Le ragioni della filosofia. Filosofia contemporanea [3] 9788800204866


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Table of contents :
Autori
INDICE
PARTE PRIMA. L’Ottocento dopo Hegel
INTRODUZIONE. La filosofia dell’Ottocento (Luca Fonnesu)
1. La società e la storia come «seconda natura»
2. La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze
Unità 1
Con Hegel,
contro Hegel
1. Destra e Sinistra hegeliana
2. Uomo, Dio e natura
nel pensiero di Feuerbach
3. Dall’uomo all’«Unico»:
Max Stirner
Unità 2
Due critici
dell’idealismo:
Schopenhauer
e Kierkegaard
1. Schopenhauer
2. Kierkegaard
Unità 3
Il positivismo
1. La filosofia del positivismo
2. Comte
3. Mill
4. L’evoluzionismo: Darwin
e Spencer
5. Altri esponenti
del positivismo
Unità 4 (Luca Fonnesu)
Marx
1. Marx e il marxismo
2. Tra teoria e politica
3. La critica della politica
4. Critica della religione come critica sociale
5. L’economia politica e l’alienazione
6. La concezione materialistica della storia
7. La critica dell’economia politica
8. Verso il comunismo
9. Engels
Unità 5 (Luca Fonnesu)
Nietzsche
1. Il filosofo e il moralista
2. Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea
3. La tragedia e la storia
4. La critica della metafisica
5. La critica della morale
6. Il superuomo e l’eterno ritorno
Unità 6
La filosofia
in Europa
tra Ottocento
e Novecento
1. Mondo naturale
e mondo umano
2. Il ritorno a Kant
e il neocriticismo
Il ritorno a Kant
e il neocri
3. Lo storicismo tedesco
4. Bergson
Unità 7
La filosofia
anglo-americana:
il pragmatismo
e il neoidealismo
1. Il pragmatismo americano
2. Peirce
3. James
4. Dewey
5. Il neoidealismo inglese Il neoidealismo in
Unità 8
Il neoidealismo
italiano: Croce
e Gentile
1. Croce e Gentile:
dal sodalizio alla rottura
2. Croce
3. Gentile
Unità 9
Freud
e la psicoanalisi
1. La rivoluzione psicoanalitica
2. La natura della psicoanalisi e la scienza
3. L’origine della psicoanalisi
4. Il complesso di Edipo
5. Il sogno e la vita quotidiana
6. La sessualità
7. L’estensione dell’orizzonte: il disagio della civiltà
8. Gli sviluppi della psicoanalisi
PARTE SECONDA. Le filosofie del Novecento
INTRODUZIONE. Le filosofie del Novecento (Luca Fonnesu)
1. La ricerca di uno statuto per la filosofia
2. Due tradizioni?
Unità 10
La nuova scienza:
matematica e fisica
1. Perché si parla
di ‘nuova scienza’
2. Le premesse matematiche
3. Il dibattito sui fondamenti
della matematica
4. Le premesse fisiche
5. Le rivoluzioni della fisica
Unità 11
Husserl
1. La filosofia come scienza autonoma e rigorosa
2. Un funzionario dell’umanità in lotta per la ragione
3. Lo psicologismo e il suo superamento
4. La dimensione dell’ideale e la fenomenologia della conoscenza
5. L’espansione e l’approfondimento del progetto
fenomenologico
6. L’indagine fenomenologica oltre il lògos
7. Il mondo della vita e il destino della ragione
Unità 12
Heidegger
e l’ermeneutica
1. Storicità e metafisica
2. Un metafisico nella tempesta
3. Il giovane Heidegger: fenomenologia, ontologia, vita
4. Fenomenologia e fatticità
5. Il capolavoro incompiuto
6. Essere-nel-mondo
7. La comprensione e l’essere
8. Chi siamo e chi possiamo essere
9. L’orizzonte del tempo
10. Il progetto incompiuto e la «svolta»
11. Poesia, storia, verità
12. La tecnica
13. L’ermeneutica di Gadamer
Unità 13
La filosofia
dell’esistenza:
Jaspers e Sartre
1. Jaspers e la filosofia
dell’esistenza
2. Sartre e l’esistenzialismo
francese
Merleau-Ponty
Mounier e il personalismo
Unità 14
Capitalismo e teoria
della società
1. Analisi del capitalismo
2. Weber
3. Il marxismo occidentale:
Gramsci e Lukács
4. La Scuola di Francoforte
Unità 15
I padri
dell’empirismo
novecentesco:
Moore, Russell,
Wittgenstein
1. L’empirismo e la filosofia
analitica
2. Moore
3. Russell
4. Wittgenstein
PARTE TERZA. Verso la filosofia contemporanea
INTRODUZIONE. Il dibattito filosofico contemporaneo (Luca Fonnesu)
1. Gli sviluppi della filosofia contemporanea
2. Analitici e continentali: una distinzione legittima?
3. La filosofia morale e politica
Unità 16
Dall’empirismo
logico
all’empirismo
contemporaneo
1. L’empirismo e la scienza
2. L’empirismo logico
3. Gli sviluppi dell’empirismo
Unità 17
Dallo strutturalismo
al decostruzionismo
1 .Genesi e diffusione dello strutturalismo
2. Foucault
3. Derrida e il decostruzionismo
Unità 18
La filosofia
della scienza
1. Scienza e filosofia della scienza
2. Il metodo scientifico
3. La questione del realismo scientifico
Unità 19
Etica, filosofia
politica e bioetica
1. La discussione
sulla natura dell’etica
2. La filosofia politica
3. La bioetica
Scenari presenti e futuri
a cura di Remo Bodei
Laboratorio sul lessico
BELLO / BRUTTO (Claudio La Rocca)
LIBERTÀ (Sergio Filippo Magni)
Oggettivo / soggettivo (Claudio La Rocca)
RESPONSABILITÀ (Sergio Filippo Magni)
RELATIVO (Sergio Filippo Magni)
Percorso tematico
La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea
Immagini critiche della scienza
e della tecnica
La natura del linguaggio
Che cos’è la filosofia?
Mente, cervello, macchina
Utilitarismo e oltre
Tesi a confronto
Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile?
Nietzsche
e la questione della verità:
la verità esiste o è solo un mito
della metafisica?
Osservare e valutare:
dobbiamo continuare a distinguere
questi due tipi di giudizi nell’uso
linguistico?
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Le ragioni della filosofia. Filosofia contemporanea [3]
 9788800204866

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29-03-2011

14:19

Q UESTO

Pagina 1

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L. 633/1941).

Le Unità: il profilo di storia della filosofia con i testi da leggere I Laboratori di lettura I Percorsi tematici I Laboratori sul lessico. Filosofia e vita quotidiana Le Tesi a confronto Configurazione dell’opera 1. Filosofia antica e medievale 2. Filosofia moderna 3. Filosofia contemporanea

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LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA

Le ragioni della filosofia

L. Fonnesu | M. Vegetti

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3 Filosofia contemporanea

Luca Fonnesu | Mario Vegetti

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Elena Castellani | Claudio La Rocca S. Filippo Magni | Roberta Picardi

LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA Con un percorso sulla filosofia contemporanea di Remo Bodei

3 - Filosofia contemporanea

0 I-II Vegetti-Filosofia 3

25-02-2008

11:33

Pagina 1

Luca Fonnesu - Mario Vegetti Elena Castellani - Claudio La Rocca S. Filippo Magni - Roberta Picardi

LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 3 Filosofia contemporanea

© 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati © 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano www.mondadorieducation.it Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it Prima edizione : marzo 2008

Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attività di: progettazione, realizzazione di testi scolastici e universitari, stru6 5 4 menti didattici multimediali e dizionari. Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attivi2015 2014 2013 2012 2011 Edizioni di: progettazione, realizzazione testi scolastici e universitari, struLetà fotocopie per uso personale del lettoredipossono essere effettuate nei limiti del 15% 1Questo 0 9 8 7materiale 6 protetto 5 ciascundidattici volume/fascicolo ditrasferito, periodico dietrodistribuito, pagamento allanoleggiato, SIAE del compenso prementi multimediali e dizionari. ebook contiene da4copyright e non può esseredicopiato, riprodotto, licenvisto di dall’art. 68, commi 4 e 5,specificamente della legge 22 aprile autorizzato 1941 n. 633. Le riproduzioni diverziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione quanto è stato dall’editore, 2015 volume 2014 è stampato 2013 2012 2011 se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto ai termini e alle condizioni alleda: quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla applicabile. Qualsiasi distribuLe fotocopie per uso opersonale dellegge lettore possono essere nei limiti del 15% il limite del effettuate 15%) potranno avvenire solo merciale, economico professionale – e/o oltre LTV La Tipografica Varese S.p.A, Varese ciascun di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso prezione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul dei costituiadi seguito divolume/fascicolo specifica autorizzazione rilasciata daregime AIDRO, Corso didiritti Porta Romana 108, visto dall’art. commi 4 e 5, della legge 22e sito aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni diverStampato in Italia - Printed in Italy sce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente ee-mail penalmente secondo quanto previsto dalla Legge Milano 20122,68, [email protected] web www.aidro.org. se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto volume è stampato da: 633/1941 e successive modifiche.

Edizioni 1Prima 0 edizione 9 : marzo 8 2008 7

merciale, economico o professionale – e/o oltre il limite del 15%) potranno avvenire solo

LTV - La Tipografica Varese S.p.A, Varese a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, Questo ebook non potrà in prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso Stampato in Italia - Printed in alcun Italy modo essere oggetto di scambio, commercio, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui L’opera frutto della collaborazione fraincluse gli autori. particolare: l’opera èèstata pubblicata e le condizioni allaIn presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti del volume, ha curato le Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard (la parte su Kierkegaard), 4 Marx, 5 Nietzsche, 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e L’opera è frutto della ecollaborazione autori. In particolare: , 9 Freud la psicoanalisifra , 14gliCapitalismo e teoria della società (la parte su Weber) e il Percorso tematico Novecento Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti Immagini critiche della scienza e della tecnica . del volume, ha curato le Unità 2 Due critici dell’idealismo: (la parte su nuova Kierkegaard ), 4matematica Marx, 5 Nietzsche Europa tra Ottocento e Schopenhauer Kierkegaard scienza: e fisica,, 618LaLafilosofia filosofiaindella scienza . Elena Castellanieha curato le Unità 10 La 9 Freud la psicoanalisi 14Husserl Capitalismo e teoria della società (la parte su Weber ) e il La Percorso Novecento , 12 Heidegger e l’ermeneutica , i Percorsi tematici natura tematico del linguaggio, Claudio La ,Rocca ha ecurato le Unità ,11 Immagini della scienzacervello, e della tecnica . e i Laboratori sul lessico Bello / brutto, Oggettivo / soggettivo. Che cos’è critiche la filosofia? , Mente, macchina La nuova matematica fisicadell’idealismo: , 18 La filosofia della scienza.e Kierkegaard Elena Castellani ha curato curato le le Unità Unità 110Con Roberta Picardi ha Hegel, scienza: contro Hegel , 2 Due ecritici Schopenhauer , 12 Heidegger e l’ermeneutica i Percorsi tematici La natura del linguaggio, Claudio ha curato),le7 Unità 11 Husserl (la parteLa suRocca Schopenhauer La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il, neoidealismo (la parte su Il neoidealismo Che cos’è la filosofia? , Mente, cervello, macchina e i Laboratori sul lessico Bello / brutto , Oggettivo / soggettivo. inglese), 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile, 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo e il Percorso tematico Roberta Picardi ha la curato le Unità 1 Con Hegel, contro Hegel La «morte di Dio»: crisi della coscienza religiosa europea . , 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard (la Filippo parte su Schopenhauer La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo (la parte Il neoidealismo , 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il su neoidealismo S. Magni ha curato ),le7Unità 3 Il positivismo ), 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile , 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo e il Percorso tematico inglese (tranne Il neoidealismo inglese), 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre, 14 Capitalismo e teoria della società La «morte di Dio»: crisi),della religiosa europea . Russell, Wittgenstein, 16 Dall’empirismo logico (tranne la parte su la Weber 15 Icoscienza padri dell’empirismo: Moore, , 7 La efilosofia il pragmatismo neoidealismo S. Filippo Magni ha curato le ,Unità 3 Il positivismo 19 Etica, filosofia politica bioeticaanglo-americana: , il Percorso tematico Utilitarismoeeiloltre all’empirismo contemporaneo (tranne Il neoidealismo inglese ), 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre , 14 Capitalismo e teoria della società e i Laboratori sul lessico Libertà, Responsabilità, Relativo. (tranne la parte su Weber), 15 I padri dell’empirismo: Moore, Russell, Wittgenstein, 16 Dall’empirismo logico presenti e futuri una rielaborazione delecapitolo avanti, del libro di Remo La parte Scenari , 19èEtica, filosofia politica bioeticaX, , ilGuardando Percorso tematico Utilitarismo e oltreBodei, La filosofia all’empirismo contemporaneo , ©lessico 1997, Libertà 2006 Donzelli editore, ,Roma, riprodotto per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore. nel Novecentosul e i Laboratori , Responsabilità Relativo . Laedazione parte Scenari R

presenti e futuriAndrea è una rielaborazione del capitolo X, Polaris Guardando avanti , del libro (Firenze) di Remo Bodei, La filosofia Bencini, Elisabetta Zappia, Studio redazionale nel Novecento , © 1997, 2006 Donzelli editore, Roma, riprodotto per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore. Impaginazione Polaris Studio redazionale (Firenze) Progetto grafico Redazione Copertina Impaginazione Ricerca iconografica Progetto grafico In copertina Copertina Ricerca iconografica In copertina Revisione testi e apparati didattici

Alfredo La Posta Andrea Bencini, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Polaris Studio redazionale (Firenze) Alberto Mori Alfredo La Posta Marcel Duchamp, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli (o Il grande vetro), 1915-23 Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Filadelfia, The Philadelphia Museum of Art - © 2007 Foto The Philadelphia Alberto Mori Museum of Art/Art Resource/Scala (Firenze) / © Marcel Duchamp, by Siae 2008 Marcel Duchamp, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli (o Il grande vetro), 1915-23 Filadelfia, The Philadelphia Museum of Art - © 2007 Foto The Philadelphia Museum of Becchi, Art/Art Resource/Scala (Firenze) / ©Francesco Marcel Duchamp, by Siae 2008 Alessandro Annalia Celli, Luciana Ceri, Cirri

Revisione testi e apparati didattici

Alessandro Becchi, Annalia Celli, Luciana Ceri, Francesco Cirri Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità.

Per informazioni e segnalazioni: Servizio Clienti Mondadorinon Education Per eventuali e comunque volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità. e-mail [email protected] Per informazioni segnalazioni: numero verde 800e 123 931 Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] numero verde 800 123 931

0 III_XII OK romane 15_02_08

20-02-2008

17:09

Pagina III

Indice Parte prima L’Ottocento dopo Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . .

Unità 2 1

Introduzione

1. Schopenhauer

La filosofia dell’Ottocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5

1. La società e la storia come «seconda natura» . . . . 2. La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

6

parola al critico: Löwith legge la crisi dello hegelismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Con Hegel, contro Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

9

4. La cosa in sé come volontà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

13

T4 La volontà come essenza del corpo (p. 47); T5 I caratteri della volontà come cosa in sé (p. 48); T6 La volontà divora le sue oggettivazioni (p. 50); T7 La vita umana è un pendolo tra il dolore e la noia (p. 51)

1. Destra e Sinistra hegeliana

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 1. Hegel come l’«Alessandro il Grande» della filosofia: seguaci e nemici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 2. La spaccatura della scuola hegeliana . . . . . . . . . . . 15 3. Il dibattito sulla religione: Strauss e Bauer . . . . . . 17

T1 La filosofia hegeliana come dissoluzione del cristianesimo (p. 18)

4. Il dibattito politico: Ruge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

19

2. Uomo, Dio e natura nel pensiero di Feuerbach

....

1. Filosofo della religione e «anti-Hegel» . . . . . . . . .

T12 L’egoista che crea dal nulla (p. 33) Sommario (p. 36), Parole chiave (p. 37), Questionario (p. 38)

59 59 61

...................................

1. La filosofia e l’esistenza individuale . . . . . . . . . . . 2. Vita estetica e vita etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

23

Sommario (p. 70), Parole chiave (p. 71), Questionario (p. 72)

27

65

T14 Hegel e la vita etica (p. 66); T15 La fede come paradosso (p. 67); T16 Abramo e l’eroe tragico (p. 67)

Laboratorio di lettura: Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione . . . . . . . . . . . . . . . . .

73

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Bello / brutto . . . 29

T8 La differenza tra la vecchia e la nuova filosofia (p. 30); T9 La coincidenza di verità, realtà e sensibilità (p. 30); T10 La funzione ontologica dell’amore (p. 31); T11 L’umanesimo della nuova filosofia (p. 32) ..............

54

T9 Motivi, carattere e necessità dell’agire (p. 54); T10 Dovere e compassione (p. 57)

3. La religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T6 Sistole e diastole religiosa (p. 27); T7 Religione, antropologia e filosofia (p. 29)

4. La filosofia nuova: sensibilità, intersoggettività e amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

6. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

22 22

T4 La critica del «cominciamento» della filosofia hegeliana (p. 24); T5 Il nucleo teologico della filosofia moderna (p. 25)

3. La critica filosofica della religione . . . . . . . . . . . . .

51

T8 Il piacere estetico (p. 53)

T11 La scelta e la vita etica (p. 63); T12 Il lavoro esprime l’universale (p. 64); T13 La destinazione dell’uomo (p. 65)

T3 L’insegnamento di Hegel (p. 23)

2. La critica della «filosofia teologizzante» . . . . . . . .

46

5. L’arte e la catarsi estetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

2. Kierkegaard

T2 Il nocciolo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria (p. 21)

40 40 40 43

..................................

T1 Il mondo come rappresentazione (p. 43); T2 Le forme a priori e il principio di ragion sufficiente (p. 44); T3 Il carattere illusorio del mondo fenomenico (p. 46)

Unità 1

39

1. La crisi del razionalismo ottocentesco . . . . . . . . . . 2. L’eredità kantiana e il sistema . . . . . . . . . . . . . . . . 3. I fenomeni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

7

◆ La

3. Dall’uomo all’«Unico»: Max Stirner

Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

81 85

Esercitiamoci sul bello / brutto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Unità 3

Il positivismo 32

..................................

87

1. La filosofia del positivismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

88

T1 Saint-Simon: verso una filosofia «positiva» (p. 90)

2. Comte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

91

III

0 III_XII OK romane 15_02_08

20-02-2008

17:09

Pagina IV

Indice

1. La legge dei tre stadi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

91

T2 I tre stadi (p. 92); T3 Lo stadio teologico o fittizio (p. 92); T4 Lo stadio metafisico o astratto (p. 93); T5 Lo stadio positivo o scientifico (p. 93)

2. La filosofia positiva e l’ordine delle scienze . . . . .

5. L’economia politica e l’alienazione . . . . . . . . . . . . . 137 94

T6 La formulazione di leggi generali (p. 94); T7 Conoscenza delle leggi e azione sulla realtà (p. 95); T8 Il sistema delle scienze fondamentali (p. 95)

3. La sociologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

96

T9 La fisica sociale e le sue applicazioni (p. 97); T10 La «statica sociale» come teoria positiva dell’ordine (p. 97); T11 La «dinamica sociale» e il progresso (p. 98); T12 L’epoca positiva e industriale (p. 98)

4. La religione positiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T3 Ricondurre la religione alle cause mondane (p. 135); T4 La religione come «oppio del popolo» (p. 135); T5 Il proletariato e la sua carica emancipativa (p. 137) T6 Le leggi e i presupposti dell’economia politica (p. 139); T7 Il lavoro come vita attiva (p. 140); T8 Hegel: l’uomo come risultato del proprio lavoro (p. 141); T9 Il prodotto del lavoro e l’annullamento dell’operaio (p. 142); T10 Il lavoro alienato: mortificazione e perdita di sé (p. 143); T11 Il comunismo come umanismo e come naturalismo (p. 144)

6. La concezione materialistica della storia . . . . . . . . 144

99

T13 Dalla filosofia positiva alla religione positiva (p. 99); T14 Il nuovo culto positivista (p. 99)

3. Mill

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 1. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101

T15 Natura e campo di applicazione della logica (p. 101); T16 Natura e funzione delle proposizioni generali (p. 102); T17 L’assunzione di ogni inferenza induttiva (p. 103)

2. Le scienze morali e la politica . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 T18 Complessità della scienza sociale (p. 104); T19 Il sentimento della libertà morale (p. 105); T20 La sovranità dell’individuo su se stesso (p. 106); T21 Le condizioni di una società libera (p. 106); T22 Il pregiudizio della ‘natura femminile’ (p. 107)

T12 La storia come successione di generazioni (p. 146); T13 La produzione: base della storia e della specie umana (p. 147); T14 Vita reale e coscienza (p. 148); T15 Struttura e sovrastruttura (p. 148); T16 Dall’acuirsi delle contraddizioni alla rivoluzione (p. 150); T17 Due condizioni della rivoluzione (p. 150); T18 Il comunismo (p. 151); T19 I presupposti del capitalismo (p. 152)

7. La critica dell’economia politica . . . . . . . . . . . . . . . 152 T20 Iniziamo dalla merce… (p. 153); T21 Il valore d’uso depositario materiale del valore di scambio (p. 153); T22 Il rapporto di scambio delle merci (p. 154); T23 Al di là del valore d’uso: il lavoro astratto (p. 154); T24 L’assurdità delle crisi (p. 158)

8. Verso il comunismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 T25 La storia è storia di lotte di classi (p. 160); T26 La ricchezza umana (p. 161)

9. Engels . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162

3. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 T23 Scienza e arte (p. 108); T24 I capisaldi dell’utilitarismo (p. 108); T25 Il valore della qualità del piacere (p. 109)

4. L’evoluzionismo: Darwin e Spencer

. . . . . . . . . . . . . . . 110 1. Darwin e l’evoluzione delle specie animali . . . . . . 110

T26 Il processo della selezione naturale (p. 111); T27 Intelligenza umana e intelligenza animale (p. 112); T28 La genesi del senso morale (p. 113)

Sommario (p. 164), Parole-chiave (p. 165), Questionario (p. 166)

Laboratorio di lettura: Il manifesto del partito comunista . . 167 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172 Tesi a confronto Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178

2. Spencer e il sistema di filosofia sintetica . . . . . . . . 114

Unità 5

T29 La funzione unificatrice della filosofia (p. 114); T30 La dinamica dell’evoluzione universale (p. 115); T31 L’accordo tra scienza oggettiva e religione (p. 117)

Nietzsche

3. Spencer e i principi delle scienze . . . . . . . . . . . . . . 117

T1 Problemi filosofici e intuizione (p. 181); T2 Nietzsche e l’antisemitismo (p. 181)

T32 L’evoluzione dell’organismo sociale (p. 118); T33 Peculiarità dell’organismo individuale (p. 118)

5. Altri esponenti del positivismo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120

Sommario (p. 124); Parole chiave (p. 125); Questionario (p. 126)

Unità 4

Marx . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

127

1. Marx e il marxismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128 2. Tra teoria e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128 3. La critica della politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130 T1 La scissione tra dimensione comunitaria e privata (p. 133); T2 I diritti dell’uomo e l’egoismo (p. 134)

4. Critica della religione come critica sociale . . . . . . 134

IV

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

1. Il filosofo e il moralista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180

2. Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 3. La tragedia e la storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 184 T3 Filologia e contemporaneità (p. 184); T4 Il contrasto tra apollineo e dionisiaco (p. 185); T5 La cacciata di Dioniso (p. 187); T6 Contro la filosofia hegeliana (p. 189); T7 L’igiene della vita contro la malattia storica (p. 190)

4. La critica della metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 T8 L’illusione del soggetto (p. 192); T9 Necessità e innocenza (p. 193); T10 La pretesa essenza eterna dell’uomo (p. 194); T11 Duplicazione del mondo e disprezzo per la vita (p. 195)

5. La critica della morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 T12 La mancata critica della morale (p. 197); T13 La chimi-

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6. La metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261 7. Morale e religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262

ca delle idee e dei sentimenti (p. 198); T14 Valutazione ed esistenza (p. 199); T15 Il nesso originario tra bontà e potenza (p. 200); T16 La morale degli schiavi come reazione (p. 202); T17 La genesi dell’interiorità (p. 204); T18 L’essenziale violenza della vita (p. 205); T19 Dall’uomo ‘semplice’ all’uomo ‘profondo’ (p. 206); T20 L’interpretazione ascetica della sofferenza (p. 207)

T10 Morale chiusa e morale assoluta (p. 264) Sommario (p. 266), Parole chiave (p. 267), Questionario (p. 268)

Unità 7

6. Il superuomo e l’eterno ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . . 207 T21 Innalzamento dell’uomo e aristocrazia (p. 208); T22 L’annuncio dell’eterno ritorno dell’identico (p. 208) Sommario (p. 210), Parole chiave (p. 211), Questionario (p. 212)

Laboratorio di lettura: Genealogia della morale . . . . . . . . . 213 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218 Tesi a confronto Nietzsche e la questione della verità: la verità esiste o è solo un mito della metafisica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224

Percorso tematico • La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 270

1. Il significato come effetto pratico . . . . . . . . . . . . . . 271 T1 La ricerca attraverso il dubbio (p. 272); T2 La definizione di «credenza» (p. 272); T3 Credenza e regole d’azione (p. 273)

2. Il metodo scientifico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273 T4 Il valore di verità dei quattro metodi per consolidare una credenza (p. 274); T5 I caratteri dell’abduzione (p. 275)

3. La semiotica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 T6 La formazione dei segni (p. 276)

3. James

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277 1. La verità come efficacia pratica . . . . . . . . . . . . . . . . 278

2. La volontà di credere e l’etica . . . . . . . . . . . . . . . . 279 237

1. Mondo naturale e mondo umano . . . . . . . . . . . . . . . . . 238 2. Il ritorno a Kant e il neocriticismo . . . . . . . . . . . . . . . 239 1. Tornare a Kant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239 2. Il ritorno a Kant su base «fisiologica» . . . . . . . . . . 240 3. Il neocriticismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 T1 Andare oltre Kant (p. 241)

4. La scuola di Marburgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242 5. Cassirer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242 T2 La fisica come teoria simbolica (p. 244)

6. La scuola del Baden . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245 T3 Le regole del conoscere, del volere e del sentire (p. 245)

7. Rickert . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246

3. Lo storicismo tedesco

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248 1. I caratteri dello storicismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248 2. Dilthey . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249

T4 Il mondo spirituale come mondo della libertà (p. 250); T5 L’importanza dell’esperienza interna (p. 250)

3. Simmel e la filosofia della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . 252

4. Bergson

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 1. Lo spiritualismo francese dell’Ottocento . . . . . . . . 253 2. Tra scienza e metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254 3. Il tempo e la durata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 256

T6 Dalla fisica alla psicologia (p. 256); T7 L’orologio e la durata (p. 257); T8 La libertà (p. 259)

4. Percezione e memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 5. Conoscenza utile e stabilità del mondo . . . . . . . . . 261 T9 Lo spirito ha bisogno di stabilità (p. 261)

1. Il pragmatismo americano 2. Peirce

. . . . . . . . . . . 269

T7 Oggetti di pensiero e loro effetti pratici (p. 278); T8 Il valore pratico delle idee vere (p. 278)

Unità 6

La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo

T9 La legittimità delle scelte religiose (p. 280); T10 Il fondamento dei giudizi morali (p. 281)

3. La psicologia e l’empirismo radicale . . . . . . . . . . . 281 T11 L’interazione tra mente e ambiente (p. 282); T12 L’esperienza pura è priva di riflessione (p. 282)

4. Dewey

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283 1. L’esperienza e la storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283

T13 Il confronto critico con l’empirismo tradizionale (p. 284); T14 L’identificazione tra esperienza e storia (p. 285)

2. Lo strumentalismo e la conoscenza . . . . . . . . . . . . . 286 T15 La risoluzione di un problema attraverso la riflessione (p. 286); T16 Fatti e idee hanno «natura operazionale» (p. 287)

3. La relazione con l’ambiente e il problema mente-corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 288 T17 La «realtà corporeo-mentale»: l’unione di due forme di esperienza (p. 289)

4. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289 T18 Nessun dualismo tra fatti e valori (p. 289); T19 Le valutazioni etiche come calcolo del rapporto mezzi / fini (p. 290); T20 La relazione mezzi / fini non è unilaterale (p. 291)

5. La politica e la pedagogia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291 T21 La scuola come forma di vita di comunità (p. 292)

5. Il neoidealismo inglese

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292 1. Green . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293

T22 L’autorealizzazione non riguarda solo l’individuo (p. 294)

2. Bradley . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295 T23 Contraddizione e apparenza (p. 296) Sommario (p. 300), Parole chiave (p. 301), Questionario (p. 302)

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Unità 8

Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Parte seconda Le filosofie del Novecento

. . . . . . . . . . . . . . 367

303

1. Croce e Gentile: dal sodalizio alla rottura . . . . . . . . 304 2. Croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 1. La filosofia dello spirito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 T1 La critica della tesi hegeliana della «morte dell’arte» (p. 313); T2 La forma economica è condizione della forma etica (p. 316)

2. Lo «storicismo assoluto» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 318

Introduzione

Le filosofie del Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

371

1. La ricerca di uno statuto per la filosofia . . . . . . . . . . . 372 2. Due tradizioni? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 373 ◆ La parola al critico: La filosofia contemporanea secondo Paolo Rossi . . . . . . . . . . . 375

T3 La filosofia come metodologia della storiografia (p. 319)

3. Crisi della civiltà e crisi del sistema: il «vitale» . 322 T4 Vitalità e dialettica (p. 324)

3. Gentile

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325 1. L’attualismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325

T5 L’idealismo attuale e il divenire hegeliano (p. 327)

2. Storia, filosofia e storia della filosofia . . . . . . . . . . 329 T6 L’identità di filosofia e storia della filosofia (p. 330)

3. Una riforma pedagogica e politica . . . . . . . . . . . . . 331 Sommario (p. 333), Parole chiave (p. 334), Questionario (p. 335)

Laboratorio di lettura: Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Libertà . . . . . . . . . . . . . 341 Esercitiamoci sulla libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 344

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345

1. La rivoluzione psicoanalitica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 346 T1 Le tre umiliazioni del narcisismo umano (p. 346)

2. La natura della psicoanalisi e la scienza . . . . . . . . 349 3. L’origine della psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 350 T2 Il fatto traumatico e i sintomi dell’isteria (p. 351); T3 Rappresentazioni inconsce (p. 351); T4 Verità e invenzione nei racconti dei pazienti (p. 353)

4. Il complesso di Edipo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 353 T5 L’autoanalisi e la figura di Edipo (p. 353); T6 La psiche e la morale (p. 355); T7 I tabù come divieti morali (p. 356)

5. Il sogno e la vita quotidiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357 T8 La perdita del padre (p. 357); T9 Censura e deformazione del sogno (p. 358); T10 La dimenticanza dei nomi (p. 358)

6. La sessualità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 T11 L’opinione comune sulla sessualità infantile (p. 359); T12 Principio di piacere e principio di realtà (p. 361)

7. L’estensione dell’orizzonte: il disagio della civiltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 361 8. Gli sviluppi della psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . 362 Sommario (p. 364), Parole chiave (p. 365), Questionario (p. 366)

VI

La nuova scienza: matematica e fisica . . . . .

379

1. Perché si parla di ‘nuova scienza’ . . . . . . . . . . . . . . . . 380 2. Le premesse matematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 381 1. Le geometrie non euclidee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 382 2. Geometria e spazio fisico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 386 T1 Gli assiomi come convenzioni (p. 389)

3. Gli sviluppi dell’algebra e la nascita della logica moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 389 T2 Il calcolo booleano (p. 391)

4. Il problema del continuo e l’aritmetizzazione dell’analisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 391 T3 I numeri come creazioni (p. 392); T4 Il principio di continuità di Dedekind (p. 393)

3. Il dibattito sui fondamenti della matematica

. . . . . . 394 1. Il riduzionismo di Frege e l’antinomia di Russell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394

T5 Senso e denotazione (p. 395)

Unità 9

Freud e la psicoanalisi

Unità 10

2. Il logicismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 396 3. L’intuizionismo di Brouwer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 397 4. Il formalismo di Hilbert e i teoremi di Gödel . . . . 399

4. Le premesse fisiche

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 402 1. Dove arriva la fisica classica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 402

T6 La formula del mondo (p. 403)

2. I due principi della termodinamica . . . . . . . . . . . . . 404 3. La nascita della meccanica statistica . . . . . . . . . . . 405 T7 Entropia e probabilità (p. 407)

4. L’elettromagnetismo di Maxwell . . . . . . . . . . . . . . . . 407 T8 La teoria del campo elettromagnetico (p. 409)

5. Le rivoluzioni della fisica

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 410 1. Einstein, la figura chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 410

T9 I principi della fisica prima di Einstein (p. 410); T10 La meccanica classica come base di tutta la fisica (p. 410)

2. La relatività ristretta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 413 T11 Il paradosso da cui parte la costruzione della relatività einsteiniana (p. 413); T12 Il paradosso della relatività galileiana (p. 414); T13 Le asimmetrie nell’elettrodinamica di Maxwell (p. 415); T14 L’idea fondamentale della relatività ristretta (p. 415); T15 Il continuo quadridimensionale nella fisica classica (p. 417)

3. La relatività generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 417

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T16 La relatività del campo gravitazionale (p. 418); T17 Il principio di equivalenza e la teoria della relatività generale (p. 419)

4. I quanti di luce e la nascita della meccanica quantistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 421 T18 La discontinuità della luce (p. 423) Sommario (p. 426), Parole chiave (p. 427), Questionario (p. 428)

T5 Il baratro tra ideale e reale (p. 486); T6 La cattedra e il mondo (p. 487); T7 I sensi nell’esperienza del mondo-ambiente (p. 489); T8 Intuizione di situazioni come interpretazione (p. 490); T9 Filosofia e critica storica (p. 492)

5. Il capolavoro incompiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 492 T10 La filosofia e Dio (p. 493); T11 Il problema dell’essere e l’Esserci (p. 494); T12 L’Esserci e l’esistenza (p. 495)

Unità 11

Husserl

4. Fenomenologia e fatticità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 485

6. Essere-nel-mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 497 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 429

1. La filosofia come scienza autonoma e rigorosa . . . 430 2. Un funzionario dell’umanità in lotta per la ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 431 T1 La responsabilità del filosofo (p. 433)

3. Lo psicologismo e il suo superamento . . . . . . . . . . 434 T2 La macchina calcolatrice e le leggi ideali (p. 436); T3 Il relativismo specifico e il senso di «vero» (p. 437)

4. La dimensione dell’ideale e la fenomenologia della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 T4 La teoria fenomenologica della conoscenza (p. 438); T5 La fenomenologia pura (p. 439)

5. L’espansione e l’approfondimento del progetto fenomenologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 440 T6 Intenzionalità e coscienza (p. 441); T7 Fenomeno puro e riduzione fenomenologica (p. 443); T8 Il mondo in una considerazione trascendentale (p. 444)

6. L’indagine fenomenologica oltre il lògos . . . . . . . . 445 T9 Dalla teoria alla vita prelinguistica (p. 447); T10 L’oggetto singolo e il mondo (p. 448)

7. Il mondo della vita e il destino della ragione . . . . 449 T11 La crisi delle scienze obiettive (p. 450); T12 Il mondo della vita e l’intersoggettività (p. 452); T13 L’uomo e la ragione (p. 453) Sommario (p. 455), Parole chiave (p. 456), Questionario (p. 457)

Laboratorio di lettura: La filosofia come scienza rigorosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 458 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 467 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana Oggettivo / soggettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 469 Esercitiamoci sull’oggettivo / soggettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 474

T13 Conoscenza ed essere-nel-mondo (p. 498); T14 La totalità di mezzi (p. 500); T15 La significatività precede il linguaggio (p. 502)

7. La comprensione e l’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 502 T16 Comprendere come apertura preliminare (p. 504); T17 La comprensione dell’essere (p. 505); T18 Comprendere l’essere (p. 506); T19 L’interpretazione e l’asserzione (p. 507)

8. Chi siamo e chi possiamo essere . . . . . . . . . . . . . . 508 9. L’orizzonte del tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 510 T20 Difficoltà col tempo (p. 513); T21 La temporalità e la Cura (p. 513); T22 Storicità, destino, destino-comune (p. 515)

10. Il progetto incompiuto e la «svolta» . . . . . . . . . . . 516 11. Poesia, storia, verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 518 T23 Linguaggio e storia (p. 518); T24 Linguaggio e poesia (p. 519); T25 Verità e velatezza (p. 520); T26 Il tempio e la Terra (p. 521)

12. La tecnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 522 T27 La tecnica e il mondo (p. 523); T28 La verità dell’essere (p. 525)

13. L’ermeneutica di Gadamer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 526 T29 Situazione storica e comprensione (p. 528); T30 Il linguaggio e il senso non detto (p. 530) Sommario (p. 532), Parole chiave (p. 533), Questionario (p. 534)

Laboratorio di lettura: Una lezione di Heidegger . . . . . . . . 535 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 542

Unità 13

La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

543

1. Jaspers e la filosofia dell’esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . 544 1. Caratteri generali dell’esistenzialismo . . . . . . . . . . 544 2. Jaspers: la filosofia e la scienza . . . . . . . . . . . . . . . . 545 T1 La ricerca scientifica e il suo senso (p. 546)

3. Situazione e libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 547

Unità 12

Heidegger e l’ermeneutica

. . . . . . . . . . . . . . . . . 475

1. Storicità e metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 476 2. Un metafisico nella tempesta . . . . . . . . . . . . . . . . . 478 T1 Il pensiero (p. 480)

3. Il giovane Heidegger: fenomenologia, ontologia, vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 481 T2 Logica, teoria della conoscenza, ontologia (p. 483); T3 Il contesto «translogico»: metafisica e azione (p. 484); T4 Lo spirito vivente (p. 485)

T2 L’io di fronte alla situazione-limite (p. 547); T3 Scelta e riconoscimento dell’identità (p. 548); T4 L’angoscia di fronte alla morte e la certezza d’essere (p. 549)

4. Il naufragio e la trascendenza . . . . . . . . . . . . . . . . . 549 T5 Il naufragio della metafisica (p. 550); T6 Trascendenza e autenticità dell’essere (p. 550); T7 Azione e consapevolezza dell’essere (p. 551)

2. Sartre e l’esistenzialismo francese

. . . . . . . . . . . . . . . . 552 1. Le origini dell’esistenzialismo in Francia: Marcel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 552

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2. L’essere in-sé e l’essere per-sé . . . . . . . . . . . . . . . . . 552 T8 Il nulla come possibilità propria dell’essere (p. 553); T9 L’intenzionalità costitutiva della coscienza (p. 554)

3. La libertà e la malafede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 555 T10 L’esistenza umana come progettualità (p. 555); T11 L’uomo di fronte alle proprie responsabilità (p. 556); T12 L’angoscia e il sentimento di responsabilità (p. 557)

4. L’essere per-altri e la morale dell’impegno . . . . . . 557 T13 Vergogna e riconoscimento (p. 557); T14 Libertà umana e creazione dei valori (p. 558);

5. Merleau-Ponty . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 559 T15 Il tutto della percezione e le coscienze altrui (p. 560)

6. Mounier e il personalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 561 Sommario (p. 562), Parole chiave (p. 563), Questionario (p. 564)

Unità 14

Capitalismo e teoria della società

. . . . . . . . . . 565

1. Analisi del capitalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 566 2. Weber . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 567 1. La comprensione del mondo moderno . . . . . . . . . . 567 2. Protestantesimo e spirito del capitalismo . . . . . . . 569 T1 Il tempo è denaro (p. 570); T2 L’attività economica come scopo in se stessa (p. 571)

3. La religione e il disincantamento del mondo . . . . 572 T3 Il problema della teodicea (p. 573); T4 Il significato della razionalizzazione (p. 576); T5 La scienza moderna e il senso del mondo (p. 577)

4. La razionalità del capitalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 577 T6 Razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo (p. 578); T7 I tipi del potere legittimo (p. 579); T8 La «gabbia d’acciaio» (p. 581)

5. La filosofia dei valori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 582 T9 Grecia antica e ordinamento dei valori (p. 583); T10 La filosofia dei valori non può essere un sistema (p. 584)

6. Etica e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 584 T11 Principi e responsabilità (p. 585)

3. Il marxismo occidentale: Gramsci e Lukács

. . . . . . . 586 1. Gramsci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 587

T12 Il rifiuto dell’idealismo e del marxismo naturalistico (p. 587); T13 La realtà è un fatto storico (p. 589); T14 Superamento della filosofia della prassi (p. 590); T15 Le ideologie sono strumenti di dominio (p. 591); T16 Il rapporto tra intellettuali e gruppo sociale dominante (p. 592)

2. Lukács . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 592 T17 Le contraddizioni appartengono all’essenza della società capitalistica (p. 594); T18 La contrapposizione tra l’individuo e il suo lavoro (p. 595); T19 La coscienza di classe del proletariato tende alla verità (p. 596); T20 Il pensiero irrazionalistico è espressione della borghesia (p. 597)

4. La Scuola di Francoforte

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 598 1. Horkheimer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 599

T21 La ricerca sociale è interdisciplinare (p. 600); T22 Due

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tipi di ragione (p. 601); T23 La società industriale trasforma gli uomini in cose (p. 603)

2. Adorno e Benjamin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 603 T24 Il divertimento è rinuncia alla riflessione sulla realtà sociale (p. 604); T25 La dialettica deve far emergere le contraddizioni della realtà (p. 605); T26 La valutazione della musica è una finzione (p. 606); T27 All’unicità degli oggetti si è sostituita la loro ripetibilità (p. 607)

3. Marcuse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 608 T28 Negazione del principio di prestazione e liberazione degli istinti (p. 609) Sommario (p. 612), Parole chiave (p. 613), Questionario (p. 614)

Laboratorio di lettura: Weber, La politica come professione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 615 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 620 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Responsabilità . . . . . . 621 Esercitiamoci sulla responsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 624

Percorso tematico • Immagini critiche della scienza e della tecnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 625 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 634

Unità 15

I padri dell’empirismo: Moore, Russell, Wittgenstein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

635

1. L’empirismo e la filosofia analitica . . . . . . . . . . . . . . . . 636 2. Moore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 637 1. La difesa del senso comune . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 637 T1 L’esistenza degli oggetti esterni (p. 638); T2 Colore, forma, spazialità (p. 639)

2. L’analisi dell’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 640 T3 La chiarificazione dei problemi filosofici (p. 640); T4 La domanda fondamentale dell’etica (p. 641); T5 L’indefinibilità di «buono» (p. 641)

3. La fallacia naturalistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 642 T6 L’irriducibilità di «buono» (p. 642)

4. I criteri della condotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 643 T7 Buono come mezzo e buono in se stesso (p. 644); T8 La critica filosofica dell’edonismo (p. 644)

3. Russell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 645 1. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 646 T9 Logica delle relazioni e logica dei predicati (p. 647)

2. L’epistemologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 649 T10 Atomismo logico e senso comune (p. 650); T11 Un linguaggio logicamente perfetto (p. 650); T12 Conoscenza per esperienza e conoscenza per descrizione (p. 651); T13 Evoluzione umana e limiti dell’empirismo (p. 652)

3. L’impegno politico e la riflessione etica . . . . . . . . . 652 T14 Valutazione etica ed espressione delle emozioni (p. 653)

4. Wittgenstein

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 654

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1. Il linguaggio e il mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 654 T15 Fatti, stati di cose e oggetti (p. 655); T16 Natura delle proposizioni (p. 656); T17 La verità come concordanza con i fatti (p. 657)

2. Logica, scienza e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 658 T18 Tautologie e contraddizioni (p. 658); T19 Induzione e causalità (p. 659); T20 Natura, scopo e limite della filosofia (p. 659)

3. Le Ricerche filosofiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 661 T21 La molteplicità dei «giuochi linguistici» (p. 661); T22 La «famiglia» dei giuochi linguistici (p. 663); T23 Il carattere descrittivo della filosofia (p. 663); T24 La dissoluzione dei problemi filosofici (p. 664) Sommario (p. 666), Parole chiave (p. 667), Questionario (p. 668)

Laboratorio di lettura: Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 669 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 676

T10 Esperienza e costituzione degli oggetti (p. 729); T11 Controllo e conferma degli enunciati (p. 731)

4. Reichenbach e Neurath . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 732 T12 L’utilità dell’induzione (p. 733); T13 Scienza e filosofia (p. 734); T14 Proposizioni e coerenza del sistema (p. 735)

3. Gli sviluppi dell’empirismo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 736 1. Popper e il falsificazionismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 736

T15 L’elemento creativo dell’attività scientifica (p. 737); T16 Scientificità e confutabilità (p. 738); T17 Gli incerti fondamenti della scienza (p. 739); T18 Teorie scientifiche, confutabilità, realtà oggettiva (p. 740)

2. Quine e i due dogmi dell’empirismo . . . . . . . . . . . . 740 T19 I «due dogmi» dell’empirismo moderno (p. 741); T20 Critica della nozione di «analiticità» (p. 741); T21 Il «campo di forza» della scienza e le sue dinamiche (p. 742); T22 La sottodeterminazione empirica del riferimento (p. 743); T23 L’epistemologia come parte della psicologia sperimentale (p. 744)

3. Putnam e il realismo interno . . . . . . . . . . . . . . . . . . 745 T24 Prospettiva «esternista» e prospettiva «internista» (p. 745)

Percorso tematico • La natura del linguaggio

. . . . . . . . 677 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 689

Sommario (p. 748), Parole chiave (p. 749), Questionario (p. 750)

Percorso tematico • Mente, cervello, macchina

. . . . . . 751

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 764

Parte terza Verso la filosofia contemporanea

. . . 691

Unità 17

Dallo strutturalismo al decostruzionismo

Introduzione

Il dibattito filosofico contemporaneo

. . . . . . 695

1. Gli sviluppi della filosofia contemporanea . . . . . . . 696 2. Analitici e continentali: una distinzione legittima? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 698 3. La filosofia morale e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 699

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 765

1. Genesi e diffusione dello strutturalismo

. . . . . . . . . . 766 1. De Saussure e il Circolo di Praga: la rivoluzione strutturalista in campo linguistico . . . . . . . . . . . . . . 766 2. Lévi-Strauss: la diffusione dello strutturalismo nelle scienze umane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 767

T1 Il pensiero senza soggetto (p. 769)

Percorso tematico • Che cos’è la filosofia?

. . . . . . . . . . 703

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 716

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 770 1. Archeologia del sapere e morte dell’uomo . . . . . . 772

T2 L’«archeologia» e le condizioni di possibilità della conoscenza (p. 773)

Unità 16

Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

2. Foucault

2. Genealogia del potere, «assoggettamento» e «soggettivazione» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 775 . . . . . . . . . . . . . . 717

1. L’empirismo e la scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 718 2. L’empirismo logico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 719 1. Il Circolo di Vienna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 720 T1 La genesi del ‘manifesto’ (p. 720); T2 La natura delle asserzioni metafisiche (p. 721); T3 Gli errori della metafisica tradizionale (p. 722); T4 La negazione dei giudizi sintetici a priori (p. 723); T5 Il principio di verificazione (p. 724)

2. Schlick e la svolta della filosofia . . . . . . . . . . . . . . . 725 T6 La natura del giudizio (p. 725); T7 La metafisica come insieme di pseudo-problemi (p. 726); T8 La filosofia «regina delle scienze» (p. 727); T9 L’etica come scienza dei fatti della coscienza (p. 728)

3. Carnap e la costruzione logica del mondo . . . . . . . 729

3. Derrida e il decostruzionismo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 777 1. Il primato della scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 779 2. Decostruzione e «differance» . . . . . . . . . . . . . . . . . . 781 3. Decostruzione etico-politica e «democrazia a venire» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 783

T3 Fraternità, amicizia e «democrazia a venire» (p. 784) Sommario (p. 786), Parole chiave (p. 787), Questionario (p. 788)

Unità 18

La filosofia della scienza

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 789

1. Scienza e filosofia della scienza . . . . . . . . . . . . . . . . 790 2. Il metodo scientifico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 793 T1 L’asserzione scientifica (p. 803); T2 L’asimmetria tra ve-

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rificabilità e falsificabilità (p. 803); T3 Storia e filosofia della scienza (p. 809); T4 L’osservazione non è neutrale (p. 810)

3. La questione del realismo scientifico . . . . . . . . . . . 813 T5 L’empirismo costruttivo (p. 814)

quilibrio riflessivo (p. 841); T19 Intesa intersoggettiva e soluzione dei conflitti (p. 843)

3. Le teorie dei diritti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 844 T20 Lo Stato minimo (p. 845)

Sommario (p. 816), Parole chiave (p. 817), Questionario (p. 818)

3. La bioetica

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 846 1. Etica applicata e bioetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 846

T21 Etica tradizionale e filosofia applicata (p. 847)

Unità 19 . . . . . . . . . . 819

2. Etica della disponibilità e della non-disponibilità della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 847

. . . . . . . . . . . . . 820 1. L’intuizionismo di Ross . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 820

3. I problemi della bioetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 850

Etica, filosofia politica e bioetica 1. La discussione sulla natura dell’etica

T1 Intuizione della verità morale (p. 821); T2 Doveri prima facie e doveri effettivi (p. 822); T3 Un atto è giusto in virtù della sua stessa natura (p. 823); T4 Importanza morale delle relazioni personali (p. 824)

2. L’emotivismo di Ayer e Stevenson . . . . . . . . . . . . . . 824 T5 I giudizi morali non asseriscono fatti (p. 826); T6 Sentimenti e attitudini (p. 827); T7 Disaccordo tra credenze e disaccordo tra attitudini (p. 828)

3. Il prescrittivismo di Hare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 829 T8 I giudizi morali non hanno una funzione persuasiva (p. 830); T9 Regole del ragionamento morale (p. 831); T10 L’uguale peso delle preferenze uguali (p. 832)

T22 La ragione creatrice e l’uomo (p. 848) T23 Tutela nelle fasi dello sviluppo embrionale (p. 851); T24 Questione di principio e questione di prudenza (p. 854); T25 Illiceità dell’eutanasia (p. 856)

4. Gli animali e la natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 857 T26 Principio dell’eguale considerazione degli interessi (p. 858); T27 La comunità morale è la terra (p. 859) Sommario (p. 862), Parole chiave (p. 863), Questionario (p. 864)

Tesi a confronto Osservare e valutare: dobbiamo continuare a distinguere questi due tipi di giudizi nell’uso linguistico? . . . . . . . 865 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 868

4. Il naturalismo di Foot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 833 T11 Bontà e difetto dipendono dalla forma di vita della specie (p. 833); T12 Il difetto morale è una forma di difetto naturale (p. 834)

2. La filosofia politica

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 835 1. Arendt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 835

T13 L’azione è una seconda nascita (p. 836)

2. Le teorie della giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 837 T14 La giustizia sociale (p. 837); T15 I beni primari (p. 838); T16 I principi di giustizia sono frutto di un accordo (p. 840); T17 L’ignoranza garantisce l’imparzialità (p. 840); T18 L’e-

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Percorso tematico • Utilitarismo e oltre

. . . . . . . . . . . . . 869

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 880

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Relativo . . . . . . . . . . . . 881 Esercitiamoci sul relativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 884

Scenari presenti e futuri a cura di Remo Bodei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 885

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Indice delle opere antologizzate L’indice fa riferimento ai testi presenti nelle Unità e nei «Percorsi tematici»

ADORNO T.W. Dialettica negativa: 605; Il carattere di feticcio della musica e la sua regressione nell’ascolto: 606 ARENDT H. Vita activa: 836 AYER A.J. Linguaggio, verità e logica: 826 BAUER B. La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum: 18 BENJAMIN W. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: 607 BERGSON H. Introduzione alla metafisica: 261; Le due fonti della morale e della religione: 264; Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903: 256; Saggio sui dati immediati della coscienza: 257, 259 BOOLE G. Indagine sulle leggi del pensiero: 391 BRADLEY F.H. Apparenza e realtà: 296 BREUER J. - FREUD S. Studi sull’isteria: 351 CARNAP R. Autobiografia intellettuale: 729; Controllabilità e significato: 731; Sintassi logica del linguaggio: 709 CASSIRER E. Filosofia delle forme simboliche: 244; Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettivo: 681 COMTE A. Corso di filosofia positiva: 92, 94, 95, 97, 98; Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società: 92, 93; Sistema di politica positiva: 99 CROCE B. Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: 313; Hegel e l’origine della dialettica: 324; La filosofia della pratica: 316; Teoria e storia della storiografia: 319 DARWIN C. L’origine delle specie: 111; L’origine dell’uomo e la selezione sessuale: 112, 113 DEDEKIND R. Che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i numeri?: 392; Continuità e numeri irrazionali: 393 DE MARCO J.P. - FOX R.M. Nuove direzioni in etica: 847 DENNETT Pensiero veloce: 759, 760 DERRIDA J. Le politiche dell’amicizia: 784 DEWEY J. Come pensiamo: 286; Esperienza e natura: 285, 289; Il mio credo pedagogico: 292; Logica: teoria dell’indagine: 287; Necessità di un risana-

mento della filosofia: 284; Teoria della valutazione: 289, 290, 291 DILTHEY W. Introduzione alle scienze dello spirito: 250; L’essenza della filosofia: 705, 706 DUMMETT M. La natura e il futuro della filosofia: 715 EINSTEIN A. Autobiografia scientifica: 410, 413, 414, 415, 417; Concetti fondamentali e metodi della teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo: 418; Fondamenti della fisica teorica: 419; L’elettrodinamica dei corpi in movimento: 415; Scienza e società: 632; Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce: 423 FEUERBACH L. Feuerbach e Hegel: 23; L’essenza del Cristianesimo: 27, 29, 228; Principi della filosofia dell’avvenire: 24, 25, 30, 31, 32 FOOT P. La natura del bene: 833, 834 FOUCAULT M. Le parole e le cose (Intervista con Raymond Bellour): 773 FRAASSEN B.C. VAN L’immagine scientifica: 814 FRANK P. La scienza moderna e la sua filosofia: 720 FREGE G. I fondamenti dell’aritmetica: 395 FREUD S. Il disagio della civiltà: 628; Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni: 361; L’avvenire di un’illusione: 628; Lettere a Wilhelm Fliess: 353; L’interpretazione dei sogni: 357, 358; L’Io e L’Es: 355; Psicopatologia della vita quotidiana: 358; Studi sull’isteria: 351; Totem e tabù: 356; Tre saggi sulla teoria sessuale: 359; Una difficoltà della psicoanalisi: 346 GADAMER H.-G. Uomo e linguaggio: 686; Verità e metodo: 528, 530 GENTILE G. Il circolo della filosofia e della storia della filosofia: 330; La riforma della dialettica hegeliana: 327 GIOVANNI PAOLO II Veritatis splendor: 848 GRAMSCI A. Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura: 592; Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce: 589, 590, 591 GREEN TH.H. Etica: 294 HABERMAS J. Etica del discorso: 843

HAHN H. - NEURATH O. - CARNAP R. La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna: 721, 722, 723 HANSON N.R. I modelli della scoperta scientifica: 810 HARE R.M. Come decidere razionalmente le questioni morali: 832; Il linguaggio della morale: 830; Libertà e ragione: 831, 876 HEIDEGGER M. Dell’essenza della verità: 520; Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone: 506; Essere e tempo: 494, 495, 498, 500, 505, 507, 513, 515; Hölderlin e l’essenza della poesia: 518, 519; Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica: 493; I problemi fondamentali della fenomenologia: 711; La dottrina del giudizio nello psicologismo: 483; La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto: 484, 485; Lettera sull’«umanismo»: 525; Logica. Il problema della verità: 486, 504, 513, 684; L’origine dell’opera d’arte: 521; Ontologia. Ermeneutica della fatticità: 492; Ormai solo un Dio ci può salvare. (Intervista con lo «Spiegel»): 480; Perché i poeti?: 523, 686; Per la determinazione della filosofia: 487, 489; Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20): 490; Prolegomeni alla storia del concetto di tempo: 502 HORKHEIMER M. Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale: 601, 633; L’Istituto per la ricerca sociale e la sua rivista: 600 HORKEIHMER M. - ADORNO T.W. Dialettica dell’illuminismo: 603, 604 HUSSERL E. Esperienza e giudizio: 448; Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica: 441; Kant e l’idea della filosofia trascendentale: 444; La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: 433, 450, 452, 453, 630; Lezioni sulla sintesi passiva: 447; L’idea della fenomenologia: 443; Ricerche logiche: 436, 437; Ricerche logiche. Ricerche sulla fenomenologia e sulla teoria della conoscenza: 438, 439 JAMES W. Il filosofo morale e la vita morale: 281; Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare: 278;

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Indice delle opere antologizzate

La volontà di credere e altri saggi: 280; Principi di psicologia: 282; Saggi sull’empirismo radicale: 282 JASPERS K. Filosofia: 546, 547, 548, 549, 550, 551; La situazione spirituale del nostro tempo: 629 KIERKEGAARD S. L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità: 63, 64, 65; Timore e tremore: 66, 67 KUHN T.S. La struttura delle rivoluzioni scientifiche: 809 LABRIOLA A. La concezione materialistica della storia: 587 LAPLACE P.-S. Saggio filosofico sulle probabilità: 403 LECALDANO E. Bioetica. Le scelte morali: 851 LEOPOLD A. L’almanacco di Sand County e appunti qua e là: 859 LÉVI-STRAUSS C. Il cotto e il crudo: 769 LUCAS LUCAS R. Bioetica per tutti: 856 LUKÁCS G. La distruzione della ragione: 597; Storia e coscienza di classe: 594, 595, 596 MARCUSE H. Eros e civiltà: 609 MARX K. Il capitale: 152, 153, 154; La questione ebraica: 133, 134, 135; Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica: 161; Manoscritti economico-filosofici: 139, 140, 141, 142, 143, 144; Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: 135, 137, 231; Per la critica dell’economia politica: 148, 150 MARX K. - ENGELS F. Il manifesto del partito comunista: 158, 160; L’ideologia tedesca: 146, 147, 148, 150, 151 MAXWELL J.C. Gli articoli scientifici di James Clerk Maxwell: 409 MERLEAU-PONTY M. Fenomenologia della percezione: 560 MILL J.S. La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne: 106, 107, 108, 109, 870, 871; Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica: 108; Sistema di logica deduttiva e induttiva: 101, 102, 103, 104, 105

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MOORE G.E. Etica: 644, 873; La prova dell’esistenza del mondo esterno: 638; Natura e realtà degli oggetti della percezione: 639; Principia Ethica: 640, 641, 642, 644, 873 NAGEL TH. Che effetto fa essere un pipistrello?: 761, 762, 763 NEURATH O. Fisicalismo: 734; Proposizioni protocollari: 735 NIETZSCHE F. Al di là del bene e del male: 197, 208; Così parlò Zarathustra: 199; Genealogia della morale: 192, 200, 202, 204, 205, 206, 207; Il crepuscolo degli idoli: 195; La gaia scienza: 181, 208, 232, 233; La nascita della tragedia: 185, 187; Lettera a Theodor Fritsch del 29 marzo 1887: 181; Sull’utilità e il danno della storia per la vita: 184, 189, 190; Umano, troppo umano: 193, 194, 198 NOZICK R. Anarchia, stato e utopia: 845 PEIRCE CH.S. Come rendere chiare le nostre idee: 272, 273; Il fissarsi della credenza: 272, 274; Scienza e pragmatismo: 275, 276 POINCARÉ J.-H. La scienza e l’ipotesi: 389 POPPER K. La logica della scoperta scientifica: 737, 739, 803; Problemi, scopi e responsabilità della scienza: 738; Tre punti di vista sulla conoscenza umana: 740 PUTNAM H. Due prospettive filosofiche: 745 QUINE W.V.O. Due dogmi dell’empirismo: 741, 742; Epistemologia naturalizzata: 744; Parola e oggetto: 743 RATZINGER J. Presentazione a Veritatis splendor: 848 RAWLS J. Due concetti di regola: 875; Una teoria della giustizia: 837, 838, 840, 841, 878 REICHENBACH H. L’empirismo logico in Germania e lo stato attuale dei suoi problemi: 733 ROSS W.D. Il giusto e il bene: 821, 822, 823, 824, 874 RUGE A. I nostri ultimi dieci anni: 21

RUSSELL Icaro o il futuro della scienza: 627; I problemi della filosofia: 651; La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti: 652; La filosofia dell’atomismo logico: 650; La nostra conoscenza del mondo esterno: 647; Religione e scienza: 653 SAINT-SIMON C.-H. DE Memoria sulla scienza dell’uomo: 90 SARTRE J.P. L’esistenzialismo è un umanismo: 555, 557, 558; L’essere e il nulla: 553, 554, 556, 557 SCARPELLI U. Bioetica laica: 854 SCHLICK M. La svolta della filosofia: 726, 727; Problemi di etica: 728; Significato e verificazione: 724; Teoria generale della conoscenza: 725 SCHOPENHAUER A. Il mondo come volontà e rappresentazione: 43, 44, 46, 47, 48, 50, 51, 53, 57; La libertà del volere umano: 54 SEARLE J. Menti, cervelli e programmi: 757 SEN A.K. Lo sviluppo è libertà: 879 SIDGWICK H. I metodi dell’etica: 872 SINGER P. Liberazione animale: 858 SPENCER H. I primi principi: 114, 115, 117; Principi di sociologia: 118 STEVENSON C.L. Etica e linguaggio: 827, 828 STIRNER M. L’Unico e la sua proprietà: 33 TURING A.M. Calcolatori e intelligenza: 754 WEBER M. Economia e società: 578, 579; Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche: 584; La politica come professione: 573, 585; La scienza come professione: 235, 576, 583; L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: 570, 571, 581; Sociologia della religione: 577 WINDELBAND W. Preludi: 241, 245 WITTGENSTEIN L. Libro blu: 753; Ricerche filosofiche: 661, 663, 664, 682; Tractatus logico-philosophicus: 655, 656, 657, 658, 659, 678, 706

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

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Cambridge Harvard University

Princeton Princeton University

New Haven

Yale University

New York Columbia University

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Marburgo Heidelberg Tubinga Cambridge Oxford Copenaghen Friburgo Danzica Parigi Berlino Basilea Gottinga Torino Bologna Montpellier Firenze Roma Napoli

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Introduzione La filosofia dell’Ottocento Unità 1 Con Hegel, contro Hegel Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Laboratorio sul lessico Bello / brutto Unità 3 Il positivismo Unità 4 Marx Unità 5 Nietzsche Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile Laboratorio sul lessico Libertà Unità 9 Freud e la psicoanalisi

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Introduzione La filosofia dell’Ottocento

1. La società e la storia come «seconda natura» 2. La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze

♦ La parola al critico: Löwith legge la crisi dello hegelismo

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

1 Settecento e natura umana

Ottocento: società e storia, la seconda natura

La graduale affermazione della storicità

La centralità di Hegel

Il positivismo e la sociologia

La psicologia come scienza sperimentale e la rivoluzione della psicoanalisi La novità della teoria di Darwin

6

La società e la storia come «seconda natura» Se la filosofia del Settecento è stata una filosofia della natura umana, ivi inclusa l’analisi della razionalità che trova il suo coronamento nella rivoluzione kantiana, si potrebbe dire che, a partire da Hegel, la filosofia dell’Ottocento è in gran parte una filosofia della «seconda natura» nel significato hegeliano della dimensione sociale e storica della vita umana e dello «spirito». Dopo i grandi sistemi metafisici del Seicento che, da Cartesio a Leibniz, vedevano in Dio il grande garante delle capacità della mente dell’uomo, l’età dei Lumi aveva messo al centro dell’orizzonte la natura umana. Con Hegel interviene in modo decisivo una considerazione dell’uomo che lo vede incluso in un orizzonte più ampio della sua individualità. L’uomo viene inserito in un tessuto che diventa indispensabile per l’indagine filosofica e politica e per capire l’uomo stesso: la società, con i suoi rapporti economici e sociali e con le sue istituzioni, e la storia. Questa è ora la «seconda natura» con la quale ci si deve confrontare. Anche se è ingiusto vedere nel Settecento un’età in cui la riflessione si accontenta di categorie astratte e «astoriche» – basta pensare al Voltaire storico, a Montesquieu o all’eccezionale e antimoderna riflessione di Giambattista Vico – non v’è dubbio che gli anni a cavallo tra fine del XVIII secolo e inizio del XIX vedono il presentarsi della storicità come nuova forma di considerazione della vita degli uomini e dei contesti sociali e istituzionali in cui essi agiscono. In questa prospettiva emergente, il ruolo svolto da Hegel è certamente fondamentale per gran parte del secolo, sia per coloro che in qualche forma a lui si ispirano, anche criticamente, sia per quelli che vedono in Hegel, e nello hegelismo, il principale avversario. Sul fronte opposto all’idealismo, una stessa «seconda natura» (cioè l’importanza della società e della storia) è al centro della riflessione del pensiero positivistico, la cui passione per la scienza e per il progresso del sapere è strettamente legata alla promozione del benessere e del progresso sociale, come dimostrano Auguste Comte (1798-1857) o Herbert Spencer (1820-1903). È infatti caratteristica dell’atteggiamento positivistico l’idea di un avanzamento progressivo del sapere e delle capacità tecniche che investa direttamente le condizioni di vita dell’uomo. È in questo contesto, non a caso, che nasce la «sociologia» come studio scientifico dei fenomeni sociali che troverà un grande sviluppo nel secolo successivo (vedi Unità 3, p. 96). Alla fine del secolo una sorte analoga toccherà alla psicologia, che si distaccherà dalla filosofia per costituirsi come scienza sperimentale autonoma, collegata alle ricerche di neurologia e di fisiologia: da questo ambiente, poi, prenderà le mosse anche la rivoluzione di Sigmund Freud (1856-1939), che pure in breve tempo assumerà una configurazione originale, allargando incredibilmente i confini dell’indagine sulla psiche con lo studio dei fenomeni inconsci (vedi Unità 9, p. 347). Ma non si può tacere dell’altro grande aspetto che rivela la nuova importanza della storia. Intorno alla metà dell’Ottocento (1859) viene infatti pubblicato uno dei libri più importanti e più significativi del secolo, L’origine delle specie di Charles Darwin (1809-1882): le tesi evoluzionistiche corrispondono a un mutamento di mentalità e di prospettiva che arriva fin nel senso comune, scuote l’orgoglio dell’uomo rispetto al mondo animale e torna a preoccupare i difensori della verosimiglianza del racconto biblico già tante volte messo in discussione dalla tradi-

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Introduzione La filosofia dell’Ottocento

L’avvento della società capitalistica, le sue crisi e la riflessione di Marx

La richiesta di uguaglianza della società di massa e la reazione antiegualitaria di Nietzsche

2 Il sistema hegeliano come ultimo sistema metafisico

La critica a Hegel e la scissione tra pensiero e realtà

La controversia tra gli hegeliani

zione filosofica e scientifica. Questa volta, le tesi evoluzionistiche sembrano scuotere le fondamenta della teologia cristiana, mettendo chiaramente in dubbio la stessa ipotesi della creazione. La storia, il grande tema del secolo, investe così l’ambito stesso della natura, e il formarsi di una seconda natura si interseca con le vicende della prima. L’ingresso prepotente dei temi storici e sociali nella riflessione teorica corrisponde del resto a mutamenti profondi della società: l’Ottocento ai suoi inizi vede la nascita dell’industria capitalistica moderna e si conclude con un capitalismo ormai affermato in gran parte del mondo occidentale e con i primi segni di crisi economiche e sociali che periodicamente lo attraverseranno, ma alle quali saprà sempre reagire. È il mondo così acutamente descritto da Karl Marx (18181883), la cui profondità di analisi non è stata messa in discussione nemmeno dai più decisi critici. Si affaccia così sulla scena pubblica il proletariato, con le forme organizzative e politiche che vedono nelle riflessioni di Marx il proprio strumento teorico principale (vedi Unità 4, p. 137). La dimensione sociale e collettiva della vita – anch’essa «seconda natura» – assume un ruolo preponderante e impone a tutti una nuova riflessione, magari spingendo a rivendicare i diritti dell’individuo che vive una propria peculiare crisi di fronte all’importanza delle «masse» e alla crescente richiesta di un’uguaglianza non solo giuridica, ma che coinvolga gli aspetti concreti della vita, dei bisogni e del lavoro, come richiedono i movimenti socialisti. Un esempio alto di questa reazione individualistica è il pensiero di Friedrich Nietzsche (18441900), che da questo punto di vista esprime allo stesso tempo la percezione della crisi del ruolo degli individui e il tentativo di opporre agli ideali di uguaglianza una prospettiva antiegualitaria (vedi Unità 5, p. 201).

La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze Hegel come punto di partenza, quindi. Ma Hegel è anche un punto di arrivo, perché rappresenta l’ultimo grande sistema metafisico, l’ultimo enorme tentativo di condensare in una costruzione filosofica la realtà e la sua storia: in ciò sta del resto la sua grandezza e, per i critici già del suo tempo, il suo limite. Se la storicità segna di sé gran parte della filosofia dell’Ottocento, non si può dire lo stesso di questo secondo aspetto della filosofia hegeliana: sembra che il tempo dei grandi sistemi della filosofia sia passato, e viene addirittura messo in discussione lo statuto della filosofia. Lo si vede in filosofi significativi del XIX secolo, profondamente in debito verso Hegel ma al tempo stesso radicalmente critici, come Marx o Søren Kierkegaard (1813-1855) o, alla fine del secolo, lo stesso Nietzsche. Dopo che Hegel aveva cercato di presentare l’avvenuta «conciliazione» di pensiero e realtà, i decenni successivi mostreranno con forza che la conciliazione è un equivoco del pensiero, e metteranno il dito sulle piaghe di nuove fratture e tensioni della società, della politica, della religione. Il dibattito pro e contro Hegel animerà la riflessione su questi temi anche tra coloro che, in maniera diversa e spesso su fronti teorici opposti, si dichiareranno comunque suoi discepoli o prosecutori. Ma la palma dell’originalità filosofica va comunque riconosciuta a coloro che fecero della riflessione sullo hegelismo il fattore determinante di un pensiero critico e spesso rivoluzionario 7

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Il rapporto tra filosofia e università

Il positivismo e la metodologia delle scienze sociali

Il ritorno a Kant e l’autonomia delle scienze dello spirito

Bergson e i limiti della scienza

come Ludwig Feuerbach (1804-1872), Bruno Bauer (1809-1882), Arnold Ruge (1802-1880) e Max Stirner (1806-1856). La filosofia del XIX secolo ha come punto di riferimento le università: molti dei filosofi significativi sono docenti universitari, anche se l’immagine della filosofia accademica funziona in parte come riferimento polemico, come dimostrano Arthur Schopenhauer (1788-1860), che tuona contro di essa, Kierkegaard o ancora Nietzsche, brillante docente di filologia che finisce per abbandonare la propria cattedra e il cui primo scritto significativo – La nascita della tragedia (1872) – costituisce quanto di più lontano da un esercizio di filologia accademica si possa immaginare. Il grande sviluppo delle scienze naturali, insieme con il maturare della storiografia e della riflessione sulla storia, pone ai filosofi dell’Ottocento il problema dei rapporti tra le diverse discipline. In questa prospettiva, il positivismo cerca di trasferire sul piano delle scienze sociali – anche in nome della loro «scientificità» – il modello metodologico delle scienze naturali, considerate come un ideale da perseguire in tutti i campi del sapere (vedi Unità 3, p. 88). Ma si battono anche altre strade. Nell’ambito di un rinnovato interesse per la filosofia di Kant, che comincia a manifestarsi nella seconda metà del secolo e che in polemica con la metafisica idealistica torna a considerare essenziale per la filosofia la teoria della conoscenza, matura una riflessione metodologica che intende sottolineare la diversa natura delle discipline storico-sociali rispetto alle scienze naturali, e utilizza a questo fine la filosofia kantiana. Nasce così, con Wilhelm Dilthey (1833-1911) (vedi Unità 6, p. 249), la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, che intende difendere l’autonomia della ricerca sul mondo umano da quella che riguarda le scienze esatte e il mondo naturale. Una stessa esigenza antipositivistica, mirante in questo caso a sottolineare l’importanza della scienza ma anche i suoi limiti, è presente nell’indagine di Henri Bergson (1859-1941) sul tempo e sulla coscienza, polemica verso l’immagine del tempo consegnata dalla fisica moderna (vedi Unità 6, p. 256).

Suggerimenti bibliografici Per la filosofia dell’Ottocento, oltre al libro di K. Löwith da cui è tratto il brano riportato alle pagine seguenti, vedi P. Rossi - C.A. Viano (a cura di), Storia della filosofia, vol. 5. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1997; per una particolare lettura, in chiave marxista, della filosofia da Schelling all’inizio del XX secolo, vista come «irrazionalismo», vedi G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.

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Introduzione La filosofia dell’Ottocento

La parola al critico Löwith legge la crisi dello hegelismo Nel brano che segue, il filosofo e storico della filosofia Karl Löwith (18971973) – allievo di Martin Heidegger (1889-1976) ma poi costretto all’emigrazione durante il nazismo perché di origine ebraica – traccia il fallimento del tentativo hegeliano di conciliare ragione e realtà vedendo nei filosofi successivi a Hegel, e in particolare in Marx e Kierkegaard, le espressioni filosofiche della «frattura del pensiero» che Hegel aveva cercato di comporre in unità. Hegel ritiene di aver mostrato la conciliazione tra filosofia e politica e tra filosofia e religione, mentre in Marx e in Kierkegaard si trovano le espressioni del rifiuto delle pretese hegeliane, per il primo sul piano socialepolitico, per il secondo sul piano esistenziale-religioso.

La dissoluzione dello hegelismo da K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del pensiero nel secolo XIX

L’atteggiamento critico di Marx e Kierkegaard

La concezione hegeliana della realtà dello Stato e il suo rapporto con la Logica

La conciliazione di ideale e reale

La Filosofia del diritto di Hegel, apparsa contemporaneamente al primo corso sulla filosofia della religione, è la realizzazione concreta della tendenza di principio a conciliare la filosofia con la realtà in genere: come filosofia dello Stato con la realtà politica; come filosofia della religione con quella cristiana. In entrambi i campi non soltanto Hegel si concilia con la realtà, ma vi combacia addirittura, per quanto solo nel «comprendere». A questo punto culminante della sua attività, egli ha compreso il mondo reale come «conforme» allo Spirito e, d’altra parte, lo Stato prussiano-protestante si è impadronito della filosofia nella persona di Hegel. Nella prefazione alla Filosofia del diritto, Hegel spiega in modo chiaramente polemico «la posizione della filosofia di fronte alla realtà». Qui sta il punto problematico, cui si sono attaccati Marx e Kierkegaard con la loro tesi, secondo cui la filosofia dev’essere realizzata. La teoria filosofica diventò in Marx «il cervello del proletariato» e in Kierkegaard il pensiero puro divenne il «pensatore esistente», poiché la realtà effettuale non sembrò loro né razionale né cristiana. La filosofia dello Stato di Hegel si volge contro l’opinione che nella realtà non si sia ancora mai visto uno Stato razionale, e che il vero Stato sia un semplice «ideale» e un «postulato». La vera filosofia in quanto «approfondimento del razionale» è per ciò stesso anche la comprensione dell’«attuale e del reale»: non già un postulare qualcosa di trascendente, uno Stato ideale, che debba soltanto essere, ma non esista mai. Egli intendeva lo Stato prussiano del 1821 come una realtà nel senso definito dalla Logica, cioè come un’unità divenuta immediata di essenza interna e di esistenza esterna, come una realtà nel senso «enfatico» della parola. In questa «maturità della realtà» ormai raggiunta – matura quindi anche per tramontare

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Contingenza e realtà

Le critiche a Hegel

La verità del cristianesimo in Hegel: conciliazione di umano e divino

Analogie tra Marx e Kierkegaard

In Hegel conformità tra Stato e religione

Il rifiuto della «religione del cuore»

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– il pensiero non si oppone più criticamente alla realtà, ma le si trova «di fronte» conciliato, come l’ideale al reale. La ragione cosciente di sé – cioè la filosofia dello Stato – e la ragione in quanto realtà sussistente – cioè in quanto Stato reale – sono unite l’una con l’altra, e «nella profondità» dello spirito sostanziale del tempo sono la stessa cosa. Quanto per altro sta «tra» la ragione come spirito autocosciente e la realtà sussistente, quanto cioè separa ancora quella da questa e contrasta alla conciliazione, è spiegato da Hegel, tanto apoditticamente quanto indeterminatamente, come «la catena di qualche astrazione che non si è ancora liberata nel concetto». La sua chiarificazione del concetto di realtà razionale supera questo hiatus irrationalis attraverso la distinzione tra «apparenza» ed «essenza», «corteccia variopinta» e «polso interiore», casuale esistenza esterna e necessaria realtà intima. L’esclusione hegeliana dell’esistenza «casuale» e solo passeggera dal campo di interesse della filosofia, quale conoscenza della realtà, si volse tuttavia contro lui stesso, nel rimprovero mossogli di un «accomodamento» proprio alla realtà transeunte. Questo adattarsi alla realtà effettuale viene mascherato nell’intendimento hegeliano di quel «che è», per la circostanza che quel «che è» comprende tanto ciò che soltanto sussiste quanto anche ciò che è veramente reale. […] La verità filosofica del cristianesimo consisteva per Hegel nel fatto che Cristo ha conciliato la scissione dell’umano e del divino. Questa riconciliazione può realizzarsi per l’uomo solo in quanto s’è già avverata in sé nella persona di Cristo; essa deve però essere prodotta attraverso di noi e per noi stessi per diventare in sé e per sé la verità che è. Questa unità della natura divina ed umana in genere, confermata per Hegel dall’umanizzarsi di Dio, fu nuovamente dissolta tanto da Marx quanto da Kierkegaard. Il deciso ateismo di Marx e la sua fede assoluta nell’uomo come tale sono, quindi, per quanto concerne i principi, più distanti da Hegel che da Kierkegaard, la cui fede paradossale ha come presupposto la differenza tra Dio e l’uomo. Per Marx, il cristianesimo è un «mondo falso»; per Kierkegaard, uno stare lontano dal mondo «dinanzi» a Dio; per Hegel, un essere nella verità, sulla base dell’umanizzarsi di Dio. Una natura divina e umana «in uno solo» è sì un’espressione dura e scabrosa, ma solo in quanto la si intenda rappresentativamente e non la si comprenda spiritualmente. Nella «prodigiosa connessione» «uomo-dio» si presenta all’uomo come una certezza il fatto che la debolezza finita della natura umana non è inconciliabile con tale unità. […] Poiché Dio comprende ontologicamente, partendo dallo Spirito come Assoluto, tanto lo Stato quanto il cristianesimo, anche religione e Stato sono conformi l’una all’altro. Egli discute il loro rapporto badando alla loro differenza e mirando alla loro unità. L’unità sta nel contenuto, la differenza nella forma diversa di un medesimo contenuto. Poiché la natura dello Stato è una «volontà divina in quanto presente», uno spirito sviluppantesi nell’organizzazione reale di un mondo, e poiché, d’altro canto, la religione cristiana non ha altro contenuto che l’assoluta verità dello Spirito, Stato e religione possono e debbono ritrovarsi sul terreno dello spirito cristiano, pur separandosi in Chiesa e Stato nella formazione del medesimo contenuto. Una religione puramente del «cuore» e dell’«interiorità», che sia «polemica» nei confronti delle leggi e delle istituzioni dello Stato e della ragione

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Introduzione La filosofia dell’Ottocento

Accordo essenziale tra Stato e religione

Hegel come ultimo filosofo cristiano

Le critiche atee della sinistra hegeliana: Feuerbach e Ruge

La critica religiosa di Kierkegaard

Diversità di ambiti tra filosofia e cristianesimo

pensante, oppure che subisca solo passivamente la mondanità dello Stato, non testimonia la forza, ma la debolezza della certezza religiosa. «La vera fede è serena, priva di riguardi e di rapporti con la ragione, sia o no questa ragione in accordo con essa; la fede polemica vuole invece credere contro la ragione». Quest’ultima fede è propria della «nostra epoca», e ci si potrebbe domandare se sorga da un «vero bisogno» oppure da una «vanità insoddisfatta». La vera religione non ha nessuna tendenza negativa verso lo Stato esistente, ma lo riconosce e lo conferma, così come d’altro canto lo Stato riconosce il «controllo ecclesiastico». Ciò che al concetto di fede estremamente polemico di Kierkegaard sembrava un condannabile compromesso, era per Hegel un accordo essenziale. […] Mentre Hegel concepisce assolutamente, e insieme storicamente, il cristianesimo in connessione con il mondo e con lo Stato, egli è l’ultimo filosofo cristiano, prima della rottura tra filosofia e cristianesimo. Questa rottura è stata constatata e condotta a termine in due sensi opposti da Feuerbach e da Kierkegaard. Secondo Feuerbach, una mediazione tra la dogmatica cristiana e la filosofia dev’essere negata nell’interesse tanto della filosofia quanto della religione. Se, infatti, si prende il cristianesimo nella sua realtà determinata storicamente, e non lo si guarda come «idea» indeterminata, ogni filosofia è allora necessariamente irreligiosa, poiché essa indaga il mondo con la ragione e nega il miracolo. Nello stesso spirito, anche Ruge ha sostenuto che ogni filosofia, a partire da Aristotele, è «atea», poiché indaga e comprende la natura e l’uomo in generale. D’altro canto, neppure il cristianesimo può voler essere semplicemente un momento nella storia del mondo ed un puro fenomeno umano. «Filosofia e cristianesimo non potranno mai venire unificati»: così comincia un appunto del diario di Kierkegaard. Se, infatti, vogliamo affermare qualcosa dell’essenza del cristianesimo, la necessità della redenzione dovrà estendersi a tutta quanta l’umanità, anche cioè al suo sapere. Si può, è vero, pensare una filosofia «secondo il cristianesimo», quando cioè qualcuno sia diventato cristiano, ma non si tratta allora del rapporto della filosofia con il cristianesimo, bensì di quello del cristianesimo con la conoscenza cristiana: «a meno che non si voglia credere che la filosofia, posta di fronte al cristianesimo oppure nel suo ambito, non debba giungere al risultato che non è possibile risolvere l’enigma della vita». In tal caso, però, la filosofia, giunta al culmine della sua perfezione, determinerebbe la propria fine, e neppure potrebbe servire come ponte di passaggio verso il cristianesimo, dovendo essa arrestarsi a questo risultato negativo. Tutto sommato, qui sta l’abisso spalancato: il cristianesimo stabilisce che la conoscenza dell’uomo sia manchevole in seguito ai peccati, e venga rettificata dal cristianesimo; il filosofo cerca, proprio in quanto uomo, di rendersi conto del rapporto tra Dio ed il mondo: il risultato potrà quindi essere considerato come limitato, in quanto l’uomo è un essere limitato, ma al tempo stesso come il massimo per l’uomo in quanto tale (Kierkegaard, Diario).

L’errore di Hegel secondo Kierkegaard

Il filosofo, giudicato cristianamente, deve «o accogliere l’ottimismo, oppure disperare», perché, come filosofo, non conosce la redenzione per opera di Cristo. In antitesi a questo «aut-aut», Hegel ha divinizzato aristotelicamente la ragione, e ha determinato attraverso Cristo il divino.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La frattura della conciliazione hegeliana produce esiti diversi

La fine del mondo borghese-cristiano e l’estraniazione dell’uomo da sé

La conciliazione di Hegel, sulla base della filosofia, della ragione con la fede e del cristianesimo con lo Stato fu spezzata intorno al 1840. La storica rottura con la filosofia hegeliana significò per Marx una rottura con la filosofia dello Stato e per Kierkegaard con la filosofia della religione: in entrambi i casi con l’unificazione di Stato, cristianesimo e filosofia. Questa rottura venne compiuta con decisione pari a quella di Marx e di Kierkegaard, per quanto in modi differenti, anche da Feuerbach e da Bruno Bauer. Feuerbach riduce l’essenza del cristianesimo all’uomo sensibile; Marx alle contraddizioni del mondo umano; Bauer spiega la sua origine dalla decadenza del mondo romano; e Kierkegaard, abbandonando lo Stato cristiano, la Chiesa e la teologia cristiane, in breve tutta questa realtà storica di portata mondiale, riduce tale essenza al paradosso di un salto disperato nella fede. Comunque divergano le loro soluzioni particolari, tutti insieme essi distruggono il mondo borghese-cristiano, e con ciò anche la teologia filosofica della conciliazione di Hegel. La realtà non appariva loro più nella luce della libertà dell’essere presso di sé, ma nell’ombra dell’estraniarsi dell’uomo da sé. Nella chiara coscienza della piena conclusione della filosofia cristiana di Hegel, Feuerbach e Ruge, Stirner e Bauer, Kierkegaard e Marx, in quanto veri eredi della filosofia hegeliana, proclamarono una «trasformazione» negante decisamente lo Stato ed il cristianesimo esistenti. (trad. di G. Colli, Einaudi, Torino 1949, pp. 81-88)

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

1. Destra e Sinistra hegeliana 1. Hegel come l’«Alessandro il Grande» della filosofia: seguaci e nemici 2. La spaccatura della scuola hegeliana 3. Il dibattito sulla religione: Strauss e Bauer 4. Il dibattito politico: Ruge

2. Uomo, Dio e natura nel pensiero di Feuerbach 1. 2. 3. 4.

Filosofo della religione e «anti-Hegel» La critica della «filosofia teologizzante» La critica filosofica della religione La filosofia nuova: sensibilità, intersoggettività e amore

3. Dall’uomo all’«Unico»: Max Stirner ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Destra e Sinistra hegeliana

1 I testi

B. Bauer La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum: La filosofia hegeliana come dissoluzione del cristianesimo, T1

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A. Ruge I nostri ultimi dieci anni: Il nocciolo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria, T2

Hegel come l’«Alessandro il Grande» della filosofia: seguaci e nemici

Si è già accennato al significato epocale della filosofia hegeliana, che può essere considerata un vero e proprio spartiacque nella storia della filosofia occidentale; lo dimostra il fatto che, dopo la morte di Hegel, si è a lungo filosofato, e ancora oggi si continua a filosofare, pro e contro il suo pensiero. Anche dove non è esplicito il richiamo a quest’ultimo, e perfino quando si è cercato di opporsi apertamente alla sua influenza, Hegel ha finito spesso con l’imporre temi e motivi che hanno largamente caratterizzato l’orizzonte e i metodi della discussione filosofica negli ultimi due secoli. Prescindendo dall’eredità hegeliana di lungo periodo, occorre innanzitutto considerare l’influsso di Hegel in un raggio di tempo più breve, cioè negli ultimi anni della vita del filosofo e nei decenni immediatamente successivi alla sua morte. A partire dall’arrivo a Berlino, Hegel condiziona profondamente il panorama filosofico e culturale tedesco. La forza d’attrazione della sua filosofia è dovuta soprattutto alla grandiosa sintesi che essa era stata in grado di realizzare, attraverso il metodo della sistemazione enciclopedica, aggregando assieme i contenuti più disparati, dalla politica alla religione, dall’arte alla scienza. La scuola hegeliana È lo stesso Hegel, d’altronde, a preoccuparsi di diffondere il proprio pensiero, formando, a Berlino, la scuola che porta il suo nome – cioè la cosiddetta «scuola hegeliana» –, nella convinzione che presupposto indispensabile della penetrazione della propria filosofia in tutti i campi del sapere fosse la collaborazione disciplinata di molte energie. La scuola si diede anche un organo ufficiale, gli «Annali della critica scientifica», che furono fondati nel 1827 da un discepolo di Hegel, il giurista liberale Eduardo Gans (1797-1839), e raccolsero le pubblicazioni dei membri più autorevoli, come Karl Ludwig Michelet (1801-1893), autore, tra l’altro, di un’opera dal titolo significativo, uscita nel 1870: Hegel, il filosofo non contraddetto. Emblematico del rapporto dei discepoli con il maestro è il discorso tenuto alla sepoltura di Hegel da uno dei membri della scuola, Friedrich Cristoph Förster (1791-1868): in esso Hegel è paragonato ad Alessandro il Grande e i suoi allievi sono invitati a disporsi nei vari settori del suo regno, quasi come dei «diadochi» («successori») filosofici, per amministrarli secondo il suo spirito.

L’influenza del pensiero di Hegel

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel La scuola hegeliana non è dogmatica

Il realismo di Herbart

Ineliminabile contraddittorietà della realtà empirica

Studio scientifico della coscienza

Questa metafora militare e dinastica, pur esprimendo molto bene il clima intellettuale che Hegel lasciava morendo, non deve però far pensare né a una scuola dogmatica, fondata sulla acritica subordinazione al maestro, né a un dominio del tutto incontrastato della filosofia hegeliana nel mondo culturale tedesco. Per quanto riguarda il primo punto, la scuola hegeliana costituiva piuttosto un luogo di confronto critico, che avrà per esito una profonda spaccatura e, infine, la dissoluzione stessa dello hegelismo. Per quanto concerne il secondo aspetto, sarebbe un errore considerare l’epoca dell’idealismo tedesco e del trionfo della filosofia hegeliana come un blocco monolitico: anche nel momento di massima diffusione dell’idealismo non mancarono, infatti, voci dissenzienti, che cercavano di mantenere vive istanze realistiche. Nella prospettiva di una radicale opposizione alla filosofia idealistica merita di essere ricordato almeno il realismo di Johann Friedrich Herbart, che esercita una notevole influenza nella Germania ottocentesca. Il realismo di Herbart si fonda sulla rivendicazione dell’irriducibilità del carattere contraddittorio dei concetti forniti dall’esperienza, in polemica con la pretesa fichtiana o hegeliana di potere conciliare i termini opposti, riducendo l’essere all’agire dell’Io oppure arrivando alla sintesi assoluta e conclusiva del sapere assoluto. Questa contraddittorietà dei concetti empirici è per Herbart ineliminabile e incomponibile. Dunque alla filosofia come metafisica (ossia come scienza sull’essere) spetta unicamente il compito di riconoscerla, in quanto essa deriva dal fatto che l’intera realtà è costituita da una serie di «reali» (entità semplici e immutabili) tra i quali intercorrono rapporti di reciproca «perturbazione», a cui segue, da parte di ciascuno di essi, uno sforzo di autoconservazione. In questa prospettiva, anche le nostre rappresentazioni sono ridotte a forme di autoconservazione della coscienza, che è un reale in relazione con altri: quest’ultima appare dunque come il risultato di un processo storico e culturale che dà luogo a manifestazioni sempre diverse. Lo studio di queste manifestazioni deve secondo Herbart essere compiuto attraverso gli strumenti della matematica, che soli consentono di individuare leggi rigorose sui rapporti tra le diverse rappresentazioni, e di costruire così una vera e propria «statica» e «meccanica» della coscienza, le quali danno la conoscenza degli stati, per così dire, di equilibrio e di movimento di essa. In questo modo, Herbart pone le basi per la psicologia scientifica, che sarà realizzata tra Ottocento e Novecento.

La vita e le opere Johann Friedrich Herbart nacque a Oldenburg nel 1776. Fu allievo di Fichte a Jena, ma prese poi le distanze dal pensiero del maestro. Dopo aver interrotto gli studi fece il precettore in Svizzera, dove ebbe modo di conoscere l’opera del pedagogista Johann Heinrich Pestalozzi. Nel 1806 apparve lo scritto Pedagogia generale.

2 Destra e Sinistra nella scuola hegeliana

Nel 1809 ottenne la cattedra di filosofia e pedagogia nella città di Königsberg. Nel 1813 uscì l’Introduzione alla filosofia; nel 1824-1825 fu pubblicata l’opera Psicologia come scienza e pochi anni dopo, nel 1828-1829, Metafisica generale. Dal 1833 insegnò a Gottinga; nel 1835 uscì il Disegno di lezioni di pedagogia. Morì a Gottinga nel 1841.

La spaccatura della scuola hegeliana Pochi anni dopo la morte di Hegel (avvenuta nel 1831) la schiera dei suoi seguaci fu attraversata da violente contrapposizioni che ne determinarono la spaccatura in correnti antagoniste, denominate con i termini «Destra» e «Sinistra», 15

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Mantenimento o rinnovamento del sistema hegeliano

Argomenti del dibattito nella scuola hegeliana

desunti dal Parlamento francese, in cui venivano utilizzati per designare rispettivamente i conservatori e i progressisti. La distinzione, formulata per la prima volta da David Friedrich Strauss – che con la pubblicazione della sua Vita di Gesù contribuì in maniera decisiva alla radicalizzazione e alla cristallizzazione delle opposizioni – è in seguito entrata largamente nell’uso. Gli esponenti della cosiddetta Destra sono conservatori in quanto, prendendo le mosse da un’interpretazione letterale dell’identificazione del pensiero hegeliano con la fine della filosofia – prospettata da Hegel nelle lezioni di Storia della filosofia – si attribuiscono come unico compito quello di mantenere il sistema (l’insieme organizzato di concetti) del maestro, e al massimo di arricchirlo con ricerche storiche, senza rinnovarlo in modo sostanziale. Gli esponenti della cosiddetta Sinistra sono invece accomunati da un atteggiamento più critico nei confronti della filosofia hegeliana e dalla tendenza a un rinnovamento radicale, che sfocerà nella dissoluzione dello hegelismo. La divisione ha radici teoriche, ma corrisponde, sul piano biografico, alla frattura generazionale tra i discepoli di Hegel più anziani e quelli più giovani – per questo motivo si parla anche di «vecchi hegeliani» e «giovani hegeliani» – e a una netta contrapposizione sociale. Mentre i teorici della Destra occupano posizioni di primo piano nel mondo accademico tedesco, gli esponenti della Sinistra, per le loro posizioni radicali ed eterodosse, restano al di fuori dell’università o ne vengono espulsi, e sono costretti a vivere della loro penna, cioè della loro attività pubblicistica, giornalistica o letteraria. Gli argomenti che catalizzano il dibattito sull’eredità hegeliana sono principalmente due, in periodi successivi: 1) la questione del rapporto tra la filosofia hegeliana e il cristianesimo, su cui si focalizza l’attenzione nel corso degli anni trenta; 2) il problema del significato politico della filosofia hegeliana, che diventa il problema centrale a partire dagli anni quaranta. In entrambi i casi, com’è stato a ragione osservato, il dibattito tra la Destra e la Sinistra fu reso possibile e alimentato dalla «fondamentale equivocità dei ‘superamenti’ dialettici hegeliani». Tale equivocità consiste nel fatto che nella dialettica hegeliana il superamento ha al tempo stesso il significato del togliere e del conservare, in quanto in esso i due termini opposti sono tolti nella loro separazione, ma conservati in una superiore unità: questa ambivalenza fa sì che esso possa essere interpretato sia in senso conservatore sia in senso rivoluzionario.

La scuola hegeliana

Scuola hegeliana Destra = vecchi hegeliani

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Sinistra = giovani hegeliani

È conservatrice

È critica

Mantiene il sistema hegeliano senza introdurre innovazioni

Tende al rinnovamento della filosofia e conduce alla dissoluzione dello hegelismo

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

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Necessità del superamento della religione

Destra hegeliana: fondazione filosofica del cristianesimo

Sinistra hegeliana: umanizzazione del cristianesimo

➥ Percorso tematico, p. 225

Ateismo della filosofia di Hegel

Il dibattito sulla religione: Strauss e Bauer Quanto si è appena detto appare in maniera evidente nel caso della concezione hegeliana della religione e del dibattito relativo alla sua interpretazione. Si è visto che Hegel indica nell’Assoluto (ossia nella realtà razionale e infinita) il contenuto comune di religione e filosofia. Al tempo stesso, però, Hegel afferma la necessità di superare la prima nella seconda, a causa dell’inadeguatezza della forma rappresentativa attraverso la quale l’Assoluto si manifesta nella religione: in quanto contingente e immediata, la rappresentazione non è adatta, nella prospettiva hegeliana, a esprimere il movimento necessario di mediazione in cui consiste l’Assoluto. Insistendo sul duplice significato del termine «superamento» nella dialettica hegeliana (che può essere inteso come conservazione o come eliminazione), gli esponenti della Destra – come Karl Friedrich Göschel (1781-1861) o Georg Andreas Gabler (1786-1853) – concepiscono la filosofia come giustificazione razionale del contenuto delle religioni rivelate, affermando la perfetta coerenza tra il cristianesimo e il pensiero hegeliano. Secondo gli hegeliani di Destra, dunque, la tesi dell’identità di «razionale» e «reale» non equivale né a una concezione panteistica – secondo la quale Dio è in tutto – né a una concezione immanentistica – secondo la quale Dio è nel mondo. A partire da questi presupposti, i «vecchi hegeliani» utilizzano il pensiero di Hegel al fine di offrire una fondazione filosofica dei dogmi cristiani, come l’immortalità dell’anima; ad essa è dedicato, per esempio, lo scritto di Göschel Sulle prove dell’immortalità dell’anima alla luce della filosofia speculativa (1835). Nell’ambito della «Sinistra hegeliana» il superamento filosofico della religione è inteso, al contrario, nel senso di una radicale umanizzazione del suo contenuto. Emblematica è in proposito la posizione sostenuta da Strauss nella Vita di Gesù. Riprendendo la tradizione di critica biblica risalente a Gotthold Ephraim Lessing e applicando all’interpretazione del Vangelo la teoria hegeliana della religione come «rappresentazione», Strauss arriva a ridurre il racconto evangelico della vita, morte e resurrezione di Cristo a «mito». Con questo termine Strauss intende l’espressione di un’idea metafisica nella forma del racconto, attraverso immagini: il mito evangelico – fondato su fatti storici realmente accaduti, miticamente trasfigurati dall’attesa messianica del popolo ebraico – esprime l’idea metafisica dell’unione di finito e infinito (Gesù Cristo è l’immagine dell’unità dell’uomo e di Dio). Tale idea, però, nella forma inadeguata del racconto, viene riferita a un singolo individuo, mentre in verità si realizza solo nell’intero genere umano. Il dibattito seguito alla pubblicazione della Vita di Gesù lascia emergere il possibile significato non cristiano, o addirittura ateo, della filosofia hegeliana, apertamente proclamato nello scritto di Bruno Bauer La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum. In esso Bauer – che, dopo aver esordito con scritti rigidamente ortodossi e aver sostenuto energicamente le posizioni della Destra, si era avvicinato alla Sinistra – finge un atteggiamento scandalizzato dinanzi all’ateismo della filosofia hegeliana, proponendone, con questo artificio letterario, un’interpretazione radicale. 17

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La vita e le opere di F. Strauss e B. Bauer nuta l’abilitazione in teologia, si dedicò principalmente David Friedrich Strauss nacque a Ludwigsburg nel 1808. Compì i propri studi a Tubinga e divenne poi allievo del filosofo e teologo tedesco Friedrich Schleiermacher e di Hegel. Tra il 1832 e il 1835 insegnò all’università di Tubinga. Nel 1835-1836 pubblicò la Vita di Gesù e nel 1842 La fede cristiana nel suo sviluppo e nella lotta con la scienza moderna. Trent’anni dopo, nel 1872, uscì lo scritto L’antica e la nuova fede. Morì a Ludwisgburg nel 1874. Bruno Bauer nacque a Eisenberg, in Sassonia, nel 1809. Compì studi di filosofia e teologia a Berlino; otte-

alla storia e alla critica biblica. Dopo aver aderito alla Destra hegeliana, a partire dagli anni quaranta mutò radicalmente la propria posizione e si schierò con la Sinistra hegeliana. Nel 1840 uscì la Critica della storia evangelica di Giovanni; nel 1841 apparve invece, anonima, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum; nel 1842, La questione ebraica. A causa della radicalità delle sue tesi religiose fu sospeso dall’insegnamento universitario. Prese quindi a occuparsi di studi storici e politici. Morì a Rixdorf (presso Berlino) nel 1882.

In netta opposizione rispetto all’orientamento degli esponenti della Destra, che avevano affermato la piena concordanza tra la filosofia di Hegel e i dogmi cristiani, Bauer si sforza piuttosto di mostrare che questi ultimi, nell’interpretazione hegeliana, acquisiscono un significato completamente differente rispetto a quello che essi hanno nel cristianesimo: la Trinità, intesa come «rappresentazione» del movimento dialettico dell’auto-coscienza – che deve uscire al di fuori di sé e scindersi, per potere acquisire consapevolezza di sé, ritrovando la propria unità attraverso il suo ritorno in se stessa – risulta svuotata di ogni senso religioso e non ha nulla a che fare con il mistero oggetto di fede per i credenti. Riduzione della storia La concezione hegeliana della religione come «rappresentazione» implica dunsacra a illusione que, secondo Bauer, la riduzione dell’intera storia sacra, dall’incarnazione alla morte e resurrezione di Cristo, a mera illusione, o meglio a fiaba infantile e giovanile, di cui l’umanità e il singolo hanno bisogno solo fino a quando non hanno raggiunto il «concetto», cioè solo fino a quando non si sono elevati alla filosofia. Essa, dunque, ben lungi dall’offrire una giustificazione razionale della religione, la rende piuttosto superflua. La filosofia di Hegel, infatti, mostra che Dio non è altro se non il pensiero che ritrova la propria unità nello Spirito, dopo essersi distinto nel Figlio. La storia narrata dalla religione è una storia immaginaria vissuta dall’auto-coscienza, un’illusione analoga a quelle che gli uomini hanno nello stato tra il sonno e la veglia; essa è una sorta di fantasia, tipica dell’età giovanile. L’individuo adulto, invece, è cosciente di sé e delle proprie forze: non ha bisogno di affidarsi alla guida di un altro essere e sa di essere in grado, da solo, di dominare il mondo. Svuotamento di senso religioso dei dogmi in Hegel

T1

La filosofia hegeliana come dissoluzione del cristianesimo

B. Bauer, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, 12

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È vero, Hegel chiama «assoluta» la religione cristiana. Ma in quale significato? Solo perché essa rappresenta la esposizione e lo svolgimento puri della autocoscienza religiosa, cioè perché in essa mancano tutti quegli impulsi vivi, etici e artistici, che sono l’attrattiva e il contenuto delle altre religioni. […] la conseguenza è che il rapporto religioso si afferma e mantiene nella sua purezza, e che i filosofi possono quindi dissolverlo con tanto maggior facilità. Per Hegel la religione cristiana è la religione astratta. Saremmo assai sciocchi se a questo punto volessimo immaginarci che Hegel, quando parla del regno del padre e delle determinazioni del padre, del figlio e dello spirito intenda parlare della trinità della fede cristiana. Non ha forse egli detto, con tutta chiarezza, che Dio, questa rappresentazione della religione, non è altro che l’universalità dell’autocoscienza, nient’altro che il pensiero che acquista coscienza della sua universalità […]? Ed a questa impostazione egli ri-

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

mane fedele anche quando espone la sua idea della trinità […]. Il padre è l’universale che si distingue in sé (nel figlio) e che toglie di nuovo nello spirito la differenza, tornando a essere unità. […] Queste sono le teorie di Hegel sulla religione. La trinità è considerata da lui il mondo immaginario dell’autocoscienza, e così anche la storia sacra del Redentore, secondo lui, è una di quelle illusioni che si verificano di solito in uno stato intermedio tra la veglia e il sonno; l’uomo reale e sveglio si ha soltanto nell’autocoscienza che si trova sola nel mondo e trova il mondo in se stessa. […] La trinità è la fiaba infantile, la storia sacra il romanzo della giovinezza, mentre l’uomo, il concetto, l’autocoscienza hanno ormai superato i giuochi della fanciullezza e la fantasia della giovinezza – l’uomo può contare ormai su se stesso e sulla sua forza interiore, con la quale egli sa di essere signore del mondo, e supera e si sottomette il mondo senza uscire da sé. Dunque, laddove la Destra hegeliana sostiene la piena concordanza tra la religione e la filosofia di Hegel, gli esponenti della Sinistra (in particolare, Strauss e Bauer) interpretano in senso radicale il tema hegeliano del superamento della religione nella filosofia: la storia sacra è un mito o una fiaba che non trova alcuna giustificazione razionale nel pensiero filosofico. Dibattito tra Destra e Sinistra hegeliana sulla religione

Hegel È necessario il superamento della religione nella filosofia Ambivalenza del concetto di superamento

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Due diverse interpretazioni del rapporto tra razionalità e realtà

Conservazione

Eliminazione

Destra: coerenza tra la filosofia di Hegel e i dogmi cristiani

Sinistra: contrasto tra la filosofia di Hegel e i dogmi cristiani

La filosofia è la giustificazione del contenuto della religione

La filosofia rende superflua la religione

Il dibattito politico: Ruge Come il dibattito sul rapporto tra il pensiero hegeliano e il cristianesimo affonda le sue radici nell’ambiguità del superamento filosofico della religione, allo stesso modo la discussione sul significato politico della filosofia hegeliana può essere ricondotta all’ambivalenza dell’equazione tra razionale e reale, che Hegel stesso pone a fondamento della sua concezione dello Stato, nella prefazione alla Filosofia del diritto. Gli esponenti della Destra fanno leva sull’affermazione della razionalità del reale per legittimare l’ordine politico esistente. Di contro, gli hegeliani di Sinistra sono accomunati da un atteggiamento di critica radicale nei confronti dell’esistente, fondata o sul rifiuto dell’identificazione tra razionalità e realtà oppure sul19

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la sottolineatura del significato rivoluzionario del celebre detto hegeliano («ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale»), al di là del suo carattere apparentemente reazionario e delle intenzioni del suo autore. Infatti, nella logica hegeliana, dove il termine «reale» non designa ciò che esiste casualmente, ma solo il movimento dello Spirito che va incessantemente formando se stesso, l’affermazione hegeliana secondo cui tutto ciò che è reale è razionale può essere intesa anche nel senso che tutto ciò che esiste deve essere modificato e negato, per lasciare spazio al realizzarsi del razionale.

La vita e le opere Arnold Ruge nacque a Bergen (Rügen) nel 1802. Dopo essere stato incarcerato a causa delle sue idee liberali, divenne professore di filosofia a Halle. Nel 1832 uscì L’estetica platonica e nel 1837 Nuova scuola preparatoria di estetica. Dopo la divisione della scuola hegeliana Ruge fornì alla Sinistra un organo con gli «Annali di Halle»; per sottrarsi alla censura prussiana fu però costretto a trasferirli nella città di Dresda (dove vennero pubblicati fino al 1843).

La dialettica hegeliana è una critica della realtà

La contraddizione tra sistema e metodo in Hegel

Legame tra critica filosofica della realtà e azione rivoluzionaria

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Nel 1842 apparve La filosofia del diritto hegeliana e la critica del nostro tempo. Entrato in contatto con Marx, durante l’esilio in Francia curò con lui la pubblicazione degli «Annali franco-tedeschi», avvenuta a Parigi nel 1844. Dopo il ritorno in Germania nel 1848 fu eletto deputato nello schieramento dei democratici al Parlamento nazionale. Durante l’esilio successivo in Inghilterra, invece, si avvicinò sempre di più alla politica di Bismarck. Morì a Brighton nel 1880.

La figura più importante nella transizione della Sinistra hegeliana dalla critica della religione alla critica politica è Arnold Ruge. Nei suoi scritti emerge in modo chiaro l’atteggiamento di molti esponenti della Sinistra hegeliana nei confronti della concezione politica del maestro: un’aspra critica, condotta però in nome dei principi della stessa filosofia hegeliana, dei quali viene rivendicato il significato profondamente rivoluzionario, contraddetto dal conservatorismo della filosofia del diritto di Hegel, che si pone come unico obiettivo la comprensione del nucleo razionale dello Stato moderno. In primo luogo, Ruge formula un argomento destinato ad avere larga fortuna, notando in Hegel la contraddizione tra il sistema – con la sua pretesa di definitività e compiutezza – e il «metodo», cioè la «dialettica», che individua la legge necessaria del pensiero e della realtà nel «movimento» di continua negazione dell’esistente. In quanto tale, la dialettica può essere identificata con la «critica rivoluzionaria» della realtà, superamento di essa e scoperta di una realtà nuova, che verrà a sua volta superata. Essa emerge dunque come il «nocciolo più intimo del sistema hegeliano»; nocciolo che, a rigore, avrebbe dovuto portare alla dissoluzione stessa del sistema. In secondo luogo, Ruge esprime l’istanza fondamentale della Sinistra hegeliana a partire dagli anni quaranta, cioè l’esigenza di spostare la dialettica dall’«etere logico» al campo della storia, trasformando la filosofia da semplice strumento di comprensione della realtà – «nottola di Minerva» che si limita ad apprendere «il proprio tempo» in «pensieri», secondo la definizione hegeliana – in critica teoretica dell’esistente, mirante a un rivolgimento rivoluzionario. In questo modo la Sinistra hegeliana abbandona l’idea della filosofia come contemplazione fine a se stessa e la conseguente divaricazione tra teoria e prassi, che aveva dominato una tradizione millenaria di pensiero, da Aristotele in poi, a favore dell’affermazione di un nesso inscindibile tra critica teorica e azione innovatrice e rivoluzionaria.

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel Il significato della filosofia hegeliana

Hegel: equazione tra razionale e reale Ambivalenza dell’equazione

T2

Il nocciolo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria

A. Ruge, I nostri ultimi dieci anni

➥ Sommario, p. 36

Ciò che è razionale è reale

Ciò che è reale è razionale

Ciò che esiste è razionale

Ciò che esiste non è razionale e deve essere modificato

Legittimazione dell’ordine politico esistente

Critica dell’ordine politico esistente

Destra hegeliana

Sinistra hegeliana

Il passaggio da un pensiero all’altro è incessante, la dialettica non si ferma mai, in nessun momento; ogni nuova parola è critica di quella che l’ha preceduta, ma soltanto per essere a sua volta criticata da quella che segue. Questo incessante movimento dei pensieri, il moto del pensiero, ha una sua forma determinata, un suo «metodo». […] Facciamo un esempio. «Essere», «Nulla», «Divenire», sono le prime categorie della logica hegeliana […] Dai due estremi, dall’Essere come dal Nulla, noi ci vediamo respinti nello stesso modo, e questo ci dà il puro movimento, che si svolge in un senso come nell’altro, la riflessione o il divenire (che è la genesi dello stesso pensiero). Questa è la prima categoria di Hegel. Prima del movimento del divenire – dal Nulla all’Essere, o «generarsi», e dall’Essere al Nulla, ossia «perire» – non è possibile alcun pensiero. Pensare è questo movimento della riflessione, che è insieme generarsi e perire, poiché ogni pensiero nuovo è il togliere un pensiero vecchio. Il nocciolo più intimo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria – la libertà. […] Ma non perdiamoci nell’«etere» logico in cui noi poveri tedeschi, come fumatori d’oppio, siamo stati trascinati in cerchio per trent’anni senza poter intravedere, nemmeno in questa zona celeste del filosofare, la libertà reale. […] Rettamente intesa la dialettica stessa, che non è altro che il pensare e la perenne posizione critica, sarebbe quindi la dissoluzione di ogni sistema. Manca soltanto che in testa a questo processo venga posto il pensatore che dissolve, l’uomo della storia, il creatore di una vita spirituale eternamente giovane. Chi è in grado di farlo, scopre un nuovo mondo: e ce n’è sempre uno da trovare. Questa conseguenza è stata tratta dalla più recente filosofia tedesca. Fin qui, dunque, si è visto che sia riguardo alla religione, sia riguardo alla sfera politica gli esponenti della corrente innovatrice della scuola hegeliana interpretano in senso rivoluzionario il metodo della dialettica di Hegel: la filosofia porta al superamento della religione e svolge la funzione di critica della realtà. Alla critica deve però essere unita l’azione tesa alla trasformazione dello stato di cose esistente: teoria e prassi sono strettamente legate l’una all’altra.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Uomo, Dio e natura nel pensiero di Feuerbach

2 I testi

L. Fueberbach Feuerbach e Hegel: L’insegnamento di Hegel, T3 Principi della filosofia dell’avvenire: La critica del «cominciamento» della filosofia hegeliana, T4; Il nucleo teologico della filosofia moderna, T5; La differenza tra la vecchia e

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Filosofo della religione e «anti-Hegel»

La vita e le opere Ludwig Andreas Feuerbach nacque a Landshut, in Baviera, nel 1804. Fece studi teologici a Heidelberg e a Berlino; qui seguì le lezioni di Hegel ed essendone rimasto profondamente colpito passò dalla facoltà di teologia a quella di filosofia. Nel 1829 iniziò a tenere corsi come libero docente all’università di Erlangen; dopo l’uscita dei Pensieri sulla morte e sull’immortalità (pubblicati anonimi nel 1830) dovette però interrompere la carriera universitaria. Nel 1838 iniziò la sua collaborazione agli «Annali di Halle» con alcune recensioni e il saggio Per la critica della filosofia hegeliana (pubblicato nel 1839). Nel 1841

Concezione materialistica della religione

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la nuova filosofia, T8; La coincidenza di verità, realtà e sensibilità, T9; La funzione ontologica dell’amore, T10; L’umanesimo della nuova filosofia, T11 L’essenza del Cristianesimo: Sistole e diastole religiosa, T6; Religione, antropologia e filosofia, T7

uscì L’essenza del Cristianesimo, a cui seguirono, nel 1843, le Tesi preliminari per la riforma della filosofia e i Principi della filosofia dell’avvenire. Nel 1845 fu pubblicato un altro importante saggio, L’essenza della religione. Tra il 1848 e il 1849 tenne a Heidelberg un corso di lezioni, pubblicate nel 1851 col titolo Lezioni sull’essenza della religione. L’anno seguente apparve la Teogonia. Nel 1860, a causa di gravi difficoltà economiche, dovette trasferirsi con la famiglia a Rechenberg, presso Norimberga. Nell’ultimo periodo della sua vita curò l’edizione delle proprie opere e si occupò di scienze naturali. Morì a Rechenberg nel 1872.

Nel dibattito sul significato della religione che anima la Sinistra hegeliana la figura di maggiore spicco è Ludwig Andreas Feuerbach, che, a differenza di Strauss e Bauer, conduce la propria critica della religione non sul terreno della esegesi biblica, bensì su un terreno esclusivamente filosofico. Il risultato è l’elaborazione di una filosofia della religione su basi radicalmente materialistiche, la cui importanza va ben oltre i limiti della discussione interna alla Sinistra hegeliana: le sue principali opere di argomento religioso – cioè L’essenza del Cristianesimo e L’essenza della religione – hanno avuto una larghissima risonanza e continuano ancora oggi a costituire un punto di riferimento imprescindibile nel dibattito filosofico e teologico sull’ateismo. La radicalità della sua posizione in materia di religione impedisce a Feuerbach di entrare a fare parte del mondo universitario tedesco, come la maggior parte degli hegeliani di sinistra: la sua carriera accademica, iniziata con la libera docenza in filosofia presso l’università di Erlangen, viene troncata a seguito della pubblicazione dei Pensieri sulla morte e sull’immortalità – uno scritto che, malgrado l’anonimato, gli fu subito attribuito –, in cui è negata l’immortalità personale e ogni forma di trascendenza. Fallito il tentativo di ottenere una

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

cattedra universitaria, Feuerbach si ritira a Rechenberg, dove trascorre il resto della sua vita. Critica della filosofia L’incontro con Hegel costituisce il momento più significativo della sua biograhegeliana fia intellettuale: come Feuerbach stesso riconosce nella testimonianza riportata sotto, è solo per l’influenza delle lezioni hegeliane che egli approda allo studio stesso della filosofia, abbandonando la facoltà di teologia, cui si era inizialmente iscritto. Sin dall’inizio della propria attività filosofica Feuerbach non condivide l’impostazione astrattamente logica e metafisica del pensiero hegeliano, mostrando un vivo interesse per il particolare, la corporeità e i rapporti intersoggettivi, nella loro dimensione fisica. Questo interesse lo induce, tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta, ad assumere la posizione di un vero e proprio «antiHegel», sottoponendo la filosofia hegeliana a un’aspra critica, i cui documenti più significativi sono il saggio Per la critica della filosofia hegeliana, le Tesi preliminari per la riforma della filosofia e i Principi della filosofia dell’avvenire. Tale critica costituisce un passaggio fondamentale di quella dissoluzione dello hegelismo cui partecipano tutti i principali esponenti del pensiero dell’epoca, da Kierkegaard a Schopenhauer. In realtà, al di sotto di questa presa di distanza, resta chiaramente riconoscibile, anche nel pensiero del Feuerbach maturo, l’impronta della formazione hegeliana. Lo stesso Feuerbach afferma che all’inizio della propria attività filosofica, pur non condividendo appieno la posizione hegeliana, ha messo consapevolmente a tacere il proprio senso critico nei suoi confronti.

T3

L’insegnamento di Hegel

L. Feuerbach, Feuerbach e Hegel

2

[…] Io mi sentii legato ad Hegel assai più intimamente, e fui più aperto alla sua influenza che a quella di qualsiasi altro dei nostri predecessori spirituali; lo conoscevo infatti personalmente e fui per due anni suo uditore, il suo uditore più attento, più esclusivista, più entusiasta. Quando io andai a Berlino ero così stordito e incerto che non sapevo cosa volevo, cosa dovevo fare; ma bastò che per un semestre seguissi le sue lezioni e la mia testa ed il mio cuore furono rimessi sulla loro via; io seppi ciò che dovevo e volevo: non teologia, ma filosofia! Non vaneggiare e fantasticare, ma imparare! Non credere, ma pensare! Fu in lui che io acquistai coscienza di me e del mondo […]. Fu l’unico uomo che mi fece sentire direttamente ciò che è un maestro […]. Quando iniziai la mia attività di scrittore mi trovavo sulle posizioni della filosofia speculativa in generale, e della filosofia hegeliana in particolare […]. Certo, già allora, l’anti-Hegel era dentro di me; ma io gli imponevo di tacere proprio perché era soltanto un mezzo uomo. Però già allora la mia impostazione non era puramente logica o metafisica […].

