Die messapischen Inschriften, XXX Wiesbaden 1964; V. Pisani, Le lingue dell’Italia antica oltre il latino, Torino 1964?, 233-250; C. De Simone, Die messapische Sprache (seit 1939), «Kratylos» VII, 2, 1962, 113-135 e del medesimo A. l’ottimo panorama La lingua messapica, tentativo di una sintesi, estratto da «Le genti non greche della Magna Grecia», Atti dell’XI convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1971, ma Napoli 1972, 125-201. Dopo la scomparsa immatura di O. Parlangèli, oltre al De Simone, si occupa della lingua e civiltà messapica, con vari contributi, soprattutto Ciro Santoro. ll V. soprattutto I. Iordan, Dialectele italiene de sud si limba romàna, uscito in varie puntate dell’«Arhiva» di Iasi a partire da XXX (1923) 35-50, fino a XXXV 10
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non mancano di certo antichi contatti e innovazioni provenienti dall’Italia nord-orientale. Di ambedue i casi non mancano gli esempi sottolineati da vari specialisti e per l’Italia meridionale soprattutto da I. Iordan, inoltre da Densusianu, recentemente anche da Maria Iliescu e dallo scrivente a proposito di convergenze specifiche ad es. col friulano, col veneto ecc.!2. Per l’origine italiana meridionale del latino dacico, basterebbe menzionare come tipico il caso del verbo însura, (in)uxorare «uxorem ducere» da uxor onde il rom. dalmat. marito», anche «prender macedor. e istrorom. însura (qui uzorizzare (veneto di Arbe/Rab uzorizare «sposare», sec. XVID), abr. napol. calabr. (ecc.) assurà, nzurare è romanesco nsurare (Ux Orari nello Pseudo August.). Per le concordanze balcaniche (romeno e oltre)/it. meridionale disponiamo di un approfondito contributo di G. Alessio"®, Elenco qui alcune delle voci latine caratteristiche del «latino balcanico», ad es. vitricus, noverca, coctoriu, can*
còmpanata, chersydrus, cònsocer, còmmater, del tutto specifico), (non «cannella», filianu dux-duce ter, lunter, offula, sarcinariu, galbulus/galgulus «oriolo, rigogolo»,
di colore), ecc.
canòsus, mergere, venetus
(termine
Per riscontri per lo più specifici con l’Italia del nord-est, si può invocare: ficàtum «fegato», disculceus per discalceus, 4.
(1928), 13-30 e 181-204. Il contributo suddiviso in paragrafi si riferisce ai seguenti settori: fonetica (1-30), morfologia (31-39), formazione delle parole (40-61), stilistica (63-85) e sintassi (86-93); come si vede è quasi trascurato il lessico. | 12 Mi basti qui rinviare al mio lavoro Convergenze linguistiche italo-romene, in Studi albanologici, balcanici, bizantini e orientali in onore (meglio «memoria») di Giuseppe Valentini S.J., Firenze 1986, 147-167, ove è facile reperire la bibliografia |
principale sull’argomento [v. qui 8]. | | 13 G. Alessio, Concordanze lessicali tra i dialetti rumeni e quelli calabresi, «Annali della Facoltà di lettere, Università di Bari» I (1959), 3-53. 14 Così viene ad es. definito da uno specialista di balcanologia quale P. Skok; v. una serie di contributi dello Skok a partire da Zur Chronologie der Palatalisierung von c ibid. XLVIII g qu gu vor e i y i im Balkanlatein, ZRPh. XLVI (1926), 385-410; inoltre (1928), 398-413, L (1930), 484-532, LIV (1934), 175-215, LIV (1934), 424-499. |
|
247
spinàlis, amaricòsus, veteranus, circare nel senso di «assaggiare», incipere, fervente (da fervere), l’espres-
sione «mihi paret reu» «mi dispiace», albina «ape» da alvina (del gramm. Caper) nel senso originario di «alveare» nei dialetti veneti settentrionali, ex-muticare «spezzare» «sfasciare», facula, fodia da fodiare per fodere «scavare», scoria esi noti l’uso di pomus nel senso originario e generico di «albero da frutto» > pom nel romeno ed anche nel friulano pomar = frutàr «albero da frutta» e non nel senso di «melo», cfr. anche frl. pome «frutto delle piante in generale», non solo di «mela». *
*
Negli incontri interadriatici sovra menzionati (di notevole rilevanza scientifica) non si è generalmente discusso con approfondimento di alcuni rapporti linguistici d’epoca medievale o per essere più preciso, non si è fatto cenno ad alcune concordanze balcanico-italiane alle quali accenno qui molto brevemente; passerò poi alla illustrazione della storia di una parola turca, molto comune nell’area balcanica, e non assente neppure in una (finora) ristretta regione italoromanza. Non sono tuttavia mancate alcune comunicazioni sulle colonie slave e albanesi dell’Italia centro-meridionale (su quelle greche il problema è invece del tutto particolare, come è ben noto). Dell’inserimento di genti slave nel Molise, provenienti dall’altra sponda adriatica ho già fatto un cenno qui sopra e qualche studioso ha ipotizzato che abbiano lasciato tracce non soltanto nella toponomastica, ma anche nel lessico di dialetti meridionali!‘. Quanto alle oasi albanesi, assai più consistenti di numero, manca a questo proposito una adeguata bibliografia specifica (a mia conoscenza) sui prestiti eventuali che l’arbéresh avrebbe fatto circolare anche in dialetti italo-romanzi circostanti. Si 5.
15 La bibliografia si può ricavare anche dal mio contributo 1 rapporti linguistici interadriatici e l’elemento latino dell’Albanese, «Abruzzo» XIX n. 1-2-3 (1980), i 31-71 [v. qui 1, 2, 5, 8]. 16 Alcuni elementi anche lessicali sono stati individuati (non tutti sono sicuri!) nell’articolo di G. Rohlfs citato alla nota 3; ma, molto notevoli sono a questo proposito i contributi di Zarko Muljadié.
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ha invece l’impressione che sia assai più facile rintracciare voci albanesi nelle parlate delle oasi oramai italianizzate (e forse da tempo); pertanto si tratterebbe in tale evenienza di Reliktwòrter piuttosto che di Lehnwòrter. In tale direzione, ad es., deve essere giudicata una parola del tipo scandiglia «scintilla» nel dialetto di Gizzeria (CZ), dato che il paese era un tempo una colonia albanese, ora assorbita (cfr. alb. shkendì e rom. scînteie idem, dal lat. scintilla incrociatasi con excandere). Non mi è infatti capitato di constatare, nei numerosissimi filoni che costituiscono il lessico siciliano, termini albanesi che abbiano qualche diffusione, se prescindiamo da alcuni toponimi e soprattutto dai cognomi (discretamente numerosi). Di tale opinione è anche G. Rohlfs!’ il quale così si esprime: «Linguisticamente questa [albanese] immigrazione è rimasta senza importanza per la Sicilia e non ha dato alcun contributo al siciliano». Qui desideravo invece riprendere molto brevemente il tema delle concordanze balcanico-italiane a proposito degli elementi turchi assai numerosi oltre Adriatico ed invece assai rari nei dialetti italiani, sia pure come regionalismi o voci antiche. Vi sono tuttavia notevoli coincidenze se teniamo presenti per l’Italia (ed in particolare per la Sicilia e Calabria) gli elementi di origine araba, dato che i turchismi balcanici sono assai spesso di origine islamica. Tale tema è stato trattato brevemente da M. Cortelazzo nel 19658 e da noi ulteriormente ampliato anche mediante l’individuazione di nuovi turchismi nei dialetti! 6.
x
17 V.G. Rohlfs, La Sicilia nei secoli, Profilo storico, etnico e linguistico Palermo 1984 (nella traduzione di S.C. Trovato), 51. 18 M. Cortelazzo, Corrispondenze italo-balcaniche nei prestiti dal turco, in Omagiu lui A. Rosetti la 70 de ani, Bucarest 1965, 147-152. 19 G.B. Pellegrini, Convergenze italo-balcaniche negli elementi di origine orientale, in «Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo», 1968, 205-35 poi nel volume Saggi di linguistica italiana, Torino 1975, 420-444; v. inoltre anche i miei Arabismi nelle lingue neolatine con particolare riguardo all’Italia, Brescia 1972 (due volumi), ove, a volte, tratto anche di qualche turchismo dialettale, specie ligure. Non comprendo a questo proposito il giudizio sul mio lavoro da parte del Cortelazzo in Italienische Etymologie und Geschichte/Etimologia e storia del lessico, nel LRL IV (Niemeyer Tibingen) 1988 alla p. 403a.
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in carte medievali’. Anche l’elenco, ovviamente incompleto, inserito nell’utile volumetto del tanto compianto Paolo Zolli? è assai preciso; tra le voci tralasciate si nota subito il comune tafferuglio studiato da B. Milgliorini”. I termini di origine turca in italiano si trovano tutti nelle lingue balcaniche ed a volte europee. Non sto qui a ripetere i miei elenchi commentati che ho esposto originariamente in una conferenza tenuta in serbo-croato all’Università di Belgrado”. Non desidero inoltre ripetere qui alcune considerazioni sui pochi turchismi dell’arbéresh rispetto al vastissimo filone di tali voci nell’albanese della madrepatria e nelle altre lingue balcaniche (e oltre) tanto da varcare le soglie d’Italia, pur essendo poco attestate nei dizionari dialettali. O
Quanto ai turchismi dei vari dialetti albanesi d’Italia è storicamente provato che essi dovettero essere molto limitati dato che le prime immigrazioni in Italia sono avvenute poco dopo che gli Ottomani si impadronirono anche dell’Albania, facendo circolare tra gli Schipetari i loro prestiti in quasi ogni campo semantico. Il primo termine turco, in ordine cronologico, dell’arbéresh pare possa considerarsi harag «tassa, imposta» in documenti e precisamente in una lettera indirizzata dallo Skanderbeg ad Alfonso d’Aragona re di Napoli. Il Cabej? ha redatto un piccolo elenco dei primi turchismi nell’albanese d’Italia ed il numero maggiore si concentrerebbe nel dialetto di Villa Badessa (Rosciano, Pescara) — ora quasi del tutto estinto — dato che tale colonia è assai tarda e risale al secolo XVIII. Gli strati più antichi di codesti orientalismi si trovano in Calabria ed 7.
°0 L’espressione Talacimanno/Dalismano da me studiata in «Lingua nostra» XLIX (1988), 54-56 è stata diffusa dal turco nella prima forma, mentre nella seconda è più probabilmente di origine araba (l’origine remota è persiana). 21 P. Zolli, Le parole straniere, Bologna 1976, 97-104, in particolare 99-100. 2 B. Migliorini, Saggi linguistici, Firenze 1957, 300-303. 23 La mia conferenza stata edita in serbo-croato col titolo Italiansko-balkanske podudarnosti u elementima orientalnog porekla, in «Prilozi za knijzevnost, jezik, istoriju i folklor» XXX (1969), 56-76. 24 E. Cabej, Introdicere în istoria limbii albaneza, testo tradotto in romeno - in origine un corso tenuto dal C. a Prishtiné —, ora edito anche in albanese.
è
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in Sicilia (essi furono assimilati dagli Schipetari a partire dalla fine del secolo XIV e primi del XV); provengono ovviamente dai primi contatti con gli invasori nella madrepatria. Si riferiscono per lo più alla guerra, agli indumenti (costume), alla vita domestica e sociale. Essi sono registrati anche nel noto dizionario del Giordano”. Tra gli autori arbéreshé, oggetto di spogli lessicali da parte del G., si ricava che un certo numero di parole dell’albanese d’Italia è stata ripreso dallo shqgipo per via letteraria, attraverso la lettura dei testi letterari dei secoli XIX e XX, e tale operazione sarebbe particolarmente frequente in Schirò, Serembe, Gabriele Dara e Santori. «...Fra questi
vocaboli si riscontra anche qualche turchismo come adet «uso, costume», cibuge-ja «la pipa» ecc.»°6. Su quest’ultima voce ci soffermiamo qui sotto più a lungo. Dobbiamo peraltro riconoscere subito che la terminologia del «fumare» e degli strumenti ad hoc è assai spesso di origine turca in molte lingue e non soltanto balcaniche. Del resto è ben nota la frase proverbiale (riportata anche dai dizionari) «fumare come un turco». Prima ancora di trattare di termini turchi nel settore sunnomivorrei nato, apportare qui alcune precisazioni, anche bibliografiche, medesima alla relative terminologia. Già da alcuni anni ho rimesso sul tappeto della discussione etimologica, una strana coincidenza italomagiara a proposito del termine che indica il «residuo (fetente) del tabacco nella pipa» o «tabacco che si mastica». Già il mio Maestro Carlo Tagliavini aveva vista la connessione del veneto (ecc.), comelicano, bàgo(lo) con l’ungh. bagé di identico significato. In un contributo dedicato alle Concordanze lessicali tra Italia nord-orientale e regione balcanico-danubiana”, ho aggiunto qualche riscontro e così 8.
I
-
25 E. Giordano, Dizionario degli Albanesi d’Italia/Fjalor i Arbéreshevet d’Italisé, Bari 1963. | 26 Si veda anche il mio recente contributo Ib lessico dell’Arbéresh ed i turchismi (che esce ora a Palermo; comunicazione presentata per un Convegno a Piana degli Albanesi nel settembre del 1988) [v. qui 7]. | 27 Comunicazione di un congresso italo-magiaro tenutosi a Visegr4d in Ungheria (13-17 Nov. 1978), pubblicata in «Giano Pannonio. Annali italo-ungheresi di cultura 2», Budapest 1981, 7-22, in particolare 21-22 [v. qui 1, 4]. O
251
pure nella mia recensione al grandioso TESz°. Nella discussione
avevo già addotto il confronto con varie voci dell’area balcanica e danubiana ecc., e, pur con grande circospezione — dopo aver escluso l’etimo di A. Prati, Etim. ven. 8 da bavo, tratto da bava — avevo tentato di proporre come origine il lomb. bàgol che il Cherubini I 56 cita nel significato di «pillacchera, cacherello», evidentemente dal lat. bactùila (REW 859). E poi interessante su tale problema un recente articolo di L. Benko dedicato proprio all’ungh. bagé”. Egli, in primo luogo, confuta l’etimo della tradizione lessicografica magiara, e cioè la connessione con l’ungh. bagoly «civetta» che, a dir vero, non ha alcun senso. Traccia poi la storia e descrive l’ambiente in cui può essere nato il termine con l’area di diffusione. Giustamente il B. lo individua nell’ambiente dell’esercito e della marineria asburgica (che tra l’altro utilizzava, come lingua ufficiale, l’italiano) per cui è spiegabile l’eccezionale espansione della voce che egli sa documentare con dovizia di dati in varie lingue e dialetti, anche italiani. Egli opta per una origine italiana e, pur restando in una posizione di consapevole incertezza, richiama anche una probabile connessione col noto termine, soprattutto veneto e istriano, bagolare (v. Prati, Etim. ven. 8) venez. «tremolare, ondeggiare, tremare dal freddo», veronese bagolàr «oziare», bellun. bagolàr «trastullare» — che, secondo il Prati cit. sarebbero di «ragione imitativa» (??); si noti inoltre pad. e venez. bàgolo «trastullo, tresca, bordello», venez. bellun. bàgolo «divertimento», esser el bàgolo de tuti «essere il trastullo di tutti», Non è escluso che l’origine di codeste espressioni sia un vagulare da vagus anche se la nostra famiglia lessicale dovrebbe essere ulteriormente esplorata®!, A me sembra comunque che essa non possa accordarsi con il bàgol(0) «morcia, scolatura di tabacco» per cui mi pare si *
*
2 In «Rivista
di studi ungheresi» 3 (1988), 73-83. Benko Loràdnd, Megjegyések a «bago» eredetéhez (Osservazioni sull’origine di «bagé»), in «Magyar Nyelv» LXXVI, 1981, 1981/82, 201-206. 30 V. anche A. Prati, «Archivio glottologico italiano» XVII 504, ove l’autore sostiene l’origine da vagulare (non da vacuus). 3! Rinvio anche al buon Dizionario etimologico del dialetto veronese di M. Bondardo, Verona 1986, ove a p. 38, sotto bagolàr, si sostiene un etimo parallelo a bazilar (ben noto al veneto ecc.) da vacillare, tosc. popolare vagellare.
