L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Istituzioni e politica [3] 9788843071784, 8843071785

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le dinamiche istituzionali e politiche.

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Italian Pages 543 Year 2016

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L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Istituzioni e politica [3]
 9788843071784, 8843071785

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Carocci

@ editore

Il volume ripercorre la storia italiana degli ultimi trent'anni seguendone le dinami­ che istituzionali e politicl1e. Vengono così presi in considerazione i diversi aspetti di una realtà cl1e è stata attraversata da apparenti discontinuità, ma che rimane sostanzialmente nel solco della crisi iniziata negli anni Settanta del secolo scorso. Il tramonto dei partiti di massa (PCI, PSI e

) Tangentopoli, l'affermazione dei

oc ,

nuovi partiti (Lega e Forza Italia), le riforme/non riforme del sistema bancario e delramministrazione, le Regioni, i governi Ciampi e Prodi costituiscono alcuni dei temi principali affrontati dai diversi autori. Emerge un paese ancora diviso e attraversato da profonde spinte antipolitiche che vanno facendo definitivamente crollare il sistema dei partiti.

Simona Colarizi è professore ordinario di Storia contemporanea presso la Sapien­ za Università di Roma. Tra le sue ultime pubblicazioni: Storia politica della Repub­

blica. Partiti, movimenti e istituzioni 1943-2006 (Laterza 2007), Storia del Corriere della sera. Il Corriere in età liberale (Rizzoli 2011), e, entrambi con M. Gervasoni, La cruna della go. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica (Laterza 2006) e La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica (Laterza 2012).

Agostino Giovagnoli è professore ordinario di Storia contemporanea all'Uni­ versità Cattolica del Sacro Cuore a Milano. È presidente della sissco. Tra i suoi ultimi lavori: Il caso Moro. Una tragedia repubblicana (il Mulino 2005), Chiesa e

democrazia. La lezione di Pietro Scoppola (il Mulino 2011), Il rapporto con la poli­ tica 1959-1963, in A. A. Persico (a cura di), Pasquale Saraceno e /,unità economica italiana (Rubbettino 2013).

Paolo Pombeni, già professore ordinario presso l'Università di Bologna, è diretto­ re dell'Istituto Storico ltalo-Germanico di Trento. È membro della direzione della rivista "Ricerche di Storia Politica'' e dell'editorial board del "Journal of Politica! Ideologies': Collabora al sttpplemento domenicale del "Sole-24 Ore': Tra le sue pubblicazioni: La transizione e le sue fasi. Riflessioni sui problemi aperti, in La tran­

sizione come problema storiografico. Le fasi critiche dello sviluppo della modernità 1494-1973 (il Mulino 2013), Giuseppe Dossetti. L'avventura politica di un riforma­

tore cristiano (il Mulino 2013).

€ 49,00

STUDI STORICI CAROCCI

/ 218

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 22.9 0 0 1 8 6 Roma telefono o6 42 81 84 17 fax o6 42 74 79 31

Siamo su: http:/ /www.carocci.it http:/ /www.facebook.com/ caroccieditore http://www. twitter.com/ caroccieditore

L'Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi Volume terzo Istituzioni e politica

A cura di Simona Colarizi, Agostino Giovagnoli e Paolo Pombeni

Carocci editore

Il volume nasce da ricerche e iniziative svolte da: FONDAZIONE LUIGI EINAUDI AOMA

FONDAZIONE ISTITUTO RAMSCI onlus

G

PEA STUDI DI POUTlCA ED ECONOMIA

Il volume è stato realizzato grazie al contributo del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.

Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

GBID

DIREZIONE GENERALE PER LE BIBUOTEOiE, GLI ISTITUTI CULTURAU E IL DIRmO D'AUTORE

ristampa, luglio 2016 1 ' edizione, ottobre 2.014 ©copyright 2.014 by Carocci editore S.p.A., Roma r'

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Parte prima Le istituzioni nella transizione

I. 2. 3· 4· S·

6.

Caduta di sovranità e riforma delle istituzioni in Italia di Piero Craveri

17

Premessa Mutamenti nel rapporto tra sovranità statale e ordinamento giuridico La Costituzione repubblicana e l' «età dei diritti » La riforma del Titolo v della Costituzione e l' insormontabile proble­ ma della forma di governo La crisi del 1 9 9 2 L'Europa e i vincoli esterni

17 17 20

Il caso, la necessità e una cabina di regia. Come la Repubblica superò la crisi dei primi anni Novanta di Cesare Pine/li I. 2. 3· 4· S·

6. 7·

I.

Introduzione La controversa presidenza Cossiga Il ruolo della magistratura La presidenza Scalfaro e il governo Amato La presidenza della Repubblica come cabina di regia della transizione La legislazione nel 1989-94 Conclusioni

21 24 27

31

31 33 37 38 40 43 45

Le Regioni e i governi locali di Carlo Baccetti

47

Premessa. Territorio e politica: la svolta di fine anni Ottanta

47

7

L ' I TALIA C O NT E M P O RANEA DAG LI ANNI OTTANTA A O G G I

2.

Regioni e governi locali nella trasformazione del sistema politico ita­ liano 2.1. Una nuova centralità politica per le Regioni l

ni per i Comuni e le Province l



2.2. Nuove competenze e nuove funzio­

2.3. Le nuove leggi elettorali

Dopo il 2o o 1 : verso uno Stato delle autonomie locali

57

3.1. Le nuove policies dei governi locali



La crisi (finanziaria) del disegno autonomistico negli anni Duemila 4.1. Personalizzazione della politica e professionalizzazione degli eletti

l

61

4.2. Vincoli

di bilancio e neocencral ismo



I.

2. 3· 4· 5· 6.

I.

2. 3· 4·

I.

2. 3· 4·

Per (non) concludere

6s

"Tangentopoli": storia e memoria pubblica nella crisi di transizione dell' Italia repubblicana di Maurizio Ridoifì

67

Premessa Dalla questione morale a Tangentopoli 1992, l 'anno che cambiò l' Italia Mani pulite: una metafora della crisi nella transizione italiana Un media-evento L'eredità, la dissimulazione

Governo e Parlamento dopo il 1994 di Andrea Manzella

ss

Patto costituzionale e patto di proporzionalità I nuovi equilibri della Repubblica maggioritaria La riforma del Titolo v L'impatto dellagovernance europea

ss 90 92 94

L'amministrazione in mezzo al guado : la difficile sfida delle riforme . . . amministrative di Guido Melis

101

Il Rapporto Giannini e la sconfitta del riformismo amministrativo La lunga stasi degli anni Ottanta Si avanza uno strano impiegato ... La stagione delle riforme: da Cassese a Bassanini

101 104 106 108

8

INDICE

S· 6. 7·

I. 2. 3·

I primi anni Duemila : il cambiamento contrastato L'esperimento Brunetta ( 2009-11 ) Conclusioni

1 12 II S 1 17

Politica e sistema bancario tra Prima e Seconda Repubblica di Andrea Guiso

I2I

Dalla politica alle banche ( e ritorno ? ) . Un' ipotesi L"'intreccio,. Stato, politica e banche nella Prima Repubblica ( anni Trenta-Settanta) Crisi e trasformazione dello Stato-banchiere ( anni Ottanta-2007 )

I2I

Debito pubblico e classe politica: uno sguardo d 'insieme sulla Prima Repubblica di Paolo De Ioanna I. 2. 3· 4· S· 6. 7· 8. 9· I O. II. I2.

Una premessa Che cosa è il debito pubblico ? Revisionismo economico e revisionismo storico Alla ricerca di un controllo effettivo della dinamica dei nostri conti pubblici Il cambio di orizzonte: il "divorzio, Un breve sguardo alle teorie ... ... e ai fatti della macroeconomia La razionalizzazione della forma parlamentare di governo Una programmazione economica mai decollata La svolta del I978 Dopo il "divorzio,, la riforma del I988 A mo' di conclusione La Repubblica in transizione ( I989-94 ) . Debito pubblico e fiscalità : le scelte politiche di Filippo Cavazzuti

1. 2. 3·

Linguaggi e pensieri d 'a ntan per il "divorzio, fra Tesoro e Parlamento I governi della prima transizione : fibrillazione politica, otto governi, tre legislature in otto anni Il contesto macroeconomico 9

I 24 I30

I4I

I44 I46 I47 I47 I49 IS O IS I IS4 IS7

I S9

I S9

L ' I TALIA C O NT E M P O RANEA DAG LI ANNI OTTANTA A O G G I

4· 5·

I provvedimenti del 1992-93: punti di svolta della storia fiscale ?

168

4.1. I provvedimenti relativi alle entrate l 4.2. Le scelte della politica delle privatizzazioni

Quali strumenti per il controllo, la gestione e la conoscenza della finan­ za pubblica ?

172

s.I. Dal divorzio di fatto al divorzio di legge l s.2. L'incertezza dei fabbisogni pubblici sti­ mati l S·3· Un esempio

6. 7· 8.

Allungando la gittata dello sguardo agli anni successivi Una politica incisiva sul debito pubblico ? Una conclusione che vale anche per l'oggi ? Parte seconda Il tramonto della Repubblica dei partiti Cattolici e politica dalla prima alla seconda fase della storia repubblicana di Agostino Giovagnoli

I.

2. 3· 4· 5· 6.

I.

2. 3· 4· 5·

I.

2. 3·

185

L'unità politica dei cattolici e le sue trasformazioni La crisi degli anni Settanta Da Paolo VI a Giovanni Paolo n Il Partito popolare e la fine dell 'unità politica dei cattolici La Chiesa nella Seconda Repubblica La stagione della diaspora

185 188 191 195 198 200

I cattolici democratici e la fine dell'unità politica dei cattolici di Daniela Saresella

205

La nascita della Lega democratica Verso gli anni Ottanta Cattolici democratici e cattolici integralisti La fine dell'unità politica dei cattolici Verso l' Ulivo

205 211 214 218 223

La D C e la crisi del sistema politico. Temi e personaggi (1989-94) di Emanuele Bernardi

227

Prologo. Frantumazione sociale e riforme 1989: fine del comunismo, vittoria del capitalismo ? Dopo le elezioni del 1992. Il confronto nella DC

227 229 233

IO

INDICE

L'immagine della società italiana nel ceto politico : della Prima Repubblica di Marco Gervasoni I.

2. 3· 4· 5· 6. 7· 8.

PCI

e P S I alla fine

Craxi e Berlinguer : due visioni opposte della società Quale "nuovo PCI " : La società degli individui del PSI Il berlinguerismo postcomunista all' inizio della transizione La crisi del P sI nell' interpretare la società italiana Populismo e giustizialismo Quale Italia dopo il crollo dei partiti: le illusioni della sinistra L' Italia "nuova" del 1994 "

Il PCI di Occhetto e le riforme istituzionali. Dalla critica al consocia­ tivismo alla via referendaria di Sandro Guerrieri I.

2. 3·

La svolta istituzionale di Occhetto : l 'obiettivo di una democrazia dell'alternanza Il confronto sulle riforme nel passaggio dal P C I al PDS Il PDS e il tentativo di superare il paradosso kelseniano delle riforme

239 239 241 242 244 246 248 249 25 0

253

253 260 266

Tra sogno e realtà: !'"Unità socialista" nelle carte di Craxi di Andrea Spiri I.

2. 3· 4· 5· 6.

Il "duello a sinistra" La crisi del PCI e la tentazione egemonica craxiana Un dialogo impossibile : Guerra del Golfo e nuove polemiche La questione delle riforme istituzionali La slavina giudiziaria Il fallimento della prospettiva unitaria

269 273 277 28 1 284 286

Il PLI nella crisi della Prima Repubblica di Gerardo Nicolosi I.

2. 3· 4· 5·

Premessa Il dibattito sulla forma-partito La percezione della crisi del sistema Il dilemma della partecipazione al governo Conclusioni II

289 29 1 294 29 8 302

L ' I TALIA C O NT E M P O RANEA DAG LI ANNI OTTANTA A O G G I

Il sistema dei partiti dalla Prima alla Seconda Repubblica di Paolo Pombeni I.

2. 3· 4· 5·

I.

2. 3· 4· 5· 6. 7·

Premessa: sistemi di partito e famiglie politiche 1992: la fine di una lunga stabilità "Religioni civili" e costruzione nazionale La crisi delle grandi famiglie politiche : DC, PCI, PSI Verso la dissoluzione del sistema Politica e antipolitica dalla Prima alla Seconda Repubblica di Simona Colarizi

333

Populismo, neopopulismo, antipolitica Piazze mediatiche e giustizialismo Mondo economico e protesta antipartitica La nascita della Seconda Repubblica Berlusconismo e antiberlusconismo : la società civile divisa I girotondi La casta e il Vaffa Day

333 336 339 340 342 344 346

Parte terza Nuovi soggetti politici

I.

2. 3· 4· 5·

I.

2. 3·

La nascita della Lega: un capitolo di una storia che ci appartiene. . . di Paolo Segatti

351

Premessa La Lega e la rinascita di una mentalità conservatrice Sono gli elettori leghisti anti-italiani oppure sono italiani come gli altri ? La Lega, ovvero le ragioni del fascino di un'offerta populista Conclusioni

351 352 355 357 359

Nord non chiama Sud. Genesi e sviluppi della questione settentrionale ( 1973-2013) di Filippo Sbrana

361

Premessa Dalla crisi economica all' insofferenza verso il Sud Le trasformazioni della società postfordista in un sistema politico inerte 12

INDICE



Affermazione della Lega Nord e conseguenze politiche della questione settentrionale Tra vincolo esterno e coesione nazionale. La parabola del governo Ciampi nelle riflessioni e nelle carte del presidente di Umberto Gentiloni Silveri

I.

2. 3· 4·

374

383

Il cammino incerto di una lunga transizione Gli anni di Ciampi La "frattura" del 19 9 2 Un nuovo metodo per governare L'antipolitica dei moderati. Dal qualunquismo al berlusconismo di Giovanni Orsina

I.

2. 3· 4· S·

I.

2. 3· 4· S· 6.

I.

2.

Premessa Che cos'è il moderatismo antipolitico ? Il moderatismo antipolitico : dal qualunquismo a Tangentopoli Moderatismo antipolitico e berlusconismo Conclusioni. Il moderatismo antipolitico italiano fra qualunquismo e berlusconismo

419

Forza Italia: un partito unico di Gianfranco Baldini

423

Introduzione Perché Forza Italia Tattica e strategie Nuova D C o partito di plastica ? Un partito degli eletti Conclusioni

423 424 427 429 431 434

Crisi del paradigma antifascista e retoriche politiche delle nuove destre tra Prima e Seconda Repubblica di Tommaso Baris

437

Il paradigma antifascista: genesi e caratteristiche La critica dell'antifascismo negli anni Novanta: il nesso Resistenza­ Costi tuzio ne-parti tocrazia 13

43 7 439

L ' I TALIA C O NT E M P O RANEA DAG LI ANNI OTTANTA A O G G I

3· 4· 5·

I. 2.

3· 4· 5·

I. 2.

3· 4· 5·

La retorica pubblica delle nuove destre: la rivoluzione liberale Al di là della retorica: la destra italiana tra neoliberalismo e populismo Conclusioni

447 450 456

Continuità e discontinuità del discorso anticomunista nella Seconda Repubblica di Andrea Mariuzzo

457

Premessa Il discorso anticomunista nell'età repubblicana classica: materiali per una definizione Anticomunismo e fine del comunismo in Italia e nel mondo La produzione dell'anticomunismo berlusconiano negli anni Novanta Conclusioni

457

La Destra alla prova del bipolarismo di Roberto Chiarini

47 1

Introduzione Nella Prima Repubblica: il Movimento sociale italiano e la "zona grigià' Da Alleanza nazionale a Futuro e libertà La Lega Nord Forza Italia Le due ondate di antipolitica di Michele Prospero

I. 2.

3· 4·

I. 2.

L'insorgenza dell 'an tipolitica La prima ondata Una repubblica disancorata La seconda ondata

487 488 497 503

Un riformismo incompiuto : il primo governo Prodi di Andrea Possieri

509

Le radici storiche del centro-sinistra Il governo dell' Europa

509 5 19

Indice dei nomi 14

Parte prima Le istituzioni nella transizione

Caduta di sovranità e riforma delle istituzioni in Italia di Piero Craveri

I

Premessa In questo saggio ho inteso mettere a fuoco, rispetto al tema della riforma delle istituzioni, quello preliminare dal quale non si può prescindere e che non inerisce solo allo stato delle istituzioni, ma all'esercizio stesso della funzione politica, analizzato, sotto il primo aspetto, quasi prevalentemente dai giuristi, assai poco dagli storici. Il tema cioè dello sfrangiarsi e ridursi della sovranità, non solo riguardo allo Stato, ma al complesso delle istituzioni della Repubblica. Di questo processo la limitazione della sovranità dello Stato centrale è il fenomeno cardinale, da cui quelli relativi alle altre istituzioni repubblicane, per quanto esse abbiano ampliato i loro poteri, necessariamente procedono. Rispetto a esso riscontriamo cause diverse, d'ordine interno, in parte derivate dallo stesso twnul­ tuoso sviluppo economico e sociale dei sessant'anni che abbiamo alle spalle, sia da deliberate decisioni politico-istituzionali, soprattutto dal modo in cui sono state attuate, e dall'inerzia politica per scelte che non potevano essere ignorate e andavano compiute. Lo stesso dicasi rispetto al secondo ordine di cause, i vincoli esterni, derivanti dall 'adesione a trattati internazionali, secondo l 'art. 1 1 della nostra Costituzione, che conferisce questa possibilità al governo e al Parlamento, non solo dunque nell'ambito europeo ma mondiale ( come oggi si usa dire, con riferimento al mercato "globale" ) , e i fenomeni che dall'applicazione di tali trattati si sono manifestati come prevedi bili, sebbene spesso non previsti come avrebbero dovuto, ponendo l' imperativo di neces­ sarie modifiche politiche e istituzionali all'ordinamento interno.

2

Mutamenti nel rapporto tra sovranità statale e ordinamento giuridico Prendo sommariamente le mosse dal tema apparentemente più remoto, quello dell"'ordinamento giuridico", nella sua nozione classica, che ha come archetipo il Codice napoleonico, di ordinamento dei rapporti privati di diritto civile e commer17

P I E RO C RAVERI

ciale. Secondo una consolidata interpretazione, le "dichiarazioni dei diritti" garanti­ vano le libertà politiche dei singoli nei rapporti con lo Stato, i codici tutelavano le « libertà civili dell'individuo nella sua vita privata contro le indebite ingerenze del potere politico » '. Il codice si configurava dunque come referente primario della « libertà dei moderni » , così come Constant l 'aveva teorizzata agli inizi del XIX secolo. Lo Stato si poneva come artefice e garante di questo presupposto : artefice in una stretta concezione positivistica del diritto in cui predomina la volontà della legge; garante della generalità e della certezza dei diritti così enunciati, grazie anche alla sistematicità del codice, fondamento della sua interpretazione, vuoi analogica, vuoi volta a interpretare la volontà del legislatore, e anche l' impatto di essa sulle strutture organiche della società. L'attenzione non va semplicemente rivolta a com'era questa originaria forma ottocentesca e come non sarà mai più, ma alle modificazioni che sono intervenute e agli esiti ulteriori che quest 'ultime postulano. Negli ultimi vent'anni nella dottrina e nella storiografia giuridica1 si è fatta acuta la polemica contro questa originaria impostazione positivistica e statalistica dell'ordinamento giuridico. È da notare che tale sistema è entrato in crisi a partire dagli anni Venti del Novecento, dovendo tenersi conto di volontà diverse da quelle dello Stato, cosicché con gli anni Sessanta quel regime originario poteva dirsi quasi del tutto rovesciato. Organizzazioni sociali ed economiche, gruppi, élite, avevano imposto altre regole, fuori dall'ordine prefissato. Ne porta il segno il nostro codice civile del 1942, nato dal tentativo di riassorbire all' interno di una nuova disciplina codicistica queste spinte, almeno così come il regime fascista le aveva interpretate, e che rispetto a quello del r86s, ad esempio, veniva a contrapporre al diritto di proprietà l'istituto dell ' impresa economica, privata e pubblica, apponendo vincoli e finalità nuove all'esercizio del diritto stesso di pro­ prietà. Polemica dunque tardiva, rispetto ai processi storici già da tempo in atto, ma che propone implicitamente una interpretazione, sul piano storico prima che giuri­ dico, dell'avvento della Costituzione repubblicana. E stata infatti la nuova Costituzione a costituire un punto di riferimento decisivo nel rovesciare interamente l'assetto dell 'originario ordinamento giuridico. Introdu­ cendo un insieme di nuovi diritti, abbastanza organico nella sua impostazione di fondo, al di là del criterio del controllo di costituzionalità della legge, ha modificato le modalità di interpretazione dell'ordinamento giuridico, non più legate ai principi generali che la sistematicità propria del codice proponeva, ma appunto all 'insieme dei nuovi diritti costituzionali. In questa nuova dinamica interpretativa dell'ordina­ mento si è sviluppata una legislazione speciale su più temi, basti pensare al diritto '

I. G. Solari, Filosofia del diritto privato. Individuo e diritto privato, Giappichelli, Torino I9S9· vol. I, pp. 57 ss. 2. Cfr. M. Fioravanti, La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e della Costituzione tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 200I. 18

CAD UTA D I S OVRANITÀ E R I F O RMA D E LLE ISTITUZIONI IN I TALIA

delle locazioni, ai patti agrari, al diritto di famiglia, al diritto del lavoro, e per l'atti­ vità economica alla legislazione di scopo volta a sostenerla e indirizzarla. La "fuga dal codice civile" ha finito così per relegarlo a una funzione residuale. Per questa via si sono andati realizzando vari statuti di gruppi, veri e propri microsistemi, spesso basati sulla negoziazione sociale e politica, cosicché, parafra­ sando l'art. 137 2 del codice civile in base al quale il «contratto ha forza di legge tra le parti » , si potrebbe concludere che ora molto spesso è la legge ad avere « forza di contratto » . Si attenua così il principio della generalità della legge, anche nella sua originaria funzione di non creare condizioni particolari di status, inteso questo sempre come privilegio. Dallo status alla legge e dalla legge al contratto, la società compie un passo in avanti verso il pieno riconoscimento del ruolo delle comunità cosiddette "intermedie". Con ciò tuttavia si indebolisce l'uniformità e la certezza del sistema giuridico. Il giudice, al quale venisse affidata la funzione unificatrice, si troverebbe dinanzi a logiche diverse e contrastanti nei confronti delle leggi, né sarebbe in grado di affermare il primato delle clausole generali nei confronti delle leggi, che esprimono anch'esse principi generali, dotati di efficacia regolativa per intere materie o classi di rapporti3•

Ci siamo soffermati su questi aspetti, essendo necessario valutare l 'esito di una incli­ nazione non solo di fatto ma anche politico-ideologica, elaborata pure dalla dottrina giuridica, che conduce a porre la funzione interpretativa del giudice in un ruolo determinante rispetto al primato della legge. È l' idea, ritenuta positiva, che il nostro sistema di "diritto civile", basato sulla legge, possa e debba trasformarsi in un sistema di common law, che cioè si esplica appunto nella centralità della funzione giurispru­ denziale, avente per riferimento primario, nel nostro caso, l'assetto dei diritti costi­ tuzionali. Alla sovranità dello Stato, nella crisi della sua centralità, si contrappone così una « sovranità della Costituzione »\ che evoca la « Costituzione senza sovrano » di weimariana memoriaS, con « il compito di realizzare la condizione di possibilità della vita comune, non il compito di realizzare direttamente un progetto determinato di vita comune » 6• La prima proposizione trarrebbe impulso dai diritti costituzionali e da una loro concreta e continua elaborazione per via giurisprudenziale, costituendo l'elemento unificante di un sistema istituzionale pluralistico a cui è affidata la realiz­ zazione della seconda proposizione, quella che comporta la fissazione degli indirizzi politici, attraverso gli organi legislativi e di governo, ai fini della effettività politica ed economico-sociale degli enunciati diritti.

A.

3· N. Irti, L'eta della decodificazione, Giuffrè, Milano 1999, p. 44· 4· G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, pp. 6 ss. S· O. Kirchheimer, La Costituzione senza sovrano. Saggi di teoria politica e costituzionale, a cura di Bolaffì, De Donato, Bari 1982. 6. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., p. 9· 19

P I E RO C RAVERI

3 La Costituzione repubblicana e l ' « età dei diritti» Non era così che più di vent 'anni fa Norberto Bobbio teorizzava l' « età dei diritti » 7, che già allora si presentava come un fenomeno emergente di carattere politico-costituzionale. Nella sua elaborazione, prescindendo dai diritti della per­ sona, definiti di prima generazione, quelli seguenti, specialmente i diritti sociali, trovavano il terreno della loro effettività nello sviluppo, avanzato o meno, delle condizioni socioeconomiche, e non rinviavano dunque pregiudizialmente alla funzione giudiziaria, ma direttamente al risultato delle concrete politiche attuate dal governo e dal Parlamento e piuttosto da queste derivava i presupposti dell'unità del sistema. A voler porre la questione in termini di equilibrio tra i classici tre poteri costituzionali, non si può non rilevare una discrasia, se al giudiziario si conferisce una funzione centrale d 'ordine normativo che trae la sua forza fuori da quello che è il principio di legittimazione degli altri due poteri, cioè la sovranità popo­ lare, destinata inoltre a prevalere nell 'eventuale conflitto tra di essi. C 'è, del resto, nelle linee di tendenza che abbiamo sopra ricordato, una crescente impronta giusnaturalistica, anzi più propriamente, per il carattere antologico che assumono queste riflessioni, l 'accostamento a una nozione neotomistica del diritto naturale8, che necessariamente è presupposto del ruolo normativo della funzione giurisdi­ zionale. Partendo, tra l'altro, proprio dalla riflessione di Bobbio, Stefano Rodotà ha dato a essa una dimensione assai più ampia. Nella sua analisi, l 'età dei diritti vede più soggetti, in sede nazionale e internazionale, concorrere alla domanda e all'af­ fermazione di nuovi diritti e, «per cogliere il filo che li lega » , essi si rifanno ai principi di « dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia »9• La tesi di Rodotà ha impianto storicistico e in quanto al problema della produzione normativa si pone dunque su di una pregiudiziale positivistica. Alla pluralità dei soggetti proponenti rispondono più fonti normative e modalità di esecuzione, in cui la funzione giurisdizionale assume necessariamente un ruolo centrale e quindi i fenomeni che descrive hanno una pregnante rilevanza anche per un approccio sociostorico . C 'è inoltre, nell 'appassionata analisi di Rodotà, una riflessione di principio, pregiudizialmente politico-istituzionale, per cui la produzione di nuovi diritti si pone come la conseguenza e insieme l 'antidoto rispetto alla produzione normativa che il mercato opera a sua volta in modo pressoché incontrollato, tanto 7· N. Bobbio, L'eta dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. XIV ss. 8. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., p. 82. 9· S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 8 r. 20

CAD UTA D I S OVRANITÀ E R I F O RMA D E LLE ISTITUZIONI IN I TALIA

più il mercato globale, con profondità e con effetti laceranti sull'assetto delle società contemporanee, cosicché la domanda dei diritti viene a corrispondere all 'u­ nico effettivo spazio politico possibile. Governo e Parlamento restano così, in questa analisi di Rodotà, ai margini del contesto costituzionale, costretti dal pro­ gressivo svuotarsi dei loro poteri sovrani. L' impronta giusnaturalistica che abbiamo più sopra ricordato, ambiguamente si connette poi a un altro rilevante fenomeno in atto, quello dell ' influenza che nel nostro ordinamento va assumendo il riferimento alle carte dei diritti degli organismi internazionali a cui l' Italia ha aderito, in particolare a quella dell' Unione Europea e la connessa attività giurisprudenziale delle stesse corti europee. Si aggiunga a ciò « il dovere del giudice comune di applicare sempre le norme comunitarie » 10 e come esso trovi un limite costituzionale, secondo la giurisprudenza della Corte costitu­ zionale, solo rispetto ai principi fondamentali della Costituzione e dei diritti invio­ labili dell 'uomo, limite che tuttavia nella prassi non comprende numerose norme della prima parte della nostra Costituzione, in particolare molti dei diritti socioe­ conomici, come vedremo in tema di regole che presiedono al funzionamento del mercato.

4 La riforma del Titolo v della Costituzione e l ' insormontabile problema della forma di governo Va dunque riconsiderata la centralità delle norme costituzionali che presiedono all'ordinamento della Repubblica, in particolare ai suoi organi esecutivi ed elettivi, nonché le modificazioni che a esse sono state apportate nel corso dei decenni. È utile ricordare a riguardo che la nostra Costituzione è oggi, escluso il caso della Gran Bretagna, la più vecchia d' Europa. Essa si giova tra l'altro di un' impostazione accentuatamente pluralistica. Accanto allo Stato si pongono le Regioni, ordinarie e a statuto speciale, come istituzioni primarie, rispetto a Province e Comuni e alle altre istituzioni previste da leggi ordinarie e dalla Costituzione stessa. L'unica riforma incisiva che sia stata apportata è quella del T itolo v della seconda parte della nostra Costituzione, la cosiddetta riforma Bassanini, che ha accentuato l' im­ pronta pluralistica della Costituzione, basti pensare a come recita il comma 1 ° del riformato art. 1 1 4: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato » . C 'è qui un'evidente inversione d'ordine volta a rafforzare non solo il pluralismo istituzionale del nostro ordina­ mento, ma a introdurre surrettiziamente il principio di una democrazia ascendente IO. V. Onida, Lefonti del diritto, in G. Amato, A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, il Mulino, Bologna 1984, vol. I, pp. 208 ss. 21

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dal basso, pur sempre mediata dalle oligarchie che compongono necessariamente un sistema politico. Lo stesso criterio di inversione è dispiegato dalla nuova formulazione dell 'art. 1 17 che a differenza della normativa precedente non enuncia i poteri delle Regioni, ma quelli dello Stato, distinguendoli in poteri esclusivi e concorrenti rispetto a quelli regionali, e alle Regioni « spetta la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato » , compresi dunque i poteri residuali che, giova ricordarlo, hanno presieduto nel corso dei decenni passati al continuo ampliamento dei poteri dello Stato in materie diverse. Il testo costituente e le leggi costituzionali che hanno introdotto il sistema delle Regioni ordinarie prevedevano una legislazione regionale, su materie definite dal testo costituzionale di natura elusivamente concorrente, con conseguente con­ trollo costituzionale da parte dello Stato che si effettuava prima della promulga­ zione della legge regionale. Nell'attuale regime costituzionale c 'è un'equiparazione tra legge di tipo statale e regionale e « i limiti comuni alla potestà legislativa eser­ citata dallo Stato e dalle Regioni [ .. ] sono il rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall 'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali » 11• Se si aggiunge il margine di incertezza che segna necessariamente «l 'esatta indivi­ duazione degli ambiti delle materie elencate » , si intende l'accentuarsi del conten­ zioso per conflitto di competenza presso la Corte costituzionale che segna conside­ revolmente, nell 'ultimo decennio, i lavori di quest'ultima, a proposito dei quali merita segnalare l ' importante sentenza 303/20 0 3 in materia di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici, a favore dello Stato. Del resto un unico vincolo esplicito è apposto all' attività legislativa regionale, con l'art. 120, in materia di dazi di importazione ed esportazione e di ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, così come il divieto alla limitazione del diritto al lavoro. Siamo per certi aspetti oltre un sistema di autonomie, quale originariamente delineato dalla Costituzione, così quasi da implicare una riflessione sulla forma di Stato. Ci siamo avvicinati a una forma di Stato federale ? Fino alla riforma Bassanini il giudizio corrente era che il sistema delle autonomie, in particolare l' istituto regio­ nale, si era sviluppato in modo distorto1\ per l'occlusione determinata dal sistema dei partiti, cioè dalla allora vigente costituzione materiale della Repubblica13• E un punto sul quale più distesamente dobbiamo tornare. L'attuale disciplina, come si è .

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I I. F. Modugno, A. Ce! otto, M. Ruotolo, Aggiornamenti sulle riforme costituzionali (1ggS-2ooS) , Giappichelli, Torino 2008, pp. S3 ss. I2. L. Paladin, Per una storia costituzionale dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2004, pp. 239 ss. I 3. E. Cheli, La riforma mancata. Tradizione e innovazione nella Costituzione italiana, il Mulino, Bologna 2000, pp. 9S ss.; E. Rotelli, Riforme istituzionali e sistema politico, Edizioni Lavoro, Roma I983. 22

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accennato, nell ' indirizzo generale accentua i poteri dell 'autonomia regionale fino a un limite massimo con un congegno in cui non mancano le aporie e le contraddizioni. Mancano inoltre due fattori, l'autonomia finanziaria e fiscale e l 'inserimento orga­ nico dei nuovi poteri nelle istituzioni centrali della Repubblica ( come prevedeva la riforma costituzionale del centro-destra che nel 2007 non ebbe la definitiva sanzione del voto referendario) . Siamo sulla soglia di un'ipotesi federalistica, senza averla varcata14• E singolare constatare che il legislatore sia intervenuto attorno alla forma di Stato e assai poco abbia fatto in relazione alla forma di governo, il più antico dei problemi costituzionali, già emerso nella prima Legislatura. Poiché non c'è dubbio che la legge maggioritaria del 1 9 5 3 , con il suo ampio premio di maggioranza, come acutamente obiettò Togliatti a De Gasperi nel suo intervento parlamentare15, puntava anche a determinare la maggioranza parlamentare necessaria per intervenire, in sede di riforma costituzionale, secondo le modalità previste dalla Costituzione, per modificare il rap­ porto tra legislativo ed esecutivo, rafforzando poteri e procedure di quest'ultimo, dando maggiori poteri al premier nell'ambito del Consiglio dei ministri e, quanto al procedimento legislativo, attenuando le procedure cogenti generate dal sistema bicamerale. L'esito delle elezioni del 1 9 5 3 ebbe l'effetto di congelare ogni modifica della forma di governo per il trentennio successivo16 e offrì un tema di riflessione a minoranze accademiche e politiche, fino a che Craxi nel 1979 non lo gettò prepotentemente sul tavolo, proponendo quella che designava come la « grande riforma» 17• L'idea di Craxi aveva questo di peculiare, che postulava un sistema di alternanza18, senza che egli ne indicasse le modalità di attuazione dal punto di vista politico. Veniva così a mancare a esso il consenso di un blocco politico omogeneo su questo obiettivo, senza il quale, come anche l'analisi storica comparata di questi problemi ci insegna, diventa impos­ sibile attuare una riforma costituzionale. L'azione politica e di governo di Craxi tendeva a modificare l'equilibrio politico esistente, mettendo in discussione quella che era stata fino ad allora la costituzione materiale della Repubblica, ma con ciò non apriva la strada a una riforma del testo costituzionale. Nell 'inerzia di tutte le altre forze politiche, emerse l' iniziativa di De Mita, allora segretario della DC. Varò anch'egli un progetto di riforma volto a normativizzare le regole non scritte della costituzione materiale, così come erano andate svolgendosi fino agli anni dei governi '

I4. G. Miglio, Una costituzione per i prossimi trent 'anni. Intervista sulla terza Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1990. 15. P. Togliatti, Discorsi parlamentari, Camera dei deputati, Roma 1 984, p. 124. 1 6. G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, il Mulino, Bologna 2003. 17. S. Galeotti, Alla ricerca della governabilita, Giuffrè, Milano 1983. 1 8. G. Amato, Una Repubblica da riformare. Il dibattito sulle istituzioni in Italia dal 1975 a oggi, il Mulino, Bologna 1980.

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di unità nazionale19• Il suo dilemma era lo stesso di Craxi, ossia quello di stabilizzare l'esecutivo ai fini della governabilità, anche se rovesciato di segno, perché si risolveva in una riforma che avrebbe dovuto irrigidire costituzionalmente gli equilibri esistenti, e ciò in contrasto con almeno una parte della maggioranza di governo e incorrendo così nello stesso limite politico della riforma preconizzata da Craxi. Nel diluvio di discussioni e propositi, anche in sede istituzionale, che seguì la proposta del leader socialista, queste di Craxi e De Mita sono le uniche due prese di posizione che siano state accompagnate da effettiva volontà politica e su cui dunque merita fermare l 'attenzione, per constatare anche la sostanziale non predisposizione del sistema politico a un mutamento della forma di governo. Di tutto ciò rimasero alcune modifiche significative ai regolamenti parlamentari per iniziativa socialista, soprattutto l'abolizione del voto segreto, in particolare nelle votazioni delle leggi finanziarie (il primo maxiemendamento è del 1 9 9 1 e porta la firma di Cadi, ministro del Tesoro nell 'ultimo governo Andreotti) , ed è quanto dal punto di vista istituzio­ nale si è fatto per affrontare il tema della moneta unica, che proprio allora era oggetto di un faticoso negoziato.

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La crisi del

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Ma il cambiamento radicale di questo sistema si ebbe con la crisi del 1 9 9 2 . Crollò allora la costituzione materiale della Repubblica, basata sul sistema dei partiti, la Repubblica dei partiti appunto, che aveva integrato il testo della Carta costituzionale del 19 47 e anche, per molti versi, modificato gli assunti originari. La costituzione materiale, come è largamente noto, è nozione che nasce dalla costruzione dottrinale elaborata da Costantino Mortati negli anni Trenta20, per dare una spiegazione giuri­ dicamente plausibile della sovrapposizione dell'ordinamento fascista, in particolare del ruolo che svolgeva in esso il PNF, allo Statuto albertino, che rimaneva formal­ mente in vigore. Negli anni Cinquanta riprese il tema, applicandolo al rapporto tra la democrazia italiana e il suo sistema politico21• Qui la questione aveva uno svolgi­ mento più complesso, perché i principi democratici su cui era fondata la Carta costituzionale non erano in discussione. La forma di governo della nuova Costitu­ zione aveva carattere assembleare e questo era un suo limite intrinseco. Tuttavia, essendo bloccato il sistema di alternanza, eretta una clausola ad excludendum verso

19. Cfr. i saggi raccolti in R. Ruffilli (a cura di), Materiali per la riforma elettorale, il Mulino, Bologna 1987. 20. C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano 1942. 21. Id., Costituzione della Repubblica italiana, in Enciclopedia del diritto, vol. X I, Giuffrè, Milano 1962. 24

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una parte della sinistra, in particolare verso il Partito comunista, per cogenti ragioni d 'ordine ideologico e internazionale, ciò determinava una torsione del sistema poli­ tico che costruiva l'asse del suo interno equilibrio, pregiudizialmente al di fuori della dinamica parlamentare, il che costituiva la base della nuova costituzione materiale. Il rapporto tra questi suoi elementi costitutivi mutò nel tempo, dal centrismo al centro-sinistra, dalla crisi di quest'ultimo alla fase consociativa11, fino al tentativo ultimo di Aldo Moro, attraverso l'esperienza di unità nazionale, di raggiungere un grado condiviso di legittimazione delle maggiori forze politiche, per passare a un sistema nuovo di equilibrio politico, inevitabilmente alternativistico23• L' interpretazione in senso materiale del nostro ordinamento costituzionale ebbe dunque successo e divenne un riferimento scontato nella giuspubblicistica. L'aspetto più difficile e controverso, ma ineludibile, stava nel cogliere i nessi ulteriori della formula, tra partito, sistema dei partiti, Parlamento e governo, pubblica amministra­ zione e interessi corporati e diffusi della società, su cui non mancano tra l'altro numerose e pertinenti ricerche storiche, economiche e sociologiche. Questa interpretazione corrente fu investita dunque da polemiche, tra le quali la più rimarchevole e di lungo corso è stata quella antipartitocratica2 \ che coglieva un problema di principio per negarne le ragioni storiche e postulava un ruolo dei partiti che non corrispondeva alla loro natura, almeno dei maggiori, quali grandi organiz­ zazioni legate capillarmente, secondo modalità loro proprie, alla società25• Apparten­ gono alla stessa deriva antipartitocratica le iniziative referendarie di Mario Segni sul regime elettorale e dei radicali sul finanziamento pubblico dei partiti e altri aspetti, che contribuirono a indebolire il vecchio sistema, vi aprirono anzi giustificate faglie, senza indicare tuttavia, per il loro carattere di mero principio e con ciò sostanzial­ mente antipolitico, una via d'uscita. La crisi politica del 1 9 9 2 spazzava i presupposti stessi della costituzione materiale, ch'era poi la sostanza politico-istituzionale stessa della Prima Repubblica. Non c 'erano più i partiti, nella forma in cui si erano contraddistinti, anche a sinistra, dove le vicende giudiziarie non intaccarono l'assetto del partito o dei partiti che la com­ ponevano, ma dove non erano sufficienti le riflessioni della Bolognina, per innovare e far transitare la vecchia forma-partito e, come si vide in seguito, per approdare a una compiuta idea nuova di partito. A questo punto, tuttavia, la consapevolezza della necessità di una riforma costitu22. P. Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, vol. XX IV, UT ET, Torino I99S· pp. 340 ss. 23. Cfr. l ' intervista del I 8 febbraio I 97 8 ad Aldo Moro in E. Scalfari, Interviste ai potenti, Mon­ dadori, Milano I 99I, pp. 203 ss. 24. Cfr. l 'esauriente lavoro di E. Capozzi, Partitocrazia. Il regime italiano e i suoi critici, Guida, Napoli 2009. 2s. G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma costituzionale, Laterza, Roma­ Bari I98s, pp. 7 8 ss. lS

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zionale entrò a far parte degli imperativi inevitabili delle forze politiche6• Fu un lungo e non esaurito apprendistato. Le proposte erano varie e contraddittorie7 e si poneva inoltre il problema del modo con cui procedere a una riforma costituzionale, per cui di contro alla procedura dell'art. 138 della Costituzione, che definisce il suo carattere "rigido': si ventilò da più parti l' idea di una nuova Assemblea costituente, la cui effi­ cacia può dare esiti diversi se le forze politiche che la compongono non hanno almeno un denominatore comune di convergenza18• Ed era appunto ciò che ancora mancava19• C 'è a questo punto da domandarsi perché, in più di un quindicennio di discus­ sioni, l'unico sostanziale approdo del tema della riforma costituzionale abbia riguar­ dato la forma di Stato, con l'ampliamento dell'autonomia regionale fino al limite di un' ipotesi federalistica, e non quello della forma di governo ? Una risposta ci viene dagli esiti della Commissione bicamerale presieduta da Massimo D 'Alema nel 199730• I progetti, formulati in sede di governo e comunque politica o da commissioni parlamentari, che si erano accumulati negli anni, punta­ vano tutti a una razionalizzazione del sistema vigente, rafforzando l 'esecutivo e semplificando il processo legislativo, con l'eccezione delle elaborazioni socialiste che contemplavano l'elezione diretta del presidente della Repubblica o del capo dell'ese­ cutivo. I progetti di riforma presentati alla Commissione bicamerale furono 186 e si rifacevano a tutti i possibili modelli costituzionali esistenti. La discussione inclinò poi su due livelli, uno centrato sull 'asse parlamentare ( modello Westminster o can­ cellierato alla tedesca ) , l 'altro presidenziale o semipresidenziale ( modello americano o francese ) . L'esito della Commissione fu quello di un modello presidenziale tempe­ rato, cioè un compromesso tra le due sponde, in cui era presente anche l 'ipotesi federalistica31• Un modello debole che risolveva alcuni problemi, creandone altri, specie riguardo alle prerogative commiste attribuite al capo dello Stato, che si voleva eletto dal corpo elettorale, e a quelle previste per l 'esecutivo. Non giova in questa sede insistere sull'analisi di quel testo, che non ebbe poi seguito per il successivo suo disconoscimento da parte della destra, salvo constatare che la discussione da cui nacque e lo stesso compromesso di cui era intessuto pale­ savano due opposte linee di tendenza, quella della sinistra per rafforzare un'ipotesi di governo parlamentare, quella della destra per una repubblica di tipo presidenziale,

26. P. Scoppola, La Costituzione contesa, Einaudi, Torino 1998, pp. 48 ss. 27. Per una raccolta dei vari progetti di riforma istituzionale, cfr. A. Cariola (a cura di), I percorsi delle riforme. Le proposte di revisione costituzionale da Bozzi a D 'Alema, Libreria editrice Torre, Catania 1997· 28. F. Lanchester, L 'innovazione istituzionale nella crisi di regime, Bulzoni, Roma 1996. 29. Cfr. G. Rebuffa, La Costituzione impossibile. Cultura politica e sistema parlamentare in Italia, il Mulino, Bologna I99S· 30. M. D 'Alema, La grande occasione. L 'Italia verso la riforma, Mondadori, Milano 1997. 31. G. Cotturri, La transizione lunga. Il processo costituente in Italia dalla crisi degli anni Settanta alla Bicamerale e oltre, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 124 ss.

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e queste due divergenti opzioni si sono rafforzate nel tempo e costituiscono l'attuale stato dell'arte. Il governo di centro-sinistra, come si è visto, procedette poi ad attuare solo la parte relativa all'autonomia regionale, giusta anche la posizione centrista che allora teneva la Lega Nord, prima della sua opzione più che decennale per il centro­ destra. La Lega seppe fare valere la sua posizione di forza come ago della bilancia della maggioranza parlamentare, sia con il centro-sinistra sia con il centro-destra. L'unico governo che si sottrasse a questa presa, per l'esito elettorale da cui nasceva, fu il I I governo Prodi, la cui fragile maggioranza non ebbe poi la consapevolezza della responsabilità e della grande occasione a cui era chiamata. Possiamo per il futuro configurare una Repubblica senza partiti ? Ciò riguarda soprattutto il centro-destra che ha convogliato su di sé per un ventennio gran parte dell'area moderata del paese, cioè quella che per un cinquantennio aveva costituito le maggioranze della Prima Repubblica. La leadership di Berlusconi ha caratteri anomali, storicamente noti. Essa non vale neppure come precedente per costruire una forza politica che abbia le caratteristiche di un partito. Del resto anche la linea di tendenza presidenzialistica della destra ha come riferimento la pretesa di una leadership senza partito. E da notare che questi ultimi vent'anni non sono stati terreno fertile, a sinistra come a destra, salvo alcuni casi di antipolitica e a parte quello di Berlusconi, per far nascere naturalmente delle leadership31• A sinistra il sistema delle primarie, qualora fosse regolato, com'è nelle democrazie che lo adottano, è d'altra parte lo strumento democratico per legittimare una leadership che a priori non può essere presunta. Ora una Repubblica, che non si basi su di una profonda­ mente rinnovata forma-partito, difficilmente può conferire alla sua forma-governo la stabilità necessaria ai complessi compiti del presente33• '

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L ' Europa e i vincoli esterni Una navicella così instabile e precaria, da un punto di vista politico e istituzionale, ha la forza necessaria per affrontare il mare aperto della globalizzazione e del sistema europeo a cui si è legata con vincoli strettissimi ? Su questo terreno pesa inoltre in modo considerevole la perdita di sovranità, sempre più una "sovranità limitata", che già sul finire degli anni Sessanta, pur con segno diverso naturalmente, Rosario Romeo considerava non diversa da quella dei paesi dell'Est europeo34•

32. M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari 2004. 33· M. Luciani, Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto. Annali, vol. III, Giuffrè, MUano 20IO, pp. 5 3 8 ss. 34· R. Romeo, Nazione e nazionalismi dopo la seconda guerra mondiale, in Id., Italia mille anni. Dall'eta feudale all'Italia moderna ed europea, Le Monnier, Firenze 1981, pp. 1 69-219. 27

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La "costituzione economicà' attualmente in vigore è in completa antitesi con quella designata dalla nostra Carta costituzionale il cui punto focale sta negli artt. 41 e 42. La nostra Corte costituzionale, come già si è accennato, ha mostrato una lar­ ghissima apertura rispetto alle norme che recepivano nell'ordinamento interno il diritto comunitario ( molto più circostanziata in materia la Corte costituzionale della Repubblica Federale della Germania) . Nei citati articoli della nostra Costituzione l' iniziativa economica privata è dichiarata libera, la proprietà a sua volta garantita è riconosciuta dalla legge, ma ad ambedue si appongono qualificazioni e vincoli che postulano una concezione dirigistica e statalistica della costituzione economica. La libertà così enunciata è, come si dice, di carattere verticale, designa la potestà dei soggetti che ne fanno uso, non attiene ali' aspetto intersoggettivo, cioè orizzontale, della libera concorrenza che sta alla base dei trattati europei. La disciplina europea riguarda inoltre un mercato che è, rispetto alla sovranità dello Stato, di carattere extraterritoriale. Viene con ciò meno, o meglio si trasfigura un elemento compositivo fondamentale della sovranità. L'ordine di mercato europeo ( i mercati sono di carat­ tere "artificiale", cioè normativo, che può essere insufficiente e lacunoso, ma mai "naturale" ) ha un evidente e forte carattere liberistico, che si è imposto al nostro sistema fin dai Trattati di Roma del 1 9 5 7, per poi accentuarsi con l 'Atto unico e con il Trattato di Maastricht35• La classe dirigente italiana non è stata interamente consapevole di questo radi­ cale mutamento di logica politico-istituzionale. Già i Trattati di Roma postulavano in più materie un necessario e pronto adeguamento che non c 'è stato36• La legge antitrust, ad esempio, è assai tardiva, del 1 9 9 1, e la sua disciplina è affidata a un'au­ torità indipendente, non allo Stato. Il potere dello Stato in questo contesto non è necessariamente residuale, postula il controllo normativo e amministrativo dei mercati, anche se sotto il primo aspetto in Italia è ora prevalentemente esercitato dalle istituzioni dell' Unione Europea. Lo sforzo che è stato fatto è consistito non nell'adeguarsi al mercato europeo, ma prevalentemente nel proteggere imprese pub­ bliche e private, spezzoni molteplici e vari della società, in una capillare rete di microcorporativismi, proprio dal mercato europeo e dalle sue regole, o all 'ombra di esse. Una sorta di "protezionismo internalizzato", come aveva notato Giuliano Amato già negli anni Settanta37, riducendosi a ciò l'originario impulso dirigista e statalista. Prima o poi era inevitabile che dovesse venire una ventata thatcheriana, di cui cogliamo oggi il segno. E quel sistema faceva perno sui partiti che provvedevano alla sua interna media-

35· N. Irti, L'ordine giuridico di mercato, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. II ss. 36. Cfr. G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 71. 37· G. Amato, Introduzione, in Id. (a cura di), Il governo dell'industria in Italia, il Mulino, Bologna 1972.

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zione, attraverso molteplici strumenti economici che oggi non sono più disponibili. Questi si sono indeboliti nella raccolta capillare del consenso e non sono più in grado di svolgere alcuna mediazione utile all' interno del sistema. Il ruolo della magistratura in Italia ha preso poi a sovrastarli, nella caduta della legalità, che è propria di tutta la società nel suo insieme ma trova nei comportamenti delle forze politiche e nella gestione delle pubbliche istituzioni il terreno assai diffuso per il suo manifestarsi. Ora un contesto, come quello italiano, privo di un sistema politico solido ed equili­ brato, che a sua volta non trovava né in quello economico, né in quello finanziario, per la crescente debolezza di entrambi, e tantomeno nella molteplicità dei suoi microsistemi socioeconomici, punti di mediazione ed equilibrio, ha grande difficoltà a riassettarsi38• L'adesione alla moneta unica ha messo ulteriormente a nudo la gravità di questi processi e la mancata loro risoluzione. Guido Cadi rappresentò autorevolmente il governo italiano, come ministro del Tesoro dell 'ultimo governo Andreotti, nella lunga e difficile trattativa conclusasi a Maastricht. A lui si devono quegli spiragli, nelle pieghe del Trattato, che permisero all ' Italia di aderirvi39• Era consapevole dello sforzo assai impervio che avrebbe conseguito il nostro ingresso nell'euro e sostanzial­ mente contrario a questo esito, ma vi collaborò lo stesso con impegno, intensamente, tenendo d'altra parte conto del pericolo che altrimenti l' Italia, per congenito difetto delle sue classi politiche, sarebbe potuta incorrere in un default di tipo argentino40• I vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht sono contrassegnati dai limiti apposti all'ammontare del deficit e del debito e al controllo del tasso d' inflazione interno. Questi parametri furono violati da tutti i partner europei durante la crisi del 2007, a riprova che il deficit spending di keynesiana memoria è una ricetta essenziale in fase di depressione (abbiamo di recente introdotto nella nostra Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio prescrittoci dall ' Unione Europea: Luigi Einaudi saggiamente si era accontentato del comma 4° dell'art. 8 1, anche se poi questo è caduto rapidamente in desuetudine, come potrebbe accadere per la nuova disposi­ zione costituzionale). Dalla data di ingresso dell' Italia nella cosiddetta terza e ultima fase dell 'euro, che con Ciampi, nel 1997, riuscì a fatica a realizzare, poco si è fatto, fino al 2012, per adeguarsi al nuovo corso monetario e alle sue conseguenze. C 'è stato solo un altro ministro del Tesoro che ha avuto poi piena consapevolezza di che cosa comportasse l'appartenenza alla moneta unica per l' Italia, Padoa-Schioppa, con il I I governo Prodi. Impostò infatti in questo senso i bilanci 2006 e 2007, finendo tuttavia con il mettere in crisi la sua stessa maggioranza di governo. Tremonti, che

38. M. Calise, La Costituzione silenziosa. Geografia dei nuovi poteri, Laterza, Roma-Bari I 99 8. 3 9· P. Craveri, Carli senatore e ministro: cronache di un 'odissea italiana, in Id. ( a cura di ) , Guido Carli senatore e ministro del Tesoro, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. IX-CX I. 40. G. Carli, Cinquant 'anni di vita italiana, con la collaborazione di P. Peluffo, Laterza, Roma­ Bari I993· p. 4I 6.

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gli successe, cercò di attenersi alle premesse poste dal suo predecessore, pur essendo ministro del Tesoro di un governo che non intendeva tenerne conto e aveva tutt'altro in mente. Non fu così in grado di affrontare l ' impatto della crisi dell'euro dopo il caso della Grecia e di fronteggiare i nuovi vincoli di bilancio che l' Unione Europea aveva prescritto agli Stati membri della moneta unica. Fu poi il governo Monti a farlo, delegato a ciò dall 'intero sistema politico che non intendeva assumersi in pro­ prio direttamente quelle responsabilità di governo. L'euro per stabilizzarsi segue le regole del Trattato di Maastricht, di cui soprat­ tutto i tedeschi sono severi tutori, traendone i maggiori vantaggi. L' Italia deve necessariamente adeguarsi, per quanto riguarda il suo ordinamento interno, alle soluzioni politico-economiche che tutto ciò comporta. L'euro è il frutto di una scommessa temeraria e le classi dirigenti europee la concepirono venticinque anni fa, spingendo la linea funzionalista, la quale fino ad allora aveva presieduto alla progres­ siva integrazione europea, oltre i limiti istituzionali possibili. Allora l'idea era che l'unione politica sarebbe stata un traguardo parallelo a quella monetaria. Ora risulta chiaro che l' irrimediabile errore fu di non farla precedere. Il Trattato di Maastricht ha coinciso pressoché in tutto con l 'impostazione economico-monetaria tedesca. A seguire nel dettaglio quel negoziato è facile rendersi conto di ciÒ41• La B C E non ha le caratteristiche piene di una banca centrale. Vedremo se potrà operare oltre questo limite. Vedremo anche, dopo il deludente approdo del Consiglio di Lisbona, quali passi avanti si faranno per l' Europa politica. Intanto ilfls cal compact, l'unione bancaria e altri provvedimenti di cui si discute riducono progressivamente la sovranità degli Stati membri. Gli attriti che la crisi dell'euro comporta sono di tale natura da far riflettere sul fatto che, non essendo l' Unione Europea un' istituzione democratica, ma politico-burocratica, una confederazione, non una federazione di Stati, nella debolezza delle nostre interne strutture democratiche, non mette solo in discussione la sovranità dello Stato, ma la stessa indipendenza e di conseguenza l'unità nazionale.

41. K. Dyson, K. Featherstone, The Road to Maastricht and Monetary Union, Oxford University Press, New York 1999, p. 490. 30

Il caso, la necessità e una cabina di regia. Come la Repubblica superò la crisi dei primi anni Novanta di Cesare Pinelli

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Introduzione Dalla seconda metà della x Legislatura (1987-92) alla fine dell'xi (1 992-94) si con­ suma una fase convenzionalmente designata di "transizione" della Repubblica. Oltre al crollo del Muro di Berlino, con le notissime ricadute interne, risalgono in effetti al 1989 la costituzione della Lega Nord, l'annuncio di Mario Segni della raccolta di firme per il referendum in caso di mancato esame della sua proposta di riforma elettorale, la trasformazione di un capo dello Stato fino ad allora prudentissimo, la lettera in cui il presidente della Commissione antimafia Gerardo Chiaromonte avverte Cossiga che « la mafia ha vinto » , dopo averne dimostrato la strutturazione in stato parallelo1• Sono altrettanti detonatori della bufera che esploderà con la seria minaccia di un collasso finanziario dello Stato e con Tangentopoli, fino a condurre nel 1994 all 'avvio di un sistema politico quasi del tutto nuovo negli attori e nel funzionamento. Questi elementi dimostrano già quanto complesso sia l' intreccio fra le variabili in giuoco anche sul piano istituzionale. Ma a chi cerchi di decifrare il quinquennio 1989-94 si presenta soprattutto una seconda difficoltà. L'estrema precarietà del quadro politico e delle prassi istituzionali successive, che induce inevitabilmente a risalire al grumo di controversie scoppiate durante la transizione. Del resto, al termine del mandato di presidente della Camera, Giorgio Napolitano parlerà di « transizione incompiuta » 1, e non si può negare che i fattori di incertezza da allora accumulatisi siano divenuti più significativi del mero consolidamento del bipolarismo. E vero che, se ci riferiamo al discorso pubblico anziché a contributi scientifici, non manca una narrativa dominante. Solo che questa appare fuorviante, anche in ordine alle ragioni del mancato compimento della transizione. Muovendo dal presup'

I. V. Bufacchi, S. Burgess, L'Italia contesa. Dieci anni di lotta politica da mani pulite a Berlusconi, Carocci, Roma 2002, p. 40. 2. G. Napolitano, Dove va la Repubblica. 1992-94: una transizione incompiuta, Rizzoli, MUano 1994·

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posto, innegabile, che il sistema politico sia stato allora investito da mutamenti strut­ turali, quella narrativa arriva rapidamente alla conclusione che si sia così aperta una divaricazione fra "Costituzione materiale" e "Costituzione formale" e che questa vada ora adeguata a quella. A parte ogni possibile rilievo sull'uso di "Costituzione mate­ riale", il disegno normativo delle istituzioni, o "Costituzione formale", si riduce in tale maniera a una componente inerte, in grado solo di recepire passivamente la "sostanza", che consisterebbe nella decisione politica, e quindi insuscettibile di produrre a sua volta effetti sui processi decisionali. L' idea che, mutato un certo assetto di potere, la "forma" debba semplicemente adeguarsi al mutamento della "sostanza" è frutto di un grossolano riduzionismo, che sottovaluta quanto i congegni della forma di governo concorrano a modellare l'andamento dei rapporti politici, e addirittura ignora il ruolo delle istituzioni di garanzia, di cui non accanimenti formalistici ma le vicende seguite al quinquennio in esame continuano a dimostrare la cruciale incidenza. In particolare, l' ipotesi che il quinquennio abbia preparato nientemeno che una "Seconda Repubblica" presuppone che il ruolo dei partiti dalla Costituente agli anni Ottanta sia stato in grado di assorbire quello di tutte le altre istituzioni, e di incarnare in via esclusiva i principi dell'ordinamento costituzionale instaurato nel 1948. Per giunta, così si accredita paradossalmente il sistema dei partiti come l'asse esclusivo del mutamento anche per il futuro, nel segno di una straordinaria continuità con­ cettuale e di una cattiva retorica, purtroppo non adeguatamente contrastata neanche dai costituzionalisti. Che la Repubblica sia cosa più seria di immaginarie numerazioni è innanzitutto un fatto, che corrisponde al suo perdurante assetto organizzativo, non smentito dall'intercorsa revisione del Titolo v della seconda parte e confermato dal risultato del referendum costituzionale del giugno 200 6. Più credibile appare l' ipotesi che allora si sia sfiorata una "crisi di regime" nel senso dell ' « insieme delle istituzioni che regolano la lotta per il potere e l'esercizio del potere e dei valori che animano la vita di tali istituzioni » \ Assieme al tracollo dei partiti tradizionali, a una gravissima crisi fiscale e alla minacciata secessione leghista, le tre componenti di quella che Luciano Cafagna definì «la grande slavina »\ ne aggiungo un altro, che il suo libro non poté registrare per essere comparso quasi in tempo reale. Mi riferisco alle stragi della mafia e agli oscuri segnali di pezzi di apparati dei servizi segreti5, che rivelavano tutto l' interesse di centri di potere occulti e/ o criminali di approfittare del vuoto aperto nel cuore della vita democratica del paese per imporgli proprie regole o perlomeno assetti più favorevoli alle proprie convenienze. L'allarme degli alleati per la situazione italiana fu tale che il presidente 3· L. Levi, Regime politico, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, UT ET, Torino 1976, p. Ssr. 4· L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1 993. S· Ricordo, fra questi, un episodio solo apparentemente minore di una sera dell 'estate 1993: l' iso­ lamento delle linee telefoniche di Palazzo Chigi, che impedì al presidente del Consiglio Ciampi di comunicare con l'esterno.

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Clinton nominò ambasciatore a Roma Reginald Bartholomew, reduce da missioni nelle aree del mondo più a rischio per la sicurezza, dal Libano alla Serbia6• La domanda da porre a questo punto è come la Repubblica poté superare una crisi di regime così definita, e quindi quali scelte, aggiustamenti o semplici circostanze consentirono di circoscriverla o di canalizzarla per via democratica. Solo in un secondo momento potremo chiederci se e in quale misura esse modellarono a loro volta l'assetto politico-istituzionale che si stava delineando.

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La controversa presidenza Cossiga Nella storia della Repubblica, mai un presidente si allontanò tanto consapevolmente dal ruolo assegnatogli dalla Costituzione quanto Francesco Cossiga nell'ultimo biennio del suo mandato7• Né varrebbe addurre che egli fosse altrettanto consapevole che la paralisi decisionale dei partiti su ogni tema, a cominciare dalla riforma della Costituzione, aveva raggiunto il capolinea. Si consideri la denuncia di questa situazione nel messaggio presidenziale alle Camere del 26 giugno 1 9 9 1 . Intanto, non era politicamente immaginabile che la pars construens potesse sbloccare il processo riformatore invece di irrigidire ulteriormente i due partiti maggiori, per ragioni in parte diverse assai riluttanti a impegnarvisi : sicché il messaggio o si riduceva alla testimonianza di uno stato di cose ritenuto intollerabile, il che non rientra fra i compiti di un capo dello Stato, o rifletteva la velleitaria pretesa di fungere da ponte fra due Costituzioni. In secondo luogo, se fossero stati soltanto mossi dall'ansia di affrontare il dato oggettivo della crisi dei partiti, prese di posizione, comportamenti e atti di Cossiga non avrebbero travalicato il ruolo costituzionale del presidente, specie il carattere di organo imparziale. Proprio su questo punto, invece, egli aveva profondamente modi­ ficato i propri convincimenti. Era stato per decenni uomo di partito, e di quel "partito­ Stato" che era la Democrazia cristiana, impersonandone talora il volto più elevato, come avvenne con le dimissioni da ministro dell' Interno all' indomani dell'assassinio di Aldo Moro. Ma ora del suo partito era tanto deluso da ricordare spesso la profezia di Moro in Parlamento del « non ci lasceremo processare nelle piazze » 8 e da spingerlo ad abbandonare i codici di comportamento seguiti nel primo quinquennio del man­ dato con uno stile perfino più rigoroso dei suoi predecessori, improvvisamente declas­ sati a ipocrite reticenze. Restava l'uomo totus politicus, e come tale agì. Cfr. G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Rizzoli, Milano 2oos. 7· L'elemento della consapevolezza vale a distinguere il caso di Cossiga da quello di Granchi. 8. Cfr. M. Breda, La guerra del Quirinale. La difesa della democrazia ai tempi di Cossiga, Sca/faro e Ciampi, Garzanti, Milano 2 0 0 6, p. 3 I. 6.

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Personalmente respingo tuttora l'ipotesi cospirativa9: più che abbattere l 'edificio dello Stato, Cossiga voleva «picconarne le parti lesionate, per portare allo scoperto, e rinforzarle, le strutture portanti ancora solide » 10• Tuttavia, quando si esaminano i comportamenti di un presidente della Repubblica, più delle intenzioni contano le conseguenze. Le quali, in questo caso, vanno differenziate a seconda che si conside­ rino il sistema dei partiti o il potere giudiziario. Sul primo fronte prevale l'assorbimento del protagonismo presidenziale. Basti pensare alla nomina del VII governo Andreotti ( 1 6 aprile 1991). Essa aveva alle spalle una "verifica" protrattasi molto a lungo e con scontri tra i protagonisti assai più acuti di quelli tenuti nel corso di una crisi autentica. Ad esempio, nell ' intervista alla Fiera di Roma del 23 marzo, Cossiga asserì che nel conflitto fra lui, titolare di un "organo permanente", e il presidente del Consiglio, « organo con la durata non fissa ma indefinita » , « io rimango e il presidente del Consiglio dei ministri va via » , e ancora, che « il capo dello Stato è titolare del potere di sciogliere il Parlamento anche contro la volontà del Parlamento » e che nessun atto presidenziale può rite­ nersi incostituzionale « se esso ha come effetto libere, generali elezioni che espri­ mano un nuovo parlamento » n. Pochi giorni dopo, nella lettera spedita al presidente del Consiglio incaricato, parlò di un suo «potere-dovere » di ottenere previe infor­ mazioni sulle proposte di nomina dei ministri, onde consentirgli di « esprimere avvisi, consigli e avvertimenti » sotto il profilo, tra gli altri, « della consonanza istituzionale della compagine con il capo dello Stato » . Eppure uomini esplicita­ mente candidati dal Quirinale alla carica di ministro non entrarono a far parte del governo, e uomini sulla cui specifica destinazione dicasteriale il Quirinale aveva avanzato dubbi di opportunità istituzionale furono puntualmente nominati titolari di quel dicastero. E ali ' indomani della formazione del governo, il presidente Andre­ otti dichiarava: « Questa volta la procedura per la formazione della lista è stata un po' diversa, perché il presidente della Repubblica si è riservato, ed è legittimo, di discutere i nomi » 12 • E vero che la formazione del governo era stata subordinata a un preciso mandato del presidente della Repubblica a guidare un processo di riforme istituzionali. Ma a parte il fatto che si trattava della stessa condizione posta dal P S I per aderire alla maggioranza, il messaggio alle Camere giungerà solo due mesi dopo, a dimostrazione di una nettissima presa di distanza di Cossiga dal governo proprio in ordine all' ipo­ tesi di un processo riformatore avviato per le vie parlamentari ordinarie, peraltro subito ricambiata dal presidente del Consiglio, che nega la controfirma al messaggio, '

9· Cfr. C. Pinelli, Il Presidente della Repubblica nella forma di governo. Considerazioni sull'ultimo biennio, in Archivio di diritto costituzionale, vol. III, Giappichelli, Torino 1992, pp. 7 1 ss. ro. A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L'Italia dal 1943 al 2003, il Mulino, Bologna 2004, P· 335· II. A. Leiss, Sciolgo le Camere quando voglio, in "l' Unità", 25 marzo 1991. 12. C. De Fiores, Il presidente della discordia, in "Democrazia e Diritto", 1991, 4, pp. 217 ss. 34

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la quale viene apposta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, secondo alcuni in modo alquanto anomalo13• Né vi è da stupirsi delle forti critiche al messaggio nelle aule parlamentari anche da parte di democristiani quali Scalfaro ed Elia, specie per l' insistente appello alla sovranità popolare vista in contrapposizione alle procedure di deliberazione parlamentare14• Nella migliore delle ipotesi, l'effetto sortito dal messaggio sarà di dimostrare a tutti come non riformare la Costituzione e, nella peggiore, quello di costituire uno dei capi dell'accusa di attentato alla Costituzione per violazione delle procedure parlamentari di revisione, mossa dal PDS nei confronti del capo dello Stato nel novembre 199 115• La minaccia dello scioglimento, ventilata come sanzione e perciò al di fuori dell' ipotesi di scioglimento funzionale, viene a sua volta lentamente depotenziata dal governo fino a perdere ogni deterrente. Occorre ricordare che la legge costituzionale 4 novembre 1991 apportò una modifica all'art. 88 Cost. autorizzando il ricorso allo scioglimento quando gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale « coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura » . La modifica era stata pro­ spettata dallo stesso Cossiga in vista dell' « ingorgo istituzionale » che si sarebbe verificato nella primavera del 1992 a causa della larga coincidenza del semestre bianco con l'ultimo semestre della x Legislatura, con il risultato di dover tenere le elezioni in piena estate. Il rischio non era senza fondamento, ma non si può nemmeno igno­ rare come la soluzione accolta per scongiurarlo si inseriva in un contesto politico su cui gravava l 'ipotesi di uno scioglimento volto a consentire al presidente uscente, e per sua espressa dichiarazione, di gestire il procedimento di formazione del primo governo della XI Legislatura senza più accettare « organigrammi che siano semplice camuffamento di accordi fra segreterie » , nonché, secondo alcuni quotidiani, per impedire la raccolta delle firme per far luogo alla votazione del Parlamento in seduta comune sulla messa in stato d'accusa16• Ma lo scioglimento anticipato perse il signi­ ficato di atto presidenziale motu proprio a seguito dell' iniziativa del presidente del Consiglio. Il 30 gennaio 1992 questi si recava alle Camere per chiedere e ottenerne la fiducia e per affermare contestualmente la convinzione circa l 'esaurimento politico della legislatura, con correlativa richiesta al presidente della Repubblica di scogliere le Camere. Egli riuscì a evitare la formazione di un governo per gestire le elezioni, e soprattutto, d' intesa con il maggior partito di opposizione, a determinare « una sostanziale marginalizzazione del Presidente della Repubblica dal processo di deciI 3. S. M. Cicconetti, Commento al Dibattito sul messaggio presidenziale del 20 giugno I99I, in "Giurisprudenza Costituzionale", I99I, p. 3243. Nel senso della spettanza della controfirma al ministro della Giustizia in quanto competente, in seno al governo, «per le questioni squisitamente giuridiche» , G. Bagnetti, Commento, ivi, p. 3229. I4. P. Barile, Commento, ivi, pp. 3222 ss. IS. Pinelli, Il presidente della Repubblica, cit., pp. 79 ss. I 6. M. Olivetti, Lo scioglimento delle Camere del 2 fibbraio I992. Una 'èuriosita costituzionale" o un precedente imbarazzante?, in "Giurisprudenza Costituzionale", 38, I993· I, p. 602. 35

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si o ne relativo allo scioglimento anticipato » '7• Vi riuscì al punto da lasciare perfino un' inedita traccia formale nel decreto di scioglimento ( D.P.R. 2 febbraio 1992, n. 6o ), dove accanto al parere dei presidenti delle Camere richiesto dalla Costituzione si fa menzione dell' « avviso del presidente del Consiglio dei Ministri » '8• L'attacco frontale di Cossiga a singoli giudici, agli organi direttivi dell'Associa­ zione nazionale magistrati e al vicepresidente del Consiglio superiore della magistra­ tura Giovanni Galloni aveva tutt'altra valenza, sia perché la Costituzione conferisce al capo dello Stato la presidenza del Consiglio superiore, sia perché la contrapposi­ zione che creava si aggiungeva a quella già in corso fra magistratura e una parte importante della classe politica. Risalgono a questo periodo due conflitti di attribu­ zione fra poteri dello Stato, il primo proposto e poi ritirato dal guardasigilli Martelli nei confronti del presidente della Repubblica per le sue dichiarazioni, il secondo sollevato dal Consiglio superiore nei confronti del guardasigilli per aver rifiutato di dare corso alla nomina di un presidente di Corte d'Appello, e definito dalla Corte costituzionale nel senso della spettanza del potere al ministro in assenza di « un'ade­ guata attività di concertazione, ispirata al principio di leale cooperazione ai fini della formulazione della proposta » relativa al conferimento di uffici direttivi ( sentenza 379/1992) . La pronuncia è nota per l'applicazione ai rapporti fra poteri del principio di leale cooperazione, che è di origine giurisprudenziale: ma non va trascurato che la Corte lo aveva enunciato riesumando contestualmente il vecchio istituto del con­ certo ministeriale, che il ministro Martinazzoli aveva definito « un residuato che dovremmo togliere di mezzo » '9, a dimostrazione del tentativo di proceduralizzare il più possibile un conflitto che era, e restava, di natura essenzialmente politica. Le esternazioni presidenziali strappavano con compiacimento il velo delle ipo­ crisie che avvolgeva la "casta degli intoccabili" in sintonia con il filone garantista della cultura giuridica, come allora si diceva, prima ancora che con alcuni partiti. Ma con quali conseguenze sul piano istituzionale ? Innanzi tutto misero a rischio la funzionalità dell'organo di autogoverno della magistratura, soprattutto da quando, nel giugno 1991, Cossiga decise di presiederlo anche effettivamente con tanto di carabinieri alle spalle. La tensione raggiunse probabilmente l'acme il 1 8 novembre, allorché egli minacciò di impedire con la forza una riunione del collegio che riteneva illegittima. Nei confronti di singoli giudici la sua attitudine assumeva poi una con­ notazione gerarchica, che oltre a risultare totalmente estranea alla Costituzione finiva con il rafforzare quelle chiusure corporative contro cui si indirizzava. Infine, essa esasperava il solco che già divideva il Parlamento intorno a una qualsiasi riforma della giustizia. 17. lvi, pp. 6 I I ss. 1 8. Ibid. 19. Cfr. A. Cariola, A proposito della sentenza sul conflitto di attribuzione tra C.S.M e ministro Guardasigilli: questione giuridicizzata ma non spoliticizzata, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1992, P· 30S9·

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Questo capitolo, comunque, si chiuse prima della scadenza del settennato. Il 17 feb­ braio 1992, con l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, segnò una svolta anche per la magistratura, e per i suoi rapporti con l'opinione pubblica.

3 Il ruolo della magistratura La ricerca che mi sto proponendo si incentra su come la Repubblica superò la crisi dei primi anni Novanta, e non potrà dunque soffermarsi sulle ragioni della crisi, compresa la specifica vicenda di Tangentopoli, su cui peraltro abbondano spiegazioni di ordine politico, culturale/morale, giuridico, economico20• Ricordo solo il saggio di Pizzorno, che ha fra l'altro dimostrato come l 'avvento delle comunicazioni di massa abbia trasformato strutturalmente i rapporti fra potere giudiziario e opinione pubblica, rompendo i « limiti alle dinamiche del riconoscimento » , fino ad allora circoscritte alle comunità degli altri giudici e dei giuristi: da allora esse saranno estese a tutta la sfera pubblica, grazie all 'autonomia dalla politica e dagli interessi privati che nel frattempo gli stessi media hanno conseguit021• Per quanto riferito a trasformazioni verificatesi in tutte le democrazie contem­ poranee, la tesi trova un concretissimo riscontro nell 'episodio del "colpo di spugna", come venne designato dalla stampa il tentativo del marzo 1993 di una soluzione politica per Tangentopoli. Originariamente, l' ipotesi di una depenalizzazione delle violazioni della legge 2 maggio 1974, n. 195, sul finanziamento dei partiti, su cui avevano lavorato il presidente del Consiglio Amato e il ministro della Giustizia Conso, era stata vista con favore dai leader dei maggiori partiti e dallo stesso presi­ dente della Repubblica Scalfaro. Era nota l' ipotesi di un decreto legge in materia, accompagnato e compensato da tre disegni di legge riguardanti l'inasprimento della pena per la corruzione, il giudizio abbreviato e quello pretorile. I giornali più influenti restarono alla finestra, senza pronunciarsi pregiudizialmente contro il decreto legge, fino a quando il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, dichiarò la ferma opposizione del pool dagli schermi televisivi. Il giorno successivo il decreto era divenuto un "colpo di spugna" nei titoli di prima pagina, gli esponenti dei maggiori partiti seguivano a ruota, e soprattutto il presidente Scalfaro rifiutava di emanare il decreto con l 'argomento che contrastava con la richiesta di abrogare la legge 195/1974 con referendum, già indetto per il 1 8 aprile22• 20. Cfr., ad esempio, Bufacchi, Burgess, L'Italia contesa, cit., pp. 94 ss. 2I. A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtu, Laterza, Roma-Bari I99 8, pp. s8 ss. 22. Cfr. M. Fedele, Democrazia rejèrendaria. L 'Italia dal primato dei partiti al trionfo dell 'opinione pubblica, Donzelli, Roma I994· pp. I I I ss.; Bufacchi, Burgess, L 'Italia contesa, cit., pp. I27 ss. Ricordo che il rifiuto presidenziale di emanare un decreto legge aveva un solo precedente, risalente a Pertini. 37

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A parte ogni altra considerazione, l'episodio rivelava tutta la forza di un' inedita alleanza fra potere mediatico e magistratura, la quale, essendo riuscita a intercettare gli umori dell 'opinione pubblica, aveva trainato dietro la propria posizione la classe politica e lo stesso capo dello Stato. Più in generale, « la magistratura italiana ha agito tenendo conto di quanto avveniva nella sfera pubblica; e ha potuto svolgere il suo compito soprattutto grazie all'appoggio che vi ha trovato. La battaglia con la classe politica è stata combattuta per il riconoscimento e i giudizi provenienti dalla sfera pubblica » 13• Un'eco preoccupata della conseguente sovraesposizione dei giudici si avvertirà nella relazione annuale per il 1993 del procuratore generale della Corte di Cassazione Vittorio Sgroi, esplicita nell'ammettere che la corruzione ha reso i magi­ strati « titolari di un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l'avvio di improprie supplenze » , caricando «di una responsabilità ano­ mala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale » 14•

4 La presidenza Scalfaro e il governo Amato Il vento era girato, e non si sapeva dove potesse portare. E tuttavia già all'inizio dell' xi Legislatura erano emerse alcune discontinuità politico-istituzionali: l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro a presidente della Repubblica e la formazione e gli indirizzi del governo Amato. Quella di Scalfaro fu un'elezione in stato di necessità. Dopo quindici scrutini svoltisi senza che i partiti avessero trovato un accordo, giunse la notizia dell'assassinio per mano della mafia del giudice Falcone, della moglie e degli agenti di scorta. In Parlamento si capì che non si poteva tergiversare e che occorreva una personalità estranea alle contese tra partiti e interne a molti di essi. La scelta cadde sull'appena eletto presidente della Camera Scalfaro, parlamentare democristiano di lungo corso come Cossiga, e come lui già titolare del ministero dell' Interno. Ma i due avevano assai poco in comune. A differenza del predecessore, il neopresidente si era sempre tenuto a distanza dalla vita interna di partito, e nel 1989-90 aveva presieduto la Commissione di inchiesta sulla gestione dei fondi pubblici per la ricostruzione dopo il terremoto dell ' Irpinia del 198015• Aveva tutte le carte per denunciare i processi degenerativi in atto nei partiti, e lo faceva nella prospettiva della Costituzione tradita, alla quale, da membro della Costituente, guardava senza legarne le sorti a quelle del 23. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., p. 9 8. 24. Cfr. G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell 'Italia attuale, Donzelli, Roma 2009, p. 203. 25. Ampi dettagli in Breda, La guerra del Quirinale, cit., p. 39, compreso quello che i lavori della Commissione si conclusero con una relazione « inviata all'attenzione di diverse procure del Mezzo­ giorno per corroborarne le risultanze istruttorie ».

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sistema politico del primo quarantennio repubblicano. Non a caso, a sostenerne per primi la candidatura al Quirinale furono i radicali, che ne apprezzavano le idee per le stesse ragioni per cui criticavano quelle di Cossiga. Se l'attentato a Falcone fu decisivo per l'elezione di Scalfaro, l'intensificarsi dell'inchiesta Mani pulite lo fu per la nomina a presidente del Consiglio di Giuliano Amato. Mentre si stavano avviando le consultazioni per la formazione del governo, Craxi venne coinvolto direttamente nell ' inchiesta, e dovendo rinunciare a Palazzo Chigi indicò al capo dello Stato i nomi di Amato, De Michelis e Martelli. La scelta cadde sull'unico dei tre che non risultava implicato in vicende giudiziarie. In ambedue le ipotesi, furono eventi esterni di straordinaria gravità a far scegliere politici in grado di gestire la transizione anche in ragione della loro estraneità alle cause più immediate della crisi della Repubblica. E l ' intera transizione si svolse sotto il segno di scelte necessarie. Il caso e la necessità, potremmo dire anche noi 26• La « logica della transizione » , scriverà poi Amato, invertiva l 'originaria dipendenza delle istituzioni dai partiti: con il loro crescente indebolimento, e grazie « al nuovo telaio su cui governo, Parlamento e capo dello Stato riescono a collocare il loro lavoro » , si poteva « introdurre in Italia un'autorità istituzionale che non c 'era mai stata » 27• Il telaio risultò differenziato a seconda degli ambiti di intervento. Quanto alla nomina dei ministri, le scelte furono concordate fra capo dello Stato e presidente del Consiglio, e in parte ridiscusse con i partiti, mentre quelle relative ai successivi numerosi rimpasti, resisi necessari a seguito degli avvisi di garanzia che colpivano gli stessi ministri, furono appannaggio del presidente del Consiglio28• Dove l'autonomia del governo dai partiti si dispiegò al massimo grado fu nella manovra economica necessaria ad affrontare una delle peggiori crisi finanziarie del dopoguerra: qui la necessità divenne per Amato l'argomento decisivo opposto ai partiti, così come lo fu per altri versi quando si trattò di rinnovare i vertici degli enti di gestione9• L' ipotesi non è smentita, ma confermata, dal fallimento della soluzione politica di Tangentopoli nel marzo 1 9 9 3 . La mediazione tentata dal governo, in sé stessa ragionevole dal punto di vista giuridico e politico30, si differenziava infatti dalle altre 26. Cfr. già, a proposito della fondazione della Quinta Repubblica francese, G. Vedel, Le hasard et la nécessité, in "Pouvoirs", I989, so, pp. 20 ss., che a sua volta ricalcava il titolo del celebre volumetto di J. Monod, Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie nature/le de la biologie moderne, Seuil, Paris I970. Quanto all' ipotesi formulata nel testo, ricordo che già Fedele, Democrazia rejèrendaria, cit., p. I08, aveva considerato casuale sia l 'elezione di Scalfaro che la nomina di Amato. 27. G. Amato, Un governo nella transizione. La mia esperienza di presidente del Consiglio, in "Quaderni Costituzionali", I994· 3, p. 36I. 28. lvi, pp. 362 ss. 29. Cfr. diffusamente Fedele, Democrazia rejèrendaria, cit., pp. I09 ss. 30. Come ricorda Fedele, contrariamente alle accuse allora rivolte ad Amato, il decreto legge lasciava Craxi a giudizio dei magistrati per ricettazione e concorso in corruzione (ivi, p. I I2 ) . Si aggiunga che a suggerire di distinguere fra delitti previsti dal codice e violazioni della legge sul finanziamento, per le quali si poteva « tranquillamente giungere a una sensibile diminuzione della pena [ ... ] o addi39

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sue scelte per la premessa, da cui necessariamente muoveva, di raccordare due diret­ trici che andavano in senso opposto. E una volta avvistato il rischio che istituzioni appena emancipate dai partiti venissero nuovamente identificate con essi, il presidente Scalfaro smise per primo di lavorare in quel caso sul telaio, lasciando il governo solo. Per rassegnare le dimissioni, pur subito offerte, con maggior decoro, Amato preferirà attendere i risultati dei referendum tenutisi il mese dopo. Ma la "logica della transizione" vale in misura ancora più evidente per il governo di Carlo Azeglio Ciampi, cui Scalfaro affida l'incarico in assenza di consultazioni formali con i partiti, e a condizione di procedere « nella lettera e nello spirito dell'art. 9 2 della Costituzione » . Più tardi, a conclusione di un'esperienza che a quel punto com­ prendeva anche la XII Legislatura e la prima metà della successiva, Scalfaro dirà: A me è capitato di tenere a battesimo cinque governi, di dare incarico a cinque Presidenti del Consiglio, ed è successo che su questi cinque dovessi sceglierne tre, perché il Parlamento non era in condizione di dare quell'apporto costituzionale che nasce dalle consultazioni. Basterebbe questo per dire come la situazione era patologica3 1 •

Quanto riportato aiuta a comprendere la funzione di regia assunta dal presidente nell' inneren Bereich, nell'ambito più interno dell'organizzazione costituzionale. Non basta, però, a dar conto del modo con cui venne superata la fase più acuta della crisi di regime. Essa si basava, come abbiamo detto, su una divaricazione via via maggiore fra i vecchi ma ancora vegeti partiti e un'opinione pubblica che mostrava fin troppo chiara­ mente di voler voltare pagina dopo la scoperta di Tangentopoli, in sinergia con l'alleanza fra potere mediatico e magistratura. A questo fine, non bastava certo che i governi fossero composti di personalità non compromesse in vicende giudiziarie, e che prendes­ sero decisioni difformi dalle abituali prassi partitocratiche. Dopotutto, esse dovevano pur sempre passare in Parlamento, ed era appunto lì il cuore del problema. Si trattava di fornire uno sbocco a quella divaricazione, di canalizzarla in forme democratiche.

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La presidenza della Repubblica come cabina di regia della transizione Converrà tornare sulla motivazione con cui Scalfaro rifiutò prontamente di emanare il decreto legge che depenalizzava le violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Formalmente, l'argomento dell 'interferenza con il referendum già fissato rittura a una depenalizzazione », era stato pochi giorni prima Alessandro Galante Garrone in un articolo su "La Stampa" (cfr. L. Covatta, Menscevichi. I rifòrmisti nella storia dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2005, p. r 86). 31. Intervista televisiva a Sergio Zavoli, in Breda, La guerra del Quirinale, cit., p. 44·

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in materia per il 18 aprile era piuttosto tenue, dal momento che il quesito non si riferiva alla stessa disposizione32• Ma ciò chiariva solo ulteriormente che il presidente avrebbe fatto tutto il possibile per rispettare, e poi per far valere, l'espressione dell'opi­ nione pubblica nella misura in cui si fosse tradotta in esito di un referendum, ossia in un atto costituzionalmente apprezzabile. Non fu quella la sola occasione in cui egli si adoperò per rinnovare per tale via la legittimazione della Repubblica, né fu il solo organo di garanzia a muoversi in tal senso. Lo aveva preceduto la Corte costituzionale, quando era stata chiamata a giudicare dell'ammissibilità del quesito referendario sul sistema elettorale del Senato. Appena due anni prima, la Corte aveva dichiarato inammissibile una richiesta sul punto ( sentenza 47/1991). Ora veniva ripresentata, con una formulazione più rispettosa dei suoi rilievi, ma che portava comunque a una normativa di risulta tutt'altro che lineare33• Eppure la Corte non esitò ad ammettere la richiesta ( sentenza 32/1993) . Il viatico degli organi di garanzia rifletteva la duplice esigenza che la perdita di rappresentatività del Parlamento dell' xi Legislatura non equivalesse a una generale delegittimazione delle istituzioni, e che la transizione da un sistema politico all'altro venisse avviata attraverso una procedura non solo democratica, ma anche, lo ripeto, conforme a Costituzione. Eppure i problemi maggiori dovevano ancora venire. Come poteva il risultato del referendum sul sistema elettorale del Senato esprimere un improv­ viso favore per il modello Westminster ? Nonostante l'entusiasmo degli ingegneri-pro­ motori del referendum, il modello era noto a una percentuale di elettori forse oscillante fra lo o,s e l' 1%. La consultazione referendaria espresse piuttosto un'istanza di moderno ostracismo verso i vecchi partiti, la quale, ben più che nel finanziamento pubblico, pur eliminato da nove elettori su dieci, trovò nella proporzionale pura il proprio bersaglio. Proporzionale pura a parte, il Parlamento godeva però giuridicamente di un'ampia discrezionalità circa la scelta del nuovo sistema elettorale, tanto che, per il presidente della Corte costituzionale Francesco Paolo Casavola, il maggioritario puro non sarebbe stata un'opzione obbligata neanche per il Senato34• Eppure quello era « il Parlamento degli inquisiti » , delegittimato dagli sviluppi delle indagini giudiziarie non meno che dal referendum35, e a maggior ragione tentato da elezioni anticipate da tenersi per il Senato secondo la normativa di risulta e per la Camera con il vigente sistema proporzionale. 32. n quesito si incentrava solo sul finanziamento diretto ai partiti, mantenendo la previsione dei rimborsi ai gruppi parlamentari. 33· Come ha puntualmente dimostrato P. Carnevale, La Corte e il referendum: un nuovo atto, in "Giurisprudenza Costituzionale", I993· p. 2274. 34· Intervista al "Corriere della Sera" del s febbraio I993· in Fedele, Democrazia referendaria, cit., p. I2I. 35· Inoltre, paradosso nel paradosso, la Commissione lotti continuava a discutere di poteri delle Regioni e di «premierato forte » in un clima defìnito surreale da un protagonista (così L. Covatta, La legge di Tocqueville. Come nacque e come mori la riforma della prima Repubblica italiana, Diabasis, Reggio Emilia 2007, p. 84) . 41

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Fu allora che il Quirinale divenne definitivamente la cabina di regia della tran­ sizione. Il capo dello Stato non si limitò a ribadire, in una lettera resa pubblica il 3 maggio al nuovo presidente del Consiglio, che il completamento delle procedure postreferendarie impediva di giungere a elezioni prima della fine di luglio, a meno di non contraddire « l'espressione della sovranità popolare, diretta ed esplicita » 36. Affermò più volte che il Parlamento doveva legiferare "sotto dettatura", per suggerire il criterio non tanto più prossimo ai risultati del referendum, quanto più idoneo a rispettare i tempi imposti dalla perdita di rappresentatività del Parlamento37. Il 21 dicembre 1993, all ' indomani dell'emanazione dei decreti legislativi attua­ tivi delle nuove leggi elettorali del Senato e della Camera per la determinazione dei collegi uninominali, il presidente dichiarava che il processo di riforma era stato ultimato nel pieno rispetto dello « spirito referendario » , e che l ' Italia non è « di fronte a un salto nel buio » , prospettando l 'eventualità di un immediato sciogli­ mento38. L' I I gennaio 1994, 162 deputati, in gran parte della maggioranza, presentavano alla Camera una mozione di sfiducia con l'obiettivo minimo di rendere più difficile lo scioglimento. Ma appena due giorni dopo n6 di costoro ritiravano la loro firma, facendo così decadere la mozione, e i capigruppo di maggioranza presentavano una risoluzione che rinnovava la fiducia al governo. Subito dopo, il presidente del Consiglio annunciava l' intento di recarsi dal capo dello Stato, e a seguito dell'in­ contro il presidente della Camera riceveva una lettera dal presidente del Consiglio nella quale questi gli comunicava di aver rassegnato le dimissioni. Infine, il 1 6 gennaio, il presidente della Repubblica, dopo aver respinto le dimissioni del governo, emanava il decreto di scioglimento, e in una missiva inviata ai presidenti delle Camere lo motivava indicando il risultato del referendum quale « fatto di maggior rilievo » , le consultazioni amministrative del giugno e del novembre, le quali attestavano « un divario molto sensibile tra le forze rappresentate in Parla­ mento e la reiterata volontà popolare » , infine le « varie patologie manifestatesi nella gestione della cosa pubblica » 39• Da allora i costituzionalisti hanno preso a discutere del significato dello sciogli­ mento del 1994, nella misura in cui non può annoverarsi fra gli scioglimenti funzio­ nali, visto il perdurante ribadito rapporto di fiducia fra governo e Parlamento. D 'altra parte, il governo Ciampi aveva legato il compimento del suo mandato all'approva­ zione delle leggi elettorali, per cui una dilazione della tornata elettorale poteva 36. Cfr. Napolitano, Dove va la Repubblica, cit., p. 75· 37· C. Pinelli, Il ruolo del presidente della Repubblica e le prospettive di riforma elettorale e istitu­ zionale, in M. Luciani, M. Volpi (a cura di), Il presidente della Repubblica, U Mulino, Bologna 1997, P· 445· 38. Dichiarazione riportata da "U Giornale" del 21 dicembre (cfr. C. De Fiores, La travagliatajìne dell'xi Legislatura, in "Giurisprudenza Costituzionale", 1994, p. 1486). 39· Per una ricostruzione più ampia, cfr. De Fiores, La travagliata fine, cit., pp. 1486 ss. 42

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apparire una « torsione imprevista » 40• Ciò non esclude peraltro che la decisione di sciogliere si sia « configurata - seppure nei ristretti termini del caso di specie - come una rivendicazione dell 'autonomia di decisione del presidente, conforme alla lettera della Costituzione, benché adottata in rottura di una precedente prassi di forse troppo stretta aderenza agli orientamenti delle forze politiche » 41• Una prassi, si può solo aggiungere, fatta valere fino allo scioglimento del 1992, allorché il capo dello Stato aveva dovuto per giunta rinunciare a ogni velleità sanzionatoria.

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La legislazione nel 19 89-9 4 Nel quinquennio 1989-94 vicende diverse da quella della forma di governo, ma pur anch'esse variamente legate alla transizione, proiettano i loro effetti su un orizzonte di più lungo periodo. Innanzi tutto l'integrazione europea, accelerata in misura deci­ siva con il trattato istitutivo dell' Unione stipulato a Maastricht. E nel 1993 il lungo contenzioso sul finanziamento delle imprese pubbliche italiane si conclude con l'accordo fra il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Karel van Miert, Com­ missario alla concorrenza, che impegnando di fatto l' Italia a privatizzare il settore pubblico annuncia la fine delle partecipazioni statali, incidendo ulteriormente sulla crisi del sistema politico. Nello stesso anno il presidente del Consiglio Ciampi pro­ muove l 'accordo sul costo del lavoro, che interrompe la spirale salari-inflazione, e avvia il processo di privatizzazione42• Inoltre, viene approvato un consistente pacchetto di leggi di prima attuazione costituzionale o a carattere ordinamentale. Basterà richiamare le seguenti leggi : 9 maggio 1989, n. 168, sull 'autonomia universitaria; 8 giugno 1990, n. 142, sulle autonomie locali; 12 giugno 1990, n. 146, sull 'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali; 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo ; 6 agosto 1990, n. 223, fra l'altro istitutiva del Garante per la radiodiffusione e l'edi­ toria; 10 ottobre 1990, n. 287, istitutiva dell'Autorità garante per la concorrenza e il mercato. Tanto fervore, nel periodo in tutti i sensi terminale della prima fase della Repubblica, è solo apparentemente paradossale. Come già accaduto nella seconda metà degli anni Cinquanta, e poi ancora fra il 1968 e il 1970, è proprio l'incertezza sulle prospettive politiche immediate a stimolare il consenso intorno a leggi di attua­ zione costituzionale o di grande riforma. Le leggi approvate in seguito, a parte quella, voluta dai partiti, sull'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia ( legge 40. S. Bartole, Scioglimento delle Camere, in Enciclopedia del diritto. Aggiornamento, vol. Giuffrè, Milano I999· p. 942. 4I. Jbid. 42. R. Perissich, L'Unione Europea. Una storia non ufficiale, Longanesi, Milano 2oo8, p. I 8 s . 43

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s marzo 1993, n. 81) obbediscono invece alla "logica della transizione", sia sul fronte economico-finanziario sia ai fini di un'efficace risposta ai problemi strutturali emersi con Tangentopoli : dalla delega in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale ( legge 23 ottobre 1992, n. 421), seguita dai relativi decreti legisla­ tivi, alla riforma della Corte dei conti ( legge 14 gennaio 1994, n. 20 ) , alla legge quadro sui lavori pubblici ( legge 11 febbraio 1994, n. 109 ) . Le ragioni che inducono al varo di questa legislazione cambiano nel corso del quinquennio. Ma l' ispirazione appare comune. Un pluralismo territoriale, economico e sociale coerente con un'aggiornata interpretazione delle norme costituzionali nonché dei controlli e della legalità, attestata fra le altre dall' introduzione di autorità indipendenti da partiti e gruppi di interesse e da misure necessarie a far valere la distinzione tra politica e amministrazione, la razionalizzazione della spesa pubblica e l'efficienza amministrativa. Nel frattempo Giuliano Amato si chiedeva se fosse possibile superare il dilemma del principio maggioritario, storicamente rivelatosi, di volta in volta, strumento per sottrarre i più alla sudditanza dei pochi e strumento dei più per opprimere le mino­ ranze; e rispondeva che la nostra Costituzione ben poteva venir liberata dalla « incombenza della cultura monista » , a condizione che il nuovo sistema elettorale fosse in grado di produrre buon governo, e che nella magistratura, nella stampa, negli interessi sociali, maturasse nello stesso tempo « un'autentica cultura pluralista della separazione dei poteri » 43• Non è andata così da nessuno dei due lati. Ma mentre sulle prestazioni del sistema elettorale moltissimo è stato detto, del tutto trascurato è stato il discorso sul secondo punto. In particolare, a proposito del consistente ciclo riformatore intervenuto nella transizione, nessuno parlò di attuazione della Costituzione. Il fatto è che il principio di libera concorrenza, le autorità indipendenti, l' integrazione europea erano ancora ritenute dai più inconciliabili con la concezione di attuazione costituzionale a lungo dominante. La quale, nel frattempo, aveva peraltro perduto quella congiunzione con le idee di progresso sociale e di modernizzazione che le aveva garantito il successo per decenni. Della prima era scomparsa la valenza di proiezione nel futuro che aveva avuto nel dopoguerra, in parte per ragioni economiche e sociali, in parte per la fine delle attese messianiche legate a progetti di trasformazione politica integrale della società. L'idea di modernizzazione era invece rimasta nel vocabolario delle élite, ma, divorziando da quella di progresso sociale, veniva ormai declinata esclusivamente in termini di efficienza, di recupero di competitività delle imprese e delle istituzioni italiane, viste in antitesi con il mantenimento dei livelli di prestazione pubblica in ordine ai diritti sociali. Il silenzio sugli aspetti di operoso raccordo fra passato e futuro che aveva avuto 43· G. Amato, Il dilemma del principio maggioritario, in "Quaderni Costituzionali", 1994, 2, pp. 183 ss. 44

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la legislazione della transizione si spiega anche con la composizione del Parlamento a partire dalla XII Legislatura. Era composto solo per metà di figli dei Costituenti, i quali per giunta ignoravano come innestare nel "nuovo" la tradizione costituzio­ nale, reinterpretandola e facendola rivivere in circostanze mutate : finirono allora per nasconderla, come aristocratici assediati da un popolo che rumoreggiava minac­ ciosamente sotto le finestre dei loro antichi castelli, e bramosi di uscirne quanto prima camuffati per mescolarsi con la folla. Quelli dell 'altra metà, più che contrari alla Carta del 1948 erano indifferenti ai principi della Prima Parte, e insofferenti dei limiti al potere della maggioranza previsti nella Seconda Parte. Sentivano insomma la Costituzione come un corpo estraneo, o come un relitto del passato, di fronte alla comunicazione mediatica con il pubblico del leader legittimato dalle urne. La fragilità culturale di tutto il "nuovo" che dalla transizione prese alimento denota la mancata consapevolezza di quel nesso fondamentale fra tradizione e mutamento costituzionale che ricorre in tante altre democrazie, senza il quale aumenta a dismisura il tasso di dissociazione dal "noi" che ovunque producono i media, e la legalità viene privata dei processi di apprendimento che ne fanno un valore sentito dai cittadini.

7 Conclusioni Per ricercare come la Repubblica poté superare una crisi di regime senza venir meno ai suoi principi fondativi, ho adoperato la formula « del caso e della necessità » , soprattutto in riferimento alle cruciali designazioni per il Quirinale e per palazzo Chigi. Ma ho anche insistito sui passaggi che richiesero dalla cabina di regia, oltre a una lungimirante caparbietà e a una sagace divisione di compiti fra istituzioni per la gestione delle diverse e contestuali emergenze, una capacità di riflettere attese di cambiamento largamente diffuse nell'opinione pubblica. Quale che sia il giudizio che se ne voglia dare, è un fatto che Scalfaro evitò sempre di muoversi in solitudine. Il che vuol anche dire che egli poté evitarlo. Il precedente dei primi anni Novanta segnala che il ruolo di garanzia del capo dello Stato può esercitarsi anche in presenza di crisi di sistema intervenute in costanza di rapporto di fiducia fra governo e Parlamento. Ma esso va maneggiato con estrema cautela, dovendosene tener presenti tutti gli elementi. Come è stato detto, dal 1994 a oggi « il principale baluardo delle regole istitu­ zionali e dello stesso "esser nazione" sono stati [ .. ] dal più alto scranno dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano. Uomini che in vario modo rinviano all'alba della Repubblica » 44• La funzione di baluardo viene .

44· Crainz, Autobiografia di una Repubblica, cit., p. 224. 4S

CESARE P I N ELLI

esercitata, nei limiti del possibile, in riferimento a un funzionamento del principio di maggioranza sempre più disancorato dal rispetto delle attribuzioni degli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento, e dal principio di legalità. Più che in una rapida decomposizione e delegittimazione del sistema politico, come venti anni fa, la crisi odierna consiste in una graduale erosione della legalità costituzionale. Né si tratta di canalizzare in forme democratiche un malessere diffuso nell 'opinione pubblica contro i partiti. Oggi buona parte di essa appare attonita, comunque scar. samente reatttva. Vengono in mente le considerazioni di Costantino Mortati all'epoca degli ina­ dempimenti costituzionali da parte delle maggioranze. Se i richiami del capo dello Stato, si chiedeva non sollevassero alcuna eco ed il popolo rimandasse al potere le maggioranze interessate ad eludere il precetto costituzionale [ ... ] potrebbe rimediare a ciò il presidente con l'esercizio del potere di scioglimento ? La sua funzione di "garante della Costituzione" non lo abilita certo ad agire come "Orazio sol contro l' Etruria tutta", né gli consente di impedire che la "Costituzione reale" sopraffaccia quella "legale"4S.

È casomai l 'Etruria che bisognerebbe svegliare, ricucendo i frammenti di un discorso .

Interrotto.

45· C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico,

C EDAM,

Padova 196 9, vol. n, p. 628.

Le Regioni e i governi locali d i Carlo Baccetti

I

Premessa. Territorio e politica: la svolta di fine anni Ottanta Alla fine degli anni Ottanta la politica locale ha compiuto un salto di qualità e si è emancipata dalla dipendenza dalla politica nazionale. Le Regioni e i governi locali (Comuni e Province) hanno acquisito un' inedita autonomia e capacità di iniziativa politica; le politiche di competenza delle amministrazioni locali - come, ad esempio, lo sviluppo economico locale, la gestione dei servizi a rete, il governo del territorio e le politiche sociali - hanno assunto un peso politico rilevante nel funzionamento complessivo del sistema politico. Gli attori politici locali hanno cessato di agire quasi solo come terminali e punti di riferimento sul territorio dei partiti nazionali. La politica locale ha acquistato una nuova centralità, da quando il richiamo alle potenzialità del "territorio" è tornato a essere un contenuto forte dell 'identità poli­ tica. Questo termine ha assunto un'importanza del tutto nuova rispetto al passato, un'importanza non solo « fattuale » , ma anche « normativa e simbolica » , che coin­ volge non solo la politica, ma anche la società e l 'economia1• Il territorio ha cono­ sciuto una nuova valorizzazione dal punto di vista economico quando, all 'inizio degli anni Novanta, si è avviata una trasformazione delle politiche di sviluppo territoriale. Si è preso atto, infatti, che il bilancio sugli esiti dell'intervento pubblico per lo svi­ luppo del Mezzogiorno era molto deludente; il « modello istituzionale centralista e straordinario » fino ad allora perseguito, frutto di una visione « strettamente econo­ micista dei problemi dello sviluppo » , non aveva dato i risultati sperati per il "decollo" del Mezzogiorno1• La concezione unitaria e territorialmente indifferenziata della questione meridionale è stata perciò abbandonata, a favore di un approccio che esaltava le potenzialità dello sviluppo endogeno e metteva al centro la valorizzazione delle specificità del territorio come via dello sviluppo. I. I. Diamanti, Localismo, in "Rassegna Italiana di Sociologia� 1 994, 3, p. 405. 2. D. Cersosimo, G. Wolleb, Politiche pubbliche e contesti istituzionali. Una ricerca sui Patti terri­ toriali, in "Stato e Mercato", 2001, 3, p. 375· 47

CARLO BAC CETTI

In particolare, si è affermato il filone di studi sui « distretti industriali » che, sulla spinta dei lavori di Giacomo BecattinP, ha individuato il territorio quale soggetto principale dello sviluppo e quale logico destinatario delle politiche pubbliche. La messa al centro dei distretti come unità d'analisi del territorio ha portato anche « a una valorizzazione degli elementi non economici dello sviluppo, da quelli sociali a quelli istituzionali » e, in linea generale, a una « maggiore attenzione per la specificità dei contesti locali » 4• Nel suo uso più direttamente politico, il richiamo al territorio e al locale ha assunto un significato soprattutto «oppositivo e differenziale » : la dimensione locale « sottende ed evidenzia sempre e comunque autonomia, differenza e opposizione » rispetto a livelli territoriali più ampi5• Nella valorizzazione della dimensione locale si è espressa « la crisi dell'identità nazionale e dell'idea stessa di nazione » che si è accentuata in Italia negli anni Ottanta; ma si esprime anche, «più in generale [ . . . ] la reazione alla crisi degli assetti politici e istituzionali a livello internazionale e al disorientamento prodotto dai crescenti processi di "globalizzazione" (della società, dell'economia, della politica) »6• Insomma: la globalizzazione della politica, prodotta in ultima analisi dalla glo­ balizzazione dell 'economia di mercato, non ha affatto espunto il territorio dalla politica stessa. Al contrario. La dimensione locale della politica non è stata margina­ lizzata dalla globalizzazione dei fenomeni politici e dalla crescente connessione sovranazionale delle istituzioni di governo. In questo contesto, il peso dei governi regionali e locali nell'ambito delle relazioni intergovernative, in ambito europeo, è andato costantemente crescendo.

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Regioni e governi locali nella trasformazione del sistema politico italiano A partire dagli anni Novanta una serie di riforme legislative ha scardinato la conso­ lidata struttura centralistica dello Stato italiano. Le riforme hanno ridisegnato, in parte, l'architettura costituzionale all'interno della quale sono state incrementate le competenze e le funzioni dei governi territoriali e si è innescata una significativa redistribuzione del potere verso le istituzioni e gli attori della politica locale. Il ruolo delle Regioni e dei governi locali va dunque inquadrato nella dinamica

3· G. Becattini (a cura di), Mercato eforze locali. Il distretto industriale, il Mulino, Bologna 1987; Id. (a cura di), Modelli locali di sviluppo, il Mulino, Bologna 1989. 4· Cersosimo, Wolleb, Politiche pubbliche e contesti istituzionali, cit., p. 374· S· Diamanti, Localismo, cit., p. 404. 6. Ibid.

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complessiva del sistema politico italiano e, in particolare, nel processo di riforma delle relazioni tra centro e periferia, che è stato un tema cruciale del dibattito politico e dell 'iniziativa legislativa dagli anni Novanta a oggi. Non c 'è dubbio che il potenziamento delle Regioni e dei governi locali sia stato uno degli elementi caratterizzanti degli ultimi tre decenni dell ' Italia repubblicana. Il processo di riforma ha fornito alle Regioni e ai governi locali una nuova strumenta­ zione e nuove risorse di tipo giuridico-amministrativo per la produzione delle poli­ tiche e per la gestione dei servizi; e ha fissato nuovi contenuti e nuovi obiettivi per le politiche stesse. I poteri degli enti di governo territoriali si sono accresciuti e dif­ ferenziati. La potestà legislativa delle Regioni si è ampliata considerevolmente, Comuni e Province hanno conseguito una maggiore autonomia gestionale, garantita da un riconoscimento costituzionale di compiti e funzioni amministrative proprie. Si deve ricordare subito, però, che il cammino intrapreso negli anni Novanta verso il decentramento dei poteri non è scaturito da una chiara scelta strategica degli attori politici, ma è stato innescato soprattutto da motivazioni politiche legate alle contingenze della fase storica che l' Italia stava attraversando, ovvero da pressioni che hanno investito dall 'esterno il sistema dei partiti inducendolo al cambiamento. Tra il 1987 e il 1992, infatti, aveva conosciuto la sua accelerazione finale la crisi del sistema dei partiti che si era formato all'inizio della vicenda dell ' Italia repubbli­ cana. La crisi si stava consumando da almeno un decennio e si era ormai trasformata in una critica diffusa e pervasiva contro la "partitocrazia". Nel complesso, i partiti non riuscirono a trasformarsi, come era necessario, per reagire al logoramento di quelle che erano state le basi strutturali del consenso - l'appartenenza di classe e l'appartenenza religiosa -, non seppero rispondere adeguatamente alle sfide della modernizzazione, entrarono in una lunga fase di stallo che alimentò il degrado del sistema politico, simboleggiato infine dall 'esplosione di TangentopolF. Tra il 1992 e il 1994 quei partiti collassarono : alle elezioni del 1994 non era presente alcuna delle sigle presenti nel 1987. Il cambiamento del vecchio assetto si caratterizzò, in primo luogo, per l' irruzione di un nuovo importante attore partitico, le varie Leghe ( lom­ barda, veneta, piemontese ecc., poi federate nel 1991 nella Lega Nord ) , che avevano fatto del localismo e delle rivendicazioni autonomistiche la loro bandiera. Soltanto dopo lo shock causato dali'esplosione del fenomeno leghi sta e dopo i successi elettorali raccolti dalla Lega Nord a danno dei partiti di governo ( ma non solo ) , si fece strada nella classe politica l' idea che la valorizzazione delle autonomie locali e un nuovo ordinamento statale di tipo federale potessero essere la strada da imboccare, non solo per tagliare l'erba sotto i piedi al partito-movimento guidato da Umberto Bossi, ma, più in generale, per rispondere alla profonda crisi di fiducia in cui versavano le istituzioni politiche. Si è cominciato a pensare che fosse necessario 7· Sul! ' argomento, cfr. ad esempio P. lgnazi, Il potere dei partiti. La politica in Italia dagli anni Sessanta ad oggi, Laterza, Roma-Bari 2002. 49

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e inevitabile passare da una logica centralistica del potere a una logica policentrica, attribuendo maggiori poteri ai livelli di governo regionali e locali, quelli più vicini ai cittadini. Sulla spinta di questa possente pressione esterna sul sistema politico esercitata dal movimento leghista - che è poi divenuta una spinta dall' interno, una volta che il movimento si è istituzionalizzato e consolidato e ha avuto accesso a responsabilità di governo -, Regioni ed enti locali sono divenuti la sede privilegiata di riforme e innovazioni istituzionali. Inoltre, i governi territoriali si sono trovati a essere prota­ gonisti e spesso a guidare politicamente un più generale processo di cambiamento che, oltre alle istituzioni, ha riguardato anche la società locale e l'economia del ter. . n tono. Gli obiettivi di decentramento e di autonomia indicati con le riforme legislative avviate negli anni Novanta erano ambiziosi. Sul piano delle politiche, si è cercata, ad esempio, una nuova e più razionale distribuzione di funzioni e differenziazione di ruoli tra Regioni ed enti locali e tra i diversi livelli del governo locale, con l 'obiettivo di fare chiarezza nella distinzione tra compiti di legislazione e di distribuzione delle risorse, propri delle Regioni, e compiti di amministrazione attiva, propri delle Province e dei Comuni. Nello stesso tempo, si è stabilito che i criteri in base ai quali le Regioni dovevano assegnare il potere di amministrazione agli enti locali erano quelli dell 'efficienza e del risparmio econo­ mico ; e che in nessun punto della catena amministrativa avrebbero dovuto esserci due livelli di governo che svolgevano la stessa funzione. Sono stati introdotti incen­ tivi alla cooperazione e all'unione tra i Comuni soprattutto per superare l' inadegua­ tezza di quelli molto piccoli; si è ridefinito il ruolo delle Province, affidando a esse nuovi strumenti e competenze; si è cercato di promuovere l'efficienza dei servizi pubblici locali, ammettendo per la loro gestione la costituzione di società per azioni miste pubblico-private e aprendole progressivamente alla concorrenza e al mercato. Sul piano della politica e della capacità di governo, le riforme hanno mirato a rinnovare la classe politica locale - introducendo nuovi percorsi di selezione e di ingresso nelle istituzioni "direttamente dalla società civile" e riducendo il peso del canale d'accesso partitico - e, contemporaneamente, a dare ai nuovi vertici degli esecutivi il massimo grado di legittimazione popolare, il controllo sulle giunte e la garanzia di una solida maggioranza che assicurasse stabilità e durata del mandato di governo. E si sono rafforzati, al contempo, strumenti della democrazia partecipativa per favorire il coinvolgimento dei cittadini e il confronto con gli amministratori ( procedure d'accesso agli atti facilitate, forum e consultazioni, referendum non solo consultivi ecc. ) . Nel dibattito pubblico si è molto valorizzato il fatto che, per la loro situazione di prossimità ai cittadini, i governi locali e soprattutto i Comuni si trovavano nella condizione migliore per "leggere" i differenti bisogni del territorio, per capire il cambiamento e la diversificazione della domanda sociale, prodotto essa stessa delle so

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innovazioni tecnologiche e della flessibilità produttiva del capitalismo globale. Più di altri livelli istituzionali, il governo locale è in grado di canalizzare un numero crescente di domande politiche ed economiche, di promuovere iniziative innovative per inventare nuove risposte ai nuovi problemi della collettività, ed è chiamato a presenziare sui molteplici scenari dove si prendono decisioni che influiscono signifi­ cativamente sulla qualità della vita dei cittadini8 • In effetti, mentre declinava la capacità di ascolto e di rappresentanza espressa dai partiti politici, sono cresciute le aspettative dei cittadini nei confronti delle ammini­ strazioni locali. Il rafforzamento dell 'autonomia amministrativa e l'ampliamento delle funzioni e della strumentazione di policy a loro disposizione ha fatto sì che, in molte aree del paese, i Comuni venissero a rappresentare l'ancoraggio più consistente della politica alla società, il luogo più dinamico di sperimentazione di governance locale innovativa e di attivazione di nuovi canali di dialogo con la società. 2.1.

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U N A N U O VA C E N T R A L I TA P O L I T I C A P E R L E R E G I O N I

La nascita delle Regioni a statuto ordinario, nel 1970, non aveva portato nel sistema politico italiano quella ventata di novità che era nelle aspettative di molti; non nacque, con le Regioni, un nuovo polo istituzionale con caratteristiche di autonomia verso il centro. Per almeno un decennio nulla cambiò, la riforma regionale non modificò, nella sostanza, la struttura accentrata del processo decisionale statale e la dipendenza della periferia. Nel dibattito che ne accompagnò la nascita non ebbe spazio l' ipotesi di far partecipare le Regioni al processo legislativo nazionale per le materie di loro competenza (come avviene negli Stati federali), trasformando il Senato in camera di rappresentanza dei governi regionali. Non furono istituiti organi di collegamento né tra il Parlamento e i consigli regionali, al fine di coordinare le rispettive attività legislative, né tra governo nazionale e governi regionali9• Solo negli anni Ottanta furono mossi alcuni passi per aprire canali di collega­ mento di tipo cooperativo tra i due livelli di governo, dopo che il Parlamento aveva segnalato la necessità e l'urgenza di istituire « una sede per un rapporto permanente con gli organi centrali dello Stato e per una partecipazione delle Regioni all'elabo­ razione delle linee di politica generale di tutto lo Stato-ordinamento » 10• Nel 1983 cominciò a operare, in via amministrativa, la Conferenza Stato-Regioni, i cui compiti e funzioni furono strutturati e disciplinati alcuni anni dopo, con la 8. Q Brugué, R. Gomà, Las politicas publicas locales: agendas complejas, roles estratégicos y estilo relacional, in Idd. (eds.), Gobiernos locales y politicas publicas. Bienestar social, promocùin economica y Territorio, Ariel, Barcelona I998, pp. 25-35. 9· F. Sabetti, Alla ricerca del buongoverno in Italia, Lacaita, Manduria (TA)-Roma-Bari 2000. IO. W. Aniello, G. Caprio, I difficili rapporti tra centro e perifiria. Conferenza Stato-Regioni, Con­ ferenza Stato Citta-autonomie locali e Conferenza unificata, in "Le Istituzioni del Federalismo", I998, I, P· 47· SI

CARLO BAC CETTI

legge 28 agosto 1988, n. 400. La Conferenza Stato-Regioni era un organo di consul­ tazione e consulenza che il governo centrale poteva utilizzare specialmente in merito ai temi più importanti della programmazione e della pianificazione economica e finanziaria statale. Fino agli anni Novanta la Conferenza ha rappresentato l'ambito istituzionale più rilevante per il confronto con il governo e con gli organi dello Stato centrale; un confronto nel quale le Regioni si sono mosse costantemente in modo unitario ed efficace. La Conferenza, «pur avendo solo poteri consultivi e una bassa visibilità pubblica, è diventata lo snodo fondamentale per l'elaborazione delle poli­ tiche di decentramento e di negoziazione tra Stato e Regioni » u. Altri però hanno osservato che la ricerca continua dell'unanimità da parte delle Regioni ha rallentato l'azione della Conferenza, ha necessariamente sfumato le rivendicazioni della peri­ feria nei confronti del governo nazionale e, in sostanza, ha ridotto l'efficacia politica dell'azione volta all 'allargamento dello spazio delle competenze regionali. Così, « la Conferenza Stato-Regioni si è ridotta spesso a mero luogo di confronto tecnico, di designazione di nomine e di espressione di pareri dovuti, finendo per perdere la dimensione politica e di confronto generale sui processi di sviluppo dell 'intera comu­ nità nazionale » Nel corso degli anni Novanta, quando si avviò una nuova e più incisiva fase riformatrice, questo primo strumento di comunicazione politico istituzionale bidi­ rezionale tra Stato e Regioni apparve inadeguato a dare voce alla domanda di decentramento che saliva con forza dalla periferia del paese, soprattutto perché la Conferenza rappresentava di fronte al governo solo le Regioni, ovvero uno degli attori istituzionali substatali, mentre ne restavano assenti i governi locali, a comin­ ciare dai grandi Comuni. I governi di centro -sinistra, in carica dal 1996 al 2001, ampliarono l'azione della Conferenza istituendo accanto a essa un nuovo organismo di raccordo che coinvolgeva anche i Comuni e le Province : nell'estate del 1996 fu varata la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, composta da sindaci e presi­ denti di provincia, come sede di consultazione permanente tra governo centrale e poteri locali sulle politiche governative che riguardavano il sistema politico locale. Nel 1997 la Conferenza Stato-città ed autonomie locali e la Conferenza Stato­ Regioni furono unificate, per quanto attiene alle materie e ai compiti di interesse comune delle Regioni e degli enti locali 13, e venne così a costituirsi una sede stabile di concertazione multipolare tra Stato, Regioni e governi locali. Nell'indirizzare il processo di decentramento verso un nuovo modello di relazioni intergovernative, fu scartato il modello bipolare, che necessariamente avrebbe emarginato e sconten­ tato uno dei due livelli substatali - o le Regioni o gli enti locali. La riforma, messa a punto dal ministro Franco Bassanini, tentò invece di comprendere in un unico 12•

1 1. L. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 154. 12. Aniello, Caprio, I difjìcili rapporti tra centro e periferia, cit., p. so. 1 3. L. Vandelli, Il governo locale, U Mulino, Bologna 2005.

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progetto e in un modello di sviluppo multipolare delle relazioni centro-periferia tutto il sistema delle autonomie locali, assimilando e ponendo sullo stesso piano, quali interlocutori politico-istituzionali e come destinatari delle funzioni trasferite dallo Stato, sia le Regioni che gli enti locali'4• Vero è che nel corso degli anni Novanta il rapporto tra governi locali e Regioni è venuto rafforzandosi, con il trasferimento dallo Stato a queste ultime di molte competenze legislative relative all 'ordinamento degli enti locali. Le Regioni sono state valorizzate dalla legislazione statale come governo di riferimento dei Comuni e delle Province, ormai sono esse che in gran parte definiscono il quadro normativo nel quale operano gli enti locali. In particolare, le Regioni a statuto speciale, in virtù della legge costituzionale 23 settembre 1993, n. 2, hanno la competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali. In queste Regioni si sono così poste « le basi per la creazione di un rapporto [ .. ] assai più simile a quello che caratterizza gli Stati federali » '5• .

2.2.

N U O V E C O M P E T E N Z E E N U OV E F U N Z I O N I P E R I C O M U N I E L E P ROV I N C E

Per i Comuni e le Province, l 'avvio del cambiamento si è avuto con la legge quadro 8 giugno 1990, n. 142, la prima legge generale dell' Italia repubblicana che abbia fissato « i principi dell'ordinamento dei Comuni e delle Province » e ne abbia deter­ minato le funzioni (art. 1). Fino ad allora i partiti al governo avevano rinunciato a proporre un progetto di riforma organica del governo locale. Soltanto nel 1961 era stata presentata una proposta di sostituzione dei testi unici del 1915 e del 1934, con un disegno di legge d' iniziativa del ministro dell ' Interno Scelba, che rimase però senza alcun esito. Nessun altro progetto di riforma fu elaborato dal governo fino agli anni Settanta'6• In termini politici, gli obiettivi della riforma possono essere così sintetizzati: a) una ristrutturazione dei rapporti centro-periferia che alzasse il livello di autonomia I4. Bobbio, I governi locali nelle democrazie contemporanee, cit. IS. T. Groppi, Un nuovo organo regionale costituzionalmente necessario. Il Consiglio delle autonomie locali, in "Le Istituzioni del Federalismo", 200I, 6, p. 1063. I 6. Una riforma complessiva era stata realizzata, soltanto nel campo della finanza locale, all' inizio degli anni Settanta, con provvedimenti che però andavano in direzione opposta al potenziamento dell'autonomia. Tale riforma, infatti, aveva sottratto agli enti locali i principali poteri impositivi e aveva trasformato i bilanci comunali e provinciali « in mere appendici di quello statale, finanziate pressoché unicamente attraverso trasferimenti»: B. Dente, Il governo locale in Italia, in AA.VV., Il governo locale in Europa, Edizioni di Comunità, Milano I977• p. 245. È stato calcolato che mentre nel I973 gli enti locali traevano dalle imposte locali oltre il 23% delle loro entrate finanziarie, nel I985 tale percentuale era scesa ali ' 8%: A. Fraschini, L. Robotti, Introduzione: ilfinanziamento degli enti locali nell'esperienza italiana e inglese: problemi e proposte, in Id. (a cura di), Lafinanza locale. Italia e Inghilterra a confronto, FrancoAngeli, Milano I 987, p. I 6. S3

CARLO BAC CETTI TABELLA I

Decentramento e autonomia nelle riforme legislative degli anni Novanta Obiettivi della legge 142./r99 o

Strumenti e soluzioni indicati dalla

Strumenti e soluzioni individuati dalle riforme

legge

varate tra il

142./r990

1993 e il 1999

Riconoscere agli enti locali L'autonomia è limitata da La legge 3 agosto 1 9 99, n. 26 5 , estende i l'autonomia statutaria (oltre una disciplina legislativa contenuti dello statuto, che trova limiti a quella regolamentare). solo in espliciti principi di legge. molto puntuale. Avviare una nuova distribu­ zione di funzioni agli enti locali (differenziandone i ruoli).

Un ruolo importante è affi­ Le leggi 1 5 marzo 1997, n. 59, 1 5 maggio dato alla Regione (che man­ 1997, n. 1 27, e 1 6 giugno 1998, n. 91, confer­ tiene solo le funzioni di mano le linee della legge 1 4 2/ 1990 e avvia­ ambito regionale). no un ampio processo di conferimenti.

Sviluppare la partecipazione Procedimento e accesso, refe- Il referendum non è più solo consultivo; dei cittadini. rendum consultivo. se ne facilita lo svolgimento. Superare l'inadeguatezza dei Incentivi alle fusioni e alle Le leggi 5 9 / 1 9 97, 1 27 / 1 9 9 7 e 9 1 / 1 9 9 8 piccoli comuni. unioni dei piccoli comuni. puntano sui "livelli minimi" di esercizio delle funzioni; la legge 265/1999 rafforza e agevola la cooperazione e punta sulle unioni di Comuni e sulle comunità montane. Ridefinire il ruolo delle Nuovi strumenti e compe­ Le leggi 5 9 / 1 99 7, 1 27 / 1 997 e 9 1 / 1 9 9 8 tenze, tra cui il Piano territo­ rafforzano le Province, in materia di terri­ Province. riale di coordinamento. torio e di attività produttive. Creare un sistema di governo La Regione delimita l'area, per le aree metropolitane. riordina i Comuni, ripartisce le funzioni; nell'area la Pro­ vincia si configura come auto­ rità metropolitana.

La legge 265/1999 punta sulla differen­ ziazione: in ogni area le scelte sulla deli­ mitazione e sull'ordinamento partono dal basso.

Promuovere efficienza nei Si ammettono le S.p.A. locali, Il D.L. 1 6 marzo 1 9 9 9 , n. 79, apre decisa­ servizi pubblici locali. purché a maggioranza pub­ mente alla concorrenza e al mercato, blica. stabilendo obbligo di gara. Garantire autorevolezza e Razionalizzazione dell'elezio­ La legge 2 5 marzo 1 9 9 3 , n. 8 1, ha intro­ stabilità al sistema di governo ne del sindaco da parte del dotto l'elezione diretta del sindaco ; la consiglio; sfiducia costruttiva. riforma del 1 9 9 9 tende a un migliore locale. equilibrio tra gli organi. Ridurre vincoli e controlli.

I controlli del C O RECO sono Le leggi 59/1997 e 1 27 / 1 9 9 7 riducono i limitati ai soli atti del consi­ controlli a statuti, regolamenti e bilanci. glio.

Rinnovare l'organizzazione Distinzione tra indirizzo degli enti locali. (organi elettivi) e gestione (funzionari); ridefinizione dei compiti del segretario, che resta un funzionario statale. Fonte: Vandelli, Il governo locale, cit., p. 9 6.

54

Le leggi 5 9 / 1 9 9 7 e 1 27 / 1 997 precisano espressamente i compiti dei dirigenti; il segretario è scelto dal sindaco che può anche nominare un direttore generale.

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effettiva dei governi locali; b) una migliore e meglio definita funzionalità degli enti locali e una maggiore efficienza delle politiche pubbliche territoriali; c) una riquali­ ficazione della classe politica locale, sotto il profilo dell 'autorevolezza e della capacità di governo ; d) un allargamento degli spazi di democrazia partecipativa e una mag­ giore incisività degli strumenti di democrazia diretta. Nel 2000 il vasto e articolato percorso di riforma legislativa compiuto nel corso degli anni Novanta fu sintetizzato e coordinato nel nuovo Testo unico degli enti locali ( TUEL ) 17, composto di ben 275 articoli, che intendeva dare sistematicità alle disposizioni varate nel decennio, specificatamente in materia di « ordinamento e struttura istituzionale degli enti locali » , « sistema elettorale » , « stato giuridico degli amministratori » , « sistema finanziario e contabile » , « controlli » , « norme fonda­ mentali sull'organizzazione degli uffici e del personale » 18• Il quadro sinottico ( TAB. 1 ) sintetizza gli obiettivi politico-istituzionali che hanno guidato la spinta riformatrice degli anni Novanta e che si sono via via arricchiti e meglio definiti fra il 1990 e il 1999. 2.3.

LE NUOVE LEG GI ELETTORALI

Dopo la legge quadro 142/ 1990, il punto di svolta decisivo si era avuto nel 1993, quando fu introdotta la nuova legge elettorale per i Comuni e per le Province. La legge 81/ 1993, ha modificato profondamente i meccanismi della competizione inter­ partitica per la conquista del potere locale, introducendo, per la prima volta, l'ele­ zione diretta dei sindaci ( e dei presidenti delle Province ) , con un sistema elettorale a due turni, con eventuale ballottaggio ( per i comuni con più di 1s.ooo abitanti ) , che conferiva al sindaco eletto e al presidente della Provincia il massimo grado di legittimazione popolare. La legge ha riformato poi radicalmente, in senso maggiori­ tario, il sistema di elezione dei consigli, per garantire una solida maggioranza consi­ liare alle forze collegate con il sindaco o presidente eletto. E ha legato indissolubil­ mente le sorti di tutti gli organi di governo dell'amministrazione: eletti contestualmente, sindaco e consiglio decadono insieme, determinando inevitabili elezioni anticipate, sia nel caso di dimissioni del sindaco sia nel caso di sfiducia consiliare nei confronti del sindaco stesso : « L'assemblea rappresentativa può rovesciare il capo dell'esecutivo, ma soltanto con un voto di sfiducia distruttiva, meccanismo che assieme alla caduta del sindaco determina, secondo la formula del simul stabunt, simul cadent, la disso­ luzione della stessa assemblea » 19• Inoltre, la legge 8 1/ 1993 ha rafforzato notevolmente

I7. TUEL, approvato con D.Lgs. I 8 agosto 2000, n. 267. I 8. Vandelli, Il governo locale, cit., p. 99· I9. A. Di Virgilio, Il sindaco elettivo: un decennio di esperienze in Italia, in M. Caciagli, A. Di Virgilio (a cura di), Eleggere il sindaco. La nuova democrazia locale in Italia e in Europa, U T ET, Torino 2005, P· II. 55

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il ruolo del sindaco, attribuendogli il potere di nominare ( ed eventualmente di revocare ) gli assessori, nonché i dirigenti comunali e i rappresentanti del Comune presso aziende e istituzioni. La legge si caratterizza anche per aver introdotto una netta distinzione tra gli assetti della giunta da quelli del consiglio : nelle Province e nei Comuni di maggiori dimensioni il sindaco non presiede il consiglio comunale e quest 'ultimo elegge autonomamente il proprio presidente. Inoltre, è stabilita l' incom­ patibilità tra la carica di assessore e quella di consigliere. Infine, la legge ha vietato di ricoprire per più di due mandati consecutivi la carica di sindaco o quella di assessore, stabilendo dunque un limite temporale rigoroso alla permanenza negli esecutivi locali. Inizialmente la durata di un mandato era stata abbassata a quattro anni; dal 1999 è stata riportata a cinque. L'investitura popolare del sindaco fu intesa come il passaggio indispensabile per renderlo autonomo dai condizionamenti e dai ricatti più o meno velati dei partiti che formavano la sua maggioranza, ed era vista come l'asse che finalmente avrebbe garantito stabilità ed efficienza al governo locale. Anche la riforma della legge elettorale regionaleo aveva lo scopo di modificare in senso maggioritario i meccanismi proporzionali "puri" in vigore in precedenza, rafforzando il peso dei governi rispetto alle assemblee e concentrando maggiori poteri nelle mani dei vertici degli esecutivi. La legge elettorale regionale del 1995 introduceva accanto alle liste provinciali, che assegnavano ora l' 8o% dei seggi con un meccanismo proporzionale che restava invariato, anche delle liste regionali bloccate, collegate a un candidato presidente il cui nome appariva indicato sulla scheda e alle quali si attribuiva il restante 20% dei seggi, rappresentando una sorta di premio di maggio­ ranza da attribuire al candidato che otteneva più voti. Con la lista bloccata si sot­ traeva un quinto degli eletti della coalizione vincitrice alla lotta infrapartitica per le preferenze e si attribuiva in dote alla figura del candidato presidente una sorta di "listino" personale, che intendeva rafforzarne l 'autorevolezza e l'autonomia rispetto alle liste partitiche. Ma la novità che contribuiva fortemente alla personalizzazione della competizione elettorale, mettendo al centro dell'attenzione la figura del presi­ dente, era l'indicazione sulla scheda elettorale del nome dei candidati presidenti collegati alle liste regionali e provinciali. Per percorrere fino in fondo la riforma in senso presidenziale dei governi regio­ nali, introducendo, come per i Comuni e le Province, l 'elezione diretta dei capi dell 'esecutivo era necessario però arrivare a una modifica della Costituzione, che attribuiva ( art. 122 ) l'elezione del presidente al consiglio regionale. È quanto ha provveduto a fare la legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, che ha affidato alle Regioni poteri costituenti rispetto alla forma di governo e al meccanismo elettorale.

20. Legge 23 febbraio 1995,

n.

43· s6

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3 Dopo il 2001: verso uno Stato delle autonomie locali Il punto più alto nel processo di decentramento politico-amministrativo e di poten­ ziamento delle autonomie locali lo si raggiunse nel marzo 2001 quando, proprio allo scadere della XIII Legislatura, il Parlamento italiano approvò la legge di riforma costituzionale 3/200121• I principi e la disciplina generale da essa stabiliti hanno introdotto cambiamenti di rilievo sia nel rapporto tra Stato e Regioni in quanto organi costituzionali dotati di potestà legislativa sia, più in generale, nella distribu­ zione complessiva dei poteri e delle funzioni tra i diversi livelli di governo. Sul primo punto, le linee della riforma collocano ora lo Stato e le venti Regioni italiane nell'ordinamento costituzionale come soggetti entrambi titolari di una parte di sovranità legislativa. Stato e Regioni operano in modo coordinato e distinto per realizzare i valori affermati dalla Costituzione. Non c'è più dunque, come in passato, un rapporto di subordinazione della Regione verso lo Stato che si concretizzava nel potere di controllo e di impugnazione che quest'ultimo manteneva sulle leggi regionali. Sul secondo punto, i nuovi articoli della Costituzione attribuiscono alle Regioni e ai governi locali maggiori poteri legislativi e una maggiore autonomia nel controllo delle risorse. Essi segnano un passo decisivo verso il decentramento del potere politico e delle funzioni amministrative e per il rafforzamento delle autonomie locali, in direzione di un effettivo processo di federalizzazione dello Stato italiano, che si può ora definire come uno "Stato delle autonomie locali". « Lo Stato centrale appare oggi davvero "svuotato" dai provvedimenti legati a questa riforma, che dunque ha attri­ buito alle Regioni e ai governi locali un ruolo importante nel ridefinire il sistema politico » 22• I principi ispiratori del nuovo patto « di tipo federale » tra le istituzioni territo­ riali che governano la vita della comunità, sono sostanzialmente tre : 1. la « sussidia­ rietà » ; 2. la « differenziazione » delle competenze tra i diversi livelli di governo ; 3 · « l'adeguatezza » dei livelli di governo subnazionali ( Regioni ed enti locali ) a svolgere le funzioni loro assegnate. Attraverso l'articolazione legislativa di questi indirizzi di fondo, la riforma mirava sostanzialmente a due obiettivi politici23: a) rafforzare le istituzioni politiche e met­ terle in condizione di agire come centri di potere pluralistici e diffusi sul territorio 2I. Legge I 8 ottobre 200I, n. 3· La legge introduceva Modifiche al titolo v della parte seconda della Costituzione, cioè a quella parte che fissa le istituzioni che compongono l 'ordinamento fondamentale della Repubblica italiana: il Parlamento, la magistratura, la presidenza della Repubblica e, appunto nel Titolo v, le Regioni, le Province e i Comuni. La legge è entrata in vigore definitivamente nell'ottobre 200I, dopo essere stata sottoposta a un referendum confermativo. 22. M. Cotta, L. Verzichelli, Il sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 2oo8, p. 207. 23. lllustrati, nella relazione di maggioranza che accompagnava il testo della legge, dai relatori Antonio Soda (ns) e Vincenzo Cerulli Irelli (PPI). 57

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nazionale. Il potere, insomma, non doveva più essere identificato dai cittadini sol­ tanto con la capitale, con Roma, che nell'opinione pubblica è spesso considerata il luogo dove domina una politica separata e lontana dai bisogni dei cittadini; b) creare le condizioni per una pubblica amministrazione più snella ed efficiente. Anche qui l'obiettivo era di smentire l'opinione largamente diffusa tra i cittadini secondo cui la pubblica amministrazione italiana - identificata sovente con i ministeri "romani" ­ è sinonimo di inefficienza e clientelismo quando non di corruzione. Il "patto federale" che venne stipulato con la legge 3/2001 doveva prendere corpo soprattutto attraverso l'autonomia finanziaria, di entrate e di spesa, di cui avrebbero goduto le Regioni e gli enti locali, ai quali sarebbero andati tributi ed entrate proprie e il diritto di ricevere una parte del gettito fiscale nazionale. Per garantire che anche le Regioni più povere, cioè con una minore capacità fiscale pro capite, fossero in grado di sostenere finanziariamente le funzioni loro assegnate, la legge istituiva un « fondo perequativo nazionale » attraverso cui, in sostanza, una quota delle risorse finanziarie delle regioni più ricche - quelle del Centro-Nord - veniva messa a dispo­ sizione delle Regioni meno ricche - quelle del Sud. La nuova legge costituzionale presentava insomma una sua specificità che consisteva nell'abbinamento tra principio di sussidiarietà e riforma in senso federalista dello Stato. Diversamente da altri modelli federali, il modello di decentramento federalistico introdotto in Italia fissava direttamente in Costituzione l 'assetto degli enti locali ( Comuni, Province e città metropolitane ) e non lo lasciava alla discrezione della legge ordinaria o delle leggi regionali. Ugualmente, sia le funzioni sia le risorse degli enti locali venivano definite e attribuite sulla base dei principi fissati in Costituzione. Le modifiche introdotte al testo dell 'art. 1 14 riassumono efficacemente il senso di tutta la riforma. Il testo precedente si limitava a stabilire che la Repubblica italiana « si riparte » in Regioni, Province e Comuni; il testo del nuovo articolo rovescia la piramide istituzionale e stabilisce che la Repubblica « è costituita » , nell 'ordine, « dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato » . Il cambiamento è evidente e molto importante : con la formula precedente si diceva che lo Stato non era solo una parte della Repubblica ma la rappresentava come ente unitario, ripartito al suo interno in unità minori. Con la nuova formula si afferma invece che la Repubblica italiana non ha più un soggetto istituzionale riassuntivo che la rappresenti: essa è data dalla somma e dall ' intera­ zione dei Comuni, delle Province, delle città metropolitane, delle Regioni e, appunto, dallo Stato. 3 . 1.

L E N U O V E P O LICIES D E I G O V E R N I L O C A L I

Le riforme degli anni Novanta hanno portato grandi novità anche sul piano delle politiche locali, non solo della politica. Cambiamenti sostanziali hanno investito i processi decisionali e la produzione delle politiche pubbliche. La nuova centralità ss

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assunta dai vertici degli esecutivi, sindaci e presidenti, e la maggiore ampiezza e soli­ dità delle maggioranze politiche che li sostengono hanno aperto la strada al diffon­ dersi di un nuovo stile decisionale, improntato alla collaborazione e all 'adozione di strategie anticipatorie di tipo inclusivo, con il coinvolgimento sempre più ampio, nei processi decisionali pubblici, di attori e interessi privati. Le politiche pubbliche degli enti locali sono state ridefinite alla luce sia delle trasformazioni organizzative sia, in conseguenza, delle nuove priorità che i governi locali si sono dati. La mobilitazione si concentra sempre più sugli obiettivi di pro­ mozione dello sviluppo economico e sulle politiche di coesione sociale, rese neces­ sarie, queste ultime, dai grandi processi mondiali di trasformazione economica e sociale, che hanno riscritto l'agenda anche dei governi locali. Le amministrazioni locali sono riconosciute non solo come enti erogatori di servizi ma come attori poli­ tici essenziali per lo sviluppo del territorio. Le ricerche sulla politica locale hanno preso a oggetto i nuovi strumenti di policy e le modalità di apertura alla società civile e agli interessi organizzati. Ci si è chiesti se e come la ridislocazione del peso degli attori politici locali - meno potere ai partiti, quasi tutto il potere agli amministratori - abbia modificato le politiche pubbliche e abbia comportato anche una reale innovazione dei contenuti dell 'agenda e dello stile decisionale dell 'amministrazione. In effetti, si sono regi­ strati « sforzi significativi per superare i consueti limiti delle politiche ordinarie ( in genere di tipo incrementale, parcellizzato, prevalentemente distributivo ecc. ) e un maggiore orientamento verso criteri concertativi che tendono a scavalcare la mediazione dei partiti » 24• Tutti i governi locali hanno attivato e formalizzato strutture decisionali che si aprono al coinvolgimento diretto, nelle scelte di governo, di attori esterni alle isti­ tuzioni ( grandi imprese, banche e società private, rappresentanti di categorie pro­ duttive e gruppi di interesse, ambientalisti, associazioni e centri di ricerca di vario genere, agenzie funzionali pubbliche ecc. ) . È stata istituzionalizzata la presenza di una rete di attori pubblici e privati che ha modificato in profondità i processi deci­ sionali locali. Sempre più il Comune, specialmente nelle grandi città, è un attore tra gli altri che partecipa, in un ruolo certo importante, alle reti di consultazione che so stanziano la governanee urbana e da cui scaturiscono le decisioni di governo. Deci­ sioni che trovano poi un suggello formale, quando l'accordo è raggiunto, nelle sedi istituzionali con la sottoscrizione di patti o contratti. Alcune amministrazioni pro­ vinciali, ad esempio, hanno istituito degli specifici assessorati per la "concertazione territoriale". Si tratta di novità rilevanti, che hanno segnato non solo la nuova politica locale

24. R. Catanzaro, F. Piselli, F. Ramella, C. Trigilia, Comuni nuovi. Il cambiamento nei governi locali, il Mulino, Bologna 2002, p. 40. 59

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ma il funzionamento complessivo del sistema politico. Chi "fa politica" a livello locale cessa di considerarsi e di agire, sostanzialmente, come un tassello territoriale della politica nazionale e prende consapevolezza del fatto che il benessere delle città dipende prima di tutto dalla capacità di mobilitare le risorse presenti sul territorio e dalla capacità di governance locale. La leadership esercitata dai sindaci e presidenti di Provincia è stata spesso individuata come elemento decisivo per il successo delle politiche pattizie. I vertici istituzionali si pongono, laddove ne abbiano le capacità personali, come punto di riferimento e di interconnessione della rete organizzativa territoriale tra istituzioni e attori economici e sociali. I cambiamenti intervenuti nella governance locale riguardano anche, in modo significativo, l' introduzione di metodi innovativi di finanziamento di cui, dagli anni Novanta, hanno cominciato ad avvalersi gli enti locali. Particolarmente frequente, tra gli strumenti di finanza innovativa, è, ad esempio, il ricorso alla "finanza di progetto" come strategia di finanziamento, ovvero come ricerca delle risorse economiche neces­ sarie alla realizzazione di opere infrastrutturali o per l'attivazione di servizi pubblici. L'aspetto peculiare della finanza di progetto è il coinvolgimento di una pluralità di soggetti privati a fianco dell'ente pubblico. La finanza di progetto è stata introdotta in Italia da una normativa del 1994 25 e consiste, molto sinteticamente, in una tecnica di finanziamento di opere pubbliche da parte di investitori privati che realizzano quelle opere e poi le gestiscono ( si tratti di un parcheggio, come di un edificio di uso pubblico, un impianto sportivo o una infrastruttura viaria ecc. ) per un lungo periodo di tempo, ricavando il loro profitto economico dalla manutenzione e dalla gestione di quelle stesse opere. La finanza di progetto si caratterizza come strumento di una più generale e dif­ fusa contrattualizzazione delle politiche pubbliche, tipica modalità operativa della nuova governance locale. Essa affida ingenti risorse e capacità decisionali agli attori politici locali; ma richiede in cambio capacità di coordinamento elevate e una ancor più elevata capacità di contrattazione e mediazione politica, oltre che determinazione nel saper definire e non perdere di vista, per così dire, le priorità dell ' interesse pub­ blico, districandosi nel groviglio di cooperazione e conflitto che caratterizza più o meno tutti i processi di policy. La finanza contrattualizzata comporta una continua negoziazione tra attori pubblici e privati, i quali spesso perseguono obiettivi diver­ genti, o solo in parte convergenti. Il rischio per chi governa l'ente locale è di non riuscire a tenere una negoziazione che conduca a un "giusto compromesso" e non sacrifichi l'interesse pubblico di fronte all'esigenza di profitto economico dell'attore . pnvato. 25. La legge 1 1 febbraio 1994, n. 109, Legge quadro in materia di lavori pubblici (comunemente detta legge Merloni dal nome del ministro che la propose), integrata e modificata successivamente, nel 1995, 1998, 2002 e 2007, da altri provvedimenti legislativi, anche in adeguamento al diritto comunitario. 6o

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4 La crisi (finanziaria) del disegno autonomistico negli anni Duemila Il nuovo protagonismo guadagnato dalle Regioni e dai governi locali nel sistema politico italiano, dagli anni Novanta a oggi, presenta tuttavia limiti e incongruenze notevoli. C 'è innanzi tutto, sullo sfondo, un peccato originale del processo di decen­ tramento e di riordino istituzionale dato che, come abbiamo accennato, non si è scelto un nuovo modello di relazioni intergovernative, non si è data una risposta precisa alla domanda cruciale "che cosa si decentra e a chi" e non si è fatta chiarezza in merito all'attribuzione delle funzioni fondamentali proprie di Regioni, Province e Comuni. Quando si è trattato di scegliere, tra un modello propriamente regionalista che devolvesse compiti e funzioni soprattutto al livello di mesogoverno rappresentato dalle Regioni, o un modello che favorisse piuttosto il rapporto diretto tra Stato ed enti locali, decentrando funzioni e competenze direttamente a Comuni e Province, in realtà non si è scelto. Per non scontentare nessuno si è cercato di comprendere in un unico modello tutto il sistema delle autonomie locali; assimilando e ponendo sullo stesso piano, quali interlocutori politico-istituzionali e destinatari delle funzioni trasferite dallo Stato, sia le Regioni sia gli enti locali. Così, nonostante i buoni pro­ positi e le dichiarazioni di principio, Regioni, Province e Comuni continuano ine­ vitabilmente a sovrapporsi e a confliggere tra loro con notevoli inefficienze e spreco di risorse economiche e umane. Che la riforma dello Stato sia rimasta incompiuta lo dimostra, tra l 'altro, il fal­ limento dei principali strumenti di raccordo interistituzionale previsti dalla Costitu­ zione riformata del 2001. La legge 3l 20 0 1 ha previsto due specifiche sedi di coordi­ namento e di confronto tra Stato, Regioni ed enti locali. Una di queste è il Consiglio delle autonomie locali, che le Regioni devono introdurre nei propri statuti, quale organo di consultazione tra la Regione stessa e gli enti locali. L'obiettivo è quello di dare vita a un unico soggetto di rappresentanza del sistema delle autonomie in ambito regionale e permettere, attraverso di esso, che anche i Comuni e le Province possano partecipare alle scelte politiche e all' individuazione degli obiettivi generali della programmazione socioeconomica e territoriale. In realtà, le Regioni hanno introdotto con ritardo e incertezze i Consigli delle autonomie locali nei loro statuti, e perlopiù essi sono stati definiti come organi di semplice consultazione, senza alcuna effettiva capacità di incidere sulle decisioni e sulle scelte del governo regionale. Nel complesso, insomma, il Consiglio delle autonomie locali rimane un attore marginale nel sistema delle relazioni intergovernative Regione-enti locali. Il secondo strumento di raccordo previsto dalla legge 3l 2001 è la Commissione parlamentare per le questioni regionali, che avrebbe dovuto essere integrata con rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali. L'allarga­ mento sarebbe dovuto avvenire attraverso una modifica dei regolamenti parlamentari 61

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tale da permettere la partecipazione ai lavori della Commissione anche a membri non parlamentari, in proporzioni e in quantità da stabilire. In realtà, nessuna concreta iniziativa è stata presa per attuare questa disposizione costituzionale e l'integrazione della Commissione con rappresentanti delle autonomie locali non si è realizzata. È opinione diffusa che l' idea di far nascere un "luogo" di cooperazione istituzionale multilivello da una semplice modifica dei regolamenti parlamentari sia stata una sorta di escamotage messo in atto dalle forze politiche, una tipica soluzione "all'italiana" per prendere tempo e rimandare a giorni politicamente migliori una grande e com­ plessa questione quale appunto era, ed è, la riforma del bicameralismo. Il fatto è che non c 'era (e non c 'è) accordo sufficiente tra i partiti su come "portare" il sistema delle autonomie nel Parlamento, cioè su come concretamente articolare le relazioni intergovernative in una prospettiva di collaborazione e cooperazione multilivello. Ma c 'è stato, soprattutto, un problema di carattere finanziario, legato ai costi della politica (anche) locale, che è intervenuto nell'ultimo decennio, a frenare il processo di decentramento e a ridimensionare per molti aspetti l'autonomia guada­ gnata nel decennio precedente da Regioni e governi locali. Il problema dei costi della politica ha in realtà due aspetti distinti, che finiscono poi per sovrapporsi. 4 . 1.

P E R S O NA L I Z Z A Z I O N E D E L LA P O L I T I C A

E P R O F E S S I O NA L I Z Z A Z I O N E D E G L I E L E T T I

Il primo aspetto riguarda la degenerazione del modo di intendere l'autonomia, impu­ tabile a molti degli eletti nelle istituzioni locali. L'elezione diretta dei capi delle amministrazioni ha fatto esplodere un processo di personalizzazione della politica che ha significato, al tempo stesso, una nuova modalità di professionalizzazione dell 'attività politica a livello locale. Si è venuta a creare, cioè, una nuova tipologia di politici : i professionisti delle cariche elettive, che hanno trovato nelle risorse collegate alle cariche molteplici opportunità per consoli­ dare il consenso politico ottenuto e per trasformare l' incarico elettivo in un'attività professionale stabile e, di norma, ben retribuita. Le riforme legislative hanno concesso agli eletti - per metterli in condizione di fronteggiare e gestire al meglio la grande quantità di potere e di funzioni che si è concentrata nelle loro mani - di crearsi una struttura di staff, di attribuire incarichi dirigenziali ad personam e di praticare lo spoils system, sia nelle strutture dirigenziali di Comuni e Province, sia negli organismi di gestione di enti e aziende a essi collegati. Sindaci, presidenti e assessori hanno potuto selezionare e introdurre nelle istituzioni pubbliche o semipubbliche una rete di diri­ genti, di esperti, consulenti, collaboratori e fiduciari retribuiti con risorse pubbliche, che rafforzano il potere politico di chi li ha nominati e procurano consenso sul territorio. Questa concentrazione di potere in capo agli eletti ha finito per cambiare la qualità stessa del sistema politico locale, al centro del quale non ci sono più i dirigenti delle strutture territoriali del partito, ma i vertici dei governi locali. Gli eletti

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finiscono con il sostituire i partiti, i quali vivono quasi soltanto nelle istituzioni : « Oggi troppo spesso si sta nei partiti solo per essere eletti o si viene eletti senza nemmeno entrare nei partiti. L'eletto, a quel punto [ . . . ] non risponde più a nessuno. Ha i soldi, ha una segreteria, dirige di fatto le strutture di partito » 26• Le peculiari risorse di tipo clientelare a disposizione dei governi locali sono divenute particolarmente rilevanti anche perché possono essere utilizzate con notevole libertà, senza troppi rischi di incorrere in sanzioni di tipo amministrativo o penale. Infatti, dall'inizio degli anni Novanta sono state allargate notevolmente le maglie della rete di tutti i controlli, sia penali sia amministrativo-contabili e politico-istituzionali. Il nuovo sistema dei controlli ha dato credito alla responsabilità politica degli amministratori, riducendo di molto i vincoli precedenti, troppo stretti, dei controlli di legittimità e depotenziando la spada di Damocle della responsabilità penale: « La convinzione era che a controlli fondati sulla forma dovessero e potessero sostituirsi controlli fondati sulla sostanza. Amministratori più liberi, ma al tempo stesso più responsabili, meno timorosi del controllo formale, e più attenti alle domande degli amministrati » 27• In realtà, in molti casi, la riduzione dei controlli ha avuto effetti perversi: ha portato a una moltiplicazione di tipo clientelare delle cariche e degli incarichi e a una crescita dei costi della politica che chiama in causa l'azione irresponsabile di molti governi locali. Troppo spesso si è dovuto osservare che la rafforzata autonomia locale è andata in direzione opposta a quella auspicata, non ha ridotto la distanza tra amministratori e amministrati, « non ha introdotto maggiore trasparenza e controllo sugli atti, non ha impedito né ridotto la corruzione e l'appropriazione illegale delle risorse finan­ ziarie pubbliche » 28• Infine, un altro tipo di cambiamento che ha spinto verso la professionalizzazione degli eletti è di ordine economico e va individuato nella crescita dei compensi a essi assegnati. Per decine di migliaia di persone il mandato elettivo negli enti locali è divenuto una vera e propria fonte di reddito, « una nuova forma di lavoro dipendente » 29• 4.2.

V I N C O L I D I B I LA N C I O E N E O C E N T R A L I S M O

Il secondo aspetto del problema finanziario, che ha frenato il decentramento fino a segnare addirittura un' inversione di rotta, è rappresentato dai vincoli di bilancio posti dall ' Unione Europea. Già con i parametri economici e i vincoli di bilancio introdotti 26. C. Salvi, M. Villone, Il costo della democrazia. Eliminare sprechi, clientele e privilegi per rifor­ mare la politica, Mondadori, Milano 2oos, p. s2. 27· lvi, p. 84. 28. A. Lorelli, Gli istituti della partecipazione popolare a sei anni dalla legge S agosto I990 n. I42, in S. Gambino, G. Fabbrini (a cura di), Regione e governo localefra decentramento istituzionale e riforme, Maggioli, Rimini 1997, p. 3 3 8. 29. Salvi, Villone, Il costo della democrazia, cit., p. so.

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con il Trattato di Maastricht (1992), relativi al tasso di inflazione e al rapporto tra deficit di bilancio, debito pubblico e prodotto interno lordo e poi soprattutto dagli anni Duemila con l'introduzione della moneta unica, gli Stati dell ' Unione furono vincolati al rispetto rigoroso della disciplina di bilancio. Perciò, in Italia, i governi nazionali, in modo abbastanza indipendente dal colore politico, hanno adottato politiche finanziarie restrittive e misure di ricentralizzazione della spesa, fortemente penalizzanti delle autonomie locali : così è stato con il vincolo del Patto di stabilità interno, il taglio massiccio dei trasferimenti erariali alle Regioni e agli enti locali, la riduzione delle entrate proprie e il divieto di effettuare nuove assunzioni. E evidente che i due aspetti del problema finanziario - sprechi e spese clientelari (che spesso sfociano nella corruzione) da un lato e, dall'altro, rigorosa disciplina di bilancio imposta "dall'alto" - si sovrappongono, perché i primi giustificano la seconda e la costringono a essere ancor più "spietatà'. Insieme ai molti sprechi ed eccessi di spesa che certamente c 'erano, si sono però ridotti anche i servizi ai cittadini e gli investimenti infrastrutturali e per promuovere lo sviluppo. La riduzione della capacità di spesa delle Regioni e dei governi locali significa dunque che questi non sono più in grado di esercitare in modo autonomo poteri e funzioni che le riforme degli anni Novanta gli avevano attribuito. Tra le vittime illustri di questa virata neocentralistica c 'è, ad esempio, il federa­ lismo fiscale introdotto dalla riforma costituzionale del 200 1. Nel maggio 2009 il governo aveva approvato un' importante legge in materia di autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e degli enti locali, dando attuazione al federalismo fiscale previsto dall'art. 119 della Costituzione riformata30• Il governo non ha poi dato attua­ zione alla delega, che è rimasta in stallo perché nel frattempo è "esplosa" la crisi della finanza pubblica e la risposta data dai governi in Europa, negli ultimi tre anni, è stata quella di accentuare fortemente le restrizioni attraverso una secca ricentralizzazione della gestione della spesa. Inoltre, in Italia è stato attivato un processo di riordino istituzionale degli enti locali dettato anch'esso, quasi soltanto, dall'esigenza di tagliare la spesa pubblica. Tra gli obiettivi principali del riordino sembra esserci la Provincia, di cui si parla ormai da alcuni anni con insistenza come di un ente inutile. In realtà, nel corso degli anni Novanta la Provincia aveva sperimentato un processo di consolidamento amministra­ tivo, era stata chiamata a svolgere funzioni generali di pianificazione e programma­ zione territoriale e le erano state attribuite competenze nella gestione di politiche importanti quali il trasporto pubblico locale, la localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, l 'edilizia scolastica, la formazione professionale ecc. Vero è che le Province sono unità amministrative molto differenziate tra loro, sotto il profilo demografico e territoriale, e presentano nell'insieme un quadro di notevole fram'

30. Legge s maggio 2009,

n.

dell'articolo 119 della Costituzione.

42, Delega al Governo in materia di federalismo frscale, in attuazione

L E R E G I O N I E I G OVERNI L O CALI

mentazione, contraddistinto dall 'elevato numero complessivo (no) e dalla prevalenza di Province piccole o molto piccole. Questa forte differenziazione dimensionale incide molto sul rendimento istituzionale e sull'effettiva capacità di governare. Pare ormai certo che, seppure non scompariranno, le Province saranno accorpate e ridotte fortemente di numero e trasformate in enti di secondo grado.

s

Per (non) concludere Questo duplice processo in corso da alcuni anni all' insegna di una ricentralizzazione assai spinta, in termini di riordino istituzionale e di rigore finanziario, ha frenato il decentramento fino a far immaginare un' inversione di tendenza non episodica. Ciò impedisce di avanzare valutazioni compiute sulle trasformazioni che Regioni e governi locali hanno conosciuto negli ultimi trent'anni e sulla loro collocazione nel sistema delle relazioni tra centro e periferia. E un fatto che il centralismo del modello originario, sabaudo-napoleonico, sopravvissuto per decenni nell' Italia repubblicana, sia ormai soltanto un ricordo. Indubbiamente, la politica locale e le istituzioni di governo del territorio rivestono oggi un ruolo ben più rilevante nella dinamica complessiva del sistema politico ita­ liano rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Ma è altrettanto indubbio che le trasfor­ mazioni dell'assetto istituzionale dello Stato abbiano seguito una logica incrementale ; esse sono scaturite da valutazioni di opportunità di carattere politico contingente, sono state dettate soprattutto da pressioni esterne ed è mancata una valutazione della coerenza complessiva del sistema che si andava riformando. Altrettanto incrementale, priva di una visione progettuale e sistemica è l'attuale fase di controriforme neocen­ traliste, sollecitate dall"'Europa" e dai "mercati". Il nuovo sistema delle autonomie locali è rimasto per molti aspetti incompiuto e, d'altra parte, in molti casi l'autonomia è stata utilizzata in modo irresponsabile. Forse proprio l 'irresponsabilità con cui una parte non piccola della nuova classe politica locale ha usato l'autonomia, rappresenta la delusione maggiore, rispetto alle speranze di rinnovamento "dal basso", dal territorio, anche in termini di etica pub­ blica, che animavano i riformatori degli anni Novanta. Decentrare poteri e compe­ tenze lontano da Roma non è che abbia molto contribuito ad abbassare il tasso di inefficienza, di clientelismo, di corruzione ecc. L' impressione è che molti dei sentieri tracciati dal processo riformatore degli anni passati siano rimasti interrotti, insabbiati o avvolti dalla nebbia. Insomma, anche dalla prospettiva del governo locale ci si offre l' immagine di una transizione politica ita­ liana tanto lunga quanto ancora incompiuta. '

6s

" Tangentopoli" : storia e memoria pubblica nella crisi di transizione dell' Italia repubblicana di Maurizio R idoljì

I

Premessa È opportuno indagare il tema della corruzione nell' Italia degli anni Novanta non

tanto per misurarne, ancora una volta, la sua influenza sul funzionamento del sistema democratico, ma per raccontare gli usi che di essa si sono fatti nel dibattito pubblico trasformandola in questione morale. Interessa vedere come la corruzione divenne uno strumento della competizione partitica e una categoria di indagine sulla crisi della Repubblica. Sembrò allora venire a galla quell "'ltalia degli scandali, che pure aveva una lunga storia'. Essa però solo allora assunse la funzione di detonatore della crisi di sistema, come ormai si documenta in lavori di impianto tanto storico1 quanto storico-giornalistico3• La denuncia della corruzione partitica assunse il valore di un fenomeno di massa, ben oltre le più avvertite sensibilità dell 'opinione pubblica. Collisero due inadempienze: il mancato risanamento economico ( che l' incontrollato debito pubblico evidenziava ) e l 'assenza di un'effettiva, pur rivendicata, riforma delle istituzioni repubblicane4• Il contesto generale rinvia all 'influenza delle inchieste anticorruzione della magi­ stratura sul processo di delegittimazione degli equilibri di potere democristiano­ socialista propri degli anni Ottanta, nel nome di una smarrita etica pubblica e di un I. Cfr. dapprima F. Cazzola, Della corruzione. Fisiologia e patologia di un sistema politico, il Mulino, Bologna 1988, laddove un approccio politologico contempla in realtà anche una ricerca storica di lungo periodo e con fonti diverse (giudiziarie, giornalistiche e parlamentari); quindi V. M. Caferra, Il sistema della corruzione. Le ragioni, i soggetti, i luoghi, Laterza, Roma-Bari 1992, e D. Della Porta, Lo scambio occulto, il Mulino, Bologna 1992. 2. Cfr. ad esempio S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (19S9-20II), Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 26-30, e G. Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012, pp. 225 ss. 3· Cfr. G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo, Chiare­ lettere, Milano 2012, e M. Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica da Tangentopoli alla seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2012. 4· Cfr. P. Scoppola, Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-I990), il Mulino, Bologna 1997·

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pieno ritorno allo stato di diritto5• In questa sede il racconto privilegia la retorica e la rappresentazione politica della corruzione nei suoi nessi con la questione morale. Si guarda alla mediatizzazione di Tangentopoli, nel vivo delle cronache giudiziarie tra il 1 9 9 2 e il 1 9 9 3 6 , nonché di un protagonismo inedito della magistratura rispetto alle protervie della politica7, nonché alla ritualizzazione degli anniversari di Mani pulite nella memoria pubblica. Non si guarda pertanto e prevalentemente alle cro­ nache politico-giudiziarie ma al processo massmediatico messo in moto attraverso la stampa ( quotidiani e settimanali di opinione ) e trasmissioni televisive ( in reti sia pubbliche sia private) ovvero al gioco di specchi tra storia e memoria. Le inchieste giudiziarie di Mani pulite, esaltate dai fautori di uno Stato eticamente integro e denigrate dai critici della magistratura politicizzata, fecero emergere alla luce del sole le profonde trasformazioni verificatesi nella politica italiana. Venuto meno l'originario ruolo di mediazione tra consenso politico e accesso alle risorse con la crisi finanziaria dello Stato, emerse il nesso stretto tra clientelismo partitico ed estensione della corruzione politica. Il clientelismo in età repubblicana era stato il risultato di un controllo corporativo del consenso inteso a tutelare i ceti medi come epicentro sociale dello sviluppo economico. Con la crisi della protezione sociale garantita dallo Stato e con gli effetti dei vincoli finanziari europei, la messa a regime delle tangenti come pratica di tutto il sistema politico rappresentò una prassi aggiornata del clientelismo8, attraverso l'estensione alla pubblica amministrazione e alle attività economiche della dipendenza dai partiti di governo ( al centro come nelle istituzioni locali ) . Per non dire dei legami presenti e sempre discussi tra mafia e ambienti politici così come dei muta­ menti nei rapporti tra politica e magistratura. Negli anni di Tangentopoli la magistra­ tura assunse un ruolo autonomo nelle indagini sulla vita politico-amministrativa, a tal punto da divenire oggetto di accesa polemica tra chi assecondava il clima giustizialista che accompagnò Tangentopoli e chi invece l'accusò di aver surrogato indebitamente la classe politica, decapitando i partiti di governo tramite la via giudiziaria9• S· Cfr. J.-L. Briquet, Questione morale e crisi di regime. La prima Repubblica italiana alla prova degli scandali {zgg2-I994), e L. Musella, «Questione morale» e costruzione pubblica di un giudizio nei processi politici degli anni Novanta, in J.-L. Briquet (a cura di), Questione morale e politica. Problemi della transizione nella crisi europea di fine Novecento, fascicolo monografìco di "Memoria e Ricerca", n.s., XXVI, 2009, 32, rispettivamente pp. 27-42 e 43-5 8. 6. In tal senso si segnalano alcune documentazioni audiovisive disponibili: RAI Educational, Storia della prima Repubblica, di Giovanni Minoli, I99I-I993· La fine della prima Repubblica. Mani Pulite e Craxi; Lezioni di Storia. Novecento Italiano; I992. Tangentopoli, di Ilvo Diamanti, Laterza, Roma-Bari I992, con "la Repubblica" e "l' Espresso� 2008. 7· Cfr. F. Cazzola, M. Morisi, La mutua diffulenza. Il reciproco controllo tra magistrati e politici nella prima Repubblica, Feltrinelli, Milano I996. 8. Cfr. L. Musella, Clientelismo. Tradizione e trasformazione della politica italiana (I97S-I992), Guida, Napoli 2000. 9· Come eco di un tale punto di vista, cfr. ad esempio la memoria dell 'allora segretario del Partito liberale : R. Altissimo, G. Pedullà, L'inganno di Tangentopoli. Dialogo sull'Italia a vent 'anni da Mani pulite, Marsilio, Venezia 20I2. 68

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Dalla questione morale a Tangentopoli Ora, per quanto riguarda il contesto cui si è fatto cenno, si può sottolineare l'effetto che, rispetto alla "questione morale", sollevata nel corso degli anni Ottanta da alcuni settori del mondo politico ( il P C I di Enrico Berlinguer ali ' inizio e la Lega di Umberto Bossi alla fine del decennio ) , ebbero i processi di spettacolarizzazione sulla percezione pubblica di Tangentopoli. Con la crescente centralità della televisione e con l 'entrata in scena di network privati e commerciali - segnatamente con l'impero mediatico dell'imprenditore Silvio Berlusconi10 -, la propaganda di partito virava non solo sul piano della comunicazione e della personalizzazione individuale, con imperscrutabili declinazioni populiste che si coniugavano con una crescente spoliti­ cizzazione del messaggio. Il nuovo linguaggio politico - moralista e populista insieme - era stato anticipato soprattutto dalla Lega Nord. Tra i suoi diversi temi d'agita­ zione, uno dei più pervasivi, ben oltre il mondo leghista, fu proprio la denuncia della corruzione politica, additata come una delle conseguenze dello Stato centralizzato e comunque della burocrazia romana. Parve allora venir messa in discussione la distin­ zione, politicamente intrinseca ai caratteri genetici della cosiddetta "Repubblica dei partiti", tra destra e sinistra1\ con forti spinte di natura insieme antistatale e locali­ stico-territoriale. Mentre il modello dei partiti di massa e della propaganda tradizionale declinava in un indistinto e confuso confronto retorico tra innovatori e conservatori, all ' inizio degli anni Novanta furono gli effetti della crisi politico-finanziaria e della sua rap­ presentazione politico-giudiziaria ( con Tangentopoli ) ad accelerare la disgregazione della Prima Repubblica11. Negli anni della transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica il linguaggio politico sarebbe cambiato radicalmente, anche come effetto di un discorso pubblico che non si riconosceva più nei consueti codici di comuni­ cazione 13. All 'inizio degli anni Novanta la crisi della Repubblica e della sua classe dirigente parve condensare i deficit strutturali della storia italiana : la nazione "introvabile", la modernità contraddittoria, lo Stato "debole" e un' invasiva partitocrazia, la frammen­ tazione e la politicizzazione delle classi dirigenti, non ultimo il nesso tra cristallizzaIO. Sulle tendenze di più lungo periodo, cfr. G. Gozzini, La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione {I954-2oii), Laterza, Roma-Bari 20u. I I. Cfr. M. Ridolfì, ':Al di la della destra, al di la della sinistra"? Tradizioni e culture politiche nell'Italia repubblicana, in "Memoria e Ricerca", n.s., 20I2, 40, spec. pp. 57-67. I2. Per un'eco circa la distinzione tra una Prima e una Seconda Repubblica, in "La Stampà' cfr.: Occhetto: e alla fine la prima Repubblica, 27 novembre I987, p. 2; Questa agonia della prima Repubblica, 29 dicembre I99I, p. 3 ; La prima Repubblica non e finita, 2I gennaio I993· p. 7 ; Dalla terza via alla II Repubblica, 9 luglio I993· p. I9; L'ultimo giorno della I Repubblica, 13 gennaio I994· p. 3; Prima Repubblica, notizie dal lazzaretto, 23 gennaio I994· p. I9. I 3. Cfr. ad esempio Propaganda al contrario, ivi, 24 marzo I994· p. 4·

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zione del sistema di potere e dilagante corruzione politica. Fu Giampaolo Pansa, pubblicando nel 1991 un volume d' inchiesta sulla partitocrazia intitolato Il regime, tra i primi e più autorevoli pubblicisti a esplicitare l' immagine di un «passaggio dalla prima alla seconda Repubblica » 14. La dissoluzione del sistema politico-partitico fu soprattutto il risultato conver­ gente di tre fattori, interni ed esterni, tra loro reciprocamente influenti : la fine del mondo bipolare e delle appartenenze ideologiche, gli impensati livelli di corruzione politica svelati all'opinione pubblica dall'inchiesta giudiziaria di Mani pulite, la secessione minacciata dalla Lega Nord attraverso la radicalizzazione della "questione settentrionale" ( una reazione esasperata contro il centralismo statale e la meridiona­ lizzazione della classe dirigente ) . Se i fattori richiamati evocavano il dilemma dell' identità nazionale, altri concorsero nel provocare il crollo del sistema politico­ partitico : le politiche economiche virtuose imposte dal Trattato di Maastricht per sanare l'enorme debito pubblico accumulato, l'attacco della mafia allo Stato con l'assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Sicilia, gli effetti dei due referendum su temi elettorali ( l'abrogazione delle preferenze plurime nel 1991 e del sistema proporzionale per l'elezione del Senato nel 1993) nel favorire comporta­ menti di voto più liberi rispetto al passato. La critica verso l' immobilismo del sistema politico si diffuse. Il movimento poli­ tico referendario guidato da Mario Segni, già esponente della DC e figlio di un discusso ex presidente della Repubblica, promosse dirompenti referendum per la riforma del sistema partitico e proporzionale15. Se i partiti tradizionali osteggiarono le nuove regole in senso maggioritario preannunciare dai quesiti referendari, nessuno come il leader socialista Craxi ( in realtà anche Bossi ) giunse a invocare il disimpegno elettorale dei cittadini: « Gli Italiani farebbero bene ad andare al mare invece di andare a votare » . Il 19 giugno 1991 gli italiani andarono invece a votare, abolendo la preferenza multipla ritenuta uno dei meccanismi simbolici della corruzione parti­ tica e legittimando il passaggio all 'espressione di una preferenza unica. Fu una tra­ sformazione nel segno di un'apparente ma solo momentanea democrazia referen­ daria16; sebbene essa producesse di certo effetti devastanti nel favorire la disgregazione del potere democristiano e craxiano17. Tra il 1992 e il 1994 l' Italia attraversò una fase di conflittuale transizione, nella quale i partiti tradizionali entrarono in profonda crisi, un' intera classe politica di I4. G. Pansa, Il regime, l ' Unità-Sperling & Kupfer, Roma-Milano I993 ( I• ed. I99I ) , p. 2. IS. La parabola del movimento referendario di Segni è seguita con attenzione anche dalla "Stampa": E ora Segni si mette in proprio, s settembre I99I, p. 8; Mario Segni se non ce la faccio mi dimetto, I 3 novembre I99I, p. 3 ; Segni: il mio divorzio da Ad, 4 ottobre I 993· p. 7; Mario Segni parte dalla Mole, I9 dicembre I993· p. 39; Segni: il demagogo e Occhetto, s gennaio I994· p. 3· I 6. Cfr. M. Fedele, Democrazia refirendaria. L 'Italia dal primato dei partiti al trionfo dell'opinione pubblica, Donzelli, Roma I994· I7. Per una sorta di bilancio, cfr. La fine di Craxilandia, in "La Stampa� I 6 maggio I993· p. 2I. 70

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governo venne allontanata dalla vita pubblica a seguito delle indagini giudiziarie e dei quotidiani attacchi mediatici, che provocarono un forte impatto nell 'opinione pubblica. I giornali pubblicavano ogni giorno gli avvisi di garanzia, i telegiornali e i talk show mostravano a getto continuo i protagonisti, gli eroi e gli imputati, dell 'in­ chiesta di Mani pulite. I cittadini furono insomma spinti a farsi parte di una sorta di giudizio pubblico sul sistema della corruzione partitica : leader vecchi e nuovi, come il missino ( poi Alleanza nazionale ) Gianfranco Fini e il leghista Bossi, interpreti di un pur distinto populismo che largheggiava nel sostegno a Mani pulite, furono in prima linea nel sostenere le ragioni dei magistrati del pool milanese'8• Per non dire di Tangentopoli e della dissoluzione della vecchia classe dirigente come fattori che avrebbero spinto Silvio Berlusconi, muovendosi tra continuità con il passato e prefi­ gurazione di un assetto presidenzialista e carismatico delle istituzioni repubblicane'9, a decidere l'entrata in politica. Nel complesso, furono 70 le procure italiane che avviarono indagini sulla corru­ zione nella pubblica amministrazione, con procedimenti a carico di circa 1 2 .0 0 0 per­ sone ( tra politici, funzionari, manager e imprenditori ) , l'emissione di 25.400 avvisi di garanzia e 4.525 persone arrestate. Alle istituzioni rappresentative dello Stato giunsero centinaia di richieste di autorizzazioni a procedere: 507 per la Camera, 1 7 2 per il Senato, ma saranno ben oltre il migliaio i politici coinvolti e ancor di più le dichiarazioni di colpevolezza ( senza dimenticare alcune morti eccellenti, con sui­ cidi che comunque impressionarono l 'opinione pubblica) . Fu nel contempo soppressa l' immunità parlamentare, con la modifica dell'art. 68 della Costituzione, al fine di poter procedere contro deputati e senatori senza il necessario via libera del Parla­ mento, richiesto invece per l 'arresto e le intercettazioni. Furono due anni di feroci scambi d 'accuse tra la vecchia classe politica e i nuovi rappresentanti dei movimenti cosiddetti "giustizialisti". Le più alte cariche dei partiti e delle maggiori aziende, pubbliche e private, furono raggiunte da avvisi di garanzia e talvolta da mandati d'arresto. Le ribalte giornalistiche e televisive, con la messa in onda delle sedute processuali e con i politici imputati alla sbarra, assicurarono ad Antonio Di Pietro una rinomanza straordinaria20, evidenziando anche i tratti di uno stile giudiziario che molto concedeva alle lusinghe della spettacolarizzazione. L' icona nazionale del cinema, Alberto Sordi, avrebbe indicato in un suo perso­ naggio - un magistrato romano, con capelli lunghi e facile a emettere mandati di 1 8. Nel caso del leader leghista, ad esempio, desumendo sempre dalla "Stampa": Bossi frena "Restiamo Lega Nord", Boom della Lega autogol per il Nord?, IO aprile 1 992, p. 4; "Lavorano solo i compagni': Un faccia a faccia Lega-Pds, 17 gennaio 1993, p. 44; Bossi e ora di salire sul ring. La Lega pronta a governare, 22 marzo 1993, p. s; E ora la Lega Nord attacca la Dc, 22 maggio 1 993, p. 35; Niente fascio siamo la Lega, 28 agosto 1993, p. 15. 19. Cfr. G. Quagliariello, Il berlusconismo nella storia della Repubblica: continuita e discontinuita, in "Liberai", 2007, 3 9, pp. 30-51. 20. Cfr. ad esempio "Di Pietro, devi restare al tuo posto", in "La Stampa': 1 6 luglio 1 994, p. 2. 71

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cattura, implacabile per quanto troppo affascinato dalle luci della ribalta - l ' antesi­ gnano di Di Pietro, a cui addirittura questi non avrebbe mancato di riferirsi. Del film Tutti dentro (1984) Sordi era stato insieme regista e interprete, nella messa in scena di una trama che comunque non faceva tanto ridere, con una satira un po' sbiadita, che non muoveva all' indignazione e tantomeno alla riflessione. E però, con qualche indubbia analogia con quanto durante Tangentopoli sarebbe accaduto, si alludeva all' Italia delle tangenti e della corruzione, nonché a una figura di magistrato fin troppo zelante. Di Pietro era ancora di là da venire eppure analogie e rimandi si sarebbero potuti trovare, solo qualche anno dopo. Ma fu il 1992 l'anno fatidicoll, paradigma di una transizione incompiuta, tra continuità e rotture; a partire proprio dall'emergere di Tangentopoli, secondo un effetto percepibile - come si dirà - sul piano non solo politico-istituzionale ma anche del costume e delle rappresentazioni (televisive in primo luogo) .