La critica della «filosofia teologizzante» Alla luce di quanto appena detto è opportuno esaminare innanzitutto le critiche che Feuerbach rivolge alla filosofia hegeliana, nell’ambito di una considerazione complessiva della filosofia moderna, maturata nel corso dei diversi studi di storiografia filosofica. A partire dalla fine degli anni trenta, Feuerbach individua nella filosofia hege23

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La filosofia moderna separa il pensiero dalla realtà

Solo attraverso i sensi si può cogliere la realtà

Il «questo reale» è il fondamento del diritto

T4

La critica del «cominciamento» della filosofia hegeliana L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire

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liana il compimento della filosofia moderna, che, in quanto tale, esprime nella maniera più evidente e radicale i due tratti negativi di quest’ultima, tra loro strettamente intrecciati: 1) la frattura del pensiero nei confronti della sensibilità; 2) il significato essenzialmente teologico. Per quanto riguarda il primo punto, Feuerbach si riferisce alla prassi dei filosofi moderni di costruire il proprio sistema filosofico partendo non dalla natura reale, bensì da presupposti esclusivamente teorici, cioè dai sistemi precedenti. Questa prassi rende la storia della filosofia moderna una semplice partenogenesi (una sorta di riproduzione senza che ci sia stata fecondazione) di teorie filosofiche l’una dall’altra, completamente avulsa dalla realtà e dai bisogni degli uomini. La filosofia hegeliana – nata dalla confutazione dell’idealismo fichtiano e schellinghiano – costituisce per Feuerbach l’espressione emblematica di questo tradimento della sensibilità, intesa sia come passività, sia come attività: il «cominciamento» del sistema hegeliano, cioè l’Essere della prima triade logica, non è, infatti, un essere sensibile, concreto e determinato, bensì un Essere astratto, privo di determinazioni, che è lontanissimo dal reale; lo stesso vale a proposito della «certezza sensibile» con cui inizia la Fenomenologia dello spirito. Il «qui» e «ora», il «questo» della certezza sensibile – che nella prospettiva hegeliana costituisce il grado più basso del percorso fenomenologico, in quanto dà una conoscenza povera e vuota di determinazioni – non sono un «questo» reale, bensì sono pure astrazioni: un «questo logico», cioè un «questo» del pensiero ed espresso dalla parola; esso può valere indistintamente per tutti gli oggetti proprio in quanto è un mero pensiero, e il pensiero è la sfera dell’universale. Il «questo reale» è invece un’entità che, a differenza delle parole e dei concetti, è sempre individuale, unica e irriducibile, e non può essere colta attraverso il pensiero, ma solo attraverso i sensi. A conferma di queste osservazioni critiche, Feuerbach richiama l’attenzione sul fatto che quando qualcuno parla della propria casa adoperando l’aggettivo «questa», ciò non significa affatto che egli sarebbe disposto a cederla con qualsiasi altra casa, per quanto ogni casa possa essere definita con lo stesso aggettivo. Al contrario, ciascuno è pronto a ricorrere ai mezzi della legge per difendere la propria proprietà individuale, qualora qualcuno gliela voglia sottrarre: l’intero diritto è fondato sul riconoscimento dell’esistenza di una differenza reale tra gli oggetti in possesso dei diversi individui. Di conseguenza, se si prendesse l’aggettivo «questo» nell’accezione in cui lo usa Hegel all’inizio della Fenomenologia, il risultato sarebbe la soppressione di ogni diritto. 28: […] L’essere con cui incomincia la Fenomenologia, non meno dell’essere con cui comincia la Logica, si trova nella più diretta contraddizione con l’essere reale. Questa contraddizione si manifesta nella Fenomenologia sotto la forma del contrasto tra il «questo» e l’«universale», perché l’individuo appartiene all’essere e l’universale al pensare. Nella Fenomenologia questo confluisce in questo altro, ed il pensiero non è in grado di discernere l’uno dall’altro; ma c’è una grossa differenza tra il questo in quanto oggetto del pensare astratto e lo stesso questo in quanto oggetto della realtà. Questa donna, per esempio, è la mia donna, questa casa è la mia casa, benché ognuno dica, come dico io, della sua casa e della sua donna, «questa casa», «questa donna». L’indifferenza e l’indistinzione del «questo logico» viene, in questo senso, spezzata e superata dal senso giuridico. Se noi applicassimo il «questo» logico nel diritto naturale, arriveremmo direttamente al-

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

la comunanza dei beni e delle donne, nella quale non c’è alcuna differenza tra questo e quello, ognuno possiede ogni donna; ma è assai più probabile che arriveremmo alla soppressione di ogni norma giuridica; il diritto infatti si fonda unicamente sulla realtà della differenza tra questo e quello. Il disconoscimento del valore della sensibilità che caratterizza la filosofia moderna è da ricondurre all’influsso della religione e della teologia cristiane. Esse, secondo Feuerbach, hanno imposto temi e materiali ai sistemi filosofici susseguitisi in età moderna – da Cartesio a Hegel – contribuendo a distogliere l’attenzione dalla sfera mondana dei bisogni concreti e materiali dell’uomo. Il cristianesimo costituisce dunque uno spartiacque tra il pensiero moderno e il pensiero antico che, a differenza del primo, aveva posto al centro della propria indagine non Dio, bensì l’uomo, sia pure in maniera ancora parziale. Feuerbach riconosce che il rapporto tra la teologia e la filosofia moderna è apparentemente un rapporto di opposizione: nello sforzo di liberare la teologia cristiana dalle contraddizioni derivanti in essa dalla sua base sentimentale e immaginativa, il pensiero moderno attua, infatti, una graduale dissoluzione del teismo, cioè della concezione di Dio come Ente personale e trascendente rispetto ➥ Percorso tematico, p. 225 all’uomo. Questa dissoluzione culmina nell’identificazione hegeliana tra Dio e Lògos, che fa di Dio un principio impersonale e immanente alla ragione umana. La filosofia idealistica Tuttavia, ciò non significa che la «filosofia speculativa» degli idealisti, che porta è una forma razionale a compimento questa dissoluzione del teismo, superi l’orizzonte della teologia: di teologia presentando il Pensiero come una Sostanza reale – indipendente rispetto agli uomini e completamente immateriale, allo stesso modo del Dio tradizionale – essa non fa altro che proporre una nuova forma di teologia, diversa da quella antica solo per il suo carattere completamente razionale. Questo carattere segna un ulteriore allontanamento dalla natura sensibile, già negletta dalla teologia tradizionale. In altri termini, la filosofia moderna ha sì trasformato Dio in «ragione», ma conferendo a quest’ultima lo stesso carattere astratto del Dio tradizionale, cioè separando in maniera netta la ragione dalla sensibilità. Proprio perché è, in realtà, una teologia, Feuerbach definisce la filosofia moderna «filosofia teologizzante»; l’astrazione della sensibilità è infatti una condizione necessaria della filosofia come lo è per la teologia (che è appunto scienza di un essere privo di passioni e immateriale, ossia Dio). Influenza negativa della teologia sulla filosofia moderna

T5

Il nucleo teologico della filosofia moderna

L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire

4: La filosofia speculativa è l’assimilazione e la dissoluzione razionale e teoretica del Dio che la religione considera ultraterreno […]. 5: L’essenza della filosofia speculativa non è altro che l’essenza di Dio razionalizzata, realizzata, resa presente. La filosofia speculativa è la teologia vera, conseguente, razionale. 9: Le proprietà o predicati essenziali dell’essenza divina sono le proprietà o predicati essenziali della filosofia speculativa. 10: Dio è puro spirito, pura essenza, pura attività – actus purus senza passioni, senza determinazioni esterne, senza sensibilità, senza materia. La filosofia speculativa è questo puro spirito, questa pura attività, realizzata come atto del pensiero – l’assoluta essenza come assoluto pensiero. Una volta la condizione necessaria della teologia era l’astrarre da ogni dato sensibile e materiale: e questa è anche la condizione necessaria della filosofia speculativa […]. 25

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Teologia e filosofia moderna

Teologia

Filosofia moderna

Ha carattere sentimentale

Ha carattere razionale

Concepisce Dio come essere privo di determinazioni, immateriale e trascendente

Identifica Dio con la ragione

Separano la ragione dalla sensibilità umana

Il punto della critica feuerbachiana a Hegel destinato a esercitare maggiore influenza anche sugli autori posteriori – e in particolare su Marx (vedi Unità 4, p. 140 – è la critica del metodo del «rovesciamento» (Umkehrung), cioè della dialettica della contraddizione. Per Feuerbach la dialettica hegeliana è un procedimento rovesciato o contorto, perché capovolge i rapporti di predicazione realmente esistenti, ponendo come Soggetto un Universale e un astratto, cioè l’Idea, e riducendo gli individui concreti (ossia il soggetto vero e proprio) a semplici determinazioni e attributi di quest’ultima. Nella realtà, invece, è esattamente il contrario, poiché il primum, il soggetto, non può che essere un individuo che, tra i suoi possibili attributi, ha anche quello del pensiero. La restaurazione dei reali rapporti di predicazione richiede dunque come presupposto un «rovesciamento» del «rovesciamento» attuato dalla filosofia hegeliana, attraverso il quale l’individuo concreto venga ricollocato nella sua posizione di soggetto. Feuerbach utilizza Al di sotto della polemica aperta nei confronti del maestro, proprio in questo pungli strumenti teorici to emerge chiaramente come Feuerbach continui a servirsi degli strumenti teoridi Hegel ci approntati da Hegel: il rovesciamento del rovesciamento cui egli allude non è altro, infatti, che la «negazione della negazione», cuore della dialettica hegeliana. Dunque, la filosofia hegeliana è un esempio significativo della separazione prodotta dalle teorie filosofiche tra il pensiero e la realtà. All’Essere, così come Hegel lo concepisce – ossia come entità astratta e priva di qualificazioni –, Feuerbach contrappone l’essere reale, un’entità concreta e dotata di sensibilità. Il disconoscimento dell’importanza della sensibilità è, a suo avviso, un effetto dell’influenza esercitata dalla teologia cristiana sull’idealismo, che peraltro è a sua volta una teologia (benché razionale). Per ristabilire il valore della sensibilità, e riportare al centro dell’attenzione filosofica l’individuo concreto (il soggetto), occorre allora un rovesciamento della dialettica hegeliana. Occorre un rovesciamento della dialettica hegeliana

Rovesciamento del rovesciamento hegeliano

Hegel

Feuerbach

Rovesciamento dei rapporti di predicazione reali

Rovesciamento della dialettica hegeliana

Pensiero = soggetto

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Individuo = attributo

Individuo concreto = soggetto

Pensiero = attributo

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

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Le religioni hanno origine nell’alienazione dell’uomo

T6

Sistole e diastole religiosa L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Introduzione

Tre cause dell’alienazione religiosa dell’uomo

La critica filosofica della religione La critica della filosofia moderna procede di pari passo, in Feuerbach, con la critica della religione, cui è strettamente intrecciata. La categoria fondamentale della critica feuerbachiana della religione è una categoria di chiara derivazione hegeliana, cioè la categoria di «alienazione». Feuerbach riconduce, infatti, la genesi di tutte le religioni a un processo di alienazione articolato in due momenti, che possono essere paragonati alla sistole e alla diastole della circolazione arteriosa: nel primo, l’uomo allontana da sé la propria essenza, trasferendola in un altro, cioè in Dio; nel secondo, egli si sforza di recuperarla, credendo che quel Dio esista per lui e per la sua salvezza. La religione ha, così, una forza repulsiva (allontana gli uomini da se stessi) e una forza di attrazione (poiché presenta Dio come principio della salvezza umana). Le religioni sarebbero dunque anch’esse fondate – al pari della dialettica hegeliana – su un vistoso rovesciamento della realtà, in quanto, presentando Dio come il creatore degli uomini, avrebbero invertito l’ordine di causa-effetto: per Feuerbach è piuttosto l’uomo ad avere creato Dio, alienando e oggettivando la propria essenza. Perciò tutte le caratteristiche che l’uomo attribuisce a Dio sono, in realtà, caratteristiche umane. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio, l’essenza dell’uomo, purificata, liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui distinta, particolare – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono perciò determinazioni umane. […] Dio è il suo sé alienato che però nel contempo egli di nuovo rivendica a sé. Come la circolazione arteriosa spinge il sangue fino alle più lontane estremità, mentre quella venosa lo riporta indietro, come la vita in genere consiste in una perenne sistole e diastole, così è anche la religione. Nella sistole religiosa l’uomo espelle lontano da sé la sua propria essenza, respinge, rigetta se stesso; nella diastole religiosa riprende nel suo cuore l’essenza espulsa. Dio è soltanto l’essenza che agisce da sé, che opera da sé – questo è l’atto della facoltà repulsiva della religione; Dio è l’essenza che agisce in me, con me, attraverso di me, su di me, per me, il principio della mia salvezza […] – questo è l’atto della facoltà di attrazione della religione. Feuerbach ha offerto diverse spiegazioni delle cause del processo di alienazione religiosa. Nell’Essenza del Cristianesimo la riconduce principalmente allo squilibrio ontologico (concernente cioè l’essere) tra la finitezza dell’uomo – se considerato in quanto individuo fisico – e l’infinitezza della sua essenza, cioè la «ragione», la «volontà» e il «cuore», le tre facoltà che lo determinano come specie: la consapevolezza di questo squilibrio fa sorgere nell’uomo il desiderio di trascendere la propria finitezza, spingendolo a separare da sé la propria essenza e a proiettarla fuori di sé in un’essenza distinta e indipendente. Un’ulteriore causa dell’alienazione religiosa è individuata da Feuerbach nella contraddizione tra l’infinitezza dell’uomo – in quanto essere desiderante – e la limitatezza delle sue capacità di perseguire ciò che desidera: contraddizione che viene risolta attraverso l’alienazione e l’oggettivazione dei propri desideri, realizzati in un Ente esterno che è appunto Dio. 27

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Dissoluzione della teologia nell’antropologia

Il ruolo della filosofia

Infine, nell’Essenza della religione Feuerbach descrive la genesi dell’idea di Dio non più come l’alienazione dell’essenza o dei desideri umani, bensì piuttosto come il frutto dell’ipostatizzazione del sentimento di dipendenza dell’uomo dalla natura: il potere che la natura esercita sugli esseri umani viene da essi ricondotto a un essere ben definito (Dio), considerato il creatore del mondo naturale e delle leggi che lo regolano. Questa tesi equivale ad affermare, in netta rottura con il teismo tradizionale, che non è Dio ad avere creato la natura, ma è piuttosto Dio ad avere il fondamento della sua esistenza nella natura. L’interpretazione dell’alienazione religiosa offerta nell’Essenza del Cristianesimo implica la riduzione della teologia ad antropologia: se Dio non è altro che il frutto dell’alienazione dell’essenza umana, allora l’uomo – che nella religione e nella teologia crede di attingere la conoscenza di un Ente autonomo ed esterno a sé – in realtà raggiunge esclusivamente una prima forma di conoscenza di sé. Poiché Dio non è che una proiezione dell’essenza umana, avere coscienza di Dio equivale ad avere coscienza di sé, ossia autocoscienza; e conoscere Dio equivale a conoscere se stessi. Si tratta però di una conoscenza indiretta e inconsapevole, in quanto il fondamento dell’essenza della religione consiste nel fatto che, in essa, l’uomo sia e resti ignaro dell’identità tra sé e Dio in quanto sua produzione. Nella storia delle religioni può sì essere riscontrato un progresso, cioè una graduale riappropriazione della propria essenza da parte dell’uomo: ogni religione riconosce che quella precedente ha adorato come divino qualcosa che è solamente umano, accusandola di idolatria; tuttavia, nessuna è disposta a riconoscere in se stessa questo nucleo antropologico, perché ciò significherebbe annullare se stessa. Soltanto il filosofo ha il sufficiente distacco critico per cogliere la «natura della religione» come produzione umana, avviando così il processo di dissoluzione della teologia nell’antropologia, necessario affinché l’uomo possa attingere una conoscenza verace e compiuta di sé.

L’origine dell’idea di Dio in Feuerbach

Uomo Contraddizione tra l’infinitezza dei propri desideri e i limiti della propria capacità di soddisfarli

Consapevolezza dello squilibrio tra i propri limiti fisici e l’infinitezza della propria essenza

Ipostatizzazione del sentimento di dipendenza dalla natura

Alienazione dell’uomo dalla propria essenza

Primo momento = sistole religiosa

Secondo momento = diastole religiosa

L’uomo allontana da sé la propria essenza e la proietta in Dio

L’uomo si sforza di recuperare la propria essenza attraverso la credenza che Dio esista per salvarlo

Dio è una proiezione della mente umana

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

T7

Religione, antropologia e filosofia

L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Introduzione

➥ Percorso tematico, p. 225

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Nel modo in cui all’uomo è oggetto se stesso, così gli è oggetto Dio; com’egli pensa, sente, così è il suo Dio. Tanto valore ha l’uomo, altrettanto e non di più ha il suo Dio. La coscienza di Dio è l’autocoscienza dell’uomo, la conoscenza di Dio è l’autoconoscenza dell’uomo. Dal suo Dio puoi riconoscere l’uomo e viceversa dall’uomo il suo Dio; ambedue i lati si identificano […]. Se però la religione, la coscienza di Dio, è designata come l’autocoscienza dell’uomo, tale espressione non va intesa come se l’uomo religioso fosse direttamente consapevole del fatto che la sua coscienza di Dio sia la autocoscienza della propria essenza, infatti la mancanza di questa consapevolezza fonda appunto la differentia specifica della religione. Per evitare questo fraintendimento è meglio dire: la religione è la prima, indiretta conoscenza che l’uomo ha di sé. […] Per la religione successiva quella precedente è idolatria: l’uomo ha adorato la sua propria essenza. L’uomo si è obbiettivato, ma non ha riconosciuto l’oggetto come propria essenza; la religione successiva compie questo passo. Ogni progresso nella religione è perciò una più profonda conoscenza di sé. Tuttavia, ogni religione determinata, che designa come idolatre le sue sorelle più vecchie, eccettua se stessa – e fa questo necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione – dal destino, dall’essenza universale della religione; essa imputa solo alle altre religioni quanto invece è colpa – se si tratta peraltro di colpa – della religione in genere. […] Viceversa però a scorgere l’essenza della religione, a lei stessa nascosta, è il pensatore, al quale la religione è oggetto, come non può esserlo per la religione stessa. La critica che Feuerbach fa della religione ne mette in luce l’origine, che va ricercata nel processo di alienazione dell’uomo e nella proiezione dell’essenza umana in Dio. Poiché Dio è un prodotto umano, attraverso la religione l’uomo può conoscere se stesso; si tratta però di una conoscenza solo indiretta, e possibile a condizione che rimanga oscura l’origine dell’idea di Dio. È soltanto grazie alla filosofia, capace di scoprirla, che l’uomo può raggiungere una conoscenza di sé vera e completa.

La filosofia nuova: sensibilità, intersoggettività e amore

Feuerbach attribuisce dunque alla filosofia il compito di superare la teologia e costruire una vera antropologia, che egli carica di una forte valenza emancipatrice: l’alienazione religiosa è, infatti, un processo attraverso il quale l’uomo si immiserisce, trasferendo su un altro Ente la parte migliore di sé. Cogliere la radice umana dell’idea di Dio e offrire una conoscenza verace dell’essenza umana non costituisce, dunque, solo un progresso teorico, bensì significa restituire all’umanità la sua piena dignità. La sensibilità è il punto È evidente che per Feuerbach la filosofia in grado di attuare questo compito dedi partenza ve essere completamente diversa rispetto a quella del passato, da lui etichettata di una filosofia nuova – come si è visto – con la formula di «filosofia teologizzante», per denunciarne il residuo nucleo teologico. Un superamento verace, cioè non teologico, della teologia è possibile per Feuerbach soltanto attraverso una «filosofia nuova», che nasca cioè da un atto di rottura: questo atto di rottura consiste nel prendere le mosse dalla sensibilità, cioè dall’ele-

La filosofia deve restituire all’uomo la sua dignità

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

mento contro il quale, nella interpretazione feuerbachiana, ha peccato tutto il pensiero filosofico post-cristiano, dal neoplatonismo fino a Hegel, contraddistinto dalla scissione tra pensiero e materia; solo partendo dalla sensibilità e ponendo al centro l’uomo inteso come individuo vivente – cioè non solo come soggetto pensante, bensì come «ragione imbevuta del sangue» umano – è possibile assorbire e dissolvere la teologia in un’antropologia totale e consapevole. L’essenza dell’uomo non è il pensiero – gli esseri umani non sono entità astratte –, ma il corpo e i sensi.

T8

La differenza tra la vecchia e la nuova filosofia

L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire

36: La vecchia filosofia partiva da questo assioma: «Io sono una essenza soltanto pensante, astratta; il corpo non è costitutivo della mia essenza»; la nuova filosofia incomincia invece con l’assioma: «Io sono un’essenza reale, sensibile: il corpo è costitutivo della mia essenza; anzi, il corpo nella sua totalità, è il mio io, la mia essenza stessa». Il filosofo di un tempo pensava quindi in continua contraddizione, in continua contesa con i sensi, per schermirsi dalle rappresentazioni sensibili, per non contaminare i concetti astratti; il filosofo nuovo invece pensa in accordo ed in pace con i sensi. […]

In netta opposizione rispetto alla filosofia hegeliana – basata sull’identificazione tra realtà, razionalità e verità – la nuova filosofia assume la sensibilità come fondamento e criterio di ogni verità e realtà: reale non è l’oggetto dato con il pensiero, che è appunto solo un pensiero; soltanto un pensare che si interrompe con l’intuizione sensibile, invece di continuare a muoversi in se stesso, può cogliere anche teoreticamente che cos’è la realtà. Per evitare di cadere nel soggettivismo (ossia nell’idea che la verità coincida con ciò che il soggetto sente, con i suoi stati soggettivi) occorre però spiegare come dalla sensazione – che ha sempre un carattere individuale e determinato – si possa giungere a una verità universalmente valida, anche senza l’intervento di mediazione della ragione. L’intersoggettività Feuerbach risolve questo problema attraverso una teoria dell’intersoggettività, che nella teoria ricorda molto da vicino quella fichtiana, di cui costituisce una sorta di traduzione di Feuerbach materialistica. Come per Johann G. Fichte l’uomo può acquisire coscienza di sé solo attraverso il rapporto con un altro uomo – cioè incontrando un limite omogeneo alla propria razionalità –, così per Feuerbach possiamo percepire un oggetto solo entrando in un rapporto intersoggettivo: e questo perché la sensibilità è ai suoi occhi un’azione reciproca, un rapporto bilaterale in cui ciascun membro è al tempo stesso attivo e passivo, cioè «io» e «tu». Da un lato, sono io a sentire, ma dall’altro il sentire è un’affezione, in quanto ciò che sento mi limita, per cui l’io senziente – come anche l’ente sentito – è al tempo stesso soggetto e oggetto, io e non-io. La conoscenza di un oggetto è possibile solo attraverso la percezione di qualcosa che agisce su di noi: per conoscere un oggetto è necessario, per così dire, uscire dal pensiero e incontrare l’oggetto, che solo i sensi possono darci. Dunque, ciò che rende possibile la conoscenza è la sensibilità; essa è anche il fondamento della realtà: è reale, sostiene Feuerbach, solo ciò che viene sentito. La sensibilità è il fondamento della verità

T9

La coincidenza di verità, realtà e sensibilità

L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire

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Il reale nella sua realtà o in quanto reale è il reale come oggetto del senso: è il sensibile. Verità, realtà, sensibilità sono identici. Solo un ente sensibile è un ente vero, reale. Solo attraverso i sensi un oggetto viene dato in senso autentico – non attraverso il pensare per se stesso. L’oggetto dato col pensare o identico al pensare è soltanto pensiero. Un oggetto, un oggetto reale, mi viene dato cioè soltanto quando io percepisco un

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

ente che agisce su di me, quando la mia autoattività – ammesso che io proceda dal punto di vista del pensare – trova una resistenza, e quindi il suo limite, nell’attività di un altro ente. Il concetto dell’oggetto, se si va a fondo, non è altro che il concetto di un altro io – per questo nella fanciullezza l’uomo ritiene che tutte le cose siano enti forniti di libertà e di volontà –; per questo il concetto dell’oggetto è in generale mediato dal concetto di tu, l’io oggettivato. Per dirla in termini fichtiani, un oggetto, cioè un altro io, non è colto dall’io, ma dal non-io che è in me; perché solo quando vengo trasformato da io in tu, solo quando io sono passivo, si forma la rappresentazione di una attività esistente fuori di me, cioè della oggettività. Ma l’io può diventare non-io solo attraverso il senso. Ciò fonda una universale comunicazione reciproca di particolari (i vari «io»), che recide alla base ogni rischio di deriva soggettivistica: i sensi hanno sì un carattere individuale e determinato, ma ciò che è oggetto di sensazione è contemporaneamente per me e per gli altri, e questo mi offre una garanzia dell’esistenza reale dell’oggetto al di fuori di me. Collegandosi l’uno con l’altro, tutti i «questi» individuali costituiscono quella realtà che, dal punto di vista conoscitivo, è l’unico criterio del vero e del falso. L’amore In questo modo, Feuerbach assegna alle sensazioni una centrale funzione ontologica. In particolare, nell’antropologia feuerbachiana spetta un ruolo di primo piano soprattutto all’«amore», inteso non come vago sentimento spirituale, bensì come autentico bisogno fisico: tra le varie sensazioni l’amore è, infatti, quello che meglio ci permette di cogliere sia la differenza tra essere e non-essere – perché a chi ama importa che qualcosa esista o no – sia quella tra soggettivo e oggettivo; la mancanza dell’oggetto amato, presente solo nella nostra mente, ci provoca infatti dolore, mentre la sua presenza effettiva ci procura una gioia che è la migliore prova ontologica dell’esistenza di un essere determinato.

Le sensazioni rendono possibile la distinzione tra oggettivo e soggettivo

T10

La funzione ontologica dell’amore

L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire

L’umanesimo di Feuerbach

Solo nell’amore, e non nell’astratto pensare si dischiude il mistero dell’essere. L’amore è passione, e soltanto la passione è il marchio dell’esistenza. Esiste solo ciò che – sia esso reale e possibile – è oggetto della passione. Il pensare astratto, senza sensazione e senza passione, toglie la differenza tra essere e non-essere, ma per l’amore è realtà questa differenza che viene meno di fronte al pensiero. Amare non vuole dire altro che rendersi conto di questa differenza. Per chi non ama niente – e l’oggetto dell’amore qui non ci interessa – è assolutamente indifferente che qualcosa sia o no. Ma come io colgo, in generale, l’essere distinto dal non essere solo attraverso l’amore, attraverso la sensazione, così solo attraverso l’amore io colgo un oggetto come diverso da me. Il dolore è una sonora protesta contro l’identificazione di soggettivo ed oggettivo. Il dolore dell’amore ha la sua radice in questo, che ciò che è nella rappresentazione non è nella realtà. L’individuazione e la messa in rilievo del carattere intersoggettivo delle «sensazioni» sfocia nella costruzione di un umanesimo che, proprio per il suo fondamento sensibile, è stato da molti definito umanesimo naturalistico. La nuova filosofia approda all’umanesimo in quanto considera espressione dell’essenza umana non il singolo individuo, bensì esclusivamente la comunità e l’unità tra gli uomini. Questa unità non annulla, però, la particolarità sensibile – dalla cui difesa la nuova filosofia aveva preso le mosse – in quanto, al contrario, nasce proprio dai bisogni sensibili, dalla limitatezza, che fa del singolo un esse31

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

re dipendente dai suoi simili: l’unità del genere si fonda, dunque, sulla «differenza tra io e tu», che è al tempo stesso «necessità del tu per l’io». Ed è nell’unità dell’«io» con il «tu», ossia di ogni uomo (inteso sia come essere pensante, sia come essere che sente e ha delle passioni) con gli altri uomini, che ciascuno può superare i limiti della condizione umana. Così, solo attraverso l’unità con gli altri ciascuno può acquisire la forza e il potere che la religione attribuisce a Dio.

T11

L’umanesimo della nuova filosofia

L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire

➥ Sommario, p. 36

59: L’uomo singolo, preso per sé, né in quanto solo morale né in quanto solo pensante ha in sé l’essenza dell’uomo. L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo – una unità che però si fonda soltanto sulla realtà della differenza tra io e tu. 60: La solitudine è finitezza e limitatezza, la vita in comune è libertà e infinità. L’uomo per sé è uomo (nel senso comune del termine); l’uomo con l’uomo, cioè l’unità di io e tu, è Dio. Dunque, porre la sensibilità e le sensazioni – in particolare, l’amore – come fondamento della realtà e della verità non implica, in Feuerbach, una concezione soggettivistica di esse, poiché il filosofo insiste sul carattere intersoggettivo delle sensazioni: ciò che viene sentito da un individuo viene sentito anche dagli altri. Più in generale, Feuerbach sottolinea l’importanza della dimensione dell’intersoggettività nella vita umana, una dimensione che però non annulla l’individualità dei singoli uomini.

Dall’uomo all’«Unico»: Max Stirner

3 I testi

M. Stirner L’Unico e la sua proprietà: L’egoista che crea dal nulla, T12

➥ Percorso tematico, p. 225

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La religione dell’umanità di Feuerbach è oggetto di aspra critica da parte di Max Stirner, il cui pensiero conduce a un esito nichilistico l’interpretazione giovanehegeliana di Hegel. Stirner fa propria la critica feuerbachiana della religione, indicando in Dio una finzione creata dall’uomo attraverso una proiezione di sé. Tuttavia, egli prende le distanze sia da Feuerbach sia dagli altri esponenti della Sinistra hegeliana, ai quali imputa l’errore di avere riprodotto, in forme diverse, la medesima negazio-

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

L’Umanità è un’entità astratta quanto Dio

L’egoismo è l’unico movente delle azioni umane

ne dell’individuo singolo da essi criticata nel cristianesimo e nella filosofia moderna. L’Uomo e l’Umanità che Feuerbach, Bauer e Karl Marx hanno elevato a essere supremo sono, infatti, agli occhi di Stirner astrazioni alienanti quanto lo stesso Dio cristiano: quanto più si ritrova nell’uomo un essere supremo, tanto più «io» – come l’individuo unico e irripetibile – devo scoprire che questo uomo assoluto e generale è per me estraneo come il Dio cristiano o lo Spirito assoluto della filosofia hegeliana. Il vero superamento della teologia può dunque per Stirner essere realizzato solo a condizione di rinunciare a ogni riferimento a una dimensione universale. La conseguenza del rifiuto dell’orizzonte universalistico – espresso da concetti come quello di «storia universale», «missione» o «Provvidenza», tipici della mentalità cristiana e cristianeggiante – è il riconoscimento dell’egoismo come unico movente dell’uomo reale, cioè dell’individuo singolo, o meglio dell’«Unico», secondo il titolo della principale opera di Stirner, L’unico e la sua proprietà. L’«Unico» è appunto il singolo che, riconosciuta la vuotezza e la falsità degli ideali universali, agisce esclusivamente per realizzare se stesso, cercando di appropriarsi di ogni cosa. In quanto tale, l’Unico può forse apparire meno nobile rispetto all’«uomo» che è al centro delle filosofie degli altri hegeliani di Sinistra, ma è senza dubbio molto più reale: questo egoista particolarissimo si ritrova, infatti, in ciascun uomo, dal momento che ognuno pone se stesso al di sopra di tutto.

La vita e le opere Max Stirner, pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt, nacque a Bayreuth nel 1806. Dopo aver studiato filosofia a Berlino, dove seguì le lezioni di Hegel, e a Erlangen, dal 1839 insegnò in un collegio femminile. Collaborò poi con le riviEsito nichilistico del pensiero di Stirner

T12

L’egoista che crea dal nulla M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà

ste dei giovani seguaci di Hegel, divenendo una delle figure di maggior spicco all’interno della Sinistra hegeliana. Entrato in polemica con gli esponenti della corrente innovatrice della scuola hegeliana, nel 1845 pubblicò la sua opera maggiore, L’Unico e la sua proprietà. Ad essa seguirono la Storia della reazione, che apparve nel 1852,

L’esito ultimo di questa concezione è il nichilismo, ossia il rifiuto di qualunque forma di valore astratto: l’agire del singolo è per Stirner un «creare» dal nulla, in quanto – una volta negata ogni realtà a tutto ciò che è sopra-individuale, che si tratti di Dio o dell’Idea di umanità – esso risulta privo di ogni fondamento che sia diverso dalla brama di disporre di ogni cosa e di consumarla, annichilendola. Ciò che motiva le azioni dell’Unico è soltanto il desiderio di realizzare se stesso, non i progetti di Dio né valori condivisi da altri uomini (per esempio, la libertà). Del tutto indifferente alle conseguenze che i propri comportamenti hanno sugli altri, egli non sente alcun dovere nei loro confronti, né riconosce alcun essere superiore a se stesso. E la condizione solitaria nella quale opera è, per l’Unico, fonte della consapevolezza di essere unico; la solitudine è dunque, per Stirner, una condizione che rafforza l’individuo, contrariamente a ciò che sosteneva Feuerbach. Per il cristiano la storia universale è ciò che di più alto esista, perché essa è la storia di Cristo, ossia dell’«Uomo»; mentre l’egoista considera valida soltanto la sua storia, poiché egli vuole realizzare solo se stesso, non l’idea di umanità, non il piano di Dio, non i progetti della Provvidenza, non la libertà, o altre cose simili. Egli non si considera come uno strumento dell’Idea, o un vaso di Dio, egli non riconosce vocazione alcuna, non si illude di esistere per il progresso dell’u33

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

manità, né di dovere portare a essa il suo obolo: egli invece se la gode, senza darsi pensiero se l’umanità ne tragga o no vantaggio. […] Io sono il padrone della mia forza, e sono tale se so di essere unico. Nell’Unico anche il padrone torna nel suo nulla creatore dal quale è generato. Ogni essere superiore, sia Dio, sia l’Uomo, indebolisce il senso della mia unicità […]. Se io fondo il mio destino su di me, sull’Unico, esso si fonda allora sul suo creatore, contingente e mortale, che consuma se stesso, ed io posso affermare: Ho fondato il mio destino su nulla (Goethe, Vanitas! vanitatum vanitas!) Sul piano politico la posizione di Stirner si traduce in un netto rifiuto sia del socialismo e del comunismo – accusati di volere sottoporre il singolo alla tirannia della collettività – sia del liberalismo, la cui tutela giuridica della libertà cela in realtà un completo assoggettamento dell’individuo allo Stato. L’unica forma di società appropriata, per l’Unico, non è dunque né lo Stato borghese né la società comunistica, bensì quella che egli definisce l’«unione degli egoisti». In essa il rapporto tra gli uomini, di amore o di forza che sia, è determinato esclusivamente dalla scelta del singolo. Concezione Per questo radicale rifiuto del principio di autorità a Stirner si fa solitamente riindividualistica salire l’anarchismo individualistico, che costituisce il principale filone dell’adella libertà narchismo ottocentesco, accanto a quello collettivistico del russo Michail Alek sandrovic Bakunin (1814-1876). Ad esso è accomunato per la stigmatizzazione dello Stato come strumento di oppressione, ma da esso differisce per la concezione radicalmente individualistica della libertà. Dunque, partendo dalla concezione feuerbachiana di Dio come proiezione umana, Stirner rifiuta la concezione astratta e alienante dell’uomo propria della Sinistra hegeliana e sottolinea invece l’unicità di ogni uomo. La negazione dell’esistenza di qualsivoglia entità superiore al singolo individuo e il rifiuto di qualunque forma di autorità conducono Stirner al nichilismo sul piano filosofico e all’a➥ Sommario, p. 36 narchismo individualistico sul piano politico.

Rifiuto di ogni autorità: l’anarchismo individualistico

La dimensione dell’individualità

Negazione dell’individualità

Teologia

Sinistra hegeliana

Stirner

Pone Dio come essere supremo

Pone l’umanità come essere supremo

È reale solo il singolo individuo

Alienazione dell’individuo

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Affermazione dell’individualità

Rifiuto di ogni entità sopra-individuale

nichilismo

Rifiuto di ogni forma di autorità

anarchismo individualistico

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel Suggerimenti bibliografici Il quadro più suggestivo e compiuto della dissoluzione dello hegelismo è tuttora quello offerto da K. Löwith in Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1941. Un approfondimento interessante su aspetti particolari del pensiero dei diversi esponenti della Sinistra hegeliana è contenuto nel libro di C. Cesa, Studi sulla sinistra hegeliana, Argalia Editore, Urbino 1972. Sulla filosofia di Bauer è uscita di recente, in italiano, la monografia di M. Tomba, Crisi e critica in Bruno Bauer. Il principio di esclusione come fondamento del politico, Bibliopolis, Napoli 2002. Per una visione complessiva del pensiero di Feuerbach, si consiglia l’Introduzione a Feuerbach di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1978. Sulla filosofia della religione di Feuerbach, si può vedere il libro di U. Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Milano 1972. I brani antologizzati sono tratti da: B. Bauer, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, cap. 12, in La sinistra hegeliana, a cura di K. Löwith, trad. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1966, pp. 208-209, 219-220. A. Ruge, I nostri ultimi dieci anni, in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 10-12. L. Fueberbach, Feuerbach e Hegel, in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 303-305. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire: parr. 4-5 e 9-10 (T5), par. 28 (T4), par. 36 (T8), parr. 59-60 (T11), in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 313, 320, 353-354, 362, 363-364. L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 2007 (quarta ristampa): pp. 3638 (T7), pp. 38 e 48 (T6). M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 62-63.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Sommario 1. DESTRA

E

SINISTRA

HEGELIANA

L’influenza del pensiero di Hegel è stata notevole fin dagli ultimi anni della vita del filosofo; è lui stesso a fondare la scuola hegeliana, luogo di discussione e anche di critica dell’hegelismo. Contro l’idealismo Herbart sostiene la contraddittorietà dei concetti dati dall’esperienza. Secondo il realismo herbartiano la realtà è fatta di entità semplici e immutabili, i reali; tra essi ci sono rapporti di perturbazione reciproca, a cui ogni reale reagisce con un atto di autoconservazione. Anche la coscienza è un reale: il suo atto di autoconservazione genera le rappresentazioni; strumento di studio di esse è la matematica. Herbart pone così le basi per la psicologia scientifica. [par. 1] Alla morte di Hegel la scuola hegeliana si divide in due correnti: la Destra è conservatrice e mira a mantenere il sistema hegeliano; la Sinistra è critica verso di esso e conduce alla sua dissoluzione. I temi centrali del dibattito sulla filosofia hegeliana sono il rapporto tra essa e la religione e il significato politico del pensiero hegeliano. [par. 2] Destra e Sinistra interpretano in modi diversi l’ambiguo tema hegeliano della necessità del superamento della religione nella filosofia: l’una sostiene la coerenza tra la filosofia hegeliana e i dogmi cristiani, l’altra mira all’umanizzazione del cristianesimo. Tra gli esponenti della Sinistra Strauss sostiene che la storia sacra è un mito, trasposizione in forma di racconto dell’idea metafisica dell’unione di uomo e Dio; Bauer afferma, invece, che nella filosofia di Hegel i dogmi cristiani perdono il senso religioso; la storia sacra è ridotta a una fiaba, di cui l’uomo ha bisogno solo fin quando non si sia elevato alla filosofia. [par. 3] L’ambivalente equazione di Hegel tra razionale e reale è intesa dalla Destra come legittimazione dell’ordine politico esistente, dalla Sinistra come affermazione della necessità di trasformare la realtà. Con Ruge, che sottolinea la contraddizione tra sistema e dialettica di Hegel, emerge l’esigenza di unire critica filosofica della realtà e prassi. [par. 4] 2. UOMO, DIO

E NATURA NEL PENSIERO DI

FEUERBACH

Feuerbach critica la religione sul piano filosofico. Pur riconoscendo l’influenza di Hegel sul proprio pensiero, ne rifiuta l’impostazione logica e metafisica, contribuendo così alla dissoluzione dell’hegelismo. [par. 1] La filosofia hegeliana separa il pensiero dalla realtà e disconosce il valore della sensibilità, concependo l’Essere come entità priva di determinazioni. Al «questo logi-

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co» hegeliano, oggetto del pensiero astratto, Feuerbach oppone il «questo reale», entità individuale che solo i sensi possono cogliere. Il disconoscimento del valore della sensibilità è frutto dell’influenza esercitata dalla teologia sulla filosofia moderna. L’opposizione tra esse è solo apparente: la filosofia ha trasformato Dio in ragione, ma ha attribuito ad essa lo stesso carattere astratto conferito dalla teologia a Dio ed è quindi una filosofia teologizzante. Hegel ha rovesciato il rapporto tra soggetto e predicato, facendo del pensiero il soggetto e degli individui concreti un attributo di esso. Occorre quindi un rovesciamento della dialettica hegeliana. [par. 2] Le religioni hanno origine nell’alienazione dell’uomo: consapevole della propria finitezza e desideroso di trascenderla, egli proietta la propria essenza in Dio. Quindi conoscere Dio è conoscere se stessi. Ma la conoscenza data dalla teologia è incompleta, perché la religione è fondata sull’ignoranza, da parte dell’uomo, dell’identità tra sé e Dio. Solo con la filosofia l’uomo giunge alla piena conoscenza di sé. [par. 3] Compito della filosofia è superare la teologia; Feuerbach propone una filosofia nuova, che rivaluta la sensibilità e pone al centro dell’attenzione l’uomo come essere vivente. La sensibilità è il fondamento della realtà e della verità. Per evitare il soggettivismo Feuerbach elabora una teoria dell’intersoggettività: le sensazioni sono individuali, ma ciò che un individuo sente è sentito anche dagli altri. Le sensazioni, e in particolare l’amore, ci permettono di distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Per il rilievo dato all’intersoggettività la filosofia feuerbachiana è una forma di umanesimo: espressione dell’essenza umana è la comunità degli uomini; ma ciò non annulla la distinzione tra essi. [par. 4] 3. DALL’UOMO

ALL’«UNICO»:

MAX STIRNER

Stirner condivide con Feuerbach l’idea di Dio come produzione umana, ma ritiene che la Sinistra hegeliana, al pari della religione, abbia negato l’individualità dell’uomo. Per superare la teologia occorre rinunciare alla dimensione universale e all’idea di Umanità: l’uomo reale è l’Unico, essere irripetibile al di sopra del quale non esiste nulla e le cui azioni sono motivate soltanto dall’egoismo. Esito di questa concezione è il nichilismo. Il rifiuto di ogni autorità conduce invece, sul piano politico, all’anarchismo individualistico.

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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel

Parole chiave Alienazione. Nella critica che Feuerbach fa della religione è il processo da cui essa ha origine. Tale processo è suddiviso in due momenti: nel primo l’uomo allontana la propria essenza da sé e la trasferisce in un essere diverso (Dio); nel secondo cerca di recuperarla attraverso la concezione di Dio come fonte di salvezza. Amore. Nella teoria di Feuerbach non è un sentimento di natura spirituale, ma una sensazione, il bisogno fisico che un individuo prova nei confronti di un altro. L’amore permette di cogliere la differenza tra essere e non-essere e ci dà la prova dell’esistenza dell’essere che amiamo. Destra. Termine con cui viene indicata la corrente conservatrice della scuola hegeliana. I suoi esponenti, che appartengono alla generazione più anziana dei discepoli di Hegel e occupano posizioni di rilievo nell’ambiente accademico, si propongono di mantenere inalterato il sistema di Hegel. Filosofia nuova. È la filosofia che Feuerbach contrappone alla filosofia teologizzante. Essa nasce da una rivalutazione della sensibilità umana e considera l’uomo non solo come essere pensante, ma come essere vivente, della cui essenza fanno parte il corpo e i sensi. Filosofia teologizzante. Con questa espressione Feuerbach indica la filosofia moderna, che ha conferito alla ragione lo stesso carattere astratto e la stessa distanza dalla natura sensibile e dagli uomini che la teologia ha attribuito a Dio. Mito. Strauss usa questo termine per indicare un’idea metafisica espressa in forma di racconto. Un esempio di mito è il racconto evangelico della vita, della morte e della resurrezione di Gesù Cristo: attraverso questo mito viene espressa l’idea dell’unione tra finito (l’uomo) e infinito (Dio). Nichilismo. Nella teoria di Stirner è la negazione di ogni forma di astrazione e, dunque, di concetti quali quelli di Dio e di Umanità: sono reali soltanto i singoli individui. Perturbazione. Con questo termine Herbart indica i rapporti che intercorrono tra le entità (i reali) che costituiscono la realtà. «Questo logico». Espressione con cui Feuerbach indica l’oggetto astratto del pensiero. Il «questo» così inteso è applicabile indifferentemente a tutti gli og-

getti concreti (in realtà molto diversi tra loro), perché il pensiero è universale. «Questo reale». Con questa espressione Feuerbach indica l’oggetto della realtà, ossia un’entità individuale, unica e irriducibile a qualunque altra. Essa si contrappone al «questo logico» (che è universale) e può essere colta solo attraverso i sensi, non con il pensiero. Reali. Nella filosofia di Herbart essi sono entità semplici e immutabili dalle quali è costituita la realtà. Tra queste entità ci sono rapporti di perturbazione reciproca, a cui ogni reale reagisce con un atto di autoconservazione. Rovesciamento. Questo termine indica sia il metodo della dialettica hegeliana della contraddizione, che capovolge i rapporti di predicazione che effettivamente esistono (trasformando il predicato in soggetto e il soggetto in predicato), sia il presupposto che Feuerbach considera necessario per ristabilire tali rapporti: a tal fine occorre un rovesciamento della dialettica hegeliana. Anche le religioni sono fondate su un rovesciamento della realtà, poiché in esse Dio (un prodotto del pensiero umano) viene presentato come creatore dell’uomo. Sensibilità. Caratteristica dell’essenza dell’uomo. La sensibilità, fondamento della realtà e della verità, non è mera passività, bensì è un’azione reciproca tra l’io che sente e ciò che viene sentito. Il valore della sensibilità degli individui e il loro carattere concreto vengono sottolineati da Feuerbach contro la concezione hegeliana dell’Essere come entità astratta e priva di determinazioni. Sinistra. Questo termine indica la corrente innovatrice della scuola hegeliana. In contrasto con la Destra, i suoi esponenti (che appartengono alla generazione più giovane dei discepoli di Hegel) hanno un atteggiamento critico nei confronti della filosofia hegeliana e tendono a un radicale cambiamento di prospettiva. Questa tendenza ha come esito la dissoluzione del sistema hegeliano. Unico. Termine con cui Stirner indica il singolo individuo: mosso esclusivamente dall’egoismo, egli pone se stesso al di sopra di tutto e mira a impadronirsi di ogni cosa per poi annientarla. Non riconosce alcun dovere verso gli altri uomini, né alcuna entità superiore a se stesso (sia essa Dio o l’Umanità), e trae dalla condizione solitaria in cui vive un rafforzamento del senso della propria unicità. 37

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario DESTRA 1

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E

SINISTRA

Lavoriamo sui testi

HEGELIANA

Perché Hegel fondò la scuola che sarebbe stata chiamata scuola hegeliana? (max 2 righe) Qual è, secondo Herbart, il ruolo della matematica? (max 4 righe) Da che cosa fu alimentato il dibattito tra Destra hegeliana e Sinistra hegeliana? (max 4 righe) Spiega in un massimo di 5 righe perché secondo Bauer la filosofia hegeliana priva il dogma della Trinità del suo significato religioso. Qual è, secondo Ruge, la contraddizione tra il sistema hegeliano e la dialettica di Hegel? (max 4 righe)

UOMO, DIO

E NATURA NEL PENSIERO DI

Quale differenza emerge in T1 tra la concezione cristiana della Trinità e il modo in cui la intende Hegel? (max 4 righe)

16

Perché, in T2, la dialettica hegeliana viene considerata rivoluzionaria? (max 3 righe)

17

Come viene descritta, in T3, la differenza di impostazione tra Hegel e Feuerbach? (max 1 riga)

18

Spiega in un massimo di 4 righe perché, in T4, Feuerbach sostiene che l’applicazione del «questo logico» conduce alla soppressione del diritto.

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Qual è, in T5, l’elemento comune alla teologia e alla filosofia speculativa? (max 1 riga)

20

Che cosa è la sistole religiosa descritta in T6? (max 4 righe)

21

Spiega in un massimo di 3 righe perché, in T7, la religione viene definita conoscenza indiretta che l’uomo ha di sé.

22

Qual è l’atteggiamento, descritto in T8, della vecchia filosofia verso i sensi? (max 2 righe)

23

Quale condizione viene indicata in T9 come necessaria per la rappresentazione dell’oggettività? (max 2 righe)

24

Come viene spiegata in T10 la differenza tra il pensiero e l’amore? (max 3 righe)

FEUERBACH

6

Spiega in un massimo di 3 righe perché Feuerbach sostiene che nemmeno la filosofia di Hegel riconosce il valore della sensibilità.

7

Qual è, secondo Feuerbach, l’elemento comune alla teologia e alla filosofia moderna? (max 4 righe)

8

Qual è per Feuerbach il fine del rovesciamento attuato dalla dialettica hegeliana? (max 3 righe)

9

15

Spiega in un massimo di 4 righe perché Feuerbach sostiene che la conoscenza di sé che l’uomo ottiene grazie alla religione è inconsapevole.

10

Perché la teoria di Feuberbach corre il rischio di cadere nel soggettivismo? (max 3 righe)

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Qual è, in T11, il fondamento della comunità umana? (max 1 riga)

11

Qual è il ruolo attribuito da Feuerbach alla sensazione dell’amore? (max 2 righe)

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Come viene descritto in T12 l’atteggiamento dell’«Unico» nei confronti dell’idea di umanità? (max 3 righe)

DALL’UOMO

ALL’«UNICO»:

MAX STIRNER

12

Qual è secondo Stirner l’errore commesso sia dalla Sinistra hegeliana, sia dalla filosofia moderna che essa critica? (max 2 righe)

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Qual è la condizione necessaria per superare la teologia? (max 2 righe)

14

Perché Stirner rifiuta il socialismo? (max 2 righe)

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard 1. Schopenhauer 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La crisi del razionalismo ottocentesco L’eredità kantiana e il sistema I fenomeni La cosa in sé come volontà L’arte e la catarsi estetica L’etica

2. Kierkegaard 1. La filosofia e l’esistenza individuale 2. Vita estetica e vita etica 3. La religione ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Schopenhauer

1 I testi

A. Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione: Il mondo come rappresentazione, T1; Le forme a priori e il principio di ragion sufficiente, T2; Il carattere illusorio del mondo fenomenico, T3; La volontà come essenza del corpo, T4; I caratteri del-

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la volontà come cosa in sé, T5; La volontà divora le sue oggettivazioni, T6; La vita umana è un pendolo tra il dolore e la noia, T7; Il piacere estetico, T8; Dovere e compassione, T10 La libertà del volere umano: Motivi, carattere e necessità dell’agire, T9

La crisi del razionalismo ottocentesco

La filosofia di Arthur Schopenhauer è in netta controtendenza rispetto al contesto culturale in cui nasce, cioè rispetto all’ottimismo razionalistico dei grandi sistemi idealisti, che dominano la scena filosofica tedesca nella prima metà dell’Ottocento. Ciò ha indotto molti interpreti a considerarla come una svolta determinante nella storia del pensiero ottocentesco, ovvero come il punto di partenza di una nuova stagione filosofica – caratterizzata dall’irrazionalismo e dal pessimismo – che si sarebbe sviluppata pienamente solo nel secolo successivo. Un pensatore ‘inattuale’ Una conferma significativa di questa tesi è costituita dalla fortuna tardiva di Schopenhauer: rimaste del tutto ignote al grande pubblico per circa un trentennio, le sue opere principali uscirono dall’oblio solo dopo il fallimento rivoluzionario del 1848, che aveva mostrato il carattere illusorio delle ideologie liberali e progressiste, destando in molti intellettuali – sconfitti e minacciati dalla reazione politica e ecclesiastica – il desiderio di estraniarsi dalla realtà e dalla storia. Di lì a poco Schopenhauer sarebbe poi stato consacrato – nelle pagine della terza Considerazione inattuale (1874) di Friedrich Nietzsche – come l’unico vero educatore della nuova Germania. Da quel momento in poi, il pensiero di Schopenhauer ha influenzato, in maniera diretta o indiretta, tutti i principali esponenti delle filosofie irrazionaliste. Analogie Una vicenda per molti versi analoga è quella dell’altro filosofo ‘inattuale’ della con Kierkegaard prima metà dell’Ottocento, Søren Kierkegaard, accomunato a Schopenhauer sia nella critica dell’idealismo che dall’anti-intellettualismo. In lui questo atteggiamento si esprime nella valorizzazione dell’esistenza umana individuale, concreta, eticamente impegnata e religiosamente orientata verso un rapporto tormentato e sofferto con Dio. E anche i temi della sua riflessione non influenzeranno i contemporanei, ma troveranno estimatori e seguaci nel XX secolo. Una filosofia in controtendenza

2 Tracce della cultura dell’epoca

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L’eredità kantiana e il sistema L’eccentricità di Schopenhauer rispetto al proprio tempo trova espressione anche nella vita del filosofo, trascorsa per la maggior parte in una sorta di ritiro appartato. Tuttavia, ciò non significa affatto che il suo pensiero sia il frutto geniale di

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard

L’esigenza sistematica

Un concetto di sistematicità diverso dagli idealisti

Tre esperienze fondamentali: lo studio della filosofia kantiana

l’influenza di Goethe

l’incontro con la filosofia indiana

Un radicale ripensamento del kantismo

una meditazione solitaria: al contrario, la filosofia di Schopenhauer reca tracce profonde della cultura del suo tempo. L’impronta più evidente è l’esigenza di sistema: pur concependo il proprio pensiero come una radicale alternativa rispetto alla filosofia idealistica di Fichte e, soprattutto, di Hegel, Schopenhauer condivide con i suoi avversari l’intento sistematico. Questa istanza trova compiuta espressione nel Mondo come volontà e rappresentazione (1818), da Schopenhauer stesso additato come la realizzazione della propria missione filosofica: i quattro libri in cui l’opera è articolata corrispondono ad altrettante parti del sistema, cioè la teoria della conoscenza, la metafisica, l’estetica e l’etica. Schopenhauer tiene, però, a differenziare la propria concezione sistematica da quella sostenuta dai filosofi idealisti. Nella sua prospettiva, la filosofia è sistematica non in quanto le parti che la compongono siano legate da una rigorosa concatenazione logica – come avviene per esempio nel caso di Fichte – ma in quanto esse illustrano in modo organico un «unico pensiero»: ogni elemento sostiene gli altri e viene da essi sostenuto, in modo tale che le varie dottrine risultano pienamente comprensibili solo dopo che si sia conclusa la lettura dell’intera opera; quest’ultima presenta, infatti, una struttura a spirale, dal momento che lo stesso oggetto è considerato sotto diversi punti di vista. All’elaborazione del sistema Schopenhauer giunge attraverso un periodo di formazione abbastanza breve, segnato da tre esperienze fondamentali: 1) lo studio della filosofia di Kant, cui Schopenhauer approda attraverso il filtro di Gottlob Ernst Schulze (1761-1833), il professore di Gottinga che tanta notorietà aveva acquisito con le sue critiche scettiche al pensiero kantiano. Il primo risultato del confronto con la filosofia kantiana è la dissertazione Sulla quadruplice ragione del principio di ragion sufficiente, presentata a Jena nel 1813: si tratta di un lavoro di chiara ispirazione kantiana, che ignora deliberatamente gli sviluppi idealistici della filosofia critica; 2) l’incontro e la collaborazione con Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) – durante il soggiorno a Weimar – che stimola in Schopenhauer l’interesse per le scienze naturali e lo orienta alla ricerca di un elemento originario comune ai vari esseri viventi: proprio in Goethe egli indicherà il nume tutelare del nuovo sistema, nonostante la rottura verificatasi tra i due poco prima della pubblicazione del Mondo, a causa di alcune divergenze relativamente alla teoria dei colori; 3) lo studio della civiltà indiana, intrapreso a Weimar – sotto la guida dell’orientalista Frederich Mayer – e approfondito negli anni trascorsi a Dresda. L’influenza del pensiero indiano sulla filosofia di Schopenhauer non deve, però, essere sopravvalutata. Innanzitutto, Schopenhauer non considerò mai il mondo orientale come qualcosa di radicalmente alternativo all’Occidente: ne apprezzò gli aspetti convergenti con il suo pensiero, ma ne stigmatizzò i difetti, soprattutto la propensione a rivestire di mitologia quella metafisica che egli riteneva di essere riuscito a esporre con chiarezza concettuale. Tra queste esperienze, la più importante resta senza dubbio il confronto con la filosofia kantiana, che costituisce il punto di partenza della riflessione di Schopenhauer in tutti gli ambiti del sistema, dalla gnoseologia all’etica. L’interesse della filosofia di Schopenhauer risiede, non da ultimo, proprio nella profonda rielaborazione cui egli sottopone temi e motivi kantiani, inserendoli in una cornice metafisica radicalmente diversa. 41

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Schopenhauer e il suo tempo

Esigenza sistematica comune con gli idealisti, ma non costruita attraverso una concatenazione logica Tre esperienze fondamentali

Sistema le cui parti illustrano un «unico pensiero», con un andamento a spirale in cui lo stesso oggetto è considerato da punti di vista diversi

Studio della filosofia kantiana e radicale ripensamento del criticismo

Influenza di Goethe: interesse per le scienze naturali e ricerca di un elemento originario comune ai vari esseri viventi

Studio della filosofia orientale, per gli aspetti convergenti con il suo pensiero

Schopenhauer

La vita e le opere Arthur Schopenhauer nacque a Danzica, uno dei maggiori porti della Prussia (attualmente città della Polonia) nel 1788 in una famiglia facoltosa: il padre Heinrich Floris era un ricco commerciante e la madre Johanna Henriette Trosiener una scrittrice di romanzi popolari e alla moda. Venne educato a Danzica e Amburgo, soggiornò per tre anni in Francia, dal 1797 al 1799, studiando nel collegio di Le Havre, e viaggiò in vari Paesi europei, Olanda, Svizzera, Inghilterra e Francia, tra il 1803 e il 1804. Dopo la morte del padre, avvenuta, forse per suicidio, nel 1805, mentre Arthur si occupava della ditta paterna, la madre si trasferì a Weimar dove il suo circolo letterario era frequentato dai fratelli Grimm, dagli Schlegel, da Goethe e dallo scrittore e letterato Christoph Martin Wieland. Due anni dopo il figlio la raggiunse e visse con lei per due anni, pur disapprovando la sua vita mondana e la sua condotta: poté però riprendere gli studi dedicandosi all’approfondimento della cultura classica. Nel 1809 Schopenhauer si iscrisse alla facoltà di medicina dell’università di Gottinga dove assistette alle lezioni del filosofo Gottlob Ernst Schulze che aveva assunto una posizione propria, ispirata allo scetticismo e alla filosofia di David Hume, all’interno dei dibattiti sul criticismo. Durante questo periodo Schopenhauer conobbe i due filosofi fondamentali per la sua formazione: Platone e Kant. Due anni dopo passò alla facoltà di filosofia dell’università di Berlino dove seguì i corsi di Fichte e di Friedrich Schleiermacher, maturando fin da allora una profonda avversione per la filosofia idealista. Allontanatosi da Berlino in seguito alle vicende della guerra contro Napoleone, conseguì la laurea in filosofia a Jena nel 1813 con la tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, pur non presentandosi personalmente a discutere

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la propria dissertazione. Questa venne pubblicata in quello stesso anno, mentre Schopenhauer tornò a Weimar dove ebbe un intenso scambio culturale con Goethe, all’origine della dissertazione Sulla vista e i colori (1816), e conobbe l’orientalista Frederich Mayer. Trasferitosi a Dresda dopo la rottura con la madre, tra il 1814 e il 1818 lavorò alla stesura del suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, che, pubblicato in quella città nel 1818, con la data dell’anno successivo, non venne ben accolto, tanto che buona parte dei volumi andò al macero. Il mondo è suddiviso in quattro libri: 1) il primo indaga su Il mondo come rappresentazione (fenomeno), ossia sulle forme a priori attraverso cui il soggetto conosce la realtà e se stesso come corpo (gnoseologia, scienza); 2) utilizzando come elemento unificante il corpo si passa poi al secondo libro, Il mondo come volontà, in cui si esaminano le oggettivazioni della volontà, e attraverso di esse si comprende che il reale non è un tutto regolato da leggi razionali ma che la sua essenza (la cosa in sé), anche quella dell’uomo, è la volontà, una forza oscura e priva di fini (metafisica); 3) nel terzo libro si torna a Il mondo come rappresentazione per comprendere come la volontà si oggettivi nelle idee, che forniscono una comprensione del reale più unitaria e profonda dei fenomeni, e la funzione liberatrice dell’arte (ancora metafisica, filosofia della natura ed estetica); 4) il quarto libro, intitolato ancora Il mondo come volontà indaga l’affermazione e la negazione di sé da parte della volontà che la porta alla piena liberazione e all’annullamento del dolore (etica). Nel 1819 Schopenhauer fece un viaggio in Italia e, tornato a Berlino nel 1820, ottenne la libera docenza pur scontrandosi duramente con Hegel durante la prova; iniziò così i suoi corsi universitari che fissò nel medesimo

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard

orario delle lezioni hegeliane, ma dovette ben presto interromperli per mancanza di studenti. Dopo vari viaggi, tentò inutilmente di riprendere l’attività universitaria a Berlino nel 1831, ma, anche in seguito al colera, abbandonò definitivamente la città e la carriera accademica e si trasferì a Francoforte sul Meno. Riprese a pubblicare nel 1836 con il saggio Sulla volontà della natura cui seguirono Sulla libertà del volere (1839) e Sul fondamento della morale (1840), raccolti poi insieme sotto il titolo I due problemi fondamentali dell’etica (1841). Nel 1844

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curò una seconda edizione del Mondo con l’aggiunta di un volume di Supplementi e ripubblicò anche la sua tesi di laurea, ma l’accoglienza fu egualmente fredda. Solo nel 1851 con la raccolta di saggi Parerga e paralipomena ottenne finalmente il successo e divenne un autore apprezzato e studiato sia in Germania che all’estero. Grazie alla fama raggiunta anche la sua opera maggiore ottenne finalmente riconoscimento e, esaurita la seconda edizione, ne venne pubblicata una terza nel 1859. L’anno successivo Schopenhauer morì a Francoforte.

I fenomeni Il nostro esame del pensiero di Schopenhauer segue la traccia della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione e quindi prende avvio dal primo libro, il cui oggetto è l’analisi della conoscenza che noi abbiamo dei fenomeni.

Il principio di ragion sufficiente e le sue forme Rieleborazione della teoria kantiana del fenomeno

T1

Il mondo come rappresentazione A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 1

Modifiche rispetto al kantismo: la centralità del principio di ragion sufficiente

La teoria della conoscenza di Schopenhauer deriva dal recupero e dalla profonda rielaborazione della nozione kantiana di fenomeno. Egli riprende, infatti, la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, affermando che il contenuto della conoscenza sono solo le cose come appaiono attraverso le forme a priori della facoltà conoscitiva (in cui egli unifica le varie facoltà che Kant distingue: sensibilità, intelletto e intuizione pura), non solo agli uomini, bensì a tutti gli esseri viventi: in questo senso, il «mondo» non è altro che una «rappresentazione», o meglio l’insieme delle rappresentazioni collegate tra loro dall’attività del soggetto, secondo principi a priori. Il mondo esiste quindi solo in rapporto a colui che se lo rappresenta e che diventa anche la condizione necessaria della sua esistenza. «Il mondo è mia rappresentazione»: – questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto sia capace di accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s’egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente la terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Schopenhauer modifica, però, la concezione kantiana del fenomeno sia in singoli punti sia nella sua ispirazione fondamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, la revisione principale della dottrina kantiana operata da Schopenhauer consiste nel fatto che egli riconduce tutte le strutture a priori della nostra facoltà conoscitiva a una radice unitaria, cioè al principio di ragion sufficiente nelle sue diverse forme, che, secondo la classificazione proposta nella dissertazione di laurea, sono quattro: 1) applicato alle rappresentazioni intuitive – attraverso le quali formiamo la no43

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zione di esperienza – esso è il principio di spiegazione del divenire (ratio fiendi), e coincide con la legge di causalità, secondo la quale «ogni cosa presuppone una causa per esistere»; 2) applicato ai concetti, che formano il contenuto totale della ragione, il principio di ragion sufficiente è invece principio del conoscere (ratio cognoscendi), cioè la premessa che è presupposta da una conseguenza; 3) in riferimento alle rappresentazioni di spazio e tempo – considerate separatamente dalla materia e applicate nell’ambito puro della matematica e della geometria – esso è il principio secondo il quale «tutte le parti di spazio e tempo si determinano reciprocamente sulla base dei loro rapporti», che fonda l’essere degli enti matematici (in questa forma, esso è dunque principio dell’essere o ratio essendi); 4) infine, in riferimento alle azioni, esso assume la forma di ragione dell’agire (ratio agendi), coincidente con la legge della motivazione della volontà, secondo la quale «tutte le azioni devono avere dei motivi». Riduzione delle forme Da tale principio derivano le forme a priori della conoscenza, che Schopenhauer a priori e principio riduce a tre: il principio di causa e lo spazio e il tempo, i quali insieme costituidi individuazione scono il principio d’individuazione, cioè l’insieme delle caratteristiche a priori che determinano e definiscono l’esistenza di ogni singolo individuo. Come Kant, anche Schopenhauer ritiene, dunque, che le forme del mondo reale siano le forme della facoltà conoscitiva del soggetto. Esse si trovano e sono conosciute a priori, in quanto – essendo condizioni di possibilità dell’esperienza – la loro conoscenza non può derivare da quest’ultima.

T2

Le forme a priori e il principio di ragion sufficiente A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 2

[…] le forme essenziali e perciò universali d’ogni oggetto, le quali sono tempo, spazio e causalità, possono, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell’oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto è un capitale merito di Kant, un immenso merito. Io affermo ora in più, che il principio di ragione è l’espressione comune per tutte queste forme dell’oggetto, delle quali siamo consci a priori. E che perciò tutto quanto noi sappiamo puramente a priori, non è nulla se non appunto il contenuto di quel principio e ciò che da esso deriva […]

Nelle intuizioni pure di tempo e spazio il principio di ragion sufficiente si manifesta rispettivamente come legge di successione e come posizione, cioè come reciproca determinazione di parti. Spazio e tempo sono per Schopenhauer il principio d’individuazione (principium individuationis), cioè il fattore che distingue e separa un individuo da ogni altro. La legge di causalità Nella legge di causalità il principio di ragione assume il significato di «ragione del divenire» (ratio fiendi), in base alla quale ogni mutamento deve avere una causa. L’applicazione del principio di causa alle modificazioni dei nostri organi sensoriali produce le nostre rappresentazioni empiriche complete, ed è dunque alla base della costituzione del mondo dell’esperienza: sulla base del principio di causa – che afferma che ogni mutamento deve avere una causa – l’intelletto non solo considera i mutamenti dei nostri sensi come effetti di una causa, bensì rappresenta questa causa come un oggetto collocato nello spazio, attraverso un procedimento inconscio; in questo modo, ha luogo il passaggio da ciò che è soggettivo a ciò che è oggettivo, da cui sorge l’esperienza.

L’origine delle forme pure di tempo e spazio

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Legge causale come unica forma a priori dell’intelletto

Sulla base di questi presupposti, Schopenhauer indica nel principio di causalità l’unica forma a priori dell’intelletto: una volta posto che esso basta da solo per spiegare la costituzione del mondo dell’esperienza, viene meno la necessità di ammettere le altre categorie dell’Analitica trascendentale. Inoltre, la deduzione kantiana delle categorie – che, partendo dal presupposto dell’identità tra pensare e giudicare, aveva ricavato la tavola delle categorie da quella dei giudizi – agli occhi di Schopenhauer risulta debole anche per un altro motivo: dato che il principio di causalità è applicato ai dati sensoriali in modo intuitivo e al di sotto della soglia della coscienza, è assurdo sostenere, come afferma Kant, che l’oggettività dell’esperienza si produca solo mediante l’intervento di concetti e giudizi.

I principi della conoscenza in Schopenhauer

Ripresa della distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé Il «mondo» non è altro che una «rappresentazione», o meglio l’insieme delle rappresentazioni collegate tra loro dall’attività del soggetto, secondo principi a priori Principio di ragion sufficiente, nelle sue varie forme come radice unitaria di tutte le forme a priori

Spazio e tempo come legge di successione e come posizione, cioè come reciproca determinazione di parti

Principio di causalità che produce le nostre rappresentazioni empiriche complete

Motivi della volontà come ragioni sufficienti dell’agire

Principio di individuazione

Mondo dell’esperienza

Azioni necessarie

Il velo di Maya Come si è già accennato, Schopenhauer non si limita, però, a rivedere singoli aspetti della dottrina kantiana, bensì conferisce alla propria concezione del fenomeno un significato complessivo radicalmente differente, caricandolo di un valore metafisico. Schopenhauer riconosce, con Kant, che la soggettività delle forme a priori non mette in discussione la validità delle scienze, intese come indagini dei rapporti esistenti tra i fenomeni: in quanto costruito sulla base del principio di ragion sufficiente, il mondo fenomenico possiede la stabilità e la regolarità necessarie al sapere scientifico. Riduzione del fenomeno Tuttavia, Schopenhauer si discosta dallo spirito del criticismo in quanto riduce a illusione il mondo fenomenico a una finzione evanescente, un’illusione priva di ogni conin Schopenhauer sistenza ontologica: tutto ciò che appartiene al mondo fenomenico è costantemente soggetto a divenire – in quanto sottoposto al tempo – e secondo il principio di causalità esiste solo in relazione ad altro, da cui è separato in base alle forme dello spazio e del tempo, che fungono da principio d’individuazione. All’illusione del fenomeno Schopenhauer contrappone la sfera dell’in sé, presentandola come l’unica vera realtà. Valore metafisico del fenomenismo di Schopenhauer

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Significato metafisico del dualismo fenomeno / noumeno

T3

Il carattere illusorio del mondo fenomenico

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 3

4

Il rapporto tra fenomeno e noumeno è così caricato di un significato metafisico, che richiama molto da vicino il dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo delle idee. A quest’ultimo non a caso Schopenhauer si richiama esplicitamente, accostando Platone e la sapienza indiana a Kant, sulla base di una evidente forzatura, cioè l’interpretazione del kantiano «fenomeno» come semplice «apparenza». Interpretazione che poggia sul declassamento delle forme soggettive della nostra facoltà conoscitiva: nella filosofia di Schopenhauer, queste ultime perdono il ruolo positivo di unici strumenti della nostra conoscenza, per diventare l’esatto opposto, ossia ciò che occulta l’essenza del mondo, tessendovi intorno il velo di Maya. Come nel tempo ciascun attimo esiste solo in quanto ha cancellato l’attimo precedente – suo padre – per venire anch’esso con la medesima rapidità alla sua volta cancellato; come passato e avvenire (facendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto) sono illusori a modo di sogni, e il presente non è che un limite tra quelli, privi di estensione e durata: proprio così riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le altre forme del principio di ragione. E comprenderemo che come il tempo, così anche lo spazio, e come questo, così tutto ciò che è insieme nello spazio e nel tempo, tutto, insomma, ciò che proviene da cause e motivi, ha un’esistenza solo relativa, esiste solo mediante e per un’altra cosa che ha la stessa natura, ossia esiste anch’essa soltanto a quel modo. La sostanza di questa opinione è antica: Eraclito lamentava con essa l’eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò l’oggetto come un perenne divenire, che non è mai essere; […] Kant contrappose ciò che conosciamo in tal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé; e infine l’antichissima sapienza indiana dice: «È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente». […]. Ma ciò che tutti costoro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non che quel che anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondo come rappresentazione.

La cosa in sé come volontà Una volta ridotto il mondo della rappresentazione a sogno illusorio, il problema fondamentale della filosofia diventa quello di individuare la via per andare oltre i fenomeni, ossia per coglierne l’essenza e svelarne l’enigma.

Corpo e volontà Valore del corpo come medium per la conoscenza

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Per Schopenhauer il percorso che conduce a questa meta ha il suo punto di partenza obbligato nella considerazione della posizione peculiare del corpo umano nel mondo dell’esperienza. Il corpo umano è il medium indispensabile del nostro conoscere, dal momento che per Schopenhauer – come già per Kant – il punto di partenza necessario dell’attività sintetica dell’intelletto sono le affezioni corporee, ossia i dati provenienti dalla sensibilità.

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Ambiguità nel nostro rapporto con il corpo: conoscenza esterna

conoscenza dall’interno

Il nesso atto volontario / volontà non è una relazione causale

T4

La volontà come essenza del corpo

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 18

Azioni come oggettivarsi della volontà

Ora, il rapporto che abbiamo con il nostro corpo è contraddistinto da una costitutiva ambiguità: 1) da un lato, l’individuo cui esso appartiene lo conosce dall’esterno considerandolo, al pari degli altri oggetti della rappresentazione, sottomesso al principio di ragion sufficiente: ciò avviene, per esempio, quando si osserva il movimento della propria mano, considerandolo in un nesso causale con altri movimenti del corpo; 2) dall’altro lato, però, ciascuno può conoscere il proprio corpo anche dall’interno, quando acquisisce coscienza che i propri movimenti sono atti volontari, cioè quando coglie in maniera immediata che si tratta della medesima realtà, considerata sotto due aspetti diversi, cioè da un lato come essenza (la volontà) e dall’altro come oggetto (il movimento corporeo). In quanto tali, movimento corporeo e volontà appaiono legati da un nesso diverso dalla relazione causale, che connette tra loro tutti i fenomeni: un rapporto di causa-effetto può esserci, infatti, solo se un termine precede un altro ad esso posteriore, come avviene nel caso della decisione rispetto all’azione. Per Schopenhauer, la volizione non va, invece, assolutamente confusa con la decisione, che è un atto razionale: essa è piuttosto assolutamente identica con il movimento del corpo, come è chiaramente dimostrato dal fatto che ogni affezione corporea è sempre anche avvertita come un’affezione della volontà, che reagisce con il piacere o con il dolore a ciò che, rispettivamente, soddisfa o ostacola la propria tendenza. Proprio in quanto esprimono un legame diverso rispetto al nesso causale, il corpo e la volontà possono condurci oltre la dimensione del fenomeno. […] il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s’è mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di questo mondo. […] Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto tra oggetti e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l’atto, senza accorgersi insieme ch’esso appare come movimento del corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dato in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante l’intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è altro che l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell’intuizione. Ogni azione dell’uomo è dunque il rendersi visibile, il manifestarsi o oggettivarsi della volontà, che può essere considerata come l’essenza delle singole azioni. La conoscenza del volere – di cui ciascuno è immediatamente conscio – è radi47

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

calmente diversa rispetto alla conoscenza rappresentativa in genere, che è una conoscenza mediata, procedente dalla causa all’effetto o viceversa: agli occhi di Schopenhauer, essa costituisce dunque la via per superare la barriera del mondo fenomenico e per penetrare nella sfera della kantiana cosa in sé, che viene identificata con la volontà stessa come essenza del reale.

La volontà metafisica e le sue oggettivazioni Volontà come essenza del mondo

Non ha scopi, tranne l’autoaffermazione: irrazionalismo

È una e intera in ogni individuo

T5

I caratteri della volontà come cosa in sé A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 23

Estendendo analogicamente il nesso corpo-volontà agli altri esseri viventi e alla stessa natura inorganica, si può concludere che la volontà è l’in sé non solo dell’uomo, ma della realtà intera. L’uso del concetto di volontà per indicare l’essenza del mondo trova la sua giustificazione nel fatto che essa è per ciascuno una realtà immediatamente nota, in modo intuitivo. Questa volontà che è essenza del mondo non va, però, intesa in nessun modo come volontà consapevole e razionale, agente in base a un concetto di scopo: al contrario, in quanto noumeno, la volontà non è sottoposta alle leggi del mondo fenomenico, e dunque nemmeno al principio di ragion sufficiente. Di conseguenza, essa agisce senza nessun motivo, è un’energia dinamica priva di direzione, un tendere cieco e irrazionale che ha come unico obiettivo l’affermazione di sé. Inoltre, la volontà come cosa in sé è una e interamente presente in ogni individuo, in quanto la molteplicità deriva per Schopenhauer unicamente dall’applicazione al mondo del principio di ragion sufficiente nelle forme di spazio e tempo, che sono le due componenti del «principio d’individuazione». Anche se poi questa stessa volontà diventa a sua volta ragione, causa di innumerevoli fenomeni nel tempo e nello spazio. […] la volontà come cosa in sé sta fuori del dominio del principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non è una com’è uno un oggetto, la cui unità può essere conosciuta solo in contrasto con le possibili pluralità; e nemmeno com’è uno un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì è una in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuori del principium individuationis, ossia della possibile pluralità.

Una volta riconosciuta nella volontà l’essenza del mondo, Schopenhauer nel terzo libro del Mondo, sviluppa una filosofia della natura che intende mostrare le modalità in cui la volontà diventa fenomeno, ritornando quindi nella sfera della rappresentazione, che si manifesta direttamente in vari gradi di oggettivazione, che sono denominati «idee». Le idee, al pari della volontà, si trovano al di fuori del tempo e dello spazio, e sono dunque eterne e immutabili; solo all’uomo – che le conosce di norma attraverso le forme soggettive di spazio, tempo e causalità – le idee appaiono come una molteplicità di individui che nascono e periscono. Idee come atti Evidente è l’ispirazione platonica della teoria delle idee di Schopenhauer; a difatemporali ferenza di Platone, egli non intende, però, le idee come entità a sé stanti, bensì della volontà le identifica con la volontà, concependole come specifici atti atemporali di que-

La volontà diventa fenomeno: le idee

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard

Gradi di oggettivazione della volontà

Metafisica della natura e scienza

Volontà e mondo nel pensiero di Schopenhauer

st’ultima che sono gli archetipi dei singoli individui, ossia i caratteri generali delle specie, e le forze generali della natura. I gradi ascendenti e successivi di oggettivazione della volontà sono la natura inorganica, quella organica, il mondo vegetale, quello animale e, infine, l’uomo. Il mondo inorganico è costituito dalle forze naturali – come gravità, elettricità, magnetismo e chimismo – ciascuna delle quali ha la sua essenza in un’idea. Parimenti, nel mondo organico a ogni specie corrisponde un’idea. Ciò implica che non vi sia evoluzione da un grado di oggettivazione della volontà a quello superiore: le idee sono, infatti, eterne e immutabili, e dunque le specie ad esse corrispondenti non possono né scomparire né trasformarsi in una specie diversa e superiore. L’oggettivazione della volontà in un’idea superiore risulta, però, per Schopenhauer dalla conflittualità tra le idee di livello inferiore, che essa ingloba al suo interno: la vita è vista come una lotta inesausta in cui ogni individuo nasce, cresce nutrendosi di altri e infine muore (vedi sotto, p. 50). Questa metafisica della natura – fondata sull’identificazione della cosa in sé con la volontà – non cancella né sostituisce la scienza della natura, ma ne costituisce piuttosto un’integrazione necessaria. Risalendo all’indietro nella ricerca delle cause del mutamento dei fenomeni, la scienza è costretta, infatti, ad arrestarsi davanti a forze, quali la forza di gravità, che in se stesse rimangono incognite: le cause individuate dall’indagine scientifica non sono altro che le manifestazioni empiriche di tali forze, che restano, però, inaccessibili alla spiegazione scientifica; la fisica deve accontentarsi di descrivere il modo in cui esse si manifestano. Così facendo, la scienza rischia di riammettere l’esistenza di qualitates occultae e di ricadere nel dogmatismo. Per evitare questo pericolo, essa si deve aprire alla considerazione filosofica, in grado di cogliere la volontà come essenza e principio unitario di tutte le forze naturali. Significato metafisico della distinzione tra fenomeno e cosa in sé

Fenomeno come mondo dell’apparenza

Corpo come veicolo della conoscenza

Conoscenza esterna

Conoscenza interna

Movimenti collegati attraverso il nesso causale

Nesso atto volontario / volontà: non dipende dal principio di causa

Volontà come essenza del mondo

La volontà è senza scopi, una, intera in ogni individuo

La conoscenza del volere è l’accesso alla cosa in sé

Idee: la volontà diventa fenomeno

Le azioni sono oggettivazioni della volontà

Gradi di oggettivazione della volontà

La volontà è l’essenza del corpo

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Il pessimismo Unità della natura

Antifinalismo e volontà di vivere

Lotta incessante nel mondo fenomenico

La violenza nella natura e nell’uomo

Rifiuto dell’antropocentrismo

T6

La volontà divora le sue oggettivazioni

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 27

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Riconducendo tutti i fenomeni naturali alle idee, che a loro volta sono espressione diretta della volontà, Schopenhauer riprende e sviluppa uno dei temi principali del Romanticismo: il tema dell’unità della natura. La rielaborazione schopenaueriana di questa tesi si discosta, però, dalle filosofie della natura romantiche – e in particolare da quelle del primo Romanticismo – per il suo antifinalismo e per il suo radicale pessimismo. La volontà che Schopenhauer indica come essenza del mondo si manifesta senza alcun orientamento teleologico, senza protendere cioè ad alcun fine: essa è mera volontà di vita, cioè energia dinamica priva di direzione, un cieco e incessante tendere all’affermazione di sé. Tendere che, nel suo manifestarsi, è lacerato da un’insuperabile conflittualità con se stesso: per affermarsi, la volontà divora continuamente le sue stesse oggettivazioni, come Saturno divora i suoi figli. Nell’ambito fenomenico ogni estrinsecazione della volontà in un’idea si realizza, infatti, a scapito del suo grado inferiore di oggettivazione, che le oppone resistenza e le contende materia, spazio e tempo: il mondo animale si nutre, per esempio, di quello vegetale, e al suo interno le specie differenti o i singoli membri di una stessa specie sono in una continua lotta per la sopravvivenza, che si conclude inesorabilmente con la morte. L’eternità dell’idea trova espressione soltanto nel perdurare della specie. Questo dissidio della volontà con se stessa spiega lo spettacolo desolante di violenza offerto dalla natura, a tutti i suoi livelli, dagli insetti fino agli esseri umani. Per Schopenhauer, infatti, tutte le teorie che, in tempi passati e recenti, hanno affermato la naturale socievolezza degli uomini, sono un’illusione o una menzogna: contro gli orpelli retorici, si deve ammettere piuttosto che la regola dei rapporti umani non differisce da quella che vige nelle relazioni tra gli altri esseri viventi; si tratta della regola della reciproca sopraffazione. Il riconoscimento di questa omogeneità tra la specie umana e tutte le altre specie viventi sottrae ogni fondamento al finalismo antropocentrico che – considerando l’uomo come il centro e il vertice del creato – giustificava tutti gli orrori della natura in funzione dello sviluppo umano. Così vediamo dappertutto nella natura contesa, battaglia, e alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosceremo più chiaramente d’ora innanzi l’essenziale dissidio della volontà da sé medesima. Ogni grado nell’obiettivazione della materia contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo. […] Questa lotta universale raggiunge la più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale; ed in cui inoltre ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro; ossia deve cedere la materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la rappresentazione di un’idea diversa, potendo ogni animale conservare la propria esistenza solo col sopprimerne costantemente un’altra. In tal modo la volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultimo la specie umana, avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per proprio uso. E nondimeno questa stessa specie umana, come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e diventa homo homini lupus. Intanto riconosceremo la stessa lotta, la stessa violenza ugualmente nei gradi inferiori dell’obiettività della volontà. Molti insetti (particolarmente gl’icneumonidi [famiglia di insetti Imenotteri Terebrati: le femmine sono fornite di un organo allungato e perforante, «terebra»,

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard

per deporre le uova]) depongono le loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo delle larve di altri insetti, la cui lenta distruzione è il primo compito del vermiciattolo uscito dall’uovo. Il giovine polipo tentacolato, che si sviluppa come un ramo dal vecchio e poi se ne separa, contende già con esso, quando ancora vi aderisce, l’offertasi preda, sì che l’uno deve strapparla di bocca all’altro. In quanto manifestazione della volontà metafisica, la vita non è solo lotta crudele, ma anche e soprattutto sofferenza incessante: la sofferenza è, infatti, intrinseca a ogni volizione, poiché il volere ha alla sua radice un bisogno insoddisfatto, che è sempre avvertito come dolore; bisogno che è inappagabile, visto il tendere incessante della volontà. Tutto soffre Ciò è vero per tutti i livelli della natura: tutto soffre, a partire dal fiore che avverte la mancanza d’acqua; e si tratta di una sofferenza interminabile, in quanto il ciclo vitale del fiore, come quello di tutti gli altri esseri, si ripete all’infinito, esprimendo l’impossibilità di appagare la volontà. La sofferenza diventa, però, più acuta nei gradi superiori della natura, cioè negli animali e negli uomini che, avendo una maggiore consapevolezza, avvertono con più intensità la spinta della volontà e la perenne frustrazione del desiderio insoddisfatto. Dolore e noia A partire da questi presupposti, Schopenhauer descrive la vita umana come un pendolo tra il dolore e la noia. Il dolore è insito nel bisogno insoddisfatto, che è il presupposto del tendere incessante della volontà. Il piacere – inteso negativamente come l’assenza di dolore provocata dall’appagamento di un desiderio – è sempre unito alla noia, ed è in ogni caso solo una condizione provvisoria ed effimera: il soddisfacimento del tendere è immediatamente seguito dalla nascita di un nuovo bisogno, dal momento che la volontà metafisica è un tendere senza meta né riposo.

Sofferenza intrinseca a ogni volizione

T7

La vita umana è un pendolo tra il dolore e la noia

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 57

5 Asservimento di intelletto e ragione alla volontà

Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base d’ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l’opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi.

L’arte e la catarsi estetica Per Schopenhauer la vita è, a tutti i livelli, una condizione di radicale infelicità, che si acuisce nell’uomo: infelicità provocata dall’asservimento di tutti gli esseri al tendere incessante e cieco della volontà, che nel suo manifestarsi fenomenico non vuole altro che l’affermazione di sé. Anche l’intelletto e la ragione – intesi rispettivamente come facoltà di cogliere i nessi causali e come facoltà di astrazione – non si sottraggono all’asservimento da parte della volontà, in quanto non sono altro che manifestazioni di essa: nella prospettiva di Schopenhauer, fino a quando si resta nel mondo fenomenico non è la volontà ad attuare gli scopi dell’intelletto e della ragione, ma piuttosto il contrario. 51

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel L’arte come primo passo nella liberazione dalla volontà

➥ Laboratorio sul lessico, Bello / brutto, p. 81

Gerarchia tra le arti

La musica

La trasformazione del soggetto attraverso l’arte

Atteggiamento contemplativo nell’arte

Il genio

Carattere catartico dell’arte

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A partire da questi presupposti, Schopenhauer indica come unica strada per la salvezza la cessazione del volere, delineando un percorso ascetico mirante alla completa liberazione dalla volontà. La prima tappa di questo cammino ascetico è l’arte, concepita come una forma di conoscenza superiore rispetto alla scienza, in quanto rivolta non ai fenomeni, bensì alle idee: a differenza della scienza che, indagando l’instabile flusso di cause ed effetti, a ogni meta raggiunta viene sospinta sempre più lontano, l’arte è invece sempre alla sua meta, in quanto ha per oggetto le idee, immutabili ed eterne. Le varie arti corrispondono ai diversi gradi di manifestazione della volontà nelle idee: dall’architettura – che porta all’intuizione il livello più basso nell’oggettivazione della volontà, cioè le forze della materia inorganica – fino alla pittura, alla scultura e alla poesia, che hanno per oggetto idee del mondo vegetale, animale e umano. Come massima forma di poesia Schopenhauer indica la tragedia, in quanto questa esprime l’intimo dissidio della volontà con se stessa. Infine, in questo sistema delle arti un posto a sé è riservato alla musica che, a differenza delle altre arti, non è immagine delle singole idee, ma della volontà stessa: in quanto tale, essa è l’arte più profonda e universale, poiché ci mette a contatto con la radice metafisica del mondo. Al cambiamento di oggetto che contraddistingue l’arte corrisponde una modificazione nel soggetto: colui che mediante l’arte si solleva dalla conoscenza delle cose particolari alla conoscenza delle idee cessa di essere coscienza empirica individuale e diventa soggetto universale, non più sottoposto alle varie forme del principio di ragion sufficiente, e dunque non più sottomesso alla volontà, in quanto coincidente con essa. Ciò accade quando ci si immerge, con l’intuizione, nella contemplazione di un oggetto, fino a perdersi completamente in esso: in questo caso si realizza una perfetta fusione tra il percipiente e il percepito, che al tempo stesso sottrae l’oggetto alla relazione con gli altri oggetti – lasciandoci cogliere l’idea – e spoglia il soggetto della sua individualità. Il superamento del principio d’individuazione fa sì che, nell’arte, l’atteggiamento conoscitivo sia meramente contemplativo, e non utilitaristico: sia l’artista sia il fruitore dell’opera d’arte guardano al mondo disinteressatamente, senza riferire i fenomeni alla propria individualità, cioè senza prendere in considerazione ciò che potrebbe in essi portare danno o giovamento. Anche su questo punto, è chiaramente riconoscibile l’influenza di Kant: Schopenhauer riprende, infatti, la definizione kantiana del bello come oggetto di un piacere disinteressato, caricandola, però, di valenze metafisiche. In linea con la filosofia critica e romantica, Schopenhauer concepisce inoltre l’arte come opera del genio, intendendo per genialità l’inclinazione a mantenersi nella contemplazione delle idee, svincolata dal principio di ragion sufficiente: il rifiuto di quest’ultimo avvicina genialità e follia, separate solo da una linea di confine molto sottile e incerta. Proprio il ripudio del principio di ragione conferisce all’arte il suo carattere catartico rispetto ai mali dell’esistenza: elevandosi al di sopra delle forme del principio di ragione – cioè spazio, tempo e causalità – attraverso l’intuizione estetica l’uomo trascende la vita terrena e in questo modo si libera dalle catene e dal cieco tendere della volontà, di cui la vita è espressione; per questo motivo, il piacere estetico si colloca su un gradino qualitativamente superiore rispetto agli altri tipi di piacere, in quanto gioia derivante da un conoscere puro e contemplativo, e non dalla soddisfazione effimera di un bisogno della volontà.

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Fugacità della catarsi estetica

T8

Il piacere estetico

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 38

L’arte come liberazione in Schopenhauer

Questa catarsi estetica è, però, solo provvisoria, in quanto è legata ai momenti brevi e preziosi in cui ha luogo l’intuizione estetica, cioè il totale smarrimento dell’individuo nell’oggetto contemplato e la conseguente elevazione alla conoscenza delle idee: basta un nonnulla per interromperla, come per esempio un rumore intenso che distoglie il nostro sguardo dalla contemplazione di un quadro, riportandoci bruscamente nel mondo fenomenico. […] nell’istante in cui noi, liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo, dove tutto ciò che commuove la nostra volontà e quindi sì forte ci scuote, più non esiste. Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto e sì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e infelicità sono svanite: non siamo più l’individuo, che è obliato, non siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo più se non come l’unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri conoscenti guarda, ma nell’uomo soltanto può diventare del tutto libero dal servigio della volontà: e allora ogni distinzione da individuo a individuo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente se il contemplante occhio appartenga a un re possente o a un tormentato mendico. Imperocché né felicità né pena vengono portati con noi al di là di quei confini. Sì presso a noi sta perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostra volontà, la nostra persona, si riaffaccia alla coscienza, ha fine l’incantesimo: noi ricadiamo indietro nella conoscenza governata dal principio di ragion sufficiente; conosciamo non più l’idea, ma la cosa singola, l’anello di una catena, alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo restituiti a tutto il nostro affanno. Volontà come essenza del mondo che si oggettiva nelle idee Unità del reale attraverso le idee Pessimismo e antifinalismo: lotta per la sopravvivenza. Rifiuto dell’antropocentrismo Bisogno come motore di un desiderio inesausto

Dolore come insoddisfazione del desiderio

Noia come conseguenza di un appagamento troppo facile

Salvezza attraverso la cessazione del volere: liberazione Arte come prima tappa della liberazione dal volere: forma di conoscenza rivolta alle idee Gerarchia delle arti parallela alla gerarchia tra le idee come oggettivazioni della volontà Trasformazione del soggetto attraverso la contemplazione: atteggiamento disinteressato e azione del genio Catarsi estetica come provvisorio trascendimento della vita terrena e liberazione effimera dai ciechi impulsi della volontà

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

6 Etica come definitiva liberazione dalla volontà

L’etica Dopo aver descritto il modo in cui la volontà diventa fenomeno nelle idee e aver esplicitato le potenzialità dell’arte (che utilizza a sua volta delle forme di rappresentazione ideale come oggetti) e i suoi limiti come strumento catartico, Schopenhauer torna a considerare il mondo come volontà in se stessa ponendosi come obiettivo la liberazione definitiva da questo impulso cieco e irrazionale. Soltanto l’etica può rendere definitiva la liberazione dalla volontà, superando la sporadicità e l’eccezionalità dell’esperienza estetica: all’etica è dedicato, non a caso, l’ultimo libro del Mondo.

Critica del libero arbitrio e libertà del volere

La determinazione empirica del volere

Rifiuto della libertà d’indifferenza Motivi e carattere determinano l’agire umano

T9

Motivi, carattere e necessità dell’agire A. Schopenhauer, La libertà del volere umano

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Anche in questo campo risulta determinante il confronto con la filosofia kantiana, che costituisce il punto di partenza e al tempo stesso il principale bersaglio polemico della riflessione etica di Schopenhauer. Di ispirazione kantiana è la dottrina schopenhaueriana della libertà del volere, fondata sulla contrapposizione tra il piano empirico e quello intelligibile. Schopenhauer riprende, infatti, dalla filosofia critica la tesi secondo la quale le azioni umane – che cadono nello spazio e nel tempo – sono determinate in maniera necessaria, al pari di ogni altro fenomeno, da leggi universali di natura. Anche per Schopenhauer ogni evento del mondo fenomenico segue il principio di ragion sufficiente, che nelle azioni si esplica sotto la forma di «motivi»; questi ultimi producono effetti in maniera altrettanto necessaria quanto la causalità ordinaria e naturale, dalla quale si distinguono solo in quanto passano attraverso il conoscere. A partire da questi presupposti, Schopenhauer rifiuta in modo netto la concezione della libertà come libertà d’indifferenza, cioè come facoltà di scelta completamente priva di motivazione e indifferente rispetto alle conseguenze. Quella che può apparire come una libera scelta non è altro che il risultato di un conflitto tra motivi, in cui a prevalere è quello più forte: i motivi determinano immancabilmente la volontà, e sono a loro volta determinati dal «carattere empirico» dell’uomo; come ogni ente naturale ha le proprie forze e qualità, che reagiscono in maniera necessaria a determinati stimoli, allo stesso modo anche l’uomo ha il suo carattere, dal quale, in seguito a determinati motivi, discendono con necessità le azioni. In definitiva, dunque, l’agire dell’uomo è per Schopenhauer causato in maniera necessaria da due fattori: un coefficiente esterno – cioè i «motivi» – e un coefficiente interno, che consiste nel carattere. Presupponendo il libero arbitrio ogni azione umana sarebbe un miracolo inspiegabile, un effetto senza causa. E quando si arrischia di figurarsi un tale libero arbitrio, ci si accorge subito che non ci si capisce niente: la mente non possiede una forma per pensare una cosa simile. Infatti il principio di ragione sufficiente, il principio della generale determinazione e dell’interdipendenza dei fenomeni è la universale forma della nostra facoltà conoscitiva che, secondo la diversità dei suoi oggetti, assume a sua volta forme diverse. Qui invece dobbiamo pensare una cosa che determina senza essere determinata, che non dipende da nulla ma da

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard

essa ne dipendono altre, che senza necessità e quindi senza ragione effettua ora A, mentre potrebbe ugualmente effettuare B o C o D, e lo potrebbe liberamente, nelle medesime circostanze, cioè senza che ci sia in A qualcosa che gli conferisca la preferenza (poiché essa sarebbe motivazione, e dunque causalità) su B, C, D. Qui ritorniamo al concetto di «assolutamente fortuito» che abbiamo considerato problematico fin da principio. Ripeto: la mente non ci capisce nulla, se pure si può portarla a rifletterci. Adesso vogliamo considerare che cosa sia mai una causa: il mutamento precedente che rende necessario il successivo. Nessuna causa al mondo produce il suo effetto o lo trae dal nulla. C’è invece sempre qualcosa su cui agisce e dà luogo soltanto in questo movimento, in questo luogo e in questo determinato essere a un mutamento che è sempre conforme alla natura di questo essere, mutamento per il quale questo essere doveva già contenere l’energia. Ogni effetto scaturisce dunque da due coefficienti, uno interno e uno esterno, cioè dalla energia originaria dell’essere sul quale si agisce e dalla causa determinante che la costringe a manifestarsi ora e qui. Ogni causalità e ogni spiegazione che vi si fonda presuppone un’energia originaria […]. Persino le cause delle quali si occupa la ben comprensibile meccanica, quali urto e pressione, hanno per presupposti l’impenetrabilità, la coesione, la rigidità, la durezza, l’inerzia, il peso, l’elasticità che sono […] insondabili forze di natura. Dunque le cause determinano dappertutto soltanto il quando e il dove delle manifestazioni di forze originarie e inesplicabili, e solo la premessa di queste forze le fa essere cause, cioè fa loro produrre necessariamente certi effetti. Ora, ciò che avviene per le cause in senso ristretto e per gli stimoli, avviene non meno per i motivi, dato che la motivazione non è essenzialmente diversa dalla causalità, ma ne è soltanto una specie, cioè la causalità che passa attraverso la conoscenza. Anche qui dunque la causa suscita soltanto la manifestazione di una forza che non va riportata a cause, e perciò non è spiegabile, forza che qui si chiama volontà e a noi è nota non soltanto dal di fuori come le altre forze di natura, ma, in virtù dell’autocoscienza, anche dal di dentro e direttamente. Soltanto presupponendo che una siffatta volontà esista e, nel singolo caso, sia di una determinata qualità, le cause ad essa dirette agiscono, e noi le chiamiamo motivi. Questa qualità della volontà, determinata in modo speciale e individuale, per cui la sua reazione ai medesimi motivi è in ogni uomo diversa, costituisce ciò che si dice il carattere dell’uomo, e precisamente, siccome non è a priori, ma lo si conosce soltanto attraverso l’esperienza, il suo carattere empirico. Esso determina anzitutto il modo in cui i diversi motivi agiscono su un dato uomo. […] Distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile

In questa concezione deterministica, l’unico spazio per la libertà è offerto dalla distinzione kantiana tra carattere empirico e intelligibile, che Schopenhauer riprende: 1) il carattere empirico è quello che affiora nella coscienza empirica, ha una struttura individuale ed è costante, pur essendo disteso nel tempo e nello spazio: come si è appena visto, in quanto parte del mondo fenomenico, esso è il fondamento su cui si basa la necessità con cui i motivi determinano la volontà negli atti di autoaffermazione di ciascun individuo nella lotta per la sopravvivenza; 2) il carattere intelligibile è l’atto di volere atemporale, che costituisce la radice 55

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

noumenica del carattere empirico: essendo al di fuori del mondo fenomenico, esso è assolutamente libero. Di questa libertà assoluta del volere in quanto appartiene alla cosa in sé – che riguarda quindi non le singole azioni, bensì l’essere di ciascuno – acquistiamo coscienza solo indirettamente, a partire dal sentimento di responsabilità che proviamo per le nostre azioni, sentimento che può esistere solo presupponendo una libertà morale. Libertà e cosa in sé Per Schopenhauer, dunque, la libertà – nel senso di indipendenza dal principio di ragione e dalla ferrea necessità della legge di causalità – appartiene alla volontà soltanto come cosa in sé, e non alle sue manifestazioni fenomeniche. Come ➥ Laboratorio sul lessico, si vedrà, vi è solo una possibilità di manifestazione della libertà anche nel monLibertà, p. 341 do fenomenico: la radicale conversione e trasformazione del carattere – provocata dal passaggio dalla conoscenza fenomenica a quella intuitiva della cosa in sé – che si manifesta nel mondo fenomenico attraverso il totale distacco dell’uomo da tutto ciò che è fenomeno e la rinuncia finale alla volontà come energia di autoaffermazione individuale ed empirica.

Compassione contro dovere Libertà e moralità solo interiori

La ragione non è pratica

Rifiuto dell’imperativo categorico: dovere e leggi esterne

Cade la distinzione filosofia pratica / teoretica

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Schopenhauer si richiama esplicitamente a Kant, che, secondo lui, aveva contrapposto la dimensione fenomenica dell’uomo – cioè le azioni e il carattere empirico, sottoposti alla rigida necessità naturale – alla sua dimensione noumenica – cioè il volere come cosa in sé, assolutamente libero. Questa interpretazione, comune a coloro che in questo leggono un’aporia del criticismo, induce Schopenhauer a confinare la libertà e la moralità nella dimensione interiore dell’intenzione o della conversione dell’animo. La metafisica schopenhaueriana imprime, inoltre, alla terminologia kantiana un significato molto diverso. Per Kant, il noumeno della volontà coincide con la ragione, intesa come fonte di leggi incondizionate. Per Schopenhauer, invece, la cosa in sé della volontà è una forza cieca, che è libera proprio in quanto è sottratta al principio di ragione. Di qui il forte ridimensionamento del ruolo della ragione che contraddistingue l’etica di Schopenhauer: per lui, la ragione non è pratica, cioè non è fonte di norme morali e non può fungere né da criterio di valutazione né da movente delle azioni. Questa impostazione implica innanzitutto il rifiuto dell’idea kantiana del dovere come imperativo categorico, che obbliga a un’azione in maniera assoluta, a prescindere dalle conseguenze di quest’ultima: una volta negata la ragione come fonte di leggi incondizionate, dovere e legge non possono che essere il comando di una volontà estranea, appartenente a Dio o alle istituzioni, cui prestiamo un’obbedienza che non è affatto incondizionata, bensì condizionata dalla paura di una punizione o dalla speranza di una ricompensa. In secondo luogo, la negazione della praticità della ragione determina il venir meno della distinzione kantiana tra filosofia pratica e filosofia teoretica: secondo Schopenhauer, tutta la filosofia è sempre teoretica, in quanto caratterizzata da un atteggiamento di mera contemplazione, anche quando ha per oggetto le azioni umane. Dal momento che queste ultime sono determinate in maniera necessaria dal carattere e dai motivi, la pretesa di dare precetti sarebbe del resto priva di senso: è inutile prescrivere doveri morali una volta assunto che l’uomo non è libero di scegliere se seguirli o meno.

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Di qui la decisione di elaborare un’etica con un approccio semplicemente esplicativo e descrittivo, che si propone come obiettivo non quello di stabilire principi morali e regole di virtù, bensì quello di descrivere e spiegare il dato di fatto dei comportamenti umani alla luce della metafisica della volontà. Infine, Schopenhauer respinge la tesi kantiana secondo la quale morale è esclusivamente un’azione compiuta sulla base della sola ragione, a prescindere o, meglio, in contrasto con i nostri sentimenti sensibili, compresi quelli apparentemente più nobili, come la compassione. Azione disinteressata Egli condivide con Kant la convinzione che la virtù consista in un agire disine compassione teressato, cioè non determinato dall’egoistico amore di sé. Tuttavia, ritiene che la conoscenza razionale del puro dovere non sia affatto in grado di produrre un’azione disinteressata: nella prospettiva di Schopenhauer, infatti, ogni conoscenza razionale – anche la coscienza del dovere – è una conoscenza astratta che, in quanto tale, può indurre all’azione solo in maniera mediata, cioè indicando motivi, riconducibili tutti all’amore di sé. L’azione virtuosa, cioè l’azione disinteressata, può nascere invece solo dal sentimento della compassione, che nella filosofia morale kantiana è stigmatizzato come un cedimento della ragione alle inclinazioni sensibili e all’amore di sé: al contrario, per Schopenhauer la compassione è agàpe o «carità», cioè una forma di amore spirituale qualitativamente differente e opposta rispetto all’amore egoistico e sensuale, ovvero l’eros. Etica descrittiva e non prescrittiva

T10

Dovere e compassione

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione par. 67

In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano originate dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e dell’imperativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù, la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l’eros, compassione l’agape.

Secondo Schopenhauer anche la compassione è in ogni caso una conoscenza: si tratta, però, di una conoscenza molto diversa da quella puramente razionale e astratta del dovere. Essa è l’intuizione dell’unità con tutti gli esseri viventi, in quanto fenomeni della medesima radice noumenica, cioè la volontà di vita: questa conoscenza, proprio per il suo carattere intuitivo e immediato, non si traduce né in concetti né in parole, ma solo in atti che esprimono benevolenza attiva nei confronti del prossimo, interesse e partecipazione per il suo destino. Compassione A partire da questi presupposti, Schopenhauer elabora dunque un’etica della e armonia del tutto compassione, secondo la quale la bontà e la virtù genuine si manifestano solo nell’amore disinteressato verso gli altri, che raggiunge la perfezione quando consideriamo l’estraneo e il suo destino come perfettamente uguale al nostro. Al pari dell’arte, dunque, anche la compassione nasce dal superamento del principium individuationis, attraverso un’intuizione immediata della volontà come radice metafisica unitaria di tutto l’universo; a differenza dell’arte, essa offre, però, una serenità dell’animo duratura e stabile, derivante dal fatto che l’interesse diffuso sugli innumerevoli fenomeni della natura non ci angustia come quello concentrato esclusivamente sul nostro io: considerate nel complesso, le sofferenze e le gioie di tutti i fenomeni della natura si compensano.

Compassione come conoscenza intuitiva dell’unità di tutti gli esseri viventi

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Dalla virtù alla santità Salvezza come cessazione della volontà

Distacco dal mondo e santità

Ascesi laica ma ispirata a pratiche religiose

➥ Laboratorio di lettura, p. 73

Santità come liberazione dal mondo fenomenico

Noluntas come vertice dell’ascesi

➥ Laboratorio di lettura, p. 73

Limiti della filosofia

Estasi mistica e illuminazione

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Per Schopenhauer nemmeno la virtù della compassione è, però, il punto culminante della liberazione umana, bensì soltanto un passaggio quasi obbligato nella via verso la salvezza, identificata con la completa cessazione della volontà di vita: questa redenzione si raggiunge piuttosto con l’approdo alla «santità», intesa come il frutto di una radicale «conversione» del nostro essere fondata su un rivolgimento della conoscenza. Fino a quando si è prigionieri del principio d’individuazione, le cose – conosciute singolarmente e poste in relazione esclusivamente con la propria persona – agiscono inevitabilmente come «motivi» della volontà (determinanti il carattere empirico). Al contrario, la conoscenza del tutto, acquisita da chi coglie la radice noumenica unitaria del cosmo, non può che agire da «quietivo» della volontà in particolare e in genere: colui che squarcia il velo di Maya del mondo fenomenico non solo intuisce la propria unità con tutti gli altri esseri viventi, ma conosce l’essenza dell’universo come perenne sofferenza, partecipando ad essa come se fosse la propria; questa conoscenza non può che distoglierlo dalla volontà di vita in generale e dalle singole volizioni particolari, avviando un percorso di distacco dal mondo che culmina con la santità. L’ascesi cui Schopenhauer si riferisce è un’ascesi laica e intramondana, priva cioè di ogni riferimento a un aldilà trascendente, nonostante le pratiche ascetiche citate nel Mondo siano per la maggior parte pratiche religiose: la castità, la povertà volontaria, l’autoabnegazione, il sacrificio eroico. In particolare, la castità è un momento essenziale dell’ascesi, in quanto esprime la liberazione dell’uomo dalla subordinazione alla volontà metafisica, che utilizza le lusinghe dei sensi per garantire la propria sopravvivenza nella specie, sia pure a costo dell’infelicità degli individui. Il completo distacco dal mondo fenomenico del santo – che ha alla sua radice una radicale trasformazione del proprio essere interiore – costituisce per Schopenhauer l’unica manifestazione possibile della libertà nel mondo fenomenico: contraddicendo persino le richieste del suo proprio corpo, che pure continua a esistere nello spazio e nel tempo, il santo infrange gli ultimi legami che uniscono la sua coscienza alla fatale macchina del cosmo. Il punto di arrivo dell’ascesi è denominato da Schopenhauer con un termine negativo, cioè come «noluntas». Non si tratta, però, di un passaggio al nulla assoluto: ci appare così soltanto perché, fino a quando restiamo soggetti alla volontà di vivere, non siamo in grado di definirlo altrimenti; più appropriata è l’espressione di «nulla privativo», designante un nulla che è tale solo in relazione a qualcos’altro di cui è negazione – cioè il mondo fenomenico – ma che può anche essere rovesciato in un positivo. In ogni caso, neanche la filosofia ci offre uno strumento per determinare in termini positivi il punto d’arrivo dell’ascesi, in quanto anch’essa, come riflessione razionale, non può sottrarsi al principio di ragione, né tanto meno alla distinzione soggetto-oggetto. Negare la volontà di vivere significa, infatti, condurre la volontà fino al momento antecedente a qualsiasi sua espressione, anche quella delle idee, fino al punto in cui si ha un’identità perfetta, anche al di là della distinzione tra soggetto e oggetto. Questo punto estremo è afferrabile in positivo solo riferendosi all’esperienza dell’estasi mistica o dell’illuminazione, uno stato che eccede la conoscenza ed è

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➥ Sommario, p. 70 L’etica di Schopenhauer

dunque incomunicabile: il richiamo a questo tipo di esperienze o alla santità permette di comprendere come la negazione della volontà di vivere e dei suoi effetti non sia una negatività semplice e assoluta, bensì piuttosto uno stato di pienezza e di verità, rispetto al quale il concetto di nulla si capovolge: la vita e il mondo fenomenico sono il nulla, mentre la negazione della volontà di vivere diventa affermazione e compiutezza.

Premesse metafisiche – Comprensione della natura metafisica della volontà – Esigenza della liberazione dalla sofferenza

Confronto con l’etica kantiana – Distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile – Ridimensionamento del ruolo della ragione nell’etica – Rifiuto dell’etica del dovere – La filosofia è solo teoretica – Etica descrittiva e non prescrittiva

Primo livello della liberazione etica – Azione disinteressata che nasce dalla compassione come conoscenza intuitiva dell’unità del tutto

Secondo livello della liberazione etica – Distacco dal mondo e santità raggiunta attraverso un’ascesi laica – Santità come liberazione dal mondo fenomenico – Noluntas, negazione della volontà: «nulla positivo»

Kierkegaard

2 I testi

S. Kierkegaard L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità: La scelta e la vita etica, T11; Il lavoro

1 Esistenza concreta e impostazione anti-intellettualistica

esprime l’universale, T12; La destinazione dell’uomo, T13 Timore e tremore: Hegel e la vita etica, T14; La fede come paradosso, T15; Abramo e l’eroe tragico, T16

La filosofia e l’esistenza individuale Con la riflessione di Søren Kierkegaard il tema dell’esistenza concreta e irriducibile del singolo diventa un tema filosofico. Il compito del filosofo è per il pensatore danese esprimere questa irriducibilità, anche nella consapevolezza di quanto 59

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Nuove forme e generi della scrittura filosofica

Un cristianesimo anti-istituzionale: mistica e pietismo

questo compito possa essere difficile da assolvere, o addirittura impossibile. È una parte importante, questa, di un’impostazione anti-intellettualistica, e per certi aspetti anti-filosofica, caratteristica di Kierkegaard, e che non coinvolge soltanto il suo grande obiettivo polemico – la filosofia sistematica e idealistica – ma la possibilità stessa della comunicazione e in particolare della comunicazione filosofica. Dall’impostazione anti-intellettualistica derivano anche le molte oscurità dei testi e i modi peculiari in cui Kierkegaard li presenta al pubblico. Se si esclude l’importantissimo Diario, che è una fonte indispensabile per comprendere il suo pensiero, gli scritti kierkegaardiani possono essere divisi in due gruppi principali: gli scritti propriamente filosofici, che vengono tutti pubblicati sotto diversi pseudonimi – a partire dalla prima opera, Enten-Eller, che corrisponde alla disgiunzione latina, come spesso viene tradotto: «aut-aut», «o-o» –, e gli scritti edificanti, pubblicati con il proprio nome, secondo il modello delle prediche religiose. Non si tratta, nel caso di Kierkegaard, di una religione ortodossa, ma di un’esperienza religiosa individuale e tormentata, costantemente in polemica con la Chiesa protestante ufficiale e con il tradimento che questa avrebbe compiuto del messaggio cristiano più vero e genuino. Ha un gran peso invece, nel cristianesimo kierkegaardiano, la tradizione mistica e soprattutto quella pietistica, il filone del cristianesimo protestante sorto alla fine del XVII secolo che sottolinea la distanza incolmabile tra Dio e l’uomo e il valore dell’esperienza interiore.

La vita e le opere Søren Aabye Kierkegaard nacque a Copenaghen nel 1813 nella famiglia di un commerciante a riposo che faceva parte della comunità pietista. Studiò a Copenaghen e venne ammesso nel 1830 alla facoltà di teologia e, a partire dal 1834, iniziò a collaborare con il giornale «La posta volante di Copenaghen» e poi con altre pubblicazioni, mentre l’anno successivo tenne la sua prima conferenza pubblica al Circolo degli studenti. Nel 1837 conobbe in casa di conoscenti Regine Olsen, di dieci anni più giovane di lui; in quello stesso anno il padre gli assegnò una rendita che gli permise di andare ad abitare da solo. L’anno successivo fu violentemente turbato dalla morte del padre, l’ultimo di una lunga serie di lutti familiari. Nel 1840 concluse l’università e superò l’esame per divenire pastore, anche se il giudizio sulle sue qualità di studente non era del tutto positivo; l’anno successivo si fidanzò ufficialmente con Regine ma dopo circa un anno ruppe il legame con lei non ritenendo possibile conciliare la vita matrimoniale con la scelta di divenire pastore (che però non si concretizzò) e di abbracciare la vita religiosa. Nel 1841 venne accettata la sua tesi di dottorato in teologia, Del concetto d’ironia con particolare riguardo a Socrate, in danese, che venne pubblicata in quello stesso anno. Dopo la discussione della tesi si recò a Berlino dove frequentò anche le lezioni di Schelling e iniziò a scrivere Enten-Eller, componendo per prime le lettere della seconda parte, in cui l’autore assume la figura dell’assessore Wilhelm, il personaggio che incarna l’ideale della vita etica e che mostra i limiti dell’esperienza estetica: per prima la lettera intitolata L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, poi l’altra Validità estetica del matrimonio. Invece l’ultimo scritto della seconda par-

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te Ultimatum, in cui il consigliere invia a un amico una predica edificante, venne composto subito prima della pubblicazione (novembre 1842) e allude al passaggio al terzo stadio dell’esistenza, la vita religiosa. Nei mesi successivi, anche dopo il ritorno a Copenaghen, Kierkegaard lavorò ai vari componimenti che costituiscono la prima parte di Enten-Eller, in cui vengono mostrati i caratteri dell’esistenza estetica. Tra questi ha particolare rilievo Il diario di un seduttore (1842) in cui Kierkegaard finge di pubblicare il diario e alcune lettere opera del seduttore Johannes, l’incarnazione della vita estetica, a cui aggiunge in alcuni casi le risposte della donna sedotta, Cordelia. I documenti sono accompagnati dalle sue riflessioni personali sui protagonisti della vicenda e le loro esistenze. Enten-Eller venne pubblicato in due volumi nel 1843 suscitando molto interesse e vivaci discussioni, alle quali partecipò con articoli pubblicati con pseudonimi lo stesso Kierkegaard. In quello stesso anno uscirono oltre a due discorsi edificanti – L’attesa della fede e Ogni bene e ogni dono perfetto vengono dall’alto, cui se ne aggiunsero altri negli anni, sempre pubblicati e infine raccolti in un unico volume – Timore e tremore e La ripresa. Negli anni successivi uscirono Briciole filosofiche (1844), Il concetto dell’angoscia (1844), Stadi sul cammino della vita (1845), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849), Esercizio del cristianesimo. Postumi vennero pubblicati il Diario, iniziato nel 1834, e le Carte, appunti, riflessioni, riassunti. Nell’ultimo periodo della sua vita Kierkegaard si dedicò alla polemica contro la Chiesa danese e la sua gerarchia attraverso la rivista «Il momento», il cui decimo e ultimo numero uscì postumo. Morì a Copenaghen, dopo una breve degenza in seguito a un malore improvviso, nel 1855.

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La critica dell’idealismo Contro Hegel, il valore dell’edificazione

La delusione da Schelling

Le vicende biografiche

L’influenza

2 Visioni del mondo diverse

Kierkegaard è profondamente insoddisfatto delle soluzioni proposte dalla filosofia contemporanea. Egli è sempre ferocemente critico verso Hegel, che è il grande filosofo dell’universale e dell’universo etico, ma rifiuta anche l’universalità della legge morale kantiana. A sottolineare la sua attitudine anti-hegeliana, del resto, sta anche l’insistenza frequente e intenzionale sulla necessità della «edificazione». Hegel aveva detto a chiare lettere che la filosofia «deve evitare soprattutto di essere edificante», mentre Kierkegaard prende esattamente la posizione contraria: «solo la verità che edifica è verità per te», scrive, sottolineando la centralità dell’esperienza religiosa rispetto al sapere intellettuale e, al tempo stesso, il suo carattere individuale. Altrettanta insofferenza Kierkegaard mostra, per gli stessi motivi, verso tutte le teologie razionalistiche, a partire proprio da quelle di scuola hegeliana. Kierkegaard è pieno di aspettative quando va a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling, nel 1841, ma ne rimane profondamente deluso, tanto da affermare che Schelling «chiacchiera a ruota libera» e, con ironia, che «io sono troppo vecchio per ascoltare lezioni, ma Schelling è troppo vecchio per darle». Contro la tradizione filosofica, e in particolare contro la filosofia idealistica come filosofia dell’universale, Kierkegaard afferma infatti il valore della particolarità del singolo nel rapporto tormentato e paradossale dell’individuo isolato con se stesso e con Dio. Alla tematizzazione della concreta esistenza individuale corrisponde una biografia certamente complessa, come emerge dalle lettere e dalla continua analisi introspettiva del Diario. Segni di questa complessità sono il rapporto con il padre e i racconti di un’infanzia infelice, ma soprattutto il fidanzamento con Regine Olsen, che dura poco più di un anno e che verrà rotto, per motivi mai chiariti, dallo stesso Kierkegaard. Si tratta di un’esperienza che lo segna profondamente, e di cui talvolta il filosofo offre una trasfigurazione che mette in rilievo la propria eccezionalità e l’impossibilità di una vita normale per chi è destinato a un compito superiore: difendere la causa del cristianesimo. La notorietà e l’influenza filosofica di Kierkegaard non sono immediate, ma arrivano molti anni dopo la sua morte. La Kierkegaard-Renaissance più significativa si avrà solo nel XX secolo, tra le due guerre mondiali, sia in Germania sia in Francia: è in questi anni che si tornerà a guardare con particolare attenzione alla sua riflessione, tanto che Kierkegaard viene considerato il padre e la fonte d’ispirazione della filosofia dell’esistenza, o esistenzialismo (vedi Unità 13, p. 544).

Vita estetica e vita etica Per Kierkegaard, l’esistenza può essere affrontata dall’uomo in diversi modi. Una delle idee centrali della sua filosofia è quella di diverse visioni del mondo, di diverse forme dell’esistenza individuale, di diversi tipi di vita, ciascuna delle quali possiede una configurazione autonoma e una determinata disposizione psicologica. Questa caratterizzazione di diverse mentalità – nel senso profondo della parola, come atteggiamenti di fronte all’esistenza – non è però in alcun modo una descrizione neutra, che semplicemente le accosti l’una all’altra. 61

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Le forme dell’esistenza Tre tappe gerarchicamente ordinate

Superiore prospettiva e consapevolezza nei livelli più alti

Discontinuità tra i livelli

Le diverse visioni del mondo individuate da Kierkegaard – l’estetica, l’etica e la religiosa – sono tappe, stadi di un processo che ha almeno tre caratteristiche. Innanzitutto, le tre tappe sono ordinate gerarchicamente, in una scala di valore che dal gradino più basso, l’esperienza estetica, sale verso l’esperienza etica e giunge infine all’esperienza religiosa. In secondo luogo, il rapporto fra le tre diverse tappe dell’esistenza non è paritario, ma asimmetrico: ciascuna tappa superiore è infatti in grado di spiegare la tappa inferiore, mentre non è vero il contrario. L’assunzione di un punto di vista superiore mette infatti in grado di comprendere e spiegare il punto di vista inferiore, e di individuarne i limiti: è dal punto di vista etico che è possibile comprendere il punto di vista estetico, mentre dal punto di vista estetico non si comprende e non si spiega il punto di vista etico. La gerarchia non consiste quindi soltanto nel valore dei diversi punti di vista, ma anche nella loro prospettiva, nella loro capacità di spiegazione: chi conduce la propria esistenza su un piano inferiore è completamente immerso in essa, e non è in grado di andare oltre. In terzo luogo, il passaggio di un individuo da un punto di vista all’altro non avviene con un processo graduale, ma con un salto, una vera frattura con il punto di vista precedente: per fare il «salto» dall’estetica all’etica e dall’etica alla religione è quindi necessario un completo riorientamento della propria prospettiva, del proprio modo di guardare a se stessi e al mondo.