?
*
252,
possa riconoscere l’origine italiana del termine magiaro, anche in lascerei la contrasto con altra ipotesi (ad es. Bezlaj, ESSI I, 8) in l’esatta ancora etimologica, quarantena, spiegazione parola, per pur non negando del tutto la mia vecchia congettura. Pure al Benkò, attivo in tutti i numerosi settori dell’etimologia ungherese, dobbiamo un interessante articolo che chiarisce l’origine di un antico tipo di pipa ungherese”. Si tratta della makrapipa (grande e piccola) «una specie di pipa corta di argilla», una parola che era rimasta senza spiegazioni nel TESz II 826. Si tratta anche qui di un verosimile italianismo derivato dall’it. magra «terra rossastra, Ocra»: un arabismo diffuso nel nostro meridione ed in Abruzzo, dall’ar. magra, cfr. spagn. almagra, almagara, almagre, noto anche al francese, portogh. inglese ecc. La voce trova dunque una spiegazione dal colore dell’argilla con la quale è costruita tale pipa.
e
La bibliografia sui vari tipi di «pipa», sulla sua storia, sugli usi del fumare ecc. è assai vasta3®, anche se non mi è riuscito di individuare su tale argomento una autentica monografia onomasiologica. Non v’ha dubbio che molte pipe, di varia forma e materia, provengono dall’oriente ed in particolare dalla Turchia. Dati essenziali e sicuri fornisce anche l’articolo «pipa» dell’Enc. Ital. Trecc. XXVII, 339-342 (con molte riproduzioni) a firma dell’etnografo George Montandon. Nella varia classificazione delle pipe si accenna anche alla «pipa ad acqua chiamata narghilé tra i musulmani del Mediterraneo, cibuk tra i Turchi Osmanili, cilim nel Turchestan. Essa è caratterizzata da un recipiente (di solito una zucca), situato tra il cannello e l’imbuto contenente il materiale da fumare...». Nel Dizionario turco-italiano di Angelico da Smirne” 173 9.
32 V. Bezlaj I, 8s. v. baga che attraverso il ted. austr. Baga, Bago, ecc. risalirebbe a «Tabacco»: ipotesi inverosimile! 33 V. Benko Lorànd, Egy régi magyar pipafajta nyelv-, tbrgy és muveelodéstòrténetero! (Un antico tipo di pipa studiato per l’aspetto linguistico, oggettuale e per la storia della cultura materiale), «Magyar Nyelv» LXXVIII (1982), 311-320.
L’amico dr. Nino Agostinetti (che sta preparando una mostra sulla storia della pipa) mi ha favorito vari articoli che tuttavia non trattano del nostro èebuk. 35 Nuovo dizionario turco-italiano compilato da P. Angelico da Smirne, Reggio Emilia 1955 (assai vasto e sicuro). 34
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citato: gubuk s. bacchetta, stecca... pipa; verga di metallo, ramo; c. igmek «fumare la pipa»; gubukcu «chi fa o vende pipe», «che prepara e accende la pipa». Il Lokotsch 442 sotto il turco éybuk (grafia vecchia) «Pfeife», tratto dal pers. èub «bastone», sistema il rom. ciubuk «cannello da pipa», bulg. es. cr. éibuk, russo e ucraino éubuk; polacco cybuch, ceco tibuk «cannello da pipa», «pipa». Per le lingue slave maggiori dettagli ci dà il Berneker 1156 s. v. cibuk bulg. «cannello della pipa», «pipa» e «bocchino» con attestazioni in quasi tutte le lingue slave, derivato dall’Oosmanli lébuk e si veda anche Skok, ERHSJ 1 (1971) 321 cìbuk (Vuk), ci buk, gen -uka (Kosmet) con vari sensi in cui figura soprattutto «pipa», anche dim. éibukéija (Vuk), cubukdéija ecc. Maggiori informazioni fornisce lo Skaljié% con vari passi di autori e sensi figurati. Altrettanto si veda in Vasmer, RuEW II, 350 russo éubùk «Pfeifenrohr mit knopfartigen Mundstiuck und ténernen Pfeifenkopf», anche éubluk. Derivato dall’Osmanli di Crimea ecc. v. Radloff, Wb. 3, 2099 e sgg. 2121 e 2185. Non posso non menzionare l’ottima opera di L. S$aineanu, Influenta orientalà asupra limbei si culturei romàne II, 1 (Bucuresti 1900) che riporta molti dati alle pp. 136-7, s. v. rom. ciubuc con varianti (e Muntenia cebuc, Moldavia cibuc). La nostra voce turca figura, attestata in epoca assai tarda, anche in spagnolo v. Corominas- Pascual II 350 chibugue «pipa turca» con attestazione dal 1884. Per finire, ma si potrebbe continuare a citare tanti altri lessici, riporto anche l’ungh. csibuk a. 1833, a. 1847 csubukjat ecc. TESz I (19676 519), il neogreco tEuumovai, v. Dymytrakos che ha tEtumo6xL, tEovUmOvVMI e Proias idem; l’albanese conosce cibuk-u «tubo della pipa» e «pipa» («llullé zakonisht prej druri, me koké e me bisht te gjatè per tè piré duhan...) ove si sottolinea anche qui la lunghezza del cannello, Fjalor i gjuhès sé sotme shqgipe, Tirané 1980, 256). Persino il tedesco conosce Tschibuk «pipa turca». è
10.
Non stupisce tanto la diffusione veramente considerevole in
almeno
in origine, ad un oggetto particolare «la pipa turca» che ebbe
Furopa (ed in Asia) del nostro termine, dato che esso si riferiva,
36 Abdulah Skaljjic, Turcizmi u srpskohrvatskom jeziku, Sarajevo 1966,173 s. v. Cibuk (anche con sensi figurati).
254
evidentemente larga fortuna. Esso infatti si riferisce alla terminologia del «fumare» ove altri termini di origine turca hanno avuto pari notorietà (ad es. lula, notissimo nei Balcani ecc.). Più sorprendente è invece per me il riconoscimento che il medesimo turchismo è ancora ampiamente noto nei miei dialetti veneti settentrionali in una forma che non è immediatamente rapportabile al termine turco. Penso tuttavia che una più attenta consultazione dei dizionari dialettali italiani ci consentirà di ampliare l’area, per ora assai ristretta, del «tecnicismo fumatorio». Dunque posso attestare che fin da bambino ho sentito tra la gente ove sono nato (nel Bellunese e precisamente in un paese dell’Agordino) per indicare una pipa (particolare) l’espressione bok. Si trattava di norma di una pipa con lungo cannello, ma tale espressione poteva riferirsi, forse scherzosamente, a qualsiasi pipa. L’amico e conterraneo Prof. G.B. Rossi che ha ora in stampa un amplissimo vocabolario dialettale delle parlate medio e bassoagordine (BL), mi conferma di aver raccolto bok «una pipa particolare» tanto a Cencenighe (BL), quanto in paesi del Basso Agordino. Mi precisa di aver sempre creduto che tale termine avesse qualche rapporto con «bocchino», ma egli mi conferma che si tratta di una «pipa con lungo cannello» e raramente ricurva. Ora posso rinviare anche a Vito Pallabazzer, Lingua e cultura ladina 97°” ove l’A. documenta per Rocca Pietore (BL) bék con la o stretta «lunga pipa ricurva», espressione che si equivale al tedeschismo rek! (p. 490) a Rocca e Colle «pipa dal bocchino [meglio «cannello»] molto lungo, spesso di maiolica». Per il momento non dispongo di ulteriore attestazione ed una prima ricognizione dei dizionari dialettali veneti mi è risultata infruttuosa (ma non mancherò di continuare tale ricerca). La notevole aferesi di ée- potrebbe essere facilmente spiegata con varie ipotesi, ma soprattutto per l’influsso di de «che», assai comune (Pallabazzer cit.), per cui poteva nascerne una divisione ée «che» -bok (da -buk). Più difficile è invece rintracciare le vie di penetrazione dell’orientalismo che sarà di certo un balcanismo. Per ora penserei a tre eventualità: 1) 37 Vito Pallabazzer, Lingua e cultura ladina. Lessico e Onomastica di Laste- Rocca Pietore-Colle S. Lucia-Selva di Cadore-Alleghe, Belluno («Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali». Serie dizionari N. 1) 1989.
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la voce è giunta per via gergale, e ben sappiamo quale sia in codesto caso la diffusione, spesso non comprensibile, di tali termini; 2) possono esser chiamati in causa anche gli Zingari balcanici che circolavano un tempo frequentemente anche nelle nostre zone di montagna; 3) nel secolo passato vi fu una discreta emigrazione, per ragioni di lavoro (sulle ferrovie), di Agordini anche in Jugoslavia (donde viene ad es. il termine zima «freddo», tuttora in uso nella zona). Ma tale problema della diffusione del termine rimane aperto e solo altre informazioni potranno chiarire la presenza ancora assai vivace, di tale esotismo nelle Dolomiti. Mi pare in ogni caso che l’equivalenza da noi prospettata tra l’orientale e balcanico éebuk/éubuk ecc., «pipa particolare, turca» e l’agordino bok «idem», finora di scarsa attestazione nei dialetti veneti, sia accettabile e bene comprovata anche dal senso e dalla fonetica. Si tratta pertanto di una convergenza, del tutto particolare ed eccezionale, tra Balcania e area veneta settentrionale’,
MN > UN NEL LATINO DALMATICO
1.
Il rumeno presenta, conv’è noto, alcuni casi di evoluzione del
nesso -MN- > un che molti linguisti hanno collegato ad altri fenomeni del consonantismo, con manifestazioni più costanti e tipiche di tale lingua, quali la labializzazione dei nessi -CT- e -CS- e -GN- > -mn-; si è visto in queste evoluzioni l’influsso del sostrato. Mi basti rinviare ad una breve ricerca di Pierre Naert, Des mutations ct, cs > pt,ps; gn > mn et mn > un en roumain, in «Acta Linguistica» (di Copenaghen), II, fasc. 4, 1940-41, pp. 247-257. I casi, ben noti ma sporadici, di -MN- > un, nel rumeno avvengono dopo d: SCAMNU > scaun, DAMNU (0 DAMNA) > daunà (da qualcuno giudicato, forse a torto, neologismo), mentre si osserva la conservazione del nesso o la riduzione di -MN a m, pure sporadica (dumiata < dumneata), © di -MN- > n dopo o, u. vedi A. Philippide, Originea Rumînilor, Il (lasci, 1923), p. 122, 113. Il passaggio di -MN- ad -un- si ripete in altre lingue, ad es. nel guascone, ove esso si attua anche dopo 0; oltre a escaun < SCAMNU, daun < DAMNU, si ha qui anche dauna < "douna < DOM(I)NA. Dal punto L’articolo del Naert mi viene contemporaneamente segnalato da G. Serra e C. Tagliavini; v. anche la recensione in «Indog. Jahrb.», XXVII, 1948, Bibl. des Jahres 1941, Sez. VII num. 243, pp. 167-8, ove il Tagliavini suggerisce opportune integrazioni bibliografiche alla ricerca del Naert e manifesta alcune riserve non tanto sulla teoria del sostrato, quanto su dettagli evolutivi proposti dall’Am.; in particolare «non convince la spiegazione del passaggio di x > w [fase che il N. postula tanto nel processo: ks > Xs > ws > @s > ps, quanto inkt > xt > xwt > wt, poi gi [donde in albanese e pr in rumeno] perché non si vede come questo fosse ‘le son le plus proche que celle-ci [la langue des colons romains] possedait’». Il Serra (comun. privata) studierà, in una prossima ricerca, la diffusione del fenomeno anche in alcuni casi sporadici offerti da etnici e dalla toponomastica dell’Italia settentrionale [ma pochi mesi dopo, purtroppo, ci ha lasciati]. 1
Dalle schede dell’inedito ALI trasmessemi gentilmente dal collega Arturo Genre, non ho potuto ricavare alcun tipo — tra molti che designano la «pipa» — da collegare alla nostra parola turca. Ivi il citato rèkel, la rèkela per qualche punto trentino; kai per il Friuli; simpsìa per l’albanese di Villa Badessa citata e a Borgo Erizzo (Zara) sunsìa; lo slavo lula a Lagosta (Zara) e non manca il frequente deverbale la fuma «pipa» in varie aree. A Mortisa (Cortina d’Ampezzo) éazota sarà verosimilmente «chioggiotta». 38
256
ft
257
di vista strettamente fonetico, il fenomeno è minuziosamente esaminato dal Grammont, Traité de Phonétique (Paris, 1933), pp. 235-236, ove esso è inquadrato nel capitolo generale sulla «differenziazione». Il nesso -MN- è particolarmente soggetto ad assimilazione — largamente documentata anche nelle lingue romanze — ed alcune lingue, per impedirne l’instabilità dei due elementi, tendono a differenziarli più nettamente: «en roumain, en gascon la voyelle précédente a desoccludé l’m par extension d’aperture, en mème temps que l’n, par différentiation lui faisait perdre la nasalité, d’où f qui est devenu instantanéament u deuxième élément de diphtongue»; ma contrariamente al guascone (che sviluppò secondariamente un ou in au, per il medesimo principio di differenziazione), il rumeno non attua il processo quando la vocale precedente era di timbro chiuso poiché —
secondo il Grammont? — il dittongo ou sarebbe stato ugualmente instabile, data la vicinanza articolatoria dei due elementi, cf. DOMINU > domn, SOMNU > somn. Il trattamento rumeno di -MN- ricorda da vicino quello armeno — come osserva il Grammont —: in armeno MN diviene -wn- dopo a, es. pa$tawn «culte» genit. paSstaman, mrjiwn «fourmi» genit. mrjman, ma dopo u -MN- rimane intatto: Sarjumn «movimento». L’armeno si potrebbe in qualche modo collegare all’area balcanica |
Il Naert (art. cit., p. 256) non condivide l’interpretazione del Grammont poiché ou non è instabile in rumeno e non tende a monottongarsi, cf. bovem > bou; egli latin ne possédant pas la diphtongue ou crede piuttosto «que c’est, soit parce que ce phonéme, alors méme qu’il ett été innové par les autochtones, ne pouvait pas avoir le succès de au, son familier au latin, soit parce que l’articulation relativement fermée (par rapport à a tout au moins) de o a propagé la fermeture du m». 3 Per il fenomeno fonetico armeno vedi A. Meillet, Esquisse d’une grammaire comparée de l’arménien classique, 2. ed., p. 48; vedi anche Giancarlo Bolognesi, Sulla flessione nominale armena di hayr «padre, mayr «madre», ehbayr «fratello», in «Atti del Sodalizio Glottologico Milanese», I, fasc. 2, pp. 35-40, in particolare le pp. 37-38, ove si accenna allo sviluppo di -mn- in -wn- che è inibito, per «dissimilazione preventiva», quando preceda u, cf. katarumn «compimento», usanumn «insegnamento» ecc. («nomina actionis»); il Bolognesi porta inoltre alcune precisazioni all’evoluzione fonetica supposta dal Meillet (loc. cit.) per i nomi armeni del tipo anun («nome») e per gli aggettivi in -un. 2
le
258
attraverso il traco-frigio, come molti hanno sostenuto”; più importante però, per individuare una concordanza balcanica, è il confronto del fenomeno rumeno con l’analogo del dalmatico. Nel dalmatico sono noti infatti alcuni esempi assai significativi di -MN- > un (n): da DOMINA si ha nel raguseo dumna, duvna «monaca»”, inolre a Veglia, accanto a damno e samno, è documentato kelauna (cf. serbo-croato kelovna) da COLUMNA e kelomna: kelovna è noto ad altre regioni dalmatiche, vedi M. Bartoli, Das Dalmatische (Wien, 1906), IL, p. 290 e p. 370 par. 401, 402, 403. Per l’ipotesi del sostrato si dovrà prender nota della singolare apparizione del medesimo fenomeno fonetico in iscrizioni latine balcaniche della Dalmazia, ove il nesso -MN- è passato avn > un‘. Una iscrizione venetica (o meglio venetico-latina) di Làgole (Cadore, prov. di Belluno) da me pubblicata in prima edizione ha potuto illuminare con sicurezza i rapporti fonetici ed etimologici di un nome di persona che compare spesso nella regione balcanica e nelle iscrizioni venetiche. Si tratta del noto tipo Voltiiomnos atestino (v. PID 3, 5, 6, 23, 113, 125) che si presenta nel venetico cadorino sotto la forma Volsomnos, indubbiamente identico a Volsouna, Velsouna di iscrizioni latine dalmatiche. Le corrispondenze fonetiche sono state indicate in un mio articolo dell’«Archivio per l’Alto Adige», XLVIII, apparso nel febbraio del 1954, alle pp. 419-429 (Noterelle epigrafico-linguistiche 1. Del nesso t + j in venetico e di una iscrizione inedita di Lagole di Calalzo), in Per i rapporti dell’armeno col traco-frigio vedi G. Bonfante, Armenians and Phrygians, in «Armenian Quarterly», i, 1946, pp. 82ss. (tale articolo mi viene indicato gentilmente dal Bolognesi): contrario alla teoria traco-frigia (che ha tuttavia fondamenti storici) è il Pedersen in Tocharisch (Copenaghen, 1941), p. 258. Per l’interpretazione delle iscrizioni frigie, vedi O. Haas, Zur Deutung der phrygischen Inschriften in «RHA», 53, 1951, pp. 1-30. 5 V. anche P. Skok, Sur l’élément grec de l’ancien dalmate, in «RLiR», XIX, nos. 75-76 (Juill. - Déc. 1955, p. 227. 6 Ho già fatto un brevissimo cenno del fenomeno latino balcanico in rapporto con l’evoluzione di MN del rumeno nel mio Corso di Storia comparata delle lingue classiche. Le iscrizioni venetiche (in litografia, Pisa, Libreria Goliardica, 1955), pp. 4
292-293.