3 1992, l 'anno che cambiò l' Italia Tutto era cominciato quando, il 17 febbraio 1992, Mario Chiesa, presidente socialista del più grande istituto assistenziale per anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio, venne arrestato per concussione dal pool di magistrati guidato da Di Pietro. Quell' i­ stituto di assistenza per gli anziani divenne uno straordinario simbolo dell'Italia del tempo e contemporaneamente un luogo di memoria22• Al centro dell'originaria inchiesta e soprattutto della sua eco pubblica tramite giornali e televisione fu l'ex capitale morale del paese\ sede del quartier generale del leader socialista Bettino Craxi ed epicentro di un sistema di tangenti che coinvolgeva le maggiori imprese, garantendo risorse alle sedi nazionali dei maggiori partiti di governo ( ne e P SI ) , ai ministri dei partiti minori e allo stesso PCI (poi PDS ) attraverso le opportunità di appalti per il mondo delle cooperative "rosse"24• A quella milanese si aggiunsero altrettante indagini locali, fino a quando, a un anno di distanza - attraverso quelle dei magistrati di Napoli e Palermo -, dopo gli omicidi mafiosi dei magistrati Falcone il 23 maggio a Capaci e Borsellino il successivo 19 luglio in via D'Amelio, le indagini

2I. Attraverso un esempio a più voci di public history, cfr. M. Ravveduto (a cura di), Novantadue. L'anno che cambio l'Italia, Castelvecchi-LIT Edizioni, Roma 20I2. 22. Cfr. P. Corrias, Prime manette, penultima Repubblica al Pio Albergo Trivulzio, in AA.VV., Luoghi comuni. Dal Vàjont a Arcore, la geografia che ha cambiato l'Italia, Rizzoli, Milano 2oo6, pp. I03-25. 23. Cfr. G. Buccini, Da Chiesa all'avviso a Berlusconi. I segreti dell'inchiesta e di uno scoop, in AA.VV. , 1992-2002. Mani pulite. L 'inchiesta che ha cambiato l'Italia. Le parole, in "Corriere della Serà', Milano 20I2, pp. Is-6. 24. Sul trasversale giro di tangenti ( « bianche, nere, rosse »), cfr. nel dettaglio Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit., pp. 42-6. 72

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sulle connessioni tra associazioni criminali e politici videro coinvolti la Democrazia cristiana e in particolare un leader storico come Giulio Andreotti 25• I partiti erano andati alle elezioni del s-6 aprile 1 9 9 2 alquanto devitalizzati, ma senza poter prevedere il crollo del sistema; in realtà, più per quanto accadde in seguito al montare di Tangentopoli che per gli esiti del voto. La campagna elettorale era stata più apatica delle ultime. «Più che campagna elettorale sembra una gigantesca expo di banalità » 26, scrivevano le cronache; mentre in televisione la maratona elettorale, sui canali RAI e Fininvest, mandava in diretta l ' idea dello sfascio27• Si parlò comunque di un « muro crollato » , quello della DC, nella rappresentazione a effetto di una « nomenklatura licenziata » 28• Fu però il montare di Tangentopoli che innescò il vero processo demolitore, con un impatto enorme nell'opinione e nella vita pubblica, come solo pochi anni prima non si sarebbe potuto registrare9• Quel moto di protesta andò ben oltre gli esiti del voto del 1 9 9 2, allorquando le elezioni, rispetto a cinque anni prima, avevano premiato ancora, anche se in modo assai meno largo che in passato, i partiti di governo, mentre il neonato Partito democratico della sinistra - erede del disciolto Partito comunista - subiva una forte flessione. Un'onda conta­ giosa di indignazione popolare travolse il sistema dei partiti, in primo luogo di quelli che dagli anni Ottanta ruotavano attorno all'asse DC-PSI. Sebbene vi fosse anche il diretto coinvolgimento di esponenti del PDS, pure al di fuori del "sistema Milano", come nel caso emblematico di Primo Greganti, un funzionario di partito accusato di essere il prestanome per una tangente al PCI-PDS nazionale legata all 'affare ENEL. Nella crisi partitica anche l'elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenne attraverso modalità irrituali. Due giorni dopo l'assassinio di Falcone, il 25 maggio, in modo difforme rispetto alle indicazioni dei partiti di governo, venne eletto al Quirinale l'onorevole Oscar Luigi Scalfaro, già costituente e leader della DC ma in quel momento personaggio assai scomodo e visto come "esterno" al sistema partitico. Doveva essere l'antidoto alla dissoluzione della Repubblica, nel momento in cui, agli scandali di cor­ ruzione e ai processi di Tangentopoli si era aggiunto il ricatto degli attentati terroristici della mafia. Veniva meno il ruolo mediatore dei partiti tradizionali, mentre si rivendi­ cava una diversa classe dirigente ed emergevano nuove forze politiche: con la Lega, ad esempio, anche il movimento della Rete del dissidente democristiano Leoluca Orlando. 25. Cfr. J.-L. Briquet, Mafia, justice et politique en Italie. L 'affaire Andreotti dans la crise de la République, Karthala, Paris 2007. 26. L. Irdi, Una ventata d'aria fritta, in "L' Europeo", 1992, p. 12. 27. E. Ghezzi, Blob. Lo sfascio in diretta tv, in "L'Europeo", 1992, p. 1 6. 28. E. Scalfari, Nomenklatura licenziata... , in "la Repubblica", 7 aprile 1992. 29. Sulla cultura e sulla prassi della tangente, nonché sulla sua diversa percezione pubblica, prima e dopo il 1992, cfr. C. Pellegrino, Italia d'oro, in Ravveduto (a cura di), Novantadue, cit., pp. 152-62. Il titolo allude a una canzone di Pierangelo Bertoli, presentata al festival di Sanremo nel febbraio 1992; il testo, tra l'altro, diceva: «E torneranno a parlarci di lacrime dei risultati della povertà l delle tangenti e dei boss tutti liberi l di un'altra bomba scoppiata in città. l Spero soltanto di stare tra gli uomini l che l ' ignoranza non la spunterà l che smetteremo di essere complici l che cambieremo chi deciderà» . 73

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Fu con l ' irruzione sulla scena pubblica dell' inchiesta di Mani pulite e dei pro­ cessi promossi dal Tribunale di Milano che, nella seconda metà del 1 9 9 2, la crisi del sistema politico repubblicano si fece dirompente30• Con il coinvolgimento di una serie impressionante di personalità del mondo politico e imprenditoriale, emerse alla luce del sole l'esistenza di un sistema ramificato di finanziamento illecito della politica e di corruzione. Il meccanismo parve semplice e ben oliato : bastava alterare una gara a opera dei soggetti di volta in volta coinvolti, in un triangolo tutt 'altro che virtuoso tra imprenditori, potere pubblico e mediazioni partitiche sul piano tanto politico che amministrativo ; secondo un sistema che serviva a finanziare illecitamente il partito e che permetteva ampi margini di arricchimento individuale. Che il sistema dei partiti fosse al capolinea fu chiaro quando il Parlamento non concesse l 'autorizzazione a procedere, chiesta dalla magistratura di Mani pulite, nei confronti di Craxi. Le parole del leader socialista rappresentarono l'ultimo atto di autodifesa, prima che le contestazioni di piazza travolgessero la vecchia nomencla­ tura partitica. Fu una chiamata generale di responsabilità di fronte alla « rete di corruttele grandi e piccole diffuse in tutto il paese » . « Tutti i partiti - ammonì Craxi - hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale » 31• Fu in ragione di una tale condizione generale del sistema partitico italiano che, allora e in seguito, si polemizzò in merito a un accanimento del pool milanese verso alcuni e non altri. Fu una tesi a suo tempo contraddetta da Indro Montanelli, storica firma dell' Italia moderata e conservatrice, il quale scrisse dei giudici di Mani pulite: « le loro indagini non hanno avuto, checché ne dicano i socialisti, un' impronta faziosa. Semmai hanno avuto un' impronta rigorosa: tanto rigorosa, sostiene qualcuno, da diventare vessatoria » . E però essa, se tale anche poté essere per alcuni aspetti, non ebbe riguardi verso alcuno : « questa regola è stata uguale per tutti, per i boiardi dei partiti - di tutti i partiti compromessi, incluso il PD S di Greganti - per i manager della grande industria, per imprenditori come Ligresti, per funzionari, faccendieri, corruttori e corrotti, concussori e concussi » 31•

30. La diffusione a macchia d'olio dell' inchiesta giudiziaria fu martellante. Ancora dalla "Stampa": Tangentopoli, scatta l'ora del Pri, I4 maggio I992, p. s; Tangentopoli, arresto e rilascio-lampo, I S giugno I992, p. s; valanga di arresti a Tangentopoli, 27 giugno I 992, p. s ; Un giallo fa tremare Tangentopoli, 28 giugno I992, p. s ; Tangentopoli dice no, I 6 settembre I992, p. 3; "Tangentopoli, che vergogna", 30 set­ tembre I 992, p. 9; Tangentopoli sfiora Assolombarda, 7 novembre I992, p. 9; Tangentopoli ora si allarga, 27 novembre I992, p. 39· 3I. Discorso di Bettino Craxi alla Camera dei deputati, 29 aprile I993, in http:/ /www.socialisti.net/ SOCIALISTI/ craxi2.htm. 32. I. Montanelli, M. Cervi, Storia d'Italia. L'Italia degli anni difango (I97S-I993), Rizzoli, Milano 20I2 ( I• ed. I993 ) , p. 250. 74

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4 Mani pulite: una metafora della crisi nella transizione italiana Tutto partì dunque quel 17 febbraio 1 9 9 2, sebbene della slavina che allora prese forma - il cui effetto sarebbe stata la sostanziale scomparsa di cinque partiti storici (ne, P S I , PLI , PRI , PSDI ) - si sarebbe avuta consapevolezza solo alcuni mesi dopo. Dovranno passare alcune settimane prima che si imponga all'attenzione della stampa il "caso Chiesa� che poi diventa il "caso tangenti" e che esploderà solo tra aprile e maggio. Il sistema di corruzione che verrà alla luce sarà chiamato "Tangentopoli" e l'indagine sarà per tutti "Mani pulite"n.

Quella doppia denominazione fu indubbiamente efficace nella "Repubblica faconda" che nel decennio di fine Novecento andava emergendo34• Un qualche cenno alla storia del binomio lessicale è forse opportuno così come alla sua "fortuna" nella rappresentazione di Tangentopoli. Se proprio volessimo dire, sembra che una prima volta l 'uso dell'espressione "Mani pulite" risalga a don Lorenzo Milani ovvero a un'esortazione a essere protagonisti del proprio tempo in funzione del bene pub­ blico : « A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca » 35• In modo più propriamente legato a un concetto di moralità politica si deve far capo al leader comunista Giorgio Amendola. Si era nel vivo degli anni Settanta, quando egli, in un'intervista concessa a Manlio Cancogni, come replica ai dubbi che, dopo le larghe vittorie elettorali ottenute nelle elezioni locali e regionali, si indirizzavano agli stessi amministratori comunisti per la corretta gestione delle istituzioni pubbliche, affermò : «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera » 36• Sulla scorta di questa intervista, seguì due anni dopo un libro giornalistico con il medesimo titolo37• Fu comunque a Sandro Pertini che si dovette un uso reiterato dell 'espressione 33· Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit., p. 7· In un'accezione ristretta, l 'indagine su Mani pulite fu quella che riguardò il "fascicolo virtuale" (n. 9S20) aperto dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano nel 1991 dal pool di magistrati guidato da Saverio Borrelli (con Antonio Di Pietro, Camillo Davigo, Gherardo Colombo, Gerardo D 'Ambrosia, e quindi Tiziana Parenti per il Hlone sulle "tangenti rosse"). 34· Cfr. R. Gualdo, M. V. Dell'Anna, La faconda Repubblica. La lingua della politica in Italia (I992-2004), Manni, Lecce 2004: un'antologia di testi dei principali leader. 3S· L. Milani, A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, Chiarelettere, Milano 2012. Una Nota editoriale sottolinea che il titolo del libro - una raccolta di testi civili - si deve a una segna­ lazione di Roberto Saviano. 36. M. Cancogni [Intervista a G. Amendola] , in "Il Mondo� 10 luglio I97S· 37· C. Castellacci, Mani pulite, SugarCo, Milano 1977. 7S

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"mani pulite". Dal maggio 19 78, nella sua carica di presidente della Repubblica, egli ebbe modo più volte di soffermarsi sul significato che a essa egli attribuiva. Una prima volta accadde in un discorso a giovani in visita al Quirinale. La democrazia si difende, si sostiene, e si rafforza con una grande tensione morale. La cor­ ruzione è nemica della democrazia. Si colpiscano i colpevoli di corruzione senza pietismi, senza solidarietà di amicizia o di partito : questa solidarietà sarebbe vera complicità ... La corruzione offende e sdegna la coscienza del cittadino onesto [ . . . ] . L'esempio deve essere dato dalla classe dirigente e in primo luogo da me che vi parlo. La politica deve essere fatta con le mani pulite38.

Tornò sul tema in altre occasioni, in chiave diretta e personale. Come quando così rispose a un intervistato re del settimanale "Famiglia Cristiana": Io sono intransigente prima di tutto verso me stesso. E dico che la politica deve essere fatta con le mani pulite. [ ... ] Cioè l'uomo politico prima di tutto deve avere come comandamento questo : fare la politica con le mani pulite. Ecco perché sono intransigente verso i corrotti e verso i disonesti39.

Per contrappunto, si dovrebbe ricordare che di tangenti come metodo di corruzione e finanziamento illegale in Italia si cominciò a parlare almeno fin dal 1974, dallo scandalo del petrolio, quando emerse che un sistema di quote garantiva altrettante risorse ai partiti di governo. Nel corso dei primi e dei secondi anni Ottanta ricorrenti sarebbero state le denunce della corruzione a opera di intellettuali (Italo Calvino, Ernesto Galli della Loggia) e giornalisti (Massimo Riva, Giampaolo Pansa) ; fino ad adombrare, già nel 1984 (con Pansa) , una vera e propria « cultura della tangente » 40• Con il giornalismo d'impegno civile fu anche il cinema d'autore a rappresentare, ancora prima che esplodesse Tangentopoli, un' Italia laddove sempre più la corruzione diveniva intrinseca alla vita politica e amministrativa. Era stato dapprima il caso del film Notte italiana ( 1987) del regista Carlo Mazzacurati e quindi di un film di suc­ cesso quale Il portaborse (1991) del regista Daniele Luchetti; nel secondo caso con protagonisti Nanni Moretti e Silvio Orlando, rispettivamente nel ruolo di un mini­ stro cinico e senza scrupoli nonché del suo, ancora un po' ingenuo, personale por­ taborse. Quelle pellicole raccontarono di una patologia che si espandeva in modo pervasivo e che nel giro di pochi anni vide dissolversi ogni illusione di riscatto civile e di rigenerazione morale. «Per certi versi - si è osservato - Il portaborse fotografa 38. S. Pertini, La politica delle mani pulite, a cura di M. Almerighi, Chiarelettere, Milano 20I2, p. XVI. 39· Intervista a "Famiglia Cristianà', 2 dicembre I98I, p. 22. 40. Si riprende da G. Crainz, Il background, in L Moscati ( a cura di ) , Il portaborse vent 'anni dopo, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2ou, pp. Is-8.

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"mani pulite". Dal maggio 19 78, nella sua carica di presidente della Repubblica, egli ebbe modo più volte di soffermarsi sul significato che a essa egli attribuiva. Una prima volta accadde in un discorso a giovani in visita al Quirinale. La democrazia si difende, si sostiene, e si rafforza con una grande tensione morale. La cor­ ruzione è nemica della democrazia. Si colpiscano i colpevoli di corruzione senza pietismi, senza solidarietà di amicizia o di partito : questa solidarietà sarebbe vera complicità ... La corruzione offende e sdegna la coscienza del cittadino onesto [ . . . ] . L'esempio deve essere dato dalla classe dirigente e in primo luogo da me che vi parlo. La politica deve essere fatta con le mani pulite38.

Tornò sul tema in altre occasioni, in chiave diretta e personale. Come quando così rispose a un intervistato re del settimanale "Famiglia Cristiana": Io sono intransigente prima di tutto verso me stesso. E dico che la politica deve essere fatta con le mani pulite. [ ... ] Cioè l'uomo politico prima di tutto deve avere come comandamento questo : fare la politica con le mani pulite. Ecco perché sono intransigente verso i corrotti e verso i disonesti39.

Per contrappunto, si dovrebbe ricordare che di tangenti come metodo di corruzione e finanziamento illegale in Italia si cominciò a parlare almeno fin dal 1974, dallo scandalo del petrolio, quando emerse che un sistema di quote garantiva altrettante risorse ai partiti di governo. Nel corso dei primi e dei secondi anni Ottanta ricorrenti sarebbero state le denunce della corruzione a opera di intellettuali (Italo Calvino, Ernesto Galli della Loggia) e giornalisti (Massimo Riva, Giampaolo Pansa) ; fino ad adombrare, già nel 1984 (con Pansa) , una vera e propria « cultura della tangente » 40• Con il giornalismo d'impegno civile fu anche il cinema d'autore a rappresentare, ancora prima che esplodesse Tangentopoli, un' Italia laddove sempre più la corruzione diveniva intrinseca alla vita politica e amministrativa. Era stato dapprima il caso del film Notte italiana ( 1987) del regista Carlo Mazzacurati e quindi di un film di suc­ cesso quale Il portaborse (1991) del regista Daniele Luchetti; nel secondo caso con protagonisti Nanni Moretti e Silvio Orlando, rispettivamente nel ruolo di un mini­ stro cinico e senza scrupoli nonché del suo, ancora un po' ingenuo, personale por­ taborse. Quelle pellicole raccontarono di una patologia che si espandeva in modo pervasivo e che nel giro di pochi anni vide dissolversi ogni illusione di riscatto civile e di rigenerazione morale. «Per certi versi - si è osservato - Il portaborse fotografa 38. S. Pertini, La politica delle mani pulite, a cura di M. Almerighi, Chiarelettere, Milano 20I2, p. XVI. 39· Intervista a "Famiglia Cristianà', 2 dicembre I98I, p. 22. 40. Si riprende da G. Crainz, Il background, in L Moscati ( a cura di ) , Il portaborse vent 'anni dopo, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2ou, pp. Is-8.

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Basti pensare dapprima alla trasmissione Un giorno in pretura, che su RAI3 prese avvio nel gennaio 19 88, condotta sin dall'inizio da Roberta Petrelluzzi. Fu proprio in occasione dell 'emergere di Tangentopoli che il programma andò privilegiando l'approfondimento giornalistico, seguendo le sedute giudiziarie. A quelle su perso­ naggi sconosciuti si aggiunsero le puntate dedicate a Mani pulite, a partire dal 2 2 febbraio 1993, quando imputato per tangenti era Armanini, un assessore socialista milanese, interrogato da Di Pietro. E allora, si è osservato, che « nasce il dibattito sulla TV come "processo mediatico", persino come pubblica gogna, sulla differenza tra l'aula del tribunale e la sua riproduzione televisiva » 44• Eclatanti furono le puntate televisive dedicate al processo che vide protagonista Sergio Cusani, manager del gruppo Ferruzzi- Gardini. Oggetto dell 'imputazione erano le tangenti ENIMONT, la cosiddetta "madre di tutte le tangenti", pari a circa 150 miliardi di lire, elargiti ai partiti di governo. Il processo si svolse presso il tribunale di Milano con rito abbre­ viato, anticipando i più noti processi dell 'epoca di Tangentopoli45• Sempre con Di Pietro nel ruolo di accusatore di Cusani, si ebbe la convocazione e la messa in stato di accusa di diversi tra i principali leader politici del tempo ( come testimoni o impu­ tati di reato connesso ) : lo stesso giorno, il 17 dicembre 1993, furono interrogati il leader socialista Bettino Craxi ( spavaldo e sfrontato ) e il leader democristiano Arnaldo Forlani ( smarrito e con la bava alla bocca) . E di seguito il capo corrente D C Paolo Cirino Pomicino, il leader repubblicano di stampo anglosassone Giorgio La Malfa, il sanguigno capopopolo leghista Umberto Bossi alle prese con le luci della ribalta46• Di Pietro era al massimo della popolarità. Del resto, egli non avrebbe man­ cato, già il 6 dicembre 1994, di ribadire la sua vocazione ad assumere ruoli di attore protagonista, uscendo dalla magistratura e cominciando a calcare il palcoscenico politico : il tutto, attraverso un gesto spettacolare, sfilandosi la toga per l'ultima volta davanti alle telecamere, nel corso di una diretta televisiva47• Ci si interrogò se egli fosse di sinistra o di destra ovvero se fosse andato oltre i tradizionali sensi di appar­ tenenza della Prima Repubblica, secondo una linea di ambiguità in fondo coltivata ad arte dallo stesso Di Pietro48• Si assistette al prolungamento del processo dall'aula di tribunale al piccolo schermo, con le trasformazioni insieme del rituale e del linguaggio processuale. «Ci si accorge '

44· Grasso, Il processo alla politica in tv diventa il racconto di un Paese, cit., p. 79· 45· Per un' indagine di natura discorsivo-mediale, cfr. P. P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna I997· 46. Cfr. anche M. Zornetta, Il salotto della Lega, in Ravveduto ( a cura di ) , Novantadue, cit., pp. 128-38. 47· Per l'andamento degli interrogatori, cfr. G. A. Stella, I politici dall'impunita al linciaggio. Una stagione senza vie di mezzo, in AA.VV., I992-2002. Mani pulite, cit., pp. 3 5-43. 48. Cfr. A. Di Pietro, Memoria. Gli intrighi e i veleni contro "Mani pulite", Kaos, Milano I999; Id., Intervista su tangentopoli, a cura di G. Valentini, Laterza, Roma-Bari 200I. Cfr. anche G. Barbacetto, A. Di Pietro, Il guastafeste. La storia, le idee, le battaglie di un ex magistrato entrato in politica senza chiedere permesso, Ponte alle Grazie, Firenze 2008.

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che un processo per esser efficace in video deve diventare un racconto : le idee astratte non funzionano, funzionano invece i personaggi, le loro azioni, i loro percorsi passio­ nali » . Con una conseguenza tanto importante quanto allora poco percepita: « vinto dall'emozione, il pubblico fa presto a dimenticare che in tribunale funzionano certe leggi e in video altre, di tipo linguistico, che nulla hanno a che vedere con il diritto »49• Chi si avvalse in modo diffuso delle fonti audiovisive di Tangentopoli fu il pro­ gramma Blob, sempre su RAI3. Ideato nel 1989 per il nuovo palinsesto della rete diretta da Angelo Guglielmi, con la regia di Enrico Ghezzi e Marco Giusti, ogni sera Blob affastellava in video spezzoni e brani che costituivano il quotidiano racconto di Mani pulite: non si faceva della semplice informazione, ma si componevano esempi creativi di una comunicazione destrutturata per quanto efficace nel sottolineare situazioni, personaggi, debolezze umane, irrisione del malcostume civile e politico. Insomma, come si è osservato, nel 1992 Blob « fungeva da perfetto TG non conforme, per lo spettatore che preferiva Ghezzi al TG I delle venti » 50• Tra le trasmissioni giornalistiche d ' impatto occorre dire soprattutto di Samar­ canda, un talk show di RAI 3 condotto dal giornalista Michele Santoro tra il 1987 e il 1992. Prevedendo un collegamento con gruppi di ascolto ( e di intervento ) , il pro­ gramma rappresentò la prima vera piazza mediatica; laddove, nei mesi di Tangento­ poli, si ponevano sotto accusa i politici indagati, attraverso la costruzione di una sorta di processi televisivi51• Il programma avviò un genere di informazione e di cultura insieme, con milioni di telespettatori immessi nel corto circuito psicologico di sedute accusatorie che anticipavano sul piano mediatico i giudizi dei tribunali. Se la trasmis­ sione aveva già seguito eventi di forte impatto, come la caduta del Muro di Berlino o la dissoluzione del PCI, nel vivo della mobilitazione dei cittadini a sostegno di Mani pulite essa raggiunse il massimo degli ascolti ( oltre 4 milioni e mezzo di spet­ tatori52 ) e degli indici di gradimento ( 19,85% di share ) . Fino a quando, dopo una trasmissione "scandalosa" da Palermo all'indomani dell 'assassinio mafioso del demo­ cristiano Salvo Lima53, Samarcanda non fu chiusa dalla dirigenza RAI. 49· Grasso, Il processo alla politica in tv diventa il racconto di un Paese, cit., pp. 79-80. Desumendo articoli dal "Corriere della Serà', per una prima correlazione tra l'auto rappresentazione del magistrato più famoso di Tangentopoli, l'impatto della sua azione investigativa nella società italiana e infine le attese suscitate dalla sua entrata in politica, cfr.: E. Biagi, Di Pietro: « Vì racconto le mie Mani pulite. E ora vorrei una vita normale» , 8 luglio I992, ivi, pp. I03-7; G. Anselmi, Craxi e Di Pietro con chi sta il paese, 28 agosto I992, ivi, pp. I II-3; E. Biagi, Se Di Pietro e come la Madonna, 23 febbraio I99S· ivi, pp. 2I9-2I. so. Checca, On air e on fine. Le metamorfosi del racconto, cit., p. I26. S I. Oltre a Gozzini, La mutazione individualista, cit., cfr. G. Crapis, Televisione e politica negli anni Novanta. Cronaca e storia (1990-2ooo) , Mel temi, Roma 2006. s2. li picco di ascolti di una "celepiazza" si ebbe il 26 settembre I99I, con la diretta sulle reti unificate di RAI3 e Canales, in onore dell ' imprenditore Libero Grassi, assassinato dalla mafia, con Maurizio Costanzo al Teatro Parioli di Roma e Santoro al Teatro Biondo di Palermo. Si parlò di I I milioni di italiani davanti al video: Damilano, Eutanasia di un potere, cit., pp. I46-7. S3 · « Siete contenti che hanno ammazzato Lima? » , fu l 'esordio di Santoro rivolgendosi alla "piazza virtuale" palermitana, mettendo in scena quel conflitto tra siciliani onesti, politici collusi e criminalità 79

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L'antagonista di San toro fu Gianfranco Funari, un personaggio singolare e senza potersi dire che egli fosse un giornalista di formazione. Dopo aver condotto su RAI 2 la trasmissione Mezzogiorno ed esserne stato allontanato per aver invitato un politico sgradito alla dirigenza RAI, tra il 1991 e il 1992 riprese su ltalia1, con un programma intitolato Mezzogiorno italiano. Egli arringava il pubblico, mettendo alla sbarra il leader di turno attraverso telefonate da casa che mettevano il malcapitato nella neces­ sità di cavarsela davanti a domande spesso imbarazzanti e irrispettose: una sorta di pellegrinaggio penitenziale con espiazione, per risorgere e riconquistare il consenso della "gente"54• Il nuovo programma di Funari, Conto alla rovescia, sempre su ltalia1, sovrastò le tradizionali tribune elettorali; divenne un talk show assai popolare, con tre milioni di media di spettatori. Non a caso nel periodo di Mani pulite i programmi di Funari furono oggetto di aspre polemiche; fu allontanato dalle reti Fininvest dallo stesso Berlusconi, per poi ritornarvi alla fine del 1993, a ridosso della sua "discesa in campo". Sarebbe riuscito a fare uno scoop, intervistando Craxi in esilio ( o latitante, a seconda dei punti di vista) a Hammamet, in Tunisia. Dal gennaio 1992 inoltre, erano cominciate le programmazioni dei telegiornali delle reti Fininvest. Neanche un anno dopo, il TG S diretto dal giovane Enrico Men­ tana avrebbe superato in ascolti il mitico giornale del TG 1. Le ultime novità su Mani pulite, urlate ed enfatizzate, con collegamenti dal palazzo di Giustizia milanese ( quando non davanti al portone del carcere di San Vittore ) , furono per mesi e mesi in testa alla scaletta delle notizie, coprendo quasi il 38% della messa in onda. Nel disputarsi i favori del pubblico proprio sul terreno della corruzione e dei quotidiani provvedimenti presi dal pool di Mani pulite, diverso fu però lo stile di Mentana rispetto a quello dei suoi principali competitori televisivi. Se Santoro incarna la TV che stringe d'assedio il Palazzo e Funari è il tribuna del popolo, Mentana è il timoniere del TG della Gente. [ ] E Mani Pulite è la benzina del motore del suo giornale : nel mese di febbraio-marzo 1 9 9 3 , politicamente il più devastante dell' inchiesta, il TG di Mentana le dedica 6 1 notizie contro le 27 del T G I, 6 1 gli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro le 2 1 del T G RAI, 29 gli arresti contro le 1 2 del concorrente55• . . .

A proposito di Mani pulite, furono anche altri i conduttori televisivi emersi in quegli anni, con accenti diversi da quelli ricordati. Come Giuliano Ferrara, un trascorso di ex comunista e quindi di europarlamentare con il PSI, passato anch'egli dalle reti RAI a quelle Fininvest con un crescente successo di audience. Dopo il programma Radio Londra su Canales, nel momento in cui emerse Tangentopoli egli conduceva L'istrutmafìosa che nella realtà era abitualmente dissimulato; cfr. Damilano, Eutanasia di un potere, cit., P· I 49· 54· Cfr. G. Funari, Il potere in mutande. Il dito nell 'o cchio della tv italiana, Rizzoli, MUano 2009. SS· DamUano, Eutanasia di un potere, cit., p. IS6. So

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toria su ltalia1, un programma di grande ascolto in cui fioccavano le critiche all'azione invasiva e ai metodi di indagine del pool dei magistrati milanesi. Ferrara argomentava polemicamente allora (in contesti scenici e con linguaggi urlati che fecero parlare di "Tv spazzaturà') e con altri avrebbe nel tempo ribadito56, che i leader istituzionali messi alla sbarra (in particolare dei partiti di governo), lo furono non tanto per effettive responsabilità penali personali, ma in quanto oggetto di una perseguita liquidazione, tramite la via giudiziaria, di natura insieme politica e civile57• Avrebbe trovato uno spazio ricorrente la denuncia dei costi in vite umane che Tangentopoli comunque ebbe; in particolare come effetto, psicologico ed esistenziale, di un uso reiterato e spropor­ zionato della carcerazione preventiva al fine di ottenere veloci e piene confessioni. Il suicidio di inquisiti o condannati assunse una valenza politica, a volte deliberatamente tale. « Quando la parola è flebile, non resta che il gesto » , scrisse il 2 settembre 1992, in modo emblematico, il deputato socialista Sergio Moroni a Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera58• Senza dimenticare, come osservò già Montanelli, che quei gesti si scontrarono allora con una temperie pubblica di tutt'altro segno. Ad ogni suicidio seguiva un rigurgito di garantismo, e un'ondata di deprecazioni, per i metodi di Mani pulite. [ . . . ] il presidente Scalfaro richiamò tutti - l'ammonimento era indirizzato con ogni evidenza alla magistratura - al dovere di rispettare le procedure e i diritti della persona. Quell'ammonimento fu forse tenuto in conto dai giudici. L'opinione pubblica pensava a tutt 'altro modo. Non la turbavano più di tanto né i suicidi, né la galera, né le manette. Voleva vendetta59•

Su un registro di tutt'altro segno si muoveva invece Gad Lerner, iniziale conduttore su RAI 3 del talk show Milano, Italia, andato in onda per circa due anni a partire dal 15 giugno 1992. Protagoniste non erano la piazza e tantomeno la gente, ma l 'indagine critica sui dilemmi del paese (in primo luogo la rivolta del Nord e il fenomeno leghista) attraverso il punto di osservazione di quella che era diventata la città simbolo di Tan­ gentopoli. Il programma aveva una cadenza quotidiana, con la cronaca che si fondeva con l'indagine e il commento. Si svolgeva all'interno di un teatro (prima il Teatro Litta, poi l' Umanitaria). Il palco era sempre gremito dei protagonisti del conflitto di cui si dava conto, con voci che si alternavano; come nel caso dell'esordio del programma, dedicato al tema L'Italia salvata dai magistrati?, presente Di Pietro e però con chi apertamente diffidava di una tale ipotesi, volendo ricondurre i magistrati al loro ruolo, interno alle procure e a tribunali, e non in studi televisivi e convegni politici60• 56. Cfr. G. Ferrara, Prefazione a Altissimo, Pedullà, L 'inganno di Tangentopoli, cit., pp. 7-8. 57· A proposito della D C, cfr. C. Giovanardi, Storie di straordinaria ingiustizia, Koiné edizioni, Milano 1997. 58. Damilano, Eutanasia di un potere, cit., pp. 1 8 1-3. 59· Montanelli, Cervi, Storia d'Italia. L 'Italia degli anni di fango, cit., p. 261. 6o. Milano Italia, coro di applausi per Di Pietro, in "Corriere della Sera", 16 giugno 1992. E ancora Damilano, Eutanasia di un potere, cit., pp. 1 58-9. 81

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Nella crisi dei partiti tradizionali e mentre la nuova televisione stava vivendo una fase di sperimentazione creativa - una declinazione tutta italiana dell' info­ tainment, quasi un laboratorio di "tele-democrazia" -, proprio con Tangentopoli e Mani pulite il piccolo schermo dimostrò tutta la sua potenza nel rappresentare il conflitto sociopolitico altrimenti privo di luoghi di manifestazione nella società. La televisione ebbe un ruolo importante nel dissacrare i vecchi leader e nel legittimare invece le figure emergenti; fossero giornalisti, conduttori, politici della nuova gene­ razione ( Bossi, Fini, Orlando, Segni, ma anche Francesco Rutelli, Antonio Bassolino ecc. ) . Nella consapevolezza che sempre più, anche attraverso le vicende di Mani pulite, il vero terreno del conflitto e della conquista del consenso erano diventati quello dell' immaginario e della rappresentazione iconografica. Basti pensare alla fortuna della satira su carta stampata, in primo luogo il settimanale "Cuore"; creato nel gennaio 1989 da Michele Serra, proprio nel 1992 esso ebbe il massimo di popo­ larità, quando i lettori salirono a quota 16o.o oo61 prima che, mentre ancora infuriava la bufera di Tangentopoli, al felice mix tra libera informazione e politica subentrasse l' imperativo - in primo luogo nelle reti Fininvest - di mettere la televisione e i giornali di riferimento al servizio di un progetto politico in gestazione, la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi.

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L'eredità, la dissimulazione Tra il 1992 e il 1994, nonostante Mani pulite, in quello che fu definito il "biennio grigio", pur mancando un rinnovamento delle istituzioni, si ebbe dunque il crollo dei partiti storici. Fu però un crollo senza rifondazione. Nel breve volgere di tempo, furono reiterate erogazioni pubbliche a vantaggio delle attività elettorali, editoriali e organizzative svolte dai partiti. Tuttavia, a esse non corrispose, come avveniva gene­ ralmente laddove le istituzioni concorrono al sostegno dei costi della politica, un effettivo adeguamento dei partiti alle regole del controllo democratico e della traspa­ renza. Il sistema partitico e il sistema politico rimasero sospesi tra un prima e un dopo, senza una rigenerazione della partecipazione e senza la riforma dell'assetto istituzionale in senso compiutamente maggioritario. Non furono le istituzioni a essere modificate, bensì i protagonisti della classe politica a mutare gerarchia, attraverso un loro riposizionamento in un contesto laddove prevaleva la nuova centralità dell'opi­ nione pubblica. Fu, quella del 1992, una rivoluzione senza presa del Palazzo d ' Inverno, nonché senza partecipazione popolare e senza reali conflitti sociali. Si trattò invece, come si

6 I. Cfr. anche Stella, I politici dall'impunita al linciaggio, cit., pp. 3 I-2.

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è visto attraverso alcuni richiami esemplari, di un conflitto giocato essenzialmente sul piano simbolico e per la conquista dell'immaginario pubblico, guardando alle perdute sicurezze del passato. Come è stato ben sintetizzato : in questo silenzio, in questa mancanza di partecipazione popolare, il 1 9 9 2 si rivela genuina­ mente per quello che è: una lunga, drammatica coda degli anni Ottanta più che l'alba di una stagione nuova. Non si scende in piazza: al massimo, tra qualche mese [con Berlusconi, N.d.A.], si scenderà in campo. Oppure si va in TV. Ma lì, quasi sempre, non c 'è un popolo che aspetta di essere mobilitato e che ha preso in mano il suo destino. C 'è una curva pas. s1va. [ . . . ] c "e la gente 6t .

È proprio attraverso la reiterata metafora delle mani - di volta in volta con un'ag­

gettivazione intesa a fotografare una tappa evolutiva - che una recente ricostruzione della storia di Tangentopoli - e di quanto è seguito nei vent'anni successivi - ha puntato per disegnare la trama narrativa63• Ecco allora susseguirsi fasi e momenti di una storia che si faceva memoria pubblica: dalle "mani sporche" (1992, di corruttori e corrotti ) alle "mani alzate" ( 1993, di politici e imprenditori ) , dalle "mani legate" (1994, il freno ai magistrati che indagavano ) alle "mani basse" ( 1995, per una giustizia che non invadesse lo spazio della politica) , infine dalle "mani lunghe" ( 1996, con al centro dell ' indagine i magistrati stessi ) alle "mani libere" ( 1997-2000, la pervasiva ricerca di una dissimulazione della scomoda eredità di Tangentopoli ) 64• Andò intanto modificandosi il senso di rivendicata moralizzazione della politica che aveva accompagnato le indagini sulla Tangentopoli italiana tra 1992 e 1993, in forza di un trasversale desiderio volto ad andare oltre Mani pulite : tra frequenti prescrizioni e cavilli procedurali, modifiche legislative ad hoc ( le leggi sui reati finan­ ziari e sul falso in bilancio ) e sollecite riabilitazioni di indagati e condannati. Pierca­ millo Davigo, uno dei magistrati del pool milanese, in una sconfortata riflessione sulla ricomposizione del sistema politico dopo Tangentopoli, avrebbe parlato di un perseguito obiettivo di ritorno al passato. Da allora [ ... ] è stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di far precipitare l' Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro molti paesi africani e asiatici 65• 62. Damilano, Eutanasia di un potere, cit., p. 151. 63. Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit. 64. Per una riflessione in tal senso, a opera del capo del pool milanese, cfr. F. S. Borrelli, Corruzione e giustizia. Mani pulite nelle parole del procuratore Borrelli, a cura di C. De Cesare, Kaos, Milano 1999· 6s. P. Davigo, Per non dimenticare, in Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani pulite, cit., p. XVI. Più ampiamente, cfr. P. Davigo, C. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale, controllo penale, Laterza, Roma-Bari 2007.

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È quanto ha voluto sottolineare anche il giornalista Gian Antonio Stella, anch'egli

facendo riferimento alle classifiche internazionali circa la percezione della corruzione nonché impegnato in anni recenti in indagini sociali e di costume sulla «casta » e sulla degenerazione della classe politica. Quali sono allora gli effetti e i dilemmi di una diffusa rimozione di Tangentopoli ? Il risultato di questa rimozione della stagione di Mani pulite, come si fosse trattato di un accidente della storia fatto tutto di ombre, complotti, deviazioni, ingiustizie, congiure gior­ nalistiche, assoluzioni pretestuose dei comunisti e dei loro eredi [ .. . ], è purtroppo sotto gli occhi di tutti. [ . . . ] E ti chiedi: possibile che non ci sia una via di mezzo tra il linciaggio e il "tana libera tutti" di questi ultimi anni ?66•

66. Stella, I politici dall'impunita al linciaggio, cit., pp. 48-9.

Governo e Parlamento dopo il 1 9 94 di Andrea Manzella

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Patto costituzionale e patto di proporzionalità L'intima struttura della Costituzione italiana del 1948 coincise con la legge elettorale proporzionale che l 'accompagnò. Perché questo connubio ? Per due connesse ragioni: una di storia parlamentare, l'altra di storia politica. La storia parlamentare1 diceva infatti che la conquista della legge proporzionale, nel 1919, aveva rappresentato per l ' Italia un'autentica rivoluzione, nel senso di rottura del precedente ordine politico-costituzionale. L'abbandono della legge elettorale per collegi uninominali, con la distruzione del "notabilato", coincideva con il riconosci­ mento del protagonismo istituzionale dei partiti di massa, con le conseguenti con­ nessioni tra partiti e gruppi parlamentari e il lavoro parlamentare per commissioni 2 • Tutto questo acquis istituzionale dei partiti di massa non poteva essere messo in discussione dal postfascismo. E non lo fu minimamente. Il segno di questo ritorno al prefascismo - "com'era, dov'era" - si ebbe con il recupero, nel 1949, dei regola­ menti parlamentari del 19 223• Con il risultato un po ' paradossale che alla nuova Costituzione del 1948 corrispondevano regolamenti delle Camere immutati, con tutti i loro naturali legami con la legge elettorale delle origini. Ulteriore riprova che il patto di proporzionalità tra i partiti era tutt 'uno con il loro patto costituzionale. La storia politica dice che l'antifascismo dei grandi partiti ebbe un risvolto poli­ tico nel metodo consensuale che li unì. Questa impostazione consensuale trovò la sua logica proiezione in un debole paradigma di garanzie costituzionali. Queste I. Su tutti, P. Ungari, Profilo storico del diritto parlamentare in Italia, Carucci, Roma 197 1 ; cfr. anche G. Perticone, Il regime parlamentare nella storia dello Statuto Albertino, Edizioni dell 'Ateneo, Roma 1960. 2. Cfr. C. Fasone, Sistemi di Commissioni parlamentari eforme di Governo, C EDAM, Padova 2012. 3· R. Astraldi, F. Cosentino, I nuovi regolamenti del Parlamento italiano, Colombo, Roma 1950, nonché N. Lupo, La continuita del diritto parlamentare. La riadozione del regolamento prefascista nella Camera dei deputati, in U. De Siervo, S. Guerrieri, A. Varsori, La prima legislatura repubblicana. Continuita e discontinuita nell'azione delle istituzioni, vol. II, Carocci, Roma 2004, pp. 37-52. Per il periodo fascista, F. Perfetti, La Camera dei Fasci e delle corporazioni, Bonacci, Roma 1991. ss

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furono concepite più come momenti di accordo necessario tra i partiti parlamentari che non come vere e proprie difese istituzionali contro un'eventuale tirannia della maggioranza legale. Contro questa ipotesi, il retropensiero era che avrebbe comunque funzionato la garanzia proporzionale sottostante la Costituzione. L'essenzialità di tale retroterra si percepì nell'aspra battaglia contro la legge elet­ torale del 19534• La "legge truffà' - come venne chiamata - fu combattuta essenzial­ mente perché violazione di quel patto costituzionale. E, in nome del rispetto di quell' intesa di fondo, si sviluppò nella legislazione 1953-58 la campagna per l'attua­ zione della Costituzione: in particolare, per l'entrata in funzione della Corte costi­ tuzionale. Neppure la frontiera della Guerra fredda che interessava l' Italia geografi­ camente e politicamente (addirittura con apparati segreti paramilitari del Partito comunista, da un lato, e degli "atlantisti" dell 'organizzazione Gladio, dall 'altro) ruppe quell'intesa di fondo. Un' intesa che si resse a ben vedere sulla grande compenetra­ zione degli insediamenti sociali dei due grandi partiti di massa. Il Partito comunista e la Democrazia cristiana non riuscirono veramente a rap­ presentare identità sociali distinte. L' interclassismo dell'uno e dell'altro partito conducono a pratiche e teorizzazioni di mutuo riconoscimento, nonostante la dura contrapposizione ideologica. La Repubblica dei partiti5 si fa così istituzione politica: sovrapposta alle istituzioni formali scritte nella Costituzione. Queste non solo con­ tinuano a vivere, ma sono esaltate come sbocco e simbolo della Resistenza al fascismo. Ma la realtà è che si instaura un regime di "occupazione" dello Stato istituzionale da parte dei partiti. Uno dei tratti caratteristici della Repubblica dei partiti fu quindi una simbiosi parassitaria rispetto alle strutture dello Stato. Strutture che erano col­ legate a una vastissima zona di economia mista: eredità anche questa, continuata e accresciuta, del regime concluso (l'IRI è del 1933). Le partecipazioni statali - fatte di grandi holding pubbliche e di una miriade di imprese a costellazione - diventano anzi la principale fonte di finanziamento pubblico per i partiti politici. La politica per enti - la "lottizzazione", come con famoso neologismo si disse - condusse dalla procedura consensuale delle origini a una specie di sotterranea forma di convivenza unica partitica, quasi a perduranza della forma del partito unico fascista, tenuta insieme dall' intreccio della tipologia di finanziamenti occulti. Una struttura che non si eliminò ma si mantenne parallela anche quando, dopo i primi grandi scandali nazionali, fu varata, nel 1974, la legge per il finanziamento pubblico dei partiti6• 4· Sul dibattito parlamentare che condusse all 'approvazione della legge 3 1 marzo 1953, n. 148, cfr. D. Possanzini, L'elaborazione della cosiddetta «legge truffa» e le elezioni del 1953, in "Quaderni dell 'Os­ servatorio Elettorale", aprile 2002, pp. 49 ss., spec. p. 6 8, nonché, diffusamente, G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, il Mulino, Bologna 2003, spec. pp. 6 9 ss. S· P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), il Mulino, Bologna 1997. 6. Cfr. A. Manzella, La casa comune partitocratica, in "MicroMega� 1990, s. e Id., Il crollo della casa comune partitocratica, ivi, 1992, 4· Inoltre cfr. F. Lanchester (a cura di), Finanziamento della poli­ tica e corruzione, Giuffrè, Milano 2000. 86

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Questo radicamento di pratiche antigiuridiche doveva condurre a un drammatico epilogo - logico e ingiusto, nello stesso tempo - della Repubblica dei partiti. Logico, perché il rivelamento pubblico della rete di "normali" abusi a danno della finanza pub­ blica allargata provocò la reazione popolare espressa in referendum che colpirono il sistema dei partiti nell'unico suo punto veramente vitale: la legge elettorale. Il colpo al sistema - che sulla proporzionale era nato, vissuto e degenerato - non poteva non essere mortale. Eppure, epilogo ingiusto per tre fondamentali motivi. Innanzitutto, perché la Repubblica dei partiti si era espressa in una molecolare pedagogia politica di massa che (almeno formalmente) rese incontestabile la legittimazione dello Stato repubblicano fondata sul primato della Costituzione e sul mito della Resistenza. Un risultato che può dirsi acquisito : nonostante reiterati suggestivi attacchi revisionistici. In secondo luogo, perché la Repubblica dei partiti, proprio per il suo legame consensuale di fondo ( illu­ minato, in passaggi cruciali, dagli indirizzi suggeriti dai piccoli, ma intellettualmente assai agguerriti, partiti laici di centro) , aveva permesso, specie nella sua forza iniziale propulsiva, politiche pubbliche con risultati di spettacolare avanzamento sociale ed economico. In terzo luogo, perché all'eclissi della Repubblica dei partiti aveva concorso la devianza terroristica con l'uccisione di Aldo Moro, lo statista che era riuscito a far emergere alla politica di governo l'originario compromesso costituzionale tra cattolici e comunisti. Era un disegno di continuità che, dopo non essere stato estraneo alla sconnessione tra comunisti italiani e ortodossia parasovietica, guardava a un futuro costituzionale di democrazia compiuta per l' Italia7• Vi fu un periodo di transizione vera, tra le ultime elezioni politiche proporzionali del 1992 e le prime, maggioritarie, del 1994: in cui malgrado tutto - o forse a causa di tutto - quel disegno di democrazia costitu­ zionale sembrò a portata di mano. Il destino fu realmente in bilico durante i governi Amato e Ciampi ( 1992-94 ) quando quei governi cercarono di uscire con un percorso di allineamento europeo dal vicolo cieco italiano provocato dalla tempesta sui partiti8• Da questo punto di vista, il faticoso processo di adeguamento ai parametri del Trattato di Maastricht e l'ancora più difficile destrutturazione dello Stato imprendi­ tore costituirono non solo la vera frattura - rispetto all'approvvigionamento indiscri­ minato dei partiti alle casse, comunque, erariali - ma, insieme, e soprattutto, l' ingresso in una dimensione costituzionale nuova. Da allora, infatti, il vincolo europeo (che sarà formalmente costituzionalizzato nel 2001 e poi nel 20 12, con gli artt. 8 1, 97, 117 e 119 Cost.9) è entrato nel ristretto nucleo dei principi irrinunciabili della politica italiana, nell 'alternanza che allora cominciava. 7· M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2ou; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna 2009. 8. C. A. Ciampi, Da Livorno al Quirinale, il Mulino, Bologna 2010. 9· Sui contenuti della riforma costituzionale operata con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, cfr. i contributi raccolti in V. Lippolis et al. (a cura di), Costituzione e pareggio di bilancio, numero monografìco di "Il Filangieri", Quaderno 2ou.

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Ma la Repubblica "maggioritaria" che iniziò nel 1994 si ritrovò, nella sostanza, senza partiti, senza il legame di fondo che li aveva uniti, senza il disegno evolutivo che era stato spezzato dell'assassinio politico. La Costituzione ha perso il suo collante, la Repubblica diviene invertebrata. La politica perde lo spazio pubblico di dibattito e di progettazione che, bene o male, la Repubblica dei partiti aveva assicurato allo sviluppo del sistema. Si aggiunge a tutto ciò l'oggettiva difficoltà, non solo italiana, di ristabilire un vero rapporto di rappresentanza politica rispetto a una società dive­ nuta proteica: con lavoratori isolati di massa, con lavori indefinibili nelle vecchie classificazioni e precarizzati nella durata10• E in questo vuoto che trovano rapidi consensi movimenti personalistici uniti da miti che parvero apolitici. Persona piu mito è l'asse su cui ruoterà la vicenda italiana dal 1994. E un asse che raccoglie un consenso di tipo nuovo, ben diverso da quello di appartenenza ideologica-classista dei primi cinquant'anni della Repubblica. Un consenso fatto di adesione al mito individualista del selfmade manu; di migliore comprensione di una comunicazione politica semplificata nel linguaggio e nei messaggi; di ribellione fiscale; di patriottismi ed egoismi territoriali. Un impasto a presa rapida, ma rivelatosi, anche nelle parentesi di cedimento, molto più sostanzioso e duraturo dei cartelli elettorali che, nel 1996 e nel 2006, portarono a effimere e contrastate vittorie le coalizioni di centro-sinistra guidate da Romano Pro di 12• Le conseguenze istituzionali sono state di grande rilievo. Perché - l'abbiamo visto - nella "loro" Repubblica i partiti occupavano le istituzioni, ma anche le soste­ nevano. La garanzia proporzionale non era solo la chiave di lettura del compromesso permanente tra le forze politiche. Era anche la chiave di tenuta di tutto il debole sistema di garanzie costituzionali. Ora !"'occupazione" avviene a opera di forze poli­ tiche che non richiamano il discorso delle origini ma rivendicano comunque un' in­ vestitura popolare assoluta. La legge maggioritaria ( aggravata ancor più da liste bloccate e da un premio sproporzionato di seggi per la "maggiore minoranza" ) taglia il Parlamento dall'originaria negoziazione fiduciaria. Le garanzie della Costituzione ( dai quorum parlamentari alla Corte costituzionale al presidente della Repubblica alla magistratura agli stessi regolamenti parlamentari ) sono così collocate, davanti all'opinione pubblica, nel campo delle "opposizioni" di varia natura che impediscono di governare. Non più, dunque, specificazioni della Grundnorm proporzionale, ma procedure estranee e conflittuali rispetto alla Grundnorm maggioritaria. Esse sono assimilate agli impacci burocratici e alle lentezze della giustizia che intralciano il '

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zo. M. Olivetti, Appunti sulla trasformazione della forma di governo italiana, in "li Filangieri", Quaderno 2006, pp. 105 ss. descrive appunto « il rapporto fra l' invarianza del dato costituzionale e le variazioni che hanno interessato due fattori decisivi per il funzionamento della forma di governo: il sistema elettorale e il sistema dei partiti». I I. L'evoluzione è ben descritta da M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari 2007. 12. G. Crainz, Il Paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012; G. Pre­ terossi, La politica negata, Laterza, Roma-Bari 20I I. 88

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lavoro del comune cittadino. Si apre così - ed è ancora in corso - una questione costituzionale che sembra ripetere i termini di una querelle nata sin dai tempi della Costi tue n te. Ma una ripetizione diventata impropria perché il contesto ora è semplicemente capovolto. Nell'Assemblea costituente si ebbe ben presente la necessità di tenere l' istituto del governo al riparo dalle degenerazioni del parlamentarismo. Questa necessità si andò via via soddisfacendo, migliorando con i regolamenti delle Camere la condizione del governo "in" Parlamento. Punti di svolta: la sostanziale abolizione del voto segreto e il peso della maggioranza governativa nella programmazione dei lavori parlamentari13• A questo si aggiunse la convalida della consuetudine della "que­ stione di fiducia" in funzione antiostruzionistica e la pratica di ricorso a decreti legge (che solo a partire dagli anni Novanta fu frenato dalla Corte costituzionale) . Al rafforzamento dell'istituzione governo contribuiranno anche nuove discipline sem­ plificatrici delle procedure di finanza pubblica (con un'assai efficace sessione parla­ mentare di bilancio14) e razionalizzazioni della potestà normativa del governo, rego­ lata e ampliata da una nuova legge sulla presidenza del Consiglio. Anche l 'invenzione della "legge comunitarià' (nel 1989) - un veicolo di deleghe legislative per l 'attuazione delle direttive dell' Unione Europea e di esecuzione dei suoi regolamenti - contribuì al rafforzamento della posizione istituzionale del governo, oltre a creare una sensibilità europea del Parlamento, via via affinatasi sino al pene­ trante controllo di sussidiarietà sugli atti normativi dell' Unione. Questa sequela di interventi normativi a sostegno del profilo istituzionale del governo faceva sì che, al termine della fase proporzionale della Repubblica, il rap­ porto governo-Parlamento risultasse al riparo da pericoli di derive assemblearistiche. A questa conclusione concorse, anche e soprattutto, il sensibile fenomeno di splitting nel processo di fiducia al governo. Questo nasceva essenzialmente come governo parlamentare, nel senso che è in Parlamento che si coagulavano, e soprattutto si cifravano, gli accordi tra i vari partiti per la formazione del governo, dopo il risul­ tato elettorale. Dopo la fiducia iniziale, la localizzazione delle principali decisioni di indirizzo politico era però extraparlamentare. In altri termini, il centrale protago­ nismo dei partiti (e delle correnti in seno ai partiti) si svolgeva fuori delle Camere. Tale fenomeno, da un lato, svuotava il Parlamento da compiti di investitura (di fiducia o di sfiducia) , dall'altro ne faceva la sede privilegiata per una intensa co-legislazione con l 'opposizione. In questo senso, il Parlamento si poneva come il meeting point in I 3. Sul punto, G. Fiorucci, Camera dei deputati: il nodo del voto segreto, in "Quaderni Costituzio­ nali� 9, I989, I, pp. I35 ss.; C. Gatti, Senato della Repubblica: una «rivoluzione parlamentare» ?, ivi, pp. I59 ss.; S. Curreri, Il voto segreto: questioni applicative e prospettive di rifòrma, in " Rassegna Parlamentare , 42, 2000, I, pp. I4I ss. I4. Cfr. N. Lupo, I mutamenti delle procedurefinanziarie in una forma di Governo maggioritaria, in G. Di Gaspare, N. Lupo (a cura di), Le procedurefinanziarie in un sistema istituzionale multilivello, Giuffrè, Milano 2005, pp. I38 ss. "

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cui la politica dei partiti produceva politiche pubbliche: spesso con sensibile disalli­ neamento rispetto alle contrapposizioni elettorali.

2 I nuovi equilibri della Repubblica maggioritaria Nella nuova stagione maggioritaria che si inaugura con le elezioni politiche del 1994 il contesto, come si è detto, cambia invece radicalmente. L' intermediazione negoziale del Parlamento, dopo la fase elettorale, è in linea di principio, saltata. La formula della legge elettorale parla di «Capo unico della coalizione » vittoriosa, quale can­ didato a premier: le prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica nella formazione del governo sono salvate espressamente, ma faticosamente. Nella mutata situazione prevale, anche nella fase legislativa, una sorta di indirizzo pangovernativo15• Perde autonomia cioè quella fase che aveva contrassegnato una quasi ordinaria cooperazione dialettica tra maggioranza e opposizione (e gruppi di pressione, spesso trasversali) 16 • L'istituzione governo assomma ai poteri che aveva pazientemente e continuamente accumulato nel periodo proporzionale, il decisivo potere derivante dall'egemonia elettorale del suo capo (con poteri di vita e di morte politica di parlamentari scelti e nominati dall'alto su liste bloccate) . Anche a volere trascurare i conflitti di interesse e le traversie processuali del premier Berlusconi - fattori che, fin dalle origini della Repubblica maggioritaria, contraggono la normale attività legislativa delle Camere -, è la condizione oggettiva del Parlamento che cambia profondamente dopo la svolta maggioritaria. La prova (geometrica e paradossale insieme) del ribaltamento perfetto del rapporto Camere­ governo sta nel fatto che, dopo il 19 94, il Parlamento italiano registra per la prima volta nella storia della Repubblica crisi parlamentari (cioè con formali sfiducie al governo)17• Al contrario di quanto avveniva nel passato quando, dopo la fiducia ini­ ziale per la formazione dei governi, le Camere erano escluse (salvo, ovviamente, la ratifica ex post) dai frequenti cambi di governo. Ora sono le Camere a diventare A

maztres aux crzses. •

15. La fase dell' istruttoria legislativa è al centro delle riflessioni dei contributi raccolti in G. Rec­ chia, R. Dickmann (a cura di), Istruttoria parlamentare e qualita della normazione, C EDAM, Padova 2002; P. Torretta, Qualita della legge e informazione parlamentare. Contributo allo studio dell'indagine conoscitiva nel procedimento legislativo, ESI, Napoli 2007. 1 6. Sulla complessiva evoluzione storica del Parlamento, cfr. Storia d'Italia. Annali, 17. Il Parla­ mento, a cura di L. Violante, Einaudi, Torino 2001. Sul ruolo dell'opposizione nell'evoluzione italiana, nonché in prospettiva comparata, cfr. G. Rizzoni, Opposizione parlamentare e democrazia deliberativa. Ordinamenti europei a confronto, il Mulino, Bologna 2012, spec. pp. 203 ss. 17. Cfr. G. Piccirilli, I paradossi della questione di frducia ai tempi del maggioritario, in "Quaderni Costituzionali� 2008, 4, pp. 789 ss.; G. Rivosecchi, Fiducia parlamentare, in Digesto delle Discipline pubblicistiche, U T ET, Torino 2008, pp. 377 ss.

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Questo significa che è mutato il ruolo costituzionale delle Camere. Si è oscurato il loro ruolo creativo di governi e di legislazioni. I riflettori si sono accesi sulle loro funzioni (che nel periodo proporzionale erano ridotte a ipotesi di scuola) di controllo sanzionatorio sulla stessa vita dei governi. In altri termini, l'egemonia governativa sul Parlamento - che trova la sua legittimazione nell'investitura elettorale maggiori­ taria - può conoscere il suo punto di rottura solo con una formale crisi della mag­ gioranza parlamentare. E in questo momento che il Parlamento ritrova una sua autonomia rispetto al governo e, soprattutto, rispetto al momento elettorale. Autonomia, che com'è natu­ rale, è contestata con forza da quanti vedono nei mutamenti di governo usciti dalle elezioni il tradimento della diretta investitura popolare. E ritengono, dunque, che la sfiducia parlamentare possa avere il solo risultato di un ritorno alle urne. La prassi della Repubblica maggioritaria li contraddice, conformandosi, invece, in senso par­ lamentare. Governi "altri" sono stati infatti formati senza interrompere la legislatura. Il contrasto sulla legittimazione, tuttavia, persiste e avvelena la normale vita politica: contestando lo stesso esercizio (o il mancato esercizio) da parte del capo dello Stato del potere costituzionale di scioglimento delle assemblee. Accade così che, nel vuoto lasciato da contrapposizioni ideologiche ormai perente - e nell 'incapacità politico-culturale di colmarlo con l' intelligenza degli avvenimenti sopraggiunti -, un grave scontro politico si apre, da allora, sul terreno della Costi­ tuzione: uno scontro che appanna lo stesso valore del principio di alternanza che, con la legge maggioritaria, si intendeva normalmente favorire. Come si è accennato, prende forza un'interpretazione leaderistica, personalistica, carismatica della premier­ ship : interpretazione che tende a imprimere una torsione di democrazia diretta all' intero funzionamento costituzionale. Si tende ad ancorare il Parlamento al prin­ cipio simul stabunt, simul cadent (già introdotto per i governi territoriali) , rilanciando le motivazioni e le preoccupazioni di governabilità che erano state quelle proprie della fase proporzionale della Repubblica: ma senza tenere conto del radicale cam­ biamento delle condizioni elettorali18• Il vincolo di esistenza tra governi e assemblee rappresentative è infatti accettato dalle opposizioni a livello delle democrazie territoriali locali (per sanarne la cronica instabilità, ma in un ordinamento di sicurezza assicurato dallo Stato centrale e dalla coerenza degli altri governi territoriali) . È invece respinto come eversivo a livello nazionale. Si ritiene infatti che il Parlamento, nonostante i condizionamenti maggio­ ritari, rimanga ancora la garanzia di ultima istanza del sistema. La " battaglia per la Costituzione" diviene così la vera discriminante della lotta '

1 8. Sul punto, U dibattito in dottrina è amplissimo. Cfr., almeno, S. Ceccanti, Laforma di Governo parlamentare in trasformazione, U Mulino, Bologna 1997, pp. 1 37 ss.; G. Rizzoni, Il maggioritario alla prova. Governo e opposizione nella XI V legislatura, in "Meridiana", 2002, 45, pp. 199 ss.; R. Cherchi, Il Governo di coalizione in ambiente maggioritario, Jovene, Napoli 2oo6, pp. 243 ss. 91

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politica in Italia. Una battaglia che non avrà solo una carica ideologica. Essa si con­ creterà anche in un grande scontro elettorale. Un progetto del centro-destra, di revisione generale della Costituzione, basata sulla premiership assoluta e su un diva­ ricante concetto di nazione (proposto dalla Lega), sarà infatti sconfitto in un refe­ rendum del 25-26 giugno 2006 (con un severo scarto di voti, del tutto inedito nell'ordinario distacco, di stretta misura, fra i due schieramenti). Quando si produce la prima grossa disgregazione nella compattezza del dominio berlusconiano (e questo avviene nel corso del 201o ) 19, il terreno dello scontro all' in­ terno della maggioranza risulta esattamente quello della difesa della Costituzione e del Parlamento contro la pretesa panelettoralistica. Lo spazio per una destra moderata e antimonarchica coincide così con quello della rivendicazione di garanzie, propria del confronto maggioranza-opposizione. Il tema costituzionale sarà costretto, però, a imperniarsi, con martellante conti­ nuità, sulle garanzie dei giudici, da un lato, e sulle garanzie del premier contro i giudici, dali ' altro. La convinzione del premier Berlusconi, più volte espressa anche in sede interna­ zionale, di essere oggetto di una persecuzione giudiziaria a fini politici, sfocia in provvedimenti legislativi mirati sui suoi processi, nella progettazione di uno scudo penale per il premier, in progetti di maggiore controllo delle responsabilità dei giudici e dei pubblici ministeri. Com'è naturale, questa attività è sempre circondata dal sospetto generale (d 'opposizione, ma anche di opinione pubblica) per l'evidente conflitto di interesse con i casi personali del capo unico della coalizione maggioritaria. Il risultato è di paralisi anche per questa parte di riforme costituzionali, pure quando vi sia consenso sulla necessità di esse per mutamenti efficientistici del vetero-ordina­ mento giudiziario italiano. Non è un caso che l'unica riforma passata con voti bipar­ tisan siano i principi del « giusto processo » , consegnati in una specie di norma quadro costituzionale (art. 1 1 1 ) 20•

3 La riforma del Titolo

v

L'approccio inquinato alla questione giustizia distoglie tempo e attenzione parla­ mentare dalla più importante riforma costituzionale della Repubblica maggioritaria. Fu la riforma, varata in una parentesi di governo del centro-sinistra, del Titolo v,

19. n progressivo disgregarsi della coalizione vincitrice delle elezioni del 2008 è descritto in N. Lupo, G. PiccirUli, Le recenti evoluzioni della forma di Governo italiana: una conferma della sua natura parlamentare, in "Democrazia e Diritto", 2012, I, pp. 8s-uo. Cfr. anche P. Armaroli, Lo strano caso di Fini: tutte le anomalie della XVI legislatura e oltre, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2013. 20. Cfr. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, U Mulino, Bologna 2012. 92

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dedicato all'articolazione regionale dello Stat011• Benché confermata da un refe­ rendum popolare (il 7 ottobre 20 0 1 ) , la frettolosa riforma fu - e continua a essere ­ largamente imperfetta. I difetti principali risiedono nella ripartizione della compe­ tenza legislativa tra Stato e Regioni (incongruenze in parte riparate dalla Corte costituzionale con audaci sentenze: sostanzialmente di emendamento legislativo ) 11• Risiedono, ancora, nella mancata individuazione di una clausola di interesse nazio­ nale, a chiusura dei sempre probabili contenziosi tra Roma e le capitali regionali. Risiedono, infine, e soprattutto, nella mancata trasformazione del Senato in una Camera di raccordo delle autonomie territoriali: come alta sede politica di rappre­ sentanza dei territori e di composizione dei conflitti istituzionali (funzioni ora esercitate, in impropria sede amministrativa, e con non poche difficoltà, dalla Conferenza Stato -Regioni)13. Con un cambio di priorità, di per sé suggestivo, il centro-destra ha cercato di attuare, prima della definizione della stessa struttura istituzionale, un meccanismo di ripartizione delle risorse, con il federalismo fiscale4• L'intento era di stabilire un'area consorziale di finanza pubblica, con pesanti responsabilità politiche per gli amministratori colpevoli di sperperi. Il processo attuativo è stato però caratterizzato da un'overdose normativa con un forte grado di inaffidabilità a causa della difficile determinazione di fabbisogni e costi standard per i servizi, con cifre ponderate ed equiparabili in tutte le variegate regioni italiane. Anche questa prospettiva di riforma istituzionale - decisiva per la stessa forma di Stato - si è colorata, agli occhi dell'opposizione, di una sua inaccettabile "politicità" per il persistente sotto ­ fondo secessionistico che la Lega Nord agita contro cali di tensione nell'attuazione del federalismo.

li. Cfr., per tutti, B. Caravita di Toritto, La Costituzione dopo la riforma del Titolo v. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, Giappichelli, Torino 2002, e T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo v, Giappichelli, Torino 20031• 22. Cfr. S. Bartole, Collaborazione e sussidiarieta nel nuovo ordine regionale, in "Le Regioni': 2004, pp. 578-86, e S. Mangiameli, Giurisprudenza costituzionale creativa e Costituzione vivente. A proposito delle sentenze n. 303 del 2003 e n. I4 del 2004, ivi, 2008, pp. 825-4I. 23. Cfr. da ultimo la relazione della Commissione per le riforme costituzionali, Per una democrazia migliore, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l' Informazione e l'Editoria, Roma 20I3, pp. 33-48. Cfr. A. Manzella, La riforma del Senato e le garanzie, in "la Repubblicà', 4 aprile 20I4; nonché C. Decaro, La riforma del bicameralismo in Italia, in Id. (a cura di), Il bicameralismo in discussione. Regno Unito, Francia, Italia: profdi comparati, Luiss University Press, Roma 2008, pp. I07-4I. 24. Sull'architettura e le novità del sistema del federalismo fìscale, cfr., anche in senso critico, G. Rivosecchi, Il fideralismo fiscale tra giurisprudenza costituzionale e legge n. 42 del 2009, ovvero: del mancato coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, e C. Tucciarelli, La legge n. 42 del 2009: oltre l'attuazione delfideralismo frscale, in "Rivista di Diritto Tributario", x x , lOIO, I, rispet­ tivamente pp. 6I-88 e pp. 49-60. Cfr. anche la relazione conclusiva sull'attuazione della legge delega sul federalismo fìscale, redatta dalla Commissione parlamentare per l 'attuazione del federalismo fìscale, . 22 gennaio 20I3. 93

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Con tali pulsioni politiche viene reso pesante e controverso uno sviluppo istitu­ zionale che è nello stesso nucleo fondante della Repubblica. È nella Costituzione del 1948 che viene introdotta, infatti, la peculiare forma dello Stato regionale. E dall ' Unione Europea, d'altro canto, che è partita la spinta per la maggiore intensità del protagonismo regionale degli Stati membri, con l' individuazione di soggetti di autonomia territoriale a cui intestare i progetti di impiego dei fondi di coesione comunitari15• Anche l'essenziale processo di regionalizzazione rientra così nell'atmosfera mal­ sana che caratterizza l' intero processo costituzionale italiano. Lo stesso concetto di transizione risulta intorbidato dal perdurante richiamo a vecchie formule, dal rifiuto di capire le nuove finalità conseguenti alla realtà di una competizione a vocazione bipolare del sistema. Una simile inadeguatezza culturale sembra perdurare (con l 'ag­ gravante di nessun vantaggio politico immediato) anche quando l 'opposizione è di sinistra. Nei progetti fin qui prodotti, l'opposizione rivela una sostanziale subalter­ nità all'impostazione government first della destra, con concezioni oggettivamente adattive. In realtà, non c 'è stato un più pietrificato immobilismo italiano se non da quando si è cominciato a utilizzare il liquido termine di "transizione". Solo un fattore esterno poteva mutare lo stato delle cose. Questo fattore è stata l'evoluzione istituzionale europea, provocata dalla Grande crisi (2oo 8)16• '

4

L'impatto della governance europea Ci sono stati sempre punti chiave di incrocio tra l'adesione europeista e la vicenda pubblico-costituzionale italiana. Il primo fu l' inserimento nella Costituzione della clausola di limitazione della sovranità nazionale per le necessità di un ordinamento sovranazionale ( « l'aspirazione alla unità europea è un principio italianissimo » dirà Ruini, il presidente della Commissione per la Costituzione, quando fu approvato l'art. n : A.C . 24 marzo 1947)17• Il secondo culmine si registrò il 18 giugno 1989

25. Cfr. A. D 'Atena, Le regioni italiane e la Comunita economica europea, Giuffrè, Milano 1981, spec. pp. 3S ss. e, per un' indagine comparativa, cfr. Id. (a cura di), L 'Europa delle autonomie. Le Regioni e l'Unione europea, Giuffrè, Milano 2003, pp. 3 ss. 26. Sull'evoluzione costituzionale dell' Unione, cfr. F. Bassanini, G. Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee, il Mulino, Bologna 2010, nonché S. Micossi, G. L. Tosato (a cura di), L'Unione europea nel XXI secolo, il Mulino, Bologna 2008. Sugli aspetti concettuali, cfr. N. Verola, L'Europa legittima, Passigli, Firenze 2006 e, su tutti, B. De Giovanni, L 'ambigua potenza dell'Europa, Guida, Napoli 2002. 27. Sul punto, cfr. la raccolta di scritti a cura di N. Ronzitti, L 'articolo II della Costituzione. Baluardo della vocazione internazionale dell'Italia, ESI, Napoli 2013. 94

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quando l ' 88,1% degli elettori italiani (circa 29 milioni di voti favorevoli) disse "sì" a un referendum consultivo che proponeva di affidare al Parlamento europeo « il mandato di redigere un progetto di costituzione europea » . Quel referendum sembrò segnare la definitiva inclusione dell'europeismo tra i valori condivisi dell 'arco costi­ tuzionale (dopo le forti riserve dell 'opposizione comunista durate almeno sino al compromesso storico del 1976). Il terzo punto di incrocio fu l'avvio, con il Trattato di Maastricht ( 1992) del processo d'adesione alla moneta unica28, avvio che segnò l' inizio di un penetrante monitoraggio dell' Unione sulla situazione finanziaria ita­ liana e il ricorso a un vasto programma di privatizzazioni. Il quarto, infine, con esiti ancora in corso, è stato l' impatto delle misure di governance europea adottate a seguito della Grande crisi del 2008. Sotto le necessità e le emergenze della rottura dei mercati finanziari, dei debiti sovrani e del disordine monetario, sono aumentati i poteri del Consiglio europeo con una forte verticalizzazione decisionale nell'intero sistema euronazionale. Questo processo di spostamento di peso e di autorità sul fattore governo ha interessato naturalmente anche l' Italia. E più di tutti, l ' Italia : per i vari condiziona­ menti personali che fin dalle origini hanno pesato su un premier, il Berlusconi, altrimenti onnipotente per mandato elettorale. Nel Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo questo "re" si è trovato nudo e ha incontrato (un fatto mai acca­ duto, in maniera così netta, nell 'ordinamento europeo) la sfiducia dei pari. Le dimissioni del governo Berlusconi nel novembre 20 1 1 si inseriscono, per altro verso, in quella serie di rotture governative determinate in molti Stati dell ' Unione da un'emergenza continua che non permette di conciliare misure impopolari con il consenso elettorale. Tuttavia le modalità di sostituzione con il governo tecnico di Mario Monti - sia pure con una procedura garantita dal presidente della Repubblica - hanno rivestito un marcato carattere di commissariamento ad personam a opera della Banca centrale europea (e del Consiglio europeo) . Ne è sembrato derivarne uno scongelamento della situazione italiana : sia per lo straordinario successo popolare delle primarie del mag­ gior partito d 'opposizione, sia per l'emersione di opinioni dissenzienti nel partito personale ancora maggioritario in Parlamento. Tuttavia l'esperienza del governo tecnico - caratterizzato da una doppia e reci­ proca conventio ad excludendum di queste due maggiori componenti politiche : con una sorta di fusione a freddo successiva nelle votazioni fiduciarie - provocava un deleterio effetto di omogeneizzazione agli occhi di un'opinione pubblica colpita da misure, talora poco meditate, di austerità. Le elezioni del 25-26 febbraio 2013 hanno, per molti aspetti, riprodotto il fenomeno 28. Cfr. J. Weiler, Fin-de-siede Europe: On Ideai and Ideology in the Post-Maastricht Europe, in D. Curtin, T. Heukels (eds.), /nstitutional Dynamics ofEuropean Integration. Essays in Honour ofHenry G. Schermers, vol. 2, Nijhoff Publishers, Boston ( MA ) 1994, pp. 23-41. 95

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elettorale verificatosi nelle elezioni del 1994. In un sistema fortemente destabilizzato da una sfiducia politica di massa, i beneficiari elettorali finali non sono i protagonisti in campo (e segnatamente il soggetto che aveva condotto la più determinata opposi­ zione all'andamento delle cose), bensì un soggetto terzo. Nel 1994 il berlusconismo, nel 2013 il Movimento 5 Stelle, affermatosi con il 25% dei suffragi, sotto la guida di un professionista di satira politica e di un tecnico di comunicazione informatica. All'efficace modernità della campagna elettorale, con la saldatura tra piazza virtuale e piazze reali, con la dimostrata capacità di trascinamento di larghissimi strati di votanti da parte di esigue élite di attivisti, doveva però seguire la nullità del progetto al primo impatto con le immediate scelte politiche imposte dallo stesso calendario istituzionale della XVII Legislatura. Si è assistito così, con una stupefazione maggiore di quella che aveva accolto quel successo, al "congelamento" in Parlamento del 25% dell'elettorato italiano, chiuso in pregiudiziali di negazioni a priori o in provocatorie pretese autore­ ferenziali, legate a dubbie sperimentazioni di democrazia diretta. Questi comportamenti di autismo politico, di rifiuto di "parlamentarizzazione" degli eletti in rappresentanza di 9 milioni di voti italiani, che venivano in tal modo "sterilizzati", conducevano, in poco tempo, nella perdurante crisi economico-finan­ ziaria del paese, a tre conseguenze istituzionali di profonda rilevanza. In primo tempo, allo stallo della procedura normale di elezione del capo dello Stato e alla necessitata rielezione, per la prima volta nella storia della Repubblica, del recalcitrante presidente uscente, Giorgio Napolitano29• In secondo tempo, alla formazione del governo Letta cosiddetto "delle larghe intese", che vedeva la forzosa coabitazione nella stessa com­ pagine dei due partiti politici maggiori che più si erano dichiarati incompatibili per tutto il corso della campagna elettorale. In un terzo tempo, a causa delle vicende giudiziarie del leader Berlusconi, alla scissione dell 'ala "governativa" di quel partito personale. Nella confusa situazione tra le elezioni e l'accidentato inizio della legislatura, il presidente della Repubblica ha istituito un gruppo di lavoro che almeno attenuasse l'endemica battaglia per la Costituzione, selezionando le questioni ritenute di mag­ giore rilievo per il superamento della crisi del sistema: sulla base di valutazioni poli­ tiche, del giudizio dei costituzionalisti, dei lavori delle commissioni parlamentari che si sono succedute nel tempo30• In tale punto sullo stato dell'ordinamento si possono ritrovare gli elementi sin29. Cfr. C. Fusaro, Il presidente della Repubblica tra mito del garante e forma di Governo parla­ mentare a tendenza presidenziale, in "Quaderni Costituzionali", 2013, pp. 47-60; V. Lippolis, G. M. Salerno, La Repubblica del presidente. Il settennato di Giorgio Napolitano, il Mulino, Bologna 2013, spec. pp. 29 ss.; E. Cheli, Il capo dello Stato: un ruolo da ripensare?, e C. Pinelli, Napolitano visto dai costituzionalisti, in "il Mulino", 3, 2013, pp. 436 ss. 30. Alle attività del gruppo di lavoro presso il Quirinale hanno fatto seguito, con conclusioni sostan­ zialmente analoghe, quelle della Commissione di esperti istituita dal ministro per le Riforme costituzio­ nali, che ha presentato la relazione finale al Parlamento il 15 ottobre 2013. Cfr. supra, nota 23.

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tomatici di quello che è avvenuto nel regime parlamentare dal 1994 in poi. Il gruppo si è infatti, naturalmente, interrogato innanzitutto sull 'alternativa tra forma di governo parlamentare razionalizzata ed elezione diretta del presidente della Repubblica secondo il modello semipresidenziale. E l'interrogativo che ha, di fatto, percorso la Repubblica del maggioritario. La conseguenza, con l'abbandono del proporziona­ lismo, dell'affermarsi, fin dal 1993 - con l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province (a cui seguirà nel 1999 la previsione costituzionale dell'elezione diretta dei presidenti delle giunte regionali) -, di una forma mista di governo. Denominata anche « modello italiano di Governo » 3\ essa combina elementi del presidenzialismo e del parlamentarismo : elezione diretta del capo dell 'esecutivo ; sistemi elettorali a premio di maggioranza; rapporto fiduciario con le assemblee con la clausola simul ,

stabunt, simul cadent. Alla luce di tale modello, non fu dunque casuale né una forzatura, almeno sul piano sostanziale, l' inclusione nella legge elettorale del 2oos (legge 21 dicembre 2005, n. 270, che regolò le elezioni politiche del 200 6, del 20 08 e del 2013) della formula che indicava nel capo della coalizione anche il candidato alla presidenza del Consiglio (sia pure con la salvaguardia formale per i poteri costituzionali del presidente della Repubblica) . Era la naturale conseguenza di un'evoluzione psicologica dell'elettorato ormai abituato, da vent'anni, a vedere governi nascere dalle urne e non dal flessibile gioco assembleare. D 'altra parte, anche per i governi nazionali, tutte le elezioni poli­ tiche dal 1994 hanno prodotto una coalizione vincente con una maggioranza assoluta di seggi. Tutte: salvo quelle per il Senato nel 1994 (sanata con l'acquisizione parla­ mentare, da parte della coalizione del centro-destra vittoriosa alla Camera, di senatori eletti in altre liste) e nel 2013 (che doveva vedere, come si è detto, la nascita e le successive accidentate vicende del governo delle larghe intese come unico governo possibile). La tensione tra il maggioritarismo decisivo per i governi (locali e nazionali) e l' impianto parlamentare e proporzionalistico della Costituzione non è stata dunque un prodotto dell ' involuzione del sistema partitico in forme personalistiche o, addi­ rittura, padronali. C 'è stata, ovviamente, anche l' influenza di questo fattore : che con il berlusconismo, prima, e il grillismo, poi, ha mostrato solo le punte arrembanti di un fenomeno diffuso. Ma quella tensione è stata il prodotto naturale di sviluppi e bisogni reali della politica italiana. Solo che, nelle cose, essa non è stata risolta con una scelta di cambio costituzionale, ma con l'uso alternativo della via parlamentare. Questo è avvenuto quando, per crisi del governo nato dalle urne (1994) o per "non nascita" di una maggioranza governativa (2013), è stato necessario ricorrere all 'inve­ stitura parlamentare, alla fiducia costruttiva, a una creazione, insomma, di un governo in Parlamento. 31. Cfr. R. D'Alimonte, La formazione elettorale dei governi, in "li Filangieri", Quaderno 2010, pp. 3 S-73· 97

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E significativo che il gruppo di lavoro al Quirinale - pur preferendo il regime parlamentare come «più coerente con il complessivo sistema costituzionale, capace di contrastare l 'eccesso di personalizzazione della politica, più elastico rispetto alle forme di Governo semipresidenziale » - abbia però insistito per una formula eletto­ rale che « garantisca la scelta degli eletti da parte dei cittadini e favorisca la costitu­ zione di una maggioranza di governo attraverso il voto » 31• Ed è altrettanto significativo che il gruppo si sia fatto carico delle due uniche occasioni ( 1994, 2013) in cui il risultato numerico del Senato aveva impedito la nascita diretta di un governo dopo le elezioni. E abbia perciò sostenuto una penetrante revisione costituzionale: nel senso di assegnare alla Camera dei deputati la compe­ tenza esclusiva sul rapporto fiduciario con il governo e la conseguente profonda trasformazione del bicameralismo parlamentare. Il progetto di sostituire il Senato con una Camera delle autonomie ha, d'altra parte, attraversato lungamente la cosiddetta "Repubblica del maggioritario". Vi è stata, e vista dal rapporto governo-Parlamento è stata ragione preminente, la necessità di superare l'assurdità - propria della legge Calderoli del 2005 - di un sistema elettorale con la previsione di 18 premi di maggioranza regionali (un'assurdità di gravità pari, per i suoi effetti sistemi ci, con l'altra, rilevata anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza 12 gennaio 2012, n. 13, e successivamente eliminata con la sentenza 13 gennaio 2014, dell'abnorme premio di maggioranza previsto nell'elezione della Camera dei deputati, in assenza di una soglia minima per fare scattare il premio)33• Vi è stata però, anche la ragione di allargare la legittimazione attraverso l'integrazione in Parlamento della rap­ presentanza territoriale (una concreta prospettiva d'iniziale inclusione di rappresen­ tanze regionali e locali era stata prevista attraverso il veicolo della Commissione parla­ mentare per le questioni regionali: prospettiva elusa per l'inadempimento dell'art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)34• Il gruppo di lavoro ha ripercorso poi il rapporto governo-Parlamento sotto l'aspetto della « fuga dalla legge » e del « miglio­ ramento del grado di trasparenza del procedimento legislativo parlamentare » 35•

32. Cfr. Relazionefinale del Gruppo di lavoro sulle Riforme istituzionali, 12 aprUe 2013, http://www. quirinale.it/ qrnw/ statico/ attivi tal consultazioni/ c_2omar2013/ gruppi_lavoro/ 201 3-04-12_relazione_ fìnale.pdf, pp. n-2. 33· In proposito, ex multis, cfr. i commenti pubblicati in AA .VV. , Nel ((limbo" delle leggi. Abrogazione refirendaria della legge Calderoli e reviviscenza delle leggi Mattare/la?, Giappichelli, Torino 2012. 34· P. Caretti, La lenta nascita della ((b icameralina'; strumento indispensabile non solo per le Regioni, ma anche per il Parlamento, in Id. (a cura di), Stato, Regioni, Enti locali tra innovazione e continuita: scritti sulla riforma del Titolo v della Costituzione, Giappichelli, Torino 2003, pp. 27 ss.; E. Gianfran­ cesco, Problemi connessi all'attuazione dell'art. II della L cost. n. 3 del 2ooz, in "Rassegna Parlamentare", 2004, pp. 300 ss., e R. Bifulco, L 'integrazione della commissione parlamentare per le questioni regionali: in attesa della Camera delle Regioni, in A. Manzella, F. Bassanini (a cura di), Per fare funzionare il Parlamento. Quarantaquattro modeste proposte, U Mulino, Bologna 2007, pp. 87 ss. 3S· Cfr. R. Zaccaria, Fuga dalla legge? Seminari sulla qualita della legislazione, Grafo, Brescia 20n, nonché L. DuUio (a cura di), Politica della legislazione, oltre la crisi, U Mulino, Bologna 2013.

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Sotto il primo aspetto, viene colta una caratteristica degli anni del maggioritario : che però sarebbe erroneo addebitare alla legge elettorale e ai suoi effetti. In realtà, si è trattato di un fenomeno di traslazione del centro della produzione normativa dal Parlamento al governo e ad altre fonti: fenomeno che ha interessato tutti gli ordina­ menti europei, con modalità diverse. Da noi, il ricorso, che permane frequente, alla decretazione d'urgenza (u8 decreti legge su un totale di 26 6 atti legislativi nell'ultima legislatura 20 08-13) è stato temperato in qualche misura da due incisive sentenze della Corte costituzionale: la 360/1996 ( contro la reiterazione di decreti legge alla sca­ denza ) e la 22/2012 ( contro i decreti legge a contenuto eterogeneo ) . È in questa linea di contenimento di livello costituzionale che il gruppo ha chiesto la costituzionaliz­ zazione dei « limiti della decretazione d'urgenza ora contenuti in legge ordinaria » 36• Tuttavia, la fuga dalla legge formale - che pur secondo Costituzione dovrebbe costituire « il perno del sistema delle fonti di produzione normativa » 37 - è originata anche dalla forte incidenza delle fonti di diritto dislocate nell'ordinamento dell' U­ nione Europea ( sempre nell'ultima legislatura: su 223 decreti legislativi, ben 160 sono stati attuativi di direttive comunitarie) . Com'è intuibile, negli ultimi tempestosi anni, la rottura degli equilibri finanziari e monetari del mondo, con una situazione di emergenza continua e strutturale, ha costretto a spostare l'accento dai temi consueti della crisi della legislazione a quelli - per molti aspetti inediti - della legislazione della crisi. La questione non è più quella dell'equilibrio democratico tra governo e Parlamento nelle decisioni pubbliche. La questione è se le decisioni pubbliche, comunque adottate, siano adeguate nella tem­ pistica e nel merito alla necessità da fronteggiare nella crisi. E su quale sia il luogo abilitato per valutarne l'effetto. Sotto il secondo aspetto, la prassi dilagata di maxie­ mendamenti/ questioni di fiducia non ha rappresentato tanto un vulnus all'autonomia parlamentare nella decisione o l 'espressione di prepotere della maggioranza ( basti vedere lo straripante uso che ne ha fatto anche il governo cosiddetto tecnico ) , quanto un attentato continuato alla sicurezza giuridica. Si è fatta così strada una legislazione magmatica, limacciosa, in forma torrentizia. Si è osservata una rincorsa delle istituzioni parlamentari al seguito della disgregazione degli interessi, adattandosi senza correzioni al disordine dei nuovi processi sociali in atto. I successivi fenomeni di patologia legi­ slativa dalle "leggine" alla reiterazione abnorme dei decreti legge, dalle ordinanze della 36. Relazionefinale del Gruppo di lavoro, cit., p. I2. Cfr. A. Simoncini, Lefunzioni del decreto-legge. La decretazione d'urgenza dopo la sentenza n. J OO/I990 della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 2003, spec. pp. 243 ss.; N. Lupo, L'omogeneita dei decreti-legge (e delle leggi di conversione): un nodo difficile, ma ineludibile per limitare le patologie della produzione normativa, in G. D ' Elia, G. Tiberi, M. P. Viviani Schlein (a cura di), Scritti in memoria di Alessandra Concaro, Giuffrè, Milano 20I2, pp. 4I9 ss.; R. Zac­ caria, L'omogeneita dei decreti-legge: vincolo per il Parlamento o anche per il Governo?, in "Giurispru­ denza Costituzionale': 20I2, I, pp. 283 ss. 37· E. Cheli, L 'ampliamento dei poteri normativi dell'esecutivo nei principali ordinamenti occidentali, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico': I9S9· pp. SIS ss. 99

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protezione civile ai maxiemendamenti sono ulteriori espressioni di tale rincorsa. Ognuno di questi strumenti viene utilizzato sino alla sua dismisura di stress e alla rottura: per poi essere sostituito dal seguente, infetto dallo stesso virus. Comunque, le segnalazioni del gruppo di lavoro - dal mancato adeguamento del numero delle commissioni parlamentari in conseguenza della riduzione del numero dei ministeri, dalla stessa abnorme prassi dei maxiemendamenti alla mancanza di una corsia preferenziale per i provvedimenti prioritari di iniziativa governativa - sono anche la denuncia di quella che è stata in questi anni una sorta di neghittosità del Parlamento ad adeguare la propria organizzazione interna alle logiche e alle garanzie connaturali a un sistema maggioritario. Per specifica paralisi da veti incrociati e per assenza di una vera e propria cultura della manutenzione regolamentare, le Camere, anziché ripensare le regole e renderle più coerenti con la logica maggioritaria, hanno preferito lasciare tutto intatto o quasi38• In un discorso che, necessariamente coinvolge tutto l'arco politico, il rapporto governo-Parlamento dopo l' introduzione ( e l'aggravamento ) di sistemi elettorali maggioritari, si è lasciato così fatalisticamente deperire. Da un lato, non apprestando i mutamenti regolamentari necessari alla mutata situazione, dall'altro, non elevando il livello delle garanzie che, adeguate in periodo proporzionale, non lo erano logica­ mente più nel nuovo ordinamento elettorale ( con l' incredibile sotto stima della risorsa costituzionale presente in quasi tutti gli altri sistemi: il ricorso di minoranza parlamentare ai tribunali delle leggi ) . In questo modo, la vera comprensione dello spirito del tempo è sembrata sfuggire alla dimensione parlamentare. L'inerzia ha favorito l 'istituzione governo, sospinta, dalla stessa forza delle cose, a occupare più spazio politico e istituzionale. 1994-20 1 3 : il bilancio istituzionale, fatto in tutte le sedi, è dunque assai deficitario. Si è rotto un equilibrio della Costituzione, delicato e complesso senza una visione sinottica del dopo. Si è continuato a parlare di transizione, come se una meta fosse stata raggiunta o almeno visibile39• Alla fine, come le vicende del 20 1 3 dimostrano, resta l'ancoraggio alla Costituzione del secolo scorso per stabilizzare l 'avvenire.

38. Cfr. N. Lupo, Il ruolo delle burocrazie parlamentari alla luce dei mutamenti dell'assetto istitu­ zionale nazionale e sovranazionale, in "Rassegna Parlamentare", 54, 20I2, I, pp. S I ss. 39· Cfr. G. Napolitano, Una transizione incompiuta?, Rizzoli, Milano 2006. 100

L'amministrazione in mezzo al guado : la difficile sfida delle riforme amministrative di Guido Melis

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Il R apporto Giannini e la sconfitta del riformismo amministrativo Nelle prime righe del suo Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato (novembre 1979 ) r, Massimo Severo Giannini citò « due importanti accadi­ menti » , individuandoli come punti d'attacco fondamentali per la proposta di riforma amministrativa presentata in quegli stessi giorni al Parlamento : innanzitutto « la parziale regionalizzazione dell'apparato dei pubblici poteri, operato dalla legge delega 2 2 luglio 1977, n. 616 » ; e poi «l' ipotesi di accordo governo-associazioni sindacali per i dipendenti statali 1976-1979 » 2 • Il primo tema avrebbe potuto e dovuto rappresentare un'occasione storica per la trasformazione dell' intera organizzazione dello Stato. Giannini avvertiva però, e lo avrebbe poi ribadito negli anni successivi, come il disegno ambizioso della legge 616/ 1977 si fosse interrotto a metà: dopo l' individuazione delle funzioni regionali (il «primo tempo » della riforma), era stato in pratica « soppresso in sede di discus­ sione parlamentare » il « secondo tempo » , cioè il riordinamento delle funzioni e strutture statali. L'intera materia, insomma, appariva connotata da una preoccupante confusione, mentre il potere di borsa, decisivo ai fini della ripartizione reale dei poteri, restava saldamente nella sfera dello Stato centrale3• La regionalizzazione era rimasta a metà del guado. Quanto poi al secondo tema individuato dal Rapporto, quello dell' introduzione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, nel 1979 il « lungo accordo » negoziato nel triennio precedente si era appena tradotto in due disegni di legge: il primo concernente una legge quadro del pubblico impiego, il secondo per trasferire I. Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato, in "li Foro Italiano", v, 1979, pp. 289-314, ora in M. S. Giannini, Scritti, VII. I977-19SJ, Giuffrè, Milano 2005, pp. 327-41. 2. lvi, p. 329. 3· Ciò accadeva principalmente in forza della riforma tributaria degli anni 1971-74• per la quale lo Stato era l'unico percettore di tributi, con la funzione di ripartire il gettito tra gli enti locali, le Regioni, le imprese, i privati.

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in legge l'accordo stesso4• La riforma dunque poteva dirsi anche qui in bilico : il processo poteva, sì, considerarsi avviato ma, al tempo stesso, già si manifestava irto di ostacoli5• Come osservava il Rapporto, la legge 22 luglio I975, n. 3 82, aveva distinto in linea di massima tra le attività (riservate all'accordo) e il reclutamento, la carriera, la responsabilità e la disciplina (tutte mantenute sotto l'ombrello rassicurante della riserva di legge), e aveva dato via libera al tempo stesso agli accordi separati per il personale delle aziende autonome. Ma aveva lasciato sopravvivere di fatto ampie zone d'ombra, di definizione incerta, come del resto riconosciuto a chiare lettere nel parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro ( CNEL ) del 2I gennaio I9786• Il Rapporto Giannini, magna charta di un riformismo amministrativo che affondava le sue radici nell'eredità migliore della cultura amministrativa del dopoguerra7, diede luogo comunque a un'intensa stagione di studi. Fatto proprio in tempi rapidi dal Con­ siglio dei ministri (deliberazione del I0 febbraio I98o ) , che tra l'altro istituì contempo­ raneamente gli appositi uffici di organizzazione e metodo, fu immediatamente seguito da un importante ordine del giorno del Senato ( Io luglio I98o ) e dalla costituzione di una serie di commissioni8, in totale una quindicina, sui punti cardine della riforma amministrativa: dalla Commissione per la ristrutturazione dello Stato, presieduta da Umberto Pototschnig (dalla quale derivarono altre varie sottocommissioni), a quella per lo studio dei problemi inerenti alla misurazione della produttività guidata da Ales­ sandro Taradel9; dalla Sottocommissione per il riordinamento delle aziende autonome (Giorgio Pastori) a quella per i contratti dello Stato (Enzo Capaccioli); dalla Commis­ sione per i controlli (Luigi Petriccione) a quella per la revisione strutturale e organiz­ zativa degli enti pubblici e di ricerca e degli enti pubblici di Stato (Fabio Merusi); dalla Commissione per il riordinamento della presidenza del Consiglio (Giuliano Amato) a quella per la semplificazione delle procedure e la fattibilità delle leggi (Alberto Barettoni Aderi); da quella per la ristrutturazione dei poteri centrali (Franco Piga) a quella per 4· lvi, p. 334· S· Sul tema, in generale, cfr. S. Battini, S. Cassese (a cura di), Dall'impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Giuffrè, MUano 1997 (con scritti, oltre che dei curatori, di M. D 'Ancona, G. Cecora, G. D 'Auria); più di recente, M. L. D 'AutUia, R. Ruffini, N. Zamaro (a cura di), Il lavoro pubblico tra cambiamento e inerzie organizzative, Bruno Mondadori, Milano 2009. In generale, cfr. G. Melis, Storia dell'amministrazione italiana {z36I-I99J), U Mulino, Bologna 1996 (spec. cap. VI) e, di recente, G. Tosatti, La modernizzazione dell'amministrazione italiana (zgSo-2ooo), Aracne, Roma 2012. 6. li parere del C N E L del 21 gennaio 1978, n. I65/I 12, « raccomandava una graduale armonizzazione legislativa tra settore pubblico e settore privato» (cfr. Rapporto, cit., p. 334 ). 7· Sulle commissioni di studio dei periodi precedenti, cfr. Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento della Funzione pubblica, G. Melis, G. Tosatti (a cura di), La riforma amministrativa {zgzS-zgg2). Gli studi e le proposte, in "Quaderni del Dipartimento della Funzione Pubblica", 27, 1994. 8. Più estesamente, Melis, Storia dell'amministrazione italiana, cit., pp. so6-7. 9· In realtà, non formalmente derivata dal Rapporto, essendo stata istituita con D.P.C.M. 14 novembre 1979, ma in piena sintonia con la visione di Giannini, al quale Taradel era strettamente legato. 102

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la pubblicità degli atti amministrativi e legislativi (Giuseppe Santaniello ); da quella per l'omogeneizzazione dei trattamenti di quiescenza e previdenza dei dipendenti pubblici e per la perequazione dei trattamenti pensionistici (Vincenzo Colletti) a quella per i rapporti Stato-Regioni (Franco Bassanini); da quella sul difensore civico (Riccardo Chieppa) a quella sul diritto di sciopero nei pubblici servizi (Guido Zagari) . L'elenco dei temi, e i nomi dei responsabili, dicono molto sull 'ambizioso disegno che sottostava all'istituzione delle commissioni. Quanto alle materie, esse compone­ vano un vero e proprio indice dei temi sul tappeto, nell' intento evidente di aggredire la riforma amministrativa in tutti i suoi aspetti e da ogni angolazione, secondo una strategia riformista globale, mirante ad attaccare tutti insieme i fattori di arretratezza. Nei nomi coinvolti, poi, non era difficile intravedere una mobilitazione del mondo degli studi (l' Università, con qualche integrazione da parte dei settori più sensibili dell'alta amministrazione, come attestava la presenza di alcuni grand commis della Repubblica) ; mentre non si poteva non notare l'assenza o comunque la marginalità delle amministrazioni in quanto tali, i cui dirigenti al massimo livello venivano in qualche modo, se non proprio esclusi, certo posti in secondo piano. La scelta di Giannini, sotto questo profilo, non era inconsapevole (vi presiedeva certamente una diffidenza di fondo verso l'alta burocrazia così come si era venuta aggregando nel lungo dopoguerra) e al tempo stesso non sarebbe stata priva di conseguenze, giacché il disegno riformista avrebbe trovato proprio all'interno dei ministeri i suoi avversari, per quanto silenziosi, più pervicacemente ostili. In ogni caso, mentre le commissioni concludevano i loro lavori presentando densi rapporti finali10, avvennero tre fatti nuovi, destinati a incidere in vario modo sulle sorti della riforma. Il primo, il più grave, fu, nell'ottobre 1980, la non riconferma di Giannini quale ministro titolare della Funzione pubblica, maturata nell 'ambito di una crisi del n governo Cossiga che sfociò nell' incarico conferito a Forlani. La lettera riservata che Giannini scrisse nell'occasione a Bettino Craxi, il leader del Partito socialista nella cui delegazione egli, in quanto ministro, era stato compreso (e dalla quale veniva adesso escluso a vantaggio del democristiano Darida), rappresenta ancora oggi uno straordinario documento del problematico rapporto tra le élite illuminate dei rifor­ matori e la sordità perenne della politica politicanteu. Restituito Giannini ai suoi studi, il processo riformatore letteralmente si arrestò. Perché si ritornasse a parlare seriamente di riforma amministrativa si sarebbe dovuto attendere più di un decennio. Il secondo fatto fu rappresentato dal varo della legge 11 luglio 1980, n. 3 1 2, Nuovo IO. Sull'esito delle commissioni, cfr. il giudizio dello stesso Giannini nella sua prefazione al fasci­ colo monografìco dedicato al tema della "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", XXX II, 1982, 3, pp. 7 1S-21. I I. n testo della lettera è stato pubblicato in s. Cassese ( a cura di ) , Vita e opere di Massimo Severo Giannini, numero monografìco di "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2000, 4, pp. 1367-8. Cfr. anche G. Melis, Giannini e la politica, ivi, pp. 1249-76. 103

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assetto retributivofunzionale del personale civile e militare dello Stato, nella quale si introduceva nell 'ordinamento il concetto di « qualifica funzionale » . Era questo il terzo tentativo (dopo quello degli ultimi anni Cinquanta culminati nel deludente testo unico del I9 S 7 e poi quello del I968-72, dagli esiti più ambigui e controversi) di affrontare alla radice il problema. Ancora una volta però, come già nelle due occasioni precedenti, la questione complessiva della riorganizzazione degli apparati e del loro decentramento (l'ordinamento degli uffici, insomma, e la loro razionalizza­ zione) fu sostanzialmente accantonata, per legiferare principalmente sul personale. Ne venne una legge (che Giannini stesso definì «pessima » ) '\ frutto per altro « di una lunga contrattazione tra i sindacati confederali » , che risentì non poco, nella sua formulazione e poi, specialmente, nella sua applicazione, delle «pressioni sindacali » . Il terzo fatto nuovo, forse meno negativo dei primi due, fu la legge quadro, sopraggiunta nel I983. Grazie a essa per la prima volta si inquadrava in modo unitario tutto il comparto dell' impiego pubblico. Si ribadiva inoltre, sebbene con « distin­ zione del tutto empirica » come avrebbe commentato Giannini'\ la distinzione tra materie soggette all'accordo collettivo e altre materie, che restavano riservate alla legge. E si interveniva puntualmente (forse persino troppo) nel campo della contrat­ tazione collettiva, specialmente sostituendo il precedente ordinamento basato sulla carriera con il nuovo, fondato sul binomio qualifiche funzionali-profili professionali. Usciva infine confermata dalla legge la tendenza alla "partecipazione", intesa però essenzialmente come coinvolgimento diretto dei sindacati negli organismi collegiali, com'era del resto già avvenuto nella scuola (D.P.R. 3I maggio I974, n. 4I6, sugli organi collegiali) e nella sanità (legge 23 dicembre I9 78, n. 833, sul Servizio sanitario nazionale) .

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La lunga stasi degli anni Ottanta Insomma, la nuova legislazione dei primi anni Ottanta traduceva solo in parte, e con vistose contraddizioni e lacune, quello che nel Rapporto Giannini era apparso ed era un coerente, globale, persino radicale disegno innovativo'4• Nel nuovo decennio la

12. M. S. Giannini, Considerazioni sulla legge quadro per il pubblico impiego, in "Politica del Diritto", XIC, 1983, pp. 549-7 1, ora in Id., Scritti, VII, cit., spec. p. 910. 1 3. Id., Per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in Scritti per Mario Nigro, II. Pro­ blemi attuali di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 1991, ora in Id., Scritti, IX. I99I-I990, Giuffrè, Milano 2006, spec. p. 72. Giannini definiva la legge viziata da numerose imprecisioni normative e riteneva, a qualche anno di distanza, che avesse dato « cattivi risultati» . 14. Lo stesso Giannini ebbe a riconoscere che quello racchiuso negli anni Settanta era stato, legislativamente almeno, « un decennio operoso» (cfr. Id., La lentissima fondazione dello Stato repub­ blicano, in "Regione e Governo Locale", I, 1981, 6, pp. 17-40, ora in Id., Scritti, VII, cit., p. 637 ) . Un 104

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responsabilità della Funzione pubblica fu infatti successivamente affidata a ministri di basso profilo o comunque di estrazione strettamente politica ( Clelio Darida, I98o-8 I ; Dante Schietroma, I98I-83; Remo Gaspari, I983 87 ) 15• Gli anni Ottanta diedero luogo a vecchie politiche di cooptazione - per lo più di corto respiro -, dettate dalle emergenze occupative del momento, proseguendo la politica del resto anticipata già nel I977, con la legge I0 giugno I977, n. 285, per effetto della quale erano entrati senza concorso nel settore pubblico s8.ooo unità lavorative ( Sabino Cassese aveva polemicamente denunciato allora una vera e propria « Capo­ retto dell'amministrazione » ) 16• Sulla stessa linea si orientavano adesso le politiche di assorbimento delle prime crisi industriali17• Di conseguenza i dipendenti statali ( ministeri e aziende autonome, escluso il personale degli enti ) oscillarono intorno ai 2.3o o.ooo18• Aumentarono inoltre i diri­ genti ( giungendo sui 7.Ioo alla fine del decennio : un record in Europa ) . Nel com­ plesso, cioè considerando anche i dipendenti degli enti pubblici e di quelli locali, gli addetti al settore pubblico allargato ( dato I99I ) rappresentavano adesso il 26% degli occupati dipendenti e il I8% dell 'occupazione totale : 4,2 milioni, di cui 3,5 dipendenti delle amministrazioni pubbliche locali e centrali, senza contare i 623.000 a carico delle ferrovie. A dimensioni tanto rilevanti corrispose un disegno organizzativo altrettanto complesso e disordinato, frutto spesso occasionale delle spinte corporative interne e della connivenza con esse del sindacato e della politica. Alla fine del decennio l'amministrazione italiana avrebbe presentato una mappa estremamente articolata e largamente incoerente: 22 ministeri, 4 dipartimenti, circa Io autorità amministrative indipendenti, oltre 1.ooo enti pubblici nazionali, nonché 20 regioni di cui s a statuto -

bilancio di Giannini sul sostanziale fallimento delle idee riformatrici contenute nel Rapporto ( ma in verità qui Giannini si riferiva puntualmente all'ordine del giorno del Senato ) è nel suo intervento in

Le riforme amministrative a quattro anni dal rapporto Giannini. Atti del seminario (Roma, 2 febbraio I9S4), FrancoAngeli, Milano I984, pp. I42-9, ora anche in Giannini, Scritti, V I I I. I9S4-I990, AA.VV. ,

Giuffrè, Milano 2006, pp. 297-304. IS. Cfr. G. Melis, F. Merloni ( a cura di ) , Cronologia della pubblica amministrazione italiana (IS6I­ I992), il Mulino, Bologna I99S· A Darida successe nel I987 Livio Paladin, personalità di estrazione non politica. I 6. In R. Mori ( a cura di ) , Servitori dello Stato. Intervista sulla pubblica amministrazione a Sabino Cassese, Zanichelli, Bologna I98o, p. IO. I7. Nel periodo I980-93 « circa il 6o% degli impiegati pubblici, nonostante la Costituzione disponga che ai pubblici uffici si accede mediante concorso», avrebbe avuto il posto « con assunzioni "precarie': seguite da successive "titolarizzazioni" » : S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, ovvero l'arte di arrangiarsi, in S. Cassese, C. Franchini (cura di ) , L 'amministrazione pubblica italiana. Un profilo, il Mulino, Bologna I994· p. IS. I 8. Nel periodo I98 I-9I il numero dei dipendenti pubblici crebbe al ritmo di circa 44.000 all 'anno, facendo segnare una flessione rispetto alla crescita del decennio precedente ( 9s.ooo all'anno nel periodo I97I-8I ) : Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, Istituto poligrafìco e Zecca dello Stato, Roma I993· p. 3 9· Per una sintesi delle dinamiche di quegli anni, cfr. Tosatti, La modernizzazione, cit. 10 5

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speciale, 104 province, 8.103 comuni di tutte le dimensioni, 337 comunità montane, circa 700 consorzi di enti locali, 6s università, 67.000 sedi di istituti scolastici e quasi 6so unità sanitarie locali, per non dire delle 8oo aziende municipalizzate e delle molte altre unità amministrative19• Mentre, al tempo stesso, l'esercito dei dipendenti dello Stato e degli enti minori presentava, a un'analisi ravvicinata, un'e­ strema varietà di situazioni giuridiche e di diversi rapporti di lavoro (di « giungla retributiva » aveva parlato sin dal 1 9 7 2 Ermanno Gorrieri, in un citatissimo libro del Mulino)10•

3 Si avanza uno strano impiegato ... Il pubblico impiegato di fine secolo, e quello dei primi decenni del Duemila, appare in effetti radicalmente diverso dal cliché postottocentesco che a lungo gli avevano cucito addosso la letteratura, il giornalismo d' inchiesta, e più di recente il cinema e la stessa televisione�. Nel Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni presentato nel 1993 in Parlamento dall'allora ministro per la Funzione pubblica Sabino Cassese si leggeva: Gli addetti al settore pubblico allargato rappresentano, nel 1991, il 2 6 % degli occupati dipen­ denti e il 1 8 % dell'occupazione totale. Essi ammontano a 4,2 milioni [ ... ], di cui 3, 5 milioni sono dipendenti delle amministrazioni pubbliche centrali e locali. A questi si aggiungono 6 9 3.000 dipendenti di enti pubblici che, pur non essendo inclusi nella pubblica amministra­ zione, fanno parte del settore pubblico allargatou..

Dal Rapporto si evincevano altri dati interessanti. L'impiegato pubblico italiano medio era ancora nel 1 9 9 1 soprattutto di estrazione meridionale, era in genere un quadro intermedio (la piramide di un tempo si era come deformata e presentava una base proporzionalmente in via di assottigliamento, con un evidente ingrossamento della sezione mediana), era in genere laureato in giurisprudenza, aveva una produt19. L'elenco è tratto da Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione pub­ blica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, cit., p. 33· 20. E. Gorrieri, La giungla retributiva, il Mulino, Bologna 1972, spec. capp. IV, Le retribuzioni di fatto del pubblico impiego, e xv, La situazione di privilegio del pubblico impiego. 21. Sull' immagine dell' impiegato pubblico, cfr. i saggi raccolti in A. Varni, G. Melis ( a cura di ) , L'impiegato allo specchio, Rosenberg & Sellier, Torino 2002; inoltre G. Melis, Gli impiegati pubblici, in Id. ( a cura di ) , Impiegati, prefazione di S. Cassese, Rosenberg & Sellier, Torino 2004, pp. 15-76. Sulla rappresentazione letteraria del burocrate, ora spec. L. Vandelli, Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato, il Mulino, Bologna 2013. 22. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento della Funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, cit., p. 39· 106

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tività media sul lavoro molto bassa. La sua formazione avveniva ancora prevalente­ mente "sul campo", mentre restava marginale il ruolo delle molte ( troppe ) scuole di formazione promosse o finanziate dallo Stato ( alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, nata negli anni Sessanta, si erano affiancate via via le scuole che ciascuna delle amministrazioni forti aveva voluto costituire autonomamente ) . Inoltre l' impiegato tipo era scarsamente mobile, in prevalenza di residenza romana o meri­ dionale, il che comportava uno squilibrio del personale sul territorio ( con forte privilegio delle regioni del Sud e desertificazione degli uffici del Nord ) ; aveva scar­ sissima confidenza con le procedure informatiche; difettava di responsabilizzazione individuale e mostrava scarsa capacità di assumere decisioni. Parlava e scriveva in una lingua autoreferenziale - il « burocratese » 23 - che ne ostacolava la comunicazione con i cittadini. Era in atto, però, una rivoluzione culturale nascosta, destinata a incidere non poco, per lo meno dal punto di vista sociologico, negli anni successivi: il so% dei censiti nel Rapporto Cassese del 1993 era costituito da donne, distribuite secondo una scala che vedeva il massimo di concentrazione tra le insegnanti ( esclusa l' Università, erano il 75% del totale ) , con punte rilevanti in alcuni ministeri ( 45,3% ) e nella sanità ( 52% ) . L' identikit non sarebbe completo se non si rilevasse, al di là della foto di gruppo scattata nel Rapporto, un dato antropologico finale, decisivo per comprendere la realtà dell' impiego pubblico italiano : progressivamente, a partire dalle mobilitazioni poli­ tico-sindacali degli anni Settanta, passando per le trasformazioni sociologiche della seconda modernizzazione italiana, la figura dell ' impiegato ( forse non solo di quello pubblico, ma certamente di questi in maniera più vistosa) era cambiata in senso quasi molecolare. Persi progressivamente i tratti distintivi che ne avevano segnato a lungo identità sociale e separatezza, smarrita l'originaria identificazione del funzionario nella funzione ( elemento base dell ' ideologia stessa del pubblico impiego così come si era venuta articolando nel corso dell'Ottocento e poi nella prima parte del xx secolo ) , il dipendente pubblico tendeva ormai a confondersi nel vasto e anonimo mondo dei salariati con laurea e diploma, nella categoria indistinta del ceto medio e medio-basso italiano degli ultimi due decenni del secolo. Certo, faceva status, ancora, la stabilità del posto pubblico ( sebbene già gli uffici si popolassero di figure a part­ time o addirittura precarie, tendenza questa destinata ad approfondirsi nei decenni successivi ) , ma mutava I'autopercezione che le burocrazie avevano di sé stesse e del proprio ruolo. Era come se l' impiegato pubblico fosse attratto e cooptato in quel vasto e indistinto ceto medio, più o meno retribuito, che, nell 'incipiente processo di disgregazione dei vecchi blocchi sociali del dopoguerra, andava in quegli anni rap23. Sulla lingua della burocrazia, cfr. G. Melis, G. Tosatti, l/ linguaggio della burocrazia italiana tra Otto e Novecento, in A. Mazzacane (a cura di ) , I linguaggi delle istituzioni, Pubblicazioni dell ' Istituto Suor Orsola Benincasa-CUEN, Napoli 2ooi, pp. 129-48. 107

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presentando sempre di più la realtà mediana e in qualche modo più consistente della società italiana. Lo dimostravano le indagini sui consumi, sui modelli di vita privati, sulle propensioni culturali, sul modo di vestire e di comportarsi dentro e fuori dell'ufficio, sugli orientamenti politici, sull ' impiego del tempo libero, sul rapporto - terreno un tempo decisivo - con l'autorità costituita: si perdeva, al tempo stesso, quella che era stata un tempo la "professionalità" del lavoro pubblico, il senso della sua distinzione dal lavoro privato. E tramontava, o quanto meno si affievoliva, l' au­ tocoscienza del funzionario di Stato.

4 La stagione delle riforme: da Cassese a Bassanini Del resto, il mutamento non era solo sociologico. Agli inizi degli anni Novanta, in coincidenza con una dinamica non solo italiana, il movimento per le riforme amministrative sembrò riprendere con maggiore determinazione il suo cammino24• Risale al 1 9 9 0 una sequenza di leggi significative : la 7 agosto 1 9 9 0 , n. 241, sul procedimento amministrativo e l 'accesso ( largamente inattuata) ; la nuova disci­ plina antitrust, la riforma del sistema bancario pubblico, la riforma del potere locale (8 giugno 1 9 9 0, n. 1 4 2 ) , la regolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi, la riforma del sistema radio-televisivo e infine la legge sull ' immigrazione. Seguì il D.Lgs. 3 febbraio 1 9 9 3 , n. 29, con il quale si concludeva il lungo percorso per la contrattualizzazione del lavoro pubblico. Mutava radicalmente adesso, seb­ bene non senza incertezze e zone d 'ombra, l'essenza stessa del rapporto. La vecchia concezione del servitore dello Stato, assoggettato a codici speciali ma al tempo stesso beneficiario di garanzie particolari ( l'impiegato "irto di diritti" di cui si era discusso agli inizi del Novecento ) , lasciava spazio alla nuova conformazione del rapporto di impiego con lo Stato e con gli enti pubblici modellata, almeno in tendenza, su quella del dipendente privato . Se non era già morto negli anni pre­ cedenti, ora il vecchio Monsù Travet, di memoria ottocentesca, poteva certo con­ siderarsi fuori gioco. Dopo il 1993 la politica di riforma amministrativa conquistò un posto fisso nell'agenda dei governi, collegandosi sempre più strettamente al tema delle politiche di bilancio. Fu merito di Sabino Cassese ( ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi del 1 9 9 3-94 ) aver inserito nella finanziaria approvata a fine 1 9 9 3 un'ampia parte dedicata alla riforma. La bussola diveniva adesso la centralità del cittadino, l'interesse generale dell 'utente prevalente nei confronti di quello corpora­ tivo del personale. Semplificazione organizzativa, delegificazione e riduzione del 24. Cfr. per una sintesi G. Melis, La legislazione ordinaria, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2001, 4, spec. pp. 1072-4. 108

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corpo normativo, spazio alle autocertificazioni ( una legge le aveva introdotte, ma senza alcun effetto pratico, sin dal 1968), furono alcune delle parole d 'ordine del nuovo corso25• Ma soprattutto fu merito dell'iniziativa di Cassese ( in ciò fortemente appoggiato dal presidente del Consiglio Ciampi ) avere accreditato una concezione della riforma amministrativa non più come intervento di settore ma come motore strategico dell'intera attività di risanamento finanziario. Cessata forzatamente l ' azione di Casse se per le dimissioni del governo Ciampi, dopo le elezioni del 1994 subentrò nelle riforme un periodo di relativa stasi ( 1 9 94- 9 6 ) , coincidente dapprima con il breve governo Berlusconi ( ministro della Funzione pubblica fu Urbani ) e poi con il successivo governo Dini. Nel 1996 si aprì una nuova, intensa stagione riformista, caratterizzata dall'azione incalzante di Franco Bassanini, che nei governi succedutisi nel corso di quella legislatura svolse successivamente i ruoli di ministro per la Funzione pubblica e di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Tre provvedimenti in particolare caratterizzarono quello che ( se non altro per le ambizioni che lo mossero ) può essere considerato come un nuovo tentativo organico di innovare la struttura dello Stato : le leggi n. 59, n. 94 e n. 127 del 1997 ( Bassanini­ uno, Bassanini-due e Bassanini-tre ) 26• Da esse derivò una vera pioggia di interventi normativi, per lo più decreti delegati. L'amministrazione fu ora investita da un vasto processo innovativo, il cui asse centrale poté individuarsi nel superamento definitivo della struttura pubblicistica del rapporto di lavoro e nell'avvento di forme contrat­ tuali. In particolare, andando oltre la disciplina del D.Lgs. 29/ 1993, il regime di diritto privato fu esteso anche ai dirigenti generali, devolvendo così tutte le relative contro­ versie al giudice ordinario. Dal rapporto d 'impiego pubblico (dove l'aggettivo era parte fondante del rapporto stesso ) si passava al rapporto d ' impiego con lo Stato e . . . con 1 suo1 enti. La stagione delle riforme ( in sostanza il decennio 1993-2003), intensa e per certi versi anche impetuosa, ebbe certamente effetti positivi, ma non fu esente da contrad­ dizioni. In particolare non mise fine, anzi in certo senso incrementò, la tendenza alla moltiplicazione e sovrapposizione di modelli organizzativi differenti. L'innovazione si tradusse cioè non in una sostituzione del nuovo al vecchio, ma piuttosto in una tendenza "ad aggiungere", sovrapponendo spesso modelli organizzativi di natura differente o addirittura contrastante. Nell'ambito della stessa organizzazione mini­ steriale si impose ad esempio il modello del dipartimento, ma permase anche quello delle direzioni generali. I dipartimenti istituiti nell 'ambito dell 'amministrazione 25. Una puntuale analisi dei vari provvedimenti in S. Cassese, La riforma amministrativa all'inizio della quinta Costituzione dell'Italia unita, in "Foro Italiano", v, I994· 9, v, p. 249 ss.; e Id., Aggiorna­ mento sulla riforma amministrativa nel I993-I994 · in Cassese, Franchini (a cura di), L'amministrazione pubblica italiana. Un profilo, cit., pp. 239 ss. 26. Cfr. Melis, La legislazione ordinaria, cit., pp. 1075-6. Un bilancio a caldo, ma efficace è M. Rogari, La riforma della P. A. tra successi e lacune, in "li Sole 24 Ore", 19 marzo 2001. 109

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centrale sarebbero stati, al 2002, 34, a fronte però di 40 direzioni generali e di 13 agenzie (i ministeri erano quell'anno 14)27• Si affermarono poi altri schemi organizzativi, di impronta originariamente priva­ tistica, quali specialmente quello appena citato delle agenzie. Queste ultime, legate alla concezione generale del new public management, conobbero una crescente for­ tuna, culminata nel 1999 in due decreti legislativi che ne definirono struttura e compiti. Ebbero propri organi, bilanci separati, potestà di autorganizzazione. Pur sottoposte ai poteri di vigilanza e di indirizzo del ministro, costituirono una prima rete di amministrazioni per obiettivo, profondamente differenti dalle strutture a vocazione generalista che erano tipiche della struttura ministeriale8• Ebbero, infine, status non uniformi: alcune personalità giuridicahe di diritto pubblico, altre (forse) di diritto privato, altri ancora semplicemente riconoscimento in quanto organi, senza personalità giuridica. Un rilievo autonomo ricevettero anche, a partire dagli anni Novanta, le autorità indipendenti29• Sino al 1990 - è stato osservato - queste figure costituivano una novità, essendo ridotta la loro presenza a soltanto tre casi: la CONSOB, istituita nel 1974; il Garante per l 'editoria, del 1981; e l'I SVAP, del 1982. Ma nell'ultimo decennio del secolo sopravvennero l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ( 1990 ), la Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici ( 1990 ), l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ( 1995 ) , l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ( 1997 )30• Il fenomeno ebbe due cause principali: da un lato l'avvertito bisogno di compensare la politicizzazione delle amministrazioni tradizionali, dall'altro la spinta dall' interno esercitata dai "regolati", nell' intento di sottrarsi all' invadenza della politica. Mutavano intanto anche le amministrazioni tradizionali. Al vertice dei ministeri si affermò quasi ovunque la figura del segretario generale, operante alle dipendenze 27. I dipartimenti sarebbero stati (sempre a quella data) distribuiti nei seguenti ministeri: Interno; Giustizia; Politiche agricole e forestali; Ambiente e Tutela del territorio; Infrastrutture e Trasporti; Lavoro e Politiche sociali; Salute (nel 2004 il riordino del ministero dei Beni culturali li introdusse anche in quel ministero). 28. Cfr. S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo. Nuova edizione, Garzanti, Milano 2000, p. 1 94. I D.Lgs. 30 luglio 1 999, nn. 300 e 303, le fissarono in numero di 13: industrie, difesa, per le normative e i controlli tecnici, per la proprietà industriale, per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici, per i trasporti terrestri e le infrastrutture, per le entrate, per le dogane, per il territorio, per il demanio, per la protezione civile, per la formazione e l' istruzione professionale, per i servizi sanitari e per il servizio civile. Cfr. anche L. Casini, Le agenzie amministrative, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2003, 2, pp. 393 ss. 29. F. Merusi, Democrazia e autorita indipendenti. Un romanzo ((quasi" giallo, il Mulino, Bologna 2000; M. Clarich, Autorita indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, il Mulino, Bologna 2oos; L. Paganetto (a cura di), Authorities. Imparzialita e indipendenza, Donzelli, Roma 2007; A. La Spina, S. Cavatorto, Le autorita indipendenti, il Mulino, Bologna 200 8. 30. Cfr. M. Savino, Le riforme amministrative in Italia, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 200S, 2, pp. 440-1. 110

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dirette del ministro e incaricato di assicurare il coordinamento dell 'azione ammini­ strativa. Era, se si vuole, un vecchio istituto ottocentesco che tornava di attualità ( i segretari generali erano stati soppressi, salvo poche eccezioni, da Crispi nel 1888), ma adesso con caratteristiche nuove connesse alla complessità ormai assunta dalle attività di governo. Infine, un po ' per le stesse ragioni, si registrò una moltiplicazione delle strutture di staff, composte spesso da personale esterno all'amministrazione, legate personal­ mente ai responsabili politici da cui strettamente dipendevano e tendenzialmente in posizione di concorrenza con gli uffici amministrativi31• Trovava in ciò una prima risposta l'esigenza della politica di riappropriarsi del controllo dell 'attività di governo, senza più delegarne l'attuazione ai vertici amministrativi dei ministeri. Esigenza, in parte collegata alle fortune del bipartitismo spurio affermatosi dopo il 1994, comunque in palese contraddizione - si noti - con quella che era stata la "filosofia" del rifor­ mismo amministrativo di scuola gianniniana, basata invece sulla distinzione di fondo tra compiti di indirizzo, riservati al potere politico, e funzioni di attuazione ammi­ nistrativa degli indirizzi stessi, affidati all'esecuzione di una sorta di civil service all' italiana quale sarebbe dovuto essere una dirigenza amministrativa rinnovata e finalmente consapevole delle finalità di governo. Concorse, e molto, infine a quella che potremmo definire come la rivincita della politica ( che in larga misura si riappropriò degli spazi ceduti nel decennio precedente ) la nuova normativa sullo spoils system, avviata dal governo di centro-sinistra con una norma del 1998 che sottoponeva per la prima volta alla discrezionalità del governo ( sia pure solo a scadenza di legislatura e con determinati temperamenti ) gli incarichi per i dirigenti generali capi dei dipartimenti32• Emergeva insomma una tendenza quasi oggettiva alla difformità e alla frammen­ tazione. Era come se l'antica trama dell'amministrazione per ministeri tendesse a slabbrarsi inesorabilmente, senza peraltro mai autoriformarsi in profondo, dando vita ad apparati paralleli caratterizzati dalla specialità e dalla finalità di scopo. E tutto

31. S. Battini, Gli uffici di sta./Jdei ministri: diversi ma uguali?, ivi, 2oo6, 3, pp. 671 ss. Un tentativo di valutare quanto fosse realmente rispettata la differenziazione prevista in legge tra uffici di staff e uffici online dell'amministrazione fu messo in atto alla fine della X IV Legislatura. I risultati sono riassunti in una serie di saggi pubblicati ivi, 2005, 3· La distinzione apparve già allora problematica, sia dal punto di vista del riparto delle attività che da quello meramente organizzativo. 32. S. Battini, Il principio di separazione fra politica e amministrazione in Italia: un bilancio, ivi, 2012, 1, pp. 39-80. Battini, analizzando il rapporto tra politica e amministrazione, ravvisa nella legisla­ zione del biennio 1 997-9 8 una «profonda rivisitazione» dei principi affermati nel 1993-94. In parti­ colare le riforme Bassanini avrebbero segnato una « banalizzazione » della separazione funzionale politica-amministrazione, negando « il senso profondo del nuovo principio di distribuzione delle competenze, e cioè che l 'esercizio, da parte degli organi politici, dei poteri di indirizzo e di rule making fosse di per sé sufficiente a garantire il controllo democratico degli apparati amministrativi». Sarebbe nata da ciò «una più avvertita esigenza di contiguità e di consentaneità » e una più stretta « relazione di tipo fiduciario tra politica e amministrazione » ( ivi, pp. 8-9 ) . III

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avveniva non in base a un disegno complessivo di riforma, ma seguendo spinte par­ ticolari, spesso derivanti dall'urgenza dei problemi e dalla rilevante influenza degli interessi di settore dei quali la nuova amministrazione andava a costituire l 'interlo­ cutrice principale. Il cambiamento era in atto, indubbiamente. Ma il nuovo, anziché sopprimerlo, si aggiungeva al vecchio, !asciandolo sopravvivere.

s

I primi anni Duemila: il cambiamento contrastato

Come già era accaduto negli anni Ottanta, il primo decennio del nuovo secolo fu segnato da una netta sterilizzazione, per non dire dalla paralisi del progetto riforma­ tore. Ciò non escluse, beninteso, che si esercitasse ancora (e molto) una certa retorica della riforma, nel senso di un insistito richiamo a essa nei programmi di governo e negli stessi atti del Parlamento. Ma a questa riaffermazione di principio non corri­ spose più né una reale volontà politica al vertice dell'esecutivo, né un convinto coinvolgimento delle amministrazioni. Si succedettero nei primi anni Duemila tre ministri del centro-destra (Frattini, 2001-02; Mazzella, 200 2-04; Baccini, 2004-06), seguiti da uno di centro-sinistra (Nicolais nel breve governo Prodi del 2oo6-o8). Quindi si aprì la controversa stagione di Renato Brunetta ( 2oo8-n) . Il periodo intercorso tra il 20 01 e il 2on fu principalmente caratterizzato dalla contraddittoria deriva delle riforme Bassanini varate nel decennio precedente33• Fu una sorta di metabolizzazione del cambiamento, un processo di adattamento e al tempo stesso di svirilizzazione delle riforme, non sempre evidente ma tuttavia efficacissimo. Al termine del quale la resistenza passiva (e talvolta scopertamente attiva) degli appa­ rati ebbe ragione delle novità più incisive introdotte dai riformatori. Il processo di ristrutturazione dell'amministrazione centrale innescato specialmente con la legge 59/ 1997 e poi rafforzato con i provvedimenti varati da Bassanini nel 1999 si realizzò sì, sulla carta, ma con palesi, persino clamorose contraddizioni. Così, ad esempio, a livello delle strutture centrali, si intersecarono ambiguamente due modelli ordinamen­ tali implicitamente alternativi e invece destinati a convivere pacificamente: quello nuovo dipartimentale e quello tradizionale delle direzioni generali. Furono riorganiz­ zati più o meno coerentemente secondo il primo schema il ministero dell' Interno (D.P.R. 7 settembre 2001, n. 398), quello della Giustizia (D.P.R. 6 marzo 2001, n. ss ),

33· Un bilancio delle riforme del periodo I996-200I e del periodo successivo sino all 'avvento alla Funzione pubblica del ministro Brunetta è stato tracciato dallo stesso Franco Bassanini in un articolo in "The Journal of European Economie History", 20IO, n. I, apparso in traduzione italiana nel sito di ASTRID (http :/ /astrid-online.com/Riforma-dei/Studi-e-ri/BASSANINI_Vent-anni-di-riforma-PA_ 2o_o2_Io.pdf) con il titolo Vent 'anni di rifòrme del sistema amministrativo italiano (1990-2010). 112

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quello delle Politiche agricole e forestali (D.P.R. 28 marzo 2000, n. 450 ) , quello della Salute (D.P.R. 7 dicembre 2ooo, n. 435 ) . Il ministero per i Beni e le Attività culturali fu organizzato dapprima per direzioni generali (D.P.R. 29 dicembre 2000, n. 44I ) , poi per dipartimenti (D.Lgs. 8 gennaio 20 04, n. 3 ) , quindi un D.P.R. ( 26 novembre 2007, n. 233 ) ripristinò direzioni generali e segretario generale. Nel ministero dell 'E­ conomia e delle Finanze i due modelli si sovrapposero : quattro dipartimenti nella vecchia struttura derivante dal ministero del Tesoro (D.P.R. 20 febbraio I998, n. 38 ) , direzioni generali nella parte del ministero ereditata dalle Finanze. Particolarmente laboriosa fu in questo caso la sintesi operata nel D.P.R. 26 marzo 2ooi, n. I07, che ridisegnò l 'architettura delle funzioni e degli uffici di livello dirigenziale generale secondo un'articolazione nella quale un unico dipartimento, denominato per le poli­ tiche fiscali, si suddivideva in otto direzioni generali34• Restarono invece fedeli all 'antica organizzazione per direzioni generali gli Esteri ( I3 direzioni generali), la Difesa ( Io ) , le Comunicazioni ( 5 ) , l'Ambiente e Tutela del territorio (dove una primitiva svolta verso i dipartimenti fu corretta dal D.Lgs. 6 dicembre 20 02, n. 287, in 6 direzioni generali), le Infrastrutture e Trasporti (ugual­ mente articolato in dipartimenti nel 2ooi ma poi, con D.Lgs. I2 giugno 2003, n. I52, tornato a un numero non superiore a I6 direzioni generali), il Lavoro e Politiche sociali (dove i due dipartimenti stabiliti nel 2ooi tornarono con il D.Lgs. I I agosto 2003, n. 24I, alle direzioni generali) , le Attività produttive (D.Lgs. Io settembre 2003, n. 32, non più di I I direzioni generali)35• In definitiva nel 2002 i dipartimenti istituiti nell'ambito dell 'amministrazione centrale sarebbero stati 34, a fronte di 40 direzioni generali e I3 agenzie36• Ugualmente contraddittorie si rivelarono nella nuova fase le politiche per il personale. Istituti e norme anche fortemente innovativi restarono affidati a un' ini­ ziativa governativa inadeguata, debole quando non addirittura ostile, arenandosi spesso nell 'inerzia di apparati burocratici che quelle riforme avevano più subito che condiviso. Quanto alle dimensioni del personale, esse non diminuirono affatto (com'era negli auspici), ma tesero a stabilizzarsi su un totale che oscillò tra i 3.335.6I2 dipen­ denti del 2ooo e i 3 · 377· 9 I8 del 2002. E per quanto concerne lo status giuridico, poi, le forme flessibili e non più a tempo indeterminato del rapporto si moltiplicarono caoticamente, sia in ragione dei ricorrenti blocchi delle assunzioni (che suggerirono vere e proprie "infornate" di personale precario), sia forse in coincidenza con una tendenza generale, non solo 34· Un'analisi puntuale di queste trasformazioni organizzative è in A. Meniconi, F. Verrastro, Le strutture e il personale, in Formez, Dipartimento della Funzione pubblica, Note e commenti sul sistema amministrativo italiano, 2004, 1. Organizzazione, personale e procedure, Formez, Roma 2004, pp. 107 ss. 35· lvi, spec. pp. II4-S· 36. G. Melis, Le strutture e il personale, in Formez, Dipartimento della Funzione pubblica, Note e commenti sul sistema amministrativo italiano, 2004 , 3· Indicazioni finali, cit., pp. 5 1 ss., spec. p. S3· Il3

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italiana, a privilegiare tipologie di contratti a tempo, apparentemente più congeniali alle trasformazioni del lavoro (negli uffici pubblici l'avvento dell' informatica con ciò ch'essa richiedeva in termini di nuove competenze e di ristrutturazione interna) . Cambiamenti di un certo rilievo, ma anch'essi contraddittori, avvennero nel campo della dirigenza pubblica. Qui a partire dal 2000 si registrarono almeno due provvedimenti rilevanti: il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull'o rdina­ mento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, provvedimento generale mirante a consolidare quasi un testo unico della disciplina sul personale pubblico (disciplina costituitasi a partire dal D.Lgs. 29/ 1993 e implementata poi dalle leggi Bassanini e da altre norme); e la legge 15 luglio 2002, n. 145, che novellò in più parti il precedente D.Lgs. 165/2oor, consolidandolo in un testo unico37• La legge 145/2002, in particolare, interveniva nella delicata materia degli incarichi ai dirigenti (da allora nota come sistema dello spoils system), estendendo a una fascia più ampia la possibilità originariamente limitata agli alti dirigenti, segretari generali e capi di dipartimento e - soprattutto - stabilendone la cessazione delle funzioni decorsi novanta giorni dal voto di fiducia al nuovo governo (con eliminazione della clausola che stabiliva la continuazione del rapporto in mancanza di revoca) . Era un passaggio decisivo, che avrebbe mutato profondamente il rapporto politica-ammini­ strazione. E si innescava nel progressivo esaurirsi di quei tradizionali " bacini cliente­ lari", costituiti nel passato da partecipazioni statali e sistema delle banche special­ mente pubbliche, sui quali si era prevalentemente, sino ad allora, incentrato lo scambio politica-amministrazione. L'applicazione della legge 145/20 0 2, sebbene poi in alcune sue parti fosse dichiarata incostituzionale, produsse effetti immediati desti­ nati a radicarsi negli anni successivi. In primo luogo instaurò la prassi di un consi­ stente turnover dei dirigenti in stretta corrispondenza con l'alternarsi dei vertici politici (tipica conseguenza fu l 'abbreviazione della durata massima degli incarichi connessa all'eliminazione del termine di durata minima, con effetti evidenti di pre­ carizzazione delle responsabilità); in secondo luogo indirettamente incoraggiò il ricorso sempre più massiccio alle nomine esterne ( nel 200 3 si stabilì peraltro un aumento del numero dei dirigenti generali provenienti da altre amministrazioni fino al 70% dei posti disponibili, mentre la percentuale degli esterni restò fissata al ro%) ; in terzo luogo creò una dipendenza maggiore tra vertici amministrativi e vertici politici, riducendo ulteriormente l'autonomia della dirigenza dalla politica e accre­ scendone la fidelizzazione nei confronti dei partiti di governo38• Permanevano per altri gli antichi limiti del modello burocratico italiano. Per 37· lvi, spec. pp. S4 ss. 38. Battini, Ilprincipio di separazione, cit., p. 24, mette in rilievo però la progressiva « correzione » dello spoils system a opera della giurisprudenza della Corte costituzionale, che specialmente mise in risalto la « distinzione tra le funzioni di diretta collaborazione al processo di formazione dell' indirizzo politico attribuite agli uffici di stajf, da un lato, e le funzioni che attengono ali ' attuazione ed esecuzione dell' indirizzo politico attribuite agli uffici di fine, dall'altro». 114

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prima l'estrazione del personale in prevalenza dalle regioni meridionali del paese. Poi la perpetuazione, a onta delle tanto conclamate velleità di rinnovamento culturale, della laurea giuridica come principale porta d'accesso all ' impiego pubblico. Infine una certa tendenza all 'invecchiamento del corpo burocratico, facilitata dalla rarefa­ zione dei concorsi e anche in parte dalla caduta di prestigio delle carriere statali nell'opinione comune specialmente giovanile. Unico fattore potenzialmente dinamico fu, nei primi anni Duemila, l'aumento, lento ma in compenso costante, della presenza femminile ai vertici delle amministra­ zioni: nel complesso del settore pubblico allargato le donne a metà degli anni Due­ mila si attestarono al 52,7 % del totale degli occupati ( 1.780.732 contro 1.597.186 maschi ) , con punte del 75 ,3% nella scuola ( 850.952 addette) e del 59,6% nel Servizio sanitario nazionale ( 412.3 1 6 unità) . Nella carriera prefettizia toccarono punte del 45,6% e nella magistratura del 35,7%39•

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L 'esperimento Brunetta (2009- u ) Chiamato nel governo Berlusconi ( 2oo8-n ) alla responsabilità della Funzione pub­ blica, Renato Brunetta non nascose l'ambizione di riprendere e portare a compi­ mento le linee di riforma ereditate dalle precedenti stagioni politiche e rimaste, per così dire, a metà del guado. In particolare fece della privatizzazione del pubblico impiego la sua principale parola d'ordine, intendendola soprattutto però come approccio aziendalistico e manageriale alle pubbliche amministrazioni. Vi aggiunse di suo, però, una sostanziale sfiducia verso la contrattazione collettiva ( non del tutto ingiustificato, a dire il vero, vista l'esperienza degli anni precedenti ) , sino al punto da individuare proprio nella contrattazione ( e nel conseguente esorbitante potere del sindacato ) la causa prima di un assetto inefficiente e poco meritocratico della disci­ plina del personale. L'analisi - lo si ripete - non era del tutto avulsa da una certa realisti ca percezione di quanto accaduto negli anni precedenti ( non vi era dubbio che le politiche riformatrici dello stesso centro-sinistra avessero incontrato sovente il "fuoco amico" di un certo conservatorismo sindacale ) . Ma l' insistenza sul punto e la vis polemica che il ministro ( uomo di prorompente personalità) pose nella sua stra­ tegia comunicativa crearono immediatamente le condizioni di una forte contrappo­ sizione sindacale e anche politica. Inaugurando nel 2008 il Forum della Pubblica amministrazione Brunetta ebbe ad esempio a dire testualmente: « Su questo ho le 39· I dati sono tratti da Meniconi, Verrastro, Le strutture e il personale, cit., pp. I23-4· Cfr. anche G. Melis, A. Meniconi, Dirigenze, responsabilita e modelli organizzativi, in Formez, Dipartimento per la Funzione pubblica, Note e commenti sul sistema amministrativo italiano in contesto internazionale, 2006, 3· Il mercato tra semplificazione e controllo, Formez, Roma 2006, pp. I3 8-4o. 115

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idee molto chiare : ci sono le leggi che consentono la cassa integrazione e il licenzia­ mento, solo che non sono mai state utilizzate. Il clima nel paese, però, adesso è cambiato » . E ancora : «E un miracolo che la Pubblica amministrazione ancora stia in piedi non avendo strumenti come gli incentivi, disincentivi, premi e punizioni. Un'azienda privata in queste condizioni avrebbe già chiuso » 40• La sfiducia verso i contratti si tradusse però innanzi tutto (e in contraddizione con la linea della privatizzazione) in una forte tendenza alla rilegificazione sul piano delle fonti. Il perno della riforma fu il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 1 5 0 (attuativo a sua volta della legge del 4 marzo dello stesso anno, n. 15, sull'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e su efficienza e trasparenza delle pubbliche ammi­ nistrazioni) : un testo di legge composito, contenente (come molta parte della legi­ slazione di quel periodo, per la verità) disposizioni talvolta frammentarie, la cui filosofia di fondo, tuttavia, si ispirava a un concetto che si sarebbe potuto definire di modernizzazione dall'alto delle pubbliche amministrazioni4'. La norma forse più significativa, anche sul piano simbolico, fu quella che eliminava la cosiddetta "dispo­ sizione spazzino", in base alla quale si era anteriormente previsto che i nuovi contratti collettivi potessero disapplicare le leggi intervenute fra un contratto e l'altro; ora, al contrario, si stabiliva che, in caso di nuovo intervento legislativo su materia oggetto di contrattazione, i successivi contratti non potessero disapplicare la legge. Nel rista­ bilire quello che poteva anche sembrare un corretto sistema gerarchico tra le fonti, si realizzava però un curioso paradosso : intere materie, solo di recente sottratte al dominio della legge e affidate alla libertà dei contratti, strumenti flessibili, tornavano sotto l'egida del legislatore, cioè in un regime di maggiore rigidità. Ugualmente paradossale era l'esito della nuova politica verso la dirigenza pubblica. In questo campo l'esigenza (in parte giustificata) di restituire autorità decisionale al dirigente, lungi dal suggerirne il rafforzamento autonomo rispetto alla politica (sugli incarichi però Brunetta tentò di introdurre una norma che obbligava a motivare anche il mancato rinnovo, oltre che la revoca prima della scadenza: norma peraltro subito abrogata), fu soddisfatta da un ulteriore ricorso alla legge. E la legge impose adesso al dirigente di attribuire i premi in modo selettivo, secondo fasce di merito, pena respon­ sabilità disciplinare (ma le fasce di merito furono poi rese inapplicabili dalla legislazione successiva e soprattutto dalla mancanza di risorse e dal blocco dei rinnovi contrattuali). '

40. Brunetta: licenzieremo i «fannulloni» della Pubblica amministrazione. Il ministro della Fun­ zione pubblica: cacceremo chi non lavora, in "Corriere della Sera� 8 maggio 20I2, http :/ /www.corriere. it/politica/o8_maggio_I2/brunetta_pagelle_on_line_oeao22a8-2oos-IIdd-89sd-ooi44f486ba6.shtml. Una campionatura delle dichiarazioni rilasciate alla stampa dal ministro, specialmente subito dopo la sua nomina, consente di comprendere la vis polemica che ne caratterizzò gli esordi (cfr. http:/ /italia. panorama. it/ Renato-Brunetta-Vorrei-fare-U-fannullone-ma-non-ci-riesco). 4I. Cfr. L. Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica del lavoro pubblico, Editoriale Scientifica, Napoli 2009, ma qui si tiene presente la ristampa 20I I, dove cfr. spec. U saggio di L. Zoppoli, Legge, contratto collettivo e circuiti della rappresentanza nella riforma ((meritocratica" del lavoro pubblico, pp. 663 ss. 116

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E sempre la legge impose al dirigente di punire i propri dipendenti, pena responsabilità disciplinare del dirigente stesso. Che era come ammettere che, visto che il dirigente non si comportava spontaneamente come un datore di lavoro privato, lo si obbligava adesso per legge ad assomigliargli il più possibile moltiplicando i vincoli legislativi e le sanzioni a suo carico. Era una gabbia normativa nella quale l'autonomia dirigenziale derivata dal modello privatistico rischiava di perdersi definitivamente in una ridda di prescrizioni disciplinari e di possibili sanzioni degne del più macchinoso sistema burocratico41• Non sembra, almeno stando alle prime analisi disponibili, che la breve stagione del ministro Brunetta abbia impresso sulle pubbliche amministrazioni un' impronta alternativa. Né che abbia lasciato tracce durature. Caduto il governo Berlusconi ( dicembre 20 1 1 ) , il nuovo ministro Filippo Patroni Griffi ( magistrato del Consiglio di Stato, una lunga esperienza alle spalle nelle strutture di gabinetto di precedenti governi, egli stesso autorevole studioso del diritto amministrativo ) riprese sostanzial­ mente il filo del riformismo degli anni precedenti, concentrandosi su alcuni ragio­ nevoli obiettivi di breve periodo.

7 Conclusioni A un bilancio provvisorio ( al 2013, fine della XVII Legislatura) l'apparato ammini­ strativo italiano appare comunque non troppo dissimile, stando specialmente ai dati strutturali, dalle condizioni che lo caratterizzavano agli inizi del nuovo secolo. Unico dato significativamente differente riguarda il personale, che, per effetto del congelamento dei concorsi connesso con le politiche di contenimento della spesa, appare adesso, dopo decenni di apparentemente inarrestabile tendenza alla crescita, in sensibile calo. I dipendenti pubblici italiani, comparati con quelli degli altri paesi europei, non sono oggi affatto in eccedenza, essendo anzi scesi negli ultimi 10 anni del 4,7% ( meno 1 1o.o o o unità secondo dati EURI S P ES-UILPA ) 43• I dipendenti pubblici italiani sono s8 ogni mille abitanti ( la Svezia ne ha 1 3 5 , la Germania 54, la Spagna 6s, la Francia 94, il Regno Unito 9 2 ) . In totale lavorano nelle pubbliche amministra. ZIOni 3 · 24o.o oo persone. Per il resto permangono ( quando non si presentano aggravati ) gli antichi vizi del modello italiano : .

42. S. Battini, L autonomia della dirigenza pubblica e la "riforma Brunetta": verso un equilibrio tra distinzione e frducia?, in "Giornale di Diritto Amministrativo", 20IO, I, pp. 39-44. Cfr. anche B. G. Mattarella, La nuova disciplina di incentivi e sanzioni nel pubblico impiego, in "Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico", 2009, 4, pp. 939 ss. 43· L' Italia è l'unico paese con un trend in diminuzione: nel resto d'Europa, gli addetti nel pub­ blico impiego sono cresciuti nel decennio secondo le seguenti misure: in Irlanda e in Spagna +36,I% e +29,6 %, nel Regno Unito +9,5%, in Belgio +12,8%, in Francia +s,I%, in Germania +2,5%. 117

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la conforma, in contraddizione con le asserite velleità federalistiche degli ultimi anni, della vocazione centralista del sistema, con concentramento al centro di risorse finanziarie (si consideri il ruolo assolutamente dominante del ministero dell 'Eco­ nomia e delle Finanze, accresciuto dalle esigenze della spending review); la tendenza alla sovrapposizione disordinata di livelli di amministrazione, fun­ zioni, competenze tra il centro e i vari stadi del sistema periferico, a sua volta con­ notato dalla moltiplicazione dei soggetti istituzionali che vi agiscono ; il blocco, in molti settori, al centro come nelle istituzioni locali, dei concorsi quale naturale mezzo di ricambio, con conseguente invecchiamento anagrafico delle pub­ bliche amministrazioni (e ricorso massiccio, invece, a forme di outsourcing che hanno privato intere aree specialistiche dell'amministrazione del proprio personale specia­ listico, spesso in passato di elevatissimo livello professionale: si pensi a ciò che è avvenuto nei beni culturali) ; l'assenza di una politica della formazione coerente, capace di tener conto delle trasformazioni in atto e di quelle che si intravedono per il futuro prossimo. E la riconferma, a onta di tutti i buoni propositi, di un modello formativo tipico (e al tempo stesso obsoleto) : quello basato (ancora) sul laureato in giurisprudenza, predi­ sposto a svolgere attività di controllo formale piuttosto che a compiti di gestione e operat1v1; la persistenza di una dirigenza troppo ampia, selezionata con metodi vecchi e antiquati, demotivata perché priva di una sua missione, umiliata dallo spoils system; la scarsa propensione all'innovazione, come testimoniato dal calo del fatturato nel settore dell ' I I,2% tra il 2008 e il 2010 e dalle posizioni di coda occupate nelle spe­ cifiche classifiche europee; la ripresa massiccia della corruzione amministrativa, anch'essa testimoniata dalle classifiche internazionali che ci collocano in coda alla lista virtuosa dei paesi europei per capacità di reazione e soprattutto di prevenzione del fenomeno corruttivo; l 'abuso delle gestioni speciali o commissariali, o comunque l'affidamento di compiti via via più rilevanti (e anche più delicati) ad apparati paralleli sottratti alla catena tradizionale dei controlli. Un abuso che nel caso della protezione civile è sfociato in fattispecie da codice penale; la tendenza preponderante alle esternalizzazioni, cioè il ricorso sempre più fre­ quente a surroghe di soggetti esterni rispetto a funzioni esercitate in passato dalle pubbliche amministrazioni (e ciò sia per la generale riduzione delle risorse sia per le crescenti difficoltà gestionali interne) . Gran parte di questi difetti di fondo investe non solo gli apparati centrali ma le stesse amministrazioni delle Regioni e degli enti locali, talvolta aggravati a quei livelli periferici (come accade ad esempio per la corruzione) da vistose lacune dei controlli e dalla prossimità maggiore della pubblica amministrazione alla politica. Il sistema amministrativo italiano, insomma, appare alla vigilia della XVIII Legi­ slatura repubblicana come in mezzo al guado (un guado nel quale è impantanato .

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ormai da almeno due decenni). Da un lato la spinta di un riformismo tutto sommato virtuoso, che tuttavia non di rado si è espresso in forme contraddittorie, risentendo non poco delle inerzie e delle resistenze del sistema; dall'altro il peso della tradizione burocratica precedente, la cui forza immobilizzatrice risiede specialmente nella natura sociale che la questione amministrativa (subspecie di questione dell'impiego con lo Stato e con i suoi enti) ha assunto storicamente in Italia nel corso del xx secolo. Ciò induce a ritenere che nessuna politica riformatrice potrà avere successo se non si inserisce in un progetto più generale di riforma dello Stato e, nel contempo, se non mira a delineare una nuova collocazione sociale e culturale di quei ceti medi che principalmente alimentano l' impiego pubblico. Il che implica però sciogliere alcuni nodi rimasti tuttora irrisolti: quello che attiene all 'ambigua natura dell' impiego pubblico (funzioni che restano pubbliche in regime privatistico di contrattualizza­ zione del rapporto) ; quello che riguarda la struttura organizzativa degli apparati preposti a produrre pubblici servizi (amministrazione per obiettivi in un quadro di garanzia dell' interesse pubblico) ; quello che concerne la formazione dei dipendenti pubblici e la loro rinnovata identità sociale e culturale in una società che va rapida­ mente modificando i propri connotati. Tre sfide tuttora valide, sulle quali dovrà misurarsi chi vorrà in futuro risolvere la questione amministrativa.

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Politica e sistema bancario tra Prima e Seconda Repubblica di Andrea Guiso

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Dalla politica alle banche (e ritorno ?). Un ' ipotesi Questo saggio tenterà di inquadrare il crollo e la trasformazione del modello di democrazia politica realizzato in Italia, a partire dalla fine degli anni Sessanta, attra­ verso il dispiegarsi di un disegno di "costituzione economica" basato su presupposti correlati di dirigismo statale e di "accondiscendenza finanziaria" delle autorità mone­ tarie su un doppio versante : quello delle politiche di intervento pubblico a sostegno dell'economia e dello sviluppo industriale e quello delle politiche del consenso e della spesa filtrate dai partiti, referenti primari dell' intermediazione tra Stato e interessi sociali ed economici1• L'attenzione posta al sistema bancario deriva dal ruolo strate­ gico da esso assunto nelle relazioni tra la politica e il sistema economico-produttivo in Italia. Ruolo che è venuto a sua volta declinandosi in un contesto in cui il pubblico potere ha storicamente assolto una decisiva funzione tutoriale nei confronti del sistema industriale e di un mercato condizionati da cronica scarsità di capitali di rischio2• Se il capitalismo italiano ha potuto infatti essere definito « capitalismo da liability» , ossia « da debito » , è in ragione della preponderante e per certi versi ano­ mala posizione che le istituzioni del credito da sempre hanno occupato nella struttura I. Di « accondiscendenza finanziaria» parla esplicitamente il fondamentale rapporto Il sistema credi­ tizio efinanziario italiano preparato dalla commissione di studio istituita dal ministero del Tesoro nel I982 e presieduta da M. Monti, F. Cesarini, C. Scognamiglio (Istituto poligrafìco e Zecca dello Stato, Roma I982). Sul concetto di costituzione economica e sulla sua evoluzione nel contesto italiano si rimanda a S. Cassese (a cura di), La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Bari I99S· La svolta degli anni Sessanta nei rapporti tra Stato e mercato e nella politica economica del paese è evidenziata in S. Rossi, La politica economica italiana {Ig6S-2ooo), Laterza, Roma-Bari I998; M. Salvati, Dal miracolo economico alla moneta unica europea, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia, 6. L'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari I999· Più propenso a sottolineare la stretta complementarità e il rapporto di genetica derivazione tra le politiche economiche degli anni Cinquanta e quelle della fase successiva F. Barca, Com­ promesso senza riforme, in Id. (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma I997· 2. Banca d' Italia, Considerazionifinali per il2oos, in http:/ /www.bancaditalia.it/interventi/integov/ 2oo6/cfos/ cfos_considerazioni_fìnali.pdf. I li

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economico-produttiva del paese. Situazione che ha indotto gli studiosi a parlare di « bancocentrismo » , con riferimento a un sistema finanziario in cui le banche, appunto, controllando direttamente o indirettamente gran parte degli intermediari, hanno rappresentato il più importante, e talora quasi esclusivo canale di finanzia­ mento dell'impresa industriale3• L'importanza del nesso banche-politica va però ravvisata anche nella profondità e rapidità dei cambiamenti - e delle conseguenti ricadute sugli assetti complessivi di potere - che hanno investito, a partire dagli anni Novanta, la struttura, le funzioni e la configurazione del sistema finanziario italiano4• Cambiamenti avvenuti in stretta con­ nessione con due processi di portata sistemica: il progressivo allineamento a partire dagli anni Ottanta della legislazione italiana alle direttive europee in materia di liberalizza­ zione del mercato del credito, nel più generale quadro di convergenze politiche, istitu­ zionali ed economiche tra paesi membri della Comunità Europea5; le radicali trasfor­ mazioni operanti, nel medesimo torno di tempo, nel quadro dell'economia globalizzata, con il peso sempre più elevato assunto dalla componente finanziaria degli scambi. Tale complesso di circostanze, come si dirà, non intersecava accidentalmente il crollo del sistema dei partiti. Ne costituiva invece un fattore decisivo, contribuendo a mettere in crisi la strutturale preminenza del potere politico sul potere economico. L'immane opera di smantellamento del sistema pubblico dell'economia, paragonabile alle legislazioni antifeudali realizzate nell' Europa sette-ottocentesca, e il contestuale avvio, all' inizio degli anni Novanta, di un vasto programma di privatizzazioni, non rappresentarono infatti soltanto la risposta pragmatica a un imperativo di natura finanziaria, legato al contenimento del debito pubblico e all'abbattimento del disa­ vanzo primario dello Stato6• Tali eventi, conseguenza diretta del vincolo esterno con l'Europa comunitaria, costituirono, piuttosto, lo snodo di un processo di transizione nel corso del quale i cicli delle crisi politiche e quelli delle crisi economiche avrebbero finito, come mai in passato, per apparire strutturalmente legatF. Una diretta conse3· M. Messori, Banche, riassetti proprietari e privatizzazioni, in "Stato e Mercato", 1 998, s. pp. 88-u8; R. Costi, M. Messori (a cura di), Un capitalismo senza rendite e con capitale, il Mulino, Bologna 2005; AA.VV., Proprieta e controllo delle imprese in Italia. Alle radici delle difjìcolta competitive della nostra industria, il Mulino, Bologna 2005. Per uno sguardo di lungo periodo sulle caratteristiche bancocentriche del modello italiano, cfr. S. La Francesca, G. Conti (a cura di), Banche e reti di banche, il Mulino, Bologna 2000; A. Polsi, Alle origini del capitalismo italiano. Stato, banche e banchieri dopo l'Unita, Einaudi, Torino 1993. 4· Cfr. P. Ciocca, La nuovafinanza in Italia. Una difficile metamorfosi (I9So-2ooo), Bollati Borin­ ghieri, Torino 2000. S· F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, prefazione di M. De Cecco, Donzelli, Roma 2007. 6. E. Barucci, F. Pierobon, Stato e mercato nella seconda Repubblica. Dalle privatizzazioni alla crisi finanziaria, il Mulino, Bologna 2010; A. Macchiati, Privatizzazioni tra economia e politica, Donzelli, Roma 1996. 7· Per una ricostruzione "dall'interno" del nesso crisi politica-crisi economica nel biennio 1992-94, cfr. P. Barucci, L'isola italiana del Tesoro. Ricordi di un naufragio evitato (I992-I994), Rizzoli, Milano 1995. 1 22

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guenza di quanto appena affermato fu il varo, nell'aprile 1 9 9 3, in piena tempesta finanziaria e valutaria, di un governo "tecnico", presieduto dal governatore della Banca d' Italia Ciampi, che le circostanze portavano ad accreditare come il commissario liquidatore del modello "autarchico" di democrazia politica consolidatosi negli anni Settanta intorno alla funzione redistributiva della spesa pubblica e a una politica monetaria sensibile alle esigenze del Tesoro. Due pilastri, questi, della forma conso­ ciativa di governo, divenuti tuttavia incompatibili, alla fine degli anni Ottanta, con gli obiettivi e gli standard macroeconomici fissati in sede europea in vista del tra­ guardo della moneta unica. Presupposto per il mutamento della forma di governo era infatti, e non poteva essere altrimenti, lo scioglimento del mostruoso intreccio tra Stato ed economia sca­ turito dalla degenerazione pubblicistica e partitocratica del modello di economia mista ideato negli anni Trenta nel contesto della Grande crisi e adattato con alcune varianti all' Italia della ricostruzione8• La politicizzazione del sistema bancario e la gestione amministrativa del credito ne avevano costituito due pilastri, emersi con forza soprat­ tutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta, come conseguenza sia delle scelte tec­ nico-operative che avrebbero portato il credito a trasformarsi in una « variabile dipendente » dell'economia statalizzata9, sia della progressiva estensione dell'occupa­ zione partitica del potere a tutti i livelli dell'organizzazione politica ed economica dello Stato. Soltanto in forza di un'obbligazione riformistica esterna, quella cioè derivante dagli impegni sottoscritti con l' Europa dal paese, sarebbe stato infine pos­ sibile cominciare a rimuovere i meccanismi autoreferenziali di potere alimentati dalla compenetrazione tra Stato ed economia. Sarebbe stata la Banca centrale a svolgere un ruolo essenziale in quella direzione, con il debole supporto di una classe politica a lungo convinta - prima di ritrovarsi « con le spalle al muro » '0 - di poter cambiare la struttura economico-finanziaria dello Stato senza rimettere in gioco le modalità di esercizio del proprio potere. Il crollo dei partiti avrebbe finito per travolgere insieme a quella illusione anche il tradizionale rapporto di sudditanza del potere economico nei confronti del potere politico, investendo la Banca d ' Italia di un ruolo preminente e quasi assoluto nel processo di ammodernamento e di integrazione delle strutture economico-finanziarie del paese. Un processo contraddittorio, che se da un lato era destinato a concentrare nella "nuova finanza" una prerogativa di potere e di autonomia

8. R. Petri, Storia economica d'Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), il Mulino, Bologna 2002. 9· M. Onado, La lunga rincorsa: la costruzione del sistema finanziario, in P. Ciocca, G. Toniolo (a cura di ) , Storia economica d'Italia, 3· Industrie, mercati, istituzioni, 2. I vincoli e le opportunita, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 4I2-6. IO. La frase « siamo con le spalle al muro » , con riferimento all ' incompatibilità tra indebitamente dello Stato e impegni assunti dall' Italia in Europa, fu pronunciata da Giulio Andreotti alla Direzione della D C del 6 settembre 1990, citato in A. Varsori, La cenerentola d'Europa? L 'Italia e l'integrazione europea dal 1947 ad oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010, p. 370. 1 23

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decisionale inedita, dall 'altro consentiva il riemergere di robuste continuità con le relazioni Stato-mercato d'"antico regime". Dall 'involucro senza vita del « bancocen­ trismo di Stato » doveva infatti rinascere un ibrido bancocentrismo a carattere «pubblico-privato » , frutto delle incongruenti politiche di riforma del settore realiz­ zate fra il 1990 e il 2oo6u. Con la conseguenza che ciò che si era riusciti a cacciare dalla porta principale ( la politica) sarebbe finito per rientrare dall'ingresso secondario, quello delle fondazioni di "origine bancaria" e di una disorganica regolamentazione della governanee di sistema e delle funzioni di vigilanza. L'ipotesi di lavoro sarà per­ tanto quella di un potere politico fortemente ridimensionato dal declino dei partiti, dalla forza dei vincoli sovranazionali e dalla finanziarizzazione dell'economia del paese, ma ancora capace di aprirsi un varco tra i poteri che contano e in particolare in quel fitto intreccio di rapporti tra finanza, industria e media dove - senza esclusione di colpi - si sarebbero giocate tutte le più importanti battaglie per il potere degli anni Novanta-Duemila, ma anche dove si sarebbero dovute trovare le convergenze neces­ sarie per costruire gli ampi consensi politici - o quelle vere e proprie « controriforme di struttura » 12 - funzionali alla protezione degli interessi costituiti e di un capitalismo strutturalmente debole e poco attrezzato alle sfide dei mercati.