La vita estetica Punto di vista estetico e immediatezza

Don Giovanni come simbolo della vita estetica

Individualismo, frammentazione e incapacità di scelta

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Una grande attenzione è dedicata da Kierkegaard al punto di vista estetico, che non affronta la scienza della bellezza ma costituisce il punto di vista dell’uomo che vive nell’immediatezza, in una ricerca affannosa di esperienze dove sia possibile trovare soddisfazione senza poterla trovare in nessuna: è una ricerca vissuta con «passione annichilatrice». Lo stadio estetico dell’esistenza non è il frutto di una scelta, è lo sperimentare tutto ciò che avviene d’incontrare senza agire veramente e senza scegliere. La vita estetica, il cui rappresentante è il seduttore o Don Giovanni, non è il male, poiché il male è una determinazione etica, ed è quindi una determinazione estranea al punto di vista estetico: ciò che caratterizza lo stadio estetico è piuttosto l’indifferenza. La stessa scelta, infatti, che è una categoria centrale per Kierkegaard e poi per la tradizione esistenzialistica, è qualcosa di estraneo alla vita estetica e che appartiene specificamente alla vita etica. L’esistenza dell’uomo, nel punto di vista estetico, ha una dimensione individualistica che nell’affermare se stesso attraverso il perseguimento della soddisfazione, nelle più diverse esperienze, va alla ricerca della propria distinzione e della propria eccezionalità, intesa però in senso completamente egoistico. Ciò che si rifugge è qualunque forma di continuità, di impegno verso se stessi o verso gli altri che coinvolga realmente la personalità e vada al di là delle singole, frammentate esperienze. La vita estetica consiste quindi nella dipendenza costante dall’esterno, perché in essa non si è scoperta la possibilità di scegliere e quindi la libertà.

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard

Don Giovanni, dalla letteratura alla filosofia Il personaggio letterario Don Giovanni, un irresistibile seduttore incapace di amare veramente e attratto solo dal piacere della conquista, nasce come personaggio teatrale per poi trovare una lunga serie di incarnazioni anche in opere musicali e letterarie, dalle più frivole alle drammatiche. Lo incontriamo per la prima volta in un dramma di Tirso de Molina (pseudonimo di Gabriel Téllez, 1584-1648) intitolato L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra (1630) in cui Don Juan è un cinico personaggio, con tratti vagamente diabolici, che durante una delle sue seduzioni uccide il padre della ragazza e nell’atto finale riceve la visita della statua dell’offeso, che ha deriso con un invito a cena. Il convitato di pietra lo trascina all’Inferno dove verrà punito per i suoi crimini.

Da questo primo nucleo narrativo derivano sia una ricca tradizione popolare che trova voce nella commedia dell’arte, sia il dramma di Molière (1622-1673) Don Giovanni o il convitato di pietra (1665) che riprende nelle sue linee essenziali la vicenda narrata da Tirso. Un’altra tra le più conosciute incarnazioni del mito del seduttore la troviamo nell’opera di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) che mette in musica il libretto italiano di Lorenzo Da Ponte Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni rappresentata per la prima volta nel 1787. Da allora non si contano le incarnazioni ottocentesche di questo tòpos letterario, per esempio il Don Juan (18191824) di George Gordon Byron (1788-1824) che scrive un poema, rimasto incompiuto, in cui mescola epica, avventura e sentimento; oppure novecentesche come il romanzo farsesco Don Giovanni in Sicilia (1941) di Vitaliano Brancati (1907-1954).

La vita etica La trattazione della vita etica ha in Kierkegaard caratteri peculiari. La vita etica è infatti un punto di riferimento centrale – e con essa lo è la categoria della scelta che la contraddistingue – che costituisce lo strumento fondamentale usato da Kierkegaard per chiarire il punto di vista inferiore, la vita estetica, ma che ha anch’essa propri limiti che emergeranno nella prospettiva della religione. La vita etica ha quindi una posizione centrale dal punto di vista sia positivo sia negativo, e si contrappone da un lato alla vita estetica, dall’altro all’esistenza religiosa. La scelta come valore Ciò che segna il passaggio dalla vita estetica alla vita etica è proprio la scelta, che costituisce il tratto essenziale della vita etica: la scelta è un valore in se stessa, che introduce alla possibilità delle determinazioni etiche che nella vita estetica non si danno. La scelta esclusiva tra vita estetica e vita etica, l’Enten-Eller, l’aut-aut consiste nella scelta non tanto di vivere eticamente, ma di vivere all’interno dell’orizzonte etico, dove si dà la possibilità del bene e del male. Dall’indifferenza Il passaggio dalla vita estetica alla vita etica è il passaggio dal mondo dell’indifalla scelta ferenza al mondo della scelta attraverso la scelta stessa di vivere in un orizzonte morale e quindi di potere scegliere tra il bene e il male. Certo, la scelta in favore della vita etica, sorta nel confronto con la vita estetica, è quella giusta; ma in sé la scelta originaria è assoluta e ancora priva di punti di riferimento, perché il bene e il male entrano in gioco soltanto una volta che ci si sia introdotti, attraverso l’abbandono dell’esistenza estetica, nell’orizzonte della moralità, si sia assunto il punto di vista della vita etica che rende possibile parlare di bene e di male.

La centralità del punto di vista etico

T11

La scelta e la vita etica

S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità

[…] una scelta estetica non è scelta alcuna. Insomma, lo scegliere è espressione propria e rigorosa dell’etico! […]. Che cos’è dunque che io disgiungo nel mio enten-eller? Bene e male? No, io voglio solo portarti al punto in cui questa scelta acquista in verità significato per te. È su ciò che tutto s’impernia! Appena si riesca a condurre una persona a trovarsi al bivio cosicché non ci sia per essa nessun’altra via d’uscita se non con lo scegliere, allora tale persona sceglierà il giusto! […]. Il mio enten-eller non caratterizza il più da vicino la scelta tra bene e male, es63

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so caratterizza quella scelta con la quale si sceglie bene e male ovvero li si esclude. Qui dunque il problema è sotto quali determinazioni si vuol considerare l’intiera esistenza e anche vivere! Che colui che fa oggetto della sua esistenza il bene e il male scelga il bene, è vero, certo, ma questo apparirà unicamente dopo, a cose fatte, e in realtà l’estetico non è il male, ma l’indifferenza, e fu per tale ragione che dissi che l’etico costituisce la scelta. Per tale ragione non tanto che ci sia da parlare di uno scegliere tra volere il bene ovvero il male, quanto di uno scegliere il volere; ma con ciò il bene e il male tornano ad essere posti. Dalla frammentazione all’universalità

Apparente banalità della vita etica

Vita etica e valori borghesi

T12

Il lavoro esprime l’universale S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità

È solo con la scelta per la vita etica che si entra nella dimensione della libertà e della responsabilità consapevole, ed è per questo che la scelta di assumersi la responsabilità di scegliere è così importante per la personalità individuale: soltanto così è possibile superare l’universo frammentato della vita estetica nella direzione di una personalità libera ma sottoposta a regole condivise da altri individui, alle regole universali che costituiscono la moralità, all’universale. La vita etica non ha, nei suoi contenuti, nulla di eccezionale: essa ha ancora una volta una posizione intermedia tra l’eccezionalità dell’esteta, da un lato, e l’eccezionalità dell’esperienza religiosa individuale come rapporto diretto con Dio, dall’altro. La vita etica, almeno apparentemente, è banale, anche se in realtà essa nasconde una dimensione eroica, un coraggio che consiste proprio nel riconoscere il bene come la cosa più importante. È infatti poco originale il contenuto della vita etica dell’assessore Wilhelm, il rappresentante kierkegaardiano di questa visione del mondo: Wilhelm conduce una vita secondo un’etica borghese. La vita etica esprime l’universalità e gli elementi comuni al genere umano a partire dalle regole condivise che sono le regole morali, ma non solo. Il lavoro stesso è un innalzamento della vita umana, e la vita etica si fonda sul lavoro, che è una forma di libertà perché nel lavoro si esprime il dominio della natura e la superiorità dell’uomo su di essa. Tanto più basso è il livello a cui si trova la vita umana, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; tanto più in alto essa si trova, tanto più compare tale necessità. Questo dovere di lavorare per vivere esprime ciò che è comune al genere umano, ed esprime anche, in un altro senso, l’universale, poiché esprime la libertà. Appunto lavorando l’uomo si libera, lavorando diventa signore della natura, lavorando mostra d’essere superiore alla natura.

Il vero tratto caratteristico della vita etica è però il matrimonio come espressione più piena dell’universale, della relazione intersoggettiva, chiaramente contrapposta, in questo modo, all’individualismo presuntuoso della vita estetica: quest’ultima è legata all’istante, mentre la vita etica, e in particolare il matrimonio, sono espressione dell’impegno e della stabilità nel tempo. L’etico è l’universale, la legge, il dovere liberamente assunto: nella vita etica il singolo inserisce il proprio contributo in un ordine, occupa un suo posto nella società e svolge un proprio compito. Universale L’universalità di cui parla Kierkegaard, per quanto riguarda la vita etica, non è un come destinazione universale astratto, formale, di tipo «kantiano»: si tratta piuttosto di un’universalità individuale che si realizza in modo specifico in ciascun individuo concreto che ha così una propria missione, una propria destinazione tra gli altri uomini contrapposta all’accidentalità isolata e priva di ordine della vita estetica. La vita etica è caratterizzata da questo sforzo morale di diventare uomo al tempo stesso concreto e universale. Il matrimonio come espressione dell’universale

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La destinazione dell’uomo

S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità

L’etica di Kierkegaard

Colui che vive esteticamente, quegli è l’uomo accidentale, quegli crede d’essere l’uomo perfetto essendo l’unico uomo; colui che vive eticamente si sforza di diventare l’uomo universale […]. L’individuo più insignificante ha una missione, non dev’essere rifiutato, non dev’essere mandato a vivere ad un confinium con gli animali, egli non sta al di fuori di ciò che è comune al genere umano, egli ha una missione. La tesi etica che ogni uomo ha una missione è dunque l’espressione del fatto che c’è un ordine razionale delle cose nel quale ogni uomo, caso mai lo voglia, occupa il suo posto in modo da manifestare d’un sol colpo ciò che è comune al genere umano e ciò che è individuale. Tre forme dell’esistenza: vita estetica, etica e religiosa (vedi anche p. 69) – Gerarchicamente ordinate – Rapporto asimmetrico tra le tappe – Discontinuità tra i livelli

Vita estetica Esistenza retta dalla frammentazione, dall’individualismo e dall’indifferenza

Figura simbolica: Don Giovanni

Vita etica Passaggio dall’indifferenza alla scelta come ingresso nella vita etica

Figura simbolica: assessore Wilhelm

Caratteri della vita etica – Universalità etica – Medietà tra le altre due forme – Non eccezionalità – Valori borghesi (matrimonio, lavoro ecc.) – Universale etico come destinazione individuale

3 Verso la vita religiosa

La religione Dopo aver presentato le prime due forme di esistenza Kierkegaard si dedica alla descrizione della terza, la vita religiosa. Come la frattura tra la vita estetica e quella etica è avvenuta attraverso l’apparire, nell’esistenza individuale, della scelta, che ha portato con sé la consapevolezza dei limiti dell’estetico (individualismo, frammentazione, incapacità di scegliere), così il salto verso la vita religiosa prende avvio nel momento in cui si scoprono i limiti dell’etica.

I limiti dell’etica Debiti verso gli idealisti

Nonostante la costante polemica verso la filosofia idealistica, la descrizione kierkegaardiana della vita etica è debitrice ad essa di aspetti importanti: l’idea di una concreta destinazione etica individuale che abbia al tempo stesso un significato universale fa pensare a Fichte, e l’inserimento dell’agire concreto dell’individuo in un tessuto etico fatto dell’agire di tutti gli uomini rimanda ancora a Fichte, ma soprattutto a Hegel, come Kierkegaard stesso riconosce. 65

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Hegel come interprete della vita etica

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Hegel e la vita etica S. Kierkegaard, Timore e tremore

La volontà di credere

Nell’opera con cui si fa esplicito il confronto con Hegel, infatti, e in cui il fine principale è proprio mostrare il carattere limitato della vita etica (confrontandola non più con quella estetica, ma con la religiosa), l’universalità della vita etica è collegata esplicitamente al pensiero di Hegel, in particolare alla parte finale dello spirito oggettivo, la sfera dell’eticità suddivisa in famiglia, società civile e Stato. Se la vita etica è tutto ciò a cui l’uomo può aspirare, se è l’universalità della vita sociale l’unico fine dell’esistenza dell’uomo, allora è in questa vita etica, sociale, che consiste la beatitudine, e si esaurisce il compito del singolo. Se tutto ciò è vero, allora ha ragione Hegel, scrive Kierkegaard in Timore e tremore. L’etica è come tale il generale e, come tale, è valido per ognuno: ciò che in un altro modo si può esprimere dicendo che vale a ogni momento. […] Se è questa la cosa più alta dell’uomo e della sua esistenza, allora l’etica ha la stessa qualità della beatitudine eterna dell’uomo, la quale per tutta l’eternità, e in ogni momento è il suo tèlos [fine]. Stando così le cose, allora ha ragione Hegel. Ma Kierkegaard non crede che l’etica sia la cosa più alta, e quindi Hegel ha torto. Necessario è il «salto» nella fede, che è superiore all’etica e che non è questione di conoscenza: la fede, infatti è volontà di credere che può arrivare fino all’assurdità e alla paradossalità di negare la stessa etica, di sospenderla, proprio in nome della fede.

La sospensione dell’etico Autonomia della vita religiosa dall’etica

La fede come fine e la sospensione teleologica dell’etico

Abramo come esempio della sospensione dell’etico

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Si è detto che il rapporto tra i diversi stadi dell’esistenza non è un rapporto graduale, ma consiste in fratture, in scelte, in «salti» che rappresentano la negazione dello stadio precedente. Ciò è valido per Kierkegaard anche e soprattutto nel caso del rapporto tra etica e religione, cioè tra etica e fede: l’idea di una supposta continuità tra etica e religione o, ancor più, di una religione fondata sulla morale e che magari si esaurisca in essa (un’impostazione cara alla filosofia illuministica) è lontanissima dalla sua mentalità e dal modo in cui egli affronta la questione dell’esistenza religiosa. Chi ritenga che l’etica sia il fine più alto non può capire la natura della fede religiosa, come non può capirla chi metta la fede in continuità con l’etica, senza comprendere il «salto» che è invece necessario, per giungere alla fede dalla vita etica. Se il fine più alto è la fede, invece, questa porta con sé ciò che Kierkegaard chiama la «sospensione teleologica dell’etico», la sospensione e quindi la negazione delle regole morali in nome di un fine più alto che è la fede religiosa. Di fronte alla fede, infatti, le categorie etiche entrano in crisi, il rapporto di tipo etico con gli altri uomini e con la comunità alla quale si appartiene diventa un rapporto di valore relativo in nome di un altro rapporto, di tipo assoluto, che è il rapporto del singolo con Dio. L’esempio scelto da Kierkegaard per illustrare la «sospensione teleologica dell’etico» è il racconto biblico di Abramo: Dio chiede ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, uccidendolo per onorare Dio stesso. Si tratta, evidentemente, di un rapporto diretto del singolo con Dio, senza nessuna mediazione della comunità e delle regole di essa: Dio ordina ad Abramo un’azione che viola le norme etiche, un atto che dal punto di vista morale sarebbe un assassinio.

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L’obbedienza di Abramo – che accetta di sacrificare il proprio figlio (anche se da ultimo verrà fermato da Dio stesso, poiché ha superato la prova) – è qualcosa che va contro le norme etiche e che è addirittura incomprensibile o folle: «umanamente parlando egli è pazzo e non può farsi comprendere da alcuno». La solitudine di Abramo L’impossibilità della comprensione altrui è ciò che segna la peculiarità della posizione e della scelta di Abramo: la sua è una scelta solitaria in cui la propria individualità scavalca le norme etiche e quindi l’universale o il generale, per entrare da singolo in un rapporto diretto con Dio, non mediato dall’universale. In questo paradosso, ossia in questa aperta contraddizione con l’etica comune, in questo salto consiste appunto la fede.

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La fede come paradosso S. Kierkegaard, Timore e tremore

La fede è appunto questo paradosso, cioè che il singolo come singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma sopraordinato. […] il Singolo come singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto. Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avviene appunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso, inaccessibile per il pensiero.

Il salto nella fede è quindi un atto eroico, ma di un eroismo particolare, ben diverso da quello che si trova nelle tragedie greche. Per illustrare questa differenza, Kierkegaard confronta Abramo con Agamennone, l’eroe tragico che per salvare la patria accetta la morte della figlia Ifigenia. Agamennone compie una scelta tragica, ma la sua è una scelta che rimane interna alla sfera etica, ai valori della comunità in cui vive: il suo è un conflitto squisitamente morale che viene risolto con gli strumenti dell’etica. Scegliendo un valore etico, il bene del proprio popolo, rispetto a un altro valore etico che è il dovere di un padre di provvedere ai propri figli, Agamennone compie una scelta etica; non c’è qui nessuna sospensione dell’etico, nessuna sua negazione. Ciò è provato dal fatto che la stessa comunità accompagnerà e comprenderà il dolore del padre che per amor patrio ha accettato il sacrificio e la morte della figlia. Abramo Nel caso di Abramo, egli, solo, deve negare l’etica e andare al di sopra e al di là e la trasgressione di essa. L’unico punto di contatto tra Abramo e l’universale etico, il generale, il morale dovere morale, è piuttosto una trasgressione della moralità in quanto tale, per la quale egli non trova nessun appoggio e nessun sostegno nella comunità: per questa, Abramo non è più un eroe, ma «un tipo da manicomio». Agamennone come esempio di permanenza nell’etico

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Abramo e l’eroe tragico S. Kierkegaard, Timore e tremore

La differenza fra l’eroe tragico e Abramo balza agli occhi facilmente. L’eroe tragico rimane ancora dentro la sfera etica. Per lui ogni espressione dell’etica ha il tèlos in un’espressione etica superiore; egli riduce il rapporto etico tra padre e figlio o tra padre e figlia a un sentimento che ha la sua dialettica nel suo rapporto all’idea di moralità. Non ci può essere questione di una sospensione teleologica dell’etica. Diversa è la situazione di Abramo. Egli ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo tèlos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa. Infatti mi piacerebbe sapere come si può mettere l’azione di Abramo in rapporto al generale e se è possibile scoprire un punto di contatto qualsiasi fra ciò che Abramo ha fatto e il generale, se non quella trasgressione che Abramo ha compiuta. 67

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La verità è soggettiva La frattura tra vita etica e vita religiosa segna profondamente la distanza tra il mondano e il divino, tra ciò che è umano – la vita etica – e ciò che lo trascende. La vita della religione è la vita solitaria del singolo nel suo rapporto con Dio, con il Dio personale e trascendente della Bibbia, non con Dio come oggetto della speculazione di filosofi: è una religione vissuta. Verità come esperienza L’interiorità è il centro dell’interesse di Kierkegaard e ciò che fonda la stessa esistenziale nozione di «verità»: la verità non è oggettiva, come vogliono gli idealisti, non è un insieme di proposizioni che riguardano un Dio-Assoluto, valide per tutti allo stesso modo, ma è soggettiva. La soggettività è la verità perché è la verità dell’esistenza individuale che incontra Dio attraverso la fede, e non come un oggetto di conoscenza, anche se concepito come infinito, onnipotente ecc.: la verità, infatti, non consiste nel sapere, ma nell’esistere, ed è quindi, per principio, incomunicabile, poiché è un’esperienza «eccezionale» vissuta individualmente e interiormente. L’incontro con Dio

Angoscia e disperazione Il cristianesimo vissuto di Kierkegaard è profondamente segnato dal senso del peccato, inteso non solo e non tanto come eredità della caduta di Adamo, ma come esperienza che riguarda tutti gli uomini (tutti siamo peccatori di fronte a Dio) e che si esprime nell’angoscia, ossia in un sentimento interiore comune a tutti in cui si mescolano paura e ansia profonda per qualcosa di terribile e di indeterminato, per la minaccia di annientamento e di morte, soprattutto di morte spirituale, a cui la vita umana è sempre esposta. A questa nozione Kierkegaard dedica Il concetto dell’angoscia. Possibilità e libertà L’angoscia è il senso del peccato, ma è anche, proprio per questo, il senso della possibilità, ossia del momento in cui l’individuo diviene consapevole dell’opposizione tra bene e male e, immediatamente dopo, della propria capacità di scegliere l’uno o l’altro, e quindi della propria libertà. La possibilità è una sorta di riproposizione della situazione di Adamo di fronte al divieto di Dio di mangiare dall’albero della conoscenza, divieto che lo rende, però, conscio di poterlo fare. Dall’angoscia Certo, l’uomo inconsapevole si sottrae all’angoscia, ma allora egli è soltanto prealla disperazione da degli avvenimenti esterni e non è libero, come si vede nella vita estetica. L’angoscia è ciò che caratterizza, invece, la condizione umana di fronte al mondo ed è un presupposto indispensabile che può condurre alla fede o alla disperazione, ossia all’«autoconsunzione impotente», alla consapevolezza di aver perso ogni possibilità, il cui gesto estremo è il suicidio. Quest’ultima, che riguarda tutti gli uomini, anche coloro che non ne sono consapevoli, è la malattia mortale (l’opera con questo titolo esce nel 1849) che può essere curata soltanto dalla fede. La prospettiva della religione come fede vissuta e sofferente diventa centrale negli scritti più tardi di Kierkegaard, che sottolinea così la distanza assoluta che separa l’uomo da Dio: è una distanza incolmabile della quale l’uomo diviene consapevole nel momento in cui compie il salto nella fede e ➥ Sommario, p. 70 abbandona l’esistenza comune. L’angoscia come sentimento universale

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard La vita religiosa secondo Kierkegaard

Vita religiosa Salto nella fede come ingresso nella vita religiosa dopo la sospensione teleologica dell’etico

Figura simbolica: Abramo

Caratteri della vita religiosa – Solitudine – Carattere paradossale della fede – Verità come esperienza esistenziale e soggettiva – Incontro personale con Dio – Angoscia e possibilità – Fede e disperazione

Suggerimenti bibliografici Una ricostruzione della formazione e della rete di incontri e relazioni di Schopenhauer in R. Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia. Una biografia, Longanesi, Milano 2004. La migliore introduzione generale alla filosofia di Schopenhauer è l’Invito al pensiero di Schopenhauer, di G. Invernizzi, Mursia, Milano 1995. Per quanto riguarda in particolare Il mondo come volontà e rappresentazione, è disponibile la guida alla lettura di S. Barbera, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1998. Utili sono anche le varie introduzioni alle opere: oltre a quella di C. Vasoli all’edizione che abbiamo utilizzato, segnaliamo quella di G. Vattimo al Mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 2003; e quella di G. Colli a Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano 1998. Suggestivo e stimolante è anche il breve saggio dedicato alla filosofia di Schopenhauer da uno dei più grandi scrittori tedeschi del Novecento: Th. Mann, Schopenhauer, in Id., Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Mondadori, Milano 1980. Su temi specifici della riflessione di Schopenhauer possono essere utili: sulla libertà del volere N. di Napoli, Al di là della rappresentazione: saggio su Schopenhauer, Loffredo, Napoli 1993; sulla concezione dell’uomo L. Pica Ciamarra, L’antropologia di Schopenhauer, Loffredo, Napoli 1996; sul nichilismo L. Ceppa, Schopenhauer diseducatore, Marietti, Casale Monferrato 1983; sul rapporto con la filosofia indiana I. Vecchiotti, La dottrina di Schopenhauer, Ubaldini Editore, Roma 1969. Una monografia che affronta il rapporto con la musica è G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, Milano 1969. Infine, sul rapporto con la filosofia di Kant: F. Bazzani, L’incompiuto maestro: metafisica e morale in Schopenhauer e Kant, Clinamen, Firenze 2003. Un’introduzione generale a Kierkegaard è quella di S. Spera, Introduzione a Kierkegaard, Laterza, Roma-Bari 1996, con quella di G.M. Pizzuti, Invito al pensiero di Kierkegaard, Mursia, Milano 1995. Opere utili sono: R. Cantoni, La coscienza inquieta: Søren Kierkegaard, Mondadori, Milano 1949; C. Fabro, Tra Kierkegaard e Marx, Logos, Roma 1978; V. Melchiorre, Saggi su Kierkegaard, Marietti, Genova 1987; e il volume a più mani curato da L. Amoroso, Maschere kierkegaardiane, Rosenberg & Sellier, Torino 1990. Due filosofi contemporanei che hanno dedicato la loro attenzione a Kierkegaard sono T.W. Adorno, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Guanda, Parma 1983 e P. Ricoeur, Kierkegaard. La filosofia e l’«Eccezione», Morcelliana, Brescia 1995. I brani antologizzati sono tratti da: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 2006: p. 26 (T1), p. 28 (T2), p. 30 (T3), pp. 125-126 (T4), pp. 172-173 (T6), pp. 227-228 (T8), p. 342 (T7), p. 406 (T10). A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 90-91. S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, da EntenEller, parte 2, tomo 2 (5), trad. a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1989: pp. 32-33, 35 (T11), pp. 148, 195 (T13), p. 182 (T12). S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1993: p. 65 (T14), p. 66 (T15), p. 67 (T16).

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Sommario 1. SCHOPENHAUER

La filosofia di Schopenhauer rappresenta una voce dissonante nella sua epoca. I suoi caratteri principali infatti sono l’irrazionalismo e il pessimismo e questi elementi di ‘inattualità’ sarebbero stati riconosciuti alla fine del secolo da Nietzsche. Un destino simile a quello di Kierkegaard che difende in quegli stessi anni le ragioni dell’esistenza. Entrambi avranno un’influenza rilevante nel XX secolo. [par. 1] Ciò che accomuna Schopenhauer agli idealisti è invece l’aspirazione sistematica. Nella sua formazione pesano tre esperienze fondamentali: l’influenza di Kant, il rapporto con Goethe e l’incontro con la filosofia indiana. [par. 2] L’opera principale di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, inizia dalla teoria della conoscenza. A partire dalla distinzione tra fenomeno e cosa in sé Schopenhauer rielabora il pensiero kantiano riducendo la realtà a rappresentazione; indica nel principio di ragion sufficiente la radice comune delle forme a priori, che riduce a tre, principio di causalità, spazio e tempo, dai quali deriva il principio di individuazione di ogni singolarità; riconduce allo stesso principio i motivi che determinano la volontà. In questa prospettiva il fenomeno diventa sinonimo di apparenza. [par. 3] Se il fenomeno è assimilato al sogno, la cosa in sé è identificata con la volontà, alla cui individuazione Schopenhauer giunge partendo dal corpo. Cogliendo l’unità tra volontà e atti volontari, egli diviene consapevole che le azioni umane sono solo l’oggettivarsi della volontà e per analogia comprende che essa è un’unica essenza, tesa all’autoaffermazione, che opera in ogni aspetto della natura, a partire dall’inorganico, una e intera in ogni individuo. Nella volontà Schopenhauer riconosce poi delle forme di oggettivazione, atti eterni, immutabili e atemporali: le idee che unificano in profondità il mondo della natura. Questa concezione metafisica della natura non toglie però validità alla spiegazione razionale della scienza. L’essenza del mondo è nel suo intimo antifinalistica e irrazionale e questo determina uno stato generale di sofferenza e dolore da cui la vita umana è attraversata incessantemente. [par. 4] Questo stato di infelicità e sofferenza può essere affrontato dall’uomo solo attraverso la cessazione del volere e la liberazione dalle catene del mondo fenomenico per mezzo di vari gradi di ascesi. Il primo di essi è l’esperienza estetica: le varie arti, al cui vertice c’è la musica, contemplano i gradi di oggettivazione che le idee rappresentano. Attraverso la contemplazione disinteressata, l’arte accede a una prima libe-

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razione dal mondo della necessità fenomenica, anche se questa catarsi è solo temporanea. [par. 5] La liberazione conclusiva può realizzarsi solamente attraverso un profondo mutamento etico. Sulla scia di Kant, Schopenhauer distingue tra piano empirico e piano intelligibile: in ambito fenomenico la volontà è determinata da motivi esterni e dal carattere individuale. All’interno del carattere però, oltre alla componente empirica, c’è anche una componente intelligibile riconducibile alla sfera del noumeno. La liberazione etica inizia con l’abbandono dell’impulso di autoaffermazione e con la scoperta della compassione. L’ultimo stadio della liberazione consiste nell’abbandono della volontà di vita che porta alla santità e alla noluntas, ossia alla negazione della volontà, comprensibile solo attraverso l’esperienza mistica e l’illuminazione. [par. 6] 2. KIERKEGAARD

La filosofia di Kierkegaard è caratterizzata dall’attenzione all’esistenza concreta e dal rifiuto delle filosofie razionalistiche e sistematiche, anche attraverso nuove forme e generi di scrittura filosofica, come in EntenEller. Centrali sono anche la polemica verso il cristianesimo istituzionale e gli idealisti, e la nozione di edificazione. [par. 1] Nell’esistenza Kierkegaard distingue tre forme di vita, estetica, etica e religiosa, tappe organizzate gerarchicamente, asimmetriche e discontinue. La vita estetica è caratterizzata da una ricerca incessante e dall’indifferenza: l’esteta è incapace di scegliere e vive in maniera individualistica e frammentata. Quando compare la consapevolezza della scelta, avviene il salto nella vita etica, il passaggio dalla frammentazione all’universalità, che Kierkegaard rappresenta come sintesi dei valori borghesi. [par. 2] Il passaggio successivo è provocato dalla consapevolezza dei limiti dell’etica: per vivere il salto nella fede è necessaria la sospensione teleologica dell’etico, ovvero il superamento dell’universalità e delle sue norme accettando di vivere il paradosso della fede. L’incarnazione di questa scelta è Abramo. La dimensione religiosa non porta però con sé una visione pacificata dell’esistenza, anzi trasforma la verità in un’esperienza soggettiva e individuale (l’incontro con Dio) dominata da una profonda angoscia dettata dalle possibilità che si aprono di essere liberi e quindi responsabili della propria salvezza o perdizione. L’uomo religioso ha davanti a sé le due vie della fede e della disperazione, acuita dalla consapevolezza dell’abisso che lo separa da Dio. [par. 3]

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Parole chiave Angoscia. Nella filosofia di Kierkegaard indica il sentimento universale di paura unita ad ansia di fronte all’incertezza e alle possibilità di scelta, che accompagna l’esistenza umana segnata dal peccato originale e che può essere superato solo attraverso il salto nella fede. Compassione. Per Schopenhauer il sentimento di amore disinteressato (agàpe o «carità») che nasce dall’intuizione immediata dell’unità di tutti gli esseri, come manifestazioni della volontà, e della loro comune sofferenza e che permette di raggiungere la serenità, uno stadio di liberazione superiore a quello estetico. Disperazione. Secondo Kierkegaard uno dei possibili esiti dell’esistenza dominata dall’angoscia: quello alternativo alla fede e caratterizzato dalla perdita di ogni possibilità, che può spingersi fino al suicidio. Edificazione. Termine derivante dal latino aedificare, «costruire»; in Kierkegaard l’impegno per la diffusione e la difesa dei valori cristiani attraverso le parole e l’esempio. Enten-Eller. Termine danese che corrisponde alla disgiunzione latina aut-aut, «o-o» che indica due possibilità reciprocamente alternative, un dilemma: Kierkegaard intitola così la sua opera più famosa. Esistenza. Nel linguaggio di Kierkegaard «ciò che esiste», la nuda e concreta realtà individuale umana, in cui egli distingue tre forme: estetica, etica e religiosa, caratterizzate da una discontinuità radicale e da un valore progressivamente maggiore. Idea. Nel pensiero di Schopenhauer gli atti in cui la volontà si oggettiva, e che rappresentano gli archetipi dei singoli individui, ossia i caratteri generali delle specie, e le forze generali della natura (magnetismo, gravità ecc.): a differenza dei fenomeni, apparenti e mutevoli, le idee (anche se possono apparire solo attraverso le forme soggettive a priori come causalità, spazio e tempo) sono eterne, atemporali e immutabili. Irrazionalismo. Uno dei caratteri prevalenti della filosofia di Schopenhauer derivante dal fatto che l’essere (la cosa in sé), identificato con la volontà, opera senza alcuno scopo; al contrario è razionale il mondo dei fenomeni, dell’apparenza, comprensibile solo attraverso le forme a priori fondate sul principio di ragion sufficiente. Liberazione. In Schopenhauer il processo attraverso il quale l’uomo, grazie a vari gradi di ascesi (catarsi estetica, compassione e santità) raggiunge la cessazione della volontà di autoaffermazione e si libera dal dolore che essa porta con sé.

Noluntas. Lo stadio di completo distacco dal mondo fenomenico che rappresenta il vertice dell’ascesi: una condizione di «nulla privativo» in cui quello che conta è la negazione di un positivo, la volontà. Paradosso. Dal greco parà, «contro» e dòxa «opinione, credenza», indica ogni argomento o conclusione che contrasta o contraddice quelli del senso e dell’esperienza comuni. Per Kierkegaard la fede è un paradosso perché contraddice l’etica comune, l’universale, come è evidente nella vicenda di Abramo, e dà al singolo maggior valore che all’universale. Pessimismo. Termine che nasce in epoca moderna (1795, in una lettera del poeta romantico S.T. Coleridge) in opposizione a «ottimismo», per indicare che il mondo in cui viviamo è il ‘peggiore’ di quelli possibili. In realtà esistono varie gradazioni di pessimismo; Schopenhauer ne sostiene una radicale secondo cui il mondo fenomenico è solo apparenza e la vera essenza del mondo è la volontà, una forza cieca e irrazionale che non solo spinge gli uomini a desiderare e a soffrire senza posa, ma rende irrequieti e insoddisfatti tutti gli enti naturali, trascinandoli in un’inesausta lotta per la sopravvivenza. Possibilità. Nel pensiero di Kierkegaard la condizione originaria in cui si trova l’uomo quando acquista consapevolezza dell’alternativa tra bene e male e della propria capacità di scegliere l’uno o l’altro. È accompagnata anche da un sentimento di angoscia. Rappresentazione. Termine che indica il contenuto conoscitivo di un atto mentale e l’atto stesso. In Schopenhauer ha due significati: 1) l’atto soggettivo e il suo contenuto, costituito attraverso i principi a priori della conoscenza (spazio, tempo e causalità) che coincide con il fenomeno. Come tali le rappresentazioni sono solo apparenza, anche se sono legittimate e danno un’immagine coerente e stabile del mondo (scienza); 2) gli atti in cui si oggettiva la volontà, le idee atemporali, eterne e immutabili. Santità. La condizione etica più elevata secondo Schopenhauer: la liberazione dalla sofferenza, raggiunta attraverso la consapevolezza che l’essenza del mondo è la volontà e attraverso pratiche ascetiche. Scelta. La categoria etica per eccellenza secondo Kierkegaard: capacità di decidere tra il bene e il male, la cui acquisizione segna il salto nella vita etica. Volontà. In Schopenhauer l’essenza del mondo, la cosa in sé unica, eterna, priva di scopi e dotata di un’energia inesauribile e oscura che è all’origine di tutti i fenomeni. 71

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Questionario SCHOPENHAUER 1

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Quali aspetti della filosofia di Schopenhauer sono influenzati dalla filosofia indiana? (max 1 riga) Illustra in un massimo di 3 righe la nozione di rappresentazione di Schopenhauer.

Lavoriamo sui testi 15

Cosa comprende del mondo che lo circonda l’uomo quando coglie la nozione di rappresentazione, secondo Schopenhauer in T1? (max 1 riga)

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Perché possiamo dire che le forme universali sono a priori, secondo Schopenhauer in T2? (max 2 righe)

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Qual è la condizione dell’esistenza del mondo dei fenomeni, secondo Schopenhauer in T4? (max 1 riga)

3

Qual è il rapporto tra principio di ragion sufficiente, forme a priori e motivi secondo Schopenhauer? (max 4 righe)

4

Quali sono le caratteristiche della volontà come noumeno secondo Schopenhauer? (max 2 righe)

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Che cosa sono le idee e che rapporto hanno da un lato con la volontà e dall’altro con il mondo, secondo Schopenhauer? (max 6 righe)

Per quale sua caratteristica la volontà è una secondo Schopenhauer in T5? (max 2 righe)

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Attraverso quale meccanismo l’arte è in grado di favorire la liberazione dell’uomo secondo Schopenhauer? (max 2 righe)

In qual modo dal bisogno derivano sia il dolore che la noia secondo Schopenhauer in T7? (max 4 righe)

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Qual è la differenza tra carattere empirico e carattere intelligibile secondo Schopenhauer? (max 4 righe)

Quali sono gli effetti della contemplazione estetica sugli individui secondo Schopenhauer in T8? (max 2 righe)

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Quali sono i due coefficienti da cui scaturisce un effetto secondo Schopenhauer in T9? Quali forme assumono nell’uomo? (max 4 righe)

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Quando è che una persona sceglie il giusto secondo Kierkegaard in T11? (max 1 riga)

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In quali modi il lavoro esprime la libertà secondo Kierkegaard in T12? (max 3 righe)

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Che cosa esprime la tesi etica che l’uomo ha una missione, secondo Kierkegaard in T13? (max 1 riga)

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Qual è il paradosso della fede secondo Kierkegaard in T15? (max 2 righe)

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Che ruolo svolge la compassione nell’etica di Schopenhauer? (max 2 righe) Il concetto schopenhaueriano di santità è un concetto religioso? Rispondi in un massimo di 4 righe.

KIERKEGAARD 10

Quali sono secondo Kierkegaard i caratteri dell’esistenza? (max 3 righe)

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Spiega in un massimo di 6 righe quali sono le tre caratteristiche delle forme dell’esistenza secondo Kierkegaard.

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Che ruolo svolge la scelta nella vita etica? (max 3 righe)

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Quali forme di esistenza simboleggiano rispettivamente Abramo e Agamennone nella filosofia di Kierkegaard? (max 4 righe)

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Perché, secondo Kierkegaard, la verità è soggettiva? (max 2 righe)

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Laboratorio di lettura Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione Si riportano di seguito una parte degli ultimi paragrafi del IV libro del Mondo come volontà e rappresentazione, dedicato all’etica, che costituisce il culmine di tutto il sistema. In essi Schopenhauer non solo offre importanti chiarimenti sulla negazione della volontà di vivere – da lui additata come l’unica possibilità di salvezza – ma riprende e sintetizza efficacemente i temi fondamentali dell’intera opera.

Salvezza e noluntas in Schopenhauer Paragrafo 68 […] Da quanto s’è detto finora apparisce che la negazione della volontà di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla cognizione dell’intimo dissidio a questa inerente, e della sua essenziale vanità, che si manifestaCorollario: no nei dolori d’ogni essere vivente. La differenza, che noi indicammo con per raggiungere la santità l’immagine delle due vie, è questa: se quella cognizione è generata dal doci sono due vie lore semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante il superamento del principium individuationis; oppure dal dolore direttamente, personalmente provato. [A] Vera salvezza, redenzione dalla vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della vo-

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Prima tesi: la santità consiste nell’abbandono del volere

Commento e interpretazione

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A. La concezione pessimistica della vita in generale – e di quella umana in particolare – come espressione della volontà metafisica induce Schopenhauer a indicare come unica possibilità di redenzione la soppressione della stessa volontà di vivere. Il presupposto indispensabile per raggiungere questa condizione, e ottenere così la salvezza, risiede nella conoscenza della sofferenza inestinguibile connessa alla volontà di vita, in quanto tendere cieco e incessante, caratterizzato, nella sua manifestazione fenomenica, da un perenne dissidio interiore. Nella prospettiva schopenhaueriana, una simile conoscenza non può che agire come «quietivo» della volontà: termine con cui Schopenhauer designa l’opposto del «motivo» della volontà, cioè di quelle circostanze che, influendo sul carattere di un uomo, lo spingono in maniera necessaria a volere determinati fini e a intraprendere le azioni per conseguirli. Al contrario, la comprensione della negatività del mondo e del suo principio metafisico funge da «quietivo», in quanto distoglie l’uomo dal volere particolare di determinati scopi e dal volere in generale. Schopenhauer distingue due strade attraverso le quali si può pervenire a questa soppressione della volontà di vivere: 1) la prima è la via dei santi, cioè un percorso di ascesi intellettuale che ha il suo punto di partenza nell’esperienza indiretta della sofferenza cosmica, cioè la compassione, attraverso la quale viene abbracciato in un solo atto il dolore di tutto l’universo: ascesi i cui passaggi successivi sono la progressiva rinuncia a tutte le manifestazioni della volontà, dall’impulso sessuale agli altri impulsi. Si tratta di una strada impervia, che solo pochi sono in grado di percorrere; 2) la seconda strada per la salvezza, che

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Argomento a sostegno della tesi: se non si raggiunge la santità si resta chiusi nel dolore della rappresentazione Esempi a sostegno della tesi: il destino del malvagio che non conosce la verità

lontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo altro che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un’esistenza evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare, è l’intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo irrevocabilmente appartengono. Imperocché noi vedemmo più sopra, che alla volontà di vivere è ognor sicura la vita, e sua unica forma reale è il presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte imperino sul fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito indiano, dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si genera la negazione della volontà, e quindi è effettivamente in balia di tutti gli affanni che nella vita appaiono come possibili: essendo anche la casuale sua presente condizione felice null’altro se non fenomeno mediato dal principium individuationis, ossia un’illusione della Maya, il sogno felice del mendicante. I dolori, ch’egli nella violenza e nella rabbia della sua sete infligge altrui, sono la misura dei dolori da lui personalmente provati, che non pervengono a infrangere la sua volontà e a gui-

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è quella percorsa dal resto dell’umanità, consiste nell’esperienza diretta del dolore: la sofferenza che accompagna i nostri destini personali può essere, infatti, motivo sufficiente per la conversione dal volere al non volere; la vita stessa è una dura maestra che può insegnarci a poco a poco a non volerla. B. Partendo dai presupposti della propria metafisica, Schopenhauer riconduce il divario etico dei caratteri – cioè tra il malvagio e il virtuoso – a differenti tipi di conoscenza. Malvagio è colui che, per soddisfare la propria volontà egoistica invade la sfera di volontà degli altri: questo comportamento e l’odio verso i propri simili derivano per Schopenhauer dall’essere ancora irretiti nel principium individuationis, che spinge erroneamente a considerare gli altri esseri viventi come distinti e separati rispetto alla nostra persona. Nello stesso egoista è presente il sentimento oscuro della propria unità metafisica con gli esseri da lui vessati, che per Schopenhauer è testimoniato dal senso di colpa: l’autore di un’azione malvagia soffre, in quanto il dolore che infligge alle vittime in realtà è anche il suo dolore. Il senso di colpa è solo una delle continue e innumerevoli sofferenze di cui è costellata la vita dell’egoista: essendo trascinato da una volontà di vita particolarmente intensa, il malvagio soffre più delle sue vittime, nella misura in cui la volontà – essendo espressione di un bisogno e di una mancanza – è costantemente accompagnata da un dolore, che può essere cancellato solo di rado e solo in maniera provvisoria, fino all’insorgere di un nuovo desiderio e di un nuovo struggimento. Il malvagio, però, non è in grado di trarre dal proprio dolore l’insegnamento che solo potrebbe salvarlo, cioè la conoscenza della vanità del volere e il conseguente approdo alla soppressione di essa. La giustizia e l’amore disinteressato per gli altri esseri viventi – che Schopenhauer identifica con la virtù, contrapposta all’egoismo – sono invece l’espressione di una conoscenza che abbia squarciato il velo di Maya dei fenomeni, superando il principium individuationis: di qui la compassione – cioè la condivisione del destino degli altri uomini (e non solo) come perfettamente uguale al proprio – che costituisce il primo passo verso la negazione completa della volontà. C. Matthias Claudius (1740-1815), un poeta di discreta fama, amico di Friedrich G. Klopstock (1724-1803) e Johann G. Herder (1744-1803). Scriveva generalmente sotto lo pseudonimo di Asmus, che anche Schopenhauer spesso adopera per riferirsi a lui. D. Per Schopenhauer l’agire umano nel mondo fenomenico è sottoposto, come tutti gli altri fenomeni, al principio di ragion sufficiente: precisamente, la volontà umana è determinata in maniera necessaria dalla reazione del carattere individuale ai motivi, che differiscono dalla causalità ordinaria soltanto in quanto passano attraverso la conoscenza. Sulla base di questi presupposti, Schopenhauer rifiuta la concezione della libertà come ar-

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Il destino del santo che conosce la verità

darlo verso la finale negazione. Ogni vero e puro amore, invece, ed anche ogni libero senso di giustizia, provengono già dal superamento del principium individuationis; il qual superamento, quando avvenga con pieno vigore, ha per effetto la completa santità e la redenzione. Il processo di questa è lo stato di rassegnazione sopra descritto, l’incrollabile amore, che tale rassegnazione accompagna, e la suprema letizia nella morte. [B]

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Paragrafo 69 Seconda tesi: il suicidio non è una via di redenzione Primo argomento a sostegno della tesi: il suicida è guidato dalla volontà di vivere

Da questa negazione della volontà di vivere, oramai sufficientemente esposta nei limiti del nostro studio, negazione, che è l’unico atto di libertà possibile al fenomeno, e costituisce quindi, come Asmus la chiama, [C] la metamorfosi trascendentale, [D] nulla si discosta tanto come l’effettiva soppressione del proprio singolo fenomeno: il suicidio. Lungi dall’essere la negazione della volontà, esso è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa. [E] Imperocché la negazione ha la sua essenza nell’aborrire non già i mali, bensì i beni della vita. Il suicida vuole la vita, ed è solo mal-

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bitrio – cioè come scelta immotivata tra due opzioni – intendendo la libertà solo in senso negativo, cioè come assenza di necessità, o indipendenza dalla legge del principio di ragion sufficiente, che regge le relazioni tra i fenomeni. In questo senso, la libertà compete solo alla volontà come cosa in sé, ma non alle sue manifestazioni fenomeniche. L’unica eccezione – cioè l’unica possibile estrinsecazione della libertà nella sfera fenomenica – è costituita dalla soppressione della volontà di vivere che può essere compiuta dalla più alta delle oggettivazioni di quest’ultima, cioè l’uomo: rinnegando tutti gli impulsi attraverso i quali la volontà di vita si estrinseca, l’uomo può, infatti, strappare tutti i legami che lo vincolano alla catena causale del mondo fenomenico. Per definire questa manifestazione fenomenica della libertà, Schopenhauer utilizza l’espressione «metamorfosi trascendentale», ripresa dal poeta Matthias Claudius: chiara è in ogni caso l’allusione alla definizione kantiana della «libertà trascendentale» come indipendenza da motivi empirici o soggettivi. Con l’espressione «metamorfosi trascendentale» Schopenhauer vuole, infatti, indicare la totale trasformazione interiore conseguente al passaggio dalla conoscenza fenomenica – sottoposta al principio di ragion sufficiente – alla conoscenza della volontà come radice noumenica unitaria di tutti gli esseri viventi: trasformazione che dà inizio a una serie di azioni completamente nuova. Questa completa palingenesi è l’unico mutamento del carattere ammesso da Schopenhauer. In generale, infatti, nella prospettiva schopenhaueriana il carattere non può cambiare in maniera solo parziale, nella misura in cui esso non è altro che il fenomeno della volontà; l’unica modificazione del carattere possibile è la completa soppressione di esso, che si verifica nel momento in cui l’uomo perviene alla noluntas, grazie alla conoscenza intuitiva della negatività del mondo e del suo principio metafisico. E. L’intero paragrafo è dedicato a fugare la possibile identificazione della noluntas con il suicidio, che per Schopenhauer costituisce un radicale fraintendimento. Ben lungi dall’esprimere il rinnegamento della volontà di vita, il suicidio rappresenta piuttosto un atto del tutto conforme a quest’ultima, o meglio una delle sue più energiche affermazioni, come Schopenhauer dimostra sulla base di diversi argomenti. In primo luogo, cancellare in se stessi la volontà metafisica significa non volere più non solo i mali ma anche i beni; il suicida decide, invece, di togliersi la vita soltanto perché non è riuscito ad appagare desideri – cioè le estrinsecazioni della volontà – che in lui sono e restano così intensi da indurlo a questo gesto disperato: il suicida decide di porre fine alla propria esistenza, proprio in quanto non riesce a porre fine al proprio volere e alle continue frustrazioni che questo gli procura. Allo stesso modo dell’uomo cattivo, soffre, ma non riesce a trarre dalle sue sofferenze l’insegnamento che potrebbe redimerlo, cioè la comprensione della vanità della volontà e l’approdo alla noluntas. 75

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Secondo argomento: il suicidio elimina solo l’individuo non la volontà

Terzo argomento: il suicidio è un effetto della volontà come lotta permanente delle forze naturali

Riaffermazione della seconda tesi: il suicidio non è liberazione dalla volontà di vivere

Conclusione: il suicidio come male di vivere

contento delle condizioni che gli sono toccate. Egli non rigetta perciò in nulla la volontà di vivere, ma soltanto la vita, distruggendone il singolo fenomeno. Vuole la vita, vuole la libera esistenza ed affermazione del corpo, ma ciò non gli è consentito dall’intreccio delle circostanze, e gliene viene un grande dolore. La volontà di vivere viene a trovarsi in questo singolo fenomeno tanto compromessa, da non potere più svolgere la propria tendenza. Allora essa prende una risoluzione conforme alla propria essenza in sé; la quale sta fuor delle forme del principio di ragione, e tiene quindi per indifferente ogni isolato fenomeno, essendo ella medesima intangibile da nascita e da morte, e costituendo l’intimo della vita di tutte le cose. […] Come l’oggetto singolo sta all’idea, così sta il suicidio alla negazione della volontà: il suicida nega soltanto l’individuo, non la specie. Già vedemmo che, essendo alla volontà di vivere sicura sempre la vita, ed essenziale alla vita il dolore, il suicidio o arbitraria distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta: ché sopprimendo il fenomeno rimane intatta la cosa in sé, come sussiste l’arcobaleno, per veloci che si succedano le gocce le quali nell’attimo lo sostengono. [F] Quell’azione è inoltre il capolavoro della Maya, essendo la più clamorosa espressione del contrasto della volontà di vivere con se stessa. Come già osservammo tale contrasto nei fenomeni più bassi della volontà, nella lotta permanente combattuta da tutte le manifestazioni delle forze naturali e da tutti gli individui organici per la materia, per il tempo e per lo spazio; e come quel contrasto vedemmo sempre più visibile apparire, con tremenda evidenza, nei gradi dell’oggettivazione della volontà man mano più alti; così finalmente raggiunge nel grado supremo, che è l’idea dell’uomo, questo vertice, in cui non soltanto gli individui rappresentanti della stessa idea si distruggono l’un l’altro, ma addirittura l’individuo dichiara guerra a se medesimo. [G] E allora quella stessa vivacità con cui l’individuo vuole la vita e fa impeto contro l’oppressore di essa, il dolore, lo riduce a distruggere se medesimo: sì che la volontà individuale sopprime con un atto volontario il corpo, il quale è appunto la propria manifestazione visibile, prima che il dolore infranga la volontà. Appunto perché il suicida non può cessare di volere, cessa di vivere; e la volontà s’afferma qui proprio con la soppressione del proprio fenomeno, non potendosi più altrimenti affermare. Ma poiché precisamente il dolore a cui il suicida in tal modo si sottrae era quello che avrebbe potuto, qual mortificazione della volontà, condurlo alla negazione di se stesso ed alla redenzione, somiglia sotto questo riguardo il suicida ad un malato, il

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F. In secondo luogo, la risoluzione di togliersi la vita – qualora le circostanze impediscano la soddisfazione dei propri impulsi – è perfettamente conforme alla volontà metafisica che, essendo superiore al principium individuationis, è del tutto indifferente rispetto alle sorti di un singolo e isolato fenomeno, la cui esistenza le è piuttosto di intralcio nel momento in cui non soddisfa in nessun modo la propria auto-affermazione. In ciò sta la principale differenza tra il suicidio e la noluntas: il primo, in quanto gesto compiuto da chi è ancora irretito nella conoscenza fenomenica, toglie solo l’esistenza del singolo, lasciando intatta la volontà di vita a livello della specie; al contrario, la noluntas – che ha alla sua radice il superamento del principio d’individuazione – elimina la volontà di vita nella sua interezza e unità. G. Infine, il suicidio rappresenta per Schopenhauer l’espressione più emblematica dell’inti-

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quale non lasci condurre a termine una dolorosa operazione che lo guarirebbe, e preferisce tenersi la malattia. […]

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Paragrafo 71 Obiezione alla prima tesi: la santità equivale al nulla

Risposta. Primo argomento: il nulla è un concetto relativo

Il nulla non ha una realtà autonoma

Esempio a sostegno del primo argomento: lo statuto ontologico del principio di non contraddizione

Dando qui termine ai fondamenti dell’etica, e con essi all’intero sviluppo di quell’unico pensiero, ch’io mi proponevo di comunicare, [H] non voglio punto tener celato un rimprovero che tocca quest’ultima parte della trattazione; intendo anzi mostrare, ch’esso è inerente alla sostanza della cosa, e sarebbe del tutto impossibile rimuoverlo. Eccolo: giunta la nostra indagine al punto da farci vedere nella perfetta santità la negazione e l’abbandono d’ogni volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza intera ci si presentò come dolore, tale condizione ci appare come un passare al vuoto nulla. A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad alcunché di determinato, ch’esso nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato col segno – in opposizione al segno +; il qual segno –, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare + ; e in contrasto con quel nihil privativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio del quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure immaginare: ogni nihil negativum, guardato più dall’alto o sussunto ad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum. Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche cosa, e presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un pensiero della ragione: ma non perciò è un nulla assoluto. Imperocché essa è un’accozzaglia di parole, è un esempio del non pensabile, di cui nella logica si ha bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi, allorché si ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada all’insensato, che è la cosa positiva di cui si va in cerca, trascurando il sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil negativum, o nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto più alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla relativo, che può sempre scambiare il suo segno con ciò ch’esso nega, sì che questo diventi a sua volta negazione, ed esso viceversa diventi posizione. [I] […] Ciò ch’è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo l’en-

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mo dissidio della volontà con se stessa, che contraddistingue la manifestazione fenomenica di quest’ultima: nel fenomeno la volontà è in lotta con se stessa, in quanto ogni sua oggettivazione contende spazio e materia alle altre; ciò avviene sia tra specie differenti sia tra gli individui della stessa specie, e il suicidio costituisce il caso limite, in cui un medesimo individuo è in lotta con se stesso. H. Schopenhauer intende il proprio sistema come l’esposizione organica di un unico pensiero, cioè il tentativo di rispondere alla domanda metafisica sul perché ogni vivere sia per essenza un soffrire. I. Per replicare all’obiezione secondo la quale la liberazione dalla volontà di vita non è altro che uno scivolare nel nulla, Schopenhauer prende le mosse dalla distinzione tra il nihil privativum e il nihil negativum: il primo è il nulla risultante dalla negazione di qual-

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Secondo argomento: quello che chiamiamo nulla è il mondo della rappresentazione non la volontà

Terzo argomento: se non arriviamo alla liberazione non riconosciamo il vero nulla

Quarto argomento: in realtà la noluntas è una forma di estasi religiosa, un positivo definibile solo negativamente

te, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo significato più universale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev’esser posta in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del mondo, ch’è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in codesto specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e lamentiamo allora ch’ella non abbia più né dove né quando, e sia svanita nel nulla. Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi, scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è l’ente, e quel nulla come l’ente. Ma, finché noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può esser conosciuto da noi solo negativamente, perché l’antico principio d’Empedocle, potere il simile esser conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza; come viceversa poggia su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione, o l’oggettità della volontà. Imperocché il mondo è l’autocognizione della volontà. [L] Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto, e inoltre è accessibile solo all’esperienza diretta, né può essere comunicato altrui. Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui contentarci della conoscenza negativa, paghi d’aver raggiunto il limite estremo della

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cosa, che può essere indicato con il segno ‘meno’ e può essere rovesciato nel segno opposto – cioè in un positivo – con il capovolgimento del punto di vista; il secondo è invece il nulla sotto tutti i rapporti (nulla negativo), come per esempio la contraddizione logica, che sopprime se stessa. A un esame attento del problema, però, secondo Schopenhauer emerge come il nulla negativo non sia affatto pensabile: tutti gli esempi che si possono addurre, compresa la contraddizione logica, non appena siano considerati da un punto di vista più elevato si rivelano come un nulla privativo e relativo. L. Per positivo si intende comunemente ciò che per Schopenhauer non è altro che il «mondo come rappresentazione», cioè un insieme di contenuti rappresentativi, condizionati dalle strutture a priori della coscienza: tempo, spazio e causalità, che sono le diverse forme in cui si manifesta il principio di ragion sufficiente. La soppressione della volontà di vita è anche soppressione del mondo, che non è altro che manifestazione fenomenica della volontà: essa conduce dunque effettivamente a un nulla, che è però solo un nulla relativo o privativo, e non un nulla negativo o assoluto. Così stanno necessariamente le cose, fino a quando restiamo soggetti alla volontà di vita. M. Per Schopenhauer un’idea positiva della condizione che si consegue con la soppressione della volontà può essere ottenuta solo attraverso il richiamo a esperienze come quella dell’estasi mistica o dell’illuminazione: esperienze che eccedono la conoscenza – in quanto

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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Quinto argomento: attraverso la negazione abbiamo raggiunto la liberazione suprema

Sesto argomento: se continuiamo a opporci al nulla siamo ancora schiavi della volontà di vivere Settimo argomento: invece i santi che hanno raggiunto l’annullamento della volontà sono in quiete

positiva. Avendo riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo null’altro che l’oggettità di lei; avendo quest’oggettità perseguito dall’inconsapevole impulso delle oscure forze naturali fino alle più lucide azioni umane, non vogliamo punto sfuggire alla conseguenza: che con la libera negazione, con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere senza mèta e senza posa, per tutti i gradi dell’oggettità, nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch’essa nient’altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere il nostro mondo. L’aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un’altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, sé medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente l’ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell’incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond’è formato il sogno di vita d’ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta quiete dell’animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. [M] La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. [N] E noi guardiamo con profonda e doloro-

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vanno al di là della distinzione tra soggetto e oggetto – e, in quanto tali, possono solo essere vissute in prima persona, ma sono incomunicabili. In quanto riflessione razionale, la filosofia può, invece, esprimere solo negativamente, cioè con il termine noluntas, il punto di arrivo del processo di ascesi, riconoscendo che la soppressione della volontà di vita implica anche il venir meno di tutte le sue oggettivazioni, dalle idee ai fenomeni, fino alla scomparsa delle stesse forme del mondo fenomenico: il tempo, lo spazio, e la distinzione tra soggetto e oggetto. Di conseguenza, la filosofia ammette che la soppressione della volontà conduce al nulla. Questa ammissione è, però, accompagnata dalla consapevolezza che si tratta di un nulla relativo, il quale appare tale solo a chi è ancora prigioniero della volontà di vita: per coloro nei quali la volontà ha negato se stessa, il nulla è questo mondo con i suoi soli e con le sue vie lattee, mentre la noluntas è una condizione di pienezza e affermazione. N. Questo passaggio è di grande importanza, in quanto esprime in maniera paradigmatica la vicinanza della concezione schopenhaueriana allo gnosticismo, secondo il quale il mondo si origina da un’inesplicabile caduta e la redenzione è essenzialmente opera della conoscenza: come è appunto per Schopenhauer, il quale pone alla radice della noluntas il superamento del principium individuationis e il conseguente passaggio dalla conoscenza fenomenica alla conoscenza noumenica della volontà come principio metafisico.

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sa nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto esser insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall’altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d’incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell’interna verità, dall’arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell’impressione, invece d’ammantare il nulla, come fanno gl’Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l’assorbimento in BrahLa verità metafisica ma o il Nirvana dei Buddhistj. [O] Noi vogliamo piuttosto liberamente disvelata chiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla.

Conclusione della risposta e terza tesi: se accettiamo la noluntas anche noi troviamo l’estasi e la fine del dolore Corollario alla terza tesi: attraverso la noluntas cogliamo la verità sull’essenza del mondo

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(da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 427-430 e pp. 439-444)

O. Questi passaggi esprimono in modo chiaro la distanza tra Schopenhauer e la civiltà orientale, il cui peso è stato sopravvalutato da molti studiosi della filosofia schopenhaueriana. Ben lungi dall’identificare la noluntas con il Nirvana, Schopenhauer si richiama a quest’ultimo solo in modo negativo, per stigmatizzare la propensione del pensiero orientale a rivestire di mitologia quella metafisica che egli riteneva di essere riuscito a esporre con chiarezza concettuale, sia pure in termini solo negativi.

Questionario sull’argomentazione 1

Qual è il vero movente delle azioni del malvagio? (max 1 riga)

2

Per quali motivi il suicidio non è una forma di liberazione dal male di vivere? (max 4 righe)

3

Completa la seguente analogia: il suicidio sta alla volontà come _____________________________ ________________________________________ Spiegala in un massimo di 3 righe. 80

4

Qual è la differenza tra «nulla negativo» e «nulla privativo»? A quale dei due tipi appartiene la contraddizione? (max 4 righe)

5

Quali persone rappresentano il modello della pace e della quiete, ossia della liberazione dal dolore? (max 2 righe)

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana BELLO / BRUTTO 1. «Bello» e «brutto» nel linguaggio comune «Bella giornata, vero?». Non c’è forse espressione che ricorra più spesso. Ma cosa vogliamo dire quando pensiamo che la giornata sia «bella»? La risposta non è difficile – ci riferiamo al fatto che c’è il sole, il cielo è sereno, non c’è (troppo) vento ecc. –, ma lo diventa se vogliamo chiederci, più in generale, che cosa intendiamo dire in tutti i casi in cui diciamo «bello» (o usiamo il suo apparente contrario, «brutto»). Una delle canzoni più famose dice «che bella cosa è una giornata di sole». Che cosa è una «bella cosa»? Usando l’aggettivo «bello» vogliamo dire una sola cosa, o più d’una? Proviamo a raccogliere degli esempi. Una o più famiglie? «Quella di ieri è stata una bella partita.» «Diana è una bella ragazza.» «C’è voluto un bello sforzo per riuscire a capire tutto.» «La Notte stellata di Van Gogh è un quadro davvero bello.» «Perdonare uno sgarbo è un bel gesto.» «Questo è il bello della diretta.» «È stata proprio una bella esperienza.» «Bisogna conservare le foto più belle.» «Se riesci a lavorare senza stress è una bella cosa.» E viceversa: «Quel palazzo è proprio brutto.» «È stata una brutta storia.» «Il brutto in queste situazioni è che si ripercuotono sugli altri.» «Il brutto anatroccolo diventò un cigno.» «Si è dato un brutto esempio.» Si potrebbe continuare a lungo. Forse si nota subito una certa disparità di significati in questi diversi esempi. Possiamo chiederci allora se c’è un – minimo – comune denominatore in quello che in tutti i casi diciamo. Oppure c’è almeno un’aria di famiglia, una sia pur vaga rassomiglianza, tra tutte le accezioni di «bello» e «brutto» che usiamo? O invece si tratta di famiglie distinte di significati?

Il significato di «bello» nel parlare comune

2. «Bello», «piacevole» e «buono» Bello come piacevole Si può notare che, se ci riferiamo al sostantivo astratto («bellezza») invece che all’aggettivo e ai suoi usi, i significati si orientano maggiormente in una direzione. Se parliamo di «bellezza» il pensiero va più rapidamente all’aspetto fisico o «estetico» («riferito ai sensi», dal greco àisthesis, «sensazione») di qualcosa o qualcuno. Si parla, è vero, anche di «bellezza di un gesto», ma l’«istituto di bellezza» è dove si cura l’aspetto esteriore di un corpo, e lo stesso vale per i «prodotti di bellezza». Quando parliamo di «bellezza» e di «bello» in questo senso, ci riferiamo a qualcosa di visibile o comunque a qualcosa che si avverte con i sensi, al quale associamo sensazioni positive, di piacere o di gradevolezza. Questo può valere per le persone come per gli oggetti: è bella la ragazza, è bella l’automobile ecc. Bello Diverso è il senso implicito in espressioni come «un bel gesto», «una bella espesenza piacevolezza rienza», «è una bella cosa». Qui l’aspetto sensibile o visibile non prevale, anzi può essere del tutto indifferente, e neanche la piacevolezza è centrale, almeno se è intesa nel senso di qualcosa che riesce gradito ai sensi. Un «bel gesto» – aiutare qualcuno in difficoltà – certamente fa piacere, ma non è il piacere che ci porta a giudicarlo bello. Né una «bella esperienza» è stata tale necessariamente per i suoi 81

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Che cosa piace in ciò che è piacevole?

L’automobile bella

La bella automobile

Bello è ciò che realizza un modello

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aspetti piacevoli (ma perché ho imparato molto, per esempio, ho scoperto cose nuove, ho capito qualcosa). Se un’amicizia si conserva nel tempo è «una bella cosa», ma non certo solo per gli aspetti piacevoli che un rapporto di questo tipo può avere; questi aspetti, inoltre, sono piacevoli in un senso diverso da quello in cui lo è la vista di un bell’uomo o di uno splendido paesaggio. Così, una «brutta storia» è tale anche se chi vi è coinvolto è avvenente, e anche se si svolge in luoghi affascinanti. Una gomitata è un «brutto gesto» anche quando a darla è un giocatore apprezzato dalle ragazze. Insomma, se in qualche senso quello che chiamiamo in questi casi «bello» fa piacere, non è la piacevolezza il tratto dominante. Legare alcuni significati di «bello» e «brutto» al piacevole o allo sgradevole aiuta a fare alcune prime distinzioni, ma non porta molto avanti l’analisi di questi termini. Se il bello in un certo significato è piacevole, che cosa è piacevole nel bello? Proviamo a confrontare bello e brutto: una donna bella ha un viso regolare, non è troppo grassa né troppo magra, non ha deformità, ha denti ben allineati – una meno bella può avere lineamenti irregolari, un peso forma discutibile, denti storti; e lo stesso vale per un uomo. La bellezza-piacevolezza sembra allora legata al rispetto di certe misure e di certe norme, come simmetria, regolarità, armonia (che si possono legare poi a nozioni come salute o funzionalità di un corpo: un corpo giovane, sano e «atletico» è più bello). Questi caratteri sembrano essere per lo meno (o soltanto?) delle precondizioni per il bello. Forse non bastano: se la descrizione fatta prima sembrava più da allevatore di cavalli che adatta alla bellezza di una persona, è perché in una persona è spesso proprio un «non so che» – qualcosa che eccede le qualità fisiche «normali», che va al di là di esse – a costituire per noi ciò che affascina: quegli occhi di colore straordinario, quel naso particolare, o, appunto, un qualcosa che non sappiamo dire, e che nell’elencazione di «regolarità» non troviamo. Nell’automobile forse conta meno il «non so che» imponderabile, tuttavia è difficile dire perché quell’automobile ci piace. Il design può esser funzionale alla velocità, alla spaziosità, il colore può essere gradevole, le forme possono suggerire sensazioni positive come la velocità, l’armonia, la sicurezza. Un certo numero di caratteri devono tradursi in (possiamo dire: simbolizzare?) proprietà che avvertiamo come positive e gradevoli, ma creare un effetto «bello» riesce soltanto in una particolare combinazione di caratteri, nell’unione di più elementi. È una particolare unità nella molteplicità che fa apparire davvero bella quella macchina, ed è per questo che disegnarne una che piaccia non è facile. Se parliamo però, come è possibile in italiano, non tanto di un’«automobile bella», bensì di una «bella automobile», stiamo già dicendo qualcosa di diverso. Una bella automobile è un’automobile progettata e costruita bene, curata nei particolari, con buone qualità tecniche, comoda, spaziosa, affidabile… Una bella automobile è così come dovrebbe essere un’automobile, un’automobilemodello, un’automobile che ha tutto ciò che fa di essa una vera automobile. Qui siamo nelle vicinanze di quello che abbiamo indicato provvisoriamente come bello senza piacevolezza – il bel gesto, la bella esperienza ecc. In questi casi, «bello» sembra significare non qualcosa che colpisce gradevolmente, ma qualcosa che è come dovrebbe essere, che risponde pienamente alla propria finalità: un «bel gesto» è un gesto come se ne dovrebbero compiere, un gesto «esemplare» (che esemplifica cioè un modello ideale); una «bella esperienza» è un’esperienza che è stata come dovrebbero essere le esperienze autentiche, che svolgono la propria funzione: arricchiscono, istruiscono, allargano la mente

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Laboratorio sul lessico Bello / brutto

ecc. Se è una «bella cosa» conservare un’amicizia, lo è perché ciò ci sembra corrispondere a qualcosa che rende la vita piena, migliore, che ne realizza delle finalità, delle possibilità. «Bello», lo si sarà notato, è qui molto affine a «buono».

Tra i vari significati di «bello» c’è affinità o implicazione?

Legame tra funzionalità e piacevolezza

Un passo indietro

Estetica e linguaggio comune

3. Unità originaria di «bello» e «buono» Se è opportuno distinguere i vari significati di una stessa parola, è anche ragionevole chiedersi perché mai usiamo una stessa parola per significati diversi. Il linguaggio è – talvolta – ingannevole, ma non è mai del tutto arbitrario. Potrebbe esserci un elemento comune, oppure qualche affinità, oppure un rapporto di implicazione tra i diversi significati che abbiamo delineato? Un rapporto sembra esserci. Scavando dentro ciò che rende il bello piacevole, in relazione a uomini o a donne, si trovavano proprietà come la regolarità, la simmetria ecc., e in generale un certo ordine, caratteri che sono legati anche al senso in cui «bello» significa «funzionale» o «rispondente a un fine». Un corpo umano bello è anche un corpo che è come dovrebbe essere: sano, agile, in grado di svolgere tutte le sue funzioni. La regolarità e la simmetria, se non sono necessariamente implicate in ogni funzionalità, sembrano esserlo in un buon numero di funzioni: non è un caso che il nostro corpo sia simmetrico e lo siano la maggior parte dei corpi degli animali, e lo siano anche le automobili, i libri, i telefonini. Dalla funzionalità deriva un certo ordine, e l’ordine sembra piacerci anche quando non sappiamo perché c’è. Così in un edificio – per esempio, in una chiesa – ammiriamo l’ordine e la simmetria, anche se non ne cogliamo la funzione, che forse manca (oppure è una funzione solo estetica o simbolica, dunque non una vera funzione). Molti oggetti li decoriamo con motivi regolari. Se non c’è (più) la funzione, c’è la sua manifestazione, c’è qualcosa che allude a un senso. In genere, il collegamento, qualunque esso sia, tra le dimensioni che sembrano implicite nel bello e che entrano nei nostri usi del termine (la dimensione della piacevolezza e quella della funzionalità) è anche ciò che ne ha sempre messo in risalto l’importanza: se il bello coinvolge il buono, il nostro rapporto con le cose e con il mondo, il nesso che c’è tra le cose e il loro senso, in esso c’è un mistero che è bene indagare e un valore che è bene custodire. C’è qualcosa nel bello che riusciamo a sentire e che però sembra portarci oltre il sensibile. Non approfondiamo qui la storia della parola «bello» (in italiano deriva da bellus, un diminutivo di bonus, «buono») o la sua storia nella filosofia, ma un piccolo passo indietro può essere interessante. L’intreccio o comunque la compresenza di significati che abbiamo ritrovato nell’odierno uso comune – e che riguarda molte altre lingue oltre l’italiano – era stato nell’uso e nella teoria una convivenza molto più armonica di quanto non sia oggi. I greci conoscevano una endiadi (la congiunzione di due parole), kalokagathòs, che indicava un uomo al contempo e inestricabilmente kalòs (bello) e agathòs (buono). Non si esprimeva la connessione di due proprietà, ma piuttosto la percezione della loro originaria unità. Quando abbiamo osservato che una «bella macchina» è una macchina buona, una vera macchina, risuonava in questo la pallida eco dell’idea medievale che pulchrum (bello), bonum (bene) e verum (vero) si convertono l’uno nell’altro, sono cioè tre modi di considerare la stessa cosa da diversi punti di vista. Basti questo a indicare che la separazione-distinzione di questi aspetti raggiunta nella disciplina filosofica specifica che si occupa del bello (l’«estetica», nata nel Settecento, rispetto alla quale è ben più antica la riflessione filosofica sul bello), se da un lato ha prodotto una maggiore precisione concettuale, dall’altro non 83

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

l’ha avuta vinta, forse con qualche ragione, sull’uso del linguaggio comune. In realtà, anche nell’estetica moderna il problema di ricollegare questi aspetti, che essa in qualche modo prima separa, è spesso presente. 4. Il bello nell’arte Tutto quanto finora accennato si complica non poco quando ci riferiamo non tanto a persone o a cose belle, quanto a quegli oggetti prodotti esclusivamente per esser belli, ossia ai prodotti di ciò che chiamiamo «arte». Un tempo, quando questa dimensione non si era ancora resa, o pretesa, così autonoma, essa veniva chiamata «arte bella» per distinguerla dall’arte intesa in un senso più generale, riferito a ogni produzione tecnica; distinte dalle arti belle (quali la pittura e la poesia) erano, per esempio, l’arte culinaria o l’arte della navigazione. Oggi i due campi – arte e tecnica – si ricongiungono nella dimensione del design – la progettazione di oggetti finalizzata alla produzione in serie –, dopo essere stati esperiti come separati. La complicazione più evidente che introduce l’arte è quella di essere, spesso, «rappresentazione», ossia non soltanto o non tanto produzione di oggetti belli, quanto anzitutto riproduzione, rappresentazione appunto di cose belle. Se si è pensato all’arte come «imitazione della natura» è anche perché l’arte cercava di riprodurre ciò che nella natura suscita sensazioni di bellezza: corpi, paesaggi ecc. Ma, ammesso che la produzione di oggetti belli potesse essere riproduzione del bello che c’era nel mondo, il fatto di rappresentarlo offriva subito una ulteriore possibilità: quella di rappresentare, in modo bello, qualcosa che bello non è. Bella può esser la rappresentazione, anche quando non lo è il suo oggetto: per questo spiraglio può introdursi un elemento di grande complessità. Il piacere del brutto In realtà i filosofi avevano notato presto che non è soltanto ciò che – nei suoi molteplici significati – si può chiamare bello a produrre quel piacere che al bello usiamo associare. Proviamo un particolare, complicato, ambiguo piacere nel vedere scene drammatiche, nella realtà – se non ci coinvolgono troppo da vicino – e tanto più nella rappresentazione, dove ovviamente, essendo semplici rappresentazioni o finzioni, non ci coinvolgono direttamente e realmente (anche se si può trattare, naturalmente, di cose reali e ‘coinvolgenti’). Qual è la ragione del piacere che proviamo per oggetti ‘tragici’ (quella che ci fa dire di un film drammatico, o di un horror, che era molto «bello»)? Questa particolare esperienza estetica, insieme alla sempre maggiore importanza data all’aspetto della rappresentazione e al suo controllo da parte del soggetto (la «creatività») e a molti altri motivi storico-culturali, ha fatto sì che la produzione artistica e la riflessione su di essa smettessero di richiamarsi in prevalenza al bello e a quei caratteri di esso più facilmente identificabili (anche se difficili da comprendere fino in fondo): simmetria, armonia, regolarità, forma, gradevolezza, luminosità. Il fascino di ciò che è deforme, disarmonico, indefinito, terribile, fonte di turbamento, oscuro, sgradevole si è fatto strada insieme agli aspetti inquietanti, perturbanti del bello e in connessione con la percezione crescente di un rapporto difficile tra noi e il mondo. Il mondo non è più sentito come «cosmo» (una parola – che deriva dal greco kòsmos, «ordine», ma anche «ornamento» – legata originariamente alla «cosmetica», l’arte decorativa); è invece sentito come una dimensione in cui il caos e il disordine hanno un loro spazio, e forse un loro senso. Cosa c’è oltre il bello Così nell’arte il bello non è più da tempo un concetto-guida o un ideale: abbiamo musica senza armonia, pittura che non riproduce oggetti belli o pittura senza alcun oggetto, arte «informale» ecc. Anche nel gusto quotidiano – una vita quoLa rappresentazione bella

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Laboratorio sul lessico Bello / brutto

tidiana che però è sempre più «estetizzata», ossia caricata di stimoli estetici e simboli – c’è chi privilegia la disarmonia: piercing, abbigliamento ‘disordinato’ (jeans strappati ecc.), amore per ciò che si presenta minaccioso (un certo tipo di tatuaggi), aggressivo od oscuro (il gusto dark). Se tutto questo ci ricorda che il bello è soggetto a trasformazioni – si dice spesso che una donna bella per il gusto d’oggi non lo sarebbe stata ieri, e viceversa –, non ci libera però dal problema di capire che cos’è che piace in ciò che apprezziamo, quando sappiamo che non lo apprezziamo per una sua utilità o per un suo «valore» pratico o morale. A questo è legato anche il fatto che, variabile e indimostrabile come sembra essere, il bello o ciò che lo sostituisce è qualcosa di cui vogliamo parlare e su cui vogliamo intenderci, qualcosa che tendenzialmente condividiamo. Resterebbe da capire che cosa ‘ci dice’ il bello, anche quando è il brutto che sembra parlare con una voce più forte.

Esercitiamoci sul bello / brutto 1. Rifletti e completa BELLO / BRUTTO Molteplicità di significati

Linguaggio comune

Arte

È percepibile mediante i sensi

Non è percepibile mediante i sensi

Passato

Presente

Piacevole / sgradevole

Non necessariamente piacevole / sgradevole

Distinzione tra «arte» bella e tecnica

Unione di arte e tecnica

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Rispetta / non rispetta certe norme

È / non è come dovrebbe essere

È caratterizzato da / manca di ordine

Rappresentazione di ciò che nella natura suscita piacere

La rappresentazione di una cosa brutta può essere piacevole

È / non è funzionale

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Esempio: _____________________ _____________________ _____________________

Il bello è un ideale

Il bello non è un ideale

La funzionalità implica ordine e l’ordine è piacevole

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

2. Spunti per il dibattito: io e… il bello / brutto 1

Dopo aver letto il testo e completato lo schema rispondi alle seguenti domande: – C’è un elemento comune alle diverse accezioni in cui si può usare l’aggettivo «bello»? – Pensi che sia sempre possibile definire con precisione le caratteristiche che rendono bella o brutta una persona o una cosa? – Secondo la tua concezione della bellezza, l’essere piacevole è una componente necessaria dell’essere bello?

2

Immagina due coppie di amici di vecchia data. La prima ha un rapporto di amicizia che in passato ha conosciuto momenti di tensione e di aperto conflitto, ma li ha sempre superati e ciò ha contribuito a rafforzare il legame tra le due persone; la seconda ha un rapporto molto più disteso e nel corso degli anni non ci sono mai state discussioni, né contrasti. – Pensi che in entrambi i casi si possa dire che le due persone hanno un bel rapporto di amicizia? – Secondo te il fatto che la prima coppia abbia vissuto momenti spiacevoli rende questo rapporto meno bello dell’altro? – Se ritieni di sì, come giustificheresti questa opinione?

3

Immagina due persone, A e B, che hanno molte qualità in comune: sono entrambe generose, gentili e disponibili nei confronti di chi si rivolge a loro quando si trova in difficoltà. Ma A ha un viso dai lineamenti regolari e un corpo snello; B ha lineamenti molto irregolari, è strabica e decisamente sottopeso.

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– Pensi che si possa dire sia di A, sia di B che è una bella persona? – Ritieni che ci sia una contraddizione nell’affermare che B è una bella persona, ma non è una persona bella? – Supponiamo che B si sottoponga a un intervento che corregge il suo strabismo e segua una dieta grazie alla quale recupera il peso forma. Pensi che l’irregolarità dei lineamenti del suo viso giustifichi l’affermazione che B è più brutta di A? 4

Immagina che ci siano due società, A e B. Nella società A vengono giudicate belle le opere pittoriche che rappresentano immagini armoniose, che sono dipinte con colori luminosi e infondono in chi le contempla un senso di pace e di serenità; nella società B vengono invece giudicati belli i dipinti le cui immagini sono del tutto prive di armonia, hanno colori scuri e suscitano emozioni quali la paura, l’angoscia e la disperazione. – Saresti d’accordo con chi dicesse che un quadro giudicato bello nella società A è più bello di un quadro che viene giudicato bello nella società B? – Secondo te il fatto che contemplare un quadro giudicato bello dai membri della società B susciti emozioni spiacevoli o perfino dolorose può essere considerato una caratteristica che lo rende un bel quadro? – Ritieni che sia possibile una discussione sul valore estetico di un quadro tra una persona che appartiene alla società A e una persona che appartiene alla società B?

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Unità 3 Il positivismo

1. La filosofia del positivismo 2. Comte 1. 2. 3. 4.

La legge dei tre stadi La filosofia positiva e l’ordine delle scienze La sociologia La religione positiva

4. L’evoluzionismo: Darwin e Spencer 1. Darwin e l’evoluzione delle specie animali 2. Spencer e il sistema di filosofia sintetica 3. Spencer e i principi delle scienze

5. Altri esponenti del positivismo

3. Mill 1. La logica 2. Le scienze morali e la politica 3. L’etica

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La filosofia del positivismo

1 I testi

C.-H. de Saint-Simon Memoria sulla scienza dell’uomo: Saint-Simon: verso una filosofia «positiva», T1.

Il positivismo e l’Ottocento

La filosofia della società industriale

Positivismo e progresso scientifico

La scienza come paradigma conoscitivo: prima tesi

Scienze naturali e studio della società: seconda tesi

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L’età del positivismo occupa gran parte del XIX secolo. È un’età particolare per l’Europa, caratterizzata, dopo gli anni delle guerre napoleoniche, da un periodo di maggiore calma e relativa pace e dall’inizio dell’espansione coloniale da parte delle maggiori potenze. In questi decenni si assiste al definitivo affermarsi di quella classe che era stata protagonista della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica, la borghesia, e quindi al consolidarsi su scala europea delle istituzioni politiche ad essa legate: la democrazia rappresentativa e il parlamento, che nel corso del secolo sostituiscono in molti Paesi le istituzioni tradizionali dell’ancien régime. L’affermarsi della società borghese va di pari passo alla notevole espansione in tutta Europa dell’industria moderna, basata sul lavoro degli operai e sull’impiego nel processo produttivo delle macchine, e quindi interessata sempre più alle applicazioni tecniche del sapere scientifico. Di pari passo all’avanzata dell’industria cambiano molti altri aspetti della società: vengono intensificati i trasporti e migliorati i mezzi di comunicazione, aumentano le grandi concentrazioni urbane, si forma una classe che fa da contrappeso alla borghesia: il proletariato, impiegato nel processo di produzione industriale. Il positivismo è la cultura e la filosofia della società borghese e industriale, ed è anche funzionale all’affermazione e al consolidamento di questo contesto sociale. Ma certo la filosofia del positivismo non è solo questo, e non può essere ridotta a ideologia di una classe in ascesa. Come ogni filosofia, anche il positivismo deve essere valutato in relazione ai contenuti filosofici, senza cercare una corrispondenza meccanica con il contesto storico-sociale che li ha generati. Il movimento positivistico risente in particolare dei grandi progressi che l’indagine scientifica e le sue applicazioni tecniche attuano, dalla matematica alla fisica, dalla chimica alla medicina, dall’analisi della società all’analisi della mente. I contenuti filosofici del positivismo possono essere raccolti intorno ad alcune tesi principali non solo condivise dai protagonisti del movimento, ma via via largamente diffuse nell’opinione pubblica. La principale è quella che individua la scienza come modello di conoscenza a cui la filosofia deve approssimarsi. Ciò significa fare dell’esperienza e della ragione i punti di riferimento della filosofia, per cercare di eliminare da essa le questioni ritenute non risolvibili attraverso il ricorso all’esperienza, come per esempio quelle della metafisica e della teologia tradizionali, o come le concezioni idealistiche della realtà, sebbene molte posizioni metafisiche sopravvivano negli stessi protagonisti della filosofia del positivismo. Una seconda tesi può essere individuata nell’assunzione di un modello privilegiato della conoscenza scientifica, quello delle scienze naturali. Si tratta di un modello che consiste nel privilegiare l’osservazione e l’esperienza («empirismo») e nel ricercare leggi di carattere generale che consentano di spiegare e prevedere i

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Unità 3 Il positivismo

Fiducia nell’utilità sociale della scienza: terza tesi

Positivismo e illuminismo

fenomeni osservati. Secondo il positivismo questo metodo deve estendersi e deve essere applicato anche allo studio dei fenomeni umani e sociali: non c’è, quindi, alcuna differenza di impostazione fra scienze della natura e scienze dell’uomo. Una terza tesi consiste nella fiducia che la scienza rappresenti lo strumento per la soluzione dei problemi della società e dell’uomo. E poiché la scienza è in continua espansione, questo porta con sé la fiducia che anche quei problemi siano in via di soluzione, e che il progresso sociale e scientifico condurrà a una società migliore e più giusta: il positivismo è accompagnato, insomma, da ottimismo e fiducia nell’avvenire. L’ottimismo della borghesia in ascesa induce a pensare che l’umanità sia sulla strada di continui miglioramenti nelle condizioni di vita materiale e intellettuale, prevalentemente grazie ai progressi della conoscenza scientifica. Queste tesi definiscono un nucleo filosofico innovativo, ma mostrano anche come il positivismo, pur condividendo aspetti del pensiero romantico (su tutti l’attenzione per la storia e le sue leggi), sia in continuità con il movimento illuministico settecentesco, di cui può e vuole essere l’erede nel nuovo secolo. Questa relazione tra illuminismo settecentesco e positivismo è stata sottolineata da Ludovico Geymonat, filosofo e storico della scienza italiano (1908-1991) di impostazione neopositivista: Fra i temi fondamentali, che il positivismo ottocentesco sembra aver mutuato dal pensiero illuministico, ci limiteremo a ricordarne quattro: 1) la tendenza a considerare i fatti empirici come base ultima di ogni autentica conoscenza (proprio a questa tendenza dovrà ricollegarsi il canone metodologico […], secondo cui le scienze debbono limitarsi a stabilire le leggi dei fenomeni, evitando la ricerca «metafisica» delle cause); 2) la fede nella razionalità scientifica, cui sola spetterebbe di risolvere tutti i nostri problemi; 3) la convinzione che il vero sapere deve risultare utile all’umanità, ossia in grado di suggerire sempre nuove tecniche per il concreto miglioramento delle nostre effettive condizioni di vita; 4) la concezione laica della cultura, intesa come costruzione puramente umana, che non può e non deve sottostare, oggi, ad alcun condizionamento esplicito o implicito di carattere teologico (onde la scienza stessa costituirà secondo alcuni positivisti la nuova religione dell’umanità).

Il significato del termine «positivismo»

Le tre tesi fondamentali del positivismo

Ma cosa significa «positivismo»? Il termine è l’abbreviazione di «filosofia positiva», e positivo è utilizzato in riferimento a ciò che è reale e concreto, cioè «fondato su fatti osservati e discussi», in opposizione quindi a ciò che è immaginario e astratto, cioè meramente ‘congetturale’.

1) La scienza è il modello conoscitivo cui la filosofia si deve adeguare

La filosofia deve basarsi unicamente sulla ragione e sull’esperienza (rifiuto delle teorie metafisiche antiche e moderne)

2) La formulazione di leggi generali concerne tanto il mondo naturale quanto quello sociale

Il metodo di studio della società deve essere lo stesso di quello della natura (non vi è una distinzione di principio tra scienze della natura e scienze dell’uomo)

3) La ricerca scientifica è lo strumento fondamentale per il miglioramento delle condizioni di vita

Sostanziale ottimismo nei confronti del progresso scientifico e tecnologico. Vengono privilegiati i saperi tecnici e applicativi rispetto a quelli astratti e speculativi

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Positivismo designa quindi una filosofia che si basa sui fatti e sull’esperienza, su ciò che si ritiene essere reale e non immaginario. Il termine, con la sua opposizione a ciò che è congetturale, è coniato da Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), ma entra nell’uso comune dopo la ripresa fattane da Auguste Comte, il principale esponente del positivismo francese. E proprio la Francia può essere considerata la patria del movimento, così come era stata un centro fondamentale dell’Illuminismo; dalla Francia il movimento si diffonde subito in Inghilterra e, con un po’ di ritardo, giunge in Germania e in Italia. È dubbio se Saint-Simon possa essere considerato il fondatore del positivismo francese, oppure solo un precursore di alcuni aspetti che saranno poi sviluppati dal suo vero fondatore, Auguste Comte. Con gli scritti La riorganizzazione della società europea (1814), Il sistema industriale (1821-1822) e Il catechismo degli industriali (1823-1824) (gli ultimi due redatti proprio in collaborazione con Comte), Saint-Simon introduce alcuni dei temi su cui si concentrerà anche Comte: la storia è concepita come governata da una legge di successione fra epoche «organiche», o di ordine, ed epoche «critiche», o rivoluzionarie; ed è teorizzata la necessità di una riorganizzazione della società basata sull’industria e sulla scienza. Il cammino Inoltre, nell’Introduzione al lavoro scientifico del XIX secolo (1808) e in Memoria delle scienze verso sulla scienza dell’uomo (1813) vengono delineati i contenuti di una «filosofia polo stadio «positivo» sitiva», poi ripresi da Comte: secondo Saint-Simon, a partire dal Rinascimento alcune scienze – l’astronomia, la fisica, la chimica – hanno abbandonato il loro carattere «congetturale» e raggiunto uno stato «positivo», sono cioè divenute vere e proprie scienze, confermate dall’esperienza; mentre altre – come la fisiologia e la psicologia – sono in procinto di raggiungerlo. Quando tutte le scienze saranno a questo stadio, sarà possibile che anche la filosofia divenga «positiva», cioè fondata non su astratte congetture ma su fatti osservati e discussi. La filosofia è considerata una scienza, ma è, per Saint-Simon, la scienza più generale, e in quanto tale risente dello stato di tutte le altre scienze. Saint-Simon e le origini del positivismo

T1

Saint-Simon: verso una filosofia «positiva»

C.-H. de Saint-Simon, Memoria sulla scienza dell’uomo

➥ Sommario, p. 124

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Richiamando le nozioni generali […] sul cammino seguito dallo spirito umano fino dall’inizio del suo sviluppo, e riflettendo in maniera particolare sul cammino che esso sta seguendo dopo il secolo XV, risulta chiaro quanto segue: 1) La sua tendenza, a partire da quell’epoca, è di fondare tutti i suoi ragionamenti su fatti osservati e discussi; esso ha già riorganizzato su questa base positiva l’astronomia, la fisica, la chimica, e queste scienze fanno oggi parte dell’istruzione pubblica, formandone la base. Da ciò si deve necessariamente concludere che la fisiologia, di cui la scienza dell’uomo fa parte, sarà trattata con il metodo adottato per le altre scienze fisiche, e sarà introdotta nell’istruzione pubblica quando sarà resa positiva. 2) Le scienze particolari costituiscono gli elementi della scienza generale; e la scienza generale – vale a dire la filosofia – ha dovuto essere congetturale così come lo sono state le scienze particolari, ha dovuto essere semi-congetturale quando una parte delle scienze particolari è diventata positiva mentre l’altra era ancora congetturale, sarà completamente positiva quando lo saranno tutte le scienze particolari. Ciò avverrà all’epoca in cui la fisiologia e la psicologia saranno fondate su fatti osservati e discussi; infatti non esiste fenomeno che non sia astronomico, chimico, fisiologico o psicologico. Si ha quindi coscienza di un’epoca in cui la filosofia insegnata nelle scuole sarà positiva.

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Comte

2 I testi

A. Comte Corso di filosofia positiva: I tre stadi, T2; La formulazione di leggi generali, T6; Conoscenza delle leggi e azione sulla realtà, T7; Il sistema delle scienze fondamentali, T8; La fisica sociale e le sue applicazioni, T9; La «statica sociale» come teoria positiva dell’ordine, T10; La «dinamica sociale» e il

Il progetto riformatore di Comte

Auguste Comte può essere considerato l’iniziatore del movimento positivistico, colui che per primo contribuisce a fornirne le linee guida e a diffonderne il nome. In linea con Saint-Simon, la delineazione dei contenuti della filosofia positiva e l’articolazione del sistema delle scienze è concepita da Comte come lo strumento per una riforma intellettuale e morale della società. Ma questo intento viene unito all’interesse verso i fondamenti del sapere scientifico e la ricerca delle leggi della società, tanto che Comte è considerato uno dei fondatori della sociologia moderna. Per poter trasformare la società, occorre infatti conoscerla a fondo.

La vita e le opere Auguste Comte nacque a Montpellier nel 1798 e visse in un periodo in cui le condizioni sociali e politiche della Francia erano assai instabili. Frequentò la Scuola politecnica di Parigi, dove dall’agosto 1817 si legò a SaintSimon, del quale diventò segretario particolare e collaboratore. Nel 1822 pubblicò il Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, di ispirazione saintsimoniana, ma due anni dopo ruppe con Saint-Simon. Dopo una grave crisi nervosa, nel 1826, e un tentativo di suicidio, Comte iniziò a lavorare alla sua opera maggiore, il Corso di filosofia positiva (1830-1842), e ottenne un incarico di «ripetitore» (cioè di assistente) e poi di esaminatore presso la Scuola politecnica; non riuscendo mai, però, a ottenere una cattedra di insegnamento, le lezioni del corso di filosofia positiva furono tenute privatamente nel suo appartamento. Dopo la pubblicazione nel 1842 dell’ultimo volume del corso, la novità delle idee

1 I tre stadi dello spirito umano

progresso, T11; L’epoca positiva e industriale, T12 Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società: Lo stadio teologico o fittizio, T3; Lo stadio metafisico o astratto, T4; Lo stadio positivo o scientifico, T5 Sistema di politica positiva: Dalla filosofia positiva alla religione positiva, T13; Il nuovo culto positivista, T14

sostenute da Comte e la sua critica della metafisica tradizionale, infatti, fecero sì che perdesse il posto di insegnamento presso la Scuola. Da questo momento egli visse di sussidi da parte di amici e ammiratori. Nel 1845 la relazione platonica con Clotilde de Vaux e la morte di lei comportarono una seconda crisi nervosa e forti difficoltà finanziarie; ebbe inizio la seconda fase del suo pensiero, che trovò una formulazione sistematica nel Sistema di politica positiva o trattato di sociologia che istituisce la religione dell’umanità (1851-1854), seguito dal Catechismo positivista (1852) e dal Calendario positivista (postumo, 1860). Nel 1848 Comte fondò la Société positiviste, ma l’accento mistico e umanitario che caratterizzò questa seconda fase del suo pensiero determinò una spaccatura all’interno della sua cerchia di discepoli, anche se il movimento positivista si andava ormai diffondendo in maniera massiccia in diversi Paesi europei (tra cui l’Inghilterra) e in America. Morì a Parigi nel 1857.

La legge dei tre stadi Nello scritto di ispirazione saint-simoniana, Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, e poi nella sua opera principale, il Corso di filosofia positiva, in sei volumi, e ancora nel Discorso sullo spirito positivo, Comte individua una legge che scandisce e guida il processo di sviluppo della cultura e della civiltà umane. Questa legge è la cosiddetta legge dei tre stadi (o «stati», états) 91

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dello spirito umano, secondo la quale la civiltà nel suo complesso e ogni singolo sapere si evolvono attraverso tre stadi: lo «stadio teologico», lo «stadio metafisico» e lo «stadio positivo». La legge dei tre stadi è considerata da Comte come una vera e propria legge scientifica, a cui si giunge attraverso l’osservazione dei fenomeni umani, e che, come ogni altra legge scientifica, mette in condizione di spiegare e prevedere questi stessi fenomeni. Tuttavia, è opportuno osservare che, con la formulazione di questa legge, considerata necessaria per ogni aspetto della storia e della cultura umana, Comte va oltre la semplice proposta di una teoria scientifica: essa delinea piuttosto i contenuti di una vera e propria filosofia della storia, dotata di una certezza apodittica e di una completezza sistematica che hanno poco a che vedere con il modo di procedere della scienza. Un aspetto che è presente anche in altri protagonisti del positivismo, come vedremo in Spencer. Afferma Comte a proposito della legge in questione:

T2

I tre stadi

A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1

Lo stadio teologico e la sua articolazione interna

T3

Lo stadio teologico o fittizio

A. Comte, Piano dei lavori scientifici Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1

Lo stadio metafisico

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Studiando lo sviluppo totale dell’intelligenza umana nelle sue diverse sfere di attività […] credo di aver scoperto una grande legge fondamentale a cui esso è sottoposto con invariabile necessità […]. Questa legge consiste nel fatto che ognuna delle nostre concezioni principali, ogni settore delle nostre conoscenze, passa successivamente attraverso tre stati teorici differenti: lo stato teologico o fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico o positivo. Lo «stadio teologico», o fittizio, rappresenta la prima fase dello sviluppo della conoscenza, sia individuale sia collettiva. A questo stadio gli uomini cercano di conoscere la natura ultima delle cose e le loro cause finali: essi si rappresentano perciò gli eventi del mondo come prodotti dall’intervento di entità soprannaturali (frutto della fantasia umana), e ritengono che l’azione di queste entità soprannaturali spieghi l’accadere dei fenomeni e ogni evento della natura. Lo stadio teologico è a sua volta distinto in tre fasi, a seconda dell’entità soprannaturale immaginata: nella prima si divinizzano i fenomeni naturali, è la fase delle religioni animistiche; nella seconda le entità soprannaturali assumono la forma degli dèi delle religioni politeistiche; nella terza, del Dio delle religioni monoteistiche. Nel primo stadio alcune idee soprannaturali servono a collegare il piccolo numero di osservazioni isolate di cui la scienza si compone allora. In altri termini, i fatti osservati vengono spiegati, ossia considerati a priori, in base a fatti inventati. Questo stadio è necessariamente proprio di ogni scienza al suo inizio. Per quanto imperfetto, è il solo modo di collegamento possibile in tale epoca. Nello stadio teologico lo spirito umano, dirigendo essenzialmente le sue ricerche verso la natura intima degli esseri, verso le cause prime e finali di tutti gli effetti che lo colpiscono, ossia verso le conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti soprannaturali più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega tutte le apparenti anomalie dell’universo. Lo «stadio metafisico», o astratto, rappresenta la seconda fase dello sviluppo dello spirito umano, collegamento fra il primo e il terzo; in esso le spiegazioni degli eventi del mondo vengono cercate non in entità soprannaturali ma in entità e forze astratte, essenze profonde inerenti ai vari enti, le quali darebbero conto della loro natura e del loro comportamento.

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T4

Lo stadio metafisico o astratto

A. Comte, Piano dei lavori scientifici Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1

Lo stadio positivo e le leggi generali

T5

Lo stadio positivo o scientifico

A. Comte, Piano dei lavori scientifici Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1

La legge dei tre stadi

Il secondo stadio è unicamente destinato a servire quale mezzo di transizione dal primo al terzo. Il suo carattere è bastardo; esso collega i fatti in base a idee che non sono più soprannaturali e che non sono ancora interamente naturali. In una parola queste idee sono astrazioni personificate nelle quali lo spirito può scorgere, a sua volontà, o il nome mistico di una causa soprannaturale o l’enunciato astratto di una semplice serie di fenomeni, secondo che sia più vicino allo stato teologico o allo stato scientifico. Nello stadio metafisico – che in fondo è soltanto una semplice modificazione generale del primo – gli agenti soprannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere e proprie entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo, e concepite come capaci di generare da sé tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione consiste allora nell’indicare per ognuno l’entità corrispondente. Nello «stadio positivo», o scientifico, invece, gli uomini abbandonano il ricorso a entità soprannaturali e metafisiche e cercano la spiegazione degli eventi in «leggi generali», cioè nelle relazioni costanti che reggono il comportamento dei fenomeni osservati. A esse si giunge non attraverso l’immaginazione e la fantasia ma attraverso il ragionamento, che fa ricorso a ipotesi, le quali, a loro volta, devono essere verificate dall’osservazione empirica. A questo stadio si raggiunge infine la conoscenza scientifica della realtà e si afferma una vera e propria «filosofia positiva», che si attiene ai fatti e non ricorre a ipotesi teologiche o metafisiche. Il terzo stadio è il modo definitivo di qualsiasi scienza, in quanto i primi due erano destinati soltanto a prepararlo gradualmente. Allora i fatti vengono collegati in base a idee o leggi generali di carattere completamente positivo, suggerite o confermate dai fatti stessi, e che sovente sono semplici fatti abbastanza generali per diventare principi. Si cerca di ridurli sempre al minor numero possibile, ma senza formulare alcuna ipotesi che non sia tale da essere un giorno verificata mediante l’osservazione, e considerandoli in ogni caso come un mezzo di espressione generale dei fenomeni. Nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere delle nozioni assolute, rinuncia a cercare l’origine e la destinazione dell’universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni per impegnarsi unicamente a scoprire, mediante l’impiego ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, vale a dire le loro relazioni invariabili di successione e somiglianza. La spiegazione dei fatti, ridotta allora ai suoi termini reali, non è ormai più se non il collegamento stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali di cui i progressi della scienza tendono sempre più a diminuire il numero. 1. Stadio teologico (o «fittizio») – Tentativo di conoscere la natura e la finalità delle cose – Ricorso a entità sovrannaturali (divine) per la spiegazione dei fenomeni 2. Stadio metafisico (o «astratto») – Tentativo di conoscere la natura e la finalità delle cose – Ricorso a forze astratte ed essenze non verificabili empiricamente

3. Stadio positivo (o «scientifico») – Riferimento a fatti empiricamente osservabili – Formulazione di leggi generali che spieghino le relazioni tra i fenomeni – Rinuncia a cogliere l’«essenza ultima» della realtà

Secondo Comte, a ogni stadio dell’evoluzione della conoscenza collettiva corrisponde uno stadio della conoscenza individuale (evoluzione psichica).

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Gli stadi dello sviluppo individuale

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La legge dei tre stadi non è concepita da Comte solo come la legge di sviluppo della civiltà umana nel suo complesso: è anche la legge dello sviluppo psichico e culturale dell’individuo, che passa nel corso della sua vita dallo stadio teologico dell’infanzia allo stadio positivo della maturità: «chi di noi non ricorda, contemplando la sua propria storia – chiede Comte – che è stato successivamente, rispetto alle nozioni più importanti, “teologo” nella sua infanzia, “metafisico” nella sua giovinezza e “fisico” nella sua virilità?».

La filosofia positiva e l’ordine delle scienze

Dalla filosofia metafisica alla filosofia positiva. Il metodo esplicativo

È dunque solo nello stadio positivo e scientifico che si giunge a una filosofia basata non su astratte congetture di carattere teologico e metafisico, ma sull’osservazione e sui fatti. Si tratta di quella che Comte chiama «filosofia positiva», dove l’aggettivo «positivo» sta a indicare qualcosa di concreto e reale anziché di astratto e chimerico. L’origine storica della filosofia positiva viene individuata nell’opera di Galileo, di Bacone e di Cartesio, i quali hanno dato inizio al movimento che ha condotto allo stadio scientifico di sviluppo della civiltà; se la filosofia metafisica andava alla ricerca delle cause ultime della realtà, la filosofia positiva cerca invece le relazioni costanti di successione e somiglianza tra i fenomeni, le leggi generali che ne spiegano il comportamento, semplificando e mettendo ordine fra di essi. Allo scopo di ottenere la spiegazione più semplice dei fenomeni osservati, inoltre, la filosofia positiva non moltiplica queste leggi ma le riduce al minor numero possibile, cercando pochi principi comuni a tutti i fenomeni osservati. Il modello di spiegazione è la legge newtoniana della gravità che pone in relazione e spiega il comportamento di tutti i fenomeni fisici dell’universo.

T6

Il carattere fondamentale della filosofia positiva è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili: la loro scoperta e la loro riduzione al minor numero possibile costituiscono il fine di tutti i nostri sforzi, in quanto la ricerca di ciò che chiamiamo cause – siano esse cause prime o cause finali – deve essere considerata assolutamente inaccessibile e priva di senso per noi […]. Ciascuno sa, in effetti, che nelle nostre spiegazioni positive, anche le più perfette, non abbiamo affatto la pretesa di esporre le cause generatrici dei fenomeni, poiché allora non si farebbe altro che spostare la difficoltà, ma abbiamo soltanto la pretesa di analizzare con esattezza le circostanze della loro produzione e di collegarli tra di loro mediante relazioni normali di successione e di somiglianza.

La formulazione di leggi generali A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1

L’utilità pratica delle leggi

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La conoscenza delle leggi di un fenomeno non è però considerata fine a se stessa: essa interessa a Comte perché scopo dell’uomo è agire nel mondo per trasformarlo, conformemente a quanto aveva ripetuto Bacone. Conoscere le leggi di un fenomeno consente di prevedere il suo comportamento e quindi di padroneggiarlo e modificarlo; così come consente di progettare e costruire degli strumenti che moltiplicano il potere dell’uomo, originariamente troppo debole e sproporzionato rispetto ai bisogni: dalla scienza deriva la previsione, dalla previsione l’azione.

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T7

Conoscenza delle leggi e azione sulla realtà

A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 2

Quando si considera l’insieme completo dei lavori di ogni genere compiuti dalla specie umana, si deve concepire lo studio della natura come destinato a fornire la vera base razionale dell’azione dell’uomo sulla natura, poiché soltanto la conoscenza delle leggi dei fenomeni – il cui risultato costante è di farceli prevedere – può evidentemente condurci nella vita attiva a modificarli a nostro vantaggio. I nostri mezzi naturali e diretti per agire sui corpi che ci circondano sono estremamente deboli, e del tutto sproporzionati ai nostri bisogni. Ogni volta che perveniamo a esercitare una grande azione, ciò avviene soltanto perché la conoscenza delle leggi naturali ci permette di introdurre, tra le circostanze determinate sotto la cui influenza si compiono i diversi fenomeni, qualche elemento modificatore che, per quanto debole di per sé, basta in certi casi per volgere a nostro vantaggio i risultati definitivi dell’insieme delle cause esterne. In breve, dalla scienza deriva la previsione, dalla previsione deriva l’azione: questa è la formula semplicissima che esprime in maniera esatta la relazione generale tra scienza e arte, assumendo i due termini nella loro accezione totale.

Comunque non solo la filosofia è approdata a uno stadio positivo; anche le varie scienze lo hanno raggiunto, cioè sono divenute scienze vere e proprie, nel corso del tempo e dopo una lunga evoluzione. Questo stadio non è stato però raggiunto da tutte nel medesimo tempo: c’è, per Comte, un ordine nel passaggio allo stadio positivo, che dipende dal grado di facilità nello studio dei vari tipi di fenomeni, che a sua volta dipende dal grado di semplicità e generalità dei fenomeni stessi. In questo modo, l’ordine nel quale le singole discipline sono diventate scienze vere e proprie nello sviluppo storico dell’umanità è anche il sistema in cui le scienze possono essere ripartite: dalle scienze più semplici e indipendenti a quelle più complesse e dipendenti; se i fenomeni più semplici, infatti, non dipendono dai più complessi, quelli più complessi dipendono da quelli più semplici, così che lo studio e la conoscenza delle leggi dei fenomeni più semplici è fondamentale per lo studio e la conoscenza delle leggi di quelli più complessi. La classificazione L’ordine generale delle scienze è: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. delle scienze Per prima ha conseguito lo stadio positivo l’astronomia (o fisica celeste), dato che i fenomeni astronomici sono considerati i più semplici e generali (consistendo nel movimento matematico degli astri); poi la fisica terrestre, che si occupa del movimento meccanico dei corpi; poi ancora la chimica, che invece studia gli elementi fondamentali e la loro interazione. Tutte e tre trattano della materia inorganica. Sono poi venute le scienze che si occupano della materia organica: la biologia (o fisica organica), che si occupa degli organismi viventi, e infine la sociologia (o fisica sociale), che si occupa degli organismi sociali. Richiamandosi al precedente illuministico, Comte elabora così un’enciclopedia delle scienze, una classificazione sistematica che fornisce il prospetto di tutte le possibili forme di conoscenza.

Ordine di sviluppo delle varie discipline

T8

Il sistema delle scienze fondamentali

A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, lezione 2

La filosofia positiva si trova dunque suddivisa naturalmente in cinque scienze fondamentali, la cui successione è determinata da una subordinazione necessaria e invariabile, fondata – prescindendo da qualsiasi opinione di carattere ipotetico – sulla semplice comparazione approfondita dei fenomeni corrispondenti: l’astronomia, la fisica, la chimica, la fisiologia e infine la fisica sociale. La prima considera i fenomeni più generali, più semplici, più astratti e più lontani dall’umanità; essi influenzano tutti gli altri senza esserne influenzati. I fenomeni considerati dall’ultima sono, al contrario, i più particolari, i più complicati, i più concreti e i 95

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più direttamente forniti di interesse per l’uomo; dipendono più o meno da tutti i fenomeni precedenti senza esercitare alcuna influenza su di essi. Tra questi due estremi il grado di specializzazione, di complicazione e di personalità dei fenomeni va gradualmente aumentando, al pari della loro dipendenza successiva. Lo statuto epistemologico di matematica, psicologia, filosofia

Come si può osservare, nel sistema delle scienze di Comte non rientrano né la matematica, né la psicologia, né la filosofia. Ciò per ragioni differenti: la matematica non è inserita perché è considerata il fondamento di tutte le scienze, le quali giungono al loro stadio positivo quando assumono carattere matematico; senza un modello matematico non si potrebbe dare alcuna scienza particolare. La psicologia, invece, non rientra fra le scienze perché non ha un valido metodo di conoscenza: essa si basa infatti sulla osservazione della propria psiche da parte del soggetto, ma Comte ritiene impossibile uno studio introspettivo dei fenomeni mentali: «l’individuo pensante non può dividersi in due, di cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare». Nella sua parte scientifica, la psicologia si riduce alla biologia, che studia il funzionamento del cervello, e alla sociologia, che studia il comportamento sociale. La filosofia, infine, non è una scienza, perché essa non ha un oggetto di studio particolare; essa svolge, infatti, una funzione di coordinamento fra le varie scienze e di studio e identificazione dei principi comuni, mettendone in evidenza le relazioni di carattere sistematico: il suo compito consiste nel «determinare esattamente lo spirito di ciascuna di esse, nello scoprire relazioni e connessioni, nel riassumere, se è possibile, tutti i loro principi propri in un minimo numero di principi comuni, in conformità col metodo positivo». In Comte, dunque, la filosofia si configura come una riflessione sulle scienze, secondo una concezione che sarà largamente ripresa nel Novecento (vedi Unità 16, p. 718).

Il sistema delle scienze Le scienze sono giunte allo stadio positivo in momenti diversi

3 Il cammino della sociologia verso lo stadio positivo

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Fattori che determinano l’ordine tra le scienze: – la successione cronologica in cui ognuna di esse ha raggiunto lo stadio «positivo» – una maggiore complessità dei fenomeni studiati e delle leggi che li descrivono – un rapporto di dipendenza dei fenomeni di livello più basso da quelli di livello più alto – una maggiore concretezza e specificità dei fenomeni in questione

Sviluppo positivo delle scienze: – Astronomia (fisica celeste) – Fisica terrestre – Chimica – Biologia (fisica organica) – Sociologia (fisica sociale)

La sociologia La sociologia è, come si è detto, l’ultima tappa dello sviluppo delle scienze, ma essa non ha ancora conseguito il suo stadio positivo. Portare a termine questo compito è, per Comte, un obiettivo fondamentale, perché solo quando sarà raggiunta la conoscenza scientifica della società l’umanità sarà in grado di trasformarla in maniera razionale, attraverso un’azione politica consapevole. Questo ritardo dipende dal fatto che i fenomeni da essa studiati sono i più complessi (dipendendo essi dai fenomeni studiati da tutte le altre scienze), i più concreti e meno generali.

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Unità 3 Il positivismo La sociologia come «fisica sociale»

T9

La fisica sociale e le sue applicazioni A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48

Articolazione interna della sociologia: la «statica»

T10

La «statica sociale» come teoria positiva dell’ordine

A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48

Come si è detto, la sociologia viene concepita come «fisica sociale»: se compito della fisica è ricavare dall’osservazione dei fatti fisici le leggi naturali invariabili che ne spiegano il comportamento, compito della sociologia è ricavare dall’osservazione dei fatti sociali le corrispondenti leggi naturali invariabili, che possono consentire, nei limiti della loro complessità, la previsione dei fenomeni sociali, e quindi consentire alla politica un intervento efficace. Essa è dunque anche scienza politica. Il metodo con cui si opera nelle scienze naturali non è perciò diverso da quello con cui si opera nella scienza sociale: «Per fisica sociale intendo la scienza che ha come scopo suo proprio lo studio dei fenomeni sociali considerati nello spirito dei fenomeni astronomici, fisici, chimici e fisiologici, ossia considerati come sottoposti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta è il fine specifico delle sue ricerche». La fisica sociale considera dunque ciascun fenomeno dal duplice punto di vista elementare della sua armonia con i fenomeni coesistenti e del suo collegamento con lo stato anteriore e con lo stato posteriore dello sviluppo umano. Da entrambe queste prospettive essa si sforza di scoprire, per quanto è possibile, le vere relazioni generali che collegano tra di loro tutti i fatti sociali: ognuno di questi appare spiegato, nell’accezione veramente scientifica del termine, quando ha potuto essere convenientemente riportato sia all’insieme della situazione corrispondente sia all’insieme del movimento precedente, mettendo sempre accuratamente da parte qualsiasi vana e inaccessibile ricerca della natura intima e del modo essenziale di produzione dei fenomeni […]. Conducendo al pari di ogni altra scienza reale, e con la precisione che comporta l’eccessiva complicazione propria di questi fenomeni, all’esatta previsione sistematica degli avvenimenti che devono risultare sia da una situazione data, sia da un certo insieme di antecedenti, [la scienza politica] fornisce anche direttamente all’arte politica non soltanto l’indispensabile determinazione preliminare delle diverse tendenze spontanee che questa deve assecondare, ma anche l’indicazione dei mezzi principali che può applicare ad esse. La sociologia viene divisa da Comte in due parti: la «statica sociale» e la «dinamica sociale», così come in biologia si può distinguere l’anatomia dalla fisiologia. La statica sociale studia le condizioni di esistenza della società, è cioè una forma di anatomia sociale: indaga le relazioni permanenti fra le varie parti di un sistema sociale (per esempio fra il sottosistema politico e quello economico o culturale) e le leggi che ne garantiscono l’esistenza. Essa si basa sul concetto di «ordine», indagando le condizioni dell’ordine sociale e del consenso. Comte individua le condizioni di esistenza comuni a tutte le società e a tutte le epoche: la socievolezza dell’uomo, la famiglia e la divisione del lavoro. Occorre estendere convenientemente all’insieme dei fenomeni sociali una distinzione scientifica veramente fondamentale […] considerando separatamente, ma sempre in vista di un esatto coordinamento sistematico, lo stadio statico e lo stadio dinamico di qualsiasi oggetto di studio positivo. In sociologia questa scomposizione deve compiersi in maniera perfettamente analoga [alla biologia], e non meno netta, distinguendo radicalmente – a proposito di ogni oggetto della politica – lo studio fondamentale delle condizioni di esistenza della società e quello delle leggi del suo continuo movimento. Questa differenza sembra fin d’ora abbastanza pronunciata per consentirmi di pre97

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

vedere che, in seguito, il suo sviluppo spontaneo potrà condurre a dividere abitualmente la fisica sociale in due scienze principali – sotto il nome per esempio di statica sociale e di dinamica sociale – così essenzialmente distinte tra di loro come lo sono oggi l’anatomia e la fisiologia individuali […]. È evidente che lo studio statico dell’organismo sociale deve coincidere, in fondo, con la teoria positiva dell’ordine, il quale può essenzialmente consistere soltanto in una giusta armonia permanente tra le diverse condizioni di esistenza delle società umane. […] Così concepita, questa specie di anatomia sociale che costituisce la sociologia statica deve avere come scopo permanente lo studio positivo, tanto sperimentale quanto razionale, delle azioni e reazioni reciproche che tutte le diverse parti del sistema sociale esercitano continuamente le une sulle altre, facendo scientificamente astrazione in via provvisoria, per quanto è possibile, dal movimento fondamentale che le modifica sempre gradualmente. La «dinamica sociale»

La dinamica sociale studia, invece, le condizioni di sviluppo della società e le leggi che guidano l’evoluzione da un sistema sociale a un altro. Essa si basa sul concetto di «progresso», concetto che è strettamente connesso a quello di ordine, così come la dinamica sociale è strettamente connessa alla statica: nessun ordine sociale potrebbe reggere se non fosse compatibile col progresso, e nessun progresso potrebbe compiersi se non tendesse al consolidamento dell’ordine.

T11

Il vero spirito generale della sociologia dinamica consiste nel concepire ognuno degli stati sociali consecutivi come il risultato necessario del precedente e come il motore indispensabile di quello successivo, secondo il luminoso assioma del grande Leibniz: «il presente è gravido del futuro». La scienza ha allora, da questo punto di vista, lo scopo di scoprire le leggi costanti che regolano tale continuità, e il cui insieme determina il cammino fondamentale dello sviluppo umano. In una parola, la dinamica sociale studia le leggi di successione, mentre la statica sociale cerca quelle di coesistenza; cosicché l’applicazione generale della prima è propriamente rivolta a fornire alla politica pratica la vera teoria del progresso, mentre la seconda forma spontaneamente quella dell’ordine.

Stadi conoscitivi e organizzazioni sociali

La legge naturale e invariabile che guida il progresso sociale e a cui giunge la sociologia dinamica è la legge dei tre stadi. Comte associa ai vari stadi differenti organizzazioni storiche della società: allo stadio teologico ne corrisponde una di carattere militare, il cui scopo è la conquista; allo stadio metafisico una di carattere giuridico, il cui scopo è a mezzo fra quello dello stadio precedente e quello del successivo; allo stadio positivo una di carattere industriale, il cui scopo è la produzione e in cui il potere spirituale deve essere tenuto dagli scienziati. La storia dell’umanità ha assistito all’evoluzione da una formazione sociale all’altra. Così veniva caratterizzato, già nella prima opera di Comte, il Piano dei lavori scientifici, lo stadio positivo di sviluppo della società:

T12

La terza epoca è l’epoca scientifica e industriale. Tutte le idee teoriche particolari sono diventate positive, e le idee generali tendono a divenirlo. L’osservazione ha dominato l’immaginazione per quanto riguarda le prime e l’ha detronizzata per quanto riguarda le seconde, senza averne ancora preso oggi il posto. Sotto l’aspetto temporale, l’industria è diventata preponderante. Tutte le relazioni particolari si sono stabilite a poco a poco su basi industriali.