259
TURI. F. V. FEC. SIBI ET AVITAE NIGIDI [ ]| VOLSOVNI F.; CIL III 13988 («tabula calcaria litteris malis inter lineas scriptis... in cella aedium Radjan. Iam Sarajevo in museo»), secondo l’integrazione del CIL: «[V]jelsou[nus titlul(um) de [suo pos(uit)]». Anche se il passaggio di -MN- ad -un- è segnalato all’infuori dell’area balcanica — e nell’Italia Superiore, come mostrerà il Serra [tale tematica è stata poi sviluppata da A.L. Prosdocimi] — non si dovranno ignorare le corrispondenze fonetiche rumeno-dalmatiche. Si noterà, soprattutto, la continuità del fenomeno (sia pure con apparizioni sporadiche) nella medesima regione, dall’epoca latina (per influsso illirico?), con la differenziazione di -MN- già attuata in tipi onomastici che spettano al sostrato, fino al periodo romanzo, nel dalmatico (veglioto e raguseo), ove -vn-, -un- da MN latino riflette manifestamente la medesima tendenza.
particolare v. p. 428; «è probabile che voltj- divenuto vols- si ritrovi nelle iscrizioni istriane e balcaniche nella forma Volsonius, Volsouna con -oun- da -omn-». Contemporaneamente — e indipendentemente — è uscito nella primavera del 1954 l’importante articolo del Lejeune: Voltiomnos, Volsomnos, Volsounos (in «BSL», XLIX, 1953, pp. 41-51) nel quale l’illustre studioso esamina con grande precisione il tipo onomastico su riferito e delimita l’area dell’alterazione £ + j > s, tipica della legione liburnica e forse fenomeno illirico nel venetico (secondo il Lejeune)’. L’A. accenna inoltre alla differenziazione OMNO- > ouno (v. p. 47 e 48 per un fenomeno analogo nel celtico) e ripropone una seducente etimologia del nome personale dalla radice ‘wol/"wel-, wL-ti(0)- e suffisso medio-passivo -mno-s (cf. gr. -nevos), cioè Voltio-mno-s «optatus» (cf. Désiré)8. Le iscrizioni in cui si nota la tipica differenziazione di -OMNO- in -ouno-, tutte provenienti dalla Dalmazia, sono le seguenti: CIL III 3149, da Apsorus («super insula Chersi Capisuli in templo S. Mariae»): Q. FONTEIUS RAECI F. V. SIVI ET VOLSOVNAE OPLICAE PL[A]ETORIS F. \CONTVGI. SVAE.; CIL III 3038m da Flanona («nell’angolo delle beccherie prima di entrare nel castello»): VELSOV NAE SVIO CAE VES CLEVESIS Ffiliae). Si veda inoltre CIL II 10132 (= 3151), da Apsorus («Descripsi a. 1888 Cherso in porticu publica muro immissam»)®: O. NIGIDIVS.
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7 V. Lejeune, art. cit., p. 47, ove ’A. ammette, per il venetico, alcuni casi di sviluppo di ij a ts > s, e ritiene possibile che «cette évolution soit due à la présence d’éléments illyriens dans la population de la Vénétie, ou qu’elle résulte d’une contagion, partielle, à partir du territoire illyrien» ed aggiunge però sùbito dopo «ou qu’elle soit l’effet d’un développement indépendant» (ipotesi che riteniamo più verosimile). 8 V. in particolare Otto Haas, Zur Deutung der venetischen Inschriften, in «Die Sprache», II, Heft 4, 1952, p. 224, il quale ha proposto per primo la spiegazione del nome secondo l’interpretazione che è stata poi sviluppata dal Lejeune. ° Il Lejeune (art. cit., p. 47) riporta erroneamente un Volsunus (Volsun. f.) da una lettura inesatta del CIL III 3151 che è rettificata al num. 10132 (la lezione esatta non figura in Krahe, Lexikon altillyrischer Personennamen, Heidelberg 1929, pp. 138-9); non è quindi necessario supporre qui — col Lejeune — una evoluzione secondaria di -ou- ad -u-.
260
Raiz:
2
261
APPENDICE VOLTIOMNOS > VOLSOVNUS E DELMINIUM > DUVNO
L’individuazione di VOLSOMNOS (Ca 58), come variante fonetidel ca più comune Voltiomnos, assai diffuso nell’antroponimia venetica, ha facilitato la ricostruzione di una vasta famiglia onomastica che fa capo a “volt- o a "volti- ed in particolare ha permesso di associarvi anche Volsouna (CIL III 3149, Cherso), Volsounus (III, 10132 = 3151, Cherso), Velsouna (III, 3038, Flanona) e Vjelsou[nus (III, 13988, Vrtoèe in Bosnia). La distribuzione areale del tipo antroponimico con numerose varianti fonetiche e strutturali è indicata dalla Karte 32 di Untermann, VP II, pp. 70-71 (e vedi la discussione in I, pp. 129-134) in cui si nota che esso è attestato oltre che nel Veneto preromano e romano, nell’Istria, nella Dalmazia e nel Noricum. In un precedente
articolo (v. qui sopra) — non utilizzato dall’Untermann — ho esaminato trasformazione fonetica di -OMNO-, -OMNA- in -OVNO-, OVNA attestata, come abbiamo visto, non da tre esempi, come parrebbe dallo spoglio dell’U., ma da quattro. L’epigrafe CIL III 3151 = 10132 non reca ... Volsun. f. (come si legge ancora in Krahe, Lex. p. 128), ma Volsouni f. e tale lezione corretta è infatti regolarmente registrata da A. Mayer, Die Sprache der alten Illyrier 1 (Wien 1957), p. 36219. Ho già osservato che il fenomeno fonetico si spiega mediante una reazione alla tendenza del nesso -MN- ad assimilarsi; per impedirne l’instabilità la lingua ha provveduto a differenziarlo più nettamente. Citavo analoghi esempi tratti dall’armeno, dal romeno, dal guascone e particolarmente istruttive, per l’area del fenomeno e per una eventuale connessione, mi erano sembrate le attestazioni del dalmatico. Nel raguseo è infatti noto duna accanto a dumna da domina e nel vegliotto si ha kelauna (cfr. s.cr. kelovna) da co la
Anche l’Untermann, al pari del Lejeune (nell’importante articolo del «BSL» XLIX, 1953, p. 47), ripete l’inesattezza del Krahe. 10
263
lumna
(Bartoli, Das Dalmatische II, 290, 370). Anche se il trattamento di MN > un era noto ad altre aree, non poteva sfuggirmi la continuità di una tendenza fonetica manifestatasi dapprima in elementi onomastici delle iscrizioni latine, e a distanza di alcuni secoli, nel neolatino dalmatico. Casi sporadici della alterazione del nesso con nasali si riscontrano in varie zone della Romània e con varia cronologia. E sicuramente allettante, ad es., la spiegazione del coronimo Cisauna dell’epitaffio di L. Cornelius Scipio Barbatus (Pisani, Testi latini arcaici e volgari?, 1960, p. 12 A 7: Taurasia Cisauna Samnio cepit) come *Cis-amna, cioè «al di qua dei fiumi» (?), cfr. amnis, ‘amnum, ‘amniu mt. Spetta ora agli storici ed agli studiosi di topografia antica l’eventuale identificazione sul terreno di “Cisamna > Cisauna di cui si dice genericamente che è località situata nelle vicinanze di Taurasi (nel Sannio, non lungi da Lucera) e null’altro. Esempi analoghi con amnis non sono rari, e si noti Entraunes nelle Alpi Marittime"? da
inter amnes.
Alla Penisola Balcanica ci riportano ora altri casi ed in particolare il nome di una antichissima città. Il celebre oppidum di Delminium/ Delminum/Dalm-3 che ha dato il nome alla Dalmatia', è generalmente connesso con l’alb. delé, delmè «pecora» < ie. "“dhei-1-m, per cui i Delmatae sarebbero «Schafhirten» e Delminium «Schafweide», Da vari anni interpreto Cisauna come Cis-amna nelle mie lezioni universitarie, v. anche il cenno nell’articolo Toponomastica e lessico arcaico, in «Cultura e scuola» 15 (1965), p. 33, cfr. Intragna (Intra e Locarno) da inter*amnia e per'amniu si noti Agno, torrente di Vicenza da cui Valdagno. L’amico A.L. Prosdocimi ha richiamato la mia attenzione su analoga spiegazione presentata da G. Radke, KI. Pauly, s.v. Dauni. Il Prosdocimi riesamina in un articolo le attestazioni di MN > vn nell’Italia antica ed in particolare nel Noricum. 12 V. Ch. Rostaing, Toponymie de la Provence, Paris 1950, pp. 448-9 e A. Dauzat et Ch. Rostaing, Dictionnaire étym. des noms de lieux en France, Paris (Larousse) 1963, p. 264: Entraunes, a. 1200 de Antraulnis, cfr. Entrammes ecc. (ma non ritengo necessario ricorrere ad un gall. abonos, sinonimo di amnes). 13 Per le attestazioni delle fonti classiche rinvio ad es. a H. Krahe, Die alten balkanillyrischen geographischen Namen, Heidelberg 1925, p. 21. 14 Forme antiche in Krahe, op. cit., p. 20. ll
*
*
264
secondo A. Mayer, op. cii., Il, p. 37. L’antico nome si continua ora in loco in Duvno, località della Bosnia di cui il Mayer, I, 118-9 segnala la forma precedente Dumno da DI mno, a. 1395 selo Kolo na DiCmni...episcopus Delmensis, Dulmensis, Dumnensis, sec. XIV e XV. Si risale pertanto a Delmin(iù) ediquiconè > 1 > dei > ù e sonante > u si ebbe regolarmente Dumno e successivamente con la nota differenziazione, mn > vn, Duvno'6. Va peraltro detto che tale fenomeno non pare interamente estraneo al serbo-croato ove ha provoacato false ricostruzioni del tipo glamnja per glavnja «pezzo di legno», samnuti per savnuti da svanuti «albeggiare» e si noti anche Venetici > Vinetici > Vnetci > Mnetci > Mleci «Venezia» (gen. MlIetaka)'. Resta pertanto dubbio se mn > vn nell’area balcanica, ed in particolare nel serbo-croato, debba essere attribuito unicamente ad una fenomenologia fonetica generale (una semplice differenziazione) o se vi sia realmente un affiorare di antica tendenza per cui il bosniaco Duvno vada più direttamente confrontato, per MN > vn, con l’antroponimo V]elsou/nus da Velsomno- di Vrtote (Bosnia).
15
p. 63. 16
Tale spiegazione, come
si sa,
figura già in G. Meyer, Et. Wb. alb. Spr. del
1891,
V. Ivan Popovié, Geschichte der Serbokroatischen Sprache, Wiesebaden 1960,
p. 149. 17 Si
veda A. Leskien, Grammatik der Serbo-kroatischen Sprache, Heidelberg
1914, p. 105.