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L' "intreccio". Stato, politica e banche nella Prima Repubblica (anni Trenta-Settanta) Per comprendere la portata effettiva del cambiamento intervenuto all'inizio degli anni Novanta nei rapporti tra sistema politico e sistema bancario, è necessario trac­ ciare un rapido excursus storico sul paradigma che a lungo, pur nel mutare delle forme concrete, ha costituito il punto di riferimento di tali rapporti. Un paradigma risalente, nelle sue linee portanti, alla legge bancaria del 1936 ( R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375) che metteva capo alla costituzione di un «comando unico del credito » , con finalità complessive di riforma e di risanamento del sistema finanziario travolto dalla crisi dell'apparato industriale e produttivo negli anni Trenta13• Il disegno di riforma si basava su tre pilastri: un intervento pubblico, in parte avviato con la costituzione dell'IRI, teso a sciogliere la « mostruosa fratellanza siamese » 14 tra banca e industria I I. F. Belli, Gli sviluppi della legislazione bancaria in Italia: una sintesi, in Storia d'Italia. Annali, 23. La banca, a cura di A. Cova, S. La Francesca, A. Moioli, C. Bermond, Einaudi, Torino 2008, pp. 893-914. 12. M. Monti, Controriforme di struttura, in "Corriere della Sera", 23 aprile 2007. 1 3. s. Cassese, Come e nata la legge bancaria del 36, B N L, Roma 1988; M. De Cecco, Splendore e

crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell'Italia dagli anni Venti agli anni Sessanta, in Barca ( a cura di ) , Storia del capitalismo italiano, cit. 14. R. Mattioli, I problemi attuali del credito, in "Mondo Economico", XVII, 1962, 2, pp. 27-31. 1 24

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e a trasferire allo Stato i costi del risanamento industriale; la razionalizzazione dell ' at­ tività di vigilanza sulle banche con un forte contenuto discrezionale in capo alla Banca d' Italia; la separazione tra credito a breve e credito a medio e lungo termine, con relativa attribuzione ai soli istituti speciali di diritto pubblico della raccolta di medio periodo. Una scelta - è stato detto - dettata più da necessità che da convin­ zioni ideologiche. Per conservare al paese un meccanismo di allocazione delle risorse e un presidio istituzionale essenziali « lo Stato dovette - artefici Beneduce e Meni­ chella - improvvisarsi banchiere » '5• La nascita dello Stato-banchiere segnava così il congedo definitivo del sistema finanziario italiano dall'esperienza della " banca mistà'. Mutuata dal modello univer­ salistico tedesco, essa aveva avuto un ruolo decisivo nell'accompagnare tutta la prima fase di sviluppo del sistema produttivo del paese'6• Un successo che nascondeva tut­ tavia molte fragilità. In primo luogo la strutturale scarsità di capitali di rischio, derivante dall'esistenza di una proprietà industriale chiusa e concentrata in sé stessa, refrattaria alla condivisione del controllo, più attenta alla conservazione del potere che alla crescita di lungo periodo delle imprese ( il « catoblepismo » di cui parlava Mattioli ) . In secondo luogo, la scarsa determinazione politica nel disegnare regole atte a favorire la creazione di un moderno ed efficiente mercato dei capitali. E, di conseguenza, la scarsa risolutezza dei governi nell'arginare quelle componenti di moral hazard incoraggiate dalla reiterata e deprecabile prassi dei "salvataggi", affer­ matasi sin dai primi anni dell'unificazione. Mediante una complessa ripartizione di funzioni di piano e di gestione, tesa, almeno nelle intenzioni, a favorire una reale indipendenza degli organi tecnici dal governo, la legge bancaria del 1936 istituiva una governance patrizia del settore del credito dagli accentuati tratti dirigistici, con cui si venne a sancire di fatto la subor­ dinazione delle banche all' Istituto centrale, perno del nuovo sistema'7• La riforma delineava altresì l ' impianto generale di quella concezione amministrativa del credito destinata a svilupparsi compiutamente negli anni Sessanta-Settanta, basata su una visione - la si potrebbe definire una cultura - pessimistica del capitalismo finanziario italiano. Due erano i presupposti di questa visione. Il primo derivava dalla constata­ zione che in Italia il capitale privato con vocazione e capacità di controllare e gestire in modo autonomo, profittevole e prudente le banche, gli intermediari e altri ope­ ratori della finanza fosse storicamente basso. Il secondo, dalla convinzione che in un paese di « capitalisti senza capitale » , dotato di un mercato finanziario poco svilupI5. Ciocca, La nuova finanza in Italia, cit., p. 25. I 6. G. Conti, Le banche e ilfinanziamento industriale, in Storia d'Italia. Annali, 15. L'industria. I problemi dello sviluppo economico, a cura di F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto, Einaudi, Torino 1999, pp. 441-504; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia (1S94-19o6), 3 voli., Banca Commerciale Italiana, Milano 1974-76. 17. G. Guarino, G. Toniolo (a cura di), La Banca d'Italia e il sistema bancario (1919-1936), Laterza, Roma-Bari 1993. 1 25

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pato, mero strumento di giochi speculativi e della concentrazione del potere, fosse necessario canalizzare il risparmio verso « mani adatte » , quelle dello Stato, allo scopo di indirizzarlo a investimenti a lunga scadenza18• Sicché, come è stato notato, rinun­ ciando a regolamentare il mercato finanziario e riservandolo agli istituti di credito pubblici, gli estensori della legge bancaria finirono per trasformare la loro « ipotesi pessimistica » sul capitalismo italiano in una «profezia autoavverantesi » destinata a condizionare tutta la successiva evoluzione del sistema bancario19• Il modello beneduciano prendeva forma nel mutato contesto politico e istituzio­ nale del dopoguerra, non senza aver subito però una serie di sostanziali correzioni. La prima era l'abbandono dell' idea di una diarchia di vertice nel sistema finanziario, implicita nella separazione dell ' Ispettorato dalla Banca d ' Italia, come previsto dalla legge del 1936. L'accorpamento delle competenze e delle informazioni di vigilanza in un unico istituto, la Banca centrale, veniva di fatto a rafforzare la posizione di questa rispetto ai ministeri economici e all'interno del Comitato interministeriale del credito. La seconda concerneva invece il sistema del credito a medio termine, il cui volto, rispetto al disegno originario della legge bancaria, veniva modificato in maniera sostanziale. La nuova architettura, disegnata da Guido Carli, si imperniava su una serie di istituzioni, direttamente affiliate alle aziende di credito (sul modello consortile di Medio banca o dei Mediocrediti regionali) o possedute dal Tesoro (come nel caso del Mediocredito centrale), tendenti a formare una rete creditizia capillare legata in modo organico alle politiche di intervento straordinario dello Stato e all'e­ rogazione delle molteplici agevolazioni che la legge destinava a varie forme di impiego : agricoltura, piccole e medie imprese, artigianato ed export. La nascita di questo sistema e soprattutto la rete periferica dei Mediocrediti regionali veniva così a costituire il perno di un disegno dalla complessa natura che puntava a saldare in un unico quadro strategico sistema bancario e intervento pubblico, finalizzandoli a una duplice correlata azione di sostegno all'attività imprenditoriale inserita nel cir­ cuito aperto degli scambi e alle politiche del consenso e della stabilizzazione nel contesto divisivo della Guerra fredda10• E fortemente innovativo, nel quadro politico e sociale del dopoguerra, era infine il ruolo assegnato, su impulso questa volta di Donato Menichella, al comparto delle piccole e medie banche locali (in particolare le casse di risparmio) nel finanziamento delle attività produttive e nel sostegno al processo di industrializzazione diffusa destinato a caratterizzare lo sviluppo italiano negli anni Cinquanta e Sessanta. Un disegno che collimava con l'obiettivo della classe di governo, in prima battuta di quella democristiana, di forgiare un sistema finanziario capace di liberare le energie r 8. Barca, Compromesso senza riforme, cit., p. 9· 19. Onado, La lunga rincorsa, cit., p. 416. 20. F. Cotula (a cura di), Stabilita e sviluppo negli anni Cinquanta, 3· Politica bancaria e struttura del sistema creditizio, Laterza, Roma-Bari 1999. 1 26

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potenziali di una vasta rete di rapporti sociali e notabilari tipici dell' Italia delle "cento città" e di potenziare l'azione coesiva della politica su una realtà strutturalmente decentrata e particolaristica come quella italiana, favorendo lo sviluppo di una « società a capitalismo diffuso senza laceranti conflitti interni » 21• Il consolidamento delle specializzazioni, delle vocazioni territoriali e degli assetti dimensionali delle banche contribuirono in modo decisivo a stabilizzare il sistema creditizio, assegnandogli un ruolo rilevante nel ciclo di sviluppo avviato negli anni Cinquanta, grazie soprattutto alla stabilità dei mercati finanziari e al reinserimento del sistema produttivo italiano nel contesto delle economie industriali più forti22• Sarebbe pertanto semplicistico ritenere che tutti gli elementi della successiva buro­ cratizzazione del sistema bancario fossero già in qualche misura presenti nelle scelte di indirizzo realizzate nel periodo della ricostruzione. Gli storici sono generalmente concordi nel ritenere gli anni Sessanta lo snodo della grande mutazione verso un compiuto assetto dirigistico e protezionista del credito, destinato ad assumere quelle sembianze di « foresta pietrificata » denunciate alla fine degli anni Ottanta da Giuliano Amato23• La svolta avveniva in corrispon­ denza di un mutato quadro politico ed economico segnato da una chiara opzione in favore della gestione pubblica dell'economia e dalla contestuale maturazione nella Banca centrale del convincimento di trovarsi in posizione cruciale dinanzi al dilemma fra l'obiettivo dell'espansione e quello della stabilità monetaria24• Cominciava allora a delinearsi un complesso e intricato disegno di politica economica destinato a modi­ ficare radicalmente la composizione dei flussi finanziari a vantaggio della componente pubblica dell 'economia, nonché la natura stessa del rapporto tra la politica e le banche. La nazionalizzazione dell' ENEL - o meglio le modalità finanziarie con cui essa fu realizzata - aveva indicato la strada maestra, inaugurando, sotto il vigile con­ trollo della Banca d ' ltalia25, la prassi che avrebbe portato gradualmente a riservare il mercato azionario al settore pubblico parastatale, spezzando in via definitiva il tenue filo che legava le imprese al mercato finanziario 26• Un esito i cui effetti verranno moltiplicati dalla decisione, anche questa politica, di spingere le stesse imprese, sia grandi che piccole, verso l'indebitamento con istituti di credito a medio termine trasformati in erogatori di agevolazioni pubbliche.

2I. G. Conti, G. Ferri, Banche locali e sviluppo decentrato, in Barca ( a cura di ) , Storia del capitalismo italiano, cit., p. 435· 22. S. La Francesca, Storia del sistema bancario italiano, U Mulino, Bologna 2004. 23. Intervista a Giuliano Amato resa alla rivista "Bancaria", febbraio I988, a cura di A. Recanatesi e ripubblicata in G. Amato, Due anni al Tesoro, U Mulino, Bologna I 990. 2 4. Salvati, Dal miracolo economico alla moneta unica europea, cit. 25. Cfr. M. Onado, Il sistemafinanziario italiano. I circuiti di distribuzione del credito (I964-I97S), U Mulino, Bologna 1980. 26. E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, Feltrinelli, MUano 1974, pp. 30 ss. 1 27

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Stabilizzazione dei tassi di interesse a lungo termine, controlli amministrativi sulle emissioni, limitazione della concorrenza bancaria attraverso politiche di cartello tese a bloccare la nascita di nuove banche e a limitare l 'espansione territoriale di quelle esistenti, furono i fattori che contribuirono in modo determinante all'evoluzione del sistema finanziario in strumento passivo dell'economia statalizzata. Prima ancora che il sistema della "doppia intermediazione" fosse trasformato in vincolo amministra­ tivo27, la pratica di inzeppare nei portafogli delle banche quote di titoli degli enti parastatali non assorbite dal pubblico era già in grado di rivelare, alla fine degli anni Sessanta, il grado di dipendenza dalla politica degli istituti di credito, ormai divenuti veri e propri esecutori materiali delle decisioni ratificate in seno al Comitato per la . . programmaziOne economica. I caratteri burocratici e ipercentralizzati del sistema finanziario italiano prefigu­ rati nel corso di una lunga, seppur non lineare evoluzione, vennero definitivamente cristallizzandosi nella crisi degli anni Settanta. Lo shock petrolifero e l'abbandono del sistema dei cambi fissi rompevano un equilibrio ventennale, decretando la fine della stabilità monetaria avviata con Bretton Woods. Esigenze contrastanti di rigore e di difesa dell 'occupazione si intrecciavano adesso con preoccupazioni più generali di stabilizzazione del sistema politico di fronte al radicalizzarsi della protesta e della conflittualità sociale, politica e ideologica. La rimodulazione in senso consociativo della forma di governo ai fini del ricompattamento del sempre più slabbrato tessuto civile, sollecitava i meccanismi redistributivi di una "democrazia della spesa" funzio­ nale all'inclusione di tutte le forze politiche e sociali nello Stato28. La Banca d ' Italia perdeva di fatto il controllo della politica monetaria, per assolvere una funzione sistemica di redistribuzione del reddito largamente subordinata alle esigenze del Tesoro 29. La monetizzazione del debito assumeva aspetti e percentuali da finanza di guerra. Iniziava così anche la lunga stagione dei controlli amministrativi sul credito ai fini di politica monetaria. Tra questi, il massimale sugli impieghi, con cui si imponeva un tetto alla crescita dei prestiti; il vincolo di portafoglio, che obbligava a investire percentuali determinate della nuova raccolta in titoli degli istituti di credito speciale; i vincoli amministrativi all'entrata ( apertura di sportelli, costitu­ zione di nuove banche ecc. ) , finalizzati a garantire agli istituti creditizi nicchie di . sopravvivenza. Attraverso la sempre più stretta integrazione tra le istituzioni del credito speciale e il variegato sottosistema delle aziende di credito, l'economia del paese finì così per chiudersi definitivamente nella spirale della « via finanziaria allo sviluppo » , mirante a « forzare la crescita » attraverso un'accumulazione di capitale « considerata più nel 27. G. Piluso, Gli istituti di credito speciale, in Storia d'Italia. Annali, 15. L'industria, cit., pp. sos-47· 28. P. Craveri, La repubblica dal 195S al 1992, TEA, Torino 2005. 29. Rossi, La politica economica italiana, cit.; G. Cama, La Banca d'Italia, il Mulino, Bologna 2010, pp. 217-9· 1 28

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suo volume aggregato che nell'efficienza e nella produttività della sua struttura » 30• Al di là di ogni loro singolo aspetto, le dimissioni di Carli, ma soprattutto la trau­ matica vicenda giudiziaria che avrebbe visto ingiustamente coinvolti il governatore e il vicedirettore generale della Banca d ' Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli31 - quasi un annuncio del ruolo di latente attore politico dell'economia che la magistratura avrebbe finito in seguito per ricoprire - erano la testimonianza di una sempre più sofferta condizione di esercizio delle prerogative e delle funzioni istituzionali del governatore della Banca d ' Italia in un contesto di accresciuta «pressione esterna » , in particolare a opera dei partiti31• E in questo periodo, significativamente, che la degenerazione assistenzialistica del sistema delle partecipazioni statali33 venne saldandosi - complice anche la scarsa azione di diaframma svolta dall'Associazione bancaria nel « terribile quinquennio » ( 1973-77) della presidenza Arcaini34 - con la spinta che avrebbe portato a estendere anche al sistema del credito i meccanismi più mortificanti dell'occupazione partitica del potere35• Il sistema delle nomine nel settore bancario stingeva in una prerogativa di libero arbitrio politico, esercitata attraverso il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio ( C I C R ) , con lo schermo formale della Banca d' Italia36• Il ban­ chiere schumpeteriano, «eforo del mercato » , veniva di fatto rimpiazzato da un ceto burocratico dispensatore di provvidenze e assolto da ogni responsabilità riguardo alla valutazione del vero merito di credito e della redditività dei progetti industriaW7• I grandi scandali finanziari che segnarono il decennio Settanta, dall' Italcasse alla vicenda Sindona e Banco Ambrosiano, s' inserivano in un contesto politico-affaristico assai compromesso, privo oltretutto delle regole necessarie allo sviluppo di un moderno '

30. Ministero del Tesoro, Il sistema creditizio e finanziario italiano, cit., pp. I 8-9. 3I. M. Riva, Il governatore deve cadere, introduzione al diario tenuto dal governatore nel periodo I978-8I, in P. Baffi, Parola di governatore, Nino Aragno Editore, Torino 20I3. 32. Certamente questo il senso che deve attribuirsi alla nota affermazione di Cadi secondo il quale il rifìuto della Banca d' Italia di acquistare titoli di Stato sarebbe equivalso a un atto sedizioso: Banca d' Italia, Considerazionifinali per il I973, in http:/ /www.bancaditalia.it/bancaditalia/storia/governatori/ I960_I993/CF_I960_I981.pdf. 33· L. D 'Antone, ((Straordinarieta" e Stato ordinario, in Barca ( a cura di ) , Storia del capitalismo italiano, cit., pp. 579-625. 34· P. F. Asso, S. Nerozzi, Storia dell'AB!. L:A.ssociazione bancaria italiana (I972-I99I), Bancaria, Roma 20IO; sull'ascesa di Arcaini ai vertici dell 'organizzazione, cfr. A. Duva, Politica e banche. Il Passo lungo di Arcaini, in "li Mondo", 7 luglio I972. 35· Cfr. Lo sportello va diviso in sei partiti, in "Panorama': 24 aprile I975· 36. Si trattava del ben noto "sistema delle terne" attraverso il quale venne messa in atto una vera e propria lottizzazione del sistema bancario, di lì a poco estesa anche al P CI. Cfr. V. Borrelli, Banca padrona, Rizzoli, Milano 2005, pp. So- I ; Al mercato delle banche, in " li Mondo", 2I marzo I98o. Sull' in­ gresso del P C I nel sistema di controllo degli istituti bancari, cfr. le inchieste Falce e sportello, in "Pano­ rama", marzo I977• e Falce e martello dietro lo sportello, in "l' Espresso", agosto I977· 37· Per una riflessione critica sull 'evoluzione del sistema bancario negli anni Settanta cfr. B. Andreatta, Ristrutturazione finanziaria delle imprese: ecco come devono comportarsi i banchieri, in "Corriere della Sera", 13 settembre I977· 1 29

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ordinamento giuridico capitalistico. Come altre volte in passato, la via della virtù avrebbe scelto di manifestarsi sotto la forma di un vincolo di natura esterna.

3 Crisi e trasformazione dello Stato-banchiere (anni Ottanta-200 7 ) Il 1985 si apriva con una rivoluzione silenziosa. Il s marzo entrava infatti in vigore, anche se con qualche anno di ritardo, la prima direttiva europea in materia di libe­ ralizzazione del mercato creditizio. La legge che la introduceva nell 'ordinamento italiano riconosceva in via definitiva il carattere d'impresa dell'attività bancaria, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitavano38• Aveva inizio così quel processo destinato a consacrare nel giro di pochi anni l' impresa bancaria come espressione di un diritto e non di una funzione39• La novità non cadeva nel vuoto pneumatico. La ricezione delle direttive europee sul credito era stata preparata da un generale ripensamento dei postulati da cui l' im­ postazione dell' intero settore aveva preso le mosse e del quale furono partecipi, sin dai primi anni Ottanta, tutte le più importanti istituzioni del governo economico40• Ma era soprattutto nella linea !iberista della Banca d' Italia - in un quadro di crescita e razionalizzazione dell'apparato industriale e produttivo del paese - che il processo d'allineamento del sistema bancario italiano a un mercato europeo aperto e integrato poté trovare la sua decisiva testa di ponte4 1• Il cosiddetto "divorzio" tra Tesoro e Banca d' Italia, non più obbligata ad assicurare la copertura dell'emissione dei titoli pubblici, costituiva una prima, essenziale premessa al reindirizzo delle grandi banche verso il loro naturale ruolo di intermediari finanziari market-oriented41• Questi cambiamenti, pur in sé così rilevanti per gli equilibri tra potere politico e potere economico­ finanziario, difficilmente avrebbero potuto produrre effetti così eversivi dell'organiz­ zazione politica dello Stato come quelli derivanti dalla cornice normativa entro cui la classe di governo, a partire dall 'Atto unico europeo del 1986, venne a iscrivere il 38. Si trattava della legge s marzo 198s, n. 74, seguita dal D.P.R. 27 giugno 198s, n. 3 so, che recepiva la Direttiva 77f7 8o/ C EE. Cfr. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, cit. 39· G. Cammarano, La riforma bancaria del I990: una analisi della sua preparazione, in AA.VV., La ristrutturazione della banca pubblica e la disciplina del gruppo creditizio, Banca d' Italia, Roma 1992. 40. Oltre al già citato rapporto della commissione di studio istituita dal Tesoro nel 1982, cfr. il Libro bianco della Banca d' Italia sull' Ordinamento degli enti pubblici e creditizi: analisi e prospettive, Roma 1981, e il secondo rapporto sull' Ordinamento degli enti pubblici creditizi: l'adozione del modello societa per azioni, Banca d' Italia, Roma 1988. 41. G. Cadi, Cinquant 'anni di vita italiana, in collaborazione con P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari 1993· 42. Cama, La Banca d'Italia, cit.

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proprio impegno per l'unità europea. Ben più delle politiche di tipo recessivo con­ cordate a Maastricht, furono varate allora, quasi senza accorgersene, regole che avrebbero introdotto variazioni di fatto nella costituzione economica del paese e intaccato i meccanismi basilari della formazione del consenso e della gestione del potere, contribuendo a una maggiore autonomia politica del settore finanziario e industriale privato43• Il programma di dismissione delle attività industriali partecipate dallo Stato e la spinta verso le privatizzazioni rappresentarono il corollario del dimagrimento forzoso imposto al sistema pubblico dell'economia dalle disposizioni dell'Atto unico. Le conseguenze politiche non tardarono a manifestarsi. E così anche i primi smotta­ menti del terreno sul quale - a partire grosso modo dalla metà degli anni Sessanta ­ si erano progressivamente strutturate le relazioni tra capitalismo pubblico e capita­ lismo privato. Logica voleva che proprio l' intreccio tra l'IRI, le tre banche di interesse nazionale ( Comi t, Credi t, Banca di Roma ) e il cuore finanziario del capitalismo familiare, Mediobanca ( la merchant bank costituita nel 1946 con capitale azionario delle tre BIN ) , dovesse trasformarsi nella principale linea di faglia critica di quelle relazioni. E di conseguenza, nel teatro di scontro fra le forze che ambivano in campo politico a rimodellarle. La moral suasion esercitata dalla Banca d ' Italia al fine di spingere il sistema bancario verso condizioni di massa critica patrimoniale e finan­ ziaria, contribuiva a sua volta a catalizzare disegni e strategie che in un modo o nell'altro avrebbero finito per assumere come problema cruciale il ridimensiona­ mento o lo sviluppo della centralità del "sistema" Mediobanca. Posizione che l'istituto guidato da Enrico Cuccia aveva massimizzato proprio nella crisi degli anni Settanta, accentuando la sua propensione verso forme di coordinamento élitario e divenendo il luogo deputato a gestire le sempre più complesse mediazioni tra capitale pubblico e privato, tra grandi gruppi privati e fra gli stessi azionisti della banca44• Tra il 1988 e il 1990, anno in cui veniva approvata la legge Amato-Carli - che doveva sancire la fine della specializzazione e la trasformazione delle banche in società per azioni45 - si consumava il primo vero scontro tra il gruppo dirigente di via Filodram­ matici e un potere politico al cui interno tendevano a prevalere visioni e interessi con­ trastanti sugli assetti di potere pubblico-privato. Uno scontro la cui posta in gioco era il controllo delle due più importanti banche del Nord, la Comit e il Credito italiano. E di conseguenza il possesso di due leve fondamentali nella gestione degli equilibri e dei rapporti di forza tra i maggiori protagonisti dell'economia del paese. Sarebbe stata pro­ prio la competizione tra i principali leader del cosiddetto CAF sulle nomine ai vertici 43· G. Guarino, Verso l'Europa ovvero la fine della politica, Mondadori, Milano I997· 44· M. De Cecco, G. Ferri, Le banche d'affari in Italia, il Mulino, Bologna I996; G. Rodano, Il credito all'economia. Raffaele Mattioli alla Banca Commerciale Italiana, Ricciardi, Milano-Napoli I983. 45· Cfr. F. Merusi, Dalla banca pubblica allafondazione privata. Cronache di una riforma decennale, Giappichelli, Torino 2000.

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dei due istituti e sulla questione cruciale del rinnovo della convenzione tra Mediobanca e le tre BIN - che obbligava le seconde a vendere alla propria clientela certificati della banca a condizioni speciali - a consentire a Cuccia di uscire indenne da un attacco mirante a ridimensionare le potenzialità operative della banca d'affari milanese46• La formazione di un nuovo patto di sindacato che portava al so% la quota azionaria dei soci privati di Mediobanca era del resto la prova inconfutabile di una strategia di espan­ sione che puntava a fare del gruppo l'amalgama dei grandi interessi industriali e il punto di riferimento del rinato « quarto partito » nel passaggio dall'economia pubblica a quella privatizzata47• Non è il senno di poi a mostrare nell'esito di quello scontro il momento preordinativo di molte delle mosse destinate pochi anni dopo a portare il Credito ita­ liano e la Comit "privatizzati" sotto il controllo di Mediobanca e dei suoi alleati italiani e stranieri. Un disegno, va da sé, che non poteva non incontrare resistenze e opposizioni formidabili in un arco di forze trasversali, ben radicate in ciò che restava del vecchio blocco statalizzato di potere. Resistenze destinate però a essere spazzate via dall'uragano politico-economico-giudiziario che si abbatté sull' Italia nel biennio fatale 1992-94. Rispetto ai programmi di dismissione dell'economia pubblica avviati altrove, la peculiarità italiana consisteva propriamente in questo : nel fatto cioè che una decisione altamente politica, come quella relativa alla regolamentazione dei rapporti tra Stato e mercato, venne maturando, nelle sue linee teoriche e applicative, in una situazione di paralisi operativa e di pesante delegittimazione morale della politica. Attraverso un concorso irripetibile di circostanze di carattere interno e internazionale - la fine della Guerra fredda e delle sue legittimazioni etico-ideologiche, l'irrigidimento dei vincoli di bilancio imposti dal Trattato di Maastricht, gli attacchi speculativi contro la lira, la guerra dichiarata dalla magistratura al sistema della corruzione politica - venne allora determinandosi una condizione di sostanziale inagibilità dei tradizionali detentori del potere politico, ossia i partiti. Condizione a sua volta amplificata da un potere media­ tico compatto nel presentarsi all'opinione pubblica indignata come strumento della santa guerra di una « società civile » , luogo incontaminato di tutte le virtù, contro la « società politica » corrotta e decadente48• Il rito purificatore collettivo officiato quo­ tidianamente da televisioni e giornali assiepati intorno alle aule dei tribunali, battezzava la funzione commissaria di una tecnocrazia di estrazione economico-finanziaria inca­ ricata, dalla forza travolgente dei fatti, di predisporre la liquidazione coatta del modello neopatrimoniale di democrazia generato dai partiti della Prima Repubblica49• 46. M. Pini, I giorni dell 'IRI. Storie e misfatti da Beneduce a Prodi, Mondadori, Milano 2000. 47· Sulla posizione antisistema del "partito" degli industriali in questo periodo, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (I9S9-2011), Laterza, Roma-Bari 2012. 48. L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993. 49· G. Sapelli, Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Feltrinelli, Milano 1994; A. Pizzorno, Le trasformazioni del sistema politico italiano (1970-1992), in F. Barbagallo (a cura di ) , Storia dell'Italia repubblicana, 3· L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, II. Isti­ tuzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino 1997, pp. 303 ss.

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La parola d 'ordine - sbaraccare lo Stato spoliatore - equivalse in sostanza a emettere un certificato di non idoneità della politica in quanto tale a discutere di questioni politicamente cruciali, come quelle relative all'organizzazione economica dello Stato e alle strategie industriali e finanziarie del paese nella cornice costituzio­ nale della nuova Europa della moneta unica. Nel frattempo, l'assetto istituzionale regolante l'operato della Banca d ' Italia approdava a un modello di completa auto­ nomia dal governo, statuendo la definitiva separazione funzionale tra le politiche monetaria e del bilancio pubblico e la più stretta integrazione del sistema economico­ finanziario sotto la guida della Banca centrale50• Questo insieme di circostanze spianava la strada a una vera e propria " bancarizzazione" del pubblico potere, propedeutica a quel processo di scorporazione dell'economia dalla politica che i partiti contavano di diluire nel tempo. E che finì invece per generare un'anomalia al rovescio : l' indebita posizione di forza del privato nel processo di privatizzazione. O più semplicemente - secondo il severo giudizio dell' "Economist" - l'anomalia di una singola banca in grado di decidere l 'intero programma delle privatizzazioni51• La parola "programma" non appariva casuale, dal momento che in Italia le banche potevano intervenire nel processo in una duplice veste : come soggetti passivi, in quanto esse stesse privatizzate, e come soggetti attivi chiamati a partecipare a vario titolo alle operazioni di dismis­ sione. Fu anche questa una delle ragioni che avrebbe portato il governo Ciampi a imprimere una decisa accelerazione alla vendita del Credit e - per una via più tor­ tuosa - della Comit. Scelta che fu allora molto criticata e che diventò oggetto di durissimi scontri politico-parlamentari destinati a riverberarsi all' interno della stessa compagine di governo, mettendone in serio pericolo la tenuta52• L'alternativa tra l' ipotesi dei noccioli duri e quella dell'azionariato diffuso riflet­ teva il contrasto di fondo - già prefiguratosi in un precedente scambio di lettere riservate tra Enrico Cuccia e Romano Prodi53 - sulle modalità di dismissione dei due « gioielli di famiglia » e, più in generale, la contrapposizione frontale tra quei settori variegati e trasversali del mondo politico insofferenti verso una Mediobanca da sempre percepita come un potere distante e inespugnabile e quanti ritenevano di doversi opporre con tutte le forze al ritorno dei « boiardi che fanno politica » 54• Nel caso della Banca commerciale, tale alternativa venne poi di fatto aggirata attraverso Rossi, La politica economica italiana, cit. , p. I II. Cfr. anche Cama, La Banca d'Italia, cit. 5 1. "The Economist� 14ch May 1994. 52. l. Cipolletta, Che brutta lezione per gli anti-privatizzatori, in "Corriere della Sera", 9 febbraio 1994; D. Di Vico, Camera, vince il voto di lista, ivi, 1 6 febbraio 1994; M. Gaggi, Banche, no a noccioli duri, ivi, 25 febbraio 1994. s 3· Lo scambio di lettere è riportato nell' intervista a C. Geronzi, in M. Mucchetti, Confiteor. Potere, banche e affari. La storia mai raccontata, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 96-103. Per una ricostruzione dei rapporti tra Cuccia e Prodi cfr. G. La Malfa, Cuccia e il segreto di Mediobanca, Feltrinelli, Milano 2014. 54· R. Prodi, Perché dico alt a Mediobanca, in "La Stampa", 23 aprile 1994; P. Savona, I boiardi che fanno politica, ivi, 23 aprile 1994; M. Giannini, Caro Cuccia, io vendo a modo mio, in "la Repubblica", 23 aprile 1994. so.

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un complicato compromesso sul tetto al possesso azionario che, per il modo in cui fu concepito, avrebbe tuttavia finito per favorire operazioni di amalgama dell 'azio­ nariato guidate dall'alto. A uscirne rafforzata - lo si volesse o meno - era l' ipotesi dei nuclei stabili e del controllo delle minoranze azionarie (peraltro esplicitamente ammessa nel decreto con cui il governo rendeva operativa la procedura di vendita)55• E con essa la strategia di Mediobanca mirante all'acquisizione di quote di rilievo attraverso il raccordo di una rete transfrontaliera di alleanze. In quel successo pesa­ rono molti fattori. Non ultimo, il prevalere, ancora una volta, di una visione pessi­ mistica del capitalismo italiano che postulava l 'esistenza di un soggetto in grado di presiedere alla stabilità del sistema finanziario56 e che poteva peraltro rivelarsi coe­ rente con un processo dirigistico "alla cinese" di creazione dall'alto del mercato, come quello avviato sotto la supervisione della Banca d ' Italia sin dai primi anni Ottanta. Il tempo avrebbe mostrato il valore relativo di quella vittoria. La riallocazione degli assetti proprietari del transeunte sistema bancario pubblico postulava infatti processi ampi e profondi di ristrutturazione e concentrazione, destinati a favorire l'emergere di nuovi protagonisti e attori di taglia nazionale57• Attraverso la regola degli accorpamenti pilotati dall'alto, la Banca centrale perseguiva infatti l'obiettivo di ridurre la segmenta­ zione del mercato creditizio nazionale, come premessa per favorire il recupero di effi­ cienza del sistema e la ricomposizione delle sue attività verso servizi meno tradizionali. Dopo sessant'anni di rigida regolamentazione e una graduale opera di liberalizzazione del settore bancario cominciava con il prendere forma, nella seconda metà degli anni Novanta, un sistema imperniato su quattro grandi gruppi in ascesa, espressione di un mix di moderne managerialità e di più navigate culture politiche del credito (Uni­ Credit, Sanpaolo-IMI, Banca Intesa, Capitalia). Le strategie di aggregazione si sarebbero sviluppate tutte a partire da una rete nazionale tesa a infittirsi per successive acquisizioni mirate a livello locale58• Ma in ogni caso per linee interne a un sistema che tendeva a replicare modelli consortili, intrecci proprietari e pratiche di interlocking directorship mutuati dal capitalismo familiare "a suffragio ristretto" tipico della nostra tradizione. E che al tempo stesso - sviluppandosi dentro la ragnatela proprietaria che da MedioSS· Cfr. S. Siglienti, Una privatizzazione molto privata. Stato, mercato e gruppi industriali: il caso Comit, Mondadori, Milano 1996. Per un' interpretazione di segno opposto, cfr. A. Maccanico, Intervista sulla fine della prima Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1994. s6. G. Pellicanò, Comit, Mediobanca e ilfalso mito delle public company, in "Corriere della Serà', 1° maggio 1994; D. Vaiano, Ciampi: missione compiuta, ivi, 30 aprile 1994. 57· Cfr. Banca d' Italia, Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia per l'anno I992, in http :/ / www.carloazegliociampi.it/application/xmanager/projects/ciampi/attachments/7 3234/ s_ Roma_3o_maggio_1992.pdf. s8. M. Messori, Il potere delle banche. Sistema finanziario e imprese, Università Bocconi, Milano 2007; F. Panetta, Il sistema bancario italiano negli anni Novanta. Gli effitti di una trasformazione, il Mulino, Bologna 2004; P. Bongini, G. Ferri, Il sistema bancario meridionale. Crisi, ristrutturazione, politiche, Laterza, Roma-Bari 2005; F. Mattesini, M. Messori, L'evoluzione del sistema bancario meri­ dionale. Problemi aperti e possibili soluzioni, il Mulino, Bologna 2004. 134

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banca risaliva sino al cuore del sistema finanziario, le assicurazioni Generali, estenden­ dosi fino al controllo di alcuni gangli vitali del sistema mediatico (in primis il "Corriere della Serà'59) - creava i presupposti per corrodere dall'interno l' influenza dominante del "salotto" milanese, costretto a barcamenarsi tra le ambizioni di emergenti gruppi manageriali portatori di autonome visioni e strategie di mercato e i conflitti latenti nel governo istituzionale dell'economia e in particolare tra Parlamento, governo, ministero dell'Economia, Banca d 'Italia e authorities del settore. Preannunciata dall'uscita di FIAT da Mediobanca nel 1 9 9 7, questa prospettiva venne concretizzandosi seriamente per la prima volta nel 1999 con le due O PA simul­ tanee di Sanpaolo-IMI contro Banca di Roma e di UniCredit contro Comit. Un attacco in piena regola, deciso a sfruttare il varco aperto da una contestata interpre­ tazione delle norme sul mercato dei diritti di proprietà, ma presto inglobato nella partita che, insieme ai vertici delle banche, coinvolgeva anche le più alte cariche dello Stato : il presidente del Consiglio (D 'Alema) , il ministro del Tesoro (Ciampi), il governatore della Banca d ' Italia (Fazio)60• L'operazione veniva sventata grazie a un gioco di sponde e di alleanze tattiche lungo l' improvvisato asse Cuccia-Geronzi-Fazio (con il capo del governo benedicente) , destinato a lasciare tuttavia intatto il nodo cruciale della coesistenza, sempre più problematica, tra la stabilità degli assetti pro­ prietari (stella polare della cultura di governo del sistema finanziario incarnata dalla Banca d ' Italia e da Mediobanca) e l'autonomia del mercato. L' insieme di questi problemi non poteva non modificare le basi stesse del rap­ porto tra politica e banche, che avrebbe però continuato a configurarsi come una miscellanea di elementi vecchi e nuovi, in bilico fra « trasformazione » e « trasformismo » 61• Nuova era la realtà di un potere politico disabilitato all ' interfe­ renza diretta (cioè al potere di nomina) , ma pur sempre deciso a esercitare le sue prerogative nelle forme arbitrali e di "correzione" che l ' indeterminatezza e la scarsa coerenza nella regolamentazione del settore finanziario poteva consentirgli62• Prero­ gative, beninteso, spesso sollecitate dagli stessi protagonisti del risiko bancario per favorire o bloccare lo sviluppo di iniziative riguardanti gli assetti di proprietà e il controllo delle banché3• Il vecchio consisteva invece principalmente nella sopravvi­ venza di un' indebita commistione di pubblico e di privato in seno alle cosiddette "fondazioni di origine bancaria". Nonostante la legge Amato prima e la legge Ciampi

59· Sull' influenza dei vertici delle banche nelle nomine dei direttori del quotidiano milanese, cfr. Mucchetti, Conjìteor, cit. 6o. lvi, pp. I23 ss. Cfr. anche Borrelli, Banca padrona, cit., pp. I 84 ss. 6 1. S. Cassese, Gli assetti proprietari delle banche: trasfo rmazioni o trasformismo?, in "Banca Impresa Società", XXI, 2002, 2, pp. 179-84. 62. Messori, Il potere delle banche, cit.; M. Clarich, Privatizzazioni, regole di mercato e controlli, in "Banca Impresa Società", XVII, 1998, 1, pp. 1 84-95. 63. Di estremo interesse storico la testimonianza di Cesare Geronzi e le numerose informazioni contenute a tale riguardo nella sua intervista con Mucchetti ( Conjìteor, cit. ) . 135

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poi avessero previsto la graduale fuoriuscita delle fondazioni, enti di diritto pub­ blico, dal capitale delle banche conferitarie - anche attraverso considerevoli incen­ tivi fiscali -, esse rimanevano le principali azioniste delle imprese finanziarie, con­ servando grazie ai patti di sindacato un ruolo preminente negli assetti proprietari del sistema bancario italiano64• Più delle ambizioni a voler ricostruire connessioni di vertice tra mondo bancario e partiti65 o delle necessità materiali dei secondi (risanamento dei bilanci, anticipazione dei rimborsi elettorali ecc.)66, era la forza dei legami comunitari e territoriali a rappresentare il mastice nuovo dei rapporti tra politica in senso lato e banche. La crisi del sistema dei partiti e il venir meno dei tradizionali meccanismi di delega verso i terminali locali del potere costituiva, infatti, il presupposto di una sempre più distinta autoreferenzialità delle fondazioni, la ricchezza patrimoniale delle quali non poteva non suscitare al tempo stesso appe­ titi e preoccupazioni. Il che dava comunque modo alla politica - sempre più fram­ mentata in sottopartiti territoriali o personali67 - di risalire al vertice nazionale delle banche per esercitare una decisiva influenza sulle nomine dei manager e dei gruppi dirigenti delle stessé8• Sciogliere la dicotomia pubblico-privato che rendeva incon­ grue la mission e l'operatività delle fondazioni significava però anche mettere sul tavolo una questione potenzialmente deflagrante per gli assetti del sistema finan­ ziario e industriale italiano. Il dilemma per le fondazioni si presentava in questi termini: restare nelle banche e rinunciare a far fruttare al meglio il proprio patri­ monio, tradendo in questo modo lo spirito delle leggi Amato e Ciampi ? Oppure uscire e rischiare di provocare un terremoto incontrollabile nelle proprietà dei maggiori gruppi bancari italiani ? Terremoto tanto più devastante considerata l' as­ senza di operatori in Italia con un portafoglio all 'altezza della situazione (le O PA lanciate nel 2 0 0 5 da ABN AMRO e Banco di Bilbao dimostravano che all 'estero il discorso poteva cambiare radicalmente) . Qui stava un primo, fondamentale discri­ mine tra quanti - i fautori di una liberalizzazione completa del mercato finanziario - ritenevano addirittura salutare uno scossone del genere e coloro i quali, invece,

64. Cfr. al riguardo il recente studio /talian Banking Foundations, Mediobanca Securities, 28ch May 2012; cfr. anche U. Inzerillo, M. Messori, Le privatizzazioni bancarie italiane, in S. De Nardis (a cura di), Le privatizzazioni italiane, il Mulino, Bologna 2000, pp. 1 87-212. 6s. li riferimento è alle note vicende del 2005 relative alla scalata U N I P O L a B N L e alla famosa intercettazione telefonica tra Piero Fassino e Giovanni Consorte pubblicata il 31 dicembre 2005 dal "Giornale". 66. Cfr. R. Bracalini, Partiti S.p.A. Non solo finanziamenti pubblici, ma societa, banche, immobili, sponsor privati e occulti: come e perché i partiti sono diventati imperifinanziari, Ponte alle Grazie, Firenze 2012. 67. Cfr. M. Calise, La terza repubblica. Partiti contro presidenti, Laterza, Roma-Bari 2oo6. 68. T. Boeri, L. Guiso, Rifondazione capitalista, in "www.Lavoce.info': 2 novembre 2010; Id., Quell'abbraccio mortale tra fondazioni e banche, ivi, 13 gennaio 2012; Id., Come affòndare l'unica banca multinazionale italiana, ivi, 24 settembre 2010; R. Perotti, L. Zingales, Quei pasticci tra le banche e la politica, in "Corriere della Sera", 26 febbraio 2012.

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ritenevano necessario, sia pure con diverse e talora opposte finalità, conservare degli elementi di dirigismo nel sistema finanziario italiano. Fu questa seconda ipotesi a segnare il perimetro dello scontro a tutto campo fra il ministro dell 'Economia e delle Finanze del n governo Berlusconi, Giulio Tremonti, e il governatore della Banca d' Italia Antonio Fazio durante la prima metà del decennio. Uno scontro inasprito dalla querelle sul mandato a tempo indeterminato per il governatore, la cui posta in gioco era la ridefinizione dei rapporti tra i vertici del governo dell'economia e il controllo del sistema finanziario. Il tentativo di Tre­ monti di realizzare una riforma complessiva delle fondazioni di origine bancaria69 - da molti ritenuta improcrastinabile - rispondeva a un disegno, non privo di ambi­ valenza, attraverso il quale si poteva tuttavia intravedere la volontà di ampliare i margini di autonomia della politica economica del governo, drenando risorse dal sistema bancario per finanziare la spesa e programmi di investimento. Nelle pieghe del provvedimento era infatti evidente il proposito di realizzare una sorta di "ripub­ blicizzazione" camuffata del sistema bancario che portasse le fondazioni - attraverso società di gestione del risparmio create ad hoc - sotto il controllo delle istanze cen­ trali di governo, identificate ormai primariamente nel ministero dell' Economia70• Un proposito che si scontrava apertamente con la struttura di potere e di governo del sistema finanziario di cui la Banca d'Italia aveva assunto negli anni un controllo quasi assoluto71• Proponendo, inoltre, modifiche sui criteri di incompatibilità e generaliz­ zando il varco aperto nella precedente legislatura dall'approvazione dello statuto della fondazione Montepaschi - che consentiva una schiacciante prevalenza degli enti locali -, il governo mirava a sostituire il principio dell'equilibrio fra rappresentanza degli enti locali e della società civile con il principio della «prevalente rappresentanza del territorio » , vale a dire dei poteri politici locali71• Norma che portava ad accentuare i già forti legami delle fondazioni con il territorio e con le reti di sviluppo locali73• La riforma mirava, in tutta evidenza, a mixare elementi di colbertismo e compensa­ zioni sul versante politico più sensibile alle tesi federaliste74, sortendo tuttavia l 'effetto di saldare il fronte delle fondazioni guidate dall'Associazione di fondazioni e di casse di risparmio (AC RI) con uno schieramento trasversale di forze politico-parlamentari che vanificava la disciplina di partito esaltando la solidarietà primaria fra i reticoli 69. In merito al cui profùo giuridico, cfr. G. Consoli, I profili di illegittimita costituzionale della "nuova riforma" delle fondazioni bancarie, in "Mondo Bancario", 3, 2003, pp. 53-60. 70. La tendenza di molti governi europei a utilizzare le banche, pubbliche o private, come un canale surrettizio per finanziare la spesa pubblica non costituirebbe d'altra parte una peculiarità ita­ liana: cfr. R. G. Rajan, L. Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino 2004. 7 I. G. Rossi, Capitalismo opaco, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. I29-42. 72. F. Giavazzi, I gattopardi del credito, in "Corriere della Sera", 7 dicembre 2001. 73· M. Messori, Equilibri(smi) di potere per un ritorno al passato, in "la Repubblica", IO dicembre 200I. 74· G. Alvi, Giulio Tremonti, il settentrionale, in "Corriere della Sera", 17 dicembre 2001 ; F. Ver­ derami, Il patto segreto del ministro Bossi e la partita delle fondazioni, ivi, 21 dicembre 2001. 1 37

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territoriali75• La vicenda si concludeva con il compromesso siglato da Guzzetti76 e Tremonti, con l ' ingresso delle fondazioni bancarie nel capitale della Cassa depositi e prestiti, istituto di credito speciale facente capo al Tesoro. Essa, tuttavia, segnava uno dei punti di massimo attrito tra il governo e la Banca d' Italia che non aveva mancato di far sentire in tutta la vicenda il peso della sua moral suasion e di una mal dissimulata partigianeria77• Cosa che non doveva destare sorpresa dato il rapporto di interdipendenza che correva tra la Banca centrale e i suoi principali azionisti, vale a dire le banche78. Un vero e proprio conflitto di interessi che saldava in un unico blocco di potere il controllore e i controllati, rendendoli partecipi di un sistema finanziario potenzialmente collusivo e autoreferenziale. Un intreccio che esponeva oltretutto il vigilante al rischio - assai concreto come si sarebbe visto - di "cattura" da parte dei vigilati79• Proprio da qui infatti dovevano partire le inchieste della magistratura legate alle vicende Antonveneta e alla scalata UNI POL a BNL che avrebbero portato alle clamorose dimissioni di Fazio e all 'emergere - anche attraverso il ruolo tutt'altro che neutrale della stampa - di una estesa rete di complicità e di opachi intrecci tra la finanza e pezzi della politica e delle istitu­ zioni80. La conseguenza era ancora una volta che i soli controlli efficaci esistenti nel mercato e a tutela del risparmio rischiavano di essere quelli dovuti all'intervento di una magistratura ormai investita di una impropria funzione di supplenza nell'opera di rimozione delle vaste zone di opacità annidate tra le istituzioni politiche e il . . Sistema economico. La fine dei torbidi contribuiva in ogni caso a riavviare - auspice il nuovo gover­ natore della Banca centrale Draghi81 - il processo di aggregazione del sistema ban­ cario ( con le fusioni pesanti nel 2oo6 tra Banca Intesa e Sanpaolo-IMI e tra UniCredit e Capitalia) bloccato da una crisi di crescenza, in parte legata al declino della cen­ tralità sistemica di Mediobanca e alla contestuale necessità di creare nuovi punti di equilibrio. La morte di Enrico Cuccia, il 23 giugno 2000, aveva segnato uno spar­ tiacque. La scomparsa del grande vecchio dei giochi dell'alta finanza era immediata­ mente percepita come una vacatio regis le cui conseguenze non avrebbero riguardato soltanto il problema della guida interinale della banca d'affari milanese, ma la legit75· N. Saldutti, Fondazioni, si prepara una controriforma, ivi, 1 6 dicembre 2001. 76. Esponente della sinistra democristiana, ex presidente della Regione Lombardia, rappresentante della più ricca e influente fondazione bancaria italiana, la Cariplo, perno dell'ACRI. 77· S. Tamburello, Fondazioni, l'affondo di Fazio, in "Corriere della Sera", 1 3 dicembre 2001. 7 8. G. Tabellini, D. Masciandaro, La Banca centrale e i suoi azionisti, in "Il Sole 24 Ore� 26 gen. nato 2005. 79· G. Tabellini, A. Alesina, L. Zingales, Riforma incompleta, i punti da rafforzare, ivi, 4 settembre 2005. S o. L. Festa, Guerra per banche. L 'Italia contesa tra economia, politica, giornali e magistratura, Boroli, Milano 2006. 8 1. M. Monti, La rivoluzione in tre righe di Banca d'Italia, in "Mercato, Concorrenza, Regole", VIII, 2006, 2, pp. 315-20.

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timità stessa del suo sistema di governo. Non troverebbe altrimenti spiegazione lo scontro a tutto campo su Montedison, FIAT e Fondiaria che ebbe luogo nel 2003 - Fazio governatore - tra Mediobanca e due suoi azionisti di peso ( UniCredit e Capitalia) , decisi a far valere nei confronti della merchant bank milanese un vero e proprio «diritto di resistenza »82• Era l 'inizio di una serie di movimenti tellurici destinati, almeno fino al 20 1 1, a scuotere le fondamenta del sistema finanziario ita­ liano e a ridisegnarne gerarchie e confini in un continuo alternarsi di scosse e di normalizzazioni. La disintermediazione governativa del sistema del credito avviata vent'anni prima si era dunque non soltanto mostrata, di per sé, insufficiente a elimi­ nare il patologico intreccio tra politica, finanza e interessi industriali, ma altresì suscettibile di trasformarlo in un sistema perfino più esteso e disarticolato nel suo frame istituzionale. Un esito riconducibile alla frantumazione del sistema politico, alla crisi organizzativa dei partiti e all'assenza di un coerente disegno di liberalizza­ zione del mercato e di riforma della governance del sistema bancario nel quadro dei cambiamenti prodotti dalla sempre più stretta integrazione del sistema finanziario nazionale con quello europeo e con la dimensione smaterializzata dell 'economia globale. La crisi finanziaria del 20 07 avrebbe rappresentato da questo punto di vista una sfida e una nuova opportunità, ma anche un rischio di regressione verso quelle forme di paternalismo del potere pubblico nazionale suscettibili di trasformarsi nel terreno più propizio ai rapporti collusivi tra «politici senza politica » e « capitalisti senza capitale » .

82. Mucchetti, Confiteor, cit. 139

Debito pubblico e classe politica : uno sguardo d ' insieme sulla Prima Repubblica di Paolo De Io ann a

I

Una premessa Questa riflessione intende suggerire qualche elemento di analisi e di discussione, in un'ottica di ordine prevalentemente politico-istituzionale, sulla situazione comples­ siva e le dinamiche evolutive del debito pubblico italiano nel tratto di tempo collo­ cabile tra l'avvio dell 'esperienza democratico-repubblicana e gli anni del collasso della cosiddetta Prima Repubblica (1947-92); si tratta peraltro di una periodizzazione largamente convenzionale per cercare di individuare i profili salienti della vicenda del nostro debito pubblico nella lunga fase storica che prepara l' ingresso dell' Italia, con i paesi fondatori, nell 'area della moneta unica (Eurozona) nel 1998 (primo governo Prodi, ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi) . Questa data costituisce lo spartiacque formale della nostra vicenda monetaria, mentre quello sostanziale, come diremo dopo, è rappresentato, ad avviso di chi scrive, dal "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d' Italia (1981), da cui prende avvio il processo che prepara l 'approdo del 1998. La linea di riflessione che propongo nasce in qualche modo dall'osservazione pratica e dall ' idea che in realtà ogni comportamento incorpora più o meno consa­ pevolmente una forma di teoria implicita. La teoria implicita di questa riflessione è che l 'economia è un "vivente" che reca in sé un inestricabile intreccio tra comportamenti cognitivi, cultura, tecnologia e sedimento istituzionale che resiste, si adatta, si innova quando è costretto dalla forza delle cose. La forza che spinge ali' innovazione profonda è quella che allarga la par­ tecipazione attiva e consapevole dei soggetti che abitano un territorio, alla sua vita e al suo sviluppo; è in estrema sintesi la forza della democrazia. Il debito è un ponte che lega progetti e aspirazione concepiti nel tempo T al tempo Tr, T2, T3 nel quale si immagina che gli investimenti fatti esprimano un'utilità economicamente rilevante e apprezzabile. Se questa tensione tra presente e futuro funziona, il debito si autofi­ nanzia con la crescita; se non funziona, perché le scelte sono di cattiva qualità, a poco a poco il debito "comprà' la democrazia, a vantaggio di tecnostrutture dirette da chi (creditori) detiene i segni che rappresentano il debito1• I. La ricostruzione del debito dello Stato italiano è stata oggetto di numerosi e importanti studi e pone questioni di metodo di notevole spessore. I dati che si utilizzano sono estratti da un contributo

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Che cosa è il debito pubblico ? Prima di procedere, è forse utile ricordare la definizione di debito pubblico recata dal Manuale del SEC 95 sul disavanzo e sul debito pubblico ( Regolamento CE n. 36os/ 93). Si intende per debito pubblico « il debito lordo al valore nominale in essere alla fine dell'esercizio e consolidato tra e nei settori della pubblica amministrazione » . Il settore di riferimento è quello delle pubbliche amministrazioni nel quale sono com­ prese le unità istituzionali che producono per le collettività, in prevalenza, servizi non vendibili e operano con funzioni di redistribuzione del reddito e della ricchezza. In Italia tale settore si articola nei sottosettori delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali, incluse le Regioni, e degli enti di previdenza e di assistenza. In via generale appare opportuno ricordare che il debito è uno stock; il primo rap­ porto che offre un' idea della sua grandezza e sostenibilità va riferito alla ricchezza prodotta dal paese nell 'anno di riferimento ( il PIL ) ; il disavanzo è invece un flusso che si aggiunge algebricamente allo stock di debito dell 'anno ; anche il servizio del debito va trattato come un flusso ( una spesa) che deve innanzi tutto essere rapportata al flusso delle altre spese e a quello delle entrate destinate a coprirlo. Prescindendo dai valori degli attivi iscritti nel conto del patrimonio di uno Stato sovrano e della loro potenziale capacità di produrre reddito ( in questo ambito sono riconducibili tutte le forme di valorizzazione del patrimonio disponibile dello Stato italiano, da ultimo variamente sperimentate e ora nuovamente riproposte come uno degli anti­ doti per attaccare lo stock), l'esame della sostenibilità del debito viene condotto dalle società di rating ( dalla Commissione europea, dall' ocsE e dallo stesso FMI ) , osservando in prevalenza l'andamento nel corso del tempo dei rapporti tra gran­ dezze finanziarie : ma tali variabili sono espressione dell'andamento dell'economia, della sua forza innovativa, della sua capacità di crescita, attuale e prospettica, dei suoi rapporti interni tra formazione di capitale fisso sociale e sviluppo degli scambi interni e con il mondo esterno. In una parola, il debito e le variabili-flusso a esso connesse segnano il ruolo che un sistema economico occupa e svolge nell 'economia globale. In termini di rapporti finanziari, un primo criterio osserva il rapporto tra il valore attualizzato degli avanzi primari prevedi bili in futuro ( tutte le entrate meno le spese, al netto del pagamento degli interessi) e il valore dello stock di debito in essere; un altro rapporto interessante è quello tra le entrate fiscali ordinarie e il servizio del debito ( interessi); in termini reali e dinamici è rilevante osservare l'an-

in ambito Banca d' Italia: M. Francese, A. Pace, Il debito pubblico italiano dall'Unita ad oggi. Una ricostruzione della serie storica, Banca d' Italia, Roma 2008. Si tratta di un testo aggiornato, consapevole di tutte le problematiche tecniche poste dalle precedenti ricostruzioni e che prepara la strada a succes­ sive elaborazioni che dovrebbero cercare di spiegare, nello stesso orizzonte storico, la dinamica interna delle forze che hanno alimentato il nostro debito.

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damento atteso dei tassi di interesse e quello della crescita del PIL; è autoevidente che se i tassi pagati sono maggiori del tasso di crescita del PIL (tutto in termini nominali) il rapporto debito-PIL aumenta anche se le entrate coprono le spese al netto degli interessi (saldo primario in equilibrio) . La sostenibilità dipende anche dal livello complessivo della pressione fiscale; se tale livello è considerato già prossimo al massimo compatibile con la permanenza di una crescita accettabile, il debito sarà giudicato meno sostenibile. Il Fondo monetario internazionale (FMI) esamina la sostenibilità del debito osservando in particolare il rapporto tra l 'avanzo primario e gli andamenti del tasso di interesse e del tasso di crescita. Se il tasso di crescita nominale è abbastanza elevato rispetto al tasso di interesse medio pagato sul debito e/ o l'avanzo primario copre comunque una quota sufficiente del servizio del debito, la situazione è sostanzial­ mente sotto controllo. Rilevante anche è la distribuzione dello stock tra creditori interni ed esteri e la valuta in cui è denominato. Quindi il livello sostenibile del debito dipende da fattori che connotano il funzionamento e il posizionamento com­ plessivo, statico e dinamico, di un sistema economico; dipende da valutazioni che hanno una forte cifra politico-istituzionale.

3 Revisionismo economico e revisionismo storico La crisi finanziaria europea in atto, che rivela i vuoti istituzionali di un manufatto da completare, conduce molti commentatori a rileggere a ritroso la storia della nostra finanza pubblica e a vedervi una sorta di elusione continua degli obblighi costituzio­ nali di equilibrio finanziario, sanciti dalla formula del vecchio art. 8 1 della Costitu­ zione, oggi sostituito dalla cornice del cosiddetto "equilibrio strutturale", con la legge costituzionale 20 aprile 20 1 2, n. 1, attuata con la legge, votata a maggioranza quali­ ficata, 24 dicembre 20 1 2, n. 243 (pareggio corretto dagli andamenti ciclici e depurato dalle una tantum) . Si tratta di un tipico caso di revisionismo economico, dove l'en­ fasi sulle virtù apparentemente ritrovate, sotto la spinta di fattori del tutto esterni, offusca una visione nitida, delle ombre e delle molte luci, di una fase storica lunga, complessa e difficile. Revisionismo storico e revisionismo economico sono due facce dello stesso fenomeno ; trovare nell'analisi del passato conferme delle convinzioni che orientano il presente è un metodo (o un rischio) sempre incombente nella ricerca storiografica; metodo e rischio in un certo senso del tutto legittimi, a condizione che alla fine si raccolgano elementi utili a meglio spiegare i nodi del presente, senza offuscare un'esatta ricostruzione del passato. Probabilmente la ricerca storica, più o meno consapevolmente, si muove sempre dentro questa interna dialettica. Se l'obiettivo della classe politica che si consuma con la Prima Repubblica era quello di salvare il tessuto democratico e il futuro europeo del paese, durante una 1 43

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crisi politica che diventa durissima, soprattutto a partire dalla metà degli anni Set­ tanta, nel fuoco di un conflitto terroristico in cui si mescolano caratteri autoctoni e linee di un confronto internazionale segnato dalla contrapposizione, politica, cultu­ rale ed economica, dei due blocchi, ebbene quella classe politica, a giudizio di chi scrive, ha assolto al suo compito in modo tutt 'altro che inadeguato. Il giudizio su quella fase della conduzione della finanza pubblica coincide in larga misura con il giudizio storico-politico sul comportamento dei gruppi dirigenti; politica fiscale, monetaria e valutaria intrecciano l'azione, da un lato, del governo e del Parlamento e, dall'altro, della Banca d ' Italia. Al centro, si colloca un uso dello strumento mone­ tario e valutario che cerca di correggere e contenere i compromessi fiscali della poli­ tica, ma è consapevole del fatto che non ci sono soluzioni tecniche che possono sostituirsi alla sintesi delle scelte politiche. È questo, ci sembra, il senso della famosa frase del governatore Guido Cadi sulla « sediziosità » di un comportamento non collaborativo della Banca d ' Italia. Il comportamento attuale dei governatori delle banche centrali degli Stati Uniti, del Giappone, Regno Unito e della stessa BCE indica quanto fosse saggia, consapevole e lungimirante quella posizione di Cadi, che peraltro era un civil servant ben consapevole del significato e della forza dei mercati in gene­ rale e in particolare della durezza dei mercati finanziari. La gestione della moneta che tende a sbarazzarsi della sintesi della democrazia, cioè del supporto di un potere statuale democratico, a beneficio di tecnostrutture opache, rischia di infilarsi in un tunnel senza uscita, se non ha ben chiaro qual è il suo committente: le cosiddette "leggi della scienza economica" ? Il meccanismo del capitalismo globale ? Gli interessi socioeconomici di un'area territoriale organizzata in forme istituzionali di demo­ crazia che cercano di preservare pace e sviluppo ? La Banca centrale è un manufatto istituzionale che coincide con la moneta che genera e gestisce; e una moneta senza Stato appare sempre più una costruzione senza aderenza ai processi storici in cui è chiamata a operare.

4 Alla ricerca di un controllo effettivo della dinamica dei nostri conti pubblici Daremo uno sguardo all 'evoluzione delle procedure e degli strumenti della deci­ sione di bilancio, soffermandoci soprattutto sugli interventi riformatori a nostro avviso più significativi : la legge 1° marzo 1964, n. 62 ( legge Curti ) , la riforma del 1978 ( legge s agosto, n. 468 ) e la novella del 1988 ( legge 23 agosto 19 88, n. 362 ) . L'ottica è quella di un operatore istituzionale che ha avuto modo di osservare questi processo da vicino. Gli interventi successivi - sulla struttura del bilancio ( legge delega 3 aprile 1977, n. 94, e D.Lgs. 7 agosto 1997, n. 279, che introducono le unità previsionali di base come unità di voto parlamentare, al posto dei capitoli ) ; la legge 144

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25 giugno 1999, n. 20 8, che torna ad ampliare il perimetro di intervento innovativo della legge finanziaria; i successivi interventi, sempre sulla struttura del bilancio del 2007, che introducono le missioni e i programmi; la riforma organica del 2009 ( legge 31 dicembre 2009, n. 196) che cambia il nome degli strumenti e comprime, a beneficio del governo, i tempi della discussione, in un'ottica di controllo aggregato di tutti i conti della finanza pubblica - ci appaiono tutti elementi in sostanziale continuità con l'assetto strutturale impresso con la legge 36 2/ 1988. Da ultimo, è solo nel 20 12 con la riforma costituzionale ( legge costituzionale 1/ 2012) e la suc­ cessiva legge rinforzata 243/ 2012 che l'orizzonte ordinamentale si modifica in modo significativo. Il filo che lega questi passaggi tesse corposi cambiamenti nella condu­ zione della politica fiscale e di bilancio, in larga misura spiegabili con la vicenda del nostro avvicinamento e poi con l'adesione all ' Unione economica e monetaria europea. Il senso di fondo di questa riflessione si può così riassumere: i nodi dell'intreccio tra politica fiscale, monetaria e valutaria che hanno visto in Italia, nella Prima Repub­ blica, un confronto serrato, ma leale, tra governo e Parlamento, da un lato, e Banca d' Italia, dall'altro, in un contesto di democrazia rappresentativa " bloccatà', si ripro­ pongono ora a livello europeo, tra Banca centrale europea ( BeE ) , organi comunitari e governi nazionali, nel contesto di un' Unione che è alla ricerca di equilibri demo­ cratici e istituzionali adeguati per un'area monetaria unica, per ora largamente subottimale. Dove i paesi creditori del Nord sono restii ad aprire una dinamica isti­ tuzionale che stabilizzi strumenti di tipo parafederale. I nodi che pensavamo di risolvere a livello nazionale, interrompendo il finanziamento monetario dei fabbi­ sogni del Tesoro e trasferendo la politica monetaria all'autonomia della BCE, li ritroviamo ora a livello comunitario, dal momento che non siamo stati capaci di attuare un processo di riequilibrio autonomo dei conti pubblici, coerente con il posizionamento internazionale della nostra economia. Si tratta di capire se l'attuale classe dirigente italiana saprà partecipare in modo adeguato a una nuova, delicata, fase di rilancio - ricomposizione della governance economico-istituzionale europea o se invece tenterà di eludere i nodi di fondo, sulla base di una sorta di principio di necessità che si può esprimere così: dobbiamo aderire alle indicazioni dello Stato guida ( la Germania) e quindi possiamo solo attuare in buon ordine le prescrizioni tedesche, trasferite nel jìscal compact, un trattato internazionale peraltro di dubbia valenza comunitaria. Chi scrive condivide l'opinione di quegli studiosi che ritengono che per risolvere le questioni economico-sociali assai gravi che si delineano a scala europea ( disoccupazione giovanile di massa, scarsa crescita, scarsa competitività glo­ bale ecc. ) occorre risolvere, sempre a scala europea, i nodi di una politica monetaria e fiscale idonea a impostare programmi di innovazione e crescita, con gli strumenti appropriati per un'area monetaria integrata. Gli strumenti sono l'unione bancaria, la disciplina fiscale, la garanzia dei debiti dei paesi membri, almeno entro la soglia del 6o%, il coordinamento delle politiche di bilancio, le spese pubbliche di investimento 1 45

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a scala continentale, finanziate con debito emesso in euro e garantito dalla BCE. Il controllo, effettivo e trasparente dei nostri conti è una precondizione necessaria per ogni iniziativa europea; e l 'esame del nostro passato aiuta a comprendere i nodi del presente.

s

Il cambio di orizzonte : il "divorzio" In Banca d ' Italia, con le considerazioni finali lette nel maggio 1 9 8 1, emerge con nettezza la convinzione, espressa dal governatore Ciampi, che il ritorno a una moneta stabile richieda una « costituzione monetaria » , fondata sui tre pilastri : 1. dell' indipendenza del potere di creare moneta da chi determina la spesa pub­ blica; 2. di procedure di spesa rispettose del vincolo di bilancio ; 3 · di una dina­ mica salariale coerente con la stabilità dei prezzi. Tale impostazione si sedimenta negli anni a venire nella cultura economica generale, ma negli anni Settanta era coltivata solo da alcuni economisti. Tuttavia, proprio il tratto di tempo che ci separa da quegli eventi consente forse oggi di osservare con maggiore senso critico la posizione di quanti continuano a sostenere, in via sistematica, che il Tesoro dello Stato si deve disconnettere dalla Banca centrale per finanziare i propri fabbisogni e che, poi, il Parlamento si deve disconnettere dal Tesoro per coprire le proprie scelte. Questa impostazione conduce a una Banca centrale che garan­ tisce solo la stabilità dei prezzi : al potere politico restano intestate tutte le altre scelte di aggiustamento. In tale concezione, il debito che finanzia gli investimenti deve, a tendere, venire solo dai capitali privati; le spese pubbliche si finanziano solo, sempre a tendere, con il prelievo obbligatorio : tasse, imposte e contributi. Il carattere strutturale del disa­ vanzo - ed è qui che si innesta la nuova cornice costituzionale in materia di equili­ brio di bilancio - dipende crucialmente dalle ipotesi che sostengono la ricostruzione delle tendenza macro di medio periodo ; se tali ipotesi sono errate, come stiamo verificando in Europa e particolarmente in Italia, in questa fase, il vincolo esterno deprime ulteriormente il ciclo ; e se la BCE continua ad avere come target solo la stabilità dei prezzi l 'economia dell'area comunitaria approfondisce i suoi caratteri duali (Nord-Sud) e rischia di rimanere a lungo al margine dello sviluppo globale. Comunque, la tesi che il debito non deve mai servire a comporre i conflitti della scelta politica, in nuce rischia di eliminare la scelta fiscale dei cittadini e quindi di attaccare le stesse radici della democrazia rappresentativa; la guida dei processi eco­ nomici rischia di essere rimessa a una tecnostruttura al servizio, in sostanza, delle logiche dei mercati finanziari o di "leggi dell'economià' sulla cui oggettività la rifles­ sione teorico-pratica, come diremo, rimane del tutto aperta, soprattutto in ordine ai fattori che fanno da leva al ciclo economico.

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Un breve sguardo alle teorie... È ben noto che le teorie positive che analizzano i rapporti tra debito e forme istitu­

zionali convergono nel sottolineare che « i sistemi democratico rappresentativi si basano sul consenso » 1 e ciò non costituisce solo la loro forza ma anche una relativa forma di debolezza. Non solo perché notoriamente il consenso è esposto alla mani­ polazione dei media e degli interessi che li condizionano, bensì per qualcosa di ancora più sostanziale, appunto la riduzione del tempo alla contemporaneità. Il consenso, infatti, tende a esprimere interessi di breve periodo, a mettere a fuoco un punto di sintesi "opportunistico" che allontana scelte percepite come più dolorose. D 'altra parte l'orizzonte dei mercati dominati dalla logica degli investitori istituzionali deve conti­ nuamente trovare punti di sintesi tra esigenze di liquidità, rendimenti medi e aspet­ tative di stabilità delle monete in cui sono espressi i titoli in cui si investe. Si può quindi affermare che è relativamente più agevole organizzare il consenso per opere che assicurano benefici nell'immediato ma impongono sacrifici solo dopo decine di anni. In sintesi, questa è la tesi alla base della recente letteratura che cerca di spiegare le decisioni finanziarie attraverso l'analisi dei processi decisionali politici. Questi, a loro volta, vengono messi in relazione alle caratteristiche istituzionali quali la forma parla­ mentare e la natura dei governi. L'evidenza empirica non offre peraltro indicazioni conclusive al riguardo ; appare aderente alla realtà sostenere che sistemi basati sulla rappresentanza proporzionale della base elettorale sono più complicati e laboriosi nella ricerca di punti di sintesi ottimali e comunque possono risultare più esposti a un uso meno controllato del debito. Tuttavia, emerge del pari consenso sul fatto che non è possibile ridurre le complesse scelte solo o in prevalenza a fattori istituzionali. E comunque si può aggiungere che, ad avviso di chi scrive, proprio a fronte della presente crisi europea, appare preferibile rischiare di sbagliare in condizioni di consenso demo­ cratico piuttosto che affidarsi a scelte elaborate da tecnostrutture opache, veicoli a volte inconsapevoli dell'egemonia culturale delle economie che guidano la macchina.

7 . . . e ai fatti della macroeconomia In pochi decenni il paradigma interpretativo dei fatti economici ha subito una rota­ zione di 360 gradi. Uno dei maestri italiani della scienza delle finanze, nell 'edizione del 1973 del suo manuale, avvertiva che la crisi del 1929 è importante «perché segna il crollo, che può dirsi definitivo, della fiducia che il sistema economico tende spon2. Cfr. N. Sartor, Il debito pubblico, in pichelli, Torino 20I3.

AA.VV.,

Evoluzione e riforma dell'intervento pubblico, Giap­

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taneamente, senza artriti preoccupanti, a un equilibrio di piena occupazione » 3• Poi è arrivata la stagflazione degli anni Settanta: la politica monetaria e fiscale fallì l'o­ biettivo del pieno impiego, con o senza inflazione. Il pendolo fece una netta inver­ sione verso la deregolazione, le privatizzazioni, con una ritirata strategica nella guerra ai monopoli e con la netta prevalenza di politiche macro che ponevano l'accento sulla stabilità dei prezzi4• Gli anni Settanta sono segnati da gravi problemi di controllo negli andamenti delle entrate e delle spese in tutti i paesi industrializzati. Si discute apertamente di crisi fiscale dello Stato ; si apre la stagione dei diritti senza risorse e delle risorse senza diritti. Gli interventi nei paesi dell'area O C S E convergono nel mettere in campo controlli più stringenti sugli esborsi, accentuando il ruolo del Tesoro ; si introducono nuovi vincoli nel processo di formazione delle decisioni endogovernative e legislative e quindi nei rapporti tra governo e Parlamento ; si introducono strumenti di programmazione finanziaria pluriennale; si comincia a discutere della stessa desiderabilità di nuovi vincoli costituzionali. Le riforme italiane alla cornice contabile degli anni Settanta e Ottanta (leggi 468/ 1978 e 3 6 2/ 1988 e le connesse tornate di innovazioni nei regolamenti parlamentari) , come diremo e meglio vedremo dopo, sono figlie di questa fase; esse cercano peraltro di costruire un sentiero di razionalizzazione del sistema parlamentare italiano, a costituzione invariata. Al di là degli schemi interpretativi sul ciclo economico vi è convergenza sul fatto che occorre governare i trend della spesa e poter assestare la pressione fiscale sui livelli più appropriati per spingere lo sviluppo e tenere la coesione sociale. La critica all ' intervento pubblico, come osserva Posner, conteneva elementi di verità, ma fu a sua volta vittima di un altro effetto nirvana: in molti si autoconvinsero che i mercati fossero perfetti, ossia capaci di autoregolarsi e che l' intervento pubblico quasi sempre peggiorasse le cose. In genere, gli economisti soggetti a questo secondo effetto nirvana (pro mercato) sono connotati da una crescente formalizzazione matematica dei loro modelli esplicativi, con un certo disinteresse per i profili isti­ tuzionali, culturali e storico-sociali. Questo nirvana pro mercato domina nei rap­ porti tra istituzioni ed economia negli anni Ottanta e Novanta, anche in Italia. La crisi presente ha aperto una nuova stagione, teorico-pratica, sia negli Stati Uniti sia in Europa, che chiede di nuovo regole per affrontare le crisi delle istituzioni finan­ ziarie. Come osserva Posner, forse bisogna ammettere che ci mancano ancora molti elementi (anche e soprattutto psicologici e storico-istituzionali) per comprendere i meccanismi del ciclo economico. Tuttavia, è corretto affermare che questa fase lascia il residuo netto, non contestabile, dell 'esigenza teorico-pratica di processi di razio­ nalizzazione dei metodi di formazione delle decisioni di programmazione e gestione delle spese. Il profilo finanziario è parte integrante delle scelte di programmazione ; 3· S. Steve, Lezione di scienza delle finanze, C EDAM, Padova 1973, p. II. 4· Cfr. R. A. Posner, La crisi della democrazia capitalista, Università Bocconi, Milano 2010, P· 327.

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e programmare l'utilizzo di risorse relativamente più scarse rende obiettivamente più difficile e impervia la decisione.

8 La razionalizzazione della forma parlamentare di governo La ricerca di punti di equilibrio nel rapporto tra governo e Parlamento in materia di entrate e spese coincide dunque con il tema, storico-politico, della razionalizzazione della forma parlamentare di governo. La razionalizzazione dei sistemi di democrazia rappresentativa è un fenomeno che, con modalità tecniche diverse, si realizza in tutte le democrazie europee5 proprio sul terreno della disciplina dei poteri della borsa, tra governo e Parlamento. La questione fu vista e affrontata in Assemblea costituente con l'ordine del giorno Perassi (4 e s settembre 1946) e poi con l'azione (interrotta) di Costantino Mortati ed Egidio Tosato. A partire dal Comitato Paratore-Medici ( 1948) si snoda una lunga serie di lavori di commissioni e gruppi di lavoro (il Comitato Medici è del 1968), che in realtà segue e interpreta l'evoluzione dei rapporti reali di forza tra le visioni economico-istituzionali di cui erano portatori le forze sociali e i partiti6• Tra l' idea "giacobina", ma in realtà mai praticata, che il governo "deve" comunque trovare le soluzioni di copertura per i testi votati dalle Camere, e la Nota aggiuntiva del ministro del Bilancio La Malfa ( 1962) , che rilancia obiettivi e strumenti della programmazione, sulla base di una nitida idea della politica dei redditi, si colloca la lunga stagione del cosiddetto "miracolo economico", nella quale, nei fatti, controllo della moneta, scelte fiscali e politica valutaria sostennero con lucidità uno sviluppo senza precedenti della nostra economia. Tra il 1946 e il 1947 l 'economia italiana affronta uno shock inflazionistico che fu controllato e diretto dalle autorità monetarie (Banca d' Italia e Tesoro) con grande perizia tecnica; Einaudi apre con prudenza alla liberalizzazione dei nostri mercati (tutti largamente protetti) e alla conversione della lira; la politica fiscale consente che la spesa pubblica sostituisca la domanda privata in tutto il processo di ricostruzione del paese: in pochi anni furono ricostruite case, sistema dei trasporti, riavviati i servizi sociali di base (scuola e sanità) . L'inflazione di fatto erode in modo sostanziale le rendite dei titoli pubblici sottoscritti negli anni ante guerra e il debito in rapporto al prodotto flette drasticamente. La domanda di consumo dei ceti medi cresce impetuosa, mentre la produttività pro capite del lavoro cresce più delle remunerazioni reali; importanti innovazioni tecnologiche, bloccate dall 'autarchia, intervengono rapidamente nei processi manifatturieri; dunque, sostegno pubblico degli investimenti infrastrutturali, abbondanti investimenti privati S· M. Duverger, Finances publiques, P U F, Paris I 97 I. 6. Cfr. P. De Ioanna, La copertura delle leggi di spesa, in A. Barettoni Aderi (a cura di), Dizionario di contabilita pubblica, Giuffrè, Milano I989, pp. I I9-248. 149

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in settori manifatturieri in rapida espansione tecnologica, crescita dei consumi e rinnovato ruolo dell'export, sono gli elementi di fondo del "miracolo". Ma già nel 1962 i salari crescono più della produttività e occorre immaginare gli ingredienti di base per una nuova e più complessa fase di sviluppo economico, sociale e istituzionale. Eppure, in tutta la fase del "miracolo economico", di fatto, il governo in Parlamento trovò sempre un habitat procedurale che gli consentì di attuare le sue politiche fiscali. Lo schema applicativo dell'art. 8 1 della Costituzione in materia di copertura delle leggi di spesa, ben lungi dal chiudersi in una visione di pareggio contabile sull'anno, consentì di trovare in concreto forme di copertura con il debito per finanziare pro­ grammi infrastrutturali a medio-lungo termine, coerenti con la fase economica che il paese attraversava. In sostanza, la specifica soluzione individuata dal costituente per il nodo della copertura finanziaria, si rivelò saggiamente ispirata a una concezione essenzialmente di metodo, idonea a rimettere alla concreta dinamica della scelta delle priorità legislative la definizione dei successivi punti di equilibrio capaci di riflettere gli indirizzi economico-finanziari via via prevalenti nella società7, ma fondati su una ragionevole previsione dei profili di crescita idonei a sostenere l'onere del debito. Dunque la crescita, che parte impetuosa negli anni Cinquanta, fino ai primi anni Settanta fu agevolata in modo sostanziale dal venire meno delle spese militari e delle spese connesse al servizio del debito pubblico, da un'imposizione fiscale più conte­ nuta e dalla maggiore possibilità di spendere in infrastrutture attraverso programmi direttamente sostenuti dal potere pubblico 8 • In questo contesto la politica abitativa ( grandi programmi di edilizia convenzionata e pubblica) e delle reti, autostradali ed elettriche, legate queste ultime alla nazionalizzazione delle imprese produttrici, fecero da volano, reale e finanziario, del nostro sviluppo economico.

9 Una programmazione economica mai decollata È in questo clima che con la legge 1° marzo 19 64, n. 62 ( legge Curti ) , si passa da una

struttura del bilancio statale di tipo aziendalistico patrimoniale a una classificazione delle entrate e delle spese di tipo economico-funzionale, idonea, nelle intenzioni, a fare della decisione di bilancio il supporto finanziario di una politica di programma­ zione economica. Lo spazio di tempo che va dalla legge Curti del 1964 alla riforma del bilancio del 1978 ( legge 468/1978) coincide con il lento ma inesorabile declino delle idee e degli strumenti della programmazione economica ( il Progetto 8o, coor­ dinato da Giorgio Ruffolo, fu l'ultimo tentativo di declinare questo tema ) . Nel pieno della fase politica cosiddetta "di solidarietà nazionale", l 'idea della 7· De loanna, La copertura delle leggi di spesa, cit., p. 121. 8. Cfr. S. Lombardini, Carli, Baffi, Ciampi. Tre governatori e un 'economia, ISO

UT ET,

Torino 2005.

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programmazione reale viene sostituita da una strumentazione, potenzialmente assai moderna e sofisticata, di programmazione finanziaria, attraverso il controllo ex ante del bilancio pubblico, su un orizzonte pluriennale, con l'apporto di uno strumento legislativo sostanziale idoneo a introdurre nell'ordinamento le innovazioni necessarie a tenere le tendenze dei conti pubblici lungo il sentiero programmato. Ma il corposo seguito di riforme organizzative e gestionali che avrebbero dovuto implementare un' idea e una prassi di programmazione pluriennale si muove invece con un passo del tutto in controtempo con le esigenze di controllo espresse dalla fase di crisi inci­ piente della finanza pubblica, cui abbiamo fatto cenno ( cfr. supra, PAR. 7 ) . L'apparato tecnico-normativo che dà corpo a questi processi investe "rami alti" e "rami bassi": le leggi cornice, la struttura dei documenti di bilancio, i regolamenti parlamentari, i poteri dei dirigenti pubblici, l'organizzazione degli organi e dei controlli, dunque il sistema delle fonti e le prassi tecnico -contabili e gestionali. Chi scrive ha sostenuto che questo processo, nonostante significative innovazioni, soprattutto dopo la legge 362/ 1988, non è pervenuto a un punto di equilibrio realmente condiviso ; e tale mancanza di controllo sull 'evoluzione dei conti pubblici, a dispetto dell'uso abbon­ dante di topos, concetti e formule mutuate dalle scienze economico-aziendali, è dipeso largamente dalla marcata prevalenza, nelle tecniche previsionali e gestionali, di una discorsività di marca giuridico-contabile; discorsività debole nel supportare la costru­ zione di previsioni tendenziali, la gestione e il monitoraggio in progress dei conti, gli strumenti di correzione. La sintesi politica cerca continuamente, in apparenza, di correggere le tendenze non desiderate, ma emerge come un intreccio che si autoali­ menta tra inadeguatezza delle scelte politiche e opacità della strumentazione tecnica che prevede e rappresenta le tendenze della spesa che poi gestisce e controlla. La spending review, inaugurata nel 2007 (n governo Prodi, con Tommaso Padoa­ Schioppa al ministero dell'Economia e delle Finanze ) , aveva proprio lo scopo di incidere su strumenti e tecniche di gestione, a partire da un'analisi fine, di tipo microeconomico, dei programmi di spesa pubblica. Ma sono passati circa trent 'anni dalla legge 468/1978 ! Troppi per un paese che vuole competere con le politiche pubbliche dei nostri partner europei.

IO

La svolta del

I978

Nell'ottica di questa riflessione, che assume il debito come indice delle strategie della classe politica della Prima Repubblica, ci sembra utile sottolineare alcuni specifici aspetti della riforma del 1978 ( legge 468/1978) che servono forse a meglio inquadrare il senso delle scelte successive, soprattutto nella novella del 1988 ( legge 362/ 1988) . Con la riforma del 1978 viene ampliato il perimetro normativo della decisione di bilancio introducendo il supporto di una fonte primaria ( la legge finanziaria) , sotto151

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posta all'obbligo di copertura, ma con una latitudine di intervento innovativo poten­ zialmente più estesa; si introducono le autorizzazioni annuali di cassa, accanto a quelle di competenza, le previsioni pluriennali come base per un più realistico assol­ vimento dell'obbligo di copertura, il quadro dei conti di tutto il settore pubblico, la sessione di bilancio nei regolamenti parlamentari. Tuttavia, il profilo tecnico forse più innovativo, dal punto di vista del controllo della formazione del debito, è costi­ tuito dalla disposizione che riconduce a una norma specifica della legge finanziaria la determinazione del livello massimo del saldo netto da finanziare, in termini di competenza, configurabile come limite massimo per le nuove operazioni di debito patrimoniale (medio-lungo termine) che possono essere poste in essere per pareggiare i conti del bilancio statale. Questa innovazione aveva come obiettivi il definire con chiarezza quale fosse l'effettivo limite entro cui era possibile per il Tesoro accedere a nuove operazioni di indebitamento per coprire le spese iscritte in bilancio, e soprat­ tutto superare una sostanziale doppiezza conoscitiva tra una gestione di competenza giuridica, nel cui ambito era sempre possibile trovare soluzioni di copertura per nuove spese in corso d'anno, e una gestione per cassa, che rimaneva nelle mani del governo. Al fondo vi era quindi l' idea di fissare dei limiti e dei target per la politica di bilancio che rendessero esplicite le priorità incorporate nei documenti e i relativi mezzi di finanziamento, in un orizzonte pluriennale. Dunque, alla base della riforma del 1978, ad avviso di chi scrive, vi era l'idea di porre la politica di bilancio su solide basi di programmazione pluriennale, capaci di incidere sulla qualità, sulla composizione e sulla distribuzione della spesa pubblica; contestualmente, la riforma intende chiarire - con precisione - limiti e responsabilità del governo e del Parlamento nella programmazione del deficit di bilancio come strumento di politica economica. Un protagonista di quella fase sottolinea che si tratta di «porre fine alla vecchia prassi di elusione di un confronto trasparente e responsabile sulla politica fiscale per iniziarne una nuova » , che ridia alla politica fiscale e finanziaria la sua autonomia, responsabilizzandone in pieno governo e atti­ vità parlamentare; si tratta di configurare, con il massimo grado possibile di libertà, la combinazione ottimale degli strumenti di politica economica più efficaci per rag­ giungere obiettivi di stabilizzazione e sviluppo del sistema. «Tutto ciò è possibile solo se una sufficientemente decisa e stabile convergenza tra le forze dell'arco costi­ tuzionale permetterà di orientare l'azione non al giorno per giorno, ma alla piena realizzazione delle potenzialità e delle esigenze di sviluppo del nostro sistema econo­ mico-sociale » 9• Gli anni Ottanta sono quelli in cui questa scommessa comincia a consumarsi senza risultati conclusivi, dove per conclusivi dovrebbe intendersi un punto condiviso, tra tutti i soggetti che operano nell'arena parlamentare, di sintesi tra esigenze di decisione 9· Così S. Lombardini, I nuovi problemi della politica fiscale, in P. Scaramozzino (a cura di), Studi di statistica e di economia in onore di Libero Lenti, vol. n , Giuffrè, Milano 1979. I Sl

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ed esigenze di trasparenza e controllo. Tra gli economisti è diffusa la convinzione che proprio l'analisi degli andamenti di finanza pubblica degli anni Ottanta costituisca un terreno di valutazione cruciale per cercare di capire il senso degli sviluppi della politica economica nel ventennio successivo. Se oggi, nel pieno dell'attuale crisi eco­ nomico-finanziaria, la questione del peso del debito pubblico italiano rappresenta il condizionamento maggiore per una politica di bilancio più attiva e propulsiva, è in quel decennio che occorre ritrovare i fùi per comprendere la natura, economico-isti­ tuzionale, dei nodi del presente. Economia ed evoluzione del quadro istituzionale in materia di bilancio si intrecciano strettamente. La questione è stata messa a fuoco soprattutto nel dibattito economico. I dati non sono di facile e univoca interpretazione e tuttavia la distanza del tempo consente di approssimare un primo giudizio : si può dare di quel periodo la valutazione di un'occasione gravemente mancata per il risana­ mento della finanza pubblica, quando il prodotto era in crescita e molti margini potenziali si davano per rendere più produttiva la nostra economia10• È in questo decennio (gli anni Ottanta) che appare chiaro come la razionaliz­ zazione del sistema parlamentare debba avvenire soprattutto sul terreno del governo della finanza pubblica e che tale processo deve segnare una maturazione complessiva e profondamente condivisa tra le forze che hanno animato la prima fase della vita repubblicana. Ci sembra aderente al vero affermare che sul terreno della razionalizzazione delle procedure di bilancio si è giocata una partita cruciale della nostra vita istituzionale e che tale partita ha fatto segnare importanti elementi di novità ma non è riuscita a pervenire a convincenti e condivisi punti di ricaduta. I punti di discontinuità vera sono stati prodotti da sfide e sollecitazioni venute soprattutto dall ' Europa; e questo schema spiega anche il recente cambio di para­ digma costituzionale, intervenuto con la legge costituzionale 1/20 1 2 e con la suc­ cessiva legge rinforzata per l'attuazione del cosiddetto "pareggio strutturale". Dunque è in quell'arco di anni che si decide e si discute (e si combatte politica­ mente) sulla linea di uscita dalla crisi del sistema istituzionale e di razionalizzazione del nostro parlamentarismo. Si tratta di costruire una seconda fase della democrazia repubblicana o di rischiare di destrutturare le basi della nostra giovane costruzione costituzionale. Questa era la posta in gioco. Si tratta di trovare soluzioni istituzio­ nali moderne, ma fedeli ai tratti fondativi della Costituzione. In questo senso, caduta l 'idea di un'economia partecipata e programmata, che era alla base dei progetti di programmazione degli anni Sessanta e Settanta, il nodo della governa­ bilità si scarica interamente sul tema del controllo delle dinamiche della finanza pubblica: questo nodo diventa il crocevia vero di tutte le questioni istituzionali che ostruiscono la strada per un consolidamento e una stabilizzazione della nostra democrazia parlamentare. IO. Cfr. N. Sartor (a cura di), Il risanamento mancato. La politica di bilancio italiana: 19S0-90, Carocci, Roma I998. 153

PAO L O D E I OANNA II

Dopo il "divorzio", la riforma del 1 9 8 8 Dunque, dopo la riforma del bilancio del 1978, il vero cambio di paradigma istitu­ zionale interviene con il "divorzio" tra Tesoro e Banca d ' Italia (1981). È qui che si situa una vera e propria modifica della costituzione economica materiale del nostro paese. Con la netta separazione tra politica fiscale e politica monetaria, il finanzia­ mento non fiscale del bilancio pubblico può avvenire solo nei limiti e alle condizioni in ultima analisi fissate dai mercati specializzati, ammessi a operare in titoli pubblici; il prezzo delle operazioni di finanziamento del bilancio pubblico sta interamente nelle mani dei mercati finanziari. La scelta del "divorzio" va quindi collocata in una fase nella quale si era consapevoli che per cercare di essere attori nel processo di integrazione finanziaria europea, prima del passaggio alla moneta unica, occorreva passare a una gestione del debito più ancorata alle valutazioni dei mercati interna­ zionali ; occorreva cioè superare una visione per così dire amministrativa del debito, in ragione della quale la struttura delle scadenze non appariva come un problema vero, in quanto era sempre possibile guidare il finanziamento del disavanzo attraverso il collocamento dei titoli presso la Banca centrale, o "dirigendo" la composizione di portafoglio del sistema bancario e convogliando verso questo sistema l 'acquisto di quote del debito nuovo o in scadenza. E stato osservato che all'origine dell 'esplosione del debito, negli anni Ottanta e Novanta, vi sarebbe in larga parte questa convinzione illusoria, formatasi negli anni di basso livello del rapporto debito-PIL; era cioè prevalente la convinzione che la rapida crescita economica potesse continuare a lungo e che fosse possibile finanziarsi con debito pubblico a breve termine, a basso costo e a basso rischio di rinnovo. E ciò avrebbe condotto a sottovalutare gli effetti sugli equilibri complessivi del bilancio pubblico. Per la verità fino alla metà degli anni Settanta la gestione dello stock del debito è un nodo assai delicato, ma ancora dominabile. L'esplosione della spesa per interessi, che alimenta rapidamente l'accumulo dello stock del debito ( per via della formazione di quote crescenti, anno su anno, di indebitamento netto ) , si manifesta, come era facile prevedere a partire dal 1983, con il graduale realizzo di sistemi di aste per i titoli pubblici via via sempre più aperti e competitivi; sono i grandi prenditori specializzati di titoli pubblici, nazionali e internazionali, che fanno il prezzo a cui i titoli vengono collocati. Dal 1980 al 1987 ( quando si apre la x Legislatura) lo stock del debito passa dal 70 al 90% del PIL. Non è dunque casuale se è proprio nella x Legislatura che si riapre una fase di intensa revisione delle procedure di bilancio, in particolare sotto la spinta di Beniamino Andreatta, che fu presidente della Commissione bilancio del Senato dal 4 agosto 1987 al 22 aprile 1992: lo stesso uomo politico ed economista che aveva fortemente sostenuto, insieme al governatore Ciampi, il "divorzio". Non è casuale, perché l'andamento della crescita del debito dimostra che le condizioni '

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indicate dalla Banca d ' Italia nelle Considerazioni finali del 1981 non si erano realiz­ zate dopo il divorzio. In particolare, la formazione del fabbisogno del settore statale restava largamente connessa a un andamento della spesa non coerente con la crescita del prodotto. Dunque una minoranza tecnico-politica aveva promosso il primo passo (il divorzio, appunto) , la politica l'aveva subito ma non aveva interiorizzato il cambio di paradigma che si apriva. La questione cruciale della x Legislatura è quella della ridefinizione di strumenti idonei a piegare la dinamica delle spese cor­ renti entro margini coerenti con un percorso di stabilizzazione della crescita dello stock del debito - interno alla crescita del PIL - , previsto e realizzato anno su anno. Si tratta quindi di superare una logica di mera copertura al margine delle nuove spese o minori entrate e di imboccare sentieri di correzione strutturale dei conti coerenti con previsioni di crescita ragionevoli o comunque non fondate su elementi di moral hazard. La x Legislatura appare caratterizzata da reali elementi di innovazione nel quadro istituzionale che disciplina le procedure di bilancio. La prima revisione della legge di contabilità generale 468/1978 è di dieci anni dopo (legge 362/ 1988), a cui seguirono due tornate di novelle dei regolamenti di Camera e Senato, con la connessa istituzione dei Servizi del bilancio. L'obiettivo della legislatura è di rivisitare le norme di conta­ bilità e le procedure parlamentari di esame del documento di bilancio ; si trattava di recuperare condizioni di equilibrio e di controllo della finanza pubblica; di stabiliz­ zare un'interpretazione virtuosa dell'obbligo costituzionale di copertura e di valoriz­ zare, in modo effettivo e non nominalistico, i poteri di controllo del Parlamento. È il Parlamento a essere visto come luogo della trasparenza e della responsabilità dove il sinallagma tra nuove decisioni di spesa o di minore entrata e indicazioni dei mezzi di copertura deve essere sottoposto a un'accurata e trasparente verifica tecnica11• Il punto cruciale stava dunque nel rileggere norme e prassi della riforma del 1978 (legge 468/1978), conseguendo alcune innovazioni che sembravano qualitativamente decisive: in primo luogo, si trattava di definire un vincolo esterno e preventivo sugli obiettivi di finanza pubblica, annuali e triennali, da rispettare nel corso della sessione di bilancio ; in secondo luogo, di definire con maggior precisione le formule tecniche '

I I. E utUe ricordare che nella precedente legislatura aveva operato in Senato una commissione di studio insediata dal presidente Fanfani e di cui chi scrive aveva coordinato i lavori. Il conflitto politico, soprattutto tra comunisti da un lato e blocco di potere ricostituitosi intorno all'asse PS I-D C dall'altro, impedì di raggiungere soluzioni normative, ma consentì comunque di concludere un buon lavoro analitico, che servì da base per il ciclo di riforme della legislatura successiva. Le conclusioni della commissione erano fondate sull' idea base di una rilettura e reinterpretazione virtuosa dell'obbligo costituzionale di copertura delle leggi di spesa e di minore entrata, stabilito nell'art. 8 I della Costitu­ zione, rUettura che intendeva saldare con precisione l'assolvimento dell'obbligo costituzionale alla natura giuridico-economica dell ' intervento, e ai suoi effetti pluriennali, con un forte rafforzamento delle strutture di supporto, sia governative sia parlamentari, fornendo al governo e alla sua maggioranza gli strumenti (a partire dal Documento di programmazione economico-finanziaria) per piegare con interventi di correzione appropriati le tendenze fuori controllo. 1 55

PAO L O D E I OANNA

di copertura della stessa legge finanziaria, rispetto alle tendenze in atto, e delle altre leggi di spesa deliberate fuori dalla sessione di bilancio ; in terzo luogo, di determinare con il Documento di programmazione economico-finanziaria la possibilità di dise­ gnare un percorso di rientro dagli squilibri tendenziali, idoneo a imporre riduzioni di spesa o maggiori entrate strutturali in misura algebricamente maggiore della neces­ sità di una copertura al margine degli andamenti della nuova maggiore spesa corrente determinata dalla legge finanziaria; in ultimo luogo, si trattava di introdurre una procedura parlamentare di verifica delle quantificazioni delle coperture tecnicamente attrezzata e tendenzialmente autonoma rispetto ai dati forniti dal governo. In sostanza, si procedimentalizzava un percorso che poneva nelle mani del governo e della maggioranza che lo sosteneva il potere di determinare, a partire dal Documento di programmazione economico-finanziaria, percorsi di riequilibrio potenzialmente assai più strutturati ed efficaci di quanto fosse fino allora avvenuto ; alle strutture di supporto tecnico il compito di discutere criticamente le assunzioni alla base delle ipotesi di copertura. E in tale contesto che si colloca la costituzione dei Servizi del bilancio presso le due Camere, struttura fortemente voluta proprio dalla presidenza della Commissione bilancio del Senato e pienamente sostenuta dalla presidenza del Senato (Spadolini) . Le soluzioni poste in essere in quegli anni hanno, ad avviso di chi scrive, costituito il nesso centrale delle nostre istituzioni di bilancio, fino alla riforma costituzionale del 20 12. E rimandano alle questioni che poi sono in parte rimaste irrisolte o risolte in modo non del tutto soddisfacente e che continuano a interrogare il presente. Quali sono i metodi appropriati di costruzione ex ante e di controllo ex post degli andamenti tendenziali della finanza pubblica? Quale deve essere la base di conoscenze relative ai diversi settori di spesa che governo e Parlamento devono condividere nella verifica degli andamenti tendenziali e nel controllo al margine delle coperture delle nuove iniziative ? L' ingresso nella moneta unica (1 988) e la formidabile flessione del peso degli interessi (con lo spread che crolla da circa s o o punti base nel 1986 a 100 punti base nel 2000) furono un successo straordinario ; la cornice dell 'art. 8 1 della Costi­ tuzione, che aveva assecondato la crescita degli anni Cinquanta, si dimostrava del tutto idonea a sostenere percorsi di riequilibrio ; la frase "entrati in Europa" tornava così nella routine della politica quotidiana. Tuttavia, le stesse forze politiche che avevano impedito una soluzione virtuosa dei conflitti sottesi alle scelte di bilancio, pur di impedire negli anni Ottanta e Novanta uno sblocco della nostra democrazia, che inserisse stabilmente nella dialettica democratica la sinistra, nella legislatura suc­ cessiva gradualmente consumano il dividendo recato dall 'ingresso nell 'euro e ricon­ ducono il bilancio su un sentiero di tendenziale squilibrio. Le innovazioni recate nella breve xv Legislatura ( n governo Prodi) dalla legge finanziaria 2007 - il Servizio Studi della Ragioneria generale dello Stato ; l' istituzione della Commissione tecnica per la finanza pubblica; il rafforzamento dei Servizi del bilancio in Parlamento furono un modo per riprendere quel filo riformatore; filo che presto si interruppe '

D E B I T O P U B B L I C O E C LAS S E P O LI T I CA

per i conflitti interni di quella debole maggioranza di centro-sinistra, ma soprattutto per la miopia delle classi dirigenti che avevano assecondato il ritorno del centro-destra e che ritenevano e in parte ritengono non agevole e utile affrontare i nodi dell' in­ novazione e della modernità facendo i conti con le rappresentanze politiche e sinda­ cali del mondo organizzato del lavoro. Credo che le innovazioni di metodo e di procedura introdotte con la riforma del 1988 abbiano avuto un significato non irrilevante nell'assecondare il percorso di rientro che ha consentito nel 1998 l 'ingresso del paese nell' Unione monetaria.

12

A mo' di conclusione Ho sempre pensato, da comune cittadino, che la questione fondamentale dell'agire politico sia il rapporto tra teoria e prassi : la misura che separa gli obiettivi dalle concrete possibilità dell'agire politico. In questo spazio si colloca la responsabilità del decisore politico nelle sue diverse declinazioni: al governo, nella maggioranza, nell'opposizione. La questione della crisi della politica che segna il tempo presente rinvia ad alcuni nessi di fondo della nostra esperienza democratica e repubblicana che le menti e i caratteri più forti della nostra classe politica avevano visto con chia­ rezza già negli anni Settanta: trasparenza e responsabilità restano gli ingredienti di basilari per ridare senso e prospettiva alla nostra vita democratica. Tuttavia, troppi anni sono stati sprecati in un intreccio che si è autoalimentato tra politiche di breve respiro e tecniche opache di previsione e gestione. I corposi nodi tecnici posti dalla costruzione di due scenari ( uno tendenziale e/ o a legislazione vigente e uno program­ matico ) sono rimasti in parte irrisolti e hanno offuscato la messa a regime di una procedura che aveva l'obiettivo di costruire un percorso nel quale i soggetti politico­ istituzionali coinvolti potevano discutere, comprendere e approvare ( con un voto in ultima analisi di maggioranza) vincoli e priorità generali e settoriali. È uno schema che si radica in robusti studi che convergono nell 'indicare che i procedimenti devono essere regolati in modo funzionale alla complessità e alla densità dei nodi tecnici e decisionali che intendono dominare. Il procedimento deve recare in sé un grado di coerenza e cogenza coerente con la natura e la posizione dei soggetti politico-istitu­ zionali che vi partecipano e con il risultato che si intende conseguire. Poiché la decisione assume in sé sempre un grado di scelta politica - e questo resta del tutto vero anche nella nuova governance europea -, la procedura deve prevedere sempre una via politica di soluzione dei conflitti. Un assetto costituzionale che intenda incorporare una determinata visione teorica di politica economica, prevedendo anche una soluzione paragiurisdizionale per gli eventuali conflitti interpretativi, ci sembra francamente una via alquanto rigida e piuttosto azzardata per costruire l 'orizzonte di una visione comune di interesse europeo. In conclusione, indebitarsi è un modo 1 57

PAO L O D E I OANNA

per costruire un ponte tra presente e futuro ; significa avere fiducia nei progetti che si finanziano ; significa impegnarsi a risparmiare un poco di più in futuro per mettersi in condizione di controllare il servizio del debito e il rimborso del capitale anche grazie alle nuove entrate generate dallo sviluppo promosso dalle iniziative finanziate con il debito. Le grandi opere di connessione delle reti di trasporto e di unità fisica del mercato (le ferrovie dopo il 1876, le autostrade nel secondo dopoguerra, l'alta capacità e velocità oggi) sono un esempio di investimenti ad alta e differita fecondità; i primi hanno fatto da volano a importanti fasi di sviluppo economico. La scommessa degli Stati democratici sta nell 'usare il debito per costruire il futuro, favorendo il nesso creativo e solidale tra le generazioni. In Italia persiste una dinamica della spesa corrente che non è compatibile con la crescita del reddito ; vi è un livello di evasione fiscale che non è conciliabile con un patto leale e solidale tra generazioni. Affrontare questi due nodi è la precondizione per dominare il debito e usarlo per costruire l'innovazione e lo sviluppo del futuro. Il crinale tra destra e sinistra sta nella qualità democratica di questo patto, nella trasparenza e fondatezza delle sue assunzioni e dei suoi dati di base. Si tratta di riprendere il filo che lega equità, sviluppo e risanamento, scegliendo in modo più netto i temi dell' innovazione e dello sviluppo e lanciando un ambizioso programma di riconversione al margine della spesa pubblica e delle risorse umane collocate sulla frontiera della ricerca e dell' innovazione, insieme con un indirizzo stabile di equità fiscale verso le fasce più deboli e di lotta durissima ali 'evasione. In questo contesto la quota di debito residua è la scommessa che il presente fa verso la sua capacità di costruire il futuro possibile. Questo, mi sembra, il messaggio che le luci e le ombre della prima fase della nostra Repubblica trasmettono al nostro complesso presente.

La Repubblica in transizione ( 1 9 8 9 - 94) . Debito pubblico e fiscalità : le scelte politiche* di Filippo Cavazzuti

I

Linguaggi e pensieri d'antan per il "divorzio" fra Tesoro e Parlamento Per sviluppare il tema che mi è stato assegnato, propongo una lettura della storia fiscale di quel periodo ricorrendo a linguaggi e pensieri d'antan senza fare uso dei più moderni linguaggi della politica/ economy of modern capitalism. A questo fine mi sono rivolto a due eminenti studiosi del passato : Joseph Schum­ peter e Amilcare Puviani. Il primo è ben noto ai più e dunque non mi soffermo su di lui. Il secondo, per lungo tempo ignorato - laureato in giurisprudenza all ' Univer­ sità di Bologna e professore di Scienza delle finanze all' Università di Perugia -, fu scientificamente attivo tra la fine dell'Ottocento e l' inizio del Novecento. È un autore che, per unanime riconoscimento1, appartiene a quel manipolo di studiosi che fecero grande l 'economia politica e la scienza delle finanze a cavallo dei due secoli. Schumpeter ha scritto (nel 1918): « a Goldscheid1 resterà sempre il merito di essere stato il primo [ . .. ] a diffondere la verità che il bilancio è lo scheletro dello Stato spogliato di tutte le fallaci ideologie [ ... ] e che la storia fiscale di un popolo è una parte essenziale della sua storia generale » . Concludendo che « lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la configurazione della sua struttura sociale, le imprese che la sua politica può preparare, tutto ciò, e molto altro ancora sta scritto nella sua storia fiscale senza false retoriche » 3• Relazione tenuta in occasione del Convegno di studi La Repubblica in transizione I9S9-I994, promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi, dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla SISSCO, Roma, IO-II marzo 2ou. I. F. Volpi, Introduzione, in A. Puviani, Teoria della illusione finanziaria, ISEDI, Milano I97S (ed. or. I903). 2. R. Goldscheid fu tra i primi a elaborare l' idea di una sociologia fiscale ed espresse il suo pensiero in un libro del I 9I7 intitolato Socialismo di Stato o capitalismo di Stato (Staatssozialismus oder Staats­ kapitalismus: Ein finanzsoziologischer Beitrag zur Lo'sung des Staatsschulden-Problems, Anzengruber, Wien I 9I7). 3· Ora in J. Schumpeter, Stato e inflazione. Saggi di economia politica, Boringhieri, Torino I983, p. I93· •

159

F I L I P P O CAVAZZUTI

Ha scritto il secondo ( nel 1903, in un libro un tempo assai raro e ignorato dallo stesso Schumpeter nella sua monumentale Storia dell'analisi economica, riproposto in Italia negli anni Settanta tra i classici dell 'economia politica) che: Il bilancio dice assai più o assai meno, come si vuole. Esso resta una sfinge impenetrabile alle grandi masse della Camera, a quelle masse che votano le leggi, che votano le spese, che votano le entrate. La vera situazione dei conti si nasconde in un ciborio recondito, entro cui penetra l'occhio di un piccolo numero di uomini espertissimi: quasi sempre i grandi sacerdoti [ ... ] che si palleggiano il potere e che sono perciò tenuti, anche nelle loro contese, alla maggiore riserva4•

L'evidente attualità del pensiero dei due autori citati conferma che tuttora a scrivere la storia fiscale del paese sono le regole che il sistema politico e amministrativo si è dato per l'approvazione, la gestione e il controllo dei bilanci delle amministrazioni pubbliche. Nelle pagine che seguono, per approssimare il racconto alle vicende della storia fiscale del paese e per collocarvi gli avvenimenti del 1989-94, oltre alla narrazione di alcune vicende politiche e parlamentari, si fa ricorso agli abituali indicatori di finanza pubblica, a loro volta assunti come proxy della storia stessa e, tra questi, una parti­ colare attenzione viene riservata allo stock del debito pubblico in percentuale del PIL nazionale. Ciò premesso, mi domando oggi se la ricostruzione di questa complessa e intri­ cata storia - che si è snodata a partire dal 1989 - concorra a far dire, insieme ad altro, che la transizione non è ancora finita, anche perché ( spogliate di tulle le fallaci ideologie e senza false retoriche ) la stessa storia fiscale degli anni 1989-94 pare che si stia ripetendo con le medesime regole della politica negli anni successivi, e pertanto sostanzialmente uguale a sé stessa o con variazioni di percorso del tutto momentanee. Ne è testimone la prassi politica, di fatto avviata e perfezionata con accentuata frequenza a partire dal 1992-93, di porre la questione di fiducia per l'approvazione delle cosiddette "manovre di finanza pubblicà'. Prassi, quest'ultima, lo si vedrà più avanti, che sancisce di fatto il divorzio unilaterale tra Parlamento e governo, seppure in assenza dei contropoteri del Parlamento necessari per l'equilibrato confronto sui problemi della finanza pubblica o, per dirla con Schumpeter, sullo « scheletro dello Stato » . Come si argomenta nel seguito di queste pagine, appaiono non più rinviabili provvedimenti radicali che, per uscire dalla Repubblica in transizione, mutino le regole e le prassi adottate dal sistema politico e amministrativo per imprimere ( se la politica lo volesse, ma si dubita) una svolta alla storia fiscale del nostro paese. La FIG. 1 - da assumere con ogni cautela in quanto pone a confronto ( con scale 4· Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., pp. 92-4. 160

LA R E P UB B L I CA IN T RANS IZ I O N E ( 1 9 8 9 - 9 4 ) FIG URA

I

Debito pubblico e pressione fiscale delle amministrazioni pubbliche ( in % del PIL ) 130

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Debito pubblico

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2006

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36

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34



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2009

Pressione fiscale (tributi + contributi)

Fonte: Archivio di Prometeia, Bologna.

diverse) l 'evoluzione di un flusso (le entrate), con quella di uno stock (il debito pubblico) - mostra che nel corso degli anni 19 88- 2009 le entrate pubbliche hanno quasi sempre soltanto "inseguito" la crescita dello stock del debito. D 'altronde, in presenza di un valore della pressione fiscale (PT, circa 41-42% del PIL) quasi sempre pari a oltre un terzo del rapporto tra debito pubblico e PIL ( o, nell' intorno del 105% del PIL) , la ricerca e l'imbocco della via della "soluzione finale" tramite nuove fonti di entrata erano già allora ragionevolmente e dimensionalmente preclusi, sia per gli effetti di impatto sull'economia reale sia per la loro retroazione sul rapporto debito pubblico-PIL. Si conferma così, in omaggio al realismo dei numeri, che non può essere la sola politica tributaria - che modifica al margine i flussi di entrate - a essere idonea a dare una svolta alla fiscalità dell' Italia, riducendo significativamente lo stock del debito pubblico nel breve periodo. Nel medio periodo, soltanto una accorta gestione (politicamente dolorosa) che mantenga costante nel tempo un avanzo di bilancio può concorrere, con contenuti effetti di retroazione sul PIL, alla stabilizzazione, prima, e alla riduzione, poi, dello stock del debito pubblico, dando così una svolta duratura alla stessa storia fiscale. Ciò che la storia fiscale pare mostrare è quanto non sia stato percorribile (nei primi anni Novanta, come oggi) tentare di imprimerle una svolta con la ricerca della "soluzione finale" (one shot) dei problemi posti dal livello del debito pubblico italiano e dal suo onere (la spesa per interessi passivi) sul bilancio dello Stato : che si trattasse

F I L I P P O CAVAZZUTI

di larvate ipotesi di consolidamento del debito o di informali proposte per una imposta straordinaria sul patrimonio ( come sollecitava Bruno Visentini a cavallo degli anni Ottanta e Novanta) . Ricorderà a questo proposito Guido Cadi ( amico di Bruno Visentini ) che le ani­ mate discussioni con Visentini « spogliate degli artifizi verbali, portavano sempre lì: alla ristrutturazione forzosa del debito pubblico » e che «operazioni di questo tipo sono possibili soltanto in un regime come quello che consentiva il massacro a bastonate in pieno centro di Roma, a via Crispi, di una persona del valore di Giovanni Amendola »5• Ancora più tardi, nel 1994, Bruno Visentini, a fronte del debito pubblico che aveva raggiunto il 120% del PIL, tornò a prefigurare una imposta patrimoniale o qualche altro intervento straordinario che desse corpo alla soluzione dei problemi posti dal debito6• Proposte analoghe invece erano già scomparse dal linguaggio della politica in occasione delle manovre di bilancio del 19927, per riapparire inopinata­ mente nell 'estate del 2010. Va osservato a questo proposito che ciò che oggi pare non consigliare la ricerca della soluzione ( spesso ventilata e mai articolata) sono le condizioni di stabilità finanziaria e di bassi tassi d' interesse consentite dalla moneta unica europea. Ciò che rileva, infatti, non è tanto la dimensione del debito su cui intervenire drasticamente, quanto la sua dinamica nel tempo. Ma uno stock del debito pubblico che si mantiene nel tempo costante in percentuale del PIL non costituisce un indicatore di instabilità finanziaria, bensì soltanto la base su cui calcolare la spesa pubblica per interessi pas­ sivi che, si noti, negli anni Novanta si è dimezzata passando da circa il 12% del PIL a meno del 6% dello stesso. Nelle condizioni di stabilità finanziaria dovuta all' ingresso dell 'Italia nell 'euro, è la politica monetaria che, guidando i tassi di interesse, concorre principalmente a determinare la spesa pubblica per interessi passivi. Ma a questo fine la politica mone­ taria non deve essere lasciata sola. Oggi, riguardando la nostra storia fiscale, non rintracciamo nulla di assimilabile al "divorzio" tra il Tesoro (Andreatta) e la Banca d' Italia ( Ciampi ) che, esimendo la Banca centrale dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro, sancì la « separatezza delle responsabilità » tra potere legislativo, esecutivo e monetario, e impresse una svolta radicale alla politica monetaria per la stabilità finanziaria dell' ltalia8 • Tuttavia, come molti ricorderanno, al "divorzio" di allora e ai comportamenti S· G. Cadi, Cinquant'anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari I993· p. 386. 6. Cfr. C 'e un nuovo piccolo partito. Quello dei fans dell'imposta patrimoniale, in "Corriere della Sera", 2I febbraio I994· ove si faceva esplicito riferimento a Visentini come capo dei fans. 7· Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura. Discussioni, resoconto stenografico, sedute del 7-Io ottobre I992. 8. Cfr. L 'autonomia della politica monetaria. Una riflessione a trent 'anni dalla lettera del ministro

Andreatta al governatore Ciampi che avvio il "divorzio" tra il Ministero del Tesoro e la Banca d'Italia, Atti del Convegno A REL, Roma, IS febbraio 20I I.

LA R E P UB B L I CA IN T RANS IZ I O N E ( 1 9 8 9 - 9 4 )

non accomodanti della Banca d' Italia, che avrebbero consentito al tasso d' interesse di riprendere il suo ruolo chiave per la determinazione delle condizioni di equilibrio nel mercato monetario e finanziario, avrebbe dovuto seguire un comportamento parimenti non accomodante: un nuovo "divorzio" tra Tesoro e Parlamento nella gestione della politica di bilancio teso a non creare nuovo debito pubblico, prima, e a ridurlo, poi. Una separazione pensata per non lasciare alla sola Banca d' Italia la responsabilità di perseguire la stabilità finanziaria, che è bene pubblico di cui bene­ ficia l' intera collettività. Ma ciò non avvenne. Si aggiunga che tale separazione ( ovvero una riscrittura delle regole della politica funzionale al raggiungimento dell'equilibrio del bilancio ) fra le responsabilità del governo, del Parlamento e delle amministrazioni - nelle distinte funzioni di predi­ sposizione del bilancio, di gestione, di rendicontazione dello stesso e di controllo dei risultati - avrebbe fatto cadere definitivamente ogni compromissione e irresponsabi­ lità nella complessiva gestione della finanza pubblica. Comportamenti questi, favoriti dalle regole della politica, che generarono un contesto in cui tutti gli attori furono egualmente responsabili affinché nessuno fosse reo dei nuovi fabbisogni pubblici e dei correlati effetti sulla stabilità finanziaria e sui tassi d'interesse del debito. Evitando così la situazione per cui « il malumore popolare non sa con chi prendersela; non trova un capro espiatorio alle sue sofferenze » 9•

2

I governi della prima transizione: fibrillazione politica, otto governi, tre legislature in otto anni Poiché il termine della x Legislatura è di norma assunto, seppure con l'arbitrio di ogni scansione temporale, per segnare la fine della Prima Repubblica, la TAB. I distingue i governi a seconda che appartengano al periodo finale della Prima Repub­ blica oppure a quello che avrebbe dato l'avvio alla transizione verso la Seconda. Nella stessa TAB. I sono state riassunte le multiformi coalizioni politiche che sostennero i diversi governi insieme ad alcuni indicatori di finanza pubblica che segnarono successi e insuccessi nella storia fiscale scritta dai governi medesimi. Nel I99I-92 la fine della Prima Repubblica aveva consegnato all' Italia un livello di pressione fiscale ( PT imposte, tasse e contributi sociali ) che era salito al 4I,9 % del PIL, superiore alla media dei paesi CE (4o%) , e un prelievo obbligatorio che gravava sul lavoro pari alla media C E (23,5%)'0 , assai sbilanciato a danno del lavoro dipendente stante l'evasione nel comparto del lavoro autonomo. =

9· Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., p. 223. IO. Commissione europea, Libro bianco. Crescita, competitivita, occupazione. Le sfule e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, COM(93) 700, dicembre 1993, pp. 160-1.

Goria (luglio 1987-aprile 1988)

De Mita (aprile 1988-luglio 1989)

Andreotti (luglio 1989-aprile 1 9 9 1 )

Andreotti (aprile 1991-aprile 1992)

Coalizione: DC, PSI, PSDI, PLI

VII

Coalizione: D C , PSI, PSDI, PRI, PLI

VI

Coalizione: DC, P S I , PSDI, PRI, PLI

I

Coalizione: DC, PSI, PSDI, PRI, PLI

I

Legislatura (giugno IgS7-aprile Igg2)

Amato (aprile 1992-aprile 1993)

Legislatura (aprile Igg2-gennaio Igg4)

(aprile I9g3-maggio Ig94 )

Berlusconi (maggio 1994-gennaio 1995)

I

Din i

Din i

Barucci

Barucci

Cadi

Cadi

Amato

Amato

Tesoro

Masera

Paglierini

Spaventa

Reviglio

Pomicino

Pomicino

Fanfani

Colombo

Bilancio

Fantozzi

Tremonti

Gallo

Goria

Formica

Formica

Colombo

Gava

Finanze

Draghi

Draghi

Draghi

Draghi

Draghi

Draghi

Sarcinelli

Sarcinelli

DGT

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Monorchio

Ruggeri

Ruggeri

RGS

12.0,9

121,8

1 21,6

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98,0

93,1

90,5

D

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l

41,6

40,8

42,8

42,9

4 1,9

39,4

37·3

3 6,5

PT

l

52,6

53,8

53,8

56,6

5 S ,s

54,3

51,9

50,8

ST

l

l

41,1

42.,4

4 2, 4

44,0

43,4

43,0

42,8

42,5

SP

D GT

Fonte: http: / /www.governo.it, Banca d ' Italia, conti delle amministrazioni publiche, anni vari.

Legenda:

= Direzione generale del Tesoro; RG S = Ragioneria generale dello Stato; D = debito pubblico; PT = pressione tributaria e contributiva; ST = spesa totale delle amministrazioni pubbliche; S P = spesa primaria delle amministrazioni pubbliche.

Coalizione: Indipendenti

Dini (gennaio 1995-maggio 1996)

Coalizione: F I , LN, AN, CCD, UDC

Legislatura (marzo I9g4-jebbraio Igg6)

XII

Coalizione: DC, PSI, PSDI, PLI

Ciampi

Coalizione: DC, P S I , PSDI, PLI

I

XI

AVVIO DELLA TRANSIZIONE INFINITA

x

G OVERNO

Coalizioni governative e finanza pubblica (in % del PIL ) - 200 8

TAB ELLA I

LA R E P UB B L I CA IN T RANS IZ I O N E ( 1 9 8 9 - 9 4 )

La stabilizzazione della pressione tributaria ( PT ) , la sua più equa ripartizione tra i redditi, la riduzione e la ricomposizione della spesa pubblica primaria ( S P ) , l'azze­ ramento del disavanzo primario, che anno dopo anno accresceva lo stock del debito ( o ) , non parevano opzioni politiche impossibili ( anche se dolorose) . Dopo il 1991 l'attivismo sul lato della politica fiscale ( PT, dal 41,9 a quasi il 43% del PIL nel 1994 ) non fu accompagnato da analogo attivismo per la riduzione della spesa primaria ( SP, vero e proprio zoccolo duro del bilancio) che passò appena da circa il 43 al 42,4% nel 1994. Si potrebbe sostenere che, facendo leva sull ' illusione finanziaria dei contribuenti, l'aumento delle entrate tramite l'attivismo fiscale viene reso politicamente più agevole sia dalla carenza di informazioni dettagliate ( caso di asimmetria informativa tra governo, Parlamento e contribuenti ) , sia dalla presenza degli evasori fiscali indiffe­ renti a tutto o in parte all'attivismo tributario, sia dal fatto che di norma tale atti­ vismo è presentato come necessario per il finanziamento di una maggiore spesa pubblica ( o per il suo mantenimento ) che ritorna alla collettività dopo avere pagato le imposte. Invece il taglio delle spese non ha contropartita diretta, se non quella di allontanare una minaccia, che molti non percepiscono, come la crescita del debito pubblico, che pare lontano ai più. Spiegava bene Puviani : l' « illusione per occultamento degli effetti penosi imme­ diati dell 'imposta e i modi coi quali l 'occultamento è ottenuto. Tra questi modi figura lo sminuzzamento dell ' imposta » , che oggi, con riferimento alla politica tributaria, non soltanto degli anni Novanta, chiameremmo lo « sminuzzamento della manovra tributaria in tanti tributi non immediatamente correlati tra loro » 11• Si aggiunga infine che la composizione della spesa totale ( sT ) rimase sostanzial­ mente identica tra il 1991-93 e il 1994-96. Oltre il 75% della spesa era costituito da quella per il personale dipendente ( 22% ) , per le prestazioni sociali in natura e in denaro ( 33% ) , per gli interessi passivi ( 21% ) 12; contribuendo a occultare la penosità per i contribuenti dovuta all'attivismo tributario. « Servigi pubblici che attenuano il peso dell 'imposta » , commenterebbe oggi Puviani. È però vero che la storia fiscale dell 'Italia aveva ( e ha ) radici lontane, sancite dalle regole della politica e conficcate nelle prassi burocratiche che si sono stratificate nel corso degli anni in assenza di ogni prassi di revisione analitica delle leggi di spesa. Revisione che sarebbe stata richiesta dal mutare nel tempo delle condizioni demo­ grafiche e socioeconomiche poste all 'origine delle prime leggi di spesa per il welfare di tipo universalistico e per l'assistenza alle imprese pervicacemente indisposte a crescere dimensionalmente. Si aggiunga che le opzioni politiche che orientano l'erogazione della spesa I 1. Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., pp. 28-9 e 22. 12. Cfr. Ministero dell 'Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, Roma, 6 set­ tembre 2007, p. 1 3.

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pubblica sono spesso condizionate dai tentativi dei diversi gruppi di interesse e delle lobby di ottenere programmi di spesa pubblica in loro favore in modo indi­ stinto per tutti gli appartenenti alla categoria o alla lobby che saldano tra loro Parlamento e governo ; leggi di spesa che, una volta approvate, si protraggono nel tempo senza subire revisione alcuna e godendo anche dell 'approccio incrementale. E non si trascuri che la forte sperequazione nella distribuzione dei redditi netti, aggravata dalla massiccia evasione fiscale, e la scarsa mobilità sociale fanno sì che l'elettore medio appartenga alle classi di reddito medio -basse (che paga le imposte con ritenuta alla fonte) le quali, a loro volta, sollecitano i trasferimenti pubblici a loro favore e il godimento di nuovi diritti da esercitare sui flussi di spesa pubblica, nel vano tentativo di ridurre la distanza del loro benessere rispetto a quello degli evaso n . .

3 Il contesto macroeconomico Il giudizio sulla storia fiscale scritta dai governi degli anni 1989-94 non può in ogni caso prescindere dalla considerazione della crisi finanziaria (allora di natura endogena, ovvero creata con le nostre stesse mani) che segnò e condizionò quegli anni; in ogni caso vincolata dalla sottoscrizione, il 7 febbraio 1992 a Maastricht, del Trattato sui criteri di convergenza della finanza pubblica. Fu la minaccia della crisi finanziaria che orientò l'azione di governo in due dire­ zioni distinte: quella con effetti diretti sui bilanci pubblici e quella sulle condizioni finanziarie degli enti delle partecipazioni statali. Ma, come si vedrà, le minacce più forti da contrastare vennero non tanto dai disavanzi pubblici quanto dalle condizioni quasi fallimentari degli enti delle partecipazioni statali (IRI, EFIM, ENEL) e della FEDIT-Federconsorzi. Condizioni finanziarie che i mercati finanziari internazionali consideravano al pari di event of default. Infatti, lo spread tra il Bund tedesco a dieci anni e il corrispondente BTP italiano decennale (spread di oltre s o o punti base all 'inizio del 1991) costituiva allora (come oggi) la più evidente misura della fiducia/sfiducia che gli speculatori domestici e internazionali mostravano nei confronti della grave instabilità finanziaria dell 'eco­ nomia italiana e delle difficoltà politiche che i governi dovevano affrontare per superare la crisi stessa in un contesto di liberalizzazione di mercati. Infatti, all 'inizio del 1990 fu realizzata la completa liberalizzazione valutaria e finanziaria che consentì di detenere valuta di qualunque ammontare e tipo dei 12 paesi allora costitutivi della CEE. Il 1° gennaio 1993 fu data attuazione al Mercato unico europeo, facendo cadere le barriere alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. Si temeva allora, così come registrava lo spread tra Bund e BTP, che se non fosse stata imboccata con rapidità la via del risanamento finanziario, il saldo della 166

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bilancia dei pagamenti italiana avrebbe continuato a deteriorarsi, soprattutto per i deflussi netti di capitali italiani che, nel corso dei primi mesi del 1992, raddoppia­ vano ogni mese'3. Poche cifre riferite all 'anno 199 1, se confrontate con quelle di altri paesi europei, descrivono lo stato di instabilità finanziaria dell'economia italiana : un valore dell 'in­ debitamento netto delle amministrazioni pubbliche pari all' n,4% del PIL ( 2,1% in Francia, 2,8% nel Regno Unito e 3,2% in Germania) sostanzialmente identico al peso della spesa per interessi passivi (n,3%); un rapporto tra debito pubblico e PIL pari al 97%; l' inflazione nell'intorno del 6,s% (3,2% in Francia, 3,5 % in Germania e in rapida decelerazione nel Regno Unito, dal s,8 al 3,7% tra il 199 1 e il 1992) . Malgrado il "divorzio" di dieci anni prima tra il Tesoro e la Banca d ' Italia, il livello dell 'indebitamento netto costringeva la Banca d ' Italia (lasciata sola) a inter­ venire discrezionalmente in occasione delle aste dei titoli del Tesoro. Come già detto, altri eventi, che a buona ragione fanno parte delle vicende della fiscalità di quegli anni, vanno ricordati poiché anch'essi dovettero essere affrontati con affannosa rapidità per contenere gli effetti dell ' incombente crisi finanziaria che portò all'uscita, nell'autunno del 1992, dell 'Italia dagli accordi di cambio (sME) : a ) la grave situazione finanziaria degli enti delle partecipazioni statali emersa tra la fine degli anni Ottanta e l' inizio degli anni Novanta. Alla fine del 1991 il patrimonio netto di IRI, ENI ed ENEL era di appena 74 .000 miliardi contro debiti finanziari lordi che superavano i ns.ooo miliardi. La minaccia di crisi finanziaria, insieme ai divieti comunitari degli aiuti di Stato, rese non percorribile, ancora una volta, la via della ricapitalizzazione degli enti a carico del bilancio pubblico : il premio al rischio sull 'insostenibilità del debito pubblico italiano (misurato dallo spread tra Bund tedesco e BTP a dieci anni) sarebbe schizzato verso l'alto accrescendo la spesa per . . . . Interessi passiVI; b) lo scandalo della FEDIT-Federconsorzi (commissariata nel giugno 1991 con pas­ sività correnti stimate nel 1990 in oltre 4.300 miliardi di lire)'4• Tale commissaria­ mento fu tanto improvviso quanto minaccioso della stabilità finanziaria del paese. Si scoprirà che la FEDIT non soltanto era già tecnicamente fallita da tempo, ma anche pesantemente esposta nei confronti del sistema bancario italiano (2.381 miliardi) e straniero ( 667 miliardi) . A seguito del commissariamento il sistema bancario revocò tutti i fidi, pur confidando sull' intervento pubblico a garanzia degli stessi; c) la liquidazione dell' EFIM, per il quale sui mercati finanziari internazionali si temeva che la nuova società per azioni, cui erano stati vietati nuovi aiuti di Stato, non fosse in grado di onorare i suoi debiti. Tre ministri del governo Amato (Barucci al Tesoro, Reviglio al Bilancio e Guarino all ' Industria) furono così costretti a dichiaI 3. Banca d' Italia, Relazione annuale, Roma I993· p. II7. I4. Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Commissione parlamentare d' inchiesta sul dissesto della Federazione italiana dei consorzi agrari, Relazione finale, marzo 200I, pp. 52 e 8I-2.

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rare ( ottobre 1992 ) in sede di conversione del decreto legge che poneva in liquida­ zione l 'EFIM ( guidato dal socialista Gaetano Mancini ) , che i debiti contratti dall ' EFIM stesso ( circa 9.000 miliardi di lire ) e dalle società controllate al 100% sarebbero stati integralmente riconosciuti dallo Stato, ponendo sullo stesso piano di parità le banche italiane e quelle estere, non intendendo violare la par condicio creditizia.

4 I provvedimenti del 1992-9 3 : punti di svolta della storia fiscale ? La storia scritta dal governo Amato nel 1992 prese, come già detto, due distinte direzioni necessitate dall ' incombente crisi finanziaria: a) quella che riguardò direttamente le grandezze della finanza pubblica che fece ricorso, dopo i decreti legge di luglio-agosto 1992, a tre nuovi strumenti - un nuovo decreto legge, la legge delega e la legge finanziaria - e fu ufficialmente stimata in 34.000 miliardi di lire di maggiori entrate, 5 2 .000 miliardi di minori spese e 7.o oo miliardi di proventi da dismissioni; b) quella che dovette affrontare la crisi finanziaria degli enti delle partecipazioni statali, di cui diremo più avanti. 4.1.

I P R O VV E D I M E N T I R E LAT I V I A L L E E N T R A T E

In parte previsti nella legge delega in materia di finanza locale e in parte nel decreto legge, i provvedimenti del governo Amato riguardarono : il condono per le imposte dirette e indirette; le imposte patrimoniali straordinarie sugli immobili e sui depositi bancari e postali; la rivalutazione obbligatoria degli immobili delle imprese; l' innal­ zamento di un punto dell 'aliquota dell' I RPEF sugli scaglioni di reddito superiori al secondo e il ripristino per gli stessi scaglioni dei limiti in vigore dal 1989; gli aumenti degli acconti IRPEF; l' istituzione di due imposte sull 'erogazione dell 'energia elettrica; l'attribuzione della tassa automobilistica alle Regioni a statuto ordinario nonché della sopratassa prevista per gli autoveicoli azionati con motore diesel e della tassa speciale dovuta per gli autoveicoli a GPL o a gas metano ; altri interventi minori. Si trattò di un cocktail di misure ( « sminuzzamento dell 'imposta » , direbbe Puviani ) con effetti una tantum e di altre misure ritenute dotate di capacità struttu­ rali, ma i cui effetti una tantum furono prontamente riassorbiti. Sul lato del contenimento della spesa, si stimava che i risparmi provenissero principalmente da tre settori ( sanità, pubblico impiego e previdenza) delle "quattro deleghe" al governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale. Come si legge nella relazione di maggioranza in occasione della discussione 168

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generale alla Camera dei deputati sul disegno di legge delega (in data 7 ottobre 1992), « la manovra varata dal governo [ ... ] è così fondata sul contenimento delle spese e sui tagli [ ... ] nel contesto del risanamento della finanza pubblica e della riorganizza­ zione dei servizi in termini di efficienza e di riequilibrio » rs . Le tre deleghe che in questa sede interessa considerare sono illustrate di segutto. a) Il settore della sanità, ritenuto ingovernabile, costoso e inidoneo a garantire una complessiva riqualificazione del servizio. A tal fine le proposte riguardarono « la rideterminazione in profondità del livello delle prestazioni sanitarie, delle forme di partecipazione alla spesa da parte dei cittadini e dei criteri di erogazione delle pre­ stazioni gratuite [ . . . ] , la riforma dei rapporti interni al sistema [ . . . ] la regionalizza­ zione dell 'organizzazione e della programmazione dell'assistenza sanitaria » 16• Ma si domanderà (nel 1992) a proposito della regionalizzazione della sanità, Sabino Cas­ sese: « Questa proposta è stata fatta considerando la struttura dei poteri periferici ? Nel paese abbiamo regioni che già oggi non riescono a gestire le loro competenze. Alcune non fanno i loro bilanci da dieci anni e non li comunicano ai ministeri competenti [ ... ] La verità è che ci vuole una classe dirigente diversa » 17• Certo è che non seguirono il ricambio della classe dirigente, la rivisitazione analitica dei pro­ grammi di spesa sanitaria che costituiscono circa l' 8o% della spesa regionale e nep­ pure la responsabilizzazione dei soggetti politici abilitati a spendere. Pare che ciò valga anche per l'oggi in continuità con la storia fiscale della Prima Repubblica. b) La progressiva privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico mediante il ricorso a forme di contrattualizzazione del pubblico impiego e il riordino della dirigenza pubblica. Per contenere la spesa pubblica furono previste, tra l'altro, « diverse dispo­ sizioni dirette a porre sotto controllo sia la componente contrattuale, sia quella derivante attualmente dagli automatismi di legge, dall' indennità di contingenza e dagli aumenti di organico che contribuisce a costituire la spesa globale [ ... ] , sia in materia di assunzione e distribuzione del personale, con particolare riguardo di pro­ cedere a nuove assunzioni prima della rideterminazione delle piante organiche » 18• Ma la delega in esame prevedeva alcune deroghe che fecero osservare (più tardi nel Libro verde sulla spesa pubblica19) che la politica tesa a contenere la spesa per il per­ sonale, che dagli anni Ottanta ipotizza il blocco del turnover nelle amministrazioni pubbliche limitando le assunzioni a tempo indeterminato, è vanificata dalle deroghe concesse dal governo prima e dopo l'esame parlamentare, dalla proliferazione di successivi interventi speciali, dall'offerta di precariato (che poi viene assunto a tempo .

IS. Atti Parlamentari, cit., p. 4I48. I 6. Atti Parlamentari, cit., passim. I7. S. Cassese, Senza classe dirigente, in "li Mondo", I 6 novembre 1992. 1 8. Atti Parlamentari, cit., passim. 19. Cfr. Ministero dell' Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, cit., p. 9 8.

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indeterminato) da parte delle amministrazioni, dagli emendamenti parlamentari (casomai per suggerimento ministeriale) che introducono nuove deroghe. Tutto ciò ha portato a risparmi quasi nulli e ad una ulteriore irrazionalità nel pubblico impiego. Ancora in continuità con la Prima Repubblica. c) Il riordino del settore previdenziale con l'obiettivo della stabilizzazione della spesa in percentuale del PIL. In questa direzione, in particolare, vanno le norme che prevedono l'elevazione del limite di età sufficiente per ottenere l 'erogazione della pensione di vecchiaia, le modifiche ai criteri di calcolo della retribuzione pensiona­ bile, la graduale soppressione delle norme di pensionamento anticipato, la revisione del sistema di adeguamento automatico delle pensioni, l' innalzamento del periodo contributivo per la corresponsione della pensione di anzianità. Fu questo l'intervento più contestato dalle opposizioni e dai sindacati; contesta­ zioni in Parlamento rese ancora più acute dal fatto che il governo aveva posto la questione di fiducia, motivandola con l'urgenza della crisi finanziaria. A fronte delle dichiarazioni del ministro Reviglio ( « si tratta di misure urgenti nell'attuale situa­ zione finanziaria, necessarie soprattutto per i loro effetti di medio periodo » 20), gli atti parlamentari riferiscono giudizi che, pur riconoscendo la gravità della crisi finan­ ziaria, adottano espressioni del tipo : « norme che stravolgono norme vigenti e rica­ dono pesantemente sui diritti dei cittadini » 21; « Vi è una campagna [ . .. ] contro il movimento sindacale, indicando nella protesta legittima dei lavoratori uno dei fattori di aggravamento della crisi finanziaria » 22 • Seppure contestata, la delega in materia di previdenza è stata l'unica che, met­ tendo in discussione e rivedendo alcuni diritti dei cittadini, costituì un vero punto di svolta, poiché imboccò una via che, nel lungo periodo, è stata seguita anche da altri governi. Rimase irrisolto, invece (allora come oggi), il problema politicamente assai doloroso della confusione tra previdenza e assistenza. Certo è, come risulta dagli atti parlamentari della Camera dei deputati23, che la fiducia posta dal governo consentì alle opposizioni di esimersi dall 'entrare nel merito dei provvedimenti e di indulgere sulla questione più propriamente politica della richiesta di fiducia da parte del governo, e alla maggioranza di non sottoporre ad attento scrutinio parlamentare le proprie proposte 4.2.

L E S C E LT E D E L L A P O L I T I C A D E L L E P R I VAT I Z Z A Z I O N I

Le scelte che guidarono la politica delle privatizzazioni possono essere opportunamente cos1 nassunte: \

.

20. Atti Parlamentari, cit., p. 4I88. 2I. F. Crucianelli, ivi, p. 4I82. 22. M. D 'Alema, ivi, p. 4I90. 23. Atti Parlamentari, cit., p. 4ISI. 170

LA REPUB B LI CA IN T RANS I ZIONE ( 1 9 8 9 - 9 4 )

a) la trasformazione immediata ( secondo il progetto originario del ministro Gua­ rino ) , nei mesi di luglio-agosto del 1992 mediante decreto legge, in società per azioni degli enti delle partecipazioni statali ( IRI, ENI, ENEL ) . In questa direzione andarono le norme che iniziarono la politica delle dismissioni delle partecipazioni azionarie nelle mani pubbliche, che si riteneva potessero fruttare circa 7.ooo miliardi già nel corso del 1992 ( fruttarono poco più di 1.000 miliardi ) ; b) l 'accordo tra il ministro degli Esteri Andreatta e il Commissario europeo alla concorrenza, il belga Van Miert, siglato nell'estate del 1993, che pose le condizioni per ridurre l 'esposizione al rischio di default dell ' I RI trasformata in S.p.A. L'accordo - vero e proprio motore delle privatizzazioni - impose all ' Italia di quantificare entro la fine del 1993 l' indebitamento degli enti trasformati in S.p.A. e statuiva che tale ammontare sarebbe diventato il limite massimo entro il quale lo Stato ( socio unico ) sarebbe stato illimitatamente responsabile; c) dopo il 1992, l'avvio più deciso delle cessioni delle partecipazioni ( in ottempe­ ranza dell'accordo Andreatta-Van Miert) detenute negli enti trasformati in S.p.A., che tra il 1992 e il 1995 generò incassi per oltre 18.ooo miliardi di lire di cui circa 15.000 di spettanza del Tesoro dovuti alla cessione di suoi pacchetti azionari dete­ nuti da I RI, INA, IMI ed ENI. Dato il livello dello stock del debito, tali incassi non ne modificarono l'andamento. Furono cessioni di partecipazioni che, eliminando la responsabilità del Tesoro, ebbero anche l 'effetto che la trasformazione in S.p.A. dell ' I RI per decreto legge non si trasformasse, come si diceva allora, in event of default dell' I RI stessa. Va tuttavia ricordato che anche la politica delle privatizzazioni, in un contesto politico in perenne fibrillazione, ebbe un avvio contraddittorio e incerto quando ( a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta) non si volle tenere conto delle evidenti condizioni della finanza pubblica e dei vincoli comunitari. L'ultimo governo Andreotti ( Carli al Tesoro e Pomicino al Bilancio ) , infatti, da un lato ragionò sull 'opportunità delle privatizzazioni tramite la trasformazione giuridica ( facolta­ tiva e avversata dai vertici delle partecipazioni statali ) degli enti pubblici in S.p.A ., dall 'altro autorizzò l ' I RI ( con la legge 7 febbraio 1991, n. 42) a emettere prestiti obbligazionari per 8.450 miliardi di lire con garanzia dello Stato, sino alla concor­ renza di 7.200 miliardi, per il rimborso del capitale e un contributo del 4% in conto interessi. Autorizzazione che fu data anche sotto la pressione dei vertici dell ' I RI che ritenevano ( nel gennaio del 1991) tale il provvedimento di un valore essenziale per l 'equilibrio economico -patrimoniale dell ' istituto. Seguì un decreto del ministro del Tesoro Carli (8 aprile 1991), non registrato dalla Corte dei conti che impugnò anche per « illegittimità costituzionale » la stessa legge 42/ 1 991, e con questa i provvedimenti che autorizzavano non soltanto l ' I RI ( presieduto da Franco Nobili ) , ma anche l ' EFIM ( presieduto da Gaetano Mancini ) a contrarre prestiti per circa 1o.o oo miliardi di lire associati, come già detto, a un consistente contributo dello Stato . Alla fine non se ne fece quasi più nulla poiché l'accordo 171

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Andreatta-Van Miert aveva reso impossibili tali interventi a favore delle imprese pubbliche trasformate in S.p.A. Si deve riconoscere tuttavia che i provvedimenti adottati per dare avvio alla politica delle privatizzazioni costituirono un vero e proprio punto di svolta con effetti irreversibili sui rapporti tra pubblico e privato, tra Stato e mercato, ma furono assai meno rilevanti per la storia fiscale dell' Italia, come si argomenterà più avanti. Forse le privatizzazioni costituirono l'occasione per distrarre l'attenzione delle forze poli­ tiche dalla necessità di contenere la spesa pubblica primaria. In sintesi, la considerazione dei risultati ottenuti sull 'andamento della finanza pubblica dovuti ai provvedimenti descritti mostra che : le entrate raggiunsero il picco di quasi il 43% del PIL nel 1993-94 per poi ridiscendere a circa il 41% nel 1994-95; la spesa per interessi passivi crebbe dall' 11,5% del 1992 al 12,1% del 1993; le prestazioni sociali rimasero di fatto costanti ( 19,3-19,5% del PIL ) , come le spese per i dipendenti (1 2,7-12,5% del PIL ) 14; il debito pubblico superò il 120% del PIL nel 19 94-9 5 . In conclusione, si rammenta che entrambe le linee di intervento furono affrontate e concluse in Parlamento con il governo che pose la fiducia per l'approvazione dei rispettivi provvedimenti di legge, sancendo di fatto il "divorzio unilaterale" tra Par­ lamento e governo, non accompagnato tuttavia da adeguati contropoteri del Parla­ mento stesso.

s

Quali strumenti per il controllo, la gestione e la conoscenza della finanza pubblica? s. r.

D A L D I V O R Z I O D I FAT T O A L D IV O R Z I O D I L E G G E

A fronte dei risultati prima esposti, ci si può domandare se si disponesse allora ( e si disponga oggi ) sia di qualche separatezza tra le responsabilità del Parlamento e quelle del governo, sia degli strumenti di controllo e di conoscenza della finanza pubblica tali da rendere coerenti le scelte politiche ( riduzione dei disavanzi pubblici per con­ tenere e ridurre lo stock del debito pubblico ) con i risultati attesi, e se le manovre di bilancio si basassero su rendiconti trasparenti, sulla responsabilizzazione delle buro­ crazie deputate ad amministrarli e dei soggetti politici sovrastanti; oppure se allora, come oggi, il bilancio dello Stato « dice assai più o assai meno come si vuole » 15• In altre parole ci si deve domandare, a fronte del divorzio di fatto tra Parlamento e governo, quali fossero le regole della politica per l 'esame, la gestione e il controllo della finanza pubblica. 24. Banca d' Italia, Relazione annuale, I997· pp. IS7 ss. 25. Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., p. 92. 172

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Si deve fare risalire al 1988 il primo tentativo di imprimere una significativa svolta alla storia fiscale dell ' Italia che si voleva scrivere tramite nuove regole nei rapporti tra le istituzioni. Molti ricorderanno che si trattò della legge 23 agosto 1988, n. 362, di riforma della legge s agosto 1978, n. 468, che modificò ulteriormente le procedure parlamen­ tari per l 'approvazione dei documenti di bilancio, nella speranza di poter rendere più trasparente le responsabilità di governo e Parlamento, e con esse la sessione di bilancio e il bilancio stesso, e di meglio controllare la formazione dell ' indebitamento primario ( quello al netto della spesa per interessi passivi ) , che mostrava elevati tassi di crescita, anche se ancora non si discuteva di insostenibilità del debito pubblico ( nel 1988 il rapporto debito-PIL non aveva ancora superato la soglia del 90%). Nel corso del 1988, l 'abolizione del voto segreto sulle leggi che comportavano variazioni alle entrate e alle spese pubbliche, che "impallinava" la sessione di bilancio spingendo ali 'esercizio provvisorio - insieme al Documento di programmazione economico-finanziaria ( DPEF ) , alla legge finanziaria per l'anno solare successivo e alla nuova programmazione della sessione di bilancio - , avrebbe dovuto, come già si diceva allora, trasformare parlamentari e ministri da un indistinto " branco selvaggio" di cavalieri impazzi ti ali' assalto d eli ' ultima diligenza, in "educati cavallerizzi" impe­ gnati alla luce del sole in una corsa individuale tesa a superare gli ostacoli procedurali posti alla presentazione degli emendamenti. Ma l'astuzia ( irresponsabile) di ministri e parlamentari ( opportunamente suppor­ tati dalle rispettive burocrazie, dai "grandi sacerdoti" altrettanto irresponsabili, e dalle più diverse corporazioni e associazioni di categoria) vinse sugli ostacoli procedurali, mantenendo il corso delle questioni fiscali sui binari di sempre. Stupisce al riguardo quanto ebbe a dichiarare ( autoassolvendosi ) nel 1992 il Ragioniere generale dello Stato (Andrea Monorchio, uno dei "grandi sacerdoti" deputati al controllo del bilancio dello Stato a capo della Ragioneria generale dello Stato dal 1989 ) : « Lo stato italiano ha le mani bucate » 26• Come se lo Stato non comprendesse le funzioni e i comportamenti per l 'appunto della Ragioneria generale. Fu il trionfo della prassi politica ( nota come vol-au-vent/volovant, oppure un cencelli per il bilancio pubblico ) di chiudere la sessione di bilancio entro il Natale con una ben ponderata distribuzione di fondi pubblici tra i numerosi postulanti di maggioranza e opposizione. Prassi che, data l'opaca compromissione di responsabi­ lità tra Parlamento e governo, risultò ineludibile e determinante ( che tutt'oggi continua) per approvare i testi che poi sarebbero stati raccolti nei cosiddetti "maxi­ emendamenti". E però vero che le poche centinaia di emendamenti presentati nella prima metà degli anni Novanta da maggioranza, opposizione e governo si sono accresciute nel '

26. "Corriere della Sera", I I novembre I992. 17 3

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tempo fino a un multiplo di mille (forma domestica del fllibustering di tipo statuni­ tense), rendendo così operante il "divorzio di fatto", e impossibile e più opaco sia l'esame del testo base sia il loro esame puntuale, mentre hanno reso possibile un'ap­ provazione sovente legata al caso o all'astuzia irresponsabile delle istituzioni, che comunque hanno sempre fatto salvo il volovant. Ma il concentrarsi dell'interesse di Parlamento, governo e burocrazie ministeriali esclusivamente sulle procedure autorizzative delle nuove entrate e delle nuove spese, e non sulla loro gestione minuta in capo ai ministeri e agli altri centri di spesa, fece sì che l'attenzione della politica si astenesse dalla rivisitazione (politicamente dolo­ rosa) analitica dei contenuti delle leggi di spesa esistenti (spending review ) 17 i cui volumi si accrescevano via via per effetto del peculiare sistema incrementale rispetto all'anno precedente. Tale attenzione portava allora (e tutt'oggi porta) governo, Parlamento, burocrazia e opinione pubblica a concentrarsi sulla dimensione e sulla valenza sociale dei nuovi interventi riduttivi al margine (la politica dei tagli o del rigore) o sulle richieste di risorse addizionali (la politica per lo sviluppo e la crescita) , ma distoglieva l'atten­ zione degli stessi soggetti dall 'esame di ciò che avviene nei "rami bassi" dell 'ordina­ mento, dalle prassi operative e dai microcontenuti delle leggi di spesa già approvate, i cui effetti costituiscono ancora oggi la quota quasi assoluta della spesa pubblica. Le opzioni politiche di allora, come oggi, privilegiarono la cultura dell'emenda­ mento18, assai meno costosa in termini di consenso politico rispetto alla microrevi­ sione dello stock delle leggi di spesa. Attività di spending review che, invece, avrebbe posto l'attenzione sugli effetti indotti sul bilancio pubblico dalla stratificazione delle leggi passate, dalle responsabilità e dalle prassi di spesa dei ministeri, dalla mappa dei diritti a suo tempo assegnati ai cittadini e alle imprese (ad es. nei settori della scuola, della sanità, della previdenza, degli investimenti pubblici) e dalla loro forza inerziale. In particolare l'attenzione venne distratta dalle leggi che, avendo assegnato alcuni diritti e facoltà ai cittadini, alle imprese e ai più disparati operatori sociali, compor­ tano effetti automatici sul bilancio pubblico qualora tali diritti e facoltà siano eser­ citati e consentiti ai singoli operatori che dispongono del potere di impegnare quote della spesa pubblica (come i medici del Servizio sanitario nazionale, le imprese che ricorrono alla cassa integrazione e alle clausole di revisione prezzi, la decisione indi­ viduale di quando e come esercitare il diritto di andare in pensione di anzianità e così via) . Come si diceva allora, erano tutti soggetti che disponevano della facoltà di staccare un assegno coperto dal bilancio pubblico.

27. Cfr. ad esempio l 'esperienza nel Regno Unito: HM, Spending Review 2010, presented to Par­ liament by the Chancellor of Exchequer, October 20io. 28. Riprendo tale espressione dal mio contributo La cultura dell 'emendamento nel volume collet­ taneo di L. Balbo, V. Foa ( a cura di ) , Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra, Einaudi, Torino I986, pp. 24-35. 174

LA R E P UB B L I CA IN T RANS IZ I O N E ( 1 9 8 9 - 9 4 )

Corollario di ciò fu ( ed è) il disinteresse politico di Parlamento e governo per la minuta analisi dei bilanci consuntivi e per il grado di realizzazione degli impegni assunti sia in termini finanziari sia per la realtà sottostante che gli impegni finanziari ambiscono a modificare. Molti ricorderanno anche che la Commissione tecnica per la spesa pubblica costituita dal ministro Andreatta nei primi anni Ottanta, con fina­ lità di verifica dell'efficienza e dell'efficacia della spesa pubblica, fu sempre avversata dalla burocrazia ministeriale e alla fine soppressa. Più tardi ( settembre 2007 ) , per iniziativa del ministro Padoa-Schioppa fu proposta l'adozione di prassi di spending review29, ma non se ne fece nulla. Tale attività di spending review, da affidare alla dirigenza delle amministrazioni pubbliche ( purtroppo culturalmente e professional­ mente impreparate allo scopo ) , sarebbe risultata coerente con l'ipotesi di conteni­ mento dei disavanzi nel medio periodo e idonea a imprimere una svolta radicale alla nostra storia fiscale e alla trasparenza del bilancio pubblico : non più sfinge impene­ trabile che dice ciò che si vuole. In realtà, fu la prassi che portò ieri come oggi al sostanziale divorzio tra Parlamento e governo e all'espropriazione di poteri del Par­ lamento non compensati da pregnanti poteri di controllo. 5.2.

' L I N C E R T E Z Z A D E I FA B B I S O G N I P U B B L I C I S T I M AT I

Si potrebbe tuttavia eccepire, assumendo prevalente l 'esigenza del contenimento dei fabbisogni pubblici, che le continue e successive manovre di finanza pubblica abbiano comunque contenuto gli andamenti tendenziali della finanza pubblica dovuti alla variazione al margine della legislazione in essere. Ma pare che non sia così. Il D PEF, principale strumento per la guida della politica del bilancio, soffriva negli anni Novanta di gravi carenze informative : ad esempio l' impossibilità di confrontare i conti della finanza pubblica utilizzati nello stesso DPEF con quelli esposti nelle Relazioni di cassa del Tesoro. In sintesi, la Relazione di cassa e il DPEF avevano in comune solo la previsione di fabbisogno e non quelle delle entrate e delle spese dalla cui differenza dovrebbe risultare tale aggregato. Si aggiunga che il perimetro del settore statale era assai mobile a seconda che si tenesse conto o meno, ad esempio, delle aziende statali, degli enti assimilati, delle regolazioni debitorie e così via. 5·3·

U N ES E M P I O

Come è ampiamente noto, le manovre di finanza pubblica perseguite negli anni Ottanta e Novanta consistevano nel tentativo di ridurre il fabbisogno del settore statale programmatico rispetto a quello tendenziale: la TAB. 2 mostra, senza bisogno di commenti, che tale obiettivo non è mai stato raggiunto. Dieci anni più tardi, dopo aver abbandonato il concetto di fabbisogno del settore 29. Ministero del! ' Economia e delle Finanze, Libro verde sulla spesa pubblica, ci t. 17 5

F I L I P P O CAVAZZUTI TABELLA 2

Le diverse definizioni del fabbisogno pubblico (miliardi di lire correnti) 1988

1990

199 2.

1993

Fabbisogno tendenziale

1 22.0 0 0

1 5 0. 4 0 0

1 6 0. 0 0 0

n.d.

Fabbisogno programmatico

1 1 2.2 37

1 3 3 .100

1 28 . 0 0 0

1 5 0.0 0 0

1 24 · 4 5 0

1 4 5. 0 0 0

1 63 . 0 0 0

170.0 0 0

Fabbisogno a consuntivo Fonte: DP EF, anni vari. TABELLA 3

Indebitamento netto dell'amministrazione pubblica (in % del PIL ) Anno

Obiettivo

Consuntivo

20 0 2

0, 5

2,1

20 0 3

0,8

2, 4

200 4

1,8

3 ,2

200 5

2,7

4 ,1

20 06

3.8

4 ·4

2007

2,8

1,9

20 0 8

2,2

2,7

2009

2,0

5.3

Fonte: Banca d' Italia, Relazione annuale, anni vari.

statale per adottare quello di indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni - ritenuto più significativo dello stato della finanza pubblica - la situazione non risulta per nulla migliorata e non vale la pena di commentarla ( TAB. 3). Anche perché il governo non diede mai spiegazione analitica degli scostamenti e il Parlamento nemmeno la richiese. Il bilancio pubblico e le sue proiezioni continuano ad apparire dunque come l 'opera di « una sfinge impenetrabile alle grandi masse della Camera, a quelle masse che votano [ . . . ] le spese, che votano le entrate » 30•

6

Allungando la gittata dello sguardo agli anni successivi Il periodo coperto dalla TAB . 1 illustra soltanto ciò che abbiamo considerato nulla di più che le condizioni di base della finanza pubblica, sulle quali si è innestata la 30.

Puviani, Teoria della illusione finanziaria, cit., p. 92.

LA R E P UB B L I CA IN T RANS IZ I O N E ( 1 9 8 9 - 9 4 ) FIG URA 2

Debito, pressione fiscale e spesa delle amministrazioni pubbliche (in % del PIL )

6o

130

,..-....,









o �

110



c:

·� -......_..

52.

o u

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90 44 -

-

.. .. .

-

-

.. ,

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,.

..o

,

70

o

Q

'

36

+-----�----�--��

1988 -• ---

1991

1994

1 997

Debito pubblico (in % del Spesa totale

PIL)

2.000 --

1003

l006

so

2.009

Pressione fiscale (tributi + contributi)

- - - Spesa primaria

Fonte: Archivio di Prometeia, Bologna.

storia fiscale della "Repubblica in transizione"; gli stessi indicatori sono stati perciò estesi - seppure in assenza di ogni puntuale commento - agli anni più recenti (FIGG. 2 e 3) . La FIG. 2 documenta che sia la spesa primaria ( al netto degli interessi passivi ) sia quella totale sono sempre cresciute fino al 1 9 9 3 . Negli anni successivi, la riduzione della distanza ( in verticale nella FIG. 2 ) che separa la spesa totale da quella primaria indica che è stata la riduzione della spesa per interessi passivi la causa di tale restrin. g1mento. Si noti che, dal punto di vista macrofinanziario, fu operata una redistribuzione della spesa pubblica dai detentori dei titoli di Stato ( i famosi e vituperati rentier che soddisfano quotidianamente l 'offerta dei titoli stessi ) a coloro che usufruiscono delle prestazioni sociali in denaro o in natura. Con riferimento all'oggi, dati gli attuali livelli dei tassi di interesse, questa redistribuzione non ha più spazi finanziari per essere ripetuta : a meno che non si introducano imposte sugli stock della ricchezza finanziaria affrontando i rischi della mobilità dei capitali in economia aperta. Si può così confermare l' ipotesi che la riduzione del debito pubblico in percentuale del PIL ( FIG. 3 ) sia conseguenza principalmente degli effetti sui tassi di interesse dovuti non tanto alle politiche di bilancio, quanto alla politica delle privatizzazioni, su cui si tornerà tra breve. 177

F I L I P P O CAVAZZUTI FIG URA 3

Debito e interessi passivi delle amministrazioni pubbliche (in % del PIL) r-

o u

·�

...0 ...0 ::s o... o � ·-

110

f-

--

....

-

12.

-

r-

90

-

...0 QJ

f-

o

70

-.

-

l

l

so 1990

1991

l

l

1 9 9 2.

1993

- Debito pubblico

l

l

1 9 94 -+-

199 5

l

l

1996

1 997

1998

1999

6 4

l

l

r-

2.000

In te ressi passivi

Fonte: Archivio di Prometeia, Bologna.

7 Una politica incisiva sul debito pubblico ? In realtà, una politica (trascinata dall 'estero) fu condotta e i risultati consentirono di non intervenire drasticamente sul livello della spesa primaria. Fu la politica delle privatizzazioni, cui già si è detto, che consentì, incassati gli effetti temporanei della manovra del 1 9 9 2, di raggiungere l'obiettivo dell'entrata nell ' Unione monetaria europea in modo politicamente indolore; se si esclude la famosa "imposta per l'Eu­ ropa" che fu successivamente in parte rimborsata. Molti ricordano che la politica delle privatizzazioni trovò ampio consenso in Parlamento, riportando una certa fiducia sui mercati finanziari internazionali in merito alla sostenibilità del debito pubblico italiano e con questa la riduzione dello spread tra il Bund tedesco e il BTP a dieci anni (FIG. 4) e la conseguente riduzione della spesa per interessi passivi sullo stock debitorio. Molti confidavano anche sugli effetti sullo stesso livello del debito, non valutando correttamente il rapporto tra gli sperati incassi da dismissione (spesso stimati in ro.o o o miliardi di lire) e la dimen­ sione effettiva del debito. Come risulta dal dibattito di allora, la grande maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento si dichiarò favorevole alle privatizzazioni che già erano state sperimentate in altri paesi europei, sebbene con le motivazioni più svariate: il mercato contro lo Stato ; il potenziamento del mercato mobiliare; la spinta alla competitività dell'economia italiana; l'occasione per una nuova politica industriale; l'opportunità da non perdere per acquistare a prezzo vile imprese finanziarie e non finanziarie e così via.

LA R E P U B B LI CA I N T RANS I ZI ONE ( 1 9 8 9 - 9 4 ) FIGURA 4

Differenziale tra il tasso medio del BTP e il Bund a 10 anni

1988

1990

1992

1994

1996

1998

2000

2002

2004

200 6

2008

Fonte: Archivio di Prometeia, Bologna.

Nei fatti l'attenzione si concentrò sui nuovi assetti proprietari delle imprese da pri­ vatizzare e sui nuovi attori industriali o finanziari che fossero. Privatizzazioni politi­ camente indolori e gradite ai cosiddetti "poteri forti", che ambivano a comprare i monopoli naturali (ad es. le autostrade o gli aeroporti), ma non le società manifat­ turiere aperte alla concorrenza internazionale. E così i poteri forti domestici lascia­ rono il campo anche a molti altri acquirenti esteri (ad es. il nuovo Pignone alla Generai Electric) . In ogni caso la politica delle privatizzazioni diede un importante contributo a ridurre il premio al rischio dell' insostenibilità del debito pubblico e di default delle imprese pubbliche.

8 Una conclusione che vale anche per l 'oggi ? L'andamento negli ultimi ventidue anni del debito pubblico (cfr. le figure prece­ denti), insieme a quello dei più importanti indicatori della nostra storia fiscale, può essere assunto per illustrare che la transizione infinita non ha ancora trovato un suo stabile sbocco ( lo "scheletro dello Stato" continua a essere sempre lo stesso) . L' ipotesi sulla fine della transizione è stata assunta sulla base della presunzione e dell'illusione - mostratesi entrambe infondate - che la stessa fine della transizione politica infinita avrebbe dovuto portare anche alla scelta di strumenti più efficaci per il controllo della finanza pubblica e per l'adozione, rispetto ai fini dichiarati, di più adeguate 179

F I L I P P O CAVAZZUTI TABELLA 4

Indicatori di finanza pubblica (valori medi in % del P I L) 198 8-94

199 5 -200 0

20 0 0-09

1988-200 0

1988-2009

1 0 2, 4

1 1 5 ,8

1 0 6,6

10 8,6

1 07, 8

PT

3 9,6

4 2,1

4 1 ,7

4 0,8

4 1,2

ST

5 3 .8

49.8

4 8.9

5 2,0

5 0,7

SP

43 ,0

4 1,0

43.8

4 2,1

4 2,8

D

Fonte: Archivio di Prometeia, Bologna; http :/ /www.governo.it, Banca d' Italia, conti delle amministrazioni publiche, anni vari.

politiche di bilancio, di gestione e di controllo parlamentare della spesa pubblica anche nei suoi contenuti microfinanziari e organizzativi. La TAB . 4 suggerisce che, nei diversi periodi della scansione temporale conside­ rata, nessuna svolta radicale è stata impressa allo scorrere della storia fiscale dell ' Italia. In assenza di tale svolta radicale, la stessa storia si è ripetuta all' infinito eguale a sé stessa, anche perché, come più volte detto, il "divorzio" tra Tesoro e Banca d ' Italia non è stato adeguatamente seguito da analogo "divorzio" tra le responsabilità del Parlamento e quelle del governo nella predisposizione, nella gestione e nel controllo della finanza pubblica. E così, se si torna a considerare la TAB . 1 insieme alla TAB. 4, si può notare che la modifica delle coalizioni politiche che hanno sostenuto i diversi governi succedu­ tisi nel tempo non pare che sia stata idonea, di per sé, a modificare in modo signi­ ficativo e duraturo certe condizioni. La conclusione che si può trarre è che in presenza di un dibattito politico (social­ mente poco doloroso) che a partire dai primi anni Novanta (e mai più interrotto) si è concentrato (senza decidere) soltanto sui "rami alti" degli ordinamenti giuridici (riforma della Costituzione, federalismo fiscale) - escludendo dal dibattito stesso l'opportunità di giungere a un "divorzio" regolamentato e non di fatto tra le respon­ sabilità di Parlamento e governo nella predisposizione, nella gestione e nel controllo della finanza pubblica -, non deve stupire che lo sviluppo della finanza pubblica abbia continuato a far camminare la storia fiscale dell' Italia sulla stessa via percorsa nella Prima Repubblica. Diverso sarebbe stato tale percorso se, ad esempio, si fosse disposta la non emen­ dabilità del bilancio da parte del Parlamento al momento della presentazione (come di fatto oggi accade per effetto dei reiterati voti di fiducia) e da parte del governo in corso di esercizio (come oggi si abusa con i famosi decreti milleproroghe sempre accompagnati dalla richiesta della fiducia), insieme a ciò che oggi difetta, come la

180

LA R E P UB B L I CA IN T RANS IZ I O N E ( 1 9 8 9 - 9 4 )

documentazione analitica e non tabellare dell'attività di spending review da sottoporre all'esame e all'approvazione da parte dello stesso Parlamento. Avendo trascurato altresì i "rami bassi" dell'ordinamento giuridico, amministra­ tivo e gestionale della finanza pubblica, il dibattito sulla transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica rischia di apparire ai più un genere letterario cui fare ricorso per vestire con le parole il nulla. Parafrasando e forzando le parole e il pensiero dei due autori citati in apertura, si potrebbe sostenere che nel caso dell' Italia, lasciata sola la Banca d' Italia a preoc­ cuparsi della tutela del bene pubblico dato dalla stabilità finanziaria, e in assenza di ogni revisione delle regole della politica per l'esame e il controllo della finanza pub­ blica, le imprese che la sua politica ha preparato stanno scritte nella sua storia fiscale, nascosta in un ciborio recondito entro cui penetra l 'occhio degli uomini politici tesi alla ricerca di consensi di breve periodo, in ciò assistiti dalle loro burocrazie che possono far dire al bilancio assai più o assai meno, come si vuole.