La «dinamica sociale» e il progresso

A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48

L’epoca positiva e industriale A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48

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Unità 3 Il positivismo

4 Il carattere ‘sacro’ della scienza

T13

Dalla filosofia positiva alla religione positiva A. Comte, Sistema di politica positiva, 2,7,3

Il nuovo culto positivista e il modello cattolico

T14

Il nuovo culto positivista A. Comte, Sistema di politica positiva, Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, 1

La religione positiva Nell’ultima fase del suo pensiero e nella principale opera di questo periodo, il Sistema di politica positiva, Comte è sempre più attento a individuare le condizioni per la realizzazione e la diffusione sociale della filosofia positiva, attenzione che si accompagna a una svolta politica di carattere conservatore. Ad avviso di Comte, perché la filosofia positiva possa giungere a una reale riorganizzazione della società è necessario che si tramuti in una vera e propria religione, la religione positiva, e che attribuisca alla scienza un carattere sacro. Solo in questo modo, infatti, potrà riuscire a parlare al sentimento e al cuore degli uomini e a influire davvero sulle loro motivazioni. Così facendo il positivismo potrà realizzare il proprio obiettivo, che è quello della «rivoluzione generale dello spirito umano», della riforma intellettuale e morale dell’umanità. Per compiere questa missione finale non era sufficiente ridurre il movimento umano a leggi positive, la cui efficacia risultasse pienamente constatata in base a una spiegazione totale del passato […]. Per quanto il positivismo, spinto dalla sua realtà caratteristica, avesse abbracciato abbastanza i fenomeni morali da riconoscere gradualmente, attraverso l’anarchia moderna, la fondamentale preponderanza del cuore sullo spirito, l’impulso affettivo restava insufficiente. In mancanza di uno stimolo diretto e continuo il sentimento non vi trovava consacrato il suo ascendente normale, dal quale dipendeva una sintesi completa, essa sola decisiva – anche intellettualmente – per elevarsi dalla filosofia alla religione. Per divenire religione, la filosofia positiva deve avere un nucleo dogmatico unitario, propri sacerdoti e un proprio culto, che sostituiranno i dogmi e i culti delle religioni tradizionali: al culto di Dio viene sostituito il culto dell’Umanità, o «Grande essere», cioè del genere umano nel suo complesso, l’insieme di tutti gli esseri umani passati, presenti e futuri; i dogmi sono costituiti dalle leggi della scienza; mentre le pratiche del nuovo culto dell’umanità, i riti, i sacramenti, il sacerdozio e perfino il calendario vengono minuziosamente descritti nel Catechismo positivista e nel Calendario positivista. Il modello a cui Comte si ispira è quello del cattolicesimo, per la sua universalità e per la sua efficacia: ci saranno dunque templi positivi, rappresentati dagli istituti scientifici, un sacerdozio positivo e anche un papa positivo che si occuperà dello sviluppo scientifico e industriale della società; ci saranno un battesimo, una cresima e una estrema unzione positivi; cambieranno i nomi dei mesi e dei giorni, in omaggio alle varie scienze e alle personalità di rilievo nella storia del progresso tecnico e scientifico. L’Umanità condensa direttamente i tre caratteri essenziali del positivismo, cioè il suo motore soggettivo, il suo dogma oggettivo e il suo fine attivo. A questo solo vero Grande essere, di cui siamo consapevolmente i componenti necessari, si riferiranno ormai tutti gli aspetti della nostra esistenza individuale o collettiva – le nostre contemplazioni per conoscerlo, i nostri affetti per amarlo, le nostre azioni per servirlo […]. Così il positivismo diventa finalmente una vera religione, la sola religione completa e reale, destinata a prevalere su tutte le sistemazioni imperfette e provvi99

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

sorie derivate dal teologismo iniziale […]. Quando la scienza fu abbastanza cresciuta per separarsi anche dalla filosofia, essa non tardò a manifestare la sua tendenza necessaria verso una nuova unità speculativa, non meno contraria a qualsiasi metafisica che a qualsiasi teologia. Questa costruzione finale […] ha potuto compiersi soltanto attraverso la recente fondazione della vera scienza sociale […]. Da allora i veri scienziati, elevandosi alla dignità filosofica, tendono necessariamente verso il carattere sacerdotale […]. Divenuti così sacerdoti dell’Umanità, i nuovi filosofi devono ottenere un ascendente intellettuale e morale più esteso e meglio radicato del sacerdozio antico […]. Interamente votata allo studio, diretto o indiretto, dell’Umanità, la scienza assumerà ormai un carattere veramente sacro, come fondamento sistematico del culto universale. Soltanto essa potrà farci conoscere non soltanto la natura e la condizione del Grande essere, ma anche i suoi destini e le sue tendenze successive.

➥ Sommario, p. 124

Sono questi gli aspetti più caduchi e controversi delle riflessione di Comte, sminuiti già dai suoi allievi. Il rifiuto della filosofia teologica e metafisica, la difesa delle scienze, la sociologia come nuova scienza sociale, la delineazione della filosofia positiva diverranno invece patrimonio del movimento positivistico (vedi Unità 16, p. 719) e, più in generale, della cultura filosofica europea fra Ottocento e Novecento.

Mill

3 I testi

J.S. Mill Sistema di logica deduttiva e induttiva: Natura e campo di applicazione della logica T15; Natura e funzione delle proposizioni generali, T16; L’assunzione di ogni inferenza induttiva, T17; Complessità della scienza sociale, T18; Il sentimento della libertà morale, T19

Attualità di Mill

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La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne: La sovranità dell’individuo su se stesso, T20; Le condizioni di una società libera, T21; Il pregiudizio della ‘natura femminile’, T22; I capisaldi dell’utilitarismo, T24; Il valore della qualità del piacere, T25 Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica: Scienza e arte, T23

Insieme ad Auguste Comte, con cui intrattiene un lungo rapporto epistolare, John Stuart Mill è fra i maggiori esponenti del positivismo europeo. Sostenitore di una concezione empiristica in epistemologia, liberale in politica e utilitarista in etica, John Stuart Mill è uno dei filosofi dell’Ottocento più presenti nel dibattito contemporaneo, ancora oggi punto di riferimento della riflessione epistemologica ed etico-politica.

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Unità 3 Il positivismo

La vita e le opere John Stuart Mill nacque a Londra nel 1806, figlio del filosofo ed economista inglese James Mill, dirigente della Compagnia delle Indie. Compì studi scientifici in Francia e giuridici in Inghilterra. Sulla sua formazione intellettuale esercitarono un peso notevole la figura del padre James e quella di Jeremy Bentham, maestro e amico del padre, nonché esponente di spicco dell’utilitarismo. All’età di sedici anni Mill entrò a far parte della Compagnia delle Indie, della quale divenne alto dirigente, fino a quando essa venne sciolta (1858). Parallelamente a tale incarico, egli svolse un’intensa attività scientifica e

1 Intuizione empirica e inferenza logica

T15

Natura e campo di applicazione della logica J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva

La proposizione come oggetto della logica

pubblicistica attraverso la quale dette una sistemazione organica e originale alla tradizione empirista e liberale inglese. Tale attività spaziava dalla logica (Sistema di logica deduttiva e induttiva, 1843), all’economia (Principi di economia politica, 1848), alla morale (L’utilitarismo, 1861), alla politica (La libertà, 1859; L’asservimento delle donne, 1869) e alla religione (Tre saggi sulla religione, postumo, 1874). Morì nel 1873 ad Avignone, dove si era trasferito dopo lo scioglimento della Compagnia delle Indie e dove aveva sempre soggiornato, tranne una breve parentesi in cui era stato deputato alla Camera dei Comuni inglese.

La logica Mill dedica alla logica e all’epistemologia la sua opera più importante, il Sistema di logica deduttiva e induttiva. Il Sistema di logica affronta il problema di come sia possibile ottenere una conoscenza vera attraverso l’inferenza di alcune proposizioni del linguaggio da altre proposizioni. Ci sono per Mill due generi di conoscenza: alcune verità sono conosciute direttamente attraverso un’intuizione empirica immediata; altre sono invece conosciute indirettamente mediante l’inferenza da altre verità. La logica tratta di questo secondo genere di conoscenza: suo oggetto di studio non è l’intuizione diretta della verità di una determinata proposizione, ma la dimostrazione di una proposizione attraverso altre proposizioni. La giurisdizione della logica deve essere ristretta a quella parte della nostra conoscenza che consiste di inferenze da verità già note in precedenza, siano questi dati antecedenti proposizioni generali, siano osservazioni e percezioni particolari. La logica non è la scienza della credenza, ma della dimostrazione o prova. Nella misura in cui la credenza professa di fondarsi sulla prova, l’ufficio della logica è quello di fornire un criterio per stabilire se la credenza sia o no ben fondata. Con le pretese che ogni proposizione accampa ad essere creduta in base alle prove fornite dalla coscienza, cioè senza prove nel senso autentico della parola, la logica non ha nulla a che fare. […] Anche se il campo della logica ha la stessa estensione del campo della conoscenza, la logica non è la stessa cosa della conoscenza. La logica è il giudice e l’arbitro comune di tutte le ricerche particolari. Non si preoccupa di trovare prove, ma di stabilire se siano state trovate. La logica non osserva né inventa e neanche scopre: la logica giudica. Non rientra negli affari della logica l’informare il chirurgo su quali siano i sintomi di una morte violenta. Il chirurgo deve impararlo dalla propria esperienza e dalla propria osservazione, o da quella di altri, che lo hanno preceduto nelle sue ricerche particolari. Ma la logica giudica se quelle osservazioni e quell’esperienza siano sufficienti a giustificare le regole, e se le prove siano sufficienti a giustificare la sua condotta. Non gli fornisce prove, ma gli insegna che cosa le renda tali, e come le debba giudicare. Il primo passo che Mill affronta è quello di chiarire che cosa sia una «proposizione» del linguaggio. Mill parte dal linguaggio in quanto esso è «uno strumento del 101

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Proposizioni «verbali» e proposizioni «reali»

Logica sillogistica e induzione

T16

Natura e funzione delle proposizioni generali J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva

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pensiero, così come è anche un mezzo di comunicazione dei pensieri»: tutto ciò che può essere oggetto di assenso e di dissenso, quando viene espresso nel linguaggio, assume la forma di una proposizione. Le proposizioni sono formate da almeno due termini: il soggetto e il predicato; ciò su cui si concentra la logica, però, non è il singolo termine, ma la proposizione, perché solo la proposizione può essere vera o falsa: «ogni verità e ogni errore – scrive Mill – risiedono nelle proposizioni». Le proposizioni sono quindi enunciati del linguaggio che possono essere veri o falsi, e possono essere di due tipi: «proposizioni verbali», quelle in cui, come nei giudizi analitici di Kant, il predicato esprime un concetto già contenuto nel soggetto; e «proposizioni reali», quelle in cui, come nei giudizi sintetici di Kant, il predicato esprime un concetto che non è già contenuto nel soggetto. Con le proposizioni reali si ha un reale accrescimento della conoscenza, mentre con le proposizioni verbali non si aggiunge nulla a quanto già conosciuto del soggetto della proposizione. Nella logica tradizionale, il modello di inferenza corretta è la deduzione del sillogismo, con il quale partendo da due premesse, una generale e una particolare, si dimostra una conclusione particolare. La forma più nota di sillogismo è la seguente: «tutti gli uomini sono mortali; e il duca di Wellington è un uomo; dunque il duca di Wellington è mortale». L’inferenza del sillogismo è corretta; tuttavia, sostiene Mill, essa non aggiunge nulla a quanto già affermato nelle premesse. Il problema a cui la logica deduttiva non dà risposta è allora: come sappiamo che le premesse sono vere? La risposta di Mill è che lo sappiamo attraverso l’osservazione costante di casi particolari: è solo attraverso la ripetuta osservazione della morte di singoli uomini che possiamo inferire la proposizione generale «tutti gli uomini sono mortali», la quale ci consente di sintetizzare in una sola espressione un gran numero di osservazioni particolari. Le verità generali si basano dunque su ripetute osservazioni particolari da cui vengono tratte per inferenza induttiva. Mettiamo pure che la proposizione: «Il duca di Wellington è mortale» sia un’inferenza tratta immediatamente dalla proposizione «Tutti gli uomini sono mortali»; ma da dove deriviamo la conoscenza di questa verità generale? Naturalmente dall’osservazione. Ora, tutto quello che l’uomo può osservare sono i casi individuali. Da essi devono essere ricavate, e in essi possono essere di nuovo risolte, tutte le verità generali. Infatti, una verità generale non è altro che un aggregato di verità particolari, un’espressione comprensiva mediante la quale si afferma o si nega simultaneamente un numero indefinito di fatti individuali. Ma una proposizione generale non è semplicemente una forma compendiosa per registrare e conservare nella memoria un gran numero di fatti particolari, che sono stati tutti osservati. La generalizzazione non è un processo di denominazione pura e semplice: è anche un processo di inferenza. Dai casi che abbiamo osservato ci sentiamo autorizzati a concludere che quello che abbiamo trovato vero in quei casi vale per tutti i casi simili, passati presenti e futuri, per numerosi che siano. Allora, grazie a quel prezioso artificio del linguaggio, che ci mette in grado di parlare di molte cose come se fossero una sola, registriamo tutto quello che abbiamo osservato e tutto quello che inferiamo dalle nostre osservazioni, condensandolo in una sola espressione concisa; e così, invece di dover ricordare o comunicare un numero infinito di proposizioni, dobbiamo ricordare o comunicare una proposizione sola. In un solo, breve enunciato, si trovano condensati i risultati di molte osservazioni e di molte inferenze, e le istruzioni per compiere innumerevoli inferenze in casi imprevisti.

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Unità 3 Il positivismo Il primato dell’inferenza induttiva su quella deduttiva

Il problema della giustificazione dell’induzione

Il principio di uniformità della natura

T17

L’assunzione di ogni inferenza induttiva J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva

La giustificazione del principio di uniformità

La vera inferenza, dunque, non è la deduzione dal generale al particolare, perché la proposizione generale è in realtà solo un passaggio intermedio di un’inferenza che va dal particolare al particolare. L’inferenza vera è quindi una induzione dal particolare al particolare: si parte dall’osservazione ripetuta di casi particolari, si inferiscono da essa certe verità generali, e si deducono infine altre verità particolari: «ogni inferenza è da particolari a particolari». Secondo Mill, tutti i generi di conoscenza hanno questa base nell’induzione da casi particolari, e sono perciò di natura empirica. Le stesse proposizioni della geometria e della matematica sono generalizzazioni tratte dall’osservazione ripetuta: «le scienze deduttive o dimostrative – scrive – sono tutte, senza eccezione, scienze induttive e la loro evidenza è quella dell’esperienza». L’induzione è quindi «una generalizzazione dall’esperienza. Essa consiste nell’inferire da alcuni casi singoli in cui si osserva che un fenomeno si verifica, ch’esso si verifica in tutti i casi di una certa classe». Tuttavia, proprio per questa inferenza di una proposizione universale da singoli casi particolari, l’induzione si imbatte nel problema su cui aveva richiamato l’attenzione Hume, giudicandolo insolubile: l’esperienza ci mette, infatti, a disposizione solo un numero limitato di casi, per quanto esso possa essere alto, e non è mai in grado di giustificare il passaggio dai singoli casi osservati a tutti i casi osservabili. Chi ci garantisce, cioè, che dopo aver osservato che il sole è sorto oggi, ed è sorto ieri e l’altro ieri, esso sorgerà ancora domani? O che dopo aver osservato la morte di un uomo e di un altro e un altro ancora, siamo giustificati a dire che tutti gli uomini sono mortali? Mill risponde a questo problema attraverso il ricorso a un principio generale che guida la nostra esperienza e che lo mette in condizione di rifiutare la conclusione scettica di Hume: il principio di uniformità della natura. È perché il corso della natura è uniforme che l’osservazione di un numero limitato di casi è sufficiente a garantire la validità dell’inferenza da una verità particolare a una verità generale, che siamo cioè giustificati a credere che il sole sorgerà ancora domani o che tutti gli uomini sono mortali. In natura, ciò che accade in relazione a un determinato fenomeno in una determinata circostanza accadrà anche in relazione a un fenomeno a esso del tutto simile in una circostanza del tutto simile. Nella stessa dichiarazione di quello che l’induzione è, è implicito un principio, un’assunzione che riguarda il corso della natura e l’ordine dell’universo; vale a dire il principio che in natura esistono cose come casi paralleli; che quello che accade una volta accadrà una seconda volta in circostanze sufficientemente simili, e accadrà non solo una seconda volta, ma tutte le volte che ricorreranno le medesime circostanze. Questa, dico, è un’assunzione implicita in ogni caso d’induzione. E se consultiamo il corso effettivo della natura troviamo che l’assunzione è legittima. Per quanto ne sappiamo, l’universo è costituito in modo tale che tutto quello che è vero in un qualsiasi caso singolo sarà vero in tutti i casi di un certo tipo: la sola difficoltà è quella di trovare quale sia questo tipo. Il principio di uniformità della natura si traduce allora nella validità di una legge universale: la legge di causalità. Secondo Mill, è infatti possibile concepire un ordine e quindi un’uniformità della natura solo se consideriamo la natura retta da leggi universali di carattere causale: «è una legge che ogni evento dipenda da qualche legge». Tuttavia, come emerge anche dal passo sopra riportato, il principio di causalità 103

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e di uniformità è vero, per Mill, perché è esso stesso derivato dall’osservazione della natura: «la più ovvia delle uniformità particolari suggerisce e rende evidente l’uniformità generale, e l’uniformità generale, una volta stabilita, ci permette di dimostrare le altre uniformità particolari dalle quali risulta». L’uniformità della natura è quindi una generalizzazione ottenuta per induzione, la quale serve però a fondare la correttezza di tutte le altre induzioni. A molti commentatori questa è parsa una soluzione compromessa in un imbarazzante circolo vizioso. L’inferenza induttiva

1. Osservazioni particolari (in quantità finita): a) Carlo ha due gambe; b) Michele ha due gambe; c) Anna ha due gambe; [ ………… ] 2. Carlo, Michele, Anna, … sono esseri umani; --------------------------------------------------------------------------3. Ogni essere umano è bipede

Il ‘salto’ logico da 1 e 2 (che riguardano individui particolari) a 3 (che riguarda ogni essere umano) è detto «inferenza induttiva» e secondo Mill può essere giustificato sulla base del principio di «uniformità della natura»

(asserzione generale)

2 Lo studio scientifico del comportamento e della morale

T18

Complessità della scienza sociale J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva

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Le scienze morali e la politica Secondo Mill, le leggi universali causali non valgono solo per gli eventi naturali, ma anche per il comportamento e l’interazione umana, cioè per i fenomeni sociali e in senso lato «morali», dei quali possono darsi una conoscenza scientifica e una previsione certa. Il sesto libro del Sistema di logica è dedicato a quella che Mill chiama la «logica delle scienze morali», che studiano cioè il comportamento umano. Mill si riallaccia esplicitamente a Comte: il metodo delle scienze morali e in particolare della scienza della società, che Comte aveva chiamato sociologia, non è diverso da quello delle scienze naturali; in entrambi i casi si tratta di individuare leggi causali universali, con la differenza che nel caso delle scienze sociali ci saranno più fattori causali da considerare nella formulazione di queste leggi, e sarà quindi più difficile raggiungere la previsione certa dei fenomeni studiati. Per quanto complessi siano i fenomeni [sociali], tutte le loro sequenze e le loro coesistenze risultano dalle leggi degli elementi separati. L’effetto prodotto sui fenomeni sociali da un qualsiasi insieme complesso di circostanze equivale precisamente alla somma degli effetti delle circostanze prese singolarmente […]. Pertanto la scienza sociale (che con un conveniente barbarismo è stata chiamata «sociologia») è una scienza deduttiva; non però secondo il modello della geometria, ma secondo quello delle scienze fisiche più complesse. La scienza sociale inferisce la legge di ciascun effetto dalle leggi di causazione dalle quali quell’effetto dipende; ma non, puramente e semplicemente, dalla legge di una sola causa, come accade nel metodo geometrico, bensì prendendo in considerazione tutte le cause che influenzano congiuntamente l’effetto e componendo le loro leggi l’una con l’altra.

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Unità 3 Il positivismo

Leggi universali di carattere causale valgono anche per la mente dell’uomo. Ed è proprio perché vige un ordine causale anche per i fenomeni mentali, che è possibile, secondo Mill, la psicologia, cioè una scienza che ha per scopo la scoperta delle «leggi della mente» ed è quindi in grado di spiegare e prevedere il comportamento umano; un punto su cui Mill è in chiaro dissenso rispetto a Comte, che invece aveva escluso che la psicologia potesse essere considerata una scienza. Causalità La necessità causale in relazione ai fenomeni mentali non è però incompatibile e libero arbitrio con la libertà del volere. La necessità causale implica infatti solo l’uniformità e la prevedibilità del comportamento umano, ma non implica che la causa eserciti una ➥ Laboratorio sul lessico, «coercizione» sull’effetto e nemmeno quello che Mill chiama «fatalismo», cioè Libertà, p. 341 «che sia assolutamente inutile combattere contro quello che sta per accadere». La connessione causale dei fenomeni della mente, «pensieri, volizioni, emozioni e sensazioni», è compatibile con la libertà del volere, se intendiamo quest’ultima come la capacità del soggetto di modificare il proprio carattere e le circostanze che influiscono sulle sue scelte qualora lo voglia. L’individuo umano è libero qualora sia dotato di questa capacità, non è libero se invece ne è privo. La psicologia come scienza

T19

Il sentimento della libertà morale J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva

In realtà, se esaminiamo la questione da vicino, troveremo che questo sentimento – il sentimento, cioè, della nostra capacità di modificare il nostro carattere se lo vogliamo – è proprio il sentimento di libertà morale del quale siamo consapevoli. Si sente moralmente libera la persona che si rende conto che le sue abitudini e le sue tentazioni non sono i suoi padroni, ma che si rende conto di essere il loro padrone; che anche quando cede ad abitudini e a tentazioni sa che potrebbe resistere; che se desiderasse di sbarazzarsene completamente non sarebbe necessario, per questo, che provasse un desiderio più forte di quello che sa di essere in grado di provare.

Tra le scienze morali, oltre alla sociologia e alla psicologia, rientra l’economia, alla quale Mill dedica un trattato, I principi di economia politica, nel quale vengono riproposti gli esiti che questa disciplina aveva raggiunto a fine Settecento con l’opera dello scozzese Adam Smith (1723-1790) e con la discussione fattane agli inizi dell’Ottocento dagli inglesi Robert Malthus (1766-1834) e David Ricardo (1772-1823). Mill aggiunge qui una distinzione di grande interesse: vengono infatti presentate da una parte le leggi della produzione della ricchezza, le quali sono analoghe alle leggi della fisica, sono cioè necessarie e immodificabili; dall’altra le leggi della distribuzione della ricchezza, le quali non hanno questo carattere di necessità ma dipendono dalle scelte degli uomini. In questo modo Mill può difendere un modello di produzione fondato sul libero mercato e sulla libera concorrenza, incompatibile quindi con ogni intervento statale, e insieme correggere questo modello, che se lasciato a se stesso potrebbe portare a forti disuguaglianze e squilibri sociali, attraverso misure di distribuzione egualitaria del reddito e della proprietà fra le varie classi sociali. In quest’opera, dunque, l’attenzione verso la libertà individuale viene bilanciata dall’attenzione verso la giustizia sociale. La difesa della libertà L’attenzione per la libertà e, insieme, per la giustizia sociale viene poi ribadita individuale nelle opere di carattere più decisamente politico. La difesa della libertà indivi➥ Laboratorio sul lessico, duale è argomento del saggio La libertà, scritto nel 1859 in collaborazione con la Libertà, p. 341 moglie, Harriet Taylor (1807-1858); saggio che può essere considerato un vero e proprio manifesto del liberalismo. La riflessione economica e politica: libertà di mercato e giustizia sociale

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La tesi principale del saggio, e più in generale del liberalismo, è la necessità della difesa della libertà individuale di fronte all’ingerenza dello Stato e della società. A ogni individuo, secondo Mill, deve essere riconosciuto il diritto di impostare la propria vita come meglio preferisce (il diritto alla «libertà come sviluppo personale e autoperfezionamento»), senza che questo diritto venga minacciato. L’unica ragione che può giustificare l’interferenza da parte della società e dello Stato nella sfera individuale è quella di evitare che venga violata l’eguale libertà degli altri.

T20

Obiettivo di questo saggio è di stabilire un principio molto semplice per regolare con sicurezza i rapporti della società con l’individuo, basati sulla coercizione e il controllo, tanto se i sistemi usati sono la forza fisica sotto forma di sanzioni legali, quanto se la coercizione è quella morale della pubblica opinione. Questo principio è che l’unica ragione per la quale l’umanità è giustificata individualmente o collettivamente se interferisce nella libertà di azione di uno dei suoi membri, è la protezione di se stessa. Che l’unico fine per cui il potere può essere legittimamente esercitato su qualsiasi membro della comunità civile contro il suo volere è quello di prevenire del danno agli altri. Il suo bene personale [ossia dell’individuo], sia fisico che morale, non è giustificazione sufficiente. Egli non può legittimamente essere costretto a fare o ad astenersi dal fare una cosa, perché sarebbe meglio per lui, perché ciò lo renderebbe più felice, perché, nell’opinione altrui, comportarsi così sarebbe saggio o anche giusto. Queste sono buone ragioni per protestare con lui, o per discutere, o per persuaderlo, o per supplicarlo, ma non per costringerlo o per danneggiarlo nel caso ch’egli agisca altrimenti. Per giustificare ciò, è necessario che la condotta dalla quale lo si vuol dissuadere, sia considerata dannosa per altri. Gli unici aspetti della sua condotta per i quali egli si deve sottomettere alla società, sono quelli che riguardano gli altri. Per gli aspetti che riguardano soltanto se stesso, la sua indipendenza, è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sul suo corpo e sulla sua mente, l’individuo è sovrano.

Le libertà fondamentali

Per garantire questo diritto inviolabile di autonomia e di autorealizzazione individuale, lo Stato deve riconoscere ai propri cittadini alcune libertà civili fondamentali, che Mill riassume in tre tipologie generali: 1) la libertà di pensiero, di espressione e di coscienza; 2) la libertà di progettare la vita secondo i propri desideri; 3) la libertà di associazione. Nessuna società è libera se queste libertà fondamentali non sono rispettate.

T21

Questo è il campo proprio della libertà umana. Esso comprende in primo luogo il dominio interiore della coscienza che impone libertà di coscienza nel senso più lato; libertà di pensiero e di sentimento; assoluta libertà di opinione e di giudizio in tutti i campi pratici, speculativi, scientifici, morali o teologici. Può sembrare che la libertà di esprimersi e di pubblicare ricada sotto un principio diverso, poiché essa appartiene a quel lato della condotta umana che riguarda altre persone; ma poiché ha altrettanta importanza della libertà di pensiero, e poiché poggia in gran parte sugli stessi presupposti, praticamente ne è inseparabile. In secondo luogo, il principio esige libertà di intendimenti e di occupazioni; libertà di inquadrare la propria vita secondo il proprio carattere; di fare ciò che piace subendo le conseguenze che possono derivarne: senza impedimenti da par-

La sovranità dell’individuo su se stesso J.S. Mill, La libertà

Le condizioni di una società libera J.S. Mill, La libertà

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Unità 3 Il positivismo

te dei nostri simili, fin tanto che quello che si fa non porta loro alcun danno, anche se essi pensano che la nostra condotta è sciocca, perversa o sbagliata. In terzo luogo, dalla libertà di ogni individuo segue la libertà, entro gli stessi limiti, delle associazioni fra gli individui; libertà di unirsi, per qualsiasi scopo che non comporti danni per i terzi: si presuppone che le persone che si uniscono siano maggiorenni, e non siano forzate o ingannate. Nessuna società, dove queste libertà non siano nell’insieme rispettate, è libera, qualunque sia la sua forma di governo; e nessuna è completamente libera se queste libertà non sono assolute e incondizionate. L’unica libertà che merita questo nome, è quella che ci permette di perseguire il nostro bene a modo nostro, finché non cerchiamo di privare gli altri del loro, o di impedire i loro sforzi per ottenerlo. Ognuno è il guardiano della propria salute, fisica, intellettuale, spirituale. L’umanità è più avvantaggiata se permette che ognuno viva come meglio gli piace, che se costringe ognuno a vivere come sembra giusto agli altri. Democrazia rappresentativa e parità di genere

Un’attenzione analoga per il rispetto dei diritti degli altri viene manifestata da Mill in altri due saggi politici: le Considerazioni sul governo rappresentativo del 1861 e L’asservimento delle donne. Nel primo si affronta il problema del riconoscimento, all’interno dei sistemi democratici, della piena rappresentanza di tutto il corpo elettorale e del diritto della minoranza a non essere costretta e controllata da parte della maggioranza: in una democrazia, scrive, occorre che «tutti vengano rappresentati e non solamente la maggioranza». Nel secondo, in cui propone le tesi elaborate con la moglie, si affronta invece il problema della sottomissione sociale delle donne. Secondo Mill, l’organizzazione sociale tradizionale ha attribuito alla donna una posizione sociale e politica subordinata rispetto all’uomo, da cui la donna si deve emancipare per raggiungere effettive condizioni di parità nei diritti. Parlare di una natura inferiore della donna è per Mill una menzogna: le caratteristiche che vengono indicate da una presunta ‘natura femminile’ non sono un fatto naturale ma artificiale e storico, dipendono da istituzioni sociali ingiuste e da cambiare.

T22

Non servirà a nulla dire che la natura dei due sessi li adatta alle loro funzioni e posizioni attuali, e rende queste giuste per loro. Basandomi sul buon senso e sul modo in cui è costituita la mente umana, io nego che qualcuno conosca o possa conoscere la natura dei due sessi, finché essi sono stati osservati soltanto nelle loro attuali relazioni. Se avessimo mai trovato una società di uomini senza donne, oppure di donne senza uomini, o se fosse esistita una società di uomini e di donne nella quale le donne non fossero state sotto il dominio degli uomini, avremmo forse potuto davvero apprendere qualcosa sulle differenze mentali e morali che possono essere proprie della natura di entrambi. Quella che oggi chiamiamo la natura femminile è qualcosa di assolutamente artificiale – risultato di repressioni coartate per certi versi, e di sollecitazioni innaturali per altri.

Il pregiudizio della ‘natura femminile’

J.S. Mill, L’asservimento delle donne

3 L’etica come «arte pratica»

L’etica All’etica Mill dedica un influente saggio, L’utilitarismo (ma su questo era già intervenuto in due brevi scritti su Bentham). La prima cosa da sottolineare è che, diversamente da Bentham, per Mill l’etica non è una scienza, non rientra tra le 107

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

«scienze morali», ma nel campo dell’arte: l’etica è un’«arte pratica». Compito della scienza è la conoscenza dei fatti, compito dell’arte è invece fornire regole di condotta; il linguaggio della scienza è dichiarativo, asserisce verità, il linguaggio dell’arte è prescrittivo, fornisce precetti e indicazioni su come agire. Come Mill aveva già chiarito in uno scritto giovanile, i concetti di «scienza» e «arte» – distinti seppure strettamente connessi – non devono essere confusi.

T23

Scienza e arte

J.S. Mill, Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica

Scienza e arte: due linguaggi a confronto

Mill e l’utilitarismo di Bentham

T24

I capisaldi dell’utilitarismo J.S. Mill, L’utilitarismo

Importanza di una formazione globale

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Questi due concetti differiscono l’uno dall’altro come l’intelligenza differisce dalla volontà, come il modo indicativo nella grammatica differisce dall’imperativo. L’uno si occupa dei fatti e l’altro dei precetti. La scienza è una raccolta di verità; l’arte è un insieme di regole, o istruzioni di condotta. Il linguaggio della scienza è: Questo è, o questo non è; Questo avviene o non avviene. Il linguaggio dell’arte è: Fa’ questo, evita quest’altro. La scienza prende atto di un fenomeno e si sforza di scoprirne la legge; l’arte si propone un fine e indaga sui mezzi per conseguirlo. Scienza

Arte

– – – – –

– – – – –

descrizione di fatti conoscenza di fenomeni insieme di verità elaborazione di leggi per fare previsioni modo grammaticale indicativo

formulazione di precetti o norme raggiungimento di scopi insieme di regole individuazione dei mezzi per realizzare un fine modo grammaticale imperativo

Il saggio di Mill riprende e corregge la prospettiva utilitarista inaugurata da Jeremy Bentham nel 1789, nell’Introduzione ai principi della morale e della legislazione. L’obiettivo è individuare il «criterio di cosa sia moralmente corretto e moralmente scorretto», e Mill riprende questo criterio proprio dall’utilitarismo di Bentham: un’azione è giusta rispetto ad altre quando produce la massima somma complessiva di felicità per tutti gli individui coinvolti, non lo è quando produce la massima somma complessiva di infelicità per tutti gli individui coinvolti. Come in Bentham, la felicità viene intesa da Mill come il piacere e l’assenza di dolore, l’infelicità come il dolore e l’assenza di piacere, e la felicità è concepita come il bene principale a cui tendere, mentre l’infelicità si presenta come il maggior male da evitare. La dottrina che accetta l’utilità o principio della massima felicità come fondamento della morale sostiene che le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità. Per felicità, si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere. […] Il piacere e la liberazione dal dolore sono le uniche cose desiderabili come fini; e tutte le cose desiderabili (che nello schema utilitarista sono tante quante in tutti gli altri) sono desiderabili o per il piacere insito in esse o come mezzo per promuovere il piacere e prevenire il dolore. Tuttavia, rispetto a Bentham, Mill opera alcune importanti correzioni, che caratterizzano il suo utilitarismo. La prima riguarda la maggiore attenzione posta, da una parte, alle norme e alle regole che devono guidare la condotta, dall’altra al carattere e all’educazione dell’individuo, alla sua autonomia individuale: da que-

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Unità 3 Il positivismo

Mill distingue moralità e convenienza

Le differenti qualità del piacere

T25

Il valore della qualità del piacere

J.S. Mill, L’utilitarismo

Aspetti qualitativi e complessità della misurazione

➥ Sommario, p. 124

st’ultimo punto di vista, la teoria non deve solo garantire, attraverso un rigido sistema di sanzioni, che l’azione compiuta sia quella giusta, ma deve avere di mira la formazione della personalità dell’individuo e la sua educazione. La seconda correzione riguarda invece il rapporto fra moralità e convenienza: nell’utilitarismo di Bentham l’azione che promuove la felicità degli altri è identica a quella che promuove le felicità propria, perché fra gli individui coinvolti dei quali occorre massimizzare la felicità c’è lo stesso soggetto agente; per Mill, invece, un’azione appartiene al campo della moralità solo se riguarda gli altri soggetti, mentre non entra in questo campo la relazione degli individui con se stessi. La sfera della moralità non è identica a quella della convenienza: è morale solo l’azione che promuove la felicità altrui. Tuttavia, la correzione più importante dell’utilitarismo di Bentham riguarda il modo di concepire la felicità e il piacere. Per Bentham, il piacere è uno stato mentale che ha una sola dimensione e si differenzia solo da un punto di vista quantitativo; aspetto che aveva portato ad accusare l’utilitarismo «di essere una dottrina degna soltanto di […] porci». Mill risponde a queste critiche mettendo in evidenza le differenze qualitative dei piaceri. Non si deve considerare cioè solo la quantità ma anche la qualità del piacere prodotto: un’azione sarà migliore di un’altra non solo se produce la massima somma complessiva di un piacere, ma anche se produce un piacere della qualità migliore. I piaceri che riguardano le «facoltà più elevate», i «piaceri mentali» sono in genere superiori rispetto ai piaceri del corpo; il piacere che si prova dal cibo o dal gioco della pulce è qualitativamente inferiore di quello che si prova da una bella musica o da una bella poesia: è meglio essere un uomo insoddisfatto che un maiale soddisfatto. Riconoscere che alcuni tipi di piacere siano più desiderabili e apprezzabili di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri dipenda solo dalla quantità, quando invece per valutare tutte le altre cose si prende in considerazione anche la qualità, oltre alla quantità. […] È fuor di dubbio che un essere fornito di scarse capacità di godimento ha maggiori probabilità di appagarle pienamente; mentre un essere altamente dotato sentirà sempre come imperfetta, per come è fatto questo mondo, qualsiasi felicità possa inseguire. Ma può imparare a tollerarne le imperfezioni, purché siano appena tollerabili; ed esse non lo indurranno a invidiare quell’altro essere che, certo, non si accorge delle imperfezioni, ma solo perché non si accorge neanche del bene da loro circoscritto. È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il maiale sono di diverso parere, è perché vedono soltanto una faccia della questione: l’altro termine del nostro raffronto ne conosce tutte e due le facce. Tuttavia, se da un lato il richiamo all’aspetto qualitativo del piacere arricchisce e rende più flessibile l’utilitarismo, dall’altro ne riduce la capacità di calcolo e la precisione nella valutazione delle conseguenze e quindi dell’azione. La considerazione del solo aspetto quantitativo del piacere era ciò che aveva consentito a Bentham di proporre una teoria in grado di misurare con esattezza la quantità di piacere prodotta da un’azione, usando una misura di calcolo unica; da Mill in poi, con l’attenzione a quantità di piacere qualitativamente eterogenee, l’utilitarismo non potrà più fare affidamento su una misura unica e quindi sulla realizzabilità piena del calcolo delle conseguenze. 109

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

L’evoluzionismo: Darwin e Spencer

4 I testi

C. Darwin L’origine delle specie: Il processo della selezione naturale, T26 L’origine dell’uomo e la selezione sessuale: Intelligenza umana e intelligenza animale, T27; La genesi del senso morale, T28

H. Spencer I primi principi: La funzione unificatrice della filosofia, T29; La dinamica dell’evoluzione universale, T30; L’accordo tra scienza oggettiva e religione, T31 Principi di sociologia: L’evoluzione dell’organismo sociale, T32; Peculiarità dell’organismo individuale, T33

Il movimento di pensiero che viene solitamente definito evoluzionismo si sviluppa in Europa nella seconda metà del XIX secolo e può essere considerato una branca e una prosecuzione del più generale movimento positivista. L’evoluzionismo ruota attorno a due importanti figure: uno scienziato, Charles Darwin e un filosofo, Herbert Spencer; ma diviene presto un fenomeno molto esteso, che permea la mentalità e la cultura della società europea della seconda metà dell’Ottocento.

1 Darwin ‘rivoluzionario’

Darwin e l’evoluzione delle specie animali Charles Darwin non è un filosofo, ma un biologo e un naturalista; tuttavia la formulazione delle sua riflessione scientifica, la «teoria dell’evoluzione della specie», ebbe notevolissime conseguenze filosofiche, tanto da essere considerata una vera e propria rivoluzione intellettuale, al pari di quella di Copernico e Galileo.

La vita e le opere Charles Robert Darwin nacque in Inghilterra, a Shrewsbury (Shropshire) nel 1809. Studiò medicina a Edimburgo e teologia a Cambridge. Già suo nonno, il fisiologo Erasmus Darwin (1731-1802), aveva avanzato nella Zoonomia l’idea di una trasformazione delle specie naturali nel tempo. Una volta emersi i suoi interessi per le scienze naturali (stimolati tra l’altro dalle letture del filosofo e naturalista Wilhelm von Humboldt), Darwin partecipò nel 1831 a un viaggio di esplorazione scientifica attorno al mondo a bordo del brigantino Beagle. Nei quasi cinque anni di esplorazioni Darwin eseguì una miriade di osservazioni su flora, fauna e conformazione geologica di diverse parti del globo e raccolse una quantità enorme di materiali di studio. Nel 1839 pubblicò il diario di tale viaggio, con il titolo Viaggio di un naturalista intorno al mondo.

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Negli anni successivi alla spedizione, oltre a pubblicare articoli scientifici su argomenti specifici, Darwin lavorò all’elaborazione della sua originale teoria evoluzionistica, basata sui concetti di «selezione naturale» e di «adattamento all’ambiente». Tale teoria trovò piena espressione nel suo capolavoro, pubblicato nel 1859: L’origine delle specie. L’opera suscitò immediatamente vivacissime polemiche, con toni spesso violenti, sia in ambito scientifico che in ambito teologico. Nel 1868 Darwin pubblicò La variazione degli animali e delle piante allo stato addomesticato e nel 1871 L’origine dell’uomo in cui venne messa a fuoco la teoria della derivazione della specie umana da specie animali inferiori. Con L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) Darwin pose le fondamenta della moderna etologia e della psicologia evoluzionistica. Morì a Down (Kent) nel 1882.

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Unità 3 Il positivismo «Trasformismo» e «fissismo»

La revisione della teoria di Lamarck

La selezione naturale e la lotta per l’esistenza

T26

Il processo della selezione naturale C. Darwin, L’origine delle specie

Nella sua opera più importante L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale, Darwin riprende la tesi di una progressiva trasformazione nel tempo delle specie viventi (il cosiddetto «trasformismo»), già presente nel XVIII secolo e sostenuta agli inizi dell’Ottocento da Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829). Questa tesi si opponeva alla più tradizionale tesi dell’immutabilità nel tempo delle specie (il cosiddetto «fissismo»), sostenuta agli inizi dell’Ottocento da Georges Cuvier (1769-1832), la quale si accordava con il racconto biblico della creazione divina degli animali. Per Lamarck è l’influenza dell’ambiente esterno a spiegare l’evoluzione delle varie specie animali: queste, nel corso delle generazioni, modificano le proprie caratteristiche per garantire un miglior adattamento all’ambiente. Pur richiamandosi al trasformismo, Darwin corregge la teoria di Lamarck: studiando la notevole diversità della flora e dalla fauna presenti nelle isole Galapagos, che pure sono caratterizzate dalle stesse condizioni ambientali, giunge alla conclusione che non è soltanto l’ambiente che determina le modificazioni degli individui della specie. La natura e l’ambiente, anziché incidere direttamente sulle caratteristiche individuali, producono la selezione delle caratteristiche più adatte. Le modificazioni individuali possono essere prodotte non solo per influenza ambientale, ma nei modi più disparati, anche casuali; solo alcune di queste modificazioni, tuttavia, sopravvivono e si tramandano agli individui successivi, e cioè quelle che sono in grado di superare la selezione operata dalla natura. È la cosiddetta teoria della selezione naturale: poiché le risorse naturali non sono sufficienti per tutti, gli individui si trovano in una situazione di continua lotta per l’esistenza (una tesi che Darwin riprende dalla lettura del Saggio sui principi della popolazione dell’economista Thomas Robert Malthus, 1766-1834) e solo quelli più adatti sopravvivono e sono in grado di trasmettere i propri caratteri ai discendenti. C’è quindi una selezione naturale, analoga, ma su una scala immensamente più grande, alla selezione artificiale dell’uomo sugli animali e sulle piante; ed è questa selezione che spiega l’estinzione di alcune specie animali e il sopravvivere e modificarsi nel tempo delle altre. Dal momento che indubbiamente sono avvenute variazioni utili all’uomo, si può dunque ritenere improbabile che altre variazioni in qualche modo utili a ciascun essere, nella grande e complessa battaglia della vita, si presentino nel corso di molte generazioni successive? E se ciò avviene, come possiamo noi dubitare (ricordando che vengono al mondo molti più individui di quanti ne possono sopravvivere) che individui i quali godano di un qualsiasi vantaggio, sia pur minimo, rispetto agli altri, non abbiano una maggiore probabilità di sopravvivere e di riprodursi? D’altra parte possiamo essere sicuri che qualsiasi variazione, anche minimamente nociva, sarà rigorosamente distrutta. La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate selezione naturale o sopravvivenza del più adatto. Le variazioni che non sono né utili né nocive non saranno influenzate dalla selezione naturale, e rimarranno allo stato di elementi fluttuanti, come si può osservare nelle specie dette polimorfe, e infine, si fisseranno, per cause dipendenti dalla natura dell’organismo e da quella delle condizioni. […] Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, 111

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età. La pubblicazione dell’Origine delle specie ebbe grande risonanza e suscitò vivaci polemiche: l’ipotesi che era alla base dell’opera si scontrava con la descrizione biblica della creazione delle specie viventi da parte di Dio (idea che è alla base del cosiddetto «creazionismo», per il quale tutte le specie viventi sono create da Dio e conservano inalterato il proprio carattere); e, dando grande peso alle variazioni casuali delle caratteristiche individuali e alla selezione naturale di individui in perenne lotta per la vita, eliminava ogni riferimento a un ordine finalistico della natura e dei fenomeni biologici. La teoria Dalle polemiche seguite alla pubblicazione dell’Origine delle specie, Darwin fu evoluzionistica motivato a scrivere l’altra sua grande opera, L’origine dell’uomo, nella quale la sull’origine dell’uomo teoria della selezione naturale viene estesa all’uomo stesso. La specie umana non è stata creata direttamente da Dio (sulla cui esistenza Darwin si dichiarò ‘agnostico’), ma deriva dall’evoluzione nel tempo delle specie animali inferiori: è dalla scimmia che è nato l’uomo. La selezione naturale spiega la modificazione fisica dell’uomo rispetto alle scimmie e spiega anche il suo sviluppo intellettuale e morale. Non si riscontra quindi alcuna differenza qualitativa fra l’uomo e gli animali più evoluti, ma solo una differenza di grado, dovuta alla selezione naturale; e ciò non vale soltanto per le caratteristiche fisiche, ma anche per le caratteristiche psichiche e spirituali: «non vi è – scrive Darwin – alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali». La stessa espressione dei sentimenti e delle emozioni, sostiene nell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, attesta questa somiglianza e rivela la loro parentela.

Polemiche e discussioni

T27

Intelligenza umana e intelligenza animale

C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale

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L’uomo presenta nella sua struttura fisica chiare tracce della sua discendenza da qualche forma inferiore; ma si potrebbe tuttavia obiettare che, poiché l’uomo differisce tanto nelle sue facoltà mentali da tutti gli altri animali, vi deve essere qualche errore in questa conclusione. Senza dubbio la differenza a questo riguardo è enorme anche se paragoniamo la mente di uno dei selvaggi inferiori, che non ha parole per esprimere alcun numero superiore al quattro e che usa con difficoltà qualsiasi termine astratto per oggetti comuni o per i sentimenti, con quella della scimmia più altamente organizzata. La differenza senza dubbio rimarrebbe immensa, anche se qualche scimmia superiore fosse stata migliorata e civilizzata quanto un cane lo è stato nei confronti del suo simile: il lupo o lo sciacallo. […] Se nessun altro essere vivente, tranne l’uomo, avesse posseduto una qualche facoltà mentale, o se i suoi poteri fossero stati di natura del tutto diversa da quella degli animali inferiori, allora non saremmo mai stati in grado di convincerci che le nostre elevate facoltà si sono sviluppate gradualmente. Ma si può dimostrare che non vi è nessuna fondamentale differenza di questo genere. Dobbiamo anche ammettere che vi è una differenza molto maggiore di ca-

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Unità 3 Il positivismo

pacità mentale tra uno dei pesci inferiori, come la lampreda o un anfiosso e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo; tuttavia tale differenza è colmata da numerose gradazioni. Conseguenze filosofiche: la nuova immagine dell’uomo

Le conseguenze filosofiche della teoria darwiniana sono enormi: non solo la natura non presenta alcun ordine finalistico e intenzionale, ma l’uomo stesso non può più essere considerato al centro di essa e al centro della creazione: l’uomo è soltanto un animale accidentalmente più evoluto. Con la teoria della selezione naturale, l’uomo perde la centralità nella natura e la natura perde la tradizionale immagine di armonia e semplicità, presentandosi come un insieme complesso e disarmonico. Come ha osservato Antonello La Vergata: Darwin ha liberato l’uomo dalla teleologia non solo perché ha distrutto la credenza nell’armonia necessaria della creazione o perché la selezione naturale rende inutile Dio, ma perché ha contrapposto ad un’immagine unitaria e rassicurante anche per la sua semplicità un’immagine intricata e perfino ambigua: Darwin ha lacerato la cappa che opprimeva e condizionava l’interpretazione della natura entro i termini rigidi e secolari dell’equilibrio indiscusso. Il mondo in cui Darwin ci ha introdotto è un mondo più complicato, la cui complicatezza non può più essere risolta nella semplicità insondabile di una mente divina. In una parola, Darwin ha contribuito in modo decisivo a trasformare l’universo familiare in quello che William James [vedi Unità 7, p. 277] chiamò un «multiverso».

La genesi della moralità

Nell’Origine dell’uomo Darwin affronta anche il problema della genesi della moralità. Il senso e la coscienza morale si presentano come prodotto della simpatia e degli istinti che portano alla lode e al biasimo dei propri simili, sentimenti comuni all’uomo come agli animali più sviluppati, e la cui presenza è frutto della selezione naturale, poiché aumenta la possibilità di superare la lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, solo l’uomo è capace di approvazione e disapprovazione morale, e questa differenza, sebbene non sia sufficiente a stabilire una separazione qualitativa fra uomo e animali, è comunque indice di una distanza nel grado di evoluzione: «di tutte le differenze – scrive Darwin – tra l’uomo e gli animali inferiori, il senso morale o coscienza è di gran lunga la più importante».

T28

È lecito chiedersi come avvenga che, entro i limiti della propria tribù, un gran numero di membri acquisisca per primo queste qualità morali e sociali e come si formi uno standard di eccellenza. […] In primo luogo, mentre le facoltà di ragionamento e di previsione dei membri si perfezionavano, ciascuno doveva imparare rapidamente che, aiutando un suo simile, ne avrebbe generalmente ricevuto aiuto in cambio. Da questo movente meschino egli poteva acquisire l’abitudine di aiutare i suoi simili; e l’abitudine di compiere azioni generose certamente fortifica il senso di simpatia che dà il primo impulso alle azioni generose. Inoltre, le abitudini seguite per più generazioni probabilmente tendono ad essere ereditarie. Ma un altro e più potente stimolo allo sviluppo delle virtù sociali è offerto dalla lode e dal biasimo dei nostri simili. All’istinto di simpatia, come abbiamo già visto, è dovuto in primo luogo il fatto che noi abitualmente concediamo sia lode che biasimo agli altri, mentre amiamo l’una e odiamo l’altro se riferiti a noi. Questo istinto, senza dubbio, fu acquisito in origine, come tutti gli altri istinti sociali, at-

La genesi del senso morale C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

traverso la selezione naturale. […] Con l’incremento dell’esperienza e della ragione, l’uomo percepisce le più remote conseguenze delle sue azioni, mentre le virtù riguardanti se stesso, come la temperanza, la castità, ecc., che durante i primi periodi sono del tutto ignorate, giungono ad essere fortemente stimate o anche stimate sacre. […] Infine il nostro senso morale o coscienza diviene un elevato e complesso sentimento, che ha origine negli istinti sociali, largamente guidati dall’approvazione dei nostri simili, regolato dalla ragione, dall’interesse di sé e, in tempi recenti, da profondi sentimenti religiosi, e confermato dall’educazione e dall’abitudine. Applicazioni della teoria in ambito sociale

2 La filosofia come unificazione delle scienze

T29

La funzione unificatrice della filosofia H. Spencer, I primi principi

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Seppure in maniera molto cauta, in quest’opera Darwin estende la selezione naturale anche al contesto storico-sociale, spiegando, alla luce di questa teoria, il colonialismo e la sopraffazione sulle popolazioni indigene. Questa tendenza all’estensione della selezione naturale al contesto storico e sociale, ben oltre gli intenti dello stesso Darwin, ebbe grande diffusione verso la fine del secolo e fu alla base del cosiddetto darwinismo sociale, una corrente di pensiero politico di carattere conservatore, che rifacendosi alle tesi dello scienziato inglese giunse a giustificare la discriminazione delle classi deboli e subalterne, sulla base del fatto che la selezione naturale avrebbe posto in una situazione di predominio solo i ceti più forti e adatti. È chiaramente l’eredità meno interessante della riflessione darwiniana, l’aspetto nel quale essa cessa di essere una teoria scientifica per divenire un’ideologia al servizio della lotta politica.

Spencer e il sistema di filosofia sintetica Herbert Spencer, come viene spesso ripetuto, estende la teoria dell’evoluzione dall’ambito della biologia a quello dell’intera realtà. Egli giunge alla formulazione di una teoria dell’evoluzione prima e in modo indipendente rispetto a Darwin, trovando nell’opera del naturalista inglese solo la conferma delle proprie tesi. Dopo avere affrontato la teoria dell’evoluzione nei suoi scritti giovanili, La Statica sociale e i Principi di psicologia, nella sua opera più importante, I primi principi, Spencer delinea il sistema generale della filosofia evoluzionistica: il «sistema di filosofia sintetica»; così chiamato perché alla filosofia viene attribuito il compito di coordinare e unificare sinteticamente i risultati delle varie scienze. La filosofia è, dunque, concepita come la scienza più generale, la conoscenza del più alto grado di generalità, la quale si pone al vertice del sistema costituito dalle varie scienze (quelle «inorganiche» come la fisica, quelle «organiche» come la biologia e la psicologia, e quelle «superorganiche» come la sociologia e l’etica), e porta a compimento il processo di collegamento e unificazione dei singoli dati di esperienza che dalla conoscenza più comune giunge a quella scientifica. Filosofia può essere ancora propriamente il titolo da applicarsi alla conoscenza della più alta generalità. La Scienza significa semplicemente la famiglia delle Scienze – essa non esprime nulla più che la somma delle cognizioni formate con le loro contribuzioni; e ignora la conoscenza costituita dalla fusione di queste contribuzioni in un tutto. Come l’uso l’ha definita, la Scienza consiste di verità esistenti più o meno separatamente; e non riconosce queste verità come intera-

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Unità 3 Il positivismo

mente integrate. […] Le verità della Filosofia hanno dunque con le più alte verità scientifiche la stessa relazione che ciascuna di queste ha con le verità scientifiche inferiori. Come ogni più ampia generalizzazione della Scienza comprende e consolida le più ristrette generalizzazioni del suo dominio, così le generalizzazioni della Filosofia comprendono e consolidano le più ampie generalizzazioni della Scienza. Perciò la conoscenza che costituisce la Filosofia è nel genere l’estremo opposto di quella che l’esperienza da prima accumula. Essa è il prodotto finale di quel processo che comincia con un semplice collegamento d’imperfette osservazioni, continua elaborando proposizioni che sono sempre più ampie e più separate dai fatti particolari, e termina in proposizioni universali. O per mettere la definizione nella sua forma più semplice e chiara: la Conoscenza d’infima specie è non unificata; la Scienza è una conoscenza parzialmente unificata; la Filosofia è una conoscenza completamente unificata.

La vita e le opere Herbert Spencer nacque a Derby (Inghilterra) nel 1820. Poco più che ventenne abbandonò l’impiego di ingegnere delle ferrovie di Londra per dedicarsi completamente all’attività intellettuale, ricoprendo anche il posto di vicedirettore dell’«Economist». Maturò la sua prima concezione evoluzionistica leggendo i Principi di geologia di Lyell, in cui veniva elaborata una critica all’evoluzionismo di Lamarck. Già in alcuni scritti giovanili Spencer prefigurò la sua teoria generale dell’evoluzione, indipenLa legge generale dell’evoluzione

T30

La dinamica dell’evoluzione universale H. Spencer, I primi principi

dentemente dalle ricerche di Darwin: la Statica sociale (1850) e i Principi di psicologia (1855). Tuttavia fu solo negli anni successivi all’Origine delle specie – e non senza il riferimento all’opera darwiniana e ai risultati ivi contenuti – che la teoria filosofica evoluzionistica di Spencer trovò una sua formulazione piena e sistematica, con la pubblicazione dei Primi principi (1862) e delle successive (imponenti) opere concernenti la biologia, la psicologia, la sociologia, l’etica, la politica. Morì a Brighton nel 1903.

Proprio per questo suo carattere di generalità, la filosofia sintetica individua una legge che vige in tutti gli ambiti della realtà, da quello fisico a quello biologico a quello sociale e culturale (dal sistema solare, agli organismi viventi, alla società, all’arte e al linguaggio): è la legge generale dell’evoluzione. In tutti questi ambiti valgono tre principi comuni e unificanti: l’indistruttibilità della materia, la continuità del movimento e la persistenza della forza; da questi principi può essere ricavato un principio ancora più generale e unificante – la legge dell’evoluzione –, la quale enuncia che in tutti questi ambiti l’evoluzione consiste in una graduale concentrazione della materia (che va da uno stato di dispersione a uno stato di integrazione) e in una conseguente perdita di forza e di moto. L’evoluzione consiste cioè nel formarsi di un ordine che va da forme meno coerenti a forme più coerenti: ogni sistema fisico, biologico, sociale o culturale va dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo. L’evoluzione, nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme meno coerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento e all’integrazione della materia. Questo è il processo universale attraverso cui passano gli esseri sensibili, considerati individualmente e nel loro insieme, nella fase ascendente della loro storia. I fatti provano che tale carattere è ugualmente manifesto sia nei primi mutamenti che si suppone l’Universo abbia subito nel suo complesso, sia negli ultimi mutamenti che ritroviamo nella società e nei prodotti della vita sociale. E dappertutto l’unificazione procede in vari modi simultaneamente. Nell’evoluzione del sistema solare, o di un pianeta, o di un organismo, o di una 115

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

nazione, vi è una progressiva aggregazione dell’intera massa. Essa può venir prodotta dalla crescente densità della materia già contenuta in essa o dall’aggiungersi di materia che ne era prima separata oppure da entrambe le cose; ma comporta in ogni caso una perdita di movimento relativo. Nello stesso tempo le parti, nelle quali la materia si è divisa, si consolidano ciascuna al suo interno. Lo constatiamo nella formazione dei pianeti e dei satelliti, sviluppatisi parallelamente alla concentrazione della nebulosa che ha dato origine al sistema solare; lo constatiamo nella crescita di organi distinti, la quale progredisce di pari passo con la crescita di ciascun organismo; lo constatiamo infine nella nascita di particolari centri industriali e di particolari masse di popolazione, che accompagna la nascita di ogni società. In ogni caso un grado più o meno alto di integrazione locale accompagna l’integrazione generale. […] La formula definitiva può essere così stabilita: l’Evoluzione è un’integrazione di materia e una concomitante dissipazione di movimento, durante la quale la materia passa da un’omogeneità relativamente indefinita e incoerente a un’eterogeneità relativamente definita e coerente, e durante la quale il moto trattenuto subisce una trasformazione parallela. L’alternanza di evoluzione e dissoluzione

I limiti della conoscenza umana

L’Inconoscibile e il rapporto tra scienza e religione

116

Come in Comte, anche in Spencer si è di fronte a un atteggiamento sistematico che, sotto la veste della teoria scientifica, giunge alla formulazione di una vera e propria filosofia della storia. Nella storia, comunque, non si assiste solo all’evoluzione, in essa si riscontra piuttosto un’alternanza ritmica fra fasi di evoluzione e fasi di dissoluzione, ma queste ultime avranno necessariamente come conseguenza ulteriori fasi di evoluzione, governate dalla loro legge. Rimane dunque, nell’opera di Spencer, un’impronta generale di ottimismo e di fiducia nel progresso: per l’uomo, scrive, «l’evoluzione può terminare […] solo con lo stabilirsi della più grande perfezione e della più completa felicità». Secondo Spencer, comunque, la scienza e la filosofia non esauriscono la conoscenza della realtà. Una parte della realtà resta inevitabilmente fuori della possibilità della conoscenza umana, rimane sempre cioè una parte di mistero: «la spiegazione di ciò che è esplicabile non mostra altro, e con la più grande chiarezza, che l’inesplicabilità di ciò che rimane». L’essenza della realtà, la realtà ultima, rimane inconoscibile all’uomo; la scienza confina con l’Inconoscibile: «più di ogni altro – scrive – lo scienziato sa con sicurezza che nulla può essere conosciuto nella sua ultima essenza». Questo fatto, la presenza dell’Inconoscibile, non è colto dalla scienza ma dalla religione, la quale ha a che fare col Mistero che rimane fuori dalla possibilità della conoscenza umana; inoltre solo la religione comprende che questo Mistero non è inerte, ma esercita la sua forza e il suo potere su tutti i fenomeni sensibili. Le religioni storiche, tuttavia, hanno preteso di determinare simbolicamente questo mistero, ma questa pretesa sarà abbandonata dalla religione evoluta, che riconoscerà il Mistero come non conoscibile e non determinabile. Dunque, per Spencer, la scienza si occupa del conoscibile e del relativo, la religione si occupa dell’inconoscibile e dell’assoluto: scienza e religione non sono quindi in contrasto, ma sono conciliabili l’una con l’altra e addirittura correlative: «come il polo positivo e il polo negativo del pensiero: uno non può crescere in intensità senza aumentare l’intensità dell’altro». Scrive Spencer nella prima parte dei Primi principi, intitolata L’Inconoscibile:

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Unità 3 Il positivismo

T31

L’accordo tra scienza oggettiva e religione H. Spencer, I primi principi

3 Le opere di approfondimento scientifico

Conciliazione tra Lamarck e Darwin

Psicologia ed ereditarietà

Il Senso Comune afferma l’esistenza di una realtà; la Scienza Oggettiva prova che questa realtà non può essere ciò che noi pensiamo che sia; la Scienza soggettiva mostra perché non possiamo pensarla quale essa è, e perché tuttavia siamo costretti a pensarla come esistente; e in questa affermazione di una Realtà affatto inscrutabile nella natura, la Religione trova un’affermazione che essenzialmente coincide con la sua. Noi siamo obbligati a considerare ogni fenomeno come una manifestazione di un Potere che agisce su di noi; sebbene L’Onnipresenza sia inintelligibile, pure, siccome l’esperienza non discopre alcun limite alla diffusione dei fenomeni, noi siamo incapaci di pensare che vi siano limiti alla presenza di questo Potere; mentre le critiche alla Scienza ci insegnano che questo Potere è Incomprensibile. E questa coscienza di un Potere Incomprensibile, detto Onnipresente per l’impossibilità in cui siamo di assegnargli limiti, è precisamente quella coscienza su cui si fonda la Religione.

Spencer e i principi delle scienze La scienza non può quindi esaurire la possibilità della conoscenza umana, ma ad essa è comunque riservato da Spencer un ruolo fondamentale. Le singole scienze costituiscono le varie parti del sistema di filosofia sintetica, nelle quali si esplicita la legge generale dell’evoluzione; e proprio all’elaborazione di alcune di esse Spencer dedica le sue maggiori opere successive ai Primi principi: i due volumi dei Principi di biologia (1864-1867), la nuova stesura in due volumi dei Principi di psicologia (1870-1872), i tre volumi dei Principi di sociologia (18761896) e i cinque volumi dei Principi di etica (1879-1893). I Principi di biologia cercano di conciliare le tesi di Lamarck con quelle di Darwin: l’evoluzione consiste nel sempre più efficace adattamento degli organismi all’ambiente esterno, che porta a una sempre maggiore differenziazione degli organi. La selezione naturale determina poi quali individui avranno raggiunto il migliore adattamento ambientale e quindi sopravviveranno, consentendo così di trasmettere ereditariamente i propri caratteri ai membri della specie. Un riferimento analogo alla legge dell’evoluzione viene fatto da Spencer anche nei Principi di psicologia, nei quali difende, contro Comte, le possibilità della psicologia come scienza. La psicologia può essere di due tipi: lo studio della base materiale e biologica dei fenomeni psichici, che Spencer chiama «psicologia oggettiva», e lo studio introspettivo della mente umana, o «psicologia soggettiva». Essa coglie lo sviluppo dei processi del pensiero caratterizzato da un sempre più efficace adattamento all’ambiente esterno: dalle prime fasi fino alle manifestazioni più evolute della ragione; e coglie anche la presenza nella coscienza individuale di elementi a priori, che, come in Kant, non derivano dalle particolari esperienze dell’individuo ma che, diversamente da Kant, non sono necessariamente validi e immutabili. Gli elementi a priori della coscienza vengono infatti, secondo Spencer, trasmessi ereditariamente dall’evoluzione della propria specie: ciò che è a priori per l’individuo è a posteriori per la specie, perché esso si accumula dopo lunghe e ripetute esperienze, ma viene poi trasmesso ereditariamente e l’individuo se lo ritrova al momento della nascita come un’acquisizione innata e indipendente dalle sue esperienze. 117

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La sociologia e l’organismo sociale

T32

L’evoluzione dell’organismo sociale H. Spencer, Principi di sociologia

Organismo individuale e organismo sociale

T33

Peculiarità dell’organismo individuale H. Spencer, Principi di sociologia

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Se la biologia e la psicologia hanno a che fare con l’evoluzione «organica», la sociologia, a cui Spencer dedica i Principi di sociologia, analizza l’evoluzione «superorganica». La società è concepita da Spencer come un organismo analogo a un organismo individuale ed è retta dalla medesima legge di evoluzione che si riscontra in tutti gli altri campi della realtà: evolve da società omogenee e indefinite in cui i ruoli e le funzioni sociali non sono differenziati, come nelle antiche società tribali, a società sempre più eterogenee, definite e coerenti, caratterizzate da una sempre maggiore differenziazione e interdipendenza dei ruoli, come nelle moderne società industriali. L’evoluzione sociale è una parte dell’evoluzione complessiva. Come tutti gli aggregati in evoluzione, le società presentano il carattere dell’integrazione, sia per semplice accrescimento della massa sia per unione e riunione di più masse. Il passaggio dall’omogeneità alla eterogeneità presenta una gran quantità di esempi, dalla semplice tribù, eguale in tutte le parti, fino alla nazione civilizzata, colma di differenze strutturali e funzionali. Col crescere dell’integrazione e dell’eterogeneità cresce la coerenza. Vediamo che i gruppi erranti si disperdono, si dividono, non sono tenuti insieme da alcun legame; la tribù ha parti rese più coerenti dalla subordinazione a un dominatore; il gruppo di tribù è unito in un complesso politico sotto un capo supremo e capi subalterni, e così via fino alla nazione civile, abbastanza consolidata per tenersi unita per un migliaio di anni o anche più. Contemporaneamente cresce la definitezza. L’organizzazione sociale è dapprima vaga; il progresso porta ordinamenti stabili che lentamente diventano più precisi; i costumi si trasformano in leggi che, acquistando rigidità, diventano anche più specifiche nella loro applicazione ai vari tipi di azioni; e tutte le istituzioni, dapprima confusamente mescolate fra di loro, si separano lentamente, mentre in ciascuna di esse si delineano con maggior evidenza le strutture componenti. Viene così soddisfatta, sotto ogni riguardo, la formula dell’evoluzione: vi è un progresso verso una dimensione, una coerenza, una multiformità e una definitezza maggiore. Tuttavia, l’analogia fra organismo individuale e organismo sociale ha dei limiti. L’organismo individuale è, infatti, composto da parti contigue e non separate, mentre l’organismo sociale è composto da parti discrete – gli individui – che sono separati fisicamente e dotati di una propria esistenza indipendente. Per questo motivo l’evoluzione della società viene detta da Spencer «superorganica» e viene distinta e considerata superiore rispetto all’evoluzione organica: l’evoluzione dell’organismo sociale tende non solo alla differenziazione e all’eterogeneità funzionale, ma anche a una sempre maggiore indipendenza degli individui rispetto alla società. L’evoluzione porta quindi a una sempre maggiore autonomia degli individui. Contrastare questa tendenza spontanea attraverso l’intervento statale sarebbe un errore che è assolutamente da evitare. Dopo aver esaminato le somiglianze tra l’organismo sociale e quello individuale, dobbiamo ora passare a una completa diversità. Le parti di un animale formano un tutto concreto; le parti di una società formano un tutto discreto. Mentre le unità viventi che compongono il primo sono unite insieme in uno stretto contatto, le unità viventi che compongono il secondo sono libere, senza contatto, e più o meno ampiamente disperse. […]

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Unità 3 Il positivismo

Bisogna inoltre tener conto di un’altra fondamentale differenza fra i due tipi di organismo. Nell’organismo vivente la coscienza è concentrata in una piccola parte del corpo. In quello sociale è invece diffusa attraverso l’intero aggregato: tutte le unità possiedono la facoltà di provare piacere e dolore, se non in egual grado, almeno in gradi che si approssimano. Dal momento che non c’è un sensorio sociale, il benessere dell’aggregato, considerato come qualcosa di separato da quello delle singole unità, non è un fine da perseguire. La società esiste in funzione dei suoi membri, non già i membri in funzione della società. Si deve perciò sempre ricordare che, per quanto grandi possano essere gli sforzi compiuti in vista della prosperità del corpo politico, tuttavia i diritti del corpo politico non sono nulla in se stessi, ma diventano qualcosa soltanto nella misura in cui incorporano i diritti dei singoli individui che lo compongono. Verso una società di tipo liberale

Spencer conservatore

L’etica evoluzionistica

L’evoluzione della morale e il superamento del dovere

L’evoluzione della società va quindi verso una limitazione sempre maggiore dei poteri dello Stato e verso il riconoscimento dell’autonomia del singolo, e si assiste al passaggio da società di carattere ‘militare’, che hanno per scopo la guerra e la conquista e in cui l’individuo è sottoposto al potere del sovrano, a società di carattere ‘industriale’, che hanno per scopo la produzione e il benessere dei membri della società, e in cui l’individuo è, e sarà sempre più nel futuro, indipendente rispetto al potere dello Stato. La direzione dell’evoluzione sociale viene quindi fatta coincidere da Spencer con una società di carattere liberale, che pone limiti all’interferenza dello Stato, e che si identifica con la società industriale. Spencer fa quindi propria un’impostazione politica che si richiama al liberalismo; un’impostazione analoga a quella di Mill, anche se di carattere più marcatamente conservatore. Il carattere conservatore del liberalismo di Spencer emerge anche nel saggio del 1884, L’uomo contro lo Stato, nel quale viene respinta ogni forma di tutela delle condizioni di vita dei lavoratori e ogni intervento pubblico in materia di assistenza sanitaria e istruzione, e, ponendo discredito sui meccanismi della rappresentanza democratica, viene considerato il Parlamento, anziché il sovrano, il potere di fronte al quale deve essere difesa la libertà individuale. Oltre alla sociologia, fra le scienze che hanno a che fare con l’interazione umana rientra anche l’etica, a cui Spencer dedica i Principi di etica; un aspetto su cui Spencer si distacca da Mill, che invece ritiene l’etica un’arte pratica e non una scienza. Ciò che consente la fondazione scientifica dell’etica è proprio la legge dell’evoluzione: ciò che è bene coincide infatti, per Spencer, con l’esito dell’evoluzione. Poiché l’evoluzione tende verso un sempre migliore adattamento dell’uomo alle proprie condizioni di vita, cioè verso una vita più intensa e ricca, verso la felicità, la felicità deve essere considerata il bene principale, conformemente a quanto sostenuto dall’utilitarismo, a cui Spencer si richiama. Avendo una conoscenza scientifica dell’evoluzione si può quindi avere una conoscenza scientifica di ciò che è bene e male, di ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare. Inoltre, anche nel campo della morale si assiste a un’evoluzione da forme di moralità meno complesse a forme di moralità più complesse e progredite. L’evoluzione morale finirà per condurre, secondo Spencer, a una radicale trasformazione della moralità comune, e farà venire meno la stessa nozione di dovere e di obbligo morale, nata originariamente allo scopo di garantire un migliore adattamento all’ambiente. Fare ciò che è bene non sarà più qualcosa a cui l’individuo è costretto e obbligato: «col completo adattamento allo stato sociale – scrive Spencer –, quell’elemento della coscienza morale, che è espresso dalla parola 119

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Etica «assoluta» ed etica «relativa»

Etica e adattamento

Huxley e lo ‘scarto’ tra natura e morale

➥ Sommario, p. 124

Altri esponenti del positivismo

5 Esponenti del positivismo francese in ambiti diversi

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obbligo, scomparirà del tutto. Le azioni più elevate, richieste per lo svolgimento armonico della vita, saranno fatti così comuni come lo sono ora quelle azioni inferiori a cui ci spinge il semplice desiderio». Questo avverrà in quella che Spencer chiama l’«etica assoluta», a cui l’umanità giungerà al termine dell’evoluzione, e che tratta i principi dell’uomo perfetto e ideale: in essa il bene del singolo coincide con il bene altrui; ma l’«etica assoluta» non è ancora possibile nella fase dell’«etica relativa», che è l’etica comune, quella degli individui reali e storici, che non sono al termine dell’evoluzione ma solo a un suo stadio intermedio, e nella quale l’altruismo si scontra ancora con l’egoismo. Questa stretta relazione fra evoluzione ed etica porta Spencer su posizioni estremamente conservatrici. Il risultato dell’evoluzione viene infatti ritenuto di per se stesso giusto, e ciò conduce alla giustificazione delle condizioni sociali vigenti. Come aveva già scritto nel suo primo saggio, Statica sociale, gli uomini «se sono abbastanza perfetti per vivere, vivono, ed è bene che vivano. Se non sono abbastanza perfetti per vivere, muoiono, ed è meglio che muoiano». Una relazione così stretta fra evoluzione e morale viene invece rifiutata da un altro filosofo evoluzionista, Thomas Huxley (1825-1895), che nel testo del 1893, Evoluzione ed etica, sviluppa le tesi darwiniane in ambito etico: l’uomo è sì parte della natura e condivide con le altre specie l’evoluzione per selezione naturale, ma questo non comporta che tutto ciò a cui giunge il meccanismo della selezione naturale sia di per sé buono e giusto. Fra natura e morale rimane cioè una distanza: la morale è un ‘artificio’ dell’uomo, che si distacca progressivamente dalla natura. «Sospetto – scrive Huxley – che l’errore sia dovuto all’infelice ambiguità insita nell’espressione “sopravvivenza del più adatto”: “il più adatto” può sembrare sinonimo di “migliore di tutti”, il che sa di connotazione morale».

Il positivismo francese non è solo quello di Saint-Simon e di Comte. Fra i suoi esponenti si possono citare alcuni allievi di Comte, come Émile Littré (18011881) e Pierre Laffitte (1823-1903), e alcuni intellettuali di grande fama, che non furono direttamente filosofi, ma ripresero e rielaborarono, ognuno nel proprio campo, le idee positivistiche: il grande storico Ernest Renan, un personaggio come Hyppolite Taine e il medico Claude Bernard. Renan (1823-1892), che verrà letto avidamente anche da Nietzsche, lavora sulla storia delle religioni ebraiche e cristiane (Vita di Gesù, 1863; Storia del popolo d’Israele, 1887-1893) e applica allo studio delle religioni l’attenzione positivistica al fatto concreto e storico, privando gli eventi religiosi di ogni connotato soprannaturale. Taine (1828-1893) è autore dei Filosofi francesi del secolo XIX (1857), di una Storia della letteratura inglese (1863), della Filosofia dell’arte (1865); egli ritiene che ogni opera d’arte sia il prodotto necessario dell’ambiente sociale e del particolare periodo storico in cui si inserisce, e, fortemente critico

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Unità 3 Il positivismo

La tradizione inglese

Il positivismo tedesco: Moleschott, Vogt, Häckel

La nascita della psicologia scientifica in Germania

della tradizione filosofica di carattere spiritualista, si riallaccia esplicitamente alla tradizione empiristica e illuministica. Bernard (1813-1878) è invece il padre fondatore della moderna medicina sperimentale (Introduzione allo studio della medicina sperimentale, 1865), di una medicina cioè basata sullo studio dell’organismo, che non si accontenta però di conoscere le leggi dell’organismo per prevederne il comportamento (come fa invece quella che Bernard chiama la «medicina di osservazione»), ma che vuole piuttosto modificare e correggere questo comportamento. A questo scopo, essa procede attraverso la conferma empirica delle ipotesi e delle congetture e attraverso la «conoscenza sperimentale dei fenomeni»: «diagnosi, prognosi e terapia sono ipotesi e vanno provate nelle loro conseguenze per accertarsi se corrispondano o no ai fatti». In Inghilterra il movimento positivistico si riallaccia alla tradizione illuministica, empiristica e utilitaristica di fine Settecento. Una figura fondamentale di raccordo fra la tradizione illuministica e il movimento positivista fu il padre di John Stuart Mill, James Mill (1773-1836), filosofo utilitarista, di origini scozzesi, stretto amico di Bentham (con cui fondò la «Westminster Review») e di Ricardo. Autore di un trattato di economia politica (Elementi di economia politica, 1820), di numerosi saggi di carattere politico (fra cui la voce Governo per l’Enciclopedia britannica, 1825), e di un’opera di filosofia della percezione, l’Analisi dei fenomeni della mente umana (1829), James Mill, distaccandosi da Bentham, da cui pure trae ispirazione, separa il piacere dalla felicità, che viene considerata una forma di piacere più alto e raffinato (una tesi che sarà poi sviluppata dal figlio). La felicità è ritenuta il movente principale delle azioni umane, ma questa sensazione è capace di dar luogo non solo ad azioni egoistiche ma anche ad azioni altruistiche e disinteressate. «Mio padre – scrisse John Stuart Mill nella sua Autobiografia – fu il primo inglese di grande valore che comprese perfettamente e adottò nel loro complesso le concezioni generali di Bentham sull’etica, sullo Stato e sulla legislazione». Come si è accennato, il movimento positivistico si diffonde anche in Germania e Italia, sebbene con ritardo rispetto a Francia e Inghilterra, anche per una maggiore arretratezza sociale e politica di questi Paesi, allora parcellizzati in tanti piccoli Stati, ancora poco industrializzati. In Germania, il positivismo assume, in reazione all’idealismo, i caratteri del materialismo, riconducendo ogni elemento ideale e spirituale all’unica realtà materiale, retta da leggi meccaniche. I suoi maggiori esponenti sono il fisiologo Jakob Moleschott (1822-1893), autore della Circolazione della vita (1852), lo zoologo Karl Vogt (1817-1895), che nelle Lettere fisiologiche scritte a partire dal 1845, sostiene la completa dipendenza della mente dal cervello: «tutte quelle capacità che noi comprendiamo sotto il nome di attività psichiche sono solo funzioni del cervello; o per esprimerci in modo alquanto grossolano […] i pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cervello della bile rispetto al fegato o dell’urina rispetto ai reni»; e ancora lo zoologo Ernst Häckel (1834-1919) che, nella Morfologia generale degli organismi (1866), sostiene la teoria darwiniana dell’evoluzione, e negli Enigmi del mondo (1899) un rigido materialismo monistico. Il movimento positivistico tedesco è sostenuto anche da importanti psicologi, che contribuiscono in questi anni alla formazione della psicologia scientifica, cioè di una disciplina dotata di un proprio statuto epistemologico e pienamente autonoma rispetto alla filosofia. Secondo Ernst Heinrich Weber (1795-1878), Gustav 121

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Il positivismo in Italia: Cattaneo

Ardigò e il suo peculiare evoluzionismo

Lombroso e la psicologia criminale

➥ Sommario, p. 124

Theodor Fechner (1801-1887) e Wilhelm Wundt (1832-1920), la psicologia studia i fatti psichici non solo attraverso l’introspezione, ma nello stesso modo in cui le altre scienze studiano i fatti naturali, cioè attraverso la sperimentazione e l’impiego di strumenti di laboratorio, e come le altre scienze ha come scopo la ricerca delle leggi esplicative dei fenomeni osservati. In Italia il movimento positivistico riesce ad affermarsi solo nella seconda metà dell’Ottocento, favorito dalla generale diffusione della cultura laica che il nuovo Stato nazionale oppone all’egemonia della Chiesa cattolica. Il primo filosofo a richiamarsi alle tematiche tipiche del positivismo è Carlo Cattaneo (1801-1869), che nel suo Corso di filosofia, pubblicato postumo, polemizza contro un modo di fare filosofia che non tenga conto dei fatti e delle leggi accertate dalle scienze: la filosofia deve invece essere «sperimentale», non potendo prescindere dai risultati e dal metodo delle scienze sperimentali. Il principale esponente del positivismo italiano è Roberto Ardigò (1828-1920), ex sacerdote, professore all’università di Padova, che in varie opere (La psicologia come scienza positiva, 1870; La morale dei positivisti, 1879; La scienza dell’educazione, 1893; La dottrina spenceriana dell’inconoscibile, 1899) accoglie e rielabora le tesi di Spencer sull’evoluzione della realtà. Ardigò individua una legge generale che guida l’evoluzione di ogni aspetto della realtà; ma se per Spencer, come abbiamo visto a p. 115, l’evoluzione va dall’omogeneo all’eterogeneo, per il filosofo italiano essa procede dall’indistinto al distinto, secondo quanto testimoniato dallo sviluppo delle sensazioni della psiche umana. Le sensazioni iniziali sono infatti indifferenziate; solo successivamente vengono percepite le distinzioni, prima fra tutte quella tra io e mondo. Inoltre, ancora a differenza di Spencer, Ardigò nega che al di là della scienza si possa parlare di una dimensione inconoscibile: l’inconoscibile è per Ardigò solo ciò che è temporaneamente ignoto, ma che può diventare noto, in linea di principio, con lo sviluppo della conoscenza scientifica. Oltre ad Ardigò, fra gli esponenti del positivismo italiano, può essere ricordato lo psichiatra Cesare Lombroso (1836-1909), che studia la psicologia criminale (L’uomo delinquente, 1876) e ritiene che i comportamenti criminali siano completamente determinati dalle caratteristiche fisiologiche dell’individuo, le quali si rivelano nella configurazione anatomica del cranio («i criminali non delinquono per un atto cosciente e libero di volontà malvagia, ma perché hanno tendenze malvagie, tendenze che ripetono la loro origine da una organizzazione fisica e psichica diversa da quella normale»).

Suggerimenti bibliografici Per un esauriente inquadramento storico del positivismo ottocentesco e dei mutamenti sociali che gli fecero da sfondo si può vedere la raccolta di saggi a cura di P. Rossi, Positivismo e società industriale, Loescher, Torino 1973 e il saggio di W.M. Simon, Il positivismo europeo nel XIX secolo, il Mulino, Bologna 1980. Una introduzione di taglio più teorico al positivismo è offerta nel lavoro di L. Lolakowsi, La filosofia del positivismo, Laterza, Roma-Bari 1974. Anche il saggio di S. Poggi, Introduzione al positivismo, Laterza, Roma-Bari 1987, offre una panoramica completa di questa corrente filosofica, con numerosi riferimenti alla nascita della psicologia scientifica. Per chi voglia accostarsi al pensiero di Comte, un’esposizione lineare ed esauriente è offerta dal testo di A. Negri, Introduzione a Comte, Laterza, Roma-Bari 1997. Per chi invece sia interessato in

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Unità 3 Il positivismo maniera più specifica alla filosofia della storia elaborata da Comte e alla religione positiva da lui promossa sono da segnalare i saggi di O. Negt, Hegel e Comte, il Mulino, Bologna 1975 e di F. Manuel, I profeti di Parigi, il Mulino, Bologna 1979. Sul pensiero etico-politico di Mill sono da vedere i lavori di C. Cressati, La libertà e le sue garanzie. Il pensiero politico di J.S. Mill, il Mulino, Bologna 1988; M.T. Picchetto, Verso un nuovo liberalismo. Le proposte politiche e sociali di John Stuart Mill, Franco Angeli, Milano 1996; N. Urbinati, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Laterza, RomaBari 2006. Di taglio più marcatamente epistemologico è invece il lavoro di G. Frongia, John Stuart Mill e il metodo scientifico, E.S.I., Napoli 1984. Una buona introduzione generale all’opera di Darwin e alla sua figura storica è offerta nei saggi di G. Montalenti, Ch. Darwin, Editori Riuniti, Roma 1982 e di A. Desmond - J. Moore, Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Sul darwinismo e i suoi sviluppi sia in ambito naturalistico che in ambito filosofico è da segnalare il lavoro di A. La Vergata, L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo, Morano, Napoli 1990. In E. Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994 si può trovare una dettagliata ricostruzione delle tappe fondamentali che hanno portato alla formulazione della teoria evoluzionista darwiniana. Sulle filosofie della storia di impianto evoluzionistico e progressista segnaliamo i saggi di M. Toscano, Malgrado la storia. Per una lettura critica di H. Spencer, Feltrinelli, Milano 1980 e di G. Lanaro, L’evoluzione, il progresso, la società industriale, La Nuova Italia, Firenze 1997.

I brani antologizzati sono tratti da: C.-H. de Saint-Simon, Memoria sulla scienza dell’uomo, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, p. 59. A. Comte, Corso di filosofia positiva, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, vol. 1: pp. 154 (T2), pp. 155-156 (T6), p. 162 (T8), p. 164 (T7); vol. 4: p. 153 (T12), p. 178 (T9), pp. 180-181 e 183 (T10), p. 186 (T10). A. Comte, Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, cit.: pp. 149 e 154 (T3), pp. 149 e 155 (T4), pp. 150 e 155 (T5). A. Comte, Considerazioni filosofiche sulle scienze e i sapienti, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973. A. Comte, Sistema di politica positiva, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, vol. 1: pp. 215-216 (T14); vol. 3: p. 213 (T13). J. Stuart Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva, UTET, Torino 1988, pp. 60-61 (T15), pp. 281-282 (T16), p. 434 (T17), p. 1120 (T19), p. 1187 (T18). J. Stuart Mill, La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, Rizzoli, Milano 1999: p. 75 (T20), pp. 78-80 (T21), p. 241 (T24), pp. 243 e 245 (T26), p. 263 (T25), pp. 361-362 (T22). J. Stuart Mill, Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica, Isedi, Milano 1976, pp. 105-106. C. Darwin, L’origine delle specie, Newton, Roma 2000, pp. 100 e 102. C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton, Roma 2003, p. 67 (T28), pp. 113114 (T29). H. Spencer, I primi principi, Bocca, Torino 1901: p. 69 (T32), pp. 98-100 (T30), pp. 252 e 307 (T31). H. Spencer, Principi di sociologia, UTET, Torino 1967: pp. 564 e 568 (T34), pp. 693-694 (T33). Il brano di L. Geymont citato a p. 89 è tratto da Storia del pensiero filosofico e scientifico, 4, L’Ottocento, 1, pp. 366-367. Il brano di A. La Vergata citato a p. 113 è tratto da L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo, cit., p. 16.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Sommario 1. LA

FILOSOFIA DEL POSITIVISMO

La corrente culturale e intellettuale del «positivismo» caratterizza gran parte del pensiero ottocentesco europeo e si configura come la prosecuzione dell’Illuminismo settecentesco. Il termine «positivo» assume negli autori che si riconoscono in tale corrente la connotazione di «concreto», «aderente ai fatti», in quanto contrapposto a «speculativo» o «astratto». La filosofia del positivismo, pur nelle sue forme estremamente variegate, riflette sulle varie scienze empiriche particolari e sulla possibilità di una loro unificazione sistematica, per controllare la realtà e migliorare le condizioni di vita della società.

ne sono i tre diritti fondamentali e inalienabili di ogni individuo. [par. 2] Mill riprende infine l’utilitarismo di Bentham: un’azione è giusta rispetto ad altre azioni quando produce la massima somma complessiva di felicità per tutti gli individui coinvolti. [par. 3] 4. L’EVOLUZIONISMO: DARWIN

E

SPENCER

Assieme a Saint-Simon, Comte è uno dei padri fondatori della filosofia positivista. La sua riflessione, fortemente sistematica, investe tanto le scienze empiriche particolari, quanto la filosofia, nell’ambito di un grande progetto riformatore dell’uomo e della società. Da un punto di vista epistemologico, Comte ritiene che il cammino conoscitivo, sia dell’umanità sia del singolo individuo, si lasci descrivere dalla legge dei tre stadi, secondo cui al primo stadio – detto «teologico» – segue un secondo stadio, «metafisico», e un ultimo, «positivo». [par. 1] Il «sistema delle scienze» teorizzato da Comte – in cui le singole discipline sono ordinate in base al grado di complessità dei fenomeni che studiano – culmina nella sociologia, o fisica sociale, che egli si propone di sviluppare in modo rigoroso attraverso l’individuazione di leggi della società. [parr. 2-3] Negli scritti più tardi Comte teorizza l’opportunità di introdurre una religione positiva, basata sul culto della scienza. [par. 3]

L’evoluzionismo è una corrente di pensiero trasversale rispetto a diverse discipline che si sviluppa, nella seconda metà dell’Ottocento, attorno al lavoro di due grandi intellettuali inglesi: lo scienziato naturalista Darwin e il filosofo Spencer. La teoria darwiniana della selezione naturale – che costituisce il nucleo dell’evoluzionismo darwiniano – sostiene che le specie animali evolvono attraverso la selezione naturale delle specie in grado di adattarsi all’ambiente circostante: sopravvive, così, solo chi è più adatto. La teoria della «sopravvivenza del più adatto» si presta subito a letture di tipo politico-conservatore, che costituiscono il darwinismo sociale. La riflessione di Darwin sull’essere umano sottolinea poi la sostanziale continuità – sia somatica che psichica – con il mondo dei primati e degli animali in genere. [par. 1] Su un piano più generale si muove la riflessione di Spencer, che guarda alla filosofia come a un sapere ‘sintetico’ il cui ruolo è quello di unificare le varie scienze particolari. Egli elabora la legge generale dell’evoluzione, la quale investe ogni aspetto della realtà asserendo che ogni sistema è caratterizzato da un continuo processo di mutamento verso forme sempre più coerenti, complesse, organiche. La stessa società è vista come un organismo che tende a una specializzazione e una differenziazione dei ruoli sempre maggiore. Da un punto di vista filosoficopolitico Spencer è un liberale conservatore. [parr. 2-3]

3. MILL

5. ALTRI

Empirista in epistemologia, liberale in politica e utilitarista in etica, Mill è assieme a Comte e a Spencer uno dei grandi rappresentanti del movimento positivista. Dalla sua riflessione sulla logica come strumento per stabilire la correttezza formale delle inferenze deriva il concetto di induzione, fondamentale per ogni scienza empirica. Il passaggio dal ‘particolare’ al ‘generale’ che caratterizza ogni inferenza induttiva viene giustificato da Mill mediante il principio dell’uniformità della natura, secondo cui un dato fenomeno (o proprietà) si ripresenta nello stesso modo a parità di circostanze. [par. 1] Come per Comte, anche per Mill la società è suscettibile di uno studio scientifico, attraverso l’elaborazione di leggi generali. A differenza di Comte, Mill ritiene tuttavia possibile anche una psicologia scientifica, che metta in luce le «leggi della mente» e spieghi e, in certi casi, preveda il comportamento umano. Mill aderisce al liberalismo: libertà di pensiero, libertà di progettare la vita secondo i propri desideri e libertà di associazio-

Il movimento positivista francese va oltre l’ambito della filosofia, investendo altre discipline: la storiografia (Renan), la saggistica (Taine), la medicina sperimentale (Bernard). Tratto comune è l’attenzione al fatto concreto e alla possibilità di misurare i fenomeni osservabili. In Inghilterra, una figura di raccordo tra Illuminismo e positivismo è il padre di John Stuart Mill, James Mill, filosofo utilitarista amico e collega di Bentham. In Germania il positivismo si oppone all’idealismo dilagante, assumendo in diversi settori la forma di materialismo. Nell’ambito della fisiologia e della biologia sono da ricordare Moleschott, Vogt e Häckel. In ambito psicologico, Fechner e Wundt, padre della psicologia sperimentale. In Italia sono da ricordare i filosofi Cattaneo e Ardigò, quest’ultimo sostenitore di un peculiare evoluzionismo di stampo spenceriano. In ambito psichiatrico Lombroso elabora una teoria del rapporto tra conformazione fisica del cranio e tendenza alla criminalità.

2. COMTE

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ESPONENTI DEL POSITIVISMO

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Unità 3 Il positivismo

Parole chiave Darwinismo sociale. Corrente del pensiero politico conservatore che rifacendosi alle tesi di Darwin giustifica la discriminazione delle classi deboli e subalterne, sulla base del fatto che è la selezione naturale a porre in una situazione di predominio solo i ceti più forti e adatti. Evoluzionismo. Teoria filosofica e poi movimento culturale che si afferma nell’Ottocento nell’ambito del positivismo grazie a due grandi figure: lo scienziato naturalista Darwin e il filosofo Spencer. Il primo, con la teoria della «selezione naturale», elabora una teoria rivoluzionaria sull’evoluzione nel tempo delle specie viventi. Il secondo enuncia la «legge generale dell’evoluzione» che vale per tutti gli ambiti della realtà, da quelli inorganici, a quelli organici e sociali (o «sovraorganici»). Fisica sociale. Nel sistema delle scienze di Comte indica la sociologia. Per la complessità dei fenomeni che spiega e prevede essa perviene per ultima allo stadio positivo o scientifico. Si suddivide in una «statica sociale» (teoria positiva dell’ordine sociale) e una «dinamica sociale» (teoria positiva del mutamento sociale). Induzione. Procedimento mediante il quale viene fatta un’asserzione di carattere generale riguardante il possesso di una data proprietà da parte di ogni individuo appartenente a un certo genere, sulla base dell’osservazione di un numero finito (benché grande) di casi particolari, cioè di asserzioni particolari. Legge dei tre stadi. Nel sistema di Comte, tale legge prevede che l’umanità percorra, lungo il proprio cammino conoscitivo, tre grandi stadi, caratterizzati da un peculiare approccio esplicativo alla realtà. Nel primo, quello «teologico», le spiegazioni fanno ricorso ad agenti sovrannaturali o divini; nel secondo, quello «metafisico», le spiegazioni si basano su concetti astratti e categorie speculative che trascendono l’esperienza diretta; nel terzo, quello «positivo», la conoscenza è scientifica e si basa unicamente su fatti osservabili, enunciando leggi generali. Legge generale dell’evoluzione. Nel sistema di Spencer il principio fondamentale, secondo cui ogni aspetto della realtà – sia essa inorganica, organica, sociale, storica ecc. – si evolve secondo un ordine che va da forme meno coerenti a forme più coerenti, dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo. Leggi della società. In Comte, le leggi generali che costituiscono il nucleo della sociologia (o «fisica sociale») pervenuta allo stadio positivo. Al pari delle scienze naturali (sia inorganiche che organiche), anche le scienze sociali (dette da Comte «sovraorgani-

che») sarebbero suscettibili di una sistematizzazione rigorosa che renda possibile non soltanto la descrizione di fenomeni complessi – quali la mobilità sociale, la concentrazione della ricchezza, le tensioni tra gruppi diversi – ma anche la loro previsione. Liberalismo. Teoria politica che ha come principale obiettivo tutelare le libertà fondamentali dell’individuo di fronte all’ingerenza dello Stato o degli altri. In Mill, queste libertà fondamentali sono le libertà di pensiero, di progettare la vita secondo i propri desideri e di associazione. Positivo. Nel sistema filosofico di Comte, tale aggettivo indica qualcosa di reale e concreto, opposto a tutto ciò che è astratto e speculativo. Una filosofia «positiva» – distinta da una filosofia «metafisica» – è una filosofia che coordina e unifica i risultati delle scienze particolari. Religione positiva. Negli scritti tardi di Comte, indica un vero e proprio culto organizzato (con una propria gerarchia, rituali, catechismo ecc.) e basato sulla sacralizzazione della scienza. La religione positiva, parlando direttamente al cuore e al sentimento degli uomini, consentirebbe l’affermazione su larga scala della filosofia positiva e dunque la riforma della società verso lo stadio positivo. Essa sarebbe da realizzarsi sul modello di quella cattolica, datene l’universalità e la forte strutturazione interna. Selezione naturale. Teoria centrale dell’evoluzionismo darwiniano. Essa prevede che la natura selezioni – in modo del tutto impersonale e senza alcuno scopo – gli individui che possiedono le caratteristiche che li rendono più adatti di altri a sopravvivere in un certo ambiente. Le modificazioni dei caratteri individuali possono essere prodotte non solo per influenza ambientale, ma nei modi più disparati, anche casuali; solo alcune di queste, tuttavia, sopravvivono e si tramandano agli individui successivi, e cioè quelle che superano la selezione operata dalla natura. Uniformità della natura. Nell’epistemologia di Mill, principio che giustifica le inferenze induttive, che prevedono un ‘salto’ da asserzioni particolari a una generale: un dato fenomeno o una data proprietà tendono, nelle medesime circostanze, a ripresentarsi secondo le stesse modalità; ossia, il mondo naturale esibisce un comportamento uniforme nello spazio e nel tempo. Utilitarismo. Teoria etica per cui un’azione è detta giusta o doverosa se produce la massima somma possibile di conseguenze buone. Mill intende la bontà delle conseguenze come felicità, cioè un piacere non solo quantitativo ma anche qualitativo. 125

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario LA

13

Quali sono i fattori che determinano l’ordine gerarchico tra le cinque discipline fondamentali, secondo Comte in T8? (max 4 righe)

14

Quale idea di ‘spiegazione’ dei fenomeni sociali è espressa da Comte in T9? (max 2 righe)

15

Come devono interagire tra loro la «statica sociale» e la «fisica sociale» stando a quanto esprime Comte in T10 e T11? (max 5 righe)

16

Quali sono le motivazioni che spingono Comte a teorizzare nelle ultime opere una religione positiva dotata di un proprio culto e di una propria organizzazione? (max 2 righe)

Che tipo di relazione tra logica e conoscenza emerge da quanto espresso da Mill in T15? (max 2 righe)

17

Che cosa esprime il principio di uniformità della natura enunciato da Mill? E su che cosa è fondato tale principio? (max 5 righe)

Parlando della natura delle proposizioni generali, Mill afferma in T16 che esse non consistono in una «denominazione pura e semplice». Sapresti chiarire meglio il senso di tale affermazione? (max 2 righe)

18

Quali sono i soli vincoli alla libertà individuale che Mill reputa legittimi, stando a quanto egli stesso sostiene in T20? (max 3 righe)

FILOSOFIA DEL POSITIVISMO

1

2

Quali sono gli aspetti che il positivismo ottocentesco ha ereditato dall’Illuminismo settecentesco? (max 3 righe) In che cosa consiste il significato del termine «positivismo»? (max 2 righe)

COMTE 3

4

Quali sono gli aspetti che distinguono maggiormente la filosofia «metafisica» da quella «positiva» nell’ottica di Comte? (max 4 righe)

MILL 5

L’EVOLUZIONISMO: DARWIN 6

7

E

SPENCER

In cosa consiste la «legge generale dell’evoluzione» enunciata da Spencer? Con quali ambiti della realtà essa ha a che fare? (max 4 righe) In che modo la teoria evoluzionistica porta Spencer ad abbracciare una visione politicosociale di stampo conservatore? (max 3 righe)

19

nisci tre caratteristiche distintive del linguaggio descrittivo e tre del linguaggio prescrittivo. (max 6 righe) 20

Che genere di variazioni coinvolge il processo della selezione naturale, così come descritto da Darwin in T26? In particolare, che ruolo gioca il ‘finalismo’ in tale contesto? (max 3 righe)

21

Quali prove o indizi possediamo riguardo alla sostanziale continuità tra intelligenza animale e intelligenza umana, stando a quanto afferma Darwin in T27? (max 4 righe)

22

Secondo quanto Spencer afferma in T29 la filosofia sarebbe una conoscenza collocata a un livello superiore rispetto alle altre scienze. In cosa consiste precisamente tale superiorità di livello? (max 2 righe)

23

Quale modello politico di Stato ti sembra più aderente a quanto sostiene Spencer in T33 riguardo al rapporto tra organismo individuale e organismo sociale? (max 3 righe)

Lavoriamo sui testi 8

Qual è il rapporto individuato da Saint-Simon in T1 riguardo al cammino percorso dalle scienze particolari da una parte e dalla filosofia dall’altra? (max 2 righe)

9

In che modo avvengono le spiegazioni dei fenomeni naturali nello stadio teologico dell’umanità, stando a quanto sostiene Comte in T3? (max 1 riga)

10

In che cosa consiste il carattere «bastardo» dello stadio metafisico secondo quanto Comte afferma in T4? (max 2 righe)

11

In che cosa consiste essenzialmente la conoscenza scientifica cui l’umanità perviene nello stadio positivo, secondo quanto Comte afferma in T5? (max 3 righe)

12

Come si configura l’opposizione tra ricerca delle ‘cause’ e formulazione di ‘leggi’ secondo quanto sostenuto da Comte in T6? (max 3 righe)

126

Prendendo spunto da quanto afferma Mill in T23 riguardo al rapporto tra scienza e arte, for-

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Unità 4 Marx 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Marx e il marxismo Tra teoria e politica La critica della politica Critica della religione come critica sociale L’economia politica e l’alienazione La concezione materialistica della storia La critica dell’economia politica Verso il comunismo Engels

♦ Sommario, Parole-chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Il manifesto del partito comunista ♦ Tesi a confronto: Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile? I testi K. Marx La questione ebraica: La scissione tra dimensione comunitaria e privata, T1; I diritti dell’uomo e l’egoismo, T2; Ricondurre la religione alle cause mondane, T3 Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: La religione come «oppio del popolo», T4; Il proletariato e la sua carica emancipativa, T5 Manoscritti economico-filosofici: Le leggi e i presupposti dell’economia politica, T6; Il lavoro come vita attiva, T7; Hegel: l’uomo come risultato del proprio lavoro, T8; Il prodotto del lavoro e l’annullamento dell’operaio, T9; Il lavoro alienato: mortificazione e perdita di sé, T10; Il comunismo come umanismo e come naturalismo, T11 Per la critica dell’economia politica: Struttura e sovrastruttura, T15; Dall’acuirsi delle contraddizioni alla rivoluzione, T16

Il capitale: I presupposti del capitalismo, T19; Iniziamo dalla merce…, T20; Il valore d’uso depositario materiale del valore di scambio, T21; Il rapporto di scambio delle merci, T22; Al di là del valore d’uso: il lavoro astratto, T23 Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica: La ricchezza umana, T26 K. Marx, F. Engels L’ideologia tedesca: La storia come successione di generazioni, T12, La produzione: base della storia e della specie umana, T13; Vita reale e coscienza, T14; Due condizioni della rivoluzione, T17; Il comunismo, T18 Il manifesto del partito comunista: L’assurdità delle crisi, T24; La storia è storia di lotte di classi, T25

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

1

Il «marxismo»

Il marxismo e la realtà storica

«Marxiano» e «marxista»

➥ Sommario, p. 164

2 Gli studi e il giornalismo

128

Marx e il marxismo Ci sono molti motivi per ritenere Karl Marx una figura peculiare, e per considerare di genere particolare anche la sua riflessione teorica. La vastità e la profondità della sua influenza storica ne fanno infatti un pensatore difficilmente confrontabile con altri, anche se certo Marx è stato, tra l’altro, anche un classico della storia della filosofia, tra i pensatori maggiori della filosofia dell’Ottocento. La peculiarità di cui si parla nasce già dalla constatazione che al pensiero di Marx si è ispirato tutto un filone di idee, nei campi più diversi, e un progetto politico, che sono andati sotto il nome di «marxismo». Dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, il marxismo è stato una delle correnti di pensiero al centro della vita intellettuale, agendo sì in filosofia, politica ed economia, ma anche in altre discipline, dall’estetica all’antropologia. Non è esagerato dire che per circa un secolo si è riflettuto, scritto e (in politica) agito pro o contro Marx e il marxismo. La stessa realtà storica ha incarnato, per un certo periodo, questo conflitto, negli anni della divisione del mondo in zone d’influenza, dopo la Seconda guerra mondiale: durante la cosiddetta «guerra fredda», l’Unione Sovietica stava (a ragione o a torto che fosse) sotto l’egida del pensiero di Marx, mentre il mondo occidentale si caratterizzava anche per contrapposizione. Non è tutto qui, evidentemente. Se nell’Unione Sovietica e nei Paesi sotto la sua influenza una sorta di marxismo sclerotizzato e scolastico costituiva l’ideologia ufficiale del potere politico, al di fuori di quei Paesi, sia in Occidente sia in esperienze specifiche di continenti extraeuropei, il marxismo contribuiva in modo non secondario alla crescita culturale dei Paesi più diversi e, parallelamente, costituiva la principale matrice teorica dei partiti e dei movimenti che perseguissero un ideale di uguaglianza sociale. Detto questo, e chiarito quanto poco «accademica» sia la discussione sul pensiero di Marx, anche per capire la sua filosofia è importante tornare innanzitutto ai suoi testi, liberandoli, per quanto possibile, dalle stratificazioni che la tradizione – anche marxista – vi ha costruito sopra, e cercando di intenderne il significato nella tradizione filosofica e in particolare nella storia dell’analisi della società. Per dirla con una formula: ciò che è di Marx, «marxiano», non necessariamente è entrato nella tradizione marxista, e soprattutto ciò che è «marxista» non ha necessariamente la sua origine nella riflessione di Marx.

Tra teoria e politica Partito da studi giuridici per volere del padre, passato poi agli studi di filosofia, di storia e di economia, Marx nel corso della vita adegua il proprio bagaglio culturale e le proprie letture all’intento di analizzare in profondità la società capitalistica. In filosofia, Marx viene colpito dal pensiero hegeliano e dai dibattiti che su di esso, tra religione e politica, vanno facendo in Germania le correnti che dal pensiero di Hegel traggono spunto. Rinunciando per motivi politici – già autori come gli hegeliani di sinistra Bauer e Feuerbach avevano avuto difficoltà – a una carriera accademica, Marx si dedi-

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Unità 4 Marx

ca al giornalismo, attività che per tutta la vita accompagnerà i suoi studi e la sua ricerca e che sarà l’unica risorsa, insieme con gli aiuti dell’amico Friedrich Engels (vedi sotto, p. 162 s.), per le precarie condizioni economiche della sua famiglia. Un tratto caratteristico, nella biografia del filosofo tedesco, è l’enorme capacità di lavoro e di assimilazione delle letture, ampiamente testimoniata dalle sue opere. Qui troviamo i segni non solo di una grande acutezza, ma anche di una notevole erudizione nelle materie più diverse, come appare chiaro anche solo a scorrere le note del capolavoro di Marx, Il capitale. La sua figura colpisce, del resto, anche i contemporanei, almeno a sentire il giovane hegeliano, e comunista, Moses Hess (1812-1875), che gli dedica questa descrizione entusiastica. Il più grande, forse l’unico, vero filosofo vivente, che ben presto attirerà su di sé gli sguardi di tutta la Germania, il dottor Marx, darà il colpo di grazia alla religione e alla politica medioevali. Egli unisce la più profonda serietà filosofica allo spirito più mordace. Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona – dico fusi, non affiancati – e avrai il dottor Marx.

Marx è anche uno dei pensatori per i quali la pubblicazione delle opere avverrà in buona parte dopo la morte, certo anche per una sua ritrosia a rendere pubblici testi che non ritenesse compiuti anche dal punto di vista formale. Questa caratteristica fa sì che l’immagine di Marx che hanno i suoi contemporanei sia ben diversa da quella che si è avuta nel corso dei decenni successivi, fino ai nostri giorni. Testi che oggi riteniamo essenziali per capire le sue teorie sono stati pubblicati postumi, come gran parte del Capitale (in vita, Marx riuscì a pubblicare soltanto il primo libro), ma non solo: basti menzionare scritti giovanili come i Manoscritti economico-filosofici, stesi a Parigi ed essenziali per la nozione di alienazione, l’Ideologia tedesca, che contiene la prima e più ampia formulazione della concezione materialistica della storia, o la gran mole di manoscritti stesi tra il 1857 e il 1859 e poi intitolati Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, i cosiddetti Grundrisse. In questi manoscritti si trovano testi di grande interesse, come per esempio l’unico scritto di Marx di tipo metodologico (la cosiddetta Introduzione del 1857) o la parte sulle forme di società che precedono il capitalismo. L’attività politica Oltre che studioso e filosofo, Marx è però anche uomo politico, autore, con Ene l’esilio londinese gels, di uno dei più brillanti pamphlet politici di tutti i tempi, il Manifesto del partito comunista, e infaticabile organizzatore del movimento comunista internazionale. Sempre attivo, ancora nel 1864 fonda l’Associazione internazionale dei lavoratori, anche se dopo il 1850, cioè dopo il brutto colpo ricevuto con il fallimento dei moti del 1848-1849, il forzato esilio a Londra segna anche la decisione di dedicarsi prevalentemente agli studi, come farà, con grande passione, nel➥ Sommario, p. 164 le sale del British Museum londinese. Gli scritti postumi e la loro ricezione

La vita e le opere Karl Marx nacque a Treviri (Renania prussiana, Germania) nel 1818. Il padre era un avvocato di famiglia ebrea convertito al protestantesimo e gli impartì un’educazione liberale. Nel 1835, a diciassette anni, seguì le orme paterne e si iscrisse a giurisprudenza all’università di Bonn. Si spostò poi a Berlino, dove restò quattro anni,

frequentando un circolo di giovani hegeliani e approfondendo così lo studio della filosofia di Hegel. Si laureò in filosofia, nel 1841, con una tesi su Democrito ed Epicuro, presentata nell’università di Jena. Proseguì intanto il rapporto decennale con Jenny von Westphalen, giovane baronessa figlia di un consigliere del governo, che, nonostante i contrasti familiari, sposò, e con

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

la quale condivise l’intera esistenza. Abbandonata l’ipotesi della carriera accademica, si dedicò al giornalismo, scrisse numerosi articoli e divenne caporedattore della «Gazzetta renana», nel 1842; l’anno successivo il giornale fu interdetto dal governo e Marx si trasferì a Parigi. A Parigi, nel 1844, pubblicò nel primo e unico numero degli «Annali franco-tedeschi», che diresse, La questione ebraica e Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione; scrisse inoltre i Manoscritti economicofilosofici, che furono pubblicati postumi. Nella capitale francese strinse una forte amicizia con Engels, che durò per tutta la vita. L’anno successivo, ormai trasferitosi a Bruxelles, compose insieme a Engels la Sacra famiglia. Il definitivo distacco dall’idealismo e da Feuerbach prese quindi corpo nelle Tesi su Feuerbach e poi nella Ideologia tedesca, scritta insieme a Engels nel 1845-1846, ma pubblicata postuma. Marx era ormai giunto alla concezione materialistica della storia. Nel 1847 pubblicò La miseria della filosofia, che sancì il distacco dal socialismo utopistico, e scrisse insieme a Engels, per incarico dalla Lega dei comunisti, il Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra nel 1848. Sull’onda dei moti rivoluzionari del 1848, venne espulso dal Belgio; rientrato a Colonia, fondò la «Nuova Gazzetta Renana», e fu rapidamente espulso dalla stessa Germania l’anno successivo. Rifugiatosi a Parigi, preferì però Londra a un asilo politico mortificante: sbarcò in Inghilterra nel 1849 e vi si

3 I primi scritti

stabilì definitivamente. Scrisse numerosi articoli e si impegnò attivamente nella Lega dei comunisti fino al suo scioglimento, nel 1851. Da questo momento Marx si dedicò intensamente agli studi, frequentando il British Museum, collaborò per due anni al «New York Tribune» e, non da ultimo, cercò di risolvere i sempre più pressanti bisogni economici della sua numerosa famiglia, rispetto ai quali il generoso sostegno di Engels cominciò a essere insufficiente. Sempre più dedito agli studi economici, nel 1857-1859 scrisse i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, i cosiddetti Grundrisse, pubblicati postumi, mentre nel 1859 dette alle stampe Per la critica dell’economia politica. Nel 1864 venne fondata l’Associazione internazionale dei lavoratori, della quale Marx assunse la direzione; negli anni seguenti si dedicò alla stesura del Capitale, il cui primo libro venne edito nel 1867, mentre gli altri uscirono postumi a cura di Engels. Per l’Internazionale scrisse poi due Indirizzi sulla guerra franco-prussiana (1870) e La guerra civile in Francia (1871); nel 1875 affrontò l’anarchismo in Appunti sul libro di Bakunin «Stato e Anarchia» e scrisse il breve ma denso articolo Critica al programma di Gotha, in cui criticò il programma del Partito operaio socialdemocratico tedesco. Nel 1881 morì la moglie, ammalata di vaiolo, dopo che i due avevano già perso tre figli; Marx la seguì dopo due anni.

La critica della politica I primi scritti di Marx, anche quelli pubblicati postumi, sono di grande importanza per capire la genesi della sua filosofia e il quadro concettuale da cui egli prende le mosse. Il periodo che va dalla tesi di dottorato fino all’elaborazione della concezione materialistica della storia – nell’Ideologia tedesca – è un periodo di grande fermento, durante il quale Marx si sofferma sui temi che, sviluppati, rimarranno importanti nella sua concezione della società e della storia. Rientrano in questa prospettiva il rapporto tra Stato e società civile; il primo confronto con l’economia politica, ossia la scienza che studia il sistema di produzione della ricchezza e i suoi legami con la vita sociale e politica; la focalizzazione della questione del lavoro salariato; la delineazione del comunismo come soluzione delle contraddizioni sociali.

Stato e società civile L’analisi critica del rapporto tra Stato e società civile, sulla scia di Hegel, costituisce il punto di partenza del giovane Marx e l’oggetto privilegiato dei suoi primi scritti: a partire da qui, egli approderà in pochi anni alla sua concezione matura. 130

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Unità 4 Marx Hegel: le tensioni della società civile si risolvono nello Stato

Marx: gli istituti giuridici e lo Stato dipendono dall’economia, vera ossatura della società civile

La separazione di Hegel tra Stato e società civile diventa in Marx contraddizione

Stato e diritti politici in Hegel

Dal suffragio universale al comunismo

Come abbiamo visto, una delle grandi intuizioni della Filosofia del diritto di Hegel consiste nell’aver compreso che nella società moderna si compie la separazione dello Stato politico dalla società civile, ovvero dalla società intesa come luogo del lavoro e, in generale, dell’attività economica. In realtà, l’intento di Hegel è risolvere proprio nello Stato le tensioni e le contraddizioni della società, che lui stesso non manca di segnalare. E non solo. Si è visto che la ricomposizione della frammentazione del mondo dell’economia, e dei suoi rischi, comincia per Hegel già all’interno della società civile, grazie a quelle istituzioni (le corporazioni, l’amministrazione della giustizia ecc.) che ne limitano il carattere di dispersione e di frammentazione. L’atomismo e l’individualismo egoistico della società come «sistema dei bisogni» vengono così protetti, ma anche limitati, perché sottoposti a regole, a leggi, e a strutture organizzative come la corporazione. Proprio qui sta una differenza notevole tra Marx e Hegel: se Hegel intende la società civile come un complesso nel quale, oltre all’attività economica, sono presenti istituti giuridici che portano un primo parziale ordine nel mondo degli interessi economici egoistici, Marx darà all’espressione «società civile» una curvatura diversa. L’interpretazione di Marx tende a esaurire il significato della società civile nelle relazioni economico-sociali, e quindi nel mondo dei bisogni e del lavoro, e questa interpretazione non è tanto frutto di un fraintendimento, quanto di una scelta consapevole. Per Marx, in realtà, gli istituti giuridici (e non solo quelli, come vedremo) dipendono dalle relazioni economico-sociali e ne sono l’espressione, per cui è abbastanza comprensibile che il significato della «società» tenda a esaurirsi nella sfera economica, e rimangano del tutto sullo sfondo, fino a sparire, altre caratteristiche di essa, viste come secondarie. L’importanza esclusiva dell’aspetto economico e sociale nella considerazione della società civile si estende del resto, nel pensiero di Marx, anche al di fuori di essa, nei confronti dello Stato, che diventa anch’esso qualcosa di dipendente dalla società. Con la maturazione della concezione materialistica della storia, poi, la struttura economica della società diventerà la chiave per interpretare la dinamica storica e di conseguenza tutti i fenomeni della vita sociale, non solo quelli giuridici e politici. Detto altrimenti: della coppia società / Stato, Marx privilegia nettamente, rispetto a Hegel, la società. La separazione tra Stato e società civile che nella Filosofia del diritto di Hegel finiva per risolversi nel momento superiore dello Stato, dove l’universalità di questo acquistava concretezza anche attraverso l’esistenza e l’attività dei suoi cittadini, ma senza esaurirsi nella loro somma, diventa in Marx già nel suo primo scritto Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel (redatto probabilmente nel 1842-1843, e pubblicato postumo) non una semplice separazione, ma una vera e propria contraddizione: un’opposizione reale tra gli interessi e le aspirazioni della società (mondo del lavoro e dei bisogni come abbiamo visto) e l’organizzazione politica e legislativa. Per comprendere fino in fondo i motivi di questa critica marxiana occorre ricordare che nello Stato hegeliano i diritti politici sono limitati e strettamente collegati con l’appartenenza a uno stato o ceto: il diritto elettorale in particolare appartiene solo a chi dimostra ‘senso dello Stato’ o per la funzione che svolge o per come agisce o ha agito; quindi non è un diritto per tutti. In questa sua prima opera, Marx ha posizioni politiche democratiche che suggeriscono una soluzione di questa contraddizione attraverso la politica, ovvero at131

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

traverso il suffragio universale (che fa sì che tutta la società abbia un’esistenza politica, e quindi che sfera sociale e sfera politica non siano più separate), ma ben presto la sua posizione diventa più radicale. Nei due scritti successivi che hanno ancora per oggetto questo problema, entrambi pubblicati negli «Annali franco-tedeschi» del 1844 (La questione ebraica e una breve Introduzione al progettato, già menzionato scritto Per la critica della filosofia del diritto di Hegel) la diagnosi marxiana si è approfondita e ha spostato l’attenzione sulla radicalità della scissione tra Stato e società e sugli effetti negativi di questa scissione per gli individui: è in queste pagine che diviene esplicita l’adesione di Marx al comunismo. Stato e società civile in Hegel e Marx

Hegel

Marx

Nella società civile ci sono istituzioni (ceti, corporazioni ecc.) che limitano i contrasti economici

La società civile è solo il luogo delle relazioni economico-sociali (mondo dei bisogni e del lavoro)

Società civile come ‘momento’ dell’evoluzione verso lo Stato

Società civile come sfera economica che fonda tutte le altre, compreso lo Stato

Le tensioni e le contraddizioni della società civile si ricompongono nello Stato

La contraddizione tra società civile e Stato non può risolversi

Modello di Stato costituzionale ma con diritti politici limitati

Prima soluzione, solo politica: suffragio universale

Seconda soluzione, più radicale: comunismo

La critica della tradizione liberale e dell’individualismo Un’uguaglianza soltanto apparente

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Marx pensa, dopo l’adesione al comunismo, che anche nel caso in cui il patrimonio, la proprietà privata, non fossero più qualcosa di politicamente e giuridicamente rilevante (poiché: i cittadini sarebbero uguali di fronte alla legge, ci sarebbe il suffragio universale e i cittadini avrebbero anche un uguale status politico: tutti possono eleggere ed essere eletti), questo apparente carattere universale di ogni singolo cittadino come citoyen, come membro della comunità politica, confliggerebbe con la sua dimensione sociale, concreta, di uomo della società civile fondata sui rapporti economici, di uomo cioè in condizioni sociali

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Unità 4 Marx

specifiche di commerciante o di salariato, di individuo concretamente vivente nella società, di borghese (bourgeois). Disuguaglianza L’universalità del cittadino dello Stato moderno è dunque un’universalità immae conflitto ginaria, al contrario di quanto pensava Hegel, perché questa universalità non tra gli individui coincide e non è compatibile, ma confligge con la realtà privatistica, egoistica e atomizzata della società civile. Il cittadino dello Stato è astrattamente uguale a tutti gli altri cittadini come membri della medesima comunità, mentre nella vita concreta vige la disuguaglianza e il conflitto di individui che cercano ciascuno il proprio tornaconto. La contraddizione tra Stato e società civile, tipica dello Stato sviluppato moderno, si riflette quindi nella coscienza di ciascun individuo, che è scisso tra due realtà.