265
INDICE LESSICALE-ONOMASTICO
A (a) cerca (rom.), 214 (a) ninge (rom.), 222 (a) surpa (rom.), 222
abundar/nj (arb.), 167 acceptor “ore (lat.), 129 accipiter (lat.), 129 accoventao (lig.), 138 acha (port.), 145 ad montem Hungaricum, 93 addio (it.), 60 adet (arb.), 251 adet-i (arb.), 168 adhéroj (alb.), 108 adhurar/nj (arb.), 167 adoràre (lat.), 108 deihn- (gr.), 234 Aellae (lat.), 234, 235 Aellò (gr. ant.), 233 Aéllo (lat.), 234 ’A&hhO (gr.), 234 Aemona (Lubiana), 18
Fe},
234
afet-i (arb.), 167 aft, 125 aga (it.), 178 àjula (catan. sirac.), 145 ajut-i (arb.), 167 akllamar/nj (arb.), 167 dkovita (ungh.), 49 Al-Fustat, 134 Alani, 78 albaster (lat.), 222 albastru (rom.), 222 albina (a. ven.), 22, 216 albina (lat.), 248 albinà (rom.), 22, 216 alcazaba (sp.), 193
allminu (arb.), 167 almagra, almagara, almagre (spagn.), 253
alvina (lat.), 22 alvina (lat.), 248 amargoso (sp. pg.), 214 amaricòsus (lat.), 214, 248 amaros (arum.), 214 amaròsus (lat.), 214 Guapta\6t (greco), 30 amarus (lat.), 214 ambar/hambar (turco), 175 amca (turco), 197 ame (alb.), 124 amia (alb.), 124 amidza (sb.), 197 ammessaro (it. merid.), 136 ammessarzu (logud.), 136 ammoazzà (abr.), 223 amnis (lat.), 263 amnium (lat.), 263 amnum (lat.), 263 amur-i (arb.), 167 amurus (arb.), 167 anat-a (arb.), 167 Angorate, 95 Angòria, 95 Angòris, 95 Anthonio Florentos, 55 antsché (surmir.), 214 apàra (rom.), 125 aparar (prov., sp.), 125 aparer (a. fr.), 125 Apla, 105 Aplis, 105 Aplisikos (venet.), 105 Aplius, 105 Aplo, 105 Aplus, 105
269
Apollonia e Dyrrachium, 208 Apollonia, 17, 115, 210 apost (arb.), 167 apparamentum (lat.), 124 apparare (it.), 125 apparare (lat.), 125 aptus (lat.), 125 Aquileia, 80 Aquincum (Pest), 210 arbinà (lig.), 216 arbinale (lig. ant.), 22 arbinale, albinarium (lig. ant.), 216 arcus (lat.), 153 Arcus Fabianus, 153 ardir-i (arb.), 167 ardur-i (arb.), 167 Arimannorum, 77 ark-u (arb.), 167 drmdada (ungh.), 47 armada (ven. ant.), 47 armiàsariu, harmasar (rom.), 136 armatolos (alb.), 30 armessaro (it. mer.), 136 armissariu (Bitti, Orosei), 136 armissariu (lat.), 136 art-i (arb.), 167 artié@òko (ven. friul.), 47 drticsoòka (ungh.), 47 asa (logud. sett.), 145 asappo (it.), 180 asca, jasca (sett.), 145 ascheriu (rom.), 173 aschie (rom.), 145 ascla (prov. e cat.), 145 ascola (avell.), 145 ascra (sardo logud.), 145 ashik (alb.), 190 ashké, ashke (alb.), 145 asiddu (sardo), 136 agik (turco), 190 asker (sb.), 173 asker (turco), 173 aorépi (gr.), 173
270
aski (alb.), 185 aski (turco), 185 asqer (alb.), 173 asqueri (alb.), 171 assula/ascla (lat.), 145 assurà, nzurare (lat.), 247 asszony (ungh.), 40 at (a. prov.), 125 Attileja, 80 atto (lucc.), 125 atto (orviet.), 125 Aulon (Taranto), 245 Aulona (Vallona, alb. Vloré), autillo (spagn.), 130 av (turco), 175 Avares, 81 Avari, 81 avarous (vegl.), 147 avarus (lat.), 147 avci (turco), 175 Avero, 81
avertir/nj (arb.), 167 avis-avizi (arb.), 167 avuka-a (arb.), 167 avunculus (lat.), 131 dyx&pdos (gr.), 108 axhak (alb.), 183 ayakkabi (turco), 185 Auhoyv (Caulonia), 245 Aviv (Valona/Vloré), 245 azap (turco), 180
B baba (turco), 196 baba, babé (alb.), 196 babalar (turco), 196 babbuccia (it.), 185 babus (arabo), 185 baca (lat.), 35 baca (turco), 182 baciùla (lat.), 35, 252
17, 210
badam (pers.), 194 badem (alb.), 193 badem (turco), 194 badem, bajam (sb.), 194 badingan (ar.), 193 badingan (pers.), 193 Baga (ted. austr.), 59 bàgdàu (rom.), 33 bdgdu (romeno), 59 bageacà, bajacà (rom.), 182 bago (friul.), 33 Bago (ted. austr.), 59 bagò (ungh.), 33, 58, 251, 252 bago (ver.), 35 bàgo(lo) (comel.), 251 bàgol (bormino), 35 bàgol (milan.), 35 bàgol (primierotto), 35 bàgol (lomb.), 252 bàgol(o) (ven.), 35, 252 bàgola, bàgol (lomb.), 35 bagolàr (bellun.), 252 bagolàr (veronese), 252 bagolare (ven.), 252 bàgolo (pad. e venez.), 252 bàgolo (valsug.), 35, 59 bàgolo (venez. bellun.), 252 bagoly (ungh.), 33, 252 bagov (Banato), 33, 59 bdagu (comel.), 33 bagus (slov.), 33, 59 bahsi$ (bg.), 173 bàhsis (pers.), 188 bahsis (rom.), 173 bahsis (turco), 173, 188 bailamme (it.), 179 bairac (rom.), 188 bairaktar (sb.), 188 Baiuvari, 78 bajame (alb.), 193 bajrak (alb.), 188 bakall (alb.), 192 bakar (bg.), 196
bakar (sb.), 196 Bakch (alem.), 59 bakér (alb.), 196 bakir (turco), 196 bakkal (turco), 192 baklja (s.cr.), 23 bakshish (alb.), 188 bakshish/bakcis (alb.),
173
baksi$ (sb.), 173
bal(l)ot(t)a (ven.), 66 Balaton, 15 balatròn (bologn.), 149 bàlaur (rom.), 129 balla (francone), 67 balladèr, ballandér (alb.), 148 ballotta (lat. med.), 68 ballotta, ballottare (ven.), 67 ballotte (ven.), 67 balota (ven.), 67 balotina (ven.), 67 bambin-i (arb.), 167 bandit-i (arb.), 167 bandunar/nj (arb.), 167 Bovtia (Epiro), 245 Bantia (lucano), 245 baggal (ar.), 192 bar (alb.), 107 barathrum (lat.), 149 baràtro, balàtro (it.), 148 baratrén (prov.), 149 baratto (it.), 148 baràttolo (it.), 148 Bd&padpov (gr.), 149 barc (irl.), 53 barca (it.), 53 barchessa (poles., venez.), 53 bardac (rom.), 184 bardhak (alb.), 184 bardhé (alb.), 147 barga (alb.), 107 biàrintà, berbenita (romeno), 59 barjak (sb.), 188 bdarka (ungh.), 53 271
barun-i (arb.), 167 barut (alb.), 191 barut (ar.), 191 barut (turco), 191 barza (rom.), 147 bags (turco), 195 basalka (dalm.), 128 basilica (lat.), 128 bastar/nj (arb.), 167 bastia (lat. med.), 52 bdastya (ungh.), 52 bàtaciu (rom.), 192 batakci (alb.), 192 batakci (turco), 192 batakgy (turco), 192 Batavis (Passau), 18 batirem (arb.), 167 bàtrîin (rom.), 20, 214 bav (lat.), 252 bava (it.), 35 baxhé (alb.), 182 baxho (alb.), 193 baxhochi (turco), 193 bayrak (turco), 188 bazale (it.), 180 bazar (persiano), 180 beilihi (messap.), 112 béjné sehir zogun (turco), bela (arb.), 175 belicé (arb.), 167 Bendiky (ceco), 46
Benetke (slov.), 46 berbence (ungh.), 59 berbintà (romeno), 59 berrettino, 191 Bertinoro, 77 betar (istrorom.), 21 betîrn (arom.), 20 bey (it.), 178 bézonj-a (arb.), 167 bicak (alb.), 183 bigak (turco), 183 biéér (ven.), 51
2d2
174
bicim (turco), 183 biékija (bg.), 183 bicska, bicsak (ungh.), 30 bilbil, bylbil (alb.), 194 bili-a, biliva (messap.), 112 bilj, bij (messap.), 112 binarius (lat.), 124 binjak (alb.), 124 binjàr (alb.), 124 binjaràlk (alb.), 124 bir (alb.), 112 bir varmis bir yogmus (turco), birbil (arb.), 175 bisericà (rom.), 128 bishé-a (arb.), 167 bitir-mek (turco), 198 bitis (alb.), 198 bityer (ungh.), 51 bivol (bulg.), 137 bivol (rom.), 137 bizzaco (venez.), 30 bjeg-u (arb.), 166 bjenj (arb.), 166 bjeshké (alb.), 128 bjeske (alb.), 128 bjuanj (arb.), 166 blaté, mblaté (alb.), 137 blavor, blavur (s.cr.), 129 bluta (vegl.), 137 bo(g)az (rom.), 174 bòbrek (turco), 195 Bodrog-Olasz, 45 boga (turco), 173 bogaz (sb.), 174 bogaz (turco), 174 bogoi (rom.), 33, 59 boià (rom.), 173 boja (bg.), 173 boja (sb.), 173 bojé (alb.), 173 bok (agord. BL), 255 bék (alto agord.), 255 bokàl (ven.), 47
174
bokdaly (ungh.), 47 bole (lat.), 128 bollé (alb.), 128 bollék (alb.), 197 bolluk (turco), 197 bombaso (veneto), 186 bondat-a (arb.), 167 bora (ven.-giul.), 47 béra (ungh.), 47 boradèi (agord.), 107 boré (alb.), 107 bori (arb.), 175 borì-a (alb.), 175 boru (turco), 175 bostan (alb.), 193 bostan (pers.), 193 bostan (rom.), 193 bostan (turco), 193 Bovtol. (gr.), 184 bre (gr.), 240 Boé (gr.), 240 brent (ven.), 59 brenta (ven.), 59 Brenta, 59 brentica (sloveno), 59 brento (ven.), 59 bricco (it.), 178 brilians (ungh.), 60 brillante (it.), 60 brillare/prillare (it.), 60 Brinta, 59 brékoli (ungh.), 47 bu(g)az (bg.), 174 bubalanus (lat.), 137 bubalus (lat.), 137 bubrek (sb. cr.), 195 budalà (bg.), 174 budalà (rom.), 174 budala (sb.), 174 budala (turco), 174 budall-i (alb.), 174 buell, buall (tosco), 137 bufalus (lat.), 137
bufet-a (arb.), 167 bugaz/bogaz (alb.), 174 buggerone (ungh.), 49 bukur (alb.), 160 bukuri (alb.), 160 bulat e veshevet, 125 biilbii! (turco), 194 bulé (alb.), 125 Bulgari, 78 bulla (lat.), 125 bullire (lat.), 215 bumballé, 195 Bundugiya (arabo), 46 burèela (ven.), 47 burcsella (ungh.), 47 Burgundi, 78 busarà (ven. giul.), 49 busdocan (frl.), 30 Buserant (ted.), 49 but (alb.), 125 Buthrotus fl. (Locri), 245 Butrium, 245 Butrotum (Epiro), 245 buttis (lat.), 125 buzaràr (venez.), 49 buzerà (friul.), 49 buzerdl (ungh.), 49 buzeròn (frl.), 49 buzogany (venez.), 30 bybrek, bubreq (alb.), 195
C c(h)ersydru (lat.), cacciotta (sic.), 31 caciola (ver.), 31 caciucco (it.), 178 caciula (it.), 31 càciulà (romeno), caelu (lat.), 108 caffè (it.), 178 caffetà (it.), 178
142
31
273
caffetà (venez.), 30 caffetano (it.), 178 cagoia (triest.), 54 caicco (it.), 174 caimac (rom.), 187 caimacam (rom.), 192 Cairo vecchio, 134 cakmak (alb.), 182 cakmak (turco), 182 Calabri, Kahafooi, KahaBpia (messap.), 245 càlàf (rom.), 182 calandae (lat.), 125 caldano (it.), 52, 69 calendae (lat.), 125 calfa (rom.), 192 calgi (turco), 190 califfo (it.), 178 calik (turco), 195 callgi (alb.), 190 callmé (alb.), 185 calma (sb.), 185 calme (turco), 185 calpitor (arom.), 126 cam (turco), 196 cam (turco), 196 cam(m)ellotto (it.), 60 camalo (it.), 180 camgakéz-i (alb.), 196 camelot (a. fr.), 60 camif(i) (turco), 189 camisia (lat.), 69 camisol (bellun.), 50 camisola (rover.-trent.), 50 camisola (veneto), 50 camisole (friul.), 50 camisolìn (ven. giul.), 50 cammello, 60 Campi Ungareschi, 82, 91 Campo d’Ungheria, 82 Campo Longo, 96 camsakizi (turco), 196 canadas (port.), 142
274
canak (turco), 184 canak-u (alb.), 184 cànàta (arum.), 142 canciarro (it.), 178 cannata (calabr. e sic.), 142 cannata (lat.), 142, 247 canòs (valtell.), 147 canosa (salent.), 147 canosa (lat.), 147 canòsus (lat.), 147, 247 éànta (pers.), 185 canta (turco), 185 canté (alb.), 185 canus (lat.), 147 canusa (sic.), 147 càpatinà (rom.), 146, 222 capitanio (ven.), 51 capitina (lat.), 145, 222 capitino (it. ant.), 146 capitino (it. ant.), 222 capitìnuda (sic.), 146 capitìnula, capitinale (calabr.
sett.),
capitìnula,
sett.),
146
222
capitìnala
(calabr.
capitìnula, capitìnia (sic.), 222 éar (pers.), 198 car-yàk, ceharyek (pers.), 198 éarapa (sb.), 185 carape (alb.), 175 carapé (arb.), 185 caràpé-a (alb.), 175 carcaf (arb.), 175 carcaf-i (alb.), 183 cardak (turco), 183 cardak-u (alb.), 183 caria (lat.), 148 caries (lat.), 148 carik (turco), 185 Carnuntum (Peternell), 18, 210 càrpàtor (rom.), 126 carpetta, carpita (ven.), 52 carpita (ven.-giul.), 52
carsaf (turco), 175, 183 Casa Pagana, 82 casana (it.), 180 Casere Ongiarine, 94 castigare (it.), 126 castigare (lat.), 125 castinea per castanea (lat.), 51 Castra regina (Regensburg-Ratisbona), |
18
casula (lat.), 31 casulla (lat.), 31 casupula (lat.), 31 catal (turco), 183 catall (alb.), 183 caval (rom.), 190 cavana (sardo), 128 caviale (it.), 178 cazzòl (comel.), 31 ceam (rom.), 196 ceanac (rom.), 184 cebuc (Muntenia), 254 céébuk (osmanli), 254 cegme (turco), 193 cehennem (turco), 189 celik (alb.), 195 celik (turco), 195 celik-u (arb.), 195 cellàt (turco), 192 cember (turco), 185 cember, cimber (alb.), 185 cenata (lat.), 142 cennet (turco), 190 Centa, 94 centin (ungh.), 53 centu (lat.), 108 cep, ceb (turco), 187 cercià, zercià (friul.), 214 cerek (turco), 198 cèsandro (otrant.), 142 césaru (calabr. sett.), 142 ceshmé, cesme (alb.), 193 Ceva (vacca) (venet.), 107 ceviz (turco), 175
cevizci (turco), 175 cezve (turco), 184