Parte seconda Il tramonto della Repubblica dei partiti

Cattolici e politica dalla prima alla seconda fase della storia repubblicana di Agostin o Giovagn oli

I

L ' unità politica dei cattolici e le sue trasformazioni L'unità politica dei cattolici ha segnato la vicenda della Prima Repubblica e la sua dissoluzione ha aperto la strada alla Seconda. E, mentre tale unità ha implicato un forte coinvolgimento della Chiesa e dei cattolici a sostegno dello Stato repubblicano, la sua dissoluzione ha comportato anche il tramonto di tale coinvolgimento e la fine di quel sostegno che istituzione ecclesiastica e fedeli cattolici avevano dato per lungo tempo alle istituzioni politiche italiane. Unità politica non significa che - dalla fondazione alla scomparsa di questo partito - tutti i cattolici abbiano votato sempre e compattamente per la Democrazia cristiana. Nel cattolicesimo postbellico, ad esempio, erano presenti tendenze molto diverse, che non si riconoscevano nella DC', e, in seguito, molteplici spinte verso un altro partito cattolico, collocato più a destra, si sono manifestate almeno fino agli anni Settanta, quando viceversa sono cominciate spinte sempre più consistenti per spostare i cattolici più a sinistra della DC. Ma la decisione di sostenere esplicitamente la DC presa tra il 1943 e il 19 45 dall'istituzione ecclesiastica - e più precisamente dalla segreteria di Stato vaticana, grazie all'opera del sostituto, monsignor Giovanni Battista Montini, con il consenso di Pio XII 2 - ha costituito indubbiamente una scelta di portata storica. Abbandonando un'antica diffidenza verso lo Stato italiano innestata dalle vicende risorgimentali e superando il disimpegno nei confronti del Partito popolare del primo dopoguerra, la Chiesa ha infatti deciso di aiutare la ricostruzione politico-istituzionale del paese e di sostenere la convergenza dei cattolici italiani in un nuovo partito politico. E una scelta compiuta prima che si profilasse la trasformazione della DC nella principale diga antico­ munista e non riducibile in modo esclusivo alla funzione da essa svolta in questo senso. '

I. A. Riccardi, Il partito romano. Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2007. 2. A. Giovagnoli, La cultura democristiana tra Chiesa cattolica e identita italiana, Laterza, Roma­ Bari 1991, pp. 157-Ss. I8S

AG O S T I N O G I OVAGN O L I

Tra il secondo dopoguerra e l' inizio degli anni Novanta, natura e fisionomia dell'unità politica dei cattolici sono ovviamente cambiate più volte e ciò che si è dissolto definitivamente nel 1994 era profondamente diverso da quanto costituito cinquant 'anni prima. Nel 1948, tale unità raggiunse il suo culmine, insieme però alla trasformazione della DC in un contenitore politico più ampio, che raccoglieva anche molti voti non cattolici, in relazione al suo ruolo contro il comunismo. Ma proprio tale ampliamento ha suscitato problemi al rapporto tra i cattolici e il partito e, comunque, subito dopo quel voto è iniziato un declino dell' impegno ecclesiastico che ha determinato un vistoso arretramento della DC già nelle elezioni amministrative e politiche dei primi anni Cinquanta3• Tale declino è stato controbilanciato da una crescente assunzione di iniziativa da parte del gruppo dirigente democristiano. Dalla fine degli anni Cinquanta, inoltre, questo gruppo dirigente ha cercato di ridurre la motivazione confessionale dell 'unità dei cattolici, rilanciandola in una chiave storico­ politica più laica. Si è parlato di uno scivolamento a sinistra della leadership demo­ cristiana, a partire dalla fine del governo Tambroni nel 19 60. In realtà, il processo che si è sviluppato è stato più complesso, con una progressiva riduzione dell 'influenza esercitata dall'istituzione ecclesiastica sulla politica italiana, in cui si è inserita un' af­ fermazione di autonomia da parte del gruppo dirigente democristiano durante il pontificato di Giovanni XXI II e con il rinnovamento conciliare. Da un' ( impegnativa ) unità dei cattolici su basi prevalentemente confessionali si è passati così a una ( rela­ tiva) unità dei cattolici intorno al progetto storico-politico democristiano. La DC cominciò ad assumere una funzione di guida politica del mondo cattolico, aprendo alla collaborazione con i socialisti e avviando una stagione di riforme. In questo modo, l'unità dei cattolici cominciò a saldarsi a un'egemonia democristiana su un elettorato per molti versi di destra, a tratti insofferente verso tale egemonia. E la sconfitta elettorale del 1963 mostra la formazione di un nucleo di opposizione latente alla leadership democristiana, radicato soprattutto in Italia settentrionale, che si coagulò intorno alla nazionalizzazione dell 'energia elettrica approvata nel 19624• Parte del mondo ecclesiastico cercò di contrastare il progetto democristiano, ma un paziente lavoro di ricucitura con l 'episcopato da parte di Moro5, la spinta conciliare e l'elezione di Giovanni Battista Montini al pontificato, impedirono una rottura tra la Chiesa e una DC sempre più impegnata in governi di centro-sinistra. E la Chiesa non partecipò al tentativo di interrompere questa esperienza condotto durante la crisi del luglio 1964 6• 3· Id., Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 20II, pp. 29-34. 4· Sull ' impatto politico della nazionalizzazione dell 'energia elettrica, cfr. Id., Il rapporto con la politica, in A. Giovagnoli, A. A. Persico ( a cura di ) , Pasquale Saraceno e l'unita economica italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2013, pp. 3 13-23. 5· A. D'Angelo, Moro, i vescovi e l'apertura a sinistra, Studium, Roma 2005. 6. A. Giovagnoli, Mariano Rumor e la crisi del luglio I9 04, in "Annali della Fondazione Mariano Rumor", I, 2005, pp. 57-68; cfr. M. Franzinelli, A. Giacone ( a cura di ) , Il rifòrmismo alla prova. Ilprimo 186

CATTO L I C I E P O L IT I CA DALLA PRIMA ALLA S E C ONDA R E P U B B LICA

Tra il 1964 e il 1965 si cominciò a parlare di riforme istituzionali, di cambiamento del sistema elettorale e di come rendere possibile un'alternativa tra partiti diversi alla guida del governo7• Lo stesso Moro riconobbe l 'importanza di procedere in questo senso per normalizzare la democrazia italiana. Egli però respinse le proposte di dra­ stica semplificazione del sistema politico e puntò sull'asse metodo proporzionale­ sistema parlamentare per un'evoluzione graduale della politica italiana. Ai suoi occhi un radicale cambiamento politico-istituzionale in senso maggioritario non avrebbe favorito la realizzazione di una normale alternativa di governo ma avrebbe finito piuttosto per avviare una contrapposizione non democratica tra comunismo e anti­ comunismo, lacerando drammaticamente la società italiana, di cui non mancarono segni inquietanti compresa la strategia della tensione tra fine anni Sessanta e inizio Settanta. E, secondo Moro, la permanenza della DC alla guida del governo - la "cen­ tralità democristiana" - costituiva la migliore garanzia di tale unità in un paese che, malgrado la diversità degli orientamenti politico -ideologici, si riconosceva comples­ sivamente in un patrimonio di valori etico-religiosi cristiani. In tale prospettiva, nel 1967 egli confermò a Lucca l 'importanza dell'unità politica dei cattolici nella DC, seppure sulla base della libera scelta degli elettori, per ragioni non confessionali ma storico-politiche8• Subito dopo il Concilio Vaticano II, si aprì anche un dibattito sulla « fine dell'età costantiniana » 9 e sulla necessità per la Chiesa di abbandonare ogni legame con la politica. Negli anni successivi, inoltre, l'unità politica dei cattolici fu messa in discus­ sione soprattutto da sinistra e a opera di quanti sostenevano non tanto la legittimità o l'opportunità di un voto libero dei cattolici per tutti i partiti, quanto il dovere di un impegno politico pieno a fianco di coloro che combattevano le ingiustizie e volevano cambiare il "sistema". Nel clima della contestazione del 1968 e dei suoi molteplici effetti e nel contesto di nuove tendenze internazionali, come quelle della "teologia della rivoluzione" e, più tardi, della "teologia della liberazione", il collate­ ralismo verso la DC venne affiancato da un nuovo collateralismo di spezzoni del mondo cattolico verso formazioni politiche più a sinistra. Per quanto importanti, tuttavia, queste tendenze non sono mai state abbastanza forti da mettere radicalmente in crisi l'unità politica dei cattolici. Nel post-Concilio si collocano invece altri pro­ cessi, probabilmente più decisivi sul lungo periodo, come quello sintetizzato dalla "scelta religiosa" dell 'Azione cattolica, storica associazione di laici alle dirette dipengoverno Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti {ottobre I9 03-agosto I9 64), Feltrinelli, Milano 20I2. 7· A. Giovagnoli, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal I942 al I994· Laterza, Roma-Bari I996. pp. I07-27. 8. G. Rossini (a cura di ) , I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianita, Atti del convegno di studio della Democrazia cristiana, Lucca, 28-30 aprile I967, Edizioni cinque lune, Roma I967. 9· Cfr. G. Zamagni, Fine dell'era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, il Mulino, Bologna 20I2.

AG O S T I N O G I OVAGN O L I

denze della gerarchia che ha costituito il principale canale di trasmtsswne tra la Chiesa e la DC dal dopoguerra agli anni Sessanta. Con la scelta religiosa si è infatti interrotto un rapporto importante per la DC, che beneficiava dell'opera di formazione svolta dall 'A c per il rinnovamento dei propri quadri politici e per rinsaldare i colle­ gamenti con il mondo cattolico. Ancora più importanti sono stati i molteplici effetti della recezione del Concilio Vaticano II nel tessuto ecclesiale e nella coscienza dei fedeli. Sono venuti emergendo nuovi movimenti e comunità ecclesiali - dal Movi­ mento dei focolarini alla Comunità di Sant'Egidio10 -, diversamente impegnati nel campo della spiritualità, dell'evangelizzazione, del servizio ai poveri, ma con uno scarso coinvolgimento nelle questioni politiche. È maturato così un progressivo distacco tra i cattolici e la DC, importante non tanto per i suoi effetti immediati quanto per le conseguenze a lungo termine.

2 La crisi degli anni Settanta Una minaccia diretta all'unità politica dei cattolici venne, involontariamente, messa in atto all'inizio degli anni Settanta, dall' iniziativa di un gruppo di intellettuali cattolici - tra cui Gabrio Lombardi e Sergio Cotta - che promossero il referendum per abrogare il divorzion. Tale iniziativa implicava un giudizio critico sulla capacità della D C di difendere i valori cattolici sul piano legislativo e sull 'ambiguità di un'al­ leanza tra questa e i partiti che non condividevano i valori cattolici : la legge Baslini­ Fortuna era stata approvata nel 1970 da un Parlamento in cui era presente, per la prima volta dal 1946, una maggioranza divorzista e mentre la D C collaborava, in un governo di centro-sinistra, con partiti favorevoli al divorzio. Dopo molti tentativi di evitare il referendum, la posizione dell 'istituzione ecclesiastica spinse la DC a impegnarsi per sostenere il voto favorevole all 'abrogazione e il partito si affidò a Fanfani per trasformare in fatto politico un' iniziativa nata fuori se non contro la politica di questo partito. Il mondo cattolico si divise e una parte significativa evitò di impegnarsi o si mobilitò contro l'abrogazione. Dopo il fallimento del referendum del 12 maggio 1974, l'operazione innestata dagli intellettuali cattolici fu continuata - in forme indubbiamente molto diverse - da minoranze laiche, in primis dai radi­ cali che agitarono la "questione cattolica" sostenendo l'illegittimità della guida democristiana del governo perché superata dal processo di modernizzazione della società italiana. Furono i primi segni dell'emancipazione della società civile dai partiti di massa e da allora lo strumento referendario è diventato l'arma privilegiata IO. M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Carocci, Roma 2008. I I. Cfr. G. B. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, societa civile dalla legge al rejèrendum (I90S-I974), Bruno Mondadori, Milano 2007. 188

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di molte battaglie contro un sistema di partiti cui l'unità politica dei cattolici è stata strettamente legata. Tra il 1974 e il 1975, l' indebolimento elettorale della DC sembrò metterne in discussione la sua funzione di diga anticomunista e molti hanno letto la successiva politica di solidarietà nazionale come un cedimento ai comunisti. Ma negli stessi anni, per volontà soprattutto di Paolo VI, in Italia la Chiesa riprese a sostenere con convinzione la Democrazia cristiana e in questo contesto si sviluppò il tentativo zaccagniniano di una rifondazione ideale e morale del partito12• La minaccia all 'unità politica dei cattolici, infatti, era venuta da un'iniziativa di intellettuali cattolici che si era rivelata un boomerang ed era poi stata raccolta da tendenze politico-culturali, come i radicali, avverse alla Chiesa cattolica: motivi diversi, dunque, spingevano per rilanciare tale unità13• Così, malgrado l'esito del referendum sul divorzio del 1974 e lo spostamento di una parte del suo elettorato verso sinistra, la DC non rinunciò a evocare la sua "ispirazione cristiana" e a sollecitare il voto cattolico. Tra la rifonda­ zione zaccagniniana nella seconda metà degli anni Settanta e l'apertura agli esterni dei primi anni Ottanta, questo partito ha cercato di recuperare un rapporto privile­ giato con il mondo cattolico, mentre il timore di un "sorpasso" comunista a partire dal 1976 attirava nuovamente molti consensi verso la D C , percepita ancora come fondamentale diga anticomunista. Contrariamente alle apparenze, infatti, la solidarietà nazionale è nata dalla riaf­ fermazione dell'unità politica dei cattolici, che ha continuato a rappresentare il car­ dine del contenimento di un comunismo italiano ancora incompatibile con la democrazia, malgrado le sue trasformazioni. Anche un'attenta lettura del famoso discorso di Moro del 28 febbraio 1978 ai gruppi parlamentari della DC conferma la persistenza della pregiudiziale anticomunista nella D C . E le vicende degli anni tra il 1976 e il 1979 mostrano la persistente distanza tra mondo cattolico e mondo comu­ nista: il catto-comunismo rappresenta soprattutto un'invenzione polemica degli avversari, priva di reale consistenza politica. Tuttavia, a questa ripresa elettorale della DC non corrispose il superamento della ferita che si era aperta nel rapporto con la società civile, manifestata anche dalla vicenda del divorzio. Per gli anni Settanta, non si può parlare di indebolimento dei partiti di massa: il 20 giugno 1976, tre italiani su quattro votarono per la DC o per il P C I , oltre al 9 % che votò per il Partito socia­ lista. Ma la crisi di rapporto con la società civile - nel caso della DC, in particolare con il mondo cattolico - segnò l' inizio di un declino che avrebbe preparato succesI2. A. Preda ( a cura di ) , Dialoghi con Zaccagnini, Studium, Roma 2009; Id., Zaccagnini nelfuturo della politica, Studium, Roma 20IO. I 3. Sull' inattesa sopravvivenza della Democrazia cristiana negli anni Settanta, cfr. A. Giovagnoli, La stagione democristiana, in M. Impagliazzo ( a cura di ) , La nazione cattolica. Chiesa e societa in Italia dal 195S ad oggi, Guerini e Associati, MUano 2004, pp. 49-68.

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sviluppi politici. Tale evoluzione fu sollecitata dall'opera del PSI, che chiuse definitivamente l 'esperienza del centro-sinistra con un articolo del suo segretario, Francesco De Martino, del 31 dicembre 1975: in seguito, non c 'è più stato in Italia un governo basato su una coalizione organica di partiti, uniti intorno a un comune progetto politico. Nei decenni successivi, infatti, anche se si sono formate molte diverse maggioranze parlamentari, non sono più emerse coalizioni politiche in senso pieno. Nel 1976, la vastissima maggioranza della non sfiducia sostenne un governo monocolore di emergenza per affrontare terrorismo e stagflazione e, nel 1978, la formazione di una maggioranza che comprendeva anche i comunisti non cambiò radicalmente la natura dell 'esecutivo. In seguito, il Pentapartito ha rappresentato un'esperienza diversa da quella del centro-sinistra, meno coesa e priva di un progetto politico unitario, e la mancanza di coalizioni politiche vere e proprie - diverso è, ovviamente, il discorso delle coalizioni elettorali - è proseguita anche per tutto il periodo successivo, affliggendo anche la Seconda Repubblica. In questo senso, si può dire che con il declino dell'unità politica dei cattolici è iniziata una crisi da cui il sistema politico-istituzionale italiano non è più uscito. Appare complessivamente fondata la convinzione di Pietro Scoppola, secondo cui la solidarietà nazionale segnò l'esaurimento della politica centrista avviata da De Gasperi nel dopoguerra, continuata poi non solo dal centrismo degli anni Cin­ quanta ma anche dal centro-sinistra degli anni Sessanta e Settanta per concludersi, appunto, con la solidarietà nazionale. Secondo Scoppola, l 'esaurimento della politica centrista sollevava problemi nuovi per quanto riguarda il ruolo politico svolto dai cattolici in modo unitario. Infatti, SlVl

il contributo dei cattolici è stato decisivo negli anni della ricostruzione e nei successivi svi­ luppi della storia repubblicana; ha offerto una base di consenso popolare a una democrazia che non aveva profonde e consolidate radici; ha riassorbito entro un disegno democratico l'eredità di un fascismo sconfitto ma non cancellato nella mentalità di tante parte dei ceti medi italiani; ha resistito alla spinta di un comunismo radicato nella cultura del paese e nella mentalità delle classi operaie, segnato da un fermo legame con l' Unione Sovietica che lo rendeva indisponibile a una funzione di governo ; con il suo anticomunismo democratico [ ... ] ha favorito l'evoluzione della stessa sinistra italiana verso forme compiutamente demo­ cratiche•4.

Sulla base di queste motivazioni, Scoppola aveva sostenuto in precedenza la legitti­ mità dell'unità politica dei cattolici, contro le tesi del cattolicesimo postconciliare e del dissenso che sosteneva l' illegittimità della DC per motivi non storici e politici, bensì religiosi e teologici. Ma, ai suoi occhi, l'esaurimento della funzione svolta dai 14. P. Scoppola, La coscienza e il potere, Laterza, Roma-Bari 2007, pp.

XVII-XVIII.

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cattolici fino a quel momento, all' inizio degli anni Ottanta fece venir meno le ragioni storiche di tale unità.

Da Paolo

VI

3 a Giovanni Paolo

n

Dopo la morte di Paolo VI e di Moro e l 'avvento di Giovanni Paolo I I nel 1978, è iniziato in Italia un progressivo distacco tra Chiesa e D C . Il nuovo papa, il primo non italiano dopo oltre quattrocento anni, nutrì fin dall' inizio perplessità verso un orientamento piuttosto rinunciatario e rassegnato del cattolicesimo occidentale15. E impresse alla Chiesa un nuovo dinamismo ispirandosi a un'ampia visione geopolitica, che includeva una fondata consapevolezza dell'intrinseca fragilità del blocco sovie­ tico. Karol Wojtyla non ha mai creduto alla "diversità" del comunismo italiano e, soprattutto, non ha mai creduto che potesse svolgere una funzione storica rilevante. Ha così precorso conclusioni cui gran parte della classe dirigente italiana è arrivata tardi o non è mai arrivata del tutto. Giovanni Paolo II, infatti, è stato poco compreso da questa classe dirigente, inclusa la sua componente cattolica. Egli si pose con umiltà e in atteggiamento di ascolto nei confronti di tanti interlocutori italiani, senza riuscire però a spegnere molte resistenze e ostilità nei suoi confronti. Contrapponendogli la memoria di Paolo VI , malgrado avesse duramente contestato papa Montini durante il suo pontificato, gran parte del cattolicesimo italiano degli anni Ottanta ha condi­ viso assai poco le grandi prospettive che egli cercava di lanciare per superare un mondo segnato dall' influenza sovietica e affrontare le nuove sfide della globalizza­ zione16. Indubbiamente, il papa polacco era estraneo alle peculiarità della storia ita­ liana che nel secondo dopoguerra avevano spinto la Chiesa e i cattolici a inserirsi nelle vicende italiane per contrastare elementi di fragilità politico-istituzionale radi­ cari nella storia unitaria ed esasperati dal fascismo. Ha avuto anche difficoltà a com­ prendere una formazione politica peculiare come la DC, profondamente legata alle specificità di questa storia. A sua volta, la classe dirigente democristiana - guidata da una nuova generazione, quella di Forlani e De Mita, meno sensibile della "seconda generazione" di Fanfani e di Moro al rapporto con la Chiesa - non è stata in grado di cogliere la forza innovatrice del wojtylismo e di utilizzarlo per rinnovare uno scenario politico italiano sempre più anacronistico a fronte dei mutamenti epocali in corso. Giovanni Paolo II, tuttavia, non mise in discussione il sostegno della Chiesa italiana alla DC e quest'ultima continuò a beneficiare, seppure tra crescenti difficoltà, IS. Cfr. A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2ou, pp. 22I-78. I 6. Sul rapporto tra Giovanni Paolo II e il cattolicesimo italiano, cfr. anche A. Riccardi, Chiesa e Stati da Paolo VI a Giovanni Paolo II, in "Civitas", II, I, 2oo6, pp. I7-30.

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di un'unità politica dei cattolici fondata da Montini negli anni Quaranta e da lui rilanciata negli anni Settanta. Questo partito ha inoltre sofferto per il crescente immobilismo della politica italiana negli anni Ottanta17• In questo decennio, i partiti di massa hanno continuato a godere di vasti consensi elettorali. Ma il 1980 segnò il definitivo rigetto, da parte della DC e del PCI, della prospettiva di una comune convergenza di governo e, in seguito, l'anticomunismo democristiano perse gradualmente la sua valenza dinamica mentre il PCI vedeva venire meno progressivamente la capacità di rappresentare, come aveva fatto in precedenza, istanze economiche e sociali diffuse ma sacrificate da uno sviluppo squilibrato. Le diverse correnti della DC si divisero tra un rifiuto pregiudi­ ziale - quello espresso dal Preambolo nel congresso del 1980 - e un'apertura acritica nei confronti dei comunisti. Il PCI iniziò a coltivare un senso di diversità e superio­ rità morale nei riguardi della DC e di altri partiti, senza avviare un'approfondita revisione autocritica della sua storia e della sua identità. La Democrazia cristiana perse la guida del governo - che negli anni Ottanta è stata lungamente in mani laiche, con Spadolini e con Craxi - pur continuando a costituirne la componente decisiva. Iniziò a cambiare la cifra fondamentale dell 'opposizione al comunismo che Craxi spostò dalla tipica difesa democristiana di valori tradizionali intrecciata a un impegno per la giustizia sociale alla valorizzazione delle esigenze della modernizzazione contro l'anacronismo della proposta comunista: il suo è stato l'anticomunismo della moder­ nità, diverso dall'anticomunismo religioso e morale dei cattolici, che in precedenza aveva contribuito non poco ad alimentare la loro unità politica18• Craxi ha, infatti, interpretato le novità della società italiana di quegli anni attraverso una politica "movimentistà' non priva di efficacia, seppure non sufficiente per cambiare il sistema politico : da un lato, i suoi progetti di riforma politico-istituzionale non hanno avuto successo e, dali' altro, il suo partito non ha mai raggiunto livelli determinanti sul piano elettorale. In tale contesto, la Democrazia cristiana ha cominciato a perdere consensi, scendendo nel 1983 dal 38 al 33% dei voti, mentre la delusione per il man­ cato rinnovamento di questo partito, dopo la fine della stagione zaccagniniana, ini­ ziava a spingere l'area vicina alla Lega democratica prima verso l'obiettivo di un profondo rinnovamento della DC e, poi, verso un radicale cambiamento politico­ istituzionale, oltre la Repubblica dei partiti. Il tramonto di un'unità dei cattolici intorno a un partito politico e legata a un impegno politico-istituzionale è stato, infine, accelerato da una serie di cambiamenti epocali, quali le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dalla postmodernità, 17. Cfr. A. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 6 s-ror, e V. Capperucci, Demo­ crazia cristiana e mondo cattolico negli anni Ottanta, in G. Orsina (a cura di), Culture politiche e lea­ dership nell'Europa degli anni Ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2012, pp. 303-33. r 8. Su craxismo e società italiana negli anni Ottanta, cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010.

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dalla diffusione di nuovi fenomeni di secolarizzazione e da inedite contaminazioni tra religioni e culture diverse. Tale contesto, sempre più lontano da quello in cui si era svolto il Concilio Vaticano n, ha impresso nuovi sviluppi alla recezione del Con, cilio da parte del mondo cattolico italiano. E il caso, ad esempio, di molte riflessioni incentrate sul principio di laicità, inteso non come laicismo conflittuale, ma come scelta di tolleranza e come condivisione di valori comuni e riguardanti un rapporto tra religione e politica in chiave non confessionale ( fu valorizzato persino da un Partito comunista italiano sempre più orfano delle proprie ideologie : nel 1977 Ber­ linguer scrisse una famosa lettera a monsignor Bettazzi proprio su tale principio ) . È, infatti, possibile notare segni di una progressiva erosione del principio di laicità già tra la fine degli anni Settanta e l' inizio degli anni Ottanta, mentre successivamente si è verificata l'emersione di problematiche nuove sempre più estranee alle tradizionali questioni inerenti ai rapporti tra Chiesa e Stato. Anche in Italia, non a caso, sono venute delineandosi divergenze di orientamenti etici tra credenti e non credenti - e talvolta anche all ' interno di questi due campi - che hanno indotto a parlare negli ultimi decenni di società abitate da "stranieri morali" ( o, secondo un'altra formula­ zione, da "estranei morali" ) . Ne costituisce un esempio un nuovo approccio al tema dell'aborto, espressivo non di un tradizionale conflitto di interessi tra istituzione ecclesiastica e istituzioni politiche bensì di un nuovo conflitto di valori che mette in discussione le basi della regolamentazione giuridica della convivenza civile, con riflessi anche di rilievo costituzionale19• A partire dagli anni Settanta, negli Stati Uniti e in Europa le discussioni sulla regolamentazione giuridica dell'aborto hanno chiamato in causa diverse concezioni non solo etiche ma anche antropologiche, che riguardano la stessa definizione di essere umano e di vita umana. Sono andate nella stessa dire­ zione anche le implicazioni di problemi come la fecondazione assistita, l'eutanasia, il matrimonio tra omosessuali e altre ancora che lacerano il tessuto costituzionale condiviso in cui si sono riconosciuti a lungo cittadini di diverso orientamento reli­ gioso e moraleo. I conflitti emersi in questa nuova situazione non sembrano risolvibili in base al principio di laicità che presuppone un orizzonte etico-antropologico almeno impli­ citamente condiviso, presente nell' Europa moderna e, in parte, in quella contempo­ ranea, entrambe sensibilmente influenzate da una cultura cristiana accettata in alcune sue linee portanti anche da molti non praticanti, anticlericali o non credenti. Nel mondo attuale, infatti, la lezione della laicità appare messa in discussione da un I9. Sulla crisi della laicità, cfr. A. Giovagnoli, Religioni e laicita in un mondo post-secolare, in A. Riccardi (a cura di), Le Chiese e gli altri. Culture, religioni, ideologie e Chiese cristiane nel Novecento, Guerini e Associati, Milano 2oo8, pp. 333-65, e A. Giovagnoli, Problemi della laicita, in F. Traniello, F. Bolgiani, F. Margiotta Broglio (a cura di), Stato e Chiesa in Italia. Le radici di una svolta, il Mulino, Bologna 2009, pp. 67-90. 20. Cfr. C. Ruini, Chiesa contestata. 10 tesi a sostegno del cattolicesimo, Piemme, Casale Monferrato (A L) 2007, pp. I33-47· 193

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pluralismo religioso, etico e culturale sempre più accentuato e non immediatamente componibile in un orizzonte valoriale comune. In tale contesto, emergono valori e principi che appaiono inevitabilmente non negoziabili e non solo per le Chiese e per i credenti: anche la negazione di tali valori e principi è infatti, a suo modo, non negoziabile da parte di chi li ritiene inaccettabili. E un pluralismo etico, culturale e antropologico sempre più accentuato incrina le fondamenta di quell 'opera di costru­ zione e ricostruzione costante delle istituzioni pubbliche, essenziale per la vita di qualunque Stato. In questa situazione, molti cattolici sono stati indotti a ripensare il loro impegno pubblico non più sul terreno di un confronto politico-istituzionale con formazioni espressive di tradizioni culturali o ideologiche anche molto diverse, per concentrarsi invece sull 'affermazione e la difesa di istanze considerate più stret­ tamente legate alla loro identità. La sconfitta nel referendum sull 'aborto nel 1981 - malgrado questa volta i cat­ tolici fossero molto più uniti che in occasione del divorzio - segnò l' inizio di un crescente disagio nei confronti della politica. Agli occhi di qualcuno, la D C cominciò ad apparire sempre meno capace di assumere e interpretare le istanze proprie del mondo cattolico. Comunione e liberazione, ad esempio, riprese lo spirito dell ' ini­ ziativa referendaria sul divorzio avviata dagli intellettuali cattolici dieci anni prima e accusò la D C di esprimere troppo poco ! "'identità" cattolica e di difendere in modo insufficiente i valori cattolici. La Democrazia cristiana sarebbe stata indirettamente responsabile della secolarizzazione della società italiana, come sostennero Augusto Del Noce e Gianni Baget Bozzo. In quest 'ottica, cominciò a essere svalutato il ruolo cruciale a sostegno delle istituzioni politiche nazionali svolto dai cattolici a partire dal secondo dopoguerrall. La caduta delle ideologie e la maggior facilità di dialogo tra forze politiche diverse spinsero inoltre a sottovalutare i problemi posti alla democrazia dall'avvento del consumismo e di una nuova società degli individui. Senza abbandonare la D C , che la Conferenza episcopale italiana ha continuato a sostenere sino alla fine, anche quest 'ultima cominciò un progressivo distacco dalle motivazioni storiche che costituivano la ragion d 'essere di questo partito. È il per­ corso che si è espresso successivamente nelle iniziative del cardinale Ruini, nel progetto culturale della CEI, nel dibattito sulla "questione antropologica" e nelle discussioni sulla bioetica. Negli anni Ottanta, insomma, malgrado diversità di premesse e di obiettivi, varie tendenze presenti nel cattolicesimo italiano hanno finito per mettere in discussione, in modo convergente sul piano culturale prima ancora che politico, il "progetto storico", che, nato nel contesto del cattolicesimo europeo degli anni Trenta, ha trovato la sua più nota espressione nel pensiero maritainiano sulla "nuova cristianità" e, sul piano pratico, nell ' iniziativa montiniana del secondo dopoguerra. È il progetto che ha sostenuto la DC della "seconda generazione", subentrata nella guida del partito alla 21. Sui cattolici italiani negli anni Ottanta, cfr. Giovagnoli, Chiesa e democrazia, cit., pp. 143-99. 194

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precedente generazione degli ex popolari. I diversi orientamenti del cattolicesimo italiano si sono confrontati apertamente nel Convegno della Chiesa italiana che si svolse a Loreto del 1985, esprimendosi nelle opposte posizioni della "presenza" e della "mediazione". Quest 'ultima, sostenuta soprattutto dall'Azione cattolica, non riuscì a imporsi, ma anche quella espressa da C L non fu pienamente accolta. Prevalse, infatti, la prospettiva indicata da Giovanni Paolo n della Chiesa quale forza sociale. Tutt'e tre questi orientamenti, pur molto diversi tra loro, non seguivano la vecchia prospet­ tiva del collateralismo del mondo cattolico alla D C . E si può dire, come ha notato Francesco Traniello, che abbiano concorso insieme a incrinare sempre più profonda­ mente l'unità politica dei cattolici a sostegno della Democrazia cristiana22 • Il crescente distacco tra mondo cattolico e DC si è intrecciato, peraltro, con il complessivo declino della politica e con la crisi sempre più acuta dei partiti di massa. Non a caso, proprio alcuni ambienti cattolici hanno sostenuto vigorosamente l ' iniziativa dei referendum elettorali che, nel 1991 e nel 1993, sono stati decisivi per determinare la fine della Prima Repubblica23• In tale contesto sono cresciute le critiche anche dei cattolici nei confronti del sostegno garantito a lungo dall'istituzione ecclesiastica alla DC. Negli anni di Tangentopoli, infine, molte spinte diverse sarebbero confluite in una presa di distanza morale dalla DC sempre più marcata.

4 Il Partito popolare e la fine dell 'unità politica dei cattolici Nelle elezioni politiche del 1992, le prime dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' Unione Sovietica, la D C ottenne ancora quasi il 30% dei voti. Successiva­ mente, però, l'iniziativa della magistratura, che aveva investito in primo luogo il PSI, coinvolse anche la DC, il cui segretario, Arnaldo Forlani, si dimise per essere sostituito da Mino Martinazzoli 24• Come per gli altri esponenti della terza generazione, anche

22. F. Traniello, Verso un nuovo profilo dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, in Traniello, Bolgiani, Margiotta Broglio (a cura di), Stato e Chiesa in Italia, cit., pp. 39-so. 23. Sul contributo cattolico alla fine della Repubblica dei partiti, cfr. P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2oos. Cfr. anche M. Segni, La rivoluzione interrotta. Diario di quattro anni che hanno cambiato l'Italia, Rizzoli, Milano I994; S. Ceccanti, Nessuna falcidia: i giovani, le donne e l'elettorato razionale, in G. Pasquino (a cura di), Votare un solo candidato. Le conseguenze politiche della preferenza unica, il Mulino, Bologna I993· pp. 3 I-8o; Id., Al cattolico perplesso. Chiesa e politica all'epoca del bipolarismo e del pluralismo religioso, Boria, Roma 20IO, pp. IS-2S; F. Russo, Quella strana omissione. I primi referendum elettorali e il movi­ mento politico di Mario Segni: sei anni di storia italiana scomparsi, WIP, Bari 20IO. 24. Sulla crisi della Prima Repubblica una delle analisi più efficaci resta quella di L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia I993· Su Forlani, cfr. S. Fontana, N. Guiso, A. Forlani (a cura di), Potere discreto. Cinquant'anni con la Democrazia cristiana, Marsilio, Venezia 2009. 195

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l'esperienza dell'ultimo segretario della D C è stata meno segnata di quella della generazione precedente dal riferimento alla conventio ad excludendum e al tema dell ' ispirazione cristiana della DC, e più influenzata di quella dalla spinta a svinco­ larsi dal peso della damnatio gubernandi nella democrazia bloccata15• Nel congresso democristiano del 1 9 8 0, Martinazzoli è stato tra gli oppositori del preambolo, nella convinzione che il PCI potesse e dovesse entrare nell'area di governo quale alterna­ tiva alla D C . In seguito, denunciò più volte il rilievo della questione morale nel suo partito e, divenutone segretario, non ne difese in toto la classe dirigente, messa sempre più in difficoltà dall'opera della magistratura, a differenza di quanto aveva fatto Moro negli anni Settanta. Prendendo le distanze dalla precedente storia demo­ cristiana Martinazzoli avviò la fondazione di un partito nuovo16• Tra il 1993 e il 1994, infatti, sciolse la DC per dar vita a un nuovo Partito popolare, che si richiamava alla vocazione "programmatica" del partito di Sturzo piuttosto che a quella "gover­ nativa" del partito degasperiano, si proponeva di essere fedele a una specifica visione etico-politica e non necessariamente obbligato a governare: libero, cioè, di passare all'opposizione per mantenere la propria identità. Anche nel nuovo partito, il rife­ rimento a valori cattolici fu indubbiamente forte e la presidenza della CE I sostenne inizialmente il tentativo del segretario. Ma il PPI è nato quando l 'unità politica dei cattolici, che ha lungamente segnato la storia della DC, non era più percepita come un valore. Nelle elezioni politiche del 1994, in cui Polo delle libertà e Polo del buon governo raccolsero insieme circa il 37% dei voti contro il 32% dei progressisti, al nuovo Partito popolare andò l' n% dei voti e al Patto Segni più del 4,5%. Insieme, quindi, Partito popolare e Patto Segni raggiunsero quasi il 16% dei voti, costituendo un polo non irrilevante nel nuovo scenario politico. All' indomani di quelle elezioni, però, Marti­ nazzoli inviò, via fax, dimissioni su cui si è molto discusso. Al fondo di tale scelta, oltre all'originale approccio alla politica tipico dell'ultimo segretario democristiano, c 'era l' irrisolta questione delle alleanze : come si sarebbe dovuto collocare il popolo di centro in un contesto marcatamente bipolare ? Martinazzoli era convinto che, date le circostanze, il risultato raggiunto non fosse negativo, ma cedette all'orientamento, sempre più diffuso, che spingeva verso una semplificazione in senso bipolare del

25. Sulla figura di Mino Martinazzoli, cfr. M. Martinazzoli, Il limite della politica, Morcelliana, Brescia 1985; Id., La terza fase, La Quadra, Brescia 1993; A. Airò, Mino Martinazzoli. Un itinerario politico, Muzio, Padova 1994; M. Martinazzoli, A. Valle, Uno strano democristiano, Rizzoli, MUano 2009; P. Corsini, Mino Martinazzoli: valore e limite della politica. Scritti e discorsi, Cittadella, Assisi (PG) 2012. 26. Sulla fine della D C, cfr. M. Fellini, L 'arcipelago democristiano, Laterza, Roma-Bari 1990; Id., C 'era una volta la DC, U Mulino, Bologna 1994; G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico (I990-I996), Laterza, Roma-Bari 1997; S. Fontana, Il destino politico dei cattolici. Dall'unita alla diaspora, Mondadori, Milano 1995; R. Orfei, Gli anni di latta. Osservazioni sull'epilogo della Dc, Marietti, Genova 199 8.

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sistema politico. Fin dall 'inizio, peraltro, il suo progetto fu segnato da una certa carenza di immaginazione sistemica e da un deficit di progettualità riguardo al con­ testo, ancora in fieri, in cui avrebbe dovuto collocarsi il nuovo soggetto politico da lui fondato. Anche Martinazzoli, in altre parole, non ha affrontato fino in fondo il problema aperto dalla scomparsa della DC quale cardine dell ' intero sistema dei par­ titi, concentrandosi piuttosto sull ' identità politico-culturale e sugli aspetti program­ matici del nuovo Partito popolare, anche sulla spinta delle pressioni che venivano in questo senso dal mondo cattolico. Si è allontanato così dal disegno di Aldo Moro, che aveva operato, nel quadro del contenimento democratico del comunismo, per rendere politicamente rilevante l' ispirazione cristiana. Egli, inoltre, non ha cercato di difendere l'egemonia del centro sulla destra su cui si è basato a lungo il successo democristiano : negli ultimi anni, infatti, una simile egemonia aveva comportato compromessi e inquinamenti, da cui Martinazzoli voleva liberarsi per riproporre con forza le radici ideali del popolarismo sturziano. Anche per questo non è stato in grado di fermare gli ex democristiani che, ragionando ormai in una logica bipolare, scelsero allora di collegarsi al centro-destra, come Pier Ferdinando Casini. Anche il fondatore del Partito popolare, in conclusione, non è stato in grado di contrastare il successo di Berlusconi, malgrado la sua ferma posizione personale nei confronti del fondatore di Forza Italia: Martinazzoli era stato uno dei ministri che si dimisero nel 1 9 9 0 per protesta contro la legge Mammì favorevole alla collocazione privilegiata della Fininvest nel mercato televisivo italiano. Ancora più decisivo delle dimissioni di Martinazzoli è stato, dopo le elezioni, il ritiro del sostegno ecclesiastico al Partito popolare. Tale decisione non scaturì da un cambiamento della linea politica del PP. Probabilmente, ebbe un certo peso la quantità dei voti raccolti dalle formazioni centriste, pari a circa la metà di quelli ottenuti dalla DC due anni prima. Continuando a sostenere questo partito, la Chiesa si sarebbe legata a una minoranza politica destinata a restare tale almeno per un certo tempo. Prendendo le distanze da qualunque formazione, la Chiesa ha succes­ sivamente insistito sul carattere non di ristretta minoranza ma di "popolo" e sulla sua capacità di influenzare l' intera società italiana. La decisione presa dalla presi­ denza della CEI costituì una svolta storica. In precedenza, il cardinale Ruini aveva spesso manifestato vivo interesse per le questioni politiche - e una particolare attenzione verso la D C - e, malgrado molte spinte in senso contrario, sotto la sua guida la CEI mantenne fino in fondo il proprio sostegno a questo partito, per poi trasferirlo al Partito popolare di Martinazzoli. Tuttavia, dopo le elezioni del 1994 l'opzione di un legame privilegiato con uno specifico partito politico fu definitiva­ mente abbandonata, scegliendo la linea dell'equidistanza, esplicitamente affermata dalla Chiesa italiana già nel convegno di Palermo del 1 9 9 5 . Ciò non gli impedì di guardare favorevolmente il tentativo successivamente promosso da Buttiglione - peraltro senza successo - per portare il Partito popolare nel centro-destra. Molti anni dopo Ruini operò per favorire un legame tra il centro-destra di Berlusconi e il 197

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centro di Casini. Contrariamente a quanto spesso sostenuto o ipotizzato, sperato o temuto, il cardinale non ha invece coltivato nostalgie di ritorno al "partito cattolico". Sotto questo profilo, le distanze tra i suoi sostenitori e i suoi avversari sono state più ridotte di quanto si è pensato o affermato : sia gli uni sia gli altri, infatti, non solo hanno condiviso il giudizio che la stagione della DC era definitivamente conclusa, ma hanno anche operato in modo convergente per contrastare la ripresa - in qua­ lunque forma - dell'unità politica dei cattolici.

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La Chiesa nella Seconda Repubblica La fine del sostegno della CEI al Partito popolare ha segnato l ' inizio di una nuova stagione nei rapporti tra Chiesa e politica in Italia. Sotto la guida del cardinale Ruini, uno degli ecclesiastici italiani di maggior spicco nella Seconda Repubblica - perce­ pito quasi come un'alternativa al cardinale Martini - , la presidenza della Conferenza episcopale ha assunto un ruolo inedito nella politica italiana. La Chiesa ha ripreso anche in questo campo la guida del laicato cattolico, esercitata di fatto per molti anni dalla DC, ma tale funzione, che in precedenza rientrava tra le competenze della Santa Sede e in particolare della segreteria di Stato, dopo il 1994 è stata assunta dalla pre­ sidenza della CEI. La linea di Ruini è maturata a partire dagli anni Ottanta - come ha scritto egli stesso27 -, mentre cresceva la propensione dei cattolici verso una più esplicita affermazione della propria identità e dei propri principi. A partire dal 1985, inoltre, la CEI si è ispirata soprattutto alla prospettiva della Chiesa quale grande "forza sociale" lanciata da Giovanni Paolo II al convegno di Loreto. E proprio nel 1994, il cardinale Ruini ha avviato il Progetto culturale della Chiesa italiana che si è poi interrogato a lungo sulle trasformazioni etiche e culturali emerse a cavallo tra il xx e il XXI secolo 28• Si deve soprattutto a tale iniziativa il tentativo di cogliere alcuni riflessi antropologici dei cambiamenti in corso e, in particolare, dei processi di glo­ balizzazione9. La Chiesa ha cercato così di interrogarsi sul passaggio dalla società di massa alla nuova società degli individui che ha segnato anche l' Italia a partire dall'i­ nizio degli anni Ottanta. Dopo il 200 1, tale percorso si è saldato alla questione del cosiddetto "scontro di civiltà" e al rapporto fra tradizione cristiana e civiltà occiden­ tale, enfatizzato dal problema del terrorismo di matrice islamica e dalle guerre in Afghanistan e in Iraq.

27. C. Ruini, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell'eta del mutamento, Mondadori, Milano 2005, pp. 7-13. 28. Id., Verita e liberta. Il ruolo della Chiesa in una societa aperta, Mondadori, Milano 2oo6, pp. 6s-82. 29. Id., Rieducarsi al cristianesimo, Mondadori, Milano 2008, pp. 29-44.

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Al mutato rapporto tra gerarchia e laicato si è collegato un approccio più con­ fessionale alla politica italiana. E, malgrado una più esplicita affermazione delle proprie posizioni soprattutto sul terreno etico-antropologico, nella Seconda Repub­ blica la Chiesa ha finito per sperimentare nuove forme di subalternità alla politica. Si colloca in tale contesto una crescente vicinanza dei vertici ecclesiastici al centro­ destra e in particolare a Berlusconi, malgrado una formale equidistanza rispetto a tutti i soggetti politici3°. Tale vicinanza è stata interpretata in termini di "neogenti­ lonismo" e cioè di rapporti di scambio che si sono venuti a creare per la maggiore disponibilità del centro-destra a tener conto di specifici interessi concreti dell' istitu­ zione ecclesiastica e del mondo cattolico, dalle scuole non statali alle imposte su fabbricati e attività religiose o sociali. Si tratta, però, solo di un aspetto della questione e di una rappresentazione eccessivamente attenta a relazioni istituzionali tra Stato e Chiesa, come conferma il richiamo al Patto Gentiloni di inizio Novecento. In realtà, questo tipo di relazioni ha perso gran parte della sua importanza in un contesto socioculturale non più dominato dalla centralità dello Stato e molto lontano dalla mentalità laico-liberale di un secolo prima. L' interesse della Chiesa si è piuttosto spostato verso gli orientamenti prevalenti del dibattito nella società degli "stranieri morali", all'interno della quale, più che la definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa o l 'azione del potere politico-amministrativo, a quest'ultima interessa la capacità del legislatore di orientare l'opinione pubblica attraverso un disciplinamento normativo dei comportamenti individuali e collettivi. La presenza dell' istituzione ecclesiastica nella vita pubblica italiana ha assunto così la forma di una lobby mobilitata soprat­ tutto in difesa di posizioni rilevanti per la morale cattolica - i cosiddetti "valori non negoziabili" -, cercando l'incontro con gli interlocutori più interessati a questi temi, anche se non credenti, come i cosiddetti "atei devoti"3'. L'esempio più noto in questo senso è costituito dall' impegno della CEI per l'astensione nel referendum sulla fecon­ dazione assistita nel 200531• Unendosi ai molti non cattolici che, per motivi diversi, hanno scelto di astenersi, Ruini ha evitato che i credenti venissero "contati" sul piano politico e che la loro condizione di minoranza venisse palesemente confermata. Hanno certamente pesato su questa scelta i precedenti dei referendum sul divorzio e sull'aborto, rispettivamente del 1974 e del 1981, entrambi persi dai cattolici, con la 30. Sul rapporto tra la Chiesa e Berlusconi, cfr. A. Gibelli, Il berlusconismo della Chiesa cattolica, in P. Ginsborg, E. Asquer (a cura di), Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, Laterza, Roma-Bari 2on, pp. 6 8-82; Id., Berlusconi passato alla storia. L'Italia nell'era della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 20n. Sul voto dei cattolici in età berlusconiana, cfr. R. Cartocci, Voto, valori e religione, in M. Caciagli, P. Corbetta (a cura di), Le ragioni dell'elettore. Perché ha vinto il centro-destra nelle elezioni italiane del 2ooz, il Mulino, Bologna 2002, pp. I6 S-20I. 3I. Sugli atei devoti, cfr. G. Valente, Dall'Action française agli atei devoti, in Riccardi (a cura di), Le Chiese e gli altri, cit., pp. 4n-28. Cfr. anche G. Quagliariello, Cattolici, pacifisti e teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Mondadori, Milano 2oo6. 32. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (zgSg-2on), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. I7S-7·

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conseguenza di diffondere la sensazione di una capacità di influenza della Chiesa in Italia probabilmente inferiore a quella effettivamente esercitata. L'effetto comples­ sivo, tuttavia, è stato quello di suggerire sempre di più una sovrapposizione tra cat­ tolici e centro-destra berlusconiano. Ed è tornata a emergere la sensazione che spesso dove c 'è conflitto ci sia anche subalternità, specie dove c 'è forte divergenza di interessi o di obiettivi, mentre la pace religiosa può favorire non solo la collaborazione tra istituzione ecclesiastica e istituzioni politiche ma anche una maggiore libertà e indi­ pendenza di entrambe e, in definitiva, una migliore accoglienza delle parole e delle posizioni della Chiesa. Nella Seconda Repubblica, accanto a quelli animati dalla C EI, si sono sviluppati anche altri tipi di rapporto tra Chiesa e Stato. Dopo il 1994, il papa e la Santa Sede non hanno mai smesso di guardare con attenzione all ' Italia e sono stati due pontefici non italiani come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a confermare ancora, con la loro opera, quell' italianità del papa che costituisce una delle costanti storiche di tale istituzione. Nel 1994, in un momento molto difficile per la vita del paese, Karol Wojtyla scrisse un messaggio appassionato, esprimendo la sua profonda convinzione riguardo alla vocazione non solo religiosa ma anche storica della nazione italiana e sottolineando l'unità del popolo italiano, che sembrava allora minacciato dal "vento dei Balcani" e dalle proposte secessioniste della Lega Nord. E, pochi mesi dopo, su sollecitazione del papa, la Conferenza episcopale italiana celebrò una solenne pre­ ghiera per l ' Italia. Successivamente, l'orientamento di Giovanni Paolo I I - non sempre condiviso in toto dall 'episcopato italiano - si è manifestato in molti campi diversi, dalla lotta contro la mafia alla mobilitazione per la pace in occasione della Guerra del Golfo e, soprattutto, del conflitto in Iraq. Anche Benedetto XVI ha mostrato attenzione nei confronti dell' Italia, sviluppando un' intensa sintonia con il presidente della Repubblica, Napolitano, e, più tardi, anche con il presidente del Consiglio Mario Monti, da lui più volte incoraggiato pubblicamente. A Bene­ detto XVI si devono anche reiterati inviti per la formazione di una nuova generazione di cattolici italiani impegnati in politica. I gesti e le iniziative di questi due pontefici, di cui non hanno beneficiato specificamente leader o formazioni politiche italiane, in particolare di centro-destra, hanno manifestato simpatia e affetto nei confronti del popolo italiano e sostegno indiretto alle istituzioni politiche rappresentative della comunità nazionale nel suo complesso.

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La stagione della diaspora Nella Seconda Repubblica, i cattolici hanno avvertito molti motivi di disagio, legati alla fine ingloriosa della D C . Nel mondo cattolico italiano è mancata una rielabora­ zione pubblica e collettiva dell'esperienza democristiana e del suo esito. Non sono 200

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stati discussi in modo approfondito - sotto il profilo storico, religioso e politico - gli aspetti diversi e contraddittori delle varie fasi di una lunga stagione che ha segnato in profondità la storia del cattolicesimo italiano, oltre che quella del paese nel suo complesso. Anche l' istituzione ecclesiastica ha mantenuto un complessivo silenzio riguardo a un'esperienza storica in cui pure la Chiesa è stata profondamente coin­ volta. Sono perciò prevalse distanze crescenti e forme di rimozione più che valuta­ zioni critiche. In assenza di un bilancio compiuto delle luci e delle ombre della sta­ gione democristiana, si è finito per proiettare sul passato i problemi del presente. Da parte di molti cattolici, in particolare, sono state attribuite alla D C - più o meno esplicitamente - pesanti responsabilità nella secolarizzazione della società italiana e nell'impoverimento della cultura cattolica che sarebbe stata schiacciata dall'egemonia della politica. A scoraggiare l' impegno in campo sociale e, soprattutto, politico dei cattolici dopo il 1994 ha molto influito un cambiamento generale di cultura e di mentalità che ha accompagnato il passaggio dalla società di massa alla società degli individui, coinvolgendo indirettamente anche le Chiese e i mondi religiosi. Negli anni Settanta, questi erano stati contagiati da una diffusa sensibilità per le questioni politiche e sociali e nel 1976 la Chiesa italiana mise al centro del suo primo convegno nazionale il tema della promozione umana, che esprimeva l 'esigenza di unire all 'annuncio del Vangelo l' impegno sociale e politico. Nel declino di tali spinte, hanno cominciato invece a prevalere altre priorità e si è fatto strada un senso diverso dei compiti propri del credente, più direttamente collegati alla sua specifica identità religiosa. Nel terzo convegno nazionale della Chiesa italiana a Palermo, nel 1995, fu messo in discussione un ruolo assunto dalle Caritas diocesane considerato eccessivo e la priorità della nuova evangelizzazione fu reinterpretata soprattutto in chiave di riproposizione catechetica della verità cristiana. Nel contesto di una riduzione della tensione verso !"'altro" - in precedenza avvertita intensamente dai credenti -, il mondo cattolico ha ridotto anche il suo slancio missionario. Una buona parte del cattolicesimo ita­ liano, in un certo modo, si è "ritirato" dalla storia, sebbene non tutti siano andati in questa direzione. All'assenza di un endorsement della Chiesa nei confronti di un partito politico si sono via via affiancate varie convinzioni, come quelle che la Santa Sede non si dovesse interessare delle vicende italiane, che i vescovi non dovessero entrare nelle scelte politiche, che lo stesso dovessero fare associazioni o movimenti ecclesiali, che i fedeli non dovessero ispirare la loro azione politica a una "matrice" cattolica e che, last but not least, gli elettori cattolici dovessero necessariamente dividersi tra i vari schieramenti politici. Sono questioni diverse ma direttamente o indirettamente influenzate dalla spinta ad allontanarsi il più possibile dall'esperienza della Demo­ crazia cristiana. Così, dopo molti anni in cui la distinzione maritainiana tra la sfera spirituale e quella temporale è stata vista criticamente o addirittura considerata con sospetto da molti ambienti ecclesiastici, è sembrata prevalere un'interpretazione 201

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rigida ed estensiva di tale distinzione. Ma tale interpretazione appare un maritainismo fuori tempo massimo: prescinde, infatti, dall 'orizzonte di cristianità in cui si muoveva Maritain ed esprime non una distinzione ma piuttosto la tendenza a una separazione. La presenza di cattolici in politica non è scomparsa ma è stata complessivamente depotenziata. Senza passare tutti attraverso l'esperienza del Partito popolare, molti ex democristiani e molti cattolici hanno animato l'esperienza dell' Ulivo e/ o sono transitati nella Margherita e infine confluiti nel Partito democratico33• Per quanto riguarda il centro-destra, invece, nelle formazioni promosse da Casini sono entrati alcuni esponenti della DC, mentre altri hanno partecipato alle esperienze di Forza Italia e di AN, per poi entrare nel PDL. In entrambi gli schieramenti, c 'è stato chi ha portato in politica rigore etico e passione ideale e, all ' interno del centro-sinistra, alcuni hanno sostenuto la difesa dei più deboli e la lotta contro la corruzione. Tut­ tavia, pur non scomparendo, la presenza attiva dei cattolici in politica si è comples­ sivamente ridotta e ha assunto una forma frammentaria. La fine del cosiddetto "partito cattolico", inoltre, non ha comportato solo un minore coinvolgimento dell'istituzione ecclesiastica e del laicato cattolico, ma anche una minore propensione ad affermare la specificità di una presenza cattolica in politica. Le due diverse espres­ sioni di « atei devoti » e di « cattolici adulti » - coniate, rispettivamente, da Giuliano Ferrara e da Romano Prodi - sono indicative, da un lato, di un' istituzione ecclesia­ stica che non considera più prioritario il ruolo del laicato cattolico e valorizza piut­ tosto le convergenze sulle sue posizioni di non cattolici e, dall 'altro, di una parte di tale laicato che sottolinea la propria distanza dalla gerarchia in nome della lotta contro l' ingerenza clericale in politica. Le divisioni tra i cattolici hanno contribuito ad alimentare il bipolarismo della Seconda Repubblica, fino al tentativo di utilizzare il conflitto sui temi etici e antro­ pologici per radicalizzare in modo permanente tale bipolarismo. A sua volta, lo schema dello scontro tra due poli ha influenzato il rapporto tra cattolici e politica radicalizzando le divisioni interne al mondo cattolico. La fine del rapporto privile­ giato con un partito ha alimentato il disinteresse del clero per l' impegno politico del laicato e la presenza dei fedeli nei diversi schieramenti ha spinto molti pastori, preoc­ cupati per l'unità della propria comunità, a evitare discorsi sulla politica. È diminuito anche l' interesse per questa di gran parte dell'associazionismo cattolico, mentre la costituzione di scuole di politica in molte diocesi o parrocchie non è stata in grado di contrastare gli effetti negativi di rapporti meno intensi tra partiti e società civile, in termini di mancata formazione di nuovi quadri politici, di minore incidenza delle motivazioni ideali sulle scelte pubbliche e così via. Nella Seconda Repubblica si è gradualmente smarrito il senso di un impegno dei cattolici in politica, i sondaggi hanno registrato una crescente irrilevanza della fede religiosa rispetto alle scelte poli33· D. Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2ou, pp. 187-225. 20 2

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tiche e qualcuno ha teorizzato la necessità di spezzare qualunque legame tra la prima e le seconde. Si è smesso di contare i cosiddetti "voti del cielo". Nel centro-destra, i cattolici hanno finito per giustificare in misura crescente comportamenti moralmente problematici dal loro punto di vista - in primis quelli di Berlusconi - in nome dei vantaggi che ne potevano derivare per la recezione dei loro principi in sede legislativa o per il sostentamento delle loro opere. In tale ambito, qualcuno è giunto persino a teorizzare una separazione completa tra etica e politica, mentre altri hanno utilizzato strumentalmente alcune questioni etiche - soprattutto in campo biomedico - contro lo schieramento avversario. Nel centro-sinistra, invece, molti cattolici sono scivolati lentamente verso posizioni del cattolicesimo del dissenso e altri sono rimasti involontariamente prigionieri di una "questione democristiana" alla rovescia, facendo della scomparsa della DC e dell ' impegno per impedirne la ricomparsa una priorità. E la "contaminazione" fra diverse tradizioni politiche all 'in­ terno del Partito democratico, in particolare quelle degli ex popolari e degli ex comunisti, è apparso sempre di più un amalgama non riuscito. Nel tempo, però, sono cominciate anche a emergere nuove esigenze, che hanno gradualmente spinto i cattolici verso un rinnovato interesse per la politica. Si è infatti acuito un senso di insoddisfazione di gran parte del mondo cattolico verso l'offerta politica disponibile, espressa anche da un crescente disimpegno elettorale, entrambi sintomi di una sorta di silenziosa "opposizione cattolicà' alla Seconda Repubblica. Contemporaneamente, lo sviluppo di nuovi movimenti ecclesiali ha contrastato almeno in parte la tendenza al ripiegamento ad intra e la caduta di spirito missionario, mentre crescevano quelle che sono state definite le nuove "spinte unitive" tra i cat­ tolici. Gli input provenienti dall 'universalismo cattolico - come quelli espressi dal magistero di Giovanni Paolo II - hanno mantenuto aperto l' interesse per le vicende di altri paesi, anche non europei, a differenza di una politica italiana spesso provin­ ciale. L' impegno per i più deboli e in particolare per i lavoratori extracomunitari, sempre più numerosi in Italia, ha posto ai cattolici un problema di crescente incom­ patibilità con forze politiche dichiaratamente xenofobe e razziste o anche semplice­ mente indifferenti ai problemi di queste persone. L'aggravamento della crisi econo­ mica, poi, ha acuito una sensibilità complessivamente incline a considerare criticamente le esaltazioni di una mentalità consumista. E, infine, l'ostentazione di comportamenti immorali, pubblici e privati, ha reso evidente l' insostenibilità, per i cattolici, della tesi di una pretesa irrilevanza del giudizio etico rispetto a tali comportamenti. Indubbiamente importante è stato anche un nuovo atteggiamento delle autorità ecclesiastiche. Come si è già ricordato, a partire dal 2007 papa Benedetto XVI ha iniziato a indicare la necessità che si formasse in Italia una nuova generazione di politici cattolici. Rilevante è stata anche la preoccupazione di questo papa per il progressivo distacco dell' Italia dal contesto europeo. Nel 2 0 1 2 ha condiviso la coster­ nazione, diffusa in Europa, per i comportamenti di Berlusconi, manifestando pub­ blicamente il suo apprezzamento per il governo Monti. La fine della leadership 20 3

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ruiniana della C EI ha inoltre contribuito all'emersione di nuovi orientamenti tra i vescovi italiani. Novità, nel dibattito interno del mondo cattolico, sono cominciate ad emergere in modo visibile nel 2 0 1 1 . Per la prima volta dall' inizio degli anni Novanta, si è ripreso a parlare apertamente di impegno politico dei cattolici, sulla spinta di un disagio sempre più evidente. E stato auspicato il ritorno del Partito popolare di Sturzo ed è stata ricordata l 'esperienza della Democrazia cristiana, per sottolineare l'inadeguatezza dell'offerta politica esistente e per esprimere l'esigenza di nuovi interlocutori politici. Il nuovo interesse dei cattolici per la politica si è inserito nella crisi della Seconda Repubblica, divenendo una delle componenti che hanno spinto per l'apertura di una nuova stagione politica. All'origine di questa evoluzione, più che la nostalgia della DC - certamente presente, seppure in modo declinante, dopo il 19 94, ma non in grado di produrre effetti politici rilevanti - ha influito l 'esasperazione per il declino della politica. La gravità della crisi italiana li ha spinti a interrogarsi nuovamente sulle esigenze del bene comune, una tematica tipica della tradizione cattolica ma di fatto poco frequentata dopo la fine della D C . Si è delineato cioè un riavvicinamento dei cattolici alla politica, non sulla spinta di motivazioni interne ma piuttosto di sollecitazioni esterne; non per tutelare gli inte­ ressi della Chiesa o sulla base di spinte confessionali, ma per affrontare questioni di interesse comune e per risolvere problematiche squisitamente laiche, come gli effetti della crisi economica o i difficili rapporti con l' Europa. Infine, una stagione nuova nel rapporto tra cattolici e politica in Italia si è indub­ biamente aperta con il ritiro di Benedetto XVI e l'elezione di papa Francesco, tra il febbraio e il marzo 2013, proprio mentre si svolgevano le elezioni politiche e si apriva la XVII Legislatura. '

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I cattolici democratici e la fine dell'unità politica dei cattolici di Daniela Saresella

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La nascita della Lega democratica Il referendum del 1 9 74 segnò un momento importante nella storia repubblicana perché la maggioranza degli italiani si dichiarò favorevole al divorzio, a testimonianza «di un mutamento profondo nella mentalità e nel costume » che era ormai in atto nel nostro paese, coinvolto da processi di secolarizzazione che tendevano a logorare la stessa identità di nazione cattolica'. Non tutti i credenti, in quell'occasione, segui­ rono le indicazioni della Chiesa e della DC, tanto è vero che nel febbraio 1974 ( il referendum si sarebbe svolto in maggio ) 88 intellettuali firmarono un appello a favore del divorzio, nel quale facevano riferimento ai valori della convivenza civile e della libertà religiosa, essenziali in una società pluralistica e democratica2• Anche in seguito Pietro Scoppola ha dimostrato di condividere la scelta allora compiuta : «l'idea di imporre con la forza del numero un modello di matrimonio così alto come quello che viene dalla tradizione cristiana mi sembra una forzatura inaccettabile » 3• Contro l'abrogazione della legge si schierarono quei credenti che dal Concilio in poi avevano assunto posizioni critiche nei confronti della Chiesa, come i Cristiani per il socia­ lismo, il gruppo Sette novembre - nato nel 1 9 7 1 con l'intento di trasformare la Chiesa dall ' interno e di riportarla alla sua originaria vocazione evangelica -, oltre a riviste come "Il Regno" di Bologna, "Testimonianze" di Firenze, "Idoc" e "Nuovi Tempi" di Roma, "Il Tetto" di Napoli e "Il Foglio" di Torino4• Parte dei cattolici che si erano schierati per il "no" ed esponenti della sinistra I. P. Scoppola, La fine del partito cristiano, in Dizionario storico del movimento cattolico, diretto da F. Traniello, G. Campanini, Aggiornamento I9S0-I995, Marietti, Genova 1997, p. ISS· Si segnala che, dopo la consegna di questo saggio, è uscito U volume di Lorenzo Biondi La Lega democratica. Dalla Democrazia cristiana all'Ulivo: una nuova classe dirigente cattolica, Viella, Roma 2013. 2. Cfr. G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, societa civile dalla legge al referendum (I9 0S­ I974), Bruno Mondadori, Milano 2007. 3· P. Scoppola, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008, p. 46. 4· D. Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 1 48-so. 20 5

DANI E LA SARES ELLA

democristiana si trovarono nell'ottobre del 1 9 7 5 a Roma - a pochi mesi dalle elezioni amministrative che avevano visto l'affermazione del PCI - nello studio di Luigi Macario, leader della CISL, e stilarono un documento dal titolo Per una proposta di rinnovamento politico, che fu firmato da Piero Bassetti, Ermanno Gorrieri, Lino Bosio, Marino Carboni, Bruno Kessler, Luigi Macario, Ettore Passerin d 'Entrèves, Paolo Prodi, Romano Prodi, Gianpaolo Rossi e Bruno Storti. In esso si dava una valutazione positiva a proposito del risultato delle elezioni del 1 5 giugno, in cui l'elettorato aveva espresso un voto « contro l'autosufficienza di ogni ideologia e di ogni partito » e aveva colpito la DC, per « la sua pretesa di un esercizio esclusivo del potere fondato ancora sull 'anticomunismo » . Il giudizio formulato sul partito catto­ lico risultava severo : « il sottogoverno democristiano non è un mero accidente, o una caduta morale, bensì un modo preciso di gestire un potere costituitosi al di fuori di una idea programmatica sulla crescita dello Stato moderno industriale » . Era neces­ sario dunque un profondo rinnovamento della D C con l'obiettivo di creare una forza popolare capace di concorrere al rinnovamento politico in collaborazione con i par­ titi di sinistra. Grande speranza suscitava in tal senso la segreteria Zaccagnini che stava operando per la moralizzazione del partito, nella consapevolezza che la sua trasformazione avrebbe comportato l 'abbandono di esso da parte dei « ceti parassitari e conservatori » 5• Il s novembre 1 9 7 5 fu organizzato, sempre nella capitale, il Convegno dei cat­ tolici democratici per il rinnovamento dell' Italia, che vide la partecipazione di circa 1 5 0 personé; si trattava di cristiani che, ispirati dall'esperienza di Sturzo e di De Gasperi, da intellettuali come Maritain e Mounier e dalle riflessioni del Concilio, vollero costituire la Lega democratica. Esplicative della dimensione culturale di questi credenti sono le parole di Francesco Traniello, tra i protagonisti di quell'e. spenenza: Quello che accomuna il gruppo è il riconoscimento della permanente validità dei valori cristiani come elemento essenziale di convivenza civile e di dignità personale. Ci fa stare insieme la convinzione che questi valori, per diventare lievito e punto di orientamento poli­ tico e sociale, debbano essere ripensati e riproposti mediante una complessa opera di media­ zione, che mostri attenzione al momento storico, ai segni dei tempi, alle esigenze spirituali e culturali dell'uomo contemporaneo7•

La LD, come già il Partito d'azione, fu - nota Fulvio De Giorgi - un gruppo di generali senza soldati: tra le sue file vi erano Scoppola e Achille Ardigò ( scissi tra il 5· Per una proposta di rinnovamento politico, in P. Bassetti, E. Gorrieri, P. Scoppola, DC: tra rifon­ dazione e secondo partito, prefazione di G. Galli, Contemporanea Edizioni, MUano 1976, pp. 133-75. 6. "Adista", 11-12 novembre 1975. 7· F. Traniello, La Lega democratica a Torino. Ragioni di una presenza, documento s.d., in Archivio Francesco Traniello, Torino. 206

I CAT T O L I C I D E M O CRAT I C I E LA FINE DELL ' UNITÀ P O LI T I CA D E I CAT T O L I C I

postdegasperismo del primo e il postdossettismo del secondo) , i bresciani moderati (Luigi Bazoli e Leonardo Benevolo) e quelli "sociali" (Gianni Landi), i torinesi Franco Bolgiani e Francesco Traniello, e gli emiliani postdossettiani Paolo Prodi, Luigi Pedrazzi, Ermanno Gorrieri; vi era poi il gruppo romano con Nicolò Lipari, Romolo Pietrobelli, Angelo e Paola Gaiotti. Vi aderirono anche intellettuali formatisi nell' Università Cattolica di Milano, come Romano Prodi, Roberto Ruffilli, Luciano Pazzaglia8• L'intervento introduttivo al convegno, affidato a Scoppola, chiariva che l 'inizia­ tiva nasceva dalla crisi della D C : Fanfani aveva portato il partito a scelte « moderate, conservatrici, tendenzialmente aperte a sbocchi autoritari (strategia della tensione largamente utilizzata, campagne elettorali fondate quasi esclusivamente sul più vec­ chio anticomunismo, dequalificazione progressiva dell'elettorato moderato ... ) » . L'intellettuale romano, pur riconoscendo i progressi fatti dal PCI, riteneva però non opportuno uno spostamento del voto cattolico verso quel partito, « legato a premesse ideologiche non facilmente componibili con la fede cristiana » . Lanciava così la proposta di creare « un movimento di cultura e di mobilitazione popolare alla base del paese che formul [asse] una autentica proposta politica di ispirazione cattolico democratica che con la sua esistenza sfid [asse] e condizion [asse] dall'esterno, da posizioni autonome di forza, la D C e il suo processo di rinnovamento » 9• Il convegno di fondazione si concluse con la stesura di un documento che affer­ mava la necessità « di promuovere, come impegno autonomo e permanente, una mobilitazione della periferia per la ricerca e il dibattito culturale, per l 'elaborazione di proposte in ordine ai problemi dello sviluppo civile, sociale ed economico, per la partecipazione attiva nelle istanze della democrazia di base » 10• La Lega intendeva rivolgersi ai cattolici critici nel confronti della DC, a coloro che avevano deciso di rimanere nel partito con l'obiettivo di rinnovarlo e ai democratici di ispirazione laica interessati a una sinistra non ideologicau : la convinzione era che la città politica dovesse essere costruita da tutti, dando ognuno il proprio contributo che non poteva prescindere dalle differenti opzioni ideologicheu. L' impressione di molti era che la Lega, al di là delle dichiarazioni che prospet­ tavano un orizzonte politico e culturale non limitato al partito cattolico, fosse un

8. F. De Giorgi, L'esperienza della Lega democratica e la storia di ':Appunti", in "Appunti di Cultura e di Politica", xxx, 2008, 4, pp. 23-9. 9· P. Scoppola, L'intervento introduttivo, in Convegno dei cattolici democratici: per una proposta di rinnovamento politico (Roma, 5 novembre I975), pp. 24-9, in Archivio storico dell' Istituto Luigi Sturzo (d'ora in avanti AS I LS ) , Archivio Pietro Scoppola (d'ora in avanti A PS ) , serie v, b. 6o, fase. s u. IO. Cfr. L. Pazzaglia, La Lega democratica e l'incubazione di ':Appunti di Cultura e di Politica", in "Appunti di Cultura e di Politica", xxx, 2008, 4, pp. 7-I3. I 1. Cfr. G. Tassani, Nuovi movimenti e politica in area cattolica, in Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento I9SO-I995· cit., pp. 178-80. 12. M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia (I945-2ooo), Dehoniane, Bologna 2001, p. 128. 207

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gruppo che intendeva appoggiare il rinnovamento intrapreso da Zaccagnini. La poli­ tica della LD doveva essere dunque chiarita, e Michele Dau, in una lettera ai militanti del luglio 1976, sottolineò come il comitato esecutivo avesse ritenuto opportuno riprendere i contatti con coloro che - come Pierre Carniti, Domenico Rosati, Emilio Gabaglio - si erano mostrati critici di fronte alle posizioni troppo favorevoli alla linea di rifondazione della D C . L'impegno per il rinnovamento del partito dei cat­ tolici aveva infatti spesso sacrificato quello che era l 'obiettivo iniziale: « discorso culturale e aggregazione autonoma di base » 13• Il secondo convegno della LD venne organizzato sempre a Roma il 1 6-17 ottobre 1976: in platea, come osservatori, erano presenti Raniero La Valle e Piero Pratesi, oltre a colui che viene considerato il "padre spirituale dell 'operazione", il direttore della "Civiltà Cattolica" padre Bartolomeo Sorge. Nel congresso si decise di accan­ tonare il tema della rifondazione della DC e di privilegiare un impegno volto a diffondere capillarmente la cultura cattolico-democratica: la scelta era indotta dall 'avvicinamento alla Lega di Pierre Carniti e di altri esponenti della sinistra della C I S L , che guardavano con simpatia al PSI, dal luglio del 1976 guidato da Bettino Craxi14• L'incontro fu aperto da una relazione di Ardigò, nella quale il sociologo espresse le sue perplessità sia sulla costituzione di un secondo partito cattolico, sia sulla capa­ cità della DC di rinnovarsi, proponendo di operare in una sfera di progettazione e di azione culturale; scettico nei confronti dell'intraprendenza socialista, prospettava un'azione comune tra DC e PCI volta a operare una «correzione del compromesso tra capitalismo e libertà » , nella prospettiva di una società più giusta e umana15• Anche Pedrazzi nel suo intervento dimostrava di apprezzare la «politica del confronto » che vedeva protagonisti Berlinguer e Zaccagnini ( con Moro ) . La Lega, a suo parere, doveva promuovere tali aperture, perché l'obiettivo era « costruire una democrazia sostanziale e partecipata » 16• "Avvenire" individuava però differenze tra le posizioni di Pedrazzi e di Ardigò : infatti « il primo è assai vicino ai cattolici del dissenso, il secondo invece colloca la linea d 'azione del movimento nel quadro della partecipazione e del pluralismo, lungo il filone della tradizione cattolico-popolare » . Vicino ad Ardigò veniva posto Scoppola, che non aveva mancato di evidenziare la distanza rispetto ai cattolici del dissenso, e aveva espresso la sua fiducia per gli esiti del convegno ecclesiale 1 3. Lettera di Michele Dau agli amici della Lega, Roma, 5 luglio 1 976, in A S I LS, A PS, serie v, b. 6o, fase. 5 1 3. 14. Pazzaglia, La Lega democratica e l'incubazione di ':Appunti di Cultura e di Politica", cit., pp. 9-11. 15. La relazione si trova in Atti del convegno nazionale (Roma, IO-I7 novembre 1976), Segreteria nazionale della Lega democratica, Roma 1976, pp. 23-44. 1 6. L. Pedrazzi, Proposte per un dibattito interno alla Lega, Convegno nazionale della Lega demo­ cratica, Roma, 1 6-17 ottobre 1976, in A S I LS, A PS, serie v, b. 6o, fase. 5 12. 20 8

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Evangelizzazione e promozione umana, che si sarebbe tenuto dal

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ottobre al

novembre'7• Durante l'incontro, che evidenziò la determinazione di Paolo VI di porre al centro della riflessione il primato dell'evangelizzazione, significativa fu la presenza dei cattolici democratici, tanto è vero che il presidente della CEI, il cardinale Enrico Bartoletti, designò Ardigò e Paola Gaiotti membri del Comitato promotore, e tra i relatori ufficiali scelse Scoppola e Lipari. Posizione di rilievo nel convegno furono ricoperte anche da Giuseppe Lazzati e da padre Sorge il quale, in qualità di copresi­ dente, ebbe anche il compito di tracciare le conclusioni dei lavori. Il gesuita in quell'occasione affermò che l'integralismo rappresentava il « tarlo del Vangelo » in quanto scavava nelle sue pagine e se ne nutriva, « ma per corroderlo a proprio uso e consumo e poi distruggerlo » . Poi precisava: 4

Non ho mai sostenuto la fondazione di un secondo partito cattolico, perché mi pare impro­ ponibile. Mi sono sempre impegnato per la rifondazione della DC, perché torni al suo spirito popolare, autentico dell' ispirazione cristiana, abbandonando senza paure connivenze o scelte discutibili. Se questa rifondazione non si realizzasse sarà difficile che il mondo cattolico non ipotizzi una nuova organizzazione politica'8•

Nei cinque giorni di discussione all' EUR emerse che - come affermava Sandro Magi­ ster - « il pluralismo culturale, politico e anche ideologico » rappresentava « una realtà incomprimibile » che investiva « il corpo centrale della cattolicità italiana » '9• Protagonisti furono soprattutto gli intellettuali di matrice culturale cattolico-liberale che aveva messo all'angolo l 'aggressivo intransigentismo di Comunione e liberazione, rappresentato in quell 'occasione da Rocco Buttiglione, oltre che da Luigi Negri e Angelo Scola. Paola Gaiotti ammetteva che il comitato costituito nel luglio 1974 per organizzare il convegno comprendeva esponenti che nel novembre 1975 sarebbero confluiti nella LD ma, specificava, per sgombrare il campo da equivoci, «la Lega, proprio per il suo carattere laico, non vuole essere un segno, una figura, una esperienza propedeutica alla comunione ecclesiale, né è portatrice di un progetto proprio di Chiesa alternativo ad altri progetti » 20• In un' intervista sul foglio "Per la terza ne", Scoppola volle poi pre­ cisare che il convegno non aveva tolto legittimità al partito cattolico e che la rivendi­ cazione del pluralismo significava la legittimazione per i credenti di compiere « scelte diverse purché coerenti con la loro fede » ; soprattutto durante la discussione nessuno I7. Per una animazione cristiana della politica, in "Avvenire", 19 ottobre 1976. 1 8. L. Fumo, La Chiesa: i cattolici, a titolo personale, possono aderire ai partiti non-cristiani, in "La Stampa� s novembre 1976. 19. S. Magister, La Chiesa di vetro, in "l 'Espresso", 46, 14 novembre 1976, pp. 32-4. 20. P. Gaiotti, Alcune osservazioni sul Convegno "Evangelizzazione e promozione umana", in "Lega Democratica. Agenzia stampa", I, 1, 7 dicembre 1976. 209

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aveva voluto escludere che i cattolici si potessero coordinare « in una scelta politica o in un partito » che nascesse da una tradizione culturale di ispirazione cristianall. Nel periodo successivo all 'incontro romano, la mobilitazione del mondo catto­ lico continuò : nel giugno 1977 presso la sede di "Civiltà Cattolicà' padre Sorge riunì i responsabili dei movimenti e delle associazioni per discutere sul ruolo dei credenti nel nostro paese. In questa occasione si avviò con forza il progetto di una "ricompo­ sizione" cattolica22; poi, a partire dall'autunno, iniziarono gli incontri romani presso l' istituto Tra noi, nelle vicinanze del Vaticano, che si sarebbero protratti per quattro anni. L' iniziativa vide l'adesione anche della Lega, e Pazzaglia ricorda come Lazzati, rettore dell' Università Cattolica del Sacro Cuore, preoccupato di non coinvolgere l' istituzione ma interessato al progetto, lo avesse pregato di partecipare alle iniziative e poi di riferirgli della discussione. Nel 1977 Lazzati decise di dedicare il corso di aggiornamento, che si sarebbe svolto a Verona, al tema della laicità, da poco definito e recepito dal Concilio : il rettore, preoccupato perché nella Chiesa continuavano a persistere atteggiamenti integralisti13, volle affidare le relazioni, oltre a professori dell'ateneo, anche ad Ardigò, Ruffilli, Scoppola e Traniello, provocando la reazione dei cattolici più conservatori che lo accusarono di voler appiattire l'università sulle posizioni della Lega14• Nel 1978 il gruppo diede vita ad ''Appunti di Cultura e di Politica" : la rivista era diretta da Scoppola, che contemporaneamente era anche presidente della LD, affian­ cato come direttore responsabile da Angelo Gaiotti. ''Appunti" mostrò da subito l' inclinazione per interessi politico-istituzionali ed economici più che ecclesiali e divenne espressione della cultura politica della "terza fase" di Moro15, anche se gli storici Franco Bolgiani e Paolo Prodi non mancarono di far sentire il loro dissenso verso quella che definivano una linea di appiattimento sulla D C . L'editoriale del primo numero, firmato da Paola Gaiotti De Biase, e intitolato La terza fase, faceva riferimento alla politica dello statista democristiano da poco scomparso, apprezzato in quanto « teorico dell'allargamento della democrazia » , che si era adoperato per « una semplificazione rozza della dialettica politica » 16• Anche Paolo Prodi interve­ niva chiarendo di intravvedere per la DC un futuro solo se avesse recuperato la for­ mula degasperiana « del partito che si muove dal centro verso sinistra » , verso riforme 2I. Dichiarazione di Pietro Scoppola in merito al convegno "Evangelizzazione e promozione umana",

in "Per la terza n e ", 39, 26 novembre I 976, pp. 2-3. 22. Cfr. B. Sorge, La "ricomposizione" dell'area cattolica in Italia, Città nuova, Roma I979; Id., Dibattito sulla "ricomposizione" dell'area cattolica in Italia, a cura di B. Sorge, Città nuova, Roma I991. 23. Cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernita nell'Italia del 9oo, Il Margine, Trento 2008, pp. I 3S-7· 24. Pazzaglia, La Lega democratica e l'incubazione di ':Appunti di Cultura e di Politica", cit., pp. 7-I3. 2s. Cfr. Formigoni, Alla prova della democrazia, cit., pp. I89-202. 26. P. Gaiotti, La terza fase, in "Appunti di Cultura e di Politica", I, I97 8, I, pp. I-3· 210

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profonde che incidessero sull'organizzazione dello Stato, «per la realizzazione di una Repubblica fondata sul lavoro, contro la rendita e il parassitismo » 27• Nell'analisi di Prodi palese era il tentativo di guardare al di là della D C e, se giudicava che in quel momento la diaspora politica dei cattolici non rappresentasse « una soluzione con­ creta » , riteneva che nel lungo periodo la linea non potesse che essere quella del confronto e della collaborazione con tutta la sinistra28 •

2 Verso gli anni Ottanta Pur nella diversità delle posizioni, ciò che accomunava i cattolici della Lega era il sentirsi figli dell 'esperienza conciliare: giudicavano un valore positivo la laicità moderna dello Stato ed erano convinti di dover sostenere la lotta delle classi meno abbienti e dei lavoratori per un'uguaglianza dei diritti politici e sociali; ma soprat­ tutto ritenevano che il vero pericolo per il cristianesimo non provenisse dal comu­ nismo e dalla cultura laica di ascendenza risorgimentale, bensì fosse rappresentato dai processi di secolarizzazione indotti dalla società dei consumi e dall 'introdursi anche nel nostro paese dall' american way of lifè, tesi che Scoppola sostenne anche nel libro La «nuova cristianita» perduta, pubblicato da Studium nel 198529• Durante la prima fase la Lega si pose, come abbiamo visto, a sostegno della politica di "solidarietà nazionale", che però dopo la scomparsa di Moro mostrò dif­ ficoltà di attuazione. Del resto, l'uccisione dello statista nel 1978 rappresentò una svolta per la politica italiana e anche per il mondo cattolico democratico : le BR solo apparentemente uscirono vincitrici dal braccio di ferro con lo Stato, perché da quel momento sarebbe iniziata la loro fase discendente e i pochi consensi che potevano vantare nel paese si sarebbero ridimensionati ulteriormente. L'organizzazione avrebbe però continuato la sua strategia con l 'uccisione nel 1980, nei pressi della Facoltà di Scienze politiche di Roma, mentre era in compagnia della sua assistente Rosy Bindi, di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, intel­ lettuale da sempre impegnato nel rinnovamento dell'Azione cattolica, di cui era stato presidente30• La conclusione nel nostro paese delle intese tra masse cattoliche e comuniste è da far risalire al XIV Congresso della DC che si tenne nel febbraio 1980, quando fu votato a maggioranza un testo, elaborato da Carlo Donat-Cattin e da Arnaldo For-

27. P. Prodi, Appunti, ivi, pp. 4-7. 28. Ibid. 29. Cfr. G. Frosini, Pietro Scoppola. Un cristiano del nostro tempo, EDB, Bologna 20I2, pp. 54-64. 30. A. Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2oo8, pp. I94-S· 211

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lani, ma appoggiato da Antonio Bisaglia, Flaminio Piccoli e Mario Segni, che ribadiva la necessità di tornare a escludere il PCI dall'area di governo. Con gli anni Ottanta si apriva così una nuova fase della storia della DC, «caratterizzata da un declino progressivo del partito » 3\ che assunse evidenza quando il mandato di presidente del Consiglio, per la prima volta nella storia repubblicana, fu conferito a un non demo­ cristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini. Fu in questo contesto che, in nome della questione morale, componenti molto diverse tra loro come la Lega democratica e il Movimento popolare ( nato nel 1975 come espressione politica di CL ) chiesero una profonda rifondazione del partito e un mutamento della leadership32• Il 1981 fu l'anno in cui l ' Italia fu chiamata al voto per esprimersi sui due refe­ rendum sull'aborto, dopo che nella primavera dal 1978 era stata approvata dal Par­ lamento la legge 194; seguendo le indicazioni della Santa Sede i cattolici democratici - pur con le precisazioni già espresse da Carlo Alfredo Moro33 - si orientarono a favore del diritto alla vita34• Del resto Scoppola, nella sua intervista-confronto con Giuseppe Tognon, non ha mancato anche negli ultimi anni di rivendicare sia la giustezza della sua scelta controcorrente in occasione del quesito referendario del 1974, sia la sua convinzione che l'aborto fosse "un'altra cosà': « ritenevo e ritengo anche oggi efficace e inutilmente persecutoria nei confronti della donna qualsiasi sanzione penale; ma ritenevo inaccettabile l ' ipotesi prevista dalla legge di un diritto della donna all 'aborto in strutture pubbliche » 35• Nel mese di aprile l'Assemblea nazionale della DC riconobbe poi la necessità di aprire un confronto con esponenti del mondo cattolico : dopo cinque incontri pre­ paratori, a novembre si svolse il convegno conclusivo, a cui parteciparono anche esponenti della Lega. Ardigò, invitato all'Assemblea della DC ( che si tenne a Roma dal 25 al 29 novembre 1981) dal presidente Forlani, consigliava quel partito di fare «della ricarica di energie nello scambio creativo con l'ambiente il tratto caratteriz­ zante della sua azione » : doveva assumere nuova linfa dall'associazionismo cattolico, dalla società civile, dai giovani. Riteneva dunque fosse auspicabile nella D C « la pre­ senza impegnata e leale di esterni del mondo cattolico, di uomini di cultura, di sapere, di azione volontaria e del mondo del lavoro » 36• Il rischio paventato però da Scoppola era quello che gli « esterni » che si erano impegnati nella DC, sostenitori dell ' « iden31. A. Giovagnoli, La Democrazia cristiana dal zgSo al I994 · in Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento zgSo-I995, cit., pp. 146-7. 32. Ibid. Cfr. Id., Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 201 1, pp. 179-80. 33· c. A. Moro, Una proposta sull'aborto, in "il Mulino", XX IV, 197S· 237· pp. s-2s. 34· G. Scirè, L 'aborto in Italia. Storia di una legge, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 89-9s ; Giovagnoli, Chiesa e democrazia, cit., pp. 1 6 8-70. 3S· In proposito cfr. anche P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell'Italia unita. Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 148. 36. A. Ardigò, Cio che ho detto all'assemblea DC, in "Appunti di Cultura e di Politica", IV, 1981, 12, pp. 14-7· 21 2

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tità cristiana del partito » e della cosiddetta « cultura della presenza » , potessero tenere troppo bassa la soglia delle condizioni richieste37• Del resto, rispondendo alle sollecitazioni di Tognon, Scoppola, molti anni dopo, sostenne che il rinnovamento della DC e l 'esperienza degli esterni fosse « al limite dell' impraticabile: ci muovevamo spe contra spem » . Di fatto chi aveva creduto in quell 'esperienza si era illuso perché « la D C ha dimostrato di non essere in grado di rinnovarsi » 38• La Lega sostenne la candidatura alla segreteria di Ciriaco De Mita durante il xv Congresso della DC del 1982. La rivista ''Appunti" manifestò infatti attenzione e speranze a proposito della svolta della Democrazia cristiana, perché il partito aveva sconfessato l' idea di un raggruppamento conservatore e si era espresso per il rinno­ vamento : era così stato seppellito il doroteismo e recuperata «la parte più politica­ mente nobile e aperta » della tradizione politica cattolica, con la realizzazione « della amministrazione e della tattica » dell 'eredità morotea39• La collaborazione tra gli intellettuali della Lega e la DC divenne così assai stretta e De Mita volle presentare alcuni di loro nelle elezioni del 1983 - Ruffilli, Scoppola e Lipari vennero eletti in Senato, con il disappunto di Ardigò -, e intese coinvolgerli nella redazione di pro­ poste per riforme di carattere istituzionale. Scoppola e Ruffilli si posero l 'obiettivo di realizzare un patto con il PCI per difendere la Costituzione e allargare la demo­ crazia, ma il tema istituzionale in quegli anni fu oggetto di un inconcludente dibat­ tito tra le forze politiche, utilizzato più come risorsa tattica che come strategia per superare la crisi politica e dello Stato : così, durante i sette anni della segreteria di De Mita, nell 'anno della sua presidenza del Consiglio e durante la gestione di Mino Martinazzoli del ministero delle Riforme istituzionali, durante il VII governo Andreotti, la DC e la sua componente di sinistra non furono in grado di realizzare alcuna riforma istituzionale40• Contro De Mita si allearono nel partito tutti coloro che erano ostili alle riforme, che implicavano una politica di coalizione che anticipasse il programma della propria alleanza4', e tutti coloro che intendevano « chiudere con il passato del movimento cattolico, con il degasperismo, la solidarietà democratica, gli archi costituzionali, le unità nazionali, l'economia mista » 42• Il coro era guidato in particolare dal settima­ nale ciellino "Il Sabato", sulle cui pagine Roberto Formigoni, sostenitore del Penta-

37· P. Scoppola, Dopo l'assemblea della DC, ivi, pp. I7-9· 38. Id., La democrazia dei cristiani, cit., pp. ISI-2. 39· A. Ardigò, Un congresso efficace, in "Appunti di Cultura e di Politica� v, I982, s. pp. 4-6. 40. G. Brunelli, Nel tramonto della DC. Chiesa e unita nazionale, in Chiesa in Italia I993· Anna/e de Il Regno, EDB, Bologna I994· pp. 92-3. Sull' importanza per la D C delle elezioni del I983, cfr. M. S. Piretti, Per una geografia dei cattolici in politica, in Cristiani d'Italia. Chiese, societa, stato, zS6z-2ou, a cura di A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2ou, p. 77S· 41. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (z94s-zggo), il Mul ino, Bologna 1991, pp. 399- 423. 42. R. Orfei, Gli anni di latta (osservazioni sull'epilogo della DC), Marietti, Genova 1998, p. 13S· 21 3

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partito, e convinto della necessità di favorire la collaborazione « con le realtà più aperte della cultura laica » , individuava invece nei socialisti interessanti interlocutori perché comune era il progetto « di autogestione della società civile ai nuovi fronti della solidarietà » . Dal punto di vista politico, Formigoni dichiarava la sua preferenza per Andreotti che aveva insegnato la « saggezza di una concezione della politica non come dominio sulla realtà o come forzatura delle diverse posizioni, ma come ricerca di un equilibrio nel rispetto di ciascuno » . La sua era un'idea della politica « in cui la concezione cristiana ha il suo posto, non come riferimento astratto ma nelle scelte e nei risvolti concreti » 43. Nel 1982 la Lega, trasformatasi da cooperativa in associazione, venne presieduta da Paolo Giuntella; dal 19 84, poi, da Paola Gaiotti. In occasione dell'A ssemblea nazionale del 1985 riemersero i dubbi sull' "eccessiva" vicinanza di alcuni suoi esponenti al partito cattolico, già espressi negli anni precedenti da Ardigò e dai giovani riuniti intorno a Paolo Giuntella; ora le critiche venivano esplicitate da Pedrazzi che si lamentò dell'alto prezzo «pagato alla militanza tradizionale di molti di noi alla DC»44• Ancor più radi­ cale, in quell'occasione, si dimostrò De Giorgi il quale, dopo aver evidenziato « la degenerazione del sistema politico » a cui era andata incontro la nostra democrazia, prospettò la necessità di costituire un grande partito del lavoro, comprendente la cul­ tura comunista, socialista, laico-democratica e cattolico-democratica: doveva essere un partito « europeista ma non fino al pragmatismo privo di tensione morale e di proget­ tualità ideale innovativa, a struttura policentrica e federativa pur con istanze decisionali unitarie e tuttavia sempre libere e palesi, senza centralismo democratico » 45• Paola Gaiotti definì tale ipotesi « suggestiva » ma non realizzabile, visto che né PCI né DC erano in una crisi irreversibile e tanto meno sul punto di disgregarsi46•

3 Cattolici democratici e cattolici integralisti Nell'ambito del cattolicesimo democratico è da segnalare, nell'ottobre 1985, la fon­ dazione da parte di Lazzati dell'associazione milanese Città dell'uomo, a cui colla­ borarono Leopoldo Elia, Luciano Pazzaglia, Giuseppe Glisenti, Ettore Massacesi, Giorgio Pastori, Marco Ivaldo, Luigi Pizzolato, e che si poneva in continuità con l'esperienza della rivista "Cronache Sociali". L'idea che animò l'iniziativa era che i cattolici si dovessero adoperare per il rilancio e la diffusione di una nuova cultura

43· R. Formigoni, Cattolici e partiti. I voti alla politica, in "Il Sabato", x , 1987, IS, pp. 3-4. 44· L. Pedrazzi, Vi propongo cinque decisioni, in "Appunti di Cultura e di Politica", VII, 198s, 4, pp. 30-2. 4S· F. De Giorgi, Tre provocazioni per rifondare la sinistra, ivi, pp. 3 3-6. 46. Id., L'esperienza della Lega democratica e la storia di ':Appunti", cit., pp. 23-9. 214

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politica che avesse a cuore la persona e la democrazia, e che approfondisse i «principi personalistici della Costituzione » 47. Lazzati definì l'associazione « un servizio cultu­ rale-politico » per « aiutare l 'elaborazione, la promozione e la diffusione di una cultura politica capace di rispondere alle esigenze di una più illuminata, creativa, partecipata presenza dei cristiani nella polis » : concezione cristiana dell 'uomo e del mondo, senso della distinzione fra i valori specificamente religiosi e quelli politici, fedeltà ai principi della Costituzione italiana dovevano essere gli elementi caratteriz­ zanti. L'ex esponente della sinistra dossettiana, in polemica con CL, specificava che era necessario uscire dall' ipotesi di una « nuova cristianità » e che bisognava coniu­ gare lo « specifico cristiano » con « l ' individuazione e l 'attuazione dell'autentica­ mente umano » 48. Le prospettive politiche e religiose sostenute da questi intellettuali entrarono presto in conflitto con un'altra area culturale attiva nella Chiesa di quegli anni e cioè quella di Comunione e liberazione, che accusò i cattolici democratici di essere diven­ tati "catto-comunisti" e di essersi convertiti al marxismo. A differenza di costoro, che intendevano rivendicare una dimensione spirituale in un mondo incline ai valori materiali, i tradizionalisti giudicavano che con la fine delle ideologie totalizzanti si potessero aprire spazi per un nuovo ruolo pubblico del cristianesimo e rifiutavano di fatto la separazione tra sfera pubblica e sfera della fede, tra la « città dell'uomo » e la «città di Dio » 49. Aurelio Molteni ( esponente della LD e vicino a Bassetti ) sosteneva infatti che esistessero due distinte modalità di concezione del verbo cristiano, una che poneva « l'accento sul dato ideologico, sul complesso di verità storicamente determinate » , da cui intendeva « derivare ogni singola decisione » , mentre l 'altra - quella appunto dei cattolici democratici - era « incline ad intendere la religione come "summa" di valori » , da « incarnare in ogni contesto storico-culturale » . Molteni esplicitava la sua critica nei confronti del progetto "organicista" di Comunione e liberazione, che individuava la « communitas » come luogo privilegiato di incontro fra società e potere e come cellula di una più vasta «societas christiana »50• Molteni volle poi chiarire il senso della laicità per i cattolici democratici: 47· L. Pizzolato, Alle origini di Citta dell'uomo, in G. Formigoni, L. Pizzolato, Giuseppe Lazzati e il progetto di "Citta dell'uomo", In Dialogo, MUano 2002, pp. 2I-46. 48. G. Lazzati, Introduzione, in AA .VV. , I cristiani per la citta dell'uomo. Seminario di studio dell:Associazione Citta dell'uomo, In Dialogo, Milano I986, pp. 7-9. Cfr. anche L. Caimi, Ai soci e agli amici di Citta dell'uomo, in "Appunti di Cultura e di Politica� xxx, 2008, 4, pp. 4-6. L'associazione Città dell'uomo, che ancor oggi esiste ed è attiva, dal 200I si occupa della pubblicazione di una nuova serie di "Appunti". 49· G. Quagliariello, Cattolici, pacifisti, teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Mondadori, MUano 2006, pp. 3s-6; M. DamUano, Il partito di Dio. La nuova galassia dei cattolici italiani, Einaudi, Torino 2006. so. A. Molteni, La terza via, in "Circolare interna dei Gruppi di rifondazione", n. 43, 16 dicembre 1976, in Archivio Piero Bassetti, MUano, scatola 1 37, Gruppi di Rifondazione D C (197 5-77 ) . 215

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Noi che abbiamo sperimentato la riconciliazione fra Dio e il mondo, rechiamo un 'analoga ispirazione nei rapporti tra corpo e anima, fra Stato e Chiesa, fra uomo e uomo. Il mondo ci è confidato perché abbiamo ad operarvi in termini politici, nel superamento di ogni distinzione fra giudeo e gentile, fra libero e schiavo, fra uomo e donna5•.

Anche Bassetti non mancava di intervenire sull 'argomento, dichiarando di avere « seri dubbi » sulla validità concettuale delle posizioni di CL: Dire che il problema per i cattolici è di riscoprire la sufficienza della dottrina cattolica rispetto all'organizzazione della società, e quindi possibilità di vivere la fede in termini politici senza mediazioni, in linguaggio politico si chiama integralismo : chiunque lo pratichi genera intol­ leranza5 2 .

Un'analisi critica dei caratteri dell'organizzazione di don Luigi Giussani veniva for­ mulata anche da Valerio Onida, che ne metteva in evidenza « la nostalgia per la "societas christiana" » e l'ostilità per le forme di organizzazione sociale e politica nate dalle rivoluzioni dell'età contemporanea, la contrapposizione al pensiero moderno, la chiamata a raccolta dei cattolici perché rivendicassero la propria diversità e identità. Il contenuto di tali proposte era considerato « inaccettabile » dal costituzionalista, che rivendicava la separazione tra ambito spirituale e temporale, e sosteneva che « la fede è il luogo dell'assoluto, della certezza e del mistero, l 'esperienza sociale è il luogo del relativo, del problematico, dell 'opinabile, dello storicamente conoscibile » . Dunque il cristiano non poteva trarre dalla propria fede alcuna posizione di preco­ stituita sicurezza nella comprensione storica dei fatti53. Gli intellettuali cattolici democratici, insomma, non mostravano simpatia nei confronti dell'affermarsi di concezioni integraliste all'interno della Chiesa e si dichia­ ravano scettici nei confronti di una fede che si manifestava e si riduceva al numero degli iscritti e dei presenti, ma soprattutto condannavano tali aggregazioni, e in particolare CL, perché compattavano sulla base dell'individuazione di un nemico54• Analogamente, intervenendo a proposito del Movimento popolare, lo storico della Chiesa Franco Bolgiani - esponente della LD torinese - rilevava come esso ricercasse «prioritariamente l' identità politica » considerata diretta emanazione «di una identità di fede » , compiendo una lettura « della fede ispirata ad una singola, S I. Id., Le tre culture, in "Per la terza D C. Circolare interna dei Gruppi di rifondazione", n. 48, 8 febbraio I977• ivi, scatola 138, Gruppi di Rifondazione DC ( I97S-77 ). 52. P. Bassetti, Arretrati rispetto al Concilio, in "Circolare interna dei Gruppi di rifondazione", n. 1 1, 8 gennaio I 976, ivi, scatola I37, Gruppi di Rifondazione D C ( I97S-77 ) . 53· V. Onida, La crisi di identita politica dei cattolici italiani: le risposte di Comunione e liberazione e della Lega democratica, in G. Gualerni (a cura di), I cattolici degli anni '7o, Mazzotta, Milano I977, pp. 85-I24. 54· P. Gaiotti De Biase, Riaggregazione cattolica, in "Appunti di Cultura e di Politica", II, I979· 3, pp. 34-6. 216

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assai parziale e comunque discutibile teologia » , lontana dal martiniano « distinguere per unire » , e proiettata semmai al suo contrario, « l'unire per distinguere » . CL e il Movimento popolare, dunque, consideravano « la fede come elemento unificante essenziale sul terreno politico » : ciò implicava « un esito integralistico o quantomeno un rischio integralistico assai accentuato » 55• Lo scontro tra CL e i cattolici democratici assunse caratteri assai duri e i motivi di contrapposizione tra Lazzati, rettore dell' Università Cattolica dal 1968 al 198356 e "padre nobile" del gruppo, e don Giussani, si accentuarono. Non bisogna del resto dimenticare che già nel 1966 Lazzati, presidente dell'Azione cattolica diocesana di Milano, si era lamentato con l 'arcivescovo Giovanni Colombo per le posizioni inte­ graliste assunte da Giussani e per la pretesa di questi di considerare il suo movimento come sola rappresentanza dei cattolici nel sociale. Nel 1987, poi, Antonio Socci e Roberto Fontolan scrissero una serie di articoli sulla rivista "Il Sabato" in cui attac­ carono i cattolici democratici, la Lega, i dossettiani, Lazzati, padre Sorge, la FUCI, la dirigenza dell'Ac, gli indipendenti cattolici nelle liste del PCI, i basisti, i tecnici demitiani come Prodi e Andreatta, tutti rei di aver permesso l'affermazione nel nostro paese di una cultura laicista57• Socci e Fontolan si scagliavano contro Scoppola e padre Sorge ( che insieme a padre Ennio Pintacuda aveva aperto a Palermo nel 1986 il Centro padre Arrupe, al fine di formare una nuova generazione di cattolici impegnati in politica58 ) per aver difeso il pluralismo dei cattolici nella scelta politica e di conseguenza per aver avallato la decisione di quei credenti che avevano ritenuto opportuno presentarsi come indi­ pendenti nelle liste del PC I . Ma gli attacchi più duri furono rivolti a Lazzati (deceduto nel 1986 ) e ciò portò alcuni esponenti della Rosa bianca ( un gruppo che riuniva i giovani della LD ) 59 a presentare, nel 1987, un esposto all'arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini per tutelare, in base ai canoni 220 e 1390 del vigente Codice di diritto canonico, la buona fama di Lazzati, accusato dal "Sabato" di aver contribuito alla corrosione protestante del cattolicesimo italiano60•

55· F. Bolgiani, relazione al I Convegno piemontese della Lega democratica, 27 marzo I982, in Archivio Francesco Traniello, Torino. 56. A. Oberti, Lazzati e l'Universita Cattolica: da una testimonianza per la causa di beatificazione, in G. Alberigo ( a cura di) , Giuseppe Lazzati (I909-I936). Contributi per una biografia, il Mulino, Bologna 2000, pp. 2I3-28. Nel I983, Lazzati fu costretto a lasciare il rettorato a seguito delle forti opposizioni che erano montate in ateneo sul suo operato e per gli appoggi che queste riuscirono a ottenere presso la Curia romana. 57· Gli articoli furono poi ripubblicati in A. Socci, R. Fontolan, Tredici anni della nostra storia, prefazione di A. Del Noce, Editoriale italiana, Milano I988. 58. Cfr. B. Sorge, La traversata. La Chiesa dal Concilio Vtzticano II a oggi, Mondadori, Milano 2oio, pp. 148-51. 59· Cfr. G. Colombo, Le parole della Rosa bianca, in "Aggiornamenti Sociali", LVII, 2006, 2, pp. 150-8. 6o. Cfr. D. Menozzi, La Chiesa italiana e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 232-63. 217

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La difesa di Lazzati fu senza tentennamenti perché, spiegava Paolo Ghezzi sulla rivista trentina "Il Margine", non era possibile astenersi dallo scontro quando in gioco sono questioni di fondo, interpretazioni chiave, valori irrinunciabili (e persone che li hanno incarnati) della tradizione cattolico-democratica nel cui solco ci inne­ stiamo, e che fornisce ancor oggi coordinate essenziali e strumenti culturali a chi si pone il problema di un impegno civile e di un'etica politica con un briciolo di utopia evangelica6 1•

Lo scontro tra queste differenti anime del cattolicesimo è perdurato fino a tempi recenti e Scoppola - tra i protagonisti ( con Alberto Monticone ) degli incontri orga­ nizzati dalla Comunità di Sant'Egidio, su sollecitazione del cardinale di Milano Carlo Maria Martini, a cui parteciparono don Luigi Giussani, Angelo Scola, Rocco Buttiglione, Roberto Formigoni, incontri presto conclusisi per volere di questi ultimi - sosteneva all' inizio del nuovo millennio a proposito dell'esperienza di C L : Io non ho fiducia nelle possibilità di una collaborazione; sono anzi convinto che bisogna lasciare che esplodano le contraddizioni già presenti nel loro lavoro, per esempio per quanto riguarda l'uso dei mezzi finanziari che fa parte del peggior pragmatismo cattolico, vorrei dire del peggior clericalismo : tutto è santo se serve a un fine santo !6z..

4 La fine dell ' unità politica dei cattolici Nel 1987 la Lega democratica si sciolse e l'anno successivo Roberto Ruffilli venne ucciso anch'egli dalle BR6 3: il senatore, docente di Storia delle istituzioni presso l ' U­ niversità di Bologna, era membro della Commissione affari costituzionali presieduta da Leopoldo Elia, che stava elaborando un disegno di legge di riforma istituzionale. Elia, intervistato poco dopo il delitto, dichiarò : « Aveva tentato di dare un contributo da cattolico democratico perché la democrazia italiana si rafforzasse, perché il peso del voto popolare contasse di più in Italia nelle scelte dei governi » 64• Fu la Rosa bianca a continuare lo spirito e il programma della Lega, pur conno­ tandosi in modo autonomo : composto da giovani provenienti dallo scoutismo, dalla FUCI , dall'Azione cattolica e dal volontariato guidati da Paolo Giuntella, il gruppo

6 1. P. Ghezzi, Le verita penultime, in "li Margine", VIII, 1988, 9-10, pp. 3-s. 62. A colloquio con Dossetti e Lazzati, intervista di L. Elia, P. Scoppola, il Mulino, Bologna 2003, p. 102. Su quest 'aspetto di CL, cfr. F. Pinotti, La lobby di Dio. Fede, affari, politica. La prima inchiesta su Comunione e liberazione e la Compagnia delle opere, Chiarelettere, Milano 2010. 63. M. S. Piretti, Roberto Ruffilli. Una vita per le riforme, il Mulino, Bologna 2008. 64. ':Amava e lavorava per la democrazia': Per questo hanno ucciso Ruffilli, in "La Stampa� 1 8 aprile 1988. 21 8

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si era costituito già nel luglio 1979 a Limone sul Garda, anche se si sarebbe struttu­ rato ufficialmente in associazione dieci anni dopo. Questi cattolici, che dichiaravano di ispirarsi all 'esperienza degli studenti antinazisti che si erano opposti alla dittatura hitleriana, vollero rivolgersi al laicato adulto e presentarsi come « comunità politica in formazione » . La Rosa bianca non intese però identificarsi esclusivamente con la tradizione del cattolicesimo democratico-liberale, sostenuta da intellettuali come Scoppola, ma si volle collocare nell'orbita del cattolicesimo democratico-sociale. Il gruppo dichiarò suo obiettivo quello di creare una teologia europea della liberazione, nel solco della rivista di Mounier "Esprit", della tradizione conciliare e di maestri come Dossetti, Lazzati e Turoldo : «Noi crediamo - scriveva De Giorgi, tra i leader insieme a Michele Nicoletti - che occorra ribadire tutta la validità e attualità della linea incarnazionista e dell'insegnamento del Concilio sulla laicità, senza cedimenti a integralismi e clericalismi d'ogni tipo » 65• Questi giovani decisero di riprendere l'organizzazione della scuola di formazione politica che era stata organizzata a Brentonico, vicino a Trento, dalla Lega democra­ tica per cinque anni, fino al 1985: alla nuova edizione parteciparono in qualità di relatori, Ardigò, Giuntella, Nicoletti, Gaiotti e Pedrazzi66• Al fianco della Rosa bianca vi era la redazione della rivista di Trento "Il Margine", mensile dell'associazione Oscar A. Romero, che proponeva approfondimenti su questioni di politica interna e inter­ nazionale, e relativi alla spiritualità e alla vita nella Chiesa. Nel comitato di redazione della rivista vi erano, tra gli altri, Paolo Ghezzi, Michele Nicoletti, Paolo Giuntella e Giovanni Bianconi. Nel dicembre 1988 Scoppola, che nell 'anno precedente era tornato a dirigere ''Appunti", pubblicò Nove tesi per l'alternanza, in cui prospettò la necessità di operare una riforma istituzionale e delle regole elettorali, con l'obiettivo di traghettare la politica italiana verso un « sistema compiuto di alternanza » . Scoppola pensava a un'alternativa tra la DC e le sinistre, ritenendo però che la Chiesa non dovesse pren­ dere posizione per uno schieramento e che il cattolicesimo democratico dovesse « svolgere un ruolo decisivo non solo nella DC ma anche al di fuori di essa » 67• In realtà, non tutti gli interventi pubblicati dalla rivista dimostravano di condividere tali posizioni, perché Ceccanti e Tonini puntavano a una grande coalizione in grado di realizzare riforme istituzionali volte a rafforzare l'esecutivo e guardavano con interesse al partito di Craxi68• Ceccanti, ricostruendo le vicende di quel periodo, ritiene che le Nove tesi per l'alternanza rappresentarono il « manifesto ideale » per tutto il decennio successivo, perché mettevano in discussione l' idea dell'unità politica 6s. F. De Giorgi, Il politico e le virtù, in "Appunti di Cultura e di Politica", x, I987, 7, pp. 30-1. 66. Ibid. 67. P. Scoppola, Nove tesi per l'alternanza, in "Appunti di Cultura e di Politica", X I, 1988, 9, pp. 3-6. 68. F. De Giorgi, La "Repubblica delle coscienze': L'esperienza della Lega democratica di Scoppola, Gorrieri, Ardigo, in L. Guerzoni (a cura di), Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, U Mulino, Bologna 2009, pp. 140-1. 219

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dei cattolici « non per ragioni teologiche o ecclesiali » , come era avvenuto con il dissenso cattolico, bensì perché si giudicava compiuta « l'evoluzione della demo­ crazia » : la prospettiva in cui molti cattolici democratici si muovevano era quella della costruzione di una sinistra non comunista69• L' ipotesi, prospettata da Ardigò e Giuntella, della fondazione di un partito in cui si riconoscessero i cattolici favorevoli a una politica democratica e di sinistra, sostenuta anche dai giovani della Rosa bianca, non riuscì a diventare la linea di tutta la Lega. Così, quando nella Palermo devastata dal problema del degrado e della collusione tra mafia e politica, nacque l'esperienza della Rete di Leo luca Orlando, i giudizi sull 'esperienza risultarono differenti. Dalla fine degli anni Ottanta, infatti, il mondo cattolico fu caratterizzato dall ' af­ fermarsi di nuove forme di partecipazione e di presenza politica, diffuse in modo proporzionale nelle varie aree del paese e soprattutto tra i giovani. La volontà era quella di far fronte al degrado delle amministrazioni e di fondare una nuova politica al di fuori dei partiti tradizionali, attraverso una riscoperta della dimensione culturale e dell'impegno individuale. Quando l'associazione Città dell'uomo organizzò a Milano un convegno su Gruppi locali e rinnovamento della politica, in cui intese analizzare il fenomeno, individuò ben 314 esperienze, tra cui Centocittà di Firenze, Polis di Cremona, Polis di Legnano, Insieme per la città di Reggio Calabria70• Nella Sicilia di Salvo Lima e di Vito Ciancimino, in quel periodo, erano sorti gruppi come Centro ricerca (fondato da Giuseppe Lumia, esponente dell'Azione cattolica) e Città per l 'uomo (un movimento vicino ai gesuiti Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda) , che avevano come obiettivo quello di organizzare incontri nelle scuole palermitane contro la mafia e di coordinare azioni di volontariato contro l'emarginazione e il degrado sociale; i gesuiti diedero anche vita a scuole di forma­ zione politica, aperte al confronto con il mondo della sinistra71• Fu in tale contesto che ebbe origine la "primavera di Palermo", e la giunta Orlando72 del 1987 rappresentò il tentativo da parte della sinistra democristiana di rinnovare il partito che in Sicilia aveva dimostrato di essere colluso con settori criminali. La nuova amministrazione non aveva nella maggioranza i socialisti, ma si componeva di indipendenti di sinistra (eletti nelle liste del PCI ) , democristiani, socialdemocratici, Verdi ed esponenti di Città per l'uomo ; dal 1989 nella giunta sarebbe entrato anche il PCI. L'esperienza

69. S. Ceccanti, Dalla 'cultura dell'intesa" all'impegno per l'alternanza con cultura di governo, in "Appunti di Cultura e di Politica", xxx, 2008, 4, pp. 33-s. 70. G. Vecchio, La sfula dei gruppi politici cittadini, in "Aggiornamenti Sociali� X LII, 1 991, 12, pp. 807-20. 7 1. Cfr. P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, societa civile, Stato {zgSo-zggo), Einaudi, Torino 1 99 8, pp. 392-4; D. Saresella, La fine dell'unita politica dei cattolici e la nascita della Rete, in "Studi Storici", LIV, 2013, 4, pp. 1023-46. 72. Cfr. P. Giumella, Introduzione, in Id., Fede e politica. Paolo Giunte/la intervista Leoluca Orlando, Marietti, Casale Monferrato (A L) 1992, pp. 3-5. 220

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politica venne subito definita « anomala » perché - come chiarisce padre Pintacuda ­ aveva «come obiettivi i contenuti del programma » ed era espressione più delle « forze vive della società che delle segreterie dei partiti » 73• Orlando, ricostruendo le vicende di quegli anni, ricorda come avesse deciso di scendere nell'agone politico proprio a seguito della scomparsa di Mattarella, ed enfatizza la missione di rinnovamento del suo governo : «Abbiamo messo le mani sul più grande intreccio tra mafia e politica che sono, e non solo a Palermo, gli appalti, una grande, indiscutibile operazione di trasparenza per trasformare il comune in una casa di vetro. Abbiamo restituito spe­ ranza a una città degradata e rassegnata » . E aggiungeva che nell 'amministrare Palermo, la fede gli era servita per individuare una « gerarchia di valori e riuscire a cogliere ciò che resta da ciò che non conta » 74• Padre Pintacuda decise di seguire Orlando nell'esperienza della Rete, divenen­ done, di fatto, l' ideologo, ma tale determinazione creò tensioni tra il gesuita e la Compagnia, che non poteva accettare che l' Istituto Arrupe da centro di studi sociali si trasformasse in una sorta di "scuola quadri" del nuovo partito. Così il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, decise l'allontanamento di padre Pintacuda dall 'istituto. E interessante sottolineare che in una recente riflessione sulla Chiesa degli ultimi decenni, padre Sorge abbia individuato nell 'esperienza politica palermitana l'anticipazione di alcuni aspetti dell' Ulivo, che sarebbe nato nel 1996 a livello nazionale75• Una parte del gruppo della Rosa bianca guardò con interesse alle vicende siciliane, ritenendo il progetto uno sbocco per la sinistra democristiana: così durante la prima assemblea costitutiva dell 'associazione (che si tenne a Roma il 3 0 aprile-1° maggio 1989), Giuntella non mancò di soffermarsi sull'esperienza palermitana, giudicata « esempio di riformismo autentico, forte, che nasce dalle esigenze della gente lette con sguardo libero e limpido » . Si trattava di « una scelta politica, di linea, di schie­ ramento, di speranza » ed era «l'unico processo di innovazione che noi osserviamo sul terreno politico che nasce e rappresenta - non solo a Palermo ma anche in Italia - alleanze sociali, convergenze nella società, convergenze culturali popolari già esistenti » 76• La Rete - nella quale responsabilità rilevanti furono assunte anche da Grazia Villa, Guido Formigoni e Giovanni Colombo - avrebbe dovuto volgersi a sinistra, porre attenzione alla difficile gestazione del PDS e diventare parte costituente di un'alleanza progressista. Quando il 2 aprile 1992 l ' Italia andò al voto, Paolo Prodi e ,

7 3· E. Pimacuda, Il guado. Il travaglio della democrazia in vent 'anni di storia italiana, a cura di R. Ruscica, La meridiana, Molfetta (BA) I99S· pp. I09-I I. 74· Giumella, Fede e politica, cit., pp. so-I. 7S· Sorge, La traversata, cit., pp. IS0-2. 76. Le parole di Giumella sono riportate in A. Fortino, La Rosa bianca diventa associazione, in "li Margine", IX , I989, s. pp. 30-4. 221

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Fulvio De Giorgi si candidarono nel partito di Orlando, che non raggiunse però il 2% dei consensi77• Ricostruisce De Giorgi: In realtà, con la Rete, noi volevamo avviare un processo per costruire quello che poi sarebbe stato il Partito democratico, non un'ulteriore "appartenenza" ( radicata solo in alcune aree del paese ) : abbiamo combattuto questa battaglia e siamo stati sconfitti, ma poi la Rete è scom­ parsa ( e il Partito democratico è giunto : senza Orlando, almeno per ora) 78•

Scoppola, invece, da sempre attento alle riforme istituzionali, volse nei primi anni Novanta la sua attenzione verso il raggruppamento referendario di Segni79, e poi verso il movimento dei "Popolari per la riformà'. L'intellettuale romano si trovò a condi­ videre il suo impegno con altri esponenti del cattolicesimo democratico (tra cui Francesco Malgeri, Franco Monaco, Ceccanti, Giuntella, Gorrieri, Lipari, Pazzaglia, Tognon) , che in una lettera aperta a Segni dichiararono la loro adesione al progetto, auspicando che esso garantisse « la continuità dei valori espressi dalla presenza cri­ stiana » . Il movimento, a loro giudizio, doveva mantenere piena indipendenza dai partiti, anche se era bene desse un'ultima chance alla DC e alla possibilità di una sua profonda rifondazione; se non ci fosse stato un « nuovo inizio » , però, non avrebbe avuto senso « quel tanto di unità politica dei cattolici che ancora si realizzava intorno ad essa » 80• Altri esponenti del mondo cattolico democratico, tra cui i cristiano-sociali Gorrieri e Tonini81 oltre a Paola Gaiotti, guardavano invece con interesse le vicende del PCI che, con il XIX Congresso, si trasformò in PDS (poi diventato ns)82• '�ppunti" dedicava nel 1992 un numero monografìco al programma del PDS, con interventi di Scoppola, Gorrieri, Ceccanti, Gianfranco Pasquino, Sergio Fabbrini, Chiara Glorio, Leonardo Benevolo. Nell'editoriale la rivista sottolineava con enfasi la «cesura di cultura poli­ tica » della nuova organizzazione rispetto al PCI : infatti, « abbandonati i disastri del comunismo reale e le nebbie di quello ideale, il programma si caratterizza per una varietà di culture politiche, in cui trovano posto sia le riflessioni dell'esperienza socialista occidentale, sia quelle del migliore pensiero liberale e quelle del cattolicesimo 77· De Giorgi, L'esperienza della Lega democratica e la storia di ':Appunti", cit., pp. 23-9. 7 8. lvi, p. 28. Cfr. D. Cammarrone, La Rete, Associate, Roma 1992; P. Gaietti, Il potere logorato. La lunga fine della D C, cattolici e sinistra, Associate, Roma 1994. 79· P. Scoppola, Un Patto per la riforma, in "Appunti di Cultura e di Politica� XVII, 1992, 2, pp. 1-3. S o. Lettera aperta a Mario Segni, ivi, XV II, 1992, 7, pp. 1-2. 8 1. M. Carrattieri, Una democrazia in crisi di trasformazione. Tra ricerca sociale e nuovi percorsi politici {IgSI-2004), in M. Carrattieri, M. Marchi, P. Trionfìni, Ermanno Gorrieri {1920-2004). Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, saggio introduttivo di P. Pombeni, il Mulino, Bologna 2009, pp. 507-828. 82. Cfr. P. Bellucci, M. Maraffi, P. Segatti, PCI, PDS, DS. La trasformazione dell'identita politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; cfr. anche L. Caponi, Rifondazione comunista. La scommessa perduta, Editori Riuniti, Roma 200 3, pp. 35-46. 222

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democratico »83• Paola Gaiotti sottolineava poi il carattere «pluralista » del partito, all'interno del quale convivevano più etiche, esattamente come avveniva in ogni società articolata e complessa84• Anche nella DC, travolta dagli scandali indotti dalle inchieste dei giudici di Milano, erano in corso profondi ripensamenti. Nell 'ottobre 1 9 9 2 Martinazzoli veniva acclamato segretario e Rosa Russo lervolino presidente. Si trattava di un ricambio all' interno del partito, consentito dai potenti leader ( Andreotti, De Mita, Forlani e Gava) di fronte al crescente discredito in cui era precipitata la DC, travolta dalla "questione morale". Il nuovo segretario decise che per rinnovare l'organizzazione fosse necessario recuperare quel rapporto stretto, allentatosi negli anni Ottanta, tra area cattolica e DC, e dunque volle far posto a militanti provenienti proprio dall'associa­ zionismo di base: Rosy Bindi divenne segretaria del Veneto, Enzo Balboni di Milano, Romano Forleo di Roma, Renzo Gubert di Trento. In realtà, il tentativo non riuscì e la bufera di Mani pulite travolse tutto il sistema politico della cosiddetta "Prima Repubblica"85• La DC decideva di concludere il suo percorso e Martinazzoli varò, nel gennaio 1994, la nascita di una nuova organizzazione, il Partito popolare, che intendeva riallacciarsi all'esperienza sturziana e che si pose in una prospettiva di discontinuità rispetto al passato recente. Rosy Bindi, in particolare, alfiere di un rinnovamento radicale, sostenuta dall'associazionismo cattolico più pro­ gressista, affermò fosse necessaria una cesura rispetto al vecchio gruppo dirigente, soprattutto sulla questione morale. Per una riforma radicale del partito cattolico si dichiararono anche gli autoconvocati che si ritrovavano sia in Veneto sia in Emilia, e che volevano una rottura con gli uomini e le logiche clientelari del passato, ma a incalzare Martinazzoli ci furono anche molti vescovi, preoccupati per il disorienta­ mento che verificavano nella base cattolica, e i dirigenti dell'associazionismo.

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Verso l' Ulivo In occasione delle elezioni del 1994, Scoppola non mancò di manifestare la sua delusione per i nuovi equilibri che si erano creati in Italia dopo la vittoria dei quesiti referendari, e si chiedeva se fosse stato un bene « forzare un cambiamento di sistema 83. Un programma meditato. Ma quanto definisce questo PDS ?, in "Appunti di Cultura e di Politica", XVII, I 992, I, pp. I -2. 84. P. Gaiotti, Il tempo della modernita. Le politiche del PDS per sostenere le scelte delle donne, ivi, XVII, 1992, 2, pp. 4- 16. 8s. D. della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, U Mulino, Bologna 1992. Cfr. anche Ead., I circoli viziosi della corruzione in Italia, in D. Della Porta, Y. Mény ( a cura di ) , Cor­ ruzione e democrazia. Sette paesi a confronto, Liguori, Napoli 1995, pp. 49-66; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (1gSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 201 2, pp. 21-47. 2 23

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per il quale le forze politiche e lo stesso elettorato si dimostra[vano] immaturi » . Apprezzava gli sforzi di Gorrieri e Tonini i quali, dopo aver dato vita nel 1993 al gruppo dei cristiano-sociali, si erano schierati con i progressisti, perché avevano avuto il merito di spingere il PDS ad assumere un programma che sui temi dello stato sociale riprendeva elementi del cattolicesimo sociale. L' intellettuale romano ammoniva poi a non sottovalutare Berlusconi, perché un paese « disorientato e avvilito » chiedeva « sicurezza e speranza » e Berlusconi sapeva interpretare egregiamente questo senti­ mento; si era presentato agli italiani «con l' immagine rassicurante di un uomo riuscito » che offriva all ' Italia «la speranza illusoria » che il suo successo personale potesse magicamente diventare il successo di tutti86• Nelle elezioni che si tennero il 27 e il 28 marzo87, come è noto, uscirono sconfitti tutti i raggruppamenti che, in qualche modo, facevano riferimento al mondo cattolico : il PPI riuscì a raccogliere solo l' 11,1% dei voti, il Patto di Mario Segni il 4,6% e la Rete-Movimento per la democrazia l ' 1,9%. Il voto democristiano aveva imboccato le direzioni più differenti : nel Nord l 'insoddisfazione aveva premiato la Lega, nel Sud il MSI, mentre alcuni credenti convogliarono i loro consensi verso i partiti della sinistra ( PDS e Rifondazione ) . Bisogna ricordare che nello schieramento progressista si pre­ sentarono Luciano Guerzoni, Giorgio Tonini, Franco Bentivoglio, Giancarlo Zizola, Carlo Alfredo Moro88• Berlusconi, il vero vincitore delle elezioni del 1994, era sceso nell'arena politica con un programma che parlava di famiglia, di anticomunismo, che enfatizzava il liberismo e che denigrava la cultura solidarista. Il progetto di Forza Italia si rivolgeva all'elettorato moderato e cattolico, ma era agli antipodi rispetto a quello della sinistra democristiana; risultava anche estraneo alla tradizione degasperiana, visto che il leader trentino aveva definito la D C come partito di centro che muoveva verso sinistra. Fu in questo contesto che Giuseppe Dossetti ritenne di dover far sentire la sua voce perché, di fronte ai pro­ positi espressi da Berlusconi di procedere a una radicale riforma della Costituzione, dichiarò la sua preoccupazione per la sorte del paese e sollecitò gli italiani a mobilitarsi contro una pericolosa alterazione delle basi della convivenza civile89• Nei primi anni Novanta si assistette a una rivoluzione di carattere politico perché, con l 'avvento della Lega, venne sconvolta la geografia elettorale così come si era delineata nel Nord dalle elezioni del 1946 in poi e si venne affermando un partito che era in grado di piegare a proprio vantaggio « il legame profondo tra appartenenza 86. P. Scoppola, Ancora transizione, in "Appunti di Cultura e di Politica� XIX, 1994, 2, pp. 1 -6. 87. Cfr. I. Diamanti, R. Mannheimer (a cura di), Milano e Roma. Guida all'Italia elettorale del I994· Donzelli, Roma 1994· Cfr. anche P. Mancini, G. Mazzoleni (a cura di), I media scendono in campo. Le elezioni politiche I994 in televisione, RAI-Nuova E RI, Roma I99S· Candidati dei cristiano-sociali nello schieramento progressista, in "Appunti di Cultura e di Poli.nca , 88. XIX , 1994, 2, p. 31. 89. U. Allegretti, Dossetti, difesa e sviluppo della Costituzione, in A. Melloni (a cura di), Giuseppe Dossetti. La fede e la storia, il Mulino, Bologna 2007, pp. 67-146. "

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subculturale e orientamenti localistici » 90• L'organizzazione di Umberto Bossi si radicò proprio nelle zone a tradizionale vocazione cattolica e democristiana, e rap­ presentò un'ulteriore dimostrazione della fine dell 'unità politica dei cattolici9 1• Tali cambiamenti traevano origine dalle trasformazioni del tessuto economico, perché alcune zone del Nord, una volta terre di emigrazione, erano state protagoniste negli anni Settanta e Ottanta di una tumultuosa rivoluzione produttiva, resa possibile da rapporti familiari ancora coesi e solidali ma anche dal lassismo nei controlli fiscali garantiti dalla classe politica. La sconfitta nelle elezioni del marzo 1994 indusse Martinazzoli alle dimissioni e a lui successe la reggenza provvisoria di Rosa Russo lervolino. Dopo le elezioni si delinearono con più chiarezza le diverse prospettive esistenti nel partito : Buttiglione e l'area ciellina iniziarono a guardare con interesse all 'esperienza dell' imprenditore di Arcore, mentre la sinistra del PPI dichiarava di preferire il polo progressista. A causa delle divisioni all' interno della sinistra tra Martinazzoli e De Mita, a luglio Buttiglione diventò segretario del partito e ciò, secondo Gabriele De Rosa (storico e intellettuale cattolico, dal 1987 parlamentare della ne), rappresentò la dimostra­ zione che si stesse esaurendo il tentativo di « far rinascere il popolarismo sturziano » 92• La sconfitta della sinistra, nota efficacemente Marco Follini, significò la sostituzione dell' « icona di don Giussani alla letteratura di Maritain » 93. Quando alle elezioni amministrative successive Buttiglione, pur accettando alcune candidature concordate con i progressisti, dimostrò di operare per un'alleanza con Forza Italia, il partito si disgregò, e se ci fu chi accettò quella prospettiva politica, la maggior parte degli esponenti del PPI decideva di eleggere al suo posto come segretario Gerardo Bianco e di volgersi verso il polo progressista, individuando in Romano Prodi il leader della nuova coalizione di centro-sinistra. Si apriva lo scenario dell'ascesa politica di uno degli esponenti del cattolicesimo democratico, destinato per un decennio a essere tra le figure più significative della vita politica nazionale ed europea, e si compiva così l 'antico progetto del "cattolicesimo progressistà', quello di collocarsi politicamente a sinistra, condividendo con le forze popolari progetti di profonde riforme sociali94• 90. P. Segatti, L 'ofrfe ta politica e i candidati della Lega alle elezioni amministrative del 1990, in "Polis", 6, I992, 2, p. 257. Cfr. R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 20IO; R. Guolo, Chi impugna la croce. Lega e Chiesa, Laterza, Roma-Bari 20u. 9I. l. Diamanti, La Lega: geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I995· Cfr. E. Pace, L'unita dei cattolici in Italia. Origini e decadenza di un mito collettivo, Guerini e Associati, Milano I995; M. Marzano, Il cattolico e il suo doppio. Organizzazioni religiose e Democrazia cristiana nell'Italia del dopoguerra, FrancoAngeli, Milano I996, pp. 279-80. 92. G. De Rosa, La transizione infinita. Diario Iggo-Iggo, Laterza, Roma-Bari I997· pp. I23-4· 93· M. Follini, C 'era una volta la DC, il Mulino, Bologna I994· p. 68. Cfr. S. Apruzzese, I cattolici e il consenso politico dopo la fine della Democrazia cristiana, in Cristiani d'Italia, cit., pp. 793-5. 94· G. Baget Bozzo, L'intreccio. Cattolici e comunisti (1945-2004), Mondadori, Milano 2004, pp. II-2. 2 25

La D C e la crisi del sistema politico. Temi e personaggi ( 1 9 8 9- 94) di Em anuele Bern ardi

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Prologo. Frantumazione sociale e riforme La frammentazione politica e sociale che caratterizza il panorama italiano alla fine del Novecento è il risultato di un processo innescato in tempi precedenti non solo alle inchieste di Tangentopoli, ma anche alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e agli eventi storici nei paesi dell'Est: il crollo del comunismo prima, con la fine della Guerra fredda, e Tangentopoli poi hanno costituito quindi due importanti fattori di accelera­ zione di questo processo di frantumazione1• Come ha scritto Scoppola - a metà tra testimonianza e analisi storica - è tuttavia negli anni Ottanta che sembra essersi esau­ rita del tutto «la funzione di rappresentanza sociale » della Democrazia cristiana ( nc ) 1• Più in generale, i diversi elementi di crisi del sistema compongono nel loro insieme una Il saggio che segue è U risultato di una ricerca archivistica condotta prevalentemente sui fascicoli personali di alcune figure della D C, del P C I e del P S I presenti nel fondo depositato dall'onorevole Giulio Andreotti presso l 'Archivio storico dell' Istituto Luigi Sturzo di Roma. Grazie alla cortesia della direttrice dell' Istituto, Flavia Nardelli, e alla preziosa assistenza archivistica della dottoressa Luciana Devoti, ho potuto consultare, tra gli altri, per la D C i fascicoli di Bianco, Colombo, De Mita, Forlani, Segni, Mar­ tinazzoli, Prodi, per U PSI di Craxi, per U P C I di Occhetto, Ingrao, Napolitano, Natta e, in quanto presidente del Senato, Spadolini. Non è stato possibile, infine, per via dello stato dell'archiviazione e dell'accessibilità, vedere i fascicoli relativi a Scalfaro e a Cossiga. Una prima versione di questo contributo è stata presentata al seminario organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci, dalla SISSCO e dalla Fondazione Luigi Einaudi, La Repubblica in transizione I939-I994· tenutosi a Roma U IO-II marzo 20II. I. Sull' interpretazione delle origini e del significato della crisi della D C e del sistema politico, esistono studi di vario genere: per la politologia e un approccio di tipo "sistemico", cfr. G. Pasquino, Un sistema politico che cambia. Transizione e restaurazione?, in Id. (a cura di), La politica italiana. Dizionario critico I94S-I99S· Laterza, Roma-Bari I99S· pp. VIII ss., e, per una lettura di lungo periodo sul Novecento, A. Pizzorno, Le trasfo rmazioni del sistema politico italiano I970-I992, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia repubblicana, 3· L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, II. Isti­ tuzioni, politiche, culture, Einaudi, Torino I997· pp. 34I ss.; per la storiografia, A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal I942 al I994· Laterza, Roma-Bari I996; G. Galli, Storia della DC. I943-I993: mezzo secolo di Democrazia cristiana, Kaos, MUano 2007. Per una puntuale ricostruzione di tale dibattito, si rinvia a V. Capperucci, La storiografia del giorno dopo. Il dibattito sulla crisi della Democrazia cristiana negli anni Novanta, in "Ricerche di Storia Politica", giugno 2002, 2, pp. 23I-48. 2. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I94S-I996), il Mulino, Bologna I997· pp. so2 ss. *

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vera e propria .frattura nella storia d'Italia, inizio di un periodo di forte instabilità politica e di un' « infinita transizione » 3• Il 1987 costituisce, secondo alcuni studiosi, l'anno in cui la DC avrebbe dovuto farsi carico della riforma del sistema politico, un anno in cui appaiono particolarmente evidenti - per chi li volesse cogliere - elementi di crisi economica e sociale e spazi di manovra poi con il tempo sempre più ristretti. A questo proposito, nelle sintesi dedicate alla storia italiana del secondo Novecento, tanto Colarizi quanto Craveri hanno parlato di una sostanziale « cecità » delle classi dirigenti italiane, sia di sinistra come di centro4• In un quadro di complessiva difficoltà, o ritardo, a individuare gli strumenti idonei ad affrontare la crisi del sistema politico e a riposizionarsi nel mutato scenario interna­ zionale, alcuni dirigenti democristiani ebbero tuttavia, rispetto ad altri, una maggiore consapevolezza della necessità di avviare politiche di rinnovamento e cambiamento della Costituzione come del partito. Per Ciriaco De Mita, segretario della DC dal 1982 al 19 89, riformare il partito e il sistema istituzionale costituiva il tentativo di reagire alla nuova ondata di modernizzazione - partita dagli anni Settanta - che investiva il paese5• Anche Giulio Andreotti emerge quale portatore di una visione costituzionale e parla­ mentare delle riforme, orientata a "rinnovare senza rinnegare" e a difendere i valori distintivi della D C : riformare il sistema non doveva far dimenticare, affermò ad esempio nel 1988, « che con questo sistema la libertà si è rafforzata e l' Italia è cresciuta » 6• Le riforme costituzionali, istituzionali e amministrative erano dunque punti qualificanti dell 'agenda politica della D C . In un'articolata lettera inviata il 28 dicembre 1987 a Mino Martinazzoli, presidente del gruppo parlamentare D C alla Camera, Andreotti esprimeva innanzitutto l'esigenza preliminare di combattere « una mania riformistica della Costituzione » che poteva mettere in circolo, « magari sub consciamente, idee pericolose sotto apparenze innocue » 7• Tra queste idee, Andreotti segnalava e criticava due proposte, circolanti allora nel dibattito politico : il rientro della famiglia dei Reali in Italia e la soppressione del divieto di ricostituzione del Partito fascista. Fatte tali premesse, fissava i punti di un articolato programma di riforme, poi parzialmente realizzato sotto i due governi da lui presieduti durante la x Legislatura, con il sostegno decisivo del PSI di Bettino Craxi. « Un periodo » , ha riconosciuto Paul Ginsborg, « di considerevole zelo riformatore » 8 • 3· G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico Iggo-Igg6, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 6 1 ss. 4· S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni, I943-2oo6, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 170-1; P. Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, UT ET, Torino 199S· S· Cfr. l 'analisi dell'azione di De Mita in A. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, in S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 92-101. Cfr. anche G. Sangiorgi, Piazza del Gesu. La Democrazia cristiana negli anni ottanta. Un diario politico, Mondadori, Milano 2oos. 6. Andreotti a Martinazzoli, 2 ottobre 1988, in Archivio storico dell' Istituto Luigi Sturzo (d'ora in avanti ASILS ) , Archivio Giulio Andreotti (d'ora in avanti AGA ) , Martinazzoli. 7· Andreotti a Martinazzoli, 28 dicembre 1987, ibid. 8. P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente, Einaudi, Torino 1998, p. 309 (p. 310 per il lungo elenco delle leggi approvate dai governi Andreotti). 228

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Tale programma, fondato sulla difesa del Parlamento, che doveva « restare il fulcro del sistema e il garante sommo delle libertà » , si basava essenzialmente sui seguenti interventi : ampliamento del diritto di voto ai cittadini comunitari (e pre­ parazione del voto all'estero); limitazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali (acqua ed elettricità, ospedali, collegamenti con le isole) ; velocizzazione di alcune attività parlamentari, con il mantenimento del voto segreto; adeguamento della Costituzione italiana ai nuovi rapporti giuridici che stavano maturando nella Comunità Europea; modifiche dei rapporti tra le Regioni, e tra le Regioni e l'am­ ministrazione centrale - senza giungere tuttavia, per gli enti locali, all'elezione diretta del sindaco9• Vi faceva capolino anche la controversa riforma della RAI, con la regolamentazione dell'accesso alle reti TV (nota poi come "legge Mammì", appro­ vata nel 1990), oggetto di forti scontri tra l'area andreottiana e la sinistra D C vicina a De Mita10•

2 1989: fine del comunismo, vittoria del capitalismo ? La definitiva crisi del comunismo, nel 1989, contribuì ad accelerare l'evoluzione del sistema politico italiano e non solo. Alcuni storici e politologi hanno prospettato una dinamica "a specchio", in cui la DC, legata in termini bipolari al PCI, non sarebbe potuta sopravvivere senza una trasformazione paragonabile a quella in corso nell'area comunista. Il non riconoscere questo intimo nesso, fondante della stessa Costituzione

9· Andreotti a Martinazzoli, 28 dicembre I987, in ASILS, AGA, Martinazzoli. Andreotti spiegava anche che a suo modo di vedere era necessario in primo luogo rimuovere «un inconveniente» : « Per molti le riforme sono tattica, utile a parlare con partiti con i quali di norma si collabora, senza pagare dazi alla pubblica opinione diffidente storicamente. I contenuti sembrano quasi irrilevanti». Per quanto riguardava in particolare il Parlamento: a) inattuabilità del monocameralismo (riduzione del numero dei deputati e dei senatori auspicabile ma difficilmente realizzabile); b) sistema di acceleramento dei lavori parlamentari (ad es. nelle ratifiche degli atti internazionali) ; ipotesi della diversificazione delle attribuzioni, una con compiti prevalenti giuridico-amministrativi e l 'altra con compiti economico­ finanziari; c) modifica del sistema del decreto legge e ritorno alla lettera della Costituzione per quanto riguarda la procedura della sfiducia (un governo non può essere sfiduciato in seguito al non passaggio di una legge); d) sulla limitazione del voto segreto, di cui si parlava in quei mesi, « con accenti di demonizzazione » , Andreotti infine scrisse: «Non sarò davvero io, reduce dal governo del '72- '73 a negare che la piaga dei franchi tiratori esiste e rischi di divenire in qualche fase purulenta. Certo, molti motivi militano a favore del voto palese. Ma sono ipotizzabili momenti come quelli del I 922-25 nei quali il voto segreto poteva salvare le istituzioni. Si dirà - ed è più che giusto - che oggi questo è inesistente; ma le norme regolamentari e quelle costituzionali si fanno per tempi illimitati» . IO. Andreotti scrisse a D e Mita un'articolata lettera il 2 9 luglio I990 circa « la triste vicenda per la legge sulle TV», precisando il proprio punto di vista e riepilogando le linee dell 'azione parlamentare condotta sulla regolamentazione degli spot, degli intervalli, della proibizione dei Hlm ai minori ( in ASILS, AGA, De Mita, pratica 2883 ) . Per la legge Mammì, cfr. le considerazioni di F. Chiarenza, Il cavallo morente. Storia della RAI, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 224 ss. 229

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repubblicana, aveva indebolito mortalmente la D C . Gualtieri ha sostenuto a tal pro­ posito che, tranne alcune prese di posizione di Cossiga e Andreotti, vi fu « la pres­ soché generale incomprensione [ ... ] della portata e degli effetti dirompenti del 1989 e della fine della DC » 11• Applicando tale concetto, Colarizi e Gervasoni hanno per parte loro affermato che «cadeva il pilastro comunista e inevitabilmente si frantu­ mava anche quello democristiano, anch'esso segnato da vistose crepe al suo interno » 12 • Giovanni Di Capua - uno dei protagonisti della DC di quel periodo - ha sostenuto che «la crisi comunista non poteva che riverberarsi sull'intero schieramento politico italiano e sullo stesso sistema, già anchilosato e bisognevole di revisione profonda » ; ma anche che « lo schieramento democratico italiano, a principiare dalla D C , reagì in maniera improvvida al crollo del vecchio muro berlinese e alla fragilità a lungo celata del comunismo mondiale » 13. Rispetto all'interpretazione di questa relazione funzionale con il P C I e su come coniugarlo dopo il 1989, nella D C vi erano - semplificando - due approcci : coloro che ritenevano la caduta del comunismo un fatto di tale rilevanza da dover neces­ sariamente modificare la funzione politica stessa del partito democristiano, che quindi, in chiave storica, aveva svolto un ruolo principalmente anticomunista (e chi temeva quindi una sorta di « esaurimento » della funzione stessa del partito) ; chi considerava invece il 1989 e la transizione dal PCI al PDS un fatto importante, che non esauriva tuttavia la "missione" democristiana, né dal punto di vista storico, né rispetto al presente e al futuro del sistema politico italiano, e rivendicava quindi conseguentemente la difesa della centralità della D C e la sua prioritaria responsabi­ lità di governo14• Quel che gli uni e gli altri dovettero constatare è, semplicemente, che la crisi della DC si aggravava con l 'aggravarsi della crisi del comunismo. Si era infatti di fronte a un processo quasi simmetrico, una crisi che avanzava lungo linee diverse ma conver­ genti. La trasformazione in atto nel PCI dopo il XVIII Congresso del marzo 1989, seguita dalla proposta del segretario Achille Occhetto (la cosiddetta "svolta della Bolognina")rs, era il primo punto di interesse degli osservatori cattolici, in attesa di comprendere l'evoluzione dei rapporti di forza dentro la sinistra. Con un certo stu­ pore, Gabriele De Rosa annotava il 21 marzo 1989: 1 1. R. Gualtieri, L'Italia dal I943 al I992. D C e PCI nella storia della Repubblica, Carocci, Roma 2oo6, p. 232. 12. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (zgSg-2on), Laterza, Roma-Bari 2012, p. 13. 1 3. G. Di Capua, Delenda DC, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2004, p. 134. 14. Cfr. Giovagnoli, Il partito italiano, cit., pp. 268 ss. 15. Su cui cfr. P. Ignazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna 1992; C. Valentini, Il nome e la cosa. Viaggio nel PCI che cambia, Feltrinelli, Milano 1990; P. Bellucci, M. Maraffi, P. Segatti, PCI, PDS, DS, Donzelli, Roma 2000; A. Vittoria, Storia del PCI {zg2I-I99I), Carocci, Roma 2oo6; E. Morando, Riformisti e comunisti? Dal PCI al PD. I ((miglioristi" nella politica italiana, introduzione di B. De Giovanni, Donzelli, Roma 2010.

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Non c 'è più nulla del "passato", niente di Togliatti o di Gramsci, niente di Marx o di Lenin : sono oramai gli "inesistenti" del PCI. C 'è tutto " Gorbaciov": il PCI è diventato ecologista, femminista, pacifista, infine supernazionale, anzi "planetario". Si è dimenticato del Mezzo­ giorno e dei contadini, vola nei cieli nobili e disincantati dei diritti umani, è tutta Chiesa secolarizzata. Ho i miei dubbi che questa corsa in avanti verso il prepolitico serva al PCI [ .. . ] . Quanto alla D C, mi pare che per ora si accontenti di assistere allo spettacolo di Occhetto e Craxi, duellanti su una prospettiva, che svanisce di ora in ora• 6 •

Quasi un anno dopo, nella Direzione DC del 29 gennaio 1990, De Mita combinò la crisi del comunismo - e quindi della funzione dell'anticomunismo - con le difficoltà del parti to : C 'è la questione comunista, rispetto alla quale la nostra attenzione non è strumentale. La crisi del PCI, comunque evolva, modificherà i termini di riferimento del quadro politico. E c 'è, andando in giro per il paese, la sensazione che una parte del mondo cattolico non si identifichi più con noi, e che possa privilegiare altri interlocutori. E sarebbe grave se il pro­ cesso di separazione fra la DC e questo entroterra cattolico crescesse17•

La morte del comunismo, per quanto fortemente avversato, comportava più in gene­ rale la fine di un'"illusione" che aveva tuttavia svolto una potente funzione simbolica, e politica, di critica alternativa al capitalismo : questa critica aveva concorso, più o meno direttamente, a battere strade diverse da quelle del semplice libero mercato'8• La ricerca di una « modernità alternativa » - comunque la si guardasse - aveva costituito un aspetto qualificante della storia globale del comunismo nel xx secolo'9• Caduta l'alternativa, era - non a caso - soprattutto la sinistra DC a interrogarsi sugli indirizzi futuri dell'economia, sul senso di un capitalismo che appariva il vero vinci­ tore della Guerra fredda. Quale funzione avrebbero svolto i cattolici democratici italiani nella fase storica che si apriva con il 19 89 ? I rappresentanti della sinistra D C (da Guido Bodrato a Ciriaco De Mita) ne discussero al convegno di Chianciano nell'ottobre del 198910 e in vari contributi su riviste di area cattolica. Per Bodrato, la crisi del modello italiano (democrazia rap­ presentativa, economia di mercato, Stato sociale) poteva diventare crisi della demo­ crazia. La competizione con il riformismo socialista, in un'ottica di confronto anche con i postcomunisti, doveva essere la stella polare della D C e del solidarismo cattoI 6. G. De Rosa, La storia che non passa. Diario politico zg6g-zgSg, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) I999· p. 437· I7. Intervento in Direzione D C , 29 gennaio I990, in AS I LS, AGA, De Mita, pratica 2883. I 8. E. Hobsbawm, Il secolo breve I9I4-I99I, Rizzoli, Milano 2000. I9. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale I9IJ-I99I, Einaudi, Torino 20I2, pp. 247 e 26I-2. 20. Cfr. la descrizione dell' incontro in La sinistra DC minaccia di diventare opposizione, in "la Repubblica", 7 ottobre I989. 23 1

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lico21• Secondo Pierluigi Castagnetti, accettare la correlazione meccanica tra fallimento del comunismo e vittoria del capitalismo significava il doversi arrendere « all'idea dell'esaurimento del ruolo politico dei cattolici democratici » . Tale assunto andava invece rifiutato, sulla base di quattro fatti storicamente attribuibili al sistema capitali­ stico : le lacerazioni prodotte nelle società industriali dalla competizione economica e dalla relativizzazione dei valori umani; le devastazioni prodotte all'ambiente da una cultura dello sviluppo senza etica; la ripresa di eccezionali migrazioni umane verso i paesi industrializzati; l 'indebolimento delle istituzioni rappresentative a livello nazio­ nale e internazionale determinato dall'eccessivo accentramento dei poteri economici. « Dobbiamo concludere » , affermò, «che il capitalismo non può aver vinto defi­ nitivamente, poiché a fronte del suo successo nel risolvere non pochi problemi sul piano dello sviluppo, seppur limitatamente ad un'area ben circoscritta del pianeta, esso ha generato altri non meno gravi problemi » . Ridefinire il ruolo dei cattolici democratici dopo il 1989 significava dunque costruire « un nuovo punto di compa­ tibilità, di equilibrio, fra capitalismo e democrazia » 22 • Se la relazione della D C con la Chiesa cattolica era chiaramente scossa dagli effetti dei processi di secolarizzazione e dal mutare del quadro internazionale\ fu papa Giovanni Paolo n , considerato uno dei principali artefici della definitiva crisi del comunismo nei paesi dell'Est, a indicare i punti di debolezza dello sviluppo capita­ listico, nell'enciclica Centesimus annus del 199 1 : '

E inaccettabile l'affermazione che la sconfitta del cosiddetto "socialismo reale" lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti - individui e nazioni - le condizioni di base, che consentano di partecipare allo sviluppo.

La sconfitta del comunismo non doveva dunque nascondere i processi di sfrutta­ mento insiti nel sistema capitalistico globalizzato, né far dimenticare l 'importanza dello Stato sociale e dei programmi di assistenza verso i poveri. In realtà, se da una parte per papa Wojtyla il modello sociale della società dei consumi aveva mostrato 21. G. Bodrato, L'unita della D C e una conquista, in "Città Popolare", ottobre 1989, 314/ S· 22. P. Castagnetti, Dopo la crisi del marxismo, ivi, ottobre 1989, 3/4/ S· Alla crisi del comunismo dedicò una serie di articoli la rivista "Orientamenti Sociali� aprile-giugno 1991, n. 2. Cfr. l'editoriale di P. Nepi, Dall'utopia alla storia, pp. 3-6 ; E. Berti, Le implicazioni teoriche della crisi, pp. 9-16; F. Malgeri, L'evoluzione storica e ideologica del Partito comunista italiano, pp. 17-28; R. Gatti, La politica e lo Stato nel marxismo: nascita, sviluppo e crisi di una teoria, pp. 29-40; R. Benini, L'economia sovietica a una svolta nelle scelte della strategia economica, pp. 41-6; G. Codevilla, La nuova politica ecclesiastica sovietica, pp. 47-ss : L. Pedrazzi, Religione e fine del comunismo, pp. s6-62; B. Sorge, La Chiesa e il comunismo, pp. 63-9· 23. Sulle difficoltà del partito democristiano e delle sue relazioni con la Chiesa, il presidente del Senato Giovanni Spadolini era stato piuttosto esplicito nel dichiarare ai giornali nel settembre 1989: « La n e ? Nemmeno la Chiesa vuole più averci a che fare » (Spadolini: «La Chiesa abbandona la DC» , in "Il Secolo X IX ", 1 5 settembre 1 989).

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« il fallimento del marxismo di costruire una società nuova e migliore » , dall'altra, « negando autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura e alla reli­ gione, converge con esso nel ridurre totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali » 24•

3 Dopo le elezioni del 1992. Il confronto nella

DC

Le elezioni politiche del s-6 aprile 1992 videro per la prima volta la D C scendere sotto la soglia del 30% con una forte emorragia di voti a favore della Lega Nord nelle tradizionali "regioni bianche" dell 'Italia settentrionale5• Entravano in crisi, allo stesso tempo, l'unità nazionale e l'unità dei cattolici. Per la "vecchia guardia", come Andre­ otti, era significativamente la dimensione europea e internazionale la chiave di volta per ridefinire la funzione politica dei cattolici dopo il crollo del comunismo, il modo attraverso il quale divenire nuovamente il baricentro di convergenze politiche e spe­ ranze popolari. In una lettera al segretario Martinazzoli del luglio 1993, il senatore a vita indicava tra i valori di riferimento « quella forte coscienza internazionale » che aveva fatto della D C « il fulcro della politica estera e della costruzione dell'Europa comunitaria » , al di là del contrasto al comunismo : -

Accanto alla irrinunciabile socialità dei nostri programmi, questa vocazione ultranazionale dovrebbe infiammare di nuovo i cuori, trascinando gli altri su questi ampi orizzonti che non conoscono meschinità. Ridurre la D C a un gendarme per la difesa del pericolo comunista è visione miope e ingenerosa, pur essendo stato un compito essenziale per la libertà di tutti. Spero che nell'Assemblea si parli molto di Maastricht, di un effettivo nuovo ordine sociale mondiale, di una sensibilità intransigente per la giustizia verso il mondo non sviluppato 2 6 •

La veloce diffusione del leghismo, con l' indebolimento dei valori di solidarietà in favore di un'accentuazione dell' individualismo e del corporativismo territoriale costituirono i segnali evidenti del processo di frantumazione sociale, cui contribu­ irono le difficoltà sia della D C sia del PCI-PD S, fermatosi al 1 6,1%, con la neonata Rifondazione comunista al s,6%. 24. Cfr. la dettagliata analisi dell'enciclica e delle sue implicazioni in R. Orfei, Questione antro­ pologica e dottrina sociale, in "Mondoperaio", settembre 20I2, 9, pp. 59-62. Cfr. per la figura del pon­ tefice e il suo rapporto con l' Italia anche il recente A. Scornajenghi, L'Italia di Giovanni Paolo II, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 20I2. 25. A proposito delle elezioni politiche dell'aprile I992, cfr. G. D 'Agostino, M. Mandolini, R. Vigi­ lante, Le elezioni politiche dell'aprile I992, in "Italia Contemporanea", giugno I992, I 87, pp. 2I3-22. Cfr. pure G. Sani, I992: la destrutturazione del mercato elettorale, in "Rivista Italiana di Scienza Politica", dicembre I992, 3, pp. 5 39-65. 26. Andreotti a Martinazzoli, 2I luglio I993, in ASILS, AGA, Martinazzoli. 23 3

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Orgoglio e difesa del passato, ricostruzione storica e questione morale, nuova riflessione su temi ritenuti essenziali ( come la bioetica e l'immigrazione ) alla luce della dottrina sociale della Chiesa s'intrecciavano problematicamente nei tentativi di rilancio del Partito democristiano. Il ricorso al giudizio etico-civile come strumento di battaglia politica da parte dell'ormai ex PCI, divenuto PDS al xx Congresso del 199127, induceva alcuni dirigenti della DC, da un lato, a rivendicare le nobili radici della propria tradizione culturale e, dall'altro, a ricercare le cause della frammentazione sociale per affrontare la crisi del sistema politico come del partito. Oltre ad Andreotti28, vi si soffermò da questo punto di vista Gerardo Bianco, presidente del Gruppo par­ lamentare democristiano alla Camera. Scrivendo a Martinazzoli nel novembre del 1993, Bianco condannò in primo luogo le « falsificazioni storiche » , la damnatio memoriae in atto secondo lui contro la DC, accusata in modo semplificatorio di essere stata per troppo tempo il centro di un sistema corrotto di potere. Nonostante la crisi del comunismo, secondo Bianco, la sinistra continuava a perseguire un disegno egemonico di forza modernizzatrice, forse utile a frenare l 'emorragia elettorale, ma non a dare una risposta alla profonda crisi di delegittimazione in cui versava il paese : La politica, peraltro, del PDS resta dentro la vecchia logica partitica, giocata secondo il modulo del controllo su gruppi politici satelliti, senza alcun progetto coerente, senza alcuna reale percezione della vera crisi della società italiana e occidentale. Ed è invece dentro questa crisi, che è di delegittimazione di principi e di regole, di spinta di secolarizzazione, di allen­ tamento dei legami sociali, di perdita di senso dei valori e di un 'etica comune, che bisogna collocarsi per offrire adeguate risposte politiche t9•

Per costruire « una nuova cultura per una nuova politica » , due erano per Bianco i dati storici fondanti da cui ripartire: l'unità nazionale, « conclusione storica di un'a27· « Il fallimento politico-ideologico del "socialismo reale" » , si legge in un "Appunto" del 28 maggio 1990 per Andreotti, « sembra aver lasciato al P C I, come unica arma dialettica, uno spregiu­ dicato ed esasperato moralismo che, tuttavia, anche all ' interno del partito viene giudicato poco efficace, come dimostra il fallimento dell 'offensiva condotta contro il Ministro dell' Interno» ( in A S I LS, G. Andreotti, prat. 288/I/s7). Occhetto aveva tra l 'altro polemizzato con Andreotti circa il « mercan­ teggiamento per le cariche pubbliche » (cfr. lo scambio di lettere, del 26 e 28 ottobre, in ASILS, G. Andreotti, f. 31 3). Sul tema del "processo" alla D C e della "diversità" comunista, cfr. ancora A. Giova­ gnoli, La crisi della centralita democristiana, in Colarizi, Craveri, Pons, Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., pp. 99-101. L'esperienza del comunismo sovietico era, d'altronde, a tutti gli effetti inutilizzabile per affrontare la crisi italiana, per la quale i dirigenti del P C I dovettero attingere, ora più che mai, alle peculiarità di un partito che, da Berlinguer in poi, aveva coltivato dall'opposizione un progetto di egemonia accentuando il proprio profilo "etico", nazionale ed europeista: cfr. le osser­ vazioni finali di S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006, pp. 247 ss. 28. « La gelosa rivendicazione della tradizione D C è il modo migliore - forse l 'unico - per essere aperti al futuro» disse alla Direzione D C del 29 gennaio 1990, in ASILS, G. Andreotti, b. 986. 29. Bianco a tutti i senatori D C ( inviata anche, in precedenza, a Martinazzoli), 9 dicembre 1993, in ASILS, G. Andreotti, b. 986. 23 4

LA D C E LA C R I S I DEL S I S T E M A P O LITI C O . T E M I E P E R S O NA G G I ( 1 9 8 9 - 9 4 )

spirazione millenaria della comune coltura italica » , che non poteva essere « oggetto di compromessi » ; il rifiuto e il giudizio negativo sul fascismo, « un passato di tiran­ nide » , verso cui non andava usata alcuna equivoca indulgenza. Riannodare « con energia i fili spezzati delle grandi tradizioni politiche del paese » in una nuova sintesi significava saldare, scrive Bianco, « le culture della solidarietà, dei legami sociali, del valore della famiglia » con « quelle delle regole, del costituzionalismo, della statua­ lità » , per « dare una risposta adeguata alla crisi del nostro tempo » . La frammenta­ zione politica e sociale andava ricondotta, dunque, nell 'ambito di un rinnovato e coerente sistema di responsabilità e di regole, in grado di mettere insieme i filoni storici liberai-democratico e del socialismo riformista, considerati due diverse ma « integrabili » culture politiche. Due erano i nomi con i quali condividere tali obiet­ tivi e rianimare il dibattito politico : Mario Segni e Giuliano Amato30. Mario Segni, principale animatore dei referendum per la modifica della legge elettorale svoltisi nel 1991 e nel 1993, emerge in questo contesto come la figura che più convintamente portò avanti l 'idea che quanto andava accadendo nel paese dopo i fatti del 1989 non fosse « una crisi normale ma una crisi di sistema» 31; su questa tesi di fondo s ' incontrava con le analisi dello storico cattolico Pietro Scoppola, secondo il quale la secolarizzazione, il crollo del comunismo e lo sviluppo economico avevano trasformato radicalmente le condizioni che avevano generato il partito cat­ tolico31. Sull' idea di un profondo rinnovamento, da perseguirsi tramite riforme isti­ tuzionali ed elettorali, convergevano non soltanto alcuni spezzoni della D C , ma anche la CISL di Franco Marini e le ACLI presiedute da Giovanni Bianchi, favorevoli a « una pluralità di interventi » in grado di costruire un sistema con cui « assegnare peso maggiore all'elettore, responsabile capacità di governo, severa selezione di una classe politica ancorata all' interesse della Cosa Pubblica e resistente alle pressioni degli interessi settoriali » 33• Segni insistette affinché la DC riassumesse centralità e decisionalità politica rispetto al rapporto con il PSI e a quella che più volte definì vera e propria subordinazione al leader socialista Bettino Craxi. Riprendere le alleanze degasperiane, cioè la stretta intesa tra DC e laici, significava in primo luogo puntare sul rapporto con il Partito repubbli­ cano : «La Malfa è il nostro naturale alleato, Craxi il nostro naturale avversario » , 30. I tre punti di una possibile convergenza erano: a ) politica estera (per rilanciare l 'europeismo); b ) riassetto istituzionale; c) nuova economia e fiscalità. Bianco a tutti i senatori D C ( inviata anche, in precedenza, a Martinazzoli), 9 dicembre I993, in A S I LS, G. Andreotti, b. 986. Cfr. anche G. Bianco, La Balena bianca. L'ultima battaglia I990-I994· Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 201 1. 3I. M. Segni, Non e una crisi normale, e una crisi di sistema, in "Obiettivi del Centro Vanoni", II, 25 maggio I989, 25, pp. I-3· 32. Cfr. il dibattito riportato in Segni e Scoppola incalzano Giulio, in "Avvenire", 28 maggio I992. Cfr. anche A. Giovagnoli, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 201 1, soprattutto pp. I89-95. 33· Cfr. il documento illustrato da Marini e Bianchi il 6 marzo I990, riportato in "ACLI Oggi", 9 marzo I990. 23 5

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osservò in una lettera a Forlani34• « La preoccupazione di governare è giusta » , scrisse ancora a Gerardo Bianco il 25 maggio 1 9 9 2, « ma la ricerca dell'accordo vissuta in modo così ossessivo da tradursi in un appiattimento su Craxi non solo ci ha tolto ogni capacità di iniziativa, ma ha compromesso le capacità di governo della maggioranza »35• Dopo i gravi fatti di Milano - con l 'arresto dell'esponente socialista Mario Chiesa a seguito dell'indagine condotta dal PM Antonio Di Pietro -, per Segni la moraliz­ zazione della politica e il cambiamento della classe dirigente erano divenuti conditio sine qua non per ridare credibilità al sistema parlamentare e dei partiti, al di là della strumentalizzazione che ne poteva fare la sinistra ex comunista ai danni della D C . La questione morale, ragionò, era divenuta ormai « ineludibile » anche per la DC, ed era « grave » che lo fosse diventata per un' inchiesta giudiziaria, poiché, scrive ancora nella lettera citata a Bianco del 1 9 9 2 : Tutti sapevamo che i fatti che stanno venendo alla luce erano estesi e legati a un sistema corrotto e corruttore: tutti sapevamo che le pratiche interne di partito [ ... ] con il tesseramento in gran parte pagato, con Congressi truccati, con la lottizzazione sfrenata sono una delle cause di tutto questo. Contro tutto ciò vi è stata una sola grande iniziativa, quella referendaria, volta a rompere i meccanismi della partitocrazia e a porre le basi di una politica più onesta [ . . . ] . E la colpa grave dei dirigenti del nostro partito è stata di aver saputo e tollerato tutto questo e di aver permesso che la vita dei partiti e delle correnti si trasferisse in parte nel terreno della illegalità. E grave per ogni formazione politica. Per un partito a ispirazione cristiana significa abbandonare le ragioni stesse della nostra essenza3 6• '

L'azzeramento del precedente tesseramento e la promozione di una campagna straor­ dinaria di adesioni, lanciata all'inizio del 1993, furono ritenuti insufficienti. In una lettera al neosegretario Martinazzoli, del 1 3 febbraio, Segni - che di là a breve sarebbe uscito formalmente dal partito - esprimeva la convinzione che i cattolici democratici avrebbero potuto continuare a essere attori della rinascita dello Stato solo se, nel nuovo quadro politico e istituzionale, si fossero stabilmente collegati a movimenti e a persone di diversa provenienza culturale e ideologica, «con la parte più vitale e moderna del mondo laico, degli ambientalisti, di tutta quella parte della sinistra disposta a lavorare per qualcosa di radicalmente nuovo » . Il movimento dei cattolici democratici doveva dunque svilupparsi secondo una « linea di progresso e di modernità » , rifiutando l'ipotesi moderata e conservatrice, propria di un « blocco di destra » , così lo definì, «lontano dalla cultura e dai contenuti programmatici dei cattolici democratici » . Un rinnovamento reale non era tuttavia possibile « senza una rottura netta col passato » : 34· « La cessione ai socialisti della guida del governo significherebbe l 'acquiescenza alle posizioni socialiste in campo istituzionale, l 'abbandono da parte del partito di maggioranza relativa alla guida del paese in uno dei momenti più importanti della sua storia. Questa linea è un autentico suicidio, è la rinunzia a un patrimonio politico e morale prezioso per tutto il paese » (Segni a Forlani, s.d., in ASILS, AGA, M Segni, b. 1842). 3S· Segni a Bianco, 25 maggio 1992, ibid. 36. Ibid.