T1

La scissione tra dimensione comunitaria e privata K. Marx, La questione ebraica

L’uomo ridotto a mero strumento dell’interesse economico

Critica del liberalismo: l’uomo non è una monade

L’uomo e il cittadino

Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente che appartiene alla comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. Alla società civile lo Stato politico si rapporta nel modo spiritualistico in cui il cielo si rapporta alla terra. Emergono nelle pagine della Questione ebraica da un lato, una caratterizzazione antropologica dell’uomo moderno, scisso in realtà diverse, tra loro opposte, dall’altro, il carattere strumentale della relazione tra gli uomini come soggetti dell’attività economica: ciascun individuo non solo considera gli altri come semplici mezzi attraverso cui realizzare e soddisfare i propri bisogni, ma vede al medesimo modo anche se stesso, come semplice strumento di altri. Dimensione privata, cioè particolare, e dimensione pubblica, cioè universale, sono quindi contrapposte: è questo lo sfondo sul quale Marx – nella Questione ebraica – muove la sua critica alla tradizione liberale e in particolare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nata dalle rivoluzioni americana e francese. Qui emerge con chiarezza, a parere di Marx, l’opposizione tra le due caratterizzazioni di uomo e di cittadino ma anche, al tempo stesso, la dipendenza del secondo, il cittadino, dal primo, l’uomo, dal momento che il termine «uomo» nasconde un soggetto determinato. L’uomo del quale si parla nella Dichiarazione come dell’uomo in generale, è in realtà l’uomo come membro della società civile, come soggetto della vita economica, ancora come bourgeois la cui libertà è innanzitutto diritto alla proprietà privata, diritto a poterla utilizzare senza tenere alcun conto degli altri uomini: questi ultimi costituiscono non il termine grazie al quale si possa realizzare la libertà, ma piuttosto un limite della libertà. Per Marx, ogni uomo è visto, nella Dichiarazione dei diritti come anche nei testi che ad essa si ispirano, semplicemente come una monade, un individuo isolato e chiuso in sé il cui principale carattere non può essere che l’egoismo. Si perde così la dimensione comune di appartenenza alla specie umana, ciò per cui ogni uomo è un ente che appartiene alla specie, una terminologia che rimanda a Feuerbach. 133

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

T2

I diritti dell’uomo e l’egoismo

K. Marx, La questione ebraica

Critica dell’individualismo

➥ Sommario, p. 164

4 Marx: la critica della religione della Sinistra hegeliana è insufficiente

➥ Percorso tematico, p. 225

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Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come ente che appartiene alla specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la loro necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica. Nella Questione ebraica, oltre al tema della dipendenza della sfera giuridica e politica dalla sfera economica, dove la prima diventa il semplice strumento della seconda, ne troviamo un altro al quale Marx darà sviluppo negli anni successivi, e che ha una chiara derivazione hegeliana: la critica dell’individualismo e, in generale, di una certa rappresentazione dell’individuo moderno. Si tratta dello stesso errore che Marx rimprovererà negli anni successivi agli economisti politici come Smith o Ricardo: l’individuo viene rappresentato da questi come individuo isolato, dimenticando: 1) da un lato, che questo isolamento è l’astrazione dalla sua condizione reale, che è invece una condizione sociale; 2) dall’altro, che l’individuo appare isolato perché l’individualismo è la caratteristica della società civile come universo economico separato dallo Stato, ovvero della moderna società borghese, quindi è un prodotto storico, non una pretesa essenza eterna dell’individuo.

Critica della religione come critica sociale La sfera privata dell’uomo è innanzitutto la sfera dell’economia e del lavoro, ma non è soltanto questo: il tema dell’economia è già importante, per Marx, ma si intreccia con il problema principale della Sinistra hegeliana, la critica della religione. Marx polemizza infatti, nella Questione ebraica, con la prospettiva di Bruno Bauer: per Bauer, la soluzione della questione religiosa consiste, se non nella sparizione della religione, almeno nella sua relegazione nella sfera privata del cittadino. Lo Stato tedesco si proclama infatti Stato cristiano, scrive Bauer, e conserva alla religione una dimensione pubblica, politica, che limita ed esclude i diritti dei cittadini che non siano cristiani (come per esempio gli ebrei). Già qui Marx rileva il carattere limitato della critica dei giovani hegeliani come Bauer: la critica della religione è insufficiente, come è insufficiente la critica della religiosità dello Stato. Una volta abbandonata e lasciata la religione alla sfera privata, infatti, questa religiosità privata non farebbe che rappresentare un ennesimo aspetto della scissione dell’uomo tra sfera privata e sfera pubblica, tra società e Stato. Marx attacca così frontalmente uno dei capisaldi della Sinistra hegeliana, spostando l’attenzione dal fenomeno dell’alienazione religiosa alle cause e alla genesi della religione.

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T3

Ricondurre la religione alle cause mondane

K. Marx, La questione ebraica

La religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai soltanto il fenomeno della limitatezza mondana. Per questo, noi spieghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pregiudizio mondano. Non riteniamo che essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti mondani. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti mondani. Noi non trasformiamo le questioni mondane in questioni teologiche. Trasformiamo le questioni teologiche in questioni mondane. Dopo che per lungo tempo la storia è stata risolta in superstizione, noi risolviamo la superstizione in storia. La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione diviene per noi la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana.

L’emancipazione politica dalla religione, la rinuncia alla religiosità dello Stato, non è cioè un’emancipazione genuina, un’emancipazione completa, ma può essere, tutt’al più, un primo passo: l’emancipazione umana, e non solo politica, riguarda infatti la liberazione dell’uomo dalla religione attraverso la liberazione dell’uomo dalle cause che lo spingono a essere religioso. Oltre Feuerbach: La religione, dunque, non è più al centro dell’orizzonte, rimanda ad altro come religione e miseria sua causa e mostra una strada nuova per potere emanciparsi dalla stessa religioumana ne. L’emancipazione politica dello Stato, ovvero il mutare dello Stato da Stato cristiano a Stato privo di una caratterizzazione religiosa, come vorrebbe Bauer, è certo anche per Marx un progresso, una prima forma di emancipazione, ma non è ancora emancipazione umana. Prova ne sia, osserva Marx, che in Stati come il Nord-America, dove lo Stato non ha una caratterizzazione religiosa, la religione fiorisce nella vita privata. In realtà, è vero che la genesi della religione consiste, sulle tracce di Feuerbach, in una proiezione di caratteristiche umane, ma Marx va al di là dell’autore dell’Essenza del cristianesimo, e radica la necessità di questa proiezione nella miseria della realtà sociale e politica, come emerge con chiarezza da un brano della Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.

L’emancipazione umana come liberazione

T4

La religione come «oppio del popolo»

K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione

Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la 135

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola […] La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. Religione e critica sociale e politica

Dato che la religione rimanda al di là di sé, alla miseria terrena, così la critica della religione, che ha caratterizzato tutti i pensatori della Sinistra hegeliana, rimanda in Marx alla critica della società terrena. In realtà, quindi, l’esame della contraddizione tra società civile e Stato, e della scissione dell’uomo tra dimensione privata e dimensione pubblica, si incontra con la critica della religione, che non è più semplice critica della religione ma critica, appunto, sociale e politica.

Critica della religione

Bauer

Marx

Lo Stato non deve essere religioso e la religione deve venir relegata alla sfera privata, individuale

La religione deve essere ricondotta alle sue cause sociali L’emancipazione religiosa deve diventare emancipazione dalle condizioni di miseria reale dalle quali nasce

Filosofia e prassi La «critica» (un termine del quale hanno abusato per Marx tutti i pensatori della Sinistra hegeliana, e soprattutto Bruno Bauer) deve per Marx modificare la propria natura e diventare una serrata critica delle condizioni storiche tedesche, della loro arretratezza rispetto a quelle degli altri Paesi. Si aprono così nuove possibilità per la filosofia, che costituisce per i tedeschi lo stesso progresso, lo stesso avanzamento che gli altri Paesi, a partire dalla Francia con la rivoluzione, hanno compiuto sul terreno della vita reale. La Germania è stata la «coscienza teorica» dei Paesi europei, ed è ora giunto il momento di realizzare la filosofia attraverso la prassi: l’arma della critica non può sostituire, scrive Marx, la critica delle armi, ma «anche una teoria diventa una forza materiale non appena si impadronisce delle masse». Questa energia della teoria è una forza che costituisce l’esito della critica della religione, da un lato, e della critica della filosofia del diritto speculativa (cioè: di Hegel), dall’altro. La teoria è ora in grado di realizzare un’indicazione pratica, di produrre un effettivo cambiamento: «La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, pp. 197-198). Dalla filosofia Per Marx, quindi, in una prospettiva che per questo aspetto rimane costante nel alla prassi suo pensiero, è la prassi ciò che permette il superamento delle contraddizioni e

Critica, teoria e prassi

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Unità 4 Marx

Il proletariato: protagonista della prassi rivoluzionaria

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Il proletariato e la sua carica emancipativa

K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione

➥ Sommario, p. 164

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in particolare, in questo momento della sua biografia intellettuale, la specifica contraddizione tra Stato e società civile. L’illusione della filosofia tedesca è stata quella di cercare di risolvere le contraddizioni prima, con Hegel, attraverso un’astratta filosofia speculativa, poi, con la Sinistra hegeliana, e sempre rimanendo su un piano soltanto teorico, attraverso la critica della religione. Non ci si è mai spinti, quindi, alla radice del problema, che è questione sociale, e non si è saputa indicare la strada della prassi come portatrice di un’emancipazione reale, umana. Individuate le condizioni di una prassi rivoluzionaria, Marx può ora indicare quale debba essere il soggetto di questa prassi, chi possa cioè assumersi questo compito di restituire l’uomo all’uomo, di liberare dalla miseria mondana. Il soggetto che Marx individua è nella sua prospettiva l’unico soggetto della società in grado di andare al di là della dimensione particolaristica, egoistica e privata che pure è caratteristica della società civile: si deve trattare, insomma, di un soggetto che pur avendo una concretezza particolare sia in grado di rappresentare gli interessi generali, sia in grado cioè di rappresentare la coincidenza tra particolarità e universalità. Questo soggetto, per Marx, è il proletariato come soggetto storico che realizza la filosofia. La filosofia è la testa dell’emancipazione, mentre il proletariato ne costituisce il cuore, ovvero l’energia pratica. Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile che non sia una classe della società civile, di un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera che per i suoi patimenti universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitata non una ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro, che non può più appellarsi ad un titolo storico, ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale con tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società, e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo recupero dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato.

L’economia politica e l’alienazione

Si è fatto riferimento a una perdita dell’uomo, a una sorta di disumanizzazione dell’uomo nella società borghese, nella società del lavoro. Questo sarà un tema centrale dei Manoscritti economico-filosofici, stesi da Marx nel soggiorno parigino del 1844: è la prima opera di grande impegno, che però Marx non pubblica. A Parigi, Marx frequenta le associazioni socialiste e comuniste, legge opere storiche (in particolare sulla Rivoluzione francese) e, soprattutto, comincia ad affrontare l’economia politica, un tema che approfondirà negli anni successivi. Lo studio dell’economia Tra i fattori che inducono Marx a confrontarsi con la recente disciplina dell’ecopolitica e l’amicizia nomia politica di Jean-Baptiste Say (1767-1832), di Smith e di Ricardo va ricorcon Engels data la lettura di un saggio di Engels, intitolato Abbozzo di una critica dell’ecoI Manoscritti economico-filosofici

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Motivi teorici dell’interesse per l’economia politica

Le intuizioni e i temi dei Manoscritti

I Manoscritti economico-filosofici

Il confronto con gli economisti politici classici

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nomia politica, apparso anch’esso negli «Annali franco-tedeschi» del 1844: anche in seguito a questa lettura, comincia proprio a Parigi un sodalizio che durerà fino alla fine della vita di Marx. Al di là dell’occasione biografica, c’è però un motivo più profondo che spinge Marx verso l’economia politica: la necessità di approfondire lo studio della società e della sua dinamica. Una volta giunto alla conclusione della priorità della società civile sullo Stato, e della necessità di muovere dall’analisi critica della società (anche e soprattutto in vista della sua trasformazione), è la stessa interpretazione marxiana della società civile come sistema dei bisogni che induce a prestare attenzione all’economia politica. Oltretutto, Marx è troppo buon lettore di Hegel per non ricordare che la stessa Filosofia del diritto aveva individuato nell’economia politica la scienza che coglie le leggi generali di funzionamento del «sistema dei bisogni» della società civile, pur nell’apparente caos di una frammentazione sociale. Nei Manoscritti, il carattere di tensione e di contraddizione della società civile, messo in luce da Marx in questi anni, e la soluzione del quale dovrà essere, lo si è visto, pratica, richiede un’attitudine critica nei confronti dell’economia politica che non accetti né come eterne e assolute né come scontate le categorie della proprietà privata, del lavoro salariato, del profitto e così via. Allo stesso tempo, si tratta di chiarire il proprio rapporto con Hegel, utilizzando anche l’esito per Marx più riuscito, e per ora ancora convincente, della Sinistra hegeliana: la filosofia di Feuerbach. I diversi elementi che tenderanno nel corso del tempo a saldarsi e a fondersi, nel pensiero di Marx, primi tra tutti la critica dell’economia politica e il confronto con la filosofia, sono già in opera nei Manoscritti, anche se rimangono qui allo stato di abbozzo e, soprattutto, giustapposti l’uno all’altro. Ma si tratta in gran parte degli stessi elementi che costituiranno il tessuto delle opere successive, quando Marx acquisirà quella concezione materialistica della storia che già nei Manoscritti viene delineata, pur se non sviluppata, come si vede dal brano seguente: «La religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte, ecc. non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale». Nei Manoscritti, Marx affronta vari temi: la critica dell’economia politica, l’alienazione del lavoro salariato come espressione e al tempo stesso fondamento della proprietà privata di tipo capitalistico, l’orizzonte del comunismo come soppressione dell’alienazione.

1. Critica dell’economia politica

2. Alienazione del lavoro come espressione e fondamento della proprietà privata di tipo capitalistico

3. Comunismo come soppressione dell’alienazione

Il primo tema, il confronto con l’economia politica ha un carattere duplice: se da un lato utilizza ampiamente la trattazione degli economisti politici classici (trascrivendone anche ampie parti), dall’altro li critica costantemente. Si enunciano qui i problemi, e i temi, che riceveranno uno sviluppo pieno nel Capitale, a partire dalla nozione della «merce», centrale nella produzione capitalistica, che caratterizza anche la condizione del lavoro salariato.

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Le leggi e i presupposti dell’economia politica K. Marx, Manoscritti economico-filosofici

Gli elementi problematici del capitalismo e la polarizzazione tra proprietari e operai

Elementi fondanti e sviluppo del capitalismo

Noi siamo partiti dai presupposti dell’economia politica. Abbiamo accettato la sua lingua e le sue leggi. Abbiamo preso in considerazione la proprietà privata, la separazione tra lavoro, capitale e terra, ed anche tra salario, profitto del capitale e rendita fondiaria, come pure la divisione del lavoro, la concorrenza, il concetto di valore di scambio, ecc. Partendo dalla stessa economia politica, e valendoci delle sue stesse parole, abbiamo mostrato che l’operaio decade a merce, alla più misera delle merci, che la miseria dell’operaio sta in rapporto inverso con la potenza e la quantità della sua produzione, che il risultato necessario della concorrenza è l’accumulazione del capitale in poche mani, e quindi la più terribile ricostituzione del monopolio, che infine scompare la differenza tra capitalista e proprietario fondiario, così come scompare la differenza tra contadino e operaio di fabbrica, e tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà. L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Ma non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata quale si rivela nella realtà, ma lo coglie in formule generali, astratte, che hanno per essa il valore di leggi. I protagonisti della dinamica economico-sociale ci sono già tutti, e soprattutto sono già chiari a Marx gli elementi problematici del capitalismo: divisione del lavoro, opposizione degli interessi tra capitale e lavoro salariato, impoverimento progressivo dell’operaio, concentrazione del capitale e scomparsa dei capitalisti più piccoli e di una vera concorrenza, in favore di monopoli, polarizzazione della società nelle due classi antagonistiche dei capitalisti e degli operai. La divisione della società in proprietari e coloro che sono privi di proprietà tende infatti a diventare esaustiva, per Marx: così, i proprietari fondiari (coloro che hanno una rendita mettendo a disposizione le terre per i capitalisti) diventeranno progressivamente capitalisti loro stessi e i contadini diventeranno anch’essi operai. In questo modo la società capitalistica tende a polarizzarsi in due sole classi contrapposte: i proprietari e gli operai senza proprietà.

1. Divisione del lavoro

2. Opposizione tra interessi del capitale e lavoro salariato

3. Impoverimento progressivo dell’operaio

4. Tendenza al monopolio

La società si polarizza sempre più in due sfere antagoniste

Capitalisti

Dall’economia politica alla sua «critica»

Antagonismo

Operai

Marx ritiene che l’economia politica, pur avendo in gran parte compreso la realtà del capitale, non ne capisce la genesi e non è in grado di chiarirne alcuni aspetti perché è priva di capacità critica. È questo, e lo sarà anche successivamente, il significato dell’espressione «critica dell’economia politica», che costituisce uno dei fili conduttori dei Manoscritti, che darà il titolo all’opera pubblicata da Marx nel 1859 (Per la critica dell’economia politica) e che costituirà anche il sottotitolo del Capitale. 139

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Il lavoro salariato come lavoro alienato Una delle parti più sviluppate dei Manoscritti, e più giustamente famose, è quella dedicata al lavoro estraniato o alienato, in cui Marx riprende da Hegel e da Feuerbach i concetti di alienazione e di estraniazione, per tradurli nel proprio quadro teorico. Proprio sul tema del lavoro, del resto, Marx si discosta dall’economia politica classica, che intende il lavoro nella società capitalistica come fatto naturale. Per lui, al contrario, il lavoro salariato è lavoro alienato, separato, alienato proprio innanzitutto dalla sua dimensione naturale. Siamo sulle tracce di Hegel, ma per Hegel il lavoro costituisce un processo di oggettivazione che è strutturalmente un processo di estraniazione e di alienazione, verso il quale non v’è da assumere alcuna posizione critica, ma soltanto comprenderlo come momento del processo complessivo. Diversa è l’analisi di Marx, pur se il punto di partenza è comune. Il lavoro come Per Marx, il lavoro costituisce sì un processo di oggettivazione, ma estraniazione realizzazione dell’uomo e alienazione sono un fatto storico legato al lavoro della società capitalistica, che può, e deve, essere superato. Va tenuto presente che Marx ha una visione del lavoro umano estremamente positiva, come realizzazione dell’uomo. Anche l’animale produce, ma l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto: il lavoro come oggettivazione è una forma di realizzazione dell’uomo, e ne costituisce una caratteristica peculiare in quanto «essere che appartiene ad una determinata specie», come scrive Marx utilizzando anche qui la terminologia di Feuerbach. La critica del lavoro estraniato o alienato

T7

Il lavoro come vita attiva K. Marx, Manoscritti economico-filosofici

Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l’uomo si mostra quindi realmente come essere appartenente ad una specie. Questa produzione è la sua vita attiva come essere appartenente ad una specie. Mediante essa la sua natura appare come la sua opera e la sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato.

Il modello teorico hegeliano, con il movimento dell’alienazione o estraniazione, è ben presente sia in Feuerbach sia in Marx, ma in entrambi è accompagnato, in modi diversi, da forti accenti critici nei confronti del filosofo della Fenomenologia dello spirito. La critica del In realtà, l’alienazione ha due diversi aspetti. Innanzitutto, essa indica il ‘movimisticismo di Hegel mento’ dell’Idea che dà origine alla realtà e riguarda anche per Marx, come per Feuerbach, la stessa astrazione idealistica come caposaldo della filosofia di Hegel: è un tema al quale Marx aveva accennato anche altrove, criticando il «misticismo logico» di Hegel. Nella Critica alla filosofia del diritto, infatti, Marx definisce il sistema di Hegel come dominato da un «misticismo logico, panteistico», intendendo con questa espressione la scelta hegeliana di porre come origine, motore, fine della realtà un ente spirituale e assoluto, l’Idea, e di spiegare tutto ciò che esiste come una derivazione da essa attraverso delle leggi logiche e necessarie, che determinano anche i processi di alienazione ed estraniazione. Questa impostazione teorica fa sì, secondo Marx, che Hegel non prenda per oggetto della sua riflessione l’ente reale, ma ‘costringa’ l’ente reale all’interno delle leggi logiche: «Egli [Hegel] non sviluppa il suo pensiero secondo l’oggetto, bensì sviluppa l’oggetto secondo un pensiero in sé predisposto, e che è stato predisposto nell’astratta sfera della logiOltre Hegel

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Il materialismo di Feuerbach

Il comunismo come superamento dialettico dell’alienazione

ca». Dietro questa «mistificazione» della realtà Marx legge una falsa profondità, una tendenza «mistica» che trasforma delle astrazioni concettuali (l’Idea, il concetto ecc.) in enti reali, presenti e operanti a ogni livello della realtà: enti le cui caratteristiche e i cui poteri sono ‘divini’. In questa interpretazione la logica hegeliana ha, secondo lui, forti connotati teologici e un’intima tendenza panteistica. A parere di Marx, già Feuerbach ha capito, nella sua critica alla pretesa di Hegel di prendere le mosse dall’astrazione e di ritornare ad essa di nuovo a compimento del movimento del «concetto», che la filosofia di Hegel si muove in un orizzonte sostanzialmente teologico poiché irrimediabilmente astratto. Hegel parte infatti dalla religione e dalla teologia, contrappone ad esse il finito e il sensibile, ma infine torna alla religione e alla teologia sopprimendo il finito e il sensibile. Il vero materialismo e la scienza reale devono essere invece fondati, come ha mostrato Feuerbach, sulla concretezza dell’uomo, facendo poi del rapporto sociale tra gli uomini «il principio fondamentale della teoria». Per il secondo aspetto dell’alienazione, la critica a Hegel convive in Feuerbach e Marx con la sua eredità concettuale, con il permanere cioè di un movimento dialettico di alienazione e del suo superamento. L’alienazione religiosa consiste infatti per Feuerbach nella proiezione fuori di sé, in un Dio, delle qualità umane, e il superamento dell’alienazione consiste nel riconoscere questa proiezione e nel tornare all’uomo. Analogamente, nel caso di Marx, si tratta del superamento, del «toglimento» del lavoro alienato attraverso il comunismo.

Marx, Feurbach e l’alienazione

Alienazione in Hegel

Come ‘movimento’ dell’Idea che dà origine alla realtà: idealismo

Come movimento dialettico di alienazione e superamento

Criticata e respinta da Feuerbach e Marx

Accettata e usata sia da Feuerbach che da Marx

La matrice hegeliana della propria posizione non è del resto per nulla nascosta da Marx, e si accompagna al riconoscimento del peso della storia come «opera collettiva». In questo quadro, Marx inserisce ancora il tema della natura dell’uomo in quanto essere che appartiene a una specie e che attraverso il lavoro realizza se stesso.

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Hegel: l’uomo come risultato del proprio lavoro K. Marx, Manoscritti economico-filosofici

L’importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – sta dunque nel fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione dell’uomo come un processo, l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di questa alienazione; che in conseguenza egli intende l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro. Il comportamento reale, attivo dell’uomo con se stesso come essere che appartiene a una specie, o la attuazione di sé come essere reale appartenente a una specie, cioè come essere umano, è possibile soltanto quando egli esplica realmente tutte le forze proprie della sua specie. 141

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La separazione tra lavoratori e mezzi di produzione

Capitalismo e comunismo

Nei Manoscritti, la nozione di «lavoro alienato» corrisponde, in negativo, a quella della proprietà privata, ed è identificata con il lavoro salariato degli operai, ovvero di coloro che sono privi di proprietà. Come Marx spiegherà bene nel Capitale, condizione essenziale per il sorgere del capitalismo è la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione. Si tratta cioè dell’esistenza di una forza-lavoro potenziale, ovvero di individui privi di qualsiasi proprietà disposti a vendere la propria forza-lavoro, e della presenza di proprietari, ovvero di individui in grado di acquistare questa forza-lavoro (che è, lo vedremo, la «merce» caratteristica ed essenziale del processo di produzione capitalistico), cioè di utilizzarla nel processo produttivo. Per questo, il superamento dell’alienazione consiste nel superamento e nella soppressione della proprietà privata e, quindi, nel comunismo.

Capitalisti

Operai

Proprietari dei mezzi di produzione

Proprietari della propria forza-lavoro

Gli operai sono costretti a vendere la propria forza-lavoro ai capitalisti

Nel comunismo viene superata la separazione tra capitalisti e operai

L’alienazione come svalorizzazione del mondo umano L’alienazione del lavoro, che esprime la svalorizzazione del mondo umano di fronte alla valorizzazione del mondo delle cose, ha per Marx quattro aspetti, che riguardano rispettivamente: 1) il prodotto del lavoro, 2) la stessa attività lavorativa, 3) il rapporto con la specie umana e quindi con l’umanità del lavoratore, 4) il rapporto tra uomo e uomo. 1. Il rapporto tra Il primo aspetto consiste nel rapporto alienato tra l’operaio e il prodotto del suo l’operaio e il prodotto lavoro, un prodotto che non appartiene a lui, ma al datore di lavoro. I quattro aspetti dell’alienazione

T9

Il prodotto del lavoro e l’annullamento dell’operaio K. Marx, Manoscritti economico-filosofici

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[…] l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione. […] L’appropriazione dell’oggetto si presenta come estraniazione in tale modo

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che quanti più oggetti l’operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale. Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Il primo, centrale elemento dell’alienazione consiste proprio nella frattura che si attua nel lavoro salariato tra il lavoro come appropriazione, come modificazione della natura, come oggettivazione, e la proprietà del prodotto, che non è di chi lo ha realizzato con il suo lavoro. Il prodotto del proprio lavoro diventa cioè un prodotto che appartiene ad altri. 2. L’alienazione Di non minore importanza è il secondo aspetto dell’alienazione, quello che ridell’attività lavorativa guarda non il prodotto del lavoro, ma la stessa attività lavorativa, che dovrebbe essere un’attività tesa alla realizzazione di sé da parte dell’uomo, e che risulta invece essere il contrario.

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Il lavoro alienato: mortificazione e perdita di sé K. Marx, Manoscritti economico-filosofici

L’alienazione del lavoro […] consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato […] La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] è la perdita di sé.

Oltre a queste due fondamentali caratteristiche dell’alienazione, essa comprende per Marx, altri due aspetti. Innanzitutto, l’alienazione del lavoratore rispetto alla specie umana, alla propria umanità, in quanto le caratteristiche essenziali della specie che lo differenziano dagli animali, e che consisterebbero in un lavoro oggettivato (cioè in un lavoro che si realizza attraverso i propri prodotti) ma non alienato, vengono mutate nel loro contrario. 4. L’alienazione Infine, il lavoro alienato implica l’alienazione dei rapporti intersoggettivi, tra uomo dei rapporti sociali e uomo: il rapporto intersoggettivo del lavoro è un rapporto in cui un altro, un altro uomo, è proprietario del lavoro dell’operaio e del prodotto del lavoro, un altro uomo che, come il prodotto, diventa estraneo, ostile, indipendente da chi lavora.

3. L’alienazione rispetto alla specie umana

Il lavoro alienato

1. Alienazione del rapporto tra operaio e prodotto

A. Il prodotto appare come una perdita e un assoggettamento dell’operaio ad esso

B. L’appropriazione è per l’operaio estraniazione e alienazione perché egli, tanti più oggetti produce, tanti meno può possederne

2. Alienazione dell’attività lavorativa rispetto al lavoratore

3. Alienazione dell’attività lavorativa rispetto alla specie umana

4. Alienazione dei rapporti intersoggettivi

L’operaio è costretto a svolgere un lavoro nel quale, anziché realizzarsi, nega se stesso, si annulla in esso

Il lavoratore non realizza la propria umanità nel libero lavoro, quello che distingue l’uomo dagli animali

Il capitalista è proprietario del lavoro dell’operaio e del prodotto, divenendo così ostile ed estraneo ad esso

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il comunismo: l’uomo ritorna a se stesso

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Il comunismo come umanismo e come naturalismo K. Marx, Manoscritti economico-filosofici

➥ Sommario, p. 164

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Il superamento dell’alienazione consiste per Marx, come si è detto, nel comunismo. Di questo, Marx non chiarisce troppo i contorni (non lo farà mai, del resto), ma ne offre una caratterizzazione legata a una diversa immagine dell’uomo: nel comunismo, nella soppressione della proprietà privata, l’alienazione viene superata e l’uomo viene restituito a se stesso, secondo una «negazione della negazione» che ha anch’essa un chiaro segno hegeliano. Si tratta della realizzazione dell’uomo nella sua umanità, nella sua essenza di ente che appartiene alla specie umana e che si esprime attraverso un lavoro non alienato. Per quanto ancora in forma abbozzata, emerge già qui la tesi del comunismo come frutto di un movimento storico che contiene in sé e porta a compimento lo sviluppo storico e le contraddizioni che caratterizzano in particolare la società capitalistica. Al centro di questa prospettiva stanno l’umanesimo, come realizzazione di un uomo nuovo, e il naturalismo come istituzione di un nuovo rapporto con la natura, la cui appropriazione da parte dell’uomo non ha più luogo attraverso un rapporto di alienazione. Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, con il naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione. L’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del comunismo.

La concezione materialistica della storia

I Manoscritti economico-filosofici offrono una sorta di fondazione antropologica del comunismo attraverso l’analisi del lavoro alienato, ma tratteggiano anche una concezione della storia e, non da ultimo, indicano una strada della tradizione materialistica in filosofia abbastanza diversa dalle sue precedenti versioni, si tratti del materialismo settecentesco (che pure Marx vedrà poi come proprio precursore) o del materialismo di Feuerbach. La ricerca di una teoria Marx riflette infatti anche nei Manoscritti, come poi nelle Tesi su Feuerbach e un linguaggio nuovi (1845), nella Sacra famiglia (1845) e nella Ideologia tedesca, sulla necessità di dare alla propria impostazione materialistica una sua originalità, fondata prevalentemente su un’analisi non semplicistica del rapporto tra l’uomo e la natura. A questa riflessione si accompagna, nel maturare della sua posizione dopo i Manoscritti, l’abbandono di un linguaggio che gli proveniva prevalentemente dalla filosofia di Feuerbach e che includeva riferimenti a una essenza dell’uomo o alla delineazione, lo si è visto, di un nuovo umanesimo. Il materialismo di Marx

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Unità 4 Marx Trasformare il mondo

Il lato attivo dell’uomo e la modificazione della natura

La nuova dimensione pratica e storica del materialismo

L’«ideologia» come astrazione e come falsa coscienza

Si è già vista la necessità, per Marx, di dare una soluzione attraverso la prassi – la prassi rivoluzionaria – alle contraddizioni che caratterizzano la società borghese, e in effetti questo sarà il senso dell’undicesima Tesi su Feuerbach, che per l’appunto polemizza verso una filosofia che voglia soltanto interpretare il mondo e non voglia anche trasformarlo: «i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, – così suona l’affermazione marxiana – si tratta di trasformarlo». L’elemento attivo dell’uomo, però, il suo carattere eminentemente pratico, sono rilevanti nella stessa interpretazione marxiana del materialismo, e anche su questo punto Marx si contrappone a Feuerbach. Certo, Marx si muove all’interno di un orizzonte materialistico, per il quale la natura è la sola realtà e anche il solo elemento costitutivo degli esseri umani, e nel quale le possibilità della conoscenza sono innanzitutto di origine empirica. Questo atteggiamento materialistico di fondo, però, deve essere arricchito a parere di Marx di una considerazione più attenta al rapporto tra l’uomo e la natura, che tenga conto proprio del lato attivo dell’uomo. La natura, difatti, il mondo che sta di fronte all’uomo, non sono soltanto il suo luogo di nascita che lo condiziona e lo determina, anche se sicuramente sono anche questo. La natura, gli oggetti, sono anche ciò che viene modificato dall’uomo, ciò che sta con l’uomo, potremmo dire, in una relazione di azione reciproca. Paradossalmente, sostiene Marx nella prima Tesi su Feuerbach, il carattere attivo dell’uomo è stato colto dall’idealismo, seppure solo come attività dello Spirito, in polemica con il materialismo tradizionale: il materialismo deve ora colmare questa lacuna e rinnovarsi, integrando al proprio interno la dimensione pratica. L’inserimento di questo rinnovamento della prospettiva materialistica in una dimensione storica è un tassello non indifferente della concezione materialistica della storia che Marx esplicita nella Ideologia tedesca, il testo che segna il suo passaggio alla piena maturità e, secondo alcuni, costituisce una frattura nella sua biografia intellettuale tra un primo periodo, filosofico, e un secondo, scientifico. La formulazione della concezione materialistica della storia si accompagna, infatti, a un atteggiamento di forte critica della filosofia tedesca contemporanea, da Hegel alla Sinistra hegeliana, ritenuta nel suo complesso colpevole, come si è detto, o di muovere dall’astratto (come nel caso di Hegel), oppure di rimanere sul piano dell’analisi teorica, della filosofia invece di intraprendere la via della prassi. Una delle caratteristiche della posizione di Marx, soprattutto nella Ideologia tedesca, è difatti un atteggiamento di aperta polemica nei confronti della filosofia, ritenuta «ideologia». Il termine è nato in Francia alla fine del Settecento, con altro significato: indica una disciplina filosofica che deve fondare tutte le scienze indagando l’origine delle idee e le leggi in base alle quali si formano. Marx lo usa invece in altre accezioni: in un primo significato indica la «coscienza astratta» distante dalla vita reale e che ne implica il fraintendimento, poiché capovolge i rapporti reali. Questo primo significato, oltre che alla filosofia hegeliana e alle posizioni di molti esponenti della Sinistra, si attaglia, secondo Marx, anche alla religione (vedi sopra p. 135). In quanto espressione del malessere sociale, infatti, la religione esprime un atteggiamento critico verso la realtà, ma la sua soluzione al problema dell’oppressione sociale è inefficace, perché spinge gli uomini ad accettare il mondo così com’è invece che a operare per cambiarlo. In Marx si trova anche un secondo significato di «ideologia», intesa come «falsa coscienza», cioè come una posizione o una teoria che non solo fraintende la realtà ma cerca al tempo stesso di giustificarla e legittimarla. È il caso degli eco145

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

nomisti classici che vedono l’individuo come homo oeconomicus isolato, come Robinson Crusoe (per questo Marx parla ironicamente di «robinsonate»), perché rendono eterno e statico l’individualismo, che è, invece, un prodotto storico della società borghese: si tratta di un tipico caso di «ideologia» nel secondo senso appena descritto. L’ideologia in Marx

Primo significato

Secondo significato

Ideologia: «coscienza astratta», posizione astratta che fraintende i rapporti reali

Ideologia: «falsa coscienza» che non solo fraintende la realtà, ma cerca di giustificarla rendendo eterno ciò che è storico

La storia

La critica dell’idealismo: la storia non è storia dello Spirito né ha un fine

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La storia come successione di generazioni K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca

La natura: materia concreta della storia

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Ma la grande protagonista della nuova prospettiva marxiana è la storia, con la sua interpretazione «materialistica». Naturalmente, tra gli obiettivi polemici c’è Hegel, e l’idea che la storia sia costituita dal cammino dello Spirito. La filosofia di Marx è difatti segnata profondamente dalla lettura di Hegel, ma ciò che di Hegel non può essere accettato da Marx è proprio, e innanzitutto, il carattere idealistico del processo storico. La critica dell’idealismo prende poi di mira un altro aspetto della filosofia speculativa della storia, ovvero il suo aspetto finalistico (teleologico), che di rado viene attaccato negli scritti di Marx quanto nella Ideologia tedesca. L’accentuazione ‘empiristica’ di quest’opera, più volte rilevata dagli interpreti, porta infatti con sé, in questa occasione, il rifiuto netto ed esplicito di elementi finalistici nella considerazione della storia. La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente […]; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una «persona accanto ad altre persone» […] mentre ciò che viene designato come «destinazione», «scopo», «germe», «idea» della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva. La storia deve invece essere vista, per Marx, nella sua concretezza determinata, prendendo le mosse da uomini concreti che agiscono materialmente e che hanno uno specifico rapporto sia tra di loro sia con la natura: con quest’ultima, il rapporto è poi, come si è visto, duplice. Da un lato si è determinati da essa, si ha

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una certa costituzione naturale, dall’altra, però, l’uomo ha con la natura anche un rapporto attivo, perché la modifica e la trasforma continuamente. Al centro del divenire storico Marx vede quindi la natura come materia concreta sulla base della quale si avvicendano gli eventi, ivi incluse le trasformazioni di essa ad opera dell’uomo. Partire dall’uomo Il punto di partenza è un inizio del tutto empirico, che può essere soltanto conconcreto statato, e che costituisce intenzionalmente il termine polemico di paragone nei confronti della concezione idealistica della storia. I presupposti dai quali si parte, Marx lo sottolinea, sono presupposti dei quali si può non tenere conto soltanto se ci si sottopone allo sforzo dell’astrazione e dell’immaginazione, perché altrimenti sono immediatamente percepibili come reali: sono gli esseri umani concreti. Marx riprende, e anche in questo caso sembra radicalizzare, la polemica che l’idealismo di Fichte e in particolare di Hegel aveva condotto nei confronti della filosofia kantiana (o delle «anime belle»). Ciò che l’uomo è, è dato da ciò che viene realizzato, da ciò che viene fatto concretamente, non è il risultato della semplice interiorità o della semplice intenzione. Questa dimensione dell’uomo reale, esteriore, presente nel mondo, viene accentuata da Marx sottolineando la concretezza naturale degli individui e, soprattutto, il modo in cui questa concretezza materiale, questa esistenza materiale viene conservata e riprodotta. In questa prospettiva, la capacità di produrre (e riprodurre) la propria esistenza materiale diventa il tratto specifico principale degli uomini rispetto agli animali.

T13

La produzione: base della storia e della specie umana K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca

Il fondamento naturale e sociale della produzione

Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura […]. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subìte nel corso della storia per l’azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono, quanto col modo come producono. La centralità dei processi economici nella storia ha quindi una radice ben precisa, che consiste nel fatto che gli uomini sono esseri naturali che hanno bisogno di mezzi di sussistenza per sopravvivere, insieme con il fatto che l’attività grazie alla quale è possibile rendere disponibili questi mezzi è proprio la produzione, quindi l’attività economica, che quando diventa un’attività tipicamente umana è un’attività di tipo sociale. Naturalmente, ciò non significa ridurre le attività umane alla produzione dei mezzi di sussistenza, ma vedere le attività diverse da essa come dipendenti, come Marx aveva già accennato nel passo dei Manoscritti citato sopra e come ora torna a sottolineare rilevando il carattere derivato dei processi della coscienza, e in genere intellettuali, rispetto alla vita materiale concreta. 147

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

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Vita reale e coscienza

K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca

Non è la coscienza che determina la vita degli uomini, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza.

La vita degli uomini, il fatto che essi possano vivere, è inevitabilmente il primo presupposto di ogni storia, o almeno di ogni storia come storia umana. Il rapporto con i bisogni è un rapporto fondamentale, ed è un rapporto che per Marx non si esaurisce nella soddisfazione dei bisogni naturali. I bisogni sono qualcosa che nella civiltà moderna tende a moltiplicarsi indefinitamente, e questa creazione di nuovi bisogni è per Marx un secondo presupposto della storia. Infine, un terzo presupposto, che riguarda ancora la produzione della propria esistenza materiale, è la riproduzione, il fatto che gli uomini producano la propria esistenza anche dal punto di vista più direttamente fisico, tramite l’atto sessuale. Si tratta, in tutti questi casi, di tre aspetti o di tre momenti di uno stesso processo, di un tipo di rapporto degli uomini con la propria natura che costituisce il tratto essenziale di ogni fase della storia umana. Il quarto presupposto: Marx aggiunge infine un quarto presupposto essenziale, e cioè che questa relala cooperazione zione degli uomini con la natura è una relazione al tempo stesso naturale e sociale: ogni modo di produzione è legato a un tipo determinato di cooperazione.

Tre presupposti: bisogni naturali, nuovi bisogni e riproduzione sessuale

Struttura e sovrastruttura La società civile come teatro della storia

Sappiamo già che tutto l’ambito che riguarda i bisogni e il lavoro rientra per Marx nella società civile, che raccoglie da un lato le forze produttive, l’aspetto quantitativo della produzione, dall’altra, le relazioni sociali, ossia il modo determinato in cui gli uomini entrano in relazione per produrre. La società civile comprende infatti per Marx «tutto il complesso delle relazioni materiali tra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive», poiché anche e soprattutto la società civile, evidentemente, è un fatto storico. E la società civile, come luogo dei rapporti economico-sociali, è la sede dello sviluppo e della dinamica storica, come Marx espone nell’Ideologia tedesca e come spiegherà in modo conciso ma esplicito nella prefazione dell’opera che anticipa Il capitale e che Marx pubblica nel 1859, Per la critica dell’economia politica. Il vero focolare, il «teatro» della storia è costituito dalla società civile, non dallo svolgimento dello Spirito come voleva Hegel né, tantomeno, come vuole un’«assurda storia corrente», dalle azioni dei capi e dagli Stati. Nel ricostruire la propria biografia intellettuale, Marx mostra quali siano state le conclusioni a cui la sua ricerca è giunta, formula cioè la concezione materialistica della storia.

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La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né spiegandoli con la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile è da cerca-

Struttura e sovrastruttura K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione

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re nell’economia politica […] nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della loro vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Dipendenza dalla struttura

La dinamica della storia è dunque data da forze produttive e rapporti di produzione, che costituiscono la struttura della società, l’elemento prevalente dal quale dipendono gli altri, si tratti di forme di coscienza e di teoria oppure di forme politiche e giuridiche, le quali tutte costituiscono la cosiddetta sovrastruttura. Struttura e sovrastruttura

Struttura economica

Sovrastruttura

Forze produttive e rapporti di produzione

Forme politiche e giuridiche a cui corrispondono determinate forme sociali della coscienza

La struttura economica della società costituisce la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura che da essa dipende.

La struttura, ossatura della società

Al centro della struttura economica ci sono poi due elementi che hanno per Marx un preciso rapporto di corrispondenza: la divisione del lavoro e la proprietà privata. Il rapporto di corrispondenza è per Marx quanto mai evidente: la divisione del lavoro rappresenta dal punto di vista del lavoro, ossia dell’appropriazione della natura, ciò che la proprietà privata è dal punto di vista del prodotto dell’attività: un fattore di separazione tra gli uomini in classi antagoniste. Naturalmente, la divisione del lavoro è un prodotto storico che nella società capitalistica ha raggiunto il suo livello massimo, e che segna di sé, insieme con la successione di diverse forme di proprietà, lo sviluppo della storia. Inizialmente, le prime forme di divisione del lavoro sono legate alla divisione del lavoro su base sessuale (sia per la divisione del lavoro nell’atto sessuale, su base naturale, sia per un’altrettanto naturale divisione del lavoro in base alla forza fisica), poi alla fondamentale divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra città e campagna, e così via.

Struttura e mutamento storico Se abbiamo chiarito in che modo i rapporti di produzione costituiscono per Marx la struttura di base della società, la sua ossatura, rimane da spiegare in che modo questa stessa struttura possa essere il principio o il criterio esplicativo del mutamento storico e in particolare delle rivoluzioni. 149

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Progresso e dominio della natura

➥ Laboratorio di lettura, p. 167

Marx ha un’idea del progresso economico di tipo sostanzialmente ottimistico. Se pensa al lavoro – una volta che si sia superata la dimensione del lavoro alienato – come forma di realizzazione della personalità degli individui, Marx pensa anche che lo sviluppo scientifico, tecnico, economico sia strutturalmente positivo, e che il dominio della natura non possa che essere, presto o tardi, un bene per l’uomo. In questo consiste del resto la funzione positiva del capitalismo: nell’aver esteso il dominio della natura e nell’aver reso l’uomo capace di produrre un’enorme quantità di ricchezza, ovvero nell’avere elevato grandemente le forze produttive. Qui sta anche il grande merito storico della borghesia, come ampiamente sottolineato in pagine famose del Manifesto. La capacità di produrre costituisce il motore dello sviluppo storico e dei cambiamenti strutturali, che si verificano quando un determinato tipo di relazioni, all’interno delle quali la produzione ha luogo, non è più adeguato, e diventa piuttosto un freno.

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A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.

Analisi oggettiva e socialismo scientifico

Come si vede, i processi rivoluzionari, cioè ogni grande trasformazione storica, sono frutto di un processo oggettivo: con la sua proposta, Marx ritiene di potere offrire un’analisi della società capitalistica che non solo non è stata finora offerta, ma che permette di individuare all’interno del capitalismo le condizioni per la futura società comunista. I mutamenti sociali sono cioè frutto dei limiti dello sviluppo economico all’interno di determinate forme sociali, ovvero all’interno di certi rapporti di produzione. L’intervento rivoluzionario, sul quale torneremo più avanti, fa soltanto precipitare una situazione che è ormai matura da un punto di vista oggettivo. È proprio per questo che Marx ritiene il proprio socialismo un socialismo «scientifico» da contrapporre alle forme precedenti, e soprattutto al socialismo «utopistico» di Charles Fourier (1772-1837) e di Robert Owen (1771-1858). Il presupposto indispensabile per la costruzione della società comunista è che si dia un grande sviluppo delle forze produttive, tale che non ci sia nessun problema di scarsità, che ci sia una grande maggioranza priva di proprietà e che questa grande maggioranza si contrapponga alla estraniazione della società esistente. In questo modo sarà possibile superare la condizione di alienazione e di estraniazione della società capitalistica, come Marx scrive esplicitamente, con qualche ironia sul carattere «filosofico» di un termine che lui stesso, in realtà, ha usato con grande disinvoltura fino a pochi mesi prima.

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Questa «estraniazione», per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto «priva di proprietà» e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente

Dall’acuirsi delle contraddizioni alla rivoluzione K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione

Due condizioni della rivoluzione K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca

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della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive […] è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario. L’estraniazione è collegata alla divisione del lavoro e all’esistenza della proprietà privata, come emergeva già nell’analisi dei Manoscritti: si tratta di un lavoro forzato, di una divisione del lavoro non scelta volontariamente ma forzata, dove ciascuno «è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere». Nelle attuali relazioni sociali, il lavoro è diviso e l’uomo è forzato in una determinata attività, in una determinata collocazione, mentre nella futura società comunista, sostiene Marx, l’uomo sarà caratterizzato da una onnilateralità, cioè dalla possibilità di sviluppare le proprie disposizioni e i propri talenti nella direzione che ritiene più opportuna. Utopia e processo Ma questa vena utopica, retaggio probabile della grande diffusione, nella Gerstorico oggettivo mania tra Settecento e Ottocento, del tema di una formazione «completa» e onnilaterale dell’uomo, viene intesa da Marx non come un ideale, non come il perseguimento di una società perfetta e nemmeno, o tantomeno, come il ristabilimento di una multilateralità dell’uomo che nella storia è stato sempre più costretto alla divisione e alla parcellizzazione del lavoro. Si tratta piuttosto, per Marx, dell’esito di un processo storico oggettivo, di un processo reale che finisce per coinvolgere la stessa nozione di «comunismo».

Dall’estraniazione allo sviluppo umano

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Il comunismo K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca

Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.

Le forme di proprietà e la genesi del capitalismo Le diverse forme di proprietà precapitalistiche e la genesi dello stesso capitalismo sono delineate da Marx nell’Ideologia tedesca, menzionate anche nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, ma trattate più per esteso in una parte dei cosiddetti Grundrisse (una gran quantità di materiale preparatorio del Capitale redatto tra il 1857 e il 1859) dedicata alle forme che precedono l’accumulazione capitalistica e all’accumulazione originaria. Alla genesi del modo di produzione capitalistico, che si fonda su condizioni sociali ed economiche precise, Marx dedicherà poi un importante capitolo del primo libro del Capitale, dedicato appunto all’accumulazione originaria. Dalle comunità A partire dalla comunità primitiva, Marx individua diverse forme economico-soprimitive alla società ciali che precedono il capitalismo: gli interpreti hanno discusso molto su questa capitalistica articolazione, ma Marx non intende indicare così una sorta di percorso necessario che tutte le civiltà devono seguire, quanto piuttosto ripercorrere, a partire dal mondo contemporaneo, le forme che lo hanno preceduto. E Marx, nei Grundrisse, ci parla di una comunità primitiva, in cui si ha un rapporto diretto sia con la natura sia con la comunità alla quale si appartiene, che ha una sua variante nel-

Un tema ricorrente nella riflessione di Marx

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

la forma di proprietà asiatica, poi si ha la società antica, che è concentrata sulla città, e poi quella feudale, che è invece concentrata sulla campagna. Con la fine del feudalesimo, comincia il processo che per Marx conduce alla società e al modo di produzione capitalistico, che conosce anch’esso fasi successive, a partire dal XVI secolo, per arrivare al moderno capitalismo industriale. La «cosiddetta La genesi del modo di produzione capitalistico affonda le radici in quella che accumulazione Marx chiama con ironia la «cosiddetta accumulazione originaria» degli econooriginaria» misti classici: l’accumulazione originaria, infatti, ha per l’economia politica la funzione che per la teologia ha il peccato originale. Si tratta cioè, secondo Marx, di una spiegazione fantastica di come sia nato il capitalismo, quasi che per spiegare la nascita del lavoro salariato si debba immaginare da un lato una «élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice», dall’altro, «degli sciagurati oziosi», che infine siano costretti per i propri demeriti a mettere a disposizione il proprio lavoro come operai salariati. Marx dedica un capitolo del Capitale a questo tema, che viene affrontato con una straordinaria ricchezza di dati storici utili per mostrare la genesi delle diverse figure sociali. Particolarmente significativa, qui, è l’illustrazione delle condizioni per la genesi del capitalismo.

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I presupposti del capitalismo K. Marx, Il capitale

➥ Sommario, p. 164

7 La merce

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Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente […] Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare «originario» perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente. L’analisi critica di questo modo di produzione che vede fronteggiarsi capitalisti e lavoratori salariati nella società capitalistica, dove tutto è merce, anche la forzalavoro umana, è il tema della trattazione di Marx nel Capitale, ovvero la sede più matura per la critica marxiana dell’economia politica.

La critica dell’economia politica Al centro dell’analisi di Marx, punto di partenza e al tempo stesso indiscusso nucleo teorico, sta la nozione di merce, la cui importanza è stata sottolineata già nei

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Manoscritti (vedi p. 138). L’analisi è però ora molto più profonda, sulla scia delle nuove acquisizioni teoriche dei Grundrisse e di Per la critica dell’economia politica. La merce costituisce in effetti il modo in cui si presenta, nel modo di produzione capitalistico, la ricchezza.

T20

Iniziamo dalla merce… K. Marx, Il capitale

La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci», e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’esame della merce.

Le pagine di Marx dedicate a questo tema sono sicuramente tra le più difficili, ma anche tra le più suggestive che egli abbia scritto, tanto che anche chi ne dissenta non può fare a meno di restarne colpito. Anche per il lettore di oggi, la descrizione marxiana di un mondo dominato dalle merci e dalla loro produzione conserva tutto il suo interesse, come lo conserva la rappresentazione delle merci come espressioni mascherate di rapporti sociali. Sullo sfondo di quest’analisi, e del carattere complesso della merce, c’è poi, ancora una volta, Hegel e la sua concezione dell’oggettività della contraddizione. La merce come forma elementare si presenta infatti come la radice contraddittoria di un modo di produzione, quello capitalistico, che sulla contraddizione è fondato e sulla contraddizione si sviluppa. È del resto questo stesso tessuto contraddittorio che deve essere «risolto» in una forma superiore di società. La contraddizione La contraddizione centrale della merce, di qualunque merce, è di essere al temcentrale della merce po stesso valore d’uso e valore di scambio. Un mondo dominato da merci, dove si annida la contraddizione del capitalismo

T21

Il valore d’uso depositario materiale del valore di scambio K. Marx, Il capitale

Il valore d’uso: contenuto materiale della ricchezza

La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla. Qui non si tratta neppure del modo in cui la cosa soddisfa il bisogno umano: se immediatamente, come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto di godimento o per via indiretta, come mezzo di produzione […] L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. È un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene. Questo suo carattere non dipende dal fatto che l’appropriazione delle sue qualità utili costi all’uomo molto o poco lavoro […] Il valore d’uso si realizza soltanto nell’uso, ossia nel consumo. I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio. Il primo aspetto di qualunque merce spetta ad essa come oggetto di un certo tipo, indipendentemente, verrebbe da dire, dalla forma di società in cui essa è prodotta. La caratteristica specifica di un tipo di cibo, di un libro o di un oggetto come uno strumento (per esempio un martello) è una caratteristica legata ai suoi tratti naturali, sensibili, utili per soddisfare determinati bisogni. Per questo i valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza indipendentemente dalla forma sociale, ovvero dal modo di produzione, in cui vengono prodotti. 153

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questi stessi valori d’uso sono però, al tempo stesso, anche valori di altro genere, che Marx chiama valori di scambio: le merci oltre che essere consumate nella loro utilità specifica, vengono anche scambiate, e anzi, è proprio per questo che sono vere e proprie merci. Questa è la caratteristica strutturale della società borghese moderna. Una misura comune La peculiarità dello scambio delle merci consiste ancora una volta in un elemenper lo scambio to contraddittorio. Le merci, infatti, da un lato vengono scambiate tra loro perché delle merci sono diverse: se fossero uguali, evidentemente, non ci sarebbe nessun bisogno di scambiarle. Dall’altro lato, però, le merci devono essere ridotte a una relazione di uguaglianza, devono essere non solo comparabili, ma commensurabili, devono cioè avere una misura comune che permetta di scambiarle: una certa quantità di grano, per esempio, deve corrispondere a una certa quantità di ferro. Il valore di scambio

T22

Il rapporto di scambio delle merci

K. Marx, Il capitale

Prendiamo poi due merci: per es. grano e ferro. Quale che sia il loro rapporto di scambio, esso è sempre rappresentabile in una equazione, nella quale una quantità data di grano è posta come eguale a una data quantità di ferro, per es. un quarter [il quarter è una misura che corrisponde a 28 libbre e circa a 12,7 kg] di grano = un quintale di ferro. Che cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in un quarter di grano come pure in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l’uno e l’altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l’uno né l’altro. Ognuno di essi, in quanto valore di scambio, dev’essere dunque riducibile a questo terzo. Valore d’uso e valore di scambio

Valore d’uso

Il corpo della merce, l’oggetto che soddisfa dei bisogni umani, il contenuto materiale della ricchezza

Valore di scambio

L’oggetto, che ha un dato valore d’uso, per essere una merce deve poter essere scambiato con un’altra merce; in quanto tale esso ha un determinato valore di scambio

La teoria del valore-lavoro Alla ricerca della misura comune delle merci

T23

Al di là del valore d’uso: il lavoro astratto K. Marx, Il capitale

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Il problema è naturalmente capire cosa sia questo terzo, questa misura comune a merci completamente differenti, questa possibilità di rendere commensurabili dal punto di vista quantitativo, con un’equazione, ciò che dal punto di vista della qualità (del contenuto, cioè del valore d’uso) è diverso. La misura comune delle merci sarà quindi qualcosa che prescinde dal valore d’uso. Ma se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro ci si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d’uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d’uso. Non è più tavola, né casa, né filo, né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto di falegnameria o del lavoro edilizio o del lavoro di filatura o di altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scom-

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pare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto. Il lavoro astratto e la sua quantificazione

Teoria del valore-lavoro

Il lavoro è ciò che rende conto del valore delle merci: una merce ha valore in quanto in essa viene materializzato, concretizzato, realizzato il lavoro «astrattamente umano», una certa quantità di lavoro, e la quantità del lavoro corrisponde alla durata temporale del lavoro. Il lavoro che dà luogo al valore deve per forza essere astratto: il lavoro concreto è qualcosa di specifico come il valore d’uso delle merci, e manca quindi di una misura comune con gli altri lavori. Il lavoro astratto è invece quel lavoro «in generale», forza lavorativa umana che va considerata astrattamente, che è comune a tutti i lavori ed è quindi contenuta in tutte le merci, costituendo il loro valore. Per quel che riguarda la misura del lavoro, che sta a fondamento della misura del valore delle merci, Marx ritiene che si debba fare una media delle capacità e delle condizioni date in un certo momento, cioè una media del tempo di lavoro necessario per produrre certe merci: merci che richiedono in media, per essere prodotte, la stessa quantità di lavoro, hanno la stessa grandezza di valore. Astraendo da ogni caratteristica specifica del valore d’uso delle merci risulta che

il valore che accomuna ogni tipo di merce è il lavoro astratto contenuto in essa Dunque

è il lavoro a conferire valore alle merci In conclusione risulta che

è la durata media del tempo di lavoro necessario a produrre una merce a rappresentare l’unità di misura del suo valore

Il nuovo protagonista della teoria del valore-lavoro: il proletariato

L’impostazione di Marx riprende, e riutilizza ai propri fini, la teoria del valorelavoro degli economisti classici, in particolare di Smith e di Ricardo, ovvero la teoria per la quale la fonte del valore è il lavoro. Per Marx, il senso di questa operazione, nel fornire un preciso modello di funzionamento del capitalismo, sta nel mettere al centro dell’orizzonte il lavoro e la classe che del lavoro vive nella società capitalistica, la classe operaia, mostrando come essa sia la protagonista principale della produzione della ricchezza. 155

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il denaro: equivalente generale del valore

Si è accennato al fatto che la condizione del formarsi di un’economia capitalistica è costituita da due elementi principali: la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione e la disponibilità di denaro e di mezzi di produzione. Il denaro è anch’esso una merce, ma di tipo peculiare: esso è la merce nella quale il valore d’uso consiste nello scambio, è l’equivalente generale del valore, che nella società borghese assume un ruolo particolarmente rilevante, essendo questa fondata sullo scambio. Lo scambio sviluppato del modo di produzione capitalistico non vede infatti lo scambio come scambio tra merci, ma sempre mediato dal denaro: il denaro viene cambiato con la merce, e la merce viene a sua volta cambiata con il denaro, nel processo di circolazione delle merci.

La forza-lavoro e il plusvalore Il lavoro come merce: la forza-lavoro

Vendita e acquisto della forza-lavoro

Il salario minimo

Il profitto

Soltanto il lavoro valorizza i prodotti

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Insieme con il denaro, la merce indispensabile per il modo di produzione capitalistico è quella merce che si è resa disponibile in seguito alla separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, la merce cioè che costituisce l’unica proprietà di una gran parte della popolazione: si tratta del lavoro come merce che può essere acquistata, cioè della forza-lavoro. Ora, per Marx la forza-lavoro è una merce particolare. Essa viene acquistata da chi abbia una certa disponibilità ad acquistarla e la possibilità di utilizzarla, da chi possegga cioè i mezzi di produzione. È da notare che l’acquisto della forza-lavoro da parte del capitalista è in apparenza un contratto di scambio, cioè di vendita, che non ha nulla di diverso rispetto ad altri contratti: il capitalista acquista la forza-lavoro con il suo denaro come acquisterebbe un’altra merce. Non c’è insomma nessuna costrizione giuridica del tipo di quelle che esistevano per gli schiavi (giuridicamente inferiori ai cittadini «liberi») o per i servi della gleba (giuridicamente legati a certe porzioni di terra). Il lavoratore salariato moderno è «libero», e offre sul mercato l’unica merce di cui dispone, che viene acquistata dal capitalista. Il risultato di questo acquisto è per il capitalista un prodotto che appartiene a lui, e non all’operaio, proprio perché lui ha acquistato, per un tempo determinato, il lavoro, la forza-lavoro dell’operaio, che Marx ritiene corrisponda, per quanto riguarda il suo valore, al valore dei mezzi di sussistenza necessari per reintegrare la forza-lavoro. Marx ritiene cioè che il salario con il quale il capitalista acquista la forza-lavoro dell’operaio sia un salario minimo, corrispondente allo strettamente necessario per la sopravvivenza dell’operaio (e, eventualmente, della sua famiglia). Nel processo produttivo, il capitalista ha due obiettivi principali: produrre una merce e, in più, produrre una merce il cui valore sia più alto della somma delle merci necessarie per la sua produzione. L’esistenza di questo valore eccedente è ciò per cui il capitalista entra nel processo produttivo: non avrebbe senso produrre una merce il cui valore fosse uguale ai suoi elementi componenti perché non ci sarebbe alcuna convenienza per il capitalista. Ciò che Marx vuole spiegare è quindi il profitto, l’eccedenza di valore che il capitalista ricava dalla produzione. Per quanto riguarda i mezzi di produzione, come materiali e macchine, Marx ritiene che non facciano altro che trasmettere al prodotto finale una parte del loro valore, ma non siano in grado di creare valore.

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Unità 4 Marx

Il plusvalore: il capitalista si appropria del valore prodotto dall’operaio

Uguaglianza formale e sfruttamento reale

Disoccupazione e salari bassi: l’esercito di riserva La forza-lavoro e il plusvalore

È qui che interviene la peculiarità della merce costituita dalla forza-lavoro: il processo lavorativo è anche un processo di valorizzazione, il che significa che l’uso della forza-lavoro acquistata dal capitalista è in grado di produrre un valore maggiore del valore della forza-lavoro stessa che viene corrisposto all’operaio sotto forma di salario. Una parte del valore prodotto dall’operaio, quindi, costituisce un’eccedenza rispetto al valore pagato all’operaio sotto forma di salario e anche rispetto all’insieme dell’investimento del capitalista poiché il lavoro, e soltanto il lavoro, ha la peculiarità di aumentare il valore attraverso la sua applicazione. L’eccedenza di valore del prodotto del lavoro viene chiamata da Marx «plusvalore»: sotto l’apparenza di uno scambio contrattuale paritario in cui si acquista una merce (la forza-lavoro) con l’equivalente del suo valore (il salario), il capitalista, che diventa il proprietario del prodotto del lavoro, si appropria del valore prodotto dall’operaio. Qui ha evidentemente la sua radice il carattere antagonistico del capitalismo e del rapporto tra capitale e lavoro, i cui interessi, per Marx, sono contrapposti. L’uguaglianza giuridica formale della società borghese, che pone uno di fronte all’altro capitalista e lavoratore come soggetti uguali, nasconde cioè uno scambio ineguale, nel quale consiste per Marx il nucleo dello sfruttamento capitalistico. Il lavoratore è in apparenza libero di vendere o meno la propria merce; in realtà, il lavoratore non ha la possibilità di sottrarsi al contratto perché è costretto a lavorare, cioè a vendere la propria forza-lavoro, per vivere. Naturalmente, si tratta in questo caso di una costrizione indiretta che non ha radice giuridica ma sociale, cioè diversa dalle costrizioni delle società precedenti la società borghese (come nel caso degli schiavi o della servitù della gleba). Inoltre, per Marx l’aumento progressivo del proletariato dal punto di vista quantitativo porta con sé una sorta di concorrenza tra i potenziali lavoratori salariati per la pressione di un «esercito industriale di riserva» che contribuisce a tenere bassi i salari. Il capitalista acquista dall’operaio la sua forza-lavoro fornendogli un salario

Il lavoro dell’operaio valorizza l’oggetto del lavoro in una misura maggiore rispetto al suo salario

Il capitalista si appropria del valore aggiunto, ovvero del plusvalore, realizzando così un profitto

L’operaio risulta essere sfruttato Inoltre

a dispetto dell’uguaglianza formale delle società borghesi, l’operaio è in realtà costretto a vendere la propria forzalavoro per poter sopravvivere

l’operaio è costretto ad accettare il salario impostogli perché c’è sempre una quantità di altri operai disoccupati pronti ad accettare il suo posto

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

L’accumulazione e i problemi del capitalismo L’instabilità del modo di produzione capitalistico

Tendenza al monopolio ed espansione

L’anarchia dovuta al perseguimento del profitto a ogni costo

Le crisi di sovrapproduzione

T24

L’assurdità delle crisi

K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista

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Grazie all’eccedenza del plusvalore e al profitto che si basa su questo, il capitale può promuovere un processo di progressiva accumulazione. Certamente Marx intende innanzitutto sottolineare l’enorme capacità produttiva del modo di produzione capitalistico, che si realizza in proporzioni mai viste prima. Parallelamente, però, egli ne vuole mostrare anche il carattere instabile e irrazionale, una instabilità che ha diversi aspetti e che segna, nel suo mostrarsi progressivamente sempre più difficile da riequilibrare, quella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione che sta alla radice delle trasformazioni sociali. Il mercato economico capitalistico, ben lungi dal costituire un sistema armonico, è, secondo Marx, la prima fonte dei problemi e delle tensioni che porteranno alla sua fine e al suo definitivo crollo. Un fenomeno problematico del capitalismo è la concentrazione progressiva del capitale in un numero di mani sempre minori, perché i capitalisti di dimensione minore vengono progressivamente assorbiti da quelli di dimensione maggiore. Analogamente, il capitalismo tende a espandersi per cercare nuovi mercati, ovvero nuovi acquirenti di merci che il solo mercato di un singolo Paese non è in grado di assorbire. È difficile negare che queste due tendenze del capitalismo prospettate da Marx si siano avverate: concentrazione e necessità di estendere la propria influenza sono state due caratteristiche del capitalismo ben dopo Marx, fino a noi. Ugualmente presente, secondo molti, e collegato strettamente alla necessità di espansione, è nel capitalismo il costante rischio di una crisi che deriva dal carattere anarchico, ossia privo di regole e non pianificato, della produzione. La produzione capitalistica difatti non produce in vista del consumo, ma produce merci che per potere essere consumate devono essere vendute, ed è questa vendita, questa realizzazione sul mercato il vero fine del capitalista, che promuove una produzione fine a se stessa per realizzare il proprio profitto. Ora, per Marx questa anarchia della produzione, questa produzione per la produzione conduce a crisi economiche che egli già nel Manifesto chiamava crisi di sovrapproduzione. L’irrazionalità del capitalismo, una profonda convinzione di Marx, fa sì che le merci possano andare addirittura distrutte, quando non possano essere vendute, anche se ci fosse chi ne ha bisogno ma non può permettersi di acquistarle, o non può arrivare a farlo. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione […]. La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta.

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Unità 4 Marx La logica del profitto

Grazie all’eccedenza del plusvalore e del profitto il capitale aumenta progressivamente

Concentrandosi, il capitale tende a costruire dei monopoli, ovvero dei grossi gruppi che assorbono quelli più piccoli, nonché a espandersi incessantemente alla ricerca di nuovi mercati

Questa dinamica è retta da una sola logica: la logica del profitto

Poiché il capitalista mira esclusivamente a incrementare il proprio profitto, il sistema di produzione può andare incontro a delle crisi di sovrapproduzione

Tali crisi, in cui vengono perfino distrutte le merci, mostrano il carattere anarchico e irrazionale di un modo di produzione retto dalla logica del profitto

La caduta tendenziale del saggio di profitto

Tensioni irrisolte del capitalismo come preludio alla rivoluzione

➥ Sommario, p. 164

Per quanto riguarda la concentrazione del capitale, la sparizione e l’impoverimento di parte della classe capitalista deriva dalla necessità di sviluppare sempre più la produzione attraverso l’utilizzo delle macchine, che presuppongono da parte dei capitalisti una notevole disponibilità a investire per fronteggiare la concorrenza. Questo stesso processo di progressiva meccanizzazione del capitalismo – che Marx individua lucidamente, anche nei suoi effetti deleteri sul lavoro umano – ha però in realtà un risultato catastrofico, una tendenza che Marx chiama caduta tendenziale del saggio (percentuale, tasso) di profitto, e che è stata considerata una delle sue diagnosi meno riuscite. Per aumentare il profitto, il capitale deve aumentare la sua capacità di produrre, e per questo deve aumentare continuamente la parte del capitale consistente di macchine e di innovazione e tecnica. Questo procedimento aumenta la massa complessiva del profitto, perché si riesce ad aumentare la produzione, ma in realtà diminuisce il saggio del plusvalore e quindi del profitto, ovvero la percentuale di quanto il capitale si valorizza. Si è visto infatti che la valorizzazione è tanto maggiore quanto maggiore è nell’investimento complessivo la parte dedicata al lavoro, che è l’unica componente del capitale capace di creare valore. In un certo senso, quindi, tanto più il capitale aumenta la sua produzione, tanto meno riesce ad aumentare, o anche a conservare, la propria capacità di valorizzazione perché diminuisce la percentuale di lavoro sul complesso dei mezzi utilizzati. Le tensioni oggettive del capitalismo, sovrapproduzione e caduta del saggio di profitto, sono ciò che per Marx prelude alla trasformazione della società, della quale si fa carico il proletariato e che per Marx non può che avere luogo con una rivoluzione. 159

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

8 Accenni al comunismo

T25

La storia è storia di lotte di classi K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista

Verso il comunismo Per quanto riguarda i tratti della futura società comunista, Marx non dà molte indicazioni nei suoi scritti, coerentemente con l’assunto che farlo avrebbe significato esporsi al rischio dell’utopismo. Ci dà però qualche indicazione sul passaggio dal capitalismo al comunismo, e anche, nonostante i suoi timori, qualche utopica indicazione sui caratteri dell’uomo della futura società comunista. Lo scontro di classe, la lotta di classe, non è, per Marx, una caratteristica della società borghese, al contrario, è una caratteristica strutturale della storia umana che potrà essere superata soltanto con la società comunista. È famoso, in questo senso, l’esordio del Manifesto: La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. Marx vede nella società capitalistica un antagonismo fondamentale tra borghesia e proletariato, che si accompagna al progressivo impoverimento del secondo. L’aumentare della tensione sociale e il progressivo acutizzarsi delle crisi economiche e commerciali creano poi le condizioni perché si possa verificare la rivoluzione.

La rivoluzione e il comunismo Lo Stato e la cultura, espressioni della classe dominante

160

Con un’analisi della politica che gli ha attirato nel tempo molte critiche per avere semplificato eccessivamente la natura dello Stato, Marx ritiene che l’universo politico, essendo dipendente dalla struttura economica della società, rappresenti di regola gli interessi della classe dominante. Anche sul piano della cultura e della produzione intellettuale, già l’Ideologia tedesca sosteneva che le idee dominanti sono le idee della classe dominante. In questo quadro, è abbastanza inevitabile che lo Stato e la cultura siano dipendenti dagli interessi di classe, parti-

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colari, della borghesia, e che solo una rivoluzione possa ricostituire un’organizzazione sociale radicalmente diversa. Il carattere universale La peculiarità del proletariato, nella prospettiva di Marx, è invece la sua caratdel proletariato teristica di universalità (come Marx mette in evidenza fin dai suoi primi scritti), non essere, quindi, rappresentante di interessi particolari, non avendo una proprietà privata. Sempre, nella storia delle rivoluzioni, il soggetto della rivoluzione si presenta come rappresentante dell’interesse generale, ma nel caso della rivoluzione del proletariato questa pretesa è giustificata, tanto che la rivoluzione comunista ha obbiettivi ben più avanzati di tutte le rivoluzioni sinora avvenute, una società senza classi: «alla vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi antagonismi fra le classi – scrive Marx nel Manifesto – subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti». In questo tipo di prospettiva, nei Grundrisse, con parole che ricordano da vicino i Manoscritti economico-filosofici, la stessa nozione di «ricchezza» perde la dimensione angusta che possiede nella società capitalistica, e diventa una nozione utile per caratterizzare adeguatamente una nuova umanità.

T26

La ricchezza umana

K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica

Una società nuova per un nuovo uomo

Non la distribuzione ma la produzione

La dittatura del proletariato: fase di transizione verso il comunismo

Se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, generata nello scambio universale? Cos’è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura? Sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della sua propria natura? Cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato? L’uomo della nuova società non sarà un uomo alienato da un lavoro che non lo realizza e che non gli appartiene, non sarà forzato a un lavoro parcellizzato e diviso in gesti meccanici privi di significato, ma sarà piuttosto, nell’utopia marxiana, un uomo che si potrà sviluppare in senso multilaterale, che potrà sviluppare le sue attività in molte direzioni, in una molteplicità di forme di lavoro che non saranno più lavoro coatto, ma realizzazione di se stessi, frutto delle scelte dei singoli in un universo cooperativo che non prevede più lo Stato politico come istituzione costrittiva. Il principio dell’organizzazione sociale sarà allora: «ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni» (Critica del programma di Gotha). L’errore di molti socialisti, secondo Marx, è concentrarsi sulla questione della ripartizione dei prodotti del lavoro, sulla distribuzione, mentre ciò che è davvero essenziale, e davvero rivoluzionario rispetto alla società fondata sulla divisione del lavoro, è il problema della produzione o meglio del modo di produzione: è il modo di produzione che determina le forme della distribuzione. Ed è la produzione come collocazione dell’uomo di fronte alla natura che costituisce il criterio di una realizzazione di se stessi nel lavoro. Il quadro utopico appena accennato, che troviamo sparso in varie osservazioni di Marx, si dovrebbe poter realizzare in una società comunista come punto d’arrivo di un processo che prevede anche, per un certo periodo, il permanere provvisorio dello Stato. 161

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel L’estinzione dello Stato

➥ Sommario, p. 164

9 Il contributo di Engels

Famiglia, proprietà privata e Stato come istituzioni storicamente determinate

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L’abolizione o l’estinzione dello Stato non può essere cioè realizzata direttamente attraverso la rivoluzione, come vorrebbe l’anarchico Bakunin, influente avversario di Marx in seno alla prima Associazione internazionale dei lavoratori (e autore di un importante libro, Stato e anarchia, sul quale Marx stende molte osservazioni critiche). Essa si realizza piuttosto passando attraverso una fase che Marx chiama della dittatura del proletariato, in cui il proletariato è tenuto a difendere le proprie conquiste e a dirigere la trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica nella società comunista. L’idea di Marx è che la costruzione di uno Stato al tempo stesso giusto (per le caratteristiche del proletariato) e forte possa condurre alla estinzione del potere politico grazie al prevalere progressivo della giustizia sulla forza. Su questo, forse più che su altri aspetti talvolta superficialmente attaccati per motivi di polemica politica, la storia successiva è stata sicuramente una smentita.

Engels Pur non essendo un pensatore dell’originalità o della potenza teorica di Marx, Friedrich Engels (1820-1895) ha avuto una notevole importanza nella storia del marxismo già negli anni immediatamente successivi alla morte di Marx, delle cui teorie diviene subito un importante diffusore, se non altro per aver pubblicato il secondo e il terzo libro del Capitale o le Tesi su Feuerbach. Per quel che riguarda la produzione teorica, Engels aveva collaborato con Marx nella stesura di opere importanti come La sacra famiglia, L’ideologia tedesca e Il manifesto, ma specialmente negli ultimi anni di vita di Marx, come dopo la sua morte, offre contributi che tentano di dare al pensiero suo e di Marx una collocazione storica determinata (come recita il titolo del saggio del 1888 Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca), oltre ad alcuni scritti che intendono ampliare lo spettro dei problemi affrontati dal più acuto amico. I contributi maggiori di Engels furono l’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, del 1884, e l’Anti-Dühring, del 1877-1878. Il primo scritto, L’origine della famiglia, nasce anche sulla base degli interessi di Marx per i lavori dell’etnologo Lewis Henry Morgan (1818-1881) su La società antica, un libro pubblicato nel 1877. Marx si era interessato di questioni etnologiche, e aveva formulato anche una sorta di genealogia della società borghese in particolare in una parte dei Grundrisse (vedi sopra), e anche nella Ideologia tedesca si tracciava più sommariamente un quadro analogo. Engels riprende quelle prime suggestioni insieme con le ricerche di Morgan, per perseguire un obiettivo teorico del quale già Marx aveva più volte sottolineato l’importanza: mostrare come determinati istituti giuridici e sociali quali la famiglia, la proprietà privata e lo stesso Stato (come viene inteso nell’era moderna) non siano strutture eterne che sono sempre esistite nella forma in cui le si sono conosciute, appunto, modernamente, ma siano qualcosa che si è storicamente formato e che potrebbe sparire all’interno di condizioni storiche, cioè di formazioni economico-sociali, diverse da quella borghese-capitalistica.

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Unità 4 Marx Il materialismo dialettico

➥ Sommario, p. 164

L’Anti-Dühring, uno scritto polemico uscito come una serie di articoli, è rivolto contro il filosofo tedesco Karl Eugen Dühring (1833-1921), un positivista critico di Marx che aveva una certa influenza nel movimento socialista tedesco. Di questo scritto, come della Dialettica della natura pubblicata soltanto postuma, è caratteristico il tentativo di estendere la dialettica, il movimento generato dall’opposizione e dal suo superamento che per Marx caratterizza il modo di produzione capitalistico, all’intera realtà. Questa evoluzione della dottrina marxiana prende il nome di «materialismo dialettico». Questa teoria della dialettica come concezione del mondo diventerà l’ideologia ufficiale dei Paesi come l’Unione Sovietica, anche a costo del rifiuto delle teorie scientifiche più avanzate.

Suggerimenti bibliografici Una ricostruzione storica degli aspetti sia teorici sia politici del pensiero marxiano in E.J. Hobsbawn (a cura di), Storia del marxismo. Vol. I: Il marxismo ai tempi di Marx, Einaudi, Torino 1978; mentre N. Merker (a cura di), Marx: un secolo, Editori Riuniti, Roma 1983, offre una raccolta di saggi presentati nel centenario della morte di Marx da alcuni dei suoi maggiori studiosi. Per una introduzione generale al pensiero di Marx puoi leggere G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 2006. Un’analisi della dialettica in Marx nel classico M. Dal Pra, La dialettica in Marx, Laterza, RomaBari 1965; sul concetto di natura A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Roma-Bari 1969. Uno studio sulla metodologia marxiana in S. Veca, Saggio sul programma scientifico di Marx, Bruno Mondadori, Milano 2005. I brani antologizzati sono tratti da: K. Marx, La questione ebraica in Opere, vol. 3, trad. it. di N. De Domenico, G. della Volpe, L. Formigari, N. Merker, R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1976. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Opere, cit. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1975. K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1993. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in Il capitale, cit., vol. 2. K. Marx, Il capitale, trad. it. di D. Cantimori, E. Cantimori Mezzomonti, G. Backhaus, M.L. Boggeri, R. Panzieri, 5 voll., Einaudi, Torino 1975. K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, trad. it. a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1976. Il brano di M. Hess citato a p. 129 è tratto da D. McLellan, Il pensiero di Karl Marx, Einaudi, Torino 1975.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Sommario 1. MARX

E IL MARXISMO

Il pensiero di Marx è all’origine di uno dei movimenti politici più importanti degli ultimi due secoli, il marxismo, la cui influenza teorica è stata pari all’influenza storica. In questa vicenda lunga e complessa si deve sempre distinguere ciò che è marxiano, o proprio di Marx, da ciò che è marxista. 2. TRA

TEORIA E POLITICA

La conoscenza del pensiero di Marx deve anche tener conto del suo impegno per la nascita del movimento comunista internazionale, intimamente legato al suo lavoro teorico. 3. LA

CRITICA DELLA POLITICA

Dal 1841 al 1845 Marx si sofferma su alcuni temi fondamentali per la sua concezione della società e della storia: compie infatti un’analisi critica del rapporto fra Stato e società civile approdando alla concezione materialistica della storia. In questi anni critica la filosofia del diritto hegeliana, il liberalismo e l’individualismo moderno. 4. CRITICA

DELLA RELIGIONE COME CRITICA SOCIALE

Marx indica nel superamento della religione, e soprattutto delle sue motivazioni sociali, la vera liberazione dell’uomo. Intanto afferma che è giunto il momento di sostituire alla teoria la prassi e di trasformare il mondo: soggetto di questo cambiamento sarà il proletariato. 5. L’ECONOMIA

POLITICA E L’ALIENAZIONE

In un serrato confronto con l’economia politica classica, definisce anche il concetto di merce e delinea una prima storia del capitalismo e della polarizzazione fra capitale e lavoro. Incontriamo infatti una prima definizione del lavoro estraniato o alienato la cui radice è la separazione tra lavoratori e mezzi di produzione e la mercificazione della forza-lavoro. L’alienazione potrà terminare solo con la realizzazione del comunismo e l’eliminazione della proprietà privata. 6. LA

CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA

Il materialismo di Marx spiega come l’evolversi dei modi di produzione appartenga all’attività con cui l’uomo interagisce con la natura e cerca di dominarla, per ampliare e migliorare le proprie condizioni di vita. La nuova visione della storia che emerge si connota come antidealistica: la natura, l’uomo, la società vanno colti nella loro dimensione reale e un ruolo centrale lo svolge la distinzione fra struttura economica e sovrastruttura politica, giuridica ecc. L’analisi marxiana del capitalismo sottolinea la centralità della società civile nello sviluppo storico e in164

dica come, all’interno del modo di produzione capitalistico, stiano maturando le condizioni della rivoluzione comunista, il cui esito sarà la liberazione di ogni uomo attraverso un pieno sviluppo delle sue capacità (onnilateralità). Marx traccia anche un’evoluzione delle forme economico-sociali susseguitesi nella storia umana per individuare l’origine dell’accumulazione originaria. 7. LA

CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA

Il pensiero maturo di Marx è condensato nel Capitale. Il primo concetto affrontato è quello di merce. Ma si tratta di un concetto intimamente contraddittorio perché in ogni merce si deve distinguere fra valore d’uso, ossia la sua utilità per soddisfare un bisogno reale, e valore di scambio, ossia la proprietà di una merce di essere scambiabile con un’altra. Il problema è trovare un parametro oggettivo di valutazione tra i valori delle merci: Marx lo indica nel valore-lavoro, ossia nella quantità di lavoro necessaria per produrre quella merce. Il lavoro viene quindi indicato come la vera origine della ricchezza e del plusvalore. Ma i lavoratori che vendono la propria opera (forza-lavoro) ricevono solo un salario minimo mentre il capitalista si appropria per intero del plusvalore e accresce il proprio profitto. Il proletario vive quindi in una condizione di sfruttamento, mascherata dall’uguaglianza giuridica formale. Anche il capitale però vive alcune contraddizioni interne: nel suo sviluppo tende alla continua accumulazione e alla concentrazione monopolistica e persegue unicamente il profitto, provocando crisi di sovrapproduzione; inoltre il progressivo utilizzo delle macchine provoca la diminuzione del plusvalore poiché fa diminuire l’apporto valorizzatore del lavoro umano nella produzione. 8. VERSO

IL COMUNISMO

Il futuro mondo comunista è descritto da Marx solo nelle sue linee essenziali: alla lotta di classe in atto fra borghesia e proletariato seguirà una rivoluzione guidata dal proletariato che instaurerà una nuova forma di umanità. Tutti otterranno il soddisfacimento dei propri bisogni e l’uomo lavorerà per realizzare pienamente se stesso. 9. ENGELS

I tratti più originali del pensiero di Engels sono due: in primo luogo l’analisi storica dell’evoluzione di alcuni istituti giuridici e sociali (famiglia, proprietà privata, Stato) erroneamente ritenuti strutture eterne e universali; in secondo luogo l’estensione della dialettica all’intera realtà (materialismo dialettico) che diverrà la versione ortodossa del marxismo.

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Unità 4 Marx

Parole chiave Capitale. L’insieme di beni posseduti da ogni individuo (dal latino caput, «testa»). Nella società industriale comprende sia il denaro che i mezzi di produzione. Capitalismo. Forma di organizzazione che sorge con la Rivoluzione industriale (secolo XVIII) ed è stata studiata a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. È il sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla separazione fra chi possiede il capitale (capitalisti) e chi lavora (salariati), sulla riduzione del lavoro salariato a merce. I suoi scopi sono ottenere il massimo profitto ed espandere la propria capacità produttiva. Comunismo. Termine derivante dal francese communisme formato dall’aggettivo commune («comune»). In Marx e nel marxismo indica l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e il passaggio a una gestione collettiva, con la conseguente fine dello sfruttamento e della lotta di classe e con l’estinzione dello Stato. Concezione materialistica della storia. Nucleo teorico della filosofia marxiana: afferma che i fattori determinanti dello sviluppo storico delle società umane sono i processi materiali (rapporto con la natura e sistema dei bisogni), i modi di produzione economici e i rapporti produttivi. Forza-lavoro. L’insieme delle capacità fisiche e intellettuali che i datori di lavoro acquistano come merce, che i lavoratori impiegano nel processo produttivo e che accresce il valore del prodotto. Lavoro estraniato o alienato. Il lavoro umano ridotto a merce rinunciando alla propria dimensione naturale, ossia al fine di realizzare l’uomo e permettere una libera espressione del suo essere. Le forme di questa estraniazione, che secondo Marx è propria del capitalismo, sono quattro: la perdita del prodotto; la perdita del controllo sui modi e i tempi della produzione; la perdita di umanità nell’attività lavorativa; la perdita di rapporti sociali umani. Lotta di classe. Conflitto ineliminabile all’interno di tutte le società non comuniste, determinato dagli interessi contrastanti dei vari gruppi economici e sociali. Merce. Ogni bene materiale o immateriale prodotto dall’uomo e oggetto di commercio e scambio: nella società capitalistica anche il lavoro diviene una merce, come forza-lavoro.

Mezzi di produzione. Insieme dei beni fisici (macchinari, fabbricati ecc.) o immateriali (conoscenze tecnologiche, competenze amministrative e gestionali ecc.) che permettono la produzione. Modo di produzione. L’organizzazione attraverso cui gli individui di una società coordinano la propria attività con quella altrui, per soddisfare i propri bisogni. In senso lato comprende anche i mezzi di produzione. Plusvalore. L’eccedenza risultante dalla differenza fra il valore finale della merce e quanto viene corrisposto al lavoratore in cambio della sua forza-lavoro. Questa eccedenza è il frutto di una valorizzazione del prodotto operata dal lavoratore, della quale il capitalista si appropria per accrescere il proprio profitto, mantenendo il salario al livello minimo sufficiente per garantire la sussistenza e la riproduzione della forza-lavoro. Prassi. Termine derivato dal greco pràxis («azione»). Nella filosofia di Marx indica, in opposizione alla teoria, l’agire indirizzato alla trasformazione della società. Proletariato. Coloro che hanno come unica ricchezza i figli (in latino proles). In Marx indica la classe dei lavoratori salariati che rappresenta l’interesse generale e promuove la rivoluzione. Proprietà privata. Diritto di possedere e di usufruire di un bene (materiale o immateriale) in modo esclusivo. Rivoluzione. Azione che porta al rovesciamento di un ordine politico, sociale o economico per instaurarne uno nuovo. Struttura / Sovrastruttura. I due livelli delle società umane: il primo indica l’insieme dei rapporti e dei modi di produzione, ossia la sfera dell’economia; il secondo l’insieme delle costruzioni umane spirituali: forme politiche e giuridiche, ma anche la religione, l’arte, la filosofia ecc. Nella concezione materialistica della storia di Marx ed Engels, il primo livello determina e condiziona il secondo. Valore. Nella visione marxiana, che in questo segue la tradizione economica classica, l’origine del valore è la quantità di lavoro necessaria per produrlo (teoria del valore-lavoro). Marx distingue poi: 1) il valore d’uso di un prodotto, ossia i suoi tratti materiali utili per soddisfare un bisogno; 2) il valore di scambio, ossia il valore relativo di un prodotto all’interno del sistema di scambio.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario MARX

Che differenza c’è tra la tradizione «marxista» e la filosofia «marxiana»? (max 2 righe)

1

TRA

Qual è l’oggetto privilegiato dell’impegno politico di Marx? (max 3 righe) Perché Marx sostiene che l’uguaglianza giuridica, e cioè formale, tra i cittadini sia soltanto apparente? (max 2 righe)

CRITICA

15

Perché Marx, in T5, sostiene che il proletariato sia l’unica classe in grado di rappresentare i bisogni universali dell’uomo? (max 1 riga)

16

In che modo, in T9, Marx rielabora la concezione hegeliana del lavoro come oggettivazione esposta in T8? (max 6 righe)

17

Perché il comunismo, in T11, è infine detto rappresentare la «soluzione dell’enigma della storia»? (max 2 righe)

18

Che cosa significa l’affermazione di Marx, in T12, per la quale la storia non ha alcun fine né scopo? (max 3 righe)

DELLA RELIGIONE COME CRITICA SOCIALE

In che senso l’emancipazione dalla religione in Marx diviene emancipazione dalle condizioni di reale miseria del popolo? (max 5 righe)

4

L’ECONOMIA

POLITICA E L’ALIENAZIONE

In quali sensi e per quali ragioni Marx considera l’alienazione una conseguenza necessaria del capitalismo? (max 4 righe)

5

19

Qual è, per Marx, il vero motore e fondamento della storia umana? (max 2 righe)

7

Che cosa sono e che relazione c’è tra i concetti di «struttura» e «sovrastruttura»? (max 6 righe)

8

Quali sono le condizioni dell’origine del capitalismo? (max 3 righe)

CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA

9

Perché Marx, analizzati i concetti di valore e plusvalore, conclude sostenendo che i lavoratori vengono sfruttati dai capitalisti? (max 2 righe)

10

In che senso il capitalismo è detto «anarchico e irrazionale»? (max 2 righe)

VERSO

Perché la classe proletaria è individuata da Marx come portatrice degli interessi generali, collettivi, e quindi come la sola classe in grado di condurre al comunismo? (max 2 righe) Quali sono le opere che Engels ha scritto insieme a Marx? (max 2 righe)

Lavoriamo sui testi

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In che senso, in T21, il valore d’uso delle merci è detto costituire il contenuto materiale della ricchezza? (max 2 righe)

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Qual è il ragionamento complessivo grazie al quale Marx, in T23, riconduce infine tutte le merci al «lavoro astratto»? (max 5 righe)

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In che senso Marx afferma, in T24, che le crisi di sovrapproduzione mostrano come i rapporti borghesi di produzione siano divenuti troppo «angusti» per poter contenere la ricchezza da loro stessi prodotta? (max 3 righe)

23

IL COMUNISMO

ENGELS

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poca di rivoluzione sociale? (max 4 righe)

Con quali esempi e argomenti Marx dimostra, in T25, che «la storia di ogni società esistita fino a

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Qual è il momento e quali le ragioni per cui, in T16 e T17, Marx sostiene che subentrerà un’e-

CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA

6

LA

Che cosa significa l’affermazione di Marx in T4 secondo la quale la religione è «una coscienza capovolta del mondo»? (max 3 righe)

CRITICA DELLA POLITICA

3

LA

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TEORIA E POLITICA

2

LA

tra la dimensione comunitaria e la vita privata? (max 2 righe)

E IL MARXISMO

Perché Marx, in T1, sostiene che l’uomo è scisso

questo momento, è storia di lotte di classi»? (max 3 righe) 24

Perché Marx, in T26, difende la ricchezza considerata al di fuori dei «limiti» che essa ha nella società borghese? (max 2 righe)

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Unità 4 Marx

Laboratorio di lettura Il manifesto del partito comunista In queste pagine famose del Manifesto del partito comunista, redatto insieme con Engels e pubblicato nel 1848, si compie una vera e propria celebrazione della funzione storica della borghesia come elemento progressivo, ma al tempo stesso si mostra come la società nella quale la borghesia è dominante, la società capitalistica, crei le condizioni per il proprio superamento. Nel brano che abbiamo scelto, è particolarmente presente il tema delle condizioni oggettive del mutamento sociale.

Ascesa e caduta della borghesia La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. [A] Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia. La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. [B] Nascita della divisione L’esercizio dell’industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non badel lavoro in senso stava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto moderno subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa. [C]

Prima tesi: l’epoca moderna è caratterizzata dall’opposizione tra borghesia e proletariato

Commento e interpretazione

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A. Anche se in alcuni scritti – soprattutto in quelli di argomento storico – Marx attenua la divisione della società in due classi antagonistiche e prende in esame la funzione di gruppi sociali diversi dalla borghesia e dal proletariato, la polarizzazione della società e il concentrarsi dei conflitti sociali nella lotta tra borghesia e proletariato costituisce per Marx e per Engels il tratto caratteristico della società borghese rispetto a società in cui la divisione delle classi comprende una gradazione, una stratificazione sociale più articolata. B. Elementi decisivi per la genesi del capitalismo, e poi per il suo sviluppo, sono l’intensificarsi del commercio e il diffondersi di mezzi di comunicazione, tutti fenomeni che aumentano il volume degli scambi e delle merci circolanti, permettendo così la formazione di ricchezze che poi potranno dare inizio all’attività imprenditoriale. C. Si tratta di uno dei primi fenomeni che danno origine al capitalismo: inizialmente, la divisione del lavoro ha luogo dividendo il lavoro tra diverse corporazioni, ovvero tra diverse associazioni di mestiere che si occupano ciascuna di un aspetto della produzione. Con il passare del tempo, la divisione del lavoro diventa più efficiente, e avviene all’interno di uno stesso luogo produttivo, di una stessa officina, con una divisione tra i diversi individui. È il segno della crisi della società artigianale e del primo sorgere di manifatture e di industrie. 167

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Conseguenza: la borghesia industriale moderna è essa stessa un prodotto storico

Seconda tesi: il potere politico moderno dipende dal potere economico

Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni. La grande industria ha creato quel mercato mondiale ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo. Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, d’una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico. [D] Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome del comune, talvolta sotto forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all’epoca dell’industria manifatturiera nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la reazione della grande industria e del mercato mondiale si è conquistata il dominio politico esclusivo nello stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. [E]

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D. Ciò a cui si viene richiamati è la storicità dei fenomeni economici e dei fenomeni sociali, ivi inclusa l’esistenza di una classe come la borghesia che non è un’entità astorica sempre esistita, ma un gruppo sociale che si è formato nel tempo e che quindi ha anch’essa una dimensione storica. E. Marx riprende qui la tesi della dipendenza dei rapporti di potere politico dai rapporti di potere economico: dominata socialmente in età feudale, la borghesia per questo non ricopre in essa un ruolo politico rilevante, mentre il suo peso cresce man mano che il potere monarchico si appoggia su di essa per contrastare il potere della nobiltà, vista la rilevanza della classe borghese nella produzione della ricchezza reale delle nazioni, con l’avanzare della manifattura e dell’industria. Nella società capitalistica, lo Stato è in mano alla borghesia che detiene il potere economico e – secondo una formulazione che è diventata famosa – è il comitato che amministra gli affari della borghesia. È uno dei modi, lo si è accennato, per affermare la dipendenza del potere politico dal potere economico. Marx è stato spesso criticato per questa che a parere dei suoi critici è da ritenersi una sottovalutazione del peso della politica, di fronte all’economia. Da questo tipo di tesi è derivata anche l’accusa a Marx – non ingiustificata – di non avere una teoria della politica dello Stato al di là di questa tesi radicale. Si tratterebbe secondo alcuni di una lacuna che ha avuto conseguenze rilevanti anche nella tradizione marxista. F. Qui ha inizio la caratterizzazione, da parte di Marx, della funzione storica della borghesia e, quindi, della società borghese moderna. Si tratta di una caratterizzazione che vuole essere strutturalmente duplice già nei confronti del mondo «passato»: se da un lato il modo di produzione capitalistico permette una dinamicità e una crescita della ricchezza

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Unità 4 Marx Terza tesi: la borghesia ha svolto nella storia una funzione rivoluzionaria

Analisi dei caratteri rivoluzionari della società borghese. Prima conseguenza: sconvolgimento dei tradizionali rapporti sociali e familiari

Seconda conseguenza: la borghesia rivoluziona continuamente i rapporti socio-economici

La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. [F] La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. [G] La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. [H] La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il con-

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economica mai vista prima, la descrizione di Marx non rinuncia a rilevare il carattere lacerante che questo tipo di trasformazione ha avuto sui legami economici tradizionali. Marx riconosce a questi legami una stabilità e una sicurezza che si sono perse con il modo di produzione capitalistico, anche se non guarda con rimpianto al tempo passato e usa sicuramente con ironia, per esempio, il termine «idilliche». G. Una caratteristica della società borghese è sicuramente stata la riduzione a legame contrattuale di rapporti di dipendenza antiquati che avevano magari un fondamento giuridico, come nel caso della servitù della gleba, una relazione cioè che includeva un rapporto diretto, personale, con individui legati a un appezzamento di terra e che non erano «liberi» di esercitare altra attività che quella legata a quel determinato appezzamento di terra. Tutta la sfera sentimentale e paternalistica dei vecchi legami economici e in generale intersoggettivi è stata ora risolta, nella società borghese, in rapporti fondati sullo scambio e sul denaro, del tutto staccati da forme di vita legate, per esempio, alla civiltà contadina, che sono anch’esse ormai integrate – e sempre più lo saranno – nel modo di produzione capitalistico. Da questo punto in poi, si comincia a delineare l’enorme forza e l’enorme significato che la borghesia ha avuto come promotrice della ricchezza, nei confronti delle epoche precedenti, creando così le condizioni per una società del tutto diversa della quale però proprio la borghesia, e la società che sta sotto il suo dominio, costituisce l’antitesi. H. La borghesia, rispetto alle età precedenti, non solo ha valorizzato il lavoro di fronte alla «pigra infingardaggine» del mondo feudale, ma ha dato prova di una capacità di produrre che non si era mai avuta nei secoli precedenti.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Terza conseguenza: la borghesia moderna ha una vocazione globale

Quarta conseguenza: la borghesia ha creato forze produttive mai viste prima

Premessa: la tensione che determinò la nascita della borghesia

tinuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, e profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. [I] Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. […] Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. [L] […] Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? Ma [M] abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti dentro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e

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I. La società borghese è una società dinamica, che non può sopravvivere semplicemente conservando le condizioni date in un certo momento. Appartiene alla sua natura di rinnovarsi incessantemente, di aumentare la sua produzione di ricchezza e quindi di essere in grado di produrre continuamente elementi nuovi, al contrario di ciò che facevano i ceti dominanti del tempo passato, tradizionalmente impegnati nel contrastare ogni tipo di rinnovamento. L. La borghesia non può che estendersi, anche dal punto di vista geografico, seguendo una vocazione cosmopolitica già caratteristica della genesi della società capitalistica, con il crescere del commercio internazionale. La sua estensione, del resto, è assicurata anche dalla sua oggettiva capacità di produrre ricchezza economica in quantità rilevante e abbassandone i costi di produzione e, di conseguenza, i prezzi. Per questo, la borghesia è in grado di modellare il mondo secondo le proprie esigenze, attraendo nella sua sfera, cioè nel suo sistema economico, ogni forma di società più arretrata. M. Con questo «ma» comincia, dopo l’apprezzamento per la funzione storica della borghesia, l’indicazione dei limiti e delle contraddizioni della società borghese, che aprono la strada alla rivoluzione del proletariato. L’inizio dell’argomentazione è fondato sulla genesi della società borghese dai limiti della società feudale, ma il discorso mira in realtà a mostrare che dall’interno, e dalla crisi, di una società e di un modo di produzione, ne

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Quarta tesi: la società borghese moderna matura dall’interno i presupposti del proprio superamento

Primo argomento a sostegno della quarta tesi: le crisi commerciali sono un sintomo del collasso futuro del sistema capitalistico

Secondo argomento: contraddizione insanabile tra i rapporti borghesi di proprietà e le forze produttive

scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate. [N] A esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi. Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che con il loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione. [O] La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti bor-

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nasce un altro: in altre parole, come dalla crisi della società feudale è nata la società borghese, così dalla crisi della società borghese nascerà la società comunista. N. È caratteristico di Marx e della concezione materialistica della storia pensare alle modificazioni sociali come frutto dell’esplodere della contraddizione tra i limiti che certe relazioni sociali, ovvero certe società, costituiscono, e il dato quantitativo della produzione. Un certo modo di produzione – cioè certi rapporti di produzione – limita le potenzialità delle stesse forze produttive che aveva contribuito a far nascere e a svilupparsi. O. La crisi di sovrapproduzione è uno dei segni più inquietanti del carattere irrazionale e del rischio di collasso del capitalismo: essa porta con sé la distruzione di prodotti e di forze di produzione, indica cioè un limite nella possibilità di rendere coerenti produzione e consumo. Questo limite dovrebbe essere superato attraverso un mutamento dei rapporti di produzione in una società del tutto diversa dalla società borghese. La società in cui la «ricchezza» è sinonimo di «merce» non potrà che guardare a ogni attività e a ogni oggetto come una merce, che se non viene realizzata come tale (cioè se non viene venduta) perde il proprio valore, e viene distrutta. La capacità di produrre troppe merci, proprio perché si produce per produrre e per vendere, e non solo per soddisfare direttamente i bisogni, è infatti una caratteristica specifica del capitalismo.

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ghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. – Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. Conclusione: A questo momento le armi che sono servite alla borghesia per atterrare il il proletariato spazzerà via feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. la società borghese Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. [P]

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(da K. Marx - F. Engels, Il manifesto del partito comunista, trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998, pp. 7-14)

P. È all’interno dello stesso modo di produzione capitalistico che si creano le condizioni per il suo superamento. Innanzitutto, si diventa, grazie al capitalismo, capaci di produrre una grande quantità di ricchezza; in secondo luogo, questa capacità tende a entrare in contraddizione sempre maggiore con il tipo di società in cui ciò avviene; infine, un determinato gruppo sociale, o meglio una classe, il proletariato, abbatte la vecchia società e riorganizza il modo di vivere degli uomini socializzando, rendendo cioè disponibile a tutti, non solo la ricchezza, ma anche un modo di vita e di produrre finalmente umano.

Questionario sull’argomentazione 1

Quale conseguenza Marx trae dalla tesi per la quale l’epoca moderna è segnata dalla contrapposizione tra borghesia e proletariato? (max 3 righe)

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Quali conseguenze comporta il fatto che la borghesia abbia avuto un ruolo rivoluzionario? (max 8 righe)

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Per quali ragioni e con quali argomenti Marx giunge a sostenere che «Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese»? (max 5 righe)

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Qual è, a che cosa è dovuta e che cosa comporta la fondamentale contraddizione che Marx individua nel capitalismo? (max 6 righe)

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Tesi a confronto Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile? Si è detto che l’Ottocento vede un grande sviluppo della considerazione storica, e in più occasioni anche una teoria della storia, come dimostrano filosofi come Hegel o Marx. Nel secolo successivo, alcuni filosofi contestano radicalmente non tanto – ovviamente – l’idea che sia importante una considerazione storica dell’uomo, delle sue azioni e degli eventi, quanto la concezione per cui il percorso storico può essere visto come frutto di un disegno o di un meccanismo causale inevitabile. La critica di Berlin Nelle pagine del filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin che presentiamo qui, all’ineluttabilità alcuni filosofi e alcuni storici che a questi filosofi si ispirano (per esempio la stodella storia riografia marxista) commettono questo errore nell’interpretare il significato della storia e la spiegazione degli eventi storici. Una delle prime e più importanti conseguenze di questa visione degli avvenimenti storici come inevitabili tappe di un percorso predefinito, come avviene nelle filosofie della storia di Hegel o di Marx, sarebbe l’impossibilità di giudicare moralmente i protagonisti degli eventi.

L’Ottocento e le filosofie della storia

Prima risposta

La storia non deve essere solo ricostruzione dei fatti, ma anche valutazione delle responsabilità morali dei protagonisti da Isaiah Berlin, L’inevitabilità storica

La dottrina dell’inevitabilità della storia alla prova dei fatti

«Spiegare» non può coincidere con «giustificare»

I filosofi della storia come difensori dell’ineluttabilità degli eventi

Una decina di anni fa, mentre viveva nascosto durante l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale, Bernard Berenson mise per iscritto le sue riflessioni su quella che chiamava «la visione accidentale della storia», che «mi ha portato molto lontano», dichiarava, «dalla dottrina che avevo assimilato in gioventù, dell’inevitabilità degli eventi storici e da quel Moloch che ancora oggi ci divora, ‘l’inevitabilità storica’. Sempre di meno credo a questi dogmi, più che dubbi e sicuramente pericolosi, che tendono a farci accettare tutto ciò che accade come qualcosa di irresistibile cui sarebbe temerario opporsi». Le parole del famoso critico giungono particolarmente opportune in un momento in cui si registra, almeno fra i filosofi della storia se non fra gli storici, una certa tendenza a ritornare all’antica teoria per cui tutto ciò che esiste è, «oggettivamente parlando», la cosa migliore; che spiegare è «in ultima analisi», giustificare; che tutto conoscere vuol dire tutto perdonare. Falsità altisonanti (caritatevolmente descritte come mezze verità) che hanno prodotto perorazioni ad hoc e, per dirla tutta, una confusione di proporzioni gigantesche sull’intera faccenda. […] Per Bossuet, Hegel, Marx o Spengler (e quasi tutti i pensatori per i quali la storia è «qualcosa di più» della somma degli eventi passati, e cioè una teodicea) questa realtà assume l’aspetto di un «cammino della storia» oggettivo. Si può immaginare che questo processo si svolga nel tempo e nello spazio oppure al di là di essi; che sia ciclico, a spirale oppure rettilineo, o an173

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La necessità come motore della storia e delle azioni umane

Capire la storia è rivelarne i fini e il disegno

Lo storico come portatore di una verità ultima sulla storia

I difensori dell’ineluttabilità e la richiesta di «neutralità» dello storico

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che che abbia la forma di quel particolare movimento a zig zag che a volte viene detto dialettico; che sia continuo e uniforme o irregolare, interrotto da improvvisi balzi a «nuovi livelli»; che sia dovuto alle mutevoli forme di un’unica «forza» oppure a elementi in conflitto, condannati (come in certi antichi miti) a lottare in eterno; che sia la storia di un unico «principio», di un’unica «forza» o divinità, oppure di molte; che sia destinato a finire bene o male; che offra agli esseri umani la prospettiva della beatitudine eterna o dell’eterna dannazione o di entrambe o di nessuna delle due. […] In una simile cosmologia il mondo umano – o addirittura, secondo alcune versioni, l’intero universo – costituisce un’unica gerarchia che tutto abbraccia, cosicché spiegare perché ogni suo elemento è quello che è, sta dove sta, esiste quando esiste e fa ciò che fa, è eo ipso dire quale sia il suo fine, in che misura riesca a conseguirlo e quali siano le coordinazioni e subordinazioni tra i fini delle diverse entità, ciascuna delle quali persegue un proprio scopo, in quell’armoniosa piramide che esse costituiscono collettivamente. Se questa è un’immagine fedele della realtà, allora la spiegazione storica, come ogni altra forma di spiegazione, deve mirare soprattutto ad attribuire agli individui, ai gruppi, alle nazioni e alle specie il posto che loro compete entro il disegno universale. Conoscere il posto «cosmico» di una cosa o persona è dire che cosa essa sia e che cosa faccia ma anche, al tempo stesso, perché debba essere quello che è e fare quello che fa; dunque essere e avere valore, esistere e avere una funzione (nonché adempiervi con più o meno successo) sono una stessa cosa. È solo il disegno complessivo a porre in essere, a portare all’estinzione e a conferire un obiettivo, cioè un valore e un significato, a tutto ciò che esiste. Capire è percepire un disegno. Proporre una spiegazione storica non è semplicemente descrivere una successione di eventi, ma renderla intelligibile; e rendere intelligibile vuol dire rivelare un disegno fondamentale, non uno tra tanti possibili ma quello, unico e solo, che per il semplice fatto di essere quello che è, realizza uno scopo unico e specifico e di conseguenza si adatta in maniera specifica a quell’unico schema «cosmico» complessivo che è il fine dell’intero universo, il fine in virtù del quale soltanto esso è un universo e non un caos di pezzi sparsi senza relazione tra loro. Più è completa la sua comprensione di questo scopo, e perciò stesso dei modelli che esso impone alle varie forme dell’attività umana, e più l’opera di uno storico sarà capace di spiegare, più sarà illuminante, «profonda». Se un evento, o il carattere di un individuo, o l’attività di un’istituzione, un gruppo, un personaggio storico, non vengono spiegati come conseguenze necessarie del posto che essi occupano nel disegno complessivo (e quanto più lo schema è ampio, quante più cose abbraccia, tanto più è probabile che sia quello vero), non c’è spiegazione e quindi non c’è resoconto storico. Più si riesce a dimostrare che un evento, un’azione o un personaggio era inevitabile e meglio lo si è capito, più a fondo va la comprensione dello studioso e più siamo vicini alla verità unica, ultima e onnicomprensiva. […] Ci dicono che è sciocco giudicare Carlo Magno, Napoleone, Gengis Khan, Hitler o Stalin per i loro massacri, che simili giudizi sono, tutt’al più, dei commenti su noi stessi e non sui «fatti»; e ci dicono anche, analogamente, che non dovremmo chiamare benefattori dell’umanità coloro che i seguaci di Comte celebravano così devotamente, o per lo meno non spetterebbe a

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L’espulsione dalla storia del concetto di responsabilità

La distinzione tra fatti e valori come pretesa di scientificità

La valutazione come esigenza della morale comune

noi in quanto storici farlo: come storici usiamo categorie «neutrali», che differiscono da quelle che usiamo come semplici esseri umani tanto quanto quelle (sicuramente diverse) dei chimici. Ma non basta: ci dicono pure che come storici è nostro compito descrivere, per esempio, le grandi rivoluzioni dei nostri tempi senza nemmeno accennare al fatto che certi individui in esse coinvolti non hanno semplicemente causato grandi sofferenze e distruzioni ma ne sono stati responsabili (sto usando queste parole secondo i canoni non solo del ventesimo secolo, che ben presto finirà, né della nostra società capitalistica in declino, ma della razza umana in tutti i tempi e in tutti i luoghi in cui l’abbiamo conosciuta). E ci dicono, inoltre, che dovremmo coltivare questo genere di austerità per rispetto di un immaginario canone scientifico che distingue molto nettamente i fatti dai valori, al punto che si possono considerare i primi oggettivi, «inesorabili» e quindi autogiustificanti, e i secondi una semplice glossa soggettiva agli eventi, legata al momento, all’ambiente, al temperamento individuale e indegna quindi di un’analisi seria. A questo possiamo solo rispondere che accettare una simile dottrina è fare violenza ai concetti fondamentali della nostra morale, stravolgere il nostro senso del passato e ignorare alcuni dei concetti e delle categorie più generali del pensiero normale. Chi s’interessa degli affari umani è tenuto a impiegare le categorie e i concetti morali che il linguaggio normale incorpora ed esprime.

In esplicita replica a Berlin, lo storico inglese Edward Carr difende il carattere esplicativo della storia, distinguendo quella che è la spiegazione storica degli eventi e delle azioni – facendo anche esempi della vita quotidiana – dall’attribuzione di responsabilità. La ricerca di cause non significa in alcun modo, a parere di Carr, l’impossibilità di esprimere giudizi morali e quindi di attribuire precise responsabilità. Si tratta però di due operazioni diverse che non possono essere L’errore di Berlin confuse. Per mettere a fuoco quello che secondo lui è l’errore metodologico di Bersecondo Carr lin, Carr fa emergere il rapporto tra «responsabilità morale» e «libertà»: Berlin pretende che vengano valutati azioni ed eventi dal punto di vista di chi li vive in quel momento, come se tutto fosse ancora possibile. Lo storico invece, chiarisce Carr, spiega eventi che sono già avvenuti e il suo compito principale è ricostruirne la genesi e le cause; non si occupa, invece, di quello che sarebbe potuto avvenire ma, di fatto, non è avvenuto. La storia non è fatta di «se» ma di eventi reali.

Carr contro Berlin: «spiegare» e «valutare» vanno tenuti distinti

Seconda risposta

La storia è ricostruzione dei fatti e delle loro cause, non la valutazione delle responsabilità morali dei protagonisti da Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia

Le accuse di Popper a Hegel e Marx

Il professor Karl Popper, che verso il 1930 scrisse a Vienna un ponderoso libro sulla nuova concezione della scienza, tradotto recentemente in inglese col titolo The Logic of Scientific Enquiry, pubblicò in Inghilterra durante la guerra due libri di carattere meno esoterico: The Open Society and Its Enemies e The Poverty of Historicism. Si trattava di libri scritti nell’acceso clima delle critiche a Hegel, considerato insieme a Platone l’antenato spi175

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Il problema del giudizio morale e la questione della libertà secondo Berlin

Il successo delle tesi di Popper e Berlin

Analisi teorica del problema della libertà: una definizione di determinismo

L’errore di Popper è trascurare il principio di causalità Causalità e senso comune

Il parallelo tra scienze sociali e scienze della natura

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rituale del nazismo, e al marxismo abbastanza vacuo che caratterizzava la cultura di sinistra inglese nel decennio 1930-40. I bersagli principali erano le filosofie della storia di Hegel e di Marx, qualificate come deterministe, e riunite nella categoria ignominiosa di «storicismo». Nel 1954 sir Isaiah Berlin pubblicò un saggio intitolato Historical Inevitability, in cui si evitava di polemizzare con Platone, forse per un residuo senso di rispetto verso uno degli antichi caposaldi della tradizione oxoniense, ma si aggiungeva un nuovo capo d’accusa, assente nelle requisitorie di Popper, e cioè che lo «storicismo» di Hegel e Marx va rifiutato in quanto, spiegando le azioni umane in termini di causa ed effetto, nega implicitamente il libero arbitrio dell’uomo e induce gli storici a sottrarsi al presunto dovere, cui accennai nella lezione scorsa, di emettere condanne morali nei confronti dei Carlo Magno, dei Napoleone e degli Stalin che costellano le pagine della storia. Per il resto, le argomentazioni di Berlin non erano troppo diverse da quelle di Popper. Ma i libri di sir Isaiah sono, com’è giusto, diffusi e largamente letti. Negli ultimi cinque o sei anni quasi tutti coloro che in Inghilterra o negli Stati Uniti hanno scritto saggi di metodologia storica, o magari recensioni impegnative di libri di storia, non si sono lasciati sfuggire un saputo gesto di scherno nei confronti di Hegel, di Marx e del determinismo, sottolineando l’assurdità di non riconoscere l’importanza del caso nella storia. […] Cominciamo con l’occuparci del determinismo, che definirò – e spero che la definizione sia pacifica – la convinzione che tutto ciò che accade ha una o più cause, e avrebbe potuto accadere in modo diverso soltanto se la causa o le cause fossero state diverse. Il determinismo è un problema che non riguarda soltanto la storia, bensì ogni azione umana. Supporre un essere umano le cui azioni siano prive di causa e pertanto non determinate, è un’astrazione analoga a quella, su cui ci soffermammo in una delle scorse lezioni, dell’individuo concepito al di fuori della società. L’affermazione del professor Popper secondo cui «nelle azioni umane tutto è possibile» è o assurda o falsa. Nella vita d’ogni giorno nessuno pensa questo, né potrebbe farlo. L’assioma che tutto ha una causa è una delle condizioni che ci consentono di comprendere ciò che avviene attorno a noi. L’aspetto di incubo dei romanzi di Kafka consiste nel fatto che in essi ogni evento è apparentemente senza causa, o per lo meno, se una causa c’è, è impossibile scorgerla: ciò porta a una totale disintegrazione della personalità umana, che si fonda sulla supposizione che ogni evento ha una causa, e che è possibile accertare un numero di queste cause tale da dar luogo a un’immagine del passato e del presente abbastanza coerente da servire da guida all’azione. La vita d’ogni giorno sarebbe impossibile se non supponessimo che le azioni umane sono determinate da cause accertabili, almeno in teoria. Molto tempo fa alcuni individui giudicavano blasfemo indagare le cause dei fenomeni naturali, dal momento che questi erano evidentemente governati dalla volontà divina. L’obiezione di sir Isaiah Berlin alle nostre spiegazioni dei motivi delle azioni umane, obiezione fondata sul fatto che tali azioni sarebbero governate dalla volontà umana, appartiene allo stesso ordine di idee, e forse è un indizio che oggi le scienze sociali si trovano in una fase di sviluppo corrispondente a quella in cui si trovavano le scienze della natura, allorché si trovarono a dover rispondere a questo tipo di obiezioni.

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Unità 4 Marx Un esperimento mentale: il signor Smith

Berlin e il signor Smith

Conclusione di Carr: compatibilità tra determinismo e libertà

La responsabilità morale

La distinzione tra spiegare e giustificare

Il lavoro dello storico

Lo storico e l’«inevitabilità»

Vediamo un po’ come risolviamo questo problema nella vita di ogni giorno. Andando in giro per le vostre faccende, siete soliti incontrare Smith. Lo salutate facendo un’amichevole, innocente osservazione sul tempo, o sulla situazione del college o dell’università; e Smith risponde con un’osservazione altrettanto amichevole e innocente sul tempo o sul lavoro. Ma supponiamo che una mattina Smith, invece di rispondere nel solito modo alle vostre osservazioni, si lanci in un violento attacco contro il vostro aspetto o il vostro carattere. Alzereste le spalle e vedreste in questo comportamento una dimostrazione convincente del libero arbitrio di Smith e del fatto che nelle azioni umane tutto è possibile? Credo proprio di no. Al contrario, direste probabilmente frasi come queste: «Povero Smith! Naturalmente saprete che suo padre morì in manicomio», oppure: «Povero Smith, deve avere più fastidi del solito con sua moglie». In altre parole, cerchereste di diagnosticare il motivo del comportamento apparentemente immotivato di Smith, nel fermo convincimento che qualche motivo debba pur averlo. Temo che nel far così incappereste nelle ire di sir Isaiah Berlin, che vi criticherebbe aspramente perché, fornendo una spiegazione in termini di causa e effetto del comportamento di Smith, sareste caduti nella trappola delle ipotesi deterministiche di Hegel e Marx, sottraendovi al dovere di dichiarare pubblicamente che Smith è un maleducato. Ma nella vita di ogni giorno nessuno assume questo atteggiamento, o suppone che il determinismo e la responsabilità morale si escludano a vicenda. L’antitesi libero arbitrio / determinismo nella vita reale non sussiste. Non è che alcune azioni umane siano libere e altre determinate: tutte le azioni umane sono ad un tempo libere e determinate, a seconda del punto di vista da cui le guardiamo. Sul piano pratico il problema è ancora diverso. Il comportamento di Smith aveva una o più cause; ma nella misura in cui era determinato non da qualche costrizione esterna, ma dalle tendenze del suo io, Smith era moralmente responsabile, dal momento che una delle condizioni della vita associata è che un adulto in condizioni normali è moralmente responsabile delle tendenze del proprio io. Se poi in questo caso particolare Smith debba essere considerato responsabile o no, è un problema non più teorico, ma pratico. Ma anche se la risposta dovesse essere positiva, ciò non vorrebbe dire che considerate del tutto immotivato il comportamento di Smith: la causalità e la responsabilità morale sono, infatti, categorie diverse. Di recente sono stati istituiti in questa università un istituto e una cattedra di criminologia. Sono certo che nessuno di coloro che hanno il compito di indagare le cause dei delitti si sente perciò costretto a negare la responsabilità morale dei criminali. A questo punto guardiamo cosa fa lo storico. Anch’egli, come l’uomo comune, crede che le azioni umane siano determinate da cause teoricamente accertabili. La storia sarebbe impossibile, né più né meno della vita d’ogni giorno, se non partissimo da questo presupposto. Il compito specifico dello storico è di indagare su queste cause. Ciò potrebbe essere inteso nel senso che lo storico abbia uno speciale interesse per l’aspetto non libero, determinato delle azioni umane: ma egli non rifiuta il libero arbitrio – se si prescinde dall’ipotesi insostenibile che le azioni volontarie non abbiano causa. D’altra parte, lo storico non si lascia turbare dal problema dell’inevitabilità. Anche gli storici, come tutti, si servono talvolta di espressioni 177

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retoriche e definiscono un certo evento «inevitabile», volendo dire con ciò semplicemente che i fattori che lo rendevano probabile erano eccezionalmente efficaci. Ho riletto di recente la storia della Russia sovietica da me scritta alla ricerca del termine famigerato: in un certo punto scrivevo che, dopo la Rivoluzione del 1917, lo scontro tra i bolscevichi e la chiesa ortodossa era «inevitabile». Certo, sarebbe stato più opportuno scrivere «estremamente probabile»: ma spero di non essere biasimato se dico che questa correzione mi pare un po’ pedantesca. In pratica, gli storici non suppongono che gli eventi siano inevitabili prima che si siano verificati. Spesso analizzano le alternative che si presentavano ai protagonisti della vicenda, partendo dal presupposto che essi avessero la possibilità di compiere una scelta, anche se poi, molto giustamente, si preoccupano di spiegare perché di fatto si optò per un’alternativa anziché per un’altra. Nella storia non vi è nulla di inevitabile, tranne nel senso puramente formale che, perché le cose si svolgessero in un altro modo, anche le cause avrebbero dovuto essere diverse. In quanto storico, sono pronto a rinunciare a parole come «inevitabile», «necessario» e perfino «ineluttabile»; la vita sarà più monotona, ma lasciamole pure ai poeti e ai metafisici.