chalanda (engad.), 125 chanuoss (sopras.), 147 chasuble (fr.), 31 chau (spagn.), 60 chersydrus (lat.), 247 chettura (abr.), 221 chibuque (spagn.), 254 chilim (rom.), 182 chimarra (lig. ant.), 181 chiò (bellun. ant.), 238 chioma (it.), 137 chior (rom.), 194 chiosco (it.), 178 chiulaf (rom.), 186 Chofalli, 74 Christi natale (lat.), 127 chyra (ucraino), 61 ci-cuh (a. ind.), 107 ciadatto (aret.), 125 ciao (it.), 60 ciaurro (it.), 178 cibuc (Moldavia), 254 éibuk (bulg. e s. cr.), 254 cibuk (ceco), 254 éibuk (sb.), 191 éibuk (turco), 253 cibùk e cubùk (alb.), 191 cibuk-u (albanese), 254 éibukéija (sb.), cibuge-ja (arb.), 168 cibuge-ja (arb.), 251 cicaleccio (ven.), 158 cicric (rom.), 182 cifit (turco), 189 cift (alb.), 198 céift (sb.), 198 cift (turco), 198 éifta (s.cr.), 129 cifut (alb.), 189 cifut (arb.), 189 cifut (S.er.), 129
254
2735
cifutéri (alb.), 189 cikény (ungh.), 47 cikrik (alb.), 182 cikrik (turco), 182 cilek (alb.), 194 cilek (turco), 194 cilic (rom.), 195 cilim (Turchestan), 253 cimarra, 181 cìmis (friul.), 50 cin(ni) (turco), 190 cinque (lat.), 108 cins (turco), 196 cînti (rom.), 224 ciò (veneto), 238 ciò moro! (ven.), 237 cioban (rom.), 174, 197 ciorap (rom.), 185 ciorba (rom.), 187 cirak (alb.), 191 cirak (turco), 191, 192 circare (lat.), 248 circare (lat.), 214 Cis-amna (Sannio), 263 Cisauna (Sannio), 263 cisma (it.), 178 cisma (venez.), 30 cîstiga (rom.), 125 ciubuc (rom.), 191, 254 ciula (bellun.), 31 ciula (piem.), 31 ciula (valsug.), 31 cloma (comula), 137 co(n)ventare (lat.), 138 éò, édle (ven.), 238 coamià (rom.), 137 coban (alb.), 174 còban (bg.), 174 coban (sb.), 174, 197 coban, 197 coban (turco), 174, 197 éobanin (sb.), 197 cocchio (it.), 29
276
cochiglia (it.), 53 cochiglia, cochilla (it. region.), 54 cocilla (it. ant.), 54 cocotte (fr.), 61 coctoriu, 247 coctòrium (rom.), 221 Codròipo, 89 coga, coghia, cogoia, cogola, cuguaia, cuguia (istr.), 54 cogitare (lat.), 147 cogoia (triest.), 55 éoha (sb.), 185 coha (turco), 175 coha (turco), 185 cohé (alb.), 177 cohèé, cohé (arb.), 175 cohé, xhoké, coké (alb.), 185 cohé-a (alb.), 175 coheres (lat.), 130 coitare (a. it.), 147 COLUMNA (lat.), 259 coma (lat.), 137 commater (lat.), 143, 222, 247 còompater (lat.), 143, 222, 247 concha (lat.), 126 conculium + cochlea (ungh.), 55 consobrinus (lat.), 131 cénsocer (lat.), 143, 222, 247 consuegra -o (spagn.), 143 contrada Ongaresca, 91 conùicùla (lat.), 126 convenire (it.), 215 convenire (lat.), 138, 215 convenitare (lat.), 215 convent (a gen.), 138, 215 conventar (feltr.), 138 conventare (lat.), 21 conventus (lat.), 21, 138, 215 conventus -um (lat.), 137 conviento (a. sp.), 138 copertoio (it.), 126 coque (fr.), 54 coquile (fr.), 54
corap (alb.), 185 corap (turco), 175, 185 éorba (sb.), 187 corba (turco), 187 corbacho (sp.), 184 corbé (alb.), 187 corda (avell.), 145 corda (lat.), 145 cordilla (spagn.), 145 corlelek (alb.), 194 Costa Ongaresca, 82 Costa Ungaresca, 85, 86 coventà (friul.), 138, 215 covente (feltr.), 21 cratis (lat.), 126 creastà (rom.), 218 crista (lat.), 218 Crocetta di Tivoli, 74 cro$ca (salent.), 222 cruscu (salent.); 222 csaklya (ungh.), 69 csemelét (ungh.), 60 csentéz (ungh.), 53 csibuk (ungh.), 254 csizma (ungh.), 30 csubukjat (ungh.), 254 cub (pers.), 191, 254 cubluk (russo), 254 cubuk (russo e ucraino), 254 cubuk, cibuk (turco), 191, 254 cgubukcu (turco), 254 ciice (turco), 195 cucuglia (irpino), 55 cuculla (lat.), 31 cucutà (rom.), 136 cucuta per cicuta (lat.), 136 cugeta (rom.), 147 culà (rom.), 193 cumiàtru (rom.), 143, 222 cumur (sb.), 196 cuòrnice (calabr. sett.), 155 cuptor (rom.), 221 curare (it.), 26
Curia de Hag, 94 curpàtor (transilv.), 126 cuscetare, cuscitare (salent.), cuscitare (tarent.), 147 cuscru (rom.), 143, 222 cutie (rom.), 183 cuttuoru -oriu (calabr.), 221 cuttura (abr.), 221 cuvine (rom.), 215 cuvînt (rom.), 21, 138, 215 cuvîntà (rom.), 138 cybuch (polacco), 254 èybuk (turco), 254 czoban (pol.), 197
147
D dada (sb.), 192 dadà, dadacà (rom.), 192 dada, dadi (alb.), 192 dado/dadè (alb.), 192 dady (turco), 192 Dall’Ongaro, 95 dallap (alb.), 174 dalmathii (messap.?), 245 Dalmatia/Delmatia, 245, 263 DAMNA (lat.), 257 damno (vegl.), 259 DAMNU (lat.), 257 Dardas, 245 dardhé (alb.), 108 Dardi, Dardensis e Adodavov (forse sul Gargano), 245 dàrîm (arum.), 135 dàrima (arum.), 135 dàrima (rom.), 135 das (alb.), 111 dashés (alb.), 111 dashté (alb.), 111 dashur (alb.), 111 Dast-o, 111 dàtolo (ven.), 47
277
datolya (ungh.), 47 dauk (vegl.), 143 daùll-i (alb.), 175 daull-i (arb.), 190 daulle (arb.), 175 daulle, daùll (alb.), 190 daun (guasc.), 257 dauna (guasc.), 257 davés (lad. centr.), 225 davul (turco), 175, 190 Adtvioi e Daunus, 245 Aavviov teiîyos, 245 daz-io, daz-ta (messap.), 110 Dazos -as, 111 de-avorsu (lat.), 225 de-pos(t) (lat.), 225 defter (alb.), 188 defter, tefter (turco), 188 delé, delmé (alb.), 263 Delmatae, 263 delmé (alb.), 245 Delminium/Delminum/Dalm-, 263 AÉhuwov, Delminium/Aahuiov (oggi «Duvno» in Bosnia), 245 demerctus (lat.), 147 demergere (lat.), 147 demersus (lat.), 147 demìerta (napol.), 147 demirté (cal. sett.), 147 Demitrius de Ungaria, 94 dénder (ven.), 108 dendiva (ven.), 108 dent (ven.), 108 deramare (lat.), 135 derimare (lat.), 135 dérmoj (alb.), 135 dérmonj (alb.), 135 derr (alb.), 108 dertumòè (alb.), 177 descîntece (rom.), 229 descélz(o) (ven.), 213 descult (trom.), 213 desha (alb.), 111
‘278
deskere (pers.), 189 desma (a. prov.), 50 desma, desima (trent. anaun.), 50 destemel (arb.), 175 deva (sb.), 194 devé (alb.), 194 deve (turco), 194 deve-ja (turco), 194 dezime (trent.), 50 dézma, dézsma (ungh.), 50 dhelpér (alb.), 160 dhelpéri (alb.), 160 dhéndér (alb.), 108 diavolézzo (ven.), 158 dibek (sb.), 184 dibek (turco), 184 diesma (trent. anaun.), 50 digò (ungh.), 47 dimbér (alb.), 108 dimiertu (calabr. sett.), 147 Dînse (rom.), 228 dînsele (rom.), 235 Diria (apulo), 245 dirimare (arum.), 135 Dirini, 245 Dirinus fl. (= Drin), 245 (di)sadorn (bret.), 127 discalceus (lat.), 213 discòlz (friul.), 213 disculceus (lat.), 213 disculceus per discalceus (lat.), 247 discurià (frl.), 26 divano (it.), 178 djathté (l’alb.), 111 djule (sb.), 191 Dniester, 18 Dobrele (rom.), 228 défe (ven.), 47 dolama (it.), 178 dolap (bg.), 174 dolap (sb.), 174 dolap (-bi (turco), 174 dollamè (alb.), 177
dollap (alb.), 174, 182 DOM(I)NA (lat.), 257 DOMINA (lat.), 259 DOMINU (lat.), 258 domn (rom.), 258 dòseme (turco), 183 Driàgaice (rom.), 228 dritaré (alb.), 184 Drobetae (Turnu Severin), 208 droméèé, dromcé (alb.), 135 ducan (sb.), 188 duce, doce (salent.), 143 ductus (lat.), 143 dud (tu du) (turco), 194 dud, dudé (alb.), 194 dugme (bg. e sb.), 185 diigme (turco), 185 duhan (alb.), 194 duhan (ar.), 194 duhan (turco), 194 dukan (bg.), 188 dukkan (alb.), 188 diikkàn (turco), 188 dulàp (rom.), 174 dumiata (rom.), 257 dumna (lat.), 262 dumna, duvna (raguseo), 259 dumneata (rom.), 257 duq (lat.), 143 durum, 20 dus (ungh.), 47 dusumea (rom.), 183 duvak (alb.), 185 dùvak (sb.), 185 duvak (turco), 185 duvna (raguseo), 262 Duvno (Bosnia), 263 dux-duce (lat.), 143, 247 duzd (croato), 47 dvorba (a. sl.), 138 dybek (alb.), 184 dygme (alb.), 185 dyqgan (alb.), 188
Dyrrachium, 17, 115, dyshemé (alb.), 183 dzenet (sb.), 190 dzezva, dzivza (sb.), dzin (sb.), 190 dzins (sb.), 196
diudza
210
184
(sb.), 195
E ec(c)lisia (lat.), 128 eclis) (irl.), 128 eclisia (lat.), 128 edh (alb.), 147 edu (sardo), 148 efca (rom.), 187 eglwys (cimr.), 128
Egnatia, 115 Egnatia, 208 egres (ungh.), 51 elcovan, alcovan (rom.), 230 eleiza, eliza (basco), 128 Elfen (ted.), 232 elle (ant. danese), 232 Elle (lat.), 234 ellen (sved. dial.), 232 embér (alb.), 108 emiro (it.), 178 Emona (Lubiana), 17, 210 entschéiver (sopras.), 214 episcopus (lat.), 132 Eraclea, 115 ereklye (ungh.), 51 esapo (it.), 180 escaun (guasc.), 257 escoria (spagn.), 26 esperes (ungh.), 52 ex-fornicor (lat.), 154 excandere (lat.), 146 excandre (lat.), 222 éxevdopa (gr. mod.), 142 exmuticare (lat.), 117, 248 exstirpus (lat.), 135
279
F.satu, 134 F.ssatù, 134 fa”! (ar.), 189 facchino, 181 fache (rom.), 117 fachie (tom.), 117 facies (lat.), 148 faclà (rom.), 23 faclie (rom), 23 faéòl -al (friul.), 47 facula (lat.), 23, 117, 217, 248 fagla (slov.), 23 fagla (frl. ant.), 23 faia, fàga (ven.), 23 faklja (s.cr.), 23 faklya (ungh.), 24 fal(li) fal(liî) (turco), 189 fal/fale (sb.), 189 falcà (tom.), 128 falcinea (lat.), 128 fale (frl.), 23 fall (alb.), 189 fallxhi (alb.), 189 fàmeal’e (arom.), 132 familia (lat.), 132 fagèé (alb.), 148 far kurvien (soprasilv.), 138 farneccio (it. ant.), 126, 156, 157 farringu (campid. volg.), 157 Fassato, 134 fatà (rom.), 222 fatyol (ungh.), 47, 51 fécatum, 20 fédak, 20 fékatu (sic.), 213 fekuàt (vegl.), 20 felisa (a.a ted.), 16 felk’ine (alb.), 128 felginjé (alb.), 128 femeie (rom.), 132 fémìj (alb.), 132
280
ferbint (friul.), 215 fervente (lat.), 248 ferventem (lat.), 215 fervère (lat.), 215, 248 feta (rom.), 222 Fetele lui Iluda (rom.), 228 Fetele Vîntoaselor (rom.), 228 fiàt (friul.), 213 fiàt (frl.), 20 ficat (tom.), 20, 213 ficatum, 20, 213, 247 fici, fuci (turco), 184 fidicum (lat.), 213 fidik, 20 fierb (rom.), 215 fierbinte (rom.), 215 figà (gard.), 20 figà, figào (ven.), 20 figaòu (camp.), 213 figat/higat; figa (lombardo rom.), figàu, figadu (camp.), 20 figè (bad.), 20 figè, fiya, fuya (lad. centr.), 213 figghianu (calabr.), 222 figliano (avell.), 144 fijan (alb.), 143, 222 fijanna (abr.), 144 (fjikatu (logud. e nuor), 213 fikatu (sic.), 213 fikot (istr. rom.), 213 fil (ar.), 196 fildish (alb.), 195 fildisi (turco), 195 fildzan (sb.), 184 filianus (lat.), 143, 222, 247 filiaster (lat.), 108 filigean (rom.), 184 filchan (alb.), 184 fin (alb.), 144 fin (rom.), 222 fincan, filcan (turco), 184 findzsa (ungh.), 30 fingan (ar.), 184
fiò (eng.), 20,
213
fiék (ungh.), 55 fiéka (ungh.), 55
213
fiorin (slav.), 57 fisek (rom.), 191 fisek (sb.), 191 fisek, fisenk (turco), 191 fishek (alb.), 175, 191 fishekllék (alb.), 175 fisseca (it.), 178 fisseca e poi fisseta (venez.), 191 fisseta (it.), 178 fita (calabr. merid.), 222 fitil (alb.), 175 fitil (arb.), 175 fiutare (it.), 134 fiutola (fior.), 134 fiamur-i (arb.), 166 fjas (arb.), 166 fjie, fjéj (arb.), 166 fjestré (alb. sic.), 108 fjeté (arb.), 166 fiutur-a (arb.), 166 flacula (lat.), 23 flagrare (lat.), 23 flaké (alb.), 24 flama (Kosmet), 24 flegma (gr.-lat.), 24, 117 flegma (s.cr.), 24 flej, fjok-u (arb.), 166 flema (cr.), 24 flema (istr.), 24 fleme (friul.), 24 Florentus, 55 florenus, florinus (lat. med.), 55 florin (frl.), 57, 98 florin (slav.), 57 Florynthushaza, 55 fluctulare (lat.), 134 fluitare (lat.), 134 flutare (it.), 134 flutare (lat.), 134 flutulare (lat.), 134
flutur-a (alb.), 134 flutura (rom.), 134 fluturoj (alb.), 134 fòdère (lat.), 24, 117, 217, 218 fodia (lat.), 117, 217, 248 fodiare (lat.), 117, 217, 248 fogacia (friul. ant.), 27 foggia (it. merid.), 24 fòiba (ven. giul.), 24 fòibe (friul.), 25 fora (ungh.), 49 fora (ven.), 49 forca (it. centr.), 218 forint (ungh.), 27, 55, 57, 97 forinta (s.cr.), 57 Forintveru (ungh.), 55 formix (lat.), 154 fornagar (port.), 155 fornagar (spagn.), 155 fornaguero (spagn.), 155 fornazinho (port.), 155 fornéccio (it. ant.), 157, 158, 159, 160 fornecino (spagn.), 155 fornegar (gallego), 153 forneki (alb.), 160 fornezinho (port.), 155 fornicaciò (catal.), 155 fornicador -ora (catal.), 155 fornicadrìu (catal.), 155 fornicare (it.), 153, 156 fornicare (lat.), 153, 154, 156 fornicario (it.), 156 fornicatio (lat.), 154 fornication (fr.), 156 fornicato (it.), 156 fornicator (lat.), 154 fornicatore (it.), 156 fornicayris (a. prov.), 156 fornicazione (it.), 156 fornicium (lat.), 126, 153 fornicor -aris (lat.), 154 forniement (ant. fr.), 156 fornificare (it.), 156 281
fornix (lat.), 154 fornix -icis (lat.), 153 Fornix Fabius, 153 forrezinho (port.), 153 forricare (logud. ant.), 156 forricare (logud.), 153 forrithu (sardo logud. ant.), forrithu a. logud.), 153 forrithu (alb.), 160 forrithu (sardo), 156 forroyare (logud.), 153, 157 forrugga (gallur.), 153 forrugga (sass.), 157 Fossato, 134