LA D C E LA C R I S I DEL S I S T E M A P O LITI C O . T E M I E P E R S O NA G G I ( 1 9 8 9 - 9 4 )

L'esperienza dei cattolici democratici può continuare solo se trapiantata in una nuova strut­ tura. Ma non è possibile che in questa struttura entrino, con piena legittimità, tutti coloro che hanno la responsabilità di aver portato la Democrazia cristiana e l' Italia alla drammatica crisi che stiamo attraversando ; non è possibile cioè portarvi dentro tutta intera la attuale Democrazia cristiana37•

La fine della DC, consumatasi con la nascita del PPI nel 1993, preceduta e seguita da scissioni ( prima il Movimento dei cristiano sociali fondato da Ermanno Gorrieri poi il Centro cristiano democratico di Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella) , si palesò con le elezioni del 27-28 marzo 1994. Leader storici come Emilio Colombo vi videro un parallelismo con l 'appuntamento del 1 8 aprile 1948: il centrismo risultava dunque, come allora, la risposta tanto alle contraddizioni e ai «pericoli » della sinistra, quanto al « vuoto politico » della destra38• Il PPI vi giungeva dopo un'intensa rielabo­ razione culturale - nell'ambito dell'Assemblea programmatica costituente presieduta da Rosa Russo lervolino e tenutasi a Roma il 23-26 luglio 1993 - che aveva portato a mettere al centro della sua funzione politico-sociale il valore cristiano della solidarietà e a individuare in don Luigi Sturzo la figura principale della sua tradizione storica39• Segni, abbandonata la D C -PPI, dopo aver rifiutato l' invito di Silvio Berlusconi a guidare la costituenda Forza Italia, cercò di stringere un accordo con la Lega Nord di Bossi, con il sostegno di un variegato e ampio fronte - che andava da Martinazzoli ad Amato, a La Malfa, a Formigoni e a Buttiglione. Un tentativo apparentemente andato in porto, presto sfumato per le pressioni di Berlusconi che riuscì a strappare l'alleanza con il movimento leghista40• Il Patto per l ' Italia, coalizione di centro for­ mata da PPI, PRI, Patto Segni, Unione liberai-democratica e indipendenti socialisti, che sosteneva la candidatura di Segni alla presidenza del Consiglio dei ministri, si presentava così alle elezioni del 1994, che ne segnarono la sconfitta elettorale. Il PPI si fermava all ' 11,1%. Iniziava la contesa per l'uso del simbolo della DC, mentre con­ tinuava l' inarrestabile diaspora dei cattolici.

37· Segni a Martinazzoli, I3 febbraio I993· in A S I LS, AGA, M Segni, b. I 842. 38. Cfr. la lettera di Colombo al segretario del P P I , 2 marzo I994· in A S I LS, AGA, E. Colombo, pratica S99· 39· Cfr. ad esempio l' intervento di Gabriele De Rosa all'Assemblea, 26 luglio I 993· ivi, AGA, b. 986. Il I8 gennaio I994· all' Istituto Luigi Sturzo presieduto da De Rosa, ebbe luogo la fondazione del nuovo Partito popolare italiano, presenti l'ultimo segretario della D C Martinazzoli e l'ultimo presidente del C N lervolino, i presidenti di Camera e Senato Napolitano e Spadolini, i capigruppo D C di Camera, Senato e Parlamento europeo, Gerardo Bianco, Gabriele De Rosa e Mario Forte, dirigenti nazionali ed esponenti del mondo cattolico. Il 22 gennaio, al palazzo dei Congressi di Roma, si svolse l'Assem­ blea costituente del nuovo Partito popolare italiano (con relazioni di Martinazzoli, De Rosa, Bianco e Balboni), che confermò la propria collocazione di centro-sinistra. 40. Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica, cit., p. s2. 23 7

L' immagine della società italiana nel ceto politico : P C I e P S I alla fine della Prima Re pubblica di Marco Gervason i

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Craxi e Berlinguer: due visioni opposte della società I due partiti della sinistra elaborarono nel corso degli anni Ottanta visioni della società profondamente divergenti, quasi due forbici che, alla fine del decennio, si erano ancor più allargate rispetto a quello precedente. Mentre l'idea d ' Italia presen­ tata dal P SI al Congresso di Torino del 1978 aveva molti elementi comuni con quella proposta dal PCI nel Congresso di Roma dell'anno successivo (insieme a moltissime ovvie differenze), nel giro di breve tempo i due partiti finirono per vedere due paesi e soprattutto due società diverse'. A costo di rischiare di essere schematici, potremmo dire che l ' Italia vista dal PSI era essenzialmente dinamica e aperta, l'altra, quella vista dal PCI, statica e chiusa. Era dinamica, la società italiana percepita dal PSI, perché sottoposta in pieno a quel processo di mobilità sociale che la fine degli anni Settanta aveva iniziato a dispiegare. Quella dei proprietari delle piccole e medie imprese, che in molti casi da operai erano diventati imprenditori; quella del nuovo ceto medio "intellettuale" dei servizi, della cultura, dei media, assieme a imprenditori attivi in settori relativamente inesplorati e al nuovo management; infine la mobilità degli strati sociali tradizionali ma trasformati: una classe operaia sempre più assimilabile ai tec­ nici, un ceto impiegatizio più vicino al modello americano coevo2• Questa società era aperta non solo nel senso popperiano, pure esplicitamente rivendicato dal PSI, ma anche perché capace di consentire un' integrazione sempre più crescente. Erano lenti che puntavano verso Milano e la Lombardia, per ovvio radicamento della nuova leadership socialista, ma anche verso il Piemonte, il Nord-Est e la dorsale adriatica I. In generale, cfr. G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2ou. 2. Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell 'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2oos; G. Acquaviva (a cura di), La politica economica italiana negli anni Ottanta, Marsilio, Venezia 2005; B. Pellegrino, L'eresia riformista. La cultura socialista ai tempi di Craxi, Guerini e Associati, Milano 2010. 23 9

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dei distretti. E che prendevano sul serio le analisi del CEN S I S , per cui gli ultimi anni Settanta, ancorché essere caratterizzati da declino, crisi e miseria, avevano prodotto un'intensa mobilità sociale ed erano stati caratterizzati da un « boom immisurabile » 3• Quale Italia invece avesse in mente il PCI lo si capisce scorrendo i principali interventi di Berlinguer, che, almeno su questo tema, non sembrano registrare sostan­ ziali differenze tra il periodo dell'unità nazionale e quello successivo al 1980. La summa della rappresentazione berlingueriana della società la si ritrova infatti nel famoso discorso dell' Eliseo del 1977, dedicato alla « austerità » , slogan che continuò a essere agitato dal segretario fino alla morte4• Una società statica, quella vista dai comunisti, perché incapace di sbloccarsi politicamente: gli operai, i giovani, gli stu­ denti, le donne erano destinati a restare attori subalterni e marginali finché il P C I , loro rappresentante, non avesse avuto accesso al governo. Ma la società italiana era resa statica e irrigidita anche dalla crisi economica, interpretata dal PCI non come congiuntura ma come una crisi di sistema - di cui la questione ambientale non era che uno degli effetti finali. Benché Berlinguer facesse un uso parco di questo con­ cetto, i comunisti intendevano il passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta come l'ennesima crisi del capitalismo, che aveva generato una "restaurazione capitalista" e una "nuova offensivà' di cui le prime vittime erano i lavoratori e i "soggetti deboli". Nonostante la crisi non fosse più analizzata, come tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, con le categorie dell 'economia politica sovietica, come allora questo paradigma impedì ai comunisti di cogliere la novità delle trasformazioni sociali5• La «principale forza della sinistra italiana riscoprì tutto il fascino del "crollismo" » 6 , un crollo economico, prima di tutto, ma anche sociale e morale. Non a caso nel lin­ guaggio di Berlinguer si sprecavano le metafore attinte dal vocabolario medico e biologico (come quelle di « degenerazione » e « malattia » ) applicate alla tenuta dei legami sociali. Per il PCI la società italiana era chiusa, infine, perché le tradizionali disuguaglianze sociali finivano per accentuarsi, in una situazione di coperta corta generata dall'aumento del debito pubblico. Si è detto che queste rappresentazioni non mutarono troppo nel decennio inter­ corso tra il 1975 e la morte di Berlinguer. Ed è questo uno dei segni più gravi della difficoltà della leadership comunista a entrare in contatto con i mutamenti sociali. Se infatti diversi fenomeni denunciati dal PCI erano effettivamente ben presenti nella seconda metà degli anni Settanta, fu davvero incongruo descrivere l ' Italia del 1984 in termini miserabilistici - e costruirvi dopo il D.M. 14 febbraio 1984 una mobili3· Cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, MarsUio, Venezia 2010. 4· E. Berlinguer, La via dell'austerita. Per un nuovo modello di sviluppo, Edizioni dell 'Asino, Roma 2010. S· S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006. 6. A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano 2008 (nuova ed.), p. 47·

L ' IMMAGINE D E LLA S O C I ETÀ ITALIANA NEL C ETO P O LI T I C O

razione contro il governo Craxi e una campagna referendaria. Poco o nulla poi poté - o volle - quella parte non piccola del PCI, la cosiddetta "destra" guidata da Giorgio Napolitano, che condivideva nulla di questa deriva, concettuale ancor prima che politica. Le rappresentazioni della società sono dei filtri per selezionare gli attori sociali a cui parlare. Nel PSI, ferma restando la tradizionale constituency di pubblico impiego e di lavoro salariato tipica degli anni precraxiani, la visione di una società trasformata spinse Craxi ad allargare la rappresentanza a tutti i ceti nuovi, compresi gli impren­ ditori. Si trattò di un' indubbia novità nella storia della sinistra italiana : non perché negli anni precedenti il PSI di De Martino e anche il PCI invitassero ancora alla lotta di classe; solo che parlavano genericamente di ceti produttivi o di produttori e non di imprenditori e manager come invece faceva ora il PSI. Un conto poi era auspicare che imprenditori e persino manager potessero votare per il PSI, cosa ben diversa era mirare al loro consenso organizzando policies a loro rivolte o facendoli partecipare all'elaborazione di partito. Al contrario il PCI, avendo nella testa un' Italia in crisi, non poté che rinserrarsi nelle casematte e nelle roccaforti tradizionali: la classe operaia, di cui però non riuscì a vedere i mutamenti e il cui declino quantitativo fu interpretato solo come effetto della crisi economica e non come un dato strutturale; poi i "nuovi soggetti" degli anni Settanta, i giovani, i disoccupati, le donne. Erano tutti diventati "soggetti deboli", un'espressione che entrò nella lingua comunista, con una curiosa innovazione rispetto alla tradizione marxista e leninista, che aveva sempre inteso rappresentare non un soggetto debole ma al contrario fortissimo come la classe operaia. Tanto che Berlin­ guer, nella famosa intervista a Scalfari del 1981, quando volle fornire un esempio del grado di innovazione della dottrina comunista italiana, citò proprio la capacità del PCI di rappresentare l'alleanza della classe operaia con i «ceti deboli » e addirittura con gli « emarginati » 7•

2 Quale "nuovo Pci"? Sarebbe ingeneroso sottovalutare lo sforzo di innovazione nel PCI dopo la morte di Berlinguer, cominciato al Congresso di Firenze del 1986, poi proseguito nell'ampio dibattito della Direzione dopo la sconfitta alle politiche del 19 8i, quindi approdato alla nuova segreteria di Occhetto. Nonostante le innovazioni di linguaggio e il maggior dinamismo comunicativo, la nuova leadership occhettiana non si allontanò tuttavia 7· E. Scalfari, I partiti sono diventati macchine di potere, intervista a E. Berlinguer, in "la Repub­ blica", 28 luglio I981. 8. P. lgnazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna I992.

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dalla matrice fondamentale della lettura berlingueriana. Del tutto in linea con l'ultimo Berlinguer (che « aveva visto lontano » ) era infatti la lettura occhettiana della crisi come fine di un modello (ora chiamato « industrialista » ), con toni però ancora più apocalittici di quelli del PCI del 1983: fino a parlare del « terrificante rapporto possi­ bile fra modernizzazione e catastrofe » 9• Quanto al rapporto con i ceti produttivi, come si diceva nella langue comunista, Occhetto confermò che il PCI non era ostile alla libera impresa, salvo però specificare che «la ricerca del profitto » non doveva essere l'unico « fine della produzione » '0• La società italiana della fine degli anni Ottanta restava per Occhetto « regolata dai valori di pura competizione, del successo proprio fondato sull' insuccesso altrui, del consumare comunque e il più rapidamente possibile il massimo di merci » ". Il paradigma dell'austerità - ancora presente nel discorso occhettiano - portava poi con sé un'aporia fondamentale: se la società italiana era disgregata, e secondo Occhetto quella della fine degli anni Ottanta lo era assai di più dopo un decennio !iberista, come si poteva riporre fiducia nella sua capacità di rinnovare o addirittura di rigenerare la politica ? Invece Occhetto, come già l'ul­ timo Berlinguer, si appellò a « un processo di autorganizzazione della società civile ed economica » , con una rottura decisa rispetto alla tradizione classica comunista, tutta fondata sulla centralità del «politico » 12• L'Italia a cui puntava il nuovo PCI di Occhetto, in sincronia culturale con il rinnovamento dell' Unione Sovietica e del socialismo reale dietro a Gorbacev'\ era quella di un più autentico socialismo, e non di una societa degli individui, un orizzonte invece da scongiurare, assieme all'indivi­ dualismo e ai suoi portati. Nonostante la riflessione innovativa sulla società dei diritti, sui cittadini e sulla Rivoluzione francese, e nonostante le letture di Bobbio e di Dahrendorf, Occhetto e il nuovo PCI continuavano a considerare l'individualismo una tendenza negativa, con cui leggere molti dei mali della società italiana.

3 La società degli individui del

PSI

Siamo lontani anni luce dal P S I , che già al Congresso nazionale di Rimini del 1987, per voce soprattutto di Claudio Martelli, aveva invitato la sinistra a riporre « fiducia nella modernità » , nella società fondata sull' individualismo « come solo valore effet9· A. Occhetto, Un indimenticabile 'Sg, Feltrinelli, Milano I990, p. 6s. IO. lvi, p. 69. I I. lvi, p. 48. I2. lvi, p. S7· Cfr. su questo tema A. Guiso, Dalla politica alla societa civile. L'ultimo PCI nella crisi della sua cultura politica, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. I8I ss. I 3. S. Pons, Il PCI, l'uRSS e il "socialismo reale", in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. I69-8I.

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tivamente universale » e nel socialismo riformi sta inteso come « sviluppo della libertà » 14• Quello di Martelli al Congresso di Rimini era un appello alla società civile per certi versi assonante con quello del nuovo PCI, anche perché comuni erano le fonti filosofiche di questo approccio, Bobbio in testa, ma anche Rawls e i contrat­ tualisti americani: solo che il P S I vi era arrivato almeno una decina d'anni prima. Pur senza gli accenni filosofico-politici e movimentistici, era una lettura ben condivisa anche da Craxi: nel suo discorso al Congresso nazionale di Milano del 19 89, egli evocò infatti una società italiana in un decennio diventata «più ricca, più evoluta, più libera » e per questo bisognosa di risanamento, imposto dal logorio della finanza pubblica, non più tollerabile nella nuova Europa. L' Italia di fine anni Ottanta era per i socialisti più che mai bisognosa di scrollarsi di dosso i ritardi, attraverso iniezioni di mercato che favorissero una società « non dominata e soffocata da indebite concentrazioni di potere economico e dai dogmi culturali contrari alla razionalità economica » . La sinistra doveva infatti comprendere che la ricerca del «profitto » , quando « è frutto di una concorrenza leale e non oppressiva dei diritti dei lavoratori nell' impresa » , è un « dato positivo » , anche da un punto di vista socialista, perché grazie allo sviluppo « tutti i cittadini possono avere, in una economia sana, una occupazione sana e durevole » 15• Il PSI si poneva così l 'obiettivo di una riforma del capitalismo italiano per ampliare il "pluralismo economico" in modo da assicurare maggiore libertà di azione agli imprenditori « non bloccati dalla conflittualità permanente » . Per questo occor­ reva intervenire anche sul mercato del lavoro, « vincolato da regole troppo rigide per far fronte alle sfide richieste dall'economia mondiale » . Erano riforme in linea con i mutamenti della società italiana ed europea, una « società post industriale » 1 6 sempre più centrata sui diritti e sui doveri degli individui, con il lavoro come azione di promozione di sé e dei propri meriti; ecco perché « vi sono valori una volta appartenenti alla cultura imprenditoriale che sono oggi consi­ derati valori sociali largamente giusti e condivisibili » 17• Il tema della democrazia economica aveva poi un peso non inferiore nel P SI di quello che aveva nel P C I : solo che per i comunisti questo concetto significava supe­ rare un capitalismo in ultima istanza negatore della democrazia, mentre per i socia­ listi il mercato era una fonte di opportunità, che doveva essere regolato non tanto dallo Stato quanto dalla rete degli attori sociali. Il tema della regolazione del mercato occupò un ruolo ancora più ampio nelle tesi I4. C. Martelli, Il merito e il bisogno, SugarCo, Milano I988, pp. 3 I s-6. IS. B. Craxi, Dieci punti per una riflessione ideale e politica. Relazione congressuale XL V Congresso PSI - Milano 13 maggio 19Sg, in U. Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi. Interventi e documenti del PSI, M&B Publishing, Milano 2002, p. 34I. I 6. L 'Italia verso l'Europa. Il documento della Direzione per il XL V Congresso socialista (1gSg), in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 387. I7. lvi, p. 4I I. 2 43

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approvate alla Conferenza programmatica del P S I , svoltasi a Rimini nel marzo 1 9 9 0, con la difesa del sistema misto italiano, assai vicino a quello tedesco, che non «può essere travolto nel nome di indefinite privatizzazioni affrontate talvolta con una dema­ gogica ideologia » e dal perseguimento delle «dottrine conservatrici dell 'arricchi­ mento collettivo e dello sgocciolamento verso il basso » 18• Un punto su cui v'era sin­ tonia con il PCI, che, nonostante le spinte privatizzatrici di diversi esponenti della sinistra indipendente, anche dopo la Bolognina continuò a ribadire di essere contrario alle privatizzazioni. Il maggior accento critico del PSI nei confronti del mercato era anche dovuto all'esperienza dei disordini sociali che, negli Stati Uniti, in Gran Bre­ tagna e in Francia, erano stati prodotti dalle conseguenze delle politiche del trickle down. Non a caso proprio dopo il crollo del Muro, il presidente Mitterrand cominciò a incalzare il primo ministro Miche! Rocard e il potente ministro dell'economia Pierre Eugène Bérégovoy su questo tema19• Come se vi fosse la necessità, nei governi socialisti, di dimostrare che il crollo del Muro non significava ipso facto la vittoria dei valori e delle politiche del capitalismo anglosassone. Un passaggio, questo, chiaramente pre­ sente nelle tesi di Rimini del 1 9 9 0, dove, tra le politiche conservatrici e il fallimento dell'esperimento statalistico del comunismo, il PSI proponeva il « socialismo liberale » che « consapevole dei limiti dell 'azione pubblica » intende però « dettare regole » al mercato e promuovere la democrazia economica20• Del resto, nonostante una lettura eccessivamente ottimistica della tenuta del sistema, i socialisti sapevano di trovarsi in una fase di passaggio della società italiana, in cui di fronte « allo stato in cui versa la finanza pubblica, sempre in crisi e con tendenze al peggioramento » , il ruolo e soprat­ tutto le capacità di intervento del governo erano diventati molto !imitatili.

4 Il berlinguerismo postcomunista all' inizio della transizione Se queste erano le preoccupazioni di un partito di governo che giudicava positivamente le trasformazioni della società italiana, negli stessi fenomeni il PCI non poteva che vedere la conferma di un'interpretazione pluridecennale della società italiana. La rela­ zione di Occhetto al XIX Congresso del PCI, nel marzo 1990, si aprì infatti con la

1 8. Un riformismo moderno, un socialismo liberale. Tesi programmatiche, Rimini, 22-25 marzo 1990, in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 4SS· 19. M. Gervasoni, François Mitterrand. Una biografia politica e intellettuale, Einaudi, Torino 2007, p. 221. 20. Un riformismo moderno, un socialismo liberale, cit., p. 461. 21. P S I , Direzione nazionale, 13 luglio 1990, in Fondazione Bettino Craxi (d'ora in avanti F B C ) , Archivio Bettino Craxi (d'ora in avanti A B C ) , Bettino Craxi 1959-2000, sezione 1. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Direzione nazionale ed Esecutivo, UA 130. 24 4

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descrizione di un mondo impoverito dai disastri sociali realizzati dal liberismo. Occhetto presentò così la svolta come un'azione per ampliare la forza antagonistica dei comunisti, che dovevano abbandonare la loro tradizione per meglio combattere le « forme di dominio del capitalismo » 22 e proporre una politica di « contestazione delle logiche di pura crescita quantitativa » 23• Per questo, ancorché procedere a pri­ vatizzazioni, il «pubblico » doveva rafforzare la sua capacità di « direzione strategica e di controllo » e la politica introdurre « nuove forme di regolazione economica e sociale » 24• A dispetto della svolta postcomunista, non era una lettura molto diversa da quella del XVI II Congresso, l'anno precedente, quando, pochi mesi prima della caduta del Muro, Occhetto voleva ancora « rilanciare il comunismo » . Come spiegò del resto Bertinotti nel suo intervento al XIX Congresso, era venuto il momento di « uscire dal ciclo degli anni Ottanta » e far ripartire un processo di conflittualità, di fronte « all'espansione dell 'offensiva del capitale » 25• Abbiamo citato interventi di esponenti del "sì" e del "no" alla svolta di Occhetto perché, pur con molte differenze, per altri versi accentuate in sede congressuale, tra i due campi l'interpretazione della società non era molto diversa: semmai le letture di Tortorella e di Cossutta, primi firmatari rispettivamente della mozione 2 e 3, contrarie all'abbandono dell' identità comunista, rimanevano agganciate al linguaggio della tradizione marxista, laddove, come faceva rilevare polemicamente Cossutta, le posi­ zioni di Occhetto erano caratterizzate da « espressioni e motivazioni di tipo mistico comunque predicatorie e poco produttive » 26• La visione anticapitalistica e alternati­ vistica, presente nelle due aree del "no': era tuttavia ben salda anche nella maggioranza. Il Partito comunista in transizione, proprio nella veste in cui lo presentava il suo segretario, si definiva dunque con un'identità antagonista, intenta a promuovere e organizzare le conflittualità, mentre il PSI si sforzava di fornire una risposta di governo alle inquietudini che agitavano il corpo sociale. Non era, come abbiamo detto, una divisione dettata solo dall'essere il PCI all'opposizione e il PSI al governo. In realtà, nella maggioranza del PCI la costruzione di una cultura di governo fu frenata dalla rivendicazione dell 'antagonismo e della conflittualità, dal retaggio del passato, dalla consistente opposizione del "no" e infine dai dubbi di diversi esponenti della maggioranza, che avevano sposato la proposta di Occhetto in piena emergenza ma che volevano il più possibile mantenere vive le tradizioni comuniste. Questo conservatorismo si sposava del resto con l'esprit du temps. I capisaldi minimi della sinistra europea, che avevano retto negli anni Ottanta, cominciavano infatti all 'inizio 22. A. Occhetto, Un nuovo inizio: la fase costituente di una nuova formazione politica. Relazione al XIX Congresso, 7 marzo 1990, in "l ' Unità", 8 marzo I990. 23. Intervento di W. Veltroni al XIX Congresso Nazionale del PCI, ivi, IO marzo I990. 24. Occhetto, Un nuovo inizio, cit. 25. Intervento di Fausto Bertinotti al XIX Congresso nazionale del PCI, in "l ' Unità", 9 marzo I990. 26. Mozione 3· L'intervento di Cossutta, ibid. 24 5

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degli anni Novanta a sgretolarsi abbastanza vistosamente, come si vide con il declino elettorale delle forze socialiste francesi e spagnole, con le difficoltà delle social­ democrazie scandinave e con l'ormai cronica incapacità di tedeschi e di inglesi di vincere le elezioni. Le difficoltà della social-democrazia europea non fecero perciò che rinfocolare, non solo tra gli ingraiani e i cossuttiani, ma anche in larga parte della maggioranza occhettiana, il paradigma berlingueriano della «crisi della social-demo­ crazia » . Anche se l' anticraxismo vi giocò una parte rilevante, non fu solo quindi per smarcarsi da un PSI sempre più impopolare a sinistra che il nome "socialistà' per il nuovo partito fu contemplato solo dalla pattuglia migliorista. Entrare nell ' Interna­ zionale socialista era ritenuto dalla maggioranza occhettiana necessario per acquisire legittimità e rompere l 'isolamento internazionale; ben diversa cosa però era dotarsi di una cultura riformista social-democratica che nel Partito democratico della sinistra ( Pns ) era considerata anch'essa messa in discussione dal crollo del Muro di Berlino.

La crisi del

s

PSI

n eli' interpretare la società italiana

Durante la campagna elettorale per le politiche del 1 9 9 2, Craxi batté spesso sul tasto dei vincoli imposti dall 'economia internazionale sulle possibilità di azione dei governi nazionali, in modo particolare di quello italiano, di un paese gravato da un deficit sempre in crescita. Erano poi ben presenti al leader socialista i vincoli esterni dell 'Eu­ ropa e di Maastricht, trattato che il governo andava firmando in quei giorni. Dopo Maastricht, spiegò Craxi, « non sarà più possibile il ricorso alle svalutazioni compe­ titive, al finanziamento della spesa pubblica con il debito pubblico, alla ricostruzione dei margini di profitto delle imprese con le fiscalizzazioni pagate dal drenaggio fiscale » , tutte « vie che ci porterebbero fuori dall' Europa » 27• Erano temi certo presenti anche nella cultura politica del PDS, e già ai tempi del PCI, ma rimasti ancorati a una dimensione astratta. E tuttavia, proprio l 'antagonismo del PDS, gli inviti alla società civile e al superamento della "forma-partito" predispo­ sero i postcomunisti a porsi meglio in sintonia con il vento di protesta che scuoteva il paese. Ecco così delinearsi, nella propaganda postcomunista del 1 9 9 2 un' Italia dei cittadini onesti incarnata dai magistrati e rappresentata dal P D S , ma anche dalle forze antisistema, e un'altra Italia, come scriveva Luciano Violante, « sudamericana » e « centroafricana » , dedita alla corruzione e ai taglieggiamenti, incarnata da Craxi28• Quella dell' Italia dei cittadini onesti (la maggioranza) contro la classe politica (ma di governo) disonesta era una rappresentazione che doveva moltissimo a Berlinguer. 27. B. Craxi, Discorso al teatro Lirico, 26 febbraio 1992, in FBC, sezione 1. Attivita di partito, serie 4· Elezioni, sottoserie 2. Comizi. 28. L. Violante, I dilemmi di Craxi, in "l' Unità", 4 giugno 1992.

A B C,

Bettino Craxi 1959-2ooo,

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Il quale però - e non era una differenza da poco - rimase sempre convinto della centralità del sistema dei partiti, la cui rigenerazione sarebbe giunta in primis dal Partito comunista e poi dalle spinte riformatrici interne alle varie forze politiche, e non certo dalle azioni della magistratura. L' immagine pidiessina delle due ltalie non richiedeva inoltre di definire gli attori e i settori sociali cui la sinistra, in questa fase di transizione, doveva rivolgersi. I continui inviti dei mesi precedenti di Occhetto a individuare i « soggetti sociali » vennero quindi accantonati per indirizzarsi a un' in­ distinta entità, appunto la maggioranza degli onesti. Con queste categorie il PDS non poteva che vedere il governo Amato come il fantasma dei tanto odiati anni Ottanta, fautore di « scelte neoliberiste non solo socialmente inique ma anche fuori dal tempo » , «prosecuzione aggiornata del cra­ xismo, anche senza Craxi » , frutto dei « vecchi partiti » da un lato e dei «poteri forti » dall'altro. A parlare non erano Cossutta, Garavini o lngrao ma Occhetto 29• Eppure, nella discussione sulla fiducia al governo, svoltasi alla Camera nel luglio 1 9 9 2, le parole di Amato erano suonate ben diverse da quelle dei suoi predecessori. L' Italia, spiegò il presidente del Consiglio, rischiava di «perdere il cuore » delle « attività produttive » , di diventare « una terra non più adatta ad insediare attività produttive nel primario e nel secondario » , solo un «paese di servizi, di gioco, di svaghi e di altro » . Il risanamento era perciò inevitabile per far ripartire lo sviluppo, con una «politica dei redditi » che salvaguardasse «l'equità » attraverso sacrifici « equamente distribuiti » 30• Un'analisi, quella del nuovo presidente del Consiglio, pienamente condivisa da Craxi, che, nella Direzione del 6 agosto 1992, spiegava la crisi dell'associazionismo poli­ tico e dei partiti, «l'impoverimento della loro vita associativa » , con l'accelerazione imposta da una società «divenuta più ricca, più libera, più colta, più esigente » ; rispetto a questi mutamenti i partiti erano rimasti legati alle modalità « fideisticamente mobili­ tative del dopoguerra »31• Quanto all' Italia, la diagnosi di Craxi era altrettanto severa di quella del presidente del Consiglio: il paese correva infatti il rischio reale di un «processo di sudamericanizzazione » , con l'intrecciarsi di « disoccupazione, accentuata deindu­ strializzazione, criminalità diffusa del nuovo proletariato metropolitano, instabilità monetaria, fuga dalla moneta domestica e fuga di capitali » 32• Sia pure nel pieno di Tangentopoli, Craxi colse quindi i dati di mutamento di un paese dominato da « un sentimento di egoismo sociale che appare radicato in ceti del benessere » , con una società «diversamente stratificata, resa assai più complessa dal suo vigoroso sviluppo, una società in cui tutto cambia con una rapidità impressionante e che è a un tempo più forte e più 29. A. Occhetto, Ricostruire la sinistra e l'Italia, ivi, 3I dicembre I 992. 30. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura, Discussioni, seduta del 4 luglio I992. 3I. PSI, Direzione nazionale, 6 agosto I992, relazione di Bettino Craxi, in F B C, A B C , sezione I. Attivita di partito, serie 2. Vzta interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 3· Dire­ zione nazionale ed Esecutivo, UA I8I. 32. PSI, Esecutivo, I7 luglio I992, relazione di Bettino Craxi, ivi, UA I 8o. 247

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debole. Più forte perché più organizzata e più ricca, più debole perché più articolata, più divisa, più influenzabile e più volubile » 33• Quello che Craxi non riuscì a fare fu però tradurre questa visione in tattica e in strategia, come invece gli era riuscito nel passato.

6

Populismo

e

giustizialismo

Con il crollo del P S I all 'inizio del 1 9 9 3 e con la morte di uno dei contendenti, finiva la lunga guerra a sinistra, di cui il PDS non sembrò dispiacersi troppo34• I postcomu­ nisti restavano, infatti, se non il solo soggetto politico nel campo della sinistra, quello di gran lunga preponderante e centrale, in grado di organizzare il campo e le alleanze. Con l 'ingresso nell' Internazionale socialista, il PDS proclamò con enfasi di incarnare, assai più di quanto non avesse fatto il PSI, il ruolo di sinistra riformista, social­ democratica e di governo - anche perché qualche importante esponente del socia­ lismo europeo aveva tutto l' interesse a farlo credere a Botteghe Oscure. Ma il rifor­ mismo social-democratico europeo non era solo un pacchetto di slogan buoni da recitare fuori dell' Italia: era una cultura politica e un sentire il mondo ancora poco diffusi non solo nei vertici ma soprattutto nella base postcomunista35• Proprio mentre il P D S si proclamava riformista e social-democratico in Europa, in Italia si presentava infatti come "rivoluzionario", di quella "rivoluzione" tutta partico­ lare ribattezzata "Mani pulite': che stava spazzando via il sistema politico dell' Italia repubblicana. Del resto, i leader del PDS andavano fieri di essersi sempre battuti, loro e i loro padri, Togliatti, Longo e Berlinguer, contro un sistema tarato fin dalle sue fondamenta, e sempre caratterizzato, spiegava il vicesegretario D 'Alema, dal « doppio stato illegale che si è retto in Italia, ed è stato coperto, in nome dell'anticomunismo »36• Solo ora l' Italia - aggiungeva Violante - può « voltare pagina » , purché gli interventi della magistratura incidessero non solo nella classe politica ma anche nella società: il nuovo, per « vincere » , doveva agire con « la durezza necessaria » , secondo le « aspet­ tative e [i] bisogni della grandissima parte del popolo italiano » 37• Un discorso di matrice giacobina e semanticamente vicino all' antiparlamentarismo non solo verbale della Lega e del Movimento sociale italiano (Msi) . Un discorso rafforzato dalle mobi-

33· P S I, Assemblea nazionale, 25 novembre I992 (relazione di Bettino Craxi), FBC, A B C, Bettino Craxi I9S9-2000, sezione I. Attivita di partito, serie 2. Vita interna del PSI, sottoserie 2. Riunioni di organi direttivi, sotto-sottoserie 2. Assemblea nazionale, VA I I. 34· C. Pinto, Lafine di un partito. Il PSI dal I992 al I994· Editori Riuniti, Roma I999; G. Acqua­ viva, L. Covatta (a cura di), Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio, Venezia 20I2. 3S· M. Gervasoni, La guerra delle due sinistre. Socialisti e comunisti dal '63 a Tangentopoli, Marsilio, Venezia 20I3. 36. M. D 'Alema, Il problema ora e il collasso del sistema, in "l' Unità", I2 febbraio I 993· 37· L. Violante, Il nuovo c'e, ivi, 7 aprile I993·

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litazioni an tipolitiche e dall'interpretazione "rivoluzionaria" del referendum del 18 aprile 1993, che, con uno spirito nuovo, come spiegò Veltroni, ha spazzato via il « tanfo» degli anni Ottanta38 •

7 Quale Italia dopo il crollo dei partiti : le illusioni della sinistra Sulle macerie del sistema politico il PDS cercò di ergersi a partito perno di un nuovo sistema, a cui avrebbe certamente aderito, come diceva Occhetto, larga parte degli elettori socialisti. Un errore di prospettiva, come si sarebbe visto da lì a poco, figlio di una lettura semplificata e di un'analisi assai imprecisa degli effetti sociali prodotti dal crollo del sistema dei partiti e dagli interventi fiscali sul welfare e sul rapporto tra Stato ed economia introdotti da Amato e da Ciampi. Né l 'approssimarsi delle elezioni amministrative spinse il PDS a una riflessione sui mutamenti della società italiana durante la transizione. Gli scarsi risultati dei candidati di Segni e della DC e la vittoria di quelli "progressisti" convinsero infatti i dirigenti del PDS che il centro era ormai svanito ; un risultato storico che, così credeva Occhetto, faceva del PDS non solo la forza principale a sinistra, ma anche il fulcro del sistema in un'elezione nazionale, vista l' impossibilità della Lega e del MSI di varare un governo. Forse il centro politico era sparito. Ma larga parte degli elettori della DC e del PSI non aveva alcuna intenzione di riconoscersi nel PDS. E non solo elettori "moderati": a cominciare dalla sconfitta dei progressisti al Comune di Milano, una città in cui fino a pochi anni prima il PCI era ancora il primo partito, ora finita nelle mani della Lega, per concludere con il « colpo subito nei ceti popolari » sia nel capoluogo lom­ bardo che a Torino. Voti operai che almeno in Piemonte erano in parte rifluiti sull'ex sindaco Diego Novelli, candidato della Rete e di Rifondazione comunista, mentre a Milano erano proprio finiti sul vittorioso candidato leghista Marco Formentini39• Tra i principali dirigenti del PDS solo D'Alema tentò un'analisi più fredda dei mutamenti della società italiana, in cui si era esaurito il compromesso sociale degli anni Settanta e nuovi e diversi gruppi sociali cercavano una rappresentanza: al Nord « una nuova classe dirigente espressione di una piccola e media borghesia aggressiva» , che conta « sull'integrazione sovranazionale di un pezzo del nostro Paese » ; al Sud una « borghesia assistita, al confine tra economia legale e criminale, che può venire attratta da un mezzogiorno che si collochi nel Mediterraneo come una comunità a debole sta38. W. Veltroni, E ora diamo corpo alla speranza, ivi, 20 aprile I993· 39· S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica {IgSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 3 I-9. La citazione sul « colpo subito» è di M. D 'Alema, La Quercia Segni e Gara vini, in "l ' Unità'', 1 1 giugno I993· 249

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tualità » . Pur nella piena demonizzazione di Craxi, a cui D'Alema contribuiva non poco, egli riconobbe - e siamo nel giugno 1993 - nel PSI il solo partito che aveva compreso la crisi del compromesso sociale democristiano negli anni Ottanta, e che aveva anche avviato « un grande tentativo di modernizzazione » che ora doveva essere ereditato dal PDS, attraverso l'alleanza tra forze del mondo del lavoro e quelle dell'imprenditoria40• Era un'analisi con molti elementi tipici della tradizione comunista italiana, e tuttavia una delle poche attente da parte di dirigenti del PDS, e stonava con le parole di Occhetto. Per il segretario infatti la « borghesia italiana » aveva puntato sul PDS, garante di « efficienza, ordine, sicurezza, ma anche solidarietà » , partito che garantiva «di contenere il costo del lavoro e l ' inflazione, attivando nuove politiche economiche e industriali, privatizzazioni comprese » : un riconoscimento, aggiungeva Occhetto, che veniva anche dal "Financial Times"41• Occhetto si paragonò persino al de Gaulle del 1958; come lui, il suo partito aveva attuato « un cambiamento di regime » , favo­ rito dalle « inchieste di Mani pulite che hanno funzionato un po ' come l'artiglieria contro il vecchio regime » in quella che è stata una « rivoluzione democratica dal basso » , guidata da un PDS in cui senza dubbio si sarebbero riconosciuti gli « strati del ceto medio produttivo che tradizionalmente si rivolgevano alla DC » 41• L'assoluta certezza di vincere le elezioni politiche non tanto per via di un'alleanza capace di sfruttare il nuovo sistema elettorale, ma proprio per la convinzione di rap­ presentare la maggioranza degli italiani fece chiudere la porta di Occhetto verso quei dirigenti socialisti che, al contrario, avevano compreso l'entità del vuoto lasciato dal crollo dei partiti di governo e che la sinistra postcomunista non poteva riempire. Si trattava infatti - spiegava uno di loro, Amato - di rappresentare « i ceti medi che hanno rotto con i vecchi partiti di governo e non stanno con la Lega, ma non si fidano degli ex comunisti » . Un centro fatto di imprenditori grandi e piccoli, di « quadri e di borghesia delle professioni »43• Preoccupazioni, quelle dell'ex presidente del Con­ siglio, che furono bollate sprezzantemente da Occhetto come «craxismo di ritorno » 44•

8 L' Italia "nuova" del 199 4 Nel frattempo, lavorava nell'ombra - ma neppure troppo - quel Berlusconi che si apprestava a riempire il vuoto politico, e a rappresentare le fasce sociali che Occhetto e Veltroni davano già per alleate alla sinistra. Il Cavaliere venne subito sottovalutato dal PDS, lo fu ancor più durante la campagna elettorale, e nel marzo del 1994 si parò 40. M. D 'Alema, La sinistra e le trasfo rmazioni dell 'Italia, ivi, 21 giugno 1993. 41. A. Occhetto, Siamo la sicurezza democratica, ivi, 24 novembre 1993. 42. Id., Ora questa alleanza punti al governo, ivi, 7 dicembre 1993. 43· E Amato tesse un 'intesa sinistra-centro, in "la Repubblica", 24 ottobre r 993· 44· Occhetto esulta e avverte, ivi, 22 novembre 1993.

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di fronte ai dirigenti di Botteghe Oscure un' Italia nuova sì, ma molto diversa da quella vagheggiata45• A commentare a caldo intervenne Veltroni, direttore dell"'U­ nità'': Berlusconi aveva vinto in opposizione al « messaggio di rigore e di cambia­ mento » incarnato dalla sinistra, che fin dalla proposta « sacrosanta » dell'austerità berlingueriana aveva sempre rappresentato lo « schieramento della serietà » . Tuttavia, la sinistra aveva commesso l'errore di non entrare in sintonia con la società, a partire dai giovani ( che avevano massicciamente votato per il Polo ) , in un' Italia che gli anni Ottanta avevano trasformato in una società « individualista »46• Ma per Veltroni il fenomeno Berlusconi era destinato a una brevissima durata, dovuta alla crisi econo­ mica che ha fatto credere al « sogno » offerto gli dal Cavaliere, soprattutto « negli strati sociali impauriti » mentre solido era il sostegno della « media borghesia » nei confronti del PDS47• Aggiungeva infatti Luigi Berlinguer che a votare per il Polo erano cittadini immersi in una « società disgregata » ; non a caso laddove v'era una « società evoluta » , come in Toscana, i progressisti avevano raccolto una gran messe di voti48• Con queste chiavi di lettura si rischiava però di non andare molto lontano. Non che tutti nel PDS le condividessero. Per il sindaco di Napoli Bassolino la convinzione della sinistra di essere « la parte più colta » dell' Italia le aveva impedito di « fare i conti con i sentimenti complessi di un Paese come il nostro » 49• Anche per Napolitano il PDS, con grande « superficialità » , ha diffuso «l 'euforica rappresentazione di un' I­ talia che attendeva soltanto di essere "liberatà' dalle degenerazioni del sistema poli­ tico, dal dominio democristiano e socialista per imboccare la strada del cambiamento » 50• Un'analisi molto vicina a quella di Amato, per il quale Berlusconi « ha raccolto i frutti della campagna del "nuovo che avanzà' perché doveva essere non politico e lui è quello che gli assomigliava di più » , ha catalizzato i peggiori sentimenti egoistici di un elettorato moderato « in libera uscita » e ha « colto un vento anticomunista » , che ha travolto anche l 'elettorato socialista finito in larga parte su Forza ltalia51• Le parole di Bassolino, e ancor più quelle di Napolitano e di Amato, furono però ancora una volta vox clamantis in deserto in un PDS in cui, ben prima delle europee del giugno 1994 che segnarono un'ancora più clamorosa vittoria di Forza Italia, si aprì un dibattito in vista del superamento della segreteria occhettiana, con la nascita ufficiale del dualismo tra D 'Alema e Veltroni. Dietro a questo dualismo, sempre ufficialmente negato da entrambi, ancora troppo legati all 'unanimismo della cultura comunista, v'erano anche due diverse rappresentazioni dell ' Italia. Per Veltroni il berlusconismo era un fenomeno transitorio, in quanto continuazione del vecchio sistema craxiano : Craxi e Berlusconi rappresentavano una « malattia » del paese, una 4S· Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope, cit., pp. 48-s6. 46. W. Veltroni, Ricominciamo e ripartiamo, in "l ' Unità", 30 marzo I994· 47· Id., Ora l'unita di tutte le opposizioni, ivi, 3I marzo I994· 48. L. Berlinguer, L'opposizione dei progressisti, ivi, I 0 aprile I994· 49· A. Bassolino, È esplosa la questione settentrionale, ibid. so. G. Napolitano, I riformisti siamo noi, ivi, 24 aprile I994· S I. G. Amato, Partito democratico? Si oppure si resta allo zoccolo duro, ivi, 8 aprile I994·

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« cattiva politica » da battere sul piano identitario lasciando fermi alcuni punti chiave, a cominciare dalla figura di Berlinguer; sul piano operativo, immergendosi nella società, ripartendo «dagli interessi reali, dalla condizione materiale della gente » 51. Nonostante lo sguardo "americano" e le continue invocazioni del bipolarismo, agli occhi di Vel troni l'avversario non aveva volto, non rappresentava interessi e men che meno idealità. Tanto che, ancora nel 1995, in un volume indirizzato appositamente a un pubblico vasto, Veltroni si diceva convinto che Berlusconi fosse un fuoco fatuo in un'Italia in transizione. E ancora una volta guardava a Berlinguer che aveva capito la « finta modernità degli anni Ottanta » , che « azzeccò il giudizio su Craxi » e che «ebbe ragione sull'austerità e sulla rivoluzione femminile »53• L' Italia insomma non era ancora uscita dagli anni Ottanta - un'ossessione veltroniana -, il decennio della politica immorale e in sostanza dell'antipolitica, ripresa da Berlusconi e dal suo populismo54. A questa analisi D 'Alema contrappose invece una rappresentazione apparente­ mente più tradizionale, ancorata a un apparato concettuale gramsciano, in cui il radicamento sociale berlusconiano nasceva dall' incontro tra i settori più dinamici del capitalismo e ampi strati sociali « non tutelati o vivacemente critici delle forme in cui le politiche sociali avevano trovato attuazione » , un « intreccio tra liberismo privatista e antistatalismo ( popolare ) democratico » . Era perciò sbagliato per D 'Alema limitare il successo del consenso berlusconiano alla sola proprietà delle televisioni: dietro vi era infatti un nuovo « rapporto organizzato con la società: sia nelle forme tradizionali sia nelle forme nuove del partito impresa, sempre garantendo una ricca capacità di rappresentanza di concreti bisogni e interessi sociali » . La compattezza del blocco sociale berlusconiano era assicurata dalle trasformazioni dell'economia globale; perciò la sinistra, se si fosse limitata a rappresentare il « vecchio compromesso sociale » senza sforzarsi di cogliere il « nocciolo di verità » che stava nella « rivolta dei ceti sociali più dinamici e moderni » , difficilmente sarebbe riuscita a governare la società ita­ liana55. Per questo si doveva riscoprire « nell' industrialismo moderno una risorsa e non solo un rischio » , mettere al centro « le libertà » dell'individuo e di conseguenza discutere criticamente il ruolo dello Stato nell'economia per poi provvedere a una seria riorganizzazione del welfare state5 6 • Tutti temi ripresi una volta diventato segre­ tario del PDS57, e che D 'Alema avrebbe sintetizzato con il recupero della gobettiana « rivoluzione liberale » . Ma c 'era un non detto in tutto ciò : le intuizioni della cultura socialista, e non tanto di quella della Conferenza di Rimini del 1982 ma proprio di quelle dell'ultimo Craxi, tra il Congresso dell'Ansaldo e la Conferenza di Rimini. 52. W. Veltroni, La sfida interrotta. Le idee di Enrico Berlinguer, Baldini e Castaldi, Milano 1994, P· 23· 53· Id., La bella politica, Rizzoli, Milano 1995, p. 6o. 54· lvi, p. 74· 55· M. D 'Alema, Sinistra e centro insieme all'opposizione, in "l ' Unità", 8 maggio 1994. 56. Id., Relazione al Consiglio nazionale del PDS, giugno 1994, in Id., Un paese normale. La sinistra e ilfuturo dell'Italia, Mondadori, Milano 1995, p. 84. 57· Id., Relazione al Consiglio nazionale del PDS, dicembre 1994, ivi, p. 125.

Il P C I di Occhetto e le riforme istituzionali. Dalla critica al consociativismo alla via referendaria d i Sandro Guerrieri

La riforma del sistema politico fu uno dei temi centrali dell 'elaborazione del Partito comunista italiano (Pci) durante la leadership di Achille Occhetto. Esso fu posto all'ordine del giorno già nel novembre 1987, alcuni mesi dopo la nomina di Occhetto a vicesegretario del partito, e fu rilanciato dopo la sua ascesa alla segreteria nel giugno 1988. Successivamente, a seguito della svolta della Bolognina del novembre 1989, si intrecciò strettamente al processo di trasformazione del PCI in un nuovo partito che si distaccasse dalla tradizione comunista per confluire nelle strutture internazionali del socialismo : il soggetto politico da costruire sarebbe stato attore di un' innovazione istituzionale che garantisse il passaggio a una democrazia dell'alternanza, con il supe­ ramento, pertanto, di ciò che Occhetto aveva definito sin dal 1987 come il mecca­ nismo consociativo caratteristico della storia repubblicana. Per un partito come il PCI, che in precedenza aveva fatto della difesa della cen­ tralità del Parlamento - accentuatasi con i regolamenti parlamentari del 1971 - e del sistema proporzionale la sua bandiera istituzionale, si trattava di una svolta radicale. In questo saggio si prenderanno in esame i momenti essenziali del dibattito all 'in­ terno del partito, basandosi, a livello archivistico, sui verbali del suo principale orga­ nismo dirigente, la Direzione. Nell'ultima parte, ci si soffermerà sul modo in cui il tema della riforma delle istituzioni fu successivamente portato avanti dal Partito democratico della sinistra (Pns) e, in particolare, sul significato dell'assunzione della strategia referendaria come strumento di innesco del processo di transizione.

I

La svolta istituzionale di Occhetto: l'obiettivo di una democrazia dell'alternanza Difesa e attuazione della Costituzione repubblicana erano state le parole d 'ordine del PCI nel quadro della sua strategia di radicamento nella realtà nazionale italiana', I. Cfr. R. Gualtieri (a cura di), Il PCI nell'Italia repubblicana (I943-I99I), Carocci, Roma 253

2001.

SANDRO G U E RRI ERI

che aveva fatto sempre più da contraltare, nel tempo, al "legame di ferro" con l ' U­ nione Sovietica. Questa forma di patriottismo costituzionale aveva costituito una netta differenza rispetto all'esperienza dell'altro grande partito comunista dell' Eu­ ropa occidentale, il Partito comunista francese (PcF). Quest'ultimo aveva partecipato alla genesi, negli anni 1945-46, della Costituzione della Quarta Repubblica, ma si era contraddistinto per una strategia di scontro con la Democrazia cristiana francese, il Mouvement républicain populaire (MRP ) , che aveva contribuito a indebolire consi­ derevolmente il compromesso raggiunto, mai assurto in seguito a fondamentale risorsa valoriale. E nel 1958 i comunisti francesi avevano dovuto subire il passaggio alla Quinta Repubblica gollista, la cui evoluzione in senso semipresidenziale era stata da loro duramente condannata. Per il PCI, invece, la Costituzione rappresentava un punto di riferimento essen­ ziale tanto sul piano dei valori quanto su quello degli ordinamenti. I due aspetti apparivano del resto, agli occhi dei comunisti italiani, strettamente interconnessi: la forma di Stato democratico-sociale configurata nella prima parte della Costituzione doveva necessariamente avere come veicolo attuativo la forma di governo imperniata sulla centralità parlamentare. Solo in questo modo, per i comunisti, era possibile attivare un circuito di comunicazione tra governanti e governati che soddisfacesse le domande sociali. Ciò presupponeva il ricorso, a livello elettorale, al sistema propor­ zionale, l'unico ritenuto in grado di assicurare un efficace esercizio della funzione di rappresentanza, facendo sì che la forza dei partiti in Parlamento corrispondesse, come in una sorta di proiezione in scala, all'effettivo consenso nel paese. In termini di strategia politica, questo impianto concettuale comportava che l'attuazione delle grandi norme di principio della Costituzione, assunte con il tempo dal PCI come criterio direttivo del proprio programma politico, venisse demandata all' incontro tra le grandi forze popolari protagoniste della stagione costituente. Ciò si era tradotto innanzitutto nell'impegno a valorizzare al massimo le possibilità offerte dal confronto parlamentare. Non che il "partito nuovo" togliattiano si fosse subito rivelato in grado di padroneggiarne gli strumenti. Al contrario, all ' inizio aveva pesato nel corpo del partito un' insufficiente considerazione del lavoro nelle Camere, tanto che nel 1 9 5 1 Togliatti era dovuto intervenire per stigmatizzare come « in questa o quest'altra organizzazione » si registrasse « una sconsiderata sottovalutazione dell'attività parlamentare » 3• Gradualmente, tuttavia, l'attività comunista in Parla­ mento si era rivelata molto più incisiva e, a partire dal 1969, la valorizzazione dell' isti­ tuto parlamentare era divenuta uno dei criteri ispiratori anche dell'attività dei comu-

2. Sul processo costituente in Francia negli anni I 945-46 mi permetto di rinviare a S. Guerrieri, Due Costituenti e tre referendum. La nascita della Quarta Repubblica francese, FrancoAngeli, MUano I99 8. 3· Circolare di Togliatti del 29 dicembre I9SI, in Archivio della Fondazione Istituto Gramsci (d'ora in avanti A FI G ) , P C I, Archivio M, mf 233, Gruppi parlamentari I948-I9SI-I9S3-I9S4· 254

I L P C I D I O C C H ETTO E LE R I F O R M E ISTITUZI ONALI

nisti al Parlamento europeo. Anche in questo caso, la differenza rispetto ai colleghi francesi si rivelò molto netta, visto che gli eurodeputati del P C F considerarono l'emi­ ciclo di Strasburgo come una mera tribuna di propaganda politica a fini interni. Per quanto riguarda il percorso di legittimazione come partito di governo, la ricerca del dialogo tra le grandi forze popolari aveva trovato la sua più compiuta espressione, come è noto, nella strategia del compromesso storico. Ma la chiusura della stagione della solidarietà nazionale, nel 19 79, e l'adozione da parte di Enrico Berlinguer, ali ' inizio degli anni Ottanta, della linea d eli' "alternativa democratica" crearono le premesse per modificare l'angolazione da cui guardare agli assetti istitu­ zionali. Con il ritorno all 'opposizione e la formazione della maggioranza di Penta­ partito, la linea del PCI poteva ancora attestarsi sulla difesa e l'attuazione della Costituzione, o si dovevano anche creare le condizioni per un sistema politico più dinamico ? Una prima sollecitazione a prendere in considerazione il modo in cui i principi costituzionali avrebbero potuto conciliarsi con alcune innovazioni volte a rendere più efficiente la forma di governo avvenne nel corso dei lavori della Commissione bicamerale presieduta da Aldo Bozzi, istituita nel 1983. I rappresentanti comunisti al suo interno proposero una radicale revisione della struttura del Parlamento tramite il passaggio al monocameralismo : proposta, questa, che si ricollegava all'orientamento inizialmente assunto dai comunisti alla Costituente, e subito abbandonato a causa della radicale opposizione della Democrazia cristiana (ne). Sul piano della legge elettorale, i rappresentanti del PCI avanzarono l 'ipotesi del passaggio, per la Camera, al collegio uninominale ma in un quadro generale di stampo proporzionalistico, sulla falsariga del modello tedesco, del quale peraltro non si accoglieva la clausola di sbar­ ramento. Erano invece respinte ipotesi di riforme elettorali più radicali come, sempre da sinistra, il progetto Pasquino-Milani che, allo scopo di incentivare un confronto tra schieramenti alternativi, prevedeva la concessione di un premio di maggioranza nell'ambito di un meccanismo a doppio turno4• Il fallimento nel gennaio 1985 della Commissione Bozzi, che mise in luce la profonda difficoltà del sistema politico ad autoriformarsiS, comportò che anche per il PCI il tema delle riforme passasse decisamente in secondo piano, fatta eccezione per il Centro per la riforma dello Stato ( C RS ) , l' istituto di ricerca del PCI - fondato nel 1972 da Umberto Terracini - presieduto da Pietro lngrao e diretto da Giuseppe Cotturri. Fu proprio Pietro lngrao ad avanzare, in occasione della preparazione del Congresso di Firenze dell 'aprile 1986, un'audace proposta per avviare un percorso 4· Cfr. Centro per la riforma dello Stato -

Come ha lavorato la commissione Bozzi. La rela­ zione del presidente. Le relazioni di opposizione. Ipotesi di riforma elettorale. Documenti, bibliografia, schede, Editori Riuniti, Roma I985 (supplemento a "Democrazia e Diritto", 2). S· Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico {1945-199 6), C RS,

il Mulino, Bologna I997, pp. 423 ss. 255

SANDRO G U E RRI ERI

riformatore. Il presidente del C RS auspicò infatti la formazione di un « Governo costituente » , inteso come un « Governo a termine » che fornisse « il quadro politico positivo perché il Parlamento e il paese » potessero « dar luogo alle innovazioni istituzionali indispensabili » , affrontando anche la questione del sistema elettoralé. Osteggiata però dalla maggioranza del partito, al congresso nazionale la proposta fu ritirata. Il momento di diventare protagonisti di un processo di riforma delle istitu­ zioni non era ancora giunto7• A riaprire all' interno del PCI la riflessione sulle questioni istituzionali provvide la sconfitta elettorale del giugno 1987, quando esso scese dal 29,9 % del 1983 al 26,6%8• Il segretario Alessandro Natta avvertì l'esigenza di un rinnovamento del gruppo dirigente. Achille Occhetto fu nominato vicesegretario e nella segreteria, resa più snella, fecero il loro ingresso Piero Fassino, Gianni Pellicani e Claudio Petruccioli, che andarono ad affiancare Massimo D 'Alema e Livia Turco, entrati l 'anno prece­ dente9. Per l 'elaborazione del PCI in ambito istituzionale, ciò si tradusse in un netto cambiamento di marcia10• La svolta in questo campo ebbe luogo nella riunione di Direzione del 16-17 novem­ bre 1987u. Nella relazione di Occhetto si affermò che la strategia dell'alternativa democratica, la cui validità era stata ribadita dal Congresso di Firenze dell'anno pre­ cedente, doveva misurarsi con la crisi del sistema politico. Tale crisi era interpretata da Occhetto in termini di declino di un metodo politico consociativo al cui interno il PCI aveva finito per restare prigioniero, rimanendo in una posizione «oggettivamente conservatrice, nobilmente conservatrice » 11: «Abbiamo governato dall'opposizione, questa è la verità » 13. L'accento doveva allora essere posto d'ora in avanti a livello siste­ mico sulla capacità di governo anziché su quella di mediazione: « Occorre governare più ancora che mediare: questo è il punto fondamentale » 14• Da questa analisi Occhet­ to era portato per un verso a riconoscere a Craxi di aver colto alcune dinamiche di crisi della vecchia politica, ma per l'altro a stigmatizzarne l'orientamento volto a pun­ tare non al rinnovamento del sistema politico, bensì alla sua destrutturazione. Spetta6. L'emendamento di Pietro lngrao sul governo costituente è riportato in G. Pasquino ( a cura di ) , La lenta marcia nelle istituzioni. I passi del PC!, U Mulino, Bologna I988, pp. 2o9-I2. 7· Cfr. G. Cotturri, Ingrao e il CRS (I979-I99J). Ricerca di autonomia e processo costituente, in L. Benadusi ( a cura di ) , Ricerca e intervento. La storia del CRS nelle carte del suo archivio e nelle rifles­ sioni di Ingrao e Cotturri, Ediesse, Roma 2007, pp. 49-us. 8. Cfr. R. Gualtieri, L'ultimo decennio del PC!, in P. Borioni ( a cura di ) , Il riformismo nell'Europa degli anni Ottanta, Carocci, Roma 2ooi, pp. 175-206. 9· Cfr. A. Vittoria, Storia del PC/ (I92I-I99I), Carocci, Roma 2006, pp. 152 ss. 10. Cfr. A. Romano, Il "nuovo PC! " e il tema istituzionale, in G. Acquaviva, M. Gervasoni ( a cura di ) , Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, MarsUio, Venezia 2ou, pp. 221-9. I I. Cfr. Gualtieri, L'ultimo decennio del PC!, cit., pp. 192-s. 12. A F I G , P CI, Direzione, mf 8804, riunione del 1 6-17 novembre 1987, seduta antimeridiana del 16, p. 1 8. 1 3. lvi, seduta pomeridiana del 17, p. 14. 14. lvi, seduta antimeridiana del 1 6, p. 21.

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va allora al PCI farsi carico della sua rifondazione, perseguendo un indirizzo che, al contrario di quello craxiano, mirasse a salvaguardare la dinamica della dialettica demo­ cratica e a rilanciare la funzione progettuale dei partiti'5• La relazione di Occhetto suscitò in Direzione adesioni ma anche perplessità, in un dibattito ampio ma un po' generico e a tratti molto nervoso, intrecciato con il grado di legittimazione del gruppo di "giovani" ai quali, sotto la guida di Natta, era stata come si è detto affidata la segreteria. A suscitare riserve era ad esempio l'uso estensivo della categoria della "consociazione", assunta a paradigma interpretativo onnicomprensivo della storia repubblicana. In effetti, se l'appello a fuoriuscire dall 'orizzonte del consociativismo serviva a rimarcare la necessità di un netto salto di qualità rispetto alla scarsa incisività che fino a quel momento aveva contraddistinto la stessa proposta dell'alternativa democratica, si profilava però una chiave di lettura semplicistica della vita politica del dopoguerra'6, che nelle sue forme più estreme avrebbe successivamente concorso ad alimentare visioni superficiali e liquidatrici dell'intera esperienza della democrazia dei partiti. L' impulso a un maggiore dina­ mismo sui temi istituzionali, comunque, era stato dato. « Oggi vogliamo costruire una democrazia dell'alternativa: questa è la novità » , aveva sottolineato Massimo D 'Alema'7• E una volta che il nuovo indirizzo fu fatto proprio dal Comitato centrale che si svolse alla fine del mese, il PCI si predispose ad avviare un confronto costrut­ tivo con le forze politiche della maggioranza di Pentapartito. Questa disponibilità al confronto andò tuttavia ben presto delusa. Il segretario Natta ebbe una serie di incontri con i leader dei partiti della maggioranza su cui riferì in Direzione il 20 gennaio 1988. L'impressione avuta era sostanzialmente positiva: vi era stata una convergenza nel constatare l'aggravamento del sistema politico-isti­ tuzionale ed era emersa una volontà di dialogo sulle riforme. Per quanto riguardava l'orientamento dei socialisti, Natta riportava che, se da un lato Bettino Craxi aveva ribadito la sua propensione per il passaggio all'elezione diretta del capo dello Stato « nel quadro dei suoi attuali poteri » , dall'altro non ne aveva fatto un punto discri­ minante: « lo la penso così - ci ha detto - ma lascio da parte questa idea perché non è condivisa » '8• Inoltre, di fronte al rifiuto del PCI di accettare la sua proposta di far elaborare un progetto di riforma solo dalla maggioranza di governo per poi discuterlo con l'opposizione, il leader del Partito socialista italiano (Psi) non si era « irrigidito » e aveva « dimostrato qualche disponibilità » '9• In ogni caso, secondo Natta, i partiti non potevano più « fallire la prova per non uscirne squalificati » 20• IS. lvi, pp. 22-3. I 6. Cfr. M. Prospero, Sinistra e cambiamento istituzionale, Philos, Roma I997· I7. A F I G , P C I, Direzione, mf 8804, riunione del I 6-I7 novembre I 987, seduta antimeridiana del I7, p. I8. I 8. lvi, mf 8803, riunione del 20 gennaio I988, p. 3· I 9· lvi, p. 6. 20. lvi, p. 2. 257

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La Direzione era di nuovo convocata per il I0 febbraio I988 al fine di mettere a punto un insieme di proposte sulla base delle quali avviare il confronto con gli altri partiti. Essa doveva esprimersi su una relazione di Aldo Tortorella, peraltro non fortemente innovativa rispetto al passato. Ma lo scenario di apertura descritto da Natta nella riunione precedente si era chiuso. Le posizioni degli interlocutori si erano irrigidite, in particolare per la scelta dei socialisti di porre come pregiudiziale l 'esten­ sione del campo di applicazione del voto segreto nei regolamenti parlamentari21• Su questo tema, nei mesi seguenti il PCI dovette assumere una posizione di fronte all'offensiva condotta dalla maggioranza. Le opinioni, all ' interno del partito, erano diversificate. « L'esigenza di restringere l'uso e di evitare l'abuso del voto segreto » era stata sottolineata il I0 febbraio I988 in Direzione da Giorgio Napolitano, secondo cui tale modalità di voto aveva ormai dato politicamente « tutto ciò che poteva dare » 22 • Ma questa tesi era stata respinta ad esempio da Adalberto Minucci, per il quale, invece, non si poteva ignorare che nella legislatura precedente il governo era stato messo in minoranza in virtù di esso su una lunga serie di leggi a carattere sociale: il voto segreto, a suo giudizio, era stato infatti « l'espressione politica dell'anima cattolico-popolare della DC che non aveva altro modo di esprimersi » 23• Divenuto segretario del partito nel giugno I988, fu alla fine Occhetto a dettare la linea da seguire. In coerenza con l'indirizzo di rinnovamento che doveva essere assunto in generale sulle riforme istituzionali, il PCI non poteva attestarsi a suo giudizio su una linea di difesa a oltranza di questo istituto : se da un lato doveva opporsi al progetto della maggioranza perché troppo radicale, dall'altro doveva accettare il passaggio al voto palese sulle leggi di spesa. E, una volta superate le resistenze presenti all' interno del gruppo comunista alla Camera 24, fu questa la posizione assunta dal P C I nell'acceso confronto parlamentare dell'ottobre I988. Al di là comunque di questo nodo, il P C I doveva riprendere per Occhetto le fila del discorso avviato nella Direzione del novembre I987 sul tema di una riforma in profondità del sistema politico. Divenuto presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita aveva del resto espresso nell'aprile I988 l ' intento di superare la situazione di stallo venutasi a creare a seguito del fallimento della Commissione Bozzi, e in maggio si 2I. Craxi, affermava Tortorella, cercava con la questione del voto segreto di rendere impraticabile il cammino per le riforme istituzionali: « La sua iniziativa non è del tutto riuscita, ma è grave » . Tor­ torella lamentava inoltre il fatto che Craxi e De Mita avessero poi parlato di un referendum sulle questioni istituzionali: «Si va ad una rottura di un patto costituzionale se ci si vuole rivolgere diret­ tamente al popolo. E perché non ne hanno parlato con noi ? [ ... ] Non si vuole seguire il metodo parlamentare, con una discussione aperta alle più ampie conseguenze, senza vinti né vincitori ? » (AFIG, PCI, Direzione, mf 8803, riunione del I0 febbraio 1988, p. 3 ) . 22. lvi, p. 9· 23. lvi, p. 15. 24. «Non è stata impresa facile quella di portare il nostro gruppo parlamentare e i suoi dirigenti a fare propria l ' idea di Occhetto» , osservò il capogruppo alla Camera Renato Zangheri nella riunione di Direzione del s ottobre 1988 (AFIG, PCI, Direzione, mf 88 12, p. 7 ) .

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era svolto in Parlamento un nuovo dibattito sulla questione. In tale contesto, il nuovo congresso del partito, che si sarebbe svolto nel marzo 1989, doveva servire secondo Occhetto anche a esplicitare l' impegno del PCI su questo versante. Nella riunione della Direzione del 13-14 ottobre 1988, dedicata alla discussione sul documento con­ gressuale, il segretario del PCI ribadì la critica al « consociativismo a centralità demo­ cristiana » e sottolineò che era finita «l'epoca e la funzione dei governi deboli » , una strada che avrebbe condotto « allo svuotamento delle istituzioni » 25• Su impulso del segretario e del gruppo dirigente che lo affiancava, il PCI si avviò così ad assumere come proprio orizzonte quello di una democrazia dell'alternanza fondata anche su una riforma elettorale che, come Occhetto dichiarò il 18 marzo 1989 nella relazione di apertura del XVIII Congresso, consentisse al cittadino « di decidere più direttamente sui programmi e sui governi » 26• Sui caratteri della riforma del sistema politico si presentava ancora, peraltro, la difficoltà di uscire da una certa vaghezza. Soprattutto, come emerge dai dibattiti svoltisi in Direzione prima e dopo il congresso, si manifestava una notevole incertezza su alcuni orientamenti di fondo. Se in passato il PCI si era sempre espresso molto negativamente sulla proposta socia­ lista di elezione diretta del presidente della Repubblica, nella riunione del 13 marzo 1989, volta a discutere le linee generali della relazione di Occhetto, si aprì un con­ fronto su questa ipotesi alla luce anche dell'ampio consenso da essa raccolto in un sondaggio dell' Istituto di studi politici economici e sociali (ISPES), i cui risultati erano stati da poco resi pubblici27• Alcuni dirigenti del partito si dichiararono disponibili a discutere di questa opzione qualora fosse stata inserita in un disegno istituzionale più ampio. Affermò ad esempio Giglia Tedesco : «Elezione diretta del Presidente della Repubblica: non demonizzare la proposta. Definire invece le riforme istituzionali entro le quali può essere posto il problema » 28• E Giorgio Napolitano rilevò : « Que­ stioni istituzionali. Nessun tema è tabù. Così è per la stessa elezione diretta del Presidente della Repubblica. Due modelli: USA e Francia » . Peraltro Napolitano sottolineava anche l'ambiguità della campagna condotta su questa materia29• Del tutto negativo era invece il giudizio espresso da Alessandro Natta: « Cambiamento della democrazia rappresentativa italiana? No. Chi vuole il presidenzialismo dica che vuole 25.

A FI G , P C I ,

Direzione, mf 88 12, riunione del I 3-I4 ottobre I988, seduta antimeridiana del I3,

P· 3·

26. La relazione di Occhetto fu pubblicata in "l' Unità" U I9 marzo I989. Cfr. S. Fabbrini, Le strategie istituzionali del PCI, in "U Mulino", I990, s. pp. 7 53-77. 27. Cfr. A. Caporale, Quella voglia di riforme, in "la Repubblica", I2-I3 marzo I989; Sondaggio. "Elezioni con alleanze dichiarate", in "l' Unità", I2 marzo I989. Il sondaggio, realizzato su un campione di mUle elettori, attestava che U 79,2% degli intervistati si era dichiarato a favore dell'elezione diretta del capo dello Stato. Un gradimento ancora maggiore (88,9%) era stato manifestato per l' ipotesi dell'elezione diretta del sindaco. È da notare che al sondaggio aveva collaborato U Movimento per la riforma elettorale guidato da Mario Segni. 28. A F I G , P C I , Direzione, mf 8904, riunione del I 3 marzo I989, seduta antimeridiana, p. I I. 29. lvi, p. I2. 259

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il cambiamento della democrazia rappresentativa! Attenti ai sondaggi ! » 30• Nella riu­ nione del 28 aprile 1989, il confronto interno si spostò invece sulla struttura del Parlamento. La linea proposta da Occhetto era di ribadire una propensione a livello di principio per il monocameralismo, accompagnata però dalla disponibilità al man­ tenimento di un sistema bicamerale purché si attuasse una significativa differenzia­ zione tra le due Camere e « una riduzione consistente del numero dei parlamentari » 3'. Sulla questione si aprì una discussione tra chi, come Luigi Berlinguer e Gavino Angius, era favorevole all' ipotesi, già ventilata dal PCI, di una Camera delle regioni32 e chi invece, come Ugo Pecchioli, riteneva improponibile seguire questa strada a causa del rifiuto opposto dalle altre forze politiche33• I contrasti che si manifestarono su questo punto nevralgico indussero la Direzione a rinviare la decisione a un futuro momento di confronto. A dimostrazione di come il PCI puntasse in ogni caso a fornire una maggiore incisività alla dialettica politico-istituzionale, fu avviata nel luglio 1989 - mentre si formava il governo Andreotti - l 'esperienza del governo ombra, che, coordinato da Gianni Pellicani, avrebbe dovuto costituire un significativo passo nella direzione di una più precisa configurazione del ruolo dell 'opposizione.

2 Il confronto sulle riforme nel passaggio dal

PCI

al

PDS

A partire dalla svolta della Bolognina, ali' indomani del crollo del Muro di Berlino34, l'obiettivo lanciato nel novembre 1987 di rifondare il sistema politico si legò al pro­ cesso di formazione del nuovo partito : la maturazione di un'alternativa di governo e il passaggio alla democrazia dell'alternanza sarebbero stati accelerati, nel contesto dell'esaurirsi della Guerra fredda, dalla nascita di un nuovo soggetto politico contro il quale si sarebbe finalmente infranta la conventio ad excludendum che aveva colpito il PCI. Le modalità con cui si attuò il passaggio dal PCI al PDS35, con il duro contrasto interno che, protraendosi per due congressi, si manifestò per più di un anno deter­ minando un logoramento che non favorì l'afflusso di nuove forze, limitarono però in generale, nel corso del 1990, la capacità di iniziativa del partito36• Se ne ebbe la

30. lvi, seduta pomeridiana, p. 4· 3I. A FI G , PCI, Direzione, mf 89os, riunione del 28 aprile 1989, seduta pomeridiana, pp. 6-7. 32. lvi, pp. 8-9. 33· lvi, p. 1 S· 34· Cfr. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale (I9I7-I99I), Einaudi, Torino 1991. 3S· Cfr. P. lgnazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna 1992. 36. Cfr. G. Vacca, Vent 'anni dopo. La sinistra fra mutamenti e revisioni, Einaudi, Torino 1997, pp. 191 ss.

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dimostrazione con le elezioni amministrative del maggio 1990, che si tradussero in un ulteriore calo di consensi. Lo stesso governo ombra si era rivelato uno strumento scarsamente dinamico : nel giugno 1990 Giorgio Napolitano, "ministro degli Esteri ombra", osservava in Direzione che esso era « nel limbo da un anno »37• Lo scontro sulla trasformazione del partito aveva avuto anche l'effetto di rallentare lo sviluppo della riflessione sulle riforme istituzionali, che stentava a sfociare in un progetto organico e condiviso. La frattura tra i favorevoli e i contrari alla svolta della Bolognina tendeva infatti ad alimentare dissensi sulle direttrici di rinnovamento del sistema politico. Era opportuno o controproducente aprire con il PSI un confronto sul tema dell'elezione diretta del capo dello Stato, rilanciato dai socialisti alla Conferenza di Rimini del marzo 199 0 ? Quale posizione doveva assumere il PCI verso i referendum promossi dal Movimento per la riforma elettorale guidato da Mario Segni ? E che valutazione andava espressa riguardo all'ipotesi di un'elezione diretta del primo ministro, presentata da Augusto Barbera come una valida alternativa al presidenzia­ lismo socialista ?38 Il gruppo dirigente che guidava la transizione al nuovo partito proponeva da un lato di valutare la possibilità di un dialogo con il PSI, dall 'altro di cogliere appieno l'opportunità fornita dal movimento referendario per giungere a un cambiamento del sistema elettorale. Sul primo aspetto, nella relazione presentata in Direzione l' 11 aprile 1990 Massimo D 'Alema affermava che il P S I aveva «posto in modo nuovo (anche con vaghezze e furbizie ... ) il tema della proposta "presidenzialistica" collocan­ dola nel quadro delle riforme istituzionali, mentre prima la dava come una soluzione forte al di sopra della crisi istituzionale » . La proposta risultava ora inserita « in uno schema di alternativa tra le due aree » e questa evoluzione era da seguire con interesse: «Noi stessi abbiamo chiesto una simile collocazione della proposta socialista non per convertirci ma per capire bene cosa era la proposta del "presidenzialismo" » 39• Quanto alla via referendaria, essa era vista come uno strumento di pressione sul Parlamento per evitare il riprodursi della paralisi che aveva finito per contraddistin­ guere il lavoro della Commissione Bozzi. Dopo che nell'ordine del giorno sulle questioni istituzionali approvato al congresso del marzo 1990 si era guardato a essa « con interesse e favore » 40, il 18 aprile 1990 fu lo stesso segretario Achille Occhetto ad apporre la firma ai quesiti referendari relativi alle leggi elettorali di Camera e Senato. La minoranza contraria alla svolta della Bolognina esprimeva però una posizione molto critica tanto sul confronto con i socialisti quanto sulla scelta referendaria.

37· A F I G , P C I , Direzione, mf 9007, riunione dell' 8 giugno I990, seduta del mattino, p. 2s. 38. A. Barbera, Un 'alternativa neoparlamentare al presidenzialismo, in "Democrazia e Diritto", I990, 2, pp. 23-49· 39· A F I G , PCI, Direzione, mf 9004, riunione dell ' I I aprile I990, seduta del mattino, p. 9· 40. Cfr. U resoconto in "l' Unità� I I marzo I990.

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Secondo Lucio Magri, si scivolava « verso un Governo presidenziale » contro il quale occorreva « una opposizione pregiudiziale »4'. Per Giuseppe Chiarante, se da una parte era giusta la preoccupazione di sfuggire all' immobilismo, dall'altra occorreva stare « attenti anche alla doppia disponibilità: al referendum e al "presidenzialismo", come passerelle e per aprire varchi nelle istituzioni » 42• E ancora più severo era il giudizio di Sergio Garavini : «Non siamo contro il PSI sul "presidenzialismo" e non siamo contro la sinistra DC sulla riforma elettorale ? Certo, ma così siamo subalterni a riforme non democratiche ( "presidenzialismo" più legge maggioritaria) » 43• Né era vista con favore l'elezione diretta del premier proposta da Augusto Barbera, valutata da Aldo Tortorella come più pericolosa di quella del capo dello Stato44• La sconfitta riportata alle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio 1990 deter­ minò una rinnovata critica da parte del "fronte del no" agli indirizzi perseguiti dalla maggioranza del partito. Nella riunione della Direzione che si svolse dopo il voto, però, Occhetto non solo respinse le accuse sul percorso seguito a partire dalla svolta della Bolognina, ma trasse la conclusione che occorreva intensificare l'iniziativa sul terreno delle riforme istituzionali. L'affermazione del movimento leghista, che in Lombardia aveva conseguito il 20%, era considerata dal segretario del PCI come un elemento che poneva ulteriormente in risalto la centralità di questo nodo. Il PCI in corso di trasformazione ( che aveva già presentato una proposta di legge per riformare in senso maggioritario il sistema elettorale dei Comuni e introdurre l'elezione diretta del sindaco ) doveva diventare perciò la forza politica più attiva nel promuovere la riforma del sistema politico. Ciò comportava per un verso un maggiore impegno a favore della raccolta delle firme per i quesiti referendari, per l'altro l'elaborazione di un progetto istituzionale organico che investisse le leggi elettorali, i rapporti tra i poteri e le relazioni centro-periferia ( e qui Occhetto si chiedeva, alla luce dell 'affer­ mazione elettorale delle leghe, se fosse « stato sensato non riflettere di più sulla proposta di una Camera delle Regioni, nel contesto di una rivalutazione dei poteri regi o nali » 45 ) . Con il sostegno ai referendum elettorali il PCI di Occhetto, il cui contributo alla raccolta delle firme fu determinante, mostrava di saper cogliere le potenzialità che la via referendaria poteva offrire al fine dell 'effettiva apertura di un processo riforma­ tore. Nel momento, però, in cui conduceva il partito a lasciarsi definitivamente alle spalle la prudenza eccessiva con cui fino ad alcuni anni prima aveva guardato alla prospettiva di un rinnovamento del quadro istituzionale, Occhetto non coglieva le possibili ambivalenze a cui avrebbe potuto dar luogo questa strategia di mobilitazione

41. AFIG, P CI, Direzione, mf 9004, riunione dell' u aprile 1990, seduta del mattino, p. 14. 42. lvi, p. 17. 43· lvi, p. 19. 44· lvi, p. 24. 45· A F I G , P C I , Direzione, mf 9006, riunione del 10 maggio 1 990, seduta del mattino, p. 9·

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dal basso. Nell ' indicare l' indirizzo da perseguire nella riflessione istituzionale del PCI, egli sottolineava che non si doveva « stare con la società politica ( i partiti ) » contro quel che era in movimento, bensì occorreva « guidare e condurre l'opposizione all' at­ tuale sistema politico » 46• Cominciava così ad affiorare uno schema concettuale che, nell'assumere come prioritario l'obiettivo « dello sblocco del sistema politico » attra­ verso la valorizzazione delle spinte al rinnovamento emergenti nell'opinione pub­ blica, avrebbe ostacolato negli anni successivi una più puntuale capacità di lettura del carattere multiforme del sostegno al movimento referendario e, più in generale, della critica al sistema dei partiti. A seguito della spinta impressa da Occhetto, l'elaborazione istituzionale riprese nelle settimane successive, trovando espressione innanzitutto nella riunione della Commissione permanente del Comitato centrale sui problemi istituzionali che ebbe luogo, sotto la direzione di Cesare Salvi, il 29 maggio 1 9 9 0. Nella relazione introdur­ riva, Salvi definiva un quadro di misure che andavano da una profonda riforma regionalista dello Stato a una legge elettorale che consentisse ai cittadini di scegliere fra programmi e coalizioni, con un premio di maggioranza e l 'eventuale indicazione del presidente del Consiglio. Era invece esclusa l'elezione diretta del capo dello Stato47• Un successivo momento di confronto si svolse, l' 1 1 e il 1 2 giugno, in occasione dell'Assemblea annuale del CRS48 • In entrambe le sedi, il dibattito si svolse in modo piuttosto sereno, ma permanevano divergenze di fondo che si manifestarono nella riunione di Direzione del 17 settembre 1 9 9 0, in cui le tensioni tra le componenti del partito furono ulteriormente alimentate dalle diverse letture della crisi del Golfo scoppiata nel mese precedente. Aperta nuovamente da una relazione di Cesare Salvi, la discussione sui temi istituzionali fu caratterizzata dalla conferma dell 'opposizione della minoranza ai quesiti referendari. Armando Cossutta manifestò ad esempio un'assoluta contrarietà nei confronti del collegio uninominale, con la motivazione che avrebbe aumentato i poteri delle segreterie dei partiti e favorito la Democrazia cristiana in tutto il paese49• Ersilia Salvato parlò di « fughe in avanti sconsiderate » e chiese, inoltre, che fosse sancita in maniera definitiva l' indisponibilità ad accettare l'elezione diretta del capo dello Stato proposta dai socialisti: «Nero su bianco in Direzione e in c c sulla nostra scelta elettorale e contro il "presidenzialismo" craxiano. Al PSI la Presidenza della Repubblica, a noi la Presidenza del Governo ? Chiariamole queste cose, perché sono ipotesi che corrono e non aiutano » 50• Perplessità sulla direttrice indicata da Salvi di trasferire ai cittadini il potere di scelta dei governi 46. lvi, p. 8. 47· Cfr. F. Rondolino, Rifòrme, il PCI lancia le sue proposte, in "l ' Unità", 30 maggio I990. 48. C RS, Strategie istituzionali della sinistra. Forme di governoforme di Stato. Atti dell'Assemblea CRS 1990, Editori Riuniti, Roma I990 (supplemento a "Democrazia e Diritto", 3-4). Cfr. Cotturri, lngrao e il CRS (1979-1993), cit., pp. Io8-Is. 49· A F I G , P C I, Direzione, mf 90Io, riunione del I7 settembre I990, seduta del pomeriggio, p. 3· so. lvi, p. 7·

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furono peraltro esposte anche dalla presidente della Camera Nilde lotti, secondo la quale si rischiava di provocare un depotenziamento del Parlamento che contraddiceva il dettato costituzionale51. Nell 'ottobre 1 9 9 0 la Conferenza programmatica del partito confermò l'opzione per un regime parlamentare rinnovato e il rifiuto del presidenzialismo, la cui capa­ cità di attrattiva all' interno del PCI fu del resto ulteriormente ridotta per via dei comportamenti assunti dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga a partire dalla vicenda di Gladio. L' incarico di mettere a punto un progetto organico di riforme fu conferito a un gruppo di lavoro coordinato da Salvi nel quale erano presenti anche personalità della minoranza. A dicembre il gruppo presentò una proposta che prevedeva profonde modifiche tanto della struttura del Parlamento quanto di quella dell 'esecutivo. A essere investita del potere legislativo e della fun­ zione di indirizzo politico sarebbe stata un'Assemblea nazionale di 400 membri, la maggior parte dei quali eletti con il sistema uninominale, nell 'ambito di un mecca­ nismo di confronto tra liste singole o coalizioni. Qualora nessuna lista o coalizione di liste avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti al primo turno, si sarebbe svolto un secondo turno per assegnare un premio di maggioranza. La figura del presidente del Consiglio veniva fortemente valorizzata: eletto dall'Assemblea nazio­ nale, il premier avrebbe formato un governo di legislatura, nel senso che la rottura del rapporto fiduciario avrebbe comportato lo scioglimento automatico dell'Assem­ blea. Novità radicali erano poi previste sul ruolo delle Regioni: da un lato sarebbero state a esse conferite le competenze non espressamente attribuite allo Stato o non devolute a comunità sovranazionali, dall'altro sarebbe stata istituita una Camera delle Regioni52. La proposta del gruppo di lavoro suscitò un nuovo scontro in Direzione il 9 e il 10 gennaio 199 1, alla vigilia del passaggio al nuovo partito. Il punto al centro del dibat­ tito53 fu il ruolo da attribuire al premier. Poiché Occhetto si era dichiarato favorevole all'elezione diretta del premier54 e Salvi aveva aggiunto che questa era una delle ipotesi su cui lavorare55, la minoranza ribadì la sua totale contrarietà a soluzioni di questo tipo e chiese che su tale aspetto si facesse piena chiarezza: «Elezione diretta del Capo del Governo ? Il Parlamento, la presidenza della Repubblica, i partiti, non conterebbero più niente. Il mandato non è più politico, è istituzionale » , dichiarò ad esempio Gavino

5 I. lvi, p. 5· 52. Cfr. F. Inwinkl, Voto diretto per le coalizioni, in "l ' Unità", I4 dicembre I990. 53· La discussione si svolse sulla base di un ampio testo presentato da Cesare Salvi: Archivio del Partito democratico della sinistra e dei Democratici di sinistra ( d'ora in avanti A P D S-DS ) , Ufficio stampa del P C I, Relazione di Cesare Salvi alla riunione della Direzione del P C I di mercoledì 9 gennaio I99I. 54· Cfr. F. Rondolino, Il governo scelto dagli elettori, in "l ' Unità", 23 dicembre 1990. 55· Cfr. l' intervista a Cesari Salvi di F. Rondolino, Salvi: 'Il PSI sbaglia ad inseguire un rejèrendum .zmmagmarzo . . , .tvt,. 3 gennato . 1991. ''

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Angius56• Analoga opposizione era espressa nei confronti dello scioglimento automatico dell'Assemblea in caso di crisi di governo. Dichiarò su questo Giuseppe Chiarante: «Per cambiare il "premier" si deve andare a nuove elezioni ? Se sì, non è più il Parla­ mento preminente » . E la sua conclusione era che a quel punto era « meglio il "presi­ denzialismo" della Presidenza della Repubblica, [con] un bilanciamento istituzionale, piuttosto di quello del Presidente del Consiglio senza bilanciamenti »57• Di fronte a queste critiche, i sostenitori del progetto precisarono che l' indica­ zione del premier da parte della coalizione non significava una sua formale elezione, compito che era pur sempre attribuito all'Assemblea58• Un meccanismo come quello proposto da Augusto Barbera veniva quindi esplicitamente scartato. Il rinnovamento della forma di governo nella direzione di una democrazia maggioritaria incentrata sulla figura del premier era inoltre presentato come una soluzione antitetica a forme plebiscitarie di presidenzialismo: «la nostra proposta » , affermava Massimo D 'Alema, prevedeva infatti « i Partiti, i soggetti sociali per la conquista della maggioranza utile per governare » : «Non vogliamo la partitocrazia ma nello stesso tempo vogliamo salvare la ricchezza del sistema politico dei partiti » 59• Quanto all 'idea del governo di legislatura, essa era difesa da Salvi come un antidoto contro i trasformismi e i possi­ bili stravolgimenti del programma presentato alle elezioni. Le direttrici indicate nel progetto discusso in Direzione furono riprese nell 'ordine del giorno sulle riforme istituzionali approvato dal Congresso di Rimini che si svolse dal 3 1 gennaio al 3 febbraio 1 9 9 1, mentre infuriava la Guerra del Golfo. Il xx e ultimo Congresso del PCI segnò il compimento del farraginoso processo di transizione alla nuova formazione politica, con la clamorosa coda dell'episodio del mancato raggiun­ gimento del quorum per la riconferma di Occhetto a segretario generale (fu necessaria una nuova votazione quattro giorni dopo) . L'identità del PDS restava ancora per molti aspetti da costruire. Non favoriva quest'opera di definizione della sua cultura politica la resistenza, in nome della ricerca di nuovi orizzonti, ad adottare un profilo di mag­ giore ancoraggio alla tradizione del socialismo europeo. Né, per altro verso, la agevo­ lava la difficoltà a guardare allo stesso patrimonio storico lasciato in eredità dal PCI senza esaltazioni acritiche che lo isolassero dall'esperienza comunista mondiale, ma anche senza banalizzazioni liquidatrici di una tensione ideale in virtù della quale era stato fornito un contributo fondamentale al radicamento della democrazia repubbli­ cana. Sul terreno istituzionale, comunque, il PDS si presentava come un partito dal netto profilo riformatore. E si sarebbe davvero caratterizzato ben presto come la forza politica più attiva nel perseguire lo "sblocco del sistema politico". Con quali esiti ?

56. A P DS-DS, P C I, Direzione, mf 9I05, riunione del 9-Io gennaio I99I, seduta del pomeriggio del 9 gennaio, p. I 5· 57· lvi, p. I I. 58. Cfr. in particolare le repliche di Salvi e D 'Alema, ivi, seduta del mattino del IO, pp. 7-u. 59· lvi, seduta del pomeriggio del 9, p. I7. .

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Il

PDS

3 e il tentativo di superare il paradosso kelseniano delle riforme

La definizione delle proposte di riforma istituzionale proseguì nell 'ultima fase della legislatura apertasi nel 1987 da un lato con la presentazione di un progetto di riforma elettorale per la Camera che prevedeva collegi uninominali, un riequilibrio propor­ zionale e un eventuale premio di maggioranza al secondo turno60, dall'altro con la precisazione delle direttrici di riforma della Costituzione. Nel forum sulle riforme istituzionali che il P D S organizzò l' n febbraio 1992, fu approfondito il quadro neo­ parlamentare entro il quale collocare il rinnovamento della forma di governo ( accet­ tando, per quanto riguardava la figura del premier, che esso potesse essere eventual­ mente sostituito una volta nel corso della legislatura tramite il ricorso alla sfiducia costruttiva) . L'accentuarsi dello scontro con Cossiga, nei confronti del quale il PDS aveva avanzato nel novembre 1991 la richiesta di messa in stato d'accusa, aveva inoltre evidenziato la presa di distanza dalle ipotesi presidenzialiste. I ripetuti attacchi del capo dello Stato avevano messo in guardia dai rischi di uno stravolgimento dell 'e­ quilibrio dei poteri. La strategia referendaria fu invece giudicata come la via democratica alle riforme che si contrapponeva, con il suo coinvolgimento della società civile, al tentativo di demolizione dall'alto perseguito da Cossiga. Dopo che la Corte costituzionale bocciò nel gennaio 1991 due dei tre quesiti referendari, il P D S si impegnò con grande energia per la vittoria del referendum superstite sulla preferenza unica per l'elezione della Camera dei deputati. Il successo del "sì", il 9 giugno 1991, fu definito da Occhetto « uno spartiacque della vita nazionale » 61• Il segretario del PDS poteva del resto van­ tare la vittoria referendaria come il primo risultato conseguito dal partito dopo la svolta della Bolognina. A un anno di distanza dal deludente esito per il PCI delle elezioni amministrative, il nuovo partito era riuscito a mettersi in sintonia con una parte rilevante del paese, mentre la maggioranza di governo, e in particolar modo il PSI di Craxi, aveva clamorosamente sottovalutato la posta in gioco, con conseguenze che per il leader del PSI si rivelarono disastrose: con l' invito a non votare e ad andar­ sene al mare, « Craxi perde la scommessa e non sa ancora di aver perso in questo stesso momento l 'intera partita politica della sua vita » 62• Di fronte alla persistente difficoltà a vincere l' immobilismo e il gioco dei veti incrociati che dagli anni Ottanta avevano bloccato la strada delle modifiche istitu­ zionali, la via referendaria apparve al PDS lo strumento privilegiato per superare quel 6o. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. x Legislatura, Disegni di legge e Relazioni, n. 563I. 6 1. Rinnovare la sinistra, rafforzare l'opposizione per un 'alternativa di governo, per aprire una nuova fase nella vita della Repubblica, relazione e conclusioni di Achille Occhetto al Consiglio nazionale del PDS, Roma, 4-5-6 luglio 1991, s.l., [ 1991 ] , p. 5· 62. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, ilpartito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 252. 266

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che Hans Kelsen aveva definito a suo tempo il paradosso della riforma istituzionale : il fatto, cioè, che più forte è la necessità delle riforme perché il sistema non riesce a decidere, più difficile, per la stessa ragione, diventa assumere la decisione di farle. Dichiarò infatti Cesare Salvi al forum sulle riforme l ' I I febbraio 1992: La scommessa sui referendum è la scommessa, per quanto ci riguarda, di chi crede che l' ag­ gravarsi della crisi sollecita sempre più l'urgenza e l'ampiezza del disegno riformatore. [ . . . ] Abbiamo visto i referendum come lo strumento con il quale si può superare il paradosso kelseniano delle riforme: quel paradosso per il quale un sistema in crisi, incapace di prendere grandi decisioni, non può prendere la decisione più forte di tutte, quella di autoriformarsi63•

Di qui l'entusiasmo successivamente per l'esito dei referendum del 18 aprile 1993. « Cambia la Repubblica » , affermò Achille Occhetto64, secondo il quale oltretutto il PDS, essendo stato tra i principali protagonisti della battaglia referendaria, appariva il naturale candidato a raccoglierne i frutti. Il punto è che con il decisivo impegno nel garantire le vittorie referendarie, il PDS raggiungeva effettivamente l 'obiettivo di superare il paradosso kelseniano sul piano dell'avvio del processo di riforma, ma rimaneva ben lontano dal prospettare una fuoriuscita da esso per quanto riguardava la conclusione del percorso avviato. Con l' impegno alla realizzazione di una democrazia dell'alternanza, il PDS si faceva interprete di una necessità storica per il paese, tanto più che i meccanismi di corru­ zione sistemica, portati alla luce dalle inchieste giudiziarie, avevano anche beneficiato in una certa misura dell'assenza di ricambio nella gestione governativa. E il ruolo effettivo svolto dal PDS nell'apertura della transizione è stato davvero centrale: sia perché era stata la sua stessa nascita a introdurre un fattore di dinamismo nel sistema politico6S, sia per l ' impegno profuso nella progettazione istituzionale e nei refe­ rendum, sia perché non era certo secondario, al fine della legittimazione del percorso di riforma, che a promuovere risolutamente l' innovazione fosse la formazione politica erede del PCI, il partito che più aveva difeso in passato la centralità parlamentare e il sistema proporzionale, considerandoli gli assetti più rispondenti allo spirito della Costituzione. Ciò che fece difetto al PDS fu la capacità di governare il processo di cambiamento. La crisi di regime, che, con la scoperta di Tangentopoli e i vincoli introdotti dal Trattato di Maastricht66, assunse un ritmo dirompenté7, rendeva molto difficile 63. A P D S-DS, C. Salvi, Dai referendum alle riforme: la forza della democrazia, Forum del PDS, Roma, I I febbraio I992, p. I4. 64. Cfr. A. Leiss, Occhetto: ((la sinistra ha votato si", in "l' Unità", 20 aprile I 993· 6s. Cfr. Vacca, Vent'anni dopo, cit., pp. 2I 8-9. 66. Cfr. M. Piermattei, Crisi della Repubblica e sfuia europea. I partiti italiani e la moneta unica (I9SS-I99S), C LU EB, Bologna 20I2. 67. Cfr. F. Barbagallo, L'Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (I945-2ooS), Carocci, Roma 2009, pp. 200 ss.; G. Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi,

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delineare un percorso costruttivo per l'apertura della "seconda fase" della Repub­ blica68. Ma pesarono nel PDS evidenti carenze analitiche. Nel 1 9 9 1 Occhetto aveva affermato che i « mille rivoli » della «protesta trasversale » espressasi nel referendum del 9 giugno non rappresentavano « solo gli agenti di un processo di erosione dei vecchi poteri » , ma erano anche « gli affluenti di una corrente democratica forte e profonda » 69. In realtà, come emerse anche nel sostegno molto variegato che inizial­ mente accompagnò le inchieste sulla corruzione politica, quegli affluenti erano ben lontani dal convergere tutti nell'alveo di una crescita civile della nazione. La stessa indicazione della via referendaria come radicalmente alternativa a quella delle "pic­ conate" dall'alto trascurava il fatto che in una parte dell'opinione pubblica questa distinzione appariva molto meno netta, poiché di entrambe si apprezzava soprattutto la carica antipartitocratica. Le ragioni della democrazia maggioritaria erano inscritte nell 'effettivo degrado del sistema politico edificatosi nel dopoguerra. Il PDS non prestò però sufficiente attenzione al fatto che una società come quella italiana, con le carenze storiche sul piano del sentimento di cittadinanza ( fondamentale elemento di continuità invece, assieme a una pubblica amministrazione efficiente, nel succedersi delle repubbliche in Francia) e le trasformazioni che aveva conosciuto negli anni Ottanta, sarebbe dovuta giungere a questo passaggio in un quadro di minore indeterminatezza e mag­ giori garanzie, a cominciare da quelle relative al sorgere di conflitti di interessi. Il PCI-PDS di Occhetto avvertì pienamente, in netto contrasto con la posizione difen­ siva manifestata in precedenza dai comunisti, la necessità di una profonda riforma istituzionale e, aderendo alla strategia referendaria, fu un attore decisivo del processo di trasformazione. Ma, alla luce anche di una superficiale lettura delle dinamiche di una società civile che non si sentiva più rappresentata dai tradizionali soggetti politici, non fu in grado di evitare, nel 1994, lo sbocco anomalo della via italiana all'alternanza politica.

Donzelli, Roma 2012, pp. 225 ss.; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (1gSg-2oii), Laterza, Roma-Bari 2012. 68. Cfr. F. Lanchester, L'innovazione istituzionale nella crisi di regime, Bulzoni, Roma 1996. 69. Rinnovare la sinistra, cit., p. S · 268

Tra sogno e realtà : !"' Unità socialista" nelle carte di Craxi di Andrea Spiri

I

Il "duello a sinistra" L' « Unità socialista » , scrive Bettino Craxi in un appunto del 30 agosto 1999, « era un volo pindarico, un'astrazione, una pretesa del tutto illusoria » : I comunisti [ ... ] pensavano ad accordarsi con la D C o con gran parte di essa. [ ... ] I socialisti andavano messi d'un canto. Poi, invece, furono tolti di mezzo con campagne di aggressione di cui ancora non si è fatta tutta la storia che è per tanti aspetti impressionante1•

Desideroso di ricostruire alcuni passaggi per « mettere le cose al loro giusto posto » \ il leader socialista ha riflettuto a lungo sulle ragioni del fallimento di un processo di ricomposizione unitaria della sinistra in Italia, come si evince dalla lettura delle sue note conservate negli archivi della Fondazione Bettino Craxi a Roma. Le carte di Craxi sul "duello a sinistra"3 ripercorrono le principali vicende che hanno lacerato il tessuto dei rapporti tra socialisti e comunisti, a cominciare dallo scontro frontale che oppose lo stesso segretario di via del Corso al leader del PCI Enrico Berlinguer; un conflitto le cui motivazioni andrebbero ricercate anche nella «Psicologia » e nella « storia personale » del numero uno di Botteghe Oscure : Lui veniva da una famiglia nobile, socialista e massone, quando decise di diventare comunista consumò un atto di rottura profonda con i suoi. Evidentemente il suo rapporto con me, il suo antisocialismo, risentiva della rottura consumata con il padre4•

I. Appunto di B. Craxi del 30 agosto 1999, senza titolo, in Fondazione Bettino Craxi (d'ora in avanti F B C ) , Archivio Bettino Craxi (d'ora in avanti A B C ) , Carte di Hammamet, fondo non catalogato. 2. Appunto di B. Craxi del 16 febbraio 1998, dal titolo Per la Storia, ibid. 3· li riferimento è a G. Amato, L. Cafagna, Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni '7o, U Mulino, Bologna 1982. 4· Appunto di B. Craxi del z6 giugno 1996, dal titolo lo, Enrico Berlinguer e i comunisti italiani, in FBC, A B C , Carte di Hammamet.

ANDREA S P I RI

Le riflessioni più significative dal punto di vista dell'analisi storiografica sono quelle che investono il confronto e le prospettive di evoluzione dei rapporti tra comunisti e socialisti dopo l'uscita di Craxi da Palazzo Chigi. Al termine di un quadriennio « aspro e travagliato » , nel corso del quale il PCI non ha saputo o voluto cogliere il valore positivo dell'esperienza di governo a guida socialista5, il leader del Garofano lancia segnali distensivi all' indirizzo di Botteghe Oscure6, convinto che quella della sinistra italiana sia per lunghi tratti « storia comune e non storia di diversi » ; per delineare possibili strategie unitarie occorre tuttavia che il PCI imbocchi seriamente la via maestra di una «concezione democra­ tica e liberale del socialismo, di una strategia di cambiamento ispirata da un moderno riformismo » 7• L'evidente proposito del partito di Craxi è quello di spingere i comunisti in direzione di un definitivo chiarimento di fondo ideologico, come dimostra r aspra polemica esplosa nella primavera del 1988 dopo la decisione di Mosca di procedere alla riabilitazione di Nikolaj Bucharin e di altre vittime dello stalinismo8• I socialisti incalzano Natta e compagni a riflettere sulla figura stessa di Togliatti, «per trent'anni complice e carnefice dello stalinismo » , tuona il vicesegretario del PSI Claudio Mar­ telli9, a sua volta accusato di « meschinità culturale » e di « sconsiderato attacco » alla storia comunista10• A rendere ancora più incandescente il clima è il Convegno internazionale orga­ nizzato a Roma da "Mondoperaio, 11: dopo le feroci polemiche di fine anni Settanta, il confronto sul profilo ideale della sinistra torna dunque a essere il terreno su cui si scava un fossato tra le principali anime del movimento operaio italiano. E in questa turbolenta fase dei rapporti a sinistra che Achille Occhetto assume '

S· B. Craxi, L'Italia che cambia e i compiti del riformismo, replica conclusiva al X LIV Congresso del PSI, Rimini, s aprile I987, ora in E. Catania, Il vento di Rimini. Diario di un congresso, Critica Sociale Nuova Editrice, Milano I987, p. 2IO. 6. Nella relazione introduttiva al Congresso di Rimini dell'aprile I987, Craxi rende omaggio, nel cinquantesimo anniversario della morte, al fondatore del P C I Antonio Gramsci, definendolo « esempio di virtù morali» e uomo « armato di una formidabile intelligenza critica, che seppe dirigere contro le degenerazioni e le involuzioni della rivoluzione comunista » (cfr. U. Finetti, a cura di, Il socialismo di Craxi. Relazioni e documenti dei Congressi socialisti, I97S-I99I, M&B Publishing, Milano 2003, p. 27 3 ) . Non può sfuggire l ' importanza di siffatto riconoscimento, specie alla luce delle polemiche scatenate dal dibattito dissacratorio sul gramscismo avviato alla fine degli anni Settanta sulle colonne della rivista "Mondoperaio". Cfr. su questo aspetto F. Coen, P. Barioni, Le cassandre di Mondoperaio. Una stagione creativa della cultura socialista, Marsilio, Venezia I999· pp. 70-83. 7· B. Craxi, L 'Italia che cambia e i compiti del riformismo, relazione introduttiva al X LIV Congresso del P S I, Rimini, 3 I marzo I987, ora in Finetti (a cura di), Il socialismo di Craxi, cit., p. 273. 8. A. Jacoviello, Bucharin, una pagina bianca che Gorbaciov ha riempito, in "la Repubblica", 6 febbraio I988. 9· A. Stabile, Perché Togliatti fu colpevole, ivi, I0 marzo I988. IO. Natta: , pp. I-12, e F. Dandolo, L'impegno meridionalistico (anni 'oo- '7o), in A. Giovagnoli, A. A. Persico (a cura di), Pasquale Saraceno e l'unita economica italiana. Convegno tenuto a Milano il zo e I7 aprile 2oz2, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2013, pp. 386-7. 4· P. Frascani, Le crisi economiche in Italia. Dall'Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 20I2. S· Cfr., fra gli altri, N. Crepax, Storia dell'industria in Italia. Uomini, imprese e prodotti, il Mulino, Bologna 2002, pp. 285 ss.

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monte, come anche in Liguria, Veneto ed Emilia6• Per far fronte ai costi sociali della recessione e soprattutto per ristrutturare l'apparato industriale con il fine di renderlo competitivo sui mercati internazionali vengono chieste allo Stato ingenti risorse, togliendo così priorità e mezzi alle aree arretrate. Emblematica è la vicenda della legge 1 2 agosto 1977, n. 67 5, per la riconversione e ristrutturazione industriale, i cui fondi finiscono per l' 85% a imprese del Centro-Nord7• Il dibattito che precede l'approva­ zione di tale provvedimento fa emergere plasticamente una prima rottura della solidarietà fra le due aree del paese, con una netta contrapposizione fra le ragioni del Nord e del Sud8• Sull' industria meridionale le conseguenze della crisi sono ancora più dure. Molti impianti operano nei settori di base le cui prospettive sono fortemente compromesse dalla crisi petrolifera, come ben testimonia la vicenda del v Centro siderurgico a Gioia Tauro. Viene minata la solidità delle imprese di grandi dimensioni alle quali si deve buona parte dell'aumento dell 'occupazione industriale nel Mezzogiorno, mentre le caratteristiche ambientali e sociali non favoriscono l'affermarsi di un sistema di imprese medie e piccole. Le mutate condizioni dell'economia italiana, inoltre, impongono di ammodernare gli impianti già esistenti piuttosto che costruirne di nuovi: viene così a mancare il presupposto fondamentale sul quale si era imperniata la strategia meridionalista, ossia l 'espansione della capacità produttiva, che aveva permesso di collocarne quote rilevanti al Sud. Non è solo la crisi a mettere in seria difficoltà l'industria meridionale, che sconta altri elementi problematici, dal deterio­ ramento dell'efficienza gestionale delle partecipazioni statali all' inadeguatezza della classe dirigente meridionale9• Ma è nella seconda metà degli anni Settanta che emer­ gono insieme le criticità accumulate nel tempo, suscitando preoccupazione e ama­ rezza fra i sostenitori dell 'intervento straordinario10• Nell 'opinione pubblica si diffonde l 'idea che l'intervento dello Stato a favore del Mezzogiorno sia inutile e foriero soprattutto di clientelismo. I giornali italiani par­ lano esplicitamente di noia e addirittura imbarazzo verso la questione meridionale,

6. Frascani, Le crisi economiche in Italia, cit., pp. 1 81-2. 7· P. Ciocca, G. Toniolo (a cura di), Storia economica d'Italia, 2. Annali, a cura di S. Battilossi, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 462-3. 8. A titolo di esempio, cfr. E. Pucci, La lotta tra i nordisti ed i sudisti ostacola la legge di riconver­ sione, in "La Stampa", 19 marzo 1977, p. 14; G. Zandano, Gli occupati del Nord contro i disoccupati del Sud?, ivi, 22 marzo 1977, p. 14; M. Canino, Mezzogiorno e riconversione industriale, in "Mondo Eco­ nomico", XXX II, 8 ottobre 1977, 3 8. 9· Sulla complessa vicenda, cfr. almeno F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano: dal dopoguerra a oggi, Donzelli, Roma 1997, e S. Cafìero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzo­ giorno (I950-I993), Laicata, Manduria (TA)-Roma-Bari 2000. 10. P. Saraceno, La lunga ombra sulfuturo del Mezzogiorno, in "Nord e Sud", xxv, 1978, 3, pp. 20-8; A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell'economia italiana, il Mulino, Bologna 1978; F. Sbrana, L'ultimo Saraceno e la SVIMEZ in una stagione difficile (I9?3-I99I), in Giovagnoli, Persico (a cura di), Pasquale Saraceno e l'unita economica italiana, cit., pp. 4os-32.

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sottolineando che il paese è stanco del Sud e del suo ritardo11• Iniziano a maturare le premesse per quello che avverrà nel 1 9 9 2, tanto che già nel 1 9 7 9 Piero Barucci scrive : «Non ci sarà da meravigliarsi se, di qui a poco, qualcuno proporrà di considerare chiuso il problema [ ... ] per decreto legge » 12• Nelle regioni del Nord il sovrapporsi della fase recessiva e del fallimento dell' in­ tervento statale al Sud favorisce in ampie fasce della popolazione una sorta di rifiuto verso la questione meridionale. Nell'introduzione al Rapporto sull'economia del Mez­ zogiorno nel I97S dell'Associazione per lo sviluppo dell' industria nel Mezzogiorno ( sviMEZ ) , Pasquale Saraceno osserva con rammarico il «risorgere di controversie che credevamo spente per sempre [ ... ] : è il Centro-Nord che sfrutta il Sud o è il Sud che succhia danaro al Centro-Nord ? » 13• Qualche tempo dopo un articolo di Salvatore Bragantini sintetizza i cambiamenti avvenuti parlando di insofferenza del Nord e osservando (con rammarico) che per tanti cittadini i trasferimenti al Sud non sono più giustificati. Il divario si è trasformato in un ' iniqua rendita di posizione: «L'o­ peraio di Milano e di Modena non vuole spessissimo neanche piu sentir parlare dello sviluppo del Mezzogiorno [ ... ] e si deve prevedere che - date le circostanze - nel futuro prossimo si [registreranno] ulteriori accentuazioni di queste tentazioni "iso­ lazionistiche" » . La causa viene individuata nella difficile situazione economica, che induce all'egoismo e alla chiusura in sé stessi, riconoscendo tuttavia che « una robusta mano alle tentazioni "isolazioniste" di una certa parte dell 'opinione pub­ blica del Nord del paese viene anche dalle inefficienze [ ... ] dell'intervento dello Stato nel Mezzogiorno » 14• La crisi economica porta a mettere in discussione la solidarietà fra aree forti e aree deboli, elemento importante per l'unità del paese. Il ritardo nello sviluppo del Sud aveva rappresentato fino a quel momento « la coscienza critica del processo di costruzione della nazione » 15: la ricerca di soluzioni alla questione meridionale aveva segnato la storia italiana sin dagli anni successivi all'unificazione, sempre intesa come un problema dell' intero paese16• In età repubblicana aveva rappresentato un tema politico di assoluto rilievo, divenendo un « elemento costitutivo ed essenziale del pensiero riformatore e dei programmi e criteri di azione di [tutte] le forze politiche I I. Un'efficace sintesi nell'editoriale Mezzogiorno di fuoco, in "Mondo Economico� XXX III, 2S novembre 1978, 46. 12. P. Barucci, La sempiterna questione meridionale, in "Appunti di Cultura e di Politica", 1979, I I, ora in Id., Mezzogiorno e intermediazione "impropria", il Mulino, Bologna 2008, pp. 49-74. L'afferma­ zione voleva essere provocatoria, ma fu presaga. 1 3. SVIM EZ - Associazione per lo sviluppo dell' industria nel Mezzogiorno, Rapporto sull'economia del Mezzogiorno nel 197S, SVIMEZ, Roma 1979. 14. S. Bragantini, Le ragioni della "insofferenza", in "Nord e Sud", XXVIII, 1982, 18, pp. 37-41. Il corsivo è mio. IS. Introduzione, in "Meridiana", 1993, 1 6, Questione settentrionale, p. 9· 1 6. Una recente rilettura in F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1S6o a oggi, Laterza, Roma-Bari 2013.

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nazionali » '7• La scelta di investire ingenti risorse nella crescita delle aree arretrate - secondo una concezione fortemente unitaria del paese che si saldava a un senso complessivo di identità nazionale - costituiva un elemento caratterizzante della cul­ tura politica prevalente nei grandi partiti di massa e, in particolare, del progetto storico che aveva ispirato la nascita del centro-sinistra. Ma nella seconda metà degli anni Settanta questa visione perde consenso nell'opinione pubblica settentrionale. Tale processo viene favorito dalla creazione delle Regioni, avvenimento che si colloca all' inizio degli anni Settanta e ha conseguenze di ampia portata. Quella di maggiore rilievo ai fini della nostra analisi è la riproposizione, in termini nuovi, del divario Nord-Sud. Ciascuna Regione infatti può e deve valutare le proprie forze, tanto più in una stagione di gravi difficoltà dell 'economia, confrontandosi con le altre'8• Sintomatico in tal senso il dibattito che si svolge sulle pagine del quotidiano "La Stampà' alla fine del 1 9 7 5 , aperto da un intervento del primo presidente della Regione Emilia-Romagna Guido Fanti, che lancia l'idea della costituzione di una lega del Po, la "Padania": un accordo fra Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto e la sua regione, per affrontare insieme la crisi economica e trattare con il governo centrale da una posizione di forza, alla luce delle funzioni attribuite ai nuovi enti locali. Un' idea nata subito dopo l'istituzione delle Regioni, elaborata in un comitato regio­ nale coordinato da Romano Prodi e resa pubblica il 6 novembre 1 9 7 5 sulle pagine del quotidiano torinese'9• Nell'intervista emergono temi di rilievo riguardo a quella che diventerà la questione settentrionale: la contrapposizione fra le regioni forti e il Mezzogiorno debole - negata da Fanti, ma assolutamente evidente -, il bisogno di trasparenza ed efficienza nella spesa pubblica, la critica alla Cassa del Mezzogiorno. Nei giorni seguenti sulle pagine della "Stampà' la proposta viene discussa con i presidenti delle altre Regioni del Nord e con alcune del Sud 20• Al di là delle singole posizioni, emergono tre temi decisamente significativi per quella che sarà la questione settentrionale. Il primo è il rapporto fra le nuove realtà locali, desiderose di prota­ gonismo, e uno Stato centralista e inefficiente. Con sfumature diverse, dovute in 17. G. Galasso, Meridionalismo e questione meridionale, in SVIM EZ, Nord e Sud a ISO anni dall'U­ nita d'Italia, il Mulino, Bologna 2012, pp. 3 5-8. 1 8. Lucide osservazioni al riguardo in P. Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, in Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, vol. XX IV, UT ET, Torino 1995, pp. IOI0-21. 19. F. San tini, Fanti spiega la sua proposta per una grande "lega del Po", in "La Stampa", 6 novembre 1975, p. 9; nell'occhiello era esplicitato l' interrogativo di fondo: «Ma nascerà davvero la super regione della Padania?». li ruolo di Prodi è riferito in Fanti: la Padania l'inventammo noi 20 anni fa, in "Corriere della Sera", 12 novembre 1996, p. 4; E. Cusmai, Vent 'anni fa Prodi voleva la Padania, in "il Giornale", 12 settembre 1996, p. 5· Cenni sulla vicenda in S. B. Galli, Il grande Nord. Cultura e destino della questione settentrionale, Guerini e Associati, Milano 2013, pp. I I I ss. 20. F. Santini, Padania? Milano risponde "ni", in "La Stampa", 8 novembre 1975, p. 9; Id., Alla Liguria, Padania va bene, ivi, 9 novembre 1975. p. 19; Id., Una Padania mitteleuropea, ivi, 29 novembre 1975, p. 3; Id., Una Padania senza steccati, ivi, 4 dicembre 1975, p. 3; Id., Un no alla Padania, ivi, 6 dicembre 1975, p. 3; Id., Anche la Campania dice no alla "superlega dei ricchi", ivi, 9 dicembre 1975, P· 2.

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parte all 'appartenenza partitica, gli intervistati esprimono la difficoltà a confrontarsi con problemi spinosi come la crisi di decine di piccole e medie imprese o le esigenze di migliaia di studenti universitari, senza ricevere un adeguato sostegno dallo Stato, che viene criticato con termini molto espliciti: assente, immobile, fatiscente. Mani­ festano insofferenza per essere divenuti i primi interlocutori di fronte ai problemi locali, ma senza gli strumenti adeguati per affrontarli per la contrarietà del governo centrale a regionalizzare la gestione del potere. La seconda questione che ritorna costantemente è la contrapposizione fra Nord e Sud. Gli amministratori settentrionali rigettano costantemente tale prospettiva, ma appare evidente che l ' istituzione delle Regioni ripropone questo storico pro­ blema in forme nuove e insidiose, a partire dalle diverse dinamiche e velocità di sviluppo di ciascun territorio. La proposta di Fanti viene definita in un articolo «psicologicamente inopportuna » 2 \ proprio perché formulata in un momento sto­ rico in cui emerge il rischio di nuove fratture fra Settentrione e Mezzogiorno, insieme alle tentazioni di chiusure regionalistiche. Peraltro, le affermazioni a favore del Sud fatte dai presidenti dell'ipotetica Padania sono molto "di principio" ma prive di proposte concrete. Lo denuncia il presidente della Regione Calabria Pasquale Perugini, osservando criticamente come la proposta della lega del Po rappresenti sostanzialmente un'estensione dell 'alleanza delle regioni ricche, dal triangolo indu­ striale a un nuovo pentagono padano. Il presidente della Regione Piemonte Aldo Viglione lega in un solo ragionamento le due tematiche appena richiamate, affer­ mando che la radice dell'ipotetica "Santa alleanzà' delle regioni più sviluppate sia proprio nella carenza di risultati ottenuti dallo Stato nello sviluppo del Mezzogiorno, riconoscendo inoltre che sarebbe più veritiero parlare semplicemente di Nord piut­ tosto che in modo ambiguo di Padania. Il terzo aspetto da segnalare è che l' intero dibattito - che non avrà seguito anche per la ferma contrarietà del partito di Fanti, il P C I - è costantemente segnato dal richiamo alla grave crisi economica del paese, che incoraggia un atteggiamento propositivo delle Regioni. Elemento che collega il tema dell 'autonomismo locale alle dinamiche economiche ( e sociali ) rievocate nelle pagine precedenti. Fra gli elementi che collegano l'istituzione delle Regioni e la frattura fra Nord e Sud, occorre fare un cenno all 'attività di un ente importante come la Cassa del Mezzogiorno. La sua efficienza risulta fortemente deteriorata dal coinvolgimento nelle sue attività dei nuovi organismi, ai quali viene affidato un ruolo crescente, prima nella realizzazione degli interventi poi in tutto il processo decisionale, con il primo risultato di indebolire la necessaria unitarietà direttiva. Le Regioni peraltro non hanno le risorse tecniche e organizzative adeguate per adempiere a tali funzioni e finiscono per favorire lo sviluppo di una rete burocratica inefficiente, incentivando

2I. C. Casalegno, Nord e Sud un solo Paese, ivi, n dicembre 1975, p. 1.

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una commistione fra politica e affari che si fa progressivamente più stretta e dannosa, mentre i partiti e le loro correnti acquistano una crescente influenza negli organismi della Cassa e nella scelta degli amministratori21• Tali elementi negativi, che forniranno benzina alle infuocate polemiche degli anni Ottanta, sono parte del più ampio pro­ blema della scarsa efficienza delle regioni del Sud. Una questione che si manifesta nell'arco di non molto tempo e contribuisce ad ampliare il divario già esistente, concorrendo ulteriormente a « indebolire la solidarietà interregionale » 23• Un ultimo cenno sulle Regioni va fatto al tema più generale dei limiti della loro attuazione, che è stata ritenuta « per molti sostanziali aspetti un evidente fallimento » 24• La mancanza di un serio confronto sul tema, che dura sin dagli anni della Costituente, e la contrarietà ( o comunque i forti dubbi ) verso questi enti che allignano in buona parte della classe politica nazionale fanno sì che la loro creazione non sia accompagnata dalla costruzione istituzionale di un'effettiva autonomia regionale5• La nascita dei nuovi enti non contribuisce a ripensare in modo nuovo il centralismo statale e l'autonomismo locale - per una poco chiara distinzione funzionale fra Stato e Regioni, alle quali non viene neanche data autonomia finan­ ziaria - aggiungendo piuttosto al sistema politico italiano un'ulteriore « Stratifica­ zione, a livello istituzionale intermedio, di distribuzione della spesa pubblica, nonché di organizzazione corporativa e clientelare » . Negli anni seguenti si mani­ festa nelle popolazioni locali una maggiore identificazione con la dimensione regio­ nale ma emergono anche le contraddizioni nella loro attuazione e in particolare la mancanza di una reale autonomia, anche per la scarsa "regionalizzazione" dei partiti, i quali continuano a concepirsi come organismi caratterizzati da valori e temi nazio­ nali o sovranazionali. L'allentamento dei vincoli fra Nord e Sud innescato dalla crisi economica e le molteplici conseguenze della nascita delle Regioni rappresentano elementi fondamen­ tali nell'emergere della questione settentrionale. Non è possibile stabilire uno sche­ matico rapporto causa-effetto, ma al termine degli anni Settanta prendono forma le prime leghe autonomiste : la prima è la Liga veneta, fra il 1979 e il 1980, seguita non molto tempo dopo da soggetti simili in Piemonte e soprattutto dalla Lega lombarda fondata da Umberto Bossi. La Liga veneta è la prima a registrare nel 1983 un risultato 22. Cafìero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit. ; SVIM EZ, La politica per l'unificazione economica nell'ultimo cinquantennio e i problemi di oggi, in Id., L'unificazione economica dell'Italia, il Mulino, Bologna 1 997, pp. 21 ss. 23. Cfr. R. Putnam, R. Leonardi, R. Y. Nanetti, La pianta e le radici. Il radicamento dell'istituto regionale nel sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 1985, pp. 348 ss. 24. Craveri, La Repubblica dal I95S al I992, cit., p. IOII, da cui è tratta anche la citazione seguente. 25. U. De Siervo, La difficile attuazione delle regioni, in L'Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, IV. Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa, G. Monina, Rubbettino, Soveria Man­ nelli ( cz) 2003, pp. 3 8 9-401, al quale si rinvia per un approfondimento sul rapporto fra Regioni e Stato negli anni Settanta.

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elettorale significativo dovuto - secondo Ilvo Diamanti - soprattutto a tre fattori: il forte antimeridionalismo ; le minacce allo sviluppo economico ; la rivendicazione regionalista e localista in contrapposizione al centralismo statale6• Fenomeni che si erano sviluppati negli anni Settanta.

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Le trasformazioni della società postfordista in un sistema politico inerte

Nel corso degli anni Ottanta una serie di cambiamenti economici trasforma in pro­ fondità il Nord del paese, favorendo il diffondersi di un forte malessere sociale. All'origine - oltre alle vicende sin qui ripercorse e al secondo shock petrolifero - c 'è soprattutto la crisi del modello fordista, dovuta alle condizioni di instabilità dell'e­ conomia internazionale e ai cambiamenti nella domanda, che indeboliscono le stra­ tegie industriali di lungo periodo e le produzioni standardizzate, favorendo le imprese piccole e versatili. L'area del triangolo industriale subisce in pochi anni una forte trasformazione. In alcune zone la grande impresa continua ad avere un peso non trascurabile, ma deve ristrutturarsi radicalmente e assumere caratteri di maggiore flessibilità, con conseguenze anche sull' indotto : così avviene nella company town italiana, Torino, dove la FIAT rimane un riferimento indiscutibile sebbene fra il 1979 e il 1983 i dipen­ denti del gruppo scendano da 3 5 0.o o o a 2 4 4 .0 0 0 unità27• Altre aree del Nord-Ovest vedono crescere rapidamente l 'economia immateriale, dall 'informatica alla comuni­ cazione, dalla finanza ai servizi alle imprese, fino alle diverse tipologie di consulenza. La capitale ideale di questa nuova realtà produttiva è Milano. Come in tutte le eco­ nomie avanzate la priorità passa dai processi di trasformazione al terziario e l' indu­ stria manifatturiera perde migliaia di occupati. Si registra inoltre un progressivo decentramento delle attività produttive : la grande città industriale tende a scompa­ rire, mentre prende forma la cosiddetta "megalopoli padana", un territorio tutto urbanizzato senza soluzione di continuità28•

26. L Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I993· pp. so-I. 27. F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia. Dall'Unita a oggi, Marsilio, Venezia I999· p. 303; V. Castronovo, Fiat 1S99 -1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano I999· pp. I 444 ss. Il calo degli addetti è dovuto anche alla cessione di rami d'azienda. 28. Una lucida lettura di tali vicende si trova nelle pagine introduttive di Berta ( a cura di) , La questione settentrionale, cit. , opera che offre un'accurata ricostruzione delle trasformazioni economiche del Nord negli ultimi decenni. Sulle trasformazioni del territorio e in particolare sulla megalopoli padana, cfr. R. Mainardi, L'Italia delle regioni. Il Nord e la Padania, Bruno Mondadori, Milano I 998, pp. 120 ss., volume di taglio geografico piuttosto sintonico con alcune posizioni leghiste.

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L' impatto dei cambiamenti sulla società è forte e genera spaesamento : «Il tra­ monto della fabbrica fordista come luogo di costruzione della società sembra improv­ visamente vanificare decenni di lotte, lasciando sul campo tanti orfani senza riferi­ menti [se non] il dispiegarsi di un individualismo competitivo essenzialmente antisociale » 29• Dopo aver vissuto in Italia una stagione di grande protagonismo, la classe operaia perde compattezza e rilevanza politica. Ci sono segnali di una crescente debolezza del sindacato, dalla "marcia dei quarantamila" nel 1980 alla sconfitta nel referendum sulla scala mobile nel 1985. La "centralità operaià' è un ricordo del pas­ sato, si parla piuttosto di "paura operaià' e molti smarriscono una visione condivisa della società, insieme alla speranza di poterla cambiare. Anche per questo si logora il tradizionale legame con i partiti di sinistra e molti operai vengono attratti dalla Lega, inclusi diversi iscritti alla CGI0°. Nello stesso periodo prende forza anche il fenomeno del "riflusso", ossia una nuova attenzione ai bisogni individuali e un ripiegamento nel privato, accompagnato da una crescente sfiducia verso i partiti politici31• Si propaga nella società una nuova antropologia, che sfugge alle logiche dell 'appartenenza collettiva e diventa individua­ lista nelle aspettative e nei desideri. Dopo anni di forte militanza, si assiste alla frantumazione dei soggetti collettivi e ad un diffuso ripiegamento in direzione del privato e dell'individuale32• Non si guarda più al futuro con la speranza di poterlo cambiare, ma con la paura di non riuscire ad affrontarlo33• Se la grande fabbrica prometteva occupazione e stabilità, trasmettendo la sensazione di un futuro sicuro3\ la società postfordista appare sfuggente, competitiva e foriera di precarizzazione. Nelle regioni più ricche si diffonde un senso di forte incertezza, che si salda all 'in­ dividualismo e dà nuova linfa ai sentimenti di chiusura al Sud che la crisi aveva ali­ mentato. Fuori del triangolo industriale, ossia nell'area orientale, la crisi del modello for­ dista viene vissuta in termini molto diversi. In Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli 29. A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord, Feltrinelli, Milano 2008, p. I6. Nume­ rosi spunti sul tema in P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, societa civile, Stato I9S0-I996, Einaudi, Torino I998. 30. G. Lonardi, Delusi dalla CGIL, tentati dalla Lega, in "la Repubblica", 9 gennaio I 99I, p. I7. Il fenomeno si accentua con il passare degli anni; cfr. E. Marro, Il mosaico del nuovo sindacato CGIL, in "Corriere della Sera", s maggio lOIO, p. I7. 3 I. G. De Luna, Dalla spontaneita all'o rganizzazione: la resistibile ascesa della Lega a Bossi, in Id. (a cura di), Figli di un benessere minore. La Lega I979-I993· La Nuova Italia, Firenze I994· pp. li ss. Più in generale, AA .VV. , Il trionfo del privato, Laterza, Roma-Bari I98o. 32. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia lOIO, p. I3; G. Ruffolo, Un paese troppo lungo. L'unita nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009, pp. lis-6. 33· G. Bigatti, M. Meriggi, I mutevoli confini del Nord, in Berta (a cura di), La questione setten­ trionale, cit., pp. I3-42. 34· G. Berta, L'Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell'industrialismo nel Novecento, il Mulino, Bologna lOOI.

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Venezia Giulia - come nel resto della cosiddetta "terza Italia" - operano migliaia di imprese piccole e piccolissime, spesso di carattere familiare, legate al territorio, gene­ ralmente organizzate nei distretti industriali e in altre forme di integrazione orizzon­ tale e verticale. Offrono la flessibilità produttiva di cui c 'è forte domanda in questi anni e permettono a regioni storicamente povere come il Veneto di cambiare rapi­ damente la propria condizione. La crescita delle piccole imprese non contrasta i processi di frammentazione sociale ma li rafforza, dal momento che la cultura di questo capitalismo è tipicamente individualista. Contribuisce al passaggio dalla con­ trapposizione fra le classi alla frammentazione in tanti singoli difficilmente compo­ nibili fra loro, se non nella dimensione locale35• Questo tipo di società e questo sistema d'imprese, che assumono in breve tempo un ruolo economico importante, hanno bisogno di un governo del territorio che favorisca innovazione ed efficienza, ma stentano a trovare servizi pubblici e infra­ strutture adeguati36• Si scontrano anche con il problema della rappresentanza. Il mondo dei piccoli imprenditori di successo e degli artigiani cresciuti o, più in gene­ rale, l'intero tessuto produttivo in via di profonda ristrutturazione comprende di essere divenuto una realtà importante ma priva di adeguata tutela. Si sentono "giganti economici e nani politici", per usare una formula molto diffusa, e diventano rancorosi verso una politica nazionale (ma spesso definita "romana") che ai loro occhi ignora il travaglio vissuto in tante zone del Nord produttivo, ma indirizza risorse a un Sud . . aSSIStitO. La stessa problematica, legata anche alla mancanza di una radice culturale ben definita, si riflette pure in ambito imprenditoriale. Le grandi aziende, infatti, hanno un ruolo autorevole nella società italiana e mantengono a lungo l'egemonia in Con­ findustria, dove bisogna attendere il 1996 perché sia nominato al vertice un presidente che non provenga dalla grande impresa37• Aziende di dimensioni diverse hanno inte­ ressi eterogenei, come d'altronde sono i loro approcci ai problemi del paese (o almeno alcuni fra essi) . Basti pensare al Mezzogiorno, che diverse grandi aziende settentrio­ nali avevano considerato un'opportunità, cogliendo i vantaggi offerti dalle agevola­ zioni statali. Al contrario, i rappresentanti delle medie e piccole imprese settentrionali esprimono spesso indifferenza, se non disprezzo, verso le problematiche del Sud. I sentimenti che si diffondono al Nord, tipici delle società segnate da rapide trasformazioni, rappresentano una sfida per chi governa. Il sistema politico italiano però non riesce a offrire risposte convincenti né ai bisogni dei soggetti emergenti né di quelli in crisi, rimanendo sostanzialmente immobile di fronte al cambiamento

35· Sui caratteri dello sviluppo nel Nord-Est, cfr. A. Bonomi, Il capitalismo molecolare. La societa al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino 1997, pp. n8-29. 36. I. Diamanti, Mappe dell'Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro... e tricolore, il Mulino, Bologna 2009\ pp. 6s-6. 37· V. Castronovo, Cento anni di imprese. Storia di Confindustria I9I0-20IO, Laterza, Roma-Bari 2010. 3 70

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sociale ed esprimendo in questa vicenda quell 'atteggiamento autoreferenziale che lo caratterizza progressivamente dopo la stagione della solidarietà nazionale38• La Democrazia cristiana registra una significativa crisi in Veneto e in alcune aree di tradizionale radicamento nella Lombardia pedemontana, favorita sia dalla secolariz­ zazione e da una più generale crisi del partito, sia da uno scollamento tra politica centrale e comunità locale che lascia politicamente orfana la cosiddetta "subcultura bianca"39• I primi segnali di questo cambiamento vengono sottovalutati e nelle aree bianche il legame con la D C finisce per essere sostanzialmente disarticolato, lasciando ampi spazi al fenomeno leghista che guadagna rapidamente consenso, nell 'ambito di una più vasta contrapposizione del Nord alla Roma considerata capitale dello Stato centralista e della lottizzazione politica40• In precedenza il partito cattolico era riuscito a stemperare atteggiamenti come il localismo, la sfiducia verso lo Stato e il familismo - storicamente radicati in alcuni territori, fra i quali il Veneto - ma l' indebolirsi dell' identità religiosa li fa riemergere, favorendo lo spostamento degli elettori democristiani verso il partito di Bossi41• Il malessere del Nord incontra scarsa attenzione anche nel Partito comunista, fatta eccezione per alcune realtà locali che però faticano a trovare ascolto negli organi centrali42• E significativo che l 'espressione "questione settentrionale" non venga mai utilizzata né dagli esponenti del partito né dalle testate giornalistiche d'area: i dua­ lismi territoriali vengono visti esclusivamente nella prospettiva del Mezzogiorno e del suo ritardo. La sinistra incontra difficoltà nel confrontarsi con le dinamiche di una modernità che non rientra « nel suo tradizionale, consolidato impianto interpre­ tativo della realtà, oltre che nelle sue opzioni politiche » . Tanto che « se sofferenze riconducibili a una frattura territoriale esistono, esse vengono trattate [come] variabili dipendenti dall'unica vera questione, quella meridionale » 43• '

38. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (zgSg-2on), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. 3 ss.; Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. I4-S· 39· Sulla crisi della DC e la secolarizzazione, cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I94s-zgg6), il Mulino, Bologna I997· pp. 407 ss.; sul dibattito interno al mondo cattolico in quel periodo, cfr. A. Giovagnoli, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2ou, pp. I68 ss. 40. R. Chiarini, Il disagio del Nord, l'antipolitica e la questione settentrionale, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 23I-66. 4I. Diamanti, La Lega, cit., pp. 45-7. Le interpretazioni sul ruolo della Chiesa nella storia italiana non sono condivise, come si è potuto osservare in occasione dei ISO anni di unità nazionale. 42. li tema è trattato in un volume dedicato al fenomeno leghista in Veneto in cui vengono sottolineate le divergenze fra livello locale e centrale nell'affrontare la nuova realtà politica, sia nel P C I sia nella DC; cfr. F. Jori, Dalla Liga alla Lega. Storia, movimenti, protagonisti, Marsilio, Venezia 2009, pp. 46-si. 43· R. Chiarini, Socialisti e comunisti davanti alla "questione settentrionale", in G. Acquaviva, M. Gervasoni, Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2ou, pp. 297-8. Significati­ vamente non si trovano accenni al tema, a conferma dello scarso rilievo che aveva nel Partito comunista, in A. Possieri, Il peso della storia. Memoria, identita, rimozione dal PC/ al PDS {zgJo-zggz), il Mulino, 3 71

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Si ha l' impressione - da verificare in futuro con maggiore disponibilità di fonti archivistiche - che le problematiche del Sud diventino una sorta di path dependence, un elemento che rende difficile cogliere quanto accade nelle zone più sviluppate. Un atteggiamento in parte simile, infatti, si riscontra anche nell'ambito del Partito socia­ lista, dove il ritardo del Mezzogiorno continua a essere indicato come la vera grande questione nazionale44• Fra le ragioni di tale orientamento c 'è sicuramente una diversa disponibilità di studi e ricerche, copiose sul Meridione - basti pensare ai lavori della SVIMEZ - ma scarse sull'economia e la società del Nord, almeno fino a quel momento45• L'approccio del PSI è almeno in parte diverso, perché viene avvertita la necessità di confrontarsi con la modernizzazione in corso : Bettino Craxi prova a interpretare la transizione postfordista in modo propositivo e porta elementi di novità nel rapporto politico fra Nord e Sud del paese, anche se coglie tardi la portata del fenomeno leghista4 6• La sostanziale inerzia delle forze politiche di fronte alle domande di una società dinamica fa guadagnare consenso alle diverse leghe, che si fanno interpreti del Nord e del suo disagio. Nel 1983 entra in parlamento la Liga veneta, con un eletto alla Camera e uno al Senato. Raccoglie molti voti nella fascia pedemontana che va da Verona a Belluno passando da Vicenza e Treviso, con una prevalenza nei comuni di media dimensione, in un'area segnata dalla piccola impresa industriale. Nel 1987 i consensi si ampliano, concentrandosi soprattutto in tre aree : il nucleo del Veneto, l'alta Lombardia e alcune province del Piemonte. I caratteri socioeconomici sono omogenei: aree " bianche", altamente industrializzate, caratterizzate da imprese piccole e molto dinamiche, con scarsa presenza di servizi e intervento pubblico. Questa volta è la Lega lombarda a ottenere due eletti in Parlamento, superando anche il 10% dei consensi in numerose elezioni comunali. Bossi punta sulla comunità di interessi a livello locale, con attenzione specifica ai distretti e alle piccole imprese, ma anche alle classi popolari. Mostra un notevole fiuto politico nel cogliere alcuni temi cruciali: malessere verso lo Stato centrale, sentimenti antimeridionalisti, federalismo. I giornali ne denunciano la grossolanità e i toni spesso razzisti, il sistema politico tende soprat­ tutto a stigmatizzare la realtà leghista, ma poco vengono colti - al di là di un lin­ guaggio semplificato e aspro - alcuni elementi significativi: la Lega si fa interprete Bologna 2007, né in A. Vittoria, Storia del PC/: I921-I99I, Carocci, Roma 2006. Sulla lentezza nel cogliere U fenomeno leghista ancora alla fine degli anni Ottanta, cfr. G. Galli, Storia del PC/. Livorno zg21, Rimini zggz, Kaos, Milano 1993, p. 307. 44· Chiarini, Socialisti e comunisti davanti alla "questione settentrionale", cit., p. 309. 45· A. Pichierri, Si fa presto a dire Nord, in "U Mulino", 20II, s. pp. 76 1-8. 46. G. Berta, Nord. Dal triangolo industriale alla megalopoli padana, Mondadori, MUano 2008, pp. 235-43. Cenni sui ritardi del PSI nel cogliere U fenomeno leghista negli anni Ottanta in S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma­ Bari 2005, pp. 1 6 0 e 238, al quale si rinvia per una lettura d' insieme sul P SI. Su Craxi in questi anni, cfr. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. 46-51, che accenna anche alla sua (errata) lettura del fenomeno leghista (pp. 226-8 ) . 37 2

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di problemi reali, pone molta attenzione agli elementi locali (utilizzando fra l'altro il dialetto) e va oltre il tradizionale schema destra-sinistra47• Nel corso degli anni Ottanta si accentua la sfiducia verso l'azione dello Stato nel Mezzogiorno, già forte all' inizio del decennio. Sono emblematiche, anche in questo caso, le difficili sorti della Cassa del Mezzogiorno: una precedente legge ne aveva fissato al 3 1 dicembre 1980 la scadenza, ma lo scetticismo dell'opinione pubblica e i problemi delle finanze statali sfavoriscono non solo il rafforzamento dell'ente ma addirittura il suo rinnovo, sul quale il Parlamento non prende alcuna decisione. Dal 1981 la Cassa viene mantenuta in vita con proroghe di breve durata, fino alla definitiva abrogazione nel 1984 48• Negli stessi anni i poli industriali sorti negli anni Sessanta e Settanta nel Mezzogiorno grazie all'intervento straordinario risultano ormai « in via di disarmo, quando non [ ... ] già stati smantellati in gran parte nel corso delle varie fasi recessive » . Questi fallimenti rendono evidente che i considerevoli trasferimenti di risorse nel Sud operati per via politica, pur avendo fatto crescere i consumi e il reddito, non sono riusciti a favorirne lo sviluppo ossia l'autonoma capacità di produrre reddito. Al con­ trario, si sono moltiplicati i fenomeni di lottizzazione politica e degrado istituzionale, accompagnati da una crescente presenza della criminalità organizzata, con il risultato paradossale e perverso di rendere più difficile uno sviluppo economico endogeno49• Al problema degli insuccessi economici dello Stato è strettamente connesso quello della vorticosa crescita del debito pubblico, che negli anni Ottanta si manifesta in termini molto preoccupanti. Ne discende un progressivo inasprimento della pressione fiscale, che suscita già alla metà del decennio vivaci proteste nelle zone più ricche del paese50• L'aumento delle tasse non è peraltro sufficiente a rispondere alle crescenti esigenze della finanza pubblica e si apre la strada a quella crisi fiscale che poco tempo dopo sarà parte fondamentale della « grande slavina » destinata a travolgere il sistema politico italiano51• Tuttavia, pur in presenza di numerosi sintomi di crisi - ai quali va aggiunta la crescita degli elettori che rinunciano a esprimere il proprio voto51 - per tutti gli anni Ottanta il sistema politico sembra mantenere la sua stabilità, favorito dalla contrapposizione internazionale fra Alleanza atlantica e blocco comunista. 47· Diamanti, La Lega, cit.; Id., Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma I 996. Sulla prima stagione della Lega (ma anche sugli anni più recenti), cfr. anche R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 20IO; G. Passalacqua, Il vento della Padania 19S4-2009, Mondadori, Milano 2009. 48. Cafìero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., pp. I23-30. 49· V. Castronovo, Storia economica d'Italia. Dall'Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2006, pp. 535-40 (da cui è tratta la citazione precedente, alle pp. 535-6 ) ; C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna I992, passim; L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l'unita d'Italia, Marsilio, Venezia I994· pp. 67-73. so. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. III-4. S I. L. Cafagna, La grande slavina. L 'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia I993· 52. P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Societa e politica 1943-19SS, Einaudi, Torino I989, pp. 571 ss.; più in generale Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., e AA.VV., L 'Italia fra crisi e transizione, Laterza, Roma-Bari 1 994· 37 3

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Affermazione della Lega Nord e conseguenze politiche della questione settentrionale

Alle soglie degli anni Novanta viene fondata la Lega Nord, nuovo soggetto politico che unisce sei diverse realtà regionali, fino a quel momento indebolite da molteplici divisioni interne. Bossi consegue due risultati di rilievo. Da una parte riunifica e rafforza il fronte delle diverse leghe, coniugando insieme movimenti autonomisti, una figura autorevole come il politologo Gianfranco Miglio e richiami a nobili pre­ cursori come Cattaneo e i federalisti americani. Dall'altra riesce a fondere i diversi elementi di malessere diffusi nel territorio in un solo orizzonte rivendicativo : la questione settentrionale53. In un paese segnato dalla crisi di tanti elementi di unità e coesione - la questione meridionale in chiave di unificazione economica, l'impegno politico e sindacale collettivo, il rapporto fra cittadini e Stato - il Carroccio acquista grande forza unificando un'area vasta, con esigenze eterogenee, « attorno a una sola tensione, a una sola frattura, segnata dal contrasto con lo Stato eccessivo, inefficiente, dissi pativo » 54• In questo schema s' iscrivono le parole d'ordine leghiste : domanda di maggiore autonomia per i territori, condanna dell' intervento pubblico in economia ( specie nel Mezzogiorno ) e richiesta di una sua riduzione, critica serrata al sistema politico, contrapposizione al sistema fiscale dal punto di vista sia del prelievo sia della retri­ buzione. Tematiche che rimangono nel tempo, anche se in forme diverse, coniugan­ dosi con una visione localistica e sovente marcatamente egoistica, contrapposta a chi è diverso per provenienza o per cultura. Il territorio viene utilizzato quale chiave per rivendicare, piuttosto che come strumento per mediare come avveniva con la DC 55• Il periodo compreso fra il 1989 e il 1992 è segnato da avvenimenti di grande portata, che hanno conseguenze di rilievo sul paese e favoriscono la definitiva affer­ mazione della questione settentrionale a livello nazionale. La caduta del Muro di Berlino mette in difficoltà il PCI ma anche la DC nella sua funzione di antemurale al comunismo, mentre le inchieste di Tangentopoli portano all'apice la sfiducia verso i partiti56• Umberto Bossi, forte della prospettiva unitaria offerta al Nord, si inserisce con un linguaggio aggressivo e semplificato negli spazi televisivi che hanno acquistato grande importanza nel dibattito politico, esprimendo la rabbia verso la politica romana e contrapponendo la laboriosità del Nord ali' inefficienza dello Stato57• La 53· A. Bonomi, Vie italiane al postfordismo. Dal capitalismo molecolare al capitalismo personale, in Berta (a cura di), La questione settentrionale, cit., p. 78. 54· Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., pp. 70-I. 55· lvi, p. 6 6. 56. Per una ricostruzione, cfr. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., pp. 459 ss.; Cafagna, La grande slavina, cit. 57· Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta, cit., pp. 208-16. 374

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Lega diventa il «partito antipartiti » 58: interpreta la difficile transizione di questi anni e allo stesso tempo funge da detonatore nell'esplosione del sistema politico preesi­ stente. Secondo diversi studiosi è uno dei principali fattori di disgregazione della Prima Repubblica59• Le difficoltà della Democrazia cristiana e del Partito comunista, che avevano per­ seguito un approccio unitario alle problematiche territoriali, favoriscono l'affermazione leghista. Le elezioni regionali in Lombardia nel 1990 sono indicative al riguardo : la somma dei voti raccolti dalla DC e dal PCI, che nel 1985 era stata pari al 63%, scende al 47%, mentre la Lega raccoglie il 19% dei consensi. Ovviamente non c'è un passaggio meccanico degli elettori, ma la tendenza è chiara: la crisi dei due principali partiti italiani facilita il dilagare dell'orgoglio identitario del Nord e l 'avversione verso il Sud. Lo scoppio di Tangentopoli imprime un'ulteriore accelerazione a questo processo e nelle elezioni politiche dell'aprile 1992 il Carroccio ottiene un risultato notevole : 8,6% dei voti a livello nazionale e 17,3% nelle aree dove si presenta. Bossi è il candi­ dato più votato in Italia e raccoglie a Milano ben 24o.o o o preferenze, mentre la forza elettorale dei maggiori partiti di governo si colloca soprattutto nelle regioni meri­ dionali 60. Da questo momento l 'espressione "questione settentrionale", in precedenza poco utilizzata, entra nel linguaggio mediatico e s' impone all'opinione pubblica. Il malessere del Nord diventa un elemento di rilievo nazionale e attraverso la Lega, che ne rappresenta « il riassunto, lo specchio e l 'attore principale » 6\ inizia a determinare risultati elettorali e scelte di governo. Non è un caso che la definitiva sostituzione fra le due questioni territoriali avvenga pochi mesi dopo. Una serie di fatti colpisce negativamente l'opinione pub­ blica, dagli scandali legati alla ricostruzione dopo il terremoto dell' Irpinia alla cre­ scente violenza mafiosa in Sicilia. Giorgio Bocca pubblica due volumi62 - uno dei quali è per molto tempo il più venduto in Italia - in cui descrive il Sud come un'area disperata e priva di civilizzazione, dove il crimine organizzato la fa da padrone, che rischia di rovinare anche il Settentrione : si tratta di stereotipi e semplificazioni, che però si diffondono con forza nell'opinione pubblica63. s8. La definizione è proposta in I. Diamanti, La Lega, imprenditore politico della crisi, in "Meri­ diana", 1993, 1 6, pp. 99-133. 59· G. Crainz, Ilpaese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012, pp. 257-62; Cafagna, La grande slavina, cit., passim; Craveri, La Repubblica dal zgsS al I992, cit., pp. IOIO ss. Sul tema si segnala anche L. Ricolfì, L'ultimo Parlamento. Sullafine della prima Repubblica, Carocci, Roma 1993, pp. 81-4 e 143-6, e Ginsborg, L 'Italia del tempo presente, cit., pp. 329 ss. 6o. Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 25. 61. Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., p. 67. 62. G. Bocca, La disunita d'Italia. Per venti milioni di italiani la democrazia e in coma e l'Europa si allontana, Garzanti, Milano 1990; Id., L'inferno. Profondo Sud male oscuro, Mondadori, Milano 1992; il giornalista fra l'altro si schiera apertamente a favore della Lega. 63. Sulla vicenda e i suoi riflessi, cfr. l'interessante lavoro M. Huysseune, Modernita e secessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord, Carocci, Roma 2004, pp. 62 ss. 37 5

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Un referendum sull' intervento straordinario nel Mezzogiorno, che era stato proposto nel 1 9 9 1 con finalità migliorative, viene trasformato dalla congiuntura poli­ tica in un voto sulla corruzione dei partiti e lo statalismo degenerato. Per questo le forze politiche della maggioranza decidono di non far tenere il referendum e con un decreto legge il governo fissa nell'aprile 1 9 9 3 la cessazione dell ' intervento straordi­ nario nel Mezzogiorno, delineando un nuovo sistema di agevolazioni esteso a tutte le aree depresse del territorio nazionale. Nella sostanza viene cancellata la questione meridionale, segnando una cesura epocale nella storia del paesé4• All 'origine di una decisione così importante ci sono molteplici ragioni - i fallimenti della politica per il Sud, una severa crisi valutaria, le difficoltà della finanza pubblica, i vincoli imposti dall ' Europa, la diffusione della cultura neoliberista e di un forte antistatalismo - ma, come ben emerge dalla stampa, ha un ruolo decisivo la martellante propaganda della Lega Nord, che cavalca la sfiducia verso il Sud e la sua identificazione con le com­ ponenti meno virtuose dei partiti di governo65• Il partito di Bossi continua ad avere posizioni molto ferme contro i trasferimenti di risorse al Sud anche dopo questo passaggio66 e la questione meridionale scompare 64. L'abolizione è sancita dal D.L. 22 ottobre I992, n. 4IS, convertito nella legge I9 dicembre I992, n. 488; i diversi passaggi normativi a partire dal referendum sono ricostruiti in C. Trezzani, Dall'intervento straordinario nel mezzogiorno all'intervento ordinario nelle aree depresse, in "Bollettino di Informazioni Costituzionali e Parlamentari", I99S· I-3, pp. 30S-I7. Considerazioni al riguardo, in una prospettiva di ampio respiro, in Cafiero, Storia dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, cit., pp. I4I-66; P. Barucci, La condizione del Mezzogiorno - ieri, oggi e domani -fra vincoli e opportunita, in Id., La sempiterna questione meridionale, cit., pp. 7 S-I42; G. Galasso, Il Mezzogiorno. Da "questione" a "problema aperto", Laicata, Manduria (TA)-Roma-Bari 2oos. 6s. Fra i tanti articoli, se ne segnalano alcuni con passaggi esemplificativi sul tema: «L'ondata leghista stava già montando e la stessa maggioranza quadripartita era spaccata: deputati e senatori che dovevano vedersela con la concorrenza di Bossi e compagni non se la sono proprio sentita di dare una nuova arma nelle mani del nemico. [ . .. ] Ecco allora farsi strada l'ipotesi di ridisegnare tutta la filosofia dell' intervento straordinario. Che non sarà più nel Mezzogiorno ma di carattere nazionale» (S. Carli, Appuntamento dopo Mezzogiorno, in "la Repubblica", I2 giugno I992, p. 8 ) . « Se il Parlamento non interviene prima con una modifica radicale dell 'intervento straordinario nel Mezzogiorno, avremo una campagna elettorale per un referendum [ ... ] che, al di là del suo risultato, sancirà e approfondirà questa spaccatura fra Nord e Sud: perché sarà la Lega a egemonizzare, nelle province settentrionali, una campagna razzistica contro i meridionali, e perché a "difendere gli interessi" (si fa per dire) del Mez­ zogiorno saranno le parti peggiori della DC e del PS1, che hanno costruito, con i soldi dell' intervento pubblico, un sistema di potere mostruoso e perverso» (G. Chiaromonte, A Sud della Lega, in "la Repubblica", 2S ottobre I992, p. IO ) . Significativo anche R. Stagno, Se il Sud rimane solo, in "Corriere della Sera", 8 luglio I993· p. I 9, nel quale si parla dell' effetto Lega nel condizionare le politiche nazionali, con il concreto rischio di acuire il divario economico fra Nord e Sud. 66. Ad esempio, quando in vista delle elezioni del I994 i partiti vengono interrogati da una testata giornalistica sulle scelte di politica economica che vorrebbero attuare, il leghista Roberto Maroni indica l'abolizione del poco che è rimasto dell ' intervento straordinario come uno dei punti essenziali (A. Calabrò, E. Occorsio, Destra e sinistra, un tuffo nei programmi, in "Affari & Finanza", IO dicembre I993· p. 2; è l' inserto economico del quotidiano "la Repubblica"). Si tratta di posizioni ribadite molte volte, tanto che in alcuni casi si parla semplicemente di "note posizioni" della Lega rispetto alle leggi di spesa nel Mezzogiorno (ad es. A. Jacoviello, Il voto del Mezzogiorno, in "la Repubblica", 8 aprile I994· p. 12).

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rapidamente dalle priorità dell'agenda politica, dove invece trova grande spazio la questione settentrionale, ispirata dalla prospettiva dell'autonomia territorialé7• Il cambio di priorità coincide con l'avvicendamento fra Prima e Seconda Repubblica e non è un caso che in entrambe le vicende la Lega abbia un ruolo da protagonista. Nella nuova stagione politica il dualismo territoriale viene visto soprattutto nell'ottica del Nord, puntando a ridurre i legami con il Sud. La rottura della solidarietà fra Nord e Sud e le pulsioni separatiste che accom­ pagnano il crollo del sistema politico sorto con la Repubblica favoriscono un ampio dibattito sull ' identità italiana e le difficoltà nella maturazione di un' idea realmente unitaria del paese, con grande attenzione all'evento fondante della Resistenza68• La Lega raccoglie successi notevoli, come l'elezione di Marco Formentini a sindaco di Milano, ma in molti osservatori la sua crescita suscita inquietudine. Fra di essi Gio­ vanni Paolo II che, preoccupato dei ritardi dei partiti di fronte a chi vuole separare i destini di Nord e Sud, alla vigilia delle elezioni politiche del 1994 rivolge un appello a una grande preghiera per il popolo italiano. Un gesto forte, visto che per trovare qualcosa di simile occorre risalire a Pio IX nel 1848. Wojtyla denuncia le tendenze corporativiste e la crisi della solidarietà, auspicando una rinnovata solidarietà fra Nord e Sud69• La nuova legge elettorale, tuttavia, attribuisce ai voti leghisti una funzione cruciale, tanto che il partito di Bossi viene corteggiato nel tempo da entrambi gli schieramenti (o da loro parti), anche da soggetti apparentemente molto distanti. La nascita di Forza Italia è il passaggio decisivo non solo per l'avvio della Seconda Repubblica, ma anche perché l' importanza politica della questione settentrionale si affermi fino ai nostri giorni. Il suo leader, legato al mondo imprenditoriale del Nord, si propone di rappresentare un'alternativa ai partiti preesistenti e di interpretare le istanze delle regioni più produttive, seppur con toni meno esasperati rispetto a quelli di Bossi. Le sorti dei due partiti risulteranno molto legate negli anni successivi perché Berlusconi sceglierà di puntare sull 'alleanza con il Carroccio malgrado il "tradi­ mento" dopo la vittoria elettorale del 1994, ma non sempre i rapporti saranno facili a causa della sovrapposizione dei rispettivi elettorati. Negli anni Novanta la Lega riesce a imporre nel dibattito politico diversi temi anche quando non riveste ruoli di governo, a partire dal federalismo : una proposta avanzata in chiave anticentralista sin dai primi anni di attività, che raccoglie un consenso crescente e trasversale. Da AN al PDS tanti esponenti politici la rilanciano - insieme ad altre proposte come la semplificazione fiscale, il potenziamento delle 67. G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003. 68. Cfr., fra gli altri, G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993. 69. A. Scornajenghi, L'Italia di Giovanni Paolo II, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012, pp. 91 ss.; G. Rumi, Questione meridionale e questione settentrionale nella riflessione dei vescovi italiani, in A. Acerbi, La Chiesa e l'Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Vita e pensiero, Milano 2003, pp. 423-32. 3 77

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infrastrutture, il sostegno alle imprese - anche se spesso con modalità decisamente approssimative7°. Il tema però è sentito, basti pensare al Veneto dove si sovrappon­ gono in breve tempo le richieste di autonomia dei sindaci, la nascita dell'associazione LIFE - che unisce protesta fiscale e un forte richiamo alle origini venete -, il Movi­ mento del Nordest guidato da Massimo Cacciari e dall' imprenditore Massimo Car­ raro, fino all' inquietante assalto al campanile di San Marco a Venezia7'. Vicende assai diverse, che attestano fra l'altro come la questione settentrionale non coincida pie­ namente con la Lega né con la rappresentazione che questo partito ne offre71• In questi anni il Nord continua a registrare significative trasformazioni econo­ miche e sociali. Se negli anni Settanta e Ottanta si era realizzata in Italia una sorta di passaggio dalla centralità della grande industria al protagonismo delle piccole imprese, in seguito sono sempre più i singoli a farsi impresa, in un capitalismo ormai molecolare, nel quale « i confini tra lavoro dipendente, lavoro autonomo e piccole imprese sono spesso così sottili da non essere quasi decifrabili » 73• All' inizio del nuovo millennio la crisi della grande industria è ormai un dato di fatto74, ma la vocazione manifatturiera del Nord non tramonta. Si delinea un sistema produttivo fortemente orientato verso i mercati esteri, basato su alcune migliaia di medie aziende, collegate a moltissime piccole imprese attraverso distretti, reti e filiere75• Le grandi concentra­ zioni fordiste si disperdono nella Pianura Padana, sul cui territorio si susseguono piccole unità manifatturiere, capannoni artigianali e magazzini, oltre a insediamenti abitativi. Viene esaltata l ' importanza della laboriosità e dell' intraprendenza, finaliz­ zate non solo al guadagno e al consumo di beni, ma alla propria affermazione per­ sonale76. La maggioranza degli imprenditori del Nord-Est proviene ormai dal lavoro dipendente, soprattutto operaio : appena si presenta l'opportunità la gran parte di quanti svolgono un lavoro salariato tenta la via dell'attività autonoma77• Questa frammentazione del sistema produttivo - che nel tempo tende ad accen­ tuarsi78 - offre nuove opportunità, ma ha anche conseguenze problematiche. Favo­ risce, infatti, in un mercato sempre più integrato e concorrenziale, una competizione 70. Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., pp. 74-7. 7 I. Jori, Dalla Liga alla Lega, cit. 72. Diamanti, Il male del Nord, cit. Cfr. anche Casati, Luigini contro contadini, cit. 73· Bonomi, Il capitalismo molecolare, cit., pp. 35-6. 74· L. Gallino, La scomparsa dell'Italia industriale, Einaudi, Torino 2003. Nello stesso periodo il sistema bancario - in questa sede non considerato - tende a concentrarsi e collocarsi in misura pre­ valente nel Nord del paese, mentre scompaiono (o perdono autonomia direttiva) quasi tutti gli istituti di credito che erano insediati nelle zone centrali e meridionali. 7 S· A. Colli, Il quarto capitalismo. Un profilo italiano, Marsilio, Venezia 2003; F. Coltorti, Un nuovo protagonista economico: la media impresa, in Berta (a cura di), La questione settentrionale, cit., pp. 3794I6. Con taglio più descrittivo, cfr. A. Calabrò, Orgoglio industriale. La scommessa italiana contro la crisi globale, Mondadori, Milano 2009. 76. Colarizi, Gervasoni, La tela di Penelope, cit., pp. 4-s. 77· D. Marini (a cura di), Osservatorio sugli imprenditori del Nord-Est, rilevazione 2000, in "Qua­ derni della Fondazione Nord Est", 200I, 2, reperibile sul sito http:/ /www.fondazionenordest.net. 78. A. Bonomi, E. Rullani, Il capitalismo personale. Vìte al lavoro, Einaudi, Torino 2oos.

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fra pari grado molto dura. Il ceto medio tende ad articolarsi in segmenti di lavoratori spesso conflittuali fra loro, che partecipano dei processi di esternalizzazione delle imprese accettando mansioni iperflessibili e rapporti di sostanziale sfruttamento. Non è un caso che in questi anni la questione settentrionale venga descritta come una vicenda non solo economica, ma venata di significativi risvolti sociali, mentre nelle regioni settentrionali (e non solo) scompare una convinzione storica, ossia che una vita laboriosa e operosa garantisca un benessere certo79• I partiti del centro-sinistra non riescono a dare rappresentanza politica nel Nord alle nuove professioni, a cavallo fra il lavoro autonomo e quello precario. La contrap­ posizione fra capitale e lavoro si è ormai molto affievolita e c'è un travaglio della sinistra nel definire la propria identità, che si accompagna alla difficoltà nel confron­ tarsi con gli umori profondi di molte aree settentrionali, oltre che a rilanciare il tema del Mezzogiorno80• Anche per questo Forza Italia e Lega Nord, dopo aver stretto una nuova alleanza all' inizio del nuovo secolo, dominano la politica nazionale fra il 2001 e il 201 1. Il partito di Berlusconi ha un ruolo trainante nei primi anni, mentre la Lega registra risultati elettorali di rilievo nella seconda parte del decennio. I due partiti che si propongono di rappresentare politicamente la questione settentrionale gover­ nano (oltre alle regioni settentrionali) il paese per ben otto anni, un tempo più che adeguato per dare risposte alle ormai consolidate domande del Nord : riforma fiscale, infrastrutture, efficienza amministrativa, sostegno alla competitività. Ma i risultati sono diversi da quelli che molti elettori si attendono. Paradigmatica è la vicenda del federalismo : viene portata avanti una laboriosa strategia per modificare e rendere più incisiva la riforma voluta nel 2oo1 dal centro-sinistra, ma il provvedimento approvato nel 2009 appare svuotato nei contenuti e ha tempi di attuazione lunghissimi, susci­ tando critiche anche da sostenitori convinti del federalismo81• Secondo un recente sondaggio, in Italia il giudizio sulle riforme legate al federalismo è di forte delusione : solo il 6% degli intervistati ritiene che i risultati di tali riforme siano stati positivi. Non risultano fra l'altro differenze apprezzabili a livello territoriale, se non una elo­ quente maggiore insoddisfazione nel Nord-Est81• 79· Bonomi, Il capitalismo molecolare, cit. So. M. L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 219-30; P. Rumiz, La secessione leggera. Dove nasce la rabbia delprofondo Nord, Feltrinelli, Milano 2001, pp. s-4S· Sull'esperienza di governo del centro-sinistra fra 1996 e 2001, con un'attenzione specifica alle vicende meridionali, cfr. N. Rossi, Riformisti perforza. La sinistra italiana fra I99 6 e 200I, il Mulino, Bologna 2001. Sulle prospettive attuali del Mezzogiorno, cfr. C. Trigilia, Non c 'e Nord senza Sud. Perché la crescita dell'Italia si decide nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2012. 81. Luca Ricolfi ha scritto pagine di fuoco sulla vicenda, definendola «probabilmente il più grande errore politico che la Lega abbia compiuto da quando esiste ». Egli ritiene che il Carroccio, per la necessità di tutelare il proprio ceto politico, abbia rinunciato a un reale riformismo federalista utile a risanare il paese. Cfr. L. Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Guerini e Associati, Milano 2012>, p. 15, e in generale le pagine introduttive della seconda edizione. Sulla Lega dopo il 2001, cfr. anche Diamanti, Mappe dell'Italia politica, cit., pp. 77-9. 82. Cfr. L. Ceccarini, I. Diamanti, Passata lafesta scompare l'Italia, in "Limes", 2013, 2, pp. 1 87-97. 37 9

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Si avverte inoltre la mancanza di interventi efficaci per il rilancio dell 'economia a livello nazionale e locale, dei quali s 'inizia a sentire estremo bisogno sull'onda della crisi iniziata nel 2007-0 883. Nel Nord-Est, ad esempio, già da diverso tempo la com­ petizione viene affrontata con difficoltà, perché durante gli anni del successo la crescita era stata più quantitativa che qualitativa e in seguito sono scarseggiate l ' in­ novazione, la ricerca e la costruzione di nuovi attori collettivi oltre alle reti già esi­ stenti84. Il mondo delle piccole imprese e delle partite IVA è messo sempre più in difficoltà dal prolungarsi della crisi economica e da una concorrenza internazionale sempre più dura, che rende sempre più arduo competere nelle catene globali del valore85. E una stagione travagliata per tutte le economie sviluppate - che devono confrontarsi prima con le conseguenze dell 'attentato alle Torri gemelle, poi con la crisi finanziaria e la recessione mondiale - ma i risultati di otto anni di governi di centro­ destra sono fallimentari. Nel 2011 l' "Economist" evidenzia che nel corso dell'ultimo decennio la performance dell'economia italiana è stata fra le peggiori al mondo e, significativamente, sono proprio le regioni settentrionali più dinamiche a registrare i risultati peggiori86. Alla fine dello stesso anno l'acuirsi della sfiducia internazionale verso l' Italia costringe il governo Berlusconi a dimettersi e affidare le sorti del paese a un esecutivo tecnico87. Poco tempo più tardi scoppia un grave caso giudiziario e politico all'interno della Lega per l'utilizzo improprio dei finanziamenti al partito. Bossi è coinvolto insieme alla sua famiglia e deve lasciare la segreteria, in una vicenda che appare una nemesi per un partito affermatosi denunciando "Roma ladrona" e la corruzione della politica. I nodi sembrano venire al pettine simultaneamente. Le indagini della magistra­ tura fanno emergere gravi difficoltà dell'ente Regione - dalla Lombardia al Lazio dando prova dell' inadeguatezza di proclami federalisti non accompagnati da un progetto istituzionale adeguato e credibile88. La lunga esperienza di governo svela i limiti delle proposte avanzate per anni, efficaci in chiave polemica ma non nell'ap­ plicazione concreta. Gli episodi di malversazione e illegalità non appaiono slegati '

83. D. Di Vico, Limiti e illusioni del primo nordismo fermo a Gemonio, in "Corriere della Serà', 6 aprile 20I2, pp. IO-I; G. Vaciago, La mancata crescita dell'economia italiana, in "il Mulino", 20II, 4, pp. 590-8. 84. E. Rullani, Dove va il Nordest. Vita, morte e miracoli di un modello, Marsilio, Venezia 2006. 8s. A. Accettura, A. Giunta, S. Rossi, Le imprese italiane fra crisi e nuova globalizzazione, in "Questioni di Economia e Finanza (Occasionai Papers)", 2ou, 86. Cfr. anche E. Rullani, Modernita sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, Venezia 20I2, pp. 40-1. 86. The Man Who Screwed an Entire Country, in "The Economist", 9th June 2ou; Casati, Luigini contro contadini, cit., pp. SI-2. 87. Uno sguardo d' insieme su Lega, Padania e questione settentrionale alla vigilia di questo pas­ saggio in L 'Italia dopo l'Italia, in "Limes", 20II, 2; sugli ultimi anni di Berlusconi si segnala G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d'Italia, Marsilio, Venezia 2013, pp. I90 ss. 88. De Siervo, La difficile attuazione delle regioni, cit., p. 401.

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dalla debolezza di una visione e di un progetto politico che non riesce a incidere, facendo emergere gli elementi problematici lasciati in secondo piano negli anni pre­ cedenti ma comunque esistenti, a partire da un retroterra culturale molto carente e dalle difficoltà nel reclutamento di una classe politica adeguata. Nelle elezioni poli­ tiche del febbraio 2013 si manifesta la delusione di milioni di elettori verso l'alleanza di centro-destra. La Lega registra il suo peggior risultato dal 1992 e, pur ottenendo la presidenza della Regione Lombardia, perde oltre metà dei voti raccolti nelle poli­ tiche del 200 8 e gran parte della sua carica antisistema. Celebrati i 150 anni dell' Unità d ' Italia, c 'è da sperare che la questione settentrio­ nale trovi finalmente risposte efficaci in un progetto politico in grado di rilanciare l'intero paese, favorendo una rinnovata coesione nazionale.