I brani antologizzati sono tratti da: I. Berlin, L’inevitabilità storica, in Id., Libertà, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 97, 104, 107-108 e 166-167 E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, pp. 98-103.

Per seguire il dibattito 1

Qual è l’accusa che Berlin fa agli storici e ai filosofi della storia? (max 2 righe)

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Qual è secondo Berlin il significato di «spiegare» per gli storici deterministi? (max 2 righe)

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Qual è il motivo per cui, secondo Berlin, lo storico non può e non deve pretendere di mantenersi neutrale? (max 2 righe) 178

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Qual è secondo Carr il legame tra determinismo e libertà? In che misura lo storico deve tener conto di entrambi? (max 6 righe)

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Quale spazio viene lasciato da Carr alla valutazione delle responsabilità nella metodologia della storia? (max 4 righe)

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Unità 5 Nietzsche 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il filosofo e il moralista Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea La tragedia e la storia La critica della metafisica La critica della morale Il superuomo e l’eterno ritorno

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Genealogia della morale ♦ Tesi a confronto: Nietzsche e la questione della verità: la verità esiste o è solo un mito della metafisica?

I testi La gaia scienza: Problemi filosofici e intuizione, T1; L’annuncio dell’eterno ritorno dell’identico, T22 Lettera a Theodor Fritsch del 29 marzo 1887: Nietzsche e l’antisemitismo, T2 Sull’utilità e il danno della storia per la vita: Filologia e contemporaneità, T3; Contro la filosofia hegeliana, T6; L’igiene della vita contro la malattia storica, T7 La nascita della tragedia: Il contrasto tra apollineo e dionisiaco, T4; La cacciata di Dioniso, T5 Genealogia della morale: L’illusione del soggetto, T8; Il nesso originario tra bontà e potenza, T15; La morale degli schiavi come reazione, T16; La genesi dell’interiorità, T17;

L’essenziale violenza della vita, T18; Dall’uomo ‘semplice’ all’uomo ‘profondo’, T19; L’interpretazione ascetica della sofferenza, T20 Umano, troppo umano: Necessità e innocenza, T9; La pretesa essenza eterna dell’uomo, T10; La chimica delle idee e dei sentimenti, T13 Il crepuscolo degli idoli: Duplicazione del mondo e disprezzo per la vita, T11 Al di là del bene e del male: La mancata critica della morale, T12; Innalzamento dell’uomo e aristocrazia, T21 Così parlò Zarathustra: Valutazione ed esistenza, T14

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

1 Il ‘caso’ Nietzsche

Lo stile evocativo e la divergenza delle interpretazioni

Nietzsche e l’Illuminismo

Teorico della morale e moralista

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Il filosofo e il moralista Nietzsche è un pensatore, e anche un personaggio, che ha sempre suscitato grandi entusiasmi e grandi rifiuti. La sua biografia intellettuale, anche solo ad accennare ad alcuni tratti, è in effetti peculiare. Destinato a diventare un filologo classico, si converte alla filosofia anche grazie alla lettura del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, e conduce un’esistenza sostanzialmente isolata ma intensissima che finisce per sfociare nella follia a soli quarantacinque anni. Dei grandi sistemi filosofici del passato rifiuta anche la forma espositiva, e preferisce l’uso dell’aforisma e della sentenza breve. Stilisticamente, utilizza un linguaggio ricco di iperboli, di metafore, di invettive, e spesso ridondante. Se poi ci si avvicina alla storia delle interpretazioni del suo pensiero, ci si trova di fronte a letture estremamente diverse. Il suo atteggiamento contrario ai sistemi filosofici, per esempio, lo ha fatto indicare come colui che privilegia sull’aspetto metodico l’aspetto espressivo, suggestivo, in cui la rilevanza di categorie indeterminate come la ‘vita’ – lo vedremo – diventa perfino invadente, e segna di sé una trattazione che più che sulla convinzione razionale sembra puntare sull’evocazione diretta di immagini e di nozioni non ulteriormente argomentabili, ma da cogliere immediatamente attraverso forme di intuizione o, magari, di immaginazione simpatetica. Si muove in parte in questa direzione la lettura di Dilthey (il più importante rappresentante dello storicismo tedesco contemporaneo): Dilthey accosta Nietzsche a riflessioni anti-sistematiche delle epoche più varie come quelle di Marco Aurelio e Montaigne, o a grandi scrittori del genere di Carlyle, Emerson o Tolstoj. Su un altro versante, per certi versi opposto, Martin Heidegger (1889-1976), uno dei più importanti filosofi del Novecento, ha invece visto in Nietzsche, in un’opera ponderosa e significativa che ha avuto larga influenza, l’ultimo rappresentante di quella storia della metafisica occidentale che ha in Aristotele il modello principale. Certo è che Nietzsche è autore di grande suggestione e di grande potenza evocativa anche sul piano letterario, e forse questo elemento non – o non necessariamente – filosofico ha rischiato e rischia tuttora di oscurare la rilevanza squisitamente teorica delle sue analisi e la componente ‘illuministica’ che ne fa, a parere di alcuni studiosi, uno dei grandi interpreti della famosa definizione kantiana dell’Illuminismo, come «uscita dallo stato di minorità che l’uomo potrebbe imputare soltanto a se stesso». Oltretutto, se un elemento importante del variegato movimento che siamo soliti chiamare ‘Illuminismo’ è la critica del pregiudizio, non è difficile, comunque lo si giudichi, accostare il nome di Nietzsche anche a questa attitudine intellettuale. Se si dovesse indicare un motivo centrale della sua riflessione, lo si potrebbe forse individuare in un elemento morale. È un orizzonte, quello morale, sempre presente a Nietzsche, e che attraversa tutta la sua biografia intellettuale, a partire dai titoli delle opere o di capitoli di esse: la seconda parte di Umano, troppo umano (1878) si intitola Per la storia dei sentimenti morali, il sottotitolo di Aurora (1881) suona Pensieri sui pregiudizi morali, un’importante opera del 1886 si intitola Al di là del bene e del male (con un capitolo sulla Storia naturale della morale). Si deve anche ricordare, poi, che una delle opere più lucide e riuscite del filosofo è la Genealogia della morale (1887), dove Nietzsche mette radicalmente in discussione la categoria della ‘moralità’ in nome della moralità stessa. Infine,

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è difficile non ricevere dalla lettura dei testi nietzscheani l’impressione di trovarsi di fronte anche a una dimensione moralistica che si affianca a quella filosofico-scientifica, secondo la caratterizzazione che del ruolo dei moralisti nella filosofia moderna è stata data dal filosofo marxista Cesare Luporini (1909-1993): […] accanto ai filosofi in senso tecnico e critico-scientifico ci sono stati i moralisti, elaboratori di immediate esperienze umane, specifiche di un’epoca, di una classe, o di una rilevante personalità (anche se presentate sub specie aeternitatis), e il cui pensiero è caratteristicamente contrassegnato da un’accentuazione ottimistica o pessimistica della visone del mondo e delle cose, che, come tale, esula dalla pura indagine scientifica. Queste esperienze e queste elaborazioni […] hanno avuto notevolissimo peso nello svolgimento della cultura e della stessa filosofia moderna, e basti ricordare gli umanisti italiani, Erasmo e Montaigne, Pascal e Pope e, in genere, i moralisti francesi e inglesi del XVII e del XVIII secolo, giù giù fino a un Kierkegaard o a un Nietzsche. Lo stile aforistico

T1

Problemi filosofici e intuizione

La gaia scienza, af. 381

Nietzsche e il nazismo

T2

Nietzsche e l’antisemitismo

Lettera a Theodor Fritsch

Non è un caso, allora, che il costituirsi di una filosofia pienamente autonoma in Nietzsche, e il consolidarsi del suo atteggiamento polemico verso tutti i grandi sistemi filosofici, avvenga anche sotto l’influenza di Montaigne e, in genere, della letteratura moralistica francese di un Pascal o di un La Rochefoucauld, autori che si servivano volentieri, del resto, di un’esposizione fatta di massime o aforismi. Questa scelta stilistica, del resto, non è casuale, ma esplicitamente rivendicata da Nietzsche. […] con i problemi profondi mi comporto come con un bagno freddo – presto dentro, presto fuori. Che così non si tocchi il fondo, non si scenda abbastanza in profondo, è la superstizione di chi ha paura dell’acqua, dei nemici dell’acqua fredda: parlano senz’esperienza. Oh, come rende svelti il gran freddo! Incidentalmente domando: è vero che una cosa resta incompresa e ignota per il semplice fatto che viene afferrata a volo, adocchiata e còlta in un baleno? Si deve proprio prendere prima di tutto saldo possesso di essa? Averci fatto sopra la cova come su di un uovo? Il problema dell’interpretazione della filosofia di Nietzsche è ancora più complesso se si passa al piano politico, dove la figura e il pensiero di Nietzsche hanno sempre suscitato discussioni e sospetti, e continuano a suscitarne. Nietzsche è stato in effetti accostato di frequente al nazismo, o addirittura ritenuto una delle fonti teoriche di quel regime, e i nazisti hanno spesso dichiarato un’affinità con il suo pensiero. Gli studiosi più attenti sono spesso intervenuti per chiarire quanto Nietzsche fosse distante dalle posizioni nazionaliste, razziste e, in particolare, antisemite dei nazionalsocialisti. È stato più volte ricordato, a questo proposito, il fastidio e addirittura il disprezzo di Nietzsche per il movimento antisemita, sul che bastano due episodi ricordati da Mazzino Montinari, curatore con Giorgio Colli dell’edizione critica in tedesco delle opere di Nietzsche e, parallelamente, anche dell’edizione italiana. In una lettera del 29 marzo 1887 a uno dei maggiori esponenti del movimento antisemita, Theodor Fritsch (poi deputato nazionalsocialista), Nietzsche scrive: Mi creda: questa disgustosa invadenza di noiosi dilettanti che pretendono di dire la loro sul ‘valore’ degli uomini e delle razze, questa sottomissione verso ‘autorità’ che tutte le persone assennate condannano con freddo disprezzo […] queste continue e assurde falsificazioni e distorsioni di concetti così vaghi come 181

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«germanico», «semitico», «ariano», «cristiano», «tedesco» – tutto questo potrebbe alla fine davvero mandarmi in collera, e farmi perdere la bonarietà ironica, con cui finora ho assistito alle velleità virtuose e ai fariseismi dei tedeschi d’oggi. – E, per finire, che cosa Lei crede che io provi, quando degli antisemiti si permettono di pronunciare il nome di Zarathustra?

L’atteggiamento antiegualitario

L’individualismo aristocratico

➥ Sommario, p. 210

E lo stesso Fritsch, nel recensire Al di là del bene e del male, vi trova addirittura una «esaltazione degli ebrei» dovuta alle «spiritosaggini superficiali di un povero studioso da strapazzo, corrotto dagli ebrei». Sull’altro fronte, l’idea di un Nietzsche ‘progressista’ si scontra inevitabilmente con il suo atteggiamento profondamente antiegualitario, antidemocratico e polemico verso tutto ciò che in qualche senso rimandi a un ideale di uguaglianza: si tratta di un ideale che ha per Nietzsche le sue radici nel cristianesimo, tanto che le idee democratiche e socialiste vengono viste come semplici sviluppi della religione che ha segnato l’intera storia dell’Occidente. L’insofferenza di Nietzsche per tutto ciò che è o può diventare un movimento di massa (compreso quindi, anche per questo aspetto, l’antisemitismo) esprime in modo violentemente polemico uno dei caratteri rilevanti dell’Ottocento europeo: l’intervento per l’appunto delle masse, e in particolare del movimento operaio, sul teatro della vita sociale e dell’azione politica. Nietzsche non è l’unico a reagire con un atteggiamento radicalmente aristocratico a questa profonda e importante modificazione della società ottocentesca che si va trasformando in una società di massa e dove anche gli interessi delle masse pretendono di essere rappresentati: nel corso del secolo, che si chiude con la morte di Nietzsche (1900), l’eroe è sempre più un individuo che si stacca e si distingue aristocraticamente da una massa che viene vista come sempre più minacciosa. L’individualismo è quindi, anche in Nietzsche, un tratto dominante. Con tutti i problemi che la sua interpretazione presenta, la filosofia di Nietzsche è certamente, per la sua ricchezza e per la sua influenza storica, uno dei passaggi fondamentali della filosofia contemporanea. La radicalità della sua critica dell’apparato concettuale della tradizione fa di Nietzsche un pensatore di rara importanza, anche quando non se ne condividano le tesi e si possa essere addirittura infastiditi dalla ridondanza delle sue pagine.

La vita Friedrich Wilhelm Nietzsche, figlio di un pastore protestante, nacque a Röcken, presso Lipsia, nel 1844. All’età di cinque anni perse il padre e nel 1850 si trasferì con la madre e la sorella Elisabeth – con le quali ebbe sempre un rapporto ambivalente e conflittuale – a Naumburg (sempre vicino a Lipsia), dove a dodici anni iniziò a scrivere poesie e a comporre musica. Nel 1858 entrò nel rigido ginnasio di Pforta e nel 1864 si iscrisse alla facoltà di teologia dell’università di Bonn. Nel 1865 si trasferì di nuovo a Lipsia per seguire le lezioni del filologo classico Friedrich Ritschl, il quale – individuate le capacità fuori dal comune del giovane allievo – si adoperò per procurare a Nietzsche una cattedra di lingua e letteratura greca presso l’università di Basilea. Dal 1869 (a soli ventiquattro anni) fino al 1879 Nietzsche insegnò a Basilea, dove ebbe tra i suoi amici e colleghi lo

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storico Jacob Burckhardt e il teologo Franz Overbeck, che gli stette vicino fino alla morte. Sempre in questi anni Nietzsche strinse un forte legame di amicizia con il più anziano Richard Wagner, del quale ammirò la rivoluzionaria concezione drammatico-musicale. La pubblicazione nel 1872 della Nascita della tragedia – profondamente influenzata dall’appassionata lettura di Schopenhauer – e delle successive opere giovanili determinò una rottura con il suo maestro Friedrich Ritschl e portò negli anni successivi a un progressivo distacco di Nietzsche dall’ambiente accademico, fino al volontario abbandono definitivo della carriera universitaria nel 1879. Oltre alla rinuncia alla cattedra a Basilea, la fine degli anni settanta vide anche una presa di distanza di Nietzsche dal pensiero di Schopenhauer (che Nietzsche vedeva adesso come compromesso in senso tradizionalmente ‘metafisico’) e una rottura con l’amicizia e la concezione mu-

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sicale di Wagner (il quale con la sua ultima opera, il Parsifal, ritornò a un certo cristianesimo nostalgico). Nei dieci anni successivi Nietzsche visse con una modesta pensione assegnatagli dall’università di Basilea e pubblicò – in gran parte a proprie spese – le sue opere maggiori. Furono questi anni assai inquieti, caratterizzati da continui spostamenti di Nietzsche in tutta Europa, nonché dalla sua amicizia, divenuta poi autentica passione, verso una giovane intellettuale russa, affascinante, intelligente e anticonformista: Lou Salomé (amica, tra gli altri, di Rilke e Freud). La passione di Nietzsche per Lou Salomé, non ricambiata da quest’ultima e per di più fortemente ostacolata dalla sorella e dalla madre di Nietzsche, contribuì ad aggravare i sintomi nevrotici che egli aveva già iniziato a manifestare durante gli ultimi anni dell’insegnamento universitario.

2 Dalla filologia alla filosofia

Nel 1889, a Torino (dove si era stabilito) Nietzsche venne colto da un forte crollo psichico, che lo portò negli anni successivi a una progressiva demenza. Recatosi a Torino, l’amico Franz Overbeck riportò con sé a Basilea Nietzsche, che venne ricoverato in una clinica psichiatrica. A questo periodo risalgono diverse brevi lettere – i cosiddetti «biglietti della pazzia» – che Nietzsche scrisse e spedì ad amici, uomini di Stato, diplomatici, sovrani in tutta Europa. Dopo la morte della madre (1897), che lo aveva portato con sé a Jena e a Naumberg, Nietzsche venne preso in custodia dalla sorella Elisabeth, che si appropriò dell’enorme mole di manoscritti del fratello non pubblicati. In questi anni, senza che egli potesse rendersene conto, la fama del Nietzsche filosofo cominciò a diffondersi in tutta Europa, e vennero già tenuti i primi corsi accademici sulle sue opere. Morì a Weimar nel 1900.

Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea La vita di Nietzsche sembra destinata a una brillante carriera accademica come filologo. La chiamata a Basilea come professore di lingua e letteratura greca, a soli ventiquattro anni, costituisce infatti un punto di partenza ideale in questa direzione per colui che uno dei massimi filologi tedeschi dell’epoca, Friedrich Ritschl, considera già uno studioso maturo. Ma le cose vanno altrimenti. Le indagini di Nietzsche sulla genesi della tragedia greca (che verranno pubblicate nel 1872 con il titolo La nascita della tragedia) sono infatti profondamente segnate dall’influenza di due personalità che determinano l’impostazione del saggio, ma anche la sua sostanziale inaccettabilità per la comunità accademica: Arthur Schopenhauer e Richard Wagner. Lo stesso Ritschl rimane perplesso dopo la lettura dello scritto del suo geniale allievo, che non solo sembra ormai orientato verso un interesse decisamente filosofico, ma è deciso a sviluppare le proprie idee in una direzione molto originale. E Ritschl esprime francamente a Nietzsche tutti i suoi dubbi, in una lettera del 14 febbraio 1872: Secondo la mia intera natura io – e questa è la cosa principale – appartengo alla corrente storica e alla considerazione storica delle cose umane, in modo così risoluto che non mi è mai sembrato si potesse trovare la redenzione del mondo in questo o quel sistema filosofico; che neppure mi potrò mai indurre a definire «suicidio» [il termine era stato usato da Nietzsche] il naturale appassirsi di un’epoca o di un fenomeno […]. Lei non può pretendere da un ‘alessandrino’, da uno ‘scienziato’ di condannare la conoscenza e di scorgere solo nell’arte la forza riplasmatrice, redentrice e liberatrice del mondo.

La rottura con l’ambiente accademico

La lettera di Ritschl, insieme con l’attacco sferrato a Nietzsche da colui che è destinato a diventare un altro grande filologo, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf (con la sua ironia sulla pretesa ‘filologia del futuro’ nietzscheana), segnano simbolicamente il primo distacco di Nietzsche dalla comunità accademica e dall’attività di professore, resa del resto sempre più difficile dalle cattive condizioni di salute e dall’insofferenza per l’ambiente universitario, che egli abbandonerà definitivamente nel 1879. 183

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Qualche anno dopo l’opera sulla nascita della tragedia Nietzsche si emanciperà anche dalla ‘tutela’ di Schopenhauer e di Wagner, con il quale rompe definitivamente i rapporti in coincidenza con l’uscita di Umano, troppo umano, che con Aurora e La gaia scienza (1882) forma il primo nucleo della sua produzione filosofica pienamente autonoma. A Nietzsche rimangono pochi intensissimi anni di lavoro: tra il 1883 e il 1885 esce un’opera fondamentale ma di non facile decifrazione (scritta in stile non aforistico), Così parlò Zarathustra, alla quale seguono Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale (1887). Tra il 1888 e il 1889 escono le sue ultime opere, ma già nel gennaio 1889 il filosofo viene còlto, a Torino, da una crisi di follia che segna la fine della sua creatività intellettuale. L’edizione critica L’edizione critica delle opere di Nietzsche, approntata da Colli e Montinari (a completa partire dal 1967), ha permesso di chiarire gli equivoci e i fraintendimenti provocati dal modo in cui i testi sono stati pubblicati dopo la sua morte, anche per responsabilità della sorella Elisabeth (che ha comunque il merito di avere conservato i manoscritti). Anche per Nietzsche, quindi, si pone il problema dell’utilizzazione degli scritti inediti (per la gran parte redatti in forma di frammenti) che sono una fonte preziosa, in questo come in altri casi, per integrare l’interpretazione che si può dare sulla base delle opere pubblicate, ma che forse non dovrebbero poter sostituire, o addirittura stravolgere, ciò che l’autore ha scritto nel➥ Sommario, p. 210 le opere consapevolmente e intenzionalmente destinate al pubblico.

Le opere filosofiche della maturità

3

La tragedia e la storia Come si è accennato, il punto di partenza di Nietzsche affonda le radici nella sua formazione di filologo, e nella ricerca sulla natura e sulla genesi della tragedia greca.

L’origine della tragedia e il pessimismo La critica della contemporaneità

T3

Filologia e contemporaneità Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Prefazione

La reinterpretazione della cultura greca

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La passione per la filologia viene ben presto sostituita da quella per l’indagine filosofica, e dall’atteggiamento fortemente critico nei confronti della cultura e della civiltà contemporanea, come lo stesso Nietzsche non manca di sottolineare poco dopo La nascita della tragedia, nella seconda Considerazione inattuale, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874). L’«inattualità» è dettata, infatti, proprio dall’attitudine polemica verso la cultura del tempo, e dalla ferma volontà di intervenire in essa. […] solo in quanto sono allievo di epoche passate, specie della greca, giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio dell’epoca odierna. Ma questo devo potermelo concedere già per professione, come filologo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo. Nietzsche guarda alla cultura greca criticandone l’interpretazione che ritiene dominante e che vede in essa una cultura della classicità come armonia, come equilibrio

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e come bellezza: si tratta di un’interpretazione che per Nietzsche si limita a una certa fase della cultura greca (l’Atene del V secolo a.C.) e a certi aspetti di essa, cioè alla scultura e all’architettura. Questa cultura, che viene adeguatamente rappresentata da Omero e dagli dèi omerici, è però in realtà l’espressione di un solo principio, quello detto apollineo. Sull’opposizione tra il principio apollineo e quello ad esso opposto, dionisiaco, Nietzsche costruisce la sua reinterpretazione della cultura e della tragedia greche come chiave per la critica della cultura contemporanea.

T4

Il contrasto tra apollineo e dionisiaco La nascita della tragedia, 1

La tragedia, sintesi dei due principi

Il primato del principio dionisiaco

Riconciliazione dell’uomo con la natura e liberazione dalla soggettività

[…] lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente. Questi nomi noi li prendiamo a prestito dai greci, che rendono percepibili a chi capisce le profonde dottrine occulte della loro visione dell’arte non certo mediante concetti, bensì mediante le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine «arte» solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della ‘volontà’ ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. La tragedia è la mirabile sintesi dei due principi, dei due impulsi, che corrispondono a due diverse dimensioni della vita e della sua relazione con la realtà: se l’apollineo corrisponde al sogno, all’illusione, il dionisiaco corrisponde all’ebbrezza, e si tratta di un contrasto, quello tra sogno ed ebbrezza come due «mondi artistici», parallelo e coincidente con quello tra apollineo e dionisiaco. Nel principio apollineo si realizza la dimensione illusoria, apparente della realtà come costituita da individui separati tra loro (idea, questa, ripresa da Schopenhauer, vedi Unità 2, p. 45), laddove il principio dionisiaco dà voce all’intrinseca unità e inscindibilità del reale. Ma in realtà non si tratta di due principi ugualmente originari. Il principio apollineo è una forma di reazione, di difesa di fronte al dionisiaco, che è il principio realmente originario: esso deriva da Dioniso come dio dell’ebbrezza e si esprime, dal punto di vista artistico, nella musica. L’impulso dionisiaco mostra infatti una realtà più profonda che riesce a trovare espressione e a far raggiungere uno stato ‘estatico’ o sotto l’influsso di bevande narcotiche o per l’avvicinarsi della primavera, tutti elementi riprodotti nei culti orgiastici attraverso i quali si realizza un ricongiungimento dell’uomo con la realtà e con la natura che viola il principio dell’individualità e che celebra, in questo modo, la festa di riconciliazione della natura con il figlio perduto, l’uomo. In questi culti, ciò che si realizza è l’unità dell’uomo con la natura in uno stato di esaltazione in cui la soggettività tende a svanire in una sorta di dimenticanza di se stessi come individui separati: qui una realtà «piena d’ebbrezza» cerca di liberare l’individuo dalla sua stessa individualità «con un sentimento mistico di unità». È lo stesso fenomeno, sostiene Nietzsche, che si ripete nel corso di certe feste ingiustamente guardate dal mondo della cultura con disprezzo perché sarebbero ‘popolari’, e che al contrario rivelano una loro radice antica. 185

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L’origine della tragedia, una questione discussa fin dall’antichità La questione dell’origine della tragedia è sempre stata una delle più dibattute e controverse nell’ambito degli studi filologici e antichistici moderni. Risulta inoltre che tale questione fosse già stata affrontata – con posizioni diverse – fin dall’antichità. Secondo Aristotele, la cui preziosa testimonianza è contenuta nella Poetica, la tragedia sarebbe sorta nel Peloponneso come derivazione dal ditirambo, ossia da quel particolare canto corale che veniva intonato in occasione di celebrazioni cultuali in onore di Dioniso: quando uno dei cantori si dissociò dal coro e si mise a dialogare con esso, sarebbero nati il ruolo dell’attore e uno degli elementi costitutivi della tragedia, il dialogo, appunto. La questione sembra complicarsi sulla scorta di un passo immediatamente successivo della stessa Poetica, in cui Aristotele sembra invece collegare le origini della tragedia a un non meglio identificato elemento «satiresco», la cui identità è ancora discussa. Probabilmente si trattava di una forma rituale di canto improvvisato eseguito da uomini mascherati da satiri, le divinità che componevano il corteggio di Dioniso. Lungi dal contraddire la testimonianza precedente, che connette la tragedia al ditirambo, questo secondo passo sembra integrarla: è verosimile pensare che la tragedia si sarebbe sviluppata dal ditirambo, che era un canto corale di tipo narrativo, passando poi per una fase in cui l’elemento ‘scenico’ sarebbe stato affidato a un coro di satiri; quando infine, come abbiamo detto, uno dei coreuti si staccò dal coro iniziando a dialogare con esso, sarebbe sorta la prima vera forma di tragedia. Altra testimonianza antica è quella che ci proviene dagli alessandrini, per i quali il luogo d’origine della tragedia sarebbe invece la regione dell’Attica e la sua genesi sarebbe da ricondursi ai rituali in onore di Dioniso che lì venivano celebrati. Sulla linea della lezione alessandrina e di varie comparazioni etnologiche, l’origine della tragedia è stata individuata in diversi rituali arcaici, come quelli celebrati annualmente sulle tombe degli eroi, oppure le rappre-

sentazioni simboliche corali della morte e resurrezione dell’Anno, o ancora alcuni culti di rievocazione dei defunti, o sacrifici propiziatori primaverili eseguiti da cortei di uomini mascherati. La questione dell’origine della tragedia greca si è posta in epoca moderna sulla base di queste due distinte ipotesi antiche. In tutti i casi, quello che risulta evidente è che la tragedia è strettamente associata al culto di Dioniso, come confermato dalle occasioni festive che facevano da cornice alle rappresentazioni, le «Grandi Dionisie» (aperte ai cittadini di tutta l’Attica) e le «Piccole Dionisie» (riservate solo ai cittadini ateniesi). La rappresentazione delle tragedie nella pòlis veniva regolata istituzionalmente in occasione delle feste appena menzionate, nelle quali avevano luogo dei veri e propri agoni drammatici, o competizioni teatrali, cui prendevano parte alcuni tragediografi prescelti dall’arconte eponimo, il cui operato era poi sottoposto al giudizio dell’assemblea popolare. Ogni tragediografo ammesso alla competizione presentava una tetralogia costituita da tre tragedie e un dramma satiresco. Ogni tetralogia veniva rappresentata in un giorno diverso (e inizialmente erano destinate a una sola rappresentazione) e la vittoria finale era assegnata dal verdetto di cinque giudici, il cui voto era comunque influenzato dagli umori e dalle reazioni del pubblico, che dunque aveva un ruolo attivo nell’attribuzione del premio. Anche Nietzsche, nella Nascita della tragedia, sottolinea il carattere di forte partecipazione emotiva degli spettatori di fronte alla tragedia attica. Tale partecipazione si spiega in parte col fatto che i miti e le gesta rappresentati nella tragedia erano ben noti al grande pubblico, e che i tragediografi spesso attualizzavano gli episodi mitici scelti nella prospettiva sociale e politica a loro contemporanea. Lo scopo principale del tragediografo era quello di indagare la condizione umana, il rapporto dell’uomo con gli dèi, la moralità delle sue azioni, i concetti di destino, colpa e responsabilità, al fine di arrivare a una caratterizzazione di modelli comportamentali e valori comunitari sui quali regolare la condotta individuale.

Si manifestano chiaramente, nella Nascita della tragedia, le principali fonti di ispirazione: da un lato, c’è la prospettiva di Schopenhauer di una unità della «volontà» come principio metaindividuale, radice reale del mondo della mera «rappresentazione», dall’altro, è ben presente la concezione – sempre schopenhaueriana – della musica come espressione diretta di questa volontà (vedi Unità 2, p. 52), insieme con la concreta realizzazione di quest’ideale nella musica di Wagner, frequentato assiduamente da Nietzsche in questi anni. Il dominio della vita Nell’impulso dionisiaco, Nietzsche dà espressione per la prima volta a un tema sulla razionalità che percorre tutta la sua riflessione e che risale, pur con crescenti tentativi di differenziarsi nel corso della sua biografia intellettuale, alla «volontà» di Schopenhauer: è la ricerca di un principio ‘vitale’ originario che si esprima direttamente e immediatamente come «misteriosa unità originaria» tra gli individui e tra l’uomo e la natura. Si tratta del dominio della vita sulla razionalità che attraSchopenhauer e Wagner

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Unità 5 Nietzsche

La tragedia e il superamento dell’individualità

Il suicidio della tragedia

versa tutta l’opera di Nietzsche e che assumerà, negli anni successivi, la denominazione di volontà di potenza. La figura di Dioniso, in effetti, non scomparirà dalle pagine di Nietzsche nemmeno quando il quadro teorico sarà per altri aspetti mutato, come dimostrano le ultime opere redatte nel 1888, a un passo dalla follia: parliamo del Crepuscolo degli idoli e della ricostruzione, attraverso le opere, della propria biografia, contenuta in Ecce homo, che in sostanza si chiude con l’affermazione «Dioniso contro il Crocifisso». Secondo Nietzsche, la tragedia attica di Eschilo è la sintesi suprema dei due istinti e quindi dei due principi: in essa, la dimensione dionisiaca originaria viene conservata attraverso il coro e la musica, mentre la dimensione apollinea consiste nella trama e nel dialogo. Lo spettatore greco non assiste alla tragedia per il proprio piacere o per la propria distrazione come lo spettatore moderno, ma proprio per entrare in una dimensione estatica di superamento della propria individualità. In questo superamento si ha il riconoscimento di un’unità originaria e di una perdita della propria individualità che provoca da un lato il terrore di fronte al caos e a un’unità che non ha ordine né scopo, dall’altro una dimensione di estasi. La consolazione ‘metafisica’ della tragedia è il permanere della vita «indistruttibile, potente e gioiosa» come coro di satiri – figure tradizionalmente legate a Dioniso – esseri naturali che sopravvivono eternamente alle generazioni e alle storie dei popoli. Il senso dell’atteggiamento dionisiaco e della tragedia stessa diventa allora un’accettazione della vita in tutte le sue componenti, poiché così si coglie il carattere tragico dell’esistenza e al tempo stesso la propria appartenenza al divenire al di là della propria individualità. Dietro a tutte le figure della tragedia come – nel caso di Sofocle – quella di Edipo, si nasconde infatti l’unico eroe tragico che è Dioniso stesso, di cui tali figure sono altrettante ‘maschere’. La tragedia greca però, come scrive Nietzsche (e come gli verrà rimproverato, nel brano visto sopra, dal filologo Ritschl), morirà ‘suicida’, uccisa dai suoi stessi sviluppi. Già con Eschilo la parte del coro viene ridimensionata, mentre la vera fine della tragedia si ha con il convergente razionalismo di Euripide e di Socrate, o meglio, con la tragedia euripidea come espressione del razionalismo socratico. Euripide e Socrate costituiscono così un punto di svolta nel quale viene eliminato l’elemento dionisiaco «originario e onnipotente».

T5

Dioniso era stato già cacciato dalla scena tragica, cacciato da una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in certo senso solo maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco e il socratico, e l’opera d’arte della tragedia greca perì a causa di esso.

Il sopravvento dell’ottimismo socratico

La tragedia perisce, quindi, per il dileguarsi dello spirito della musica così come grazie allo spirito della musica era nata. Con Socrate ha inizio l’ottimismo razionalistico che costituirà la caratteristica di tutta la tradizione occidentale: con Socrate ed Euripide, infatti, ciò che viene rappresentato è la razionalità della realtà e dell’esistenza. Il «socratismo estetico», ovvero l’estetica razionalistica, rappresenta ed esprime il principio per cui tutto ciò che è bello deve essere razionale, un principio parallelo al principio socratico per cui la razionalità e la conoscenza sono il fondamento della virtù, e quindi tutto ciò che è buono deve essere razionale. La tragedia euripidea si muta in una narrazione razionale, natu-

La cacciata di Dioniso

La nascita della tragedia, 12

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ralistica e realistica, in cui gli avvenimenti sono concatenati logicamente: il prologo delle tragedie di Euripide svolge infatti per Nietzsche una funzione di chiarimento preliminare di tipo razionale in seguito al quale si sa già tutto quello che accadrà, e viene meno ogni «eccitante incertezza». L’ottimismo socratico prende il posto del pessimismo tragico. Tale forma di ottimismo, con la quale l’uomo ‘teoretico’ prende il sopravvento sull’uomo ‘tragico’, segna l’imporsi del razionalismo sulla profondità degli istinti e sulla dimensione non razionale dell’esistenza. Per Nietzsche, questa vittoria della razionalità sugli istinti e sulla dimensione mitica è decisiva per la crisi della civiltà greca e per l’intero sviluppo della civiltà occidentale. Il ritorno al dionisiaco Nietzsche intravede però la possibilità di un ritorno all’arte tragica e, quindi, al nell’epoca dionisiaco, nella cultura contemporanea: egli punta il dito infatti verso una nuova contemporanea funzione catartica dell’arte che trova rinnovata espressione nei drammi musicali di Wagner. Si tratta, anche in questo caso, di un’interpretazione ampia della nozione di ‘arte’, intesa in contrapposizione alla fiducia nella razionalità e nella metafisica della tradizione, due termini che rimarranno sempre tra gli obiettivi polemici privilegiati – lo vedremo – della critica di Nietzsche. L’unica ‘metafisica’ accettata dalla Nascita della tragedia, Nietzsche lo scriverà alcuni anni dopo, è una metafisica d’artista contrapposta a quella tradizionale, una metafisica cioè consapevole della possibilità esclusivamente estetica di giustificazione del mondo e dell’esistenza. Questa viene esplicitamente contrapposta a una giustificazione razionale che neghi la realtà istintuale della vita e che Nietzsche vede rappresentata come vittoriosa nella tradizione occidentale e in particolare, come sarà anche negli anni successivi, prima da Socrate e Platone e poi, e soprattutto, dal cristianesimo. «Apollineo» e «dionisiaco»

Principio apollineo armonia misura equilibrio illusione (reazione di difesa nei confronti del principio dionisiaco)

conflitto

Principio dionisiaco vita istintualità caos ebbrezza (costituisce il principio realmente originario)

Tragedia attica: sintesi tra i due principi Trama e dialogo ➞ dimensione apollinea Musica e coro ➞ dimensione dionisiaca

Dramma musicale wagneriano

La storia e la vita La polemica verso la cultura contemporanea

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Si è detto del carattere polemico che Nietzsche attribuisce agli scritti che con il titolo di Considerazioni inattuali, escono tra il 1873 e il 1876 (che sono: David Strauss, 1873, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Schopenhauer come educatore, 1874, Richard Wagner a Bayreuth, 1876). Una particolare ri-

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levanza, tra questi, la posseggono lo scritto dedicato a Schopenhauer e lo scritto sulla storia: si tratta di due modi per affrontare polemicamente la cultura contemporanea; da un lato, attraverso la critica del rapporto tra società e cultura, dall’altro, attraverso una riflessione sulla storia che prende di mira la storiografia e le concezioni della storia dell’Ottocento. È di quest’ultima che occorre dire qualcosa. La critica della filosofia Nella riflessione sulla storia, non stupisce che un obiettivo polemico sia la filodella storia sofia della storia idealistica, e in particolare hegeliana, sia per il suo carattere, sia per il peso – secondo Nietzsche negativo – che essa ha avuto sulla cultura tedesca. Nella prospettiva di Hegel, si guarda in realtà al presente come a un punto d’arrivo, e si tende quindi a vedere il processo che proprio al presente ha condotto come un processo che tende a un compimento.

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Contro la filosofia hegeliana

Sull’utilità e il danno della storia per la vita

Credo che in questo secolo non ci sia stata nessuna deviazione o svolta pericolosa della cultura tedesca, che non sia diventata più pericolosa ancora per l’enorme influenza, fino a questo momento ancora dilagante, di questa filosofia, ossia della filosofia hegeliana. In verità, la credenza di essere un epigono di altri tempi è paralizzante e deprimente: terribile e distruttivo deve però apparire il fatto che un bel giorno una tale credenza divinizzi con ardito capovolgimento questo frutto tardivo come il vero senso e scopo di tutto quanto è precedentemente accaduto, il fatto cioè che la sua sapiente miseria venga equiparata a un compimento della storia del mondo. Una tale maniera di considerare ha abituato i tedeschi a parlare del «processo del mondo» e a giustificare il proprio tempo come il risultato necessario di questo processo del mondo […]. Hegel […] ha istillato nelle generazioni da lui lievitate quell’ammirazione di fronte alla ‘potenza della storia’, che praticamente si trasforma a ogni istante in nuda ammirazione del successo e conduce all’idolatria del fatto.

L’idolatria del fatto, e tanto più la conoscenza del fatto ‘passato’ inteso come conoscenza storica, sono diventate nel corso dell’Ottocento, secondo Nietzsche, una sorta di malattia, di elemento patologico, proprio per l’eccesso di storia che ha influenzato negativamente il confronto con la vita e con la sua ‘forza plastica’. Completamente fedele al titolo dello scritto, Nietzsche vuole qui mettere in evidenza la dimensione ambivalente della conoscenza storica: essa è infatti al tempo stesso qualcosa di utile e qualcosa di dannoso, qualcosa che può stimolare e qualcosa che può frenare la vita e l’azione. Il bisogno di storia genuino è tale se nasce dalla necessità di collegare storia e vita, storia e azione, non è semplice desiderio di erudizione di colui che voglia essere soltanto un «ozioso raffinato nel giardino del sapere». La storia riceve i suoi diritti, infatti, esclusivamente dalla sua possibilità di servire, di essere utile alla vita, non dal suo soffocarla: in quest’ultimo caso la storia, con la sua idolatria del fatto, rende difficile pensare al nuovo, a un agire produttivo, creativo. L’oblio e la vita L’azione, e la stessa felicità, dipendono infatti per Nietzsche anche da ciò che è l’opposto di ogni storia e di ogni storiografia, e cioè dall’oblio, dal dimenticare come capacità positiva, che mette in condizione di agire perché ne costituisce in un certo senso il presupposto: qualunque attività creativa, infatti, non può non essere fondata sulla dimenticanza di ciò che è stato e su un nuovo orientamento verso ciò che si fa. Da questo lato, quindi, la storia è vista da Nietzsche in modo negativo, è una limitazione, un freno all’attività nella quale si esprime la vita.

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L’ambivalenza della storia si rivela invece con chiarezza nelle sue diverse forme: la storia «monumentale», la storia «antiquaria» e la storia «critica». Tutte queste forme possono servire ad affermare la vita e l’azione, ovvero a diversi tipi di atteggiamenti umani, ma contengono in sé anche il rischio della negazione della vita. La storia monumentale può essere utile all’uomo attivo poiché si fonda sugli eccellenti esempi dei grandi uomini, ma può essere anche una sorta di scusa per contrapporre ai grandi uomini del presente i grandi del passato, per impedire loro di emergere. La storia antiquaria serve a coloro che vogliano conservare il passato e le proprie radici, ma corre il rischio di una rinuncia al presente nel nome del passato. La storia critica, infine, serve all’uomo che assuma una presa di posizione polemica nei confronti del passato in nome del presente, e corre a sua volta il rischio di essere unicamente negativa nei confronti del passato. L’antistorico Di fronte a quella che chiama la «malattia storica», Nietzsche suggerisce i rimee il sovrastorico di dell’antistorico e del sovrastorico. L’atteggiamento antistorico si ricollega a quella capacità di dimenticare alla quale si è già accennato e che tornerà nella riflessione di Nietzsche: si tratta della dimensione dell’oblio, che è indispensabile per potere agire. Per quel che riguarda l’elemento sovrastorico, si chiamano così le potenze che si sottraggono al divenire della temporalità e volgono lo sguardo verso «ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile», vale a dire l’arte e la religione. Entrambe vengono contrapposte da Nietzsche alla scienza e in genere alla conoscenza, anche alla conoscenza storica, in nome del dominio della vita. Certo, anche arte e religione possono essere negative, ma ciò non toglie il loro carattere di rimedio, di terapia di fronte all’invadenza della «malattia storica».

Storia «monumentale», «antiquaria», «critica»

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L’igiene della vita contro la malattia storica Sull’utilità e il danno della storia per la vita

➥ Sommario, p. 210

4 La riflessione filosofica matura

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Ma la vita deve dominare sulla conoscenza, sulla scienza, oppure la conoscenza deve dominare sulla vita? Quale delle due forze è la più alta e la decisiva? Nessuno può dubitarne: la vita è il potere più alto, dominante, poiché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe nel contempo se stessa. La conoscenza presuppone la vita, ha cioè rispetto alla conservazione della vita lo stesso interesse che ogni essere ha rispetto alla continuazione della propria esistenza. Quindi la scienza ha bisogno di una superiore vigilanza e sorveglianza; un’igiene della vita si pone proprio accanto alla scienza, e una proposizione di questa igiene suonerebbe appunto: l’antistorico e il sovrastorico sono i rimedi naturali contro il soffocamento della vita da parte della storia, contro la malattia storica. È probabile che noi, malati di storia, dobbiamo anche soffrire per i rimedi. Ma che noi soffriamo per essi non è una prova contro la giustezza del metodo terapeutico scelto.

La critica della metafisica Dopo avere delineato la riflessione giovanile di Nietzsche sulla nascita della tragedia e sulla natura ambivalente della storia, cercheremo ora di mettere in luce i principali temi della sua filosofia, a partire da Umano, troppo umano, guardando ad essa come a una riflessione relativamente unitaria, e senza tenere troppo conto, quindi, delle diverse fasi che molti interpreti hanno, non a torto, individuato in essa.

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Una filosofia autonoma

L’abbandono della metafisica d’artista

La critica della tradizione filosofica

Varrà la pena dire subito che una parte preponderante della filosofia di Nietzsche costituisce un sapiente esercizio di critica che coinvolge sia la metafisica sia la moralità, mentre più in ombra, e più difficile da esplicitare, resta la sua parte propositiva, a partire da concetti famosi ma di difficile interpretazione come quelli del superuomo, della volontà di potenza o dell’eterno ritorno dell’identico. La particolare importanza di Umano, troppo umano è legata al suo segnare la piena emancipazione dagli autori che esercitano un peso decisivo negli scritti giovanili e cioè, come si è detto, Schopenhauer e Wagner. Per quel che riguarda Wagner, la nuova impostazione coincide anche con una crisi dei rapporti personali tra Nietzsche e il musicista, ma ciò che interessa davvero è la novità della posizione filosofica di Nietzsche. Accompagnato da intense letture di scienza naturale, Nietzsche abbandona ora l’idea di una metafisica fondata nell’estetica e la possibilità di una rinascita della tragedia antica, per assumere un atteggiamento di fronte alla scienza che, se rimane certamente polemico nei confronti del positivismo, non contrappone più alla scienza l’arte come possibile rimedio (quest’ultima viene ritenuta ora appartenente a una fase superata, infantile, della vita dell’umanità) e non ha più nei confronti della scienza un atteggiamento di rifiuto. Queste nuove acquisizioni non attenuano la radicalità della critica di Nietzsche di fronte alla cultura e alla società contemporanea, ma danno a questa critica nuovi caratteri. A partire da Umano, troppo umano, Nietzsche prende di mira tutti i temi principali della tradizione filosofica: la filosofia come metafisica, l’idea della libertà del volere, la teoria della conoscenza, l’istituzione e i concetti della moralità. Sempre più, poi, Nietzsche si mostra consapevole – anche esplicitamente – di costituire un momento di cesura nella tradizione filosofica. Mentre Hegel, nella prefazione alla Filosofia del diritto (1821) aveva raffigurato la filosofia come la nottola di Minerva che leva il suo volo al far del crepuscolo, cioè come ciò che sorge alla fine di una civiltà, in Umano, troppo umano compare l’immagine di una «filosofia del mattino», che alla metafora hegeliana è chiaramente contrapposta: si tratta, ora, di annunciare qualcosa di nuovo, l’alba di una nuova epoca. Questo senso della propria filosofia e della propria missione verrà accentuato, di lì a pochi anni, nella figura profetica di Zarathustra, che richiama gli uomini alla necessità di superare se stessi nel superuomo, e, infine, nei toni ormai esaltati dell’Anticristo, che si conclude con una Legge contro il cristianesimo che reca la data «nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)».

La critica del soggetto L’illusione della conoscenza di sé

Con la critica del soggetto e della coscienza, Nietzsche prende in esame una nozione che aveva costituito il punto di partenza e l’architrave della filosofia moderna. Con le Meditazioni metafisiche di Cartesio, già la forma della ‘meditazione’ indica quanto essenziale sia ritenuta dalla nuova filosofia l’analisi critica della soggettività e delle sue possibilità conoscitive e morali; al centro dell’orizzonte sta ora il soggetto con le sue capacità conoscitive e pratiche. Questo soggetto, poi, che non è il soggetto individuale ma la struttura generale della soggettività, 191

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è lo stesso che viene magistralmente analizzato nell’altro luogo fondamentale della tradizione filosofica costituito dalle Critiche kantiane, come Nietzsche, ovviamente, sa benissimo. È questa tradizione che costituisce l’oggetto della critica. È questa illusione della «conoscenza di se stessi» che segna, per Nietzsche, il maggior fallimento della pretesa di essere «coloro che conoscono», gli «uomini della conoscenza»: egli afferma, al contrario, che «noi siamo ignoti a noi stessi». La grande illusione della metafisica e della teoria della conoscenza consiste infatti proprio nell’avere assunto la soggettività e la coscienza a luogo centrale della certezza e della conoscenza, inclusa la conoscenza di sé. E ciò vale anche sul piano morale: i soggetti che agiscono non sono trasparenti a se stessi, e in realtà il mondo del soggetto è un mondo sconosciuto, anche se «continua ancor sempre a vivere la primordiale illusione di sapere, sapere nel modo più esatto, come si realizzi, in ogni caso, l’umano operare». Il soggetto e l’inganno Il soggetto è in realtà, per Nietzsche, qualcosa di «mitologico». Esso è semplidel linguaggio cemente l’unità di tutta una serie di predicati: nella tesi cartesiana dell’«io penso» (il cogito), per esempio, è contenuto l’errore fondamentale di ritenere che affinché ci sia un predicato e quindi una certa attività, cioè il pensare, debba esserci anche un soggetto che è causa di questo pensare. Sono, a parere di Nietzsche, errori ai quali noi siamo indotti dalla nostra tendenza a proiettare le categorie grammaticali cui fa riferimento la nostra lingua – come quella di «soggetto» – nel mondo reale; come una volta scrive addirittura a proposito di Dio: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica». Gli errori della grammatica però, a loro volta, contengono gli errori ‘pietrificati’, sì, nel linguaggio, ma che hanno origine nella ragione.

T8

L’illusione del soggetto

Genealogia della morale, 1, af. 13

[…] che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un ‘soggetto’. Allo stesso modo, infatti, con cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest’ultimo un fare, una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun ‘essere’ al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; ‘colui che fa’ non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto. Il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa. […] la nostra intera scienza, ad onta di tutta la sua freddezza, della sua estraneità a moti affettivi, sta ancora sotto la seduzione della lingua e non si è sbarazzata di questi falsi infanti supposti, i ‘soggetti’.

Il limite fondamentale della metafisica, e del «volgo», è pensare di dovere presupporre un soggetto o un sostrato che non sia l’attività stessa: l’esistenza di un sostrato, di una ‘sostanza’ che sia la base permanente dei mutamenti, è in effetti un grande tema e quindi un grande errore della metafisica, che a detta di Nietzsche si può definire come «la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – però come se fossero verità fondamentali». La critica della libertà In effetti, sostiene Nietzsche, la metafisica tradizionale si è occupata di due quedel volere stioni principali: una è la questione della sostanza, l’altra quella della libertà del volere, che tanta importanza ha avuto in Kant ma sulla quale già Schopenhauer ha preso posizione in modo netto. Seguendo e radicalizzando Schopenhauer, Metafisica come «scienza degli errori»

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Unità 5 Nietzsche ➥ Laboratori sul lessico,

Nietzsche rifiuta ugualmente l’idea di una qualsivoglia forma di ‘libertà’ del voLibertà, p. 341 lere, e con essa rifiuta radicalmente anche l’idea della responsabilità. Viene coe Responsabilità, p. 621 sì accennata, attraverso la critica della libertà del volere, quella teoria critica della moralità che costituisce – come si è accennato e come vedremo – uno dei tratti più interessanti della riflessione di Nietzsche. L’illusione della libertà La credenza nella libertà del volere è una semplice illusione, e lo stesso volere e della responsabilità rientra nella determinazione universale esattamente come tutti gli altri eventi della natura: se fossimo in grado di conoscere tutte le condizioni delle scelte che riteniamo ingenuamente libere, se avessimo tutte le informazioni necessarie – se, quindi, fossimo onniscienti – non avremmo difficoltà a prevedere le scelte degli uomini più di quella che avremmo a prevedere qualunque altro evento. La stessa idea della responsabilità, quindi, che si è fatta tradizionalmente dipendere dall’idea della libertà del volere (per cui può essere ritenuto responsabile solo chi è libero) è un’idea illusoria come è illusorio fondare su ciò la nostra considerazione delle azioni umane, la nostra lode e il nostro biasimo. Tutti, in questo senso, sono necessariamente ‘innocenti’, perché non sono né liberi né responsabili.

T9

Necessità e innocenza

Umano, troppo umano, af. 107

La piena irresponsabilità dell’uomo per il suo agire e per il suo essere è la goccia più amara che chi persegue la conoscenza deve inghiottire, se era abituato a vedere nella responsabilità e nel dovere il titolo di nobiltà della sua umanità. Tutte le sue valutazioni, scelte e avversioni, sono in tal modo private di valore e divenute false: il suo più profondo sentimento, che egli tributava al martire e all’eroe, era tributato a un errore; egli non può più lodare, non biasimare, perché è assurdo lodare e biasimare la natura e la necessità […]. Tutto è necessità – così dice la nuova conoscenza; e questa stessa conoscenza è necessità. Tutto è innocenza: e la conoscenza è la via alla comprensione di quest’innocenza.

Filosofia metafisica e filosofia storica Con il formarsi di un pensiero pienamente autonomo, cambiano per Nietzsche anche i punti di riferimento: ci si stacca ormai da tutta la tradizione metafisica, da quella dei grandi sistemi idealistici, ma anche da quella di Schopenhauer. Nuovi numi tutelari diventano ora i grandi moralisti francesi, con le loro massime, e l’illuminista Voltaire, al quale viene addirittura dedicata la prima edizione di Umano, troppo umano. Filosofare metafisico Dopo la seconda Considerazione inattuale, che ha messo in luce l’ambivalenza e e filosofare storico quindi anche i rischi della conoscenza storica e della storiografia, è ora proprio alla storia che ci si affida come strumento polemico nei confronti della metafisica. La consapevolezza che tutto è divenuto e che quindi, se tutto è inserito all’interno di un processo temporale, non ci sono fatti eterni, mostra che le pretese del «filosofare metafisico» di assolutizzare i concetti si fondano sulla falsa idea che certe istituzioni, certe nozioni o certi costumi siano al di là del tempo. Al contrario, un «filosofare storico», che si serva anche dei risultati della scienza, può mostrare che i processi di formazione delle idee, dei sentimenti e delle istituzioni possono costituire metamorfosi anche molto complesse, e che ciò che appare un’opposizione assoluta (per esempio: razionale / irrazionale) può essere una coppia in cui un termine si muta, attraverso le proprie modificazioni, nel193

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l’altro. Non è scontato, insomma, che ciò che sembra dotato di certi caratteri o di una certa natura derivi da qualcosa con gli stessi caratteri o con la stessa natura, e non da qualcosa di opposto. La genealogia Il compito di una filosofia storica sarà quindi innanzitutto mostrare la genesi e come strumento critico seguire – come Nietzsche scriverà più tardi – la complessa genealogia delle idee. Torneremo sulla nozione di ‘genealogia’, ma il senso dell’operazione genealogica consiste per Nietzsche nel farne uno strumento critico: ridisegnare la genealogia dei concetti metafisici, della metafisica stessa, o dei concetti morali, ha infatti la funzione di mostrarne un processo di formazione non lineare che renda possibile la critica dei concetti presi in esame. All’opposto del filosofare storico, la filosofia come metafisica tende ad assolutizzare i concetti sulla semplice base di un certo risultato, di un certo punto di arrivo, come se essi fossero provvisti di una sorta di essenza eterna: un esempio significativo è l’assolutizzazione, da parte della metafisica, delle caratteristiche dell’uomo contemporaneo e della sua facoltà conoscitiva.

T10

La pretesa essenza eterna dell’uomo

Umano, troppo umano, af. 2

Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente, «l’Uomo» si configura alla loro mente come una aeterna veritas, come un’entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo in un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura prendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono dalla loro origine tutte le cose del mondo.

La critica della metafisica non deve quindi consistere soltanto nel rifiuto della metafisica, ma, ancora una volta, in una riflessione di tipo storico-genetico sulle sue origini. A parere di Nietzsche, la filosofia a lui contemporanea è arrivata in più occasioni alla consapevolezza delle difficoltà della metafisica, e quindi a capire la necessità di rinunciarvi, ma non si è (ancora) spinta fino a dare una spiegazione sia psicologica sia storica della sua nascita e della sua conservazione. La metafisica Un tratto caratteristico della metafisica, che viene ampiamente utilizzato anche per e la duplicazione giustificare l’arte, la religione e la moralità, è per Nietzsche la contrapposizione di del mondo due diversi mondi, un mondo ritenuto dalla metafisica stabile e genuino e un mondo, quello sensibile, apparente e transeunte. In realtà, l’origine di questo genere di distinzione non può essere che psicologica, e più precisamente ha luogo nel sogno: soltanto attraverso il sogno, in un’epoca primordiale, l’uomo ha potuto costruire l’immagine o l’ipotesi di un secondo mondo, immaginario, da collocare accanto al La genesi della metafisica

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mondo reale. Senza il sogno non ci sarebbe stato alcun motivo di scindere il mondo in due mondi diversi dei quali uno avrebbe un valore diverso dall’altro. La «cosa in sé» Nietzsche affronta qui il tema classico in Platone, e poi nel cristianesimo, della kantiana contrapposizione mondo delle idee / mondo della sensibilità, al di là / al di qua. Ma per Nietzsche e i suoi contemporanei questa contrapposizione ha un punto di riferimento ben più recente, che viene fatto rientrare, peraltro, nella stessa tradizione: è la distinzione kantiana tra «fenomeno» e «cosa in sé», che accompagna tutta la rinascita kantiana della seconda metà dell’Ottocento – il cosiddetto «ritorno a Kant» – e che nel dibattito che prende campo viene spesso affrontata, se non altro in chiave polemica. Una distinzione fittizia La distinzione tra un «mondo metafisico» che costituirebbe la vera e genuina realtà, fondamento dell’arte, della religione e della morale, e un «mondo apparente» che sarebbe il mondo percepibile attraverso i sensi, e studiato dalla scienza, viene rifiutata nettamente da Nietzsche: si tratta di una distinzione che nasce dal pregiudizio tipico dei filosofi metafisici per cui i sensi sarebbero truffatori e la vita intesa come evento biologico e naturale dovrebbe essere qualcosa da reprimere e da ripudiare. È la ricerca metafisica di qualcosa di stabile e di eterno di fronte alla innegabile realtà del divenire e del mutamento; è un altro aspetto della mancanza di senso storico dei filosofi e, se ancora sostenuto nel mondo contemporaneo, un innegabile segno di una decadenza che si oppone alla vita.

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Duplicazione del mondo e disprezzo per la vita

Il crepuscolo degli idoli

Le ragioni per le quali ‘questo’ mondo è stato definito apparente ne attestano piuttosto la realtà – una specie diversa di realtà è assolutamente indimostrabile […] ammesso che non sia preponderante in noi l’istinto di denigrare, immeschinire, disprezzare la vita: in quest’ultimo caso noi ci vendichiamo della vita con la fantasmagoria di un’‘altra’ e ‘migliore’ vita […] Separare il mondo in uno ‘vero’ e in uno ‘apparente’, sia alla maniera del cristianesimo, sia alla maniera di Kant (in ultima analisi, uno scaltro cristiano) è soltanto una suggestione della décadence – un sintomo di vita declinante. Ed è così che il mondo metafisico, che la metafisica considera l’unico mondo «vero», finisce per diventare «favola», nel capitolo così intitolato del Crepuscolo degli idoli che racconta questa «storia di un errore». È la fine, o almeno l’auspicio della fine, della distinzione che aveva attraversato tutta la tradizione filosofica da Platone, attraverso il cristianesimo e Leibniz, fino a Kant.

Filosofia metafisica e filosofia storica

Filosofia storica

Filosofia metafisica 1) pretesa di assolutizzare concetti e istituzioni; 2) scissione della realtà in due mondi: ‘ideale’ e ‘sensibile’

Tradizione filosofica occidentale inauguratasi con l’ottimismo razionalistico di Socrate

contro

1) consapevolezza della dimensione storica di ogni concetto e istituzione; 2) non esiste un mondo ideale al di là del mondo sensibile

La genealogia come principale strumento di analisi storico-critica di concetti o istituzioni (per esempio, moralità)

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Il prospettivismo conoscitivo L’unica realtà: il mondo della vita

Esperienza e interpretazione dei fatti

Il primato della sensibilità

Il prospettivismo conoscitivo

➥ Tesi a confronto, p. 219

Conoscenza e mondo

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La critica della metafisica di Nietzsche sembra arrivare alla conclusione che c’è un unico mondo, quello concreto e reale della vita, della sensibilità e degli istinti. Questa conclusione ha conseguenze anche nella riflessione sul problema della conoscenza, un tema che Nietzsche ha affrontato soltanto in modo frammentario e che ha dato luogo a molteplici letture. Nonostante molte interpretazioni sembrino andare in questa direzione, Nietzsche non dà una valutazione completamente negativa della possibilità dell’uomo di conoscere la realtà, anche se le sue posizioni su questo tema non sono del tutto chiare. La critica dell’ottimismo positivistico precorre, piuttosto, certe difficoltà di fronte alle quali si è trovato l’empirismo, anche contemporaneo, quando ha tentato di sostenere la possibilità di una conoscenza fondata sulla percezione diretta di fatti empirici (vedi Unità 15, p. 651 s.). Non si danno, per Nietzsche, semplici e ‘bruti’ fatti empirici che non siano sottoposti a interpretazione, ovvero a una considerazione dei fatti guidata da un interesse che costituisce un criterio di selezione nella considerazione dei fatti stessi. Non si dà, insomma, una semplice e neutrale osservazione dei fatti, ma questa osservazione avviene sempre all’interno di certi schemi concettuali che corrispondono, nella prospettiva del filosofo, ai bisogni e agli interessi degli uomini, anche interessi in vista della loro ‘potenza’. Ma ciò non significa in alcun modo che tutte le spiegazioni dei fatti siano equivalenti e che non ci siano loro spiegazioni più adeguate di altre, né che questi fatti empirici non costituiscano comunque – essendo essi l’unico mondo che abbiamo a disposizione – il materiale cognitivo privilegiato che possiamo utilizzare. È dai sensi, afferma Nietzsche, che «proviene innanzitutto ogni cosa degna di fede, ogni buona coscienza, ogni evidenza di verità». Nonostante il peso che interessi e bisogni hanno nel processo del conoscere, sembra che per Nietzsche certe spiegazioni dei fatti siano più adeguate delle altre (per esempio: le spiegazioni della filosofia storica e della genealogia rispetto a quelle della metafisica o della religione), e che l’adeguatezza possa essere valutata anche sulla base del famigerato prospettivismo: «Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un ‘conoscere’ prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro ‘concetto’ di essa, la nostra ‘obiettività’» (Genealogia della morale, 3, af. 12). Il passo appena citato costituisce il luogo principale, nelle opere pubblicate dal filosofo, in cui Nietzsche enuncia la sua teoria prospettivistica della conoscenza, secondo la quale, da quanto emerge qui, la conoscenza di qualcosa o di un oggetto è sempre il risultato di una prospettiva con la quale guardiamo a quell’oggetto a partire da determinate disposizioni istintuali (gli ‘affetti’). Inoltre, una conoscenza è tanto più adeguata quante più prospettive siamo in grado di sviluppare nella sua osservazione. Da quanto detto, possiamo trarre le seguenti conclusioni – alquanto provvisorie – da inserire nella cornice appena delineata. Innanzitutto, per Nietzsche si dà un solo mondo reale, quello dell’esperienza, che ci si rivela attraverso la nostra natura sensibile (percettiva e istintuale) e attraverso la relazione di questa con il mondo; in secondo luogo, se c’è una fonte della conoscenza questa possono esserla solo i sensi; in terzo luogo, alcune spiegazioni dei fatti del mondo sono più adeguate di altre; in quarto luogo, tutti i dati sensibili sono sottoposti a interpre-

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Unità 5 Nietzsche

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tazioni che sono radicate nei nostri interessi e nei nostri desideri, sia come individui singoli sia come gruppi sociali; in quinto luogo, la conoscenza più adeguata e più ‘obiettiva’ è quella che sviluppa un numero maggiore di interpretazioni, ovvero di prospettive, che riguardino un dato oggetto.

La critica della morale Come si è accennato, la critica della morale è sicuramente un aspetto di grande rilevanza nella filosofia di Nietzsche, tanto che un’ispirazione di questo tipo può essere vista anche in altri ambiti del suo pensiero.

La morale come problema e la genealogia Anche di fronte alla sfera e all’istituzione della moralità, l’atteggiamento di Nietzsche è radicalmente critico e consapevolmente innovativo: non si tratta semplicemente di prendere in considerazione la moralità e di fornirne l’analisi, ma di mettere in discussione la sfera della moralità come mai è stato fatto finora. E non solo. Non si tratta di criticare o negare una determinata morale, ma di problematizzare la moralità come tale promuovendo un confronto critico di essa con categorie non morali. Il carattere paradossale di questa operazione – del quale Nietzsche è del tutto consapevole – consiste però nel suo essere il risultato di un atteggiamento di tipo, a sua volta, morale: la storia della tradizione morale dell’Occidente spinge, all’approssimarsi del suo tramonto, a realizzare una radicale critica della morale che vada verso il superamento di essa. È cioè in nome della morale medesima che si dà «la disdetta alla morale». La morale viene messa in discussione ed entra in una crisi irreversibile attraverso una virtù specifica della tradizione morale della quale Nietzsche si ritiene l’ultimo depositario: la volontà di verità. È per questo che quella della morale non è in realtà una soppressione, ma un’autosoppressione: la storia della moralità ha il suo esito in un’autosoppressione della morale che dovrebbe schiudere le porte verso una vita diversa. L’illusione di una La tradizione dell’indagine sulla morale, della scienza della morale, ha sempre riscienza della morale tenuto di avere, appunto, uno statuto di scientificità, una capacità di analisi razionale e ordinata del fenomeno che chiamiamo ‘morale’, ma in realtà si è trattato di una pretesa ingiustificata, poiché quello che la considerazione della morale e delle morali può arrivare a dare è tutt’al più una raccolta di materiale, non un fondamento. La tradizione filosofica ha negato il carattere problematico della morale, o non si è nemmeno posta il problema, assolutizzando piuttosto certe forme determinate di morale ovvero, nella maggior parte dei casi, la morale dominante.

La tendenza della morale all’autosoppressione

T12

La mancata critica della morale Al di là del bene e del male, af. 186

In ogni «scienza della morale» esistita fino a oggi è sempre mancato, per quanto possa riuscire strano, il problema stesso della morale: è mancato il sospetto che ci potesse essere su questo punto qualcosa di problematico. Ciò che i filosofi chiamavano «fondamento della morale» e ciò che esigevano da se stessi, era soltanto una forma erudita della loro tranquilla credenza nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua espressione, quindi uno stato di fatto esistente all’interno di una determinata moralità, anzi, in ultima analisi, addirittura una specie 197

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di negazione che questa morale potesse essere concepita come problema – e in ogni caso l’opposto di una verifica, di un’analisi, di una messa in questione, di una vivisezione, appunto, di codesta credenza. La genealogia come delegittimazione

La critica dei concetti e delle istituzioni morali

La scomposizione delle idee morali

T13

La chimica delle idee e dei sentimenti Umano, troppo umano, af. 1

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L’operazione di problematizzazione e di critica della morale viene condotta da Nietzsche attraverso la genealogia, come si intitola quella che alcuni interpreti ritengono la sua opera più importante, o almeno la più riuscita, la Genealogia della morale. La genealogia svolge qui un ruolo contrario rispetto a quello che viene svolto nelle indagini sugli alberi genealogici delle famiglie: in quest’ultimo caso, si tratta di un procedimento di legittimazione, si tratta cioè di mostrare, ripercorrendo la serie cronologica degli antenati, una nobiltà delle proprie origini che si fonda sulla continuità della discendenza rispetto a quegli antenati. Si tratta, in altre parole, di un processo di legittimazione dello status sociale di uno o più individui attraverso l’indagine sulle loro origini. Il significato della genealogia di Nietzsche è il contrario: la genealogia acquista significato in quanto è elemento indispensabile per la critica, e quindi anche, in un certo senso, per la delegittimazione, di quei concetti e di quelle istituzioni che si prendono in considerazione. Ricostruire la genealogia della morale significa infatti far vedere che l’origine dei concetti e delle istituzioni tipici della moralità non è un’origine a sua volta di tipo morale, ma del tutto diversa: ciò vuol dire anche, tra l’altro, che l’istituzione della moralità non è un’istituzione che c’è sempre stata, ma qualcosa di storicamente determinato. E vuol dire anche, rispetto alle genealogie familiari, che non c’è alcuna continuità, o almeno alcuna continuità necessaria, nella storia dei concetti e delle istituzioni in generale e dei concetti e delle istituzioni morali in particolare. La genealogia nietzscheana è sì una genealogia, ma alquanto atipica: in essa troviamo salti, fratture e modificazioni del significato dei concetti e delle istituzioni. Il motivo per cui una data nozione sorge non è affatto necessariamente legato alla sua funzione storicamente determinata in un certo periodo storico: la storia di questo concetto, o di questa istituzione, è una storia di metamorfosi continue. Quello appena delineato è il risvolto e la rielaborazione, sul piano morale, della polemica di Nietzsche contro le tentazioni metafisiche di assolutizzare i concetti, ma è soprattutto l’indagine su ciò che, presentato come puro e buono, o magari di radice metafisica o spirituale, si rivela invece ben diverso, e cioè – secondo un titolo nietzscheano – «umano, troppo umano» nella sua genesi, se l’indagine viene condotta in modo privo di pregiudizi. Si tratta, come in altri casi, di un’indagine che può portare a risultati e scoperte spiacevoli – come è del resto la mancanza di libertà del volere – ma con cui è necessario confrontarsi. È una sorta di processo di scomposizione che deve individuare, come in una reazione chimica, gli elementi fondamentali. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci veramente dato, è una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e della società, e persino nella solitudine: ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse col risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini? L’umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull’origine e i principi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l’inclinazione opposta?

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Unità 5 Nietzsche La non oggettività della morale

Questa analisi critica della morale nella forma della genealogia mostra tra l’altro, lo si è detto, la non eternità e la non assolutezza della morale, il che vuol dire anche negare che il mondo abbia un significato etico ‘oggettivo’ indipendente da quello che viene ad esso dato dagli uomini. Da quando ci sono l’istituzione della moralità, il linguaggio morale e i valori morali, «l’uomo ha attribuito a tutto quanto esiste un rapporto con la morale e ha appeso alle spalle del mondo un significato etico», l’uomo ha cioè proiettato alcuni caratteri che si è formato nel corso della sua storia, i caratteri della moralità, sul mondo, ed è così caduto nell’illusione di avere di fronte caratteri oggettivi del mondo, di avere di fronte veri e propri fenomeni morali, fatti morali, mentre in realtà c’è soltanto una «interpretazione morale dei fenomeni», ovvero una nostra lettura ‘morale’ dei fenomeni del mondo. Percepire i fatti morali come qualcosa di oggettivo è in fondo soltanto frutto di una presunzione antropocentrica che vede le vicende dell’uomo al centro dell’universo: un po’ come l’astrologia, scrive Nietzsche, che crede (o fa credere) che le stelle si occupino del destino dell’uomo.

Valutazione morale e valutazione non morale

L’ingresso del concetto di «valore» nella riflessione filosofica

Originarietà della valutazione

T14

Valutazione ed esistenza

Così parlò Zarathustra, «Dei mille e uno scopo»

Il problema della morale rientra per Nietzsche nel generale problema della valutazione e del valore: la valutazione di tipo morale è un modo specifico di valutazione, e i valori morali sono una forma specifica di valori. Parlando di «valore», si deve ricordare che tale concetto, quando scrive Nietzsche, ha fatto a stento il suo ingresso nel lessico filosofico. Il concetto di «valore» proviene infatti dal linguaggio dell’economia politica (come si è visto nel caso di Marx, vedi Unità 4, p. 155), e non è in origine una nozione filosoficamente rilevante. Per quanto il termine «valore» fosse stato introdotto nel lessico filosofico intorno alla metà del secolo da un filosofo tedesco oggi poco studiato ma allora molto influente – Rudolf Hermann Lotze (1817-1881) – è usualmente riconosciuto che soltanto con la filosofia di Nietzsche «valore» diventa un termine filosoficamente significativo. Le idee di una creazione dei valori, di forgiare nuovi valori, di una «trasvalutazione di tutti i valori» («Umwertung aller Werte») hanno il loro luogo di origine nelle pagine di Nietzsche. La riflessione sulla valutazione e sul valore è infatti centrale per la critica nietzscheana della morale. Mentre la valutazione morale e più in generale la moralità non sono elementi originari, ossia non ci sono sempre stati nella storia dell’umanità, la valutazione come termine generale di attribuzione di valore è qualcosa di originario nella storia dell’uomo, tanto che Nietzsche afferma che «uomo» significa originariamente «colui che valuta»: l’uomo si è sempre servito di valutazioni, anche se non di valutazioni universali, valide per tutti. E già nello Zarathustra, nel presentare il tema della valutazione, emerge la difficoltà di trovare accordi sul suo contenuto. Nessun popolo potrebbe vivere senza prima valutare; ma, se vuole conservarsi, non può valutare così come valuta il suo vicino. Molte cose che questo popolo approva, sono per un altro un’onta e una vergogna: questo io ho trovato. Molte cose che qui erano chiamate cattive, le ho trovate là ammantate di porpora regale […] Per conservarsi, l’uomo fu il primo a porre dei valori nelle cose, – per primo egli 199

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creò un senso alle cose, un senso umano! Perciò si chiama «uomo», cioè: colui che valuta. Valutare è creare: udite, creatori! Valutare è di per sé il tesoro e il gioiello di tutte le cose valutate. Solo valutando egli conferisce valore: e senza di ciò la noce dell’esistenza sarebbe vuota.

Valutazione non morale e valutazione morale

L’originaria connotazione non morale dei termini «buono» e «cattivo»

L’uso originario di «buono» e «cattivo»

T15

Il nesso originario tra bontà e potenza

Genealogia della morale, 1, af. 2

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I valori, quindi, non sono oggettivi, ma vengono attribuiti dagli uomini, e allo stesso tempo i valori dipendono da coloro che valutano, per cui sarebbe illusorio pensare a un accordo dei diversi sistemi di valutazione. Inoltre, valutare significa attribuire un senso e un valore a qualcosa, e questo è un elemento per Nietzsche assolutamente originario, senza il quale non si potrebbe vivere. Ma non è della valutazione morale, che si parla qui o altrove, bensì della valutazione in generale. Buona parte della trattazione di Nietzsche, nella Genealogia della morale, è volta a mostrare innanzitutto il carattere derivato e non originario della valutazione morale (che deriva dal modo di valutazione non morale) e dello stesso linguaggio morale; poi, la differenza tra valutazione morale e valutazione non morale; infine, il modo in cui dal sistema di valutazione non morale si è passati al sistema di valutazione morale. L’originarietà della valutazione significa per Nietzsche originarietà della valutazione non morale, e per la precisione originarietà dell’utilizzazione della coppia di termini opposti «buono» e «cattivo». L’origine della valutazione, del valutare, del valore è infatti al tempo stesso un’origine di tipo linguistico: si comincia a valutare quando si cominciano a usare i termini valutativi come, appunto, «buono» e «cattivo» o termini equivalenti. Ma l’origine di questi termini non ha nulla a che fare con l’uso morale di essi: la valutazione originaria non è una valutazione che venga data dall’esterno verso certi atti che sono «buoni» per chi li riceve, che vengono giudicati «buoni» dai destinatari di questi atti, magari perché sono atti utili: è, questa, l’ipotesi degli utilitaristi e degli evoluzionisti inglesi, che Nietzsche rifiuta radicalmente. L’origine del termine «buono» non sta nel fatto che sono stati compiuti atti utili per qualcuno e questo qualcuno che ne ha usufruito ha valutato come «buoni» questi atti. L’uso di termini come «buono» e «cattivo» ha invece radice in una valutazione che certi individui hanno originariamente dato di se stessi come «buoni» non in senso morale, ma come «buoni» in quanto forti, superiori, nobili. L’origine del valore e della valutazione non ha sede in azioni che vengono compiute in funzione di altri, a vantaggio di altri (altruistiche), ma nella semplice connotazione di se stessi: l’origine del valore, quindi, va al di là della dimensione morale e, per esempio, della distinzione tra altruismo ed egoismo. Ma non solo. Già nella caratterizzazione dell’origine del valutare si rivelano certi tratti costanti e importanti della filosofia di Nietzsche: l’atteggiamento antiegualitario, da un lato, l’interesse per il confronto tra gruppi sociali diversi, dall’altro. […] il giudizio di «buono» non procede da coloro a cui viene data prova di «bontà». Sono stati invece gli stessi «buoni», vale a dire, i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di foggiare valori, di co-

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niare le designazioni dei valori […]. Il pathos della nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un ‘sotto’ – è questa l’origine dell’opposizione tra «buono» e «cattivo». La ‘forza’ come criterio discriminante

Il carattere amorale del dominio dei ‘forti’

Valutazione aristocratica e valutazione morale

Differenze tra i due modi di valutazione

Ordine gerarchico e morale

La valutazione e il valore hanno quindi un’origine completamente extra-morale che coincide invece con la valutazione di se stessi da parte di uomini superiori, forti: l’opposizione tra i termini «buono» / «cattivo» è quindi originariamente un’opposizione socialmente radicata che corrisponde a quella «nobile» / «plebeo» o «forte» /«debole», visto che il gruppo o gli individui socialmente superiori, all’interno di questo modo di vita e di valutare, sono per Nietzsche gli individui, appunto, forti. È la forza, in questo rapporto, il criterio discriminante; e non necessariamente o non solo la forza fisica, essa può essere anche la forza della personalità o comunque una forza di tipo psicologico. Una caratteristica a cui Nietzsche tiene molto, di questo modo di vita e di valutazione che è il modo di vita ‘aristocratico’, è il confronto con chi sta in basso, con chi è debole, plebeo. È un confronto fondato sul «pathos della distanza», sulla indifferenza: l’atteggiamento dei forti, dei nobili verso i deboli è un atteggiamento sì di violenza e di sopraffazione, ma non è fondato sul malanimo o sul rancore verso di loro. Ciò che interessa i forti e i nobili è semplicemente affermare se stessi, esprimere la propria forza, ed è soltanto contingente che l’espressione di questa forza, l’espressione di se stessi, sia anche violenza e sopraffazione. Il forte e il nobile non agiscono ‘contro’ qualcuno, ma soltanto in nome di se stessi e della propria affermazione. È un’affermazione della propria ‘natura’ che non è minimamente condizionata dalla moralità, perché ci troviamo all’interno di un modo di vita, nella prospettiva di Nietzsche, in cui la moralità non svolge alcun ruolo: altri sono i valori dominanti in questo universo sociale. Nel modo di valutazione aristocratico la valutazione di se stessi come buoni non indica in questo modo, come invece succederà nel modo di valutazione morale, che cosa si debba fare, ovvero una linea di condotta: la valutazione aristocratica è la semplice valutazione di se stessi come buoni, si valuta quindi come buona la propria forza e la propria natura, ma non si presenta nessun modello di condotta a se stessi o agli altri. Una prima differenza tra il modo di valutazione morale e quello non morale, aristocratico, riguarda quindi la funzione o meno di guidare la condotta che viene riconosciuta alla valutazione. Una seconda differenza importante è la presenza o meno della caratteristica dell’universalità: la valutazione morale pretende di essere uguale per tutti e universale, è impersonale, rimanda in fondo all’idea che certe norme e certi valori valgano per tutti perché gli uomini sono più o meno tutti uguali. Del tutto diversa è la valutazione aristocratica, e cioè non morale: in questo caso ciascun individuo valuta la propria individualità come «buona», ma questa valutazione non ha nessuna caratteristica di universalità, vale per quell’individuo, perché ogni individuo è diverso da un altro. La disuguaglianza e la gerarchia tra gli uomini sono importanti principi della prospettiva di Nietzsche, e ciò produce immediatamente una frattura con l’idea sostanzialmente egualitaria che ci possa essere una morale con caratteristiche universali. L’universalità della moralità caratteristica del cristianesimo non fa, in realtà, che danneggiare gli uomini superiori in nome degli interessi del gregge, dell’armento, della massa: «Nessuno di tutti questi tardigradi animali d’armento 201

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L’origine della valutazione morale e il cristianesimo

Il «risentimento» come reazione dei deboli verso i forti ➥ Laboratorio di lettura, p. 213

T16

La morale degli schiavi come reazione

Genealogia della morale, 1, af. 10

Il rovesciamento dei valori aristocratici

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dalla coscienza inquieta […] vuol rendersi conto che quanto è giusto per uno, non per questo in alcun modo può essere giusto per l’altro, che esigere una sola morale per tutti costituisce un pregiudizio proprio a danno dell’uomo superiore, insomma, che esiste un ordine gerarchico tra uomo e uomo, e conseguentemente anche tra morale e morale» (Al di là del bene e del male, af. 228). Gli individui, nell’ottica di Nietzsche e del modo aristocratico di valutazione, sono particolarmente importanti perché in questa prospettiva ciò che viene giudicato sono direttamente essi con la loro forza, e solo secondariamente le azioni, che sono invece importanti se entriamo in un’ottica morale. Ma se la valutazione originariamente non è una valutazione di tipo morale, ciò che deve essere spiegato è allora l’origine della moralità come un sistema di valutazione del tutto diverso e per più versi opposto a quello aristocratico. È qui che interviene il peso enorme che ha avuto il cristianesimo nella storia dell’Occidente: è con il cristianesimo che si è avuta una gigantesca rivoluzione, un ribaltamento del sistema dei valori che sposta l’attenzione e il segno positivo della valutazione dai forti verso i deboli. I deboli sono in effetti i protagonisti di questa rivoluzione, che Nietzsche chiama «rivolta degli schiavi», e che ha inizio con il popolo ebraico, ma che si realizza in modo compiuto con il cristianesimo. Alla base di questa rivolta c’è un fattore psicologico che Nietzsche ritiene centrale e che avrà una certa fortuna anche nella tradizione filosofica successiva: il risentimento come forma di rancore da parte dei deboli verso i forti e come motivo di reazione. È l’unico modo, questo della reazione, con cui anche i deboli possono agire: si tratta di un agire ‘reattivo’ di chi non è in grado di essere forte, e cerca di caratterizzare se stesso soltanto in opposizione ad altri, cioè ai forti. È così che per Nietzsche hanno origine il sistema di valutazione morale e le categorie morali: i deboli, pieni di risentimento verso i forti, reagiscono ad essi non, come gli eroi cavallereschi, dimostrando la loro forza, ma attraverso la costruzione del sistema della moralità come modo di vita e di valutazione in cui i valori del modo di vita aristocratico vengono ribaltati nel loro opposto. In questa rivoluzione dei valori, i deboli valutano i loro dominatori, cioè i forti, come ‘malvagi’, cioè cattivi in senso morale. Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment [risentimento] diventa esso stesso creatore e genera valori: il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un ‘di fuori’, a un ‘altro’, a un ‘non io’: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. Con la rivolta degli schiavi, il modo di valutazione cambia radicalmente, e al tempo stesso cambiano radicalmente anche soggetti e modi della valutazione. Con il nuovo modo di valutazione introdotto dagli schiavi, e quindi dalla civiltà ebraicocristiana, viene infatti introdotto un modo di valutare che è ora, davvero, ‘morale’:

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è qui che ha inizio la storia della moralità in senso stretto, attraverso gruppi sociali pieni di rancore e di risentimento che rappresentano la parte debole della società e che per risentimento erigono la forza, la nobiltà, la superiorità a valore negativo, mentre la debolezza e tutto ciò che alla debolezza è collegato diviene un valore positivo. È in questo modo che il risentimento diventa creatore di valori, e i nuovi valori sono ora valori specificamente morali: la coppia di termini valutativi opposti «buono» / «cattivo» che significava semplicemente «forte» / «debole» diventa ora la coppia di termini sempre valutativi e sempre opposti ma moralmente significativi «buono» / «malvagio», dove il termine «malvagio» indica il forte della società aristocratica, e il debole di quella società diventa il buono. Asimmetria dei due Questo è il meccanismo con cui è nata l’istituzione della moralità, nella ricostrumodi di valutazione zione genealogica di Nietzsche: attraverso queste metamorfosi dei concetti valutativi, i termini negativi di una società aristocratica fondata sulla nobiltà e sulla forza sono così diventati positivi: la debolezza e l’impotenza diventano un merito, l’abiezione timorosa diventa umiltà, la codardia pazienza. Come si vede, il rapporto con il proprio opposto è ben diverso nel caso del modo di vita aristocratico da un lato e del modo di vita morale dall’altro: in quest’ultimo, il rapporto con il proprio opposto è un rapporto di risentimento, di rancore, di valutazione negativa che consiste in un disprezzo attivo e nella disapprovazione morale: è un rapporto, insomma, ben diverso dal «pathos della distanza» della società aristocratica. Genesi del modo di valutazione morale

Modo di valutazione non morale 1) modo originario di valutazione; 2) «buono» = «forte» = «aristocratico»; 3) valutazione riferita agli individui; 4) affermazione del proprio valore; 5) ordine gerarchico tra gli uomini (forti / deboli)

Modo di valutazione morale Risentimento dei deboli nei confronti dei forti

Negazione del predominio dei forti e rovesciamento dei valori aristocratici

(civiltà ebraico-cristiana): 1) modo derivato di valutazione; 2) «buono» = «debole» = «umile»; 3) valutazione riferita alle azioni; 4) uguaglianza tra gli uomini

La genealogia della morale di Nietzsche non si limita, naturalmente, ai termini «buono» / «malvagio» e alla loro derivazione, seppur peculiare, da un sistema di valutazione non morale. Nietzsche intende infatti mostrare su più piani e per più aspetti come i concetti morali derivino da altro, da qualcosa che morale non è. La genealogia della morale è qualcosa di complesso, il cui principale senso unitario, si può dire, consiste nel carattere «non originario» dei valori morali. Così, per esempio, certi concetti morali vengono fatti risalire nell’indagine nietzscheana alle metamorfosi di nozioni giuridiche o commerciali e al loro intersecarsi con eventi sociali: i concetti di «colpa» e di «dovere», per esempio, derivano dal concetto di «debito» e dal rapporto economico tra creditore e debitore, che è in origine un rapporto di potere del primo sul secondo. Diritto penale E non solo: l’origine della pena e del diritto penale non sta nella riconosciuta e soddisfazione «colpevolezza» di qualcuno, ma nella possibilità di provare la soddisfazione deldella crudeltà la crudeltà verso il debitore che non paghi il suo debito. Quando la comunità si sostituisce, mediante opportune istituzioni, al creditore nel punire il debitore, ciò provoca con il tempo anche una progressiva umanizzazione delle pene: anche in

L’origine non morale dei concetti di «colpa» e «dovere»

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

questo caso, però, ci si deve guardare da una lettura positiva di questa umanizzazione. Perdita di crudeltà In realtà, essa ha per risultato la perdita della possibilità di realizzare la come senso di colpa ponente crudele della natura dell’uomo nell’esercizio diretto della crudeltà o, almeno, nello spettacolo della crudeltà che in altri tempi accompagnava qualunque tipo di festa. Le conseguenze di questa «perdita di crudeltà» sono importanti per la storia dell’uomo occidentale e della sua psicologia, poiché sono all’origine di quella «cattiva coscienza» che costituisce il fondamento del senso di colpa della tradizione cristiana. Impossibilitato a esercitare la propria crudeltà verso l’esterno, l’uomo ha diretto la crudeltà verso se stesso, verso la propria interiorità.

T17

La genesi dell’interiorità

Genealogia della morale, 2, af. 16

Considero la cattiva coscienza come quella grave malattia in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto – quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della pace. Non diversamente da quel che deve essere accaduto agli animali acquatici, allorché furono costretti a divenire animali terrestri oppure a perire, si compì la sorte di questi semianimali felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura – a un tratto tutti i loro istinti furono svalutati e ‘divelti’ […]. Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno – questo è quello che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua «anima».

L’analisi critica del cristianesimo e la volontà di potenza L’origine dell’istituzione della moralità, quindi, e dello stesso linguaggio morale, sta nella storia di determinati gruppi sociali e dei rapporti di forza che si instaurano tra essi. Questa origine della moralità, lo si è accennato, coincide con l’inizio della civiltà cristiana, vista da Nietzsche – giustamente – in stretta continuità temporale e tematica con la civiltà ebraica. Il cristianesimo è certamente uno dei grandi obiettivi polemici di Nietzsche: il cristianesimo, infatti, come emerge con particolare forza proprio nella Genealogia della morale o nell’Anticristo (del 1888, cioè del gruppo delle ultime opere) è il principale ostacolo per la vita e per l’affermazione della vita. Nichilismo e necessità La radicalità della critica del cristianesimo da parte di Nietzsche non si espridi un ‘riorientamento’ me tanto nelle sue affermazioni più famose e altisonanti, come «Dio è morto», dei valori che ricorrono più volte nelle sue opere. La morte di Dio significa per Nietzsche, eventualmente, qualcosa di ben più radicale della semplice affermazione di ➥ Percorso tematico, p. 225 ateismo, non nuova nella tradizione filosofica: è piuttosto la negazione dell’oggettività dei valori insieme con la consapevolezza che la civiltà europea abbia bisogno di una radicale ‘trasvalutazione’, o di un completo e radicale ‘riorientamento’ del proprio orizzonte di valori. È soprattutto questo il peculiare e non univoco senso del nichilismo nietzscheano: da un lato, esso costituisce il punto di arrivo della crisi dei valori che caratterizza la civiltà occidentale, ed è in questo senso un fenomeno negativo; dall’altro, esso è in certo modo la stessa posizione di Nietzsche, che attraverso il rifiuto dei valori tradizionali intende proporre una nuova strada. Il cristianesimo come obiettivo polemico

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Unità 5 Nietzsche Cristianesimo, negazione della vita e decadenza della civiltà

La ‘bontà’ morale come espressione della «volontà di potenza»

Il rifiuto del materialismo

La volontà di potenza come tendenza al superamento

Il cristianesimo è per Nietzsche, innanzitutto, il responsabile della negazione della vita poiché nega le componenti sensibili e istintuali della natura umana e si propone come ‘ideale ascetico’, mentre la stessa distinzione natura / spirito è secondo Nietzsche una distinzione fallace. Inoltre, il cristianesimo è il principale responsabile dell’egualitarismo che ha i suoi eredi contemporanei nella Rivoluzione francese e poi negli ideali democratici e socialisti. Questi aspetti rientrano del resto in quella istituzione della moralità che, oltre alla negazione della vita e di se stessi e all’ideale fallace dell’uguaglianza tra gli uomini, ha promosso la valorizzazione come virtù di caratteristiche legate alla debolezza, e ha quindi nel tempo condotto la civiltà occidentale alla decadenza. In realtà, però, Nietzsche non crede che la cosiddetta bontà (morale) dei deboli, e quindi del cristianesimo, sia una bontà morale genuina, poiché anch’essa si fonda pur sempre su ciò che costituisce l’essenza della vita e dei rapporti sociali, la «volontà di potenza». La nozione di «volontà di potenza» possiede diversi significati e svolge funzioni differenti nel pensiero di Nietzsche. Essa è comunque un termine centrale perché si collega direttamente al problema della vita e tende a identificarsi con essa; e la vita è la categoria che, seppur strutturalmente indeterminata, è uno degli elementi più costanti e ricorrenti negli scritti di Nietzsche. Bene a conoscenza del dibattito filosofico-scientifico sul materialismo che ha luogo nella seconda metà dell’Ottocento, Nietzsche non accetta il materialismo, e interpreta la realtà come qualcosa di dinamico che, lo si è visto, non può essere né ricondotto né cristallizzato in nozioni classiche della tradizione filosofica come ‘sostanza’ o ‘soggetto’ (ma anche: ‘causalità’). Egli sottopone piuttosto queste nozioni a una critica demolitrice, che si fonda su una prospettiva propria. La realtà è composta di centri di forza, di energia, ed è questa energia a stare alla base di ogni vita: «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone», scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra, e in questa stessa presentazione del tema è contenuto il passaggio dalla dimensione naturale, biologica, o forse metafisica, alla dimensione sociale, che esprime nel modo più netto la prospettiva nietzscheana. La volontà di potenza non è semplice tendenza all’autoconservazione (su questo tema Nietzsche polemizza con gli evoluzionisti) ma piuttosto tendenza all’espansione e al superamento di sé e di ciò che ci circonda: sono queste le irrefrenabili e inevitabili esigenze della vita, di fronte alle quali le pretese della morale e del diritto mostrano tutta la loro debolezza, se non si adeguano ad esse.

Genealogia della morale, 2, af. 11

Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di ‘illegittimo’ in quanto la vita si adempie essenzialmente, cioè nelle sue funzioni fondamentali, offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando e non può essere affatto pensata senza questo suo carattere. C’è persino qualcosa di più serio che dobbiamo ancora confessare a noi stessi: che dal supremo punto di vista biologico, condizioni giuridiche possono essere sempre soltanto stati eccezionali, essendo parziali restrizioni della peculiare volontà di vivere che ha di mira la potenza, e subordinandosi in quanto strumenti particolari allo scopo complessivo di tale volontà.

Psicologia e volontà di potenza

La volontà di potenza costituisce quindi per Nietzsche il principio dinamico della realtà, ma costituisce soprattutto il principio della motivazione degli individui

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L’essenziale violenza della vita

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La rivolta degli schiavi come manifestazione della volontà di potenza

nel loro agire, come una psicologia avvertita e spregiudicata deve essere in grado di mostrare. Un limite della psicologia è stato, infatti, non essere riuscita a liberarsi dei pregiudizi morali. Se la psicologia viene utilizzata, come Nietzsche ritiene debba avvenire, come strumento di indagine e di demistificazione, allora essa potrà essere di nuovo la strada da battere per i problemi fondamentali. Per far questo, però, ci si deve rendere conto che la psicologia è soprattutto una «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza». La volontà di vivere è sempre indirizzata, come volontà di potenza, verso rapporti di dominio, e trova le forme più diverse per farlo: la psicologia giustamente intesa è in grado di analizzarne i meccanismi e di metterli a nudo. La stessa rivolta degli schiavi con cui si è imposta una grande rivoluzione dei valori e della vita sociale è stata sì una rivolta dei deboli contro i forti, con tutto quello che ne è conseguito, ma è stata pur sempre una rivolta che ha avuto successo e che ha mutato i rapporti di potere della società, un processo in cui prima il ceto sacerdotale ebraico e poi i preti cristiani hanno consapevolmente saputo sviluppare una forma di dominio che non ha pari nella storia, anche perché ha saputo collegarsi con la funzione storica del cristianesimo. Si è trattato quindi, anche in questo caso, di una forma di manifestazione della volontà di potenza.

La funzione del cristianesimo Il distacco dell’uomo dal proprio passato biologico

T19

Dall’uomo ‘semplice’ all’uomo ‘profondo’

Genealogia della morale, 1, af. 6-7

Senso di colpa e complessità interiore

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La critica del cristianesimo sembra accompagnarsi in Nietzsche al riconoscimento della sua funzione storica, pur se si tratta di una funzione storica che si è esaurita e che non è affatto esente dalla logica della ‘potenza’ che sottende in generale ai rapporti sociali. Innanzitutto, l’origine della moralità e del cristianesimo coincide per Nietzsche con il distacco definitivo dell’uomo dal proprio passato biologico: con il cristianesimo, e solo con il cristianesimo, il forte e aristocratico ma, sembra dire Nietzsche, ‘semplice’ uomo aristocratico ha acquisito uno spessore e una profondità e si è fatto davvero uomo. […] soltanto sul terreno di questa umana forma di esistenza, essenzialmente pericolosa, quella cioè dei preti, l’uomo è divenuto in generale un animale interessante, e […] soltanto qui l’anima umana ha acquistato profondità in un superiore significato ed è divenuta malvagia – e sono anzi queste le due forme fondamentali della superiorità che ha avuto sino ad oggi l’uomo sugli altri animali! […] La storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte degli impotenti è venuto in essa. E queste osservazioni si intersecano, nella multifattorialità tipica della genealogia di Nietzsche, con quelle sull’origine del sentimento di colpa, ovvero sulla cattiva coscienza: è stato in grazia di questo fenomeno di crudeltà verso se stessi che la semplicità dell’uomo e della sua coscienza «originariamente sottile come fosse tesa tra due epidermidi» ha modificato la sua natura in direzione, lo si è visto sopra, di una interiorizzazione, di una profondità. L’uomo occidentale diventa infatti con il cristianesimo e con il sistema della moralità un uomo profondo anche nel senso che ha una memoria, che può «fare promesse» perché può ricordare, perché ha anche, in parte, perso quella capacità attiva di dimenticare che, lo ricorderai, svolgeva un ruolo già nella seconda Considerazione inattuale.

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Unità 5 Nietzsche La funzione ‘terapeutica’ del cristianesimo

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L’interpretazione ascetica della sofferenza Genealogia della morale, 3, af. 28

Il superamento della morale e del cristianesimo

➥ Sommario, p. 210

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L’uomo diventa interessante e profondo solo con il cristianesimo e la moralità, quindi. Tuttavia, il maggior significato storico del cristianesimo è un altro: il cristianesimo, come tutte le religioni, è stato anche un grande sistema terapeutico di fronte al dolore e alla sofferenza che caratterizza l’esistenza umana. E questa indicazione non va letta limitatamente al dolore in quanto tale, nella sua immediatezza, ma al suo intensificarsi di tipo «immaginativo e mentale» che rende davvero drammatica la sofferenza perché ne mette in luce l’assurdità: «Ciò che propriamente fa rivoltare contro la sofferenza non è la sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire». È il confronto con questa assurdità e la capacità di affrontarla che spiega il successo del ceto dei ‘preti’ e la funzione storica del cristianesimo in quanto «ideale ascetico», come Nietzsche scrive in chiusura della Genealogia della morale. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un ‘perché’ del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a essa un senso. È stato fino a oggi l’unico senso; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il ‘faute de mieux’ par excellence [mancanza di meglio per eccellenza] che sia mai esistito sino a ora. In esso la sofferenza venne interpretata; l’enorme vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida. Il cristianesimo ha svolto una funzione storica, quindi, ma questa funzione si è esaurita: la filosofia di Nietzsche, e la figura di Zarathustra, intendono infatti annunciare una nuova epoca che costituisca un superamento della morale e dello stesso cristianesimo. È in questa nuova direzione che si dovrebbe sviluppare la filosofia nietzscheana, dopo avere aggredito criticamente la tradizione. Anche in questa direzione, di una proposta costruttiva e non solo critica, sembra che un ruolo dominante venga svolto da un atteggiamento di tipo ‘morale’, o almeno ‘pratico’, che sia in grado, lo si è detto, di sopprimere la stessa moralità attraverso gli strumenti della moralità, a partire dalla veridicità, e al di là di ciò, di tratteggiare un modo di vita alternativo a quello fondato sulla moralità. È anche questo il senso della tesi nietzscheana dell’eterno ritorno dell’identico, e della necessità che la figura dell’uomo venga superata nel superuomo.

Il superuomo e l’eterno ritorno

Nella figura del superuomo vengono espressi due aspetti della filosofia di Nietzsche e in particolare della sua critica della società contemporanea. Da un lato, si tratta di indicare un nuovo modello di uomo che costituisca un superamento dell’uomo contemporaneo, di quelli che Nietzsche chiama con disprezzo «gli ultimi uomini»: si tratta quindi in realtà anche di indicare, pur sommariamente, i caratteri di un nuovo modo di vita, di una società diversa che nasca dalle ceneri della tradizione cristiano-borghese. Una nuova forma Per questo, e in diretta connessione con il primo, sorge il secondo aspetto, che è di aristocraticismo l’aristocraticismo di Nietzsche. Egli tuttavia è un filosofo troppo consapevole della storicità degli eventi per pensare che il modello aristocratico della società ‘precri-

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

stiana’ e ‘premorale’ possa essere riproducibile: l’uomo che è passato attraverso l’esperienza storica del cristianesimo è un uomo ormai complesso, approfondito, che non può tornare semplicemente a essere la coscienza ‘sottile’ dell’uomo ancora semplice e vigoroso di una società fondata sull’aristocrazia e sulla forza. Però la società aristocratica rimane l’unico punto di riferimento di Nietzsche, del cui consapevole e radicale antiegualitarismo abbiamo già parlato: ogni superamento, ogni avanzamento dipende dalla differenziazione e dalla disuguaglianza tra gli uomini.

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Innalzamento dell’uomo e aristocrazia Al di là del bene e del male, af. 257

Ogni elevazione del tipo ‘uomo’ è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante altezza e ampiezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell’obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, l’elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo ‘uomo’, l’assiduo ‘autosuperamento dell’uomo’, per prendere una formula morale in un senso sovramorale.

Beninteso, il superuomo esprime qualcosa di più della semplice disuguaglianza tra gli uomini: questa vige sempre, e uomini superiori ci sono sempre stati e ci sono ancora anche all’interno della decadente società contemporanea (un esempio è stato Napoleone). Il superuomo dovrà avere caratteristiche diverse, che consistono appunto nel superamento dell’uomo, del semplice uomo, e soprattutto dell’uomo ormai decadente frutto della civiltà cristiana, dell’«ultimo uomo». Si tratta, nel caso del superuomo, non solo del culmine di una gerarchia, ma di un superamento che dovrebbe marcare una differenza di tipo antropologico che renderebbe l’esistenza dell’uomo un semplice punto di passaggio «tra la bestia e il superuomo». I tratti caratteristici Il superuomo sarà in grado di accettare la dimensione tragica e dionisiaca della del superuomo vita, perché sarà consapevole della morte di Dio e della fine della civiltà fondata sulla moralità, ovvero della civiltà occidentale cristiana. Inoltre, tra le caratteristiche del superuomo ci dovrà essere anche quella di accettare «l’eterno ritorno dell’identico», una nozione dell’apparato concettuale di Nietzsche il cui significato non è cristallino. La fonte d’ispirazione è certamente la civiltà antica, ma ciò che non è chiaro è se la tesi dell’eterno ritorno sia per Nietzsche anche una genuina tesi cosmologica, oltre a una tesi di tipo ‘morale’. Certo l’eterno ritorno è un tema centrale di Così parlò Zarathustra, ma compare la prima volta in un aforisma della Gaia scienza intitolato significativamente Il grande peso. Il superuomo come nuovo tipo antropologico

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L’annuncio dell’eterno ritorno dell’identico La gaia scienza, af. 341

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Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polve-

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Unità 5 Nietzsche

re!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? […] Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? La piena accettazione di ogni aspetto della vita

➥ Sommario, p. 210

Il significato ‘morale’ dell’eterno ritorno consiste in un’affermazione e accettazione della vita in tutti i suoi aspetti, nell’accettazione del «grande peso»: accettare l’eterno ritorno dell’identico significa infatti accettare la vita in pieno, affermare se stessi e la propria esistenza. Se si accetta l’idea che tutti gli attimi si ripresentino in eterno in un andamento circolare del tempo, ciò è il segno del fatto che si è davvero accettata pienamente la vita. Inoltre, la tesi dell’eterno ritorno implica la negazione di ogni finalismo, di ogni teleologia: se tutto torna eternamente, il mondo non ha uno scopo né un senso, come nella prospettiva dionisiaca, e non c’è nessun disegno, né trascendente, né immanente, che riguardi l’esistenza. Per questo il superuomo è tale nell’accettazione dell’eterno ritorno: esso significa l’accettazione consapevole, e coraggiosa, dell’insensatezza dell’esistenza. È ancora una volta un’affermazione di forza di fronte al destino, che non può non passare attraverso la sua accettazione come amor fati.

Suggerimenti bibliografici Come introduzione generale al pensiero di Nietzsche ti consigliamo G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985. Per approfondire la sua opera possono esserti utili i volumi dedicati a Nietzsche da uno dei due curatori dell’edizione critica delle sue opere M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, Adelphi, Milano 1999, e Id., Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1981. Una interessante raccolta di saggi è M. Ferraris (a cura di), Guida a Nietzsche, Laterza, RomaBari 1999. Per avvicinarti a due tra le più importanti opere del filosofo tedesco puoi leggere A. Orsucci, Genealogia della morale. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2001, e S. Giametta, Commento allo Zarathustra di Nietzsche, Bruno Mondadori, Milano 1996. Al tema dell’eterno ritorno e al suo rapporto con la filosofia della storia è dedicato K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Roma-Bari 1996. I brani antologizzati sono tratti da: F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1977. F. Nietzsche, Lettera a Theodor Fritsch del 29 marzo 1887, citato in M. Montinari, Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 74. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, 1-3, Adelphi, Milano 1972, pp. 70-71, 96. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 19793. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 19957. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 19825. F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1983, p. 45. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1992. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 19827. Il brano di C. Luporini citato a p. 181 è tratto da Id., Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 4. La lettera di F. Ritschl citata a p. 183 è tratta da F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp. 185-186.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Sommario 1. IL

FILOSOFO E IL MORALISTA

Nietzsche – un ‘caso’ nella storia della filosofia – ha come obiettivo polemico la razionalità filosofica così come essa si è sviluppata dalla Grecia antica in poi. Elemento distintivo della sua filosofia è anche lo stile aforistico. Oggetto privilegiato del pensiero di Nietzsche è la morale, al punto che non è scorretto parlare di lui come di un ‘moralista’. In questo sta, tra l’altro, la componente ‘illuministica’ del suo pensiero. Ciò non toglie che l’individualismo – in quanto opposto a ogni atteggiamento democratico e ugualitario – costituisca un tratto caratteristico del pensiero nietzscheano. 2. DALLA

FILOLOGIA ALLA CRITICA DELLA CULTURA

CONTEMPORANEA

Nonostante la formazione da filologo classico e la sua precoce affermazione in ambito universitario, Nietzsche rivela ben presto interessi filosofici che lo spingono a rompere con l’ambiente accademico. La pubblicazione della Nascita della tragedia nel 1872 segna questa frattura. In questi anni Nietzsche è influenzato da Schopenhauer e Wagner: il primo in relazione al principio irrazionale (la volontà) che sarebbe a fondamento della realtà, il secondo per aver dato ‘concretezza’ a tale principio nei suoi drammi musicali. 3. LA

TRAGEDIA E LA STORIA

La riflessione filosofica di Nietzsche ha inizio da un’analisi della genesi e della natura della tragedia greca, analisi che si caratterizza come la chiave per una critica dell’epoca contemporanea. Egli interpreta la cultura greca classica come il risultato dell’interazione conflittuale tra un principio apollineo (espressione dell’armonia e della razionalità) e uno dionisiaco (espressione della vita e della dimensione istintuale). Tra i due principi, fondamentale e originario è quello dionisiaco. Nella tragedia attica i due principi trovano una perfetta fusione tra loro. Tuttavia la tragedia attica va incontro a un ‘suicidio’ già con Euripide, nel momento in cui l’ottimismo razionalistico di ispirazione socratica prende il sopravvento sul principio dionisiaco. Nietzsche intravede tuttavia la possibilità di un ritorno al principio dionisiaco in epoca contemporanea grazie ai drammi musicali di Wagner, che costituiscono a suo avviso una metafisica d’artista, la sola accettabile. Allo stesso tempo Nietzsche guarda con disprezzo alla filosofia della storia di matrice hegeliana e in particolare a quella che lui chiama idolatria del fatto. Ciò comporta una essenziale ambivalenza della conoscenza storica, che può essere a un tempo sia stimolo per la vita (se accompagnata dall’oblio) sia freno per essa. 4. LA

CRITICA DELLA METAFISICA

La riflessione filosofica matura di Nietzsche è caratterizzata da una esplicita presa di distanza da tutta la tra210

dizione filosofica occidentale. Il principale obiettivo critico della tradizione filosofica è l’idea stessa di un «soggetto» agente (o «sostanza») distinto dall’azione e dal fare. Analogamente Nietzsche opera una critica radicale della nozione di «libertà del volere» e del concetto ad essa correlato di «responsabilità». La storia si configura come uno strumento polemico nei confronti di quel «filosofare metafisico» che assolutizza concetti e istituzioni. Ciò apre la strada a quella filosofia storica che mostra la complessa genealogia delle idee metafisiche e dei concetti morali. La «duplicazione» della realtà, operata pressoché in ogni sistema filosofico e nella stessa religione, è sintomo per Nietzsche di un decadimento del principio vitale originario. L’unica realtà è costituita per lui dal mondo della vita e degli istinti. La conoscenza, nella quale la sensibilità gioca un ruolo privilegiato, è inevitabilmente prospettica, parziale (prospettivismo conoscitivo). 5. LA

CRITICA DELLA MORALE

Lo strumento di analisi critica dei concetti e delle istituzioni morali è rappresentato per Nietzsche dalla genealogia, mediante la quale è possibile arrivare a una loro delegittimazione. Nessun fatto o fenomeno è di per sé morale in senso oggettivo. La valutazione morale deriva da un originario atteggiamento valutativo di tipo non morale, bensì incentrato sulla contrapposizione tra «forti» (aristocratici) e «deboli» (plebei). La creazione del sistema morale di valutazione culmina nel cristianesimo, caratterizzato dal risentimento dei deboli verso i forti, dal rovesciamento dei valori aristocratici e dal nascere del senso di colpa. L’analisi genealogica implica dunque il nichilismo. Nietzsche auspica così una «trasvalutazione» di tutti i valori mediante l’affermarsi della volontà di potenza, categoria fondamentale che sta alla base della vita stessa, sia individuale che sociale. 6. IL

SUPERUOMO E L’ETERNO RITORNO

La funzione storica svolta dal cristianesimo e dalla morale si è esaurita. Ciò prelude per Nietzsche all’alba di una nuova epoca caratterizzata da un superamento della morale e dall’avvento del superuomo. Esso costituisce un nuovo «tipo» antropologico di uomo, che nasce sulle ceneri dell’uomo cristiano-borghese e aderisce pienamente alla dimensione tragica e dionisiaca dell’esistenza, nella consapevolezza della «morte di Dio». Tra le sue caratteristiche vi è quella di accettare l’eterno ritorno dell’identico, ossia la tesi secondo la quale tutto ciò che accade, sia a livello cosmico che a livello individuale, è sempre accaduto e sempre accadrà di nuovo. L’accettazione di tale tesi può essere letta come un’adesione piena alla vita in tutti i suoi aspetti, istante per istante, nella mancanza di un ‘senso’ dell’esistenza.

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Unità 5 Nietzsche

Parole chiave Apollineo. Accanto a quello dionisiaco, uno dei due «impulsi» o principi che secondo Nietzsche stanno alla base della vita e della realtà. Il principio apollineo denota l’armonia e l’equilibrio razionale. Dionisiaco. Esso è quello fondamentale dei due principi o «impulsi» che presiedono alla vita e alla realtà. Il principio dionisiaco caratterizza l’ebbrezza e la dimensione istintuale dell’esistenza, dimensione in cui il singolo individuo non è più distinto dalla realtà ma costituisce un tutt’uno con essa e la natura. Eterno ritorno. La dottrina dell’«eterno ritorno dell’identico» consiste nell’idea che ogni evento, anche il più insignificante, è destinato a ripetersi infinite volte nel futuro, esattamente nelle stesse modalità in cui è già accaduto nel passato e sta accadendo nel presente. Filosofia storica. In opposizione alla «filosofia metafisica», che tende ad assolutizzare certi fatti o concetti (ossia a considerarli come posti al di fuori del processo storico) la «filosofia storica» si propone come uno strumento di critica volto a ridisegnare la genealogia e il processo di formazione storica dei concetti metafisici o dei concetti morali, mostrandone così la non assolutezza. Genealogia. Nell’ambito della «filosofia storica» promossa da Nietzsche, questo termine indica lo strumento principale per la critica di idee metafisiche, concetti morali o istituzioni, e quindi anche per la loro delegittimazione. Idolatria del fatto. Atteggiamento nei confronti della storia che tende a giustificare ogni evento, come fosse il prodotto necessario e il compimento di quelli che lo hanno preceduto. Individualismo. Atteggiamento sociale e filosofico esaltato da Nietzsche e proprio dell’eroe nietzscheano, il quale – lungi dal considerarsi parte di una ‘massa’ di individui uguali e aventi gli stessi diritti e doveri – si pone aristocraticamente al di sopra di essi. Tale atteggiamento è strettamente connesso all’atteggiamento antiegualitario e antidemocratico di Nietzsche. Metafisica d’artista. Tale genere di metafisica, contrapposta a ogni metafisica precedente della storia della filosofia, indica per Nietzsche una metafisica che intende fornire una giustificazione esclusivamente estetica del mondo e dell’esistenza, senza il ricorso a concetti o strumenti razionali. Nichilismo. Dal latino nihil («nulla»), il termine indica nel pensiero di Nietzsche il rifiuto di qualunque

verità oggettiva o fondamento assoluto, sia etico che conoscitivo (secondo il detto: «Dio è morto»). Oblio. Termine mediante il quale Nietzsche allude al dimenticare come capacità positiva, che mette cioè in condizione di agire in quanto libera la creatività dal peso del passato. Ottimismo razionalistico. Atteggiamento di fiducia fondato su una visione razionale della realtà, secondo il quale ciò che è razionale è anche buono e bello. Tale atteggiamento viene introdotto nella storia dell’umanità dalla filosofia socratica e determina il «suicidio» della tragedia attica e il prevalere del principio apollineo su quello dionisiaco. Prospettivismo. Tale termine indica l’idea secondo la quale la conoscenza di qualcosa è sempre una conoscenza «prospettica», ossia una conoscenza parziale, dipendente essenzialmente dai nostri interessi e dai nostri bisogni. Risentimento. Esso costituisce l’atteggiamento psicologico che spiega il passaggio dal sistema di valutazione non morale al sistema di valutazione morale, inaugurato dal cristianesimo. Più precisamente, il risentimento è una forma di reazione dei deboli verso il potere dei forti, reazione che si caratterizza come una forma di rancore. Senso di colpa. Esso costituisce il tratto caratteristico di quella «cattiva coscienza» che si è instaurata nell’uomo con il rovesciamento dei valori aristocratici e l’avvento del cristianesimo. Parallelamente all’«umanizzazione» delle pene da parte della società e alla svalutazione degli istinti aggressivi da parte della morale cristiana, l’uomo ha indirizzato l’esercizio della crudeltà verso se stesso, ossia verso la propria interiorità. Superuomo. Dal tedesco Übermensch, il termine indica nel pensiero maturo di Nietzsche il nuovo tipo antropologico di uomo che dovrebbe nascere sulle ceneri della civiltà cristiano-borghese ormai giunta al tramonto. Tra le caratteristiche salienti del superuomo nietzscheano vi sono l’accettazione della fine di ogni assoluto e la piena adesione alla dottrina dell’eterno ritorno dell’identico. Volontà di potenza. Tale termine indica l’essenza stessa della vita e dei rapporti sociali, quale si rivela a uno sguardo attento e disincantato. Essa è l’energia o il centro di forza che sta alla base di ogni essere vivente, il quale non si limita semplicemente all’autoconservazione, ma ha la tendenza naturale a espandersi e a superare se stesso e tutto ciò che lo circonda. 211

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario IL

FILOSOFO E IL MORALISTA

1

LA

LA

LA

Che cosa significa l’affermazione di Nietzsche in T5 secondo cui lo stesso Euripide sarebbe stato, nelle proprie opere, «solo maschera»? (max 1 riga)

TRAGEDIA E LA STORIA

2

In che rapporto sta l’individualità del soggetto con, rispettivamente, il principio apollineo e quello dionisiaco? (max 4 righe)

14

In cosa consiste il pericolo della filosofia della storia hegeliana, secondo quanto espresso da Nietzsche in T6? (max 1 riga)

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Che ruolo svolge secondo Nietzsche la tragedia attica per lo spettatore dell’antica Grecia? (max 1 riga)

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In cosa consiste, secondo quanto argomentato da Nietzsche in T8, l’errore comune del «volgo», della metafisica e della scienza? (max 2 righe)

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In che senso lo studio della storia può essere, secondo Nietzsche, sia utile che dannoso per la vita? (max 5 righe)

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Quale è il nesso tra necessità e innocenza stando a quanto sostiene Nietzsche in T9? (max 1 riga)

17

In cosa consiste il principale difetto nel modo di guardare all’uomo da parte dei filosofi e dei teologi, secondo quanto afferma Nietzsche in T10? (max 2 righe)

18

Che cosa ha a che fare il sentimento della vendetta con la genesi dei sistemi metafisici, stando a quanto dichiara Nietzsche in T11? (max 3 righe)

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Quali sono i tratti distintivi della genealogia nietzscheana come strumento critico per l’analisi dei concetti e delle istituzioni? (max 4 righe)

A cosa si riferisce Nietzsche in T12 quando parla del «problema stesso della morale»? (max 1 riga)

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Cosa mette in luce secondo Nietzsche l’analisi genealogica dei termini «buono» e «cattivo»? (max 5 righe)

Che tipo di nesso viene suggerito da Nietzsche tra «esistenza» e «valutazione» in T14? (max 2 righe)

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Stando a quanto affermato da Nietzsche in T17, in che senso possiamo affermare che la «morale degli schiavi» ha un carattere eteronomo e negativo? (max 3 righe)

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Qual è la conseguenza più rilevante della svalutazione degli istinti cui l’uomo è andato incontro, secondo quanto afferma Nietzsche in T18? (max 1 riga)

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In che relazione stanno a tuo avviso l’amore di se stessi e della vita con la dottrina dell’eterno ritorno dell’identico, così come espressa da Nietzsche in T23? (max 3 righe)

CRITICA DELLA METAFISICA

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In cosa consiste secondo Nietzsche la «grande illusione» della tradizione filosofica moderna inaugurata da Cartesio? (max 2 righe)

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Da dove ha origine, secondo Nietzsche, l’idea – comune a tutti i sistemi filosofici e al cristianesimo – che esistano due realtà, di cui una sarebbe perfetta e assoluta e l’altra imperfetta e mutevole? (max 2 righe)

CRITICA DELLA MORALE

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IL

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In che cosa consiste il tratto ‘illuministico’ del pensiero nietzscheano? (max 2 righe)

Che ruolo gioca secondo Nietzsche il risentimento (ressentiment) nella genesi del modo di valutazione morale? (max 2 righe)

SUPERUOMO E L’ETERNO RITORNO

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Quali sono i caratteri della nuova epoca che si presenta come superamento del cristianesimo? (max 3 righe)

Lavoriamo sui testi 11

Quali aspetti del processo conoscitivo ti sembra siano valorizzati da Nietzsche nell’affrontare «i problemi profondi», stando a quanto egli stesso dichiara in T1? (max 2 righe)

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A che genere di manifestazioni artistiche Nietzsche associa, rispettivamente, il principio apollineo e quello dionisiaco in T4? E per quale motivo secondo te? (max 3 righe)

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Laboratorio di lettura Genealogia della morale In questo brano della Genealogia della morale, Nietzsche mostra come la genesi della moralità affondi le radici nel fenomeno psicologico del ‘risentimento’ e nel diverso atteggiamento di aristocratici e plebei nei confronti del gruppo sociale considerato nemico.