126, 153
G
Poococàtov, 133
fòssatum (lat.), 133, 134 fournicacioun (prov. mod.), 156 fovea (lat.), 117, 217 Foza (Asiago), 117 Fòza, 25 Frassinoro, 77 frema (ven. sett.), 24 froma (calabr.), 24 fromentel (a. fr.), 45 frugare (it.), 157 frumentu (vallone), 45 fshat (alb.), 133 fshatàr (alb.), 133 fuci (alb.), 184 futija (sb.), 184 fuòrnice, fuòrniciu (calabr. sett.), fur(r)regi (alb.), 126 furca (it. mer.), 218 furcà (rom.), 218 furegàr (veneto), 157 furegi, forniki (alb.), 126 furegiet (alb.), 159 furkè (alb.), 218 furment (vallone), 45 furmint (ungh.), 45 furnix (lat.), 154 furnus (lat.), 154 furré (alb.), 160
282
furrithu, forrizu (sardo), 157 Fiische, 25 fustàt o fussat (ar.), 134 fata (ar.), 186 futa, fiita (turco), 186 futé (alb.), 186 futé (arb.), 175 fuyà (ferr.), 20 fuz (s.cr.), 24 PvovyE (gr.), 191
154
gabba (turco), 180 gadwa (ar.), 184 gaib (ar.), 187 gaigur (megl.), 145, 222 gajtan (arb.), 175 gàjulu (sic.), 145 T'aidpBolo. (Illiria, Dardania), 245 galbulus (lat.), 145, 222 galbulus/galgulus (lat.), 247 galgulus (lat.), 145, 222 galìa, galea (ven.), 49 galie (friul.), 49 gallàad (ar.), 192 galtan-i (alb.), 175 galya (ungh.), 49 gam (pers.), 196 gangur (arom.), 145, 222 gànndàt (ar.), 190 garbul (alb.), 145 garbul, gargull (alb.), 222 gargull (alb.), 145 garsàb (pers.), 183 garson (turco), 192 gaytan, kaytan (turco), 175 geam (rom.), 196 geantà (rom.), 185 geenna (it.), 189 gele (bulg.), 233 gellò (gr. m.), 233
gellu (gr. m.), 233 YEAO, YERO, 235
YA,
T'Eihd, -00s, 235 Yyehovdes (gr.), 235
-0bs,
1)
(bizant.),
gener(u) (lat.), 108 yevetho, yevetòo (gr.), 108 gengiva (lat.), 108 gente (lat.), 108 Genthios, 111 Gentiò, “one (lat.-venet.), 111 Gepidi, 78 gereben (ungh.), 14 gesztenye (ungh.), 51 gevrek (turco), 187 gezime (frl.), 50 ghiulea (rom.), 191 giabba (it.), 180 giameleto (lig. ant.), 60 giannizzero (it.), 178 giaurro (it.), 30, 178 gilaf (ar.), 182 YIAÀO, YEhoù (gr. mod.), 235 gimara (piem.), 181 ginn (ar.), 190 gijevrek (alb.), 187 gjoks (i gjyks) (alb.), 195 giyle (alb.), 191 gjylé-a (arb.), 191 glamnja per glavnja, 263 glas (arb.), 165 glasmèé-a( arb.), 165 glate (arb.), 165 glishtéj-a (arb.), 165 glu (arb.), 165 gluhé (arb.), 165 glunjézoj -ohem (arb.), 165 Gnathia, 115 Gòdega, 78 Gòdeghe, 78 Gòdego, 78 goògiis (turco), 195 Goize, 78
golyò (ungh.), 51 Goudargues, 78 Goudon, 77 Goudouneix, 78
gràdulu (calabr. sett.), 145 grangur (rom.), 145, 222 graté (alb.), 126 gràulo, gravio (march.), 145 gràvulu (calabr. sett.), 145, 222 greabàn (rom.), 14 greben (slov.), 14 grest (friul.), 51 Guado dei Pagani, 82 Guado Ungaresco, 82 gualanu (calabr.), 137 Gueux, 77 giùffulo (avell.), 144 guft (pers.), 198 giille (turco), 191 guòffolè (napol.), 144
gufar
(ven. ), 46
gyaura (ungh.), 30 gyézsma (ungh.), 50 gynaecium, genicium (lat. 158
mediev.),
H ha(r)mshuer (alb.),
habar (ar.),
136
188
habar (rom.), 188 haber (bg. e sb.), 188 haber (turco), 188 haber almak (turco), 174 haber-i (alb.), 188 habertar (arb.), 188 Hadrianopolis (Edirne), 210 haedastru (lat.), 148 haedus (lat.), 147, 148 hajmali (alb.), 189 haké (arb.), 175 hala (ar.), 196
283
hala (sb.), 196 hala (turco), 196 halifa (ar.), 192 hallé (alb.), 196 halvany (ungh.), 69 hama’il (ar.), 189 hamajlija/amalija (sb.), 189 hambàr (alb.), 175 hambar (arb.), 175 hamlat (ar.), 60 han (alb.), 188 han (turco), 188 handaq (ar.), 193 hàndéàq (pers.), 193 (hagibdà(t) (ar.), 183 harac (alb.), 177 harami (alb.), 177 hdàrbuz (pers.), 194 hardal (ar.), 194 hardal (turco), 194 hardall (alb.), 194 (h)arem (it.), 178 harm(é)shuer (lat.), 136 harmèshuer (alb.), 136 Harpii (lat.), 234 harraz, haras (fr. ant.), 61 hasém, hasm-i (alb.), 188 hashohem (arb.), 175 hasim (turco), 188 hasmo-i (arb.), 188 haymali per hamuail (turco), hejbe (alb.), 183 hendek (turco), 193 hesàp (turco), 175 heybe (turco), 183 hi de puta! (spagn.), 61 hiberninum (lat.), 127 hic (turco), 197 hic, higgjé (alb.), 197 hicat (arom.), 20 hid (ungh.), 40 hikat (mac. rom.), 213 hisab (turco), 175
284
hoka (alb.), 190 hokatar-i (alb.), 190 hoké (arb.), 191 hokka (turco), 190 hokkabaz (turco), 191 hokoj (alb.), 190 homiléin (gr.), 215 hon «burrone, precipizio» (arb.), hon-i (alb.), 176 hornecino (spagn.), 155 huni (turco), 175 hure (ted.), 61 hurmdà (pers.), 194 hurma (turco), 194 hurmé (alb.), 194 hut, ut, huté (alb.), 130
(i) afté (alb.), 125 (i) calé, 195 iacà (rom.), 186
ibrik (ungh.), 30 igmek (turco), 254 iecur (lat.), 20 ied (rom.), 147 ielcovan (rom.), 230 lele (rom.), 227, 230, 233 189
iele (rtom.), 231 iele, ele (rom.), 231 ielfe (anglosass.), 232 ielità (rom.), 230 iella (tomanesco), 233
igghji (salent.), 137 Igliz, 128 iie (rom.), 137 ilét (alb.), 195 ilet (sb.), 195 ilia (lat.), 136 iliz (bret.), 128 ‘“illàt (ar.), 195 illet (turco), 195
jaka (sb.),
CASS (gr.), 233 îmi pare ràu (rom.), 21, 216
176
jàl (turco),
împàrat (rom.), 129 imperator (lat.), 129 inad (alb.), 174 inat (alb.), 174 inat (arb.), 177 inat (bg.), 174 inat (rom.), 174 inat (sb.), 174 inat (turco), 174
vati (yo. ), 174 începe (rom.), 214 inci (turco), 186
incipère (lat.), 214, 248 indzu (sb.), 186 ingi (turco), 186 inscèri, isceri, isser (friul. ant.), însura (macedor.), 247 însura (mrum. e irum.), 221 însura (rom.), 247 însura(re) (rom.), 221 interilia (lat.), 137 inuxoràre (lat.), 221 învàta (rom.), 222 invitiare (lat.), 222 inxhi-a (alb.), 186 ipeshkév (alb.), 132 ipeskf (alb.), 132 Irodiece (rom.), 228 Irodite (alb.), 228 isap (arb.), 175 isàp-i (alb.), 175 ish mos ish (alb.), 174 (i)truhen (alb.), 127 (in)uxorare (lat.), 247 Tude (rom.), 228 (in)vernum (lat.), 127
J jabanxchi (alb.), 188
jahud (ar.),
189
186
Jjaké (alb.), 186
215
231
jamolli, jamulli-a (alb.), janicar (arb.), 175 janicari (alb.), 175 janitàr (a. ind.), 108 japi (alb.), 183 jaran (alb.), 171 jargan (s.cr.), 25 jargany (ungh.), 25 jasték (alb.), 183 jastuk (sb.), 183 jeddo (bovese), 233 jeddu (calabrese), 233 jel (turco), 231 jel, -i (alb.), 231 jella (it.), 233 jesprist (s.cr.), 52 jetim (alb.), 196 jetim (sb.), 196 jil, jel, jal (turco), 231 jive (turco), 196 Jof di Ongjarina, 94 Joimàritele (rom.), 228 jongar (alb.), 190 jongàr-i (arb.), 190 jufké (alb.), 187
jutta
186
(gall.), 181
K k’umur (bg.), 196 ka, ka-u (alb.), 107
kacak (alb.), 191 kàèak (sb.), 191 kacak (turco), 191 kagamak (turco), 187 kagamak-u (alb.), 187 kacile (alb.), 136 kacsul(y)a (ungh.), 31 kadifa (sb.), 186
285
kadifé (alb.), 186 kadife (turco), 186 kafaz-i (alb.), 183 kafazli (alb.), 183 kafesli (turco), 184 kaftàn (ungh.), 30 kagyaban (ungh.), 54 kdagyalla (ungh.), 54 kagyillò (ungh.), 54 kagylò (ungh.), 53, 54, 55 kagyojja (ungh.), 54 kagyolla (ungh.), 54 kagyu (ungh.), 54 kagyula (ungh.), 54 kaif (ar.), 189 kaik (bg.), 174 uan (gr.), 174 kajamakam (alb.), 192 kajik (alb.), 174 kajk (sb.), 174 kajmak (alb.), 187 kajmak (sb.), 187 kajmakam (turco), 192 kajsì-a (alb.), 194 kajsija (sb.), 194 kala (kalé) (alb.), 193 rahdvdaL (greco mod.), 125 kalandozas (ungh.), 90 kale, kala (turco), 193 kalfa (sb.), 192 kalfa (turco), 192 kalfèé (alb.), 192 kalîn (turco), 175 kalînlik (turco), 175 kallaus (alb.), 177 Kamisol (ted.), 50 kamiza (ven.), 69 kamizòl (ungh.), 50 kamzsa (ungh.), 50, 69 kanata (dalm.), 142 rxavdta (gr.), 142 kandallò (ungh.), 52, 69 kandar (alb.), 197
286
kantàr (turco), 197 ravidoel, (gr.), 197 kanurkéz (alb.), 126 kanushé, kanjushé (alb:), 147 kap (alb.), 198 kap-mak (turco), 198 kapi (alb.), 183 kapi (turco), 183 kapija (sb.), 183 kapitàny (ungh.), 51 kaplamak (turco), 198 kaploj (alb.), 198 kaptiné (alb.), 145, 222 kara (turco), 195 karabas (turco), 195 karabashé (alb.), 195 karanfil (alb.), 194 kàrànfil (pers.), 194 karanfil (turco), 194 karpit (ungh.), 51 karpuz (alb.), 194 karpuz, harbiiz (turco), 194 kasabà (alb.), 193 kasaba (turco), 193 kasap (alb.), 192 kasap (turco), 192 kasaphane (alb.), 192 kasaphane (turco), 192 kashik (alb.), 184 kashile (alb.), 136 kasik, kasik (turco), 184 kasika (sb.), 184 kasténa (ven.), 51 kastigoj (alb.), 126 kasula (s.cr.), 31 katsula (neogreco), 31 kauger (bg.), 175 kaugerlàk (bg.), 175 kaval (sb.), 190 kaval (turco), 190 kavall (alb.), 190 kayik (turco), 174 kayisi (turco), 194
kaymak (turco), 187 kec-i (alb.), 195 keci (turco), 195 kelauna (vegl.), 259, 262 kelepir (turco), 197 keles (turco), 186 kéllané, kollané (alb.), 125 kélléf (alb.), 182 kelomna (dalm.), 259 kelovna (serbo-croato), 259 kelovna (dalm.), 259 kelovna (s.cr.), 262 kemàncge, kemence (turco), 190 kemer (turco), 182 kérbac (alb.), 184 Keérshéndelle (alb.), 127 keéshill (alb.), 129 kestene (bavar.), 51 késulé (alb.), 31 keyf, keyif (turco), 189 kibrit (turco), 184 kilif (turco), 182 kilim (turco), 182 kilim, cilim (sb.), 182
kirbac (turco), 184 kirpik (turco), 195 kishé (alb.), 128 klamint (frl.), 58 kléné (arb.), 165 klishé (arb.), 165 klobuk (sb.), 175 klobukdzi (sb.), 175 klodi zis (messap.), 112 klumésht (arb.), 165 ko-wa (miceneo), 61 kòùo (gord.), 29 kocsi (ungh.), 29 koftor, koftuer (alb.), 221 kégia (Pirano), 54 kogola (capod.), 55 kogòya (amp.), 54 kom (alb.), 137 komé (alb.), 137
kòmiir (turco), 196 kontarse (poles.), 21, 138, 215 konvini e kuni (frl.), 215 kone(re) (ven.), 138 kopuk (turco), 192 kopùk-u (alb.), 192 kòr (turco), 194 korda, kordùle (logud.), 145 kordhézé (alb.), 145 kòrdula (campid.), 145 kosh (slavo), 136 kova (turco), 183 kové (alb.), 183° koverdòér (friul.), 126 uovBévta (ngr.), 138 rovBevtidtw (ngr.), 138 kreshté (alb.), 218 krishtlindje (alb.), 127 krpatur ($. cr.), 126 Kruè o Ziva Voda, 243 krushk (alb.), 131, 143, 222 kucedré (lat.), 142 kuguya (Rovigno), 54 kiij (turco), 196 kujri (alb.), 130 kujtoj, kuitoj (alb.), 147 kukuta (s.cr.), 136 kill (turco), 192: kula (sb.), 193 kulah (pers.), 186 kiilah (turco), 186 kulbe (alb.), 126 kule (turco), 193 kullana(alb.), 125 kullèé (alb.), 193 kullé (arb.), 193 kulshedér (alb.), 142 kumtér (alb.), 143, 222 kunat (alb.), 132 kunat/é-a (alb.), 132 kundér (alb.), 175, 185 kundraxhi (alb.), 175 kundura (turco), 185 7
287
kungé (alb.), 126 kunvént -ndi (alb.), 137 kuptyrè (alb.), 126 kurafi (ungh.), 61 kuri(ca) (slavo), 61 kurva (slavo), 61 kurva (ungh.), 61 kurva (slavo), 62 kurvéri (alb.), 160 kusheri (alb.), 131 kuti (alb.), 182, 183 kutija (sb.), 183 kutu (turco), 183 kuvénda (ngr.), 138, 215 kuvendoj (alb.), 137, 215 kuvént (alb.), 21, 137, 215 ui-o-s (gr.), 107
La Gutine, 78 la’niàt (ar.), 189 labda (slov. dial.), 65 labda (s.cr. caicavo), 65 labda (ungh.), 66 lacus Pelissa inferior, 15 lacus Pelso, 15 ladroneccio (it.), 158 laedère (lat.), 124 lagàm (rom.), 193 lagim (turco), 193 lagum (sb.), 193 hayov, (gr.), 193 lagym (turco), 193 “lakuriknete (alb.), 194 lala (pers.), 196 lala (turco), 196 lalé (alb.), 196 lalé-a (arb.), 197 lanet (sb.), 189 lànet (turco), 189 lanet-i (alb.), 189
288
Langaresca, 82 Langòris, 95 lapa (slavo), 65 lapàt (ungh. ant.), 62 lapota (lett.), 65 laptà (russo), 65 lapta (ungh.), 65 laptagiu (rom.), 175 Laptes, 66 lapte (rom.), 175 Laptha (lat. med.), 66 lastra, rastra (salent.), 148 lata (otrant.), 137 latedda (salent.), 137 latta (it.), 65 Latte (ted.), 65 Le Goudeix, 77 Leitkauf (m. a. ted.), 142 lekuraxhi (alb.), 175 léndoj (alb.), 124 léndonj (alb.), 124 lent (frl.), 58 lepitké (alb.), 185 lèssandra (salent.), 142 lèssandro, lìssandro (salent.), 142 leylek (turco), 194 licòf (friul.), 142 lik (turco), 175 likof (slov.), 142 lingula (lat.), 184 llagém (alb.), 193 llullé (alb.), 191 Lombardore, 77 londra (nap. ant.), 144 londra (abruzz.), 144 londre (molis.), 144 londre (nap. ant.), 222 londro (arb.), 222 Longadore, 77 Lòngara, 82, 94, 96 Longara, 96 Longarella, 97 longaria (lat.), 79