Tra vincolo esterno e coesione nazionale. La parabola del governo Ciampi nelle riflessioni e nelle carte del presidente* di Umberto Gentiloni Si/veri

I

Il cammino incerto di una lunga transizione

Nei primi anni Novanta del Novecento l ' Italia entra nel vortice di una trasformazione senza precedenti, immersa in una fase di profondi cambiamenti degli assetti interni e internazionali. Tutto appare in movimento, difficile trovare una convincente gra­ duatoria di urgenze e priorità che si materializzano nel breve spazio di alcuni mesi. Crisi finanziaria, politica e istituzionale si sovrappongono ; interrogativi inevasi riguardano la tenuta del sistema-paese e le strategie di risposta delle classi dirigenti'. La stagione di Tangentopoli mette in discussione il rapporto tra eletti ed elettori e la credibilità di un' intera architettura politico-istituzionale; la stessa identità nazio­ nale è a rischio, sottoposta a critiche e verifiche continue. * Le riflessioni di questo contributo sono parte di una più ampia analisi sulla traiettoria di Carlo Azeglio Ciampi negli anni della transizione: U. Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfa ttisti. Gli anni di Ciampi, I992-2oo6, Laterza, Roma-Bari 2013. 1. Cfr. G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico I990-I996, Laterza, Roma-Bari 1997; P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (I945-I996), il Mulino, Bologna 1997, pp. 4S9-S39: N. Tranfaglia, La transizione italiana. Storia di un decennio, Garzanti, Milano 2003; P. Scoppola, Lezioni sul Novecento, a cura di U. Gentiloni Silveri, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 119-46; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (I9S92ou), Laterza, Roma-Bari 2012; G. Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012; M. Damilano, Eutanasia di un potere. Storia politica d'Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Mammarella, L 'Italia di oggi. Storia e cronaca di un ventennio: I992-2oi2, il Mulino, Bologna 2012. 2. Per una rassegna del dibattito storiografìco, cfr. U. Gentiloni Silveri, Identita italiana tra crisi e trasformazioni. Il dibattito sull'ultimo decennio, I9S9 -I99S, in "Storia e Problemi Contemporanei", 1998, 22, pp. 1 1 1-33. Cfr. inoltre: G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993; Id., Resistenza e postjascismo, il Mulino, Bologna 199s; P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 199s; E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazionefra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996; S. Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un 'idea controversa, Marsilio, Venezia 1996; E. Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997; G. E. Rusconi, Patria e repubblica, il Mulino, Bologna 1997; R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell'I­ talia repubblicana, Einaudi, Torino 1998.

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Un contesto difficile, condizionante, per molti versi inedito e imprevedibile. Il tempo aiuta a definire contorni e problematiche, ma il passaggio tra la fine degli anni Ottanta del Novecento e il decennio successivo consegna lasciti ed eredità che si spingono molto al di là degli anni e degli eventi considerati. Una lunga ombra che condiziona il cammino della Repubblica e le sorti di quella che ben presto verrà definita con il termine accattivante ma forse anche un po' fuorviante di "transizione"; un cammino dagli approdi incerti, una ricerca di risposte e soluzioni che ancora oggi, dopo alcuni decenni, non trova conferme rassicuranti, pur cominciando a interessare studiosi di diverse discipline. Più ci si allontana da quel tornante e meglio si vede la natura di cesura periodizzante che accompagna la stagione immediatamente successiva al 1989. Sono almeno due gli aspetti che meritano attenzione e motivano la tensione interpretativa emersa negli ultimi anni. In primo luogo la coincidenza e la sovrapponibilità tra il quadro interno della Repubblica italiana e il contesto internazionale della Guerra fredda: il crollo del primo trova conferme e spiegazioni in una più ampia ridefinizione di equilibri e rap­ porti di forza3• Troppo spesso la scorciatoia di spiegazioni semplicistiche o monocausali ha portato fuori strada, verso ipotesi interpretative segnate dall'urgenza del momento o da un uso strumentale e distorto del passato. In secondo luogo si evidenzia la debole valenza di una ricostruzione basata sulle presunte successioni di Repubbliche non meglio definite o definibili. Che cosa distinguerebbe la Prima dalla Seconda e soprat­ tutto quando e perché sarebbe possibile narrare e interpretare una fase nuova, in base a quali assunti e riferimenti ? Interrogativi che ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi anni e che rimandano direttamente a un complesso di eventi e questioni che tengono insieme il crollo del Muro di Berlino, l'avvio delle inchieste di Mani pulite, l'instabilità internazionale e le spinte separatiste che si affacciano nel Nord Italia. Anche lo studio degli anni della cosiddetta "transizione" conferma dunque la necessità di incrociare piano interno e quadro internazionale per riuscire a compren­ dere gli snodi alla base dell'evoluzione del sistema politico italiano. Non a caso la storiografia più attenta ha avviato da tempo un percorso di riflessione sulla storia del Novecento - in particolare del lungo dopoguerra - che prende le mosse dal tentativo 3· Cfr. C. S. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L'unita storica dell'eta industriale e le trasformazioni della territorialita, in C. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia, Donzelli, Roma 1997, pp. 29-s6; G. Formigoni, La politica internazionale nel Novecento, il Mulino, Bologna 2007; T. Judt, Dopoguerra. Come e cambiata l'Europa dal I945 a oggi, Mondadori, Milano 2007 ; F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Einaudi, Torino 2009. Sul rapporto tra mutamenti internazionali ed evoluzione del quadro interno italiano, cfr. Italy and the Cold fiVtlr, numero mono­ grafìco di "Cold War Studies", 4, 2002, 3; A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, 1. Tra guerra fredda e distensione, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2003; F. Romero, A. Varsori (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni interna­ zionali dell'Italia {I9I7-I9S9), Carocci, Roma 2006; U. Gentiloni Silveri, Sistema politico e contesto internazionale nell'Italia repubblicana, Carocci, Roma 2008; Italie: la présence du passé, numero mono­ grafìco di "Vingtième Siècle. Revue d' Histoire", octobre-décembre 2oo8, 100.

TRA VINCOLO ESTERNO E C O E S I O NE NAZ I ONALE

di superare le narrazioni nazionali, rimettendo in discussione i confini tradizionali delle discipline di riferimento. La storia internazionale diviene un vasto campo di indagine nel quale gli strumenti e i linguaggi mutano progressivamente: la dimen­ sione globale come cornice di riferimento e quadro analitico dei processi storici. Ed è così che il nesso tra le storie nazionali e il contesto internazionale diventa un livello sensibile, uno < snodo cruciale per poter analizzare linee di frattura e soluzioni di continuità. E utile ricercare un approccio che consenta di analizzare e comprendere l' interazione tra piani, l' interdipendenza di processi: una chiave interpretativa che privilegi un'ottica e uno sguardo di lungo periodo anche sulle origini della crisi di fine Novecento4• Nel ventenni o che abbiamo alle spalle il "vincolo esterno", determi­ nato in larga parte dalla nascita dell' Europa di Maastricht5 e dalla nuova globalizza­ zione del dopo Guerra fredda6, si è fatto progressivamente più stringente, diventando uno degli elementi chiave per comprendere le politiche dei governi italiani, le inte­ razioni e i mutamenti della società, nonché le scelte di settori significativi delle classi dirigenti, investendo la capacità del sistema-paese di garantire una coesione nazionale in grado di restituire prospettive di futuro. '

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Gli anni di Ciampi

A partire da tale modello di interazione e di risposta ai mutamenti di quadro può essere letto il percorso di Carlo Azeglio Ciampi negli anni della transizione italiana. Un itinerario individuale che per quasi quindici anni percorre diversi ambiti di responsabilità istituzionale. Dopo quasi mezzo secolo trascorso in Banca d' Italia viene chiamato a nuovi incarichi in un tracciato continuo - dal 1993 al 200 6 - con brevi interruzioni e un crescendo di attenzioni e responsabilità: prima capo del governo ( 1993-94), poi ministro del Tesoro (1996-99), infine presidente della Repub­ blica (1 999-2006). Ciampi ha già offerto in volumi e occasioni pubbliche un contri­ buto alla riflessione sugli anni in questione e sul suo cammino7• Il presidente torna 4· Cfr. U. Gentiloni Silveri, L'Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, Einaudi, Torino 2009. 5· Sulla nascita dell ' Unione monetaria, cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell'Unione europea, Laterza, Roma-Bari 2oo8 l , pp. 205-77; B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell'integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell'Unione, il Mulino, Bologna 20IO, pp. I 6 I-274· Sugli aspetti economici, cfr. T. Padoa Schioppa, La lunga via per l'euro, il Mulino, Bologna 2004; G. Magnifico, L'euro. Ragioni e lezioni di un successo sofferto, LU ISS University Press, Roma 2005; F. Fauri, L'integra­ zione economica europea, I947-2oo6, il Mulino, Bologna 2006, pp. I7I-2I6. 6. Cfr. V. Castronovo (a cura di), Storia dell'economia mondiale, VI. Nuovi equilibri in un mercato globale, Laterza, Roma-Bari 2002. 7· Cfr. M. Giannini, Ciampi. Sette anni di un tecnico al Quirinale, Einaudi, Torino 2006; C. A. Ciampi, Un metodo per governare, il Mulino, Bologna I996; P. Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi. L'uomo

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sugli avvenimenti di allora, cercando di individuare i punti di forza, le contraddizioni e le debolezze di una lunga e articolata esperienza. Prevale l'indicazione di una sele­ zione di questioni che nascono dai colloqui e dalle conversazioni intrattenute ( quin­ dici incontri tra il 2007 e il 2010) e dallo spoglio delle sue carte personali (Agende e Diari I992-2oo6) sulle quali era solito annotare appuntamenti, impegni, impressioni, talvolta commenti e giudizi8• Le conversazioni e le pagine del diario come fonti basilari per inoltrarci nelle dinamiche del tempo seguendo il percorso di un tecnico che entra in politica, o meglio, come preferisce essere definito, di un « servitore dello Stato » chiamato alle responsabilità di nuovi uffici. Un contributo alla storia della Repubblica nel quindi­ cennio che comprende l'ultimo scorcio di Novecento; per cominciare a comprendere ciò che abbiamo vissuto e quanto siano ancora presenti il portato e l 'eredità di quella stagione. L' itinerario di Carlo Azeglio Ciampi offre così uno spaccato significativo, un punto di vista che permette di seguire e mettere a fuoco alcuni snodi cruciali della transizione italiana. Ne emerge una griglia di questioni e interrogativi che dagli anni che abbiamo alle spalle si spingono fino a noi, alle inquietudini di un presente incerto e imprevedibile. In questa sede vorrei circoscrivere l'analisi al periodo inerente alla nascita e alla conclusione del governo Ciampi, tra il 1992 e il 1994. Sono gli anni di avvio della transizione, segnati dall 'emergere dei limiti dello sviluppo economico e dalla mancata riorganizzazione del sistema politico e istituzionale9• Uno scorcio di Novecento nel quale il vincolo esterno si incrocia e si sovrappone con le vicende del paese, contri­ buendo a determinare sviluppi, opportunità ed esiti talvolta inaspettati e la cui e il presidente, Rizzoli, Milano 2007; C. A. Ciampi, Da Livorno al Qjtirinale. Storia di un italiano. Conversazione con Arrigo Levi, il Mulino, Bologna 2010; Id., Non e il paese che sognavo. Taccuino laico per i ISO anni dell'Unita d'Italia. Colloquio con Alberto Orio/i, il Saggiatore, Milano 2010; Id., A un giovane italiano, Rizzoli, Milano 2012; A. Puri Purini, Dal Colle piu alto. Al Quirinale, con Ciampi negli anni in cui tutto cambio, il Saggiatore, Milano 2012. 8. Si tratta in tutto di trenta agende personali del periodo 1977-2006 versate da Carlo Azeglio Ciampi all'Archivio storico del Quirinale il 15 ottobre 2010. Cfr. P. Cacace, Ciampi. Il Diario di un italiano. Il presidente emerito dona all'Archivio storico del Quirinale trenta agende personali, in "Il Mes­ saggero� 1 6 ottobre 2010. 9· Cfr. E. Saltari, G. Travaglini, Le radici del declino economico. Occupazione e produttivita in Italia nell'ultimo decennio, UTET, Torino 2006; G. Ciccarone, M. Franzini, E. Saltari (a cura di), L'Italia possibile. Equita e crescita, Brioschi, Milano 2010; M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo {quasi) tutti peggio di IO annifa, Laterza, Roma-Bari 2012; S. Rossi, Aspetti della politica economica in Italia: dalla crisi del I992-I993 a quella del 2ooS-2009, in M. Ciaschini, G. C. Romagnoli, L'economia italiana: metodi di analisi, misurazione e nodi strutturali. Studi per Guido M Rey, FrancoAngeli, Milano 20n, pp. 295-322. Per una lettura comparativa internazionale di lungo periodo, cfr., tra gli altri, G. Guarino, Eurosistema. Analisi e prospettive, Giuffrè, Milano 2006. Sul concetto di declino economico, cfr. G. Sapelli, Sul capitalismo italiano. Trasformazione o declino, Feltrinelli, Milano 1993; Id., L'Italia di fine secolo. Eco­ nomia e classi dirigenti. Neopatrimonialismo e capitalismo senza mercato, Marsilio, Venezia 1998; L. Gal­ lino, La scomparsa dell'Italia industriale, Einaudi, Torino 2003; G. Berta, Metamorfosi. L'industria italiana fra declino e trasformazione, Università Bocconi, Milano 2004.

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rilettura permette di evidenziare quelle priorità che sin dall 'inizio caratterizzano l' impostazione e la visione di Ciampi. Temi ricorrenti che contraddistinguono l'azione di allora e i giudizi del principale protagonista di queste pagine. Tra le tante, vorrei sottolineare tre caratteristiche principali. La prima riguarda la concezione stessa con cui Ciampi interpreta le proprie funzioni istituzionali e gli incarichi assunti: un « servitore dello Stato » in grado di dimostrare in momenti stringenti una preziosa visione di insieme del paese, della sua storia e, soprattutto, delle sue prospettive. Come si vedrà, infatti, la ritrosia - e gli stessi iniziali rifiuti - ad assumere incarichi di rilievo politico si accompagna alla capacità di assumere fino in fondo le implicazioni del mandato ricevuto. Ciampi non ha dubbi: Ho sempre sperato che un evento importante alla fine non si verificasse. Quando poi capita non si torna indietro, si lavora alacremente e con entusiasmo. Anche per il ruolo di gover­ natore tentai di evitare fino a quando era possibile. Unica eccezione rimane il dicastero del Tesoro, per il quale mi sentivo a mio agio : si trattava di una responsabilità che sentivo più mia, più aderente alle mie potenzialità di uomo al servizio delle istituzioni10•

La seconda caratteristica, assolutamente centrale, riguarda l' Europa; la forza della sua visione sta proprio nel trasformare quello che appare come un nuovo "vincolo" esterno in un'opportunità in grado di raccogliere energie e risorse del paese proiet­ tandole al di là delle strettoie contingenti. Un orizzonte ideale e concreto al tempo stesso. Alla base di questo approccio vi sono anche il dato anagrafico e la sensibilità dell'uomo : è presente in Ciampi la convinzione che nella costruzione della nuova Europa sia rappresentata l'eredità di una generazione; un richiamo alle proprie radici e ai lasciti più fecondi del secondo conflitto mondiale. Un antidoto contro le guerre del passato, le paure del mondo contemporaneo, le chiusure negli egoismi e nei particolarismi. Consolidare il cammino di conquiste e risultati del lungo dopoguerra europeo significava misurarsi su obiettivi e progetti ambiziosi. In questo quadro Ciampi mette in gioco sé stesso e sente la sua missione come parte di un disegno più ampio. Nella costituzione e nella vita del governo tecnico - ma anche, come si vedrà più avanti, nella sua parabola conclusiva - il riferimento europeo è sempre il polo verso cui tendere. Per me il problema principale - ricorda oggi - era il seguente: lavorare alla costruzione dell'euro e alla partecipazione dell' Italia. Era un tema di cui mi ero occupato come Presidente del Consiglio, non solo per il bene del nostro paese, ma anche per la riuscita di tutto il progetto di unione monetaria. Un euro senza la lira sarebbe stato un euro limitato, squisita­ mente mitteleuropeo. La presenza della lira dà all'euro una valenza continentale11• IO. Colloquio con l 'Autore, 7 dicembre 2007. 1 1. Colloquio con l'Autore, s marzo 2008.

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La stessa impostazione ritornerà negli anni del governo Prodi, quando Ciampi sarà il protagonista indiscusso dell'aggancio all'euro, e, seppure in forme differenti, nel suo settennato presidenziale. Ricorda con precisione: « Durante la riunione del primo consiglio dei Ministri presieduto da Romano Prodi misi alcune condizioni formali per me molto importanti, direi discriminanti. Sin dall'inizio dissi che ero lì come tecnico. [ ... ] Assumevo l' incarico per un compito preciso, che si chiamava euro » 12• Il tentativo compiuto da Ciampi di rispondere alla crisi e alle spinte centrifughe presenti nel sistema politico e nella società italiana si è basato anche sulla capacità di individuare una possibile via di uscita della transizione legata alla permanenza del paese in un consesso internazionale ed europeo in grado di garantire prospettive, sinergie, . opportunlta. In questo contesto si inserisce la terza caratteristica che accompagna il pensiero e l'azione del presidente Ciampi: la sua visione dell' Italia e la necessità di garantirne la coesione sociale e nazionale. Un esempio per tutti è la costante e determinata ricerca del dialogo e della concertazione con le parti sociali. Dalla crisi, sembra dire Ciampi, si esce solo con uno sforzo collettivo. Una strategia attuata sia per individuare un per­ corso di risalita del paese dal « baratro » del biennio 1992-9313 (concretizzatosi con gli accordi del luglio 1993), sia negli anni della rincorsa all'euro. Alla data del 15 giugno 1993, si legge sul Diario: «In Germania da Kohl. Quando gli illustro i contenuti dell' ac­ cordo sul costo del lavoro che spero di concludere nei prossimi giorni commenta con tono incredulo : "Se ci riuscirà le chiederò di venire in Germania per farne uno uguale" » . Il 23 luglio, ancora sul Diario sottolinea: « Ore 19. Firma del protocollo d'intesa con le parti sociali. Atmosfera di grande, generale soddisfazione; è un clima che accresce l' im­ portanza dell'accordo » . E nella dichiarazione pubblica di poche ore dopo : '

Abbiamo insieme posto un punto fermo, centrale, che offre una nuova, moderna cornice istituzionale per i rapporti tra le parti sociali. Ma l'accordo è importante anche al di là dei suoi contenuti specifici: in questa difficile transizione che investe tutti gli aspetti della vita civile, le parti sociali hanno dimostrato di saper esprimere momenti di coesione14•

La concertazione come elemento qualificante della visione di Ciampi. Tre elementi tenuti insieme dalla visione sul futuro e dalla stessa constituency del paese: la sfida del 1992 avrebbe condizionato la direzione di marcia e gli atteggiamenti dei diversi . . protagonisti. 12. Ibid. 1 3. Sulla crisi economica e finanziaria del 1992, cfr. G. Ciccarone, C. Gnesutta, Conflitto di strategie. Economia e societa italiana negli anni Novanta, Carocci, Roma 1993; N. Sartor ( a cura di ) , Il risana­ mento mancato. La politica di bilancio italiana: I9S6-9o, Carocci, Roma 1998; A. Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino 2000\ pp. 120-230; S. Rossi, La politica economica italiana, I96S-200J, Laterza, Roma-Bari 20033, pp. 88-uo; Id., Aspetti della politica economica in Italia, cit. 14. Diario Ciampi, 23 luglio 1993.

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La "frattura" del

I 992

La nascita del governo Ciampi è dunque parte di un percorso complesso e articolato nel quale la biografia dell'individuo si incrocia e si sovrappone con la straordinaria fase di trasformazione attraversata dal paese. Non a caso, lo stesso Carlo Azeglio Ciampi ha usato il termine "frattura" come definizione della strettoia riconducibile al 1 9 9 2 che lo proietta dalla Banca d ' Italia ( dopo quasi mezzo secolo ) all ' impegno politico. Una cesura per la storia del paese per la compatibilità delle sue strutture, per la compromessa tenuta di istituzioni e poteri dello Stato. Anche in virtù del suo indiscusso prestigio personale, il governatore Ciampi è subito riconosciuto come un interlocutore prezioso per le più alte cariche istituzionali. Capisce immediatamente - e prima di altri - la gravità della crisi che sta per investire il paese: quella finanziaria innanzitutto, destinata a manifestarsi in tutta la sua virulenza nel settembre del 1 9 9 2 . Molte idee guida della futura attività istituzionale prenderanno forma nei mesi pre­ cedenti la nascita del suo governo ; la linea di fondo si ispira a una duplice convin­ zione, per la verità poco in auge in quegli anni: da un lato la centralità della guida politica, dall'altro l'urgenza di intervenire decisamente, non subire passivamente il corso degli eventi. Le elezioni politiche dell 'aprile 1 9 9 2 avevano lasciato intravedere una lieve mag­ gioranza per il quadripartito fondato sull'asse DC-PSI'5• Il governatore ribadisce in più occasioni di non voler entrare nelle manovre politiche che prefigurano la nuova coalizione di governo e insiste su tre necessità : riforme economiche, rigore nella politica dei redditi e interventi sulla previdenza. Il s maggio 1 9 9 2, nell 'intermezzo tra lo svolgimento delle elezioni politiche e la nascita del primo governo Amato'6, consegna alla pagina del Diario un distillato del suo convincimento : « Mi esprimo contro l ' ingresso di tecnici nel governo e auspico la costituzione di un governo che duri più anni e che dedichi i primi due al risanamento economico » . Nel caso di un suo coinvolgimento personale ( un dicastero economico ? ) reagisce senza mediazioni cercando di mostrare la contraddizione di una classe politica che per rinnovare e salvare il paese fa ricorso ai tecnici, a competenze che non sono sottoposte alle dina­ miche del processo democratico. Secondo Ciampi sarebbe stato fuorviante e perico­ loso rinunciare alle prerogative di scelta e di indirizzo di una classe dirigente respon­ sabile. Il tempo avrebbe ridimensionato le speranze e le analisi del governatore ; mentre, come sappiamo, altre stagioni vicine a noi ripropongono i termini di un rapporto complesso e contraddittorio tra funzione politica e competenze tecniche. Ma non c 'è spazio per grandi strategie o ipotesi di intervento. La strage di Capaci IS. I risultati delle elezioni politiche del s e 6 aprile I992, pur consegnando la vittoria alle forze di governo, segnarono un significativo calo di consensi della coalizione quadripartito. I 6. li governo Amato prestò giuramento il 28 giugno I992 e rimase in carica sino al 28 aprile I993·

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irrompe sulla fisiologica dialettica politico-parlamentare (e non solo su quella) . Poche ore dopo Oscar Luigi Scalfaro sarebbe diventato il nono presidente della Repubblica italiana17• Quando Scalfaro, in quella terribile estate del 1992, viene eletto al Quiri­ nale, il governatore sente il dovere di renderlo partecipe del contesto drammatico che sfugge al controllo e alle attenzioni dei più: la profondità della crisi finanziaria. Un gesto dai vertici della Banca d' Italia in una fase difficile e molto rischiosa per la tenuta del nostro sistema economico. Non si poteva perdere altro tempo, sarebbe stato irresponsabile ridimensionare la portata del fenomeno. Ricorda Ciampi : «In quel preciso passaggio di fase il pericolo non era tanto il tasso di cambio della lira, che si poteva eventualmente accomodare con una svalutazione. Mi sembrava dram­ matica l'incapacità di far fronte agli impegni di debitore nei confronti di coloro che in Italia e all'Estero finanziavano lo Stato con cambio titoli » . Scalfaro è molto col­ pito dall'analisi del governatore e dalle possibili ricadute della situazione. Una rela­ zione particolare, per molti versi imprevista e inaspettatamente duratura oltre che di reciproco interesse. Così la ricorda lo stesso Ciampi pesando le parole: « Il presidente arrivava a confidarsi con me. Un canale informale e costante tra persone che cerca­ vano di trovare interlocutori attenti e sensibili, in grado di misurarsi con le urgenze del paese per costruire risposte comuni » . Ciampi saluta con favore la nascita del governo Amato ; il 19 giugno 1992 a pochi giorni dall'insediamento del nuovo esecutivo, trascrive sul Diario il resoconto di una conversazione: «Lo invito a volare alto e gli dico : lei si gioca tutto con questa pre­ sidenza : o si afferma come statista o rinuncia alla politica » . Si avverte nelle parole di Ciampi il senso di una sfida difficile che si apre innanzi al paese e ai suoi uomini più esposti. Sul Diario annota (28 luglio 1992): « Colloquio a palazzo Chigi con il presidente Amato. [ ... ] La situazione è veramente grave : il pericolo è di essere travolti non solo sul fronte valutario, ma anche su quello finanziario. Se questa ultima even­ tualità dovesse avvenire e si fosse costretti a misure straordinarie sul debito pubblico, il danno sarebbe per generazioni » . Ciampi si congratula per l'accordo sul costo del lavoro del quale (secondo le sue note) viene indicato come suggeritore delle scelte di Amato e interlocutore privile­ giato del presidente del Consiglio18• L'allarme economico richiede approfondimenti di analisi, socializzazione di strategie e possibili interventi. Il quadro di emergenza viene condiviso e se possibile aggravato dalle riservate considerazioni che il governa­ tore riferisce ai vertici istituzionali. Il suo incessante lavorio si basa sulla convinzione di dover costruire una risposta collettiva, un gioco di squadra in grado di evitare il precipitare della situazione. Ciampi s'interroga sulla coerenza dei comportamenti nelle risposte alla crisi e sulla possibilità di far emergere una classe dirigente consa­ pevole e compartecipe del momento delicato. Il governo è il suo referente obbligato 17. li presidente Scalfaro fu eletto il 2 5 maggio 1992 al sedicesimo scrutinio. 1 8. Cfr. Ciccarone, Gnesutta, Conflitto di strategie, cit., pp. 1 37-50. 390

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e naturale, la Presidenza della Repubblica diventa un canale di reciproche confidenze e considerazioni, tra la politica e l 'economia nel vivo della prima fase della lunga transizione italiana. La risposta dell'esecutivo non sempre corrisponde alle intenzioni e agli auspici del governatore. Il 9 settembre 1 9 9 2 Ciampi annota sul Diario: « Mi telefona il presidente Amato per dirmi che il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che dà poteri speciali al governo in caso di emergenza economica e che starà al governatore della Banca d' Italia dichiararla. Nessun provvedimento eco­ nomico è stato deciso. Esprimo la mia delusione e le mie gravi preoccupazioni » '9• Non sempre riesce a seguire con partecipazione le dinamiche, i comportamenti e le dialettiche tra componenti e leader di partito. Il suo sguardo rimane fuori dell'arena ( almeno per ora) , il suo principale obiettivo è quello di offrire una descri­ zione il più possibile veritiera dello stato del paese, dei rischi gravi che incombono e della necessità di offrire strategie di intervento. Il salto di qualità che il governatore comincia a proporre come strategia e direzione unificante investe la dimensione continentale e quindi i vincoli europei come risorsa e necessità. Solo nel quadro di una ritrovata e per molti versi rigenerata spinta verso l'integrazione del Vecchio continente l ' Italia può ritrovare energie e risorse fondamentali. Non era semplice né scontato riuscire a modificare priorità e convinzioni stratificate. In varie occasioni insiste - anche pubblicamente - sulla strategia di un intervento "pesante" che possa toccare contestualmente tre aspetti: conti pubblici, prospettive di futuro, rispetto e valorizzazione della funzione guida dei vincoli europei. Ma il tempo del risanamento non coincide con la capacità dell'esecutivo di raf­ forzare e prolungare la propria azione. Un fragile equilibrio precipita in seguito a un provvedimento portato con leggerezza - questo il giudizio di Ciampi a distanza di tempo - alla firma del presidente della Repubblica. Una leggerezza inconsapevole, figlia dell'emergenza del momento e dell ' incapacità di andare oltre le scadenze e le incombenze del giorno per giorno. Il s marzo 1 9 9 3 , al termine di una lunga e com­ plicata riunione del Consiglio dei ministri, il governo Amato vara un decreto legge che depenalizza il finanziamento illecito ai partiti e viene percepito come un "colpo di spugna" in grado di cancellare responsabilità e colpe di una classe politica ormai compromessa. Il presidente della Repubblica non firma il decreto ; il provvedimento viene ritirato e si apre la strada che nel volgere di poche settimane avrebbe portato alla crisi di governo. Una crisi che è al tempo stesso sintomo di un malessere profondo e segnale di allerta per ciò che potrà accadere nell ' imminente futuro. Una difficoltà di tenuta che appare evidente a tutti i protagonisti politici e istituzionali. In quegli stessi giorni il governatore ribadisce la necessità di avere un governo in carica, dal profilo alto e con pieni poteri. Sul Diario del 2 aprile annota parole impegnative : «Intervento rapido, tempi brevi, terapia d'urto » . Il canale di comunicazione tra la

I9. n sottolineato è nel testo originale.

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Banca d ' Italia e il Quirinale si intensifica fino a prefigurare responsabilità comuni e intenti convergenti per non perdere benefici e speranze figli del risanamento appena avviato. Il 7 aprile 1993 annota: «Vi è il rischio di una crisi finanziaria più grave di quella del settembre-ottobre 1992 in quanto allora vi era un governo e una politica. Scalfaro ne è consapevole. Governo Amato ancora ? O politico con tecnici o Ciampi dopo soluzione in Banca d' Italia » . Le difficoltà della maggioranza si intensificano durante le settimane successive e, dopo il voto referendario del 18 aprile 199320, trovano il loro epilogo nelle dimissioni del governo Amato giovedì 22 aprile. La strada della crisi non è prefigurabile; Scalfaro sceglie di sperimentare nuove strategie, la tenuta del sistema politico viene messa a dura prova. Molti si interrogano sugli esiti della discontinuità istituzionale. Non era possibile tornare indietro, molto impegnativo poter andare avanti. Ciampi ricorda nitidamente il senso di impotenza che pervadeva e condizionava chi doveva esercitare responsabilità istituzionali. Cresce la paura di imboccare, anche inconsapevolmente, un vicolo cieco. Vari scenari molto difformi e lontani da una stabilizzazione indolore. Le voci su un suo possibile incarico arrivano da più parti; uomini politici e direttori di quotidiani riportano le ipotesi di un diretto coinvolgimento del governatore della Banca d ' Italia. Lasciamo spazio ai ricordi: Il termometro politico del fine settimana compreso tra il 23 e il 25 aprile vide nell'ordine i tentativi di dare l' incarico prima a P rodi e poi a Segni; ma i due fanno "le bizze, (caratteri difficili !) e si arriva alla domenica pomeriggio. Scalfaro andò in televisione la sera sottolineando la drammaticità della situazione economica, facendo riferimento ad alcuni aspetti delle nostre conversazioni private. Questo mi fece temere che Scalfaro quella domenica, in cuor suo, avesse già pensato a una possibile presidenza Ciampi. Non ricordo se ci fu qualche telefonata premonitrice. Certamente ricordo questa sua dichiarazione televisiva in cui faceva il punto, negativo, dell'evolversi della situazione e sottolineava l' importanza di avere un governo in carica data la delicatezza del quadro finanziario dello Stat02 1 •

La strada appare segnata, il tempo stringe e le responsabilità incalzano. Il governatore rappresenta una risorsa preziosa, un percorso originale esterno ai tradizionali recinti della politica italiana. Non un ripiego, né un passaggio obbligato o scontato. Una competenza economica (vera emergenza del momento), un uomo credibile e ricono­ sciuto a livello internazionale, una scommessa per ritrovare le ragioni e gli strumenti della politica. A molti appariva come un azzardo, un salto nel buio, un'abdicazione della politica a vantaggio della burocrazia di un'istituzione indipendente che veniva collocata al vertice delle dinamiche politico-parlamentari senza avere né l'esperienza ne 1 requiSiti. l









20. n referendum del !8 e 19 aprile 1993 per una modifica in senso maggioritario della legge elet­ torale del Senato ottenne circa l' 83% dei consensi raggiungendo un quorum pari al 77% degli elettori. 21. Colloquio con l 'Autore, 7 dicembre 2007.

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Ma la sfida non era rinviabile e i partiti avevano esaurito le proprie prerogative e intaccato irrimediabilmente le capacità di reagire alla profondità della crisi. In questo quadro Ciampi si appresta a varcare la soglia del coinvolgimento politico, dell'assunzione piena di responsabilità e compiti. La chiamata del presidente della Repubblica non si fece attendere. Una telefonata precede l ' incontro : Mentre sono a Santa Severa mi giunge una chiamata telefonica dal Presidente della Repub­ blica Scalfaro che preannuncia un invito con lui con evidenti riferimenti a un possibile incarico. Obietto due punti: 1) la mia assoluta estraneità alla politica; 2) che è ancora aperto un problema di successione in via Nazionale. Il presidente Scalfaro mi risponde che non sono obiezioni valide. In chiusura mi chiede anche dei miei rapporti con Prodi. Gli rispondo : ottimi n.

Oltre agli appunti sono nitidi i ricordi di quei momenti; una cesura nella vita del futuro presidente, un punto di non ritorno. Il contesto particolarmente difficile, un fine settimana complicato. Dai ricordi nelle conversazioni con Carlo Azeglio Ciampi: Quel che poi è certo è che lunedì 26 aprile, la mattina, il presidente mi telefona: «Debbo vederti. Ti mando riservatamente il prefetto Iannelli con una macchina alle u.oo » . Cosa che avvenne. Ero in Banca d' Italia con i miei collaboratori a discutere le considerazioni finali, la parte internazionale, e dissi: «Vi devo lasciare, ho un impegno fuori, ci vediamo nel pome­ riggio » . Ancora aspettano il mio rientro. Vengo preso e accompagnato a casa di Scalfaro ; prima e unica volta, nel suo domicilio privato sull'Aurelia. Arrivo là, era presente anche Gaetano Gifuni segretario generale della Presidenza della Repubblica. Il presidente mi fissa con lo sguardo e dice : « Tocca a lei » 2.�.

In poche ore un tornante della sua vita. Si sente in difficoltà, cerca di trovare argo­ mentazioni e motivi di rifiuto ; non se la sente di accettare la sfida su due piedi. Le sue argomentazioni e repliche ruotano attorno a due elementi: l'estraneità dalla politica e quindi l' inesperienza di non far parte del Parlamento e di non poter contare su una dimensione collettiva di riferimento e in secondo luogo il rischio che il Quirinale avrebbe corso nell'eventualità di un fallimento, una corresponsabi­ lità in grado di indebolire e ridimensionare l'autorità e il prestigio della più alta carica dello Stato. Le istituzioni prima di tutto, non si poteva rischiare un'avventura senza via d 'uscita. Il risvolto soggettivo, la dimensione individuale potevano spingere verso l'accettazione: un governatore dimissionario al quale veniva offerto un presti­ gioso percorso di uscita dalla Banca d ' Italia, un nuovo inizio in una collocazione di rilievo. Le resistenze dell'uomo sono anche la risultante di una responsabilità 22. Diario Ciampi, 25 aprile I993· 23. Colloquio con l 'Autore, 7 dicembre 2007. 393

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pesante, un fardello impegnativo. In un primo momento tenta di proporre un inca­ rico bis per Giuliano Amato, ma non ci sono margini per ipotesi già sperimentate. Si ritrovano a casa di Scalfaro faccia a faccia quando lo stesso Amato sostiene aper­ tamente l ' incarico per il governatore, sorpreso di averlo incrociato in quel luogo. Scalfaro - ricorda Ciampi - ribadisce l 'indicazione e la scelta con un lapidario : «Non ho altre soluzioni » ; congedandosi dà appuntamento al neo presidente inca­ ricato al Quirinale, nel tardo pomeriggio. Da quel preciso istante ha inizio la carriera politica di Carlo Azeglio Ciampi, nel frenetico prepararsi all 'appuntamento con le Camere ; la variabile tempo assume da subito una centralità che condiziona scelte e indirizzi dei protagonisti. Quando ogni possibile spiraglio per declinare la proposta viene richiuso, si getta nell' im­ presa, senza risparmiarsi. Nel pomeriggio del 26 aprile ottiene l ' incarico, chiede consiglio al presidente al quale fa vedere la nota con la dichiarazione. Poche righe senza concessioni alla retorica, una traccia di quello che sarà il programma di governo14• Stretto tra il crollo di fiducia nei partiti, la necessità di riformare la legge elet­ torale e l 'esigenza di rispondere alla crisi economica mettendo in sicurezza i conti pubblici, Ciampi si trova immerso in uno scenario complesso e imprevedibile. Il governo è quindi provvisorio, di transizione; Ciampi ne è pienamente consapevole e non lo nasconde sin dall'avvio. In questo contesto si aprì una difficile trattativa con una parte della sinistra italiana titubante sull'opportunità di sostenere la nuova esperienza di governo. L' interlocutore del PD S che dialoga con il presidente incari­ cato è Alfredo Reichlin, che per telefono - ricorda lo stesso Ciampi - comunica l' indisponibilità del proprio partito, nonostante fossero già state contattate nelle prime ore di lavoro del presidente incaricato alcune personalità di area contigua. Il dialogo con Reichlin - che sfocerà in un' importante amicizia - ha inizio con un incontro che sarebbe dovuto rimanere segreto e che invece - seguendo il racconto di Ciampi - viene intercettato da un giovane cronista in motorino (Massimo Gian­ nini) che segue la macchina del presidente fin sotto l'abitazione della figlia, luogo del colloquio. Il tema del confronto è di particolare interesse per almeno due ordini di motivi : le ricadute sulla compagine governativa e il risvolto istituzionale sul rap24. «Mi applicherò a formare un governo che dalla natura stessa della scelta che il presidente della Repubblica ha fatto conferendo a me l' incarico trae finalità definite, precise. In primo luogo assecondare la riforma elettorale alla quale il Parlamento sta attendendo [ ... ]. Nel mentre si compiono questi adempimenti, il governo dovrà: portare innanzi con rinnovato vigore il risanamento delle pub­ bliche finanze, risanamento inteso come riduzione del disavanzo, qualificazione della spesa, maggiore equità fiscale; proseguire e intensificare la lotta alla criminalità in tutte le sue manifestazioni; in poli­ tica estera confermare nelle linee di pace, di costruzione dell'unità europea, di alleanze, linee alle quali il nostro paese non è mai venuto meno. [ ] li mio impegno è di formare un governo che sia capace di interpretare l'anelito di cambiamento che il paese ha espresso in modo inequivocabile, che rafforzi nei cittadini la fiducia nelle grandi capacità che l' Italia possiede, che accresca la nostra credibilità » (Diario Ciampi, 26 aprile 1993). ...

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porto tra partiti e coalizione e, più in generale, sulla natura parlamentare dell'ese­ cutivo. Come ricorda Ciampi : Spiegai a Reichlin che non stavo chiedendo il sostegno del suo partito ma cercavo di investire alcune persone con responsabilità di governo, uti singuli. Lui sapeva dei contatti intercorsi, mi diede un suggerimento pregandomi di insistere nella distinzione tra responsabilità indi­ viduali e cariche politiche. Diventava complicato navigare tra il tecnico e il politico, ma era necessario allargare il sostegno al governo nel Parlamento e nel paese25•

Sembra maturare faticosamente la convinzione che si tratti di un passaggio delicato e peculiare; sarebbe una sconfitta annunciata provare a gestire l 'esistente o ripro­ porre stancamente pagine del passato più o meno sbiadite. Il senso più profondo della sfida, della cesura sta proprio nella consapevolezza (di alcuni, dei più avveduti) della necessaria discontinuità di cui il paese ha bisogno per tentare di risollevarsi. La situazione sembra divenire più fluida. In poche ore Ciampi registra la risposta positiva di Francesco Rutelli e dopo di lui il via libera del PDS (e di alcuni esponenti del partito) a entrare nell 'esecutivo 26 • Sciolte le ultime riserve il presidente incaricato si reca al Quirinale, in anticipo rispetto alla tabella di marcia concordata e con una convergenza ampia e rassicurante. Ma la strada era ancora in salita, molti gli ostacoli imprevedibili. Mercoledì 28 aprile il governo riuscì a insediarsi 27• Tutto sembrava procedere per il meglio, speditamente verso il varo e la fiducia quando arrivò (nel pomeriggio del giorno seguente) la notizia del voto della Camera sulla richiesta di autorizzazione a procedere per il segretario del PSI Bettino Craxi28• La presidenza del Consiglio diramò immediatamente una dichiarazione vincolante : « Questo problema non riguarda il Governo » . Dal Diario: « Ore 18.45· Poco dopo scoppia in Parlamento il caso Craxi, a seguito della decisione, a maggioranza, di non dare l'autorizzazione a procedere. [ . . . ] Nonostante ciò, vado avanti per la mia strada, fissando gli appuntamenti per i previsti incontri con tutti i gruppi parlamentari e con i segretari dei partiti » . Ancora più significativo il commento delle ore successive sempre dalle pagine del

Diario: 25. Colloquio con l 'Autore, 7 dicembre 2007. 26. Si trattava di Augusto Barbera (Rapporti con il Parlamento), Luigi Berlinguer (Università e Ricerca scientifica) e Vincenzo Visco (Finanze). 27. La composizione del governo prevedeva ventiquattro ministri (di cui quattro senza portafo­ glio) e trentasei sottosegretari. Tra i ministri "politici", otto provenivano dalla D C, cinque dal PSI, tre dal PDS, uno dal PSDI, dal P LI, dal P RI e dalla Federazione dei verdi. 28. La Camera respinse la richiesta di autorizzazione a procedere contro Craxi presentata dalla Procura di Milano per l'accusa di corruzione con 29I voti contrari e 273 favorevoli. Sulla parabola di Craxi e la crisi del Partito socialista nei primi anni Novanta, cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2oos; G. Acquaviva, L. Covatta (a cura di), Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio, Venezia 20I2. 395

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Il 2 9 in serata si dimettono a seguito delle votazioni alla Camera sulle richieste di autorizza­ zione a procedere: il ministro delle Finanze Visco, dei Rapporti con il Parlamento Barbera, dell' Università Berlinguer e dell'Ambiente Rutelli. Dichiarazione dopo la votazione alla Camera dei deputati sul caso Craxi: « Il governo appena costituito è ovviamente del tutto estraneo alla votazione della Camera dei deputati sulle richieste di autorizzazione a procedere. Il governo, nel corso dell' imminente dibattito sulla fiducia, ribadirà con chiarezza e con fermezza il proprio impegno sulla questione morale ed esprimerà l' intendimento di assumere iniziative appropriate anche di revisione costituzionale » t9•

Al di là delle dichiarazioni del momento il clima rimase incandescente nel Parlamento e fuori dai palazzi della politica. L' impressione prevalente fu quella della difesa d 'uf­ ficio che parte della classe politica riservava ai suoi esponenti di punta, ai simboli della prima fase della stagione delle inchieste del pool di Milano. Le reazioni, anche quelle della piazza, resero difficile l 'opera di mediazione e di rasserenamento tentata dalle più alte cariche dello Stato. I ministri che venivano dalle file o dall'area del PDS seguirono le indicazioni del partito uscendo controvoglia dal governo. Una scelta difficile e per molti versi una rinuncia alla complessità della sfida che era di fronte al paese. Il presidente incaricato mantenne il suo punto di vista comunicandolo ai diretti interessati: «Vorrei che rimaneste in carica con la responsabilità che vi apprestate ad assumere, ma vi chiedo di farmi sapere entro domenica il vostro orientamento in merito »30• Fermezza, libertà di scelta senza pressioni o condizionamenti indebiti, imperturbabilità anche di fronte ai passaggi più aspri. Il segno che non si poteva rallentare la corsa verso la formazione del governo. Ogni colloquio individuale - ricorda Ciampi - si chiudeva con la frase: « Martedì andrò alle Camere con il governo al completo » 31• E così avvenne. Effettuate quindi le sostituzioni preventivate il governo si presentò al completo di fronte al Parlamento, con un impianto program­ matico definito e chiaro32• Si trattava di un'esperienza nuova, di un nuovo inizio, in tutti i sensi. I ricordi di Ciampi sono coinvolgenti: «Penso spesso all'emozione di quel giorno ; entrare per la prima volta, in quel modo, in aula. [ ... ] Entrarci da presidente del Consiglio per la prima volta, per me che sono un emotivo, era una sensazione fortissima » . Sul Diario del 6 maggio 1 9 9 3 annota in bella evidenza: '

Dichiarazioni programmatiche, Camera dei deputati: « E la prima volta nella esperienza della Costituzione repubblicana che un semplice cittadino, senza mandato elettorale parla davanti

29. Diario Ciampi, 29 aprile 1993. 30. Colloquio con l 'Autore, 7 dicembre 2007. 31. Jbid. 32. I ministri dimissionari furono sostituiti il 4 maggio 1993 con Paolo Barile, Umberto Colombo, Franco Gallo e Valdo Spini (al quale precedentemente erano state assegnate le Politiche comunitarie, poi attribuite a Livio Paladin).

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a voi nelle funzioni di presidente del Consiglio dei ministri. Ed io sento innanzi tutto di dovere testimoniare, in quest'aula, il rispetto profondo, l'amore civico mai venuto meno, l'orgoglio degli italiani per le istituzioni rappresentative » .

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Un nuovo metodo per governare

Lavoro di squadra, metodo, chiarezza nel programma e negli obiettivi, scrupoloso rispetto delle regole, questi gli assi dell'esordio dell'esecutivo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi nel Parlamento della Repubblica. Fu un passaggio importante che solo la distanza del tempo trascorso rende più nitido nei contenuti e nelle ricadute di una svolta profonda nel metodo e nel merito. Una responsabilità che avvia un percorso individuale e collettivo riconducibile alle priorità di intervento per risolle­ vare sorti e prospettive del paese. Difficile dare una valutazione del ruolo e della funzione del governo Ciampi senza collocarlo pienamente nel contesto della fase dei primi anni Novanta del Novecento. Alcuni elementi sembrano centrali e ricorrenti, in grado di sedimentare con il passare del tempo piste interpretative sul ruolo dell 'esecutivo in quella fase e sulle dinamiche di avvio della lunga e incerta transizione italiana. La continuità proposta e difesa nell'opera di risanamento economico : quel lavoro difficile e necessario di controllo sui conti pubblici e sulla spesa. Centrale in tal senso il conseguimento dell'accordo con le parti sociali sul costo del lavoro di cui si è già detto in precedenza e che, nell'ottica di Ciampi, avrebbe consentito « di guardare al futuro con più serenità » , accrescendo «la credibilità del paese » . Un fondamento base per il futuro ( questo nelle intenzioni dei partecipanti ) ; un mattone per costruire nuovi edifici e più solidi patti. L'accordo - recita la già citata nota presentata dal governo il 23 luglio 1 9 9 3 è il fondamento della politica economica del governo : dà fiducia ai mercati, offre certezze agli investitori, favorisce il processo di riduzione dei tassi di interesse. Ora possiamo abbattere l' inflazione a livello dei paesi europei più virtuosi [ ... ] . In questo modo si ridà competitività all' industria italiana, si creano le condizioni per combattere la disoccupazione. L' Italia, se sapremo ben operare, è il paese che può essere tra i primi ad uscire dalla fase recessiva. L' ac­ cordo è essenziale anche ai fini del risanamento della finanza pubblica, al quale più specifi­ catamente sarà rivolta la legge finanziarian.

Ma il tempo per festeggiamenti e congratulazioni fugge via rapidamente : l'attenzione si sposta verso altri scenari dove il governo è chiamato alle proprie responsabilità. Il banco di prova più difficile era rappresentato dal completamento della nuova legge

33· Diario Ciampi, 23 luglio I993· 3 97

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elettorale realizzato tra luglio e agosto con un serrato lavoro del Parlamento34• Anche in questo caso dal Diario la dichiarazione del s agosto : «L'approvazione della legge elettorale è una manifestazione della vitalità e della solidità delle istituzioni repub­ blicane; ancora una volta è confermato che il paese ha la capacità di rinnovarsi profondamente con la semplice applicazione delle vigenti regole. Il governo vede così attuata una parte essenziale del suo programma » . Le sue parole richiamano un atteggiamento di fondo ispirato al rifiuto della cate­ goria dell'emergenza e contrassegnato contestualmente dalla cultura del lavoro, dalla collaborazione fattiva in una squadra, da un ottimismo della volontà che traspare in filigrana da ogni atto che da Palazzo Chigi investe diversi soggetti del sistema politico. Ma torniamo alla strategia di ricostruzione del ruolo e delle prospettive del paese in un passaggio così delicato : Ciampi punta al cuore dell' Europa continentale come asse conduttore del processo di integrazione; una scelta che ritroveremo anche più avanti nelle successive tappe del suo impegno politico. La sua credibilità personale è posta al servizio del rafforzamento di un ruolo potenziale dell' Italia nello scacchiere inter­ nazionale con particolare riferimento alle tradizionali ispirazioni della politica estera: il processo di integrazione del continente europeo, il rapporto con gli Stati Uniti. Il tentativo italiano è quello di proporsi in un ruolo collaborativo, non subalterno mostrando di condividere una corresponsabilità di fondo sia negli indirizzi dell' im­ pegno internazionale, sia nelle strategie di intervento nei teatri di crisi. Nei mesi del governo Ciampi, sotto la guida di Beniamino Andreatta, i dossier principali riguar­ dano la crisi bosniaca e l' intervento in Somalia, in una fattiva collaborazione con il cancelliere Kohl e l'amministrazione Clinton. Ma come spesso accade nelle dinamiche di incertezza e instabilità dei governi dell' Italia repubblicana il tempo è troppo breve per poter consolidare il protagonismo potenziale del nostro paese su teatri più ampi. La politica estera richiederebbe processi più lunghi, relazioni consolidate, tempi e modalità non compatibili con le ripetute e inattese crisi di governo. Il costo dell' in­ stabilità politica come male antico che riemerge con nuovi interpreti. Ciampi ricorda con orgoglio : «L'azione di Governo aveva incorporato e portato a conclusione quei punti iniziali espressi a caldo dopo il colloquio nel quale il capo dello stato mi aveva affidato l' incarico » . Un servitore dello Stato che riconosce il suo compito e verifica con attenzione gli esiti del proprio lavoro : priorità di bilancio sul controllo dei conti pubblici; nuova legge elettorale con relativa applicazione nei collegi uninominali; consolidamento di un ruolo internazionale sulle linee prioritarie di una politica estera sostenibile e verificabile. Il 1 9 9 3 si chiude con ulteriori conferme: tra il 15 e il 22 dicembre viene discussa e approvata la legge finanziaria, procede l'opera di risanamento e si chiarisce sempre 34· La riforma Mattarella (legge 4 agosto 1 993, n. 276, Norme per l'elezione del Senato della Repubblica, e legge 4 agosto 1993, n. 277, Nuove norme per l'elezione della Camera dei deputati) fu approvata in via definitiva il 4 agosto 1993.

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di più che l'obiettivo alla fine del tunnel sarà una convergenza piena e più consape­ vole con le dinamiche europee. Nelle schede preparatorie alla conferenza stampa di fine anno Ciampi sottolinea: « Questo è un governo di garanzia istituzionale, nato per consentire il rinnovamento e la ricomposizione del sistema politico in un quadro di risanamento finanziario e di innovazioni istituzionali. Posso in coscienza affermare che ogni mio comportamento, in pubblico o in privato, è stato informato all'osser­ vanza scrupolosa di siffatto specifico mandato » . E ancora: Situazione politica e sociale molto difficile; rischio tracollo. Recessione internazionale, sfi­ ducia dei mercati e degli ambienti internazionali verso il nostro paese. Vi era il pericolo che mentre si costruiva il ponte della legge elettorale, si sprofondasse nel vuoto [ . . . ] . Questo pericolo gravissimo è stato sventato. Di questo il merito principale va a due protagonisti. Il Parlamento e le parti sociali. [ . . . ] Mi si consenta di ringraziare soprattutto il paese, che ha capito, ha sentito, ha reagito nel modo miglioreH.

Il nuovo metodo di lavoro produce quindi risultati ma il quadro politico non sembra consolidarsi. Una contraddizione stridente e condizionante: da un lato si completa il buon esito dell 'azione di governo e dall 'altro non si consolida un tracciato percor­ ribile per l'avvenire. Quasi che le strade tra presente e futuro siano incomunicabili. L'ottimismo della volontà dei molti che ci avevano creduto subisce una prima e perentoria battuta d'arresto. La fine dell'anno segna l'epilogo dell'esperienza del governo Ciampi. Nel breve tragitto di poche settimane si passa dalla valorizzazione dei risultati conseguiti alla previsione di scenari futuri. Sul bilancio della breve stagione dell'esecutivo, meno di un anno il tempo utile da considerare, pesa la controversa questione legata al suo tramonto, agli interrogativi sulle ragioni che portano a interrompere una stagione che ha prodotto risultati considerevoli tanto sotto il profilo degli impegni mantenuti quanto nel clima diffuso di collaborazione e responsabilità condivisa. Tra la fine del 1 9 9 3 e l ' inizio del nuovo anno, a cavallo tra le vacanze di Natale e la riapertura dei lavori parlamentari, si consuma l'ultimo atto di una vicenda che in molti - allora come negli anni successivi - pensavano potesse proseguire con rinnovato vigore. Da diversi settori del Parlamento si manifesta la convinzione che un'accelerazione verso le elezioni politiche rappresenti la prima tappa di una vittoria annunciata o comunque probabile. Le prime elezioni dirette dei sindaci - nella tornata amministrativa del 1 9 9 3 - confermano l'indirizzo maggioritario del sistema elettorale indicando un sostanziale successo delle sinistre nelle grandi città36• Comincia a essere utilizzata 3S· Diario Ciampi, 27-28 dicembre I993· 36. Le elezioni amministrative delle tornate del 6 giugno e del 2I novembre I993 videro la com­ plessiva affermazione del futuro cartello elettorale dei "progressisti". Sugli aspetti politici della riforma nel contesto della crisi italiana dei primi anni Novanta, cfr. Scoppola, La repubblica dei partiti, cit., pp. 459-98; R. Forlenza, I sindaci e la crisi del sistema politico: modelli, progetti, illusioni, realta, in 3 99

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l'espressione di una "gioiosa macchina da guerra" da mettere alla prova e le forze che si riconoscono nel cartello guidato dagli eredi della tradizione del PCI spingono per lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma questo richiama solo un aspetto, mar­ ginale, della vicenda. Gli uomini ai vertici delle istituzioni sono convinti che il completamento della nuova legge elettorale sia l'ultimo atto di una fase politica avviata a conclusione con l'attraversamento tempestoso di un terribile biennio. Lo stesso Ciampi è consapevole che il suo esecutivo ha una funzione ponte, di transi­ zione, non un governo di legislatura. E tuttavia si domanda con inquietudine: «Non mi capacito, ancora oggi, del perché in quella fine di anno un gruppo di deputati, e con loro Marco Pannella, prende l' iniziativa di sfiduciare il governo presentando una mozione in merito » 37• In questo contesto, quasi con un sussulto d'orgoglio, di fronte alla discussione di una mozione di fiducia presentata in Parlamento Ciampi sottrae il governo alle tecniche e alle schermaglie parlamentari; il 1 3 gennaio 1 9 9 4 , dopo una breve riunione del Consiglio dei ministri, sale al Quirinale per rassegnare le dimissioni. I vertici delle istituzioni concordano sulla necessità di dover procedere speditamente sulla strada dello scioglimento delle Camere. Il voto appare uno sbocco obbligato; Scalfaro, Spadolini e Napolitano sono pronti al nuovo scenario ; in poche ore, il giorno suc­ cessivo, viene informalmente fissata la data delle elezioni. La fine del governo Ciampi non interrompe interrogativi e scenari che investono esiti e prospettive di quella che si apprestava a diventare una lunga transizione verso approdi incerti e sconosciuti. Non mancarono pressioni e sollecitazioni a un impegno diretto del capo del governo uscente nella campagna elettorale. Da più parti si pro­ pose una linea di continuità tra l'azione dell'esecutivo e la possibile apertura di una stagione Ciampi bis, all 'indomani delle elezioni, magari in virtù del responso delle urne. Ma il presidente non era disponibile né titubante, considerava chiusa la sua stagione da primo ministro e non voleva inficiare o indebolire il risultato di quel lavoro collettivo. Esplicito il Diario al 16 febbraio 1 9 9 4 : «Non mi candido, sono servitore dello Stato. Ho sempre ritenuto, leggendo le dichiarazioni sulla stampa, che si intenda solamente dire che si apprezza la politica di questo governo e si ritiene, nell 'interesse del paese, che questo tipo di politica venga proseguita da un futuro governo » . Ricorda Ciampi quasi vent'anni dopo : «L'effetto del responso delle urne del 27 e 28 marzo 1 9 9 4 fu inaspettato e profondo. Un vero cambiamento, una discontinuità senza precedenti » 38• Il segno della svolta arriva da lontano, dalle tante richieste di O. Gaspari, R. Forlenza, S. Cruciani, Storie di sindaci per la storia d'Italia {1SSg -2ooo), Donzelli, Roma 2ooo, pp. 253-85; A. Musi, La stagione dei sindaci, Guida, Napoli 2004, pp. 9-34. 37· Colloquio con l 'Autore, 7 dicembre 2007. 38. Ibid. Le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994 videro l'affermazione del Polo delle libertà e del buon governo guidato da Silvio Berlusconi, che conquistò la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei deputati dove il cartello dei "progressisti" si fermò al 32,8% dei consensi.

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chiarimento che caratterizzano la fase di passaggio che precede l 'insediamento del nuovo governo. Le relazioni e le amicizie di Ciampi sono consolidate, spesso risal­ gono al periodo in Banca d' Italia e si sono irrobustire nei mesi di permanenza a Palazzo Chigi. Tra queste spicca il rapporto di intesa e collaborazione con Helmut Kohl. Il cancelliere si domanda che cosa significhi l'affermazione di Berlusconi e invita Ciampi a un incontro riservato nella regione dei laghi, nei pressi di Salisburgo, a meno di quattro giorni dalla chiusura delle urne, il 3 1 marzo 1994. Ricorda Ciampi: «Mi ritrovai catapultato in una lunga passeggiata con Helmut Kohl in Austria a Bad Hofgastein e lui mi chiese con tono ironico e sarcastico : "Ma adesso avete questo Berlusconi in Italia, cosa significa, com 'è possibile ?". Si interrogava sui possibili sce­ nari per il nostro paese con un personaggio così particolare, che lui definiva "estraneo ai vostri percorsi" » 39• Il Diario del presidente è ricco di dettagli; l' incontro si svolse tra le 12.0 0 e le 1 6.oo del 3 1 marzo, alla sola presenza dell'interprete : Mi chiede dell' Italia. Metto in evidenza gli aspetti positivi (elezioni nell'ordine ; possibilità di fare un governo con una maggioranza; conferma dei progressi economici) ; incertezza circa i contenuti del nuovo governo. Kohl osserva che Forza Italia non è un partito ; esprime preoc­ cupazioni per la presenza del M S I, anche per i possibili riflessi in Alto Adige. Do risposte "vere", ma evitando di accrescere le preoccupazioni per il futuro governo. Kohl è critico della DC, che ha ritardato troppo il suo rinnovamento. [ ... ] Al congedo gli dico Helmut tu sei amico dell' Italia, l' Italia merita fiducia; segui con attenzione la condotta dei prossimi gover­ nanti; se è corretta, dà loro la fiducia che hai dato a me. Congedo molto affettuoso con ampio apprezzamento per la mia opera40•

Le righe conclusive dell'appunto sono il condensato di un atteggiamento riproposto in varie occasioni e con diversi interlocutori: chiedere fiducia, sostenere una fase difficile senza limitarsi alle apparenze o peggio alle strumentalizzazioni diffuse. Nonostante le accuse più o meno velate rivolte dai nuovi vincitori al governo uscente, bisognava guardare avanti. Chi sente il peso delle responsabilità e delle scelte teme che si possa disperdere un patrimonio di politiche e indirizzi fondamentali per il futuro dell' Italia: vincolo europeo e contesto internazionale, punti fermi di ogni politica di risanamento e sviluppo.

39· Jbid. 40. Ibid. 401

L'anti politica dei moderati. Dal qualunquismo al berlusconismo* di Giovanni Orsin a

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Premessa

L"'antipoliticà' è un oggetto complesso e difficile da definire. Anche se restiamo sol­ tanto sul piano astratto ci troviamo dentro tante questioni differenti: l'avversione per la politica come strumento di progettazione razionale del mondo a venire e trasforma­ zione forzata del mondo presente; l'ostilità nei confronti di uno Stato che drena troppi soldi dalla società e la sovraccarica di regole; il rifiuto della dialettica politica, che spreca tempo e risorse preziose in discussioni e distinzioni irrilevanti e artificiali anziché affrontare e risolvere i problemi reali; il rigetto di un'élite politica professionale, chiusa, autoreferenziale e attenta unicamente ai propri interessi. Se poi dal terreno teorico ci spostiamo su quello storico e consideriamo sia le ragioni contingenti per le quali di volta in volta sono venuti emergendo sentimenti o movimenti antipolitici, sia la colo­ ritura ideologica che questi fenomeni hanno assunto e le proposte che hanno avanzato, il quadro inevitabilmente si complica ancora di piÙ1• Questo saggio non pretende certo di dare al problema dell'antipolitica una soluzione complessiva. Più modestamente, intende svolgere qualche considerazione su una certa tradizione antipolitica italiana, ideologicamente caratterizzata in senso moderato, per come si è venuta sviluppando negli ultimi sessant'anni, ossia nell'arco di tempo delimitato da due ben precisi feno­ meni storici: il qualunquismo e il berlusconismo. Il secondo paragrafo cercherà di definire che cosa si intenda per moderatismo antipolitico ; il terzo si aprirà con il qualunquismo e seguirà per cenni molto generali la tradizione antipolitica moderata fino alla crisi dei primi anni Novanta; il quarto si occuperà del berlusconismo ; il quinto

* Questo saggio è stato pubblicato in "Ventunesimo Secolo", X I I, 2013, 30, pp. 91-111. 1. Sull'antipolitica cfr. fra gli altri: A. Schedler (ed.), The End ofPolitics? Explorations into Modern Antipolitics, Macmillan, Basingstoke 1997; Antipolitica, numero monografìco di "Meridiana", 2000, 38-39; A. Mastropaolo, Antipolitica. All'o rigine della crisi italiana, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2ooo; Id., La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2oos; D. Campus, L 'antipolitica al governo: De Gaulle, Reagan, Berlusconi, il Mulino, Bologna 2oo6 ; P. Rosanvallon, La contre-démocratie: la politique a l age de la défiance, Seui!, Paris 2oo6.

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e conclusivo cercherà di capire in che cosa il berlusconismo si sia distinto dal qualun­ quismo, e perché la fortuna politica dei due fenomeni sia stata così diversa.

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Che cos 'è il moderatismo antipolitico ?

A mio avviso, per lo meno sul piano logico, non è impossibile distinguere tra due forme differenti di antipolitica: una contingente e una strutturale. L'antipolitica può essere considerata contingente quando è connotata dall 'emergere di sentimenti o movimenti ostili non alla politica in generale, ma ai caratteri che la politica esibisce in un tempo e un luogo ben determinati: avversione nei confronti di una specifica classe politica, dei percorsi attraverso i quali è stata formata e selezionata, della sua (presunta) carenza di rappresentatività, efficienza, competenza. È invece strutturale quando si dirige non soltanto contro la qualità della politica, ma anche e soprattutto contro la sua quantità. Ossia quando il tema della cattiva politica è legato, anzi subordinato, a quello della troppa politica, e di conseguenza la soluzione non è cercata tanto o solo nella riforma della politica quanto piuttosto nella marcata riduzione dello spazio che essa occupa (fino nei casi limite al suo azzeramento), a vantaggio di un "paese"2 ritenuto capace di autogoverno. Ora, nella storia dell' Italia repubblicana è stata senz'altro presente tanta antipo­ litica contingente, generata in larga misura dai ben noti difetti della vita pubblica postbellica. Poiché però la più generale vicenda unitaria italiana è stata altrettanto notoriamente segnata da un rapporto mai equilibrato e pacifico fra società e Stato, e più in particolare dalle robuste propensioni ortopediche e pedagogiche di questo su quella\ nei decenni della Repubblica non è nemmeno mancata una dose consi­ stente di antipolitica strutturale caratterizzata dal rifiuto complessivo di una politica - e di conseguenza di uno Stato - considerati ipertrofici, invadenti, arroganti, e dal desiderio conseguente che a individui e gruppi sociali fossero riconosciute una migliore reputazione e maggiore autonomia. Non vi è dubbio che spesso questa antipolitica strutturale si sia presentata in una forma assai confusa e contraddittoria, congiunta con la richiesta di protezione da parte delle istituzioni pubbliche o con il desiderio di conservare intatti vantaggi e privilegi di origine politica. Queste con­ traddizioni però, se vanno certamente tenute presenti, non hanno reso il "nocciolo duro" del fenomeno meno rilevante.

2. "Paese" è termine generico e riassuntivo. Che cosa ci stia dentro più precisamente - popolo, folla, uomini qualunque, società civile, entità territoriale - dipende dalle specifiche incarnazioni sto­ riche dell 'antipolitica strutturale. 3· Cfr. R. Chiarini, Destra italiana. Dall'Unita d'Italia a Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia I99S: E. Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d'Italia, il Mulino, Bologna 20IO.

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Per certi versi l'an tipolitica strutturale può essere considerata una forma di libe­ ralismo, soprattutto là dove più che prendersela con la politica o con lo Stato in quanto tali nel nome di una società civile proclamata "santa subito" se la prende piuttosto con quell'eccesso di politica, di Stato e di disprezzo nei confronti della società civile che ha senz' altro segnato la vicenda unitaria italiana in generale, e quella repubblicana più in particolare4• Per altri versi invece di liberale ha poco : è sempli­ cistica, aprioristica, diffidente, scarsamente sensibile al problema dei checks and balances istituzionali, della competenza tecnica, delle specificità dei diversi ambiti dell'azione umana. In tutti i casi però questa tradizione ha rappresentato - Jaute de mieux - l'unica potenziale base di massa che il paese abbia messo a disposizione di qualsiasi movimento politico abbia voluto dirsi liberale. L' antipolitica strutturale, inoltre, ha un rapporto complesso con la divisione fra destra e sinistra. Non sono certo mancati a sinistra quanti hanno valorizzato, apprez­ zandone magari il potere rivoluzionario, le capacità dei gruppi sociali di "saltare" la mediazione politica; né tantomeno, sull 'altro versante, coloro i quali hanno messo la spinta propulsiva della politica al servizio di valori di destra. Mi sembra difficile negare, tuttavia, che questo tipo di antipolitica si sia in generale presentato più spesso a destra che a sinistra - ossia che a sinistra la fiducia nel potere trasformativo della politica sia storicamente stata più robusta5• E soprattutto che si sia presentato più spesso a destra nelle circostanze contingenti dell' Italia repubblicana. All 'indomani della Seconda guerra mondiale la fiaccola della palingenesi per via politica è stata levata dai partiti progressisti e antifascisti. L'ostilità nei confronti della convinzione che la politica dovesse trasformare in profondità il paese, perciò, si è naturalmente collocata sul versante opposto. L' antipolitica strutturale si è manifestata così nella forma del moderatismo antipolitico, che possiamo a sua volta considerare come un sottoinsieme dell'an ti-antifascismo. Dell' Italia anti-antifascista non sappiamo moltissimo. Gli storici se ne sono occupati poco, sia perché non è facile da studiare, sia perché l' hanno quasi tutti avuta in antipatia. E quando se ne sono occupati, piuttosto che la "pancia" profonda ne hanno analizzato le manifestazioni politiche, istituzionali e culturali più visibili : i partiti che hanno cercato di rappresentarla - qualunquisti, missini, monarchici, liberali -, la destra cattolica e democristiana, gli intellettuali di riferimento come Longanesi, Guareschi o Montanelli6• Poiché è stata studiata poco e amata ancor 4· La presenza di un « antipolitical core » nel «classic liberalism » è sottolineata da Schedler (ed.), The End ofPolitics ?, cit., p. S· Ma cfr. pure il paragrafo Le libéralisme et le mal du politique, in L. Jaume, L'individu ejfacé, ou le paradoxe du libéralisme français, Fayard, Paris I997· ebook posizione I488I ss. S· Sul rapporto fra politica e valori riconducibili alla Rivoluzione francese da un lato, impoliticità e conservazione dali' altro, resta un punto di riferimento essenziale T. Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano 2005 (ed. or. I9I8 ) . 6. Cfr., per citare solo le opere più recenti o generali, e senza pretesa di completezza: A. M. Imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti, I943-I94S, il Mulino, Bologna I996; S. Setta, La

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meno, l ' Italia anti-antifascista, come è accaduto più in generale alle "destre", è stata spesso presentata dalla storiografia come un'entità indifferenziata7• Nella maggior parte delle ricostruzioni della vicenda repubblicana, del resto, l'attenzione è caduta soprattutto sui partiti e sui loro progetti di trasformazione del paese, rispetto ai quali l'an ti-antifascismo ha acquisito importanza soltanto come elemento "oscuro" di opposizione, limite da superare, manifestazione emblematica del paese amorale, perbenista, conservatore, gretto e panciafichista che era compito specifico dei par­ titi rieducare. Quel fenomeno, insomma, ha rappresentato ! "'altro", ha contato soltanto perché frenava, e le sue articolazioni interne, se pure c 'erano, non erano perciò reputate interessanti. Gli studi che se ne sono occupati paiono invece sug­ gerire che nell'anti-antifascismo siano confluiti motivi, valori, speranze, memorie assai differenti. L' Italia anti-antifascista è unificata per un verso dall'anticomunismo, e per un altro, più in generale, dall'opposizione al sistema partitico repubblicano - alla sua invadenza, alle sue pretese ortopediche e pedagogiche, alle sue aspirazioni palingenetiche. I due elementi del resto si tengono l'uno con l'altro, il PCI essendo considerato - non del tutto a torto - la quintessenza, la punta di lancia della partitocrazia antifascista8• Al di destra nell'Italia del dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 2001 ; G. Parlato, Un Candido nell'Italia provvi­ soria. Giovannino Guareschi e l'Italia del "mondo piccolo", Fondazione Ugo Spirito, Roma 2002; R. Liucci, L'Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni 'so, MarsUio, Venezia 2002; M. Tarchi, L 'Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, il Mulino, Bologna 2003; A. Ungari, In nome del re. I monarchici italiani dal 1943 al 194S, Le Lettere, Firenze 2004; S. Gerbi, R. Liucci, Lo stregone. La prima vita di Indro Montane/li, Einaudi, Torino 2006; A. Ungari, Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dalfascismo alla repubblica, Le Lettere, Firenze 2007; C. Baldassini, L'ombra di Mussolini. L'Italia moderata e la memoria delfascismo (1945-19 6o), Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2008; F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla repubblica, vol. I, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2008; E. Capozzi, Il sogno di una costituzione. Giuseppe Maranini e l'Italia del Novecento, U Mulino, Bologna 200 8; Id., Partitocrazia. Il regime italiano e i suoi critici, Guida, Napoli 2009; S. Gerbi, R. Liucci, Montane/li l'anarchico borghese. La seconda vita, 19532001, Einaudi, Torino 2009; G. Orsina, L 'alternativa liberale. Malagodi e l'opposizione al centrosinistra, MarsUio, Venezia 20IO; G. Berti, E. Capozzi, P. Craveri (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla repubblica, vol. II, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 20IO; F. Robbe, L'impossibile incontro. Gli Stati Uniti e la destra italiana negli anni Cinquanta, FrancoAngeli, MUano 20I2. 7· Alfio Mastropaolo, ad esempio, parla degli « antichi e sciagurati demoni del moderatismo nazionale, gli stessi che avevano trascinato l' Italia liberale nel baratro del fascismo e che la democrazia repubblicana aveva addormentato» , nel suo La repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant'anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia, Firenze I996, p. 3 3· 8. È invece meno ovvio che di invadenza, pretese ortopedico-pedagogiche e aspirazioni palinge­ netiche possa parlarsi anche a proposito della D C. Nel suo complesso, in realtà, la Democrazia cristiana non può essere definita un partito ortopedico-pedagogico, e tanto meno rivoluzionario. Non mi pare impossibile sostenere tuttavia in primo luogo che in alcuni suoi settori si sia agitato un robusto desi­ derio di raddrizzare e rieducare l' Italia e di attuarvi, se non una rivoluzione, per lo meno una trasfor­ mazione profonda; poi che questi settori, pure se sono stati costantemente contrastati e limitati da altre componenti del partito, hanno avuto un peso storico considerevole, soprattutto dopo la scomparsa di De Gasperi e l'avvento al potere della cosiddetta "seconda generazione"; infine che sul terreno culturale essi hanno contato ancora di più che su quello della politica concreta.

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sotto di questa comune identificazione del "nemico" giacciono tuttavia orientamenti politici anche molto differenti, che almeno sul piano logico possono essere distinti l'uno dall'altro. Nell'Italia anti-antifascista troviamo naturalmente i nostalgici del Ventennio : quelli del fascismo-regime inteso come autorità e conservazione, ostili ai partiti e alla dialettica democratica perché convinti che creino disordine e mettano in pericolo l'u­ nità della nazione; e quelli del fascismo-movimento, ostili ai partiti nel nome del ritorno al partito rivoluzionario - non antipolitici quindi, ma, al contrario, iperpolitici. Vi troviamo dei conservatori, nostalgici magari anche loro del periodo fascista ma persuasi pure che quella stagione sia ormai superata, e disposti ad accettare la democrazia dei partiti purché non ecceda in zelo, non rischi di scivolare nel comunismo e garantisca stabilità e benessere. Vi troviamo dei liberali: più o meno vigorosamente antifascisti ma di un antifa­ scismo che vuoi essere il contrario del fascismo, e convinti invece che i partiti di massa stiano dando vita a un fascismo al contrario9; sempre incerti se integrarsi criticamente nella Repubblica oppure opporsi apertamente a essa nel nome di una diversa democrazia10• Vi troviamo quanti si preoccupano dell'unità, della coerenza e dell'efficienza di uno Stato che vedono sempre più profondamente occupato, e quindi frazionato, dalle forze politiche, ma non per questo chiedono necessariamente solu­ zioni autoritarie11• Vi troviamo infine gli "stanchi del Novecento": esausti della pro­ lungata ubriacatura di ideologia, mobilitazione e politica apertasi con la Grande guerra, ancora scossi dal trauma dell' 8 settembre, mal disposti a tollerare la sostitu­ zione del fallito progetto ortopedico e pedagogico fascista con un nuovo progetto ortopedico e pedagogico di marca antifascista, e desiderosi piuttosto di essere lasciati in pace. Coloro i quali, insomma, ambiscono a iscriversi, per dirla con la famosa espressione di Prezzolini, datata però 19 22, alla « Congregazione degli Apoti, di coloro che "non la bevono" » 12 - che non intendono bersi la politica, o almeno quella politica. Sul terreno storico è difficilissimo districare questi fili l'uno dali' altro. Assai spesso, per altro, si sono annodati in una stessa persona: non è affatto difficile figu­ rarsi un liberai-conservatore dei tardi anni Quaranta, mai stato fascista ma almeno per alcuni versi nostalgico del Ventenni o (soprattutto del periodo precedente la "svolta totalitaria"), preoccupato dell'efficienza e della coerenza dello Stato, disposto 9· La distinzione tra "fascismo al contrario" e "contrario del fascismo" è di Augusto Del Noce. Cfr. Non a destra ma democrazia, in "Il Popolo Nuovo", 29-30 novembre I94S· ora in A. Del Noce, Scritti politici I930-I950, a cura di T. Dell 'Era, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 200I, p. I07. IO. Mi permetto di rimandare a due miei lavori: Translatio Imperii: la crisi del governo Parri e i liberali, in G. Monina (a cura di ) , I945-I946: le origini della Repubblica, 2. Questione istituzionale e costruzione del sistema politico democratico, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2007, pp. 20I-s6; Orsina, L 'alternativa liberale, cit. I I. Cfr. su questo Capozzi, Partitocrazia: il regime italiano e i suoi critici, ci t. I2. In "La Rivoluzione Liberale", 28 settembre I922.

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ad accettare e perfino difendere la democrazia, ma contrario a una politica troppo invasiva e a una dialettica partitica troppo accesa. In questo magma non è tuttavia impossibile piantare qualche paletto - di natura logica almeno, se non storica. Il primo paletto separa i neofascisti iperpolitici dagli altri : apparterranno pure tutti all'anti-antifascismo, ma sono davvero due mondi differenti13. Il secondo distingue i sentimenti antipolitici dai valori della destra politica: l 'ostilità "grezza" e negativa verso lo Stato e i partiti repubblicani dalle ipotesi più costruttive di riforma; la con­ vinzione che il potere pubblico debba essere meno presente, pesante e invadente dal desiderio di ordine e protezione che con quella convinzione non sempre è compati­ bile. Il terzo paletto infine, forse il più delicato e importante, discerne l'una dall 'altra le varie gradazioni della destra e della sua opposizione alla Repubblica dei partiti: distacca chi era anti-antifascista perché fascista - conservatore o rivoluzionario - da quanti erano anti-antifascisti perché ostili ai partiti e alla democrazia in quanto tali, da coloro i quali infine appartenevano all 'anti-antifascismo perché avversavano la forma specifica che i partiti e la democrazia avevano assunto nel dopoguerra in Italia, senza però vagheggiare alcun ritorno all'autoritarismo.

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Il moderatismo antipolitico : dal qualunquismo a Tangentopoli

Emerso come fenomeno pubblicistico fra la fine del 1944 e la metà del 1945, costi­ tuitosi in movimento politico all'inizio del 1946, inabissatosi nel 1948, l ' Uomo qualunque (uQ) ha manifestato per la prima volta in una forma organizzata la pre­ senza e la forza, nell'opinione pubblica italiana, di una componente antipolitica moderata14 • L'avversione qualunquista nei confronti della politica - per lo meno nell'interpretazione che dell' UQ dava il suo fondatore, il commediografo Guglielmo Giannini - era non solo strutturale ma anche radicale. Per Giannini l'unica frattura che contava era quella "orizzontale" che separava l'élite politica dalla "folla": da un lato gli uomini politici di professione ( UPP) arroganti, invadenti, autoreferenziali, intenti a badare esclusivamente ai propri interessi; dall'altro gli uomini qualunque, vittime innocenti ingannate, strumentalizzate, torchiate. Quanto alle fratture poli­ tiche "verticali" fra destra e sinistra, alle grandi ideologie del Novecento quali il fascismo o il socialismo, il commediografo le giudicava senz 'altro una mistificazione : strumenti degli UPP utili a gabbare gli uomini qualunque; a indurii a mobilitarsi a I 3. Cfr. ad esempio Tarchi, L'Italia populista, cit., p. 9S· I4. Sull ' UQ. cfr. lmbriani, Vento del Sud, cit.; G. Giannini, Lafolla: seimila anni di lotta contro la tirannide, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2002 (ed. or. I94S); S. Setta, L'Uomo qualunque {1944194S), Laterza, Roma-Bari 2oos.

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sostegno di questa o quella causa per loro in realtà irrilevante; a far dimenticare loro che la vera divisione era invece quella orizzontale, ossia che il vero nemico erano proprio le élite politiche. Il movimento non si considerava dunque di destra, perché rifiutava la divisione stessa fra destra e sinistra, e tanto meno - in teoria per lo meno ­ era fascista o filofascista. Al contrario : Giannini respingeva nettamente l' ideologismo, l'ansia di irreggimentazione, l'arroganza e l'invadenza del passato regime, che riteneva fra l'altro responsabile di aver mandato a morire in guerra, a vent'anni, il suo unico figlio maschio. Allo stesso modo, però, rifiutava altrettanto nettamente gli ideologismi, l'ansia di irreggimentazione, l'arroganza e l' invadenza dei partiti antifascisti, che considerava una manifestazione di fascismo al contrario piuttosto che del contrario del fascismo. La soluzione qualunquista al problema della frattura fra U P P e uomini qualunque non consisteva nell' identificazione di una terza élite - né fascista né antifascista, e realmente rappresentativa del popolo -, e tanto meno nella formulazione e realizza­ zione di un terzo progetto politico, altrettanto ambizioso, e in prospettiva arrogante e invadente, dei primi due. Giannini rigettava l' idea stessa che la politica potesse essere uno strumento di trasformazione della realtà, e riteneva che alle istituzioni pubbliche dovessero essere affidate funzioni esclusivamente amministrative - tanto da dichiarare, com'è ben noto, che andavano messe nelle mani di un « buon ragio­ niere che entri in carica il primo di gennaio, che se ne vada al 3 1 di dicembre, che non sia rieleggibile per nessuna ragione » 15• La trasformazione anche profonda dello status quo non era né demonizzata né negata, solo era affidata per intero ai mecca­ nismi evolutivi spontanei della società. E la società era concepita individualistica­ mente come un insieme ( una « folla » ) di uomini qualunque, visto che Giannini rifiutava, in quanto mistificazione degli U P P, anche le identità collettive, sociali, nazionali o etniche : Supponiamo che l' Italia dovesse cedere il Veneto alla Jugoslavia, e che la Jugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe, per la Folla ? Niente [ . .. ]. Unico vero cambia­ mento : il prefetto di Venezia sarebbe jugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos' im­ porta all'uomo della Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi ? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco ? 1 6

Per certi versi, dunque, quello di Giannini può essere considerato un populismo particolarmente radicale - strutturalmente e non solo congiunturalmente antipoli­ tico, appunto - perché non rigettava l'élite esistente nel nome di un'élite alternativa, ma denunciava la frattura orizzontale fra UPP e "popolo" proponendo di sanarla con

IS. G. Giannini, L'Uomo qualunque, in "L' Uomo Qualunque", 27 dicembre I944• I, ora in Setta, L'Uomo qualunque, cit., p. 6. I 6. Giannini, La folla, cit., p. IOI.

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la soluzione estrema di uno Stato esclusivamente amministrativo, ossia in buona sostanza negando l'esigenza stessa che vi fosse un'élite politica. Ma era anche un populismo a suo modo liberale, perché non riconosceva alcuna identità collettiva di alcun tipo che potesse mettere in pericolo l'uguaglianza sostanziale di tutti gli uomini qualunque - la loro, per così dire, "qualunquità" -, a qualsiasi classe, razza o nazione . ess1 appartenessero. Il movimento dell ' v� come abbiamo già notato, è durato ben poco, per ragioni sia logiche - la politica dell'antipolitica è un ossimoro evidente -, sia storiche - a partire dal 1947 era pressoché impossibile chiamarsi fuori dalla scelta fra Est e Ovest17• Enfatizzando le fratture ideologiche verticali, insomma, la Guerra fredda ha spinto in secondo piano quelle orizzontali fra élite politica e popolo : l'anticomunismo ha preso il sopravvento sull'anti-antifascismo e, come si è visto clamorosamente nel 1948, i voti antipolitici moderati si sono concentrati sul più moderato dei partiti antifascisti di massa, la Democrazia cristiana. Le elezioni del 1953 tuttavia, dando circa il 6% ai missini e il 7% ai monarchici e facendo fallire il meccanismo della legge maggioritaria, hanno mostrato con chiarezza quanto contingente, provvisoria e reversibile fosse stata quest 'opera di riassorbimento. Tutta la fase di crisi del centrismo, del resto, dal 1953 fino al 1960, è stata segnata dal problema delle destre. Problema per la D C , incerta in una primissima fase (fino alla metà del 1954 circa) se non fosse il caso di raggiun­ gere un accordo strutturale con quelle forze, e da allora in poi intenta a farne piut­ tosto un uso tattico. E problema soprattutto per le destre medesime, sempre in bilico fra la protesta populista e/ o antisistema contro la Repubblica, che portava voti ma anche delegittimazione, e l' integrazione nella Repubblica, che portava via delegitti­ mazione ma anche voti. I fatti del luglio 1960 prima e la nascita del centro-sinistra poi hanno introdotto in questa vicenda una cesura profonda. Sul terreno culturale e ideologico l' anti­ antifascismo è stato espulso dal campo della legittimità repubblicana, ormai sempre più robustamente connotato da una certa interpretazione dell'antifascismo. Sul ter­ reno elettorale e politico, invece, nel tempo i voti antipolitici e moderati si sono venuti almeno in parte riconciliando con la maggioranza di governo, e in particolare con la D C . E tuttavia - per riprendere la celebre espressione che Indro Montanelli usò in occasione delle elezioni del 1976 - lo hanno fatto "turandosi il naso". Quei suffragi insomma hanno avuto in larga misura un carattere congiunturale, opportu­ nistico e strumentale, e hanno implicato un livello assai basso di adesione e legitti­ mazione. La diffidenza nei confronti della Repubblica e l'atteggiamento antipartitico

I7. Lo avevano ben compreso sia Einaudi sia Del Noce. Cfr. L. Einaudi [Sui rapporti tra il partito liberale e il partito dell'uomo qualunque]. manoscritto autografo senza titolo risalente al I946, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia (1943-1947), Olschki, Firenze 2ooi, pp. 238-4I; A. Del Noce, Essenza del qualunquismo, testo risalente alla seconda metà del I94S e non pubblicato all 'epoca, ora in Id., Scritti politici, cit., pp. 48s-92.

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e antipolitico che aveva segnato fin dall'inizio l'anti-antifascismo sono stati anzi confermati se non amplificati dallo scivolamento verso sinistra del sistema politico nazionale - oltre che, naturalmente, dal sempre più visibile degenerare delle ambi­ zioni di governo nella privatizzazione pluralistica delle istituzioni e della spesa pub­ blica. Tanto più che nel frattempo l'evoluzione della situazione internazionale, quella delle istituzioni repubblicane e quella della società italiana, agendo in maniera con­ vergente, hanno portato da un lato all'affievolirsi della contrapposizione ideologica verticale fra i partiti, dall'altro all ' irrobustirsi della contrapposizione orizzontale fra élite politiche e popolo. I processi di mobilitazione sociale e di polarizzazione ideo­ logica degli anni Settanta possono senz'altro essere interpretati anche in questo senso, così come lo possono essere, solo per fare pochi esempi, lo sviluppo del Partito radi­ cale e l'uso dei referendum - e si pensi in particolare a quello per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti del 1978, che ottenne il 43% dei consensi malgrado le forze politiche fossero in larga maggioranza contrarie. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, in conclusione, il fiume carsico dell'anti­ antifascismo si è in larga misura inabissato, trascinandosi appresso il moderatismo antipolitico. Un po' è stato spinto sottoterra dai processi di delegittimazione ideo­ logica, un po' si è ritirato volontariamente, reputando più opportuno, più comodo e anche più remunerativo sostenere i partiti di governo, DC in testa. Non è stato riassorbito dal terreno, però : è rimasto in larga misura intatto in una falda isolata, gonfia d'acqua e di insoddisfazione, pronta a riemergere al momento opportuno.

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Moderatismo antipolitico e berlusconismo

Accresciuto e agitato dall'esplodere di Tangentopoli, e al contempo privato del suo tradizionale alveo sotterraneo, all'inizio degli anni Novanta il fiume carsico dell'an ti­ antifascismo, con la sua "corrente" antipolitica e moderata, è tornato infine in super­ ficie e si è incanalato nel berlusconismo. Spiegare il fenomeno politico impersonato dal Cavaliere significa dunque analizzare in quale modo egli sia riuscito a esprimere questa tradizione, che cosa ne abbia recuperato, come l'abbia ridefinita. Seguendo lo schema presentato nelle pagine precedenti, in questo paragrafo cercheremo di capire quanto vi sia stato nel berlusconismo di antipolitica strutturale, quanto di antipolitica congiunturale, quanto di destra. Il nucleo centrale dell'anima antipolitica del berlusconismo dev 'essere cercato nella sua opera di istintiva ma profonda riconsiderazione del rapporto fra paese legale e paese reale. La storia d' Italia è stata quasi sempre segnata dal prevalere ( teorico, per lo meno ) di progetti in senso lato giacobini che, dando un giudizio seccamente negativo del paese reale, lo mettevano sotto la tutela di un paese legale considerato più progressivo. Il Cavaliere invece ha postulato l'assoluta positività, e perciò l'auto4 11

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noma capacità di modernità, del paese reale, rovesciando la valutazione negativa su un paese legale reputato autoreferenziale, ostile, controproducente. Nel fare questo, e nel modo in cui lo ha fatto, Berlusconi ha rappresentato un unicum in centocin­ quant'anni di vicenda unitaria, e la sua "discesa in campo" ha introdotto una cesura storica profonda: prima di lui, dal Risorgimento a oggi, nessun leader politico di primo piano, capace di vincere le elezioni e salire alla guida del governo, aveva mai osato dire in maniera così aperta, esplicita, sfrontata, impudente che gli italiani vanno benissimo così come sono18• I messaggi positivi e rassicuranti che Berlusconi ha sempre lanciato all' Italia e sull ' Italia, insomma, lo sforzo costante di enfatizzare quel che andava bene e minimizzare quel che andava male, la polemica contro chi rappre­ sentava negativamente il paese, ad esempio denunciando lo sviluppo e la diffusione della criminalità organizzata : in tutti questi casi non si è trattato soltanto di un'ope­ razione di comunicazione politica, né - quando il Cavaliere era al potere - della difesa del suo operato e della richiesta che lo si "lasciasse lavorare", ma del nucleo più profondo di una precisa posizione ideologica e politica. Al di là delle generiche ( ma tutt 'altro che insignificanti ) dichiarazioni di affetto per la Penisola - cominciando dal ben noto «l' Italia è il paese che amo » con il quale non per caso si apre il messaggio televisivo del 26 gennaio 1 9 9 4 che annuncia la sua discesa in campo - gli interventi pubblici di Berlusconi sono pieni di più articolate apologie del paese reale. Già nel suo primo discorso, pronunciato all'inizio di febbraio del 1 9 94 , il tema è stato posto con grande chiarezza19, e gli interventi successivi non hanno fatto che confermare questa impostazione. Se le cose non vanno bene, se il paese è sfiduciato, se gli imprenditori italiani perdono quote di mercato, la colpa non può essere della società civile, ma va piuttosto attribuita alle istituzioni pubbliche e alle élite politiche. Che deprimono il paese moralmente - manifestando sfiducia nei suoi confronti, enfatizzandone i fallimenti e sottacendone i successi, non riuscendo a dargli il senso di uno scopo e di una direzione unitari - e lo ingabbiano I 8. Sul "mito" della società civile, cfr. S. Lupo, Il mito della societa civile. Retoriche antipolitiche nella crisi della democrazia italiana, alle pp. I7-43 del già citato numero monografìco della rivista "Meridiana", Antipolitica. Cfr. inoltre Mastropaolo, Antipolitica, cit., pp. I07 ss. Nel post scriptum di questo libro, Moderni, ma con prudenza (pp. I4I-S3 ) , Mastropaolo critica la propensione italiana ad autoflagellarsi e a voler imitare i modelli stranieri, augurandosi che « dopo una lunga fase d' impazzi­ mento, l' Italia si decida a rinsavire. Ovvero, impari ad accettarsi, ad accettare i suoi limiti, ad accettare la propria storia ». Questo auspicio giunge al termine di un volume che stigmatizza l'antipolitica, anche ma non solo nella sua versione berlusconiana, e difende sostanzialmente la cosiddetta "Repubblica dei partiti", pur senza sottacerne i limiti. Proprio la Repubblica dei partiti, tuttavia, con la sua invadenza, le sue pretese ortopediche e pedagogiche e le sue aspirazioni palingenetiche, ha rappresentato anche (non solo, certo, ma anche) un tentativo di raddrizzare e rieducare un paese ritenuto immaturo e inadeguato rispetto ai modelli stranieri. E l'antipolitica in generale, e quella berlusconiana in partico­ lare, è scaturita anche, forse soprattutto, da una reazione contro questo progetto - ossia esattamente dal desiderio che l' Italia fosse infine accettata così com'era, con la sua storia e i suoi limiti. I9. S. Berlusconi, L'Italia che ho in mente. I discorsi 'a braccio" di Silvio Berlusconi, Mondadori, Milano 2000, pp. 24-s. 412

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materialmente in strutture e regole pesanti, vessatorie, inefficienti20• Pure il tema del « nuovo miracolo italiano » , enunciato anch'esso fin dal discorso del 26 gennaio del 199421, se lo consideriamo in questa prospettiva mostra una consistenza ideologica che va ben oltre il mero dato propagandistico : dichiara l 'avvenuta, piena e definitiva maturazione del paese, che dopo la crescita straordinaria del secondo dopoguerra non può più essere trattato come se fosse ancora arretrato e premoderno ; richiama il contesto di politica economica degli anni Cinquanta, sottolineando implicitamente il ruolo fondamentale che in quel processo di crescita hanno svolto il mercato e l' imprenditoria privata; proietta sul futuro questa interpretazione del passato e del presente. Una volta ribaltata la diagnosi, com'è ovvio, non può che essere capovolta pure la terapia. Visto insomma che se gli italiani non si fidano dell'élite politica e delle istituzioni pubbliche la colpa non va attribuita a quelli ma a queste, le soluzioni non devono più essere cercate nell'adeguamento del paese reale al paese legale, ma, vice­ versa, nell'adeguamento del paese legale al paese reale. Adeguamento che deve avve­ nire su tre livelli, distinti anche se strettamente collegati l 'uno all'altro : le istituzioni e le regole, il modo di fare politica, la selezione e la formazione dell 'élite pubblica. Lo Stato, innanzitutto. Per un verso si tratta di renderlo quantitativamente più leg­ gero, di ridurne il campo di intervento, di fargli fare molte meno cose fatte molto meglio, introducendo una discontinuità radicale rispetto alla vicenda unitaria12• Per un altro verso invece si tratta di renderlo qualitativamente differente, ossia di passare da un « governo arcigno ed estraneo alla vita concreta della nostra gente » a uno « Stato amico [ .. ] al servizio dei cittadini » , che non spaventi gli italiani ma al con­ trario garantisca il loro «diritto di non avere paura » 13. Al centro di questa trasfor­ mazione epocale troviamo un tema cruciale nella retorica del Cavaliere, presente su vari livelli: quello della fiducia. In questo caso il rapporto di fiducia tra istituzioni e popolo, che ci si propone esplicitamente di ricostruire muovendo dalle istituzioni al popolo e non viceversa: gli italiani si fideranno infine dello Stato quando lo Stato darà fiducia agli italiani. Allo stesso modo, gli italiani rispetteranno le leggi quando le leggi rispetteranno .

20. Cfr., ad esempio, Id., La forza di un sogno: i discorsi per cambiare l'Italia, Mondadori, Milano 2004, p. 76 (discorso a Federalberghi del novembre 2000 ) . Sulla depressione morale, cfr. anche il discorso di insediamento al Senato, maggio I994· in Id., Discorsi per la democrazia, Mondadori, Milano 200I, pp. 33-4· 2I. Id., L'Italia che ho in mente, cit., p. 292. 22. Cfr., ad esempio, il discorso al Congresso nazionale dei giovani di FI, tenutosi a Roma nel dicembre I999· ivi, p. I02. 23. Citazioni rispettivamente da: Id., Discorsi per la democrazia, cit., p. 32 (discorso di insedia­ mento al Senato del maggio I994 ) ; Id., L'Italia che ho in mente, cit., pp. 38-9 (discorso di apertura del primo Congresso nazionale di Forza Italia, Milano, I 6 aprile I998 ) ; ivi, p. I 3 I (discorso al Congresso nazionale dei giovani di FI, Roma, I I dicembre I999 ) .

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gli italiani. I discorsi di Berlusconi non contengono apologie dell 'illegalità24• Ma la scelta di pensare l' interazione fra paese legale e paese reale prendendo le parti di quest 'ultimo non può che rovesciare pure l'approccio alla questione secolare del pessimo rapporto della Penisola con le regole. L' illegalità diffusa non proverrà allora da un qualche oscuro difetto antropologico degli italiani, ma dal fatto che le leggi sono farraginose, incomprensibili, irragionevoli, vessatorie. E l 'evasione fiscale non sarà il frutto di egoismo e avidità diffusi, ma del fatto che le tasse sono troppo alte, in assoluto e rispetto al livello dei servizi che dovrebbero finanziare5• In conclusione, sarà non solo vano ma anche sbagliato cercare di risolvere i problemi del paese rie­ ducandolo - si pensi piuttosto a tagliare le tasse e a semplificare e mitigare le leggi, perché « quando lo Stato ti chiede una cosa che senti giusta, sei il primo a voler restare in pace con lo Stato e con la tua coscienza » 26• Il secondo dei terreni sui quali il paese legale andrà adeguato al paese reale è quello della maniera di fare politica. A uno Stato più piccolo e mite dovrà innanzi­ tutto corrispondere una politica anch'essa meno invasiva e ambiziosa, finalizzata a stimolare e a sostenere, non a guidare e tanto meno a sostituire, l'attività spontanea della società civile. La politica, poi, dovrà essere assai meno concentrata su sé stessa, sulle proprie divisioni ideologiche interne e sullo scontro per il potere - sulla politics, per dirla in inglese, o sulla politique politicienne, se si preferisce invece l 'espressione francese -, e molto di più sulle policies, sulle concrete iniziative di gestione della comunità: una politica diversa da quella « delle baruffe, delle parole, delle chiacchiere, dei veti incrociati, dei vecchi rancori, delle trattative sotto il tavolo » , concepita piuttosto « come politica del realizzare, del fare, del fare le cose » . Infine, la politica non potrà parlare un linguaggio diverso da quello semplice, concreto, ricco di senso comune degli uomini qualunque7• n terzo e ultimo ambito di intervento - ultimo per ordine di presentazione in questa sede, ma non certo per importanza - è quello della formazione e della selezione dell'élite pubblica. L'approccio berlusconiano alla questione deriva in maniera del tutto naturale da quel che s'è detto finora, e il suo profùo generale è del resto ben noto : il rovescia24. «Noi le tasse le paghiamo, le abbiamo pagate e continuiamo a pagarle [ ... ] . Se siamo qui, è perché siamo contribuenti onesti, cittadini leali», afferma ad esempio nel I997 (Berlusconi, Discorsi per la democrazia, cit., p. 267, discorso pronunciato a Milano in piazza Duomo il 3 maggio I997 ) . E cinque anni dopo ribadisce: «Un'altra grande sfida che ci deve vedere tutti impegnati è quella contro il sommerso. In una società civile non si può tollerare che esistano imprese che operano al di sotto dei confini della legalità » (Id., Laforza di un sogno, cit., pp. 250-I, discorso pronunciato alla Confindustria, Parma, I3 aprile 2002). 25. Nei discorsi di Berlusconi questa tesi è ricorrente. È espressa in forma più compiuta in G. Tre­ monti, Lo stato criminogeno. Lafine dello stato giacobino. Un manifèsto liberale, Laterza, Roma-Bari I997· 2 6. Berlusconi, L'Italia che ho in mente, cit., pp. I49-so (discorso alla prima Assemblea nazionale di Azzurro Donna, Sanremo, 28 marzo I 99 8) . 27. Cfr. ad esempio ivi, p. 20; Id., La forza di un sogno, cit., pp. 2I I-2. Ma le citazioni potrebbero essere innumerevoli.

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mento del rapporto fra Stato e popolo da un lato e del modo di fare politica dall'altro deve accompagnarsi alla creazione di una nuova classe politica che provenga diretta­ mente dalla società civile, fatta di persone «esperte più della vita e delle sue durezze che non delle malizie della politica di palazzo »28, il cui archetipo è costituito ovviamente dal Cavaliere medesimo. Del resto, se la società civile è il deposito di tutte le virtù, è evidente che la "buonà' politica non può attingere altro che da essa. Nei discorsi di Berlusconi questo tema torna di continuo, collegato di volta in volta con questa o quella argomentazione ulteriore. Spesso con la polemica contro la partitocrazia e i politici di professione, rispetto ai quali Forza Italia pretende di essere un movimento del tutto nuovo: «Dobbiamo restare una forza viva della società, non dobbiamo diventare un partito, un partito burocratico » . Oppure con il problema dell'efficienza dell'apparato pubblico, e della sua capacità di concentrarsi sulle esigenze reali del paese: «Qualcuno ha fatto lo spiritoso sulla "cultura delle fabbrichette': citando i ministri del Bilancio e dell' Industria; gli rispondo che le "fabbrichette" sono talvolta più utili delle officine in cui si forgiano le "parolette" » ; «Noi sappiamo come rilanciare l'economia dell' Italia! [applausi] Non c'è nessuno in Italia che possa fare questa promessa, che possa fare questa affermazione con più credibilità e con più autorevolezza di chi la sta facendo in questo momento ! [applausi] » 29• O, ancora, con la questione della moralità dell'élite pubblica. L'antipolitica berlusconiana, in conclusione, per come l'abbiamo descritta nelle pagine precedenti, ha alcune componenti congiunturali e alcune componenti strut­ turali. Da un lato chiede una politica diversa: più mite e fiduciosa negli italiani, meno autoreferenziale e più attenta al "fare", gestita da un'élite che provenga dalla società civile. Dall'altro pretende però anche (soprattutto) meno politica: uno Stato che possegga, gestisca e regoli di meno, più piccolo e perciò più efficiente; una politica che smetta di colonizzare ambiti non naturalmente politici con le proprie logiche e i propri uomini, e anzi accetti in una certa misura di essere essa stessa colonizzata da logiche e uomini provenienti da quegli ambiti. Anche quando il suo atteggiamento si fa strutturalmente antipolitico, a ogni modo, il berlusconismo assume di rado dei toni ultimativi. Non nega insomma radicalmente qualsiasi spazio e qualsiasi auto­ nomia alla dimensione politica - la vuole comprimere, certo, ma non annullare. Più che di antipolitica, perciò, nel caso del berlusconismo bisognerebbe forse più corret­ tamente parlare di una forma di ipopolitica. Un' ipopolitica, per altro, che definisce sé stessa e trova spazio per reazione a una tradizione italiana non di rado iperpolitica. 28. Id., Discorsi per la democrazia, cit., pp. 33-4 (discorso di insediamento del governo al Senato, I6 maggio I994 ) . Secondo Donatella Campus (L'antipolitica al governo, cit.) il principale elemento antipolitico del berlusconismo consiste proprio nella richiesta di una nuova élite politica formata diversamente da quelle del passato. 29. Berlusconi, L'Italia che ho in mente, cit., p. I40 (discorso alla prima Assemblea nazionale di Azzurro Donna, Sanremo, 28 marzo I998 ) e p. 23 ( il primo discorso, Roma, Palafìera, 6 febbraio I994 ) per la prima e la terza citazione; Id., Discorsi per la democrazia, cit., p. s8 (replica alla Camera, 2o maggio I 994 ) per la seconda. 4 15

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Il progetto ipopolitico berlusconiano - antistatalista, fondato sulla "santifica­ zione" della società civile e della sua capacità di governarsi da sé, interamente volto contro la partitocrazia antifascista e la sua iperpolitica - ha trovato nelle destre anti­ antifasciste il suo retroterra naturale. In questo bacino poi - diversamente dalla D C , che ci pescava in abbondanza ma non riusciva a esprimerne compiutamente le cul­ ture - Berlusconi si è tuffato con autentico piacere, cercando di rappresentarlo appieno, non solo politicamente ma anche ideologicamente. Insomma, anche se si ritiene che il berlusconismo sia stato creato a tavolino con un'operazione di marketing politico, a partire dall'identificazione di uno spazio elettorale disponibile, resta dif­ ficile negare che il Cavaliere sia stato davvero, profondamente organico ad alcune almeno delle componenti dell 'articolato mondo delle destre an ti-antifasciste. Se lo osserviamo ora più da vicino, e lo analizziamo tenendo presenti le considerazioni di lungo periodo che abbiamo sviluppato in precedenza, il rapporto fra il berlusconismo e quel mondo lo troviamo fatto di tre strati sovrapposti. Il primo è fatto di anticomunismo. È piuttosto comune negli studi dedicati al fenomeno berlusconiano inserire, quando si parla della sua robusta componente anticomunista, un'altrettanto robusta nota ironica: ma dove sarà stato mai, soprat­ tutto dopo la caduta del Muro e il collasso dell' impero sovietico, questo benedetto comunismo ? E un' ironia mal posta, il cui valore polemico è indubbio ma che rende la comprensione del berlusconismo pressoché impossibile. Il fenomeno richiede invece di essere preso sul serio, se non altro perché sul terreno dell 'anticomunismo il Cavaliere si è trovato in sintonia profonda con una fascia assai ampia dell'eletto­ rato30. Questa sintonia è stata alimentata innanzitutto dalla constatazione che l'av­ vento al potere dei postcomunisti avrebbe portato a compimento un paradosso : quello per il quale il Muro « anziché sulla testa degli sconfitti » era caduto « sulla testa dei vincitori » 31. Un esito ritenuto assurdo per un verso - ed è il dato più scontato - a motivo delle robuste e profonde persistenze ideologiche di una Guerra fredda che in definitiva si era conclusa da qualche anno soltanto, e che in Italia non era stata certo avara di faziosità. Il fatto che la "minaccia" comunista a livello inter­ nazionale fosse venuta meno non rendeva meno indigesto il trionfo degli avversari di un tempo, insomma, tanto più perché li si riteneva sconfitti dalla storia. Per un '

30. Cfr. ad esempio molte delle e-maU che sono state spedite a Berlusconi convalescente dopo U colpo subito in piazza Duomo U I3 dicembre 2009, e pubblicate in S. Berlusconi, L 'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio, Mondadori, Milano 20IO. La sintonia fra U Cavaliere e U suo elettorato sul tema dell'anticomunismo è generalmente confermata dalla letteratura politologica sulle elezioni e i flussi elettorali. Sull'anticomunismo nell' Italia repubblicana, cfr. R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano (I9JO-Ig 6o): lineamenti di una storia, in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea, U Mulino, Bologna 2003, pp. 263-334· 3I. Berlusconi, L'Italia che ho in mente, cit., p. 79 (discorso nel decennale della caduta del Muro, Roma, 9 novembre I999).

L 'ANTI P O L I T I CA DEI M O D ERAT I . DA L QUALUNQUISMO AL BERLUSCONISMO

altro verso, invece, a rendere insostenibile quell'esito paradossale ha contribuito il modo nel quale una parte del paese ha vissuto, e letto, il collasso della Repubblica dei partiti. La componente anti-antifascista dell 'opinione pubblica ha senza alcun dubbio sostenuto l'operazione Mani pulite, vedendo nell'operato dei giudici la denuncia del fallimento e della degenerazione delle velleità ortopediche e pedagogiche della Repubblica e del potere politico vessatorio, autoreferenziale e particolaristico che ne era scaturito. Naturalmente quella componente ha anche preferito dimenticare quanto la degenerazione l'avesse avallata con il suo voto, dato magari a naso chiuso ma dato, e quanto ne avesse approfittato. Anche se non è stata certo l'unica a farlo. Appoggiata con entusiasmo l'azione dei magistrati nella sua pars destruens, a ogni modo, l'an ti-antifascismo si è spostato in larga maggioranza su posizioni via via sempre più critiche e dubbiose quando di quell'azione ha cominciato a configurarsi - sebbene in maniera assai confusa e contraddittoria - una possibile pars construens. Insomma, quando è apparso evidente che, diversamente dai partiti di governo, i postcomunisti sarebbero riusciti a sopravvivere al terremoto giudiziario, e si stavano perciò avviando a egemonizzare la fase di ricostruzione del sistema politico nazionale. Un esito che nei quartieri dell'an ti-antifascismo era considerato tanto più ingiusto poiché vi si nutriva la ferma convinzione che il Partito comunista non fosse stato per niente estraneo al sistema di potere repubblicano, e fosse pertanto corresponsabile della sua degenerazione. E, più nello specifico, che avesse partecipato appieno ai meccanismi del finanziamento illegale dei partiti - se di quei meccanismi non era addirittura stato la causa prima, avendo alzato a dismisura nei decenni della Guerra fredda la posta dello scontro politico, e avendone distorto i termini grazie alle cospicue risorse economiche provenienti da Oltrecortina32• Queste ultime considerazioni ci portano direttamente a una seconda caratteristica dell'appello anticomunista che il Cavaliere ha rivolto ai suoi elettori: il fatto che quell'appello si sia integrato compiutamente dentro il quadro ideologico che siamo venuti presentando finora - bontà della società civile, antistatalismo, ipopolitica. L'avversione per i partiti nati dal P C I ha rappresentato insomma una conseguenza naturale dell'opposizione originaria ai disegni ortopedici e pedagogici della Repub­ blica antifascista, i postcomunisti essendo considerati gli eredi di quello che potremmo definire l'"arcipartito", ossia il più ortopedico-pedagogico e antifascista dei partiti. Accanto all'anticomunismo di derivazione "storica" - radicato per un verso nel pas­ sato più remoto della Guerra fredda, per un altro nel passato recente di Tangento­ poli - ce n'è dunque stato un altro più immediatamente politico-ideologico, immerso per intero nel presente: 32. Come avrebbe notato lo stesso Berlusconi: « Il rapporto tra politica e affari degenerò quindi per la necessità dei partiti democratici di fronteggiare un partito ami-sistema come il P C I, che poteva contare sul sostegno finanziario di Mosca » (ivi, p. 8I ) . 4 17

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Il loro credo è il centralismo, il dirigismo, lo statalismo, ovvero il contrario del nostro, che è la sussidiarietà [ ... ] . Da questo loro credo deriva l' idea dello Stato che fa tutto, che controlla tutto, che vuole sapere tutto, che regolamenta tutto, lo Stato professore, lo Stato medico, lo Stato maestro, insomma uno Stato che è esattamente l'opposto di quello a cui pensiamo noi: uno Stato che si occupa soltanto, ma bene, dei servizi essenziali, e che lascia libertà totale per tutto il resto ai suoi cittadinP\

L'avversione per l' "arcipartito", infine, si è specchiata nella terza componente dell'an­ ticomunismo berlusconiano, forse la più importante, e anch'essa capace di vivere indipendentemente dal quadro ideologico della Guerra fredda: la denuncia del "superclan". Luciano Cafagna ha illustrato come meglio non si potrebbe le radici della "diversità positiva" del Partito comunista italiano : Il successo comunista si spiega, per gran parte, con il fatto che questo partito sembra offrire una risorsa particolarmente rara e particolarmente apprezzata in una società che è ritornante [sic] preda di auto-recriminazioni come quella italiana [ . . . ] . Cosa è quella "risorsa" scarsa? È il senso dell'organizzazione. E la serietà nel rapporto fra il dire e il fare. E l' impegno disciplinato in ciò per cui, nella società, a qualsiasi titolo, si è chiamati a operare34• '

'

Questa diversità positiva, tuttavia, si è specchiata in una diversità negativa, determi­ nata per un verso dalla distanza ideologica dei comunisti dalla democrazia liberale, per un altro dall'assolutizzazione degli interessi del partito. Così prosegue Cafagna: « È il mito - bello e affascinante - del "Moderno Principe" di Gramsci, che, come quello vagheggiato da Machiavelli agli inizi del Cinquecento, potrà salvare l ' Italia. E poiché deve salvare, come ogni salvatore, diviene il punto di riferimento di tutto, cui altre esigenze si possono sacrificare » . Il collasso dell' Unione Sovietica, se ha fatto definitivamente cadere la componente ideologica di questa diversità negativa, agli occhi di settori rilevanti dell'opinione pubblica anti-antifascista non ne ha affatto intaccato l'altra componente, quella - per così dire - "partitica". La fine del comu­ nismo, insomma, per molti non ha comportato affatto la fine dei comunisti come gruppo di potere robusto e aggressivo, settario e autoreferenziale, assai poco laico sul piano intellettuale né pluralista nella gestione del potere. Su questa terza linea di anticomunismo i discorsi di Berlusconi sono tornati di continuo, denunciando la sovraordinazione del partito alla coscienza individuale, negando che vi sia alcunché di positivo nella diversità dei postcomunisti ( «Noi non riconosciamo in voi nessuna superiorità morale. Non siete affatto la parte diversa, la parte sana, la parte migliore del paese, come ancora cercate di far credere » )35, e soprattutto insistendo molto sul 3 3· lvi, p. 83. 34· L. Cafagna, La grande slavina. L'Italia verso la crisi della democrazia, MarsUio, Venezia I993· p. 6s. 35· Berlusconi, L'Italia che ho in mente, cit., p. 96 (discorso nel decennale della caduta del Muro, Roma, 9 novembre I999).

L 'ANTI P O L I T I CA DEI M O D ERAT I . DA L QUALUNQUISMO AL BERLUSCONISMO

tema della menzogna, ossia sull 'approccio strumentale alla verità che a suo avviso avrebbe caratterizzato il "superclan". Al di sotto dell 'anticomunismo poi, come si accennava in precedenza, il rapporto fra berlusconismo e anti-antifascismo si è venuto strutturando su due livelli ulteriori: da un lato quello della destra ideologicamente multiforme - in parte conservatrice, in parte liberale, in parte impolitica e benpensante, in parte qualunquista, in parte tutte queste cose insieme in percentuali variabili - che all'inizio degli anni Sessanta, con l'avvento del centro-sinistra, era stata esclusa culturalmente dalla Repubblica, pur restandovi politicamente inclusa; dali' altro quello del postfascismo. Come già ho avuto modo di accennare, questo terzo "strato" dell'an ti-antifascismo è struttural­ mente diverso dai due precedenti. Parte di questa differenza emerge dagli stessi discorsi di Berlusconi, là dove il Cavaliere nota con soddisfazione come Alleanza nazionale abbia «lasciato ormai dietro di sé quel carico di centralismo, di dirigismo, di giustizialismo, che contraddistingueva il suo passato » 36• Molti commentatori del resto hanno enfatizzato la distanza fra una Forza Italia settentrionale e liberale e un'Alleanza nazionale statalista e meridionale. Questa contrapposizione, però, rap­ presenta solo una parte di una storia più ampia e complessa. Sebbene nei decenni postbellici il Movimento sociale abbia spesso fatto ricorso ai toni dell'antipolitica, e sia stato per altro un partito ideologicamente segmentato al proprio interno, nella sua matrice culturale è rimasta pur sempre robusta l' impronta iperpolitica che aveva segnato il fascismo, e a maggior ragione la Repubblica di Salò. Alleanza nazionale di conseguenza, e per un paradosso solo apparente, è apparsa fin da subito meno incom­ patibile con la cultura antifascista di quanto non lo fosse Forza Italia: perché ne ha condiviso la matrice "novecentescà', là dove il partito di Berlusconi si è proposto invece di essere in larga misura postnovecentesco.

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Conclusioni. Il moderatismo antipolitico italiano fra qualunquismo e berlusconismo

Il qualunquismo (per lo meno nella concezione che ne ebbe Giannini) può essere considerato per tanti versi il più prossimo precursore del berlusconismo : teorizza la natura assolutamente positiva della società e la sua autonoma capacità di progresso ; concepisce quella società come un insieme di individui e non come un'entità orga­ nica, storica o etnica; riduce gli spazi della politica e dello Stato ai minimi termini. L' uQ però è stato una meteora minoritaria, mentre i partiti del Cavaliere hanno vinto elezioni, sostenuto governi, segnato la storia del paese per diciotto anni 36. lvi, p. 6 s (discorso di apertura del primo Congresso nazionale di Forza Italia, Milano, I6 aprile I998 ) .

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( almeno ) . Le divergenti fortune dei due movimenti, naturalmente, sono spiegate almeno in parte dalle differenze strutturali fra l'uno e l'altro : il qualunquismo è stato un fenomeno meridionale, il berlusconismo settentrionale, anzi lombardo, e il Cava­ liere ha potuto disporre di risorse comunicative, organizzative e finanziarie che il povero Giannini nemmeno si sognava. Per un altro verso, però, l' insuccesso del qualunquismo e il successo del berlusconismo possono essere compresi alla luce sia del loro differente contesto storico, sia del loro diverso rapporto con la politica. Come già all'epoca avevano ben visto Luigi Einaudi e Augusto Del Noce, rifiu­ tare la politica in un momento di decisioni politiche dirimenti quale l'esordio della Guerra fredda era una scelta necessariamente perdente - e non fu certo un caso, perciò, se per risucchiare i voti qualunquisti la D C utilizzò l'anticomunismo. Soste­ nere la via dell ' ipopolitica dopo il crollo del Muro e in piena fase ascendente dei processi di globalizzazione è stato in ben maggiore sintonia con lo spirito dell'epoca. Se i due fenomeni li osserviamo contro lo sfondo della storia d ' Italia, poi, per il tempo in cui si è presentato, il berlusconismo appare avere avuto almeno altri due vantaggi macroscopici rispetto al qualunquismo. In primo luogo, affermare il carat­ tere integralmente positivo, l'autosufficienza e l'autonoma capacità di progresso della società italiana era assai meno implausibile negli anni Novanta del Novecento di quanto non lo fosse mezzo secolo prima. Il richiamo retorico al "nuovo miracolo italiano" tanto caro al Cavaliere, insomma, al povero Giannini, per ovvie ragioni, non era disponibile. In secondo luogo - e soprattutto - nel 1945-48 non era ancora stata tentata, e non era ancora affondata con Tangentopoli, la democrazia dei partiti. Era stata battuta la via del regime rappresentativo oligarchico a guida borghese, e non aveva retto all'impatto dei processi di democratizzazione e all'uragano politico sollevato dalla Grande guerra. Era stata battuta la via del regime monopartitico di massa, che era finito divorato dalle sue stesse ambizioni ideologiche. Ma quella del regime rappresentativo e pluralistico a suffragio universale era un'opzione ancora inedita - se si eccettuano i pochi e tormentatissimi anni racchiusi fra la Grande guerra e il fascismo. A coloro i quali sostenevano l'antipolitica, insomma, all 'indo­ mani del secondo conflitto mondiale si poteva replicare che una certa politica - una politica da democrazia matura - l' Italia non l'aveva ancora mai conosciuta. Nel 1994 questa risposta non era più disponibile. La comparazione con il qualunquismo ci aiuta così a evidenziare quanto importante sia stato, per il successo del berlusconismo, il suo essersi presentato all' indomani del collasso apparentemente definitivo di una tradizione ortopedica e pedagogica vecchia per lo meno quanto l' Italia unita, e fon­ data sulla convinzione che la politica fosse più avanzata del paese e rappresentasse per esso l'unica speranza di modernità. Il Cavaliere insomma non ha approfittato solo del vuoto elettorale e politico apertosi con Tangentopoli, ma pure di una crisi ben più profonda e strutturale presentatasi nella trama storica dell ' Italia unita. Lo spazio che gli si era reso disponibile, inoltre, il Cavaliere ha cercato di riem­ pirlo con una proposta politica ben più coerente e a suo modo ideologica di quanto 4 20

L 'ANTI P O L I T I CA DEI M O D ERAT I . DAL QUALUNQUISMO AL BERLUSCONISMO

non si sia spesso riconosciuto. Abbiamo sostenuto nelle pagine precedenti che il berlusconismo deve essere considerato piuttosto ipopolitico che antipolitico. La politicità del berlusconismo - e in questo caso per altro politicità piena, non dimez­ zata o attenuata - può essere riconosciuta anche osservandolo da un altro punto di vista. Pierre Rosanvallon ha definito l'impolitica come un «défaut d'appréhension globale des problèmes liés à l'organisation d'un monde commun » 37 - o, per dirla altrimenti, come un atteggiamento di sospetto nei confronti della politica in virtù del quale si può esser capaci di esercitare controllo e critica su aspetti specifici della vita pubblica, ma non di generare una visione complessiva delle esigenze dell'intera comunità e di come sia possibile tutelarle. Bene: se questa è l 'impolitica, il berlusco­ nismo allora è stato altamente politico. Al netto delle incoerenze anche notevoli che lo hanno caratterizzato - come caratterizzano però qualsiasi fenomeno politico, tanto più se dura a lungo -, e restando sempre sul terreno ideologico, esso ha affrontato i problemi dall' interno di una prospettiva globale, e ha offerto agli italiani un' ipotesi forte di organizzazione di un mondo comune. La sua forza, insomma, è consistita nella sua capacità, diversamente dal qualunquismo, di politicizzare l 'antipolitica.

37· Rosanvallon, La contre-démocratie, cit.,

pp.

27-8.

4 21

Forza Italia : un partito unico* di Gianfranco Baldini

I

Introduzione

Forza Italia ( FI ) è un partito unico nel panorama mondiale, per genesi, struttura e modalità di funzionamento. Nasce a seguito di un altro evento di portata straordinaria, il crollo dei partiti che avevano governato nei precedenti cinquant'anni. Travolti dalle inchieste di Tangentopoli, in tredici mesi, fra le elezioni politiche del 1992 e le ammi­ nistrative del maggio 1993, i quattro partiti al governo - D C , P S I , PLI e P S DI - nei 99 grandi comuni al voto crollano dal 5 4 al 23%1• FI sorge come movimento, si vuole erede della Democrazia cristiana ( ne ) , pur recuperando di quest'ultima quasi solo l'anticomunismo dei primi anni. Ma è soprattutto un partito carismatico dominato dal suo leader, Silvio Berlusconi, che dopo meno di quindici anni di vita ne decreta il passaggio al Popolo della libertà ( PDL ) . Forza Italia è Berlusconi, che domina il partito come nessun altro leader europeo dell'epoca contemporanea. Tale dominio si deve alla combinazione di diversi ingre­ dienti: il suo carisma personale, la presenza di una rete organizzativa e mediatica senza confronti (nel settore pubblicitario, televisivo e cinematografico, nella carta stampata e nell'editoria, nella finanza come nel campo assicurativo), l'intolleranza al dissenso interno all' insegna di una gestione verticistica. Combina quindi i tratti del carisma con quelli del patrimonialismo. Il partito non riesce a istituzionalizzarsi, e la stessa modalità (il famoso "discorso del predellino") con cui si prospetta la sua fusione con Alleanza nazionale è indicativa del suo carattere personalistico. L'ano­ malia organizzativa è un punto chiave di quello che venne definito un "partito di plastica": nella sua storia si tengono due soli congressi, il leader nomina direttamente i coordinatori regionali e le tradizionali procedure bottom-up dei partiti di massa sono limitate ai livelli locali, e comunque largamente incanalate dall'alto. * li saggio è stato scritto nel 20I3, prima della scissione del Popolo della libertà e della ricostitu­ zione di Forza Italia. I. A. Di Virgilio, Elezioni locali e destrutturazione partitica. La nuova legge elettorale alla prova, in "Rivista Italiana di Scienza Politica", I994· I, pp. I07-65.

G IANFRANC O BALDINI

Questo scritto analizza il partito partendo dalle origini, dagli anni cioè nei quali si pongono le basi per la nascita del berlusconismo, per interrogarsi sulla sua natura e su un primo bilancio della sua esperienza, sebbene senza alcuna pretesa di esaustività. Poi, seguendo lo schema sull'analisi organizzativa dei partiti proposto da Katz e Mair\ analizza le tre facce del partito : il partito sul territorio (Party on the Ground) , gli organi centrali (Party in Centra/ O.!Jìce) e la loro proiezione nelle istituzioni statali (soprattutto governo e Parlamento, Party in Public O.!Jìce) . Tutte legate indissolubilmente da una dipendenza ideologica, organizzativa e finanziaria dal leader. Vedremo che FI non sfugge, ma in qualche modo estremizza, la ten­ denza nei partiti contemporanei di marginalizzazione della prima faccia rispetto alle altre due. Ciò non può far però dimenticare il cruciale ruolo sistemico di F I , come partito federatore del centro-destra. Non c 'è alcun dubbio che Berlusconi riveli, nei mesi precedenti le elezioni del 1 9 9 4 , tutto il suo talento e la sua intelligenza politica, con la costruzione delle alleanze a geometria variabile (con la Lega Nord di Umberto Bossi al Nord e con il Movimento sociale-Alleanza nazionale di Gianfranco Fini al Centro-Sud) . Sfruttando la fondamentale rete territoriale che fa capo a due delle sue aziende - Fininvest e Publitalia - e mediando in modo abile tra protagonisti molto distanti, riesce in due mesi a mettere insieme un'alleanza che fino a quel momento sembrava impossibile, condannando alla marginalità gli eredi della D C . Tutt'altra storia - che qui si può solo accennare - è quella dei due altri aspetti cruciali sui quali FI aveva attratto consensi da parte di chi auspicava un cambiamento politico forte in Italia: la riforma delle istituzioni e una svolta in senso liberale, che riducesse il peso dello Stato, le tante sacche di assistenzialismo, le numerose rendite di posizione della Prima Repubblica.

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Perché Forza Italia

Su quale terreno si colloca la nascita del partito ? Ci sono almeno tre ingredienti, profondamente collegati tra loro, che contribuiscono a spiegare il successo di Berlu­ sconi: il mutamento culturale degli anni Ottanta, il crollo del sistema partitico, le qualità e il profilo particolare del leader. Un quarto ingrediente - che qui non si può approfondire - riguarda i forti limiti degli avversari, che hanno di fatto favorito il successo di Forza Italia: dall' incomprensione del berlusconismo3 allo snobismo e 2. R. Katz, P. Mair, Changing Models ofParty Organization and Party Democracy: The Emergence of the Carte! Party, in "Party Politics", I, I995· I, pp. 5-20. 3· E. Berseli i, Politica e karaoke, in P. lgnazi, R. S. Katz (a cura di), Politica in Italia. Ifatti dell'anno e le interpretazioni, il Mulino, Bologna I995· 4 24

F O RZA ITALI A : UN PART I TO UNI C O

senso di superiorità morale\ fino all'ossessiva ripetizione di refrain antiberlusconiani non seguiti da coerenti ed efficaci strategie politiche. Non si possono stabilire nessi diretti tra il mutamento culturale che precede la nascita di Forza Italia e il modo in cui questo partito ne approfitta. La politica è complessa e se Berlusconi è stato in molti suoi slogan maestro di comunicazione, con tutto l ' indotto di semplificazioni e facilonerie, il retro terra culturale su cui si costruisce il suo successo ne è appunto solo uno degli ingredienti, benché molto importante. Se a metà del 1986, una vignetta di Chiappori sull'ennesima crisi di governo in cui il presidente della Repubblica Francesco Cossiga diceva che «la solu­ zione ideale sarebbe un monocolore socialista con l'appoggio esterno di Berlusconi » 5 aveva ancora un sapore di fantapolitica, è indubbio che quegli anni videro l'instaurarsi di un ferreo patto di collaborazione fra un sistema politico sempre più in affanno e in cerca di legittimazione presso gli elettori, e quello televisivo, distinto fra i vecchi vincoli di obbedienza propri di un sistema pubblico e i nuovi legami di interesse della nuova emit­ tenza privata6 •

Le radici di FI affondano quindi negli anni Ottanta, quando si diffonde anche un crescente clima di sfiducia nella politica7: nei confronti dei partiti, ma pure delle istitu­ zioni politiche più in generale. Nel Triveneto, tra il 1972 e il 1990, crolla il livello di identificazione con la D C : dal 39,8 al 19%8• E in tale contesto che si collocano la nascita e il rapido successo della Lega Nord, che riesce a dare rappresentanza a domande ( meno tasse, burocrazia e assistenzialismo) a cui la DC non è in grado di rispondere, su un terreno nel quale ben presto insisterà anche F I . In cinque anni, tra il 1985 e il 1990, l'interesse per la politica si dimezza9; nello stesso tempo aumentano l'astensionismo elettorale e il voto - o la disponibilità al voto - per formazioni minori, oltre che la frammentazione della rappresentanza sindacale10• Segnali che il sistema partitico tradi­ zionale, mentre stava cambiando - lentamente e tardivamente - per la spinta esogena del crollo del Muro sul versante dell'opposizione, dal lato del governo non si dimostra in grado di cogliere. In questo, la comune sorte di disgregazione che toccherà ai partiti '

4· L. Ricolfì, Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2ooS, Longanesi, Milano 2008. S· G. Crainz, Autobiografia di una repubblica, Donzelli, Roma 2009, p. I56. 6. E. Novelli, Forza Italia: origini, trionfo e declino del partito televisivo, in "Comunicazione Polinca , s. 2004, I, pp. I 43-S4 · 7· Riprendo in questa sezione alcuni punti trattati in modo più esteso in G. Baldini, G. Legnante, La decima legislatura. Sulla soglia del cambiamento, in L. Ricolfì, B. Loera, S. Testa (a cura di ) , Italia al voto. Le elezioni politiche della Repubblica, U T ET, Torino 20I2, pp. 30I-22. 8. L. De Sio, Il rapporto tra gli italiani e i partiti: declino o transizione?, in M. Maraffi ( a cura di ) , Gli italiani e la politica, il Mulino, Bologna 2007, p. I47· 9· P. lgnazi, Il potere dei partiti, Laterza, Roma-Bari 2002, p. I27. IO. Ibid. .

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di governo è indicativa della cecità e sordità della classe politica, che preferisce crogiolarsi nei fasti della craxiana Milano da bere del decennio precedente, piuttosto che affrontare - pur non potendoli più guidare - i mutamenti in corso. La società è in movimento. Secondo i dati di una ricerca Eurisko, tra il 1986 e il 1992 aumenta in modo consistente la percezione che sia necessario limitare il potere dei partiti (dal 24,4 al 37,4%), lottare contro la corruzione nello Stato (dal 64,9 al 73,7% ), avere servizi pubblici e sociali più efficienti (dal 55,8 al 65,8% ) Questi cam­ biamenti sono però meno eclatanti di quelli che riguardano il boom dei consumi: nello stesso lasso di tempo, il possesso della TV a colori aumenta dal 70,8 al 95,6%, del videoregistratore dal 3 ,5 al 45,4%, del computer dal 9,4 al 18,7%12• E nella nascita di nuovi stili di consumo che si colloca lo sviluppo del network di televisioni commerciali di Berlusconi, che conosce un consolidamento decisivo grazie al sostegno politico di Bettino Craxi : dopo che un decreto del 1984 aveva permesso alla Fininvest di aggirare il divieto di trasmissione a livello nazionale delle televisioni private, la cosiddetta "legge Mammì" (legge 6 agosto 1990, n. 223) , è una svolta fondamentale nella guerra in corso da ormai un decennio su editoria e televi­ sione13. La vittoria di Berlusconi nel lungo braccio di ferro sul controllo della Mon­ dadori e la sua conquista del monopolio delle TV private sancita dalla legge Mammì sono cruciali per la grande crescita dell'ascolto televisivo : secondo i dati Auditel, tra il 1988 e il 1992, a fronte di un aumento di 11 minuti di ascolto quotidiano per i canali RAI (da 82 a 93), l'aumento per quelli Fininvest è doppio (da 65 a 87)14. E una società sempre più individualista, in cui si diffonde la percezione che "privato è bello", in cui esplode la soggettività, ma allo stesso tempo i giovani conti­ nuano a restare in famiglia fino a 30 anni e oltre. In cui prosegue senza sosta il trend di secolarizzazione: nel decennio tra il 19 81 e il 1991 aumenta di quasi 6 punti per­ centuali il tasso di matrimoni civili15. Una società attraversata da pulsioni contrastanti: superato il radicalismo degli anni Settanta, con l'onda lunga dell"'edonismo reaga­ niano" sembra profilarsi un riflusso antipolitico veicolato da nuovi modelli di "fami­ lismo individualista". Così i partiti cercano di occupare tutti gli spazi possibili nello Stato, mentre perdono inesorabilmente i loro legami con una società depoliticizzata e stanca dell 'immobilismo. Nel 1987 "Forza Italia" era stato lo slogan della campagna elettorale della D C . Ma, per il resto, fino ad allora i partiti erano prima comunisti, socialisti, repubblicani ecc., poi "italiani". Un nome come Forza Italia, scelto di persona da Berlusconi e n.

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I I. R. Biorcio, Cittadini e politica negli anni novanta, in M. Livolsi, L'Italia che cambia, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. I3S· 12. R. Biorcio, R. Maneri, Consumi e societa: dagli anni Ottanta agli anni Novanta, in Livolsi, L'Italia che cambia, cit., p. 188. 13. Baldini, Legname, La decima legislatura, cit. 14. P. Ginsborg, Italy and Its Discontents, Penguin, London 2003, p. 332. IS. R. Cartocci, Fra Lega e Chiesa: l'Italia in cerca di integrazione, il Mulino, Bologna 1994, p. 174.

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restato a lungo prima della presentazione, non era pensabile in un paese imbrigliato dalla Guerra fredda e segnato dalla morte della patria16• La risposta all'interrogativo "perché Forza Italia ?" continua però a dipendere ancora molto dalla prospettiva con cui si osserva il fenomeno. È difficile, in altre parole, trascendere dal contesto polarizzato che ha dominato gli ultimi anni, con lo scontro al calor bianco tra pro e antiberlusconiani. Hanno quindi contato sicura­ mente tanto le ragioni che sottolineano i detrattori (salvare l ' impero del leader dopo la caduta in disgrazia dei protettori politici del Cavaliere), quanto quelle dei suoi sostenitori (fornire una credibile alternativa moderata alla vittoria della sinistra) . Ma il quadro non è completo senza considerare la personalità del leader, unanimemente ritenuto, comunque se ne vogliano valutare pregi e limiti, dotato di una compulsiva sete di protagonismo.

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Tattica e strategie

Il debutto politico di Berlusconi si fa tradizionalmente risalire al suo endorsement per Gianfranco Fini al ballottaggio per le elezioni comunali di Roma nel novembre 1993. Ma la vera genesi del progetto di FI va retrodatata alla prima applicazione dell'elezione diretta dei sindaci nella primavera di quell'anno : a Milano vince la Lega Nord con Formentini, i partiti di governo sono spazzati via dall' impatto delegitti­ mante delle inchieste di Tangentopoli, i cui effetti erano stati minori nelle elezioni politiche dell 'anno prima. Berlusconi capisce che la combinazione tra il nuovo mec­ canismo elettorale di impronta maggioritaria (il 18 aprile si era tenuto il referendum elettorale voluto soprattutto da Mario Segni) e il venir meno delle affiliazioni parti­ tiche tradizionali riapre il mercato elettorale in modo decisivo. Che in questo mercato la sinistra è pronta a presentarsi, mentre sul versante opposto si sta aprendo un vuoto. Forza Italia di fatto nasce nell 'estate del 1993, al culmine di Tangentopoli. Vent 'anni dopo si potrà faticare a ricordarlo, ma Berlusconi offrì in quelle circostanze grandissimo sostegno alle inchieste della Procura di Milano. Non tanto in modo diretto, ma attraverso le reti Fininvest, che fanno da megafono alle inchieste17• Del

I 6. E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, anti­ fascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari I996. I7. Fininvest diventa così un soggetto politico decisivo per il successo di FI. Si pensi alla campagna "Vietato vietare� contro il recepimento in Italia di una legge europea « che, accomunando le promo­ zioni televisive alla pubblicità, avrebbe ridotto l'affollamento pubblicitario nelle trasmissioni e con esso gli utili. È la prima volta che una televisione si trasforma in soggetto politico [ ... ]. n momento culmi­ nante della protesta, che vede presentatori trasformarsi in comizianti e soubrette in suffragette, è una puntata del Maurizio Costanzo Show, anch'egli apertamente schierato a favore della campagna, con sul palco dirigenti televisivi e uomini della pubblicità, e nelle prime fùe della platea i nomi più illustri

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resto, non c 'è una parola contro la magistratura nel famoso discorso della "discesa in campo", del 26 gennaio 1994. Su come si sia arrivati alla fondazione di Forza Italia esistono diverse ricostruzionF8, anche recentemente riprese19• Due elementi devono essere sottolineati: il ruolo di Giuliano Urbani, come estensore del progetto Alla ricerca del buon governo (e della successiva omonima associazione) , e del sondaggista di fiducia Gianni Pilo, che durante l'estate del 1993 - quando le bombe a Milano, Firenze e Roma sembrano far precipitare il paese in un clima di grande tensione e incertezza - preparano, tra mille smentite, la fondazione dei club Forza Italia, sui quali nasceranno i nuclei territoriali del partito. Intanto i sondaggi (e non solo quelli non proprio ineccepibili di P ilo) mostrano la grande popolarità di Berlusconi (conosciuto dal 97% degli intervistati, contro il 51% dell 'allora presidente del Consiglio Ciampi) e durante tutta l'estate 1993 si tiene un vero e proprio «progetto di fattibilità » 20• Tattica e strategie si inseguono in una cronaca convulsa in cui Berlusconi tesse la sua tela proponendo senza successo alleanze a Segni e Martinazzoli, prima di annunciare, con l'appoggio fondamentale delle sue reti televisive, quello che ormai è già noto da settimane, e cioè la nascita di Forza Italia e il suo progetto politico. La strategia era già contenuta nel documento di Urbani11, ed è da questa che occorrerebbe valutare la performance del partito e del suo leader. In estrema sintesi, il movimento Forza Italia si proponeva con una fortissima carica di innovazione, tanto nello stile comunicativo quanto nei mezzi e soprattutto negli scopi dichiarati: la rivoluzione liberale, descritta in quello che diventerà l 'opuscolo guida dei candidati, sembra porsi sulla scia del decennio di Reagan e Thatcher, con promesse di « sem­ plificazione burocratica, riduzione del carico fiscale sui cittadini, deregulation eco­ nomica, difesa del mercato e dell' individualismo [ . . . ] disciplina di bilancio e ridu­ zione del debito pubblico, razionalizzazione del welfare, iniezioni di cultura manageriale nella macchina dello Stato » 22• Non da ultimo, Berlusconi, che in una delle sue prime dichiarazioni politiche, nel febbraio 1993, aveva sottolineato l' impor­ tanza di un meccanismo maggioritario per sconfiggere la corruzione, sposò netta­ mente il superamento del partito di massa, poi teorizzato nel manifesto di Urbani. Come mescolare innovazione e conservazione, cioè l'aspirazione pigliatutto prodella televisione pubblica e privata. Unico politico, in veste di imputato, U diessino Vincenzo Vita. È una perfetta fotografia della situazione: da una parte la televisione, con i suoi personaggi e le sue star, conosciuti e amati dai telespettatori, dall 'altra un sistema politico lontano dalla gente, i partiti, i buro­ crati di Strasburgo» (cfr. Novelli, Forza Italia, cit., pp. 145-6). 1 8. E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna 2001. 19. A. Campi, L. Varasano, Storia politica del cavaliere Silvio Berlusconi. Statista, in "Il Foglio", 12 ottobre 2012 (e puntate periodiche successive). 20. Ibid. 21. G. Urbani, La politica per tutti. Una guida ai segreti della politica, ai suoi vizi e alle sue virtu, Mondadori, MUano 1994. 22. Campi, Varasano, Storia politica del cavaliere Silvio Berlusconi, cit.

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pria dello slogan da stadio che dà il nome al partito e l'appello anticomunista che diventa ben presto la cifra distintiva di FI ? Come conciliare i " barbari" della Lega con i postfascisti di Fiuggi ?

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Nuova

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o partito di plastica ?

Al debutto, FI diventa il primo partito italiano con il 21% dei voti. Berlusconi cooptò i potenziali rivali, di nuovo mescolando tattica e strategia, grazie alla sua posizione dominante, in quanto detentore di cruciali risorse politiche : popolarità personale, strumenti organizzativi e mediatici, necessari ma non sufficienti per spiegare il suo successo. La sua verve comunicativa ha la meglio su una cacofonia di dichiarazioni di Bossi e Fini altrimenti deleteria. La sinistra della "gioiosa macchina da guerra" ci mette del suo per perdere. I tanti seggi sicuri dati alla Lega ( che ne avrebbe contati ben più di Forza Italia, a fronte di meno della metà dei voti nella scheda proporzio­ nale ) e le concessioni al M S I -AN come agli alleati minori erano funzionali alla strategia di rassemblement, che avrebbe poi necessitato di tempi lunghi. Nel 1994 oltre nove su dieci dei suoi deputati sono privi di esperienza parlamen­ tare. Berlusconi si richiama più volte alla D C . Le differenze tra i due partiti sono così tante che è forse più interessante riflettere sulle poche similitudini, che si riassumono nell'anticomunismo ( quello della prima epoca D C , che FI mantiene come mastice del bipolarismo muscolare ) e nella natura catch-all del partito. Il controllo che Berlusconi esercita sul partito gli permette di evitare il correntismo di democristiana memoria. Il successo di FI si deve alla capacità del suo leader di far coesistere l'appello antico­ munista con la natura di partito pigliatutto : nelle elezioni del 1994 la vicinanza alle istituzioni da parte del suo elettorato è praticamente identica a quella del resto dell'elettorato, con la sola importante eccezione della maggiore vicinanza alle reti Fininvest23• Ma ci sono almeno tre eventi che riprendono date simboliche dello scudo cro­ ciato, e che insieme danno il quadro di richiami che non possono essere stati casuali. Il partito viene formalmente fondato ( con un contratto di diritto privato e uno scarno statuto ) il 18 gennaio 1994, nel 75° anniversario della fondazione del Partito popolare di don Sturzo, che sarebbe poi invece rinato nella denominazione postdemocristiana di Martinazzoli meno di una settimana dopo. Esattamente tre anni dopo - con un

23. R. Mannheimer, Forza Italia, in l. Diamanti, R. Mannheimer (a cura di), Milano a Roma. Guida all'Italia elettorale del 1994, Donzelli, Roma I994· p. 38. Questa natura catch-al! si perderà in seguito, e gli elettori del partito si identificheranno sempre più stabilmente su posizioni di destra. Proprio mentre FI veniva accettata nel Partito popolare europeo (I998), il partito cementava l 'alleanza con la Lega (da cui il cosiddetto "forzaleghismo"), condividendone alcune posizioni euroscettiche.

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gap che parla da sé - viene approvato il primo vero, e organico, statuto del partito. Infine, il secondo - e ultimo congresso di Forza Italia - si tiene in un'altra data fortemente simbolica per la memoria democristiana ( e non solo ) , ovvero il 18 aprile ( del 1998). In questo stesso congresso lo slogan è "Oltre il partito di plastica". Diffi­ cile però dar torto, quasi dieci anni dopo, a Ernesto Galli della Loggia: Dispiace per tanti illustri politologi e osservatori che qualche tempo fa avevano sentenziato il contrario e ancora ieri lo ribadivano, ma la verità rivelata per l'ennesima volta dall'ultima mossa di Berlusconi è sotto gli occhi di tutti: Forza Italia era un partito di plastica, e di plastica è rimasto, nel senso che non ci sono iscritti, quadri, parlamentari, consiglieri comu­ nali o regionali, non ci sono organi, non c 'è discussione, non c 'è nulla che conti qualcosa24•

Ma su cosa si basa questa idea? Sostanzialmente sul fatto che FI nasce come comitato elettorale, adotta un modello organizzativo innovativo, dove « sebbene numericamente la faccia del Party in Public Ojjìce prevale, questa è a sua volta subordinata a una diri­ genza non eletta, di matrice aziendale o legata da rapporti personali a Berlusconi, che controlla tutte le posizioni chiave e che presidia il Party in Centra! Ojjìce»25• In parte collegata a questo aspetto è anche la seconda questione, quella che riguarda l'assenza di un profilo politico autonomo dei candidati. Con l'eccezione di Roberto Formigoni - non a caso dato come suo possibile successore fino agli scandali giudiziari che lo hanno portato alle dimissioni dalla presidenza della Regione Lombardia nel 2012 nessun candidato di FI ha mai goduto di una propria visibilità politica ( precedente la candidatura) che potesse in qualche modo prescindere dalla figura del Cavaliere. Nelle tre elezioni con il sistema misto a prevalenza maggioritaria ( 1994, 1996, 2001) il partito va molto meglio nella componente proporzionale rispetto a quella uninominale : il voto a FI è un voto al brand Berlusconi. I candidati a livello di col­ legio non riescono a sfondare, e questo sarà uno dei motivi che porteranno alla riforma elettorale del 2005, il famigerato "porcellum". Inoltre, e questo dato è meno sottolineato rispetto al precedente, il partito fatica a reclutare personale politico a livello locale. È diffusa la percezione che ciò sia dovuto alla combinazione tra la migliore qualità degli amministratori del centro-sinistra e la capacità di quest'ultimo di capitalizzare - attraverso la conferma degli uscenti eletti per la prima volta nel 1993 - sul vantaggio allora acquisito grazie a una migliore capacità coalizionale. Ma questi fattori - importanti nel primo decennio di elezione diretta dei sindaci - non bastano. Nelle dodici principali città italiane, quelle nelle quali FI ha un coordinatore, in vent'anni ( quindi considerando anche il P D L ) il principale partito italiano riesce a eleggere un proprio sindaco in pochissimi casi : a Milano con l'outsider Gabriele

24. "Corriere della Sera", 23 agosto 2007, p. I. 25. C. Paolucci, Forza Italia, in L. Bardi, P. lgnazi, O. Massari (a cura di), Ipartiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, EG EA-Università Bocconi, Milano 2007, p. Ioo. 43 0

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Albertini e Letizia Moratti, a Palermo con Diego Cammarata, oltre che a Catania (con il medico personale di Berlusconi) e, per un breve periodo, a Bari. Il partito sconta quindi anche un'oggettiva debolezza sul territorio, dove non emerge mai «personale politico più libero di dirigere la propria lealtà verso l'organizzazione in sé, piuttosto che esclusivamente verso il suo capo » 26• FI è quindi un mix complesso in cui convivono elementi di partito azienda27, patrimonialismo e carisma vicini al modello del "partito di plastica", che sia allo stesso tempo duttile e malleabile per adattarsi alle esigenze del momento. Del resto era stato proprio Berlusconi, in risposta a un articolo di Norberto Bobbio nell'estate del 1994, poche settimane dopo il trionfo alle elezioni europee nelle quali aveva effettivamente raggiunto livelli democristiani (oltre il 30%, così conformandosi alla dinamica delle elezioni di second order, nelle quali i partiti appena insediati al governo godono di una "luna di miele" con l'elettorato), a lanciare la grande innovazione organizzativa. A fronte dell'etichetta di «partito fantasma » data da Bobbio, Berlusconi rivendica l'esistenza di due soli livelli nel partito : gli eletti e i simpatizzanti, con la conseguente eliminazione dell'anacronistica burocrazia, dei vecchi riti del tesseramento e dei congressi 28• Quale dei due livelli avrebbe prevalso sarebbe ben presto risultato chiaro.

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Un partito degli eletti

Un partito di questo tipo non può che essere un partito "degli eletti", a scapito della tradizionale immagine di partito "di iscritti" tipica del modello di massa. Che cosa significa nei termini delle tre facce prima citate ? Il Party o n the Ground, come detto, riesce a uscire dallo stato di irrilevanza solo nell 'unico lungo periodo di opposizione del partito, quello che va dal 1996 al 200 129• Più in particolare, nel corso dell'ultimo anno, che porta al trionfo nelle elezioni regionali del 2000, alle dimissioni del governo D 'Alema e alla lunga rincorsa che avrebbe riportato Berlusconi a Palazzo Chigi. Per il resto, il partito nel territorio rimane debole o asfittico, e sostanzialmente privo delle dinamiche bottom-up proprie dei tradizionali partiti di massa. Il primo statuto del partito prevede che gli iscritti (soci), riuniti in assemblea, eleggano ogni tre anni il comitato di presidenza, il quale dirige il movimento secondo le indicazioni politiche deliberate dall'assemblea stessa. Tra febbraio e marzo 1994 prende il via la 26. C. Paolucci, Forza Italia a livello locale: un partito infranchising?, in "Rivista Italiana di Scienza Politica", XXIX, I999· 2, p. 482. 27. J. Hopkin, C. Paolucci, The Business Firm Mode! ofParty Organisation: Cases from Spain and Italy, in "European Journal of Politica! Research", XXXV, May I999· 3, pp. 307-39. 28. S. Berlusconi, Che cos 'e Forza Italia, in "La Stampa", s luglio I994· 29. Poli, Forza Italia, cit. 43 1

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campagna di tesseramento di F I , tramite una scheda di adesione disponibile presso i club F I e pubblicata nel settimanale " Tv, Sorrisi e Canzoni". Tuttavia, l'elevato costo della tessera (1oo.ooo lire) e la vaghezza sul ruolo dell ' iscritto fanno sì che la parte­ cipazione sia bassa (circa 5.100 iscritti)30• L'assemblea dei soci non fu mai convocata, così come non furono mai emanati i regolamenti attinenti ai diritti dei soci e all' ar­ ticolazione territoriale del movimento. In virtù di questi fatti, una volta scadute, le tessere non vennero rinnovate, e FI per due anni formalmente non ebbe iscritti3'. In quel momento nacque la discussione tra chi sosteneva una forma "classica" con sezioni, iscritti, tessere e congressi e chi invece preferiva un "partito leggero", che puntasse più sul ruolo degli eletti che su quello degli iscritti e che potesse appoggiarsi direttamente alla società civile tramite i club, strutture formalmente esterne al partito, per tutti i quindici anni di vita di Forza Italia. I club si formarono tra la fine del 1993 e l' inizio del 1994, e il loro statuto non presenta alcun riferimento a F I , pur potendo essi affiliarsi con una quota associativa. Questi club ebbero inizialmente molto successo (ben 6.277 nel 1994), ma negli anni a venire parecchi iscritti ne uscirono. Nel 2006 i club erano ridotti a 2.300 e, in parallelo, anche la stima atten­ dibile degli iscritti ai club parlava di una riduzione di circa un terzo rispetto alla cifra del 1994: da 172.000 a circa 57-50031• La vittoria del modello del partito leggero era evidente dall'approvazione del nuovo statuto, nel gennaio 1997. Pur frutto di un importante ripensamento organiz­ zativo33, esso non mette in discussione la natura top-down. Non si affermano infatti meccanismi di delega o rappresentanza di tipo bottom-up, per prevenire il possibile insorgere di correnti interne e di "signori delle tessere" che, manipolando il numero degli iscritti, possono modificare le dinamiche interne. La partecipazione dei soci si limita all'elezione, ogni tre anni, di alcuni organi di partito locali (come i dodici coordinatori cittadini) e alcuni delegati al congresso nazionale. In generale, però, è evidente che nel conflitto tra iscritti ed eletti sono sempre i secondi a prevalere. FI non sfugge, lungo tutta la sua vita, al gap tra lo status di primo partito (che perde solo, e per poco, nelle elezioni del 1996) e un numero proporzionalmente limitato di iscritti (al massimo poco più di 30o.ooo nel 2000 )34, sempre decisamente inferiore a quello degli altri grandi partiti. Più in generale, la natura top-down del partito è legata al ruolo che Berlusconi detiene nella designazione delle cariche. Nulla viene garantito in termini di impatto sulla selezione dei candidati o di delega politica ai club, che però devono pagare un contributo annuale al movimento, e che rimangono le uniche strutture in cui ci si

30. Ibid. 31. Paolucci, Forza Italia, cit., 32. lvi, p. 105. 33· Ibid. 34· lvi, p. uo.

p.

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possa riunire e fare politica. Del resto, anche il finanziamento proveniente dalle attività (e dal tesseramento) nel partito non raggiunge quasi mai percentuali consi­ stenti (l'unica eccezione è il 2003, anno in cui non arrivano rimborsi postelettorali35) . Confrontato agli altri tre maggiori partiti italiani ( P D S - D S , AN, Margherita), FI è l'unico con un profilo decisamente centralizzato tanto nell'organizzazione quanto nella gestione del tesseramento36• Questo ha ovviamente generato poca partecipazione a livello di membership, per cui il Party in Centra/ Ojjìce ha deciso di istituire militanti ad hoc, veri e propri promoter rinominati "difensori del voto" o "legionari azzurri" che agiscono solo nel periodo delle elezioni (ad es. per le regionali del 20 05). Anche da un punto di vista strettamente formale, FI è un unicum, visto che viene fondata tramite un contratto di diritto privato, depositato presso un notaio insieme al primo statuto. Da statuto, come presidente, Berlusconi ha poteri molto ampi, che vengono addirittura estesi nel 1 9 9 7. Rappresenta FI in tutte le sedi politiche e istituzionali, convoca e presiede il comitato e l'assemblea. Nelle uniche due riunioni tenutesi dell'assemblea, Berlusconi è stato ridetto alla presidenza senza candidati alternativi. Ne è assoluto leader, ben oltre quanto formalmente scritto, e lo gestisce a livello carismatico-patrimoniale. Controlla in ultima istanza le candidature nazionali, europee e locali, impone i propri candidati alle cariche elettive del Party in Centra/ Ojjìce e in quello in Public Ojjìce. Toglie la fiducia, con conseguente declino politico, a chi si oppone alle sue scelte. Le decisioni vengono prese al di fuori dei canali politici tradizionali: i veri centri nevralgici sono la villa di Berlusconi ad Arcore e il suo appartamento a Roma. La terza e ultima faccia del partito, cioè il partito nelle istituzioni, o Party in Public Ojjìce, conferma la natura innovativa del modello. Se il gruppo parlamentare del 1 9 9 4 aveva fatto pensare a una nuova classe politica (che, riprendendo le categorie weberiane, vivesse per la politica anziché di politica), le successive elezioni smorzano decisamente questo trend, a favore di una sempre più netta subordinazione alla cen­ tralità del leader, che finisce per estendersi all 'intera coalizione soprattutto dopo il trionfo elettorale del 2001, in cui FI capitalizza la campagna elettorale degli immensi e onnipresenti cartelloni con Berlusconi. La centralizzazione della selezione non ha mai permesso agli eletti di ritagliarsi un vero spazio autonomo : « Il sentimento pre­ dominante tra gli eletti è che le loro carriere parlamentari cominciassero e finissero secondo la volontà di Berlusconi » 37• In effetti, al di là degli aspetti formali precisati nello statuto, i capigruppo parla­ mentari sono stati decisi sempre e solo dal leader, i deputati li hanno volta per volta semplicemente ratificati. Le politiche da adottare in Parlamento sono elaborate da 35· lvi, p. II2. 36. E. Pizzimenti, P. lgnazi, Finanziamento pubblico e mutamenti organizzativi nei partiti italiani, in "Rivista Italiana di Scienza Politica", XLI, 2on, 2, p. 227. 37· Poli, Forza Italia, cit., p. 2I. 43 3

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Berlusconi al di fuori degli organi del Public Ojfìce, e a tutti gli effetti il partito parlamentare è subordinato al vertice del partito. Sarebbe facile a questo punto iro­ nizzare sul fatto che più che degli eletti, quindi, il partito è stato il partito "dell 'eletto". Al netto delle considerazioni di folklore, che lo stesso leader ha per altro alimentato, non si può dimenticare che nemmeno una concentrazione così forte di risorse può permettere di esercitare un controllo totalmente verticistico e onnicomprensivo. Pur non avendo torto quando ha più volte lamentato la debolezza del governo italiano rispetto al potere degli esecutivi negli altri grandi paesi europei, Berlusconi non ha mai affrontato il suo gigantesco conflitto di interessi e ha consapevolmente ritardato la sua successione, esponendosi così a un lento logoramento. Le sue buone ragioni sulla debolezza del governo italiano sono state offuscate dal suo personalismo, che ha condizionato l ' individuazione di un accordo di riforma istituzionale, mettendo sulla difensiva lo schieramento alternativo (oltre che larga parte dei costituzionalisti italiani38 ) .

6 Conclusioni

è quindi stato un partito unico sotto diversi punti di vista: la genesi, la struttura leggera e squisitamente elettorale, la natura personalizzata, l' impasto di carisma e patrimonialismo che l' hanno retto lungo tutta la sua esistenza. Dal punto di vista programmatico non ha rispettato le promesse delle origini: presentatosi come garante rispetto alle incognite del postfascismo e leghismo antisistemico, Berlusconi mostra ben presto scarsissimo interesse per le riforme istituzionali, prima facendo saltare il tavolo della Commissione bicamerale D'Alema, nel 1998, poi lasciando ad alchimie coalizionali al ribasso - nella legislatura centrale ( x1v ) , quella del 20 01-06 - lo scambio tra leggi elettorali pasticciate e una riforma costituzionale con alcuni ele­ menti interessanti, ma piena di contraddizioni ( poi bocciata dagli elettori nel 2oo6). Non meno deficitario è l'altro aspetto, quello della paventata svolta liberale. È difficile stabilire precise responsabilità ( il riferimento più immediato è a Giulio Tre­ monti ) su un fatto che però non può essere facilmente contestato : nel 2012, dopo che Berlusconi ha governato per oltre dieci anni, in Italia l' indice della libertà economica ( rilevato annualmente dalla Heritage Foundation ) rimane fermo a un livello inferiore alla media mondiale39• Insomma, se qualcuno aveva sperato che Berlusconi potesse FI

3 8. Su questi aspetti, rinvio a G. Baldini, Le riforme istituzionali: tra attori e veti, tradizioni e cultura politica, in "Polis': 27, 2013, 2, pp. 205-30, dove confronto le traiettorie di riforma istituzionale di Italia e Regno Unito negli ultimi vent'anni. 39· Con riferimento alla X IV Legislatura, l'andamento è addirittura in calo, in un trend che è comunque di sostanziale calma piatta, dal 1995 al 2012 (http:/ / www.heritage.org/index/visualize). 43 4

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incarnare simultaneamente il ruolo di de Gaulle e Thatcher per la politica italiana, il bilancio non può che essere negativo. Tanto più che questi due statisti ebbero - tra l'altro - il pregio di riconoscere il momento opportuno in cui farsi da parte. Nel vuoto che si crea sul versante di centro-destra, FI ha innovato radicalmente il modo di fare politica in Italia. Si possono sottolineare almeno quattro aspetti, alcuni dei quali hanno contagiato anche altri partiti, piuttosto che il sistema politico più in generale. Il primo riguarda la natura liberale del suo progetto politico. Pur non essendo stato rispettato, questo germe di liberalismo, seppure pieno di contrad­ dizioni, è stato impiantato nel sistema. Il secondo attiene alla struttura organizzativa: il modello di partito leggero, che si mobilita solo per la preparazione delle (lunghe) campagne elettorali o per eventi ad hoc, ha anticipato alcune svolte presenti anche in altri partiti (non solo italiani) . Le nuove dinamiche di selezione delle candidature, inizialmente effettuate attraverso la rete Publitalia, e l'utilizzo di veri e propri provini, si sono invece rivelate una novità dirompente ma di corto respiro (lasciando spazio, anche a causa della legge elettorale del 20 0 5 , a criteri di fedeltà ai leader, con la parziale eccezione delle primarie del Partito democratico) . Infine, la natura delle campagne elettorali, preparate attraverso un monitoraggio costante e capillare dell'opinione pubblica, con l 'utilizzo di focus group e altri strumenti ha anch'essa in qualche modo fatto scuola. Più in generale, FI non sfugge quindi al trend che, negli ultimi vent'anni, ha visto un'ulteriore perdita di terreno del Party on the Ground rispetto a quanto allora rile­ vato da Katz e Mair40• Quello che rende il partito in qualche modo unico è però il controllo che Berlusconi riesce a esercitare sulle altre due facce, che finiscono per diventare un tutt'uno. Se nella Prima Repubblica acefala italiana i partiti erano privi di leader forti rispetto a quelli di tante altre democrazie occidentali4\ FI va oltre l' immagine di un partito con un leader, per diventare di fatto un leader con un partito al seguito41• FI è stata in tutto e per tutto un partito del presidente, che ha cercato di trasporne i metodi nel P D L . I nodi sono venuti al pettine quando si è trattato di trasformare un partito per molti aspetti unico in un unico partito, che inglobasse l' intera coalizione. Ma un bilancio più esaustivo sarà possibile solo quando Berlusconi uscirà di scena.

40. Katz, Mair, Changing Models ofParty Organization and Party Democracy, cit. 4I. L. Cavalli, Governo del leader e regime dei partiti, U Mulino, Bologna I992. 42. F. Raniolo, Forza Italia: A Leader with a Party, in "South European Society and Politics", X I, 2006, 3-4, pp. 439-45· 435

Crisi del paradigma antifascista e retoriche politiche delle nuove destre tra Prima e Seconda Repubblica di Tomm aso B aris

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Il paradigma antifascista : genesi e caratteristiche

L'antifascismo è « il risultato di un processo lungo, complesso, non lineare, che coinvolge la vicenda di paesi europei e no e interessa una pluralità di piani: riorga­ nizzazione sociale, forme e forze politiche, economia, mercato, Stato » , scriveva Franco De Felice nel 1 9 9 7 1 • In questo senso la sua dimensione non è stata meramente contrappositiva al suo rivale storico, il fascismo, e la sua funzione non si è esaurita con la disfatta dell' avver­ sario. Il fascismo nasce infatti come risposta, da parte della destra rivoluzionaria, alla crisi dello Stato-nazione quale forma adeguata di un'appartenenza comune tra i suoi membri già all'indomani della fine della Grande guerra. La risoluzione ai problemi aperti dall'avvento delle masse sulla scena politica si realizza, con il fascismo, impo­ nendo un modello militarizzato di Stato nazionale, controllato gerarchicamente dali' alto e non « separabile dall'obiettivo della modernizzazione economico-produttiva e ancor più della modifica degli assetti internazionali come condizioni per rimanere protagonista in uno scenario mutato » 2 • Dinanzi a tale riorganizzazione, l'antifascismo si struttura in parallelo al suo antagonista, cercando di risolvere l'identico grumo di problemi su tutt'altro versante. La riflessione dell'antifascismo si incrocia quindi con quelle tendenze che dopo la crisi economica del 1 9 29 « troveranno nella modificazione del rapporto tra Stato e mercato il loro punto di forza » . Si delinea allora una proposta di organizzazione sociale sempre più esplicitamente divaricante rispetto a quella fascista: una soluzione militarizzata all' interno e aggressiva all'esterno e una che rinnova il patto tra governanti e governati non solo conservando una forma democratica ma assumendo la garanzia della sicurezza sociale e del lavoro come suo fondamento\

I. F. De Felice, Introduzione, in Id. (a cura di), Antifascismi e Resistenze, "Annali Fondazione Istituto Gramsci", 6, Carocci, Roma 1997, p. 14. 2. lvi, p. 19. 3· lvi, p. 25. 43 7

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Sono tali prospettive antitetiche a confrontarsi alla fine degli anni Trenta nel con­ trasto fascismo-antifascismo. Per questo, nel secondo conflitto mondiale, l' antifa­ scismo è insieme il "partito" della "guerra civile europeà' ma anche una proposta interna e internazionale mirante a una riorganizzazione dei rapporti tra i diversi Stati, senza la quale la riforma sociale dentro i confini nazionali non avrebbe senso4• La Carta Atlantica del 1 9 4 1 e il Piano Beveridge dell 'anno successivo costituiscono i punti di riferimento per comprendere i principi ispiratori dei futuri assetti, sia interni che esterni, una volta sconfitto il fascismo. Nel quadro della ristrutturazione dei rapporti internazionali imperniata sulla cooperazione e sull'integrazione pacifica, di cui si fanno promotori gli Stati Uniti di Franklin D. Roosevelt, welfa re state, mercato regolato e politiche orientate al benessere diventano gli elementi chiave della nuova cittadinanza antifascista. A guerra finita, le Costituzioni redatte all' indomani del secondo conflitto mondiale si presentano come la sedimentazione giuridico-istitu­ zionale della cultura antifascista che aveva ispirato i movimenti resistenziali5• Anche in Italia la Carta costituzionale e il passaggio da monarchia a Repubblica segnano uno snodo. La nostra Costituzione si presenta infatti come « il distillato possibile dei valori sociali e politici presenti nei programmi resistenziali » , segnalan­ dosi per « un corpus di diritti sociali che pongono l' Italia all 'avanguardia nel cam­ mino della cittadinanza moderna » . La questione sociale viene anzi assunta dai costituenti a tal punto quale vicenda centrale della proposta politica repubblicana da essere « sussunta fin dentro la carta costituzionale e preservata, quindi, dalle oscilla­ zioni tanto del gioco politico tra i partiti quanto delle congiunture economiche » 6• Su tale visione si realizza una significativa connessione tra i filoni del mondo cattolico legati al personalismo francese e la cultura social-comunista. È dentro questa cornice comune, pur nella differenza delle posizioni e in un quadro condizionato dalle appartenenze internazionali, che va collocato !'"assedio reciproco" condotto da DC e P C I per conquistare la società italiana. Che passa non più attraverso il rilancio della politica di potenza dello Stato nazionale, ma al contrario attraverso l'utilizzo di quest'ultimo e dei suoi mezzi per rispondere ai bisogni dei soggetti della cittadinanza repubblicana. Neppure la crisi del governo antifascista D C - P S I - P C I nel 1947 può essere considerata quindi la fine dell'antifascismo, inteso come il sottile legame unitario tra forze diverse su tale punto centrale. Abbandonata la via della "nazionalizzazione" totalitaria delle masse, è infatti sul piano condiviso della questione sociale che comu­ nisti, socialisti e democristiani giocano la partita del loro radicamento nel paese. 4· lvi, p. 3 r. S· Sull'antifascismo come cultura fondativa di un ordine politico-giuridico basato sulla democrazia sociale, cfr. S. Neri Serneri, " Guerra civile" e ordine politico. L 'antifascismo in Italia e in Europa tra le due guerre, in A. De Bernardi, P. Ferrari (a cura di ) , Antifascismo e identita europea, Carocci, Roma 2004, pp. 96-9. 6. A. Rapini, Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identita e memorie nell'Italia repubblicana, Bononia University Press, Bologna 2005, pp. r8-9.

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Da qui un serrato confronto sul come realizzare la crescita economica e livellare le disuguaglianze, che costringe democristiani e social-comunisti a una continua ridefinizione/integrazione dei rispettivi blocchi sociali di riferimento7• Il tutto all' in­ terno di una cornice riconosciuta come comune, al di là delle molte e altre perduranti differenze anche fondamentali, costituita dalla cultura antifascista tradottasi nella Carta costituzionale.

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La critica dell 'antifascismo negli anni Novanta : il nesso Resistenza- Costituzione-partitocrazia

Non a caso un coerente critico di quell 'ordinamento, Domenico Mennitti, esponente politico del Movimento sociale italiano prima e poi uomo di punta di Forza Italia nel periodo della sua fondazione, a metà degli anni Novanta ne contestava l'attualità considerandone la genesi viziata dalla convergenza tra cattolici e social-comunisti sulla questione della giustizia sociale. Intervistato dopo le elezioni del 1996, Mennitti . cosi s1 espnmeva: '

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La costituzione italiana [ ... ] soprattutto nei suoi primi 5 4 articoli nasce da una intesa fra cattolici e comunisti. E una costituzione che non si può definire liberale, perché la libertà è concepita, da entrambe queste forze, come uno strumento per raggiungere un obiettivo finale, che nell'uno e nell'altro caso diventa la giustizia sociale. Se si riprendono i lavori preparatori della Costituente e si rileggono le dichiarazioni di Moro o di Dossetti o di La Pira, si trova questo concetto della libertà intesa come strumento per il raggiungimento della giustizia sociale8• ,

Costituzione illiberale quella dell' Italia repubblicana secondo Mennitti, perché san­ cirebbe la libertà da e non la libertà di, per usare una formula riduttiva ma efficace, in quanto legata all 'idea di una politica correttrice degli squilibri sociali e non soste­ nitrice del libero sviluppo delle forze del mercato. «Libertà in politica, in economia, nei comportamenti; è questa l'ansia che Berlusconi ha colto » , aggiungeva Mennitti nel corso della stessa intervista spiegando l'allora recente successo di Forza Italia. L'imprenditore milanese, a suo dire, era stato capace « di andare a incrociare un movimento che si riconosceva in questa istanza di libertà » e che conseguentemente chiedeva la fine « dello Stato, del tipo di Stato e di democrazia organizzata all' interno dello Stato » , che era stato prodotto sino ad allora dai partiti della Prima Repubblica9• 7· F. De Felice, Laformazione del regime repubblicano, in Id , La questione della nazione repubbli­ cana, a cura di L. Paggi, Laterza, Roma-Bari I999· pp. 38-9. 8. D. Mennitti, I "percorsi del cambiamento" di Ideazione, in "Democrazia e Diritto", I996, 2-3, P· 409. 9· Ibid. 43 9

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Quel sistema politico appariva a Mennitti alla stregua di un "regime,, che aveva prodotto una democrazia fittizia, falsata in qualche modo dall 'impossibilità di avere un ricambio di governo : «Un regime, secondo me, è quello nel quale l 'esercizio della democrazia non consente l'alternanza delle forze politiche di governo. La Prima Repubblica, in questo senso, è un regime » . Nella lettura di Mennitti le radici del problema derivavano sempre dalla Carta costituzionale. Quest'ultima, infatti, ponendo « al centro della vita politica il partito e non il cittadino » aveva cancellato «la ragione della libertà, e cioè la possibilità di poter realizzare gli obiettivi che liberamente persegui » 10• D'altronde, spiegava Men­ nitti ancora con riferimento alla sintonia tra cattolici e comunisti, non poteva andare diversamente, giacché si tratta, dunque, di una Costituzione che nasce condizionata da queste due forze, la cui cultura è in continuità con quelli che furono i principi della cultura fascista. Che sicuramente non fu cultura liberale. Da qui deriva la nostra Costituzione, la quale ha avuto un' incidenza fortissima sul processo politico del dopoguerra e proprio in forza di questa intesa11•

Nella lettura della storia dell 'Italia repubblicana ci troveremmo quindi di fronte a una sorta di vizio d 'origine che spiegherebbe tutta la successiva storia del sistema politico italiano e la sua esplosione finale nella crisi di Tangentopoli. Chiariva Men. . n1tt1: La specificità italiana consiste [ ... ] nel fatto che noi siamo stati fin dall' inizio partitocratici, perché già nella Costituzione vi era questo elemento che anticipava la degenerazione. Il sistema ha funzionato fino a quando i partiti sono riusciti a conciliare i loro tentativi di occupare il ruolo delle istituzioni con il rispetto delle stesse : poi lentamente, si è scivolati nella partitocrazia più perversa e nel consociativismo, che ha determinato la paralisi della democrazia•z..