La nascita della morale e il risentimento Prima tesi: la morale degli schiavi come reazione

Commento e interpretazione

Nella morale la rivolta degli schiavi [A] ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; [B] il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un «di fuori», a un «altro», a un «non io»: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. [C]

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A. La rivolta degli schiavi segna per Nietzsche l’origine, in realtà, della stessa civiltà della moralità, ovvero della civiltà ebraico-cristiana. La connotazione dei soggetti della rivolta come ‘schiavi’ deriva direttamente dal confronto tra essi, i deboli, i plebei, i subordinati di una civiltà aristocratica, e gli aristocratici, i forti, i dominatori, i quali non possono che avere, nei confronti dei primi, un rapporto di dominio, analogo a quello ‘padroneschiavo’. La rivolta degli schiavi dà inizio a un nuovo modo di valutare e a una nuova civiltà, la civiltà fondata sulla moralità, poiché la civiltà e il modo di valutazione aristocratico non potrebbero, in realtà, essere considerati ‘morali’, ma fondati piuttosto su criteri diversi, anche se Nietzsche stesso parla di ‘morale’ o di ‘morale dei signori’ per indicare qualcosa che non può essere intesa come morale in senso proprio. B. Una questione molto importante è l’uso che Nietzsche fa del termine «valore». La nozione di «valore», come si è detto nel profilo (vedi p. 199), entra nel corso dell’Ottocento nel lessico filosofico, provenendo dall’economia, ed è proprio Nietzsche che ne sancisce la piena legittimità in filosofia. Tutta la riflessione successiva dovrà tenere conto del modo in cui egli ha affrontato la questione. Per Nietzsche, gli esseri umani fanno sempre valutazioni e fanno sempre riferimento a valori, ma non necessariamente a valori morali. La rivolta degli schiavi costituisce un motivo di rottura anche e soprattutto perché introduce la valutazione morale e il valore morale, radicali innovazioni della civiltà ebraico-cristiana. C. Il concetto centrale per spiegare l’origine della valutazione morale è il fenomeno psicologico del risentimento, del ressentiment (Nietzsche usa esclusivamente il termine francese) dei deboli, degli schiavi, dei plebei, verso i forti, i dominatori, gli aristocratici.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Seconda tesi: il modo aristocratico di valutazione è un atto positivo

Primo corollario della seconda tesi: l’eventuale errore della valutazione aristocratica

Secondo corollario: la quasi benevolenza verso i plebei

Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione: questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancor maggior gratitudine e gioia – il suo concetto negativo di «ignobile», «volgare», «cattivo» è soltanto una pallida postuma immagine antagonistica, in rapporto al suo positivo concetto fondamentale, tutto pervaso di vita e di passione, di «noi nobili, noi belli, noi buoni, noi felici!». Quando la maniera aristocratica di valutazione cade in errore e pecca contro la realtà, ciò accade in relazione alla sfera che non le è sufficientemente nota, anzi contro una reale conoscenza di questa essa si mette sdegnosamente sulle difese; disconosce talora la sfera da essa tenuta in dispregio, quella dell’uomo comune, del basso popolo; si consideri d’altra parte che in ogni caso il moto interiore del disprezzo, del guardare dall’alto in basso, del guardare con un senso di superiorità, posto che esso falsifichi l’immagine della persona disprezzata, resta di gran lunga al di sotto della falsificazione con cui l’odio arretrato, la vendetta dell’impotente, mette le mani addosso al suo avversario – naturalmente in effigie. In realtà è frammista al disprezzo troppa noncuranza, troppa scarsa considerazione, troppa disattenzione di sguardo e impazienza, e anche troppo compiacimento di sé perché esso sia in grado di trasformare il suo oggetto in una vera e propria caricatura e in uno spauracchio. Non si trascurino le nuances di quasi benevolenza che per esempio l’aristocrazia greca infonde a tutte le parole con cui essa distingue da sé il basso popolo; si badi a come vi si mescoli e vi si aggiunga, per addolcirle, una specie di rammarico, di riguardo, d’indulgenza, al punto che quasi tutte le parole che si convengono all’uomo comune hanno finito per restare sinonimi di «infelice», «degno di compassione» […] – e come d’altro canto parole quali «catti-

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La nozione di «risentimento» viene utilizzata nell’ambito del grande peso che Nietzsche attribuisce alla psicologia: la psicologia è uno strumento di demistificazione e di smascheramento dei reali meccanismi che stanno all’origine degli atteggiamenti, dei giudizi e delle azioni. Ben presente, in questo uso critico della psicologia, è anche la critica dell’ipocrisia, cioè della virtù che si presenta in un modo ma nasconde in realtà qualcos’altro come, per esempio, un interesse egoistico: è lo stesso grande tema dell’ipocrisia che aveva caratterizzato la spregiudicata letteratura ‘moralistica’ francese di Pascal, di La Rochefoucauld e di La Bruyère, tutti autori che esercitano una notevole influenza su Nietzsche. È essenziale, nell’analisi nietzscheana, la differenziazione tra l’atteggiamento interiore ed esteriore dell’uomo aristocratico e quelli del plebeo, cioè dell’uomo del risentimento: quest’ultimo, infatti, è in realtà un individuo sostanzialmente ‘passivo’ e incapace di un’attività che muova da lui stesso; la sua azione, il suo agire, sono semplicemente reattivi, dipendono dall’azione di altri e reagiscono ad essa. Il carattere astioso, rancoroso degli uomini del risentimento che dà origine alla rivolta degli schiavi e quindi alla civiltà ebraico-cristiana è un elemento strutturale nella posizione psicologica del debole di fronte al forte, del plebeo di fronte all’aristocratico, ed è ciò che fa sì che si possa, o meglio si debba, parlare di «vendetta». Questa vendetta è, per certi versi, immaginaria, perché non si fonda su un’azione originaria ma soltanto su una reazione, su una risposta all’azione degli aristocratici; per altri, però, è una vendetta ben concreta, perché la civiltà ebraico-cristiana risulterà in ultimo la strategia vincente, come ha dimostrato la storia occidentale. D. Nietzsche sottolinea certe caratteristiche del gruppo sociale aristocratico premorale o extramorale che sono evidentemente contrapposte al modo ‘plebeo’ o morale di valutazione. Dal punto di vista aristocratico, il punto di partenza è sempre costituito da se stessi

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Confronto tra le due ‘morali’. Primo argomento: la natura della felicità negli aristocratici e nei plebei

Secondo argomento: la schiettezza degli aristocratici verso se stessi

Terzo argomento: l’accortezza nel plebeo e nell’aristocratico

vo», «ignobile», «infelice» non hanno mai cessato di risuonare all’orecchio dell’uomo greco con un unico tono, con una coloritura d’accento in cui prevale «infelice»: tutto ciò in quanto eredità dell’antica, più eletta, maniera aristocratica di valutazione, che non si smentisce neppure nel disprezzo. [D] I «bennati» si sentivano appunto come i «felici»; non avevano bisogno di costruire artificialmente la loro felicità unicamente rivolgendo lo sguardo ai loro nemici, né di imporsela talora per forza di persuasione, di menzogna (come sono soliti fare tutti gli uomini del ressentiment); e così pure, in quanto uomini completi, sovraccarichi di forza, e perciò necessariamente attivi, non sapevano separare dalla felicità l’agire – presso di loro l’essere operosi veniva necessariamente considerato una condizione felice (di qui prende origine eu prattein) – tutto ciò in notevole contrasto con la «felicità» al livello degli impotenti, degli oppressi, degli esulcerati da sentimenti velenosi e astiosi, nei quali essa appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete, pace, «sabbath», distensione dell’animo e rilassamento del corpo, insomma in forma passiva. Mentre l’uomo nobile vive con fiducia e schiettezza davanti a se stesso (ghennaios, «nobile di nascita», sottolinea la nuance «schietto» e fors’anche «ingenuo»), l’uomo del ressentiment non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con se stesso. La sua anima svillaneggia; il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quello che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio; sa bene lui cosa sia il tacere, il non obliare, l’aspettare il momentaneo farsi piccini, farsi umili. [E] Una razza di siffatti uomini del ressentiment finirà necessariamente per essere più accorta di qualsiasi razza aristocratica, onorerà altresì l’accortezza in tutt’altra misura, vale a dire come un condizionamento esistenziale di

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e dalla propria autoaffermazione, non dalla contrapposizione ad altri. Addirittura, la stessa contrapposizione ai plebei e ai deboli, che è così importante nella prospettiva di Nietzsche, è una contrapposizione che dal punto di vista aristocratico è semplicemente la conseguenza, o il risultato, dell’affermazione di sé. L’aristocratico non ha verso il plebeo un atteggiamento di rancore o di risentimento, ma di indifferenza, di un disprezzo che è però innanzitutto occupato dalla considerazione di sé e delle proprie capacità. E Nietzsche arriva a vedere in questo atteggiamento aristocratico verso i plebei una sorta di rammarico, di indulgenza, di «quasi benevolenza», verso chi è sofferente, verso chi è infelice, se confrontato con chi ha forza e la capacità di affermare se stesso. In questa prospettiva, nozioni diverse come «vitale», «spontaneo», «passionale», «felice» possono essere considerate sostanzialmente sinonimi che indicano, tutti, la natura degli aristocratici. E. L’aristocratico è esplicito, schietto, sincero, non perché segua dettami morali, ma perché è nella sua natura immediata, fa parte della sua espressione di forza. La menzogna non fa parte degli strumenti che gli sono necessari perché egli è un individuo sostanzialmente autosufficiente e soddisfatto della propria natura; per questo egli è «felice». La felicità coincide con l’attività e con la possibilità di esprimere se stesso, mentre nel caso dei plebei la felicità è anch’essa, per Nietzsche, una rappresentazione di passività, di mancanza d’azione. L’uomo del risentimento è l’uomo incapace di esprimere se stesso, di agire veramente, e quindi è anche incapace di essere franco e schietto con se stesso. Nietzsche vede l’uomo del risentimento come una forma particolarmente meschina di ‘piccola borghesia’: è proprio questa dimensione minuta, gretta, che caratterizza il nascere della moralità. Un probabile modello è per Nietzsche il protagonista delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, un racconto del 1865 che Nietzsche aveva letto in traduzione francese.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Quarto argomento: il ressentiment dell’aristocratico

Quinto argomento: il ‘nemico’ per l’aristocratico e per il plebeo

prim’ordine, mentre negli uomini nobili l’accortezza ha facilmente in sé anche un sottile sapore di lusso e di raffinatezza – tra loro appunto di gran lunga essa non è così essenziale come la perfetta sicurezza funzionale degli inconsci istinti regolatori, o come addirittura una certa mancanza di accortezza, quale potrebbe essere il coraggioso gettarsi allo sbaraglio sia contro il pericolo, sia contro il nemico, o quella stravagante repentinità di collera, d’amore, di venerazione, di gratitudine e di vendetta, in cui in ogni tempo si sono riconosciute le anime nobili. Lo stesso ressentiment dell’uomo nobile, quando si fa presente in lui, si manifesta e si esaurisce infatti in una subitanea reazione, per la qual cosa non intossica: d’altro canto, in numerosi casi, non si presenta affatto, laddove in tutti i deboli e impotenti esso è inevitabile. [F] Non potere prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie sciagure, persino i propri misfatti – è il contrassegno di nature vigorose, complete, in cui esiste una sovrabbondanza di forza plastica, imitatrice, risanatrice e anche suscitatrice d’oblio (un buon esempio, a questo proposito, tratto dal mondo moderno, è Mirabeau, che non aveva memoria per gli insulti e le infamie commesse contro di lui e che non poteva perdonare per il semplice fatto che dimenticava). [G] Un tale uomo con un solo strattone si scuote di dosso appunto molti vermi che in altri invece fanno il loro covo; qui soltanto è altresì possibile, posto che sia in generale possibile sulla terra, – il vero «amore per i propri nemici». Certo, quanto rispetto per i suoi nemici ha un uomo nobile! – e un tale rispetto è già un ponte verso l’amore […]. Lo vuole anzi per sé il suo nemico, come un segno suo proprio di distinzione, non sopporta alcun altro nemico se non quello in cui non ci sia nulla da disprezzare e moltissimo invece da onorare! [H] Immaginiamoci viceversa «il nemico» come lo concepisce l’uomo del ressentiment – e precisamente a questo punto troveremo la sua azione, la sua creazione: costui concepisce «il nemico malvagio», «il malvagio» proprio come idea di base, a partire dalla quale si fab-

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F. Un elemento importante dell’uomo del risentimento è l’accortezza. Questa consiste nella capacità di essere prudenti, di calcolare, di vedere il proprio interesse, di essere lungimiranti, tutti tratti visti da Nietzsche in modo negativo. Si tratta di virtù, per Nietzsche, tipicamente borghesi, e tipiche quindi dell’uomo del risentimento come uomo capace di calcolare il proprio meschino interesse personale. A questa critica dell’accortezza e della prudenza si affianca naturalmente l’esaltazione del coraggio sostanzialmente incosciente dell’aristocratico, che non pensa al proprio interesse ma soltanto all’affermazione di sé. Quello aristocratico è un agire immediato, diretto, privo di riflessione sull’esito dell’azione per il proprio interesse personale: addirittura, il raro occorrere di risentimento nell’aristocratico non è il torvo rancore dell’uomo del risentimento plebeo, ma si traduce immediatamente in forza, in ira, non – scrive Nietzsche – «intossica», non avvelena quindi lentamente la relazione con il mondo e con gli altri. G. L’oblio e la capacità di dimenticare come tratti positivi ricorrono di frequente negli scritti di Nietzsche. Lo si ricorderà, per esempio nella Considerazione inattuale dedicata alla storia (vedi sopra, p. 189), dove Nietzsche sottolinea l’importanza dell’oblio per affrontare in modo risoluto il presente, per reagire al peso eccessivo del passato. L’oblio si collega anche in quel contesto con l’attività, e con la possibilità di agire. Qui l’oblio viene direttamente posto in connessione con la mancanza di risentimento: il risentimento è strutturalmente legato al covare un rancore nel tempo e quindi anche al ricordare, alla formazione nell’uomo di una coscienza del tempo e dei suoi obblighi morali che attraversano il

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Conclusione e terza tesi: la genesi di «buono», «cattivo», «malvagio»

Quarta tesi: il «buono» morale come reazione alla bontà amorale della forza

brica nell’immaginazione come sua contraffazione e sua antitesi altresì un «buono» – se stesso! […] Proprio all’opposto, dunque, di quel che si verifica per l’uomo nobile, il quale concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di «buono», prendendo le mosse, cioè, da se stesso, e soltanto su questa base si foggia una rappresentazione del «cattivo»! Questo «cattivo» di origine aristocratica e quel «malvagio» attinto al calderone dell’odio insaziabile – il primo, una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare, il secondo, invece, l’originale, il principio, l’atto vero e proprio nella concezione di una morale degli schiavi – come sono diverse queste due parole «cattivo» e «malvagio», apparentemente contrapposte allo stesso concetto di «buono»! Ma non è lo stesso concetto di «buono»: domandiamoci piuttosto chi propriamente è «malvagio», nel senso della morale del ressentiment. Con una risposta rigorosa occorrerà dire: appunto il «buono» dell’altra morale, appunto il nobile, il potente, il dominatore, solo che è dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco dall’occhio torvo del ressentiment. [I] […] Il problema dell’altra origine del «buono», del buono come lo ha concepito l’uomo del ressentiment, esige la sua risoluzione. – Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: «Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello – non dovrebbe forse essere buono?» su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «Con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo, nulla è più saporito d’un tenero agnello». Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di

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tempo stesso (per esempio quando e se fa delle promesse). La capacità di dimenticare diventa quindi in questa interpretazione, in sostanza, l’incapacità di portare rancore. H. Lo stesso rapporto con il nemico è completamente diverso per l’uomo aristocratico e per l’uomo del risentimento. Il nemico è per l’uomo aristocratico un altro individuo forte e nobile che sta al suo stesso livello: Nietzsche pensa, come modello, agli eroi omerici e ai loro duelli, a Ettore e Achille, a eroi che si contrappongono e si combattono ma nell’ambito del rispetto reciproco di tipo cavalleresco. I. La costruzione della propria immagine come «buono» ha luogo nell’uomo del risentimento in modo inverso rispetto all’uomo aristocratico: quest’ultimo afferma se stesso e si valuta come buono, e solo di conseguenza, come qualcosa di accessorio e di derivato valuta «cattivo» il plebeo, il debole, che è però qualcosa di completamente secondario rispetto alla sua esistenza e alla sua identità di essere forte e nobile. La costruzione dell’identità dell’uomo del risentimento prende le mosse invece dal rancore verso il forte, verso colui che diventerà il malvagio, ovvero il cattivo in senso morale, perché così viene denominato dall’uomo del risentimento: la bontà morale dell’uomo del risentimento nasce dalla contrapposizione, dal rancore verso chi era forte e che per questo viene detto malvagio, e crea così un nuovo sistema dei valori, un nuovo modo di valutare che è il modo di valutare morale. Il buono in quanto forte è diventato, grazie all’operazione di creazione dei valori del risentimento, un malvagio, e il cattivo in quanto debole è diventato il buono in senso morale.

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nemici e di opposizioni e di trionfi, è precisamente così assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza. [L]

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(da F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 19957, af. 10, 11, 13)

L. Nietzsche esercita qui tutto il suo sarcasmo nell’opporre diversi sistemi di valutazione, quello morale e quello non morale. Gli agnelli che provano avversione per i rapaci che sono forti nei loro confronti provano qualcosa che non ha nulla in comune con il rimprovero morale: l’avversione è nella natura delle cose e nella difesa della propria vita da parte degli agnelli. Il modo di pensare degli agnelli diventa invece più complesso se, dall’avversione per chi è più forte, si passa a un mutamento della valutazione e a una sorta di approvazione di se stessi, che i rapaci, cioè i forti, potrebbero accettare soltanto dal punto di vista – ironico – della bontà, certo non morale, delle carni degli agnelli. Ma è nella natura delle cose che la forza si voglia affermare come tale nei confronti della debolezza.

Questionario sull’argomentazione 1

Con riferimento al primo periodo del brano di Nietzsche, indica con una croce sulla casella corrispondente quali delle seguenti espressioni sono connesse alla morale degli schiavi MS e quali sono in relazione con la morale aristocratica MA : – «sì» – «no» – «stimolo esterno» – «impulso interno» – «azione» – «reazione»

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In che senso a tuo avviso è possibile asserire che il modo di valutazione degli «schiavi» e il modo di 218

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valutazione aristocratico non sono simmetrici tra loro? Che cosa distingue un modo di valutazione dall’altro? (max 6 righe) 3

In che senso si può affermare che la felicità ha nel mondo aristocratico un carattere essenzialmente attivo, laddove essa assume un carattere essenzialmente passivo nel mondo dei plebei? (max 4 righe)

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In cosa consiste la differenza nella genesi dei concetti di «cattivo» e «malvagio» stando a quanto sostiene Nietzsche? E in che rapporto stanno questi due concetti con quello di «buono»? Ritrova il passo in cui vengono illustrate tali relazioni. (max 5 righe)

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Tesi a confronto Nietzsche e la questione della verità: la verità esiste o è solo un mito della metafisica? Una questione classica

La svolta cartesiana: l’evidenza

La rivoluzione di Nietzsche Esistono solo interpretazioni Il prospettivismo

Vattimo e l’«interpretazione corrente» di Nietzsche

Prima risposta

La questione della verità, della sua definizione e del suo statuto è una delle più classiche della tradizione filosofica. Fino dalla filosofia greca, la verità si colloca al centro delle discussioni di metafisica e di teoria della conoscenza, attraversando le varie epoche della riflessione filosofica. Una svolta di grande rilevanza è quella che sta all’inizio della filosofia moderna, con il tentativo cartesiano di ricondurre la questione della verità all’evidenza percepita dal soggetto, che segue il modello delle verità matematiche: è grazie all’evidenza (garantita dalla veridicità divina) che è possibile superare il dubbio radicale cui tutte le opinioni vengono sottoposte dal soggetto, nel procedimento cartesiano delle Meditazioni metafisiche. Secondo molti interpreti, una ulteriore, radicale svolta nella storia del concetto di verità è data da Nietzsche, che ne mette radicalmente in discussione il valore. Nietzsche dà due indicazioni sul concetto di verità. Innanzitutto, afferma in molte occasioni che non ci sono fatti ma solo interpretazioni dei fatti, per cui sembra che affermi che non ci sono fatti oggettivi a cui le proposizioni possano corrispondere: in questo modo, sembra essere negata per principio la verità intesa come corrispondenza, ovvero come corrispondenza delle proposizioni ai fatti. In secondo luogo, in un brano divenuto famoso della Genealogia della morale, Nietzsche formula il suo prospettivismo, ovvero l’idea che i fatti sono sempre guardati attraverso prospettive e la nostra conoscenza di un oggetto è condizionata dalla prospettiva dalla quale lo guardiamo. In questo brano, il filosofo e storico della filosofia Gianni Vattimo dà una propria formulazione della tesi – nelle grandi linee molto diffusa nella letteratura su Nietzsche, tanto da poterla considerare l’«interpretazione corrente» – che in Nietzsche scompare il valore della verità e il concetto stesso di verità. Quello di verità è un concetto che nel pensiero di Nietzsche viene messo radicalmente in discussione e, conclude da ultimo Vattimo, viene negato, perché viene negato il riferimento stesso di questo concetto, cioè l’idea di una «realtà» che possa essere descritta in modo «vero». La verità è per Nietzsche soltanto un mito della metafisica occidentale.

Per Nietzsche la verità non esiste, è solo un mito della metafisica occidentale: in realtà non c’è nessuna interpretazione ‘giusta’ da Gianni Vattimo, La filosofia come esercizio ontologico

La battaglia di Nietzsche contro la verità come corrispondenza

Ora, uno dei miti, anzi il mito che Nietzsche si è applicato con più calore a distruggere, è proprio la credenza nella verità. «Anzitutto, scuotere la credenza nella verità». Non in qualche verità determinata, ma nella verità come tale. Qui mi sembra si debba dissentire dall’affermazione di Heideg219

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Anche la sua filosofia non è «vera» nel senso tradizionale

L’esito della filosofia occidentale: la consapevolezza che il mondo è favola Scompare la contrapposizione tra vero e falso

Tutto è prospettiva

L’evidenza è solo credenza

L’errore di Cartesio: non dubitare dell’evidenza

ger1 secondo cui Nietzsche rimane ancorato al concetto metafisico della verità come conformità della proposizione al dato. O meglio, quando dice verità Nietzsche intende bensì la conformità di una proposizione allo stato delle cose; ma proprio per questo la verità, nel suo «sistema», non ha più posto. Una tale verità, cioè, secondo Nietzsche non si dà e non si può dare. Anche quello che egli enuncia come proprio pensiero non si può, senza contraddizione, chiamare «vero» in questo senso. Ecco perché, proprio dal punto di vista dei risultati della speculazione di Heidegger e del suo sforzo di uscire dalla concezione metafisica della verità, mi pare estremamente importante studiare il concetto nietzscheano del pensiero e della filosofia; i quali, in Nietzsche come in Heidegger, non «dicono la verità» nel senso che informino su come stanno le cose prima e fuori di questa informazione. Da questo punto di vista, il risultato del pensiero di Nietzsche mi sembra si possa definire molto bene usando una espressione che egli adopera nella Götzendämmerung [Il crepuscolo degli idoli] per indicare il punto di arrivo della filosofia occidentale: Wie die wahre Welt endlich zur Fabel wurde, come il mondo vero alla fine è diventato favola. […] Ma quel che a Nietzsche importa è sottolineare che, insieme al mondo vero, scompare anche il mondo apparente; scompare cioè la contrapposizione tra vero e falso, ed è a questo punto che «incipit Zarathustra» [inizia l’opera di Zarathustra]. Non è solo il mondo vero della metafisica che è diventato favola, è il mondo come tale, nel quale non si può più fare una distinzione tra vero e falso, che è, nella sua struttura più profonda, favola. […] In esso, non ci sono diverse prospettive su un’unica verità o realtà che si possa riconoscere e possa servire da misura; tutto è prospettiva. «Non c’è un evento in sé. Quel che accade, è un gruppo di fenomeni, interpretati e ordinati da un essere interpretante». «Un unico testo permette innumerevoli interpretazioni: non c’è nessuna interpretazione ‘giusta’». […] A questa visione del mondo come favola, Nietzsche è arrivato, come si accennava, attraverso una demitizzazione radicale che ha messo in discussione lo stesso concetto della verità come esso era sempre stato pensato nella tradizione metafisica. La verità, in questa tradizione, è sempre riconoscibile per l’evidenza con cui si presenta. Nietzsche parla a ragion veduta di una credenza (Glaube) nella verità: accettare l’evidenza come segno della presenza della verità significa «credere» all’evidenza, prestar fede a quel fatto psicologico che accade in noi, per cui noi ci sentiamo spontaneamente «costretti» (se si possono unire i due termini) ad assentire a una certa «verità». Cartesio non fa che riassumere tutta la tradizione della metafisica occidentale, con la sua dottrina dell’idea chiara e distinta. Ma, nel suo dubbio, egli non è stato abbastanza radicale: non si è domandato perché si debba preferire l’evidenza alla non-evidenza, il non essere ingannato all’essere ingannato. Il fatto che a certe «verità» non possiamo fare a meno di assentire non prova niente sulla portata «metafisica», o «oggettiva» di queste proposizioni. «Che la chiarezza debba essere un documento della verità, que-

1. A Martin Heidegger si deve un’importante rilettura, molto personale e quindi anche molto discussa, del pensiero di Nietzsche.

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Unità 5 Nietzsche Data la natura caotica della realtà, chiarezza e distinzione sono solo finzione

Conclusioni di Vattimo: Nietzsche adotta la tesi del «pregiudizio morale» per spiegare l’errore della metafisica

Leiter attenua la radicalità di Nietzsche

Nietzsche come precorritore dell’epistemologia novecentesca: la precomprensione

Vantaggio epistemico di alcune interpretazioni: la verità esiste

L’argomentazione di Leiter

sta è una vera e propria ingenuità». Semmai, dati i caratteri molteplici e caotici della realtà (anche questo termine si può adoperare solo in quanto Nietzsche, polemizzando contro la metafisica, ne adotta la terminologia) si dovrebbe pensare proprio il contrario: cioè che ciò che è semplice e chiaro è falso e immaginario. Noi stiamo, in questo, all’altro estremo della storia iniziata da Parmenide: mentre per lui non si pensa se non ciò che è, per noi, all’opposto, quel che si lascia pensare (cioè ordinare in schemi, ridurre a idee chiare e distinte) proprio questo è sicuramente finzione. È questa radicale sfiducia nell’evidenza, ridotta a fatto psicologico, che conduce Nietzsche alla negazione della cosa in sé e del mondo vero. Ciò che Cartesio e con lui la metafisica occidentale non si sono domandati, perché noi preferiamo l’evidenza alla non-evidenza, il non essere ingannati all’essere ingannati, il vero (cioè il chiaro e distinto, che noi giudichiamo spontaneamente conforme al «reale») al falso, proprio questo è il problema che Nietzsche si pone, e che risolve con la teoria del «pregiudizio morale». È in base a un «pregiudizio morale», o anche a una ragione di utilità, che si preferisce la certezza all’apparenza e all’incertezza. Questa è la vera soluzione del problema kantiano: il quale doveva essere non «come sono possibili i giudizi sintetici a priori», ma «perché la credenza in tali giudizi è necessaria?» Contro quella che chiama l’«interpretazione corrente», presente anche nelle pagine di Vattimo, lo storico della filosofia Brian Leiter vuole attenuare la radicalità (e la paradossalità) della concezione nietzscheana della verità. In realtà Nietzsche – secondo Leiter – sostiene una concezione empiristica della conoscenza nella quale certe asserzioni, quelle fondate sull’esperienza, sono più vere e più affidabili di altre. Nell’affermare il primato delle interpretazioni e delle prospettive Nietzsche non intende negare qualunque valore alla verità. Egli non fa altro, piuttosto, che precorrere un tema diventato corrente nell’epistemologia e nella teoria della conoscenza novecentesca: l’osservazione di fatti non è mai una semplice registrazione di dati, perché noi vediamo sempre dati attraverso certe convinzioni o certe teorie, per cui un dato o un fatto ‘bruti’ in realtà non si danno mai: si tratta sempre di dati e di fatti interpretati dalla nostra precomprensione (ossia il fenomeno per cui ogni volta che abbiamo delle informazioni su qualcosa che non conosciamo ancora direttamente il nostro approccio risulta già orientato, e mettiamo così sotto la lente alcuni aspetti sottovalutandone altri). Ma non tutte le interpretazioni, e non tutte le prospettive, sono uguali, come dovrebbero essere se davvero Nietzsche rifiutasse completamente la nozione di verità: le interpretazioni della realtà e quindi le conoscenze fondate sull’esperienza hanno un vantaggio epistemico, e quindi conoscitivo, sulle altre, per esempio su quelle fondate sulla metafisica o sulla religione. Per giungere a questa conclusione Leiter adotta un’argomentazione complessa che potremmo così riassumere: 1) presenta l’«interpretazione corrente» del pensiero di Nietzsche; 2) sostiene che, per dimostrare la propria validità interpretativa, l’«interpretazione corrente» dovrebbe dimostrare la legittimità dell’epistemologia radicale che viene attribuita a Nietzsche e la sua coerenza con i testi del filosofo; 3) pone due premesse metodologiche per la valutazione dei testi nietzscheani: non accetta elementi presenti solo nell’opera postuma e valuta le tesi del Nietzsche «maturo»; 4) mostra che vi sono in Nietzsche alcune tesi fonda221

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

mentali in aperta contraddizione con l’«interpretazione corrente» del suo pensiero; 5) conclude reinterpretando storicamente la nozione nietzscheana di «interpretazione» all’interno della sua critica dell’epistemologia positivista.

Seconda risposta

Per Nietzsche la verità esiste: pur all’interno di interpretazioni divergenti, se ne danno alcune fondate su un vantaggio epistemico da Brian Leiter, Il prospettivismo nella «Genealogia della morale» di Nietzsche

L’«interpretazione corrente» del prospettivismo nietzscheano

I problemi di questa interpretazione: legittimarla e dimostrarne la coerenza con il testo nietzscheano

Leiter: gli interpreti non affrontano questi problemi, perché il testo di Nietzsche non lo permette

Due premesse dell’interpretazione di Leiter

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Dagli anni sessanta, buona parte dell’interesse degli studiosi nei confronti di Nietzsche si è concentrato sull’insieme di problemi che gravitano intorno al suo «prospettivismo» e, più in generale, alla sua teoria della conoscenza e della verità. In questo periodo, una lettura particolare del «prospettivismo» ha ottenuto tra gli interpreti lo status di interpretazione quasi-ortodossa. Questa «interpretazione corrente» attribuisce a Nietzsche le quattro posizioni seguenti: 1. il mondo non ha una natura o una struttura determinata; 2. i nostri concetti e le nostre teorie non «descrivono» o «corrispondono» a questo mondo perché esso non ha un carattere determinato; 3. i nostri concetti e le nostre teorie sono «mere» interpretazioni o «mere» prospettive (che riflettono, almeno secondo alcuni interpreti di Nietzsche, i nostri bisogni pratici); 4. nessuna prospettiva può godere di un privilegio epistemico rispetto a un’altra, poiché non esiste una forma privilegiata di accesso a questo mondo privo di caratteri oggettivi. Per come dovrebbero essere le costruzioni epistemologiche, questa certo non è molto attraente. Sembra selvaggiamente scettica nel migliore dei casi e forse incoerente nel peggiore. In più, attribuendo questa posizione a Nietzsche, gli interpreti si prendono un doppio impegno: innanzitutto, perché la devono far diventare una posizione epistemologica degna di seria attenzione; inoltre, perché devono mostrare come essa possa essere compatibile con il resto del corpus filosofico di Nietzsche, che non sembra essere toccato da questa teoria epistemologica radicale. Però gli interpreti non si assumono questi compiti scoraggianti; perché l’interpretazione corrente, nonostante la sua notevole diffusione nella letteratura secondaria su Nietzsche, semplicemente non è la posizione di Nietzsche. […]. In particolare, l’interpretazione corrente non può essere sostenuta con un’attenta lettura del testo centrale – tra le opere pubblicate da Nietzsche – in cui egli davvero discute il prospettivismo: il paragrafo 12 della terza dissertazione nella Genealogia della morale. […] Prima di occuparmi di questo tema, devo premettere due cose. Innanzitutto, io procedo sulla base dell’assunzione che nessuna posizione dovrebbe essere attribuita a Nietzsche sulla base di affermazioni che appaiono soltanto nell’opera postuma; questo materiale […] dovrebbe soltanto integrare, piuttosto che costituire, il nucleo di un’interpretazione. In secondo luogo, intendo per «posizione di Nietzsche» la posizione del Nietzsche maturo. Pur se ho qualcosa da dire sul «giovane» Nietzsche (e sull’opera postuma di Nietzsche), mi sembra che l’opera più tarda di Nietzsche

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Unità 5 Nietzsche

Contraddizioni dell’«interpretazione corrente»

Tesi di Nietzsche che contraddicono l’«interpretazione corrente»

Nietzsche rimane all’interno dell’orizzonte empiristico

L’empirismo di Nietzsche contraddice l’«interpretazione corrente» Nietzsche abbraccia due posizioni naturalistiche

dovrebbe da ultimo essere decisiva nell’interpretazione del suo pensiero. […] Se la «interpretazione corrente» corrispondesse realmente alla posizione di Nietzsche, la sua opera non avrebbe semplicemente senso; innanzitutto, perché la sua produzione filosofica contiene numerosi temi che presuppongono la possibilità di modi privilegiati di accesso conoscitivo a un mondo con contenuti determinati; in secondo luogo, perché la «interpretazione corrente» sembra implicare almeno una posizione filosofica che egli rifiuta. […] Secondo la «interpretazione corrente» il mondo è come un pezzo di argilla infinitamente malleabile, i cui contorni e la determinatezza dei confini sono tutti di fattura umana. Un mondo di questo genere non impone nessun vincolo indipendente dalle nostre interpretazioni di esso. Il primo problema per la «interpretazione corrente» è il seguente: Nietzsche critica certe posizioni per i loro meriti epistemici, e ritiene che la sua prospettiva goda di un privilegio epistemico rispetto a quelle che critica. I meriti epistemici di una concezione sono quelli che si fondano sulla sua pretesa di essere una conoscenza; al minimo, quindi, una posizione epistemicamente privilegiata deve essere vera o falsa. […] Sembra tuttavia innegabile che Nietzsche eserciti davvero una critica di questo tipo – almeno in due direzioni che indicherò brevemente. 1. Empirismo / Verificazionismo. Spesso Nietzsche prende di mira con commenti severi posizioni che, per certi aspetti, sono sorprendentemente vicine alla sua. Ciò è certamente vero degli attacchi al vetriolo rivolti alle opere di Renan e Carlyle2; ma accade anche nelle sue osservazioni critiche sul positivismo. La distanza di Nietzsche dal positivismo del diciannovesimo secolo è reale, ma nella sua opera matura egli rimane all’interno dell’orizzonte del criterio empiristico più elementare e generale: l’esperienza – in particolare l’esperienza dei sensi – è la fonte di ogni conoscenza genuina (così in Al di là del bene e del male: «Ogni credibilità, ogni buona coscienza, ogni evidenza di verità vengono solo dai sensi»). […] Ciò che è importante osservare qui è che una critica empiristica [come quella di Nietzsche] dipende precisamente dall’esistenza di una classe epistemicamente privilegiata di asserzioni sul mondo (le asserzioni che si fondano sull’esperienza dei sensi). L’empirismo di Nietzsche sarebbe incomprensibile sulla base della «interpretazione corrente». 2. Critiche naturalistiche. Nietzsche sembra abbracciare due posizioni naturalistiche distinte, che sono il primato esplicativo del naturale: i fatti causalmente esplicativi elementari sono fatti naturali; e la continuità esplicativa, il primato esplicativo dei fatti naturali è valido attraverso tutti i tipi di spiegazione (fisica, morale, sociale, e così via). Quindi Nietzsche sostiene che la migliore spiegazione degli esseri umani e dei valori umani è espressa in termini di fatti naturali che riguardano gli agenti – in particolare fatti psicologici. Per esempio, Nietzsche attacca ripetutamente le interpretazioni dei fenomeni in termini morali o religiosi poiché fanno appello a «cause immaginarie» deformando i fenomeni naturali reali. […]. 2. Joseph Ernest Renan (vedi Unità 3, p. 120) era un filosofo, filologo e scrittore francese vicino al positivismo, di cui però criticò e riformulò la nozione di progresso; mentre Thomas Carlyle (1795-1881) era uno storico e saggista scozzese inserito nella reazione spiritualista contro il positivismo, l’utilitarismo e l’idea di progresso. 223

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Ulteriore paradosso: l’«interpretazione corrente» reintroduce la distinzione apparenza / realtà

Conclusione: l’uso nietzscheano di «interpretazione» ha essenzialmente una funzione critica

La «interpretazione corrente» produce un paradosso se confrontata con il ben noto rifiuto da parte di Nietzsche della distinzione tra apparenza e realtà: vale a dire il rifiuto dell’idea di un mondo sconosciuto e inconoscibile che trascende il mondo dell’esperienza. Nella sua prospettiva, il mondo che «appare» è l’unico mondo che c’è, e per questo esso non è più, naturalmente, un mondo soltanto apparente. La «interpretazione corrente», invece, sostenendo che nessuna concezione offre un’immagine migliore di come il mondo realmente è rispetto a qualunque altra, reintroduce la distinzione. Poiché in questa interpretazione ci sono, da un lato, «mere» prospettive, e dall’altro, il non-descrivibile (e quindi sconosciuto) mondo «come realmente è», un mondo rispetto al quale nessuna prospettiva è adeguata. Di qui il paradosso: per quanto Nietzsche rifiuti la distinzione apparenza / realtà, nella «interpretazione corrente» le mere prospettive sembrano avere lo stesso status delle mere apparenze della metafisica che Nietzsche intende abolire. […] Perché allora Nietzsche insiste nell’usare la parola «interpretazione»? La risposta, credo, è che si tratta della parola che egli sceglie per enfatizzare la sua opposizione alla tesi positivistica che sia possibile un accesso «immediato» al mondo. Il famoso passaggio, per esempio, in cui egli afferma che non ci sono fatti, solo interpretazioni, è esplicitamente una critica del positivismo, che si ferma ai fenomeni. Ma come un mucchio di filosofi ha mostrato da allora […], non si può avere un tale semplice accesso epistemico ai fenomeni. Parlando della inevitabilità della «interpretazione», Nietzsche sottolinea che ciò che i fatti sono è sempre condizionato da particolari interpretazioni di ciò che essi sono.

I brani antologizzati sono stati tratti da: G. Vattimo, La filosofia come esercizio ontologico, in Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano 2000, pp. 94-97. B. Leiter, Perspectivism in Nietzsche’s Genealogy of Morals, in R. Schacht (a cura di), Nietzsche, Genealogy, Morality. Essays on Nietzsche’s Genealogy of Morals, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra, pp. 334-338, 342 (trad. di L. Fonnesu).

Per seguire il dibattito 1

Rintraccia nel testo di Vattimo la definizione della nozione di verità che secondo lui Nietzsche vuole confutare. (max 1 riga)

5

Quali sono i caratteri dell’«interpretazione corrente» del pensiero di Nietzsche secondo Leiter? (max 5 righe)

2

Qual è, secondo Vattimo, la definizione più appropriata del risultato del pensiero di Nietzsche? (max 2 righe)

6

Qual è il testo di Nietzsche che, secondo Leiter, smentisce radicalmente l’«interpretazione corrente»? (max 1 riga)

3

Qual è il destino della nozione di «mondo apparente» nella filosofia di Nietzsche secondo Vattimo? (max 2 righe)

7

Quali sono le tesi di Nietzsche, rintracciabili nei suoi testi maturi, che contraddicono «l’interpretazione corrente» secondo Leiter? (max 6 righe)

Qual è stato per Nietzsche, secondo Vattimo, l’errore più grave della metafisica occidentale? Quali gli errori di Cartesio e Kant? (max 8 righe) 224

8

In un massimo di 3 righe formula una definizione della nozione nietzscheana di «interpretazione» alla luce delle conclusioni di Leiter.

4

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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea

I testi L. Feuerbach L’essenza del Cristianesimo: Il contenuto assolutamente umano della religione, T1

F. Nietzsche La gaia scienza: Gli uomini hanno ucciso Dio, T3; Le conseguenze nichilistiche della «morte di Dio», T4

K. Marx Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: Miseria religiosa e miseria reale, T2

M. Weber La scienza come professione: Politeismo antico e politeismo moderno, T5

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Le radici teologiche del concetto

1 «Morte di Dio» e secolarizzazione

La rivoluzione scientifica e il rifiuto del finalismo

I filosofi e la secolarizzazione: fautori e avversari

Gli esiti drammatici della secolarizzazione in Hegel

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L’espressione «morte di Dio» nasce in ambito teologico per designare il dramma del Calvario, cioè la crocifissione di Cristo che, secondo la religione cristiana, è indissolubilmente unita alla sua resurrezione: «Dio, Dio stesso è morto», si legge in un corale (ossia un canto religioso che accompagna la liturgia protestante, i cui testi sono tratti dalla Bibbia o creati traendo ispirazione da essa) composto da Martin Lutero; nella teologia cristiana non si tratta però di una morte assoluta, bensì semplicemente del passaggio a una forma diversa e superiore di vita.

Secolarizzazione e filosofia A partire da Nietzsche, la medesima espressione ha assunto, però, un significato molto diverso, diventando una formula, spesso abusata, per indicare quel processo storico-culturale che i sociologi denominano «secolarizzazione», consistente nella perdita di plausibilità della visione religiosa e cristiana del mondo e nel correlato restringimento della sfera del sacro. Si tratta di un processo di lunga durata provocato e alimentato da fattori politici, culturali e soprattutto socio-economici, come l’industrializzazione. Un impulso propulsore determinante è sicuramente offerto dalla rivoluzione scientifica che – estromettendo dall’ambito della scienza l’ipotesi delle cause finali – contribuisce all’affermazione di una concezione meccanicistica del cosmo contrapposta all’immagine religiosa dell’universo come ordine etico-teleologico creato e retto da Dio, mettendo così in crisi uno dei capisaldi della fede cristiana: l’idea di vivere in un mondo governato dalla Provvidenza divina. Fin dal principio, l’atteggiamento dei filosofi nei confronti della secolarizzazione è di duplice natura. Alcuni la salutano entusiasticamente come una sorta di liberazione, sforzandosi di contribuire in maniera attiva all’indebolimento della fede cristiana: è questo quanto avviene nell’epoca illuministica, che non risparmia critiche a nessun aspetto della tradizione religiosa (provvidenzialismo, dogmi, liturgia, fede nei miracoli ecc.). Altri lo vivono invece come uno scacco e come una perdita per il genere umano: questo atteggiamento diventa prevalente soprattutto nei primi decenni dell’Ottocento, nei quali si assiste a diversi tentativi di restaurare le certezze e i punti di riferimento travolti dalla secolarizzazione. Paradigmatica è in questo senso la posizione di Hegel, che è tra l’altro il primo a utilizzare le espressioni e le immagini relative alla morte di Dio non solo in riferimento all’evento storico-empirico della crocifissione di Cristo, bensì anche per designare la scomparsa di Dio dal mondo, provocata dalla svolta del pensiero moderno. In polemica sia con le filosofie dogmatiche sia con la religione naturale (ossia la religione ridotta a poche credenze razionalmente fondate e uni-

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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea

La «morte di Dio» come momento dell’autorealizzazione dell’Assoluto

Le critiche alla conciliazione hegeliana tra modernità e cristianesimo

2 Il ruolo critico della Sinistra hegeliana

Strauss e l’interpretazione del Vangelo come «mito»

Il vero miracolo della storia universale: il dominio dell’umanità sulla natura

versali) promossa dalle varie correnti illuministiche, Hegel riconosce la durezza e il carattere drammatico di questa assenza di Dio. Contemporaneamente però egli trasforma la «morte di Dio» in un concetto che esprime un semplice momento negativo della storia dello Spirito, ossia dello svolgimento dialettico attraverso il quale l’Assoluto si realizza e perviene all’autocoscienza. Infatti, Hegel fa culminare la storia dello Spirito nel proprio sistema filosofico che, raggiungendo infine la piena comprensione dell’Assoluto dopo la sua eclissi, restituisce un senso e un significato al processo progressivo di ‘negazione’ di Dio che ha accompagnato gli ultimi due secoli della riflessione filosofica moderna. Come nel racconto evangelico al Venerdì santo segue la Resurrezione, così all’epoca della perdita di Dio segue una nuova, più alta e piena comprensione della sua natura e del suo piano provvidenziale nella filosofia hegeliana. Hegel riporta così in vita – in senso speculativo, come Assoluto – quel Dio che sembrava ormai definitivamente scomparso. Il grandioso tentativo hegeliano di conciliare modernità e cristianesimo viene però sottoposto, nel corso dell’Ottocento, a una critica radicale, condotta da prospettive differenti e sfociante in esiti diversi, ma senza dubbio di importanza fondamentale per comprendere le radici della crisi della coscienza religiosa europea tuttora in corso. Il culmine di questo movimento di pensiero è rappresentato da Nietzsche, agli occhi del quale Hegel non è stato altro che un grande «differitore», in quanto la concezione hegeliana della storia come movimento di autorealizzazione dell’Assoluto – e dunque come dispiegamento di un piano provvidenziale – ha potuto solamente rinviare un processo inevitabile e irreversibile: la presa di coscienza delle conseguenze nichilistiche della morte di Dio.

Strauss e Feuerbach: l’umanizzazione della religione Nel processo di indebolimento della fede cristiana in Europa un ruolo determinante è svolto innanzitutto dagli esponenti della cosiddetta Sinistra hegeliana, e in particolare da Strauss e da Feuerbach che – al di là del differente metodo adottato – possono essere accostati, per la riduzione del divino a una dimensione esclusivamente umana operata da entrambi. Nella Vita di Gesù – l’opera che apre il dibattito sulla religione all’interno della scuola hegeliana – Strauss si riallaccia alla tradizione di critica biblica risalente a Lessing e, soprattutto, alla concezione hegeliana della religione come manifestazione dell’Assoluto nella forma inadeguata della «rappresentazione», destinata a essere necessariamente superata nella filosofia, attraverso la sua traduzione concettuale. Sviluppando questi presupposti, egli riduce il racconto evangelico a «mito», inteso non come favola o leggenda, bensì come l’espressione sotto forma di racconto di un’idea metafisica: l’idea dell’unione di finito e infinito che, però, nella forma inadeguata del racconto, viene riferita a un singolo individuo, mentre in verità essa si realizza solo nell’intero genere umano. L’estremo risultato di questa interpretazione mitica del Vangelo è dunque il seguente: «l’Uomo-Dio» non è altro che «l’umanità». Alla base di questo tipo di lettura vi è la coscienza dell’incompatibilità tra i dogmi cristiani e l’avanzato livello di progresso scientifico ormai raggiunto: per Strauss, infatti, il cammi227

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

L’interpretazione feuerbachiana del cristianesimo

La religione come autoconoscenza e alienazione

L’uomo come ‘creatore’ di Dio

La filosofia come forma di conoscenza superiore alla religione

Il superamento dell’alienazione

T1

Il contenuto assolutamente umano della religione

L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo

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no percorso dall’umanità negli ultimi due millenni ha reso assolutamente privo di senso discutere su alcune guarigioni che si sarebbero verificate in Galilea, e non piuttosto sul vero miracolo della storia universale, che ai suoi occhi consiste nel dominio dell’uomo sulla natura, arrivato a livelli prima non immaginabili. Anche Feuerbach perviene, per altra via, a una radicale umanizzazione della religione cristiana. Sotto questo profilo, la sua opera più significativa è senza dubbio L’essenza del Cristianesimo (1841) che – come è attestato dal successo editoriale in Germania, in Francia, in Russia e in Inghilterra – ebbe una larghissima risonanza tra i contemporanei, dai quali fu recepita come una vera e propria liberazione: come scrisse Engels una decina di anni dopo, «in quel momento tutti fummo feuerbachiani». Feuerbach prende le mosse dall’esame filosofico dell’essenza della religione in generale, giungendo alla conclusione che tutte le religioni, di ogni tipo e di ogni epoca, non sono altro che un’autoconoscenza indiretta dell’uomo, o meglio la prima necessaria forma di autoconoscenza che l’umanità deve attraversare. Seguendo e sviluppando in maniera originale l’insegnamento della Fenomenologia dello spirito hegeliana, egli ritiene, infatti, che la coscienza umana possa trovarsi e riconoscersi solo passando attraverso l’oggettivazione della sua essenza in un ente considerato altro da sé (alienazione), cioè Dio. Partendo da questi presupposti, Feuerbach può rendere ragione della priorità cronologica delle religioni rispetto a tutte le altre forme di cultura, pur concependo sia Dio sia le religioni come un semplice «derivato» dell’uomo: affermare che Dio è semplicemente l’essenza umana oggettivata e proiettata all’esterno equivale, infatti, a rovesciare nel suo contrario la tesi secondo la quale è stato Dio a creare l’uomo a propria immagine e somiglianza. Nell’ambito della religione il vero rapporto tra uomo e Dio è destinato a rimanere sempre nascosto: la caratteristica essenziale di ogni religione è, infatti, quella di compiere questo processo di oggettivazione senza rendersene conto, e di considerare quindi il suo risultato come un essere in sé, dotato di una propria realtà, invece di riconoscerlo come una proiezione umana. Solo la filosofia può portare alla luce ciò che nella religione è destinato a restare nascosto, svelando il carattere derivato di Dio, in quanto frutto dell’oggettivazione dell’essenza umana. Il compimento di questo compito rappresenta per Feuerbach la vera svolta della storia dell’umanità, in quanto consente all’uomo di liberarsi dall’alienazione religiosa e di riappropriarsi della propria essenza, riconoscendo il carattere assoluto della natura umana, considerata naturalmente non nella sua individualità, bensì nella dimensione del genere. […] Abbiamo dimostrato che il contenuto ed oggetto della religione è assolutamente umano, […] che il segreto della teologia è l’antropologia […]. Tuttavia la religione non ha coscienza dell’umanità del suo contenuto; piuttosto si contrappone all’umano o, almeno, non ammette che il suo contenuto sia umano. […] La religione è la prima autocoscienza dell’uomo. Sante sono le religioni proprio perché sono le tradizioni della prima coscienza. Ma ciò che per la religione è la prima cosa, Dio, è in sé, nella verità, la seconda, infatti Dio è soltanto l’essenza dell’uomo oggettiva a se stesso, e ciò che per essa è la seconda cosa, l’uomo, deve perciò essere posta ed essere espressa come la prima.

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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Feuerbach: il cristianesimo come «religione assoluta»

La svalutazione del mondo e degli uomini nel cristianesimo

Il principio dell’amore

Il cristianesimo e le degenerazioni del principio dell’amore

L’obiettivo di Feuerbach

3 Bauer e Stirner: due critici radicali, ma isolati

La riduzione della religione in generale ad autocoscienza indiretta e alienata dell’uomo costituisce la cornice all’interno della quale Feuerbach sottopone a una critica implacabile il cristianesimo. Quest’ultimo rappresenta ai suoi occhi la «religione assoluta»: a differenza delle religioni dell’antichità – che vedevano Dio anche e soprattutto nella natura – il cristianesimo pone al proprio centro un Dio che si fa uomo, portando così per la prima volta a espressione il carattere umano di Dio. Tuttavia, nel cristianesimo questa verità viene racchiusa ancora in involucro religioso, che la deforma al punto da rendere la religione cristiana la forma peggiore di alienazione umana. Ciò vale soprattutto a proposito della figura di Cristo. Ponendo Cristo come Dio, infatti, i cristiani hanno dichiarato divino un individuo umano. Ciò li ha indotti a perdere di vista quei limiti costitutivi che – rendendo ciascuno di noi bisognoso sia del mondo esterno sia degli altri – ci legano in maniera indissolubile al genere umano e alla natura. Nella divinizzazione dell’individuo-Cristo sta dunque la radice della svalutazione del mondo e degli altri uomini che per Feuerbach pone il cristianesimo in una contraddizione insanabile con quella essenza umana che avrebbe dovuto rispecchiare. Sulla base di questo presupposto, infatti, il cristianesimo nega non solo la scienza – perché svaluta il mondo – ma anche l’arte e la politica, l’amore carnale e la filantropia filosofica, tutto ciò che, insomma, è volto a realizzare il genere. Feuerbach non ignora il fatto che il Dio cristiano è un Dio di amore, e al contrario considera l’idea dell’amore come l’unico elemento della religione cristiana che va non solo negato, ma anche realizzato. Egli ritiene, però, che tale idea non nasca con la religione cristiana, ma affondi piuttosto le proprie radici nei movimenti filantropici che prendono piede con la crisi dell’Impero romano. Ben lungi dal produrre il principio dell’amore, il cristianesimo lo ha piuttosto corrotto e contaminato con l’elemento religioso della fede – principio di separazione e fonte di intolleranza – che lo ha privato del suo essenziale carattere universale: 1) la «fede» spinge, infatti, il cristiano ad amare direttamente solo Dio, che è la proiezione di se stesso: essa trasforma così l’amore in puro egoismo, rinchiudendo l’uomo in se stesso; 2) l’amore per gli altri uomini è invece nel cristianesimo mediato e condizionato dall’amore verso Dio: si può amare solo chi ama Dio e crede in Lui. Ciò non solo snatura l’amore cristiano – particolarizzandolo – ma lo rende pronto a trasformarsi in odio, condanna, furia persecutrice, non appena l’altro si presenti come credente o miscredente. Con la critica filosofica del cristianesimo e la riduzione totale della teologia ad antropologia – precisamente un’antropologia incentrata sull’uomo inteso come individuo vivente, dotato non solo di ragione ma anche di corpo – Feuerbach si pone dunque l’obiettivo di svincolare l’amore dalla fede, per indirizzarlo direttamente all’uomo o meglio al genere umano (vedi Unità 1, p. 31 s.).

Marx: la critica sociale della religione Nell’ambito della Sinistra hegeliana maturarono posizioni più radicali rispetto a quelle di Strauss e di Feuerbach: 1) la critica di Bauer – soprannominato dai contemporanei il «messia dell’ateismo» – che attraverso la critica dei Vangeli giunse a negare al cristianesimo 229

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

L’influenza di Marx

Con Feuerbach, contro Feuerbach

I limiti della concezione di Feuerbach

L’uomo come entità concreta

Le origini storico-sociali del «rovesciamento» tra essenza umana e divina

Il «mondo capovolto», in cui l’uomo è schiavo delle merci, genera l’alienazione religiosa

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anche quel contenuto umano, che sia per Strauss sia per Feuerbach poteva essere conservato, sia pure radicalmente trasformato; 2) l’individualismo di Stirner, che rifiutò la divinizzazione dell’umanità alla quale approdava la critica della religione. Bauer e Stirner restarono, però, due figure isolate, proprio per la radicalità delle loro posizioni. Ben diverso è il discorso per quanto riguarda Marx, la cui critica sociale della religione ha ispirato, a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’azione delle grandi organizzazioni di massa di orientamento socialista e comunista, esercitando in questo modo un’influenza storica grandissima e duratura. La critica marxiana della religione prende le mosse da Feurbach, con il quale Marx condivide la tesi che la religione abbia origine dalla proiezione e dall’oggettivazione di caratteristiche umane in un’entità esterna e trascendente, cioè Dio. Tuttavia, per Marx questa spiegazione della genesi della religione resta in superficie; occorre invece andare più in profondità, indagando le cause del fenomeno dell’alienazione religiosa che, nella prospettiva marxiana, vanno ricercate nella società. Secondo Marx, ciò che ha impedito a Feuerbach di cogliere il radicamento sociale della religione è il disconoscimento del vero significato dell’essenza umana. Sulla base del proprio materialismo naturalistico, Feuerbach ha, infatti, riposto l’essenza umana nel «genere», inteso come il tessuto che connette tra loro tutti gli individui umani in virtù delle loro caratteristiche naturali, uguali in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Partendo da questi presupposti, era inevitabile che, nella propria indagine sulla genesi della religione, egli non tenesse in nessun conto le determinate condizioni storico-sociali in cui le diverse forme religiose sono nate. Marx riprende, invece, da Fichte e soprattutto da Hegel l’idea che l’uomo, al di fuori dei rapporti sociali storicamente determinati in cui è inserito, non sia altro che un’astrazione. L’uomo che ‘fa’ la religione e crea Dio – come Feuerbach ha per primo giustamente affermato – non è, quindi, secondo Marx, un’entità astratta, bensì l’uomo concreto, calato in un tessuto sociale storicamente determinato, che deve dunque essere preso in considerazione se si vuole comprendere veramente la religione. Per Marx, dunque, il «rovesciamento» religioso dei rapporti tra uomo e Dio – consistente nel fare del secondo il creatore del primo, mentre nella realtà è vero il contrario – non dipende dai fattori ontologici indicati da Feuerbach, come lo squilibrio tra l’essenza infinita del genere e il carattere finito dell’individuo umano, alla base del desiderio di trascendere i propri limiti (vedi Unità 1, p. 27). Esso deriva piuttosto da fattori storico-sociali: la religione è una «coscienza capovolta» solo in quanto riflette un «mondo capovolto». Un mondo capovolto è per Marx un mondo in cui l’essere umano, ridotto a strumento per la soddisfazione di bisogni altrui, non può realizzare la propria essenza di essere autonomo. Nel caso specifico della società capitalistica, un mondo in cui il «carattere feticistico delle merci» – cioè la forma di merci assunta dai moderni oggetti d’uso – ha ingenerato una supremazia delle «cose» sull’uomo, rendendo paradossalmente l’individuo creatore dipendente dalle proprie creature. L’alienazione religiosa è sempre determinata da un’alienazione più profonda e originaria, che è di carattere sociale: l’uomo proietta in un ente immaginario e trascendente la propria essenza, solo perché vive in una società in cui non può realizzarla.

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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea

T2

Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera.

Differenze tra Marx e Feuerbach riguardo all’alienazione religiosa

In questo modo, Marx radicalizza la critica feuerbachiana della religione. Quest’ultima non è ai suoi occhi la prima forma di autocoscienza, per quanto indiretta e incompiuta, dell’essenza verace dell’uomo, bensì esprime piuttosto la coscienza di un uomo che si è estraniato dalla propria essenza verace, cioè di un uomo «che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso». Dalla differente interpretazione dell’alienazione religiosa segue una profonda differenza anche riguardo alle possibilità e modalità di superamento dell’alienazione. Feuerbach era illuministicamente persuaso che, per guarire l’umanità dalla «patologia psichica» della religione, fosse sufficiente una presa di coscienza filosofica: grazie al semplice riconoscimento che la coscienza di Dio non è altro che la coscienza del genere umano, si sarebbe dovuta aprire una nuova epoca storica. Questa fiducia nella forza liberatoria della filosofia rispetto alla religione poggia in Feuerbach anche sulla convinzione che il cristianesimo – ormai divenuto del tutto estraneo alle forme di vita dell’uomo moderno – fosse in realtà già entrato in una fase di irreversibile declino. Per Marx – persuaso dell’esistenza di un intimo legame tra cristianesimo e capitalismo – l’unica terapia efficace contro la religione non può restare sul piano della teoria, ma deve passare a quello della prassi politica. Se l’alienazione religiosa deriva dall’alienazione sociale, è possibile estirpare la prima solo creando una società in cui gli uomini non abbiano più bisogno dell’«illusione religiosa», in quanto paghi di una «felicità reale». Cosa che, nella prospettiva marxiana, può avvenire solo nella società comunista, alla cui costruzione il filosofo deve dunque attivamente collaborare, fornendo le «armi spirituali» all’unico possibile soggetto rivoluzionario dell’epoca, cioè il proletariato.

Miseria religiosa e miseria reale K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione

La fiducia di Feuerbach nella filosofia

L’appello di Marx alla prassi

4 Dalla critica della religione alla critica dei valori dell’Occidente

Nietzsche: la critica della civiltà cristiana Con Nietzsche la critica della religione cristiana allarga ulteriormente il proprio raggio, fino a investire l’intera civiltà cristiana. L’annunzio della «morte di Dio», che ricorre più volte nelle sue opere, è qualcosa di ben più radicale della semplice affermazione di ateismo – non nuova nella tradizione filosofica – proprio in quanto non si riferisce solo all’indebolimento della fede cristiana, bensì al crollo di un’impalcatura di credenze e di certezze su cui gli uomini hanno basato la loro vita per due millenni. La «morte di Dio» simboleggia la fine dei valori della morale occidentale che, ben lungi dall’avere un radicamento oggettivo e una realtà originaria, sono per Nietzsche esclusivamente il frutto del rovesciamento dell’etica agonistica e aristocratica degli antichi, portato a compimento con successo dal cristianesimo. 231

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La perdita di valore del cristianesimo nel mondo moderno

La «morte di Dio» costituisce per Nietzsche un fatto. Al pari di Feuerbach egli è persuaso, infatti, della irrimediabile incompatibilità tra il mondo moderno – divenuto completamente mondano, privo di interesse per il sacro – e la fede cristiana: in ogni momento della sua esistenza quotidiana l’uomo moderno è ispirato e guidato dall’interesse per il mondo, e in questo modo contraddice l’essenza costitutiva del cristianesimo, che nella prospettiva nietzscheana consiste in un radicale no alla vita mondana. È questo il senso del grido dell’«uomo folle» che si rivolge a quanti incontra – non a caso al «mercato» – accusandoli di avere ucciso Dio.

T3

L’uomo folle. – Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che nel chiaro mattino accese una lanterna, corse al mercato e si mise a gridare senza posa: «Cerco Dio! Cerco Dio!» Poiché proprio lì si trovavano radunati molti di quelli che non credevano in Dio, la sua apparizione suscitò grandi risate. «Qualcuno l’ha forse perduto?» disse uno. «Si è smarrito come un bambino?», disse l’altro. «O se ne sta nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato sulla nave? È emigrato?» – così gridavano e ridevano fra loro. Ma l’uomo folle piombò in mezzo a loro e li trapassò con lo sguardo. «Dov’è andato Dio?», esclamò, «voglio dirvelo! Noi lo abbiamo ucciso, – voi e io! Noi tutti siamo suoi assassini! […]».

Il compito di Nietzsche: la promulgazione dell’ateismo

Convinto di avere ormai già alle spalle il tramonto della fede cristiana, Nietzsche ritiene del tutto superfluo affrontare il problema in chiave teorica, sforzandosi di offrire, per esempio, una confutazione delle prove dell’esistenza di Dio, che tra l’altro nella gnoseologia nietzscheana, secondo la quale non esistono principi logici universali, risulta impossibile. Nietzsche si concentra piuttosto sul compito di promulgare e universalizzare l’«ateismo» di cui la società moderna è di fatto intrisa. Egli si propone quindi di eliminare gli ultimi residui del cristianesimo, che ai suoi occhi costituiscono per gli uomini il principale ostacolo al riconoscimento del deicidio commesso: 1) in primo luogo, la metafisica di ascendenza platonica, che ha ridotto il mondo reale a pura ombra e fenomeno, inducendo un distacco dalla terra; 2) in secondo luogo, la morale sorta con il cristianesimo – fondata sulla valorizzazione di caratteristiche legate alla debolezza e sull’ideale fallace dell’uguaglianza – nel cui solco si collocano ancora sia la feuerbachiana religione dell’umanità sia l’utopia egualitarista di Marx e delle varie ideologie socialiste e democratiche, responsabili di un inutile prolungamento della crisi della civiltà europea. Con una suggestiva metafora, Nietzsche definisce la morale e la metafisica come l’«ombra enorme e orribile» di Dio, che gli uomini hanno adorato e continueranno probabilmente ad adorare ancora per secoli dopo la sua morte. Come si legge in un aforisma della Gaia scienza significativamente intitolato Nuove lotte, l’obiettivo che egli si propone è quello di vincere anche quest’ombra, cercando di cancellare con un atto di forza senza precedenti – in un mondo che, secondo lui, è già post-cristiano – queste ultime tracce della fede in Dio, attraverso una radicale demolizione dei capisaldi della metafisica e della morale occidentale, condotta con il metodo genealogico (ossia attraverso l’analisi storico-critica) (vedi Unità 5, p. 198). Quanto detto spiega anche perché Nietzsche annunzi la «morte di Dio» non solo e non tanto come un evento già accaduto, ma come una sorta di profezia, rife-

Gli uomini hanno ucciso Dio

F. Nietzsche, La gaia scienza, 3,125

Eliminare gli ultimi residui del cristianesimo

La genealogia come strumento di demolizione della metafisica e della morale

La «morte di Dio» come profezia

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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea

Nichilismo e teoria del superuomo

L’ambiguità del nichilismo nietzscheano

T4

Le conseguenze nichilistiche della «morte di Dio» F. Nietzsche, La gaia scienza, 3,125

5 La tesi della «morte di Dio» alla prova delle scienze sociali: Weber

rendosi agli effetti dirompenti dell’avvenimento, non ancora venuti alla luce: il crollo totale dei valori occidentali, tale da lasciare l’uomo completamente privo di ogni criterio di orientamento, in balia del nulla. Nietzsche è consapevole del fatto che questa conseguenza nichilistica avrebbe provocato sgomento nella maggior parte dei suoi contemporanei, ancora non pronti ad accoglierla. Al tempo stesso, però, egli vede anche in essa una sorta di liberazione, un’occasione che apre lo spazio per una radicale trasvalutazione dei valori, di cui la sua filosofia si fa in qualche modo promotrice, attraverso le dottrine dello Übermensch («superuomo») e dell’eterno ritorno (vedi Unità 5, p. 208 s.). In ciò sta l’ambiguità del nichilismo nietzscheano, che esprime al tempo stesso sia la drammatica consapevolezza di una situazione fattuale – cioè il culmine della crisi della civiltà occidentale – sia l’indicazione, per quanto vaga, di una nuova mèta che si dischiude davanti allo sguardo dell’umanità, al cui raggiungimento occorre contribuire accelerando il crollo dei valori. Coerentemente con questo obiettivo, Nietzsche descrive le conseguenze della morte di Dio con lo stesso linguaggio utilizzato da Gesù per proclamare il regno dei cieli: il linguaggio della parabola. Come la parabola cerca di trasmettere a chi ascolta la consapevolezza di appartenere al regno di Dio, l’«uomo folle» tenta di dimostrare agli assassini di Dio, lontani dall’immaginare il loro delitto, che essi appartengono a una «storia più alta», un superamento di tutto quello che fino a ora ha avuto valore. «[…] Ma come abbiamo fatto [a uccidere Dio]? […] Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo sciolto la terra dalla catena del suo sole? In che direzione essa si muove adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non precipitiamo continuamente? E all’indietro, ai lati, in avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? Noi vaghiamo come attraverso un infinito nulla? […] Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso! […] Non è la grandezza di questo gesto troppo grande per noi? Non dobbiamo farci dèi noi stessi, anche solo per apparirne degni? Non è stata mai compiuta una gesta più grande, – e tutti coloro che nasceranno dopo di noi apparterranno, grazie a questa gesta, a una storia superiore a tutta la storia che c’è stata finora!». – Qui l’uomo folle tacque e di nuovo fissò coloro che lo ascoltavano: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Alla fine egli scagliò a terra la sua lanterna, che volò in pezzi e si spense. «Io vengo troppo presto», disse allora. «Il mio tempo non è ancora venuto. […]».

Weber: «disincantamento» del mondo e «politeismo dei valori» Dopo l’uso che ne hanno fatto le filosofie radicali di Feuerbach, Marx e Nietzsche, la tesi della «morte di Dio» esce dall’ambito filosofico per diventare un oggetto centrale delle scienze sociali soprattutto grazie al contributo di Max Weber (1864-1920), una delle personalità intellettuali di maggiore spessore nell’Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento (vedi Unità 14, p. 567 ss.). Weber condivide il giudizio nietzscheano sull’incompatibilità radicale tra fede religiosa e modernità. A questa conclusione egli perviene, però, partendo da una rigorosa indagine storico-sociologica sulle caratteristiche specifiche del processo di razionalizzazione della realtà da cui è sorto il moderno mondo occidentale. 233

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Razionalità e «disincantamento del mondo»

La rivoluzione scientifica e l’estromissione della religione dalla razionalità

La sconfitta della religione

Conseguenze nichilistiche

Perdita di senso del mondo

Sradicamento dei valori

Incapacità della scienza di fondare l’etica

«Politeismo dei valori» e perdita di una gerarchia oggettiva tra essi

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Secondo la ricerca condotta da Weber, infatti, il tratto tipicamente moderno e occidentale del processo di razionalizzazione – che avviene anche nelle altre civiltà – consiste in quello che egli definisce «disincantamento del mondo», intendendo con questa espressione il processo di secolarizzazione dell’Occidente, cioè la graduale e progressiva estromissione della religione da tutti gli ambiti della vita. La secolarizzazione affonda le sue radici in molteplici fattori, tra i quali spetta un peso preponderante alla scienza moderna. Soprattutto in seguito all’avvento di quest’ultima, infatti, la religione giudaico-cristiana – che a sua volta aveva contribuito in maniera determinante alla razionalizzazione, attraverso lo spostamento della salvezza in una sfera oltremondana e la conseguente liberazione della sfera mondana dalle forze magiche – diventa un elemento irrazionale. E questo per la inevitabile tensione tra la concezione religiosa del mondo come ordine etico-teleologico creato da Dio e la concezione meccanicistica dell’universo come grande meccanismo retto non dal principio di finalità, bensì esclusivamente dalla legge di causa ed effetto. Nell’analisi weberiana, il conflitto sempre più aspro che, a partire dalla rivoluzione scientifica, si è ingenerato tra religione e scienza ha visto soccombere la prima. Lo spazio della religione non poteva, infatti, che ridursi fino quasi a scomparire, in una società che, a causa dei rapidi e incessanti progressi scientifici, è ormai permeata dalla convinzione della capacità umana di potere dominare il corso degli eventi, attraverso il calcolo razionale e l’esatta previsione di tutti i fenomeni. Come per Nietzsche, anche per Weber questo processo di secolarizzazione ha delle conseguenze nichilistiche. Weber sottolinea, infatti, come il disincantamento del mondo, pur rappresentando una conquista della razionalità, abbia fatto venir meno le certezze sulle quali per circa due millenni gli uomini occidentali avevano orientato la propria esistenza e il proprio agire. Innanzitutto, la sostituzione dell’ordine etico-teleologico della religione con un ordine meccanico semplicemente fisico e razionale ha privato il mondo oggettivo di ogni significato: il mondo può, infatti, avere un senso etico e uno scopo soltanto se è creato e orientato da Dio. Questa perdita di senso del mondo implica il crollo di tutti quei punti di riferimento in passato ritenuti oggettivi e assoluti: in un mondo del tutto privo di un senso etico – quale è il cosmo razionalizzato della scienza moderna – i valori smarriscono infatti, ogni radicamento oggettivo. Dal canto suo, la scienza non può in alcun modo supplire al ruolo di fondazione dell’etica esercitato a lungo dalla metafisica e dalla religione: le argomentazioni razionali di cui essa è intessuta ci consentono di ottenere una spiegazione causale degli eventi e il dominio della natura attraverso la tecnica, ma non possono in alcun modo offrire risposte riguardo ai valori. Questi ultimi fuoriescono, infatti, dalla sfera di ciò che è giustificabile sulla base del principio di ragion sufficiente o sulla base della considerazione dell’adeguatezza tra mezzi e scopi, che contraddistingue la razionalità puramente formale della scienza moderna (vedi Unità 14, p. 576). Sulla scorta di queste considerazioni, Weber indica come conseguenza della crisi del cristianesimo in epoca moderna un inevitabile «politeismo dei valori», intendendo con questa espressione il conflitto che viene a determinarsi tra i diversi valori, una volta venuta meno – assieme alla concezione etico-teleologica del mondo propria delle religioni della redenzione – la possibilità di fondare su basi oggettive una gerarchia tra essi.

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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Lotta tra valori e soggettività delle scelte morali

Etica mondana ed etica religiosa

Fondamento soggettivo di entrambe le etiche

Il «politeismo dei valori» in Grecia e nel cristianesimo

Caratteri laceranti del «politeismo dei valori» moderno

T5

Politeismo antico e politeismo moderno

M. Weber, La scienza come professione

In assenza di una gerarchia oggettiva, tutti i valori avanzano pari pretese di assolutezza, che sono alla radice di una lotta inevitabile e incomponibile: il prevalere dell’uno rispetto all’altro dipende esclusivamente da una scelta soggettiva, attraverso la quale ogni singolo individuo decide cosa è per lui «dio» e che cosa il «diavolo». Scelta che è per ciascuno tanto necessaria quanto ingiustificabile, in quanto non è più dimostrabile dell’opzione per un altro valore. Per esempio, tra l’etica mondana e quella religiosa non può che esservi un’antitesi radicale, in quanto la prima concepisce questo mondo come l’unico luogo possibile dove riparare i torti, mentre la seconda – partendo dall’assunto che l’unica giustizia verace sia quella divina e ultraterrena – predica la sopportazione del male e delle offese subite, come emerge in maniera paradigmatica dal Sermone della montagna (il passo del Vangelo di Matteo in cui Cristo parla alla folla su una montagna, Matteo, 5-7). Il contrasto tra le due prospettive è assoluto, e per questo ciò che da un punto di vista è «dignitoso» dall’altro è invece espressione di una completa mancanza di dignità; tuttavia, nessuno dei due punti di vista può offrire una confutazione razionale dell’altro, in quanto l’adesione a entrambi poggia su una scelta esclusivamente soggettiva. Non è una novità della società moderna che gli individui siano sottoposti a leggi diverse tra loro: utilizzando l’espressione «politeismo dei valori», Weber vuole al contrario esprimere la continuità tra il mondo moderno del disincantamento e l’antica civiltà greca, nella quale si rendevano spesso sacrifici a divinità che potevano essere in lotta tra loro. Nel mondo occidentale l’inevitabile antagonismo tra valori è stato in qualche modo sospeso – o meglio celato – solo dalla religione giudaico-cristiana, che si è sforzata di fondare un sistema di valori unici ed eterni a partire dall’«Uno assoluto e necessario», cioè la volontà legislatrice di una sola divinità. Tuttavia, secondo l’analisi weberiana il politeismo dei valori provocato dalla crisi del cristianesimo è più lacerante rispetto a quello antico: 1) prima di tutto, in quanto – a seguito dell’affermarsi della razionalità puramente formale della scienza moderna – si è ormai rotta l’unità tra etica e sapere che caratterizzava la civiltà greca, permeata dalla convinzione che la comprensione dei concetti potesse offrire una guida per la condotta; 2) in secondo luogo, in quanto nel mondo greco il singolo individuo era immerso nell’ordine rassicurante e nell’èthos della pòlis, e non portava da solo su di sé il peso della scelta tra valori contrastanti, ma si limitava a partecipare allo scontro che vedeva contrapposte le diverse città. Avviene come nel mondo antico, non ancora sottratto all’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, ma soltanto in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad Apollo, e soprattutto ognuno agli dèi della propria città, così è ancor oggi, che ci siamo disincantati e spogliati della veste mitica, ma intimamente vera, di quell’atteggiamento. Su questi dèi e nella loro lotta domina il destino, non certo la «scienza». È possibile solamente comprendere che cosa è il divino nell’uno e nell’altro caso, vale a dire nell’uno e nell’altro ordinamento. […] Chi vorrà mai provarsi a «confutare scientificamente» l’etica del Sermone della Montagna, per esempio la massima: «non fare resistenza al male», oppure l’immagine del porgere l’altra guancia? Eppure è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, qui si predica un’etica della mancanza di dignità: si deve cioè 235

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

scegliere tra la dignità religiosa, che quest’etica comporta, e la dignità virile, che predica qualcosa di ben diverso: «Resisti al male, altrimenti tu sei corresponsabile del suo prevalere». Dipende dalla propria presa di posizione ultima che questo sia il diavolo e quello il dio, e l’individuo deve decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita. Quanto detto finora è già sufficiente per lasciare emergere come – pur condividendo con Nietzsche la sensazione di vivere in un mondo in cui la religione tende a scomparire dall’orizzonte, con gli esiti nichilistici che ne risultano – Weber guardi a questo fenomeno con un atteggiamento molto diverso. Nell’analisi weberiana la «morte di Dio» non è, infatti, un evento salutato con l’ebbrezza e il senso di liberazione che traspaiono molte volte dalle parole dell’«uomo folle»: il disincantamento e le sue conseguenze nichilistiche sono piuttosto per Weber il «volto severo del destino» dell’uomo moderno, costretto a vivere in un’epoca in cui non vi sono più né dèi né profeti, e dunque a sopportare interamente il peso delle scelte tra valori inconciliabili. Duplice atteggiamento Con un aristocraticismo di probabile matrice nietzschena, anche Weber ritiene che di Weber verso non tutti siano in grado di riconoscere e sopportare questa condizione: e a coloro il moderno che non ne hanno la forza raccomanda di tornare sotto la protezione delle antiche Chiese. Tuttavia, a differenza di Nietzsche, che cerca esplicitamente di contribuire all’uscita dal moderno prospettando un mondo di «superuomini», Weber resta invece al suo interno e, pur cogliendone con pessimismo a tratti anche radicale gli aspetti inquietanti, lo accetta come una situazione immodificabile – appunto come un «destino» – sforzandosi esclusivamente di contribuire alla sua comprensione. Weber: la «morte di Dio» e la solitudine dell’uomo moderno

I brani antologizzati sono tratti da: L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 281-282. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Opere, 3, trad. di N. De Domenico, G. della Volpe, L. Formigari, N. Merker, R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 191. F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di S. Giametta, BUR, Milano 2000, pp. 206-207. M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 29-30.

Questionario 1

In un massimo di 4 righe definisci la nozione di secolarizzazione e il suo legame con il tema della «morte di Dio».

2

Qual è nella storia dello Spirito, secondo Hegel, il significato della «morte di Dio»? (max 4 righe)

3

Spiega in un massimo di 5 righe il significato della tesi di Feuerbach, presente in T1, che «il segreto della teologia è l’antropologia».

236

4

Che rapporto esiste tra religione e mondo secondo Marx in T2? (max 2 righe)

5

Chi è l’uomo folle che Nietzsche descrive in T3? Qual è il significato delle sue parole? (max 5 righe)

6

Perché «la morte di Dio» è definita dall’uomo folle un «gesto troppo grande» in T4? (max 2 righe)

7

Quali sono le due immagini del divino di cui Weber parla in T5? (max 4 righe)

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento 1. Mondo naturale e mondo umano

2. Dilthey 3. Simmel e la filosofia della vita

2. Il ritorno a Kant e il neocriticismo 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Tornare a Kant Il ritorno a Kant su base «fisiologica» Il neocriticismo La scuola di Marburgo Cassirer La scuola del Baden Rickert

4. Bergson 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Lo spiritualismo francese dell’Ottocento Tra scienza e metafisica Il tempo e la durata Percezione e memoria Conoscenza utile e stabilità del mondo La metafisica Morale e religione

3. Lo storicismo tedesco 1. I caratteri dello storicismo

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Mondo naturale e mondo umano

1

Lo sviluppo delle scienze nell’Ottocento

Le scienze della natura

Le scienze storico-sociali

Confronto tra scienze della natura e scienze storico-sociali

➥ Sommario, p. 266

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Il XIX secolo vede uno sviluppo parallelo delle discipline che si occupano del mondo della natura e di quelle che indagano il mondo umano. È sulla base della riflessione sulle scienze della natura che si sviluppa il positivismo come indirizzo filosofico che vede nella scienza della natura un modello da seguire anche per le altre scienze, come nel caso di Auguste Comte, di Herbert Spencer e di John Stuart Mill. Ma la scienza della natura vede nel corso del tempo progressi che in parte ne cambiano il profilo. Il presentarsi e il diffondersi delle tesi evoluzionistiche mutano radicalmente il modo di guardare alla natura e alla stessa natura umana. A partire dalla fine dell’Ottocento si ha anche un grande sviluppo delle scienze fisico-matematiche che trovano sbocco – tra Ottocento e Novecento – in nuovi modi di guardare alla geometria, con le geometrie non-euclidee, in un’approfondita riflessione sui fondamenti della matematica e sulla logica e in vere e proprie rivoluzioni della fisica classica, cioè newtoniana, con la teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955) e con la meccanica quantistica (vedi Unità 10, p. 410 ss.). Gli studi sulla società – oltre che nel pensiero di Marx – trovano uno sviluppo notevole proprio nelle pagine dei positivisti maggiori come Comte, Mill e Spencer, al quale alcuni fanno risalire l’origine della «sociologia» come disciplina specifica, e ancora, a cavallo tra Ottocento e Novecento, gli sviluppi del capitalismo inducono riflessioni approfondite sul mondo umano. Nel frattempo, lo studio della storia, e delle discipline filologiche, conosce un grande incremento, ed è proprio nel corso del XIX secolo che si formano importanti modelli di una storiografia consapevole della propria specificità. La filosofia della seconda metà dell’Ottocento trova quindi un suo oggetto privilegiato nell’indagine sullo statuto delle discipline sia scientifiche sia storico-sociali, in un rapporto spesso polemico ma comunque impegnato con entrambi gli ambiti del sapere. In questa prospettiva, non mancano le commistioni, le intersezioni e anche le contaminazioni tra un campo e l’altro, come anche i tentativi di chiarire quali possano essere i punti di contatto e di distinzione. È in questo contesto che emergono: 1) le riflessioni filosofiche e metodologiche che si rifanno a Kant, con il sorgere del neocriticismo; 2) il tentativo di trovare criteri di distinzione tra le scienze della natura e le scienze del mondo storico-sociale, o dello «spirito», con lo storicismo; 3) il confronto con la scienza che dà luogo a un nuovo genere di metafisica, come avviene nella filosofia di Henri Bergson: questi si colloca all’intersezione tra il riconoscimento dell’importanza della scienza e l’intenzione esplicita di andare al di là di essa, anche sulla base di una particolare attenzione per l’interiorità umana ereditata dallo spiritualismo ottocentesco.

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

Il ritorno a Kant e il neocriticismo

2 I testi

W. Windelband Preludi: Andare oltre Kant, T1; Le regole del conoscere, del volere e del sentire, T3

1 Rifiuto dei sistemi idealistici

Critica della nozione di «cosa in sé»

Zeller come iniziatore del ritorno a Kant

Liebmann: Kant e gli epigoni

E. Cassirer Filosofia delle forme simboliche: La fisica come teoria simbolica, T2

Tornare a Kant La seconda metà dell’Ottocento è segnata da una forte ripresa di interesse per la filosofia di Kant, anche in polemica verso la tradizione idealistica e hegeliana. Tornano ad avere importanza, non a caso, filosofi come Herbart che si erano opposti ad essa, e in generale viene rimesso al centro dell’attenzione l’interesse per una teoria della conoscenza di ispirazione kantiana, rispetto alla metafisica dei grandi sistemi speculativi di Fichte, di Schelling e di Hegel. Di Fichte, eventualmente, viene salvato l’aspetto etico, o etico-politico, fedele al dettato kantiano del dover-essere, cioè dell’ideale, e quindi utilizzabile in chiave progressista, o socialista, mentre per quel che riguarda Hegel la chiusura del suo sistema speculativo viene vista in parallelo al suo atteggiamento conservatore in politica. La tesi hegeliana secondo la quale ciò che è reale è razionale viene interpretata come esortazione ad adeguarsi allo stato di cose presente o, addirittura, come espressione di una valutazione incondizionatamente positiva di esso. Nella nuova prospettiva, i grandi sistemi idealistici vengono ora visti come un tradimento del criticismo kantiano, anche se lo stesso Kant, parlando di una «cosa in sé» che sta al di là dell’esperienza possibile, del mondo fenomenico, è ritenuto in parte responsabile dei fraintendimenti e delle degenerazioni dei suoi successori nella tradizione filosofica tedesca. Tornare a Kant significa quindi tornare alla teoria della conoscenza, e proprio a Significato e compiti della teoria della conoscenza è dedicata la prolusione che viene tenuta nel 1862 dal grande storico della filosofia greca Eduard Zeller (1814-1908) all’università di Heidelberg: è questa la data convenzionale che segna la nascita del «ritorno a Kant» ottocentesco. Zeller critica duramente gli sviluppi della filosofia tedesca post-kantiana, ma anch’egli vede nel problema della «cosa in sé» il germe dell’idealismo successivo. Qualche anno dopo il discorso di Zeller, nel 1865, Otto Liebmann (1840-1912) pubblica un libro intitolato Kant e gli epigoni, in cui viene ancora ricordata come problematica la nozione di «cosa in sé» e in cui, a mo’ di chiusura di ogni capitolo, troviamo riportata – ossessivamente – l’affermazione che «bisogna dunque tornare a Kant». Liebmann attacca la filosofia idealistica, ma va ben oltre: traditori del messaggio kantiano non sono soltanto i grandi idealisti, ma gli stessi Herbart e Schopenhauer, che hanno anch’essi utilizzato, in un modo o nell’altro, l’errore kantiano della «cosa in sé». 239

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Studi sul pensiero di Kant

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Il processo conoscitivo ha una base fisiologica: Helmholtz

Interpretazione fisiologica della filosofia di Kant: Lange

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Nel corso dell’Ottocento si sviluppa anche un interesse più genuinamente storico-filosofico per il pensiero di Kant, che ha un precedente illustre nella Storia della filosofia kantiana (1840) di Karl Rosenkranz (1805-1879), un allievo di Hegel. Importante, in questa direzione, è la monografia su Kant di Kuno Fischer (1824-1907) e in generale la pubblicazione di lavori storiografici sul confronto di Kant con la tradizione filosofica, di analisi serrate dei testi kantiani (è del 1881 la pubblicazione di un sistematico commentario della Critica della ragion pura da parte di Hans Vaihinger, 1852-1933) e di studi sulla formazione filosofica di Kant. Inoltre, si cominciano a pubblicare testi kantiani inediti. Tutta questa attività troverà un esito, all’inizio del XX secolo, con la pubblicazione dell’edizione ufficiale delle opere complete di Kant, promossa dall’Accademia Prussiana delle Scienze e diretta, al suo sorgere, da Wilhelm Dilthey (vedi sotto, p. 249). La filosofia di Kant è quindi oggetto di interesse e di discussione sia sul piano storico-filosofico, sia sul piano teorico.

Il ritorno a Kant su base «fisiologica» Il «ritorno a Kant» è segnato anche, almeno inizialmente, dagli stimoli provenienti dal pensiero positivistico, e in particolare dal significato filosofico posseduto dalle indagini scientifiche. È significativo, in questo senso, l’interesse per la filosofia di Kant da parte di Hermann von Helmholtz (1821-1894), uno scienziato al quale si deve, tra l’altro, una delle prime formulazioni del principio di conservazione dell’energia. L’elemento attivo della conoscenza che caratterizza la rivoluzione kantiana si interseca per Helmholtz con le strutture fisiologiche del processo conoscitivo. Se non può condividere l’idea che l’intuizione dello spazio sia un dato a priori come pensava Kant, Helmholtz ritiene però che le proprie ricerche fisiologiche (l’opera più importante è il Manuale di ottica fisiologica, che esce tra il 1856 e il 1867) arrivino a risultati convergenti con aspetti importanti della filosofia kantiana, come il riconoscimento di una funzione costitutiva, ovvero attiva, del soggetto, nella conoscenza degli oggetti: questa funzione, per Helmholtz, ha un fondamento fisiologico nella struttura dell’apparato nervoso. Un’altra opera che va nella stessa direzione di Helmholtz – e che ha una grande influenza nella filosofia contemporanea: Nietzsche ne dà, per esempio, un giudizio molto positivo – è la Storia del materialismo e critica del suo significato attuale di Friedrich Albert Lange (1828-1875), pubblicata nel 1866. Lange ritiene che la spiegazione meccanicistica del mondo della scienza moderna debba essere accettata e incoraggiata, ma ciò non deve significare accettare la tesi del materialismo naturalistico (per cui l’intera realtà, inclusi l’uomo, il pensiero e l’agire morale, coincide con, o è riducibile alla natura e può essere oggetto di indagine scientifica). In realtà, come ha mostrato Kant, è possibile conoscere soltanto i fenomeni, non la «cosa in sé» (che è un concetto-limite), e la nostra conoscenza del mondo fenomenico è profondamente condizionata, anche in questo caso attraverso un’interpretazione «fisiologica» di Kant, dalle strutture del soggetto, e in particolare dall’organizzazione psico-fisica. Sia Helmholtz sia Lange, dunque, individuano nella struttura fisiologica del soggetto conoscente ciò che fa sì che la mente abbia un ruolo attivo nel processo della conoscenza.

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

3 Possibilità della conoscenza

T1

Andare oltre Kant

W. Windelband, Preludi, Prefazione alla prima edizione

Differenze tra le due scuole neokantiane

Il neocriticismo È invece di carattere marcatamente filosofico il vero e proprio movimento detto «neocriticismo» o «neokantismo»: esso nasce intorno al 1870 e ha due principali centri di diffusione, vale a dire l’università di Marburgo e quella di Heidelberg, per cui si parla di solito, per le due maggiori scuole neokantiane tedesche, di scuola di Marburgo e di scuola del Baden. Il problema comune alle due «scuole» è la questione del trascendentale, ovvero dell’indagine sul modo di conoscere gli oggetti – come aveva scritto Kant: la filosofia ha il compito di esercitare una riflessione critica sul conoscere e sulle sue possibilità (tenendo distinta la conoscenza dalle condizioni fisiologiche del soggetto). Il modo in cui le due scuole affrontano il problema è decisamente diverso, anche se certo è comune l’intento di tornare a Kant andando oltre Kant, come sottolinea l’iniziatore della scuola del Baden, Wilhelm Windelband (vedi sotto, p. 245): Tutti noi che filosofiamo nel XIX secolo siamo discepoli di Kant. Ma il nostro odierno «ritorno» a lui non può essere la semplice rammemorazione della forma storicamente condizionata nella quale egli espose le idee della filosofia critica. Quanto più profondamente si coglie l’antagonismo che sussiste tra i diversi motivi del suo pensiero, tanto più si trovano in esso i mezzi per elaborare i problemi che Kant ha creato con le sue soluzioni. Comprendere Kant, significa andare oltre Kant. La scuola di Marburgo, invece, si concentra sulle condizioni di validità dell’esperienza, prestando particolare attenzione al sapere scientifico. Questi filosofi non trascurano i problemi dell’etica, dell’estetica o i problemi sociali, ma il loro punto di partenza è la riflessione sul sapere scientifico. La scuola del Baden, invece, cerca di elaborare un punto di vista più complessivo, unitario, fondato sulle nozioni di validità e di valore, utili nei diversi ambiti della filosofia: sono valori, infatti, il vero della teoria della conoscenza, il buono dell’etica e il bello dell’estetica.

Le scuole neokantiane

Neocriticismo Scuola del Baden

Scuola di Marburgo Problema comune Indagine sulla conoscenza

Differenza nel modo di affrontare il problema La scuola di Marburgo analizza le condizioni di validità dell’esperienza

La scuola del Baden elabora una concezione unitaria della filosofia

Centralità della conoscenza scientifica

Centralità della nozione di valore

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

4 Indagine sulla logica del pensiero scientifico: Cohen

Logica del pensiero puro

Interpretazione socialista di Kant

Analogia tra idee platoniche e categorie kantiane: Natorp

5

La scuola di Marburgo L’inizio convenzionale del movimento neokantiano lo si ha con il libro di Hermann Cohen (1842-1918) La teoria kantiana dell’esperienza, del 1871. Cohen insegna a Marburgo dal 1873 al 1912. Per Cohen interpretare la filosofia come teoria della conoscenza non significa riferirla al conoscere in generale, ma alla conoscenza propria della scienza: la filosofia è quindi una teoria della scienza, prende le mosse dal fatto della scienza e ne indaga le condizioni di possibilità così come la filosofia di Kant muoveva dal fatto della fisica newtoniana. La logica del pensiero puro che costituisce la prima parte del sistema della filosofia di Cohen (ad essa seguono un’etica e un’estetica) è la logica a priori delle scienze, cioè della matematica e della scienza della natura. L’importante per Cohen è distinguere la logica come pensiero puro dai processi psicologici e fisiologici, a differenza dell’interpretazione «fisiologica» del trascendentale che si era avuta con Helmholtz e Lange. Cohen dà molta importanza all’etica, pur se ne sottolinea la dipendenza dalla logica, rifiutando così il «primato della ragion pratica» sostenuto da Kant. Centrale è l’idea kantiana dell’uomo come fine, sulla quale è fondata una delle formulazioni dell’imperativo categorico («agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»). L’idea che ogni uomo, in quanto uomo, sia un fine in sé sta a fondamento anche della posizione politica socialista di Cohen: non si concilia con l’idea che l’uomo sia un fine in sé, sostiene Cohen, l’idea che il lavoratore sia semplicemente una cosa, una merce. Marx ha però sbagliato quando ha voluto fondare la storia e la prospettiva socialista sui rapporti materiali: la storia come storia degli uomini e delle loro azioni è storia dello spirito e delle idee, altrimenti non c’è nessuna storia universale, ma soltanto una storia «naturale». Paul Natorp (1854-1924) radicalizza la centralità della logica già sostenuta da Cohen. Peculiare, in Natorp, è l’accostamento (nella Dottrina platonica delle idee, del 1903) tra Platone e Kant: le idee platoniche non sono realtà date, forme ideali delle cose sensibili, ma funzioni del conoscere analoghe alle categorie kantiane, regole ideali della conoscenza scientifica. Comune a Cohen e a Natorp è la concezione della filosofia come critica del sapere scientifico.

Cassirer

La vita e le opere Ernst Cassirer nacque a Breslavia (Slesia) nel 1874 da una famiglia di origini ebraiche. Iscrittosi nel 1892 all’università di Berlino, fece studi di giurisprudenza e poi di filosofia. Nel 1896 si trasferì a Marburgo, dove divenne discepolo di Cohen e Natorp e si dedicò, oltre alla filosofia, allo studio delle scienze, della matematica e della letteratura tedesca. Nel 1902 pubblicò Il sistema di Leibniz. Grazie all’opera Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza moderna (i cui primi due volumi uscirono tra il 1906 e il 1907) divenne docente

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all’università di Berlino. Nel 1910 apparve Concetto di sostanza e concetto di funzione. Nel 1918 uscì Vita e dottrina di Kant (1918). L’anno seguente Cassirer divenne professore all’università di Amburgo. Nel 1920 apparve il terzo volume di Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza moderna e, tra il 1923 e il 1929, la sua opera maggiore, Filosofia delle forme simboliche. Nel 1933, con l’ascesa di Hitler al potere, andò in esilio in Inghilterra e, successivamente, in Svezia. Trasferitosi nel 1941 negli Stati Uniti, insegnò alle università di Yale e Columbia. Morì a Princeton nel 1945.

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

Il problema della conoscenza nella storia della filosofia

Il concetto di funzione

La conoscenza non è immagine della realtà

La funzione dei simboli nel processo conoscitivo

Il pensiero di Ernst Cassirer si forma sotto l’influenza della scuola di Marburgo di Cohen e Natorp, ma acquista ben presto una configurazione autonoma e si inoltra in pieno XX secolo. Importanti, nello sviluppo del pensiero di Cassirer, sono anche lavori di storia della filosofia moderna: sul pensiero di Leibniz, Kant e Cartesio, e soprattutto l’ampia ricerca su Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza moderna. Anche in questi studi di profilo storico la riflessione cassireriana ha sempre un tono teorico che rivela il suo legame con i maestri di Marburgo: la filosofia è teoria e critica della conoscenza, e la ricostruzione della storia della filosofia moderna dal punto di vista del problema della conoscenza rivela come la filosofia kantiana sia un punto di arrivo e di sintesi, compatibile con le maggiori scoperte della scienza moderna e contemporanea, incluse le teorie più recenti come le geometrie non-euclidee, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Ancora di stampo neokantiano, poi, è lo stretto nesso tra storia della scienza e storia della filosofia. Il mutamento principale indotto dalla riflessione scientifica moderna è per Cassirer il passaggio dal concetto di sostanza (realtà indipendente e permanente, preesistente rispetto all’attività conoscitiva) al concetto di funzione (Concetto di sostanza e concetto di funzione). A lungo fondata sull’idea di una sostanza o di una essenza delle cose di cui dovrebbe costituire una sorta di immagine, la scienza ha mutato radicalmente l’orizzonte nel tempo, individuando nel corso dell’Ottocento il proprio oggetto nelle relazioni funzionali tra i fenomeni. All’astrazione che formava i concetti astratti a partire dalle caratteristiche delle cose si è sostituito un tipo diverso di astrazione, costituito dalle relazioni tra gli oggetti e quindi dalle funzioni della nostra conoscenza, come in Kant. La conoscenza non è quindi un processo di rispecchiamento e di immagine della realtà, ma si realizza attraverso i simboli che vengono utilizzati e le relazioni che tra essi intercorrono. Un simbolo, scrive Cassirer, è «l’espressione di qualcosa di ‘spirituale’ mediante ‘segni’ e ‘immagini’ sensibili»; così, per esempio, un suono fisico diventa un suono linguistico, un segno fisico capace di esprimere un certo contenuto (per esempio, un sentimento o un pensiero). Il segno, però, non è semplicemente il mezzo con cui un contenuto viene comunicato, non è una sorta di involucro che racchiude un contenuto già formato; tra il segno e ciò che esso significa, il suo contenuto, c’è una stretta relazione: il contenuto può formarsi soltanto attraverso il segno e questo, a sua volta, non può esistere indipendentemente dal contenuto. Il simbolo, a partire dalla sua prima forma, il linguaggio, diventa per Cassirer un elemento centrale della relazione conoscitiva dell’uomo con il mondo: attraverso i simboli l’uomo dà senso e unità ai dati molteplici dell’esperienza sensibile. È nello sviluppo di questa indagine che la filosofia di Cassirer si distacca e si differenzia rispetto al neokantismo della scuola di Marburgo, che riduce l’indagine filosofica a teoria della conoscenza scientifica, assumendo una configurazione autonoma e originale, come rivela la sua opera più importante, la Filosofia delle forme simboliche. La fisica ha avuto già con Galileo i primi tratti di teoria «simbolica» e non più del «rispecchiamento», ma il punto d’arrivo e di svolta di questa nuova concezione della scienza si ha per Cassirer con il fisico Heinrich Hertz (1857-1894) e con i suoi Principi della meccanica (1894). Il fatto è estremamente significativo perché vuol dire che è stato uno scienziato a fornire non solo una nuova teoria scientifica, ma anche una nuova concezione della scienza. Il pensiero fisico produce costruzioni simboliche che devono essere compatibili, come costruzioni, con l’osservazione empirica, ma non pretendono di rispecchiare la natura. 243

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

T2

La fisica come teoria simbolica E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3,1, Introduzione

Merita di essere indicato come degno di rilievo il fatto che lo stesso pensatore, il quale dal punto di vista del semplice contenuto ha reso possibile con le sue scoperte la nuova «concezione elettrodinamica del mondo», sia diventato l’autore di una «rivoluzione del modo di pensare» nel campo della teoria della fisica. Heinrich Hertz è stato quello studioso moderno che nei suoi Principi della meccanica (1894) ha, per la prima volta e nel modo più decisivo, fatto passare la fisica dalla «teoria del rispecchiamento» a una pura «teoria simbolica». I concetti fondamentali della scienza della natura appaiono ora non più come copie e imitazioni di qualcosa di oggettivamente dato, ma vengono introdotti come piani costruttivi del pensiero fisico, come piani il cui valore e significato teoretico è legato alla sola condizione che le loro conseguenze logicamente necessarie corrispondano sempre a ciò che è osservabile nell’esperienza […]. In questo senso l’intero mondo dei concetti della fisica può esser definito – come fece Helmholtz nella sua teoria gnoseologica [teoria della conoscenza] – un mondo di puri «simboli».

Nello sviluppare questo tema Cassirer estende la propria indagine ben al di là del suo punto di partenza costituito dalla riflessione sulla conoscenza scientifica. Oltre ad essa, infatti, ci sono altri modi di costruire la realtà attraverso i simboli, ossia altre «forme simboliche»: una «forma» è l’attività mentale che produce una certa configurazione della realtà; questa attività è simbolica perché, come si è detto, si serve di simboli. Dall’indagine sulla scienza la filosofia di Cassirer arriva così a occuparsi anche del mondo del mito, della religione e dell’arte. Con Cassirer la filosofia diviene, cioè, una «critica della cultura», ossia delle diverse espressioni della vita spirituale degli esseri umani. L’uomo è innanzitutto un animale simbolico, diverso dagli altri per la sua capacità di costituire mediante simboli la realtà; e il simbolo non è il modo in cui la realtà si rivela, ma il segno essenziale del carattere kantianamente attivo del pensiero. Le forme simboliche Cassirer individua allora tre forme di produzione simbolica: il linguaggio, il mito (che riguarda il pensiero mitico e religioso) e la conoscenza, che presentano al loro interno diverse fasi di sviluppo. La conoscenza è la forma simbolica studiata da Cassirer in modo più approfondito. La forma più avanzata di conoscenza, quella significativa, è data dalle strutture matematiche che presentano la forma più alta di astrazione. Alla conoscenza significativa corrispondono le più importanti scoperte recenti della fisica, cioè la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Come gli altri esponenti della scuola di Marburgo, dunque, anche Cassirer pone il problema della conoscenza al centro dell’indagine filosofica, ma non riduce la filosofia a riflessione critica sulla conoscenza scientifica: la scienza non è che una delle attività attraverso le quali l’uomo costituisce e dà forma alla realtà.

L’uomo è un animale simbolico

La conoscenza nella tradizione e in Cassirer

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Conoscenza della realtà

La conoscenza è rispecchiamento della realtà

La conoscenza è costruzione della realtà attraverso simboli

Concezione fondata sulla nozione di sostanza

Concezione fondata sulla nozione di funzione

L’uomo è passivo nel processo della conoscenza

L’uomo è attivo nel processo della conoscenza

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

6 Filosofia come scienza critica dei valori

La scuola del Baden Sulla scia del maestro Lotze, che aveva importato, prima di Nietzsche, il termine «valore» dal linguaggio dell’economia in quello della filosofia, Wilhelm Windelband interpreta la filosofia trascendentale di Kant proprio alla luce del «valore» e della «validità»: la filosofia non è, come nella scuola di Marburgo, prevalentemente teoria della scienza e della conoscenza, con un ruolo privilegiato della conoscenza scientifica, ma piuttosto scienza critica dei valori universalmente validi come sono regolati da una coscienza normativa ideale e oggettiva che costituisce il punto di riferimento oggettivo di tutte le valutazioni; essa non è la coscienza (condizionata da fattori empirici) dei singoli soggetti che esprimono giudizi, ma è la consapevolezza delle norme ideali che sono il fondamento di tali giudizi. Alle tre parti tradizionali della filosofia, infatti, la logica, l’etica e l’estetica, corrispondono i diversi valori a cui esse fanno riferimento, e cioè il vero, il bene e il bello.

La vita e le opere Wilhelm Windelband nacque a Potsdam nel 1848. Allievo di Kuno Fischer e di Hermann Lotze, fu uno tra i massimi storici ottocenteschi della filosofia e il fondatore della scuola del Baden. Tra il 1878 e il 1880 uscì la Storia della filosofia moderna; nel 1882 apparve il saggio Che cos’è la filosofia? Del 1884 è la sua opera maggiore, la raccolta di saggi e diVisione unitaria della filosofia

T3

Le regole del conoscere, del volere e del sentire

W. Windelband, Preludi

scorsi intitolata Preludi. Nel 1888 uscì la Storia della filosofia occidentale dell’antichità e, nel 1892, il Manuale di storia della filosofia. Nel 1894 Windelband tenne una conferenza su Storia e scienza della natura, in polemica con Wilhelm Dilthey. Dal 1903 insegnò all’università di Heidelberg. Nel 1904 apparve La libertà del volere. Nel 1914 uscì l’Introduzione alla metafisica. Windelband morì a Heidelberg nel 1915.

Con la sua impostazione, il neokantismo del Baden tende ad avere una prospettiva complessiva unitaria in cui le diverse parti della filosofia non hanno nessun rapporto di dipendenza dalla logica o dal sapere scientifico: l’intera filosofia è infatti una teoria generale dei valori, una filosofia dei valori. Essa ha il compito di ricercare i valori che stanno a fondamento della conoscenza (il valore della verità), della morale (il valore del bene) e dell’arte (il valore della bellezza) e di valutare i contenuti del pensiero, della volontà e del sentimento estetico alla luce dei rispettivi valori. E in una teoria generale delle diverse norme e dei valori nel loro complesso, non solo nel valore della verità teoretica, del pensiero, consiste l’eredità più importante della filosofia di Kant come dottrina dell’ideale dell’umanità. Kant ha stabilito come compito della filosofia quello di portare a conoscenza i «principi della ragione», vale a dire le norme assolute, e questa conoscenza, lungi dall’essere esaurita dalle regole del pensiero, trova la sua compiutezza soltanto nelle regole del volere e del sentire. Nella conoscenza delle supreme determinazioni di valore le norme della scienza sono solo una parte: accanto ad esse valgono, autonome e pienamente indipendenti, le norme della coscienza morale e del sentimento estetico […]. In questo senso l’idealismo kantiano non è solo idealismo teoretico, come dottrina secondo la quale ogni conoscenza consiste nella legalità normativa delle rappresentazioni, ma anche idealismo pratico: è la dottrina dell’ideale dell’umanità. In questo senso ha operato sui suoi grandi contemporanei, in questo senso continuerà a vivere: questo è lo «spirito» della filosofia kantiana. 245

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

È comprensibile che se il tentativo di Windelband e, poi, di Heinrich Rickert e di altri, è quello di costruire una teoria generale dei valori che includa tutte le discipline, si ponga il problema delle eventuali differenze tra discipline diverse, per esempio tra le scienze della natura e quelle che nel frattempo, in Inghilterra, John Stuart Mill chiama moral sciences, ovvero le discipline che si occupano del mondo umano, della società e della storia. Negli stessi anni in cui esce l’opera maggiore di Windelband, i Preludi (1884), Dilthey (vedi sotto, p. 249) inaugura la stagione storicistica tedesca e il dibattito sulle scienze storico-sociali con la sua Introduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey avanza la proposta di una distinzione tra scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) – ossia discipline che studiano il mondo dell’uomo e il suo sviluppo storico – che si contrappone alla tesi positivistica di John Stuart Mill in favore di una sostanziale omogeneità tra i due ambiti. Windelband: scienze Lo studio della realtà storica e spirituale dell’uomo si differenzia dallo studio delnomotetiche la natura, secondo Windelband, non sulla base del diverso oggetto (come crede e idiografiche Dilthey), ma sulla base dei diversi scopi conoscitivi che si vogliono raggiungere nelle due diverse forme di sapere. Mentre le scienze naturali sono vòlte alla ricerca di leggi generali, sono scienze nomotetiche (dalla parola greca nòmos, che significa «legge»), le scienze del mondo umano e storico-sociale, cioè le scienze dello spirito, vanno alla ricerca dell’individuale, dell’avvenimento, e sono quindi scienze idiografiche (dal greco ìdios, che significa «individuale, particolare»).

Distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito

Scienze della natura e scienze dello spirito

7 Scienze della cultura

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Differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito

Windelband

Dilthey

Differenza di scopi

Differenza di oggetti

Le scienze della natura ricercano leggi generali

Le scienze dello spirito ricercano gli eventi particolari

Scienze nomotetiche

Scienze idiografiche

Le scienze della natura studiano il mondo naturale

Le scienze dello spirito studiano il mondo umano

Rickert Heinrich Rickert è il principale artefice e rappresentante della filosofia dei valori che aveva ricevuto impulso da Lotze prima e da Windelband poi. E, tra l’altro, interviene nel dibattito sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, negando innanzitutto l’adeguatezza dell’espressione «scienze dello spirito» (poiché parlare di «spirito» significa ricadere nel lessico della metafisica e della psicologia): è più corretto, per Rickert, parlare di scienze della cultura.

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

La vita e le opere Heinrich Rickert nacque a Danzica nel 1863. Fu allievo di Wilhelm Windelband. Nel 1894 divenne professore all’università di Friburgo. Tra il 1896 e il 1902 apparve lo studio sui Limiti della formazione dei concetti nelle scienze naturali. Nel 1899 fu pubblicata l’opera Scienze della cultura e scienze della natura. Nel 1916 lasciò l’insegnamento a

Lo storico deve studiare i valori delle civiltà senza giudicarli

Oggettività dei valori ➥ Laboratorio sul lessico, Relativo, p. 881

➥ Sommario, p. 266

Friburgo e succedette a Windelband come docente all’università di Heidelberg e, in seguito, nella direzione della scuola del Baden. Nel 1920 uscì lo scritto polemico La filosofia della vita. Nel 1921 fu pubblicato il Sistema di filosofia e, nel 1934, i Problemi fondamentali della filosofia. Rickert morì a Heidelberg nel 1936. La raccolta di saggi Immediatezza e significato apparve postuma, nel 1939.

Nello studio sui Limiti della formazione dei concetti nelle scienze naturali Rickert sviluppa le indicazioni di Windelband e lega strettamente la conoscenza storica con il tema complessivo dei valori caro a lui e al suo maestro. Rickert condivide l’idea di Windelband che la distinzione tra scienze della natura e scienze della cultura non si fondi sull’oggetto, ma sui diversi metodi, indirizzandosi le prime alle leggi generali e le seconde all’evento singolo. Il metodo delle scienze della cultura consiste poi nel fare riferimento ai valori mostrando le relazioni al valore che caratterizzano, per esempio, una determinata civiltà. Il concetto di valore diventa quindi centrale anche su questo piano, pur se il lavoro dello storico è sì occuparsi di relazioni di valore, ma senza confondere la relazione al valore con il giudizio di valore. Lo studio del mondo umano e storico si occupa ampiamente dei valori delle diverse civiltà, ma ciò non significa pronunciare giudizi di valore, che non sono di pertinenza dello storico. Contro i rischi di relativismo che vede emergere in Dilthey, Rickert accentua il carattere oggettivo e assoluto dei valori, proponendo un vero e proprio sistema dei valori. A ciascuno di essi, affrontato dettagliatamente nel Sistema di filosofia, corrisponde un ambito disciplinare, sia sul piano della contemplazione (veritàlogica, bellezza-estetica, santità impersonale-mistica), sia sul piano pratico-sociale (moralità-etica, felicità-erotica, santità personale-filosofia della religione). Si tratta di quel sistema oggettivo dei valori che verrà attaccato direttamente da un grande pensatore che affronterà il tema del valore e che, in parte, sarà influenzato da Rickert, cioè Weber (vedi Unità 14, p. 583 s.). Rickert rifiuta invece – contro il contemporaneo diffondersi della cosiddetta filosofia della vita come esaltazione di una energia irrazionale o di una «volontà di potenza» – di considerare la vita un valore in sé. I valori appartengono alla sfera della cultura, e questa non si può identificare con la vita, ma è qualcosa che va al di là di essa. Dunque, Rickert concorda con Windelband nell’individuare la differenza tra le scienze della natura e le discipline che studiano il mondo umano storico e sociale nei metodi di indagine adottati e sottolinea l’importanza del riferimento ai valori per la comprensione delle varie civiltà. L’indagine storica deve rimanere neutrale rispetto ai valori che studia, ma ciò non implica che i valori siano relativi.

Rickert e il sistema dei valori

Sistema dei valori Sfera della contemplazione

Sfera pratico-sociale

Logica

Estetica

Mistica

Etica

Erotica

Filosofia della religione

Verità

Bellezza

Santità impersonale

Moralità

Felicità

Santità personale

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

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Lo storicismo tedesco I testi

W. Dilthey Introduzione alle scienze dello spirito: Il mondo spirituale come mondo della libertà, T4; L’importanza della esperienza interna, T5

1

Critica della filosofia idealistica della storia

Critica del positivismo

Estensione della critica kantiana alle scienze storico-sociali

248

I caratteri dello storicismo Il termine «storicismo» viene utilizzato già nella cultura romantica, ma la sua diffusione è legata alla cultura tedesca della seconda metà dell’Ottocento. Più che di una nozione o di una corrente univocamente definita, si tratta di una «famiglia di dottrine» che si sviluppa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che ha come tratto generale la considerazione storica del mondo umano e sociale. Questa caratterizzazione è però generica, e deve essere precisata e approfondita. Per chiarire cosa sia lo storicismo tedesco contemporaneo, che ha il suo maggiore rappresentante in Dilthey, è utile innanzitutto vedere in contrapposizione a quali correnti filosofiche dell’Ottocento esso sorga. Il primo obiettivo polemico è la filosofia della storia di matrice idealistica e in particolare hegeliana, cioè la visione metafisica della storia come realizzazione di uno spirito universale. In questo senso, lo storicismo tedesco si differenzia anche dallo storicismo di matrice idealistica che riemerge nella filosofia europea, pur con tutte le importanti differenze, con Benedetto Croce (vedi Unità 8, p. 318 ss.). Per lo storicismo tedesco la storia è l’opera degli uomini e dei loro rapporti, è una caratteristica dell’esistenza umana. Un secondo, importante obiettivo polemico è l’interpretazione positivistica della storia che viene ritenuta altrettanto metafisica, cioè la concezione della storia e delle discipline storico-sociali di Comte e di John Stuart Mill. In questa prospettiva, seppure accogliendo l’esigenza di ricerca empirica – ovvero svolta sui reali eventi storici – promossa dal positivismo, lo storicismo tedesco rifiuta l’assimilazione della ricerca storica, e in generale dell’indagine sul mondo umano e sociale, al modello delle scienze della natura. Esse costituiscono invece, per la mentalità positivistica, un modello metodologico che deve o dovrebbe essere «raggiunto» anche dalle altre discipline. Vediamo però anche le fonti di ispirazione dello storicismo. Un ruolo importante nel suo sviluppo è giocato dal neocriticismo, e comunque dal richiamo a Kant, non solo perché filosofi neokantiani come Windelband e Rickert intervengono nella discussione, ma anche perché la domanda fondamentale dello storicismo tedesco riguarda le condizioni di possibilità della conoscenza storica e delle discipline storico-sociali: l’intento è l’estensione della critica kantiana agli ambiti che Kant aveva lasciato sullo sfondo, per arrivare a una critica della ragione che non sia critica della ragione pura ma critica della ra-

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gione storica. Kant resta, quindi, un punto di riferimento fondamentale, ma l’oggetto dell’indagine non è più il soggetto trascendentale, la struttura conoscitiva pura dell’uomo in generale, bensì l’uomo storico. L’autonomia Un secondo punto di riferimento è costituito dal notevole sviluppo della ricerca della ricerca storica storica che si ha in Germania nel corso del XIX secolo. Prima Leopold von Ranke (1795-1886), poi Johann Gustav Droysen (1808-1884), con il suo Sommario di istorica (1858), si contrappongono alla filosofia della storia idealistica e alla cultura positivistica rivendicando la concretezza e l’autonomia della ricerca storica. Droysen sostiene che la conoscenza storica si distingue dalla conoscenza della natura poiché i fenomeni del mondo umano, storico e sociale, sono fenomeni con i quali abbiamo familiarità e che siamo in grado di comprendere (verstehen) proprio perché sono fenomeni umani, mentre possiamo dare soltanto una spiegazione (Erklärung) esterna del mondo della natura. Sono questi i tratti fondamentali che preannunciano i caratteri essenziali della distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito. Lo storicismo tedesco

2

Storicismo

Critica della filosofia idealistica della storia

Critica del positivismo

La storia non è la realizzazione di uno spirito universale, ma è un prodotto dell’uomo

L’indagine storico-sociale non è assimilabile al modello di indagine delle scienze naturali

Dilthey

La vita e le opere Wilhelm Dilthey nacque a Biebrich, in Renania, nel 1833, da una famiglia di religione calvinista. Fece studi di teologia, filosofia e storia presso l’università di Berlino, dove divenne docente di filosofia nel 1865. Nel 1867 ottenne una cattedra all’università di Basilea e l’anno seguente a Kiel. Fece poi un lungo viaggio in Italia, soprattutto per superare una grave forma di depressione. Nel 1870 apparve la biografia La vita di Schleiermacher. L’anno successivo divenne docente all’università di Breslavia. Nel 1882 fu nuovamente chiamato a insegnare all’uniLe scienze dello spirito e il loro oggetto

versità di Berlino, dove succedette a Hermann Lotze nella cattedra che questi aveva tenuto per un solo anno. Nel 1883 apparve la sua prima grande opera, Introduzione alle scienze dello spirito. Eletto membro dell’Accademia prussiana delle scienze, promosse gli studi di storia della filosofia e della cultura e, in particolare, l’edizione accademica delle opere di Kant. Nel 1894 fu pubblicata l’opera Idee per una psicologia descrittiva. Tra il 1905 e il 1906 apparve la sua seconda biografia, Storia della giovinezza di Hegel. Del 1907 è il saggio L’essenza della filosofia. Tre anni dopo, nel 1910, uscì La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito. Dilthey morì a Siusi (Bolzano) nel 1911.

Per «scienze dello spirito» Wilhelm Dilthey intende, come si è già accennato, l’insieme delle discipline che si occupano del mondo umano e del suo sviluppo storico. La distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito ha il suo punto di partenza nella distinzione dei rispettivi oggetti. 249

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il mondo umano non coincide con la natura

T4

Il mondo spirituale come mondo della libertà

W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, 1,2

Della natura e del mondo umano abbiamo esperienze diverse

T5

L’importanza dell’esperienza interna

W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, 1,9

La psicologia come fondamento delle scienze dello spirito

250

In questo senso, Dilthey riprende, traducendola nel suo apparato teorico, la distinzione kantiana tra natura e libertà: il mondo spirituale, infatti, al contrario del mondo naturale che è dominato dalla necessità, è legato all’autocoscienza umana ed è caratterizzato dalla libertà. L’uomo è certo inserito anche nella natura, ma il mondo umano non si esaurisce in essa: laddove nella natura i mutamenti avvengono in modo meccanico, secondo leggi necessarie, e nulla si crea dal nulla, grazie alla propria volontà gli esseri umani sono in grado di produrre cambiamenti nel mondo e di progredire. Ancor prima di procedere a indagini sull’origine del mondo spirituale, l’uomo trova in questa autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni, una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto nella libertà della sua persona, mediante cui si distingue da tutta la natura. Egli si ritrova infatti, in questa natura – per impiegare un’espressione spinoziana – come un imperium in imperio. E poiché per lui esiste solamente ciò che è fatto della sua coscienza, ogni valore e ogni scopo della vita risiede in questo mondo spirituale che agisce in lui in maniera autonoma, e ogni fine delle sue azioni risiede nella costruzione di fatti spirituali. Così egli distingue dal regno della natura un regno della storia, nel quale – in mezzo alla connessione di una necessità oggettiva, che costituisce la natura – la libertà emerge in innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico dei mutamenti naturali, il quale contiene già dall’inizio tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro sacrifici, del cui significato l’individuo è consapevole nella propria esperienza; essi suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia nell’umanità. Ma scienze della natura e scienze dello spirito si distinguono anche per una diversa esperienza che caratterizza la nostra relazione con essi. Dilthey riprende i suggerimenti di Droysen, e mostra il diverso rapporto che abbiamo con la natura e con il mondo umano, sociale e storico. L’esperienza che noi facciamo della natura è infatti un’esperienza esterna, mediata dalle ipotesi e dalle verifiche sperimentali (Erfahrung), mentre per quanto riguarda il mondo umano abbiamo un’esperienza interna, vissuta (lo Erlebnis), che ci mette in un rapporto diretto con il fenomeno del mondo umano perché siamo in grado di riprodurlo con la nostra introspezione psicologica. I fatti della società ci sono comprensibili dall’interno, possiamo riprodurli fino a un certo punto in noi sulla base dell’osservazione dei nostri propri stati, e accompagniamo intuitivamente la rappresentazione del mondo storico con l’amore e l’odio, con tutto il gioco dei nostri affetti. Invece la natura è per noi muta. Soltanto la forza della nostra immaginazione diffonde su di essa un barlume di vita e di interiorità […] la natura ci è straniera. Infatti essa è per noi soltanto qualcosa di esterno, non di interno. La società è il nostro mondo. Grazie alla centralità dell’esperienza interna e dell’introspezione, un ruolo fondativo per le scienze dello spirito viene quindi assunto per Dilthey dalla psicologia, anche se si tratta di una psicologia «descrittiva» ben diversa dalla psicologia sperimentale che andava nascendo in Germania negli stessi anni e che ha come modello la scienza sperimentale della natura (vedi Unità 3, p. 121).