Longariòn, 95 Longarone, 96 (L)ongeriaco, 91 Longeriaco, 94 Longiarezza, 91 Longor(i)a, 95 Longor(i)e, 95 Longora, 96 longòéria (lat.), 79 Longoria -ora, 96 Aévtpa (ngr.), 144 lontra (ngr.), 222 lontro (avell.), 144, 222 lopata (s.cr.), 69 lopata (abg.), 65 lopata (romeno), 65 lopata (russo), 65 lòpata (s.cr), 66 lopata (slavo eccl.), 65 lopata (slavo), 65, 69 lopatka (russo), 65 lopé (alb.), 107 lopeta (lit.), 65 lopetè (alb.), 65 loptà (russo), 69 lopta (s.cr.), 62, 65, 69 lopta (s.cr., slov.), 62 lopta (slov.), 62, 65 lopta (slovacco), 65 loptà (russo), 65 lopta (slavo), 65 loptà, laptà (russo), 62 lopto (a. pruss.), 65
lopita
(slavo), 62
lota (ven.), 68 louzerai (venet.), 109 louzero@os (venet.), 109 lov (bg.), 175 lovgi (bg.), 175 lugé (alb.), 184 lula (Balcani), 255 lundér (alb.), 222 lundér, lundré (alb.), 144
lundré (rom.), 144, 222 Lungro, 85 lunter (lat.), 144, 222, 247 luntre (rom.), 144, 222 luntru (calabr.), 144, 222 luntru (sic.), 144, 222 luquerré (alb.), 160
M ma'‘dan (ar.), 196 madém (alb.), 196 maden (turco), 196 madrabaz (turco), 192 madrasa (ar.), 189 magiaro, 79 magra (it.), 253 magra (lat.), 253 mahajér (alb.), 130 mahala (bg.), 174 mahalà (rom.), 174, 193 mahala (sb.), 174 mahalla (ar.), 193 mahallé (alb.), 174 mahalle (turco), 174, 193 mahdllebi (turco), 187 mahrama (alb.), 186 mahrama (ar.), 186 mahrama, makrama (turco), mahrama, marama (sb.), 186 maiarium (lat.), 130 maiarium (lat.), 130 maimiin (ar.), 195 majàr (alb.), 130 majdàn-i (alb.), 175 majdanoz-i (alb.), 194 majér (alb.), 130 majere (alb.), 130 majmun-i (alb.), 195 majuer (alb.), 130 makrama (turco), 186 makrapipa (ungh.), 253
186
289
malvasia dedal lat. (it.), 69 mammone (it.), 195 uavònjhov (gr.), 186 mandil (ar.), 186 mdndola (ven.), 49 mandula (ungh.), 49 mangal (rom.), 183 mangal (turco), 183 mangall (alb.), 183 manqal (ar.), 183 mantile (lat.), 186 magriàmi (ar.), 186 mar’a (ar. parlato), 62 marcipàn ‘(ungh.), 55 marcipànt (ungh.), 55 Marcomanni, 78 miàre, màri, ma (rom.), 241 mireo, miùrele (rom.), 241 mareòs (friul.), 214 Miùrgàlina (rom.), 228 miàri (rom.), 241 marigozu (campid.), 214 markus (vegl.), 214 maros (meglen.), 214 marr haber (alb.), 174 martabaàn (ar.), 61 martaloc(z) (ungh.), 30 martalòz (turco), 30 Marteloso, 30 martolos (s.cr.), 30 martoloz (s.cr.), 30 marzapane (it.), 181 mas (lat.), 241 massatum (lat.), 133 matrapaz (alb.), 192 Maurus (lat.), 242 mautabàn (ar.), 61 uayahàas (gr.), 174 maydanoz (turco), 194 maymun (turco), 195
uavpos,
uavpés,
242 màz, méz (alb.), 107
290
duavpés
(gr.),
mazsola (ungh.), 49, 50, 69 mazzacorda (calabr. sett.), 145 mbesé (alb.), 131, 132, 133 mbizzarri(calabr.), 222 mbret, mret (alb.), 129 mbroj, péronj (alb.), 125 mbronj, 125 mbuloj (alb.), 125 medicaster (lat.), 130 medresé (alb.), 189 medrese (turco), 189 méhallé (alb.), 193 mejdam (arb.), 175 mendil (turco), 186 mendil-i (alb.), 186 menekse, menevse (turco), 175 megan (alb.), 171 mercarium (lat.), 130 merge (rom.), 147 mergere (lat.), 147, 247 mérgoj (alb.), 147 mérgonj (alb.), 147 mermer (alb.), 196 mermer (turco), 196 merger (alb.), 130 mesht (alb.), 186 mesi (rom.), 186 mest (turco), 186 mestva (sb.), 186 meydan (turco), 175 meze (alb.), 175 mezellék (alb.), 175 Mleci (s.cr.), 46 mmizzari (sic.), 222 mocarse (venez.), 49 moche (ven.), 49 moechari (lat.), 154 mòéka (ungh.), 49 moldahias (messap.), 106 Moldo (venet.), 106 Moldéi, 106 mona (ven.), 195 Monghidoro, 78
Monopolis, 245 monosage (arb.), 175 Monte Lòngara, 96 mòre (gr. mod.), 239 moré (arb.), 242 more (arum.), 241 mòre (sb.), 241 morè (venez.), 239 moré et mori, mari (bulgare), more(maced.), 242 mòré, mòré’ (gr. m.), 239 moré, mre (alb.), 241 mòri (arb.), 242 morì (arum.), 241 morì hil’e (arum.), 241 mori, mojé (alb.), 241 mòro (ven.), 237 mòro (ven.), 242 Moròlo, 77 mòron, mòrò(n) (gr. m.), 239 mòròés (gr.), 239 morus -a -um (lat.), 240 mosmol (rom.), 194 moticare (lat.), 22, 216 motitare (lat.), 22, 216 undEioL (gr.), 173 umoydti (gr.), 174 umoyia (gr.), 173 umtovvtTAahàs (gr.), 174 unpé (gr.), 240 mrjiwn (arm.), 258 mrjman (arm.), 258 muezzin (it.), 178 muhalebì-a (alb.), 187 mumbak (arb.), 186 Mundi mîtar, 243 murd- (a. ind.), 240 mus, musso (veneto), 107 musdafir (ar.), 189 musàfir (sb.), 189 miisafir, misafir (turco), 189 mushké (alb.), 107 mushmollé (alb.), 194
musmula (turco), 194 muticare (calabr.), 22, muticus (lat.), 22, 216 uwpaivw (gr.), 240 uwpta (gr.), 240 uwop6s
(gr.), 241
mysafir (alb.), 241
216
189
N Nagode (rom.), 228 Naissos (Ni), 208 nalbastru, oale nalbastrà (arum.), 222 Nangòris, 95 narancs (ungh.), 49 naranza (ven.), 49 narghilé, 253 Narona, 17 Narona, 210 ndéshkoj, ndeshkoj, ndishkoj (alb.), 125
ndéshkonj (lat.), 125 Nemef(to) (gallico), 94
Nemilostive (rtom.), 228 nep(è)sh (alb.), 132 nepoatà (rom.), 132 nepoga (dalm.), 132 nepos (lat.), 131, 132 nepota (lat.), 132, 133
nepotia (lat.), 131, 132, 133 nepoticia (lat.), 133, 133 nepta (lat.), 133 neptia (lat.), 133 nepticula (lat.), 133 neptis (lat.), 133 nerene (turco), 175 nerénxé (alb.), 175 nerénxé (arb.), 175 nesa (prov.), 133 nevoda (veneto), 132 nezza (veneto), 133 nièce (fr.), 133 291
nievo (veneto), 133 Nievo, 133 nif, 132 ningi (calabr.), 222 ninguère (lat.), 222
nip (alb.), 133 nip (ghego e tosco), 131 nisadir (arabo), 196 nisador (sb.), 196 nisdir (turco), 196 nishadér (alb.), 196 njerk (alb.), 221 nofull (alb.), 144 néfullé (sic.), 144 nonnu (logud. e campid.), 146 nonnus (lat.), 146 novaster (lat.), 130 noverca (lat.), 221, 247 novercus (lat.), 221 nsurare (romanesco), 247 ntrigghiu (sic.), 137 nun (alb.), 146 nun (rom.), 146 nunné (lucano), 146 nunnu (salent.), 146 nunnu, nunn (calabr.), 146
O oblata (lat.), 137 Obre, 81 Obrijeè, 81 Obrov, 81 Obrovac, 81 ocak (turco), 183 odzak (sb.), 183 offula (lat.), 144, 247 ogeac (rom.), 183 oguùr (alb.), 197 ogur (rom.), 197 ogur, ugur (turco), 197 Olasz-Liszka, 45
292
Olaszfalu, 45 Olaszi, 45
Olasztelek, 45 Òleaster (lat.), 143 ouiAia (greco), 138 Ongara, 95 Ongaresca, 89, 91 Ongarina, 94 Ongaro, 91 Ongiarà, 91, 94 Ongiaresse, 91 Ongiarine, 94 Opi-tergium (Oderzo), 15, 89 orda (it.), 178 orgain (veglioto), 25 érganum (lat.), 25, 117 érgànum, òrgineum (lat.), 124 orszag (ungh.), 69 osserare, nzurare (abruzz., napol. calabr.), 221 òstrega (ven.), 49 osztriga (ungh.), 49, 54 otus (lat.), 130 oxhak (alb.), 183
P pabuc (turco), 185 paca (alb.), 187 paca (turco), 187 Pagani, 86 Paganoro, 77, 86 Pago Barbaroro, 77 maipw yauzéoi (gr.), 174 pala (it.), 69 pala (sb.), 191 pala (turco), 191 pala, palòta (it.), 66 pala, paloz (rom.), 191 palaéinka (s.cr.), 53 palacsinta (ungh.), 52 palagio (it. ant.), 46
palla (it.), 69 palla (it. sett.), 69 pallé (alb.), 191 pallé-a (arb.), 191 paloscio (it.), 191 palòta (ven.), 69 Palsicium (Passicium Palsacium, Palsatium), 16 xdupaE, xanupduiov (gr.), 186 pambuk (alb.), 186 pambuk (turco), 186 piànbà (pers.), 186 pancar (turco), 193 pangea (rom.), 193 pantegana (ant.friul.), 27 pantiane (frl.), 27 panxhar (alb.), 193 panxhé (alb.), 195 paocea (rom.), 187 papasso (it.), 178 papilio (lat.), 134 papucge (alb.), 185 papuò (pers.), 185 para (alb.), 189 parà (pers.), 189 parà (rom.), 189 para, pare (turco), 189 paramanda-paramenda (arum.), 124 parare (lat.), 124 piàrdà (pers.), 183 Parentium, 17 Parentium (Parenzo/Poreè), 209 parer riu (feltr.), 21, 216 Parjanya (a. ind.), 129 parmèndé, parméndé (alb.), 124 partal, parsal (turco), 183 partalle (alb.), 183 pascià (it.), 178 pashmangé (alb.), 186 pashtrak (alb.), 130 pa$mag (sb.), 186 pasmak (turco), 186 passamàn (ven.), 49
pastaman (arm.), 258 pastawn (arm.), 258 pastérmà-ja (alb.), 187 pasturaticum (lat.), 130 paszomdany (ungh.), 49 patéllxhan (alb.), 193 patkany (ungh.), 27 patlagea (rom.), 193 patlican, patlican (turco), 193 pattegolezzo (ven.), 158 pazar (alb.), 177 matéo (gr.), 180 Pegontium (apulo), 245 Peguntium (Dalmatia), 245 pehlivan (alb.), 191 pehlivan (turco), 191 pekmez (alb.), 187 pekmez (turco), 187 Pelesen, 16
pelin (alb.), 194 pelin (turco), 194 Pelmo/Pèlf, 16 Pelsa, 16 pelso, 16 Pelsonia, 16 pence, pence (turco), 195 pencere (turco), 175, 184 pendzer (sb.), 184 pengere (pers.), 184 penxhér (arb.), 175 penxhére (alb.), 184 peraramentum (lat.), 124 perarare (lat.), 124 perdé (alb.), 183 perde (arb.), 177 perde (sb.), 183 perde (turco), 183 perdea (rom.), 183 peréndesha (alb.), 129 peréndi (alb.), 129 Perkunas (lit.), 129 Perunù (a. slavo), 129 peschir (rom.), 182
293
peshk (alb.), 218 peshqir (alb.), 182 peskir (sb.), 182 peskir (turco), 182 peste (rom.), 218 petonciano (it.), 193 Peucetii (liburn.), 245 pexher (arb.), 184 pèxher-i (alb.), 175 TlevxrEtio. (illir.-epir.), 245 Philippopolis (Plovdiv), 210 Pictavis (Poitiers), 74 pikat da pikàt (Ragusa), 20 pil (pers.), 196 pilaf (tom.), 188 pilaf, pilau (bg.), 188 pilaf-i (alb.), 188 pilao (it.), 178 pilàv (turco), 188 piljun (s.cr.), 144 pirpiri (alb.), 186 pirpiri pirpiri (turco), 186 pjak-u (arb.), 166 pjaneps-énj (arb.), 166 pijasé (arb.), 166 pijep-i (arb.), 166 pjoté (arb.), 166 pjùar, pjori (arb.), 166 placenta (it.), 52 placintà (rom.), 53 placitum (lat.), 138 plema (s.cr.), 24 podgana (slov.), 27 Poetovio (Ptuj), 18, 210 pogacùa (s.cr.), 27 pogacta (slov.), 27 pogace (alb.), 27 pogdaàcsa (ungh.), 27 Pogatscherl (ted.), 27 Pola, 17, 209 pom (rom.), 217, 248 pomar (friulano), 248 pome (frl.), 248
294
pomus (lat.), 217 Pons Ungaricus, 93 Pontem Ungaricum, 93 pònticus (mus), 27 Porolissum (Moigrad), 210 Porto Ungaresco, 82 pr(a)ebiter (lat.), 130 presîn (rom.), 228 presto (ungh.), 52 prevosto (it.), 52 prift (alb.), 130 prind (alb.), 132 putanézo (veneto), 158 putelézzo (ven.), 158 puttineccio (it. ant.), 158
qymeér
ruo (dolom.), 21 Rusalii (tom.), 228
196
R racchetta (it.), 69
raf (rom.),
Q qgafas (ar.), 184 gal‘ah (ar.), 193 qasaba (ar.), 193 gatifa (ar.), 186 geif (alb.), 189 gejfli (alb.), 189 qgelepri-i (alb.), 197 qgeléshe (alb.), 186 qgemanxhé (alb.), 190 qgemer (alb.), 182 gere (alb.), 148 gerpik-u (alb.), 195 gibrit (alb.), 184 gift (alb.), 129 gij (alb.), 160 gilaf (arb.), 186 gilìm-i (alb.), 182 gintàar (ar.), 197 goti touhdr (gr.) (tosco), gott (arb.), 177 quasillum (lat.), 136 quilla (ar.), 193 qgy! (alb.), 192 qylah-i (alb.), 186
(alb.),
qymyr (alb.), 196
177
182
raft (alb.), 182 ràht (pers.), 182 raki (alb.), 177 raki (turco), 187 rakì, ragì (alb.), 187 rakì-a (arb.), 187 ràu (rom.), 21 raven(d) (alb.), 194 ràvend -nt (turco), 194 ràwdànd (pers.), 194 Refrancore, 77 rekl (tirol.), 255 reus (lat.), 21, 216 reven (bg.), 194 revent (rom.), 194 rijastré (abruzz.), 148 riu (feltr.), 21 rivajet (alb.), 171 rizsma (ungh.), 50 robbia (it.), 126 roiba (rom.), 126 Romanore, 77 Romanoro, 77 ròsa (ven.), 50 rézsa (ungh.), 50 rraki (arb.), 177 rripa (alb.), 185 rrojbé (alb.), 126 rrojbé/rrolbé (alb.), 126 rubia (sp.), 126 rubint (ungh.), 55 Rudiae, Rudini (Peucetii e Sallentini), 245
ruiva (pg.), 126 Rujalina, 228
S s’ciao (ven.), 60 sa‘àt (ar.), 197 sàadar (pers.), 192 saat (turco), 197 sabbatum (lat.), 127 sacsie (rom.), 184 Sadwrn (cimr.), 127 sagum (lat.), 126 sahat (alb.), 197 sahàt (arb.), 197 sahat (turco), 197 sahatci (alb.), 175 sahatcillék (alb.), 175 sahatchi (alb.), 197 saie (fr.), 126 $ajak (sb.), 187 sajoj (alb.), 198 saka (turco), 191 saksi (turco), 184 saksì-a (alb.), 184 salata (ven.), 49 salata (ungh.), 49 sàlciner (rom.), 222 salì (venez.), 178 Salmour, 77 Salona, 17, 210 sambata (lat.), 127 samid (ar.), 188 sammir (ar.), 181 samno (vegl.), 259 samnuti per savnuti, 263 Samovile (rom.), 228 sanat (turco), 192 sandîk, sanduk (turco), 175 sankti (a.a. ted.), 47 saraf e sarraf (alb.), 192 saraj (alb.), 184