In questa visione, il crollo finale del sistema dei partiti sarebbe stato quindi il frutto ultimo di un'articolazione istituzionale intrinsecamente malata fin dall'origine. E interessante notare che tale lettura politica trovava consonanze con alcuni contem­ poranei tentativi di lettura delle vicende di inizio anni Novanta in termini più pro. . . pnamente stonct. In un articolo del 1 9 9 3 sulla rivista "il Mulino,, Ernesto Galli della Loggia aveva ricordato che la centralità della forma-partito costituiva uno dei lasciti più corposi e gravosi del regime fascista alla Repubblica, la quale era stata « costretta a essere fin '

IO. lvi, p. 407. I I. lvi, p. 40 9· I2. lvi, p. 407. 44 0

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dall 'inizio democrazia dei partiti » '3• Si trattava di un percorso per certi versi inevi­ tabile a parere dello stesso Galli della Loggia, ma in cui la sovrapposizione tra Stato e partito, già dovuta alla dittatura mussoliniana, riproposta nella democrazia bloccata a guida democristiana, appariva ancor più grave. In una realtà contraddistinta dal pluripartitismo, « la molteplicità dei circuiti di potere differenti di cui ognuna di tali forze poteva disporre (Comuni, Province, Regioni, enti pubblici) per guadagnarsi il favore dei cittadini » aveva finito con il dare un «enorme impulso alla tentazione di strutturare tali circuiti per scopi di partito » , creando un sistema malato di cui ave­ vano beneficiato in maniera strumentale tutti i partiti'4• Questi ultimi, al di là del ruolo svolto in Parlamento, avevano esasperato al massimo grado «la funzione tipica del we/fare state vale a dire lo scambio di risorse contro consenso politico » , per­ mettendo l 'affermazione «dietro l'alibi dell'interesse generale » degli «interessi settoriali più vari dei gruppi organizzati » '5• Inevitabile in un simile quadro una cre­ scita abnorme della corruzione politica e il trasformarsi della classe politica italiana in una vera e propria "nomenklaturà' di stampo sovietico con « una concezione patrimoniale-personale della cosa pubblica » '6• Si tratta di una linea interpretativa che coglieva questioni reali. Lo stesso para­ digma del "regime" per ripensare la storia dell 'Italia unita non appare privo di utili valenze euristiche, soprattutto se usato in riferimento a sistemi politici privi di alter­ native per deficit di legittimità a governare da parte delle opposizioni'7• Tuttavia, trasformatasi in retorica pubblica per lo scontro politico in una difficile fase di transizione, la questione del regime si prestava a -

una strumentale retroazione e reinterpretazione del fenomeno della crisi del sistema dei partiti da parte di un trasversale schieramento di politici e società civile, che presentandosi come il "nuovo" in lotta contro il regime, allungava un 'ombra oscura sulla vicenda politica dell' Italia repubblicana, nascondendone la dimensione dei cambiamenti, della modernizza­ zione del sistema dei diritti, per presentarla sic et simpliciter come la storia degradante di un regime immobile, trasformistico, corrotto e criminale'8•

In tale clima la discussione tornava sulle origini, al biennio 1943-45, rileggendo gli stessi momenti fondativi della Repubblica, vale a dire l'antifascismo e la Resistenza, dentro il cono d 'ombra di Tangentopoli. Nel 1996 sempre Galli della Loggia, in un I3. E. Galli della Loggia, Le radici storiche di una crisi, in "il Mulino", I 994· 2, p. 230. I4. lvi, p. 231. IS. lvi, pp. 233-4. I 6. lvi, p. 2 30. I7. Cfr. M. L. Salvadori, Storia d'Italia e crisi di regime, il Mulino, Bologna I994· Cfr. anche G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell'Italia unita, Laterza, Roma­ Bari 2003. I 8. A. Blando, Italia I992-I993: la retorica del regime, in P. Viola, A. Blando (a cura di), Quando crollano i regimi, Palombo, Palermo 2004, p. 97· 44 1

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suo noto volume dedicato alla crisi della nazione italiana nel corso del secondo con­ flitto mondiale, stabiliva un interessante legame tra le origini e la fine del sistema dei partiti che avevano sorretto la Prima Repubblica. Al momento del crollo del regime fascista, i partiti antifascisti non erano stati in grado «di rivendicare il compito propriamente nazionale a cui la Resistenza avrebbe adempiuto » assumendo « come dato univocamente positivo - e in un certo senso come il dato centrale - l 'elemento di riscossa nazionale contro il tedesco contenuto nella lotta armata antifascista » 19• A causa della scelta di privilegiare la propria dimen­ sione politico-ideologica, la Resistenza era rimasta patrimonio di una minoranza ristretta e la sua interpretazione del biennio 1 9 43-45 era ben diversa da quella elabo­ rata dalla gran parte della popolazione. Da qui una legittimazione estremamente debole, che aveva spinto il personale politico antifascista, divenuta classe dirigente, a rinsaldare la propria lettura parziale dei processi storici e a strutturarsi nella forma del regime0• Qualche anno prima, in un' intervista, lo studioso aveva esposto in termini netti il nesso tra il peccato di fondazione e le successive degenerazioni della vita politica: Io sono convinto che il carattere progressivamente oligarchico-conservatore di quella che poi sarebbe stata chiamata la partitocrazia dipende da questa sua origine, che l'ha assomi­ gliata a un gruppo di congiurati, legati per la vita alla preservazione della menzogna origi­ naria su cui hanno fondato la propria fortunata esistenza successiva. Ciò spiega anche, in buona misura, il silenzio che circondava fino a ieri il regime della corruzione. Tutti sapevano benissimo che le gigantesche macchine partitiche costavano ben più di quanto ammettes­ sero, ma tutti facevano finta di nulla, per non rompere il fragile tabù partitocratico. Solo in Italia è potuto accadere che il principale partito di opposizione non abbia avuto la benché minima parte nello smascherare la corruzione della sfera governativa. Ciò la dice lunga su che tipo di opposizione fosse quella del PCI e sul comune tabù fondativo che per mille vincoli lo legava agli altri attori del sistema politico. Non so se e quando l' Italia potrà guarire dal morbo morale che la nostra democrazia fu costretta a inocularsi nel 1 9 4 5 per sopravvivereu.

In tale lettura, la natura condivisa della proposta politica dell 'antifascismo diven­ tava quindi la conferma del patto "consociativo" stretto tra i partiti antifascisti per perpetuarsi al potere, a scapito di qualsiasi alterazione del quadro politico. « Il nesso antifascismo-Costituzione » - scrive sempre Galli della Loggia - era desti­ nato a rivelarsi

19. E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, anti­ fascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 22-3. 20. lvi, pp. 41-2. 21. E. Galli della Loggia, Intervista sulla destra, a cura di L. Caracciolo, Laterza, Roma-Bari 1994, p. u 6. 44 2

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la premessa indispensabile per mantenere la questione della legittimazione al centro del sistema politico, per inquinarne tutti i meccanismi fisiologici con un elemento fondamental­ mente estraneo, dunque per rendere immobile nel tempo la presenza delle culture politiche all' interno del paese e congelarne i rapporti tra di loro2.2..

Il riferimento polemico era chiaramente rivolto all'antifascismo quale elemento di reciproca legittimazione tra la DC e le forze della sinistra. L'accordo aveva caratte­ rizzato i primissimi anni della vita repubblicana per poi interrompersi nel 1947 e per tutto il periodo del centrismo. Era riemerso ovviamente con l 'affermazione del centro-sinistra e l 'ingresso dei socialisti di Nenni nell 'area di governo. Da quel momento in poi il paradigma antifascista aveva agito su due versanti distinti, affer­ mandosi come riferimento ideale di larghi strati sociali che ambivano al ribaltamento dell'egemonia democristiana e dall 'altro quale elemento di stabilizzazione del sistema politico favorendo la legittimazione democratica del P C I . Alla fine degli anni Set­ tanta, sotto la spinta della crisi economica e del terrorismo, mentre il legame con i movimenti sociali si sfilacciava fino a perdersi anche sotto l'urto della lotta armata, dell'antifascismo restava soprattutto la dimensione legittimante a sinistra. Questa peraltro sembrava trovare il suo compimento con l' ingresso dei comunisti nell'area di governo al tempo della "solidarietà nazionale"13. A partire dal quel momento, il paradigma antifascista, come notava Nicola Gal­ lerano, « inizia ad avere spazio [ .. ] quale supporto ideologico del sistema dei partiti e della Prima Repubblica, mentre viene sviluppato il tema della contrapposizione tra antifascismo, inquinato dalla presenza nel suo senso del totalitarismo comunista, e democrazia » 14• Da un lato, cioè, si riduce a retorica ufficiale delle forze di governo, mentre dall'altro viene duramente attaccato in quanto elemento di legittimazione di una forza antisistema quale il P C I e quindi di blocco di una ipotesi di alternanza. Sono precisamente i due punti su cui interviene Renzo De Felice nelle due interviste concesse a Giuliano Ferrara e apparse sul "Corriere della Sera" tra fine dicembre 1987 e inizio gennaio dell'anno successivo. In quell'occasione lo storico del fascismo spiegava che l'antifascismo non costi­ tuiva « come ideologia di Stato, [ .. ] un discrimine storicamente, politicamente e civilmente utile per stabilire che cos'è un'autentica democrazia repubblicana, una democrazia liberaldemocratica » . Usarlo come discriminante serviva solo a legitti­ mare acriticamente i comunisti senza costringerli a «portare fino in fondo la loro revisione » e tenendo « con loro un rapporto, magari tortuoso e insincero, che li integri in una mera democrazia senza ricambio, in un sistema politico bloccato » . Per .

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22. Id., La morte della patria, cit., p. 120. 23. N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, in Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica, numero monografìco di "Problemi del Socialismo", 1986, 7, pp. 129-32. 24. Id., Memoria pubblica delfascismo e dell'antifascismo, in Id., Le verita della storia. Scritti sull'uso pubblico della storia, manifestolibri, Roma 1999, p. 91. 443

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questo l'antifascismo andava superato e per farlo occorreva mettere mano a una seria revisione della Carta costituzionale sperando in un leader giovane come Bettino Craxi, definito « estraneo alla retorica antifascista » 25• L'antifascismo, dunque, come foglia di fico di un sistema politico bloccato di cui Tangentopoli avrebbe rivelato la corruzione. Diveniva allora ancora più urgente ridiscutere il mito resistenziale, rimasto a quel punto, come affermava sempre Renzo De Felice nel volume-intervista curato da Pasquale Chessa nel 199 5, « uno dei pochissimi appigli per tentare di tro­ vare la ragion d'essere, la legittimazione del proprio potere e della propria partecipa­ zione a un sistema altrimenti indifendibile, politicamente ed eticamente » 26• Antifascismo-Resistenza-Costituzione-regime dei partiti-parti tocrazia. Questa, in qualche modo, la genealogia malata della Repubblica designata da Galli della Loggia e anticipata da Renzo De Felice. Sulla stessa lunghezza d'onda, sia pure senza suscitare uguale clamore mediatico, si era mosso qualche tempo prima un altro intel­ lettuale importante. Nel 1983 Gianfranco Miglio, forse il più valido studioso in Italia di Carl Schmitt, in un volume intitolato non a caso Una repubblica migliore per gli italiani, segnalava lo strapotere dei partiti politici e la loro occupazione "abusiva" delle istituzioni. Scriveva il politologo : Senza dubbio i "partiti" sono coessenziali al sistema "parlamentare" ( io penso addirittura che esistano in ogni regime "istituzionalizzato" ) : ma nessuno è oggi disposto a negare che qui in Italia essi abbiano "invaso" e soggiogato tutte le altre istituzioni della Repubblica, e pratica­ mente si dividano il potere reale fra loro e con i potenti sindacati "politicizzati". Non c 'è nomina, non c'è legge o regolamento, non c 'è atto amministrativo che sfugga alla determi­ nazione o al condizionamento irresponsabile dei vertici dei partiti politici e che non sia oggetto di negoziato "spartitorio" fra questi ultimi2.7•

I partiti insomma avevano occupato le istituzioni ma anche le strutture della società, piazzando loro uomini di fiducia in ogni posto di potere. Da qui l ' « elevato numero dei cittadini i quali si dedicano all'attività politica come occupazione principale » , e la « conseguente sproporzione fra aspiranti a posizioni di potere, o a "rendite poli­ tiche" e posizioni di potere e rendite politiche disponibili » 28• Nonostante la sua pervasività, lì dove occorreva la politica restava comunque debole. L'esecutivo infatti « anziché essere espressione di una maggioranza omo­ genea » , dovendo, a causa della legge proporzionale, « sempre e necessariamente basarsi su coalizioni di gruppi parlamentari eterogenei » , finiva per essere ostaggio di questi ultimi quando non si ritrovava alla mercé delle imboscate organizzate « dai 25. Le citazioni delle interviste di Renzo De Felice sono riprese daJ. Jacobelli (a cura di), Ilfascismo e gli storici, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 4-s, 7-8. 26. R. De Felice, Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. ro. 27. G. Miglio, Una repubblica migliore per gli italiani, Giuffrè, Milano 1983, pp. 23-4. 28. lvi, p. 1 4. 444

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portatori organizzati di interessi frazionali, dalle "correnti" germinate dall' interno dei partiti stessi, al limite dalla combinazione involontaria delle assenze casuali o preordinate » 29• In questo quadro di debolezza, la maggioranza aveva rafforzato la sua propensione a evitare scontri e contrapposizioni frontali con l 'opposizione, creando una prassi che consiste in primo luogo nello "spartire" posizioni di potere e le rendite politiche dispo­ nibili, non solo tra i partiti ( e le correnti ) che compongono la maggioranza di governo ma anche almeno con la frazione più forte dell'opposizione ; in secondo luogo nel cercare di ottenere, nascostamente, la collaborazione e la complicità della minoranza per la proposizione delle norme e la scelta dei provvedimenti operativi; in terzo luogo nel sottrarre forza all'op­ posizione con il cercare, sempre ad ogni costo, di decidere soltanto con il consenso, o almeno la neutralità, di tutte le componenti politiche e socia!P0•

In un simile quadro, la degenerazione partitocratica era diventata a tal punto sfacciata che « quanti prosperano all'ombra del potere "di fatto", accusano chi accenni alla necessità di tornare alla legalità costituzionale di attentare alla vita dei partiti, e quindi del regime "democratico" » , spiegava Miglio. Per questi «partitanti » , conti­ nuava il politologo, «la degenerazione delle associazioni politiche in cosche mafiose dovrebbe essere sopportata come il "male minore" di un regime libero »3'. Quali però le radici storiche di tale degenerazione, secondo il politologo ? Miglio così indicava le sue risposte : Che i mali della Repubblica siano congeniti, lo si vede anche alla luce di una terza conside­ razione : la necessità ideologica di contrapporre chiaramente al "partito unico" della dittatura l'opposto principio del pluralismo delle associazioni politiche ( fondamentale fra tutte le garanzie costituzionali ) spinse la "nuova" classe politica a tradurre ( e congelare ) il principio stesso nella spartizione sistemica, solidale e proporzionale delle posizioni di potere [ ] fra i partiti consorziati nei Comitati di Liberazione Nazionale. Il sistema del governo "spartitorio" comincia da quPt. . . .

Anche per Miglio, insomma, le radici di tale degenerazione risalivano al nesso antifascismo-Resistenza-Costituzione. Tale triade aveva prodotto un regime di partiti autoreferenziale, incentrato su una democrazia consociativa basata sull'uso clientelare delle risorse e della crescita non controllata della spesa pubblica in un quadro di occupazione partitica delle istituzioni. Riemergeva così, nella transizione di inizi anni Novanta, un forte discorso pub29. lvi, pp. IO-I. 30. lvi, p. I 9· 31. lvi, p. 24. 32. lvi, p. 107.

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blico incentrato sull'antipolitica33• Solo apparentemente nuova, tale retorica attingeva a un ampio repertorio di idee e valori costruito nei decenni precedenti da un varie­ gato arcipelago di intellettuali e pensatori di diversa estrazione politica e culturale, accomunanti dal rifiuto dell'antifascismo e del sistema dei partiti di massa, anche quando non direttamente nostalgici del regime mussoliniano ( sebbene neo fascisti dichiarati non mancassero in questo ampio schieramento ) 34• Il tema dell 'occupazione partitica delle istituzioni, assolutamente centrale nel discorso pubblico dei primi anni Novanta, costituisce un esempio significativo della tendenza sopraccennata. Nel 1996, per le edizioni di Ideazione, e con la prefazione di Marcello Pera, allora presidente del Senato in quota Polo delle libertà, veniva riproposto Il mito della Costituzione, di Giuseppe Maranini, edito per la prima volta nel 19 57. Giurista di grandissimo livello e fine costituzionalista, Maranini era stato fra gli anni Cinquanta e Sessanta un acceso critico del sistema repubblicano in quanto «ordinamento fondato e strut­ turato sui partiti » 35• Conseguentemente aveva messo sotto accusa lo strapotere, dal suo punto di vista, del Parlamento e dei partiti, considerati responsabili della crea­ zione di una "partitocrazia" che tradiva l' ispirazione della Carta costituzionale del 1948. La riproposizione del suo pensiero a metà degli anni Novanta ci offre un chiaro esempio del riutilizzo di materiali e riflessioni precedenti da parte delle nuove destre. Nella prefazione al volume, Pera si produceva in un pesante attacco alla Carta costi­ tuzionale per la centralità riconosciuta al Parlamento. Avendo infatti permesso la caduta delle « funzioni effettive di governo [ ... ] nelle mani di una assemblea » , la Carta del 1948 era la vera responsabile dell'affermarsi nella vita pubblica italiana del «potere personale di qualche individuo o di qualche esiguo gruppo » , vale a dire della "partitocrazia". Era dunque la corruzione istituzionale la vera causa di « quella morale e politica denunciata da Mani pulite - compresa quella che Mani pulite non ha saputo o voluto toccare »36• Non meno grave appariva poi la centralità della cit­ tadinanza sociale all'interno del corpus costituzionale. Contro le norme programma­ tiche presenti nella Carta, Pera denunciava «la tendenza di alcuni articoli della nostra Costituzione a sottolineare e ad accentuare le limitazioni di ordine sociale al diritto di proprietà » , lamentando l' impossibilità di « sollevare con fortuna eccezioni di ordine costituzionale contro le leggi che nell'avvenire potranno accentuare la pres­ sione delle esigenze sociali sulla proprietà privata » 37• Si trattava di giudizi ampiamente diffusi e radicati in quell'area anti-antifascista, 3 3· S. Lupo, Il mito della societa civile. Retoriche antipolitiche nella crisi della democrazia italiana, in "Meridiana", 2000, 38-39, pp. 17-43. 34· Id., Antifascismo, anticomunismo e anti-antifoscismo nell'Italia repubblica, in De Bernardi, Ferrari (a cura di), Antifascismo e identita europea, cit., pp. 374-7. 35· G. Maranini, Il mito della Costituzione, prefazione di M. Pera, Ideazione, Roma 1996 ( 1a ed. 1957 ) , p. 18. 36. lvi, p. 12. 37· lvi, p. 15.

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per usare la definizione di Salvatore Lupo, che stava riemergendo a fronte della legittimazione avuta dal terremoto giudiziario. Tale orientamento, ai margini della vita pubblica pur rappresentando uno strato profondo del paese, era rimasto schiac­ ciato dalla linea di divisione comunismo/anticomunismo destinata a tradursi nella logica del voto utile alla D C , pur condannando i suoi appartenenti il presunto sbi­ lanciamento a "sinistra" di quel partito. Ora, e mi sembra il vero fattore di novità, i punti fondamentali della ricostruzione anti-antifascista venivano ripresi e fatti propri pubblicamente dalle nuove formazioni politiche che si installavano alla destra dello schieramento politico. La Repubblica dei partiti ridotta a partitocrazia, l' idea della programmazione economica fatta coincidere con l 'occupazione partitica dell'indu­ stria pubblica, il meccanismo del we/fare state presentato esclusivamente in termini di clientelismo di massa agito dal personale politico dei partiti, lo stesso intervento pubblico nel Mezzogiorno ridotto a fenomeno inevitabilmente portatore di una logica criminale-affaristica: tutto il patrimonio condiviso dalla classe dirigente repub­ blicana dei grandi partiti di massa, distribuita in un cinquantennio di vita politica tra il governo e l'opposizione, veniva indicato quale il principale male del paese.

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La retorica pubblica delle nuove destre : la rivoluzione liberale

Paradigmatico di tale impostazione un libro-intervista di Giuliano Urbani scritto con il giornalista Enzo Carnazza nel 1 9 9 4 e intitolato L'Italia del buongoverno. Urbani, con Antonio Martino, era in quel momento alla guida della Fondazione Alla ricerca del buongoverno, vero e proprio pensatoio della nascente Forza Italia, nel cui orga­ nigramma peraltro svolgeranno entrambi un ruolo importante fino ad accedere a importanti incarichi ministerialP8• Nell'analisi di Urbani la crisi del sistema Italia si lega alla fortissima estensione dell'intervento pubblico e alla volontà, considerata demagogica, di garantire per via statale una serie di diritti sociali. Rispetto a « scuola, sanità, pensioni » , «le riforme dissennate degli anni Settanta hanno prodotto effetti devastanti » , spiegava Urbani, avendo voluto « estendere demagogicamente a tutti una protezione sociale che per tutti non eravamo in grado di permetterei » 39• L' in­ tervento statale in tali settori aveva aumentato la burocratizzazione della macchina amministrativa, ma soprattutto il ruolo e il peso dei partiti nelle nuove istituzioni legate al we/fare state. In questo quadro 38. E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna 2001, pp. 44-S· 39· G. Urbani, con E. Carnazza, L'Italia del buongoverno. Le idee, i valori, il programma per ricostruire il Paese e creare una autentica democrazia liberale, Sperling & Kupfer, Milano 1994, pp. s-6. 4 47

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a mano a mano che i partiti perdevano l'originaria legittimazione derivante da una delega ideologica apposta in bianco dai cittadini, le varie forze politiche cercavano di attenerne un'altra, contrattata e consacrata da patti di natura squisitamente clientelare. Di qui le mille forme di lottizzazione e tutte quelle distorsioni che abbiamo presto imparato a conoscere40•

Il clientelismo, a sua volta, aveva prodotto il deficit di bilancio. Le formazioni politiche, dovendo sostituire l' ideologia con il vassallaggio clientelare, hanno finito con il battere la testa contro il soffitto del debito pubblico. La politica delle pensioni di invalidità fasulle, dei contributi a pioggia, delle elargizioni più dissennate ha trovato così un limite naturale nel gigantesco indebitamento dello Stato41•

In questo intreccio tra amministrazione, politica e servizi era esplosa la questione della corruzione, che però era l'effetto, non la causa [ ... ] . Alla radice di tutto, della stessa corruzione dilagante, c 'è infatti una visione radicalmente perversa del ruolo dello Stato, dell'organizzazione della burocrazia, dell' intervento pubblico in economia. A parole, e per anni, abbiamo sbandierato e promesso soprattutto due obiettivi: socialità e uguaglianza. Nei fatti abbiamo però sempre raccolto qualcosa di molto diverso : dosi crescenti di corruzione, inefficienza e iniquità di ogni tipo42•

La responsabilità di tale situazione era da imputarsi ai grandi partiti di massa. Prima il centro-sinistra con l'alleanza D C e P S I , e poi il protagonismo sempre più efficace del P C I , aveva fatto dell' Italia « fra le nazioni occidentali [ . . . ] il paese a più alto tasso di socialismo reale : nell'economia come nella scuola, nella ( cosiddetta e maledetta) legislazione sociale come nella disciplina del lavoro » . «Tutta la legislazione impor­ tante degli anni 1 9 7 5 - 1 9 9 0 è stata "ispirata" ed eterodiretta dalle posizioni del Partito comunista » , spiegava il politologo « attraverso il negoziato fra maggioranza ed opposizione » e difatti, proseguiva, « tutti i progetti governativi non sono stati null'altro che "versioni edulcorate" ( e quasi sempre ignobilmente pasticciate ) di richieste avanzate nell'ambito della sinistra » . Statalismo ideologico delle opposizioni e statalismo strumentale della maggioranza si incrociavano e si alimentavano a vicenda ampliando di fatto « a dismisura anche le opportunità di avere a propria disposizione clientele e posti di sottogoverno, e assicurava contemporaneamente una strabiliante discrezionalità amministrativa » 43• Le radici profonde di tale articolazione risalivano ovviamente al «concepimento stesso della nostra Repubblica. Non dimentichi mai che il sistema politico italiano è nato con il C LN ed è poi cresciuto nell'epoca della Guerra fredda » , spiegava Urbani 40. lvi, p. 22. 41. lvi, pp. 23-4. 42. lvi, p. 128. 43· lvi, pp. 129-30.

CRISI DEL PARAD I G M A ANT I FA S C I STA E RETO RI C H E P O L IT I C H E DELLE N UOVE DESTRE

nell'intervista44• L' insistenza polemica del politologo sull' intervento pubblico in economia non deve stupire. Nel dibattito pubblico di inizio anni Novanta questo elemento si accompagna costantemente all'accusa rivolta al sistema dei partiti di aver generato la corruzione dilagante. Dentro siffatta costruzione retorica si colloca anche la critica al meridionalismo dei partiti repubblicani. Sempre Urbani significativamente ricordava che «l'intervento straordinario nel Mezzogiorno ha finito con l' incoraggiare e favorire non la libera iniziativa, ma forme mostruose di parassitismo economico e sociale » . Il trasferimento massiccio di risorse in direzione del Meridione, insisteva il politologo, era servito soprattutto «per acquistarne il consenso elettorale » , ma ciò aveva impedito lo svi­ luppo di una reale cultura dell'impresa. « Quale interesse avrebbero avuto i cittadini meridionali ad affrontare i rischi del mercato, quando c 'era per tutti la sicurezza di un sussidio pubblico ? » , chiedeva retoricamente il futuro ministro di Berlusconi45• Inter­ vento pubblico, riequilibrio del divario Nord-Sud, clientelismo e corruzione diveni­ vano così, in questo discorso pubblico, facce diverse della stessa medaglia intaccando un altro aspetto qualificante di quello che era stato storicamente uno dei punti di forza della proposta politica antifascista. Come già ricordato da Leonardo Paggi, con rife­ rimento al periodo di incubazione del centro-sinistra ma anche per gli anni successivi, nel quadro di un paese che si allontana ormai rapidamente dalle emergenze economiche e politiche che hanno caratterizzato la ricostruzione, l'antifascismo conosce un singolare revival in quanto forma di coscienza critica sul divario che si sta aprendo tra la realtà di uno sviluppo "squilibrato" o "distorto", nella terminologia dell'epoca, e le aspettative di uguaglianza e giustizia sociale che hanno ancora informato il dibattito della Costituente. Il fronte riforma­ tore che viene delineandosi in questi anni è insomma esplicitamente e dichiaratamente un fronte antifascista. Sebbene diversamente distribuita tra governo e opposizione, è proprio la classe politica nata dall'antifascismo [ ... ] che, sia pure con diverse accentuazioni, porta ora avanti il discorso sul "riequilibrio" dello sviluppo4 6 •

In realtà, la linea di questo articolato fronte riformatore si perde prima nelle difficoltà del centro-sinistra e poi a inizio degli anni Settanta si smarrisce del tutto dinanzi alla riarticolazione del nesso nazionale-internazionale che si realizza in campo economico e in parallelo politico a partire dalla crisi petrolifera. E lì infatti che salta « la possibilità di portare a compimento l 'unità del paese facendo leva sullo sviluppo nazionale » , perché già allora « il mutamento del vincolo esterno e l 'integrazione europea avevano fortemente ridotto l'autonomia relativa dell'"economia nazionale" » . In Italia il nesso combinato di sviluppo economico e '

44· lvi, pp. I9-2o. 45· lvi, pp. 3-4. 46. L. Paggi, Una repubblica senza Pantheon. La politica e la memoria dell'antifascismo (I945-I97S), in Id. (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze I999· p. 25I. 449

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allargamento della democrazia che il sistema dei partiti aveva saputo fino ad allora garantire si esaurisce in questa fase47• Il tutto mentre a livello internazionale si chiude la fase aperta dagli accordi di Bretton Woods e si ridisegna un nuovo "campo, che si caratterizza per la rinuncia degli Stati Uniti a imbrigliare la finanza internazionale, servendosene invece per rafforzare un'egemonia altrimenti in crisi. Saltano così pro­ gressivamente la mediazione sociale rappresentata dal we/fare state e dalla spesa pub­ blica e parallelamente l'integrazione politica del movimento operaio, indebolito dal cambio di paradigma costituito dalla fine del fordismo e della centralità del lavoratore della grande industria. Si tratta di un insieme di elementi che segnano un salto radicale rispetto all'idea di organizzazione della vita pubblica costruita a partire dalla Seconda guerra mondiale e in cui lo Stato, in economia, aveva giocato un grande ruolo. La cultura politica antifascista che per prima, sia pure con altri incroci e innesti, aveva pensato a partire dagli anni Trenta quel modello organizzativo non appare più in grado di fornire risposte adeguate alle nuove domande. Lo riconosceva con grande acume un antifascista di vaglia come Vittorio Foa, che, ragionando sulla storia del xx secolo, circa la rivoluzione neoliberale e !iberista invitava a tener conto dello « sti­ molo a valorizzare in modo radicale l' individuo e le sue possibilità creative » . La centralità del mercato, dell'impresa e della libera iniziativa, che pure si concretizzavano nella cancellazione dei diritti sociali e nell'aumento delle disuguaglianze, non mancava, scrive sempre Foa, di avere « fondamenti reali » e incontrava « un consenso diffuso » , per via della « stanchezza per la lunga egemonia culturale e pratica dello statalismo e, più in là, del collettivismo, in altre parole della subordinazione dell'individuo a un interesse collettivo, reale o presunto » 48• Non sfuggiva ovviamente al vecchio leader che l' idea di individuo proposta configurava « un' identità distinta, in sé conchiusa, che finiva per coincidere con l'egoismo » , ma era appunto tale recuperata centralità, a suo parere, a spiegare il successo a livello di massa della proposta neoliberista al tempo dell' internazionalizzazione delle economie nazionali, della crisi fiscale degli Stati cau­ sata dal welfare, della gestione inefficiente, e spesso corrotta, del settore pubblico49•

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Al di là della retorica : la destra italiana tra neoliberalismo e populismo

La ricezione in Italia del modello liberal-liberista incontrava tuttavia molte resistenze. Gli anni Ottanta vedevano infatti la maggioranza pentapartitica al governo del paese sostanzialmente lontana da quella impostazione, a parte forse alcune aperture del P S I a un certa idea dell'individualismo assai vicina a quella !iberista. 47· G. Vacca, Vent 'anni dopo. La sinistra fra mutamenti e revisioni, Einaudi, Torino 1 997, p. 232. 48. V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, pp. 3 5 1-2. 49· lvi, p. 3S4· 4 50

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E solo agli inizi degli anni Novanta, con la fine del sistema comunista e l 'esplosione di Tangentopoli che spazza via la D C e i suoi alleati moderati, che la retorica della rivoluzione liberal-liberista conquista saldamente la scena pubblica, non senza contraddizioni. Sostenitore della retorica antistatalista e antipartitica è infatti lo stesso blocco, composto in gran parte da piccoli imprenditori, lavoratori autonomi e commercianti, che nel decennio precedente si era rafforzato socialmente e arricchito proprio grazie a un sistema di governo basato sulla crescita del debito pubblico, la svalutazione competitiva e la tolleranza verso l'evasione fiscale che li aveva messi al riparo dalla concorrenza internazionale50• E la decisione del governo Andreotti nel 1 9 9 2 di rispettare i parametri previsti dal Trattato di Maastricht a fare da spartiacque51• Dinanzi alla scelta di accettare l'ulteriore integrazione economica dell'Europa unita, assumendo i costi, per reazione, soprattutto ma non solo nella parte settentrionale del paese, si coagula un blocco sociale contrario al Pentapartito e orientato verso le "nuove destre"52• Tali segmenti sociali sembrano ad alcuni studiosi legare la nuova retorica !iberista a vecchie pulsioni. Per Alfio Mastropaolo mescolavano la recente «polemica antipartitica con le più antiche, e mai realmente rimosse, spinte antipolitiche e antistatali proprie del mode­ ratismo italiano, il quale da sempre considera lo Stato uno scomodo ingombro o una preda da disputarsi » 53• In questo humus trova la sua base elettorale Forza Italia, la forza politica creata da Berlusconi. Quest'ultimo si presenta con un programma avente al centro temi quali '

il ridimensionamento del ruolo dello Stato, l'ammodernamento e la semplificazione della burocrazia pubblica, la deregulation economica, la disciplina di bilancio e di riduzione del debito, la proposta di un "nuovo patto di cittadinanza" fra società civile e Stato, i tagli fiscali e la razionalizzazione delle risorse pubbliche e del welfare in vista di maggiori investimenti in quei settori della ricerca e dell' industria che potevano aumentare la competitività interna­ zionale dell' Italia [nonché] un' iniezione di "cultura manageriale" a tutti i livelli decisionali dello Stato54•

Ciò nonostante, né dopo la prima vittoria elettorale del 1 9 9 4 né durante le sue lunghe altre stagioni di governo, Berlusconi darà mai seguito all 'agenda politica da lui stesso presentata. Forza Italia non è infatti « mai diventato quel partito della destra liberale

so. Cfr. S. Lanaro, L'Italia nuova. Identita e sviluppo IS6I-I9SS, Einaudi, Torino I988, pp. I 3-22. S I. Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico {I945-I996), il Mulino, Bologna I997· p. 460. 52. lvi, pp. s I7-20. s 3· A. Mastropaolo, La repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia, Firenze I996, p. ISO. 54· Poli, Forza Italia, cit., p. 45· 451

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di impostazione anglosassone auspicato dai suoi fondatori, ma piuttosto si è trasfor­ mato in un contenitore di diverse correnti conservatrici » . Tale atteggiamento è stato spiegato con la richiesta di protezione sociale espressa dall'elettorato meridionale degli "azzurri", « assai dipendente dall 'intervento dello Stato » e dalla pubblica ammi­ nistrazione contro i desiderata !iberisti dei sostenitori settentrionali55• Si tratta di un'osservazione condivisibile, che elude però la questione centrale ; vale a dire l'effettiva portata liberale della proposta politica berlusconiana. Forza Italia, a ben vedere, in realtà non ha mai avuto al proprio centro un'idea di mercato regolato, ma al contrario ne propugnava una visione sostanzialmente anarchica e sregolata nonché fortemente condizionata dalla politica. Forza Italia inoltre si reggeva sulla netta propensione verso una forma populistico-carismatica della sua leadership, caratterizzata per una scarsissima attenzione alla tradizionale divisione dei poteri e al rispetto delle istituzioni altre diverse dall'esecutivo56• In tale schema retorico la politica e le istituzioni continuano a essere, per chi pure la pratica e le riveste, una sorta di nemico irriducibile accusato «di intralciare la vita degli imprenditori e di tutti i cittadini capaci di creatività e di innovazione » , e di contrapporsi alle « soluzioni semplici e lineari escogitate dagli "uomini del fare" » rispetto « alle astruse alchimie di chi non conosce altro mestiere che la politica » 57• Il liberismo berlusconiano agisce quindi quale forza dimidiata e deformata, in cui la stessa difesa dei lavoratori autonomi e dei piccoli imprenditori settentrionali si rea­ lizza mantenendo in piedi l'attuale giungla fiscale (con le sue molte vie di fuga) e non attraverso l'assunzione politica di radicali riforme del settore. In questo senso appare un ulteriore tentativo della politica italiana di affrontare la questione dell'in­ terdipendenza economica e finanziaria invocando a parole la modernizzazione com­ petitiva, ma garantendo invece, di fatto, alcuni settori sociali decisivi dal punto di vista elettorale. Anche la crescita della Lega, altro attore fondamentale del successo delle destre nelle elezioni del 1 9 9 4 , va collocata dentro i processi sviluppatisi con la globalizza­ zione, vale a dire dentro quel processo di erosione dell 'autorità degli Stati nazionali accentuato dalla riorganizzazione di metà anni Settanta del sistema di scambi eco­ nomici e finanziari. Dinanzi alla crisi delle statualità tradizionali, l' Europa conosce infatti una nuova stagione di rivendicazioni etnoregionali, destinate a sfociare, dopo la caduta del Muro di Berlino, nel drammatico conflitto della ex Jugoslavia. Il feno­ meno delle varie leghe settentrionali nasce a metà degli anni Ottanta, inserendosi dentro questo processo più generale di riaffermazione delle identità locali. Si avvia

P· P·

SS· D. Campus, L 'antipolitica algoverno. De Gaulle, Reagan, Berlusconi, il Mulino, Bologna 2006, 1 47. s6. M. Tarchi, L'Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, il Mulino, Bologna 2003, 172. 57· lvi, p. 175. 45 2

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però al successo alla fine del decennio quando, messa da parte l' iniziale dimensione linguistico-culturale, pone al centro della propria agenda politica la difesa degli interessi economici del territorio locale. Alla fine del decennio, spiega Ilvo Diamanti, «l' impasto tra il concetto di territorio e quello di interessi diviene ricorrente nei messaggi e nei programmi della Lega Lombarda. Interessi economici, sociali, indi­ viduali » . Come scrive il sociologo veneto : Il territorio viene presentato, di volta in volta, come uno schermo per l'autotutela rispetto all' instabilità del sistema produttivo e del mercato del lavoro, oppure rispetto alle modifica­ zioni del tessuto sociale, al crescente clima di tensione. E rovesciando la prospettiva prece­ dente, l'autonomia regionale diviene un "mezzo" per affrontare problemi concreti, non il fondamento al quale mira ogni intervento concreto58•

È il primo periodo di grande successo delle leghe, parallelo alla crisi del sistema dei partiti a causa delle inchieste giudiziarie. In tale fase di transizione e di crisi . economica la regione viene [ .. . ] proposta quale perimetro per tutelarsi dalle minacce all' identità e, a maggior ragione, allo sviluppo, al benessere e alla sicurezza sociale. Minacce che provengono dallo stato dissipativo [sic] e da chi lo gestisce (la partitocrazia e la burocrazia), da un lato, dal Sud assistito dall'altro : antagonisti della Lombardia dei produttori e dei lavoratori. [ È in questo modo che] gli interessi vengono tradotti in valori e questi in identità. La specificità regionale viene, infatti, riformulata attribuendo valore prioritario ad aspetti il cui fondamento risiede negli interessi economici del territorio e degli individui, per la cui realizzazione l' au­ tonomia regionale diviene, conseguentemente, un mezzo59•

Più avanti tale visione compie un ulteriore passaggio qualificante. Nel progetto voluto da Bossi della Lega Nord, « la partizione territoriale proposta viene giustificata in base a criteri non tanto di tipo storico e culturale, quanto, invece, di omogeneità economica e sociale » 60• Ora è il Nord, nel suo complesso, a essere assunto unitaria­ mente come riferimento dei leghisti, in base appunto alla sua comunanza di interessi e alla questione dello sviluppo economico da garantire e preservare. E in questo quadro che si sviluppa l'ultraliberismo leghista, che, al pari di quello di Forza Italia, si caratterizza per un fortissimo antistatalismo e per una serratissima critica contro l'intervento pubblico in economia, sempre e comunque, nella retorica pubblica leghista, legati al clientelismo sviluppato dalla "partitocrazia" della Prima Repubblica '

s8. I. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I993· pp. 57-8. 59· lvi, p. 6o. 6o. lvi, p. 74· 4 53

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nel Mezzogiorno d ' ltalia61 • L'attacco contro lo Stato e la sua presenza in campo economico è chiaramente il logico corollario della richiesta, diventata centrale con l'ascesa della Lega a forza di governo nazionale dopo la parentesi secessionista, di ridisegnare l'amministrazione statale su base federale, soprattutto sul versante del sistema fiscale. E da questo specifico cono che l'etnicità accantonata inizialmente nella definizione della Padania ritorna nel discorso politico leghista. Partendo da presupposti economici, il leghismo finisce infatti per ridisegnare la cittadinanza su base territo­ riale, confermando l' iniziale lettura di Gian Enrico Rusconi del fenomeno leghista quale movimento portatore di una visione "etnicà' della democrazia e quindi della cittadinanza e dei diritti a essa associati62• Spiega a questo proposito Carlo Donegà: '

Il territorio rappresenta il criterio in base al quale l'estensione delle pretese di accesso ai diritti subisce una limitazione. In ragione di questo criterio i principi universalistici e i diritti che vi sono connessi non vengono contestati in quanto tali, tanto meno vengono contestati in nome di ideali premoderni, ma subiscono una limitazione in senso "orizzontale", in base alla quale i criteri per l'applicazione dei diritti vengono riformulati per dar luogo a una specifica forma di territorializzazione della cittadinanza6�.

Proprio lo stretto rapporto fra territorio e cittadinanza ci illumina sulla profonda diversità della natura del liberismo leghista e della sua connessa retorica pubblica. Se infatti il raggruppamento berlusconiano si presenta quale forza promotrice delle scelte politiche ed economiche che hanno alimentato le nuove forme di inte­ grazione economica tra i mercati riassunte nella categoria della "globalizzazione", la Lega al contrario avanza le proprie proposte e il suo particolare ultraliberismo come forma di resistenza a quegli stessi processi globalistici presentati come irrinunciabili da Forza Italia. Competizione territoriale dunque contro competizione nazionale, questa la profonda differenza tra i due movimenti solo apparentemente accomunati dalla logica iperliberista e dalla stessa retorica dietro cui però si celano visioni non sempre coincidenti e sovrapponibili, producendo tensioni anche politiche destinate ciclicamente a riemergere. Paradossalmente, dopo la fine del sistema dei partiti della Prima Repubblica, il soggetto politico che più ha faticato a trovare se non una sicura collocazione, certo uno spazio di protagonismo a destra, è stata Alleanza nazionale, vale a dire l 'erede di quel Movimento sociale italiano, a lungo la sola forza antisistema presente alla 6 I. lvi, pp. 94-S· 62. G. E. Rusconi, Ripensare la nazione. Tra etnodemocrazie regionali e costruzione europea, in Id., Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993, pp. 25-44. 63. C. Donegà, Strategie del presente. I volti della Lega, in G. De Luna (a cura di), Figli di un benessere minore: la Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. roo-r. 4S 4

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destra del panorama pubblico. Giunto sostanzialmente impreparato alla grande svolta rappresentata dalla fine dell' Unione Sovietica e dal collasso del sistema politico del nostro paese, il M S I vede ancora agli inizi degli anni Novanta lo scontro interno per la segreteria tra Fini e Rauti giocato dentro l'attualità del riferimento al fascismo64• Anche la successiva creazione di Alleanza nazionale sembra realizzarsi senza una reale rottura con i riferimenti ideologici e culturali del passato 65• Sono infatti le circostanze esterne, vale a dire la legge uninominale e la discesa in campo di Berlusconi, a fare del M S I e poi di AN un soggetto irrinunciabile per il polo del centro -destra. Tuttavia, a tale indispensabilità corrisponde una contemporanea minorità politica dei postfa­ scisti. Mentre si afferma infatti una retorica antipartitica e antipolitica a cui sicura­ mente la cultura missina nel corso della sua pluridecennale opposizione al sistema repubblicano ha dato un contributo, la nuova formazione politica guidata da Fini si presenta più come la forza capace di garantire i vecchi equilibri che l'agente della rottura invocata da più parti a destra. Dentro la divisione elettorale instauratasi nel polo di centro-destra, Alleanza nazionale sembra puntare da subito a porsi come soggetto di riferimento di quella parte del blocco politico-sociale "governativo" più legato ai flussi di risorse pubbliche messi seriamente in forse dalla grave crisi politico-economica, radicandosi soprattutto nel Sud delle vecchie clientele democristiane. Al Nord i nuovi ceti produttivi conti­ nuano a guardare alla Lega o a Forza Italia, anche per via del tradizionale statalismo di origine missina che, seppure attenuato, restava saldo in nome dell' interesse nazio­ nale anche nel programma economico di AN del 1 9 9 3 . Qual era dunque l'orizzonte politico scelto dal nuovo partito nel corso degli anni Novanta ? Marco Tarchi così lo . nassume: L' ideologia dell'ordine e della sicurezza, un richiamo generico ma emotivamente intenso al sentimento nazionale, dosi sostanziose di tradizionalismo familiare, un' improvvisa fiducia nel mercato, un decoroso e controllato rimpianto per i tempi in cui "si stava meglio" 66 •

Tutti temi utili a garantirsi un sicuro spazio nella scena politica del paese, ma incapaci di catturare quei pezzi della società che, da destra, chiedevano una trasformazione radicale del paese in senso antipartitocratico e antistatalista. Per questo il partito di Fini, abbandonata l' identità postfascista e antisistemica, si è inserito rapidamente nel sistema politico della Seconda Repubblica e, pur senza provvedere a una profonda revisione della sua tradizione, ha finito per rappresentare per taluni versi il tratto moderato-conservatore di un blocco essenzialmente "rivolu-

64. M. Tarchi, Cinquant 'anni di nostalgia, intervista di A. Carioti, Rizzoli, MUano I994· p. 176. 6s. Cfr. P. Ignazi, Postjascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza Nazionale, U Mulino, Bologna 1994; M. Tarchi, Dal MSI ad AN. Organizzazione e strategie, U Mulino, Bologna 1997. 66. Tarchi, Cinquant 'anni di nostalgia, cit., pp. 217-22. 4 55

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zionario" rispetto agli assetti istituzionali vigenti67• Si può forse leggere anche in questa prospettiva la convinzione espressa da Marcello Veneziani, nel 1 9 9 4 , che il partito di Fini rappresentasse «l'anima sociale, nazionale e tradizionale del cosiddetto Polo delle libertà » , vale a dire quell' « anima identitaria » , da lui considerata « neces­ saria per radicare la svolta nella storia del popolo italiano » , ma in realtà non in grado di assumere un ruolo guida nel nuovo centro-destra a trazione forzista-leghista68• La destra postmissina nasce quindi vecchia, nel senso che l' ipotetico disegno di "modernità europeà', coltivato dal suo leader e incentrato sull' idea di crescita econo­ mica, coesione sociale interna attraverso l'economia di mercato e la salvaguardia dell' identità senza però preclusioni xenofobe, è scavalcato e oltrepassato dall'affer­ mazione delle nuove destre populiste. Le difficoltà a costruire una destra con quelle caratteristiche recentemente pale­ satesi dopo la fuoriuscita di Gianfranco Fini dal Popolo della libertà mi pare si collochino dentro questo crinale. Non a caso, dopo aver cessato di essere "fascista" nel senso di rappresentare una forza antisistema e che si voleva alternativa al libera­ lismo, Alleanza nazionale, pur trovando un ruolo e un radicamento elettorale stabili, non è riuscita a sviluppare una propria progettualità rispetto ai suoi alleati concor­ renti, da cui è stata di fatto fagocitata.

s

Conclusioni

La crisi di metà anni Settanta, quindi, getta le basi non solo dello sfaldamento del paradigma antifascista su cui in Italia e in Europa culture politiche diverse avevano costruito la loro proposta politica, ma rappresenta pure uno snodo nella storia della destra europea liberal-democratica. Le dinamiche che si innescano a partire da quel periodo si traducono in un processo di lungo periodo in cui le trasformazioni eco­ nomiche e sociali comportano l'emersione di nuove destre, di stampo populista, in contrasto, per molti aspetti, sia con la tradizione di matrice propriamente liberale che con quella apertamente neofascista. L' Italia del biennio 1 9 9 3-94 rappresenta forse il laboratorio politico di maggiore importanza di tale passaggio, costruendo un modello capace di fare da riferimento, su questo versante, per l' intera Europa del dopo Ottantanove.

67. Sull ' integrazione "passiva" del MS1 nel sistema politico della Seconda Repubblica, cfr. R. Chia­ rini, L'integrazione passiva, in R. Chiarini, M. Maraffì (a cura di), La destra allo specchio. La cultura politica di Alleanza nazionale, MarsUio, Venezia 2001, pp. 21-4. 68. M. Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia. Genesi e sviluppo della ideologia italiana fino ai nostri giorni, SugarCo, MUano 1994 ( 1• ed. 1987 ), p. 294.

Continuità e discontinuità del discorso anticomunista nella Seconda Repubblica di Andrea Mariuzzo

I

Premessa

Questo vi fa capire la differenza tra noi e loro. Noi non siamo mai andati a disturbare l'in­ contro tra capi ed elettori perché siamo uomini democratici. Hanno strumentalizzato paura, speranza, dolore, morti, vergogna. Non avete dignità, nobiltà d'animo, libertà, siete ancora oggi e come sempre dei poveri comunisti.

Con queste parole, il 18 giugno 2 0 0 9 , Silvio Berlusconi rispose a un gruppo di con­ testatori durante un comizio tenuto a Cinisello Balsamo nel corso della campagna per i ballottaggi alle elezioni amministrative1• I fatti avvennero pochi giorni dopo le elezioni europee del 6-7 giugno, tenutesi sulla scia di polemiche che avevano iniziato a minare la credibilità e il consenso di un governo di destra fino a poche settimane prima saldo nel gradimento dell'opinione pubblica. Le più pungenti voci del dibattito pubblico hanno guardato allo sfogo di Cini­ sello Balsamo come al recupero dello stilema ritrito della lotta ai "comunisti" che il leader della coalizione di centro-destra aveva agitato come uno spauracchio fin dagli inizi della sua esperienza politica. Il ritorno al discorso anticomunista alla fine della sua quasi ventennale parabola politica poteva essere presentato come la chiusura di un ideale cerchio, per un'avventura che nei fatti si concludeva con il recupero degli espedienti retorici con cui era partita. Queste valutazioni, effettivamente, hanno colto il ruolo centrale del discorso anticomunista nella proposta identitaria e nei richiami alla mobilitazione dei simpa­ tizzanti delle formazioni politiche che nell'ultimo ventennio si sono riconosciute nella coalizione di centro-destra. Ma hanno sottovalutato le ragioni di una simile scelta dei paradigmi discorsivi di riferimento, e soprattutto quelle della loro efficacia. In particolare, si è spesso commesso l 'errore di trattare l'anticomunismo berluscoI. Tra i tanti commenti alla notizia e link ai video degli eventi disponibili online al momento della pubblicazione, si può suggerire quello presente sul sito del "Sole 24 Ore": http :/ /www. ilsole24ore. com/art/SoleOnLine4/ltalia/2009/o6/Berlusconi-contestato-%2oCinisello.shtml. 4 57

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niano come una semplice nota di colore. La frattura anticomunista, infatti, è emersa dalla crisi del sistema politico impiantato nel 1946 assai più vitale di quel «paradigma antifascista » \ fondativo dell'incontro costituzionale e degli equilibri da esso deter­ minati. Tale insieme di riferimenti legittimanti, in effetti, aveva rappresentato per oltre un quarantennio un elemento discriminante per la legittimità repubblicana delle forze politiche, ma nella rapida evoluzione del 1992-93 aveva dimostrato di essere ormai piuttosto fragile nella coscienza politica di gran parte degli elettori. Come sosteneva nel 1995 uno dei maggiori studiosi della destra italiana commentando gli esiti elettorali del 1994: La cultura politica democratica non può più accontentarsi delle comode formule demoniz­ zatrici con cui si è baloccata per quasi mezzo secolo e che ha finito con il risolvere la "que­ stione-destra" con la sua equiparazione al fascismo. L' intera storia repubblicana va rivisitata per render ragione di un esito inaspettato ed invece - si vede solo ora - iscritto nelle sue viscere3•

Ma, più ancora dell'orientamento genericamente conservatore di una parte cospicua dell'elettorato, sono apparse effettivamente difficili da prevedere la rapidità e l'effi­ cacia con cui il capitale di consenso "liberato" dalla polverizzazione di alcuni dei principali partiti poteva essere raccolto e riorientato su soggetti completamente nuovi e in larga misura sradicati dallo scenario precedente, attraverso l'utilizzo di un discorso di contrapposizione all 'avversario comunista. Un simile insieme di riferi­ menti linguistici era considerato nel 1994 ormai superato dagli eventi e dall'evolu­ zione dell'elettorato, solo perché era stato perso di vista dai tradizionali strumenti per la ricostruzione della cultura politica dell' Italia repubblicana. Invece, esso era rimasto un elemento di primo piano nella determinazione dei comportamenti elet­ torali di massa, come avrebbero confermato anche le rilevazioni sul territorio svolte quindici anni dopo dal gruppo di lavoro di livo Diamanti: La geografia di voto del PD resta in buona sostanza analoga a quella delineatasi per i D S nel 2001, per il PDS nel 1992 e, a ritroso, per il PCI. In altri termini, il PD continua ad essere ancorato nella "zona rossa" e stenta a espandersi altrove. [ ... ] Invece, vista nell' insieme, la base elettorale dei partiti dell'alleanza guidata da Berlusconi delinea una geografia nazionale forte nel Nord, nel Sud e nelle isole. In prospettiva storica, evoca quella frattura anticomunista che ha condizionato il sistema politico della prima Repubblica. E infatti le province dove appare più debole coincidono con quelle dove era più forte il Fronte popolare nel 19484•

2. Su questo tema, rinvio anche al saggio di Tommaso Baris raccolto in questo volume. 3· R. Chiarini, Destra italiana. Dall'Unita d'Italia a Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia 1995, P· 15· 4· I. Diamanti, Mappe dell'Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro... e tricolore, il Mulino, Bologna 2009\ pp. 204-12.

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Detto in altri termini, la capacità di mobilitazione elettorale dell'anticomunismo affonda le sue radici in profondità nello sviluppo dei comportamenti aggregativi ed elettorali tipici del sistema politico repubblicano classico, solo parzialmente rispon­ denti alle logiche della Repubblica dei partiti a cui sono stati spesso ridotti. Senz'altro, l' intuizione dell ' importanza del richiamo alla contrapposizione al comunismo nella costituzione in tempi brevissimi di un fronte compatto ha rappresentato uno degli elementi vincenti dell'establishment politico e pubblicistico delle destre di governo della Seconda Repubblica. La proposta discorsiva messa in campo in questi settori dal 1 9 9 4 è stata insomma il prodotto di un'opera di riscrittura, rimodulazione e adeguamento di posizioni, giudizi e immagini critiche assai longeve allo scenario italiano e internazionale successivo alla caduta del Muro di Berlino.

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Il discorso anticomunista nell 'età repubblicana classica : materiali per una definizione5

Cercare di mettere a punto una definizione del discorso anticomunista e del suo ruolo nella vita politica italiana non può che riportare a come l'opinione pubblica moderato-conservatrice visse la grande cesura del 1 9 4 5 . Il faticoso ritorno al libero confronto democratico, accompagnato dall' imporsi del Partito comunista italiano come attore di primo piano nel nuovo sistema politico, e dali' inserimento del paese in un sistema internazionale che si andava caratterizzando per una contrapposizione altamente polarizzata tra blocchi che vedevano il mondo comunista come contro­ parte assoluta del blocco "occidentale" raccolto attorno agli Stati Uniti, portarono settori assai diversi del paese a ridefinire la propria identità e la propria collocazione politica in opposizione al fenomeno comunista e al suo successo su scala nazionale e internazionale. Questi ambienti, di conseguenza, vissero un riavvicinamento tra loro solo parzialmente individuabile attraverso i canoni delle dinamiche partitiche. E vero che, dopo l 'uscita dal governo del P C I e del suo altrettanto imponente alleato socialista avvenuta nel maggio del 19 47, i partiti della coalizione centrista trovarono un comune punto di collaborazione e di legittimazione reciproca in una discriminante anticomunista che accompagnò la precedente comune matrice antifa­ scista. Tuttavia, un simile consenso sulle posizioni del rifiuto del comunismo si doveva a una capacità di mobilitazione che andava al di là degli uffici di stampa e propaganda della Democrazia cristiana, l'unico partito di governo dotato in quegli anni di apparati di massa per la creazione e la gestione del consenso. Piuttosto, il '

S· Molti degli spunti esposti in questo paragrafo sono raccolti dal mio Divergenze parallele. Comu­ nismo e anticomunismo alle origini de/ linguaggio politico dell'Italia repubblicana (1945-1953), Rubbet­ tino, Soveria Mannelli ( cz) 20IO, a cui mi permetto di rinviare per ulteriori specificazioni. 4 S9

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discorso anticomunista sembrava comporsi di una serie di argomenti e di stereotipi prodotti e fatti circolare, con un notevole interscambio di opinioni e temi, nell' am­ bito di un reticolo di produzione linguistica e comunicazione politica che coinvol­ geva gruppi organizzati di varia natura, ma anche redazioni di quotidiani d 'informa­ zione composte da giornalisti per lo più di formazione liberale rimasti in attività senza eccessivi problemi durante il regime e dopo i successivi tentativi di epurazione ( dal "Corriere della Serà' al "Messaggero" alla "Nazione" ) , e periodici di costume a largo consumo come "Oggi" ed "Epoca", diretti e "cucinati" dalle stesse penne, seppure con un'attenzione più filtrata all 'attualità politica vera e propria. Essi erano del resto destinati alla lettura da parte di un pubblico genericamente moderato-conservatore o anche lontano dall' impegno politico, destinato a ritrovarsi per diversi decenni a ogni tornata elettorale sotto le insegne dello scudo crociato o dei partiti vicini alla tradizionale area di governo. Riuscirono così a rendere valutazioni e giudizi critici sull 'esperienza comunista e sui suoi rappresentanti italiani un elemento di definizione dell'orientamento politico "in negativo" assai più duraturo di una precisa militanza politica e partitica6• Pur nella diversità di accenti che caratterizzava un discorso generato da una plu­ ralità di voci portate per certi aspetti persino a configgere tra loro su alcuni riferi­ menti ideali costitutivi, l' immagine del comunismo circolante in questo orizzonte culturale e identitario può essere sintetizzata attraverso l ' individuazione di alcuni elementi ricorrenti che, declinati con varie flessioni e intensità, rappresentavano una sorta di base comune per la circolazione delle principali critiche al comunismo nel pubblico a esso ostile. La natura intrinsecamente atea e materialista dei programmi e delle convinzioni ideologiche del comunismo, applicazioni nella pratica politica e sociale del materia­ lismo storico, rappresentava l'elemento fondamentale per la condanna dottrinale delle violenze e delle prevaricazioni dei regimi del blocco orientale da parte cattolica. Tale interpretazione finiva peraltro per essere generalmente condivisa anche dalle voci meno influenzate dal confessionalismo cattolico, poiché presentava il comunismo come inadeguato a rappresentare i più tradizionali e sentiti valori del popolo italiano, considerato natura/iter cristiano e cattolico. L'esperienza del regime sovietico dalla rivoluzione alle "purghe" staliniane, e quella della presa del potere comunista nell ' Europa orientale, così come giungeva ai lettori dalle notizie dei dissidenti rifugiatisi in Occidente e attivi nella pubblicistica fin da subito dopo il 1 9 4 5 , chiariva senza ombra di dubbio come la proposta politica comunista si fondasse necessariamente sulla negazione della libertà individuale e sull ' imposizione di un dispotismo ben più duro e sanguinario di quello vissuto 6. Per un ulteriore riferimento analitico e metodologico per questo tipo di materiale documen­ tario, rinvio all 'ottimo C. Baldassini, L'ombra di Mussolini. L'Italia moderata e la memoria delfascismo (I945-I900) , Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2008.

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dall ' Italia fino alla Seconda guerra mondiale. L' idea che il comunismo italiano potesse deviare da una simile regola era ritenuta infondata, e il P C I non mancava di dimostrarlo con il rigido ordinamento gerarchico che caratterizzava i suoi quadri e con il duro trattamento riservato a dissidenti e fuoriusciti. La democrazia italiana era quindi legittimata a prendere provvedimenti per marginalizzare la forza di un partito che rappresentava una minaccia sostanziale alla sua esistenza, ma che utilizzava i diritti costituzionali per aumentare il proprio potere e la propria presenza sociale. Il "legame di ferro" con una potenza ostile all 'alleanza difensiva a cui dal 1949 l' Italia partecipava rendeva il comunismo italiano una forza antinazionale, un sup­ porto diretto alla più grande minaccia alla pace e alla sicurezza del paese; in tale contesto, l 'impegno comunista e socialista nelle campagne per la pace e il disarmo atomico che caratterizzarono i primi anni Cinquanta, nonostante la capacità di coinvolgere settori della società assai distanti dal mondo della sinistra marxista, era condannato come una strategia di destabilizzazione del "fronte interno". I risultati economici che si potevano desumere dalle scarse notizie filtrate attra­ verso la cortina di ferro denotavano un panorama di povertà diffusa, di disugua­ glianze di trattamento alimentate dal sistema politico e di inefficienza produttiva consustanziale ai limiti dell'economia pianificata e dello sforzo collettivistico. Era stridente il contrasto con lo sviluppo economico e l'aumento della ricchezza che l' ingresso nei circuiti di scambio occidentali alimentati dal Piano Marshall e dal Mercato unico europeo garantivano all' Italia. Il fallimento della legge elettorale del 1 9 5 3 nell'assicurare solide basi parlamentari alla maggioranza centrista, il conseguente consolidamento del P C I in un ruolo di sostanziale monopolio dell'opposizione "istituzionale" accompagnato da una pre­ senza sempre più robusta al governo delle amministrazioni locali, e in seguito la scelta dei vertici democristiani di allargare la base di consenso con una cauta apertura a sinistra, portarono a un graduale abbandono dei toni più accesi di polemica antico­ munista almeno per un paio di decenni nell 'arena politica7• Eppure, come si è detto, l'opposizione al P C I e all 'universo di valori e di riferimenti che esso rappresentava continuò a tenersi in vita attraverso canali meno appariscenti, anche negli anni in cui questa dimensione del conflitto politico sembrava ridotta in sonno. In particolare, nel giornalismo e nella pubblicistica liberai-conservatrice circolarono spunti critici destinati ad aggiornare l'atteggiamento di diffidenza verso il P C I alla nuova temperie politico-culturale. Si metteva in particolare in guardia dalla «rivoluzione silenziosa, cortese, che avanza chiedendo il permesso e sorridendo, la rivoluzione fatta con il codice alla mano, senza fretta, di elezioni in elezioni, che può mettere il paese, tra qualche tempo di fronte al fatto compiuto » ; e ci si preoccupava della tendenza dei 7· Per una simile interpretazione, rinvio a R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano {1936-Ig6o). Lineamenti di una storia, in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003, pp. 33I-4.

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sindacati e delle organizzazioni da esso controllati a difendere a spada tratta una politica del lavoro e della produzione « reazionaria » , così da mantenere intatte le condizioni di povertà diffusa senza le quali sarebbe stato impossibile l'aspro conflitto di classe necessario a mantenere il proletariato italiano su posizioni così radicali8• Queste impressioni vennero ripetutamente riprese e ristrutturate negli anni del "com­ promesso storico" e delle "convergenze parallele" che legittimavano il P C I come interlocutore delle forze di centro, e avrebbero rappresentato il riferimento di base per gli inviti del "Giornale" di Indro Montanelli a « turarsi il naso » alle elezioni del 19769, o per l 'individuazione, da parte di alcuni analisti, nelle specificità del P C I delle radici di un costante malfunzionamento del sistema dei partiti italiano10•

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Anticomunismo e fine del comunismo in Italia e nel mondo

Simili prese di posizione, insomma, mantenevano un uditorio attento e numeroso anche negli anni in cui sembravano aver perso una precisa e qualificata rappresentanza nella sfera istituzionale, seppure in luoghi più defilati della costruzione dei linguaggi di confronto propri dell 'arena politica. Questo scenario si sarebbe rivelato decisivo per la ricezione in Italia dell 'improvvisa e decisa ripresa degli spunti critici verso l'esperienza comunista che sul piano internazionale avrebbe accompagnato l'improv­ viso crollo dei regimi dell' Unione Sovietica e dell' Europa orientale innescato dai tentativi di riforma promossi da Michail Gorbacev. Negli anni Ottanta, protagonisti della scena internazionale come il presidente statunitense Ronald Reagan, con le sue critiche al dispotismo burocratico dell' « impero del male » che trovava la sua diretta e più terribile conseguenza nell' inevitabile arretratezza di un sistema economico e 8. Cfr. spec. L. Barzini jr., I comunisti non hanno vinto, Mondadori, Milano I9SS (pp. 12-3 e 43-4 per le citazioni). Il volume raccoglie in versione ampliata l'Inchiesta sul comunismo italiano pubblicata dall'autore - pubblicista liberai-conservatore di vaglia, figlio di uno dei più popolari inviati speciali e narratori di viaggio nell' Italia di inizio secolo e primo italiano a conseguire la specializzazione in giornalismo alla Columbia University mentre risiedeva negli Stati Uniti negli anni del fascismo - nelle prime due settimane di maggio sul "Corriere della Sera" e poi ripresa su altre testate a cui il giornalista contribuiva, come "Oggi': Il testo rappresenta uno dei primi, dei più popolari e forse dei più riusciti tentativi di declinare la diffidenza anticomunista in termini compatibili alla situazione italiana e inter­ nazionale seguita alla morte di Stalin e ai risultati elettorali del 7 giugno I9S3· 9· Per alcuni riferimenti generali su queste dinamiche, cfr. ancora Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1930-1900), cit., ma anche alcuni spunti in S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1940-7S), Donzelli, Roma 2oos. ro. Per l'autorevolezza del suo autore e la fortuna dell' interpretazione, cfr. spec. G. Sartori, Lo scenario del compromesso storico, in "Quaderni di Biblioteca della Libertà", 1978, r r, numero speciale Il PCI dall'opposizione al governo: e dopo?, pp. 79-108, e in generale i saggi raccolti in Id., Teoria dei partiti e caso italiano, SugarCo, Milano 1982.

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produttivo ingessato1., e Giovanni Paolo n , pontefice originario delle terre della "Chiesa del silenzio" che nel 1991 rivendicava con forza il ruolo del magistero eccle­ siastico nella condanna precoce e senza appello di un sistema politico ed economico « in cui lo schieramento di parte offuscava la consapevolezza della comune dignità umana » , dissoltosi essenzialmente per la sua negazione dell'idea che «ogni uomo [ ... ] portava in sé l' immagine di Dio » 12, promossero nel dibatti to poli tico una rin­ novata delegittimazione di un esperimento sociale che mostrava irrimediabilmente la corda, e un corrispondente recupero di una posizione di centralità delle opzioni ideali che a esso si erano opposte con maggiore vigore. Il contesto italiano, di fronte a questi sviluppi capitali, era dominato dalle incer­ tezze di un Partito comunista che veniva da una stagione di decisa critica nei con­ fronti della politica interna e di quella estera sovietiche, portata avanti a fondo dalla segreteria Berlinguer, ma sempre orientata a fare del P C I un contraltare avanzato nelle dinamiche interne del movimento comunista internazionale, piuttosto che a porre le basi di un'autentica ridiscussione della propria appartenenza a esso. Le rinnovate speranze di autoriforma del regime sovietico innescate dalla parabola gorbaceviana non fecero altro che trascinare nuovamente il movimento comunista italiano in una chiamata di corresponsabilità, considerata erroneamente superata dai fatti e dalle scelte politiche precedenti, per un'esperienza politica che nel 1989 giungeva brusca­ mente a conclusione, a metà strada di un processo di ripensamento sostanzialmente incompiuto13• In queste difficoltà seppe incunearsi con un discorso politico-culturale nuovamente aggressivo l 'area politico-culturale socialista. Il progetto politico cra­ xiano di fine della subordinazione del P S I al P C I a sinistra, sul piano programmatico e della militanza, si coniugava a una riflessione intellettuale più raffinata e di più ampia portata, la cui circolazione era garantita dal pieno sostegno delle strutture organizzative del partito ; in questo ambito si produsse una ridiscussione convinta di I I. I termini generali della critica di Reagan al dirigismo comunista, in contrapposizione esplicita alla sua deregulation, sono ben chiariti in R. G. Powers, Not without Honor: A History of American Anticommunism, Yale University Press, New Haven (cr)-London I99S· pp. 4IS ss. Per l'enucleazione di alcuni aspetti generali del ruolo internazionale del revival anticomunista reaganiano, cfr. M. Del Pero, Liberta e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, I770-2oii, Laterza, Roma-Bari lOII, pp. 379 ss. Il. S.S. Giovanni Paolo n, Centesimus Annus. Lettera enciclica nel centenario della Rerum Novarum, in http:/ /www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_ OIOSI99I_centesimus-annus_it.html. I 3. Per ulteriori spunti di riflessione, oltre ai diversi saggi sul tema presenti in quest 'opera, rinvio a F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Carocci, Roma 2006 ; S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006 ; Id., L'invenzione del ((post-comunismo': Gorbaéev e il Partito comunista italiano, in "Ricerche di Storia Politica", xx, 2008, I, pp. 2I-36. Per alcuni apporti specifici sulla collocazione del comunismo italiano sul piano internazionale, cfr. U più recente V. Lomellini, L 'appuntamento mancato. La sinistra italiana e il dissenso nei regimi comunisti (I9 6S-I9S9), Le Monnier, Firenze lOIO. Per un'analisi incentrata sugli aspetti simbolici e identitari del passaggio del I989-9I e dei suoi limiti, cfr. anche D. l. Kertzer, Politics and Symbols: The Italian Communist Party and the Fall ofCommunism, Yale University Press, New Haven ( CT)-London I996.

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alcuni tratti costitutivi della cultura comunista, nell'ambito di un ritorno di stimoli e suggestioni dal mondo nel confronto dialettico tra i blocchi inimmaginabile fino a pochi anni prima14• Sul terreno delle critiche ai limiti teorici e pratici del poststalinismo nel blocco sovietico, che arrivò a coinvolgere nella polemica anche i riferimenti nazionali del comunismo italiano come il pensiero e l'opera di Gramsci, si unirono al gruppo "storico" raccolto ormai da tempo in "Mondoperaio" attorno a Massimo Salvadori e Luciano Cafagna voci critiche dell'esperienza comunista prima estranee a una precisa collocazione politica e spesso assai lontane dai tradizionali canali di confronto dell'opinione di sinistra, attratte da una base teorica che nella dura polemica con l' immobilismo comunista la dirigenza attorno a Craxi sembrava rendere aperta ed eclettica, come da tempo non accadeva nel panorama dei grandi partiti italiani. Tra gli altri, ebbero la possibilità di ricevere attenzione e ampia circolazione delle loro posizioni diversi economisti e pensatori politici di area !iberista e libertaria. Del resto, per un paradosso solo apparente, le opzioni rilanciate nel mondo da Reagan, che tanto fascino esercitavano su di loro, trovarono ascolto nel rinnovato P S I , un soggetto in cui stavano diventando moneta corrente i temi del mercato e della sua piena accettazione sul piano della politica economica e delle valutazioni sociali; infatti, nella sua radicale opposizione a un incontro P C I- D C basato sulla necessità di superare, riformare o quanto meno tenere sotto stretto controllo il capitalismo di mercato, Craxi stava portando avanti una profonda modifica negli atteggiamenti e negli abiti mentali del socialismo tradizionale15• Allo stesso modo poté trovare ospitalità nel nuovo progetto socialista una figura eccentrica del dibattito cattolico italiano come don Gianni Baget Bozzo : già attivo dossettiano, in seguito all' incontro con il cardi­ nale Siri e alla vocazione sacerdotale, Baget Bozzo era giunto a una ferma opposizione dello sviluppo conciliare nella Chiesa e di quello che egli considerava il suo principale riflesso politico, il "compromesso storico" tra una Democrazia cristiana eccessiva­ mente pragmatica nella gestione del potere e un Partito comunista incapace di supe­ rare i suoi paradigmi di fondo anticristiani16• 14. Cfr. spec. P. Craveri, L'ultimo Berlinguer e la "questione socialista", in "Ventunesimo Secolo", I, 2002, r, pp. 143-92; S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005; M. Gervasoni, Una guerra inevitabile. Craxi e i comunisti dalla morte di Berlinguer al crollo del Muro, in M. Gervasoni, G. Acquaviva (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2on, pp. 6 s-99· rs. Sul punto, cfr. spec. L. Pellicani, La battaglia culturale contro il comunismo, in Gervasoni, Acquaviva (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. 159-68, e R. Gualtieri, L'impatto di Reagan. Politica ed economia nella crisi della prima repubblica, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. rSs-214. r 6. Per ulteriori approfondimenti sulle posizioni di don Gianni Baget Bozzo, rinvio ad alcune sue opere e raccolte di testi pubblicistici degli anni Ottanta-Novanta, come Cattolici e democristiani. Un 'esperienza politica italiana, Rizzoli, Milano 1994; Come sono arrivato a Berlusconi. Dal PSI di Craxi a Forza Italia. Fede, Chiesa e religione, Marco, Lungro (es) 2001.

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La produzione dell 'anticomunismo berlusconiano negli anni Novanta

I rapporti di collaborazione e di incontro intellettuale e i tratti distintivi del discorso maturato in quest'ultima esperienza di riflessione e campagna anticomunista nel crepuscolo della Prima Repubblica si sarebbero rivelati più longevi della formazione politica che li aveva accolti. Infatti, se il Partito socialista italiano fu sostanzialmente la prima vittima del repentino mutamento di equilibri dei primi anni Novanta, molti degli spunti di riflessione maturati nella sua ultima stagione, e con essi gli esponenti del dibattito politico-culturale che avevano contribuito a produrli, poterono trovare uno spazio ancora rinnovato nella crisi di sistema seguita al 1992. In particolare, la tendenza sempre più diffusa a individuare in modo piuttosto semplificato nella rile­ vante presenza politica comunista la radice di alcuni limiti di sistema delle istituzioni e della vita economica e sociale italiana rappresentò un punto di congiunzione tra questo tipo di circoli politico-culturali e la galassia delle formazioni radicalmente critiche della Prima Repubblica al tramonto, dalle nuove leghe territoriali all'area rappresentata dal Movimento sociale italiano, che dalla sua precedente esclusione dalla "stanza dei bottoni" trovava una nuova legittimazione17• In questi termini, lo sforzo di dare corpo e sostanza al rinnovato discorso anti­ comunista nell'ambito della nuova alleanza di destra negli anni Novanta andava ben al di là del semplice richiamo al "pericolo rosso" che alcuni dei primi sondaggi sulla composizione e sulla presenza sociale di Forza Italia, elemento aggregante della com­ pagine conservatrice, ritenevano passeggero e funzionale all'emergenza della cam­ pagna del 199418• Un laboratorio di intensa sperimentazione di questa rilettura dei temi classici della critica al comunismo attualizzati nella forma di una rottura con il passato italiano e internazionale fu quello della rivista "Ideazione". La testata sorse a fine 1994 per iniziativa di Domenico Mennitti, giornalista ed esponente politico di estrazione missina allora impegnato in Forza Italia, e del filosofo Vittorio Mathieu, con il contributo decisivo di Baget Bozzo per stabilire fin da subito un' impalcatura ideologica incentrata sulla conciliazione tra dottrina sociale cattolica e promozione della libertà economica, in decisa opposizione alle possibili derive autoritarie dello statalismo, e con l'ambizione di farsi polo di aggregazione del personale intellettuale I7. Tra gli studi specifici di riferimento ricordo soprattutto l. Diamanti, La Lega. Geografza, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma I99S· e A. Cento Bull, M. Gilbert, The Lega Nord and the Northern Question in Italian Politics, Palgrave MacmUlan, London 200I, e i lavori di P. lgnazi (Ilpolo escluso. Profilo storico del Movimento sociale italiano, il Mulino, Bologna I998, ma anche Legitimation and Evolution on the Italian Right Wzng: Social and Ideologica! Repositioning ofAlleanza Nazionale and the Lega Nord, in "South European Society and Politics", x , 2005, 2, pp. 333-49). I 8. Cfr. ad esempio C. Golia, Dentro Forza Italia. Organizzazione e militanza, Marsilio, Venezia I997· pp. I72-s.

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impegnato nell'edificazione della nuova destra di governo. Fin dal primo numero un commento del giovane giurista Giuseppe Valditara, poi destinato a una carriera par­ lamentare a partire dal 20 0 1 , collegava esplicitamente il fallimento dei regimi comu­ nisti con una chiara presa di distanze nei confronti della realtà italiana che ci si lasciava alle spalle dopo la crisi degli anni precedenti: Nel I 9 8 9 è soffiato nei paesi dell' Europa orientale un vento di libertà che ha spazzato via i regimi comunisti che li opprimevano. Nel 1 9 9 0 ha cominciato a concretizzarsi in Italia [ . .. ] un rifiuto sempre più cosciente di un certo tipo di organizzazione e di gestione dello Stato e dei valori che stavano alla base di quella organizzazione e di quella gestione. [ . .. ] I fatti italiani e quelli dell'est, pur in un contesto geopolitico diverso, presentano indubbi punti di contatto non foss'altro perché i valori e i fenomeni contestati in Italia caratterizzavano in forme affini quei regimi comunisti.

Secondo l'autore, al di là dello specifico ruolo giocato nel sistema politico, la presenza in Italia di un Partito comunista così influente aveva costretto il paese al rifiuto del mercato, al primato autoritario della politica nell'elaborazione delle scelte per la gestione delle risorse, in poche parole a un cono d 'ombra che riprendeva le caratte­ ristiche di base delle più comuni immagini critiche del comunismo ormai divenute classiche nella memoria pubblica del paese. L'obiettivo delle nuove forze di governo uscite vincitrici dal 1 9 9 4 avrebbe quindi dovuto essere una riforma radicale di quegli elementi strutturali che, nei fatti, segnavano il rifiuto della costituzione anche in Italia di una "società aperta": Quale deve essere il ruolo dello Stato : dirigista, interventista e dunque con una burocrazia necessariamente mastodontica, situato in una posizione di supremazia assoluta nei confronti del cittadino, trattato magari alla stregua di un suddito [ ... ] oppure uno Stato che sia al servizio del cittadino, uno strumento per realizzare una buona amministrazione, ridotto al minimo indispensabile [ ... ] ? [ ... ] L'autonomia va tollerata, [ ... ] ritenendo però che sia com­ pito dello Stato eguagliare le posizioni economiche dei cittadini oppure si è convinti che l'autonomia debba essere prima di tutto autogoverno, concepito come la più autentica pale­ stra di democrazia e di libertà [ . .. ] ? I tributi: è sacrosanto che chi lavora si goda il frutto della propria legittima fatica, [ .. . ] oppure i tributi devono essere in primo luogo espressione di solidarietà e quindi sono giusti anche quando privano di una buona fetta di guadagno al fine primario di garantire la redistribuzione e uno Stato assistenziale, penalizzando gli investimenti e mortificando l'intraprendenza ? 1 9

Di fronte alla rapida e fallimentare conclusione del primo governo Berlusconi, caduto poco dopo l' inizio delle attività di "Ideazione", i toni nell' intellettualità raccoltasi

pp.

I9. G. Valditara, E la rivoluzione italiana germoglio nel mitico 'S9, in "Ideazione", I, I994, I, 24-6.

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attorno alle formazioni di centro-destra abbandonarono presto la sicurezza del suc­ cesso della "rivoluzione italianà' in corso, per adeguarsi a una vera guerra di posizione con un postcomunismo che si sarebbe rivelato più coriaceo del previsto negli uomini e nelle strutture. In particolare, con la vittoria elettorale, nell'aprile del 1996, di una coalizione governativa che vedeva nel partito erede del P C I il soggetto principale, divenne più insistente la riflessione sulla mancata soluzione di continuità con l 'espe­ rienza comunista da parte dei soggetti più influenti della sinistra italiana. Già nel 1994 Giovanni Belardelli, in una sede tradizionalmente attenta al dialogo attraverso le barriere ideologiche e di appartenenza come la rivista "il Mulino", aveva guardato alla reazione della pubblicistica progressista italiana al successo di Berlu­ sconi come alla conferma di una non risolta tentazione autoritaria: L' istintivo rifiuto della società di massa, il ribrezzo per la volgarità degli italiani, fanno tra­ sparire un programma davvero democratico-totalitario [ . . . ] , l'esplicito rifiuto ad accettare che le persone possano aspirare a una felicità, a un benessere, a percorsi di vita non preventiva­ mente legittimati dalla sinistra [ . . ] , la proposizione di una linea pedagogico-autoritaria che dovrebbe estirpare dalla testa della gente l'aspirazione al «paese dei balocchi fondato sui prosciutti di Mike Bongiorno » . [ . . . ] Si tratta della vecchia idea democratico-giacobina [ . . ] , tale da condurre infine a individui che pensano come devono pensare, che agiscono come devono agireo. .

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Due anni dopo la questione si poneva con urgenza ancora maggiore, e da Eugenia Cavallari riceveva una risposta più articolata, legata alle modalità di un passaggio dal comunismo al postcomunismo che a torto si riteneva imposto esclusivamente da . cucostanze esterne: Nel processo di rinnovamento del PCI [ . . . ] è mancato un passaggio essenziale. Il crollo del comunismo, in Italia, in realtà, non c 'è mai stato, perché è mancata totalmente una critica radicale, all' interno del compatto mondo del PCI-PDS, delle cause del disfacimento del sistema sovietico. Non c 'è stata una seria analisi della crisi economica dell' uRSS [ . . . ] ; né, dopo anni di polemica anticonsumistica in Occidente, un ripensamento del problema contrario della scarsità dei beni [ . . ] ; non c 'è stata una grande riflessione sui guasti profondi operati dalla pianificazione economica, per tanti anni considerata panacea per tutti i mali capitalisti [ . . . ] . Ma quel che è più grave è che sia mancata, all' interno del PDS, una vera revisione storica dello stalinismo come regime e come cultura politica. La mancanza di libertà individuale, lo Stato di polizia, la pesantezza burocratica, la violenza sanguinaria dei lager e la cultura del sospetto, sono tratti tipici dei comunismi reali, da cui in Italia il PCI prima e il PDS poi hanno preso le distanze come patologie che non li riguardavano, senza mai riflettere sulla gravità di esiti di una cultura e di un' ideologica che erano anche loro2.1• .

20. G. Belardelli, Se alla sinistra non piacciono gli italiani, in "U Mulino", I994· s. 2I. E. Cavallari, L 'alternativa impossibile, in "Ideazione", 3, I996, 2, pp. 40-I.

p.

870.

ANDREA MAR1UZZO

L'idea che nel corso dell 'esperienza repubblicana il comunismo italiano avesse messo da parte i mezzi della violenza aggressiva che caratterizzava i regimi dell 'Europa orientale essenzialmente per mantenerne i fini era già stata un elemento caratteriz­ zante della pubblicistica anticomunista degli anni immediatamente successivi all'e­ mergenza del secondo dopoguerra. A risultato di queste riflessioni, negli anni Novanta essa tornava a essere pienamente esplicitata senza mezzi termini, come mostrava un numero monografico di commemorazione della caduta del Muro di Berlino in cui "Ideazione" ospitò una denuncia di Paolo Guzzanti del grandioso disegno [ ... ] dell'occupazione egemonica (cioè telecomandata, non diretta) dei gangli fondamentali della società: magistratura, informazione, scuola e università. Questa è l'opera ciclopica, gigantesca, dalle radici delicate e profonde che costituisce il monumentale organismo di potere del comunismo in Italia, del tutto simile e speculare a quello che si è prodotto in altri paesi. [ ... ] È crollato il sistema militare russo, [ ... ] ed è collassato il sistema sociale imposto per motivi egemonici da quello che abbiamo conosciuto come comunismo mondiale. Ma ciò che non è affatto scomparso, né poteva liquefarsi, è il comunismo stesso come macchinario egemonico funzionante22•

L'intervento dell'editorialista allora più vicino all'entourage berlusconiano rappre­ sentava un momento particolarmente significativo nella maturazione del discorso anticomunista promosso dal gruppo di lavoro che si esprimeva sulla rivista di Men­ nitti e Mathieu. Il legame, sempre sottinteso nella contrapposizione al movimento comunista, tra elaborazione interpretativa della storia degli ultimi decenni in senso critico nei confronti del P C I e dei suoi eredi e processi di comunicazione più diret­ tamente coinvolgenti nel vero e proprio confronto politico si faceva evidente con la partecipazione attiva di uno dei principali costruttori dello stile retorico con cui il leader di Forza Italia era intervenuto nelle dinamiche della politica italiana, e alla fine degli anni Novanta si apprestava a tornare alla carica verso la possibile riscossa delle elezioni del 20 0 1 . Impostando, attraverso una ricognizione dei più noti e ripresi discorsi berlusconiani di quel periodo2\ un rapido confronto con registri linguistici diversi da quello, comunque mantenuto su livelli argomentativi piuttosto complessi, della redazione di "Ideazione", si comprende chiaramente come la raccolta e l 'elabo­ razione attualizzante dei maggiori spunti critici dell'esperienza culturale comunista ( e di elementi della recente storia politica italiana a essa più o meno direttamente riconducibili ) rappresentassero il primo stadio, quello della legittimazione sul piano 22. P. Guzzanti, Il comunismo che resta, in "Ideazione", 6, 1995, s. pp. 103-9. 23. Una buona raccolta per spunti documentari di questo tipo è l'antologia L'Italia che ho in mente. I discorsi 'à braccio" di Silvio Berlusconi, Mondadori, Milano 2ooo, curata da P. Guzzanti, vero­ similmente uno dei principali ispiratori dei testi o dei canovacci originali, destinata ad avere ampia diffusione perché pubblicata insieme ad altri sussidi come supporto alla lunga campagna elettorale che Berlusconi avrebbe portato avanti tra il 2000 e il 2001 in vista delle elezioni politiche del 1 3 maggio.

CONTINUITÀ E DI S C ONTINUITÀ D E L D I SC O RSO ANT I C O M UNI STA

del dibattito intellettuale, di un più complesso lavoro di ripresa e semplificazione dell'anticomunismo volto a rafforzare l'identità di coalizione della nuova destra, che nel solco degli stilemi del 1994 si ripresentava alla competizione per la guida del paese. L'ondata autoritaria conosciuta nel secondo dopoguerra dall'Europa orientale, il «gigantesco maglio che, abbattendosi su realtà pur assai diverse tra loro, le [livellò] tutte al punto di ridurre Paesi di forti tradizioni democratiche e di alto sviluppo industriale, come la Cecoslovacchia, al rango di nazioni sottosviluppate » 14, e la tradizione comunista italiana sembravano avere le stesse radici, ovvero l'uso di ogni mezzo possibile per porre fine alle disuguaglianze economiche e sociali, finanche a mortificare le specificità dell' individuo in termini che, in un' Italia in cui il ricorso alla violenza di Stato era di fatto impossibile, si sarebbero trovate nell'oppressione fiscale; nella burocratizzazione della vita istituzionale ed economica che imbrigliava e metteva sotto controllo il libero spirito imprenditoriale; nella menzogna giudiziaria e a mezzo stampa che surrogava altre, ben più sanguinarie forme di epurazione.

s

Conclusioni

Con questa prima disamina della produzione del discorso anticomunista nel decennio che dalla caduta del Muro di Berlino portò alla seconda, più duratura, affermazione della nuova destra berlusconiana su una coalizione avversaria in cui gli eredi dell'e­ sperienza comunista italiana giocavano un ruolo di primo piano, si sono individuati alcuni elementi di novità rispetto al passato. Essi sono determinati soprattutto dalla necessità di attualizzare la polemica in un periodo in cui, sia sulla scena nazionale che continentale, il riferimento critico fondamentale era sostanzialmente scomparso. In generale, però, a questo mutamento dello scenario si è risposto sostanzialmente rivendicando tale scomparsa come una vittoria, e trovando negli ultimi grandi avver­ sari del comunismo internazionale una nuova fonte di legittimazione. Tale atteggia­ mento ha permesso un recupero del materiale discorsivo del passato, in un'ottica spesso di commemorazione e di rinnovamento delle battaglie precedenti che ha coinvolto a più riprese eventi trasformati in "luoghi della memoria", come appunto la caduta del Muro, ma anche le elezioni del 18 aprile 194815• La continuità dell 'anticomunismo italiano post-1989 con le esperienze prece­ denti, però, è identificabile anche in ragioni più strutturali. In primo luogo, l' anti­ comunismo sviluppato dalle nuove destre nell'ultimo decennio del xx secolo, attra24. S. Berlusconi, discorso tenuto a Roma il 9 novembre I999 per il decennale della caduta del Muro di Berlino, in L 'Italia che ho in mente, cit., p. 72. 25. Per quest 'ultimo caso, cfr. ad esempio il numero monografìco di "Ideazione" dell 'aprile I998, redatto in occasione del cinquantenario.

ANDREA MARIUZZO

verso l'azione combinata dell 'elaborazione intellettuale di alcuni gruppi di lavoro di varia estrazione culturale e della semplificazione del discorso pubblico operata da Berlusconi e dai suoi collaboratori, conservava una caratteristica tipica del discorso critico nei confronti dell'esperienza internazionale e delle varianti nazionali di comu­ nismo lungo tutto il Novecento europeo : la capacità di aggregare su un terreno comune spunti e famiglie politiche diverse, che nello stesso avversario trovavano il modo di unire i loro sforzi affermando comunque, in opposizione a esso, la loro specifica identità. L'osservazione generale avanzata, in uno dei lavori pionieristici nello studio della diffusione dell'anticomunismo in Francia, da Becker e Berstein trova dunque una nuova conferma : «A tous les moments, pour toutes les familles politiques, combattre le communisme, c 'est en meme temps, par opposition à lui, affirmer sa propre identité en la colorant de traits spécifiques que lui donne son rejet d u parti-rep o ussoir » 16• In secondo luogo, nella sua forma immediata e priva di specificazioni e distinzioni complesse, l'anticomunismo prodotto negli interventi pubblici di Berlusconi diven­ tava il linguaggio adeguato per una comunicazione politica diretta, sviluppata fuori dei canali tradizionali. Infatti, sul piano degli strumenti per la circolazione di questo tipo di discorso politico, i potentissimi mezzi editoriali e televisivi messi in campo dalle aziende di proprietà del principale leader della coalizione di destra a partire dal 1 9 94 si rivelarono vincenti, forse più ancora che per la loro quantità e capacità di diffusione dei messaggi, per la loro natura di media versatili e "generalisti", elementi aggregatori di un pubblico non politicizzato né chiaramente identificato nelle forze tradizionali e che per certi versi subiva l 'attività politica ed elettorale più che ricer­ carla. Un pubblico, insomma, che poteva essere identificato in continuità con quello del discorso anticomunista tradizionale dell'età repubblicana classica, per la sua late­ ralità alla militanza e al riferimento alle istituzioni partitiche e per la sua apertura a strumenti di informazione non immediatamente connotabili nell 'area della discus­ sione politica. In questo senso, la ripresa del tema anticomunista sarebbe divenuta un elemento caratterizzante dell' identità delle nuove destre perché soprattutto attorno a esso avrebbe finito per aggregarsi gran parte delle tipologie di elettori e simpatizzanti più rappresentative7•

26. J.-J. Becker, S. Berstein, Histoire de l'anticommunisme en France, I. I9I7-1940, Orlan, Paris I987, p. 3 86. 27. Per ulteriori riferimenti su questo tema, rinvio agli studi puntuali di G. Pasquino, The Five Faces of Silvio Berlusconi: The Knight of Anti-Politics, in "Modern Italy", X II, 2007, I, pp. 3 9-54, e L. Brusattin, Late Anti-Communism as a Shortcut: The Success ofForza Italia in the 1994 Italian Elec­ tion, in "South European Society and Politics", XII, 2009, 4, pp. 48I-99. 470

La destra alla prova del bi polarismo d i Roberto Chiarini

I

Introduzione

La destra italiana presenta un tratto di marcata originalità rispetto ai partiti omologhi delle altre democrazie occidentali. Non è caratterizzata, infatti, né da una continuità né da un'uniformità delle esperienze condotte nell'arco di ormai più di centocin­ quant' anni di vita dello Stato unitario. La sua è una storia contrassegnata, al contrario, da ripetute discontinuità politiche, amplificate da vere e proprie sostituzioni di iden­ tità. Per di più, essa risulta plurale non solo dal punto di vista diacronico ma anche da quello sincronico. Non si limita, cioè, a mutare nella sua costituzione ideologica e politica al cambio del « regime politico » in cui s'è trovata a operare1• Guardando alla sua caratterizzazione storica si possono pertanto individuare, in successione temporale, almeno quattro destre: una in età liberale, una al tempo del fascismo, una nel dopo­ guerra, per finire con la cosiddetta "Seconda Repubblicà', allorquando si afferma un polo di destra, articolato nel partito berlusconiano ( dapprima Forza Italia, poi Popolo della libertà, infine di nuovo Forza Italia) , nella Lega Nord e in Alleanza nazionale ( poi Fratelli d' Italia) . Con ciò non si esaurisce la tipologia della destra italiana. Non sempre, infatti, la presenza partitica è riuscita a egemonizzare, o anche solo a rappre­ sentare, l' intero fronte dell'opinione pubblica riconducibile a una categoria di destra. Lungo tutto il sessantennio liberale e per un cinquantennio in età repubblicana sono esistite, per così dire, una "destra legale" e una "reale". La prima è stata presente nelle istituzioni. La seconda è stata attiva nella società civile ma priva di una diretta rappresentanza politica. Il suo carattere sociocentrico ha finito con l'occultarla sul proscenio politico e nella mappa elettorale, anche se sarebbe azzardato sostenere che sia stata ininfluente sul piano politico. Nel tempo, è vero che tra le due si è consumata occasionalmente qualche parziale contaminazione, entrambe però hanno mantenuto vite parallele, non riconducibili in alcun modo a unità. A cominciare dall' Ottocento. Se la destra dei Ricasoli e dei Minghetti è stata attivissima all' interno del nuovo Stato unitario affermandosi addirittura come forza di governo ininterrottamente per tre I. G. Carocci, Destra e sinistra nella storia d'Italia, Laterza, Roma-Bari 2004. 471

RO B E RTO C H IARINI

lustri, non per questo ha riassunto in sé il fronte ben più vasto delle forze ostili alla sinistra del tempo, da quella liberal-progressista fino all'estrema dei radicali, dei repubblicani e dei socialisti2• La stessa dinamica, con altri interpreti, si è ripetuta nell' Italia repubblicana. Di nuovo abbiamo assistito allo sdoppiamento di una destra legale e di una reale. I loro destini si sono, sì, più volte incrociati, ma solo parzialmente e senza mai sovrapporsi compiutamente. Il riscontro di una destra parlamentare ridotta per mezzo secolo a una presenza marginale, quasi solo testimoniale, non si spiega altrimenti se non con il fatto che sia esistita un'opinione pubblica non rappresentata. Essa è stata infatti congelata intorno a un magro 4%, salvo occasionali impennate (come nel 1972, quando raggiunge 1' 8,7%) e fatta eccezione delle elezioni politiche del 19 53, quando la somma dei voti missini e monarchici supera una percentuale a due cifre. Non si spiega altri­ menti nemmeno il blocco al centro accusato dal sistema politico italiano, dimostratosi incapace di dar vita a decise virate a sinistra (con buona pace della consistente forza elettorale e politica conquistata da P S I e P C I ) . Persino le forze progressiste si sono dimostrate perfettamente consapevoli che un'esigua destra parlamentare non compor­ tava che esiguo fosse anche il peso di un'opinione pubblica notoriamente avversa a cambiamenti radicali dell'ordine sociale, economico e politico. Sono illuminanti al proposito due passaggi storici nel corso dei quali la sinistra italiana ha mostrato di adeguare la sua strategia alla convinzione maturata che nel paese ci fosse un blocco di forze determinato e capace di stoppare qualsiasi esperi­ mento di marca socialista. Primo : il ripiegamento moderato del centro-sinistra con­ sumatosi nell'estate del 1964 e alla fine accettato dai socialisti per paura di una reazione antidemocratica (persino di un colpo di Stato) . Secondo: la formulazione berlingue­ riana del compromesso storico nel 1973, che vide il segretario del P C I postulare l' im­ possibilità per la sinistra di accedere al governo senza l'apporto della D C . A rendere ancor più intricata e compromessa la sorte della destra in età repubbli­ cana è la ben nota ipoteca esercitata su di essa dal fascismo in forza sia dell' autorap­ presentazione esibita da seguaci impregnati di nostalgismo sia della rappresentazione che di essa hanno proposto avversari portati a risolvere in minaccia della democrazia ogni espressione politica o proposta programmatica etichettabile a qualsiasi titolo come di destra. La conseguenza è stata che la destra, proprio perché monopolizzata dai neo fascisti, si è pregiudicata, non diciamo l'ambizione di divenire forma maggio­ ritaria, ma persino ogni possibilità di formare quel polo dialettico alla sinistra che costituisce la norma di qualsiasi democrazia occidentale. Destra in Italia è diventata sinonimo di fascismo, ricettacolo di generiche suggestioni e di espressi conati di ever­ sione antidemocratica. Con ciò si è azzerata di fatto ogni possibilità di insediare una destra leale con le istituzioni. Questo vale ovviamente sino all'affermazione, nei primi

pp.

2. R. Chiarini, Destra italiana. Dall'Unita d'Italia a Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia I99S· 28-43· 47 2

LA D E ST RA ALLA PROVA D E L B I POLARISMO

anni Novanta, di una dinamica tendenzialmente bipolare del nostro sistema politico. Al contempo, ogni istanza o anche un semplice orientamento contrario alla sinistra è stato condannato o a restare confinato nell 'area della non rappresentanza o a mime­ tizzarsi sotto mentite spoglie: di volta in volta il partito o i partiti che nella congiun­ tura data interpretavano in modo più convincente il ruolo di argine alla sinistra. Tali caratteristiche rendono assai problematico, se non proibitivo, il ricorso a una categoria di destra invariata nei suoi riferimenti ideali ( « non esiste una vera ideologia della destra italiana » ) 3 e nelle sue espressioni politiche, non solo quando la si consideri guardando all'intera vicenda nazionale, ma anche - e forse soprattutto - quando se ne prenda in esame la sola sua storia repubblicana. A meno di rassegnarsi a risolvere ogni dinamica e presenza di destra al solo neofascismo, con il che resterebbe da spie­ gare come sia stato possibile non avere avuto nel corso di mezzo secolo uno sbilan­ ciamento del quadro politico a sinistra, viste insieme la forza elettorale conquistata da quest'ultima e la preoccupazione delle stesse forze a essa antagoniste (in primis la DC ) di vantare una propria inclinazione/ attenzione verso la sinistra: il famoso centro che guarda a sinistra di degasperiana memoria. Ma, ancor più, risulterebbe un dilemma insolubile il riscontro dell'improvvisa emersione di una destra di proporzioni analoghe a quelle di tutte le altre democrazie, non appena è stata fatta cadere la discriminante dell'antifascismo come criterio di legittimazione politica. Molto meglio allora usare la categoria di destra in un'accezione non "essenzialistà' ma "convenzionale", ossia tale che permetta di ricomprendere in sé scale di valori e proposte politiche non ricondu­ cibili a un'unica matrice, ma qualificabili con questa etichetta semplicemente per la posizione occupata sul continuum destra-sinistra nella dialettica politica del momento.

2

Nella Prima Repubblica : il Movimento sociale italiano e la "zona grigia"

Per tutta la Prima Repubblica, come s'è detto, accanto a una destra legale, anche se non legittima ( il M S I e, fino al 1 9 7 2, i monarchici ) , è esistita una destra reale, non rappre­ sentata nelle istituzioni ma ben più corposa della prima e non meno condizionante degli equilibri politici complessivi del paese. Una destra attiva prevalentemente solo sotto traccia. Di questa, appunto perché inespressa e non riconoscibile da una proposta politica compiuta, è difficile tracciare un profùo ben definito. In modo approssimativo se ne possono individuare le tracce in quella parte dell'opinione pubblica che al momento del risveglio in Italia della democrazia non si schierò espressamente a favore di nessuna delle parti in lotta ( Resistenza vs RSI ) e che è invalso chiamare "zona grigià', 3· G. Pasquino, What fs Right in Italy?, in "South European Society and Politics", pp. I77-90. 47 3

x,

2005, 2,

RO B E RTO C H IARINI

ossia quell'opinione pubblica che non era più "nerà' o che, più opportunisticamente, si preoccupava solo di non apparire ancora tale, ma che non era disposta comunque a diventare "rossà'. Un'area vasta che comprende appunto quanti si stavano disamorando nel corso - e a causa - della guerra del fascismo dopo averci più o meno intensamente creduto, così come quanti, pur non pentendosi delle loro passate compromissioni morali o materiali con il regime, cercavano di "sbianchettare" il loro passato per immet­ tersi nel nuovo corso democratico. Tutto quest'ampio fronte di opinione pubblica non si accasò stabilmente in alcun partito e, pur nutrendo occasionali (tacite o meno) simpatie nei confronti del M S I e, soprattutto, di alcune sue battaglie, non si è sentito mai di adottarlo come proprio rappresentante politico, trovando più conveniente sul piano delle opportunità e più confacente su quello della rispettabilità riconoscersi o semplicemente appoggiare quell'arco di partiti (su tutti la ne ) che offrivano più cre­ denziali e, soprattutto, più mezzi per svolgere efficacemente il contrasto alla sinistra. Si tratta di un arco di forze composito e molteplice nelle motivazioni. Queste pos­ sono essere di tipo confessionale come di ordine materiale, di convinta difesa di valori e di modelli di comportamento vissuti come irrinunciabili (in tema innanzi tutto di famiglia, di educazione, di sessualità) come di più prosaica salvaguardia di privilegi o di interessi costituiti, di natura ideologica come di istintiva ripulsa di ogni lesione della tradizione. Il loro elemento unificante, al massimo grado al tempo della Guerra fredda, è l'anticomunismo, che, non a caso, nella sua valenza di "scelta di civiltà" viene interio­ rizzato come discrimine primario di tale parte politica. Un a priori a tal punto introiet­ tato da restare valido significativamente anche dopo che il comunismo sarà scomparso. Un assetto sdoppiato della destra non poteva reggere nello scenario rivoluzionato del dopo Guerra fredda. Ne emerge allora una sua nuova configurazione sotto la spinta di alcuni processi venuti a maturazione più o meno in quel torno di tempo. La destra che ha occupato ininterrottamente il campo e che ha assicurato per un intero cinquantennio (unico caso in tutto l' Occidente) una stabile presenza nelle istituzioni a un'espressione politica del neofascismo non poteva non accusare, prima o poi, vistosi contraccolpi proprio a causa della strenua difesa di un'identità delegit­ timante. Dopo aver subito una perdurante ghettizzazione a opera dei partiti dell'arco costituzionale, a cominciare dagli anni Ottanta ha sopportato anche una perdita secca di iniziativa politica. Una crisi di ruoli e di identità che aveva fatto insorgere all' in­ terno del suo stesso gruppo dirigente un forte dissenso, sfociato nel 1978 in una rovinosa scissione (nascita di Democrazia nazionale di Ernesto De Marzio) , anche se presto riassorbita almeno nei numeri. È la prima volta dal dopoguerra che nella destra neofascista si attua una netta « fuoriuscita ideologica e programmatica dal fascismo »4• Bisogna, comunque, che si consumi il tracollo di quel centro - D C , P S I e partiti laici minori - che ha dominato per un intero cinquantennio il quadro politico nazio­ nale e che, a latere, ha comportato per il partito neo fascista la condanna a un' irri4· N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant 'anni di neofascismo da Salo ai centri sociali di destra, Sperling & Kupfer, Milano 2006, p. 247. 474

LA D E ST RA ALLA PROVA D E L B I POLARISMO

mediabile condizione di marginalità, perché si metta in moto un processo insieme di rigenerazione e di rilegittimazione della destra italiana. Prima le "picconate" del presidente della Repubblica Cossiga, poi gli scossoni del moto referendario di Segni, infine le manette del pool di Mani pulite (a monte l 'erosione elettorale al Nord della Lega lombarda): tutto ciò finisce con il liberare il campo dell'intero arco di forze sino allora titolari del consenso cosiddetto "moderato", offrendo in tal modo alla destra italiana, per la prima volta nella storia repubblicana, di divenire protagonista, ossia di non essere costretta a svolgere ruoli solo gregari del partito dominante. Il nuovo scenario politico le permetterebbe di coltivare persino una "vocazione mag­ gioritaria". A una condizione capestro, però : di dismettere la sua identità neofascista, causa prima della sua illegittimità morale e della sua ghettizzazione politica. Il partito di Fini coglie al balzo l'occasione. A dire il vero, oppone qualche resi­ stenza. Accusa anche una cecità, per quanto prontamente superata. Difende, infatti, fino all'ultimo la legge elettorale proporzionale, temendo diversamente di essere privato addirittura della rappresentanza parlamentare : premessa, questa, con ogni probabilità della sua letterale sparizione dalla mappa politica nazionale. Scopre invece che il maggioritario gli offre inaspettatamente una carta vincente. Alle elezioni comu­ nali di Roma e Napoli dell'autunno 1 9 9 3 il M S I -DN si afferma di colpo come ormai l'unico competitore della sinistra. Il collasso del centro e il contemporaneo abbatti­ mento della discriminante antifascista, implicitamente sancita dal varo consensuale da parte di tutti i partiti democratici di una democrazia dell'alternanza, nonché implicitamente sanzionata dalla presa di posizione assunta nell 'occasione a favore dei candidati missini dal futuro leader del polo di destra (ma già personaggio politico perché sospettato di prepararsi a "scendere in campo") Silvio Berlusconi, sono le due condizioni che permettono al partito neofascista di dilagare nella tradizionale riserva di caccia dei partiti di governo. In poche parole: la delegittimazione (morale) del centro è il volano della rilegittimazione (politica) della destra.

3

Da Alleanza nazionale a Futuro e libertà

Il cambio di pelle del partito della Fiamma avviene nel

allo storico Congresso di Fiuggi, quando Fini rifonda il vecchio M SI-DN in Alleanza nazionale e celebra il rientro nell'area della legittimità proclamando che AN « non è figlia del fascismo » . Proclama, questo, supportato e avvalorato dal riconoscimento che l'antifascismo « fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato »5• Si realizza il cambio di pelle, assai meno il cambio del corpo, per non dire 199 5 ,

S· Pensiamo l'Italia. Il domani c 'e gia. Valori, idee e progetti per l/Jlleanza Nazionale, tesi politiche per U XVII Congresso nazionale del M S I-DN, s.d. [7 dicembre I994 ] , p. 8. 47 5

RO B E RTO C H IARINI

dell'anima, del partito : ossia dei suoi referenti culturali e ideologici. L'identità è dura a morire in ogni partito, figurarsi in uno abituato a considerarsi « una comunità di destino » , in trincea da mezzo secolo per difendersi dalla «persecuzione antifascista » 6• Lo è ancor più se l'opera di bonifica viene lasciata - come poi effettivamente è stato al suo naturale esaurimento più che a una convinta, programmatica, dolorosa opera volta a consumare una piena sostituzione dei "fini ultimi". La struttura organizzativa del nuovo partito si arricchisce di qualche circolo, ma non di nuovi militanti. Beneficia solamente dell'apporto di pochi innesti esterni per quel che riguarda quadri e dirigenti di partito. Allarga invece la base degli iscritti: da 15o.ooo circa del 1990 essi passano a più di 324.000 nel 1994 e a 467.539 nel 199ç. La vera incompiuta è l'attesa revisione ideologica, solennemente affermata nei pro­ nunciamenti ufficiali del partito e nelle dichiarazioni dei suoi vertici, ma di fatto rimasta inevasa. A "Le Monde" Fini firma la sua resa: «Accetto perfino di definirmi come antifascista » . La reinvenzione democratica del presidente di AN e, ancor più, del partito si limita nella sostanza alle affermazioni di rito. Non intacca nel profondo la vecchia identità consolidata. Prova ne sia che la folgorazione antifascista sulla via di Fiuggi non impedisce allo stesso Fini di affermare ( marzo 19 94) che « Mussolini fu il più grande statista del secolo » : un omaggio al duce cui - va detto - fa seguito ( novembre 2003) l'asserzione di segno esattamente contrario che «la Repubblica di Salò è stata una pagina vergognosa della nostra storia » 8• Più che a un abbandono, si assiste allo svuotamento dell ' identità fascista. Il distacco avviene « senza alcuna sofferenza palese o spiegazione credibile » 9, la trasfor­ mazione è solo «cosmetica » , il passato rimane « congelato » '0, l'armamentario simbolico « mantiene un forte legame all'iconografia fascista » ". I conti con il fascismo vengono di fatto rinviati. Nell'immediato ci si limita a far calare un' imba­ razzata coltre di silenzio sull 'argomento ; il che non aiuta certo a smaltire il forte nostalgismo che da sempre anima il partito. Sono indicativi al proposito gli orienta­ menti in materia attestati al Congresso fondativo di AN del 1995. Il 61,5% dei delegati sottoscrive nell'occasione l'affermazione che, fatta venia di qualche sua discutibile scelta, « il fascismo è stato un buon regime » . Il 7,1% qualifica il ventennio addirittura come « il miglior regime possibile » , solo lo 0,2% come « una brutale dittatura » e il 18,2% come « un regime autoritario » 12• 6. M. Tarchi, Esuli in patria. Ifascisti nell'Italia repubblicana, Guanda, Parma I99S· 7· Id., Dal MSI ad AN. Organizzazione e strategie, U Mulino, Bologna I997· p. 40. 8. A. Giuli, Il passo delle oche. L 'identita irrisolta dei postjàscisti, Einaudi, Torino 2007, p. 2s. 9· lvi, p. 21. IO. A. Cento Bull, Italian Neofascism: The Strategy ofTension and the Politics ofNonreconciliation, Berghahn Books, New York 2007, p. I6I. I I. L. Cheles, Back to the Future: The Vzsual Propaganda of Alleanza Nazionale {z994-2009) , in "Journal of Modern ltalian Studies", IS, 2oio, 2, p. 237. I2. P. lgnazi, Legitimation and Evolution on the Italian Right Wing: Social and Ideologica! Repo­ sitioning ofAlleanza Nazionale and the Lega Nord, in "South European Society and Politics", IO, 2oos, 2, spec. p. 3 40.

LA D E ST RA ALLA PROVA D E L B I POLARISMO TAB ELLA I

Valutazione del regime fascista da parte dei quadri di AN 1 99 5

1 99 8

È tuttora il miglior regime possibile

7,1

3 ,0

Malgrado alcune scelte discutibili, è stato un buon regime

61, 5

61,1

È stata la risposta inevitabile alla minaccia comunista

1 3 ,0

18,o

E stato un regime autoritario

1 8,2

17,7

È stata una brutale dittatura

0,2

0, 3

Totale

100

100

Numero di intervistati

s 61

334

'

Tre anni dopo, alla Conferenza programmatica di Verona, gli orientamenti sull 'argo­ mento cambiano di poco. Meno dell' I % condanna il fascismo, il I7,7% gli riconosce un carattere autoritario, mentre il 6I,I% continua a giudicarlo « un buon regime » '3 (TAB. I). Un giudizio sul passato che proietta una luce sinistra sullo stato della revisione ideologica vantata da AN e che attesta invece un'interiorizzazione condizionata dei valori democratici da parte dell' insieme dei quadri e dei dirigenti del partito. La vischiosità di una cultura difficilmente compatibile con un approdo liberale spicca con ancor maggiore nitidezza se si comparano i giudizi espressi dai quadri di AN con l'orientamento del resto dell 'opinione pubblica italiana. Nel paese il fascismo viene giudicato, più o meno negli stessi anni, « una brutale dittatura » da più del 38% e « un regime autoritario » da un altro 22-26% (TAB. 2) . La conferma di un' irrisolta riconversione della cultura del partito da nostalgica in convintamente democratica si desume anche da altri riscontri. Lo attesta, ad esempio, l'accostamento che i delegati di AN alla Conferenza programmatica del I998 continuano a fare, nel tratteggiare la galleria dei loro pensatori di riferimento, di autori cult del neofascismo, come Gentile o Evola, con figure eminenti del pensiero liberai-democratico, come Tocqueville e Croce'4• Il carattere (absit iniura verbis) « tattico » '5 della svolta di Fiuggi produce una doppiezza più culturale che politica. Nuoce comunque ad AN perché tiene viva la I 3. R. Vignati, La memoria del fascismo, in R. Chiarini, M. Maraffì (a cura di), La destra allo specchio. La cultura politica di Alleanza nazionale, Marsilio, Venezia 200I, pp. 43-82. I4. Vignati, La memoria del fascismo, cit., e R. Chiarini, La lunga marcia della destra italiana. L'integrazione passiva di Alleanza nazionale, Luni, Milano I999, p. 37· IS. M. Tarchi, Cinquant 'anni di nostalgia. La destra italiana dopo ilfascismo. Intervista di Antonio Carioti, Rizzoli, Milano I99S· p. 226. 477

RO B E RTO C H IARINI TAB ELLA 2

Valutazione del regime fascista da parte della popolazione 2.0 0 1

È tuttora il miglior regime possibile

1 ,7

Malgrado alcune scelte discutibili, è stato un buon regime

È stata la risposta inevitabile alla minaccia comunista

s .o

'

E stato un regime autoritario

È stata una brutale dittatura Non so

11,8

Totale

IOO

Numero di intervistati

IOO

4·7 1 7

Fonte: ISPO (Istituto per gli scudi sulla pubblica opinione). L'elaborazione dei daci è di Ignazi, Legitimation and Evolution on the Italian Right Wi'ng, cic.

diffidenza degli altri partiti nei suoi confronti e anche perché la priva di un nuovo chiaro approdo identitaria, capace di sostenerla nella nuova stagione politica. Ha ben colto lo smarrimento ideologico della destra in transito verso la sua reintegrazione democratica Antonio Carioti, allorché afferma : « Quando ha smesso di essere fascista non s'è capito più che cos'era » 16• Gli ha fatto eco, riprendendo una battuta fulmi­ nante di Marcello Veneziani, un intellettuale dalla penna acuminata come Alessandro Giuli: AN, l ungi dal « fare i conti col fascismo » si è limitata - questo il suo giudizio tagliente - ad « espellere il tutto ... come un calcolo renale » 17• La perdita di valenza politica del patrimonio storico e ideale del fascismo non esaurisce nell' immediato la vena antisistemica della destra appena rifondata. Essa abbandona, sì, le suggestioni da "terza vià', prima più o meno convintamente coltivate (corporativismo, Stato nazionale del lavoro, nazione Europa ecc.) . In compenso è portata dalle sue stigmate illiberali a raccogliere alcune delle issues più attuali, ali­ mentate dai conflitti emergenti nella società italiana di fine millennio : prime fra tutte l'allarme per la sicurezza e, soprattutto, la protesta an ti-immigrati. Di siffatte istanze cerca di farsi interprete - va detto - con una cautela speciale, suggerita dalla preoc­ cupazione di non far rientrare dalla finestra quell' illegittimità fatta uscire dalla porta. Evita, almeno al vertice, pronunciamenti e iniziative che possano tacciare AN di essersi I 6. A. Cariati, Introduzione, in Id., I ragazzi della Fiamma. I giovani neofascisti e il progetto della grande destra, I952-I95S, Murs ia, M il an o 201 1. I7. Giuli, Il passo delle oche, cic., p. 26.

LA D E ST RA ALLA PROVA D E L B I POLARISMO

liberata della zavorra del fascismo di vecchia lega per farsi impigliare nella rete del populismo di nuova foggia. Si preoccupa di deideologizzare la questione riportandola piuttosto sul terreno delle politiche atte a governare gli indubitabili conflitti da questa scatenati. Ripesca, allo scopo, l' ispirazione cooperativa tra Terzo e Quarto mondo cara al M S I , spogliandola però di ogni valenza antioccidentale. Pone l'accento sugli interventi da approntare per controllare da un lato i grandi flussi migratori e dall 'altro per assorbire, nel mercato del lavoro, i nuovi arrivi; nonché per innestare al contempo nei loro paesi d 'origine uno sviluppo economico capace di depotenziare in patria la . . sptnta a emtgrare. Non mancano affondi sul tema e talora esplicite scivolate propagandistiche sul terreno della xenofobia. Questo vale, però, per i primi tempi, in particolare quando la questione anti-immigrati si infiamma a seguito di alcuni gravi incidenti insorti in grandi città come Torino o Milano ; il che innesta nel partito la sollecitazione a non lasciare senza rappresentanza una ragione di profondo malcontento del paese. In quelle occa­ sioni AN è preoccupata di vedersi strappare di mano dalla Lega Nord una protesta che richiama battaglie tradizionali della destra, quali la lotta contro il "degrado dell'ordine pubblico", ma alla fine non si lascia trascinare nel gioco al rialzo, a chi insomma la spara più grossa sull' «invasione degli stranieri » 18• La posta politica in palio è grossa. Non c 'è dubbio che anche in Italia, seppure con un certo ritardo, si stia manifestando a partire dalla metà degli anni Novanta un forte disagio specificatamente sul tema dell ' immigrazione extracomunitaria. Disagio che, unito alla crescente insofferenza contro il partitismo invadente e sprecone, ai morsi della crisi economica collegata alle progredienti difficoltà accusate dall' appa­ rato produttivo nazionale a reggere la sfida della globalizzazione, alle paure suscitate dai frequenti atti di microcriminalità urbana (scipp i, borseggi, furti, rapine notte­ tempo in abitazioni private, rapine talora finite in brutali omicidi di persone inermi), configura, come nel resto dell'Europa, una specifica domanda politica che attende l' imprenditore capace di metterla a frutto ( TAB . 3) . La tentazione per la destra storica italiana è grande ma interferisce apertamente con la sua ambizione a farsi occidentale, ossia a farsi accettare nel salotto buono della destra democratica europea. Il vertice di AN non ha idee troppo chiare in proposito. Occhieggia al conservatorismo britannico, al gollismo francese, da ultimo al popolarismo europeo, senza mai conferire alle sue sortite un quadro di riferimento ideale e politico coerente e organico. Soffocata per evidente incompatibilità con l'ambizione di accreditarsi come forza di governo la primigenia attrazione fatale con Le Pen, insegue poi la stella di Chirac e di seguito con più determinazione quella di Sarkozy, tanto che il suo presidente firma la prefazione all 'edizione italiana del libro-manifesto del capo dell ' Union pour un mouvement populaire ( U M P ) 19 per

IV,

I 8. R. Chiarini, La destra italiana e la protesta anti-immigrati, in "Nuova Storia Contemporanea", 2000, 3, pp. 95-118. I9. Giuli, Il passo delle oche, cit., p. 6 s. 47 9

R O B E RTO C H IARINI TAB ELLA 3

Atteggiamento nei confronti dell' immigrazione e degli stranieri (valori %; anno 2 0 0 I ) AN

Lega

Media popolazione

Non so

14

4

6

Molto in disaccordo

2I

27

24

In disaccordo

26

20

30

D 'accordo

23

37

I9

Molto d'accordo

IS

II

Il

Non so

6

I

Il

Molto in disaccordo

6

4

I3

In disaccordo

33

28

34

D 'accordo

32

43

29

Molto d'accordo

23

24

I4

Non so

I2

3

I3

Molto in disaccordo

3

In disaccordo

17

I9

2I

D 'accordo

26

24

29

Molto d'accordo

42

54

27

Non so

II

3

I4

Molto in disaccordo

Il

II

I6

In disaccordo

30

27

3I

D 'accordo

32

25

26

Molto d'accordo

17

34

I3

Gli immigrati devono essere licenziati per primi?

Gli immigrati sono causa della delinquenza ?

Gli immigrati devono essere espulsi anche se non hanno commesso reati?

IO

Gli immigrati indeboliscono l'identità nazionale?

Fonte: ISPO (Istituto per gli scudi sulla pubblica opinione). L'elaborazione dei dati è di Ignazi, Legitimation and Evolution on the Italian Right Wing, cit., p. 343·

LA D E S T RA A L L A P R OVA D E L B I P O LA R I S M O

concludere ( dopo un corteggiamento del promettente astro nascente David Cameron ) il suo girovagare con l'approdo al Partito popolare europeo (PPE), ma solo quando confluisce nella nuova formazione politica, il Popolo della libertà (PDL), lanciata nel 20 0 9 da Berlusconi. E un nomadismo senza stella polare che fa pendant con l'oscillazione senza centro di gravità che AN accusa sul piano dei riferimenti ideali. Per il decennale del partito viene allestito un documento in cui si tratteggia '

un composito pantheon di campioni della "via italiana alla modernità": il teorico della "rivo­ luzione liberale" Piero Gobetti e il futurista Filippo Tommaso Marinetti, il compositore Ennio Morricone e il prima fascio e poi comunista Elio Vittorini, lo scrittore delle radici Carlo Sgorlon e il fondatore dello Slow Food Carlo Petrini, i cantautori Lucio Battisti e Giorgio Gaber, il fondatore di Comunione e liberazione Luigi Giussani e l'aristocratico arcitaliano Indro Montanellito.

Il ricorso a una sorta di sincretismo culturale non riesce a evitare al partito una condizione di sdoppiamento anche su temi politici, che, non risolta, puntualmente porterà alla conclusiva separazione del 2 0 1 0 tra i neoliberali di Fini e i nazional­ conservatori di Gasparri e La Russa. Lo sdoppiamento verte soprattutto in materia di valori e sui temi cosiddetti "eticamente sensibili", dove emerge in modo più netto la contraddittorietà delle prospettive coltivate da AN; una contraddittorietà talmente stridente che ha spinto più di un commentatore a domandarsi se si fosse in presenza di "una sinistra in ritardo" o di "una destra in anticipo". Il partito di Fini inanella «multiculturalismo di maniera » con «occidentalismo acefalo » , aperto sostegno alla dottrina della Chiesa con mai del tutto dismesse simpatie pagane, un certo conser­ vatorismo in materia di famiglia con indifferentismo etico in materia di fecondazione artificiale, eutanasia, coppie di fatto, per finire con la proposta del voto amministra­ tivo agli immigrati dopo averla definita un'ipotesi «dissennata » 11• La storia della destra politica italiana, scandita in due tempi ( prima M S I , poi AN ) , si chiude di fatto con la confluenza, come s'è detto, del partito nel PDL: una fusione a freddo varata in modo del tutto estemporaneo da Berlusconi con un annuncio a sorpresa ( il famoso "discorso del predellino" ) che non ha vita né facile né duratura. Solo un anno dopo, la convivenza tra le due anime del centro-destra si rompe. Si consuma allora in modo drammatico l'allontanamento/ espulsione di Fini dal P D L. L'ex segretario del M S I ed ex presidente di AN dà subito vita a una nuova formazione politica, Futuro e libertà, presto rivelatasi effimera. In un primo tempo cerca di prospettare un'alternativa di destra antiplebiscitaria in polemica con Silvio Berlu­ sconi, poi progressivamente va a occupare, almeno nella mappa parlamentare, una 20. A. Mello ne, Di ' qualcosa di destra. Da "Caterina va in citta" a Paolo di Canio, Marsi! io, Venezia 2oo6, p. 99· 2I. Giuli, Il passo delle oche, cit., p. 66, e Chiarini, L 'integrazione passiva, cit., p. 9·

RO B E RT O C H I A R I N I

posizione di centro. Si chiude con ciò il ciclo storico del partito che lungo un intero sessantennio ha rappresentato agli occhi degli italiani la destra per definizione.

4

La Lega Nord

Spentosi ( fatto salvo il circuito del movimentismo extraparlamentare di estrema destra) il richiamo al fascismo, sono le nuove issues che stanno facendo la fortuna della destra populista europea a rianimare lo spazio politico lasciato libero da M S I e AN. È la new entry della politica italiana, la Lega lombarda poi Lega Nord ( LN ) , lanciata e guidata dal suo leader carismatico Umberto Bossi, a sintonizzarsi in modo sempre più netto e convinto su questa lunghezza d'onda. Nell 'agenda politica della LN fanno la loro comparsa, con una rilevanza mutevole nel tempo, un po ' tutti i temi propri della nuova destra continentale: la protesta contro un centralismo statale lesivo di ogni autonomia locale e contro la partitocrazia onnivora, saldati nello slogan onnicomprensivo "Roma ladrona", la denuncia del carico esorbitante della fiscalità statale ( "Il Nord mucca da mungere" ) , del disservizio soffocante di una burocrazia pletorica, dello strapotere prevaricante dell 'establishment e, da ultimo, ma non per importanza, della crescente presenza degli extracomunitari, indicati come responsa­ bili primi del montante degrado del vivere collettivo, a cominciare da una delin­ quenza dilagante per finire con la concorrenza sleale da essi esercitata sia sul mercato del lavoro sia nella fruizione del welfare a danno della popolazione italiana. Il partito di Bossi pone al centro della sua iniziativa la difesa degli interessi mate­ riali del Nord e dei suoi pretesi caratteri identitari ( la Padania) , ma la conduce poi privilegiando nel tempo una parola d 'ordine rispetto a un'altra, a seconda delle emergenze del momento e delle convenienze tattiche del movimento. All'inizio il suo bersaglio preferito è il Meridione, additato come il beneficiario insieme dell'as­ sistenzialismo sprecone e infruttifero dello Stato e della proliferazione sregolata dell'apparato pubblico. Fa seguire la campagna, condotta talora con punte di parti­ colare acrimonia, contro lo straniero extracomunitario ( non solo ) illegalmente pre­ sente sul territorio nazionale. Parallelamente, conferisce una diversa radicalità alla sua domanda di autogoverno del Settentrione, passando dalla rivendicazione di un'arti­ colazione dello Stato nazionale in macroregioni ( 1992) alla secessione ( 1996), al decentramento ( 1997 ), alla devolution, prima di tornare al federalismo. Insieme alle parole d'ordine la Lega, strada facendo, cambia significativamente anche i suoi referenti sociali, pur mantenendo stabile il suo insediamento territoriale nelle aree in cui è attiva un'egemone "subcultura biancà' e, all'interno di queste, più nei centri medio-piccoli che nelle città. All'inizio il suo popolo è formato soprattutto dai lavoratori autonomi, artigiani e piccoli imprenditori. Poi cresce il peso dei lavo­ ratori dipendenti, operai e colletti bianchi. Con l' insediamento sociale muta anche il

LA D E S T RA A L L A P R OVA D E L B I P O LA R I S M O

segno politico della sua battaglia, condotta inizialmente all' insegna di un potenzia­ mento della capacità di risposta del paese alla sfida della globalizzazione, cui fa seguito un arroccamento difensivo spinto fino a richiedere una sorta di protezionismo22. E evidente che una variabile importante nel dosare la radicalità delle battaglie e la virulenza del linguaggio, spesso improntato a una truculenza tanto irrituale quanto espressivamente efficace, è costituita dal ruolo che la Lega ricopre a livello centrale: se cioè sta all'opposizione o al governo (2oo1-o6, 2008-n). Si trattasse anche di semplice opportunismo, saremmo comunque già in presenza di un comportamento che marca una differenza di non poco conto rispetto ai caratteri tipologici della destra populista europea, di regola segnata da una vocazione spiccatamente antisistemica, se non ever­ siva23. La Lega Nord si caratterizza invece - è stato più volte rimarcato - per essere "partito insieme di lotta e di governo". Minoritario a livello nazionale, esprime "una vocazione maggioritarià' a livello locale. Pronto a usare un linguaggio e spesso anche comportamenti xenofobici ( clamorose, tra le tante, l'iniziativa presa nel 200 2 dall'eu­ roparlamentare leghista Mario Borghezio di appiccare fuoco a un accampamento di extracomunitari a Torino o la proposta avanzata dal collega Erminio Boso di prendere le impronte dei piedi ai neri ) dove è all'opposizione; adotta invece una strategia rifar­ mista dove è forza di governo. Ideologico quando si tratta di sottolineare la sua "diver­ sità'' rispetto agli altri partiti e di confermare nei propri affiliati l'identità irriducibile del movimento, sa diventare realista quando si ritrova alla guida di una comunità locale. La coniugazione di alterità e concretezza - alterità nei confronti degli altri partiti "nazionali", concretezza nell'azione politica di governo - si è fatta più sistemica con il passaggio nel 2on del bastone di comando della Lega ( passaggio peraltro traumatico, se non altro perché consumato a seguito dell'infortunio giudiziario in cui è incappato il tesoriere del partito, Francesco Belsito ) dal leader storico Umberto Bossi al nuovo segretario Roberto Maroni. Lo slogan "Prima il Nord': subito lanciato dalla nuova dirigenza, bene fotografa il cambio di strategia consumato dalla Lega Nord, tutta giocata sull'asse centro-periferia. La nuova rotta regionalista depotenzia l'ambizione di rotta­ mare lo Stato e la politica nazionale e asseconda la nemmeno troppa celata ambizione di affermarsi sul territorio adottando una linea emendata dalle tentazioni più oltranziste e dall'armamentario rituale e simbolico della Padania, più pragmaticamente attenta invece ai bisogni dei cittadini secondo il modello di governo della città sperimentato con successo a Verona dal sindaco leghista Flavio Tosi. Una virata, questa, di fatto annullata con il nuovo cambio al vertice del partito ( giugno 2012), consumatosi con la nomina a segretario di Matteo Salvini. Tornano in auge le tradizionali parole d'ordine care alla Lega a cominciare dall'allarme immigrati e dalla secessione ( come la proposta '

22. R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 20 I O pp. 112-28. 23. R. Chiarini, The Extreme Right in ltaly, in N. Langenbacher, B. Schellenberg (eds.), fs Europe on the "Right" Path? Right-Wing Extremism and Right-Wing Populism in Europe, Friedrich Ebert Stiftung, Berlin 2011, pp. I 4 I - S 7· ,

RO B E RT O C H I A R I N I

di una consultazione referendaria in Lombardia per l'indipendenza della Regione ) . Insieme acquista rilievo l'allarme euro ( «L'euro è un crimine contro l'umanità »14 ) , che induce il partito, in consonanza con i vari partiti populisti fautori dell'uscita dei loro paesi dalla zona euro, a stringere un rapporto privilegiato con il Front Nationale di Marine Le Pen, del quale si vanta di essere «l'unico interlocutore italiano » 15•

s

Forza Italia

Se per AN la radicalità antisistemica è stata lo stigma di un'eredità storica da cui liberarsi, se per la LN è stata il portato genetico da tenere a bada per non finire nel ghetto dell' illegittimità, per il terzo attore protagonista del centro-destra dopo il 1994, Forza Italia ( TAB . 4), ha rappresentato nello stesso tempo la tara storica da cui liberare la destra italiana e la tentazione ricorrente, alimentata dal carattere plebisci­ tario della sua leadership e destinata a essere assecondata quale risorsa politica da valorizzare nella competizione con la sinistra. L'assunto da cui prende le mosse il progetto di Berlusconi e che motiva la sua personale "discesa in campo" è che, dopo il collasso dei partiti di governo e l' intro­ duzione di una legge elettorale maggioritaria, sono venuti meno insieme qualsiasi argine alla sinistra e ogni possibilità di rianimare un centro dominante del sistema politico analogo a quello rappresentato dalla D C . È venuto perciò il momento della destra a patto che si sappia emancipare dal suo handicap storico : l' illegittimità pro­ curatale dal richiamo identitario al fascismo. L'operazione si perfeziona attraverso due passaggi, consumati in due tempi successivi. Il primo comporta la decadenza del bando emanato contro la destra, in nome dell 'antifascismo, dai partiti dell 'arco costituzionale (decadenza reclamata implicitamente da Berlusconi, quando nell'au­ tunno del 1993 dichiara che non avrebbe avuto problemi a votare la Mussolini o Fini alle comunali di Napoli e Roma, e di fatto resa operante dagli elettori con il loro afflusso in massa sul nome dei due candidati di AN sopracitati ) . Il secondo consiste nello smantellamento del patrimonio morale e politico ereditato dal ventennio ( smantellamento attuato con il riconoscimento sottoscritto a Fiuggi del ruolo storico avuto dall 'antifascismo nel ripristino della democrazia, di cui s 'è detto ) . Di questa operazione è il partito di Berlusconi a proporsi regista e beneficiario nel momento stesso in cui si candida a divenire il «dominus della transizione italiana » 16• FI è creata con questo fine precipuo e con queste specifiche ambizioni. Personale poli­ tico e programma risentono ovviamente della condizione di emergenza in cui sono 24. Lega, Sa/vini contro euro: "Euro, crimine contro l'umanita", in "Ansa", I5 dicembre 20I3. 25. G. Caldiron, Dal verde al nero. La Lega di Sa/vini sceglie Marine Le Pen, in "Europa", I2 dicembre 20I3. 26. M. Calise, Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma-Bari 20I2, p. I 35·

LA D E ST RA ALLA PROVA D E L B I POLARISMO TAB ELLA 4

Autocollocazione degli elettori dei più importanti partiti italiani lungo il continuum sinistra-destra (valori assoluti) l

IO

Sinistra

Destra

RC

DS

Democratici

Popolari

UDC

LN

FI

AN

8,60

1,70

Nota: RC = Rifondazione comunista; DS = Democratici di sinistra; u n e = Unione democratica di centro ; LN = Lega Nord; FI = Forza Italia; AN = Alleanza nazionale. Fonte: H. M. A. Schadee, P. Segatti, La Margherita, gamba di centro dell'Ulivo?, in "il Mulino", 2002, 2, p. 359· L'elaborazione dei dati è di Ignazi, Legitimation and Evolution on the ltalian Right Wing, cit.

approntati. Il primo è reclutato attingendo alla rete dei venditori di Publitalia, la società di raccolta della pubblicità di Berlusconi, o recuperando esponenti dei partiti di governo affondati con Tangentopoli. Il secondo viene allestito, pur esso a spron battuto, colle­ zionando alcune parole d'ordine che rinviano a un liberalismo conservatore. L'identità politica che ne deriva è poi segnata in modo marcato dalla battaglia subito intrapresa volta a scongiurare la pronosticata vittoria elettorale della "gioiosa macchina da guerrà' allestita da Occhetto. La conseguenza è che essa risulta tracciata più in negativo ( contro un avversario da piegare ) che in positivo ( in vista di un'azione di governo da sviluppare ) . La felice intuizione di rompere con l'ormai inattuale voto ideologico (party-oriented) per puntare al più moderno voto carismatico (leader-oriented), di cambiare registro alla comunicazione politica adottando un linguaggio che sottolinei la sua estraneità alla «politica politicante » e viceversa la sua aderenza al prototipo del selfmade man di successo 27 incorpora in FI una carica straordinariamente vitale, ma al contempo la condanna a legare il suo destino ( nel bene e nel male, in vita e in morte) a quello del suo fondatore/padrone8• E un vizio d'origine, questo, che emerge in tutta la sua evidenza e in tutta la sua carica incapacitante al momento in cui il centro-destra assume la guida del paese. Fatica allora a tradurre in concreti atti riformatori l'insistito, ma sempre generico, « appello emotivo al tema astratto della "libertà" » 29• La sorprendente, spettacolare, pronta riuscita elettorale del 1 9 9 4, in primis di Forza Italia, e con essa il sorpasso operato in controtendenza alle aspettative della vigilia da parte del centro-destra a danno del centro-sinistra non possono certo rime­ diare d 'incanto ai difetti di un'operazione approntata a tappe forzate e per questo motivo contrassegnata da un'inevitabile e massiccia dose di improvvisazione. Era da '

27. S. Ventura, Il racconto del capo. Berlusconi e Sarkozy, Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. I02 ss., e A. Gibelli, Berlusconi passato alla storia. L'Italia nell'era della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 2oio, p. 83. 28. Ventura, Il racconto del capo, cit., p. I 43· 29. D. Hine, D. Vampa, Un altro divorzio: il PDL nel 20IO, in E. Gualmini, E. Pasotti (a cura di), Politica in Italia: i fatti dell'anno e le interpretazioni. Edizione 20II, il Mulino, Bologna 201 1, p. 8s.

RO B E RT O C H I A R I N I

mettere in conto che una ghettizzazione prolungatasi per un lungo cinquantennio presentasse ai promotori di una destra di nuovo conio un conto salato in termini di deficit di personale politico, di elaborazione culturale, di progettazione d 'idee e di programmi, di reti associative tanto di interesse quanto di solidarietà. E una mancanza, questa, gravante al massimo grado su F I , che per di più, invece di essere con il tempo rimediata, si cronicizza costituendosi addirittura come suo tratto caratterizzante. E non è tutto. A pesare negativamente, a cascata, sulla solidità del soggetto politico creato da Berlusconi, sulla riuscita del progetto di dar vita a una stabile e solidale coalizione di centro-destra, da ultimo sull'efficacia della sua azione riformatrice una volta assunte responsabilità di governo, non ci sono solo la precarietà e la fragilità dell' impianto organizzativo adottato. C 'è anche la contraddizione, anch'essa mai risolta, incorporata al momento della nascita tra la matrice plebiscitaria di un partito patrimoniale e l'obiettivo tenacemente perseguito di saldare sempre più l'alleanza tra i primitivi partner ( FI, AN, U D C , LN ) fino ad auspicare la nascita di un nuovo soggetto unitario capace di far approdare l 'incerto bipolarismo inaugurato in un solido bipar­ titismo, soggetto franato con il ripristino di Forza Italia e la nascita di Fratelli d' Italia. La radicata convinzione di Berlusconi che in una democrazia dominata dai par­ titi l'azione di governo sia condannata a essere un "gioco a somma negativa" dei partner, la conseguente sua inclinazione ad appellarsi direttamente all'elettorato, saltando a piè pari la mediazione partitica, non aprono solo un aspro contenzioso con il fronte avversario, deciso a difendere il ruolo insostituibile in democrazia della forma-partito30• Innestano anche una tensione insidiosissima all' interno del centro­ destra che risulterà fatale. Quanto più Berlusconi, sull'onda dei successi elettorali e poli tic i riscossi, preme l'acceleratore sulla strada dell 'accorpamento delle forze alleate manifestando un'esplicita pretesa egemonica, tanto meno si mostra «disposto a negoziare una suddivisione del potere all' interno della coalizione »3', altrettanto meno di riflesso gli alleati si vedono in grado di salvaguardare il loro potere contrat­ tuale, addirittura la loro identità politico-organizzativa e la stessa sopravvivenza dei loro apparati. Subito ( 1994) la LN, qualche anno dopo (2oo6) l ' une, poi (2010) una pattuglia di quarantacinque parlamentari provenienti (salvo due) dalle file della scomparsa (per fusione nel P D L ) AN, pattuglia capitanata dal suo ex presidente Gian­ franco Fini, secessionano, infine (2012) Fratelli d ' Italia. Ne risultano compromesse non solo la tenuta dell'esperimento governativo in corso (novembre 2011) ma persino, in prospettiva, la sopravvivenza di un polo di centro-destra. '

30. L'allarme sulla deriva autoritaria presente nell 'esperimento berlusconiano si trova in P. Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003; M. Giannini, Lo statista. Il Ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2oo8; C. Mal tese, La bolla. La pericolosa fine del sogno berlusconiano, Feltrinelli, Milano 2009. Non avvalora il fenomeno berlusconiano come di per sé eversivo M. Lazar, Democrazia alla prova. L'Italia dopo Berlusconi, Laterza, Roma-Bari 2007. 3I. Hine, Vampa, Un altro divorzio, cit., p. 70.

Le due ondate di anti politica di Michele Prospero

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L' insorgenza dell 'an ti politica

Le trasformazioni dell 'ultimo ventennio della storia repubblicana rientrano in un ciclo lungo caratterizzato da un deconsolidamento del sistema politico. All 'inizio della destrutturazione della compagine istituzionale si riscontra la prevalenza egemo­ nica di una cultura che perviene a un seguito di massa che, da una posizione ostile alla sfera politica dipinta come simbolo del male e dell'immobilismo, arriva a con­ quistare il governo. Proprio dalla raggiunta postazione di comando viene disintegrata l'arena pubblica intesa come una dimensione autonoma e differenziata dagli interessi privati. L'antipolitica, categoria con la quale si suole interpretare gli eventi italiani, è un concetto di per sé ambiguo e per certi versi sfuggente e persino fuorviante se viene inteso come un semplice atteggiamento mentale critico verso la degenerazione dei parti ti'. Sul piano definitorio è arduo ricomprendere l'antipolitica in un'univoca deter­ minazione. Il tentativo di coglierne il senso partendo da un generico atteggiamento di rifiuto della politica si arrende dinanzi alla fisionomia di un concetto ossimoro che rivela la circolarità dell 'approccio meramente classificatorio : anche chi rifiuta la politica costruisce un'altra forma di politica. Dal punto di vista della statica defini­ zione delle dimensioni del concetto si perviene a una completa sterilità assiologica. A fini analitici si può però definire utilmente l'an tipolitica come un fenomeno che, da semplice devianza o credenza ostile coltivata da minoranze con pratiche eccen­ triche verso i paradigmi dell'establishment, assume una forza reale tale che, in pros­ simità delle giunture critiche della storia repubblicana, è capace di rompere gli equilibri del sistema e di modificare la disposizione degli attori, dei poteri, delle culture. Negli ultimi vent'anni si registrano due grandi insorgenze del fenomeno dell'antipolitica, declinata come una cultura pratica dal profilo intransigente che I. L'antipolitica appare come un « urlo malinconico di disperazione » (G. Cantarana, L'antipoli­ tica. Viaggio nell'Italia del disincanto, Donzelli, Roma 2000, pp. 12 e 34) o anche come l'espressività di «un altro linguaggio» (C. Donolo, Le responsabilita della politica, in "Italianieuropei", 2012, 7, p. 78).

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penetra nel senso comune e con la repentina mutazione degli orientamenti del con­ senso abbatte un regime imponendo nuovi equilibri. Al posto del ricambio tra governo e opposizione subentra una volontà di decostruire il sistema per affidarlo a inediti attori che rivendicano la loro estraneità rispetto al gioco dei partiti. Non basta, quando l'an ti politica come potenza materiale prende il sopravvento sugli attori tradizionali, che paiono incapaci di resistere con credibilità e con forza sufficienti all'ostile clima nuovo, la proposta di avviare un mutamento di classe diri­ gente secondo le tappe di un'alternanza fisiologica che si dipana lungo l'asse destra­ sinistra perché egemoni diventano le culture che intendono evocare una discontinuità radicale per determinare un repulisti di tutta la classe politica. Questo pare essere il senso effettivo dell' insorgenza antipolitica: congelare il cammino dell 'alternanza, coinvolgere tutto il quadro politico esistente nell'onda del discredito e imporre un rifiuto generale di tutti gli attori, nella pretesa di determinare un radicale cambio di qualità nella composizione stessa della classe politica. La prima fenomenologia dell'an tipolitica assunta come pratica di delegittimazione sistemica si affacciò nel biennio 1 9 9 2- 9 4 . La seconda esplode nel 20 1 1 , dopo il congedo di Berlusconi, e il cui esito è stato l'approdo nel 2 0 1 3 a un tripolarismo paralizzato che spezza ogni logica sistemica. Le affinità tra le due insorgenze di antipolitica sono palesi: il vincolo esterno europeo (e la conseguente incrinatura della pax fiscale) in entrambi i casi opera quale spiacevole convitato di pietra che con i suoi stringenti obblighi fiscali sconvolge i consueti modi dell 'agire politico. La crisi esterna (emergenza economica come fattore immediato di erosione delle normali compatibilità del governo) determina un processo di smobilitazione politica (crisi del rapporto fiduciario tra governo e fette di società prima al sostegno dell'ese­ cutivo) e imprime un'accelerazione nella rimobilitazione di altre porzioni alienate di società civile. Questo intreccio di attivazione e smobilitazione conduce porzioni ampie di società a investimenti di senso in favore di un evento pseudocarismatico che matura come una risposta effimera, ma pur sempre ritenuta credibile nella sua teatralità, al vuoto di rappresentanza. L'antipolitica nasce come fenomeno dell 'alie­ nazione politica che esplode a livello di massa per una carenza di rappresentanza (dell'antico blocco di potere) e riproduce l'assenza della mediazione come una sua condizione esistenziale privilegiata che persiste nel tempo per la debolezza delle forze alternative nel ricucire un altro blocco politico e sociale capace di rappresentanza.

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La prima ondata

L'avvento di un movimento reale di antipolitica è da intendersi in forme più strin­ genti rispetto alle consuete immagini di un'anormalità solo provvisoria che compare in una maniera improvvisa e si limita ad alterare in superficie il consueto corso del

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sistema politico con esagerazioni lessicali, con provocazioni verbali, con gesti1• Non di una semplice devianza occasionale si tratta ma di una destrutturazione profonda di organismi e soggetti del potere. L'antipolitica, con il simbolismo populista, penetra nelle fasce sociali più esposte alla crisi e con il loro supporto riesce a conquistare il governo o a impedire che altri protagonisti lo occupino in fasi critiche\ È vano perciò attendere che, dopo lo scostamento momentaneo determinato dal movimento dell'an tipolitica che rompe equilibri pur di conservare la fluidità di una crisi mai ricomposta, il sistema ritrovi le antiche mappe e riassorba i suoi connotati formali consueti. Non c 'è un agevole ritorno all'antico dopo la curva della devianza che impone altri scenari rispetto a quelli dell 'alternanza, ma si assiste alla creazione con­ fusa di un diverso contesto politico che vede formazioni alienate conquistare il potere, o imporre tregue costose per lo scacco subito dalle forze principali in contesa, senza però riuscire a consolidare con coerenza i nuovi rapporti di dominio. L' anti­ politica mantiene sempre aperta una transizione senza consolidamento che non si placa in assetti politici ridefiniti con il voto, ma rimane sempre accesa come un processo costituente indefinito. Per tramutarsi da semplice episodio della devianza, che raccoglie umori negativi contro il ceto politico, in una temibile forza reale in grado di determinare la destrut­ turazione delle cadenze regolari del sistema, l' antipolitica ricorre all'invenzione di simboli mobilitanti capaci di raggiungere una rapida penetrazione nell 'opinione pubblica in preda a cadute di senso critico per la mancanza di partiti con l'attitudine a tenere, disciplinare, orientare le mentalità. Nella prima fase dell'insorgenza antipo­ litica dilagò nella coscienza civica diffusa la categoria di partitocrazia, termine impre­ gnato di una valenza negativa che ricomprendeva tutto il ceto politico al quale si contrapponeva una società civile esaltata quale culla di trasparenza, apertura, com­ petenza4. La costruzione di un simbolo del male, la nomenclatura partitocratica, cui imputare le responsabilità di una caduta di funzionalità e prestigio delle istituzioni, serviva per identificare un nemico pubblico e rendere incontenibile a livello di senso comune il rigetto delle forme della rappresentanza. Il lavoro antipolitico come pro­ fessione, che grazie al supporto di media e denaro si affolla di maestranze nelle giunture critiche del sistema, tende a costruire un movimento reale, un arco di forze composito capace di distruggere fragili equilibri rimasti senza più sovrani. Così

2. Cfr. l. Diamanti, M. Lazar (a cura di), Stanchi di miracoli. Il sistema politico italiano in cerca di normalita, Guerini e Associati, Milano I997; F. Lanchester, La Costituzione tra elasticita e rottura, Giuffrè, Milano 20I I. 3· Sul berlusconismo antipartitocratico che non resta ai margini ma accede al potere, cfr. J. Urbat, Rechtspopulisten an der Macht, LIT, Hamburg 2oo6. 4· Sull' antipartitocrazia come vera e propria "antipolitica" che delegittima il sistema, cfr. G. Pasquino, Il sistema politico italiano. Autorita, istituzioni, societa, Bononia University Press, Bologna 2002, p. 66; Id., La transizione a parole, il Mulino, Bologna 2000, p. 57; S. Vassallo, Il governo di partito in Italia (1943-1993), il Mulino, Bologna I994, p. 284.

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accadde nel corso della prima manifestazione di antipolitica, quando il governo di partito venne denunciato come fonte della tragedia delle istituzioni repubblicane e al potere, in luogo dell'opposizione (delegittimata anch'essa come ancella partitocra­ tica) , si trasferirono agenti irregolari provenienti dall' impresa privata5• L' antipolitica, intesa come politica di segno contrario che proprio screditando le forme dell 'agire politico raggiunge una forza materiale sufficiente a distruggere gli antichi soggetti che si candidano al ricambio nella guida dell'esecutivo e a imporne altri come attori egemoni, ha celebrato i suoi fasti nella transizione avviata nel 1 9 9 2 . L'an tipolitica, che si collegava a una storia lunga di avversione alla partitocrazia dipinta come agenzia di devianza e malaffare, conquistava una completa egemonia culturale e penetrava in profondità fino a distruggere, con gli esponenti di un Pen­ tapartito alle sbarre, anche le deboli roccaforti della politica organizzata che attendeva di cimentarsi alla prova del governo dopo decenni di esclusioni6• Il successo mietuto nei primi anni Novanta dalla rivolta antipartitocratica, progettata come una prova di rivoluzione passiva (capace cioè di coinvolgere nel fallimento dell 'antico ceto politico anche le file dell'opposizione costituzionale) , aveva dietro di sé una lenta incubazione del simbolismo antipolitico. Gettata nel dibattito politico sin dal 1944 7, la categoria di partitocrazia è nata a destra, come reazione polemica a una nascente democrazia di massa che alterava lo Stato di diritto d'impronta monarchica8 e, S· Sul governo di partito, cfr. J. Blondel, M. Cotta (eds.), The Nature oJ Party Government: A Comparative European Perspective, Palgrave Macmillan, London 2000. Sul ruolo dei media nella caduta della Repubblica, cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 755; M. Ridolfi, Storia dei partiti politici italiani. L'Italia dal Risorgimento alla Repubblica, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 228; G. Nicolosi (a cura di), I partiti politici nell'Italia repubblicana, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2oo6, p. s8. 6. A. Mastropaolo, Antipolitica. All'o rigine della crisi italiana, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2000, p. 96. La polemica antipolitica odierna « acquista senso e vigore - e si fa antipolitica - in par­ ticolare per la sua propensione ad appuntarsi contro la casta » ( ivi, p. 3 4). 7· R. Lucifero, Introduzione alla liberta {la legge elettorale), OET, Roma 1944, p. I S7· Per la genesi della categoria di partitocrazia, la sua diffusione sul finire degli anni Quaranta in ambienti liberali, da Croce a Maranini, cfr. E. Capozzi, Partitocrazia. Il ((regime" italiano e i suoi critici, Guida, Napoli 2009, p. 43· Già in Bottai il « sistema di partitocrazia » appare come la forma di una rappresentanza classista degenere contrapposta a quella necessaria di carattere professionale-corporativa (G. Bottai, Scritti, Cappelli, Bologna 1965, p. 374). 8. P. Gentile, Opinioni sgradevoli, Volpe, Roma 196 8, p. xv, presenta la partitocrazia come un surrogato di Stato che si afferma perché « con la caduta della monarchia è caduto lo Stato». Per Sturzo la partitocrazia è l 'invasione del governo di tutto quanto trova dinnanzi: «Ministeri, burocrazia, magistratura, enti pubblici e semipubblici» (L. Sturzo, Opera omnia di Luigi Sturzo, 2. Saggi, discorsi, articoli, 1 3. Politica di questi anni: consensi e critiche [dal gennaio I954 al dicembre zgs6}, Rubbettino, Soveria Mannelli, cz, 2008, p. 32). Meynaud definisce partitocrazia una «tendenza a far sedere in parlamento i capi di partito» (J. Meynaud, Rapporto sulla classe dirigente italiana, Giuffrè, Milano 1966, p. 177 ) e a indebolire l'autonomia dei rappresentanti (ivi, p. 171 ) . Anche gli studi di Sartori denunciavano «la erosione partitica del personale parlamentare» (S. Somogyi et al , Il Parlamento italiano, I946-zg 63. Una ricerca diretta da Giovanni Sartori, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1963, p. 336) e la comparsa di una «partitocrazia» al momento ritenuta solo potenziale, che mostrava solo 490

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soprattutto con l 'economia mista e l'interventismo pubblico nella vita produttiva, minacciava le cittadelle del privilegio, con il dominio riservato alle oligarchie di partito e di sindacato9• La nozione di partitocrazia si incuneava anche entro gli ambienti del liberalismo di sinistra negli anni Cinquanta, senza però trovare una vasta accoglienza10• Sia Fanfani11 sia TogliattF2 ne denunciavano i risvolti regressivi, che erano non solo di natura politica ma anche economico-sociali, e stigmatizzavano alla radice la categoria di partitocrazia come estranea alla stagione innovativa del costituzionalismo. Dal punto di vista analitico, Salvemini fornì la risposta più con­ vincente all' impropria ( e in larga misura provinciale ) utilizzazione della parola "par­ titocrazia" quale segno del negativo congiunto alla vigenza del meccanismo propor­ zionale13.

delle «premesse» ( ivi, p. 3 40 ). Una critica della nozione di partitocrazia è in V. De Caprariis, Le garanzie della liberta: I955-I963, il Saggiatore, Milano I966, p. 204; M. Patrono, Maggioritario in erba. Legge elettorale e sistema politico nell'Italia che (non) cambia, C EDAM, Padova I 99S· p. IO. 9· D. Fisichella, Elogio della monarchia, Vallecchi, Firenze I99S· Secondo Evola « il vero Stato non conosce il sistema della democrazia parlamentare e la partitocrazia. Esso può ammettere solo rappre­ sentanze corporative » (J. Evola, Ilfascismo. Saggio di una analisi critica dalpunto di vista della Destra, Volpe, Roma I964, p. ns). Per Almirante la partitocrazia «è nel sistema costituzionale nato ufficial­ mente in Italia con il primo gennaio ' 48 » (G. Almirante, Processo al parlamento, C EN, Roma I968, p. I6). Cfr. sul tema R. Chiarini, Destra italiana. Dall'Unita d'Italia a Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia I99S· pp. 93 ss. IO. La critica antipartitocratica, in un'ottica di « opposizione moderata » alla Prima Repubblica, apparteneva al Hlone del liberalismo conservatore (Maranini) ma anche alla sinistra liberale (G. Orsina, a cura di, Il Partito liberale nell'Italia repubblicana, Rubbettino, Soveria Mannelli, cz, 2004, p. s8). Sulla cultura liberale e la nozione di partitocrazia, cfr. I. Valentini, Partitocrazia e compromesso storico. Salvatore Valitutti e la crisi dello Stato in "Nuovi Studi Politici" (I97I-I979), Edizioni Nuova Cultura, Roma 201 1 ; D. Fisichella, Denaro e democrazia. Dall'antica Grecia all'economia globale, il Mulino, Bologna 2000, p. I2S; E. Rossi, Contro l'industria dei partiti, Chiarelettere, Milano 20I2; S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (zg46-7S), Donzelli, Roma 2004, p. 8. La categoria di partitocrazia fu re cupe rata anche a sinistra da Pannella e da Ingrao in un'ottica, però, di recupero dei contropoteri emergenti nella società (A. Barbera et al , La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, a cura di S. Merlini, Passigli, Firenze 2009, p. 2 3 4 ). 1 1. Amintore Fanfani polemizzò contro «le scelte di ristretti gruppi oligarchici che apertamente si mascherano da democratici dietro l 'accesa e acre critica alla partitocrazia ». La destra economica, contro l' intervento pubblico e la pianificazione che ostacolava la libera iniziativa, lanciava la campagna contro la partitocrazia. Riscontrava « nella polemica sulla partitocrazia un aspetto permanente e di ispirazione oggettiva» anche G. Leone, Testimonianze, Mondadori, Milano I963, p. 3 S9· I2. Palmiro Togliatti denunciava nelle polemiche contro la «partitocrazia » un disegno politico anticostituzionale indirizzato al ceto medio urbano e delle campagne che veniva coinvolto nella ripulsa della Repubblica non più sulla base di un esplicito « squadrismo» ma della campagna di denuncia delle degenerazioni del «partitismo» (''l ' Unità", 3 marzo I96o ). Contro i «presuntuosi costituzionalisti di questi anni» che ricorrono alla nozione deformante di partitocrazia, cfr. R. Laconi, Parlamento e costituzione, Editori Riuniti, Roma I969, p. IS8. Per una critica della lettura della Repubblica in chiave di partitocrazia, cfr. anche G. Perticone, Scritti di filosofia giuridica e politica, Giuffrè, Milano I969, pp. 3s7-8. I 3. Gaetano Salvemini sosteneva che « i nostalgici del collegio uninominale fanno derivare dalla rappresentanza proporzionale i guai della partitocrazia nell' Italia di oggi. Non arriveranno mai a capire 491

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Il vero salto di qualità nella penetrazione del concetto di partitocrazia si è com­ piuto negli anni Ottanta, quando sia gli eredi delle culture liberai-radicali degli anni Cinquanta e Sessanta ( prima raccolte attorno al lessico di Ernesto Rossi e ora adunate dal partito di "Repubblicà'r4 ) , sia le propaggini dei movimenti di protesta sorti negli anni Settanta mostravano di condividere i simboli e le parole ostili al professionismo politico e al ruolo di filtro dei soggetti della mediazione1S. I segnali di crisi del sistema politico si annunciarono piuttosto nitidi già negli anni Settanta, con lo scacco della solidarietà nazionale ( che malgrado i risultati positivi sul terreno del risanamento economico non si rivelò un esperimento proficuo sul terreno sistemico e non portò al reciproco riconoscimento tra gli attori del bipartitismo imperfetto16 ) . La crisi del sistema, che si approfondiva senza una capacità di intervento dei partiti, agevolava la fenomenologia dell 'antipolitica. Sotto la regia di potenze economiche e mediatiche la delegittimazione etica delle macchine di partito copriva l'obiettivo di eliminare le ultime zone di resistenza dell'autonomia della politica. La crisi del tradizionale sistema di partito divenne un dato ufficiale con l'apertura della Commissione Bozzi, ma i partiti non disponevano delle risorse culturali per porvi un rimedio efficace. All'arroccamento identitaria del P C I , che passò dall'auto­ nomia del politico degli anni Settanta all'autonomia del sociale dei primi anni Ottanta, corrispose l'arroccamento spartitorio-istituzionale della D C del preambolo, capace di attrarre il P S I in un gioco di subalternità competitiva17• La crisi si prolungava che dove ci sono partiti la partitocrazia esiste anche in regime di collegio uninominale. L' Inghilterra, dove c 'è il collegio uninominale, ma ci sono partiti solidamente organizzati, è un paese di partito­ crazia » (G. Salvemini, Italia scombinata, Einaudi, Torino 1959, p. 128). 14. Nel 1983 "la Repubblica" e "l 'Espresso" ripresero la campagna antipartitocratica e Alberto Ronchey parlava ( 2 maggio 1983) di «prassi ferrea della partitocrazia» da abbattere. Proprio negli anni Ottanta si affermava una nuova polemica antipartitocratica che si distingueva però da quella precedente perché evocava delle grandi riforme di stabilizzazione e governabilità (presidenzialismo) e distingueva tra «partitocrazia negativa » e «partitocrazia positiva » (A. Lombardo, La grande rifòrma. Governo, istituzioni, partiti, SugarCo, Milano 1984, pp. 174 ss.). Sul rafforzamento delle prerogative del capo dello Stato come argine alla partitocrazia, cfr. P. Armaroli, L 'introvabile governabilita. Le strategie istituzionali dei partiti dalla Costituente alla Commissione Bozzi, CEDAM, Padova 1986, p. 174. 15. Negli anni Settanta «la cultura politica antipartitocratica » da eredità della destra cominciava a tramutarsi in una spinta contagiosa « aperta a significativi spostamenti molecolari» ali' insegna della modernizzazione ispirata al modello Westminster (E. Santarelli, Storia critica della repubblica. L 'Italia dal I94S al I994, Feltrinelli, Milano 1996, p. 207 ) . Per una lettura dell' integrazione del P C I in chiave di «partitocrazia totale », cfr. M. Flores, N. Gallerano, Sul PC/. Un 'interpretazione storica, il Mulino, Bologna 1992, p. 253. 1 6. P. Craveri, Dopo !'"unita nazionale" la crisi del sistema dei partiti, in S. Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. I I ss.; A. Giovagnoli, La crisi della centralita democristiana, in Colarizi et al (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, cit., pp. 6 5 ss. 17. L 'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Atti del ciclo di convegni, Roma novembre e dicembre 2ooz, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2003, 4 voli. In particolare Scoppola ipotizza una dipendenza degli anni Novanta dalle dinamiche degli anni Settanta e formula l ' ipotesi di « un esau­ rimento della parabola storica del sistema politico italiano» (P. Scoppola, Una crisi politica e istitu49 2

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( scambio clientelare con prestazioni finanziate dal debito pubblico incontrollabile) senza trovare argini efficaci. Il rendimento istituzionale, che si rivelava sempre più carente, determinava un lento collasso che coinvolgeva tutto il sistema. La questione morale e la partitocrazia come simbolo del negativo divennero le categorie devianti utilizzate anche dalla sinistra per spiegare un fenomeno di acuta crisi politica cui non si dava una risposta anche per una debole capacità di interpretazione18• Agli inizi degli anni Novanta, sia gli attori tradizionali, sia i vertici delle istituzioni ( Cossiga, nel suo messaggio alle Camere del 1 9 9 2, condannava il sistema per aver assunto «la media­ zione e il compromesso come fini a se stessi » ) , sia i capi degli esecutivi19, sia i movi­ menti di società civile condividevano la dichiarazione di guerra alla partitocrazia. Ci si imbatteva così in uno sradicato sistema senza custodi nel quale sia i guar­ diani che gli assalitori dell'ordine avevano quale loro nemico dichiarato i partiti, accusati di aver espropriato i cittadini di ogni autentica sovranità. Cossiga si presen­ tava come Externator e si scagliava contro le "oligarchie", gli apparati chiusi che "dominavano la società". Il presidente non parlava un linguaggio diverso da quello degli attori irregolari che invocavano a gran voce una resa senza condizioni della nomenclatura. Coinvolta anche l'opposizione nella guerra santa contro la partito­ crazia, era inevitabile che la crisi del sistema evolvesse in breve tempo come un prevedibile episodio di rivoluzione passiva. Con astuzia i vecchi potentati conserva­ vano il potere utilizzando nel loro disegno gli stessi ambienti d'opposizione attratti da apparenti locuzioni radicali. E in effetti la rivoluzione italiana accompagnava al potere proprio gli eredi periferici della vecchia coalizione dominante ( in grado di assorbire i guastatori che avevano organizzato la rivolta dei territori più produttivi ) che imponendo la polarità vecchio/nuovo riusciva a determinare l'inevitabile sospen­ sione della logica dell 'alternanza tra destra e sinistra. Fattori esterni ( nuovo ordine mondiale emerso dopo il crollo dell' Unione Sovie­ tica, vincolo europeo con i selettivi parametri di Maastricht) e sconvolgimenti interni ( referendum elettorale, Tangentopoli ) minarono alla radice la capacità di resistenza

zionale, ivi, 4· Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa, G. Monina, p. 37 ). Cfr. G. Galli, Il decennio Moro-Berlinguer: una rilettura attuale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006. Sulla disso­ luzione del sistema politico, cfr. Colarizi, Storia dei partiti nell'Italia repubblicana, cit., pp. S40 ss. 1 8. Vacca rimarca la subalternità della nozione di questione morale al « superpartito» che ruotava attorno alla D C e al P S I (G. Vacca, In tempo reale. Cronache del decennio 'Sg- 'gg, Dedalo, Bari 2002, p. 166). «Nata nei folli anni Settanta come termine spregiativo, la parola neoqualunquismo tornò a proporsi verso la fine dei banali anni Ottanta in senso positivo, per indicare il rifiuto della partitocrazia da parte di alcuni opinionisti e moralisti» come Giampaolo Pansa e Giorgio Bocca (S. Vassalli, Il neoitaliano. Le parole degli anni Ottanta, Zanichelli, Bologna 1991, p. 133). 19. Nel 1993, nel discorso alla Camera per giustificare le dimissioni del suo governo, il presidente Giuliano Amato accostava fascismo e partitocrazia. Ne scaturì una polemica con Norberto Bobbio, che rifiutò un inaudito giudizio storico « antirepubblicano». Sulla vicenda, cfr. L. Covatta, La legge di Tocqueville. Come nacque e come mori la riforma della prima Repubblica italiana, Diabasis, Reggio Emilia 2007, p. 83. 49 3

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e di adeguamento alla logica dell'alternanza del vecchio sistema politico20• Sorsero nuovi attori di protesta, mobilitati soprattutto nelle aree settentrionali dall'emer­ sione di una lotta fiscale ingaggiata per definire a chi toccasse pagare i conti ingenti del risanamento statale. Novelli soggetti e spezzoni di classe politica in via di rici­ claggio imposero un gioco inedito che, invece del contrasto destra/sinistra, governo/ opposizione, ruotava attorno alle polarità vecchio/nuovo, legale/illegale, maggiori­ tario/proporzionale, centro/periferia11• Le leghe, e dal 1990 i giovani della Confin­ dustria, i movimenti referendari ( con il soccorso della stessa sinistra) annunciarono che il nemico numero uno, responsabile principale della bancarotta della Prima Repubblica, si chiamava partitocrazia11• Alle prese con i processi di crisi del comu­ nismo, il P D S abbandonò le categorie realistiche di impronta togliattiana e adottò il codice vecchio/ nuovo aprendo le porte a gruppi di intellettuali e ad ambienti della società civile all 'insegna della lotta comune contro la partitocrazia ( gennaio 1990 ) 1\ Anche a destra si proseguiva nella più congeniale mobilitazione antipartitocratica per cercare di affrettare il tramonto di un sistema che l'aveva sempre trattata come un polo escluso14• I movimenti della società civile, i giudici, i custodi della Costi tu20. Sulla centralità assunta dalla riforma elettorale come chiave esclusiva dell' innovazione politica, cfr. A. Sarubbi, Cultura, societa civile e sistema politico nell'Italia contemporanea, Zanichelli, Bologna 1997, p. 202. Sul rapporto tra magistratura e sistema politico, cfr. E. Bruti Liberati, A. Ceretti, A. Gia­ santi (a cura di), Il governo dei giudici. La magistratura tra diritto e politica, Feltrinelli, MUano 1996. Per un'analisi della corruzione italiana in un'ottica comparata, cfr. D. Della Porta, A. Vannucci, A Typology of Corrupt Networks, in J. Kawata (ed.), Comparing Politica! Corruption and Clientelism, Ashgate, Aldershot 2006, pp. 23-44. 21. Sull' impatto che la riforma fiscale varata dal governo Craxi nel 1985 ebbe sui sommovimenti politici dei ceti produttivi del Nord, cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni, 1943-2006, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 168. Sul tema, cfr. anche R. Petrini, L'imbroglio fiscale, Laterza, Roma-Bari 2005. 22. Al centro dell' iniziativa della Lega c 'era la lotta alla «partitocrazia centralista, corrotta e mafiosa» (cfr. G. De Luna, Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993, La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 135 ) . Sull'antipartitocrazia della Lega e di un movimento giustizialista come La Rete di Leo­ luca Orlando, cfr. L. Newell, Parties and Democracy in Italy, Ashgate, Aldershot 2000, p. 79; R. Biorcio, La Padania promessa, il Saggiatore, MUano 1997, p. 27. Sulla Lega che evolve da tribuno antipartito a forza del cambiamento, cfr. l. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993, p. 18. 23. Sin dal 1988 la rivista "MicroMega" identificava destra e partitocrazia e quindi associava la sinistra e l'antipartitocrazia. Lo storico Paul Ginsborg parlava di «una castrazione simbolica » della partitocrazia ("l' Unità", 19 giugno 1992 ) . Sulla « macchia indelebile di disonore » caduta sui partiti e sul declino della partitocrazia come lavacro simbolico, cfr. S. Colarizi, Biografia della prima Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 203. Sulla crisi identitaria del PCI e sul surrogato antipartitocratico recu­ perato per rimediare a una carenza ideale, cfr. E. Crisafulli, Le ceneri di Craxi, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2008, p. 233. Sull'uso ambiguo nelle culture progressiste delle nozioni di partitocrazia e consociativismo, cfr. A. Pizzorusso, La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare, Einaudi, Torino 1996, pp. 24-5. 24. Anche la cultura politica di AN riprendeva motivi tradizionali contro U sistema dei partiti e invocava la lezione di Sturzo contro la partitocrazia (R. Chiarini, M. Maraffi, a cura di, La destra allo specchio. La cultura politica di Alleanza nazionale, Marsilio, Venezia 2000, p. 6o ). Per la fortuna del 4 94

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zione, i partiti tradizionali rimasti in piedi, gli attori antipartito (la Lega indicò come i nemici da abbattere tutti i soggetti: Craxi, Andreotti e Occhetto « che hanno distrutto lo Stato » 15) assunsero all'unisono la partitocrazia come nemica e imputata unica nel processo per la degenerazione democratica che ostruiva la partecipazione dei cittadini. I referendum (elettorali e anche quelli promossi da Massimo Severo Giannini su Mezzogiorno e banche6) si configuravano come il detonatore che in nome della liberazione dalla partitocrazia faceva esplodere il sistema lasciando in giro pezzi incontrollabili17• Al referendum contro la partitocrazia parteciparono radicali, libe­ rali, settori della sinistra indipendente e poi si aggiunse anche il soccorso rosso del PDS18• Il referendum sul voto di preferenza denunciava la degenerazione dei partiti che operavano come una « macchina politica » per la raccolta di un consenso senza scopi ideali e adattabile sulle domande particolari19• Contro i partiti, emergevano un' antipolitica dei ceti produttivi raccolti dal risentimento economico-fiscale (la Lega e poi Forza Italia) e un'iperpolitica (democrazia immediata) dei ceti medi riflessivi che sognavano Westminster e la modernizzazione istituzionale30• Emergeva tema antipartitocratico nella cultura di destra, cfr. A. Cariati, Breve storia del presidenzialismo in Italia (I946-I992), Società Aperta, Roma 1997. 25. U. Bossi (con D. Vimercati ) , Vento dal Nord, Sperling & Kupfer, Milano 1992, p. 1 1 3. Sull 'uso della nozione di partitocrazia da parte dei populisti di destra, cfr. Z. Ciuffoletti, S. Noiret (a cura di ) , I modelli di democrazia in Europa e il caso italiano, Ponte alle Grazie, Firenze 1 992, p. 137. 26. Una lettura della Repubblica come « dominata per mezzo secolo dalla partitocrazia propor­ zionalistica e consociativistica » emergeva anche in E. Galli della Loggia, Vent'anni di impazienza. Scritti di politica e di battaglia, Libri Liberai, Firenze 2001, p. 244. Sul nesso tra riforma elettorale e abbattimento della partitocrazia, cfr. E. Rotelli, Una democrazia per gli italiani. Geometrie politiche e costituzionali difine secolo, Anabasi, Milano 1993, p. 7 1. Sul sistema elettorale come meccanismo cura­ tivo per eliminare la partitocrazia, cfr. F. L. Cavazza (a cura di ) , La riconquista dell'Italia. Economia, istituzioni, politica, Longanesi, Milano 1993, p. 310. 27. M. Segni, Niente di personale. Solo cambiare l'Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2010, p. 12. Adornato presentava la partitocrazia come «tumore in metastasi» (F. Adornato, Oltre la sinistra, Rizzoli, Milano 1991, p. 16 ) . «La lotta alla partitocrazia è il logo pubblicitario» del referendum del 1991 sulla preferenza unica (V. Orefìce, L. Tivelli, Titanic Italia. La partitocrazia: storia di un naufragio annunciato, Nuova ERI, Roma 1993, p. 200 ) . Sulla partitocrazia come « malattia » , cfr. R. De Mucci (a cura di ) , La palude della partitocrazia. Quale spazio per le eccellenze in politica?, LU ISS University Press, Roma 2012. Una riflessione storiografìca su democrazia dei partiti e partitocrazia in A. Giova­ gnoli (a cura di ) , Interpretazioni della Repubblica, il Mulino, Bologna 1998. 28. Sui costi della politica e la polemica antipartitocratica, cfr. E. Melchionda, Il finanziamento della politica, Editori Riuniti, Roma 1997; U. lntini, La democrazia virtuale, Newton Compton, Roma 1995. p. 16. 29. L. Musella, Clientelismo. Tradizione e trasformazione della politica italiana tra il I97S e il I992, Guida, Napoli 2000, p. 28. Sul tema, cfr. anche R. Gritti, Frammenti di seconda Repubblica, Nuova Cultura, Roma 2012. 30. Un tentativo di comprendere le ragioni della Lega, e di inserirle in un'alternativa radicale ali' insegna dell'opposizione tra partitocrazia e legalità, si trova in U. Curi, P. Flores d'Arcais, L 'albero e la foresta. Il Partito democratico della sinistra nel sistema politico italiano, FrancoAngeli, Milano 1991, p. 78. 49S

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una spaccatura originaria tra le città del postmodernismo ( recupero di civicness, par­ tecipazione, deliberazione, secolarismo ) e le periferie della microimpresa che ha accompagnato l' intero percorso della Seconda Repubblica31• La critica alla partito­ crazia mostrava la convergenza di due componenti: una più conservatrice, che invo­ cava l'ordine perduto e lamentava i costi economici dello Stato dei partiti, e una parte più legata ai movimenti della società civile, che reclamava la partecipazione e il merito offuscato dagli apparati dominati dal professionismo politico ostile alla mobilità di nuovi ceti32• In un sistema che adottava come suo credo ufficiale la rivolta liberatoria contro la nomenclatura partitocratica, la crisi sfuggiva con decisione alla pratica dell'alter­ nanza e assumeva sempre più nitidi i tratti incontenibili della caduta di un regime. Il disperato e miope conservatorismo ( la resistenza del P S I e della D C alla tornata referendaria destinata al non raggiungimento del quorum conferì una carica simbolica all'appuntamento che segnò la sconfitta politica del vecchio quadro di governo ) e il cieco e spericolato nuovismo ( il P D S arrivò a contrapporre la via referendaria alle riforme al condiviso lavoro istituzionale per le innovazioni già ben avviato nella Commissione lotti ) si rivelarono speculari segni di impotenza nell'offrire un governo alla transizione. La penetrazione incontrollata nelle categorie istituzionali utilizzate dal P D S della parola partitocrazia, declinata come il principale simbolo del malessere democratico, favorì l ' incubazione di una sconfitta di portata storica33• La questione non era infatti più quella di una sinistra d'opposizione che prendeva il posto di un governo ormai screditato ( il sistema non produceva alternanza ma generava la sin­ drome della frantumazione) , ma quella di accelerare una fuoriuscita dalla pesantezza di una malefica Repubblica dei partiti. Se il tema non era più l'alternanza ma diven­ tava la rottura dei confini di un sistema, si determinava il bisogno di un salto quali­ tativo e gli elettori non avrebbero premiato un ricambio percepito come interno al sistema ma piuttosto inseguito una rottura radicale affidata a nuovi attori irregolari34• 31. L. De Sio (a cura di), La politica cambia, i valori restano? Una ricerca sulla cultura politica dei cittadini toscani, Firenze University Press, Firenze 2ou; F. Anderlini, Il voto, la terra, i detriti. Fratture sociali ed elettorali. Dall'alba del 2 giugno 1940 al tramonto del 25jebbraio 2013, Socialmente, Bologna 2013. 32. M. Livolsi, L'Italia che cambia, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 147. Nel complesso «la critica alla partitocrazia, molto diffusa in generale, è particolarmente accentuata nei settori di più elevato livello culturale » (ivi, p. 146 ) . 33· «Persino i comunisti guidati da Achille Occhetto si mostrarono pronti a fare propri concetti che sino a qualche anno prima sarebbero a loro stessi apparsi eversivi nonché degni del peggiore degli insulti: qualunquista » (Lupo, Partito e antipartito, cit., p. 10 ). Sulla penetrazione nella cultura del PDS della polemica contro la partitocrazia, uno « degli scampoli del più consunto pensiero della destra» , cfr. G. Vacca, Per una nuova costituente, Bompiani, Milano 1996, p. 89. Sull'uso ambiguo di concetti come consociativismo, partitocrazia, regime, cfr. E. Santarelli, Il vento di destra. Dalla Liberazione a Berlusconi, intervista di Aldo Garzia, Datanews, Roma 1994, p. 8. 34· Sulle ambiguità delle ultime mosse compiute da Craxi nel 1992 (aperture al PDS, sia pure con riluttanza, ad accettare una comune fase di opposizione e accordi siglati con la oc), cfr. G. Galli, Storia del socialismo italiano. Da Turati al dopo Craxi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, p. 17.

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Quando il P D S nel 1 9 9 2-94 parlò di « una guerra di liberazione dalla partito­ crazia » favorì una slavina del sistema35• Non andò bene, e la carta antipolitica servì solo a evocare la discesa in campo di un nuovo leader federatore capace di mettere insieme truppe con capitani che sembravano inconciliabili. C 'è sempre un attore irregolare più credibile, rispetto a un partito normale, nel cavalcare l 'onda anomala dell'an tipolitica, che perciò non va mai accarezzata : travolge e inventa d 'un colpo nuovi attori vincenti sul corpo di chi si illude di poterla domare. Il successo della strana coalizione del 1 9 94, composta da partiti e cartelli elettorali estranei ai grandi miti fondativi della Repubblica, fu l'epilogo della trasformazione di un problema di alternanza in una questione di salto qualitativo nella continuità della storia politica repubblicana. Proprio questo è il senso dell'insorgenza antipolitica come grammatica della rivoluzione passiva.

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Una repubblica disancorata

Il disancoraggio è il tratto specifico del sistema politico degli anni Novanta. Sulle macerie dei partiti, cresce l ' indice di personalizzazione del potere, impropriamente ricondotto al canone dell'americanizzazione della politica36• Nelle prime elezioni svoltesi con il maggioritario, i neoeletti costituivano il 68,7%, e al governo salirono persone provenienti dalla società civile, prive di ogni esperienza nella gestione di macchine amministrative complesse37• Per questo grande sommovimento avvenuto nella composizione del nuovo ceto politico reclutato in nome dell'avversione alla politica, il rafforzamento del comando perseguito con la formula maggioritaria coe­ sisteva con l 'indebolimento della capacità effettiva di governo a seguito della sco m35· Pochi tra i partiti tradizionali respinsero la polemica antipartitocratica. De Mita rimarcava gli «eccessi della polemica contro la partitocrazia » (C. De Mita, Politica e istituzioni nell'Italia repub­ blicana, Bompiani, Milano I988, p. 117 ) . Contro De Mita, l'eredità di Dossetti e la Repubblica dei partiti, cfr. Galli della Loggia, Vent 'anni di impazienza, cit., p. 307. Negli anni Novanta, dopo la crisi, anche i popolari recuperano la polemica di Sturzo contro la partitocrazia (N. Martinazzoli, G. De Rosa, Il nuovo Partito popolare italiano. Roma, IS-22 gennaio I994 · Azienda grafica G. Bardi, Roma I994· p. 28). 36. G. Zincone, US.A. con cautela. Il sistema politico italiano e il modello americano, Donzelli, Roma I995· Sulla diffusione del marketing politico, cfr. A. Mellone, B. L Newman (a cura di), L'ap­ parenza e l'appartenenza. Teorie del marketing politico, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2004. Per un'analisi comparata della presidenzializzazione dei partiti, cfr. T. Poguntke, P. Webb, The Presiden­ tialization of Politics: A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford University Press, Oxford 2007. 37· G. Vesperini (a cura di), I governi del maggioritario. Obiettivi e risultati, Donzelli, Roma I998, p. Il. La persistenza della frammentazione rendeva inefficaci le riforme, sterile la razionalizzazione normativa e procrastinava il governo debole a scarso rendimento (O. Massari, Italia, democrazia mag­ gioritaria? Sfule e pericoli della transizione italiana, Costa & Nolan, Genova I995 ) . 49 7

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posizione dei partiti. Un sistema che sostituiva i partiti con aleatori cartelli elettorali non poteva spiccare certo per l'attitudine all' innovazione, all 'adattamento, alla gestione delle criticità. Un sistema senza partiti si affermava in un quadro effervescente che, alla coppia destra/ sinistra, sostituiva la polarizzazione vecchio/ nuovo, società civile/partitocrazia. Nelle regionali del 1 9 9 5 emerse con nettezza il quadro simbolico del passaggio di fase appena verificatosi: nella scheda elettorale più nessun simbolo di partito ospitato era riconducibile alla precedente storia repubblicana. Emergeva così un sistema che non disponeva di « barbe e corrispondenze » , cioè di ancore di partito indispensabili per il consolidamento delle sue fragili strutture di potere38• Senza i partiti quali momenti non improvvisati per il reclutamento delle classi dirigenti, il sistema di governo smarriva le ancore della stabilizzazione e nella società franavano le strutture organizzative in grado di dare stimoli, di canalizzare le istanze della mobilitazione civile39• La scomparsa delle agenzie della mediazione politica e sociale gettava scompiglio in un sistema che si ritrovava privo di attori affidabili e sprovvisto di adeguati registi della governabilità40• La strada prescelta per soppiantare la mediazione di partito è stata infatti quella di un nuovo ordine politico a presiden­ zialismo diffuso che sfidava le regolarità del rendimento istituzionale. Senza attori di partito, sterili apparivano gli strati di capitale sociale sparsi nei territori41• La macro­ personalizzazione al centro e la micropersonalizzazione alle periferie generavano spinosi problemi di ingovernabilità e di alienazione politica. A dispetto della retorica della società civile, mancava un'omogenea stratificazione territoriale del capitale sociale e delle reti del civismo41• La personalizzazione del potere accentuava l ' insta­ bilità, acuiva la frantumazione, incrementava la distanza tra società e istituzioni e non riduceva gli sprechi, non sconfiggeva la cattiva amministrazione43• Per certi versi, la storia della Seconda Repubblica è storia di un'impotenza del riformatore.

38. Il ciclo antipolitico si nutre di un' istanza salvifìca affidata al trionfo di un' irrelata opinione pubblica (M. Fedele, Democrazia referendaria. L'Italia dal primato dei partiti al trionfo dell'opinione pubblica, Donzelli, Roma 1994, p. 8 ) . Sulla debolezza delle « modalità rappresentative di tipo perso­ nalistico» e sulle ambiguità della democrazia d' investitura, cfr. S. Gambino, Del rappresentare e del governare, in G. Moschella, P. Grimaudo (a cura di), Riforma elettorale e trasfo rmazione del partito politico, Giuffrè, MUano 2008, p. 6. 39· Sull ' inversione del nesso partito-società, cfr. M. Cotta, Continuita e discontinuita nei sistemi politici europei, in M. Calise (a cura di), Come cambiano i partiti, U Mulino, Bologna 1992, p. 2II. Sulla nascita dei partiti mediali, cfr. F. Raniolo (a cura di), Le trasformazioni dei partiti politici, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2004. 40. P. Grilli di Cortona, Il cambiamento politico in Italia. Dalla Prima alla Seconda Repubblica, Carocci, Roma 2007, p. 25; K. von Beyme, Classe politica e partitocrazia, U TET, Torino 1997; F. Ven­ turino, Elezioni e personalizzazione della politica, Aracne, Roma 2005, p. 202. 41. R. D. Putnam, Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton Univer­ sity Press, Princeton (NJ) 1993. 42. P. L. Ballini, M. Ridolfì (a cura di), Storia delle campagne elettorali in Italia, Bruno Mondadori, MUano 2002, p. 3 8. 43· R. Catanzaro, Comuni nuovi. Il cambiamento nei governi locali, U Mulino, Bologna 2002.

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Tutto il riformismo istituzionale, maturato nel corso del ventennio, ha oscillato tra l'occasionalismo politico ( per coltivare mire egemoniche di maggioranza, obiettivi di acquisizione e scomposizione del campo avverso ) e lo stato di necessità economica. Il decentramento istituzionale ( introdotto con un federalismo a Costituzione inva­ riata) è stato al tempo stesso la risposta di sistema alla crisi finanziaria esplosa nel 1 9 9 2 e il tentativo di disintegrare con offerte di grande riforma la coalizione di destra sottraendole al partner leghista44• I cambiamenti istituzionali, imposti in un primo tempo con legge ordinaria e poi sistemati con il nuovo Titolo v della Costituzione, hanno disegnato uno strano regionalismo imposto per stato di necessità, che si è però sgonfiato per la sopraggiunta crisi della forma di Stato dinanzi all 'emergenza del debito che ha imposto una ricentralizzazione delle politiche45• La delegittimazione del ceto politico tradizionale è stata sfidata con un presidenzialismo municipale che contrapponeva presidenti e assemblee, professionisti della politica e imprenditori, liberi professionisti disposti ad amministrare. La carica monocratica, nel vuoto delle assemblee e del controllo esercitato da opposizioni organizzate, accentuava la margi­ nalità di uno dei canali di espressione delle classi politiche: i consigli e le sedi della rappresentanza. Le spinte personalistiche e le onde plebiscitarie, congiunte allo snel­ limento dello Stato-macchina che marciava in un'ottica di restringimento del pub­ blico potere, non hanno fornito al sistema di governo una capacità di innovazione e un'attitudine all' inclusione sociale. La scommessa in un consolidamento democratico affidato all'investitura diretta delle funzioni monocratiche in un'età di sgonfiamento dei pubblici poteri, di potatura della rappresentanza, di essiccamento dei diritti si è rivelata un'illusione. Il federalismo, espressione della crisi storica della statualità sfidata dalla riaffio­ rante territorializzazione delle fratture politiche, non si è convertito in un rimedio efficace alla crisi delle politiche pubbliche e alla richiesta di rappresentanza dei ceti produttivi. Sorto per rispondere a un'emergenza politica, il federalismo è stato di fatto revocato con un decreto anch'esso giustificato dall'emergenza. La crisi economica ha indotto i pubblici poteri al taglio di una spesa fuori controllo proprio per i compor­ tamenti poco virtuosi dei sistemi politici territoriali. La crisi delle politiche redistriS. Mangiameli, Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi difederalismo, Giuffrè, Milano 2012. Un bilancio della « repubblica delle città » in rapporto con la destrutturazione partitica, con i nuovi modelli di organizzazione e gestione, e la contrazione degli spazi del controllo in A. Musi, La stagione dei sindaci, Guida, Napoli 2004. 45· Il nuovo Titolo v rappresenta «la più estesa revisione costituzionale che si sia compiuta nei 6o anni di vigenza della costituzione» (Mangiameli, Il regionalismo italiano, cit., p. 8). Le riforme istituzionali hanno funzionato da «mito necessario» (M. Cammelli, Quando il "mito" e necessario: a proposito di riforme costituzionali, in G. Giraudi, a cura di, Crisi della politica e riforme istituzionali, Rubbettino, Soveria Mannelli, cz, 2005, pp. 3-16). Sulle ambiguità della « modernizzazione del sistema amministrativo» attuato con riforme «organiche ma frammentate » in vista della differenziazione degli ordinamenti, cfr. F. Caringella, A. Giuncata, F. Romano (a cura di), L'o rdinamento degli enti locali. Commentario al Testo unico, I PSOA, Milano 2007, p. 8. 4 4·

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butive pagate con il debito dapprima ha sollecitato l'azione di movimenti che hanno spinto per il decentramento federalista e poi ha inasprito la scure dello Stato centrale, che ha provveduto a restringere i cordoni della spesa nelle periferie. I sistemi politici locali, che avrebbero dovuto consolidare i nuovi equilibri istituzionali, si sono rivelati un fattore di crisi per la carenza della concertazione tra i livelli di governo, per un caotico riparto formale delle competenze, per la difficile perequazione delle risorse finanziarie in un regime attraversato dalle accentuate differenziazioni territoriali. La legge s maggio 2 0 0 9 , n. 4 2 , sul federalismo fiscale (con l'evocazione di decreti attuativi sulla standardizzazione dei costi e con la precisazione di meccanismi san­ zionatori a tutela di un equilibrio economico e finanziario), che pareva sanzionare il trionfo della Lega come attore dell'innovazione istituzionale, in realtà cadeva in un sistema ormai alla deriva. La contrazione economica, la crisi politica dell'età berlu­ sconiana, lo scoppio di una nuova questione morale preparavano un passaggio di fase. Il detonatore della crisi era innescato nelle periferie di un sistema che proprio dal livello locale attendeva una rigenerazione della politica. Una caduta del tasso di eticità del ceto amministrativo locale accelerava la crisi del sistema politico46• La scarsa qualità della classe politica locale e l ' infimo senso del pubblico che traspariva nei governi dei territori accentuavano la delegittimazione della politica dinanzi a una compenetrazione (persino in Lombardia) di affari, mafia e gestione del governo regionale. Il sistema di potere personale dei governatori poggia, nei contesti più sfibrati, sul melmoso continuum politica-denaro, sull' intreccio tra amministrazione e voto di scambio, tra carriera politica personale e appoggio della criminalità orga­ nizzata nel raccoglimento delle preferenze. Nel ventennio postpartitico è stata adottata una selezione rovesciata della classe politica. Quanto più abbondanti divenivano le risorse destinate alle autonomie locali, tanto più venivano reclutate persone prive di ogni autentica passione politica e attratte solo dalla febbre dell'oro con la quale accumulare risorse e comprare i voti. L'elezione popolare del governatore e il ricorso al voto di preferenza per i consiglieri hanno pre­ parato una dose micidiale di macro e micropersonalizzazione del potere che si insi­ nuava nelle amministrazioni senza incrociare anticorpi reali, dato lo sfaldamento della politica organizzata. Solo i partiti non personali, quelli cioè con una parvenza di vita associativa, che vantano ancora tracce di tradizioni ideali e porzioni di reti fiduciarie attive nei territori, restano estranei al malaffare. Quando il presidente della Regione e i consiglieri hanno dietro un partito che indirizza, controlla, coordina, censura, il degrado etico viene arrestato. La caduta dello spirito pubblico si cura con partiti in grado di sondare i livelli di vita, le abitudini, le carriere e i simboli degli eletti. 46. Sui « giochi distributivi» della partitocrazia attuati grazie al controllo di risorse locali, cfr. M. Cotta, P. Isernia, Il gigante dai piedi di argilla. La crisi del regime partitocratico in Italia, il Mulino, Bologna 1996, p. 6 8. In «larghi strati dell 'opinione pubblica » il governo di partito è considerato con una « connotazione negativa » e cioè come interferenza, abuso, perversione (ivi, p. 22). so o

LE D U E ONDAT E DI ANTI P O L I T I CA

Una convergenza esiste tra l ' invenzione di partiti personali privi di strutture democratiche interne e la corruzione, la mutazione di risorse pubbliche in dotazione privata, il trasformismo della classe politica setacciata nella società civile. Il fallimento della velleità di rispondere al malaffare e al peculato con i partiti personali antipoli­ tici, con liste civiche ripropone la verità per cui la corruzione odierna non è il frutto di un eccesso di partito, ma è il risultato di una carenza di partito, di partecipazione reale. Le inchieste svelano quanto effimera sia un'alternativa di società civile ai par­ titi, che sono invece una cerniera indispensabile, da ricostruire per ridefinire una politica capace di innovazione. La frana del sistema politico locale si congiunge alle difficoltà strutturali del sistema politico centrale. I continui cambi di casacca dei parlamentari sono l 'emblema del fallimento della Seconda Repubblica, nella sua pretesa di edificare una democrazia maggioritaria al riparo dei partiti quali snodi cruciali dello Stato-comunità e dello Stato-apparato47• Sia che l'abbandono abbia motivazioni politiche (la sfida di Fini al partito padronale, gli spostamenti di Rutelli per promuovere aggregazioni neocentriste), sia che coinvolga una caduta del senso dell'onore del deputato, il trasformismo è comunque una fenomenologia negativa del sistema e ne evidenzia il deconsolidamento, l'appannaggio dei meccanismi della sanzionabilità politica in seguito alle operazioni di compravendita dei deputati. Certi passaggi di campo che riguardano candidati della società civile o intransigenti depu­ tati eletti tra i partiti giustizialisti rivelano i crampi di un sistema bipolare in cui permangono le consuetudini delle crisi extraparlamentari, ed esiste un prezzario ministeriale per affrontare le mozioni di sfiducia. L'indebolimento dei vincoli di lealtà politica tra eletti e partito di provenienza rivela la fragilità degli assetti sistemici esistenti dinanzi al transfughismo. La Seconda Repubblica, con le sue pratiche di infinite migrazioni, ritorna alle consuetudini dell' Ottocento, perché sono stati disintegrati gli anticorpi del trasfor­ mismo : i partiti. Nella vicenda storica dell' Europa, le piaghe del nomadismo degli eletti sono state curate con l'obbligo dei deputati ad aderire a gruppi parlamentari operanti con una ferrea disciplina. Così i partiti ponevano termine all'età del depu­ tato che agiva come singolo e imprevedibile rappresentante della nazione48• Quando però sono crollati i partiti, niente più è stato in grado di estirpare il male del tra­ sformismo, quale negazione dei pilastri dell ' indirizzo politico di governo. Il maggio­ ritario, con i suoi effetti selettivi, spinse gli spezzoni di partito ad allestire due grandi coalizioni. Sulla scheda si affrontavano due soli simboli. Dopo le urne però come per magia (nessuna riforma dei regolamenti parlamentari fu concepita per adeguarli al tempo nuovo del maggioritario) in aula proliferavano i gruppi più variegati. La 47· A. Ciancio, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Giuffrè, Milano 2007; Gambino, Del rappresentare e del governare, cit., p. 27. 48. Un' indagine storica sulla classe politica italiana in A. Anastasi, Parlamento e partiti in Italia. Una ricerca sulla classe politica italiana dalla I alla XIV legislatura, Giuffrè, Milano 2004. S Ol

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schizofrenia di un sistema che con la legge elettorale induceva alle alleanze forzate e con la conservazione degli antichi regolamenti parlamentari cantava l' inno della frantumazione produceva ingovernabilità e trasformismo in un sistema del tutto disancorato49• Le coalizioni, rimaste come figure centrali anche con il "porcellum" del 200 6, che obbligava a stipulare intese insincere pur di aggiudicarsi il cospicuo premio in seggi, hanno imposto una politica liquida. Micropartiti personali erano indaffarati a trovare una marginale visibilità per conservare un potere di contrattazione, per raci­ molare risorse e sopravvivere. Le due megacoalizioni che si sfidarono nel 2008 in aula poi partorirono 1 4 gruppi parlamentari, con analoghi diritti nei finanziamenti, nelle attrezzature, nella disponibilità di locali. Una radice del trasformismo si trova nella frizione tra una legge elettorale selettiva ( che sospingeva ad aggrapparsi al sog­ getto coalizione ) e regolamenti parlamentari disaggreganti favorevoli alle scomposi­ zioni. All'apparenza di semplificazione sprigionata dal congegno elettorale ben presto seguiva la realtà della decostruzione della coalizione agevolata proprio da regolamenti che, con deroghe ( al criterio numerico delle 20 unità risalente al 1 9 1 9 , quando però i deputati erano solo so8), nascondevano il detonatore che faceva esplodere il sistema. E inutile ogni riforma elettorale per la semplificazione, se poi i regolamenti parlamentari restano ancorati ad assetti organizzativi del secolo scorso, e favoriscono, con licenze concesse persino a forze con meno di dieci seggi, l'erosione delle coali­ zioni che certo si presentano di arduo riconoscimento sul piano della tecnica parla­ mentare. E così il potere di investitura dei cittadini viene amputato dall 'apparizione dopo il voto di gruppi, di nuove sigle sorrette attraverso scissioni, migrazioni, prestiti. La clausola numerica dei 20 seggi da far valere a discrezione in aula ( antica eredità dell'epoca liberale, con deputati notabili e senza partiti ) presenta risvolti disfunzio­ nali. Per arrestare la slavina della frantumazione dei gruppi ( persino vantaggiosa alla maggioranza per avere il controllo delle commissioni, dell'ufficio di presidenza ) occorre riconoscere il principio vigente in altri sistemi europei per cui solo i simboli offerti agli elettori possono promuovere autonomi gruppi, e accedere ai finanzia­ menti. Se i partiti danno vita a una lista comune dovrebbero poi aprire anche un unico gruppo in Parlamento. Sono opportuni, sulla scia dei modelli europei, taluni vincoli nei regolamenti ( divieto della facoltà di iscriversi a gruppi diversi da quelli di elezione, impossibilità di costituire gruppi tramite deroghe, autorizzazioni ) . Al tra­ sformismo non c 'è rimedio effettivo se però non ricompaiono grandi partiti quali agenti del consolidamento democratico. Il Parlamento dei nominati ha dovuto sur­ rogare la morte dei partiti con le deteriori pratiche dei maxiemendamenti, dei decreti .

'

49· Nel 1994 come nel 1998 Scalfaro ha negato al premier senza più maggioranza lo scioglimento, invocato da Berlusconi prima e da Prodi dopo. Entrambi parlarono di complotti e ribaltoni (cfr. G. Pasquino, Le istituzioni di Arlecchino, ScriptaWeb, Napoli 2007, p. 32). 50 2

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legge omnibus, delle raffiche di voti di fiducia. Un ostacolo al riallineamento del sistema politico italiano è costituito dall'insorgenza di una nuova ondata di antipo­ litica che colpisce proprio la soluzione possibile ( i partiti) e invoca a sostegno la malattia ( la rivolta contro la casta) .

4

La seconda ondata

Nella seconda ondata di antipolitica scoppiata con forza nel 201 1 salta la demarca­ zione tra destra e sinistra e affiora, come immagine del negativo da abbattere, la nozione di «casta » descritta come il contenitore di un ceto politico parassitario, corrotto, privilegiato. L' antipolitica non assume più i miti guerrieri di Pontida o le sirene di Westminster, ma alimenta i sogni di un'agorà elettronica, accarezza le istanze di una rottamazione del ceto politico. Per andare oltre la consueta topografia del sistema politico, la seconda ondata dell'antipolitica costruisce una rivolta contro la casta50, il rifugio dorato di un omologato e corrotto ceto politico cui deve opporsi la spontanea e creatrice gente comune, in grado di respingere le opacità del potere che rifiuta il taglio della spesa5'. Entro certi limiti si può interpretare la crisi della Prima Repubblica, e la deriva che condanna la Seconda Repubblica, come espressione di una medesima emergenza che si prolunga nel tempo ed è connessa all'esplosiva questione fiscale che scatena la mobilitazione, la protesta, la fuga del popolo delle partite IVA . Mutano gli attori politici e i simboli della mobilitazione, ma persiste il soggetto sociale protagonista della ribellione contro le forme della rappresentanza e della stessa statualità. Le tra­ sformazioni traumatiche del sistema politico dipendono in gran parte dall'aliena­ zione politica dei ceti medi produttivi, del lavoro autonomo e del commercio, che respingono la normalizzazione della contesa politica secondo parametri europei. Il contenimento della spesa e la fuga dagli obblighi del fisco sono l' invariante della protesta an tipolitica. Già negli anni Ottanta si cercò di arrestare l'alluvionale crescita della spesa connessa al decentramento amministrativo con l' introduzione di un nuovo processo di bilancio ( 19 8 8) . Il fondamento della perdita di rappresentanza dei partiti di governo entro taluni soggetti sociali si rinviene proprio in questo processo duplice di contenimento delle spese pubbliche e di riparo allo strabismo fiscale. Nel 1992 i parametri di Maastricht si aggiunsero alla caduta della capacità di rappresentanza dei vecchi partiti di governo travolti dagli scandali, e scrutati dai ceti so. G. A. Stella, S. Rizzo, La casta. Cosi i politici sono diventati intoccabili, Rizzoli, Milano 2007, riprendono la definizione dei partiti come « casta di professionisti» fornita già da Walter Veltroni. S I. L. Verzichelli, Vivere di politica. Come (non) cambiano le carriere politiche in Italia, il Mulino, Bologna 20 IO. 50 3

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produttivi come corpi ormai estranei per la necessità inderogabile di decidere un fulmineo rinnovamento delle decisioni di bilancio. Il discredito e le più esigenti politiche fiscali indussero i combattivi ceti sociali del microcapitalismo territoriale del Nord, scettico verso ogni suo oneroso coinvolgimento in politiche pubbliche di risa­ namento e di contrazione dell'evasione, a inventare nuove espressioni di senso. Questi ceti economicamente centrali ma politicamente ribelli, proprio nell'enfasi posta sulla loro alienazione politica (populismo regionalista e partito aziendalista), trovarono la forma dell'autorappresentazione degli interessi corporativi e territoriali. La protesta di massa subito scoppiata contro la minimum tax indusse Ciampi ad apportare urgenti correzioni, e però la frattura fra governo e microcapitalismo era ormai consumata. Con il simbolismo antipolitico una potente coalizione sociale in condizione di statu nascenti si sbarazzò di attori sgraditi e conquistò le leve del comando politico51• Il paradigma antipolitico penetrato nel cuore del potere ha però mostrato le profonde disfunzioni sistemiche che hanno condotto alla caduta di ogni rendimento istituzionale. La parabola del berlusconismo induce a leggere con una certa ironia le celebrazioni del capo che avrebbe inaugurato il tempo della democrazia « meno acefala » 53• Alcuni interpreti hanno rispolverato la nozione di Montesquieu di dispo­ tismo per descrivere la combinazione di potere politico, economico, culturale che appare realizzata in un solo corpo 54• Proprio questo offuscamento della differenzia­ zione funzionale dei vari sottosistemi della società complessa ha causato un appan­ namento del rendimento istituzionale e un rallentamento della stessa crescita econo­ mica. La coalizione sociale berlusconiana, incardinata sul microcapitalismo, ha eretto un meccanismo sociale immobilista che ha attenuato i dispositivi dell' innovazione competitiva. Con la caduta di Berlusconi e con la frantumazione del suo partito personale-patrimoniale, i ceti sociali che si erano rifugiati a destra paiono certo spae­ sati, ma non sembrano attratti dalle risposte modernizzatrici (con liste di nuovi imprenditori o tecnici cosmopolitici in vista di un liberismo preso sul serio, sorretto con parole d 'ordine efficientiste e ostili all'anarchia fiscale) . Il richiamo del popu­ lismo e dell'antipolitica rimane ancora dominante in un arco di forze sociali che coltivano il ribellismo contro la « casta » e contro le «oligarchie » , non si limitano a istanze di partecipazione online o a richieste per la riduzione dei mandati55. 52. Sul connotato politico e sociale del populismo, cfr. E. Laclau, La razon populista, FCE, Buenos Aires 2005, p. 20. Sulle varianti di populismo nella storia d' Italia, cfr. M. Tarchi, L'Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, il Mulino, Bologna 2003, e, da una diversa prospettiva, N. Tranfaglia, La transizione italiana. Storia di un decennio, Garzanti, Milano 2003. 53· L. Cavalli, Governo del leader e regime dei partiti, il Mulino, Bologna 1992. Per un bilancio degli effetti sistemici legati ali' introduzione del maggioritario, cfr. S. Bartolini, R. D 'Alimonte, Mag­ gioritario finalmente? La transizione elettorale 1994-2001, il Mulino, Bologna 2002. Sull'esigenza di chiudere la transizione con poteri di stabilizzazione al capo del governo e con il rafforzamento del quadro bipolare, cfr. S. Ceccanti, S. Vassallo (a cura di), Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano, il Mulino, Bologna 2004. 54· N. Bobbio, Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo, Dedalo, Bari 2008, p. 1 3. 55· Pasquino, Le istituzioni di Arlecchino, cit., p. 7· 5 04

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Nella debolezza congenita di un sistema politico friabile retto da una "strana" maggioranza a guida tecnica, e nella morsa del rigore europeo per il controllo dei conti pubblici, traspare la seconda ondata di un'insorgenza an tipolitica che sogna le stesse ricadute del grande sommovimento che vent 'anni prima aveva portato alla destrutturazione dei partiti. Contro il paventato ritorno a una politica organizzata provvista di una qualche autonomia funzionale, un composito aggregato mediatico ed economico reputa più conveniente un azzeramento di tutto il sistema politico56• L'antipolitica è quindi l'estrema mossa difensiva di potenze economiche influenti che paiono allarmate rispetto alla temuta eventualità di una ricostruzione di una dialet­ tica politica di tipo europeo. L' antipolitica è un movimento che sprigiona forze per orientare una rivoluzione passiva, il populismo ne è il rivestimento simbolico. Il populismo, inteso come un dato strutturale permanente che accompagna con simboli e atteggiamenti devianti la (anti)politica italiana, trova ampi foraggiamenti che ne rafforzano la presa nelle fasi critiche57• Le élite dominanti prediligono una politica senza partiti e applaudono al trionfo di un marketing senza qualità in cui il potere diviene appannaggio integrale di singoli leader dal presunto trasporto carismatico. L'obiettivo di influenti poteri è quello di servirsi del comico per azzerare tutte le casematte politiche esistenti, e di sospendere con la demolizione della casta il lavoro in corso per la riprogettazione di partiti di un qualche spessore organizzativo. Non è un caso che i media e i poteri che più hanno sparato contro la casta ed esaltato l'anomalo comico poi propongano la pro­ roga della soluzione tecnica o un governissimo per arrestare una sindrome greca. Il comico è usato quale fase propedeutica alla neutralizzazione modernizzatrice che viene dopo il lavoro dei guastatori con il loro trattamento antipolitico. La divisione dei compiti tra il comico che distrugge la credibilità dei politici già demoliti come "casta" e il tecnico che governa senza resistenze pare una mossa propedeutica al declino storico dell' Italia: il consenso di Monti resta residuale. Nel novembre 2011, prima della strana maggioranza e degli scandali, Grillo era stimato al 3%, un anno dopo vola attorno al 20% nelle intenzioni di voto. Con il voto reale che lo vede al 25%, la destrutturazione diventa strutturale e il sabotaggio diviene normale. Quando, dinanzi al fallimento del governo Berlusconi, fu chiamato Monti a Palazzo Chigi era evidente che il gioco politico mutava. La sospensione emergenziale dell'alternanza immetteva la possibilità di una crisi di sistema che avrebbe contestato la legittimità di tutti gli attori. Da quel momento, si interrompeva per il PD la fase espansiva che lo aveva visto mietere successi alle amministrative e ai referendum. Non

s6. P. Rosanvallon, La politica nell'era della sfiducia, Città Aperta, Troina (EN) 2009. Sulla con­ vivenza del populismo berlusconiano accanto a quello iperdemocratico della Rete nell' Italia senza partiti, cfr. A. Lanni, Avanti popoli! Piazze, tv, web: dove va l'Italia senza partiti, Marsilio, Venezia 20 1 1. 57·

M. Veneziani, La cultura della destra, Laterza, Roma-Bari sos

2004,

p.

1 22.

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c 'era più il problema di sostituire un governo disastroso e quindi per il PD terminava una crescita che marciava con una lineare regolarità. Gli rimaneva, come obiettivo massimo perseguibile nel mutato contesto storico, solo quello di resistere bene, senza smarrire le truppe disorientate dinanzi a una maggioranza votata spesso all 'immobi­ lismo. In una crisi di sistema tutto si rimescola e non si ha più un mero travaso di voti dal governo all'opposizione. Il vuoto prolungato della politica con i tecnici al governo non è giovato alla politica58• Oltre un tempo circoscritto alla fase più acuta dell'emergenza, la vacanza dei partiti produce mostri : ma la strada per il voto anti­ cipato richiedeva un accordo per la legge elettorale, che però non c 'è stato per cavalcare le futili illusioni riposte sulle primarie come magico evento rigeneratore. Una parte cospicua dell'antica coalizione sociale di destra dirotta il proprio consenso ribellistico verso il movimento del comico Grillo, a cui guardano con simpatia anche i settori dei media più influenti che lo gonfiano come fattore di disturbo in grado di determinare un provvidenziale pareggio alle elezioni. Le ipotesi di sostituire il blocco cementato da Berlusconi con nuove liste civiche promosse da imprendi tori ali ' insegna dell'efficienza, della modernizzazione ( lista Monti ) si rivelano molto fragili e irrealistiche al cospetto dell 'effettiva natura dell'alienazione politica che ha contagiato un vasto ceto medio produttivo che non accetta la lealtà fiscale, la contrazione dell 'economia in nero e sommersa. Dalla con­ dizione di alienazione politica in cui versa da un ventennio, il ceto sociale più sen­ sibile alle rivolte contro il fisco e alle istanze microlocalistiche ( piccola impresa, lavoro autonomo ) non sembra discostarsi e per questo guarda al gesto di rivolta di Grillo come a un'occasione di protesta cui aggrapparsi. Il comico Grillo raccoglie non più il semplice trasporto iperdemocratico di giovani navigatori della Rete, ma coagula anche i sentimenti antipolitici dei ceti microimprenditoriali e del commercio rimasti orfani del berlusconismo. La sconfitta di febbraio ha una precisa matrice strategica, la stessa del 1 9 9 2- 9 4 . Non si governa con efficacia una fase di transizione che segue a una crisi di sistema senza un ponte tra sinistra e forze del moderatismo costituzionale. La velleità di spezzare, con la figura di Monti, l'asse bipolare ha trasformato in un aggregato del tutto indeterminato il vecchio centro politico che con Casini aveva infranto l'antico bileaderismo. La metamorfosi del centro moderato in una velleitaria lista personale di Monti ha ostacolato la gestione della crisi del sistema politico con le necessarie politiche delle alleanze. All'evaporazione del centro si è poi aggiunto l'errore di strategia del P D , che ha coltivato l' illusione di sfruttare i vantaggi concessi dalla legge elettorale senza più muoversi con l' indispensabile accortezza e duttilità. Dopo aver sconfitto "il Grillo interno" nei gazebo ( al prezzo però di concedere la s8. « La confisca tecno burocratica del potere » produce scompensi poiché «la dimensione del polemos, espulsa dal sistema, si ricostituisce tra il sistema e i suoi nemici» (P.-A. Taguieff, L'illusione populista, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 13). so 6

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"rottamazione" di dirigenti autorevoli per riscaldare pulsioni, sentimenti, umori negativi verso la politica e di creare uno spregiudicato contropotere interno capace di condizionare gli eventi parlamentari ) , il PD non è riuscito a riorganizzare su basi più consistenti un sistema politico vulnerabile ed esposto al vento di una polveriz­ zazione. Il PD ha gestito come delle tranquille elezioni di mantenimento di solidi equilibri ( allestendo una coalizione minima vincente reputata in grado di aggiudicarsi senza difficoltà il premio del ss%) delle consultazioni che invece avevano assunto i tratti inconfondibili di un processo costituente senza più argini. La sconfitta del 2 0 1 3 appartiene alla stessa categoria della catastrofe del 1 9 9 4 . E mancata, ancora una volta, una sensibilità culturale di tipo togliattiano che sorregge la maturità storico-politica, necessaria per governare le incognite di una transizione di sistema con la condivisione di un percorso costituente tra la sinistra e le forze del moderatismo. L'offerta politica di Italia bene comune manifesta gli stessi limiti politico-culturali della poco accorta strategia della "gioiosa macchina da guerra" del 1 9 9 4 . Vent 'anni fa il mito ingannevole fu quello della rivoluzione italiana da celebrare grazie al maggioritario. Nel 20 1 3 deviante è parso il rito dei gazebo come ricucitura della scissione tra società e potere. Entrambe le proposte escogitate dalla sinistra per affrontare una caduta di legittimità della Repubblica non hanno saputo rispondere con efficacia alle ondate di antipoli­ tica che in Italia con una certa regolarità scandiscono le tappe delle crisi di sistema. '

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Un riformismo incompiuto : il primo governo Prodi di Andrea Possieri

I Le radici storiche del centro-sinistra Nel bene e nel male, lo studioso ex ministro ed ex presidente dell' IRI, da sempre espressione della miglior sinistra DC, può rappresentare agli occhi degli elettori, se non proprio tutto, molto di ciò che unisce l' Italia avversa a Berlusconi e a Fini, che la differenzia dall' Italia del centro-destra. Ma, per impressionante che sia, la rispondenza all 'identikit non basta ancora a fare dell'uomo di centro-sinistra la carta vincente del centro-sinistra1•

Tra gli innumerevoli commenti apparsi sui quotidiani il 3 febbraio 1 9 9 5 , all 'indomani della candidatura di Romano Prodi come leader di una nuova coalizione di centro­ sinistra, questo ritratto comparso sul "Corriere della Sera" riusciva a cogliere almeno tre elementi importanti che delineavano, efficacemente, la cifra politico-culturale di una leadership che, nel volgere di poco tempo, avrebbe contribuito a disegnare il perimetro simbolico-ideale di un nuovo schieramento politico. Innanzitutto, evocava il tradizionale paradigma delle due ltalie ed evidenziava, se non proprio un carattere originario della storia del nostro paese, un fattore costitutivo del sistema politico italiano sorto all'indomani delle elezioni del 199 4: quello di essere, come ha scritto Sabbatucci, una sorta di "bipolarismo polarizzato" caratterizzato da un'aporia sistemica - cioè da una sfasatura tra la cosiddetta "costituzione materiale" e quella formale - e da una fortissima divisivita, ovvero da un'elevatissima contrapposi­ zione ideologica tra i due maggiori schieramenti che eccedeva la normale conflittualità politica e che, spesso, finiva per delegittimare l'avversario fino a considerarlo alla stregua di un nemico concepito come un "pericolo" per la tenuta stessa del sistema2• P. Franchi, Il nome c 'e, il suo polo non ancora, in "Corriere della Serà', 3 febbraio I99S· Cfr. anche M. Caprara, La sfrda di Prodi «partendo dal Centro», ivi, 3 febbraio 199s; G. Luzi, Arriva Prodi, l'anti­ Berlusconi, in "la Repubblica", 3 febbraio 199s; R. Luna, Un projèssore contro il cavaliere, ivi, 4 febbraio 199s; G. Battistini, "il Mulino"fabbrica di cervelli, ivi, 4 febbraio 199s; R. Lampugnani, Il nome di Prodi scompiglia i giochi, in "l' Unità': 3 febbraio 199s; E. Gardumi, Il projèssore saggio, dopo l'IRI la politica, ivi, 3 febbraio 199s; M. T. Meli, Scende in campo Prodi, sfrda alla destra, in "La Stampa", 3 febbraio 199s; A. Papuzzi, «Subito un nuovo partito» , intervista a Norberto Bobbio, ivi, 3 febbraio I99S· 2. G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 107-21. Cfr. L. Cafagna, Legittimazione e delegittimazione nella storia politica I.

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ANDREA P O SS 1 E R1

In secondo luogo, quel ritratto rimandava alla "necessità elettorale" di identificare un candidato alla presidenza del Consiglio che potesse coagulare attorno a sé un'area politica più vasta di quella del cartello dei progressisti - che nel 1 9 9 4 era stato scon­ fitto dalla coalizione di centro-destra - e che ricalcasse, almeno in parte, l' inedita maggioranza parlamentare che sosteneva l 'esecutivo "tecnico" guidato dall'ex mini­ stro del Tesoro, Lamberto Dini\ Una necessità che, ovviamente, oltre a essere prodotta dal nuovo sistema elettorale misto, tendenzialmente maggioritario, rispondeva anche a due fondamentali oppor­ tunità politiche. Innanzitutto, l 'urgenza di una parte consistente del Partito popolare italiano (PPI) di elaborare una proposta alternativa a quella delineata dal segretario del partito, Rocco Buttiglione, che, nel gennaio 1 9 9 5 , al congresso di fondazione di Alleanza nazionale, aveva avanzato l 'ipotesi di stringere un'alleanza con il centro­ destra per ricostruire un'area dei moderati all' interno della coalizione berlusconiana, in cui gli eredi diretti della DC, in una prospettiva egemonica, avrebbero mitigato le spinte plebiscitarie e populiste del polo di centro-destra. Per contrastare questo cosiddetto «eccesso di tardogentilonismo » che stava per « vendere l'anima del par­ tito » a Berlusconi\ i capigruppo alla Camera e al Senato del PPI, Beniamino Andreatta e Nicola Mancino, assieme al presidente del Consiglio nazionale del PPI, Giovanni Bianchi, si erano affrettati, dunque, a lanciare la candidatura di Romano Prodi alla guida di un nuovo schieramento politico di centro-sinistra5• In secondo luogo, l'urgenza del Partito democratico della sinistra di superare, definitivamente, la transizione postcomunista per legittimarsi come autentica forza di governo all'interno di una coalizione guidata da un esponente che non provenisse dalla storia del PCI. Un'urgenza che, dunque, rimandava direttamente ai nodi irrisolti del processo di trasformazione dal PCI al PDS : salvaguardare il nucleo forte della tradizione comunista - rimuovendo, in parte, i caratteri costitutivi di quell' identità politica, e rimodulando il proprio "documento di cittadinanza" nella prospettiva di italiana, in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003, pp. 17-40. 3· G. Mammarella, L'Italia di oggi. Storia e cronaca di un ventennio, I992-2oz2, il Mulino, Bologna 2012, pp. 46-8. 4· Le dichiarazioni del presidente del Consiglio nazionale del PPI Giovanni Bianchi sono citate in C. Baccetti, I postdemocristiani, il Mulino, Bologna 2007, p. 109. 5· Questa decisione produsse, n eli' immediato, due effetti controversi: innanzitutto, la candidatura di Prodi venne percepita, da una parte dell'opinione pubblica, come una sorta di leadership correntizia, appannaggio solamente degli esponenti che provenivano dalla sinistra democristiana; in secondo luogo, l'ufficializzazione di questa candidatura accelerò il processo di scomposizione del P P I che sancì la conclusione, dopo cinquant 'anni, del centro d' ispirazione cattolica all' interno del sistema politico italiano. Un effetto che portò i due maggiori quotidiani del mondo cattolico, "Avvenire" e "L'Osser­ vatore Romano", ad avere una malcelata freddezza, quando non un'aperta ostilità al progetto prodiano. Cfr. Cattolicesimo politico. Patrimonio da non dilapidare, in "Avvenire", 4 febbraio 1995; A. Santini, La Chiesa divisa su Buttiglione-Prodi, in "l' Unità", 5 febbraio 1995; W. Dondi, Gorrieri: «Sul centro i Vescovi tacciano», ivi, 5 febbraio 1995. S IO

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un partito riformatore che si muoveva nell'alveo del socialismo - si era rivelata un'operazione politica coraggiosa, ma non priva di alcune ambiguità di fondo6• La fin troppo evidente eredità storica del comunismo, seppure nella particolare matrice gramsciana-togliattiana, che caratterizzava l' intera classe dirigente del PDS e la sua cultura politica, esponeva il maggiore partito della sinistra a una continua delegitti­ mazione politica da parte di chi, come Berlusconi, agitava continuamente il vessillo dell'anticomunismo, che in quel particolare contesto storico si veniva a caratterizzare anche con una vigorosa critica contro uno statalismo oppressivo e inefficiente?. Infine, quel breve profilo biografico apparso sul "Corriere della Sera", in cui veniva ricordato il passato di Prodi alla presidenza dell'IRI e il suo essere «espressione della miglior sinistra DC » , rinviava a un elemento politicamente molto importante: a quell'antico e intenso rapporto tra l'eterogeneo arcipelago del cattolicesimo progres­ sista - numericamente minoritario ma politicamente e culturalmente rilevantis­ simo - e la sinistra di derivazione marxista. Un rapporto che aveva radici profonde, ben impiantate nella storia d' Italia, e che aveva trovato una nuova declinazione a metà degli anni Settanta, quando, sulla scia dell'esperienza dei "cattolici del no" del referendum sul divorzio si erano affermate alcune esperienze politico-culturali - come, ad esempio, la Lega democratica o il fenomeno, più articolato, degli Indi­ pendenti di sinistra - che si proponevano di rinnovare la DC e di dialogare con quei democratici di ispirazione laica interessati alla costruzione di « una sinistra non ideologica » 8• In quella stagione si affermarono, infatti, due legami estremamente importanti: da un lato, iniziarono a stabilirsi dei luoghi di mediazione culturale tra la grande industria privata, alcune importanti case editrici e le forze politico-sindacali della sinistra9; dall 'altro, nei giornali e nelle riviste, nelle università e nel Parlamento, finanche nelle grandi aziende di Stato, come l ' ENI e l'IRI, si creò un'azione di 6. Sul mutamento dell' identità politica nel passaggio dal PCI al PDS e sull'eredità storica della tradizione comunista mi permetto di rimandare ad A. Possieri, Il peso della storia. Memoria, identita, rimozione dal PCI al PDS (1970-1991), il Mulino, Bologna 2007. Cfr. P. Bellucci, M. Maraffì, P. Segatti (a cura di ) , PCI, PDS, DS. La trasformazione dell'identita politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; P. Ignazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna I 992. 7· G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, Feltrinelli, Milano 2009, pp. I 7 I -2IO; S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica (19S9-20II), Laterza, Roma-Bari 20I2, pp. s4-6. 8. D. Saresella, Cattolici a sinistra, Laterza, Roma-Bari 20 I I, pp. IS9-63. Cfr. G. Scirè, Gli indipen­ denti di sinistra, Ediesse, Roma 20I2. 9· Merita di essere ricordato il seminario di studio sul "Sistema industriale e sviluppo economico in Italia� organizzato, nell'aprile del I 9 7 3 , a Bologna, dall'Associazione di cultura e politica il Mulino, la cui relazione introduttiva è affìdata proprio a Prodi. li convegno venne sintetizzato da Eugenio Scalfari sull' "Espresso" come il convegno che aveva stabilito «per la prima volta una pubblica "comu­ nicazione" tra la grande industria privata, cioè, per dirla chiaramente, la FIAT, e le forze politiche e sindacali della sinistra » ( R. F. Levi, Il professore. Romano Prodi dall'IRI all'Ulivo, Mondadori, Milano I996, pp. 2I-3 ) . SII

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scambio e di solidarietà tra « una parte della DC non dorotea » , rappresentata sostan­ zialmente dalla « sinistra di base » , e il PCI di Enrico Berlinguer10• Ed è proprio nell'IRI, la più grande holding dello Stato, che Prodi, dopo aver fatto una breve ma significativa esperienza come ministro dell' Industria del IV governo Andreotti nel 1978, diventa, nel novembre del 19 82, uno dei più importanti e influenti manager pubblici, all' interno del vasto mondo dei "boiardi di Stato". Al di là di ogni valutazione sull'operato di Prodi alla guida dell'IRiu, quello che è importante sottolineare, in questa sede, è la declinazione politico-culturale che assunse questo incarico e l'inevitabile eredità politica che lasciò al decennio succes­ sivo. Se da un lato, infatti, quella presidenza si collocava all' interno di un sistema politico caratterizzato dal dualismo tra Craxi e De Mitau, dall 'altro lato quell 'incarico simboleggiava un incontro, in chiave antisocialista e visceralmente anticraxiano, fra la sinistra democristiana e il PCI. Quell 'incontro, che si sarebbe sviluppato, progres­ sivamente, lungo tutti gli anni Ottanta13, avrebbe poi trovato, alla fine del decennio, una nuova sintesi politica, in cui l'opposizione al patto tra Craxi, Andreotti e Forlani si sarebbe combinata con l'ottica « di guardare oltre la DC in una prospettiva » che potesse riuscire a coniugare « il fatto religioso con la cultura marxista » 14• Quella stagione fu caratterizzata, inoltre, dall' illusoria ricerca di una imprecisata terza via e dall 'emergere dirompente della "questione morale", come elemento deci­ sivo della dimensione politico-identitaria dei comunisti italiani. Almeno dal 19 81, da quando Berlinguer in un' intervista a Eugenio Scalfari aveva individuato nella que-

G. Acquaviva, L 'antisocialismo della sinistra cattolica nel rapporto con i comunisti, in G. Acquaviva, M. Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 20n, pp. 267-96. I I. È sufficiente confrontare la versione assolutoria dell'ex portavoce di Prodi, Levi, Il profissore, cit., con quella, invece, accusatoria di G. Da Rold, Assalto alla diligenza. Il bottino delle privatizzazioni all'italiana, Guerini e Associati, Milano 2012. 12. G. Quagliariello, Gli anni Ottanta: gli aspetti politico-istituzionali. Un 'interpretazione, in S. Colarizi, P. Craveri, S. Pons, G. Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli ( cz) 2004, pp. 267-80. Cfr. M. Gervasoni, Storia d'Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. 1 3. Cito a titolo di esempio solo alcuni articoli: Prodi all'IRI: « Chi sbaglia paga» (ma sara vero?), in "l' Unità", 4 novembre 1982; A. Mereu, Gli attacchi a Prodi, si riaccende la rissa tra centri di potere?, ivi, 28 novembre 1984; P. Cascella, Per Martelli, Prodi e addirittura «disgustOSO>> , ivi, 2S febbraio 1987; E. Gardumi, L'IRI punta l'uRSS, ivi, 22 aprile 1988; G. Campesato, ENI e IRI presidenti agli sgoccioli, ivi, 26 ottobre 1989. All' indomani dell'avvicendamento ai vertici dell'IRI del professore bolognese con Franco Nobili, "Cuore", il settimanale satirico del quotidiano del PCI, compose, in chiave ironica, il « saluto cattocomunista a Prodi che lascia l ' IRI » : M. Serra, Ode a Romano Prodi, in "Cuore", 30 ottobre 1989. 14. In modo del tutto speculare, nello stesso periodo, si sviluppò l ' incontro fra i cattolici di Comunione e liberazione e il PSI: P. Visconti, CL va all'attacco di De Mita: «Non rappresenta i catto­ lici» , in "la Repubblica", 21 agosto 1988. Cfr. anche Saresella, Cattolici a sinistra, cit., p. 164; E. Galavotti, Il ruinismo. Vzsione e prassi politica del presidente della Conforenza Episcopale Italiana, I99I-200J, in Cristiani d'Italia. Chiese, societa, Stato, IS6I-20II, diretto da A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 20n, pp. 1219-3 8. I O.

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stio ne morale il problema centrale della politica italiana, il P C I si era progressivamente arroccato dietro la bandiera della diversita comunista, quasi fosse una sorta di alterità antropologica rispetto al sistema dei partiti, ed era giunto ad abbracciare, alla fine del decennio, fideisticamente e acriticamente, il mito gorbaceviano del socialismo dal volto umano. Questa trasformazione radicale della cultura politica comunista, in cui « la pro­ pria visione etica e universalistica » si alimentava di quella critica generale alla dege­ nerazione partitocratica che era solita contrapporre la società civile « sana » a una società politica « malata » \ finì paradossalmente per dare un contributo decisivo alla costruzione di una nuova ideologia politica, che chiedeva reiteratamente di andare «oltre la forma dei partiti » e che avrebbe trovato il suo apice nei primi anni Novanta con lo scoppio deflagrante delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli e, soprattutto, con l'affermazione della stagione referendaria'6• In quella stagione decisiva, tra il 1 9 9 1 e il 1 9 9 3 , si delineò, infatti, un inedito impasto ideologico-culturale dai confini incerti e politicamente trasversali al sistema dei partiti, declinato attraverso due diversi schemi interpretativi che, rapidamente, si trasformarono in due paradigmi di azione politica. Da un lato si collocava il para­ digma della « rivoluzione della legalità » '7, che trovava un punto di approdo, politico e culturale, in una sorta di «politica moraleggiante » , secondo la definizione di Pizzorno, e in una fiducia acritica nei confronti della magistratura inquirente a cui veniva assegnato, implicitamente, un compito di « riforma dall'alto dell' Italia e degli italiani » '8• Dall 'altro lato, invece, si collocava il paradigma della superiorità morale della società civile rispetto alla degenerazione dei partiti di massa. Secondo questo modello interpretativo, il sistema dei partiti veniva rappresentato alla stregua di un « covo di clientelismo, di inefficienza e, soprattutto, di politicantismo corrotto » , che colonizzava le istituzioni e soffocava la società civile'9• L'unico rimedio per sbloccare questo sistema politico ritenuto ormai putrescente e improduttivo consisteva, per l'appunto, nel «restituire lo scettro al principe » , vale a dire consentire « ai cittadini, elettori e utenti, di esercitare con maggiore incisività i loro poteri democratici » 20• In questo singolare tornante storico, e lungo il solco tracciato dal movimento referendario, si possono individuare le premesse politico-culturali di quello che sarà l'ulivismo - ovvero una delle componenti più importanti del centro-sinistra degli

S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006, p. 2 58 . I 6. A. Guiso, Dalla politica alla societa civile. L'ultimo PC/ nella crisi della sua cultura politica, in Acquaviva, Gervasoni (a cura di), Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, cit., pp. I 8 I -22I. 17. L'espressione è contenuta nell'editoriale di "MicroMega� 4, settembre-ottobre 1994, pp. 4-6. 1 8. C. Guarnieri, Giustizia e politica, il Mulino, Bologna 2003, pp. 156 e 189. Cfr. P. Flores d'Arcais, La rivoluzione liberale di Mani Pulite, in "MicroMega", 2002, 1, pp. 9-10. 19. Cfr. E. Galli della Loggia, Il mito e la realta della societa civile, in "Corriere della Sera", 1 4 agosto 200 6 . 20. G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza, Roma-Bari 1985. IS.

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anni Novanta - e, soprattutto, di quello che rappresenterà l' inizio dell 'impegno politico di Prodi. Tale impegno lo portò a essere uno dei relatori della convention nazionale del movimento dei Popolari per la riforma di Mario Segni che si svolse a Roma il 10 ottobre 1 9 9 2 11 • Un appuntamento fondamentale, quello a fianco del leader referendario, perché sancì un mutamento significativo della figura pubblica del pro­ fessore bolognese. Da quel momento, Prodi non fu più soltanto un "tecnico demi­ tiano" o un "boiardo di Stato", ma diventò, in quella fase di disgregazione del sistema politico-economico nazionale, una risorsa per la politica, una sorta di "riserva" della Repubblica. Ed è proprio in questa particolare veste che il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nella primavera del 1 9 9 3 , gli propose di assumere la presidenza del Consiglio, al posto del dimissionario Giuliano Amato, e di riproporre al governo il binomio Prodi-Segni che si era affermato sulla scena pubblica nell 'autunno del 1 9 9 2 . L' impossibilità di riprodurre, in un esecutivo semi tecnico, la formula politica dei Popolari per la riforma - a causa dell'opposizione del segretario del PPI, Mino Martinazzoli, sul nome di Segni - riportò Prodi, questa volta su indicazione di Ciampi, per la seconda volta alla presidenza dell'IRI22• Una presidenza brevissima, che durò circa un anno, ma che si rivelò estremamente importante. Il ritratto caustico di Prodi che viene fornito sulla "Stampa" all'indomani del suo reinsediamento alla presidenza dell 'IRI - «il potente cattorivoluzionario dal volto umano, il prodotto del lessico antiaccademico e antipolitico, che come il Conte di Montecristo, torna spietato dopo la cacciata » 13 - testimonia l'ulteriore mutamento pubblico della sua figura. Prodi non è più, soltanto, un grand commis dello Stato, ma è, ormai, un attore del dibattito politico. E non a caso, tra l'autunno del 1 9 9 3 e la primavera del 1 9 9 4 , il professore bolognese fu uno dei protagonisti dell'accesa discus­ sione pubblica sulla necessità delle privatizzazioni in Italia che caratterizzò i più importanti quotidiani nazionali. Una discussione che gravitò, essenzialmente, attorno a due proposte alternative : da un lato, i fautori, come Prodi, dello sviluppo delle public companies, ovvero la diffusione della proprietà tra una vasta schiera di azionisti; dall 'altro lato, invece, coloro che, come il presidente onorario di Mediobanca Enrico Cuccia, sostenevano la necessità di avere un nocciolo duro d' imprenditori alla guida di un' impresa in cui concentrare la proprietà azionaria e il controllo dell'azienda. Emblematico, all' interno di questo dibattito pubblico, fu lo scontro tra Prodi e il ministro dell ' Industria Paolo Savona, che portò alle dimissioni, poi rientrate, di 21. S. Messina, Scocca l'o ra di Segni nella festa del PalaEur, in "la Repubblica", IO ottobre 1992; G. Valentini, «Né con Bossi né con i partiti» , ivi, I I ottobre 1992; S. Folli, Non ci fermeremo non ci fermeranno, in "Corriere della Sera", I I ottobre 1992; S. Folli, Martinazzoli punta sui professori, ivi, 1 4 ottobre 1992. 22. G. Valentini, ':Attenta DC, senza Mariotto vai al suicidio", intervista a Pietro Scoppola, in "la Repubblica", 16 febbraio 1993. 23. A. Statera, Romano-due, la vendetta e questa volta niente veti, in "La Stampa", 1 6 maggio 1 993· 5 14

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quest 'ultimo il 10 ottobre 1993, e che si protrasse, sulle pagine dei maggiori quoti­ diani, per tutta la primavera del 1994 24• Quell'aspro confronto pubblico rappresentò il naturale preambolo a un impegno politico diretto del professore bolognese, che maturò, nel volgere di poco tempo, già nell'estate del 199425• In particolar modo, quando, dopo aver dichiarato in un'intervista il suo «impegno in politica » come « un dovere » 26, pubblicò su "MicroMegà' un breve contributo, Governare per cambiare, che, di fatto, fu la prima declinazione del programma politico di Prodi: dallo « Stato leggero » al «Welfare state compatibile » , dalla centralità della scuola al ruolo dell'Europa27• Questo contributo apparso su "MicroMegà' - una rivista che aveva fatto del primato della società civile e della rivoluzione della legalità la sua linea editoriale - è estremamente importante perché mette in luce come il progetto prodiano, sin dalle sue prime formulazioni, non solo aveva forti punti di contatto al di fuori del mondo cattolico tradizionale, ma si proponeva di dialogare con quella sinistra radical-libertaria e laico-socialista ben presente in alcuni circoli intellettuali, ma che era, in gran parte, esterna al sistema dei partiti. Sin dall'inizio, dunque, il rapporto tra movi­ mento e partito, tra società civile e società politica, ha rappresentato uno snodo cruciale di tutta la storia del centro-sinistra della Seconda Repubblica. E non casualmente, sin dal primo annuncio, nel febbraio 1995, della nascita di un nuovo movimento politico a supporto della candidatura di Prodi, I comitati per l' Italia che vogliamo, si pose la questione, non secondaria, della definizione politico­ identitaria - e non solo organizzativa - del progetto prodiano, la cui sintesi simbolica venne affidata a un ulivo : una pianta forte e longeva da mettere accanto alla quercia per poter parlare alla gente, ai cittadini e non solo ai partiti. Nella proposta iniziale, l' Ulivo aveva l'obiettivo di «definire un nuovo equilibrio politico generale » e veniva presentato come il simbolo designato per aggregare una nuova area di centro, ben più ampia del bacino elettorale del P P I , destinata ad allearsi con le forze democratiche dello schieramento progressista che ambivano ad avere un ruolo di governo28• R. lppolito, Savona attacca Prodi, Ciampi lo difende, in "La Stampa", IO ottobre I 9 9 3 ; A. Sta­ tera, ((Prodi si e impadronito di una politica che non c 'e ", intervista a Paolo Savona, ivi, I I ottobre I 9 9 3 ; Id., La sinistra DC comanda ancora, intervista a Giorgio La Malfa, ivi, 7 ottobre I 9 9 3 ; A. Mellone, Chi comandera in Italia? Qui e lo scontro, intervista ad Alfredo Reichlin, in "l' Unità", Il ottobre I 9 9 3 ; G. Turani, Il sogno di Cuccia si chiama COMIT. , in "la Repubblica", I 3 ottobre I 9 9 3 ; A. Calabrò, Cuccia, l'estate di un patriarca, ivi, l l aprile I 9 9 4; R. Prodi, Perché dico alt a Mediobanca, in "La Stampa", l3 aprile I 9 9 4; P. Savona, I boiardi chefanno politica, ivi, l 3 aprile I 9 94· lS. G. Campesato, Un projèssore sempre in trincea, in "l' Unità", I 0 giugno I 994; Id., Prodi dice no a Berlusconi, ivi, I 0 giugno I 9 9 4; W. Dondi, Prodi: ora torno a insegnare, ivi, l giugno I 9 9 4· l6. Prodi «pronto a lavorare per il centro», in "Corriere della Sera", Il agosto I 9 94; R. Silipo, Prodi: il Paese funziona ma l'errore e nel manico, in "La Stampa", Il agosto I 9 94: c. Visani, Prodi critica Berlusconi e annuncia «Torno in politica», in "l' Unità", Il agosto I 9 94; M. Smargiassi, La poli­ tica? Impegnarsi e un dovere, in "la Repubblica", Il agosto I 9 94· l7. R. Prodi, Governare per cambiare, in "MicroMega", settembre-ottobre I 9 94· 4, pp. 7-22. l8. W. Dondi, Prodi: riscopriamo l'Italia vincente, in "l' Unità", 4 febbraio I 9 9 S : Id., Prodi vara «l'alternativa tranquilla» , ivi, s febbraio I 9 9 S : Id., Prodi sceglie il simbolo: l'Ulivo, ivi, I 4 febbraio I 9 9 S : l4.

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Tuttavia, anche se presentato, inizialmente, come il secondo albero della coali­ zione, questo progetto perse consistenza nell'arco di pochi mesi perché né il P P I , né tanto meno il P D S , rinunciarono alle loro prerogative partitiche per sciogliersi dentro una nuova entità dai contorni, peraltro, ancora incerti. Dopo le elezioni amministra­ tive della primavera del 1995, venne definito il carattere della coalizione: l' Ulivo sarebbe stato il contenitore politico-elettorale di una coalizione costituita da dodici soggetti distinti, all' interno della quale ogni soggetto politico poteva mantenere la propria identità, la propria struttura e la propria storia. La costituzione dell' Ulivo sancì, dunque, la nascita di una coalizione politica che presentava forti elementi di novità nella sua proiezione pubblica, ma che aveva anche evidenti fattori di continuità con il passato. Indubbiamente, la proposta politica messa in campo dal professore bolognese portava a compimento, come è stato scritto, «l'antico progetto » del « cattolicesimo progressista » , ovvero quello « di collocarsi politicamente a sinistra » , condividendo con le « forze politiche progressiste » alcuni progetti di profonde riforme sociali per il paese9• Tuttavia, il progetto prodiano, in modo del tutto identico e speculare a quello di Silvio Berlusconi, rappresentava anche qualcosa di politicamente più rilevante ai fini del sistema dei partiti. Rappresentava, infatti, l'anello di congiunzione e l'elemento di coagulo di una composita area poli­ tica - con forti collegamenti in alcuni settori del mondo economico-finanziario e in quello culturale-editoriale - presente da tempo sulla scena politico-pubblica nazio­ nale ma che, fino ad allora, era rimasta sostanzialmente trasversale al sistema dei partiti3°. Un'area politico-culturale che teneva assieme il variegato arcipelago del cattolicesimo democratico con il "mondo rosso" della sinistra postcomunista e alcuni ambienti laico-riformisti di matrice azionista. Pertanto, il prodismo, o meglio, il cosiddetto "ulivismo puro" senza mediazione partitica, sebbene rappresentasse una visione politica del tutto estranea alle classi dirigenti dei partiti della coalizione di centro-sinistra, in particolare del PPI e del P D S , svolse una funzione di collante che, tra il 1995 e il 1996, permise di fondere in un unico schieramento tutto ciò che si opponeva al centro-destra berlusconiano. La costituzione dell' Ulivo, come contenitore politico-elettorale della coalizione di centro-sinistra, non cancellò, tuttavia, una delle questioni più importanti al centro del dibattito interno al P D S : la questione dell'identità politica. Se la candidatura di Prodi era vista come «lo sviluppo quasi naturale di un dialogo antico tra la sinistra e una parte del mondo cattolico » , quella scelta assumeva, però, anche un preciso significato politico : significava « rompere con la stagione del postcomunismo » per

B. Miserendino, Prodi: "In politica per unire il centro", ivi, I S febbraio 199s; V. Monti, E Berlusconi prepara un contratto con gli italiani, in "Corriere della Sera", 14 febbraio I99S· 29. Saresella, Cattolici a sinistra, cit., p. 183. 30. Cfr. B. Del Colle, Una semplice domanda alla sinistra democristiana, in "Famiglia Cristianà', 7 febbraio 1990; Il governissimo, in "li Sabato", 10 febbraio 1990. 51 6

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chiudere definitivamente l'epoca in cui il P D S era stato «percepito solo come il superamento dell'esperienza storica del P C I e non anche dotato di una sua identità marcata e riconoscibile » 31• Un traguardo, quest'ultimo, tutt 'altro che scontato. Sia per il retaggio fortissimo della tradizione, dell 'apparato di partito e delle subculture territoriali, sia perché all' interno del partito convivevano due opzioni diverse per uscire dalla transizione postcomunista: quella prospettata da D 'Alema, convinto che il P D S dovesse orientare il proprio baricentro politico nell'orizzonte della social­ democrazia europea; e quella elaborata da Veltroni, che ipotizzava invece un nuovo soggetto politico sul modello del partito democratico americano, in cui combinare, non senza qualche arditezza, kennedismo e berlinguerismo32• A questa dinamica interna al PDS si aggiungevano poi, all'esterno del partito, due altre diverse declinazioni politico-sociali riconducibili al mondo della sinistra, quella sindacale e quella di Rifondazione comunista, che avrebbero svolto un ruolo diverso, ma non secondario, durante l 'esecutivo Prodi. Entrambe queste due sinistre nasce­ vano, non tanto e non solo, a seguito della fine del P C I e dello storico duello a sinistra con il P S I dopo la stagione di Tangentopoli, ma trovavano la loro, opposta, ragion d 'essere con l'affermazione della politica della concertazione nei primi anni Novanta. Se con gli accordi del 1993, infatti, i sindacati avevano assunto, a volte, un ruolo di supplenza rispetto ai partiti di massa - potendo vantare, anche grazie alle loro strutture presenti su tutto il territorio nazionale, un potere di interdizione soprattutto per ciò che concerneva il pubblico impiego e i pensionati -, dal versante opposto, in polemica diretta con la politica concertativa dei sindacati confederali, dalla costola ingraiana della corrente d 'opposizione della C G I L , Essere sindacato, aveva preso forma un'altra sinistra, antagonista e movimentista, che nel gennaio 1994 aveva visto il suo leader, l'ex lombardiano Fausto Bertinotti, assumere la leadership di Rifondazione comunista33• Una leadership che, nel volgere di poco tempo, tra­ sformò radicalmente l'identità politica del partito cossuttiano, mettendo ai margini l'eredità filosovietica impersonata dal vecchio leader milanese, a vantaggio di una prospettiva ingraiano-movimentista, arricchita con alcuni tratti simbolici zapatisti­ guevariani, che combinava un agire politico simil-sindacale con una radicale critica delle politiche rigoriste di Maastricht. Nonostante queste enormi differenze, la coalizione dell ' Ulivo, nel febbraio 1996, riuscì a massimizzare le risorse offerte dalla tecnicalità politica stipulando un patto 31. M. D'Alema, Un paese normale. La sinistra e il futuro dell 'Italia, Mondadori, Milano 1995, P· 132. 32. W. Veltroni, La bella politica. Un 'intervista di Stefano Del Re, Rizzoli, Milano 1995, p. 120. 33· Sul ruolo del sindacato e sulle sue dinamiche interne, cfr. M. Carrieri, Sindacato in bilico, Donzelli, Roma 2003; G. Cremaschi, Riflusso e possibile ripresa, in "La Rivista del Manifesto", 2000, 3· Su Rifondazione comunista rimando a L. Caponi, Rifondazione comunista. La scommessa perduta, Editori Riuniti, Roma 2003; S. Bertolino, Rifondazione comunista. Storia e organizzazione, il Mulino, Bologna 2004. 51 7

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di desistenza con Rifondazione comunista: un'alleanza solo elettorale che non pre­ vedeva alcun tipo di accordo politico per un futuro governo. Sin dal momento della sua formazione, dunque, la coalizione di centro-sinistra fu una sorta di carte! party, caratterizzata da un elevato tasso di eterogeneità politico-culturale riscontrabile non solo nell 'alleanza esterna con una forza dichiaratamente antagonista, ma anche nel suo equilibrio interno. Infatti, se la tensione verso l' Europa come orizzonte strategico e l'attenzione verso il modello renano accomunava sia Prodi che i leader dei maggiori soci fondatori dell' Ulivo, ciò che li differenziava totalmente era il ruolo da attribuire ai partiti di massa. «Non si può pensare che la risposta » alla crisi del sistema poli­ tico, affermò D 'Alema nel maggio 1 9 9 5 , « sia l'eliminazione della politica e dei partiti e la mitizzazione della società civile. La società civile che si sostituisce alla politica è una delle peggiori catastrofi che possano investire un paese avanzato e moderno » 34• Il processo di fratture e ricomposizioni che dunque caratterizzò la coalizione di centro-sinistra, e che finì per influenzare profondamente la vita dell'esecutivo, oscillò, sostanzialmente, attorno a due pivot: da un lato, il cosiddetto "dualismo tra ulivismo e partitismo" e, dall'altro, il conflitto tra riformismo e antagonismo. Il dualismo tra ulivismo e partitismo contrapponeva coloro che, provenendo dalla società civile, si proponevano di costruire una sorta di "partito di cittadini" svincolato dalle vecchie strutture di partito e dalle storie politiche di provenienza, fondendole in una nuova esperienza politica ispirata, grosso modo, al modello del partito democratico ameri­ cano ; e quanti, invece, provenendo direttamente da quelle storie politiche e da quegli apparati ancora presenti nella società italiana - un retaggio particolarmente evidente per il P D S che aveva ereditato l'antico radicamento sociale e le strutture organizzative del P C I -, si proponevano di rimodulare le identità dei partiti considerando la coa­ lizione di centro-sinistra soltanto una sorta di contenitore politico, ovvero un cartello elettorale di "soggetti distinti". Dall 'altro lato, c 'era la contrapposizione tra rifor­ mismo e antagonismo, ovvero tra: coloro che condividevano un programma di governo incentrato, sostanzialmente, su una serie di riforme strutturali dello Stato e del sistema economico e proiettato verso il raggiungimento dei parametri di Maa­ stricht per entrare a far parte, da subito, del primo gruppo di paesi europei aderenti all' Unione monetaria; e quanti, invece, uniti soltanto da un vincolo elettorale per "battere le destre", agivano come una sorta di blackmail party e trovavano i loro riferimenti politico-culturali nell'antagonismo al cosiddetto «pensiero unico neo li­ berale » e in una fiducia acritica verso un movimentismo radicale anticapitalista e neopacifista35• Queste due antinomie, seppure rimodulate in modi diversi, avrebbero attraversato 34· M. D 'Al ema, La sinistra nell'Italia che cambia, Feltrinelli, MUano 1997, p. 82. 35· L. Cafagna, La grande slavina. L 'Italia verso la crisi della democrazia, MarsUio, Venezia 1993, P· 47· SI8

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tutta la storia politica della Seconda Repubblica e, nell' immediato, produssero un effetto importantissimo : la debolezza strutturale della leadership dell' Ulivo. Quella di Prodi fu una leadership debole, non solo per l'assenza, alle sue spalle, di una struttura organizzativa che potesse agire come forza di interposizione tra i partiti nei momenti di più accesa conflittualità, ma soprattutto perché nessuno dei principali leader del centro-sinistra comprese, fino in fondo, l'eccezionale mutamento storico­ politico che stava segnando il passaggio dalla democrazia dei partiti alla cosiddetta "democrazia del pubblico". Una democrazia del pubblico - incarnata efficacemente da Berlusconi - in cui i partiti cedevano terreno a una progressiva personalizzazione della politica, le identità collettive si affievolivano e lo « spazio della rappresentanza coincide [va] con lo scambio tra il leader e l'opinione pubblica » 36• Quella di Prodi fu, essenzialmente, una leadership dimidiata, nella sua funzione di indirizzo e di decisione, perché sempre costretta a mediare, sin dall 'inizio, con tutti coloro, i partiti, che lo avevano indicato come candidato premier e che conti­ nuavano a condizionare le sue scelte. E, in definitiva, fu una sorta di leadership octroyée, ovvero elargita dai massimi dignitari dei partiti del centro-sinistra che, sin­ tetizzando le parole di D 'Alema, concedevano una parte della loro sovranità a P rodi. Una concessione statutariamente non a tempo indeterminato37•

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Il governo dell ' Europa

Queste due differenti antinomie, ulivismo/ partitismo e riformismo/ antagonismo - rese ancor più acute dal risultato delle elezioni politiche del 21 aprile 1996 che, in modo simile a quelle del 1994, avevano sancito una "vittoria dimezzata" del centro­ sinistra a causa della dipendenza del governo dai voti di Rifondazione comunista38 -, condizionarono fortemente la vita dell'esecutivo guidato da Prodi. Un esecutivo indubbiamente autorevole, in forte continuità con i governi Amato e Ciampi che l'avevano preceduto e di altro profilo istituzionale39, ma che rimase sostanzialmente imprigionato nelle contraddizioni interne della coalizione e limitato dall'eterogeneità 36. I. Diamanti, Prefazione, in B. Manin, Principi del governo rappresentativo, U Mulino, Bologna 20IO, p. x. Cfr. S. Fabbrini, Il principe democratico, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 21 8-9; N. Rossi, Riformisti perforza, U Mulino, Bologna 2002, p. 87. Cfr. M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma­ Bari 2ooo. 37· P. Corrias, D:Alema a Prodi: il leader e lei, in "La Stampa", I I marzo 1995: G. F. Mennella, D:Alema: «il PDS ha scelto, e lui il leader» , in "l' Unità", I I marzo 1995: M. Smargiassi, «Caro Professore e lei il leader» , in "la Repubblica", I I marzo 1 995· 38. Baccetti, I postdemocristiani, cit., p. I I7 ; I. Ariemma, La casa brucia. I democratici di sinistra dal PCI ai giorni nostri, MarsUio, Venezia 2000, p. 1 7 2. 39· Basti pensare che all' interno della compagine governativa erano presenti due ex presidenti del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, due ex ministri del governo Dini, Tiziano Treu e

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politico-culturale dell 'intera alleanza. Un'alleanza eterogenea che, di fatto, trovò un fragilissimo punto di sintesi in quella sorta di surrogato politico rappresentato dal vincolo esterno del processo di Unione monetaria europea40 - il quale, attraverso il trattato di Maastricht, fissava inderogabilmente alcuni parametri da rispettare sul deficit e sullo stock del debito, pena la non inclusione all'interno della zona della moneta unica - dopo aver sperimentato, durante la campagna elettorale, un altro mastice altrettanto controverso e precario : il vessillo dell 'antiberlusconismo. Nei due anni e mezzo di governo dell ' Ulivo si assistette, dunque, a un'accentua­ zione delle contraddizioni originarie e a un progressivo sfaldamento della coalizione di centro-sinistra, la cui tenuta venne messa alla prova già durante il dibattito parla­ mentare sulla fiducia al governo, nel maggio 1996. A un impegnativo discorso di Prodi, tutto imperniato sulla necessità improrogabile di superare la difficile « transi­ zione » del paese attraverso il raggiungimento di tre grandi obiettivi - un nuovo «patto » costituzionale «da riscrivere insieme » all'opposizione, il rilancio econo­ mico dell' Italia basato « sull'aumento dell 'occupazione e sul rilancio del Mezzo­ giorno » e il traguardo storico dell' Unione monetaria41 -, si contrapposero le dichia­ razioni di Bertinotti, il quale, pur rivendicando per sé stesso il merito di aver fatto nascere l'esecutivo, tracciò le linee di quello che si presentava come un vero e proprio programma di governo del tutto alternativo a quello tracciato dall'ex presidente dell'IRI. Al rigore di bilancio auspicato da Prodi per raggiungere l'Eurozona, il leader di Rifondazione prospettava, al contrario, una «legge per una nuova scala mobile » , la «riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario » e un nuovo « intervento pubblico » nell'economia. Nelle parole di Bertinotti non era stato posto nessun particolare accento sull' Unione monetaria, sul risanamento economico e sulle riforme istituzionali, mentre, al contrario, erano presenti una severa critica al discorso di P rodi, in cui prevaleva « un eccesso di continuismo » , e una netta presa di distanza dalla politica della « concertazione » che veniva dichiarata ormai « fallita »41• Nonostante questo precario equilibrio politico - reso ancora più instabile da uno scetticismo diffuso nell'opinione pubblica che evocava la possibilità di « maggioranze variabili » 43 - l'azione dell'esecutivo riuscì a cogliere, in tre tappe successive, alcuni importanti risultati che si sarebbero rivelati decisivi per il raggiungimento di almeno quattro dei cinque parametri previsti dal Trattato di Maastricht. Innanzi tutto, l' in-

Augusto Fantozzi, l'ex presidente della Camera, Giorgio Napolitano e anche l'ex magistrato di Milano, Antonio Di Pietro, simbolo indiscusso della stagione di Tangentopoli. 40. P. Castagnetti, La destra euroscettica, in "il Popolo", 28 marzo 1996; A. Di Robilant, La sinistra europea alla riscossa, in "La Stampa� 29 marzo 1996. 41. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 1, Camera dei deputati, Roma 1996, pp. 72-9. 42. lvi, pp. 296-300. 43· Voti all'Esecutivo? Il Polo e diviso. Possibilisti Pisanu e Casini: «maggioranze variabili, una necessita», in "Avvenire", 31 agosto 1996. 5 20

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tuizione di Ciampi di presentare, nel mese di giugno, un Documento di program­ mazione economico-finanziaria ( D P E F ) che, lasciando aperto uno spiraglio alla riduzione del deficit in tempi più rapidi di quelli previsti dai governi precedenti, prefigurava un ingresso nella zona euro sin dal 1° gennaio 199944• In secondo luogo, l'attuazione di un'azione diplomatica a vasto raggio che intendeva mostrare alla Germania e alla Francia la ferma volontà dell ' Italia di rientrare rapidamente all 'in­ terno del Sistema monetario europeo (sME) e che, secondo un'interpretazione che ebbe una vasta risonanza sulla stampa, ma che è sempre stata smentita da Prodi, avrebbe cercato di costruire insieme alla Spagna una sorta di « asse del Mediterraneo » 45 per favorire un' « interpretazione flessibile e permissiva » dei criteri di Maastricht46• Infine, l'elaborazione di una poderosa manovra finanziaria da più di sessantamila miliardi - volta a un veloce raggiungimento del rapporto deficit-PIL al 3% - che prevedeva, oltre a un taglio della spesa pubblica, l 'introduzione di una nuova imposta, il contributo straordinario per l' Europa, ossia la famigerata eurotassa che, al di là delle veementi polemiche suscitate, si sarebbe rivelata determinante nel raggiungi­ mento del traguardo europeo. A questi apprezzabili risultati si aggiunse, inoltre, un importante accordo tra il governo e le parti sociali: la stipula del Patto per il lavoro, il 24 settembre 1996, che si inseriva sulla scia della politica della concertazione e della cosiddetta "stabilizza­ zione consensuale" sancita dagli accordi del luglio 199 347• Questa intesa, oltre a essere un tentativo di rilancio occupazionale del Mezzogiorno - attraverso la possibilità di

L. Spaventa, V. Chiorazzo (a cura di), Astuzia o virtu? Come accadde che l'Italia fu ammessa all'Unione monetaria, Donzelli, Roma 2000, pp. 2I-2. 45· L'Europa che piace a Prodi, in "la Repubblica", I2 settembre I 9 9 6 ; G. Pelosi, Ma Prodi e Aznar promettono: pronte anche Roma e Madrid, in "li Sole 24 Ore", I 8 settembre I996. La dichiarazione è riportata in M. Monti, Un primo passo verso l'Europa, in "Corriere della Serà', 3 0 settembre I 996. 46. Questa interpretazione scaturì da un' intervista del premier spagnolo José Maria Aznar al "Financial Times" del 3 0 settembre I 996, in cui dichiarò di non voler aderire a nessuna « iniziativa congiunta sud-europea volta a piegare i criteri o a modificare la scadenze ». Le rettifiche e le smentite che seguirono nei giorni successivi non disinnescarono le polemiche divampate nell'opinione pubblica. Cfr. R. l. Zanini, Veleni sulla strada di Maastricht, in "Avvenire", I0 ottobre I 9 9 6 ; G. Ballardin, Pasquino: Madrid ci ha scoperto il gioco, in "Corriere della Sera", I0 ottobre I 9 9 6 ; P. Ostellino, Un Paese all'angolo, in "Corriere della Sera", 3 ottobre I 996. Prodi non ha mai ritenuto corretta questa ricostruzione dei fatti, sostenendo, invece, che alla base del malinteso ci possa essere stato un equivoco linguistico durante il colloquio con Aznar, avvenuto senza interprete. E che, inoltre, al di là di ogni incomprensione, non è mai esistita nessuna relazione diretta tra quell' incontro e la successiva decisione del suo governo di raddoppiare l'entità della manovra finanziaria. Quella decisione, secondo Prodi, era il frutto, invece, della «traduzione» dell' impegno che l' Italia aveva manifestato in due lettere, « inviate ai governi di Germania e Francia, le due grandi potenze e i veri "motori" dell' Unione Europea» , di anticipare di un anno l ' ingresso nell' Unione monetaria. Cfr. Prodi: per l'euro scrissi a Kohl e Chirac, in "Corriere della Sera", 20 maggio 20IO. 47· P. Di Siena, Via al patto per l'o ccupazione, in "l' Unità", 25 settembre I 9 9 6 ; E. Marro, Occupa­ zione 4 mila miliardi nel I997, in "Corriere della Sera", 25 settembre I996. Cfr. M. Salvati, Occasioni mancate, Laterza, Roma-Bari 2000. 4 4·

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stipulare contratti d'area con salari ridotti nelle aree di crisi -, rappresentò, soprat­ tutto, il primo passo verso l' introduzione, in Italia, delle prime forme di flessibilità nel mercato del lavoro. Fu un risultato simbolicamente rilevantissimo, che avrebbe permesso di approvare, nel giugno 1997, il cosiddetto "pacchetto Treu", ovvero quell' insieme di misure - presentate per la prima volta in Parlamento il 12 aprile 1995 dall 'allora ministro del Lavoro del governo Dini, Tiziano Treu - che introdusse in Italia il lavoro interinale e l' istituto del tirocinio48• Ovviamente, queste scelte dell'esecutivo, caratterizzate da una politica di rigore nei conti pubblici e dall 'introduzione della flessibilità nel mercato del lavoro, furono osteggiate da Rifondazione comunista49• Alla prospettiva di progressivi tagli della spesa pubblica che avrebbero provocato null'altro che dei tagli allo stato sociale, Bertinotti contrapponeva « una piattaforma europea alternativa a quella di Maa­ stricht » che prefigurava « un' Europa dei popoli » e il ricorso a una «patrimoniale » piuttosto che il rigore imposto dalla legge finanziaria del governo Prodi50• Queste differenti e, in parte, opposte prospettive politiche, tracciate dal governo e da Rifon­ dazione comunista, portarono, nell'autunno del 1996, a un esito emblematicamente paradossale : il 9 novembre, lo stesso giorno in cui il polo di centro-destra organizzava, a Roma, una grandissima manifestazione per protestare contro l'eccesivo carico fiscale della legge finanziaria del governo Prodi5r, Rifondazione comunista, a Napoli, dette vita a un "corteo per il lavoro" che aveva l 'obiettivo di denunciare « la flessibilità » e di criticare «la politica occupazionale di Prodi » 52• Anche se questo genere di manifestazioni, di lotta e di governo, contribuì a minare la credibilità pubblica della coalizione e le sue reali capacità di tenuta politica, l'esecutivo guidato da Prodi riuscì a cogliere, in quello scorcio del 1996, un obiettivo fondamentale per il raggiungimento della moneta unica : il rientro della lira nello S M E . Il conseguimento di questo traguardo rappresentò, indubbiamente, il punto di partenza e il primo autentico successo italiano nel processo d ' integrazione monetaria. In definitiva, il bilancio dei primi sette mesi di governo mise in luce tre risultati differenti: al rientro della lira nello S M E - che rappresentò, indiscutibilmente, una nota di merito dell'azione di governo - facevano da contraltare due elementi critici 48. Le linee guida del Patto per il lavoro furono, infatti, recepite dal Parlamento, che ne fece la base per l'adozione di un provvedimento legislativo: la legge 24 giugno I997, n. I96, che, introducendo il lavoro interinale, superava il divieto stabilito dalla legge 23 ottobre I96o, n. 1369. C. Cambi, «Ho cambiato il lavoro. È piu facile trovare posto», in "la Repubblica", s giugno I997· 49· E. Mauro, Le due sinistre, ivi, 27 settembre I996. so. M. Giannini, «Attenti, nulla e deciso>> , in "La Stampa", 25 settembre I996; L. Paolozzi, Berti­ notti: «Ma paghino i piu ricchi» , in "l' Unità", 25 settembre I996. S I. F. Saulino, Il Polo conquista la piazza della sinistra, in "Corriere della Sera", IO novembre I996; A. Rampino, In Soo mila contro le tasse, in "La Stampa", IO novembre I996; B. Spinelli, La borghesia smarrita, ivi, IO novembre I996. 52. E. D' Errico, E l'Italia comunista sfdo a Napoli, in "Corriere della Sera", IO novembre I996; V. Faenza, E a Napoli 200 mila con Bertinotti, in "l' Unità", IO novembre I996. 522

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quali lo scetticismo diffuso, nell'opinione pubblica italiana e internazionale, sulle reali possibilità di risanamento economico dell ' Italia e la progressiva accentuazione pubblica delle contraddizioni politiche all' interno dello schieramento di centro­ sinistra. Non solo per ciò che concerneva il rapporto dinamico e conflittuale tra il governo e Rifondazione comunista, ma anche, e soprattutto, per quel che riguardava le differenti prospettive politiche che, da sempre, si scontravano ali ' interno dell' Ulivo. Simbolo paradigmatico di questa difformità di prospettive politiche fu, indub­ biamente, il seminario di studio che si svolse a Gargonza, nel marzo 1 9 9 7, al quale parteciparono i più importanti leader del centro-sinistra e molti intellettuali d'area. Il seminario ebbe un impatto rilevantissimo sull'opinione pubblica, probabilmente superiore alla sua effettiva importanza, e di fatto venne presentato dalla stampa come una sorta di "processo ai partiti". Fu un processo che finì per mettere sul banco degli imputati colui che più di tutti gli altri leader riusciva a incarnare il partitismo, ovvero il segretario del P D S , Massimo D 'Alema, il quale, nella sua relazione, riprendendo quanto aveva già detto nel maggio 1 9 9 5 , ribadì che la politica non è altro che « un ramo specialistico delle professioni intellettuali » e che «l'idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi » 53. In quella discus­ sione si fronteggiarono, dunque, non solo due diverse modalità organizzative - il catch-all party ulivista e il partito di integrazione di massa d 'ispirazione social­ democratica -, ma anche due diverse concezioni dell 'agire politico - il primato della società civile e dei "cittadini" contro il primato della politica "come professione" - che caratterizzarono l' Ulivo sin dal momento della sua genesi e che la nascita del governo non solo non aveva diluito ma, all'opposto, aveva addirittura acuito. I congressi del PPI e del P D S , così come il primo incontro nazionale del Movi­ mento per l' Ulivo, che si erano tenuti tra gennaio e febbraio 1 9 9 7, circa un mese prima del convegno di Gargonza, avevano ribadito queste originarie divergenze di prospettiva politica. A quanti ritenevano che la coalizione fosse soltanto un'alleanza di «partiti dell ' Ulivo » 54 in cui il PDS fosse « la forza centrale » e il PPI la « seconda gamba » , gli ulivisti ribadivano l' importanza del « valore aggiunto » della « coali-

R. Armeni, D/Jlema frena l'Ulivo-partito. Per Veltroni la via e aperta, in "l' Unità", 9 marzo I 9 9 7 ; Id., Veltroni e Mussi attaccano D/Jlema. «Il PDS da solo non puo vincere>>, ivi, I O marzo I 9 9 7 ; F. Saulino, Il semiologo: un sistema a rete non piu a piramide, in "Corriere della Sera", 9 marzo I 9 9 7 ; M. Caprara, Gargonza, match D/Jlema-Veltroni sull'Ulivo, ivi, 9 marzo I 997· Cfr. http:/ /www.perlulivo. it/ radici/ movimento/gargonza. 5 4· V. Ragone, D/Jlema, una sfuia alla sinistra, in "l' Unità': 23 febbraio 1 9 9 7 ; L. Paolozzi, Prove per un nuovo partito, si alla casa comune, ivi, 23 febbraio 1 9 97 ; B. Ugolini, Flessibilita? Il PalaEur si divide, ivi, 2 3 febbraio 1 9 9 7 ; G. F. P., Mancina: un simbolo senza falce e martello per il nuovo partito, ivi, 23 febbraio 1 9 9 7 ; G. Mennella, Trionfo al Congresso, ivi, 2 4 febbraio 1 9 97 ; Baccetti, I postdemocristiani, cit., pp. 1 3 3-44· 53·

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zione » - intesa come un «potente strumento di coordinamento interpartitico » e una sorta di «crogiolo di idee propedeutico ai partiti » - senza la quale « i partiti da soli » non avrebbero potuto « vincere le elezioni » 55• Il convegno di Gargonza ratificò, dunque, questa originaria contrapposizione tra ulivisti e partitisti, alla quale la stampa fornì una rappresentazione pubblica in cui l'elemento partitico sembrava uscire simbolicamente ridimensionato. In quella sede, infatti, il "lungo addio" tra gli intellettuali e il partito erede della tradizione comunista segnò un ulteriore salto di qualità. Iniziò, infatti, un processo di distacco tra una parte, non secondaria, degli intellettuali di sinistra e i politici di professione, il cui ruolo iniziò a essere letto e interpretato, in una sorta di trasposizione etico-morale, come qualcosa di sempre più avulso e distante dalla vita reale dei cittadini e che, per di più, stava legittimando la destra berlusconiana attraverso i lavori della Commis­ sione bicamerale per le riforme56• A ben guardare, dunque, il convegno di Gargonza si inseriva all' interno di una più generale messa in discussione dell ' identità della cosiddetta "sinistra del duemila", continuamente oscillante tra la ricerca affannosa di un'utopica terza via e l'approdo sicuro, invece, verso le tradizionali culture politiche novecentesche. Un ripensamento generale del complesso patrimonio storico-identi­ tario della sinistra che, nello stesso periodo, investiva anche il mondo del lavoro e la cosiddetta "lotta per l 'egemonia" a sinistra. D 'altra parte, dal progetto dalemiano di lanciare la cosiddetta "Cosa 2 ", ovvero un grande partito social-democratico che inglobasse tutte le grandi tradizioni poli­ tiche della sinistra italiana, prendevano le distanze sia il segretario della C G I L , Sergio Cofferati, sia il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. Il primo perché, rivendicando orgogliosamente la totale autonomia dai partiti, non lesinava dure critiche sia al governo Prodi sia al segretario neocomunista colpevole di saper caval­ care soltanto «il malcontento sociale » 57• Il secondo perché teorizzava l'esistenza di «due sinistre » : una antagonista, Rifondazione, che, muovendo «da rinnovate ragioni di classe » , si poneva il problema della trasformazione della società; l'altra

SS· C. Coscia, Prodi subito in Europa perfermare la Lega, in "La Stampa", 16 febbraio 1997. Cfr. http:/ /www.perlulivo.it/ radici/ movimento/ comitatimovimento/ domuspacis.html. s6. Il 24 gennaio 1997 era stata promulgata la legge costituzionale per l' istituzione di una Com­ missione parlamentare per le riforme costituzionali. n s febbraio era stato eletto presidente Massimo D 'Al e ma grazie ai voti della maggioranza, di Forza Italia e dei centristi del Polo. n I 4 marzo, all' in­ domani del seminario di Gargonza, il direttore di "MicroMega" Paolo Flores d'Arcais, in una lettera pubblicata sul "Corriere della Sera", sostenne che le « attuali destre » andavano «combattute radical­ mente e frontalmente, invece di essere "santificate" con gli accordi della Bicamerale ». P. Flores d'Arcais, Ecco dove il leader della Quercia ha torto marcio, in "Corriere della Sera", 14 marzo 1997. Circa due mesi più tardi, riferendosi ai lavori della Bicamerale, egli parlò esplicitamente di « tradimento delle promesse elettorali dell ' Ulivo»: P. Flores d'Arcais, Giustizia, promesse tradite, in "la Repubblica", 21 maggto 1997. 57· S. Cofferati, A ciascuno il suo mestiere. Lavoro, sindacato e politica nell'Italia che cambia, Mon­ dadori, Milano 1997, pp. 38-41 e 68-72. .

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moderata, il PD S e la CGIL, che, dirigendosi verso «l' indistinta concezione del cit­ tadino » , accettava il sistema di produzione capitalistico58• Tale sistema di produzione, invece, secondo Bertinotti, andava scardinato attraverso una « radicale revisione » delle politiche neoliberiste del Trattato di Maastricht e con una «riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore a parità di salario » 59• In questo singolare contesto, caratterizzato da un fragilissimo equilibrio, si colloca la crisi politica del 1 9 9 7, che si sviluppa, progressivamente, in tre momenti successivi: innanzi tutto, con l'approvazione della cosiddetta "manovrina" di aprile; poi con l'autorizzazione della missione di pace in Albania; infine, con la crisi di governo a seguito della verifica della maggioranza nell'autunno del 1 9 9 7 che portò alle dimis­ sioni, poi rientrate, di Prodi. L'approvazione della manovra aggiuntiva di aprile da quindicimila miliardi, nonostante le dure critiche a cui fu sottoposta da molti commentatori60 e i vigorosi strali di Bertinotti, che denunciò « una pressione violentissima sull 'Italia » attaccando l'Europa « tecnocratica guidata dalla Bundesbank » 6\ si rivelò determinante per ridurre ulteriormente il disavanzo pubblico e portare il rapporto debito-PIL al di sotto della soglia del 3 % prevista dai parametri di Maastricht. Tuttavia, se il vincolo europeo aveva resistito all 'approvazione della "manovrina" nulla poté, invece, durante lo svolgimento del dibattito parlamentare sull'approvazione della missione di pace in Albania sotto l'egida dell' O N U . La missione Alba - nonostante fosse il «primo intervento multinazionale gestito dagli europei senza gli Stati Uniti » - venne votata, congiuntamente, dalle forze di governo e da quelle del centro-destra, ma con l'op­ posizione di Rifondazione comunista che, pur confermando la fiducia al governo, rivendicò la propria « scelta di fondo pacifista senza tatticismi » e bollò la missione in Albania come un'operazione neocolonialé2• Una decisione che contribuì a minare ulteriormente la coesione politica della maggioranza parlamentare e che rappresentò solo un'anticipazione di quello che sarebbe accaduto nel volgere di pochi mesi. A far precipitare la situazione contribuì, indirettamente, la vittoria, alle elezioni generali francesi del 25 maggio e del 1° giugno, di una coalizione di sinistra, la cosiddettagauche plurielle, guidata dal socialista Lione! Jospin, che comprendeva insieme ai socialisti anche comunisti, verdi, radicali e il Movimento dei cittadini. Le elezioni generali francesi ebbero una vasta risonanza in F. Bertinotti, Le due sinistre, Sperling & Kupfer, Milano I 997, p. I2. 59· lvi, pp. 40-I e 77· 6o. F. Giavazzi, Ciampi, misure cosi e meglio ritirar/e, in "Corriere della Sera", 27 marzo I 9 97· Cfr. Spaventa, Chiorazzo (a cura di), Astuzia o virtu?, cit. , p. 3 I. 6 1. F. Rampini, « l tecnocrati dell'Europa non ci metteranno all'angolo», in "la Repubblica", 25 aprile 1997. 62. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 26, Camera dei deputati, Roma 1 997, p. 1 47 1 4. Cfr. E. Costa Bona, L. Tosi (a cura di), L'Italia e la sicurezza collettiva. Dalla Societa delle nazioni alle Nazioni unite, Morlacchi, Perugia 2007, pp. 309-u. s 8.

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Italia e in Europa, e furono interpretate, da parte di Rifondazione, come un invito a modificare radicalmente le politiche neoliberiste di Maastricht63• Tra la seconda metà di settembre e l' inizio di ottobre, Rifondazione comunista chiese, a più riprese, che la nuova manovra finanziaria, dopo i sacrifici richiesti da quella precedente, si concentrasse sulle politiche per risollevare l 'occupazione attra­ verso una riduzione generalizzata dell 'orario di lavoro, seguendo il modello francese. E così la discussione parlamentare sulla verifica della maggioranza si svolse attorno a due diverse linee politiche che, come due rette parallele, parvero non incontrarsi mai: l'obiettivo principale del governo rimase il raggiungimento dell' Unione mone­ taria, mentre Rifondazione comunista continuò a chiedere nuove politiche « in direzione della giustizia sociale » . Durante il dibattito parlamentare, Prodi evocò, ancora una volta, come nel suo discorso d ' insediamento, la «lunga e difficile transizione italiana » che stava per essere superata anche grazie ai meriti del suo governo, il quale aveva già raggiunto « quattro dei cinque parametri » di Maastricht e aveva avviato « il processo di ammo­ dernamento del sistema Italia » . Un processo che non andava interrotto, pena il fallimento dell' intero progetto di rinnovamento del paese64• Bertinotti, invece, con­ testò il rigore della finanziaria, continuamente legittimato con l'oppressiva retorica della moneta unica - «l' Europa è stata strumentalizzata per qualsiasi cosa » - e propose, nuovamente, « una correzione rilevante in direzione della giustizia sociale » : ovvero la riduzione dell'orario di lavoro a 3 5 oré5• La mozione con la quale Rifondazione comunista confermò il giudizio negativo sulla manovra finanziaria portò alle dimissioni del professore bolognese, in quella che venne definita dallo stesso Prodi come «la crisi più pazza del mondo » . Nell 'arco di una settimana, però, dopo un intenso lavoro di mediazione - e grazie anche ai risultati del vertice bilaterale franco-italiano di Chambéry, in cui Prodi e Jospin si espressero a favore di una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro66 - venne stipulato un accordo di programma tra Rifondazione e governo destinato a durare per tutto il 1998 e la crisi di governo rientrò. Questo stato latente di tensione, però, che scaturiva da un'escalation progressiva delle contraddizioni interne della coalizione di centro-sinistra, contribuì a sfibrare l'eterogenea maggioranza parlamentare che appoggiava il governo. E nei primi mesi del 1998, in concomitanza di due fatti politici di rilievo, l'esecutivo Prodi imboccò rapidamente la parabola discendente che lo avrebbe portato all'esaurimento di quell'e­ sperienza di governo. Il fallimento della Commissione bicamerale, da un lato, e il 63. Il documento conclusivo approvato dal CPN a larga maggioranza, in "Liberazione", 3 giugno 1997· 64. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 40, Camera dei deputati, Roma 1997· pp. 4-17. 6 S· lvi, pp. 32-3. 66. F. Rampini, Una mano da Parigi, in "la Repubblica", 4 ottobre 1997.

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raggiungimento dell' Unione monetaria, dall'altro lato, sancirono, simbolicamente, la conclusione politica dell'alleanza di centro-sinistra, così come era uscita dalle urne del 1996. Ciò che venne a mancare, sin dalla primavera del 1998, furono, infatti, i due grandi obiettivi che, in modo diverso, avevano caratterizzato l'azione politica dell' U­ livo : il primo, la scrittura condivisa di un nuovo patto costituzionale, era stato clamo­ rosamente fallito ; il secondo, l' ingresso nell' Unione monetaria insieme al primo gruppo di paesi era stato, altrettanto clamorosamente, raggiunto. Paradossalmente, però, il conseguimento di questo storico traguardo significò anche la fine del vincolo esterno dell' Europa, ovvero di quel particolare collante politico che fino ad allora aveva tenuto unito il composito schieramento di centro-sinistra. Nel marzo 1998, l' ECOFIN, il Consiglio dei ministri finanziari europei che si tenne a New York, riconobbe l' intenso lavoro effettuato dal governo italiano nell'opera di risanamento dei conti pubblici - in un anno il disavanzo era stato abbattuto di quasi quattro punti percentuali - e il 2 maggio il Parlamento europeo, in riunione straordinaria, e il Consiglio europeo sancirono la nascita dell' Unione monetaria con 1 1 paesi tra cui l' Italia, che era riuscita a rispettare, con largo margine, almeno quattro dei cinque criteri imposti dal Trattato di Maastricht. L'unico para­ metro che non era stato osservato era quello, storico, del debito pubblico. Lo stesso giorno, il presidente del Consiglio Romano Prodi pronunciò un discorso a reti uni­ ficate per celebrare l' ingresso ufficiale dell' Italia nell'euro. Questo eccezionale risultato si configurava, però, come il prodotto di una serie molteplice di fattori. Indubbiamente, era il frutto della ferma determinazione poli­ tica del governo. Un traguardo importante raggiunto, come hanno scritto Spaventa e Chio razzo, con « astuzia e destrezza » dopo un'autentica « battaglia diplomatica » in cui l'esecutivo aveva saputo ridare credibilità al paese soprattutto grazie all' im­ pegno profuso per il risanamento del bilancio dello Stato. Secondo l'analisi di Spaventa erano stati essenzialmente tre i motivi del successo della politica di bilancio del governo Prodi: alcune revisioni contabili, dettate dalla stessa Commissione europea; l' imposizione di alcuni «limiti di cassa » per le pubbliche amministrazioni, soprattutto per gli enti decentrati; e il ricavato del « Contributo straordinario per l' Europa » 67• Tuttavia, l'obiettivo europeo, al di là degli indiscutibili meriti del governo, fu raggiunto, anche grazie ad alcuni dati strutturali dell 'economia nazionale che si erano andati consolidando a partire dai primi anni Novanta. Il risanamento dei conti pub­ blici, infatti, era iniziato già nel 1991 ed era poi stato consolidato nel 1992 con le misure prese dal governo Amato che imposero una forte correzione della spesa pub­ blica. E su questo crinale di risanamento, seppure in modo a volte incerto, si mossero anche i governi successivi che seppero incidere sulla spesa sociale rendendo più sicuro,

67. Spaventa, Chiorazzo (a cura di), Astuzia

o

virtu?, cit., pp. 85-7.

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ad esempio, tutto il sistema previdenzialé8• Anche la politica antinflazionistica era il prodotto di alcune scelte operate nei primi anni Novanta ed era il combinato disposto, non senza conflittualità e dualismo, tra la prudente politica monetaria della Banca d' Italia, la politica dei redditi che conteneva la moderazione salariale e la correzione degli squilibri delle finanze pubbliché9• In definitiva, anche se le scelte operate dal governo Prodi si rivelarono decisive, il raggiungimento dell ' Unione monetaria non fu soltanto il prodotto delle decisioni prese dal governo dell' Ulivo, ma fu anche il risultato di una straordinaria correzione strutturale della spesa pubblica « iniziata ben prima del 1 9 9 7 » 70• Il conseguimento del traguardo europeo, però, come detto, tolse allo schiera­ mento di centro-sinistra il mastice più importante dell 'intera alleanza. E a nulla valsero le dichiarazioni di Prodi, durante la discussione parlamentare sulla manovra finanziaria del 1 9 9 9 - in cui Rifondazione comunista aveva dichiarato che avrebbe espresso il suo voto contrario - di identificare nel « rilancio del Mezzogiorno » e nella «lotta alla disoccupazione » la « nuova Maastricht » dell'azione di governo7'. Esaurito il vincolo europeo, si concludeva anche quell'esperienza politica. Che finiva, dunque, non per una congiura di palazzo o per un banale errore d'aula, bensì perché si era spezzato quel fragilissimo equilibrio politico che fino ad allora era riuscito a contenere le contraddizioni interne dell'alleanza di centro-sinistra. L' incompiutezza politica di quell 'alleanza, che risentiva fortemente della pesante eredità della Prima Repubblica, ovvero di quella «democrazia proporzionalistica dei partiti d'impronta fortemente statalistica » 7\ finì, inesorabilmente, per limitare l'azione del governo che, di fatto, si tradusse in una sorta di riformismo incompiuto. Un'azione riformatrice che in più occasioni seppe cogliere dei traguardi importanti - l'euro, la riforma Bassanini e il cosiddetto "pacchetto Treu" - insieme ad alcune misure dall'esito controverso - come le privatizzazioni - ma a cui mancò, più di ogni altra cosa, una visione del futuro del paese che riuscisse ad andare oltre i vincoli imposti dall' Europa. Una visione che, in definitiva, cercasse di elaborare una nuova fase dello sviluppo della democrazia italiana proponendo una risposta politica a quelle tre crisi latenti - fiscale, morale e istituzionale - che stavano avvolgendo il paese, e che, come aveva ammonito, con grandissima lungimiranza, Luciano Cafagna già nel 1 9 9 3 , rischiavano inesorabilmente di travolgerlo come una « grande slavina » quando « sta arrivando a valle » 73. 68. lvi, pp. S7 e 67. 69. P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d'Italia (1790-2oos). Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 3 16-24. 70. Spaventa, Chiorazzo (a cura di), Astuzia o virtu?, cit., pp. 3S e 8s. 7 1. Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XIII Legislatura, vol. 74, Camera dei deputati, Roma 1998, p. 2. 72. E. Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d'Italia, il Mulino, Bologna 2010, p. 8. 73· Cafagna, La grande slavina, cit., pp. 1 6 e 140.

Indice dei nomi

Abbruzzese S., 3 23 n Abete L., 339, 340n Accettura A., 3 8 on Acerbi A., 377n Acquaviva G., 239n, 242n, 248n, 256n, 27 3n, 276n, 28 on, 282n, 32In, 322n, 3 29 n, 37In, 395n, 464n, 512n, 5I3n Adornato F., 495n Airò A., I96n Ajello N., 276n Alberigo G., 2I7n Albertini G., 43I Alesina A., I38n Allegretti U., 224n Almerighi M., 76n Almirante G., 3 26, 49In Almond G., 3 55 e n Altissimo R., 68n, 8 In, 29I, 293 e n, 294 e n, 295 e n, 296 e n, 297n, 298, 299, 300, 30I e n, 303 e n, 304, 305 e n Alvi G., I37n Amato G., 21n, 23n, 28 e n, 37-8, 39 e n, 40, 44 e n, 87, I02, I27 e n, I3I, I35-6, I64, I67-8, 23 5, 237, 247, 249, 250 e n, 25I e n, 269n, 276 e n, 279n, 28 0 e n, 28 6n, 294, 3 25n, 340, 3 8 9 e n, 390-2, 394 · 493n, 5I4, 5I9, 527 Amatori F., 1 25n, 368n Amendola Giorgio, 75 e n, 3 25 Amendola Giovanni, I62 Anastasi A., 50In Anderlini F., 496n Andreatta B., 43, I 29n, I54, I62 e n, I7I-2, I75, 2I7, 398 Andreotti G., 24, 29, 34, 73 e n, I23, I64, I7I, 2I4, 223, 227n, 228 e n, 229 e n, 23 0, 233 e n, 234n,

23 5n, 260, 272, 278-9, 280 e n, 283, 290-30I, 327-8, 34I, 3 5I, 495· 512 Angius G., 260, 265 Aniello W., 5In, 52n Anselmi G., 79n, 340n Anselmi T., 279n Apruzzese S., 225n Arca ini G., I 29 e n Ardigò A., 206, 208-Io, 2I2 e n, 2I3 e n, 2I4, 2I9 e n, 220, 32on Ariemma 1., 273 n, 5I9n Armanini W., 78 Armaroli P., 92n, 492n Armeni R., 523n Asor Rosa A., 276n Asquer E., I99n Asso P. F., I 29n Astraldi R., 85n Aznar J. M., 52In Baccetti C., 5Ion, 5I9n, 523n Baccini M., 112 Bachelet V., 2I I Badini A., 273n Baffi P., I 29 e n, I5on Baget Bozzo G., I94· 225n, 464 e n, 465 Bagnasco A., 3 54 e n Balbo L., I74n Balboni E., 223, 237n Baldassini C., 40 6n, 46on Baldini G., 252n, 425n, 426n, 434n, 444n Ballardin G., 52In Ballini P. L., 498n Barbacetto G., 67n, 72n, 75n, 78n, 83n Barbagallo F., I3 2n, 227n, 267n, 323n, 364n, 463n

INDICE DEI NOMI

Barbera A., 2In, 26I e n, 262, 265, 39 5n, 396, 49In Barca F., I2In, I24n, 126n, I27n, I29n, 363n Barettoni Arleri A., I02, I49n Barile P., 3 5n, 3 96n Baris T., 458 Bartholomew R., 3 3 Bartole S., 43n, 93n Bartolini S., 504n Barucci E., I 22n Barucci P., I22n, I64, I67, 364 e n, 376 Baslini A., I88, 303n Bassanini F. , 2I-2, 52, 94n, 98n, I03, Io8-9, I I In, 112 e n, 1 14, 528 Bassetti P., 206 e n, 2I5 e n, 21 6 e n Bassolino A., 82, 215, 25I e n Battilossi S., 3 63n Battini S., I0 2n, III n, 114n, 117n Battista P., 28 2n Battisti L., 48I Battistini G., 276n, 509n Bauman Z., 336n Bazoli L., 207 Becattini G., 48 e n Bellah R., 3I2 e n, 3I3 e n, 3I4 Belli F., I 24n Bellucci P., 222n, 230n, 511n Benadusi L., 256n Benedetto XVI (Joseph Ratzinger ), papa, 200, 203-4 Beneduce A., I 24n, 1 25, I32n Benevolo L., 207, 222 Benini R., 23 2n Bentivoglio F., 224 Beregovoy P. E., 244 Berlinguer E., 69, I93, 208, 234n, 239, 240 e n, 24I e n, 242, 246, 248, 25I, 252 e n, 255, 269 e n, 284, 287n, 3 I 6n, 323 e n, 325, 327, 340, 463 e n, 464n, 493n, 5I2, 5I3n Berlinguer L., 25In, 260, 3 9 5n, 396 Berlusconi S., 27, 3In, 69, 7I, 72n, So, 82-3, 90, 92, 95-6, Io9, 115, 117, I37, I64, I97, I99 e n, 203, 224, 237, 250-2, 27I e n, 278 e n, 33I, 339 e n, 340-I, 342 e n, 343 e n, 344-5, 346 e n, 347, 3 59, 377, 379, 3 8 0 e n, 400n, 401, 403n, 4I2 e n, 4I4 e n, 4IS e n, 4I6 e n, 4I7n, 4I8 e n, 4I9, 423-7, 428 e n, 429-30, 43 I e n, 43 2-5,

439, 449, 45I, 452n, 455, 457 e n, 458, 464n, 466-7, 468n, 469n, 470 e n, 475, 48 I, 484, 485 e n, 486 e n, 488, 49 6n, 502n, 504-6, 509 e n, SIO-I, 5 I5n, 5I6 e n, 5I9, 523 Bermond C., I24n Berselli E., 424n Berta G., 362n, 36 8n, 3 6 9n, 372n, 374n, 37 8n, 3 8 6n Berti E., 23 2n Berti G ., 28 9n, 406n Bertinotti F., 245n, SI?, 520, 522 e n, 524, 525 e n, 526 Bertoli P., 73 n Bertolino S., SI7n Besson ]., 284n Bettazzi L., I93 Beveridge W., 438 Beyme K. von, 498n Biagi E., 79n, 345 Bianchi A., 278n Bianchi G., 235 e n, 5IO e n Bianchin R., 272n Bianco G., 225, 227n, 234 e n, 23 5 e n, 23 6 e n, 237n Bianconi G., 2I9 Bibes G., 284n Bifulco R., 98n Bigatti G ., 369n Bindi R., 211, 223 Biondi A., 29 0-I, 294 e n, 304, 343 Biondi L., 205n Biorcio R., 225n, 297n, 3 28n, 334n, 352 e n, 373n, 426n, 483n, 494n Bisaglia A., 2I2 Blando A., 44In Blondel J., 490n Bobbio L., 52n, 53n Bobbio N., 20 e n, 32n, 242-3, 43I, 493, 504n, 509n Bocca G., 375 e n, 493n Bodei R., 3 83n Bodrato G., 23 I, 23 2n Boeri T., I36n Bognetti G., 35n Bolgiani F., I93n, I 95n, 207, 2IO, 2I6, 2I7n Bongini P., I34n Bonomi A. , 369n, 370n, 374n, 378n, 379n 530

INDICE DEI NOMI

Calise M., 27n, 29n, 88n, 13 6n, 484n, 498n, SI9n Calvino 1., 76 Cama G., 128n, 130n, 133n Cambi C., s22n Cammarano G., 130n Cammarata D., 431 Cammarrone D., 222n Cammelli M., 499n Campanini G., 2osn Campesato G., s12n, srsn Campi A., 428n Campus D., 340n, 403n, 41sn, 4s2n Cancogni M., 7S e n Canino M., 363n Cantarana G., 487n Capaccioli E., 102 Caponi L., 222n, SI7n Capezzi E., 2sn, 28 9n, 3 20n, 406n, 407n, 490n Capperucci V., 192n, 227n Caprara M., so9n, s23n Caprio G., srn, s2n Caracciolo C., 340 Caracciolo L., 442n Carattieri M., 3 28n, 3 29n Caravita di Toritto B., 93n Carboni M., 206 Caretti P., 98n Caringella F., 499n Cariola A., 26n, 36n Carioti A., 4ssn, 477n, 478 e n, 49sn Carli G., 24, 28n, 29 e n, 1 26, 1 29 e n, 13on, 131, 144, rson, 162 e n, 164, 171, 301, 339 Carli S., 376n Carnazza E., 447 e n Carnevale P., 41n Carniti P., 208 Carrare M., 378 Carrattieri M., 222n Carrieri M., SI7n Carrubba S., 29 9 e n Cartocci R., 19 9n, 328n, 3S3 e n, 426n Casalegno C., 366n Casati G., 361n, 378n, 3 8 on Casavola P., 41 Cascella P., s12n Casini L., non

Bonsanti S., 27sn Borghezio M., 483 Borghini G., 284 e n Borioni P., 2s6n, 27on Boria T. L., 273n Borrelli F. S., 37, 7sn, 83n Borrelli V., 129n, 13sn Borsellino P., 70, 7 2 Bortolini M., 3 13n Bosetti G., 276n, 28on Bosio L., 206 Boso E., 483 Bossi U., 49, 69-70, 71 e n, 78, 82, 1 37n, 22s, 237, 336, 343, 34S· 367, 3 69n, 37 1-2, 374-s . 376 e n, 377, 380, 424, 429, 4S3 · 482-3, 49 sn, sr4n Bottai G., 49on Bozzi A., 26n, 2SS e n, 2s8, 261, 303n, 3 10n, 321 e n, 492 e n Bracalini R., 136n Bragantini S., 3 64 e n Brandt W., 28s, 3 22 Breda M., 33n, 3 8n, 40n Briquet J. L., 68n, 73n Brugué Q, srn Brunelli G., 213n Brunetta R., n2 e n, ns. n6 e n, n7 e n Bruti Liberati E., 494n Buccini G., 72n Bucharin N., 270 e n Bufacchi V., 31n, 37n Burgess S., 31n, 37n Buttiglione R., 197, 209, 218, 22S, 237, sro e n Cacace P., 38sn, 386n Cacciari M., 378 Caciagli M., ssn, 199n Cafagna L., 32 e n, 132n, 19sn, 269n, 28 1n, 28sn, 287n, 321 e n, 3 23 e n, 324 e n, 32sn, 3 27 e n, 362 e n, 373n, 374n, 37sn, 418 e n, 464, so9n, sr8n, s28 e n Caferra V. M., 67n Caflero S., 363n, 3 67n, 373n, 376n Caimi L., 21sn Calabrò A., 376n, 378n, srsn Caldarola G., 277n, 28 on, 283n, 346n Calderoli R., 98 e n S31

INDICE DEI NOMI

Ciancio A., 501n Ciaschini M., 3 8 6n Ciccarone G., 3 86n, 388n, 390n Cicchitto F. , 274, 28on Cicconetti S. M., 35n Ciocca P. L., 122n, 1 23n, 1 25n, 33 9n, 363n, 528n Cipolletta 1., 133n Cirino Pomicino P., 78, 164, 171 Ciuffoletti Z., 495n Clarich M., non, 135n Clinton W., 33, 398 Codevilla G., 23 2n Coen F., 270n, 274 e n Cofferati S., 524 e n Colajanni N., 283 e n Colarizi S., 67n, 132n, 19 2n, 199n, 223n, 228 e n, 230 e n, 234n, 237n, 23 9n, 249n, 251n, 266n, 26 8n, 283n, 286n, 287n, 290n, 3 22n, 3 25n, 3 3 0n, 337n, 3 40n, 371n, 372n, 373n, 37 5n, 378n, 3 89n, 395n, 464n, 490n, 492n, 493n, 494n . 5nn, 512n Colletti L., 278n Colletti V., 103 Colli A., 36 8n, 378n Colombo E., 164, 227n, 237 e n, 294 Colombo Gherardo, 75n Colombo Giovanni, 217n, 221 Colombo U., 39 6n Coltorti F., 378n Compagna L., 304 e n Confalonieri A., 125n Conso G., 37 Consoli G., 137n Consorte G., 13 6n Constant B., 18 Conti G., 122n, 125n, 127n Conti S., 361n Coppola G., 409 Corbetta P. G., 199n, 312n Corrias P., 72n, 519n Corsini P., 196n Coscia C., 524n Cosentino F., 85n Cossiga F., 31, 33 e n, 34-6, 3 8-9, 103, 227n, 230, 264, 266, 28 1n, 282n, 283 e n, 302-3, 329, 425, 47 5· 493

Casini P. F. , 197-8, 20 2, 237, 506, 52on Cassese S., 8, 10 2n, 103n, 105 e n, 106 e n, 107-8, 109 e n, non, 121n, 124n, 13 5n, 169 e n Castagnetti P. L., 23 2 e n, 520n Castellacci C., 75n Castells M., 33 5n, 347n Castronovo V., 368n, 370n, 373n, 385n Catanzaro R., 59n, 498n Cattaneo C., 374 Cavalli L., 43 5n, 504n Cavatorto S., non Cavazza F. L., 3 1 2n, 3 13n, 495n Cavicchioli S., 78n Cazzola F., 67n, 68n Ceccanti S., 91n, 195n, 219, 22on, 222, 504n Ceccarini L., 379n Cecora G., 102n Celentano A., 3 3 8 e n Celotto A., 22n Cento Bull A., 465n, 476n Cersosimo D., 47n, 48n Cerulli Irelli V., 57n Cervi M., 74n, 81n Cesarini F. , 1 21n Cheli E., 22n, 96n, 99n Cherchi R., 91n Chessa P., 444 e n Chetta A., 77n, 79n Chiappori A., 425 Chiarante G., 262, 265, 316n Chiarenza F., 229n, 28 9n Chiarini R., 282n, 361n, 362n, 404n, 456n, 458n, 472n, 477n, 479n. 481n, 483n, 491n, 494n Chiaromonte G., 3 1, 277 e n, 283 e n, 376 Chieppa R., 103 Chiesa M., 72 e n, 75, 330 Chimenti A., 314n, 337n Chiorazzo V., 521n, 525n, 527 e n, 528n Chirac J., 479, 521n Ciampi C. A., 29, 3 2n, 33n, 40, 42-3, 45, 87 e n, 10 8-9, 123, 133, 134n, 135-6, 141, 146, 15 0n, 154, 162 e n, 164, 249, 341, 383 e n, 385 e n, 386 e n, 3 87, 388 e n, 38 9-92, 393 e n, 394 e n, 395, 396 e n, 397 e n, 398, 399 e n, 400-1, 428, 504, 514, 515n, 519 e n, 521, 525n Ciancimino V., 220 532

INDICE DEI NOMI

Cossutta A., 24S e n, 247, 263, 27S Costa R., 29I, 294, 298-9, 30I-2, 3os Costa Bona E., s2sn Costanzo M., 79n, 3 I8n, 427n Costi R., I 22n Cotta M., s7n, 49on, 49 8n, soon Cotta S., I88 Cotturri G., 26n, 2SS· 2s6n, 263n Cotula F., 1 26n Cova A., I24n Covatta L., 40n, 4In, 248n, 276n, 28 on, 28In, 282n, 3 Ion, 322n, 327n, 39sn, 493n Crainz G., 3 8n, 4sn, 67n, 76n, 88n, 267n, 37 sn, 3 83n, 42sn, snn Crapis G., 79n Craveri P., 2sn, 29n, 128n, 228, e n, 23 4, 289n, 29on, 3I 6n, 322n, 3 6 sn, 3 67n, 37 sn, 4o 6n, 464n, 492n, s12n Craxi B., 23-4, 39 e n, 68n, 70, 72, 74 e n, 78, 79n, S o, I03, I92, 208, 2I9, 227n, 228, 23 I, 23 s-6, 239 e n, 24I, 24 2n, 243 e n, 244n, 246 e n, 247 e n, 248 e n, 2so-2, 2s6 e n, 2S7· 2s8n, 26 6 e n, 269 e n, 270 e n, 27I e n, 272 e n, 273 e n, 274 e n, 27S e n, 276 e n, 277 e n, 278 e n, 279 e n, 280 e n, 28I e n, 282 e n, 283 e n, 284 e n, 28s e n, 28 6 e n, 287 e n, 290 e n, 300, 3I8, 32In, 322 e n, 327, 329 e n, ns. 337 e n, 339, 37In, 372 e n, 39S e n, 396, 426, 444, 464 e n, 494n, 49s-6, S ll e n, SI3n Cremaschi G., SI?n Crepax N., 362n Crisafulli E., 494n Crispi F., III, I62 Croce B., 3 I 2, 477, 490n Crucianelli F., I7on Cruciani S., 400n Cuccia E., I3 I-2, I33 e n, I3S· I38, S I4, SISn Curi U., 49sn Curreri S., 89n Curti A., I44, ISO Curtin D., 9sn Cusani S., 78 e n Cusmai E., 36sn

D 'Alema M., 26 e n, I3S . I7on, 248 e n, 249 e n, 2SO e n, 2SI, 2S2 e n, 2s6-7, 26I, 26s e n, 27 I e n, 279, 28on, 283 e n, 3 I On, 3 I 6 n, 343 e n, 344 e n, 43I, 434, SI? e n, SI8 e n, SI9 e n, S23 e n, s24n D 'Alimonte R., 97n, so4n Dalla Chiesa N., 346n D 'Ambrosia G., 7sn Damilano M., 67n, 79n, 8on, 8In, 83n, 2ISn, 28sn, 346n, 3 83n Dandolo F., 362n D 'Angelo A., I86n D 'Antone L., I 29n Darida C., I03, IOS e n Da Rold G., SI2n D 'Atena A., 94n Dau M., 208 e n D 'Auria G., I02n D 'Autilia M. L., I02n Davigo P. C., 7sn, 83 e n, 338 e n De Benedetti C., 340 De Bernardi A., 438n, 446n De Bortoli F., 34S Decaro C., 93n De Caprariis V., 49In De Cecco M., I 22n, I24n, I3In De Felice F., 437 e n, 43 9n De Felice R., 443, 444 e n De Fiores C., 34n, 42n De Gasperi A., 23, I90, 206, 28 9, 406 de Gaulle C., 2so, 309n, 343n, 403n, 43S· 4s2n De Giorgi F., 206, 207n, 2I4 e n, 2I9 e n, 222 e n, 3 20n De Giovanni B., 94n, 230n, 279n Degl' Innocenti M., 287n, 290n De Gregorio C., 344n De Ioanna P., I49n, Ison Del Colle B., SI6n Del Giudice A., 279n D ' Elia G., 99n Dell'Anna M. V., 7sn Della Porta D., 67n, 223n, 294n Dell ' Era T., 407n Del Monte A., 3 63n Del Noce A., I94, 2I7n, 407n, 4I on, 420 De Lorenzo F., 30I, 30S

D 'Agostino G., 233n DahrendorfR., 242 S33

INDICE DEI NOMI

De Luca S., 294, 301 De Luna G., 334n, 36 9n, 454n, 494n De Martio F., 190, 241 De Marzio E., 474 De Michelis G., 3 9, 272, 279 e n De Mita C., 23-4, 164, 19 1, 213, 223 , 225, 227n, 228 e n, 229 e n, 231 e n, 25 8 e n, 272 e n, 278 e n, 28on, 28 1, 294, 310n, 3 20, 321 e n, 3 27, 497n, 512 e n De Mucci R., 495n De Nardis S., 136n Dente B., 53n De Rosa G., 196n, 225 e n, 228n, 230, 231n, 237n, 367n, 383n, 493n, 497n D 'Errico E., 522n De Siervo U., 85n, 367n, 3 8 on De Sio L., 425n, 496n Devoti L., 227n Diamandouros N., 3 58n Diamanti I., 47n, 48n, 68n, 224n, 225n, 297n, 328n, 334n, 352 e n, 3 53n, 354n, 3ssn, 368 e n, 370n, 371n, 373n, 374n, 375n, 37 8n, 379n, 429n, 453 e n, 458 e n, 46sn, 489n, 494n, 519n Di Capua G., 230 e n Dickmann R., 90n Di Gaspare G., 89n Dini L., 109, 164, 510, 51 9n, 522 Di Nucci L., 416, 461, 510n Di Pietro A., 71 e n, 72, 75, 78 e n, 79n, 81 e n, 23 6, 303, 339, 341, 345, 520n Di Robilant A., 279n, 520n Di Siena P., 521n Di Vico D., 133n, 3 8 on Di Virgilio A., ssn, 423n Dolando M., 298 Donat Cattin C., 21 1 Dondi W., 275n, 510n, 515n Donegà C., 454 e n Donolo C., 487n Dossetti G., 218n, 219, 224 e n, 439, 497n Draghi M., 138, 164 Dubcek A., 316 Duilio L., 98n Duva A., 1 29n Duverger M., 149n Dyson K., 30n

Einaudi L., 29, 159n, 227n, 41on, 420 Elia L., 3 5, 214, 218 e n, 3 21n Evola J., 477, 491n Fabbrini G., 63n Fabbrini S., 219n, 222, 259n Faenza V., 522n Faggioli M., 188n Falcone G., 3 8-9, 70, 72-3 Fanfani A., 15sn, 164, 188, 191, 207, 294, 3 14, 320, 491 e n Fanti G., 365 e n, 366 Fan tozzi A., 1 64, 520n Fasanella G., 33n Fasone C., Ssn Fassino G., 301 Fassino P., 13 6n, 256, 285n Fauri F., 385n Fazio A., 135, 137, 138 e n, 139 Featherstone K., 30n Fedele M., 37n, 39n, 41n, 70n, 498n Fele G., 78n Feltri V., 342 e n Ferrara G., So, 8 1 e n, 20 2, 443 Ferrari P., 43 8n, 446n Ferri G., 1 27n, 131n, 134n Festa L., 138n Finetti U., 243n, 244n, 270n, 27 1n, 27 2n, 28on Fini G., 71, 82, 92, 326, 424, 427, 429, 455-6, 475-6, 481, 484, 486, S O l , 509 Fioravanti M., 18n Fiorucci G., 89n Fisichella D., 4 91 n Flores M., 492n Flores d'Arcais P., 344 e n, 495n, 513n, 524n Foa V., 174n, 450 e n Folli S., 514n Fellini M., 196n, 225 e n Fontana S., 195n, 196n Fontolan R., 217 e n, 328n Forlani A., 78, 103, 191, 195 e n, 212, 223, 227n, 23 6 e n, 272 e n, 283, 3 27-8, 512 Forlenza R., 399n, 4oon Forleo R., 223 Formentini M., 249, 377, 427 Formica R., 1 64, 274, 277 534

INDICE DEI NOMI

Garzia A., 496n Gaspari 0., 4oon Gaspari R., 105 Gasparri M., 345, 481 Gatti C., 89n Gatti R., 23 2n Gava A., 164, 223 Gelli L., 271 e n Gentile E., 3 57 e n, 3 83n, 477 Gentile P., 490n Gentiloni V. 0., 199 Gentiloni Silveri U., 3 83n, 384n, 3 85n Gerbi S., 406n Geronzi C., 133n, 135 e n Gervasoni M., 67n, 1 3 2n, 19 2n, 1 9 9 n, 223n, 230 e n, 237n, 239n, 240n, 242n, 244n, 248n, 249n, 251n, 256n, 26 6n, 268n, 28 6n, 290n, 3 21 n, 322n, 329n, 33 0n, 3 3 4n, 337n, 3 40n, 346n, 3 69n, 37 1n, 37 2n, 373n, 374n, 375n, 378n, 383n, 3 9 5n, 464n, 5IIn, 512n, 513n Ghezzi E., 73n, 79 Ghezzi P., 218 e n, 219 Ghirelli A., 273 e n Giacone A., 186n Gianfrancesco E., 98n Giannini G., 408 e n, 409 e n, 419-20 Giannini M., 103n, 385n, 3 94, 48 6n, 522n Giannini M. S., 101 e n, 102 e n, 103 e n, 104 e n, I05n, 495 Giannola A., 3 63n Giavazzi F., 137n, 525n Gibelli A., 199n, 485n Gifuni G., 393 Giglioli P. P., 78n Ginsborg P., 199n, 22on, 228 e n, 369n, 373n, 37sn, 426n, 456n, 494n Giolitti A., 362 Giolitti G., 28 9n Giordano F., 122n, 130n Giovagnoli A., 87n, 18sn, 186n, 187n, 189n, 192n, 19 3n, 194n, 212n, 227n, 228n, 230n, 23 4n, 23 5n, 3 1 sn, 3 25n, 3 6 2n, 363n, 371n, 3 8 4n, 492n, 49Sn Giovanardi C., 81n Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, 186

Formigoni G., 21on, 215n, 221, 3 15n, 3 84n Formigoni R., 213, 214 e n, 218, 237, 430 Forte M., 237n Fortino A., 221 n Fortuna L., 188 Fracanzani C., 278 Francavilla T., 304 e n Francesco I (]orge Mario Bergoglio ), papa, 204 Francese A., 284n Francese M., 142n Franchi P., 285n, 509n Franchini C., 1o5n, 1o9n Franco F., 3 22 Franzinelli M., 186n Franzini M., 3 86n Frascani P., 3 62n, 3 63n Fraschini A., 53n Frattini F., I I 2 Frosini G., 2IIn Fumo L., 209n Funari G., 8o e n Fusaro C., 96n Gabaglio E., 208 Gaber G., 481 Gaggi M., 133n Gaietti A., 210 Gaietti P., 207, 209 e n, 210 e n, 214, 216n, 219, 222 e n, 223 e n Galante Garrone A., 40n Galasso G., 40n Galavotti E., 512n Galeotti S., 23n Gallerano N., 443 e n, 492n Galli G., 2o6n, 207n, 372n, 493n, 496n Galli S. B., 365n Galli della Loggia E., 76, 3 83n, 404n, 427n, 430, 440, 441 e n, 442 e n, 444, 461n, 49 5n, 497n, 510n, 513n, 528n Gallino L., 378n, 3 86n, 416n Gallo F., 164, 396n Galloni G., 3 6 Gambino S., 63n, 498n, 501n Garavini S., 247, 249n, 262 Gardum E., 509n, 512n Garrigue G., 309n 535

INDICE DEI NOMI

Giovanni Paolo I I (Karol Woj tyla), papa, I O, I9I e n, I95, I98, 200, 203, 23 2, 233n, 377 e n, 463 e n Giraudi G., 499n Giscard d' Estaing V., 322 Giuli A., 476n, 478 e n, 479n, 48In Giunta A., 3 8 on Giuntella P., 2I4, 2I8-9, 220 e n, 22I e n, 222 Giussani L., 216-8, 225, 48I Giusti M., 79 Glisenti G., 2I4 Glorio C., 222 Gnesutta C., 3 8 8n, 390n Gobetti P., 48 I Goldscheid R., IS9 e n Gomà R., Sin Gomez P., 67n, 72n, 75n, 83n Gomez (Reino Cachafeiro) M., 334n Gonzales F., 3 25 Gorbacev M., 23I, 242, 27on, 273n, 328 e n, 462, 463 e n Goria G., I 64 Gorrieri E., I06 e n, 206 e n, 207, 2I9n, 222 e n, 224, 237, 320 e n, 328n, 329, SIOn Gotor M., 8 7n Gozzini G., 69n, 79n Gramsci A., 23 I, 270n, 3 I 2, 4I8, 464 Grassi L., 79n Grassi Orsini F., 289n, 406n Grasso A., 77 e n, 78n, 79n Graubard S. R., 3I2n, 3 I3n Graziani A., 388n Greganti P., 73-4 Grimaudo P., 498n Grilli di Cortona P., 498n Grillo B., 346, 347n, sos-6 Gritti R., 495n Gronchi G., 33n Groppi T., s3n, 93n Gualdo R., 75n Gualerni G., 2I6n Gualtieri R., 230 e n, 253n, 256n, 464n Guareschi G., 405, 406n Guarino G., 125n, I3 In, I67, I7I, 3 8 on Guarnieri C., SI3n Guasco M., 207n

Guazzaloca G., 3 I7 e n Gubert R., 223 Guerrieri S., 8sn, 254n Guerzoni L., 2I9n, 224, 320n Guillame S., 309n Guiso A., 242n, 3 29n, SI3n Guiso L., I36n Guiso N., I95n Gunther R., 3 58n Guolo R., 225n Guzzetti G., I38 Hellman S., 284n Hermet G., 333n Heukels T., 95n Hine D., 48sn, 486n Hobsbawm E. J., 23 In Hopkin J., 43 In Huysseune M., 375n lgnazi P., 49n, 230n, 24In, 26 on, 3 53 n, 424n, 42Sn, 430n, 433n . 4ssn, 46sn, 476n, 478n, 48 0n, 48sn, snn Imbriani A. M., 405n, 408n lmpagliazzo M., I89n, 3 I6n, 320n lngrao P., 227 n, 247, 255, 256n, 263n, 275 e n, 278 e n, 49In lntini U., 495n lnwinkl F., 264n lnzerillo U., I36n lotti N., 4In, 264, 27I, 3 IOn, 496 lppolito R., SISn lrdi L., 73n Irti N., I9n, 28n Isernia P., soon lvaldo M., 2I4 Jacobelli J., 444n Jacoviello A., 270, 376n Jannazzo A., 289n Jaume L., 405n Jori F., 37In, 378n Jospin L., 525-6 Judt T., 3 84n Katz R., 424 e n, 435 e n Kawata J., 494n

INDICE D E I NOMI Kelsen H., 267 Kessler B., 206 Khomeini R., 304 Kirchheimer 0., I 9n, 309 e n Kohl H., 3 26, 3 88, 398, 40I, 521n

Loera B., 425n Lombardi G., I88 Lombardini S., I50n, I52n Lombardo A., 492n Lonardi G., 369n Longanesi L., 405, 406n Longo L., 248, 325 Lorelli A., 63n Luchetti D., 76 Luciani M., 27n, 42n Lumia G., 220 Luna R., 509n Lupo N., 85n, 89n, 92n, 99n, Ioon Lupo S., 4I 2n, 446n, 447, 462n, 49In, 496n Luttazzi D., 345 Luzi G., 509n Luzzatto Fegiz M., 338n

Laclau E., 504n Laconi R., 49In La Francesca S., I22n, I24n, I27n Lagorio L., 274, 285n La Malfa G., 78, I33n, 23 5, 237, 300-I, 5I5n La Malfa U., I49, 299 Lampugnani R., 509n Lanaro S., 383n, 45In Lanchester F., 26n, 86n, 268n, 489n Landi C., 305n Landi G., 207 Langenbacher N., 483n Lanni A., 505n La Pira G., 439 La Russa 1., 48 I La Spina A., non La Valle R., 208 Lazar M., 486n, 489n Lazzati G., 209-10, 2I4, 2I5 e n, 2I7 e n, 2I8 e n, 2I9 Legnante G., 425n, 426n Leiss A., 34n, 267n, 283n Leni n V. l. U., 23 I Leonardi R., 3 67n Leone G., 337, 49In Le Pen J.-M., 479 Le Pen M., 484 e n Lepre A., 34n Lerner G., 8 I, 3 I8n Letta E., 96 Levi A., 3 8 6n Levi L., 32n Levi R. F., 5I In, 5I2n Ligresti S., 74 Lima S., 79 e n, 220 Linz J., 3 54 e n Lipari N., 207, 209, 2I3, 222 Lippolis V., 87n, 96n Liucci R., 406n Livolsi M., 426n, 496n

Macaluso E., 277 e n, 284n Macario L., 206 Maccanico A., I34n Macchiati A., I 22n Mafai M., 278n Magister S., 209 e n Magnifico G., 3 85n Magri L., 262 Maier C. S., 3 84n Mainardi R., 368n Mair P., 424 e n, 435 e n Malagodi G., 289 e n, 293, 297, 406n Malgeri F., 222, 23 2 Mammarella G., 3 83n, 385n, 5IOn Mammì 0., I97· 229 e n, 278, 426 Mancina C., 523n Mancini G., I68, I7I Mancini P., 224n Mancino N., 5IO Mandolini M., 23 3n Mangiameli S., 93n, 499n Mann T., 405n Mannheimer R., 224n, 334n, 3 5 In, 352n, 429n Mannino C. A., 278 Mannozzi C., 83n Manzella A., 86n, 93n, 98n Maraffì M., 222n, 23on, 42sn, 4s6n, 477n, 494n, 5IIn 537

INDICE DEI NOMI

Maranini G., 3 20n, 406n, 446 e n, 490n, 491n Marchi M., 222n, 309n, 328n Margiotta Broglio F., 193n, 195n Marinetti F. T., 481 Marini D., 378n Marini F., 23 5 e n Maritain J., 20 2, 206, 225 Marletti C. A., 347n Maroni R., 376n, 483 Marro E., 36 9n, 521n Marroni S., 284n, 285n Martelli C., 3 5-6, 3 9, 242, 243 e n, 270, 272n, 274, 276n, 28on, 283 e n, 285 e n, 286, 512n Martinazzoli M., 3 6, 195, 196 e n, 1 97, 213, 223, 225, 227n, 228 e n, 229n, 233 e n, 234 e n, 235n, 236, 237 e n, 27 8, 428-9, 497n, 514 e n Martini C. M., 198, 217-8 Martini F., 277n, 279n Martino A., 299, 447 Marx K., 23 1 Marzano M., 225n Masciandaro D., 138n Massacesi E., 214 Massari 0., 43 0n, 497n Mascella C., 237 Mastropaolo A., 403n, 406n, 412n, 451 e n, 490n Mattarella B. G., 1 17n Mattarella P., 221 Mattarella S., 98n, 27 8, 398n Mattesini F., 1 34n Matteucci N., 32n Mattioli R., 124n, 125, 131n Mauro E., 28 6n, 522n Mazzacane A., 107n Mazzacurati C., 76 Mazzella L., 112 Mazzoleni G., 224n, 347n Meccia A., 77 n Medici G., 149 Melchionda E., 495n Meli M. T., 509n Melis G., 102n, 103n, 105n, 1o6n, 107n, 1 o8n, 109n, 113n, 115n Mellone A., 481n, 497n, 515n Melloni A., 213n, 224n, 512n Menichella D., 125-6

Meniconi A., 92n, 113n, 115n Mennella G. F., 519n, 523n Mennitti D., 439 e n, 440, 465, 468 Menozzi D., 217n Mentana E., 8 o Mereu A., 5 1 2n Meriggi M., 361n, 369n Merloni Francesco (docente universitario), 105n Merlo n i Francesco (ex ministro dei Lavori pubblici), 6on Merusi F., 102, 11on, 131n Messina S., 279n, 282n, 283n, 514n Messori M., 112n, 134n, 13 5n, 13 6n, 137n Meynaud J., 490n Micossi S., 94n Miglio G., 23n, 374, 444 e n, 445 Milani E., 255 Milani L., 75 e n Minghetti M., 471 Minoli G., 68n, 287n Minucci A., 258 Minzolini A., 286n Misasi R., 278 Miserendino B., 516n Missiroli M., 290 Mitterrand F., 244 e n, 274n, 322, 3 25 Modugno F., 22n Moioli A., 124n Molteni A., 215 e n Monaco F., 222 Monina G., 367n, 407n, 493n Monod J., 3 9n Monorchio A., 164, 173 Momanelli 1., 74 e n, 81 e n, 405, 406n, 410, 462, 481 Montesquieu C.-L. de Secondat barone di La Brède e di, 504 Monti M., 30, 95· 12In, 124n, I38n, 200, 203, 505-6, 52In Monti V., 516n Monticone A., 218 Morando E., 23 0n Moratti L., 43 1 Moretti N., 76, 344 e n, 345 Mori R., 105n Morisi M., 68n

INDICE DEI NOMI

Olivetti M., 3 5n, 88n, 93n Olivi B., 3 85n Onado M., I23n, 126n, I27n Onida V., 2In, 21 6 e n Orefice V., 495n Orfei R., I96n, 2I 3n, 233n, 325n Orlando L., 73, 82, 220 e n, 22I-2, 328, 334-6, 494n Orlando S., 76 Orsina G., I9 2n, 289n, 3I7n, 38on, 406n, 407n, 49In Ostellino P., 346 e n, 52In Ottone P., 32I

Moro A., 25 e n, 33, 67n, 87 e n, 8 8n, I86 e n, I87 e n, I89, I9I, I96-7, 208, 2IO-I, 267n, 338, 375n, 383n, 439, 493n Moro C. A., 8 I, 2I2 e n, 224 Moroni S., 8 I Morricone E., 48 I Mortati C., 24 e n, 46 e n, I49 Moschella G., 498n Mounier E., 206, 2I9 Mucchetti M., I33n, I3 5n, I39n Murri R., 3 2on Musella L., 68n, 495n Musi A., 4oon, 499n Mussolini A., 484 Mussolini B., 346, 406n, 46on, 476

Pace A., I42n Pace E., 225n Padoa-Schioppa T., 29, I5I, I75, 3 85n Paganetto L., 11on Paggi L., 43 9n, 449 e n Pajetta G. C., 27 I Paladin L., 22n, Io5n, 396n Panetta F., I34n Pannella M., 327, 400, 49In Pannunzio M., 29I, 292n, 299 Pansa G., 70 e n, 76, 493n Paolo V I (Giovanni Battista Montini), papa, IO, I85 e n, I86, I8 9, I9I e n, I92, 209 Paolozzi L., 522n, 523n Paolucci C., 430n, 43 I-2 Pappalardo S., 22I Papuzzi A., 509 Parato re G., I49 Parenti T., 75n Parlato G., 406n Passalacqua G., 27 In, 373n Passare Ili G., 297 n Passerin d' Entrèves E., 206 Pasquini G., 227n Pasquino G., 25n, I9 5n, 222, 225, 256n, 284n, 470n, 473n, 489n, 50 2n, 504n, 5I 3n, 52In Pastori G., I02, 2I4 Patroni Griffi F., 117 Patrono M., 49In Patuelli A., 28 9 e n Pavone C., 3 84n Pazzaglia L., 207 e n, 2o8n, 2IO e n, 2I4, 222 Pecchioli U., 260, 494n

Napolitano G., 3 I e n, 4 2n, 45, 8I, 96 e n, Ioon, 200, 227n, 237n, 24I, 25I e n, 258-9, 26I, 275n, 277 e n, 284 e n, 285n, 28 6n, 3 25n, 327, 400, 52 on Nardelli F., 227n Natale P., 352 e n Natta A., 227n, 256-9, 270 e n, 27I Negri L., 209 Nencic M., 409 Nenni P., 443 Nepi P., 23 2n Neri Serneri S., 43 8n Nerozzi S., I29n Newell L., 494n Newman B. I., 497n Nicolais L., 1 1 2 Nicoletti M., 2I9 Nicolosi G., 28 9n, 29 2n, 3 26n, 40 6n, 490n Nobili F., I7I, 5I2n Noiret S., 495n Novelli D., 249 Novelli E., 425n, 428n Oberti A., 2I7n Occhetto A., 9n, 70n, 227n, 23 0-I, 23 4n, 24I, 242 e n, 244, 245 e n, 247 e n, 249, 250 e n, 253, 256-7, 258 e n, 259 e n, 260-5, 266 e n, 267 e n, 268, 270, 27I e n, 272, 273 e n, 274 e n, 275-7, 278 e n, 27 9 e n, 28In, 282, 283n, 284, 285 e n, 286 e n, 329, 342-3, 485, 495-6 Occorsio E., 376n 539

INDICE DEI NOMI

Pizzorusso A., 494n Poguntke T., 497n Poli E., 3 14n, 428n, 447n Polito A., 284n Polsi A., 122n Pombeni P., 222n, 331n Pons S., 228 n, 23 1n, 23 4n, 240n, 242n, 26 on, 273n, 323n, 328n, 3 84n, 463n, s1 2n, 513n Posner R. A., 148 e n Possanzini D., 86n Possieri A., 329n, 37 1n, SII n Pototschnig U., 102 Pratesi P., 208 Preda A., 189n Preterossi G., 88n Prezzolini G., 407 Prodi P., 206-7, 210, 211 e n, 221 Prodi R., 27, 29, 88, 112, 13 2n, 133 e n, 141, 151, 156, 202, 206-7, 217, 225, 227n, 343n, 345, 346 e n, 347, 365 e n, 388, 392-3, so2n, 509 e n, 510 e n, SII e n, 512 e n, 514, SIS e n, 516 e n, 517-8, 519 e n, 520, 521 e n, 522, 524 e n, SlS-8 Prospero M., 257n Pucci E., 3 63n Puri Purini A., 3 8 6n Putnam R., 3 67n, 498n Puviani A., 159 e n, 16on, 163n, 165 e n, 168, 172n, 176n

Pedrazzi L., 207, 208 e n, 214 e n, 219, 23 2n Pedullà G., 68n, 81n, 3osn Pellegrino B., 239n Pellegrino C., 73n Pellegrino G., 33n Pellicani G., 256, 260 Pellicani L., 464n Pellicanò G., 134n Pelosi G., s21n Peluffo P., 29n, 13on, 3 8sn Pera M., 446n Perassi T., 149 Perfetti F., 8 sn Perissich R., 43n Perotti R., 136n Persico A. A., 183n, 362n, 363n Pertici R., 416n, 461n, 462n Perticone G., 8sn, 491n Pertini S., 37n, 75, 76n Perugini P., 3 6 6 Petrelluzzi R., 78 Petri R., 1 23n Petriccione L., 102 Petrini C., 481 Petrini R., 494n Petruccioli C., 256 Pianta M., 3 8 6n Piccirilli G., 9on, 92n Piccoli F., 21 2, 321 Pichierri A., 372n Piermattei M., 267n Pierobon F., 122n Pietrobelli R., 207 Piga F., 102 Pilo G., 428 Piluso G., 128n Pinardi D., 338n Pinelli C., 34n, 3 sn, 42n, 96n Pini M., 132n, 28sn Pinotti F., 21 8n Pintacuda E., 217, 220, 221 e n Pinto C., 248n Piretti M. S., 1 13n, 218n, 3 10n, 3 1 2n, 321n Piselli F. , s9n Pizzimenti E., 433n Pizzolato L., 214, 21sn Pizzorno A., 37 e n, 38n, 132n, 227n, 513

Quagliariello G., 23n, 71n, 86n, 199n, 215n, 228n, 234n, 3 17n, s12n Ragone V., 523n Rajan R. G., 137n Ramella F., s9n Rampini F., s2sn, 526n Rampino A., 522n Ranieri U., 28 6 e n Raniolo F., 43 sn, 498n Rao N., 474n Rapini A., 438n Rauti P., 326, 4SS Ravveduto M., 72n, 73n, 77n, 78n Rawls J., 243 Reagan R., 343n, 403n, 428, 452n, 462, 463n, 464 e n Rebuffa G., 26n 540

INDICE DEI NOMI

Ruini C., 94, 193n, 194, 197, 198 e n, 199 Rullani E., 378n, 3 8 on Rumi G., 377n Rumiz P., 379n Ruotolo M., 22n Rusconi G. E., 377n, 383n, 4S4 e n Russo A., 290 Russo F., 19sn Russo Jervolino R., 223, 22s, 237 Rutelli F., 82, 39s-6, so1

Recanatesi A., 1 27n Recchia G., 90n Reichlin A., 394-s. SISn Reino Cachafeiro M., 3 34n Revelli M., 346n Reviglio F., 164, 167, 170 Ricasoli B., 471 Riccamboni G., 3S3 e n Riccardi A., 18sn, 191n, 193n, 199n Ricolfi L., 37sn, 379n, 42sn Ridolfi M., 69n, 490n, 498n Riva M., 1 29n Rivosecchi G., 90n, 93n Rizzo S., 339n, 341n, so3n Rizzoni G., 90n, 91n Robbe F., 406n Robespierre M.- F.-L de, 304 Robotti L., s3n Rocard M., 244, 322 Rodotà M. L., 334n Rodotà S., 20 e n, 21 Rogari M., 109n Romagnoli G. C., 386n Romano A., 240n, 2s6n, 28 1n, 3 23 e n Romano F., 223, 499n Romeo R., 27 e n Romero A., 219 Romero F., 3 84n Romiti C., 340 Ronchey A., 492n Rondolino F., 263n, 264n Ronzitti N., 94n Roosevel t F. D., 4 3 8 Rosanvallon P., 403n, 421 e n, sosn Rosati D., 208 Rossi A., 409 Rossi E., 491n, 492 Rossi Gianpaolo, 206 Rossi Guido, 137n Rossi N., 379n, SI9n Rossi S., 121 n, 1 28n, 133n, 137n, 38on, 38 6n, 388n Rotelli E., 22n, 49sn Ruffilli R., 24n, 207, 210, 21 3, 21 8 e n, 32m Ruffini R., 102n Ruffolo G., ISO, 272n, 369n Ruffolo M., 278n

Sabbatucci G., 121n, 441n, so9 e n Sabetti F., Sin Saldutti N., 138n Salerno G. M., 96n Salone C., 361n Saltari E., 386n Salvadori M. L., 284 e n, 287n, 379n, 441n, 464 Salvati M., 1 21n, 127n, 33 9n, S2In Salvato E., 263 Salvemini G., 491 e n, 492n Salvi C., 63n, 263, 264 e n, 26s e n, 267 e n Salvini M., 483, 484n Sam C., 30S Sangiorgi G., 228n, 272n Sani G., 233n, 3s8n Santaniello G., 103 Santaniello R., 3 8sn Santarelli E., 49 2n, 496n Santini A., S IOn Santini F., 3 6sn Santoro M., 79 e n, 8o, 341, 34S Sapelli G., 13 2n, 386n Saraceno P., 186n, 362n, 363n, 364 Sarcinelli M., 1 29, 164 Saresella D., 20 2n, 2osn, 22on, 32on, snn, s12n, s16n Sarkozy N. , 347, 47 9, 48 sn Sartor N., 147n, 1s3n, 3 88n Sartori G., 462n, 490n Sarubbi A., 494n Saulino F., S22n, s23n Saviano R., 7sn Savino M., non Savona P., 133n, SI4, SISn Sbrana F., 363n S41

INDICE DEI NOMI

Scalfari E., 25n, 28n, 73n, 227n, 241 e n, 27 5n, 276 e n, 321, 340, snn, 512 Scalfaro O. L., 33n, 35, 37-8, 3 9 e n, 40, 45, 73 81, 227n, 390 e n, 392-4, 400, 502, 514 Scanzi G., 347n Scelba M., 53 Schadee H. M. A., 485 Schedler A., 403n, 4osn Schellenber B., 483n Schietroma D., 105 Schmidt H., 322 Schmitt C., 444 Schumpeter J., 159 e n, 160 Scirè G. B., 188n, 2osn, 21 2n, 31 4n, 3 1 sn, snn Scognamiglio C., 121n Scola A., 209, 218 Scoppola P., 26n, 67n, 86n, 18 6n, 190 e n, 195n, 205 e n, 206 e n, 207 e n, 208-9, 210 e n, 2II e n, 21 2 e n, 213, 215n, 217, 218 e n, 219 e n, 222 e n, 223, 224n, 227 e n, 235 e n, 255n, 281n, 283n, 28sn, 315n, 3 20 e n, 358 e n, 371n, 374n, 3 83n, 399n, 451n, 492n, 514n Scornajenghi A., 233n, 377n Segatti P., 222n, 225n, 23on, 353n, 3ssn, 3s8n, 485, 5IIn Segni M., 25, 31, 70 e n, 82, 195n, 196, 21 2, 222 e n, 224, 227n, 23 5 e n, 23 6 e n, 237 e n, 249 e n, 259n, 26 1, 28 1 e n, 282, 300, 329, 335-6, 337n, 341, 343, 392, 427-8, 475, 495n, 514 e n Serra M., 82, 512n Setta S., 3 58n, 40 5n, 4o8n, 409n Sfardini A., 347n Sgarbi V., 304 e n Sgorlon C., 481 Sgroi V., 3 8 Siglienti S., 134n Signorile C., 272n, 277, 283 e n Silipo R., 515n Simoncini A., 99n Sindona M., 1 29 Sirinelli J. F., 309n Smargiassi M., 515n, 519n Sniderman P., 356 e n, 3 57 Socci A., 217 e n, 3 28n Soda A., 57 n Solari G., 18n Solinas S., 346n

Somogyi S., 490n Sordi A., 71-2 Sorge B., 208-9, 210 e n, 217 e n, 220, 221 e n, 232n Spadolini G., 156, 192, 21 2, 227n, 23 2n, 237n, 400 Spaventa L., 164, 521n, 525n, 527 e n, 528n Spinelli B., 522n Spini V., 28 on, 3 96n Stabile A., 27on, 275n, 27 8n Statera A., 286n, 514n, 515n Stella G. A., 78n, 82n, 84 e n, 3 3 9n, 341n, 503n Sterpa E., 290, 291 e n, 297, 301, 302 e n Steve S., 148n Stille A., 342 e n Storti B., 2o6 Sturzo L., 1 9 6, 204, 206, 207n, 227n, 228n, 237 e n, 429, 49 0n, 494n, 497n Tabellini G., 138n Taguieff P. A., 3 33n, so6n Tambroni F., 186 Tamburello S., 13 8n Tamburrano G., 274 Tanassi M., 3 37 Taradel A., 101, 102n Tarchi M., 3 33n, 3 4 5 e n, 406n, 408n, 452n, 455 e n, 476n, 477n, 504n Tassani G., 207n Tatò A., 287n, 316n Terracini U., 255 Testa S., 425n Thatcher M., 428, 43 5 Tiberi G., 94n, 99n Tiraboschi A., 274 Tivelli L., 495n Togliatti P., 23 e n, 23 1, 248, 254 e n, 270 e n, 316n, 323n, 3 24-5, 491 e n Tognoli C., 274 Tognon G., 21 2 e n, 21 3, 222 Tonini G., 219, 222, 224 Toniolo G., 123n, 125n, 3 63n Torretta P., 90n Tortorella A., 245, 258 e n, 265, 275 Tosato G. L., 94n, 149 Tosatti G., 102n, 105n, 107n Tosi F., 483 Tosi L., 525n Tranfaglia N., 383n, 504n 542

INDICE DEI NOMI

Verola N., 94n Verrastro F., 113n, 1 15n Verzichelli L., 57n, 503n Vesperini G., 497n Vidotto V., 1 21n Viesti G., 377n Vigilante R., 233n Viglione A., 366 Vignati R., 477n Villa G., 221 Villone M., 63n Vimercati D., 334n, 495n Viola P., 441n Violante L., 90, 246 e n, 248 e n, 271 e n Visani C., 515n Visco V., 395n, 396 Visconti P., 512n Visentini B., 162 e n Vita V., 428n Vittoria A., 23on, 256n, 372n Vittorini E., 481 Viviani Schlein M. P., 99n Volpi F., 159n Volpi M., 42n

Traniello F., 193n, 195 e n, 205, 206 e n, 207, 210, 2I7n Travaglini G., 386n Travaglio M., 67n, 72n, 75n, 83n Tremonti G., 29, 137 e n, 138, 164, 345, 414n, 434 Treu T., 51 9n, 522, 528 Trezzani C., 376n Trigilia C., 59n, 3 54, 3 54n, 373n, 379n Trionfìni P., 222n, 328n Tucciarelli C., 93n Tuorto D., 297n Turani G., 127n, 515n Turco L., 256 Turoldo D. M., 219 Ugolini B., 523n Unfer E., 273 n Ungari A., 406n Ungari P., 85n Urbani G., 109, 428 e n, 447 e n, 448-9 Urbat J., 489n Vacca G., 26on, 267n, 450n, 493n, 496n Vaciago G., 38on Vaiano D., 134n Valente G., 199n Valentini C., 23 0n, 514n Valentini G., 78n Valentini I., 491n Vali tutti S., 297, 491n Valle A., 196n, 211n Vampa D., 485n, 486n Vandelli L., 52n, 54n, 55n, I06n Van Miert K., 43, 171-2 Varasano L., 428n Varni A., 1o6n Varsori A., 85n, 1 23n, 3 84n Vassallo S., 489n, 504n Vecchio G., 22on Vede! G., 39n Veltroni W., 245n, 249 e n, 250, 251 e n, 252 e n, 276, 28on, 282, 343, 503n, 517 e n, 523 Veneziani M., 456 e n, 47 8, 505n Ventura S., 485n Venturino F., 498n Verba S., 3 55 e n Verderami F., 137n

Webb P., 497n Weiler J., 95n Wellhofer S., 3 53n Wolleb G., 47n, 48n Zaccagnini B., 189n, 20 6, 208, 3 27 Zaccaria R., 98n, 99n Zagari G., 103 Zagrebelsky G., 19n, 2on Zamagni G., 187n Zamaro N., 1 o 2n Zandano G., 3 63n Zangheri R., 258n Zanini I., 5 21 n Zanone V., 289-91, 294 e n, 29 6 e n, 3 0 2 e n, 304 e n, 305 e n Zavoli S., 40n Zincone G., 497n Zingales L., 13 6n, 137n, 138n Zizola G., 224 Zoppoli L., n6n Zornetta M., 78n 543