295
saraj-i (arb.), 184 saray (turco), 184 sarcinala (abr.), 145 sarcinarius (lat.), 144, 145 sarcinaru (calabr. centro-sett.), 222 sarcinaru (centro-sett.), 145 sdàrciner (rom.), 222 sàrciner, sàlciner (rom.), 144 sdàrdiàr (pers.), 192 sarek, sarrek (alb.), 187 sarik (turco), 187 $arjumn (arm.), 258 sarki (turco), 190 Sarmati, 78 sarraf (ar.), 192 sarraf (turco), 192 sàruk (sb.), 187 sasmak (turco), 198 Sassoni, 78 sat (ant. fsat) (rom.), 133 sat (sb. cr.), 197 sàter(s)dach (m.a. ted.), 127 Saturday (ingl.), 127 Saturni dies (lat.), 127 Sava (Savia), 18
Savaria (Szombathely), Savatina (rom.), 228 Saviore, 77
18, 210
sawt (ar.), 181 say-mak (turco), 198 sayak (turco), 187 saz (pers.), 190 saz (sb.), 190 saz (turco), 190 saz-e/ja (alb.), 190 SCAMNU (lat.), 257 scandiglia (calabr. centr.), 146 scandiglia (calabr.), 222 scandiglia (Gizzera (CZ)), 249 scantilia (lat.), 146, 222 Scarbantia (Sopron), 15, 18, 210 Scardona, 17, 210 scaun (rom.), 257
296
sceca (it.), 178 scerbetto (it.), 178 sceriffo (it.), 178 scialle (it.), 178 sciattare (it.), 125 sciatto (it.), 125 scînteie (rom.), 146, 222, 249 scintilla (lat.), 146, 222 scoara (rom.), 117 scoare (tomeno), 25 Scodra, 17, 210 scoria (it.), 26 scoria (lat.), 25, 117, 217, 248 scorie (fr.), 26 scurie (frl.), 26 sdrumà (frl.), 135 sedér (alb.), 197 sedrégar (alb.), 197 sehirtar (alb.), 174 sehrimizden gegdi (turco), 174 séir (seyir) etmek (turco), 174 seir sehir (alb.), 174 Sena Gallica (Piceno), 245 séndug, sandék (arb.), 175 séndug-i (alb.), 175 sengjar (alb.), 177 Senia (Segna/Senj), 210 Senj (Liburnia), 245 Senna, 245 sent (veneto-friul.), 47 sent (slov.), 47 sent (slov.), 47 sent, senta (veneto e friul.), 47 serdar (alb.), 192 serdar (turco), 192 sgrèbano (vic.), 1 Serdica (Sofia), 210 Servus! (ted. austr.), 60 Setund- (lat.), 127 sevrùt scevrit (frl.), 215 seyir (turco), 174 sfint (romeno), 47 Sfintele (rom.), 228
shag -u (alb.), 126 shajak (alb.), 187 shakà (alb.), 191 shalgì (alb.), 194 sharki (alb.), 190 shashtis (alb.), 198 shekavet (alb.), 171 shelknuer, shelgéror (alb.), 222 shend (alb.), 177 sherrégji (alb.), 124 shkéndi (alb.), 222 shkendì (alb.), 249 shkéndìj (alb.), 146 shkéndijé-a (alb.), 146 shterpé (alb.), 135 shterpési (alb.), 135 shtundé, shtuné, shétuné (alb.), siccare (lat.), 107 simit (alb.), 188 simit (turco), 188 Singidunum (Belgrado), 17, 210 sînt (rom.), 47 sipidik (turco), 185 sirdar (hindi), 192 Sirmium, 17, 210 Siscia, 210
siva-mak (turco), 198 skéie (alto ven.), 117 S$kéie (lad. centr.), 26 (s)koradura (fassano), 26 skura (ngr.), 25 skura (agord.), 26 skurie (friul.), 117 skurie (frl.), 26 Slavi, 78
smodega(r) (ven. sett.), 22, 216 smudié (lad. centr.), 22, 216 Soave-Suavis, 77 Soimanele (rom.), 228 Soimiàritele (rom.), 228 sòlak (sb.), 197 solak (turco), 197 sollak (alb.), 197
127
SOMNU (lat.), 258 sorbetto (it.), 178 sortilegium (lat.), 124 sortilegus (lat.), 124 soussi (fr. ant.), 157 Spinada Ongaresca, 89 spinal (berg.), 214 spinal (friul.), 213 spinal (surm.), 214 spindal, spinél (engad.), 213 spinàlis (lat.), 248 spinalis (lat.), 213 spinare (rom.), 213 spiné (comel.), 213 spiné (lad. bad.), 213 Stàpînele vîntului (rom.), 228 Stilifié o Filié, 243 Stosija (Zara), 68 strada Ongaresca, 89 strada Ungarista, 85 Stradalta, 89 stratam Hungarorum, 90 Strohwein (ted.), 45 sSuban (pers.), 197 subrupare (lat.), 222 succhiello (it.), 146 sucuk (turco), 188 suculus (lat.), 147 suegra (spagn.), 143 sumpara (turco), 196 sumpere (turco), 196 sur(r)at (alb.), 195 surà(t) (ar.), 195 surat (turco), 195 surnà, zurnà (pers.), 190 surraparse (abr.), 222 sus (lat.), 107 suscipère (lat.), 215 siitlàc (turco), 188 suvatoj (alb.), 198 suxhuk (alb.), 188 svanuti (s.cr.), 265 svet (slavo merid.), 47
297
Sveta, 68
talpòn (poles.), 32 talpòn (trev. e bellun.), 32 talpén (venez.), 32 talpén (pad.), 32 Talpone, 33 Talponus, 33 tamara (preind.), 15 tamariti (slov.), 15 tambaga (turco), 196 tanfaruzo (it.), 178 tanjur (s.cr.), 51 tanyér (ungh.), 51 tanyir (ungh.), 51
(slavo eccl.), 47 syéug (russo), 188 sykotén (gr.), 213 Sylve-Godersque, 78 sytliac (alb.), 188 szalmabor (ungh.), 45 szent (ungh.), 47 svetùi
T tabak (alb.), 185 tàbak (sb.), 185 tabak (turco), 185 tabakà-ja (alb.), 185 tabàq (ar.), 185 tabut (alb.), 189 tabut (turco), 189 tabut (ar.), 189 taffarug (arabo), 178 tafferugia (it.), 178 tafferuglio (it.), 178, 250 Tàifali, 72
Taohà&vtuuioi,
Taìval, 74
Talacimanno/Dalismano (it. ant.), talidàn (ven.), 49 taljan (ungh.), 49 taljur (s.cr.), 51 talla (finnico), 32 talnyir (ungh.), 51 talp (ungh.), 31, 33 talpà (friul.), 32 talpà (rom.), 32 talpa (it.), 33 talpa (prelat.), 32 talpa, talpòn (valsug.), 32 talpa/talta (pronom.), 33 talpe (slesiano), 32 talpe (ted. svizz.), 32 talpe (m.a. ted.), 32 talpen (turingio), 32 talpinà, tolponà (frl.), 32
298
181
245
tàrazu (pers.), 197 Tarsatica (Fiume/Rijeka), tat-è-a (alb.), 148 tata (lat.), 148 tatà (rom.), 148 tatà vitreg (rom.), 221 Tavella Ongaresca, 91 taverré (alb.), 160 tavut-i (arb.), 189 tàya, tàe (friul.), 33 teferriic (turco), 178 tèi (comel.), 238 Teiphalas, 74 tel (arb.), 175 tel (turco), 175 tel-i (alb.), 175 telàs (turco), 188 telàash (alb.), 188 telek (ungh.), 45 temel (alb.), 177 templom (ungh.), 40 templum (lat.), 40 tencere (turco), 184 tenete (sb.), 196 teneke (turco), 196 tenegé (alb.), 196 tenxhére (alb.), 184 tepsi (arb.), 177 terazi (turco), 197
17, 209
terén (frl.), 58 terent (frl.), 98 teresije (sb.), 197 terezi (alb.), 177 terezì-a (alb.), 197 Tergeste (Trieste), 15, 17, 209
tergitio negotiator, 15 Tergolape (Tab. Peut.), 15 terlik (turco), 185 téskere (turco), 189 Tessalonica, 115 tezgeré (alb.), 189 tezgere (sb.), 189 Theifaliam, 74 thek (alb.), 107 Theofale, 74 thi’ (alb.), 107 thjeshtrè / fjeshtér (alb.), 107, tiens, tiens! (fr.), 238 Tiffauges, 74 tingire (rom.), 184 tinichea (rom.), 196 tiranta (it.), 185 tirizie, terezie (rom.), 197 Tivalges, 74 Tìvoli, 74
108
tòi (trent.), 238 tok-u (alb.), 175 toka (arb.), 175 toka (turco), 175 tokaji (ungh.), 45 Tolentinum (piceno), 245 tolpo (ven.), 33 tolpo, tolpén, toléto (venez.), 32 top (alb.), 191 top (rom.), 191 top (sb.), 191 top (turco), 191 topal (sb. cr.), 195 topal (turco), 195 topall (alb.), 195 topéè-a (arb.), 191 Tore ve(d)rana, 21
Tore verana, 214 tràda (rom.), 127 tradère (lat.), 126 tradire (it.), 127 Trotus, 18 Trotus, 210 truanj (alb.), 127 truej, truaj (alb.), 127 Tschibuk (ted.), 254 tschiitschaivir, tschaiver (engad.), 10i@pmns (neogr.), 129 t100uzdvns (gr.), 174 106XA =, (gr.), 185 tu canti (it.), 224 tuce (salent.), 143 tuge (logud.), 143 tulga (turco), 197 tulipàant (ungh.), 55 tullac (turco), 197 tullgé (alb.), 197 tuman (turco), 187 tumane (alb.), 187 tumanlije (sb.), 187 tumbak (alb.), 196 tummer/tumper (ted. car.), 15 tuota (vegl.), 148 Turanian, 169 turk (alb.), 177 Turkic, 169 Turkish, 169 tut (ar.), 194
215
Tyras, 18 tyuk (ungh.), 61
U Udin (frl.), 58 Udint (frl.), 58, 98 uèfflu uèffala (salent.), 144 uèffulu (salent.), 144 umb, um (alb.) (ghego), 130 Ungar, 87
299
Ungarello, 85 Ungaresca, 82, 87, 89 ùngari (feltr. rust.), 80 Ungaria, 85, 95 Ungarisco, 87 ùngaro (it.), 79 Ungarus, 87 Ungheria, 85 unghero (it.), 79 ungj (alb.), 131 ungjill (alb.), 129 Ungrispach, 91 untru (sic.), 144 uòffule (napol.), 144 urusag (ungh. ant.), 69 ut (Montenegro), 130 ùtina (s.cr.), 130 uture (rom.), 130 uxhak (alb.), 183 uxor (lat.), 247 uxoràre (lat.), 221 uxorari (lat.), 247 uzorizare (Arbe), 221, 247 uzorizzare (dalmat.), 247 uzunluk (turco), 175 Vv
Vjelsou[nus (lat. dalm.), 262, 263 Vadus Hungarorum, 82 vadus Hungarorum, 91 vagulare (lat.), 252 vagus (lat.), 252 vandàlico, 79 vàndalo, 79 Vanze (sal. ), 245 Varena, 81 Varengo, 81 varganj (s.cr.), 25 varganio (istr. ), 25 vasra (cal.), 222
vastata Ungarorum, 84
300
vastra (reggino), 222 véclus (lat. vg.), 20 vedran (friul.), 21, 214 vefa (alb.), 171 Velence (ungh.), 46 Velsomno (lat. dalm.), 263 vènatu (calabr.), 148 venedego (venez.), 99 Venedig (armeno), 46 Venedig (ted.), 46 vèneta (napol.), 148 Venetici > Vinetici > Vnetci > Mnetci > Mfleci (s.cr.), 263 Venetici, Veneticus (colpus), 46 Venetik (turco), 46 vènetru (calabr. sett.), 148, 222 vènétus (lat.), 148 venètus (lat.), 222, 247 Veniesia, Vegnesia, 46 veresi, veresiye (turco), 198 veresie (alb.), 198
vérgar (alb.), 146 vergola (napol.), 146 vernum (lat.), 127 verres (lat.), 147 vérri (alb.), 127 verrina (it.), 146 vért (ungh.), 40 veteràanus (lat.), 214 veteranus (lat.), 20, 248 vetrano e vetraneza (ven.), 214 vétus (lat.), 20 via di Pianore, 87 Via Engresca, 87 via francigena (o francexia), 88 via Hungarorum, 89 via regia, 88 via romea, 88 via Ungarda, 87 via Ungaresca, 85 via ungaresca, 88 via Ungarorum, 89 via vel strata, 84
Vile (slave), 228, 230 Vilve (rom.), 228 vin de paille (fr.), 45 vînàt (rom.), 148, 222 Vindobona (Vienna), 18 Vinegia, Venegia, 46 vinètico (it. ant.), 148 Vîntoase (rom.), 228 Viînturite (rom.), 228 virgar (calabr. sett.), 146 vitérg (alb.), 221
vitricà (rom.), 221 vitricus (lat.), 221 vitricus (lat.), 247 Vogarisca, 91 vogél (alb.), 160 vogeli (alb.), 160
Vogheresca, 91 94 Vogrsko (sloveno), 91 Volsius, 104 Volso, 104 Volsomnos (venet.), 259 Volsonius, Volsouna (lat. dalm.), 260 Vogr$èéek,
Volsouna, 104 Volsouna (lat. dalm.), 262 Volsouna, Velsouna (lat. dalm.), 259 Volsounus (lat. dalm.), 262 Volsun[, 104
Voltiiomnos (venet.), 259 Voltio-mno-s (venet.), 260 Voltiomnos (venet.), 262 Voltoparikos (venet.), 105 Voltuparis (venet.), 105 vomer -ere, 130 vomerea (lat.), 130 vomis (lat.), 130 vorbà (rom.), 138 vorr (turco), 193 vorraxhi (alb.), 193 voshter (alb.), 143 vrganj (s:cr.), 25 dotos (ngr.), 130
dent (ven.), 108 diél (ven.), 108 dink (ven.), 108
x xÉpovdpos (greco), 142 xha-ja, xhaxha (alb.), 197 xhamo-i (alb.), 196 xhamì-a (alb.), 189 xhehém-i (alb.), 189 xhelat (alb.), 192 xhenét-i (alb.), 190 xhep (alb.), 187 xhep-i (arb.), 187 xhezve (alb.), 184 xhin (alb.), 190 xhindi (alb.), 190 xhins, gjins, xhis (alb.), 196 xhurà-a (alb.), 190 xhyxhe, xhuxh-i (alb.), 195 xotpos (gr.), 108 x00ò1 (gr.), 145
Y yaban, yabanci (turco), yaka (turco), 186 yapi (turco), 183 yaska (vegl.), 145 yastik (turco), 183 yatim (ar.), 196 yéddo (bovese), 233 yel (turco), 230, 235 yelkovan (turco), 230 yemeni (turco), 186 yemenli (turco), 186 yeniceri (turco), 175 yetim (turco), 196 yoghurt (it.), 178 yongar (turco), 190 yufka (turco), 187
188
301
zabit (arb.), 177 zagaglia (it.), 69 zagar (alb.), 195 zagar (turco), 195 zahr (ar.), 190 zambil (ar.), 184 zambil (rom.), 184 zanaat (ar.), 192 zanaat(ti) (turco), 192 zanat (alb.), 192 zanat (sb.), 192 zapt (arb.), 177 zaptije (arb.), 177 zar (alb.), 190 zar (turco), 190 zar-i (alb.), 190 zara (it. ant.), 190 zarf (alb.), 188 zarf (ar.), 188 zarf (sb.), 188 zarf (turco), 188 zaterdag (neerl.), 127
302
zbor (a. slavo), 21 zembil (turco), 175, 184 zembra (alb.), 108 Zensén (Treviso), 111 zgjyré (alb.), 25, 117 zgurà (rom.), 25 zgura, 2gura (s.cr.), 26 zhiv/é-a (alb.), 196 zimarra (it.), 181 zimbil(le) (arb.), 175 zimbille (alb.), 184 zimpara (turco), 196 zincir, zencir (turco), 183 zindan (alb.), 171 zinjir (pers.), 183 zinxhir (alb.), 177 zinxhir (zichir) (alb.), 183 zinxiréè (zinshiré) (arb.), 183 zmuticare (aromeno), 22, 216 zora (it. ant.), 190 zumpare-ja (alb.), 196 zurna (turco), 190 zurna, zurla (sb.), 190 zutta (it.), 181 zutta (lig.), 181
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Finito di stampare nell’ottobre 1992 per i tipi de LA FENICE EDIZIONI dalla Tipografia Borgia s.r.l. Via di Monteverde 28-38 - 00152 ROMA
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