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

La psicologia diltheyana va nella direzione contraria: si tratta piuttosto di un’analisi filosofica della struttura psichica. Ancora una volta sulla scia di Droysen, infatti, Dilthey fa una distinzione tra l’atteggiamento verso le scienze della natura e verso le scienze dello spirito riprendendo quella tra lo spiegare e l’intendere o il comprendere: noi spieghiamo la natura attraverso leggi causali, mentre comprendiamo la vita psichica attraverso la riproduzione di essa in noi stessi. Natura e mondo umano nel pensiero di Dilthey

L’individuo è al centro della storia

Interpretazione dei segni esterni dell’interiorità

Storicità del mondo umano e relatività dei valori

Mondo naturale

Mondo umano

È dominato dalla necessità

È caratterizzato dalla libertà

Abbiamo di esso un’esperienza esterna, perché non possiamo riprodurlo

Abbiamo di esso un’esperienza interna, perché possiamo riprodurlo attraverso l’introspezione

Possiamo spiegarlo, ma non comprenderlo

Possiamo comprenderlo

L’indagine sulla struttura del mondo umano distingue l’individuo dai sistemi di cultura, come arte, religione e filosofia, e dalle forme di organizzazione sociale come i gruppi sociali, la società, la Chiesa e lo Stato. L’individuo resta l’elemento fondamentale della storia umana, e di esso si occupano la psicologia, l’antropologia e, tema estremamente significativo per Dilthey, la biografia: Dilthey stesso, infatti, è l’autore di due biografie di grandi personaggi della storia della filosofia, Schleiermacher (con La vita di Schleiermacher) e Hegel (Storia della giovinezza di Hegel). Anche sulla base delle critiche ricevute, tra gli altri, da Windelband, Dilthey nel corso del tempo attenua il carattere fondativo e centrale della psicologia, sviluppando piuttosto l’importanza della comprensione dei prodotti della vita psichica, come il linguaggio, l’arte e la letteratura, che costituiscono formazioni costanti e durevoli e possono essere oggetto dell’indagine storica. La comprensione e l’interpretazione finiscono per assumere una sempre maggiore importanza rispetto allo Erlebnis, all’esperienza vissuta come riproduzione dell’esperienza interiore. Richiamando Schleiermacher, Dilthey sviluppa la sua riflessione nella direzione di una scienza dell’interpretazione o ermeneutica delle opere umane che consiste nella conoscenza della struttura psichica attraverso i segni che la manifestano, in particolare attraverso i documenti scritti: è in questi ultimi, infatti, che l’interiorità dell’uomo è resa accessibile e comunicabile. La specificità delle scienze dello spirito consiste nell’indagine su «segni» esterni che, al contrario di quanto avviene nelle scienze della natura, sono in rapporto con qualcosa di interiore. Coerentemente con la sua polemica verso la filosofia della storia, Dilthey rifiuta la possibilità di conoscere il complesso della realtà storica e sociale, e in particolare rifiuta la possibilità di conoscere un significato della storia: questo è stato piuttosto il tentativo delle diverse versioni della filosofia della storia, che in ciò è l’erede della teologia poiché proietta sulla storia le proprie teorie metafisiche. La concretezza della propria impostazione viene invece rivendicata da Dilthey mediante il legame tra la storia e la vita: la storia, infatti, è l’oggettivazione della vita, e la conoscenza delle scienze dello spirito è sempre riconducibile alla vita di 251

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

una determinata epoca storica, che esprime i propri valori e i propri ideali. In questa radicale storicità del mondo umano non c’è spazio per valori assoluti, ma solo per valori storici: lo storicismo di Dilthey è quindi uno storicismo relativistico. Filosofie come Questo relativismo coinvolge anche la filosofia, come viene mostrato da Dilthey «intuizioni del mondo» nel saggio L’essenza della filosofia (1907). Le filosofie che storicamente si succedono l’una dopo l’altra esprimono ciascuna diverse intuizioni del mondo (Weltanschauungen), né si può dare alcuna «validità universale di qualsiasi filosofia» che pretenda di sottrarsi alla storicità del mondo umano e delle sue produzioni. Il rifiuto di ogni forma di astrazione è un elemento costante dello storicismo di Dilthey, come costante è il rilievo dato alla dimensione dell’interiorità: possiamo comprendere il mondo umano, ma non la natura, perché solo il primo è un oggetto possibile di esperienza interna attraverso l’introspezione. Di qui l’importanza che Dilthey attribuisce dapprima all’analisi della psiche e, successivamente, all’interpretazione dei segni che l’interiorità dell’uomo lascia di sé nel mondo. La conoscenza delle scienze dello spirito non è astratta, ma legata alle diverse epoche storiche, ciascuna delle quali ha i propri valori.

3

La vita come principio metafisico

I due principi della filosofia di Simmel

Conflitto tra vita e forme della cultura

252

Simmel e la filosofia della vita La riflessione storicistica di Dilthey verrà proseguita da Ernst Troeltsch (18651923) e da Friedrich Meinecke (1862-1954), autore, quest’ultimo, di un’opera su La nascita dello storicismo (1936) che vede la nascita dello storicismo, in un senso molto ampio, nella crisi del giusnaturalismo moderno e nella filosofia di Herder e di Goethe, attenti entrambi alla dimensione dell’individualità degli eventi storici. All’inizio del Novecento ha una grande diffusione in Germania una corrente filosofica che mette al centro dell’indagine la nozione di «vita» come forma fondamentale di energia che costituisce la realtà, ossia come principio metafisico. Se una fonte di ispirazione è la filosofia di Dilthey, è soprattutto a Nietzsche che bisogna guardare per trovare il maggiore ispiratore della cosiddetta «filosofia della vita», il cui rappresentante più significativo è Georg Simmel (1858-1918) (che è anche tra i fondatori della sociologia in Germania). Simmel muove dall’adesione al positivismo evoluzionistico per passare poi a posizioni vicine a Rickert e a Dilthey, ma nell’ultima fase della sua produzione intellettuale (L’evoluzione della vita, 1918) elabora una vera e propria filosofia della vita fondata sul principio che «la vita vuole sempre più vita» e su quello per cui «la vita è sempre più che vita»: il primo è il principio per cui la vita crea continuamente forme di cultura concrete e particolari e continuamente le trascende creandone di nuove; il secondo è il principio per cui ciascuna di queste forme tende a fissarsi in strutture permanenti opponendosi, così, al fluire della vita stessa. Le modificazioni storiche sono per Simmel date dal rapporto problematico che sussiste tra la vita e le forme della cultura che storicamente si realizzano, poiché, lo si è appena detto, la vita tende continuamente al superamento di quelle forme storiche alle quali essa stessa nel suo perenne rinnovarsi ha dato luogo. In questo contrasto tra la vita come principio metafisico e le forme della cultura consiste anche la «tragedia della cultura», ovvero l’inevitabile sconfitta alla quale le forme della cultura sono condannate nel loro tentativo di conservarsi e nel loro conflitto con la vita.

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

Spengler

La civilizzazione è il tramonto della cultura

➥ Sommario, p. 266

Si deve infine ricordare che una certo eco ha avuto, nella filosofia successiva, anche la riflessione simmeliana sulla morte come forma della vita perché è proprio la morte ciò che caratterizza e identifica l’individualità concreta: solo ciò che è individuale, e quindi unico, può perire. Una modesta espressione della filosofia della vita può essere considerata anche la riflessione – per alcuni suggestiva – di Oswald Spengler (1880-1936), autore di un libro di enorme successo intitolato Il tramonto dell’occidente, apparso tra il 1918 e il 1922. Sotto l’evidente influsso della crisi indotta dal primo conflitto mondiale, Spengler vede nella storia il mondo della vita che crea continuamente nuove forme e nel quale ogni cultura (Kultur, l’elemento basilare della storia), analogamente agli organismi, nasce, si sviluppa e muore secondo un ritmo immutabile. Per ciascuna cultura lo stadio più avanzato è quello della civilizzazione (Zivilisation), che segna anche però il tramonto della medesima cultura, ciò che, per Spengler, è quello che sta accadendo in Occidente, come dimostra l’emergere degli ideali della democrazia e del socialismo – rifiutati da Spengler – e la crisi della religione, l’elemento essenziale di ogni civiltà.

Bergson

4 I testi

H. Bergson Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903: Dalla fisica alla psicologia, T6 Saggio sui dati immediati della coscienza: L’orologio e la durata, T7; La libertà, T8

1 Introspezione come mezzo per conoscere la realtà

Introduzione alla metafisica: Lo spirito ha bisogno di stabilità, T9 Le due fonti della morale e della religione: Morale chiusa e morale assoluta, T10

Lo spiritualismo francese dell’Ottocento In polemica verso il diffondersi della cultura positivistica, nella filosofia francese dell’Ottocento è ben presente un filone spiritualistico che ha tra i suoi tratti caratterizzanti proprio un atteggiamento critico verso il primato delle scienze matematiche e naturali. Con qualche analogia con la riflessione che si va sviluppando anche in Germania, al centro dell’orizzonte lo spiritualismo vede la psicologia, intesa però anche in questo caso non come la disciplina sperimentale modellata sulle scienze della natura, bensì come uso dell’introspezione in quanto strumento privilegiato per 253

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sondare la coscienza e l’interiorità dell’uomo e per accedere in questo modo alla comprensione della realtà. Lo studio dell’interiorità e dello spirito dell’uomo diventano infatti, in questa prospettiva, il mezzo migliore per accedere alla conoscenza della realtà nel suo complesso. I processi spirituali visti attraverso un’attenzione specifica per la coscienza dell’uomo sono l’oggetto centrale del pensiero di François-Pierre Maine de Biran (1766-1824) e, successivamente, di Felix Ravaisson (1813-1900). Limiti delle scienze I filosofi spiritualisti affermano il carattere limitato del sapere scientifico e la sua naturali incapacità di cogliere l’essenza genuina dei processi spirituali, contestando dunque qualunque ruolo di guida per la scienza naturale. La loro attitudine nei confronti della scienza è un’attitudine polemica che non si preoccupa di investigare la natura delle teorie scientifiche, ma rimane, nella gran parte dei casi, completamente esterna ad esse. Boutroux Una prima eccezione in questo senso è costituita da Émile Boutroux (1845-1921) che, mantenendo un atteggiamento polemico verso il sapere scientifico, ne analizza alcune tesi attaccando il determinismo della fisica (ossia l’assunzione che tra tutti i fenomeni ci sia un rapporto necessario di causa ed effetto) e contrapponendo ad esso la difesa della specificità del mondo dello spirito, che inserisce nell’ordine necessario della natura la libertà dell’uomo. Ma il pensatore veramente significativo che rappresenta l’esito di questa tradizione è Henri Bergson.

La vita e le opere Henri-Louis Bergson nacque a Parigi nel 1859 da una famiglia di religione ebraica e di origine polacca. Dopo aver concluso gli studi liceali, nel 1878 si iscrisse alla École normale supérieure e si laureò in lettere e matematica. Nel 1881 iniziò a insegnare nei licei, prima ad Angers e, in seguito, a Clermond-Ferrand; nel 1888 si trasferì a Parigi. Nel 1889 fu pubblicata la sua prima grande opera, il Saggio sui dati immediati della coscienza, che aveva presentato alla Sorbona come tesi per conseguire il dottorato in lettere. Due anni dopo sposò Louise Neuburger, una cugina di Marcel Proust. Nel 1896 uscì Materia e memoria. Nel 1900 divenne docente di filosofia greca al Collège de France; il suo insegnamento ebbe un notevole successo, ma l’ostilità dell’ambiente accademico tradizionale gli impedì di accedere alla Sorbona. Nel 1901 apparve il saggio Il riso. Nel 1903 uscì l’Introduzione alla metafisica; ad essa seguì, nel 1907, L’evoluzione creatrice, che ebbe una larga diffusione e dette a Bergson una considerevole fama internazionale. Nel 1911 uscì L’intuizione filosofica. Tre anni dopo, nel

2 Il confronto con la scienza

254

1914, Bergson venne eletto presidente dell’Académie des sciences morales et politiques e fu nominato membro dell’Académie française. Contemporaneamente, le sue opere furono messe all’Indice dalla Chiesa cattolica. Nel 1919 fu pubblicata la raccolta di saggi L’energia spirituale; ad essa seguì, nel 1922, un altro volume di saggi, Durata e simultaneità, sulla teoria della relatività speciale di Einstein. Nel 1928 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura; due anni dopo fu nominato Gran Croce della Legion d’onore. Pur essendo costretto dall’aggravarsi delle condizioni fisiche a rinunciare a molti dei suoi incarichi, nel 1932 Bergson pubblicò Le due fonti della morale e della religione e, nel 1934, Il pensiero e il movente. Negli ultimi anni della sua vita si avvicinò al cattolicesimo; evitò tuttavia una conversione ufficiale per il timore, espresso nel suo testamento spirituale, che il proprio prestigio potesse avallare l’antisemitismo che si andava diffondendo in Europa. Poco prima della morte rifiutò l’esonero, concessogli dalle autorità naziste, dal presentarsi agli uffici di polizia per essere schedato. Morì a Parigi nel 1941.

Tra scienza e metafisica L’itinerario filosofico di Henri Bergson è intessuto di un costante confronto con la scienza e di un profondo interesse per il problema di un metodo rigoroso in filosofia, come testimonia anche l’attenzione che pone alla redazione e alla pubblicazione dei suoi non molti scritti, insieme con la preoccupazione che qualcu-

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

Oggettività della filosofia

La filosofia come scienza

Un nuovo modello di scienza: la biologia

L’essere è divenire

Ambivalenza nei confronti del pensiero scientifico

La dimensione della temporalità

no pubblicasse dopo la sua morte testi inediti non pienamente compiuti anche dal punto di vista della costruzione formale. La filosofia ha per Bergson una metodologia determinata e deve fondarsi sull’esperienza, tanto esterna quanto interiore. Essa è una sorta, come dirà una volta, di «vero» empirismo: la filosofia, per questo, è in grado di giungere a un grado di oggettività paragonabile a quello delle scienze, e deve sempre rifuggire dal presentare la semplice opinione personale dell’autore. Come le ipotesi scientifiche per lo scienziato non sono semplici supposizioni, così la filosofia non è un percorso legato alle esperienze personali di un soggetto, al contrario: la filosofia è scienza. In questo la posizione di Bergson non si distanzia da quella di Cartesio; la differenza consiste nella diversa idea di che cosa significhi «scienza», e di quali siano le scienze utilizzate come modello. Per Cartesio si trattava della matematica: è l’evidenza di tipo matematico che costituisce il criterio della verità della conoscenza, così nella scienza come nella metafisica. Bergson è consapevole di quanto la filosofia cartesiana sia stata condizionata da questa immagine della scienza, né ritiene che questa prospettiva sia criticabile in quanto tale: la matematica costituisce il modello del sapere scientifico fino all’inizio dell’Ottocento. Ma questo secolo vede lo sviluppo di scienze del tutto nuove che sono le scienze biologiche, ovvero le scienze della vita. In questo senso, si è scritto che con la filosofia di Bergson si ha la fine dell’era cartesiana. Una grande attrattiva viene esercitata su Bergson dalla filosofia di Spencer (vedi Unità 3, p. 114 ss.) proprio per il suo stretto rapporto con la maggiore novità delle scienze biologiche del XIX secolo: l’evoluzionismo. Inizialmente Spencer sembra a Bergson rappresentare nel modo più adeguato il nuovo stato delle scienze e la nuova importanza delle scienze biologiche. Spencer sembra infatti aver capito che la natura più profonda della realtà è l’identità nel cambiamento, il divenire come caratteristica essenziale. L’immagine della tradizione filosofica fin dai greci, per cui si tratta di cogliere l’unità immutabile dell’essere al di là di una – soltanto apparente – mutevolezza, va radicalmente rovesciata: si deve rinunciare al pregiudizio dell’essere immobile e atemporale per cogliere invece la continuità del mutamento come tratto essenziale dell’essere. La stessa idea dell’evoluzione presuppone una dimensione temporale continua, priva di fratture: la biologia insegna che l’essere è soprattutto divenire. Ma è proprio in questa ricerca che Spencer non ha saputo spingersi abbastanza avanti ed è rimasto irretito in una dimensione ancora dominata dalle scienze fisico-matematiche. Il confronto di Bergson con il pensiero scientifico è quindi in sostanza ambivalente: da un lato, egli critica le scienze fisico-matematiche come modello di sapere scientifico; dall’altro, utilizza ampiamente il modello della vita biologica che proprio il suo obiettivo polemico privilegiato, il positivismo, aveva messo al centro dell’attenzione con l’adesione alle tesi evoluzionistiche. Mentre le scienze fisico-matematiche sono costruite su una base quantitativa, proprio per la loro dipendenza dalla matematica, le scienze biologiche danno il modo di conservare importanza agli aspetti qualitativi, non matematicamente misurabili dell’esperienza. Il tentativo di separare la riflessione filosofica dai modelli fisico-matematici, che ha al suo centro la temporalità, e la consapevolezza dell’insufficienza di essi nello spiegarla conducono Bergson a dare uno spazio centrale alla psicologia e a co255

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struire, sulla base di questa, una filosofia della natura e una metafisica a suo parere innovativa rispetto alla tradizione proprio perché, utilizzando l’indagine sulla psiche umana, estende questo modello alla realtà e riesce a dare conto del suo costante divenire. Una critica Sia su questo piano sia sul piano delle teorie morali e della religione, il risultadel razionalismo to di questa operazione è una critica del razionalismo «intellettualistico» della «intellettualistico» tradizione occidentale e la proposta di andare al di là esso. Bergson ritiene però, in questo modo, di essere rimasto fedele al suo intento metodologico di spiegare l’esperienza.

3

Il tempo e la durata

Per comprendere la natura del tempo occorre l’introspezione

Nel 1903, spiegando la genesi del suo primo libro, Il saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson ricorda in una lettera allo scrittore italiano Giovanni Papini (1881-1956) come sia stato indotto all’interesse per la psicologia dallo studio delle teorie scientifiche. Il suo interesse originario era piuttosto lo studio della scienza, ma la fondamentale idea della durata, che costituisce la caratteristica essenziale della temporalità intesa come continuum (come flusso continuo di istanti che si compenetrano l’uno nell’altro), risulta completamente assente dall’indagine fisico-matematica. In questo senso, le discipline fisico-matematiche si rivelano del tutto insufficienti (poiché considerano il tempo un insieme di istanti separati l’uno dall’altro) e spingono a cercare altrove, cioè nella introspezione della coscienza, la risposta sulla natura del tempo.

T6

In realtà, la metafisica ed anche la psicologia mi attraevano molto meno delle ricerche relative alla teoria delle scienze, soprattutto alla teoria delle matematiche. Mi ero proposto, per la mia tesi di dottorato, di studiare i concetti fondamentali della meccanica. È così che fui indotto ad occuparmi dell’idea di tempo. Mi accorsi, non senza sorpresa, che in meccanica e in fisica non si tratta mai della durata propriamente detta, e che il «tempo» di cui si tratta è tutt’altra cosa. Mi chiesi allora dove fosse la durata reale, e in che cosa potesse consistere, e perché la nostra matematica non avesse presa su di essa. È così che fui gradualmente condotto dal punto di vista matematico e meccanicistico, in cui mi ero dapprima posto, al punto di vista psicologico. Da queste riflessioni è nato il Saggio sui dati immediati della coscienza, in cui ho cercato di praticare un’introspezione assolutamente diretta e di cogliere la pura durata.

Dalla fisica alla psicologia H. Bergson, Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903

Questa rievocazione da parte di Bergson del proprio esordio pubblico si trova anche altrove: il punto di partenza della sua indagine è la scienza, non la psicologia, ma egli viene spinto verso la psicologia dalle insufficienze delle possibilità di spiegazione della scienza fisico-matematica. È quindi la presa di coscienza di questa insufficienza che spinge Bergson alla ricerca psicologica e poi, attraverso la trasfigurazione dell’evoluzionismo, a una metafisica dai tratti peculiari. Tempo vissuto Per individuare la durata e chiarirne la nozione, l’unico mezzo è l’introspezione, e tempo misurabile è la riconquista della coscienza da parte di se stessa, mettendo da parte i propri pregiudizi, a partire da quelli che provengono dalla cultura scientifica, ma non 256

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Caratteri delle due concezioni del tempo

C’è durata se c’è una coscienza

solo: anche il senso comune soggiace a queste illusioni e ha gli stessi pregiudizi. Così si riesce a chiarire che l’unico modo per individuare la durata è fare riferimento al tempo vissuto della coscienza (ossia al tempo reale), che è diverso dal tempo della scienza, dal tempo dell’astronomia che si esaurisce in un’analisi matematica, quantitativa. Nella prospettiva della scienza e del senso comune il tempo è fatto di istanti distinti tra loro. Esso è, inoltre, reversibile, perché è possibile ripetere indefinitamente un esperimento scientifico. La reale natura del tempo consiste invece nella durata e nella continuità, non nel tempo misurabile di un orologio o di un pendolo che consiste nel contare diverse simultaneità. I diversi momenti sono separabili solo arbitrariamente. E il tempo della coscienza non è reversibile: ogni momento è diverso dall’altro ed è irripetibile. La successione come durata si dà soltanto all’interno della coscienza, non nei singoli istanti separati, per così dire estranei l’uno all’altro, scanditi dalla posizione delle lancette dell’orologio: ciascuna posizione è soltanto presente, e in essa non vi è né un passato né un futuro. La durata sta soltanto nell’io che pensa la successione, che la rappresenta come un flusso continuo all’interno della propria coscienza, dove è unicamente possibile cogliere la durata. La durata è infatti un insieme di istanti compenetrati l’uno nell’altro; può esserci durata solo se c’è una coscienza che collega tra loro i singoli istanti.

T7

Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento della lancetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, non misuro la durata, come potrebbe sembrare; mi limito invece a contare delle simultaneità, cosa molto diversa. Al di fuori di me, nello spazio, vi è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, in quanto non resta nulla delle posizioni passate. Dentro di me, si svolge un processo di organizzazione o di mutua compenetrazione dei fatti di coscienza, che costituisce la vera durata. Mi rappresento ciò che io chiamo le oscillazioni passate del pendolo, nello stesso tempo in cui io percepisco l’oscillazione attuale, proprio perché io duro in questo modo. Sopprimiamo ora, per un istante, l’io che pensa queste cosiddette oscillazioni successive; avremo sempre una sola oscillazione del pendolo, anzi una sola posizione di questo pendolo, e quindi nessuna durata. Sopprimiamo, d’altra parte, il pendolo e le sue oscillazioni; avremo solo la durata eterogenea dell’io, senza momenti esterni gli uni agli altri, senza rapporti con il numero. Così, nel nostro io, vi è successione senza esteriorità reciproca; al di fuori dell’io, esteriorità reciproca senza successione: esteriorità reciproca, in quanto l’oscillazione presente è radicalmente distinta dalla oscillazione precedente che non è più; ma assenza di successione, in quanto la successione esiste solo per uno spettatore cosciente che ricordi il passato e giustapponga le due oscillazioni e i loro simboli in uno spazio ausiliario.

L’equivoco sulla natura del tempo

Il problema è allora spiegare in base a quale fraintendimento la scienza e la percezione comune hanno inteso il tempo come un fenomeno quantitativo e discreto – cioè scomponibile in parti distinte e misurabili – invece che come durata. Questo equivoco è per Bergson un equivoco antico che si fonda sulla scomposizione del tempo in istanti separati come se fossero diversi fotogrammi di una pellicola cinematografica, ovvero come diversi elementi nello spazio. Nella scienza fisica e nel pensiero comune il tempo viene infatti immaginato e pensato in analogia allo spazio. Se il tempo viene pensato in questo modo, il risultato è che es-

L’orologio e la durata

H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, 2

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so risulta un insieme omogeneo, discreto e misurabile come lo spazio, che appunto è omogeneo: ma questo è un errore, perché la natura del tempo consiste nella sua eterogeneità non misurabile e nella durata come continuità. Il tempo come durata è un flusso continuo in cui i diversi istanti si compenetrano, non la somma dei singoli istanti. Due modi di concepire il tempo

Tempo

Somma di istanti

Successione come durata

Tempo della scienza e del senso comune

Tempo della coscienza

– Omogeneo – Scomponibile in istanti separati l’uno dall’altro – Misurabile – Reversibile

I concetti sono inadeguati per comprendere la coscienza

La coscienza sfugge al principio di causalità

Una nuova concezione della libertà

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– – – –

Eterogeneo Non scomponibile in singoli istanti Non misurabile Irreversibile

L’analisi di Bergson finisce per colpire tutto il linguaggio «concettuale» mettendone in luce i limiti: il linguaggio della scienza e in generale il linguaggio dei concetti si fonda infatti sulla distinzione, e mentre questa è possibile e facile nel caso dello spazio e della matematica non è per nulla agevole quando si affrontano i fenomeni della coscienza, che non sono riducibili a un modello quantitativo. La coscienza non può quindi essere compresa adeguatamente attraverso i concetti, e l’analisi della coscienza ha bisogno di una considerazione particolarmente attenta, che non si fondi sulla concatenazione dei concetti ma su una intuizione, un tema che Bergson svilupperà negli anni successivi al saggio del 1889. L’intuizione ci permette di cogliere direttamente le cose, al contrario dell’analisi concettuale, che rimane esterna ad esse. La differenza tra intuizione e analisi mediante concetti è analoga a quella che c’è tra la conoscenza che si ha di una città vivendoci e la conoscenza che possiamo averne osservando le fotografie che la ritraggono. Estrapolare la riflessione sulla coscienza dalle scienze fisiche significa per Bergson non sottoporla ai concetti della scienza, ivi incluso il fondamentale principio della causalità: il dinamismo della coscienza che consiste nella durata la sottrae alla causalità meccanica per cui a una causa segue sempre un effetto. È questa la tesi del determinismo, che vorrebbe inserire la coscienza, e quindi la volontà e il comportamento umano, all’interno della serie infinita delle cause e degli effetti. Ciò significa però mettere in pericolo, e forse negare, la possibilità stessa di parlare di una libertà dell’uomo. Anche in questo caso, l’errore sta nei presupposti di questo ragionamento, così come è un errore pensare la libertà semplicemente come libertà di scelta tra diverse alternative. Sulla base della sua analisi della coscienza, Bergson intende invece dare una nuova impostazione al problema della libertà. La relazione tra il soggetto che compie liberamente un atto e l’atto stesso non corrisponde a un rapporto causa-

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➥ Laboratorio sul lessico, Libertà, p. 341

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La libertà

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Io profondo e io superficiale

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le: in realtà, l’azione libera è quella che esprime tutto l’essere del soggetto che compie l’azione, e la libertà consiste proprio nel rapporto «tra l’io concreto e l’atto che compie». L’idea della libertà non è traducibile nel linguaggio della causalità meccanica. L’atto libero è quello che proviene dalla nostra intera personalità, quello cioè in cui essa si realizza, sulla base di un complesso dinamismo psichico. Tra la personalità, ossia il carattere, e gli atti liberi non c’è un rapporto causale: gli atti liberi non sono l’effetto del carattere dell’individuo che li compie, ma ne sono l’espressione. […] in tutti i momenti della deliberazione l’io si modifica, modificando pure, di conseguenza, i […] sentimenti che lo agitano. Si forma così una serie dinamica di stati che si compenetrano, si rinforzano gli uni con gli altri, e che, attraverso una evoluzione naturale, perverranno a un atto libero. […] In breve, siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra intera personalità, quando la esprimono, quando con essa hanno quell’indefinibile somiglianza che talvolta si riscontra tra l’opera e l’artista. Sarà inutile dire che allora noi cediamo all’influenza onnipotente del nostro carattere. Perché il nostro carattere siamo ancora noi. L’atto libero è quindi un atto in cui trova espressione la nostra intera personalità. Bergson è però consapevole che ciò avviene solo quando ad agire è il nostro io profondo, la nostra genuina interiorità (ossia la compenetrazione e organizzazione delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che abbiamo): molti nostri atti vengono determinati dal nostro io superficiale, legato e condizionato dalle convenzioni sociali e dall’educazione ricevuta.

Percezione e memoria

La coscienza è un tema centrale della filosofia di Bergson ed è allo stesso tempo ciò rispetto al quale abbiamo un accesso privilegiato di conoscenza: è lo spirito, e non il corpo, l’elemento di noi stessi che è più facile da conoscere, poiché ne abbiamo una conoscenza diretta. Anzi, noi possiamo avere accesso alla conoscenza del corpo soltanto grazie allo spirito, e in particolare grazie alla memoria. Bergson rifiuta, però, una contrapposizione netta tra spirito e corpo. La relazione strettissima tra i due ambiti passa attraverso le nozioni di «percezione» e di «memoria». La materia è data dalla totalità delle immagini (definite, da Bergson, esistenze che si trovano a metà strada tra le cose e le rappresentazioni mentali di esse), che sono sempre presenti in modo parziale allo spirito attraverso l’indispensabile mediazione del corpo, e il corpo costituisce la nostra immagine «centrale»: il modo in cui noi percepiamo il mondo esterno è infatti sempre condizionato da questa relazione con il corpo, anche se è la memoria, e quindi lo spirito, il vero perno dell’argomentazione di Bergson. La percezione dipende La percezione, infatti, non è una dimensione originaria, ma derivata dalla medalla memoria moria, al contrario di quanto hanno ritenuto gli empiristi, per i quali la memoria è una sorta di residuo, meno intenso della percezione: «non c’è percezione» scrive Bergson «che non sia impregnata di ricordi». In realtà, la nostra possibilità di percepire in modo significativo è legata alla nostra capacità di ricordare, ovvero Rapporto tra spirito e corpo

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alla capacità di mettere in connessione i singoli dati percettivi, che in sé risulterebbero privi di senso, con altri dati che sono depositati, in gran parte in modo inconscio, nella nostra coscienza: comprendere un segno o una parola o un’immagine è possibile soltanto se questa viene interpretata sulla base di ciò che utilizziamo grazie alla memoria, ma senza il quale questa comprensione sarebbe impossibile. L’influenza su Proust Le complesse analisi bergsoniane della memoria e dei suoi rapporti con la percezione contenute in Materia e memoria, tra l’altro, acquisiranno una particolare importanza anche al di fuori dell’ambito strettamente filosofico: è anche all’influenza delle teorie di Bergson, infatti, che è dovuto uno dei grandi capolavori della letteratura del Novecento, fondato proprio sull’esperienza soggettiva della memoria, e cioè Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (1871-1922), pubblicato tra il 1913 e il 1927 (gli ultimi tre volumi uscirono postumi).

La memoria in Proust Le riflessioni di Bergson sulla natura del tempo e sulla memoria hanno avuto un’influenza notevole non solo sulla filosofia, ma anche sull’arte e sulla letteratura. Anche se non si può parlare di influenza nel caso di Marcel Proust, che dichiara la propria indipendenza intellettuale da Bergson, ci sono tuttavia numerose affinità tra lo scrittore e il filosofo. Ne è una prova Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro di Proust, che a Parigi aveva seguito le lezioni di Bergson. La Ricerca è un affresco, non privo di ironia, dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, ma è anche, e soprattutto, un’analisi del mondo interiore del narratore. Il tema dell’interiorità, centrale nella filosofia di Bergson, è dominante anche nelle pagine di Proust: «il nostro fragile io» scrive «è l’unico luogo abitabile». È in esso soltanto che possiamo attingere la conoscenza della realtà: pur essendo consapevole della difficoltà di arrivare a conoscerla, perché l’essere sempre circondati da noi stessi ci impedisce di venire a contatto con essa, Proust sottolinea che l’io a cui la realtà sfugge è quello che (come Bergson) egli chiama «io superficiale», non il nostro vero io, l’«io profondo». Per giungere alla verità dobbiamo quindi volgerci al nostro mondo interiore; in esso sono depositati i ricordi, nei quali si trova il vero significato delle cose, la loro essenza: «il giardino in cui siamo vissuti da bambini non c’è bisogno di viaggiare per rivederlo, basta, per ritrovarlo, scendere al fondo di noi stessi». Per far emergere il mondo esterno che è racchiuso in noi è necessario l’aiuto della memoria: di nuovo come Bergson, Proust attribuisce ad essa un notevole valore conoscitivo. Egli distingue due tipi di memoria: quella volontaria (la «memoria dell’intelligenza») richiama all’intelligenza in modo razionale, logico, ciò che abbiamo visto o udito in passato e ci riporta, così, solo oggetti, luoghi, volti; la memoria involontaria ci riconduce invece nel passato in modo non razionale, poiché è sollecitata da sensazioni (odori, sapori, rumori) del tutto casuali e analoghe a

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quelle che abbiamo già avuto in altri momenti della nostra vita. È vano affidarsi alla sola intelligenza per rievocare il passato: soltanto la memoria involontaria può farci rivivere nel presente le sensazioni passate e, con esse, gli stati d’animo che le hanno accompagnate e le situazioni in cui le abbiamo provate. Grazie ad essa le sensazioni vengono tratte fuori dal tempo e ci viene restituita la loro autentica essenza. Questa oscillazione tra presente e passato – l’«intermittenza del cuore» – viene riprodotta con una narrazione che non segue il corso cronologico degli eventi, ma passa continuamente da un episodio (e da un ricordo) all’altro e fa ampio uso di metafore, similitudini e analogie. Lo stile narrativo di Proust contribuisce così a riprodurre il carattere dinamico della coscienza e quello che Bergson considera il tratto essenziale del tempo (vissuto), ossia la continuità. Se però Bergson sottolinea i limiti del linguaggio dei concetti e del metodo dell’analisi proprio della scienza positiva, Proust non si serve soltanto del linguaggio metaforico, ma anche di un linguaggio analitico, preciso, teso a definire e ordinare i ricordi: «quel che abbiamo provato» scrive «non sappiamo ancora che cosa sia finché non lo abbiamo accostato all’intelligenza. Solo allora, quand’essa lo ha illuminato, lo ha intellettualizzato, distinguiamo […] il volto di quel che si è sentito». Il fine dell’arte non è infatti la creazione, ma la scoperta della vera essenza delle cose, al di là della dimensione temporale. È per raggiungere questo fine – la scoperta della verità – che Proust si impegna nella «ricerca del tempo perduto»: far riemergere il passato sul presente, «ritrovare» il tempo che sembrava perduto, significa sottrarsi alla condizione mortale propria dell’uomo. E poiché il tempo passato è racchiuso nell’interiorità di ognuno, solo indagandola è possibile recuperarlo. Oggetto della Ricerca sono, è lo stesso Proust a dichiararlo, «le grandi leggi», i meccanismi che regolano i processi della vita interiore: «La grandezza dell’arte vera consiste nel ritrovare, nel riafferrare, nel farci conoscere quella realtà […] che […] è semplicemente la nostra vita».

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La conoscenza ha una funzione strumentale

La realtà non è statica

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Lo spirito ha bisogno di stabilità

H. Bergson, Introduzione alla metafisica

Conoscenza utile e stabilità del mondo La conoscenza del mondo è per Bergson sempre condizionata in qualche forma da ciò che ci è utile per le nostre funzioni vitali: la conoscenza non è quindi mai semplice e pura conoscenza. Questo tema diventa importante per Bergson, perché si collega al carattere strumentale e interessato della conoscenza del mondo esterno da parte dell’intelligenza umana: l’uomo interpreta il carattere dinamico e mobile della realtà attraverso la fissazione di oggetti statici e immobili, come fanno la scienza e il senso comune, per motivi pratici, per la necessità di agire nel mondo. Certo anche qui si tratta di una conoscenza, ma di una conoscenza limitata se non altro dal suo carattere strumentale: non si tratta di conoscenza metafisica, di conoscenza della genuina natura della realtà, ma di una sua trasfigurazione fatta ai nostri fini pratici, per i quali ci è utile «solidificare» il mondo. L’errore fatto da molti filosofi consiste nel trasferire sul piano della conoscenza metafisica questo modello di conoscenza che rappresenta stati e cose come punti fermi, invece di cogliere la continuità e la mutevolezza ininterrotta della realtà. Il modello della durata diventa per Bergson non più soltanto il modello della coscienza e della temporalità, ma quello costitutivo dell’intera realtà. Alla conoscenza intellettualistica e solidificata in cose separate della scienza si contrappone la visione metafisica di un vero evoluzionismo che vede nel reale un continuum, proprio come alla visione scientifica del tempo si contrapponeva la durata come tempo della coscienza e, quindi, come carattere essenziale della temporalità. Il nostro spirito, che cerca punti d’appoggio solidi, ha come principale funzione, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi stati e cose. Esso prende, di quando in quando, vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale. E ottiene, così, sensazioni e idee, sostituendo al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di mutamento i punti fissi che segnano una direzione del mutamento e della tendenza. Questa sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una certa misura che cercheremo di determinare, alla scienza positiva. La nostra intelligenza, quando segue la china naturale, procede per percezioni solide da un lato, e per concezioni stabili dall’altro. Ben si comprende, allora, perché l’indagine sulla psiche umana costituisca il fondamento della metafisica elaborata da Bergson: la continuità, ossia la durata, è la caratteristica essenziale della realtà così come del tempo. E la durata si dà solo nella coscienza.

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La metafisica La metafisica bergsoniana è contenuta prevalentemente nell’Introduzione alla metafisica e nell’Evoluzione creatrice, dove, infine, il percorso che ha mosso dall’insufficienza delle scienze positive, e dallo studio dell’interiorità attraverso la psicologia, diventa una vera e propria filosofia della natura che non distingue più i processi psichici e i processi naturali. 261

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Intelligenza e istinto

Per conoscere la realtà è necessaria l’intuizione

Lo slancio vitale

Una filosofia unitaria

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In entrambe le opere viene portata avanti l’opposizione tra la metafisica da un lato e il senso comune o la scienza positiva dall’altro. La scienza si serve dell’analisi, come si è visto, della scomposizione e della fissazione degli elementi, ciò che rende possibile anche l’agire pratico: per potere agire si deve innanzitutto distinguere se stessi dalle cose e distinguere le cose l’una dall’altra. L’analisi è infatti lo strumento caratteristico dell’intelligenza, che è il frutto di un processo evolutivo di adattamento e ha una funzione eminentemente pratica. L’intelligenza va distinta dall’istinto, che è comune anche agli animali e che costituisce un contatto diretto, non mediato, con ciò che è utile per la vita. La principale differenza sta in un diverso confronto con i propri fini e i propri bisogni: mentre l’istinto animale opera in modo immediato, l’intelligenza riflette, calcola e costruisce strumenti come mediazione del suo rapporto con il mondo. La realtà di cui parla l’intelligenza, e quindi la scienza, è per Bergson una semplice costruzione simbolica, incapace di cogliere la natura essenziale e profonda di essa come invece deve o dovrebbe fare la metafisica: per fare questo c’è bisogno di una sorta di sintesi tra intelligenza e istinto, un’attitudine conoscitiva che colga al tempo stesso con l’immediatezza dell’istinto e con la chiarezza dell’intelligenza. È qui che compare la necessità dell’intuizione, l’unico modo adeguato di esercizio della filosofia e della metafisica in generale. La realtà mutevole e in continua evoluzione viene spiegata da Bergson negando la sostenibilità sia del meccanicismo sia del finalismo: si tratta di trasferire sull’intera realtà le caratteristiche della vita biologica e di farne un principio metafisico onnicomprensivo, di non accettare una spiegazione meccanica né di pensare la realtà come organizzata in vista di fini razionali da raggiungere. Alla base del processo dinamico del reale e della sua evoluzione c’è un principio che Bergson chiama élan vital, «slancio vitale», che giustifica tutto l’impianto vitalistico della sua filosofia. Lo slancio vitale è «azione che di continuo si crea e si arricchisce», è cioè la forza all’origine di tutte le forme di vita. È una sorta di impulso iniziale del processo dell’evoluzione e si dirama in molteplici direzioni, ma allo stesso tempo si conserva. L’evoluzione non segue un unico percorso: la vita, scrive Bergson, si sviluppa «come un fascio di steli». La filosofia bergsoniana ha dunque una struttura unitaria: essa pone un solo principio all’origine dei fenomeni naturali e di quelli psichici e vede nell’intuizione il solo mezzo per comprendere sia gli uni, sia gli altri.

Morale e religione

Anche la riflessione di Bergson sull’etica riflette la sua attitudine antirazionalistica. Del resto, l’etica è un aspetto che ha poca autonomia nella considerazione complessiva della realtà, e Bergson stesso dichiara che «metafisica e morale esprimono la stessa cosa, l’una in termini di intelligenza, l’altra in termini di volontà». L’obiettivo polemico privilegiato dell’analisi bergsoniana (contenuta nella sua ultima opera maggiore, Le due fonti della morale e della religione) è infatti il massimo rappresentante del razionalismo etico, e cioè Kant. L’obbligo morale: Chiaramente antikantiano è l’esame che Bergson svolge dell’obbligo morale, critica a Kant cioè del dovere, che egli collega strettamente all’abitudine psicologica e alla pressione della società. Ben lungi dall’essere opposta alla nostra naturalità, la

Etica antirazionalistica

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La radice dell’obbligo morale è l’abitudine

Morale chiusa

La guerra

Morale aperta

Umanità e amore

moralità e i suoi doveri sono qualcosa che deriva proprio dalla natura (o, più precisamente, da quella «seconda natura» che è l’abitudine): noi ci sentiamo obbligati perché la società esercita una certa pressione su di noi richiedendo certe prestazioni che sono appunto i doveri. Non si tratta, beninteso, di una forma di costrizione, ma di impegni che assumiamo liberamente in quanto membri di una società. Completamente errata è la prospettiva kantiana che vede nel dovere morale e nell’obbligo uno sforzo, una pressione su se stessi, un’opposizione tra moralità e natura. Kant cade in questo equivoco perché non comprende la radice dell’obbligo che sta in realtà nell’abitudine e perché cerca di mostrare – per Bergson senza riuscirvi – la natura razionale dell’obbligo morale. Si tratta infatti di un errore psicologico. Anche se si danno casi di conflitto, il corso ordinario della moralità si fonda sulla esplicita o implicita assegnazione di certi compiti – ossia di obblighi o doveri – da parte del corpo sociale a ciascun membro di esso, in quanto membro di una famiglia, in quanto individuo che ha una certa professione, in quanto abitante di una certa zona e di un certo Paese. L’analisi bergsoniana dell’obbligo non è priva di una certa ambiguità intrinseca alla sua filosofia: da un lato anche l’obbligo, come del resto tutta la realtà, è una manifestazione del dinamismo complessivo, è fondato nell’evoluzione complessiva della vita, e quindi immediatamente giustificato. Dall’altro, la morale dell’obbligo costituisce una morale limitata, una morale che Bergson chiama chiusa perché il mondo degli obblighi, dei doveri e delle norme, comunque lo si voglia rappresentare, non è un mondo universale che includa tutta la società umana nel suo insieme, ma soltanto comunità chiuse come un Paese o una nazione. In realtà questa moralità non riguarda l’umanità, come dimostra inequivocabilmente la guerra: con la guerra si capisce che l’obbligo morale è limitato a comunità determinate, circoscritte. La coesione sociale e la moralità del dovere che corrispondono alla chiusura delle società nei propri confini sono dovute infatti al rischio costante della guerra e alla necessità che una società ha di difendersi dalle altre. La morale chiusa, per quanto riguarda l’individuo, può raggiungere soltanto un ordinario «stato di benessere». La morale chiusa non è però l’unica possibilità: c’è anche quella di una morale aperta che ha radici ben diverse e ha caratteri completamente differenti, a partire dalla stessa difficoltà di formularla. Come in altre occasioni, l’inesprimibilità della morale aperta sembra indicare per Bergson la limitatezza del linguaggio dei concetti, del linguaggio quindi tipico della tradizione razionalistica: il nostro linguaggio è in difficoltà a formulare la morale aperta come è in difficoltà nell’esporre e rappresentare il fluire incessante della realtà. La morale aperta ha per destinatario l’umanità, non comunità chiuse, e soprattutto non si fonda sull’obbligo, ma sull’amore; è una morale fondata sullo slancio, non sull’abitudine. Tra le due morali non c’è un passaggio, una semplice differenza di grado, ma una differenza qualitativa, tanto è vero che i primi protagonisti della morale aperta o assoluta non sono gli uomini qualunque, ma personaggi eccezionali nei quali in ogni epoca questa morale si incarna. Al centro della morale chiusa c’è in sostanza l’obbligo, il dovere, l’obbedienza a una norma, cioè a una formula impersonale, mentre nel caso della morale aperta, che si richiama all’eccezionalità dei suoi promotori, c’è l’imitazione di modelli, di personaggi fuori dal comune che con la loro stessa esistenza costituiscono un richiamo, un appello a seguire il proprio esempio. 263

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Morale chiusa e morale assoluta

H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione

In ogni epoca sono sorti degli uomini eccezionali, nei quali questa morale si incarnava. Prima dei santi del Cristianesimo, l’umanità aveva conosciuto i saggi della Grecia, i profeti di Israele, gli Arahanti del buddismo, ed altri ancora. È a loro che ci si è sempre riferiti per avere questa moralità completa, che sarebbe meglio chiamare assoluta. E anche questo è già caratteristico ed istruttivo. Ed anche questo ci fa presagire una differenza di natura, e non solamente di grado, tra la morale di cui abbiamo trattato finora e quella di cui iniziamo lo studio, tra il minimo ed il massimo, tra i due limiti. Mentre la prima è tanto più pura e più perfetta quanto meglio si riduce a delle formule impersonali, la seconda, per essere pienamente se stessa, deve incarnarsi in una personalità privilegiata che diventa un esempio. La generalità dell’una dipende dall’universale accettazione di una legge, quella dell’altra dalla comune accettazione di un modello.

I due tipi di morale secondo Bergson

È limitata a singole comunità È statica Morale chiusa

Morale dell’obbligo È espressa con formule impersonali È fondata sull’obbedienza a norme

È rivolta a tutta l’umanità È dinamica Morale aperta o «assoluta»

Morale fondata sull’amore È inesprimibile attraverso il linguaggio È fondata sul carattere esemplare di individui eccezionali

È l’esempio dei grandi mistici, che seppero unire contemplazione e azione, a costituire il punto di riferimento della morale aperta: il primo è Socrate, il più grande è Gesù Cristo. Sono coloro che non provano un benessere ordinario, ma un sentimento di vera e propria liberazione perché sono ormai superiori alle soddisfazioni del benessere, del piacere e della ricchezza che interessano la maggior parte degli uomini. Essi vanno al di là di tutto questo, e la loro esperienza è un’esperienza eccezionale che Bergson non chiarisce quanto possa essere comunicata e insegnata agli altri: se già alcuni, anche solo alcuni, seguono l’esempio, e se magari altri lo ritengono auspicabile, si è già ottenuto abbastanza, «è già molto». Religione statica Una coppia di termini opposti caratterizza anche la religione, la cui analisi è per e dinamica Bergson affine a quella della morale: nel caso della religione, c’è una religione statica ed esteriore che si esprime nella magia e nei riti, ma c’è anche una religione dinamica e interiore che si realizza nella mistica. La conclusione dell’indagine bergsoniana sulla morale e sulla religione accenna alla possibilità di una filosofia della storia, pur nella consapevolezza che la volontà umana è sempre superiore a ogni ipotesi di determinismo storico.

Personaggi esemplari

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento Ambiguità del progresso

➥ Sommario, p. 266

La domanda centrale è se la società contemporanea abbia la possibilità di evitare il trionfo indistinto della tecnica e dell’intellettualismo che ha segnato di sé la cultura e la civiltà occidentali. Si è trattato di un progresso per più versi ambiguo, per Bergson, che ha prodotto anche nuovi disagi e nuovi bisogni, e che non soddisfa le esigenze dello spirito, il quale trarrebbe forse giovamento da una maggiore semplicità di vita. Il futuro dell’umanità dipende da lei stessa: se voglia fare lo sforzo necessario perché si adempia il compito dell’universo, che è, perfino rispetto al nostro pianeta «refrattario», «una macchina per fare degli dèi».

Suggerimenti bibliografici In generale sul neocriticismo e il ritorno a Kant è fondamentale il libro di M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, Laterza, Roma-Bari 1997; di grande utilità anche l’ampia antologia curata da G. Gigliotti, Il neocriticismo tedesco, Loescher, Torino 1983. In particolare su Cohen è utile lo studio complessivo di A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, Mursia, Milano 1988. Per Cassirer vedi l’introduzione di G. Raio, Introduzione a Cassirer, Laterza, Roma-Bari 2002, e la più complessa monografia di M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Olschki, Firenze 1996. Su Windelband, puoi leggere la monografia di R. Bonito Oliva, Il compito della filosofia. Saggio su Windelband, Morano, Napoli 1990. Su Rickert, è utile il volume collettivo Rickert tra storicismo e ontologia, a cura di M. Signore, Franco Angeli, Milano 1989. Sullo storicismo tedesco è da vedere l’introduzione di F. Tessitore, Introduzione allo storicismo, Laterza, Roma-Bari 2003, ma rimane un punto di riferimento lo studio d’insieme di P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino 1971. Su Dilthey, vedi F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Laterza, Roma-Bari 1985, e i volumi collettivi Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, il Mulino, Bologna 1985, e Dilthey e il pensiero del Novecento, a cura di F. Bianco, Franco Angeli, Milano 1985. Su Bergson vedi A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari 1996; più complesso, e per un aspetto specifico, H. Gouhier, Bergson e il Cristo dei Vangeli, IPL, Milano 1968; inoltre: M. Meletti Bertolini, Bergson e la psicologia, Franco Angeli, Milano 1985. Per la controversa questione, di grande interesse, del rapporto di M. Proust con Bergson, vedi S. Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, il Mulino, Bologna 1991. I brani antologizzati sono tratti da: W. Windelband, Preludi, Prefazione alla prima edizione, trad. parziale in Il neocriticismo tedesco, a cura di G. Gigliotti, Loescher, Torino 1983: p. 78 (T1), p. 79 (T3). E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, trad. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 19611966. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, in Lo storicismo contemporaneo, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1974: p. 18 (T4), p. 20 (T5). H. Bergson, Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903, trad. in A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 5. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. di F. Sossi, Premessa di P.A. Rovatti, R. Cortina, Milano 2002: p. 71 (T7), pp. 110-111 (T8). H. Bergson, Introduzione alla metafisica, trad. a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 82. H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, trad. a cura di A. Pessina, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 22.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Sommario 1. MONDO

NATURALE E MONDO UMANO

I mutamenti avvenuti nell’Ottocento sia nelle scienze della natura sia nelle discipline che studiano il mondo umano, storico e sociale, pongono il problema di stabilire quali siano i rapporti e i criteri di distinzione tra le due sfere di indagine. 2. IL

RITORNO A

KANT

E IL NEOCRITICISMO

Con la ripresa di interesse per il pensiero di Kant, in polemica con l’idealismo, torna a essere centrale la teoria della conoscenza. [par. 1] Riprendendo la tesi kantiana per cui il soggetto ha un ruolo attivo nella conoscenza, Helmholtz e Lange sostengono che tale ruolo ha fondamento nella fisiologia umana. [par. 2] Il problema kantiano del modo di conoscere gli oggetti è al centro del neocriticismo, ossia della scuola di Marburgo e della scuola del Baden. [par. 3] La filosofia è per Cohen teoria della conoscenza scientifica. Come Natorp, egli dà la priorità alla logica rispetto all’etica, considera centrale l’idea kantiana dell’uomo come fine e ne dà un’interpretazione in senso socialista. Il socialismo neokantiano tenterà poi l’integrazione di Kant con Marx. [par. 4] Cassirer interpreta la storia della filosofia dal punto di vista del problema della conoscenza. Il mutamento principale nella scienza è il passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione, che porta all’abbandono dell’idea della conoscenza come rispecchiamento della realtà: essa si realizza attraverso i simboli. Oltre alla conoscenza, le principali forme simboliche sono il linguaggio e il mito. [par. 5] Gli esponenti della scuola del Baden, Windelband e Rickert, hanno una concezione unitaria della filosofia: essa non è riducibile a teoria della conoscenza scientifica. È filosofia dei valori come scienza critica di tutti i valori (inclusi quelli conoscitivi, etici ed estetici). Negare la priorità delle scienze della natura rispetto alle discipline storico-sociali, o scienze dello spirito, pone il problema di spiegare la differenza tra esse. [par. 6]

Come Windelband, Rickert ritiene che la differenza non sia nell’oggetto di indagine, ma nel metodo. Il metodo delle scienze dello spirito, che Rickert chiama «scienze della cultura», consiste nell’esaminare le relazioni tra ogni civiltà e i suoi valori (senza giudicarli). Dei valori Rickert sottolinea l’oggettività e contro la filosofia della vita, nega che la vita sia un valore in sé. [par. 7] 3. LO

STORICISMO TEDESCO

Lo storicismo sostiene, contro l’idealismo, che la storia è opera degli uomini e, in polemica col positivismo,

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rifiuta l’assimilazione delle discipline storico-sociali al modello delle scienze naturali. Il problema fondamentale è stabilire le condizioni di possibilità della conoscenza storica. [par. 1] Dilthey sostiene che scienze naturali e scienze dello spirito hanno oggetti diversi e solo del mondo umano si abbia un’esperienza interna; di qui l’importanza dell’analisi della psiche per le scienze dello spirito. In seguito Dilthey attenua tale importanza e privilegia l’interpretazione dei segni esterni della vita psichica. Rifiuta la filosofia della storia e insiste sulla storicità del mondo umano e sulla relatività dei valori. [par. 2] A Dilthey e a Nietzsche si ispira la filosofia della vita, che vede nella vita stessa una forma fondamentale di energia. Per Simmel la vita tende al superamento delle forme di cultura che crea. Spengler considera ogni cultura un organismo la cui fine è segnata dallo stadio più avanzato del suo sviluppo come civilizzazione. [par. 3] 4. BERGSON

Contro il positivismo, lo spiritualismo vede nello studio dell’interiorità un mezzo essenziale per comprendere la realtà. [par. 1] Bergson considera la filosofia una scienza, ma respinge il modello cartesiano del sapere scientifico. Riconosce alla biologia il merito di aver capito che l’essere è divenire e pone la temporalità al centro della propria indagine. [par. 2] La scienza positiva è incapace di spiegare la durata, che è la caratteristica essenziale della temporalità; a tal fine occorre esaminare il tempo vissuto della coscienza, che non può essere compresa con i concetti, ma solo con l’intuizione. La coscienza sfugge anche al concetto di causalità. L’atto libero è quello in cui si realizza tutta la personalità del soggetto e in cui agisce l’io profondo, non l’io superficiale. [par. 3] Bergson rifiuta il dualismo tra spirito e corpo: memoria e percezione mediano la relazione tra essi. [par. 4] Il modello della durata è applicabile anche alla realtà: questa è mutevole e continua, ma per necessità pratiche la fissiamo in oggetti statici. [par. 5] Per comprendere la realtà occorre l’intuizione, sintesi tra istinto e intelligenza. Bergson rifiuta il meccanicismo e il finalismo ed elabora una metafisica fondata sul principio dello slancio vitale. [par. 6] L’etica non è autonoma rispetto alla metafisica. Bergson nega (contro Kant) il conflitto tra natura umana e dovere e distingue tra morale chiusa (impersonale) e morale aperta (fondata sul modello di personalità eccezionali). Anche della religione distingue due tipi: quella esteriore, statica, e quella interiore, dinamica. [par. 7]

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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento

Parole chiave Durata. Nella teoria di Bergson è la caratteristica essenziale della temporalità, della coscienza e della realtà. La durata è una successione di istanti compenetrati l’uno nell’altro; è possibile coglierla solo attraverso l’introspezione, perché può esserci durata solo se c’è un soggetto che coglie la successione nel fluire della propria coscienza. Le scienze fisico-matematiche sono incapaci di coglierla perché considerano il tempo un insieme di istanti distinti tra loro.

Neocriticismo. Detto anche «neokantismo», è la corrente filosofica che si richiama a Kant (in polemica con l’idealismo), proponendosi di superarlo. Comune alle due scuole neokantiane, la scuola di Marburgo e la scuola del Baden, è l’indagine sui processi conoscitivi e sulle condizioni di possibilità della conoscenza. L’una si concentra però sul sapere scientifico, l’altra intende invece la filosofia come scienza critica di tutti i valori, non solo del valore della verità teoretica.

Filosofia dei valori. Espressione che indica il modo in cui gli esponenti della scuola del Baden intendono la filosofia: essa è una scienza critica dei valori, non solo di quelli conoscitivi, ma anche di quelli etici ed estetici.

Percezione. Dimensione della vita psichica che, secondo Bergson, non è originaria, ma dipende dalla memoria. Insieme con la memoria essa media il rapporto tra il corpo e lo spirito.

Filosofia della vita. Corrente sorta alla fine del XIX secolo che non intende la vita in senso meramente biologico, ma come principio metafisico, come forma di energia che costituisce la realtà. Forme simboliche. Nella filosofia di Cassirer sono attività mentali che producono una certa configurazione della realtà facendo uso di simboli. Linguaggio, mito e conoscenza sono le principali forme simboliche. Funzione. Nella teoria di Cassirer è l’attività attraverso la quale costituiamo e diamo forma agli oggetti di cui abbiamo esperienza ed è quindi la condizione di possibilità di essi. Il passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione ha prodotto un mutamento significativo nella concezione della conoscenza. Intuizione. Bergson la contrappone alla concatenazione dei concetti e la considera uno strumento indispensabile per comprendere la coscienza e la realtà, poiché essa riesce a cogliere le cose con l’immediatezza dell’istinto e la chiarezza dell’intelligenza. L’intuizione è dunque una sintesi tra istinto e intelligenza. Io profondo. È l’interiorità genuina di ogni individuo, ossia l’insieme organizzato dei fatti della coscienza (sensazioni, emozioni e sentimenti) compenetrati l’uno nell’altro. Io superficiale. Parte dell’io condizionata dall’educazione ricevuta e dalle convenzioni sociali. Memoria. Totalità dei ricordi della nostra vita passata. Grazie ad essa possiamo dare un senso alle percezioni che abbiamo. Con la percezione la memoria media il rapporto tra il corpo e lo spirito.

Scienze dello spirito. Con questa espressione Dilthey intende l’insieme delle discipline, contrapposte alle scienze della natura, che studiano il mondo umano e il suo sviluppo storico. Esse si distinguono dalle scienze della natura sia per l’oggetto dell’indagine, sia per il tipo di esperienza che viene fatta del mondo umano e del mondo naturale. Simboli. Nella teoria di Cassirer sono gli elementi centrali del rapporto conoscitivo dell’uomo con il mondo, grazie ai quali egli dà senso ai molteplici dati dell’esperienza e li organizza. Il simbolo è il segno del ruolo attivo del pensiero umano nei confronti della realtà. Slancio vitale. Nella metafisica di Bergson è il principio su cui è fondato il processo dinamico della realtà e dell’evoluzione. Spiritualismo. Corrente filosofica diffusasi nel XIX secolo in polemica con il positivismo. I suoi esponenti rifiutano il primato della matematica e delle scienze naturali e considerano lo studio dell’interiorità e dello spirito uno strumento privilegiato per comprendere la realtà. Storicismo. Insieme di dottrine sviluppatesi nella cultura tedesca tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e accomunate dallo studio storico del mondo umano e sociale. Lo storicismo tedesco considera la storia come opera degli uomini e rifiuta di assumere le scienze della natura come modello per l’indagine storico-sociale. Tempo vissuto. Nella teoria di Bergson è il tempo reale (quello della coscienza), la cui essenza è la durata. È eterogeneo, irreversibile e non misurabile, al contrario del tempo della scienza e del senso comune, che è un insieme omogeneo di istanti distinti tra loro ripetibili e misurabili. 267

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario MONDO 1

IL

NATURALE E MONDO UMANO

RITORNO A

2

3

4

Spiega in un massimo di 5 righe quale rapporto c’è, secondo Bergson, tra la percezione e la memoria.

KANT

E IL NEOCRITICISMO

16

Qual è il ruolo dell’intuizione nella metafisica bergsoniana? (max 3 righe)

Spiega in un massimo di 3 righe l’interpretazione fisiologica della tesi kantiana per cui il soggetto ha un ruolo attivo nella conoscenza degli oggetti.

17

Perché Bergson considera errata la concezione kantiana dell’obbligo morale? (max 3 righe)

Come viene inteso da Cohen il rapporto tra etica e logica? (max 2 righe) Quale cambiamento si è prodotto nel modo di concepire la conoscenza grazie al passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione? (max 3 righe)

Lavoriamo sui testi 18

Come viene definito in T1 il ritorno al pensiero di Kant? (max 2 righe)

19

Qual è il cambiamento, indicato in T2, che Hertz ha introdotto nella fisica? (max 3 righe)

5

Perché la scuola del Baden, diversamente dalla scuola di Marburgo, ha una concezione unitaria della filosofia? (max 4 righe)

20

Perché, in T3, Windelband afferma che la filosofia kantiana non è soltanto idealismo teoretico? (max 3 righe)

6

Spiega in un massimo di 3 righe qual è, secondo Windelband e Rickert, la differenza tra scienze della natura e scienze storico-sociali.

21

Quali differenze emergono in T4 tra il mondo naturale e il mondo della storia? (max 4 righe)

22

Spiega in un massimo di 2 righe perché in T5 Dilthey afferma che la natura è muta per l’uomo.

23

Come viene spiegato in T6 il volgersi dell’interesse di Bergson dalle scienze fisico-matematiche alla psicologia? (max 3 righe)

24

Che cosa accade se viene soppresso l’io che pensa le oscillazioni del pendolo di cui Bergson parla in T7? (max 2 righe)

25

Come vengono descritte in T8 le condizioni alle quali siamo liberi? (max 2 righe)

26

Spiega in un massimo di 2 righe il processo, descritto in T9, con cui si ottengono sensazioni e idee.

27

Qual è la differenza tra i due tipi di morale di cui Bergson parla in T10? (max 4 righe)

7

LO

15

Qual è il tema principale dell’indagine filosofica ottocentesca? (max 3 righe)

Qual è secondo Rickert il compito dello storico? (max 2 righe)

STORICISMO TEDESCO

8

Perché Kant è un punto di riferimento per lo storicismo tedesco? (max 2 righe)

9

Spiega in un massimo di 5 righe le differenze individuate da Dilthey tra le scienze della natura e le scienze dello spirito.

10

Perché Dilthey è critico nei confronti della filosofia della storia? (max 4 righe)

11

Da che cosa derivano, secondo Simmel, i cambiamenti storici? (max 3 righe)

BERGSON 12

Spiega in un massimo di 5 righe perché l’atteggiamento di Bergson verso la scienza è ambivalente.

13

Quale differenza c’è tra il tempo della scienza e del senso comune e il tempo vissuto della coscienza? (max 5 righe)

14

Perché i concetti sono uno strumento inadeguato, secondo Bergson, per comprendere la coscienza? (max 4 righe)

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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo 1. Il pragmatismo americano 2. Peirce 1. Il significato come effetto pratico 2. Il metodo scientifico 3. La semiotica

2. Lo strumentalismo e la conoscenza 3. La relazione con l’ambiente e il problema mente-corpo 4. L’etica 5. La politica e la pedagogia

5. Il neoidealismo inglese 3. James 1. La verità come efficacia pratica 2. La volontà di credere e l’etica 3. La psicologia e l’empirismo radicale

1. Green 2. Bradley

4. Dewey 1. L’esperienza e la storia

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Il pragmatismo americano

1 Il contributo americano alla filosofia

Il Methaphysical Club

La reazione all’idealismo e il rapporto con l’evoluzionismo

L’esperienza e la pratica

➥ Sommario, p. 300

270

Espressione di una nazione in forte crescita politica ed economica e di un’epoca di grande fiducia verso il futuro, il pragmatismo è unanimemente riconosciuto come il primo e più originale contributo fornito da pensatori degli Stati Uniti alla filosofia occidentale. Esso caratterizza la cultura americana a cavallo fra Ottocento e Novecento, ma riesce ad avere significativi echi anche nel continente europeo. Il pragmatismo ha un luogo e, probabilmente, anche un anno di nascita: sorge a Cambridge nel Massachussets, in seguito alla riunioni tenute a partire dal 1871 da un gruppo di giovani intellettuali, insofferenti della cultura dominante nelle università americane, influenzata della teologia e dallo hegelismo, per discutere liberamente di scienza, filosofia, diritto e religione. Il gruppo si riunisce fino al 1875 negli studi di due giovani filosofi, Charles Sanders Peirce e William James, e decide di darsi il nome di Methaphysical Club: nome, ricorda Peirce, «tra l’ironico e l’insolente». Oltre a Peirce e James, ne fanno parte anche i filosofi Chauncey Wright (1830-1875), John Fiske (1842-1901), Francis Ellingwood Abbot (1836-1903), e i giuristi Nicholas St. John Green (1830-1876), Joseph Bangs Warner (1848-1923), Oliver Wendell Holmes Jr. (1841-1935), quasi tutti futuri docenti dell’università di Harvard. È durante le riunioni del Methaphysical Club che vengono fissate alcune delle tesi principali del movimento, che saranno poi approfondite in modo originale da Peirce e James, e che incideranno sulla formazione dell’altro grande pragmatista americano, John Dewey, la cui influenza si estende per tutta la prima metà del Novecento, contribuendo a caratterizzare in senso pragmatista anche parte della filosofia contemporanea d’oltreoceano. Il pragmatismo può essere considerato la via americana di reazione all’idealismo: il suo carattere principale è la sfiducia verso ogni forma di sapere astratto e metafisico, che si fondi su intuizioni a priori e che non si ponga in stretto rapporto con l’esperienza e la vita dell’uomo. Il pragmatismo riprende, dall’evoluzionismo di Darwin e di Spencer, la centralità del rapporto dell’individuo con l’ambiente naturale e sociale: è attraverso l’interazione pratica con l’ambiente che l’individuo determina le proprie credenze e i propri valori. Dalla centralità di questa interazione i pragmatisti traggono la necessità di superare alcune delle tradizionali dicotomie filosofiche: quelle tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo, tra fatti e valori. Tuttavia, rispetto al positivismo e all’evoluzionismo europei, anch’essi caratterizzati dal forte intento antimetafisico, il pragmatismo sottolinea maggiormente il carattere indefinito dell’esperienza, la sua apertura verso il futuro, e insieme il legame della conoscenza e della stessa filosofia con l’attività dell’uomo, con i suoi bisogni e i suoi fini, con la prassi storica e sociale, dalla quale l’individuo è condizionato, ma della quale è allo stesso tempo protagonista. Il pensiero si pone sempre in relazione alle esigenze del futuro, a come agire nell’ambiente naturale e sociale; tanto che per i pragmatisti è l’uso pratico che determina il significato dei termini, e per James anche la verità degli enunciati.

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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo

Peirce

2 I testi

Ch.S. Peirce Il fissarsi della credenza: La ricerca attraverso il dubbio, T1; Il valore di verità dei quattro metodi per consolidare una credenza, T4

Peirce l’iniziatore del movimento

Charles Sanders Peirce è considerato l’iniziatore del movimento filosofico da lui stesso definito «pragmatismo» (anche se preferirà poi chiamarlo «pragmaticismo» per distinguerlo dalla versione sostenuta da James), e uno dei fondatori dell’odierna semiotica, ossia della disciplina che studia la formazione, l’interpretazione e l’uso dei segni.

La vita e le opere Nato nel 1839 a Cambridge nel Massachussetts, Charles Sanders Peirce era figlio del noto matematico Benjamin che lo educò personalmente, privilegiando gli studi scientifici. Dopo aver frequentato i corsi di fisica e matematica ad Harvard, si laureò in chimica nel 1863 e lavorò per molti anni, dal 1859 al 1891, per il Servizio geodesico e costiero degli Stati Uniti. Si dedicò anche all’insegnamento, svolgendo incarichi saltuari nelle università americane come professore di logica, ma non si integrò nell’ambiente accademico sia per l’originalità delle sue concezioni sia per motivazioni personali (alcu-

1

Come rendere chiare le nostre idee: La definizione di «credenza», T2; Credenza e regole d’azione, T3 Scienza e pragmatismo: I caratteri dell’abduzione, T5; La formazione dei segni, T6

ni tratti del suo carattere, le sue carenze come insegnante, le vicissitudini matrimoniali che lo portarono al divorzio dalla prima moglie). Nel 1897 si ritirò a Milford, in Pennsylvania, dove visse in gravi ristrettezze economiche mantenendosi con i proventi di collaborazioni editoriali e l’aiuto di amici come James. Affetto da un cancro, morì nel 1914. I suoi manoscritti furono acquistati dall’università di Harvard e pubblicati in parte negli anni trenta assieme agli articoli comparsi su varie riviste: Il fissarsi della credenza (1877), Come rendere chiare le nostre idee (1878), Che cos’è il pragmatismo (1905) e Questioni del pragmaticismo (1905).

Il significato come effetto pratico

I lavori più influenti e noti di Peirce sono due saggi sulla teoria della conoscenza, Il fissarsi della credenza e Come rendere chiare le nostre idee, nei quali vengono delineate le tesi principali della sua concezione del pragmatismo. Il dubbio come stimolo Il pensiero è concepito come strettamente legato alla pratica. Funzione del penal pensiero siero è quella di produrre credenze, con le quali si acquieta nell’uomo una situazione di irritazione e disagio, rappresentata dal dubbio. Questa situazione non rappresenta una condizione eccezionale, ma indica il momento di indecisione prima di ogni azione, anche la più banale: Peirce fa l’esempio di quando devo comprare un biglietto su un tram e sono indeciso se pagare con un’unica moneta o utilizzare gli spiccioli. Il dubbio è lo stimolo che conduce alla ricerca, la quale a sua volta placa il dubbio col fissare un’opinione consapevole e, almeno per un certo tempo, stabile, cioè una credenza, nella quale il pensiero trova momentaneamente riposo (per esempio decido di pagare con gli spiccioli perché sono ingombranti). 271

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

T1

La ricerca attraverso il dubbio

Ch.S. Peirce, Il fissarsi della credenza, 4

Credenza e abitudine

T2

La definizione di «credenza» Ch.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, 2

Credenza e significato

Il concetto di un oggetto come risultato dei suoi effetti

272

L’irritazione del dubbio causa una lotta per ottenere uno stato di credenza. Chiamerò questa lotta ricerca, per quanto si debba ammettere che qualche volta questa designazione non è molto adatta. L’irritazione del dubbio è il solo motivo immediato della lotta per raggiungere la credenza. Certamente la cosa migliore per noi è che le nostre credenze siano tali da poter guidare veramente le nostre azioni e così soddisfare i nostri desideri; e questa riflessione ci farà rigettare ogni credenza che non sembri formata in vista di assicurarci questo risultato. Ma questo avverrà solo mediante la creazione di un dubbio al posto di una tale credenza. Col dubbio perciò la lotta comincia, e termina con la cessazione del dubbio. Quindi il solo oggetto della ricerca è lo stabilirsi di un’opinione. Possiamo immaginare che questo non ci basti e che noi cerchiamo non solo un’opinione ma un’opinione vera. Ma se si mette questa idea alla prova si dimostra priva di fondamento; giacché appena abbiamo raggiunto una credenza ferma, siamo completamente soddisfatti, sia che la credenza sia falsa sia che sia vera. Per soddisfare lo stato di disagio, l’indecisione creata dal dubbio, la credenza non ha bisogno di essere vera, basta che essa sia capace di guidare le azioni dell’uomo al fine di soddisfarne i desideri. La credenza, secondo Peirce, è collegata allo stabilirsi di una regola d’azione, cioè a un’abitudine in grado di orientare la condotta: credenza è «ciò per cui un uomo è pronto ad agire». Il pensiero è dunque connesso all’azione, ai desideri e alle volizioni umane: «l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini d’azione». Per riprendere l’esempio precedente, ogni volta che sarà possibile pagherò il biglietto del tram con gli spiccioli. Che cosa è dunque la credenza? […] Abbiamo visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l’irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione, o, per dirla in breve, di un’abitudine. Mentre acquieta l’irritazione del dubbio, che è il motivo per pensare, il pensiero si rilassa e si ferma in riposo un momento quando la credenza è raggiunta. Ma dal momento che la credenza è una regola per l’azione, l’applicazione della quale implica ulteriori dubbi e pensiero, nello stesso tempo in cui essa è un punto d’arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero. Ed è per questo che mi sono permesso di chiamarla pensiero in riposo, sebbene il pensiero sia essenzialmente un’azione. L’esito finale del pensare è l’esercizio della volizione, e di questo il pensiero non fa più parte; ma la credenza è solo uno stadio dell’azione mentale, un effetto del pensiero sulla nostra natura, il quale effetto influenzerà il futuro pensare. Ciò che viene creduto è detto da Peirce il «significato di una credenza». Ogni credenza fa sorgere una propria abitudine di azione, e differenti credenze si distinguono proprio per le differenti abitudini di azione che fanno sorgere. Se due credenze fanno sorgere le stesse abitudini sono concepite come identiche, come aventi, cioè, lo stesso significato. Il significato di una credenza, ciò che viene creduto, consiste dunque nelle abitudini di azione che essa fa sorgere, e si identifica con gli effetti pratici delle credenze: «consideriamo quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto». Ogni concetto, afferma Peirce, «consiste esclusivamente nei suoi concepibili riflessi sulla con-

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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo

dotta di vita». Il concetto di vino, per esempio, coincide con le sue conseguenze sul nostro agire pratico (è piacevole ma può alterare le nostre percezioni fino alla perdita di controllo): «simili credenze non sono altro che avvisi a noi stessi che dobbiamo, all’occasione, agire nei riguardi di certe cose che crediamo vino in modo che si accordino con le qualità che crediamo che il vino possegga».

T3

Credenza e regole d’azione Ch.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, 2

L’essenza della credenza è lo stabilirsi di un’abitudine, e differenti credenze si distinguono dai differenti modi di azione che fanno sorgere. Se le credenze non si differiscono in questo rispetto, se acquietano lo stesso dubbio producendo la stessa regola d’azione, allora mere differenze nella maniera di percepirle non ne fanno credenze differenti, non più che il suonare una stessa melodia in diverse chiavi ne faccia diverse melodie […]. Per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abitudini essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abitudine implicata da essa. […] Così dobbiamo scendere al tangibile e al pratico, per trovare la radice di ogni vera distinzione di pensiero per sottile che sia; e non vi è distinzione di significato, per fine che sia, che possa consistere in altro che in una possibile differenza pratica. Il pragmatismo di Peirce si configura quindi principalmente come una teoria del significato, anziché come una teoria della verità, come è invece il pragmatismo di James (vedi p. 278): è il significato della credenza, non la sua verità, che si identifica con i suoi effetti pratici.

Il fissarsi della credenza in Peirce

Dubbio: momento di indecisione prima di un’azione

2 I quattro modi per consolidare una credenza

Ricerca: una lotta interiore per risolvere il dubbio

Credenza o opinione consapevole: il dubbio viene acquietato da una scelta capace di guidare l’azione

Abitudine o regola d’azione: se non sorgono altri dubbi l’azione viene ripetuta

Significato: gli effetti pratici dell’agire costituiscono il significato di una credenza

Il metodo scientifico Per Peirce, dunque, solo il significato della credenza, non la sua verità, può essere identificato con i suoi effetti pratici. Il fatto che una credenza sia più efficace rispetto ad altre non comporta che essa sia anche vera. Esistono diversi modi di consolidare una credenza, ma solo uno conduce alla verità. Un primo modo è quello che Peirce chiama il «metodo della tenacia»: è il metodo seguito da chi si rifiuta ostinatamente di mettere in discussione le proprie convinzioni. Un secondo modo è il cosiddetto «metodo dell’autorità»: è il metodo seguito da chi si adegua alle opinioni imposte con la forza da un’autorità esterna, come lo Stato. Un terzo modo è il «metodo dell’a priori» (o «metodo metafisico»): è quello seguito da chi pretende di raggiungere la verità attraverso la speculazione razionale, senza il ricorso all’esperienza, come fanno le filosofie di carattere idealistico. Tutti e tre questi metodi escludono la possibilità di errore e di correzione, ritenendosi infallibili. 273

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Metodo scientifico e fallibilismo

T4

Il valore di verità dei quattro metodi per consolidare una credenza Ch.S. Peirce, Il fissarsi della credenza, 5

I modi di consolidare le credenze in Peirce

Il quarto modo è il «metodo scientifico», ed è solo attraverso di esso che si può ottenere la verità di una credenza. Questo metodo si basa sul procedimento sperimentale ed è perciò in grado di correggere continuamente i propri risultati: esso è, dice Peirce, un metodo «fallibilista». In quanto capace di scartare gli errori, esso consente di approssimarsi sempre più alla verità, fornendo un criterio con cui valutare il modo giusto o sbagliato di procedere. Fra i quattro metodi, questo [quello scientifico] è l’unico che introduca una distinzione fra un modo giusto di agire e uno sbagliato. Se adotto il metodo della tenacia e mi sottraggo ad ogni influenza, tutto ciò che riterrò necessario allo scopo sarà necessario secondo il metodo. Lo stesso vale per il metodo dell’autorità: lo Stato può tentare di eliminare l’eresia con mezzi che, da un punto di vista scientifico, sembrano calcolati molto male per raggiungere lo scopo; ma l’unico controllo di questo metodo è proprio ciò che lo Stato pensa, cosicché lo Stato non può seguire il metodo in maniera scorretta. Ed è così anche per il metodo a priori. La sua vera essenza consiste nel pensare come si è inclini a pensare. Tutti i metafisici si comporteranno certamente così, per quanto possano essere inclini a giudicarsi l’un l’altro perversamente in errore […]; e si può essere sicuri che qualsiasi cosa l’indagine scientifica avrà sottratto al dubbio riceverà immediatamente da parte dei metafisici una dimostrazione a priori. Le cose stanno diversamente con il metodo scientifico. Io posso partire da fatti noti e osservati per procedere verso ciò che mi è sconosciuto; e tuttavia le regole che seguo nel fare questo possono non essere quelle che l’indagine approverebbe. La prova per vedere se sto veramente seguendo il metodo non è l’appello immediato ai miei sentimenti o ai miei scopi, ma, al contrario, implica essa stessa l’applicazione del metodo. Vi è quindi la possibilità sia di ragionare bene che di ragionare male.

Metodo della tenacia

Metodo dell’autorità

Metodo metafisico o dell’a priori

Metodo scientifico

Le convinzioni indiscutibili consolidano la credenza

Un’autorità impone la credenza

La riflessione razionale, senza ricorso all’esperienza fonda la credenza

Il procedimento sperimentale permette di correggere i risultati e scartare gli errori

Si ritengono infallibili e non ammettono correzioni né errori. Non raggiungono la verità

Tre tipi di ragionamento scientifico

274

Attraverso di esso si può ottenere la verità

La procedura di ragionamento propria della scienza fa ricorso a tre differenti tipi di inferenza. La deduzione, che inferisce da una proposizione generale una proposizione particolare, conservandone la verità, ma non aggiungendo nulla di nuovo a quanto contenuto nella premessa generale; l’induzione che inferisce da una proposizione particolare una proposizione generale: essa «dalla conoscenza che certi membri di una classe, scelti a caso, hanno certe proprietà, conclude che tut-

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ti i membri della medesima classe le avranno ugualmente», e serve quindi a classificare più che a spiegare; infine, la procedura che Peirce chiama «abduzione». L’abduzione L’abduzione è una forma di ragionamento ipotetico, che consiste nel formulare, in base all’osservazione di un determinato effetto, una ipotesi in grado di spiegarlo: per esempio, «se c’è cenere ci deve essere stato un fuoco». È l’inferenza abduttiva quella che maggiormente consente di far progredire la conoscenza scientifica; tuttavia, essa non conduce a conclusioni definitive, ma solo a credenze rivedibili alla luce della loro conferma sperimentale: solo la conferma sperimentale può garantire la validità del procedimento abduttivo.

T5

I caratteri dell’abduzione Ch.S. Peirce, Scienza e pragmatismo

L’avanzare un’ipotesi e il sostenerla, vuoi come semplice interrogazione vuoi come proposizione in qualche modo degna di fiducia, è un processo di inferenza che io propongo di chiamare abduzione (o retroduzione). Questo implicherà una preferenza per qualunque ipotesi, su altre che spiegano egualmente bene i fatti, anche se questa preferenza non si fonda su alcuna precedente conoscenza che poggia sulla verità delle ipotesi, né su alcuna prova di alcuna delle ipotesi, dopo che tali ipotesi sono state accettate sulla base di altre prove. Chiamo questo tipo di inferenza con lo strano nome di abduzione, poiché la sua legittimità dipende da principi completamente differenti da quelli di altri tipi di inferenza. Molto prima che io considerassi l’abduzione come inferenza, i logici riconobbero che l’operazione di adottare un’ipotesi come spiegazione – proprio ciò che è l’abduzione – era soggetta a certe condizioni. L’ipotesi, cioè, non può essere ammessa, anche come ipotesi, se non si suppone che essa renda ragione dei fatti o di alcuni di essi. La forma di inferenza perciò è: Viene osservato il fatto sorprendente C: Ma se A fosse vero, C sarebbe naturale Perciò, c’è ragione di pensare che A sia vero.

I tipi di inferenza in Peirce

Ragionamento scientifico

3 Il pensiero e i segni

Deduzione: inferisce una proposizione particolare da una generale

Induzione: inferisce una proposizione generale da una particolare

Abduzione: formula un’ipotesi che spiega un determinato effetto osservato

Non aggiunge nessuna conoscenza

Classifica più che spiegare

Consente veri progressi nella conoscenza

La semiotica Poiché il pensiero si fonda sui significati, Peirce afferma che «non è possibile pensare senza segni». L’attenzione al funzionamento logico del pensiero lo porta a sviluppare in numerosi interventi anche un’articolata teoria dei segni, o semiotica. Segno è tutto ciò che consente una comunicazione, e ogni segno rimanda all’«oggetto» a cui si riferisce. 275

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Peirce divide i segni in «icone», «indici» e «simboli» o «segni generali»: 1) le icone indicano le qualità sensibili che hanno un «fondamento» e che vengono riconosciute immediatamente. Rimandano a una sensazione priva di inferenze – «una sorta di idea» dice Peirce – che precede la percezione di un oggetto: per esempio la sensazione di «nero» o di «rosso». Può darsi che nei passaggi successivi si scopra che in realtà quello che si ha davanti non è propriamente «rosso», ma una sfumatura più chiara, un «arancio» molto intenso, ma questo non cancella la verità di quella prima sensazione immediata, che non è ancora stata identificata come parte di un oggetto; 2) gli indici sono i segni di un passaggio successivo che ci permette di mettere in relazione quella sensazione immediata in modo da darle delle limitazioni e riconoscere così che appartiene a un oggetto: è il passaggio attraverso cui si stabilisce che quello che si ha di fronte è «rosso» e che lo si sta percependo come qualità che appartiene a qualcosa; 3) a questo punto si possono formulare proposizioni descrittive in cui il predicato «rosso» diviene un simbolo o segno generale; ed è a questo livello che prende forma un giudizio percettivo in cui si sommano tutte le note che ho raccolto attraverso le due fasi precedenti, per cui si può dire per esempio: «questo libro è rosso» identificando sia l’oggetto sia la sua qualità. Giudizio che può essere verificato e modificato attraverso la ripetizione dell’esperienza. Le icone non visive Una precisazione importante è che l’icona può appartenere anche a una qualità non visiva: per esempio si possono ascoltare alcune note che si riconoscono come appartenenti a una melodia già sentita e poi passare attraverso le altre due fasi per cogliere l’oggetto, per esempio l’Inno di Mameli, e formulare tale credenza in un giudizio. Il pensiero Al terzo tipo di segni è collegato quindi un soggetto interprete che comprende il interpretante significato del segno generale attraverso un segno «interpretante», cioè attraverso un altro segno (la proposizione, il giudizio di cui il simbolo è predicato), dato che per Peirce il pensiero implica a sua volta un linguaggio e quindi dei segni.

Icone, indici e simboli

T6

La formazione dei segni Ch.S. Peirce, Scienza e pragmatismo

L’autonomia della semiotica dalla filosofia

276

La logica, nel suo senso generale, non è che un altro nome per semiotica (semeiotikè), la dottrina quasi-necessaria o formale dei segni. Definendo tale dottrina quasi-necessaria o formale, intendo dire che noi osserviamo i caratteri dei segni quali sono quelli che conosciamo e che da tale osservazione, mediante un processo che non ho nulla in contrario a chiamare «astrazione», noi siamo condotti ad asserzioni eminentemente fallibili, e perciò stesso in nessun modo necessarie, che si riferiscono a ciò che devono essere i segni usati da un’intelligenza scientifica, cioè da un’intelligenza che è in grado di trarre insegnamenti dall’esperienza. […] Un Segno o Representamen, è qualcosa che sta per qualcuno in luogo di qualcosa in qualche rispetto o capacità. Esso si indirizza a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno più sviluppato. Quel segno che esso crea io lo chiamo interpretante del primo segno. Il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quell’oggetto non in tutti i rispetti, ma in relazione ad una sorta di idea che sono solito chiamare fondamento del segno. Ogni cosa, anche l’interpretante, sostiene Peirce, assume dunque il ruolo di segno a seconda del contesto in cui è inserita: ogni cosa può svolgere, cioè, una funzione semiotica. Sono riflessioni che hanno dato origine all’odierna disciplina omonima, che è autonoma dalla filosofia e che studia la natura, la produzione, la

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trasmissione e l’interpretazione dei segni, di cui Peirce è comunemente considerato, insieme al linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1916), il padre fondatore (vedi Unità 17, p. 766 s.).

La semiotica di Peirce

Segni

Caratteri comuni a tutti i segni

si dividono in

Icone: – indicano le qualità sensibili; – vengono riconosciute immediatamente; – sono prive di inferenze

tutto ciò che consente una comunicazione ognuno rimanda a un oggetto

Indici: – pongono in relazione la sensazione immediata (icona); – le danno delle limitazioni; – riconoscono che appartiene a un oggetto

Simboli o segni generali: – la qualità entra in un giudizio percettivo come predicato

comprende il significato del segno generale attraverso un pensiero «interpretante», cioè attraverso un altro segno (la proposizione, il giudizio)

Soggetto interprete

James

3 I testi

W. James Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare: Oggetti di pensiero e loro effetti pratici, T7; Il valore pratico delle idee vere, T8 La volontà di credere e altri saggi: La legittimità delle scelte religiose, T9

James, pragmatismo e psicologia

Il filosofo morale e la vita morale: Il fondamento dei giudizi morali, T10 Principi di psicologia: L’interazione tra mente e ambiente, T11 Saggi sull’empirismo radicale: L’esperienza pura è priva di riflessione, T12

Coetaneo e amico di Peirce, William James è colui a cui si deve la notorietà internazionale del pragmatismo come nuovo movimento filosofico, oltre che l’introduzione e lo sviluppo nel continente americano della psicologia sperimentale, che egli ha conosciuto frequentando i laboratori europei, in particolare quello di Wundt.

La vita e le opere Nato a New York nel 1842, figlio del filosofo e teologo Henry e fratello del famoso romanziere Henry Jr., studiò e viaggiò a lungo in Europa e si laureò all’università di Harvard in medicina nel 1869. Dal 1871 divenne docente di fisiologia in quella stessa università; due anni dopo fondò il primo laboratorio di psicologia sperimentale negli Stati Uniti e nel 1876 venne creata per lui la cattedra di psicologia fisiologica. I suoi interessi si orien-

tarono poi verso la filosofia, che iniziò a insegnare nel 1879, per ottenerne la cattedra nel 1885. Pubblicò i due volumi dei Principi di psicologia (1890), La volontà di credere (1897), Le varietà dell’esperienza religiosa (1902), Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare (1907), Il significato della verità (1909). Morì nel 1910 nella sua casa di campagna di Chocorua, nel New Hampshire, di ritorno da un viaggio in Inghilterra. Postumi uscirono i Saggi sull’empirismo radicale (1912).

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

1 Il legame tra pensiero e azione

T7

Oggetti di pensiero e loro effetti pratici

W. James, Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare

La verità come efficacia pratica In linea con Peirce, James insiste sul ruolo pratico del pensiero. Come scrive nel saggio Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare, il pensiero viene esercitato per avere strumenti di azione e quindi agire nella realtà: «il possesso di un pensiero vero significa in ogni caso il possesso di un inestimabile strumento di azione». E proprio perché mette in luce questo stretto legame fra pensiero e azione, il pragmatismo rifiuta le concezioni astratte e metafisiche della realtà, «rifugge dall’astrazione, dalle soluzioni verbali, dalle cattive ragioni a priori, dai principi fissi, dai sistemi chiusi, dai falsi assoluti». Come per Peirce, inoltre, anche per James il significato di una credenza non può essere distinto dai suoi effetti pratici: esso risiede negli effetti che la credenza produce nel mondo. Un’occhiata alla storia dell’idea vi mostrerà che cosa significhi il pragmatismo. Il termine è derivato dalla parola greca pragma, che significa azione, donde vengono le nostre parole «pratica» e «pratico». Fu introdotto per la prima volta nella filosofia da Charles Peirce nel 1878. […] il Peirce, dopo aver rilevato che le nostre credenze sono in realtà delle regole per l’azione, disse che, per esprimere il significato di un pensiero, occorre determinare quale condotta esso sia capace di produrre: questa condotta rappresenta per noi il suo solo significato. E il fatto tangibile che sta alla radice di tutte le distinzioni operate dal pensiero […] è che non ce n’è nessuna tanto fine da non consistere in una possibile differenza pratica. Per conseguire una perfetta chiarezza nelle nostre idee di un oggetto, occorre allora che noi ci limitiamo a considerare quali concepibili effetti pratici l’oggetto possa implicare, quali sensazioni dobbiamo attenderci e quali reazioni dobbiamo preparare. La nostra concezione di questi effetti, sia immediata o remota, è allora tutta la concezione che abbiamo dell’oggetto in quanto esso abbia un significato positivo.

Tuttavia, se per Peirce l’effetto pratico determina il significato di una credenza ma non la sua verità, il cui accertamento è lasciato al metodo scientifico, James estende il metodo pragmatico anche alla nozione di verità. La verità di una credenza consiste nell’essere sottoponibile a un processo che la conferma; un’idea è vera se è verificabile attraverso un operare di carattere pratico: «le idee vere – scrive – sono quelle che possiamo assimilare, convalidare, confermare e verificare. […] La verità di un’idea non è la sua stagnante proprietà. Un’idea diventa vera, è resa vera dagli eventi. La sua verità è di fatto un avvenimento, un processo: il processo, più esattamente, del suo verificarsi, della sua verificazione». Idea vera ed efficacia Ma se un’idea è vera, essa ha, aggiunge James, anche una sua efficacia pratica: pratica essa ci consente di operare nella realtà, risultando utile ai nostri scopi. Ma se è così, la verità è strettamente collegata all’efficacia pratica e all’utilità: è dunque vero ciò che è utile. In questo modo, James identifica la verità con l’utilità.

La ricerca della verità attraverso la conferma pratica

T8

Il valore pratico delle idee vere

W. James, Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare

278

Il possesso della verità, lungi dall’essere un fine, è soltanto un mezzo per altre soddisfazioni vitali. Se mi sono perduto in un bosco e trovo qualcosa che assomigli a un sentiero, è della massima importanza che io pensi come esso conduca a un’abitazione umana, in quanto se penso così e lo seguo io mi salverò. Il pensiero vero è utile perché l’abitazione che è il suo oggetto è utile. Il valore pratico delle idee vere deriva anzitutto dall’importanza pratica dei loro oggetti per noi. Questi

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non sono in effetti sempre importanti. Io posso non avere bisogno, in un’altra occasione, di quella casa; e allora l’idea che ne ho, sebbene verificabile, conterebbe poco praticamente e sarebbe meglio che restasse latente. Tuttavia, poiché ogni oggetto può un giorno diventare rilevante, il vantaggio di disporre di una sorta di verità extra, ossia di idee che saranno vere in certe situazioni, è ovvio. Ogni volta che una verità di questo tipo diventa praticamente rilevante per un nostro bisogno, essa abbandona il freddo magazzino in cui l’abbiamo collocata per agire nel mondo e la nostra credenza in essa si fa attiva. Voi allora potete dire della stessa che è «utile perché è vera» o che «è vera perché è utile». Queste frasi significano entrambe la medesima cosa, che c’è un’idea che si realizza e può essere verificata. Vera è chiamata qualunque idea metta in moto il processo di verificazione, utile è detta la sua funzione concretatasi nell’esperienza. Le idee vere non dovrebbero acquisire un nome di classe e meno che mai un nome che suggerisca un valore salvo che non siano risultate utili in questo modo fin dal principio. La rettifica della nozione di utilità

Questa equiparazione della verità con l’utilità suscitò non poche critiche: c’è chi ironicamente osservò che James sostituiva il giuramento del testimone con quello di dire «l’utilità, tutta l’utilità e nient’altro che l’utilità in nome dell’esperienza futura»; critiche che condussero James a proporre una rettifica della sua teoria della verità nel saggio Il significato della verità, nel quale veniva più chiaramente precisato che con utile deve essere inteso solo ciò che è utile da un punto di vista intellettuale, e che ciò non elimina il necessario confronto con la realtà. La teoria della verità in James

L’influenza di James in Europa

2 La religione e il coinvolgimento emotivo

Significato come effetto pratico

Verità come processo di verifica: l’idea vera è confermata attraverso l’agire

Utilità come verifica dell’idea vera

Tuttavia, l’equiparazione della verità con l’utilità esercitò una grande suggestione: fu sostenuta esplicitamente dal pragmatista inglese Ferdinand C.S. Schiller (1864-1937), per il quale anche la scienza fa riferimento al criterio dell’utilità; e ancora più nettamente dalle correnti pragmatiste europee di carattere più accentuatamente irrazionalistico: dal filosofo tedesco Hans Vaihinger (1852-1933), per il quale la scienza e la filosofia sono finzioni accettate solo perché utili a fini vitali, dal poeta e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936), per il quale «la vita è il criterio della verità», e dagli scrittori italiani Papini e Giuseppe Prezzolini (1882-1982), che attraverso la rivista «Il Leonardo» (1903-1907) introdussero il pragmatismo in Italia.

La volontà di credere e l’etica Nel saggio La volontà di credere e poi in La varietà dell’esperienza religiosa, James affronta il tema della fede e della religione. Egli sostiene che per quanto riguarda le credenze di cui non si può accertare la verità o la falsità, cioè che escono fuori dal campo dell’esperienza, come le credenze della religione e dell’etica (l’esi279

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stenza di Dio e della vita ultraterrena, la realizzabilità del bene nel mondo e così via), è un diritto, e anzi un dovere, del soggetto farle proprie, anche se ciò non è razionalmente giustificabile: basta che la credenza sia viva e importante, che alla base vi sia cioè un desiderio reale, un coinvolgimento emotivo e passionale. Volontarismo Il soggetto è quindi giustificato nel credere cose non verificabili se solo vuole vee credenza ramente farlo: è la cosiddetta «teoria della volontà di credere». Anche non credere, del resto, sarebbe compiere una scelta razionalmente ingiustificata. In questi casi, anzi, una credenza forte, una fede salda, può portare essa stessa alla sua conferma: il bene nel mondo sarà effettivamente realizzabile se tutti vi crederanno, così come credendo in Dio si troverà un’armonia nelle cose e si sarà confortati e sollevati anche nei momenti più difficili. James nel testo sotto riportato polemizza con il biologo evoluzionista inglese Huxley, che aveva giudicato la religione un «abisso di immoralità».

T9

La legittimità delle scelte religiose

W. James, La volontà di credere e altri saggi, 4,9

La tesi che intendo difendere è la seguente: la nostra natura di esseri passionali non soltanto ha titolo legittimo, ma anche il dovere di decidere una scelta tra proposizioni, una volta che si tratti realmente di una vera scelta che non può essere decisa, per sua natura, su una base puramente intellettuale. Infatti in queste condizioni, dire «non decidere, ma lascia aperta la questione», è a sua volta una decisione dettata dalle passioni, proprio come decidere per il sì o per il no, ed è accompagnata dallo stesso rischio di perdere la verità. […] Ci sono casi in cui un fatto non può giungere a verificarsi se non esiste preliminarmente la fiducia che possa effettivamente giungere a compimento. E nel caso che la fiducia in un fatto possa contribuire a creare quel fatto, sarebbe una logica folle quella che affermasse che la fede che se ne va per la sua strada senza aspettare la prova scientifica è «un abisso di immoralità» nel quale possa cadere un essere pensante. Eppure questa è la logica con cui i nostri assolutisti scientifici pretendono di regolare le nostre vite! Quindi, nelle verità che dipendono dalla nostra azione personale, la fiducia basata sul desiderio è certamente una cosa legittima e forse anche indispensabile.

La riflessione etica viene ulteriormente approfondita nel saggio Il filosofo morale e la vita morale del 1891, nel quale James polemizza da una parte contro le concezioni idealistiche della morale, che danno una definizione aprioristica di ciò che è buono, dall’altra contro le concezioni evoluzionistiche alla Spencer, che identificano il buono con un fatto naturale, con il prodotto dell’evoluzione. Per James, il bene e il male non sono tali a priori, né possono essere desunti dall’osservazione del mondo naturale: un fatto fisico di per sé non è né buono né cattivo. Essi dipendono invece dalle sensazioni del soggetto, il solo creatore dei valori morali: qualcosa è buono solo se il soggetto lo sente tale, rendendolo buono. Coscienza individuale I valori morali, scrive, «sono tali soltanto in uno spirito che li sente, mentre a nese giudizi morali sun mondo composto esclusivamente di fatti fisici potrebbero applicarsi proposizioni etiche». Riformulando in chiave etica la massima dell’empirista irlandese George Berkeley, James sostiene che per i valori morali esse est percipi: il loro essere consiste nell’essere percepiti. Proprio per questo loro carattere, i giudizi morali non possono essere detti veri o falsi, a meno che non si trovi un accordo su alcuni principi comuni interpersonali. Nel caso di contrasto fra diverse concezioni del bene e del male non c’è alcun mezzo per superare il disaccordo, se non attraverso il L’origine soggettiva dei valori morali

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richiamo a ciò che è sentito dalle singole coscienze. È una concezione di soggettivismo etico che avrà grande diffusione nel Novecento.

T10

Il fondamento dei giudizi morali

W. James, Il filosofo morale e la vita morale

I valori morali in James

Parole come «bene» e «male» non possono avere applicazione o valore in un mondo in cui non esista alcuna vita senziente. […] Ma da quando un essere senziente fa parte dell’universo, c’è una possibilità per l’esistenza reale del bene e del male. Le relazioni morali hanno ora il loro status nella coscienza di questo essere. Nella misura in cui egli sente che qualcosa è buono, lo rende buono. Esso «è» buono, ed essendo buono per lui, è buono in assoluto, perché egli è il solo creatore di valori in un tale universo e le cose non hanno un rilievo morale che nei suoi giudizi. Sarebbe ora assurdo sollevare la questione se i giudizi di bene e di male del solitario pensatore sono veri o no. La verità suppone una norma esterna al pensatore che deve conformarvisi, e qui egli è invece una specie di divinità non sottoposta ad alcun giudizio. […] Perché un giudizio morale sia obiettivamente superiore ad un altro, occorre che tale superiorità venga avvertita concretamente dalla coscienza di qualcuno. Non può vagare nell’atmosfera, non essendo una sorta di fenomeno meteorologico come l’aurora boreale o la luce zodiacale. Il suo esse è il percipi, come l’esse degli stessi ideali che sono presenti al giudizio. Così al filosofo che vuol sapere quale ideale debba avere la massima autorità e quale debba essere subordinato s’impone di cercare lo stesso dovere in una qualche coscienza, oltre cui egli non può spingersi. Questa coscienza farà giusto un ideale sentendolo giusto, ingiusto un altro sentendolo ingiusto. Ma quale particolare coscienza nell’universo può godere della prerogativa di obbligare le altre a conformarsi alla sua norma?

Volontà di credere come fonte delle scelte religiose e dei doveri ad esse collegati

3

Il soggetto come fonte dei valori morali

Bene e male come scelte di ogni coscienza

I giudizi morali non sono né veri né falsi, a meno che non si trovino principi comuni

La psicologia e l’empirismo radicale

Come si è osservato, la riflessione di James non si limita alla filosofia, ma si estende anche alla psicologia – di cui è uno dei primi studiosi nel continente americano – con la sua prima opera: i due volumi dei Principi di psicologia, del 1890. In essa riprende i temi della nascente riflessione psicologica, correggendo la psicologia associazionistica classica (elaborata da Locke, Hume, James Mill, Herbart) con le teorie evoluzionistiche di Darwin e di Spencer. La vita della mente In opposizione alla psicologia razionale tradizionale, che vede un’anima individuale al centro della vita psichica, per la psicologia associazionistica la vita mentale consiste in una giustapposizione di sensazioni distinte e indipendenti a cui l’identità individuale può essere ridotta. Per James, invece, la vita mentale è costituita da un unico «flusso di sensazioni» che si succedono senza so-

Uno dei primi studiosi americani di psicologia

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sta e senza una distinzione netta le une dalle altre. La mente inoltre non è un’entità separata dal mondo esterno, ma è sempre in interazione con esso: in linea con le concezioni darwiniane e spenceriane, ogni fenomeno psichico si costituisce come risposta a uno stimolo proveniente dall’ambiente, in una relazione di adattamento ad esso. Il mondo influisce così sulla vita psichica, e quest’ultima a sua volta influisce sull’esterno, modificandolo: è la cosiddetta «teoria dell’azione riflessa».

T11

L’interazione tra mente e ambiente W. James, Principi di psicologia, 1

L’«esperienza pura» come flusso

➥ Sommario, p. 300

T12

L’esperienza pura è priva di riflessione

W. James, Saggi sull’empirismo radicale

Psicologia ed empirismo in James

Tra le formule recenti ce ne sono poche che abbiano complessivamente reso alla psicologia servizi maggiori della formula spenceriana per cui l’essenza della vita mentale e l’essenza della vita corporea sono identiche, ossia «l’adattamento delle relazioni interne alle esterne». Una tale formula può dirsi l’incarnazione della vaghezza: ma poiché considera il fatto che le menti abitano in ambienti che agiscono su di essa e su cui reagiscono a loro volta, poiché, insomma, colloca la mente nel concreto delle sue relazioni, questa formula è immensamente più fertile della vecchia «psicologia razionale» che riteneva l’anima una cosa separata e autosufficiente e intendeva studiarne soltanto la natura e la priorità. L’immagine di un flusso di sensazioni ritorna anche negli ultimi saggi di James, apparsi postumi, i Saggi sull’empirismo radicale. In essi egli propone una concezione empiristica radicale, una concezione cioè che si attiene solo a ciò che è dato dall’«esperienza pura», non sottoposta ad alcuna interpretazione concettuale. L’«esperienza pura» è costituita da un flusso di esperienze completamente neutre, in quanto non vi si dà distinzione tra soggetto e oggetto, tra fisico e mentale, né tra singole porzioni di esperienza. Il dato iniziale è dunque un flusso indistinto, molteplice e vario di esperienze, ed è solo successivamente che la riflessione concettuale pone su questa base indifferenziata le sue distinzioni, interpretandola e attribuendo ad essa determinati significati. L’esperienza pura è il nome che do all’immediato flusso vitale che fornisce il materiale alla nostra riflessione posteriore con le sue categorie concettuali. Solo i neonati o gli uomini in stato di semicoma a causa del sonno, delle droghe o delle malattie si può dire che vivano effettivamente questa esperienza, per ciò che essa è e prima che essa assuma un determinato significato, implicante l’unità e la molteplicità.

La vita mentale è un flusso di sensazioni

La mente interagisce con il mondo esterno

Esperienza pura come flusso indistinto, molteplice, caotico: materiale originario della conoscenza

Riflessione concettuale sul materiale dato dall’esperienza pura

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Dewey

4 I testi

J. Dewey Necessità di un risanamento della filosofia: Il confronto critico con l’empirismo tradizionale, T13 Esperienza e natura: L’identificazione tra esperienza e storia, T14; La «realtà corporeo-mentale»: l’unione di due forme di esperienza, T17 Come pensiamo: La risoluzione di un problema attraverso la riflessione, T15

Il pragmatista più influente

Più giovane di Peirce e James, John Dewey rappresenta il punto culminante del pragmatismo americano. La sua riflessione filosofica e pedagogica va oltre il XIX secolo per abbracciare tutta la prima metà del Novecento. Il peso di Dewey sulla vita intellettuale statunitense è notevole, così come è notevole la sua produzione letteraria e scientifica, che vede la pubblicazione di oltre quaranta libri e settecento articoli di filosofia.

La vita e le opere Nato nel 1859 a Burlington nel Vermont, John Dewey studiò filosofia alla John Hopkins University di Baltimora dove fu allievo di Peirce e del neohegeliano George S. Morris, di cui divenne dal 1884 (dopo essersi laureato in quello stesso anno) assistente presso l’università del Michigan. Nel 1894 venne chiamato a insegnare filosofia all’università di Chicago, dove fondò la Scuola-laboratorio per bambini nella quale mise in atto la propria riflessione pedagogica. In questo periodo pubblicò Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e società (1899) e Studi sulla teoria logica (1903). Dal 1904 al 1929 fu professore dell’università di New York; città nella quale morì, dopo nu-

1 Critica della nozione tradizionale di esperienza

Logica: teoria dell’indagine: Fatti e idee hanno «natura operazionale», T16 Teoria della valutazione: Nessun dualismo tra fatti e valori, T18; Le valutazioni etiche come calcolo del rapporto mezzi / fini, T19; La relazione mezzi / fini non è unilaterale, T20 Il mio credo pedagogico: La scuola come forma di vita di comunità, T21

merosi viaggi all’estero e un’intensa attività intellettuale e politica, nel 1952. Tra le moltissime opere della maturità le principali sono Etica (1908), Come pensiamo (1910), Saggi di logica sperimentale (1916), Necessità di un risanamento della filosofia (1916), Natura e condotta dell’uomo (1922), Esperienza e natura (1926), La ricerca della certezza (1929), Individualismo vecchio e nuovo (1930), L’arte come esperienza (1934), Logica: teoria dell’indagine (1938), Esperienza ed educazione (1938), L’unità della scienza come problema sociale (contributo al I volume dell’Enciclopedia internazionale della scienza unificata, 1938), Teoria della valutazione (contributo al II volume dell’Enciclopedia, sopra citata, 1939).

L’esperienza e la storia Distaccatosi ben presto dalle posizioni neoidealistiche di George Sylvester Morris (1840-1889) – che trovano espressione nei suoi primi saggi – con lo scritto Studi sulla teoria logica, del 1903, Dewey si avvicina al pragmatismo di Peirce e James, condividendone alcune tesi fondamentali. Il primo aspetto su cui richiama l’attenzione è la messa in discussione del concetto tradizionale di esperienza. L’empirismo tradizionale concepisce l’esperienza come qualcosa di passivo: essa è un fenomeno esclusivamente conoscitivo, di carattere puramente ri283

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

L’esperienza come risposta attiva dell’organismo

L’esperienza delle relazioni tra i dati

T13

Il confronto critico con l’empirismo tradizionale J. Dewey, Necessità di un risanamento della filosofia

L’analogia strutturale tra esperienza e storia

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cettivo e, in quanto tale, rivolto solo al passato; essa è inoltre uno stato di coscienza soggettivo immediatamente chiaro e distinto. L’esperienza va invece concepita, per Dewey, come necessariamente connessa alla pratica, all’agire sperimentale e al futuro: essa nasce da una relazione di azione e reazione dell’organismo con l’ambiente. L’esperienza non è quindi solo soggettiva ma anche oggettiva, non è mera ricezione passiva, ma è anche risposta attiva dell’organismo vivente allo stimolo esterno proveniente dall’ambiente naturale e sociale, in linea con quanto aveva messo in luce James nella sua psicologia. Proprio per questo, essa si presenta come mutevole e precaria: non è sempre chiara e ordinata, molto più spesso vaga, confusa, piena di errori, mancanze, disordine; «l’esperienza – scrive Dewey – include i sogni, la pazzia, la malattia, la morte, la guerra, la confusione, l’ambiguità, la menzogna e l’orrore; include i sistemi trascendentali come gli empirici, la magia e la superstizione come la scienza». Per di più, se l’esperienza dell’empirismo coglie i dati isolati e indipendenti ed è completamente separata dal pensiero, in questa accezione dinamica essa coglie anche le relazioni fra i dati e si presenta come strettamente collegata all’elaborazione concettuale: lo stesso procedimento di inferenza induttiva è interno all’esperienza. Dewey caratterizza la propria concezione dell’esperienza, rispetto a quella tradizionale dell’empirismo, nel saggio Necessità di un risanamento della filosofia. 1) Il punto di vista ortodosso considera l’esperienza primariamente come un fatto conoscitivo. Ma ad occhi che non guardano attraverso lenti invecchiate essa appare sicuramente come un fatto del rapporto tra essere vivente e il suo ambiente naturale e sociale. 2) Secondo la tradizione l’esperienza è (almeno primariamente) una cosa psichica, compenetrata di «soggettività». Quello che l’esperienza suggerisce di se stessa è un mondo genuinamente oggettivo che entra nelle azioni e nelle passioni degli uomini e che subisce modificazioni attraverso le loro risposte. 3) Nella misura in cui la dottrina consacrata ammette qualcosa al di là del mero presente, è il passato esclusivamente che conta. L’essenza dell’esperienza viene posta nella registrazione di ciò che è avvenuto, nel riferimento a un precedente. L’empirismo viene concepito come legato a ciò che è stato o che è «dato». Ma l’esperienza nella sua forma vitale è sperimentale, sforzo di cambiare il dato; è caratterizzata da una proiezione, da un protendersi verso il futuro. Il suo tratto saliente è la connessione con un futuro. 4) La tradizione empiristica è legata al particolarismo. I nessi e le continuità vengono supposti come estranei all’esperienza, come sottoprodotti di dubbia utilità. Un’esperienza che è un sottostare ad un ambiente e uno sforzo per dominarlo in nuove direzioni è pregnante di nessi. 5) Nell’accezione tradizionale, esperienza e pensiero sono termini antitetici. E l’inferenza, in quanto è altra cosa da un ravvivamento di ciò che è stato dato in passato, va oltre l’esperienza […]. Ma l’esperienza, presa libera dalle restrizioni imposte dall’antico concetto, è piena di inferenza. Non esiste all’evidenza nessuna esperienza cosciente senza inferenza: la riflessione è nativa e costante. Secondo Dewey, proprio per questo carattere insieme soggettivo e oggettivo, l’esperienza nel suo senso più globale può essere identificata con la storia, che è anch’essa unione di fattori soggettivi e oggettivi, umani e naturali: «com’è proprio della storia aver significati detti soggettivi e oggettivi, così è dell’esperienza». Nella storia, come nell’esperienza, non è presente solo l’ordine e la stabilità,

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ma anche il disordine e l’instabilità: il mondo è incerto e pericoloso, carico di precarietà e dolore: «la peste, la fame, la rovina dei raccolti, la malattia, la morte, la disfatta, – scrive Dewey – sono sempre all’angolo della strada e così anche l’abbondanza, la forza, la vittoria, la festa e il canto. La fortuna è proverbialmente insieme buona e cattiva nelle sue distribuzioni». La critica delle filosofie È un’illusione dimenticare questo carattere di instabilità e vedere nella storia sodella storia lo armonia e perfezione, considerando mera apparenza ciò che non è conforme a quest’ordine. Quanto fanno le metafisiche idealistiche o l’evoluzionismo, con la sua fiducia in una futura armonia, non è diverso dall’appello antico a forze magiche e sovrannaturali. Questo atteggiamento viene bollato da Dewey come una «fallacia filosofica»: fallacia è essere sicuri di uno sviluppo armonico e razionale della storia e considerare il disordine e il male come apparenze e illusioni; essi sono invece realtà ben determinate che l’uomo deve impegnarsi a controllare e cercare di superare. Compito della filosofia è chiarire, e non mascherare, la precarietà della realtà. Dewey pone nel saggio Esperienza e natura l’identificazione fra storia ed esperienza.

T14

L’identificazione tra esperienza e storia J. Dewey, Esperienza e natura

La nozione di esperienza in Dewey

Quando diciamo che l’esperienza è un punto di accesso alla spiegazione del mondo nel quale viviamo, intendiamo per esperienza qualcosa che sia vasta, profonda e piena almeno quanto tutta la storia su questa terra; una storia la quale (poiché la storia non accade nel vuoto) include la terra e i correlati fisici dell’uomo. Quando assimiliamo l’esperienza alla storia piuttosto che alla fisiologia delle sensazioni, indichiamo che la storia denota insieme le condizioni oggettive, le forze, gli eventi, e la registrazione e la valutazione di queste forze ed eventi fatta dall’uomo. L’esperienza denota tutto ciò che è esperimentato, tutto ciò che si subisce e si prova, ed altri processi dello sperimentare. Com’è proprio della storia aver significati detti soggettivi e oggettivi, così è dell’esperienza. Come ha detto William James, essa è un fatto «a doppia faccia». Senza il sole, la luna, le stelle, le montagne e i fiumi, le foreste e le miniere, il suolo, la pioggia e il vento, la storia non ci sarebbe. Queste cose non sono condizioni esterne della storia dell’esperienza; fanno integralmente parte di essa. Ma dall’altro lato senza gli atteggiamenti e gli interessi umani, senza la registrazione e l’interpretazione, queste cose non sarebbero storia.

nasce dall’interazione tra organismo e ambiente ed è una risposta attiva dell’organismo all’ambiente

è identificata con la storia

si pone l’obiettivo di cambiare, di agire sul futuro

Esperienza

spesso è oscura, molteplice, confusa e disordinata

è soggettiva e insieme oggettiva, perché nasce dall’interazione tra il soggetto e la realtà esterna oggettiva

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

2 Il pensiero come indagine per adattarsi all’ambiente

L’indagine e le sue prime due fasi

Le ultime tre fasi: idea, ragionamento, esperimento

T15

La risoluzione di un problema attraverso la riflessione

J. Dewey, Come pensiamo

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Lo strumentalismo e la conoscenza L’esperienza non è quindi solo chiarezza e ordine, ma anche oscurità e confusione. Scopo del pensiero logico e della conoscenza, scrive Dewey nella sua principale opera di carattere gnoseologico, Logica: teoria dell’indagine (nella quale vengono riprese le ricerche svolte negli scritti del primo decennio del Novecento: Come pensiamo e Saggi di logica sperimentale), è allora quello di far luce in questa oscurità e mettere ordine in questa confusione: «la funzione del pensiero riflessivo è […] quella di trasformare una situazione nella quale si abbiano esperienze caratterizzate da oscurità, dubbio, conflitto, comunque insomma disturbate, in una situazione che sia chiara, coerente, ordinata, armoniosa». Il pensiero fa questo in un processo che mira a un adattamento sempre migliore all’ambiente circostante; processo che Dewey chiama «indagine». L’indagine è dunque concepita come un processo che dura nel tempo e di carattere pratico, in quanto connesso a un’attività di trasformazione e manipolazione dell’esperienza. L’indagine è scandita in una serie di cinque fasi, che si compenetrano e sostengono l’una con l’altra. Ha inizio con la presenza di una «situazione indeterminata», cioè di una situazione ancora confusa e disordinata. Il passo successivo, che consente di mettere ordine nella situazione, è quello di individuare quali sono i problemi da risolvere: in questa seconda fase si passa da una situazione indeterminata a una «situazione problematica», nella quale è chiaro a quale problema occorre dare una risposta. La risoluzione del problema passa, nella fase successiva, attraverso la formulazione di una «idea», cioè di un’ipotesi ancora vaga, una «semplice suggestione» su quale sia la strada migliore per giungere a tale soluzione. Questa idea ancora confusa viene chiarita attraverso il «ragionamento», che analizza le implicazioni dell’idea mettendola in rapporto con altre idee e traducendola in un linguaggio rigoroso. Ma il ragionamento da solo non basta per decidere se l’idea sia davvero efficace come soluzione del problema: ciò può essere stabilito solo dall’«esperimento», che mette alla prova l’idea nel confronto con i fatti, decretando se essa è da accettare, da respingere oppure da correggere al fine di rendere conto dei fatti stessi. Con la fase dell’esperimento si conclude il processo dell’indagine: se l’idea supera la prova dell’esperimento essa si traduce in un giudizio finale di soluzione del problema e di indicazione delle attività future. I due estremi di ogni unità di pensiero sono una situazione perturbata, dubbia e incerta all’inizio, e una situazione rischiarata, unificata o risolta alla fine. La prima di queste situazioni può essere chiamata pre-riflessiva. Essa pone il problema da risolvere; da essa nasce la questione cui la riflessione deve dare risposta. Nella situazione finale il dubbio è stato tolto; la situazione è post-riflessiva; ciò che ne risulta è un’esperienza diretta di padronanza, soddisfazione, godimento. Entro questi limiti si muove l’attività di riflessione. […] Tra questi due estremi, come fasi del pensiero, vi sono: a) le suggestioni, in cui la mente si spinge innanzi verso una possibile soluzione; b) una intellettualizzazione della difficoltà o della perplessità avvertita (direttamente esperita) in un problema da risolvere, in una questione per cui deve essere cercata una risposta; c) l’uso di una suggestione dopo l’altra come idee conduttrici, o ipotesi, per iniziare e guidare l’osservazione ed altre operazioni nella raccolta del materiale di fatto; d) l’elabora-

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zione mentale dell’idea o della supposizione proprio come idea o supposizione (ragionamento) nel senso in cui un ragionamento è una parte, e non è il tutto dell’inferenza; e) il processo di controllo dell’ipotesi tramite l’azione diretta o nell’immaginazione. Questa procedura riguarda, per Dewey, tanto la conoscenza comune quanto la conoscenza scientifica, che sono avvicinate per il modo generale di articolare l’indagine. Il carattere strumentale Essenziale è, tuttavia, sottolineare che tanto le idee proposte come soluzioni dei delle idee e dei fatti problemi, quanto gli stessi fatti con cui le idee vengono confrontate hanno un carattere operazionale e strumentale: le idee sono cioè ipotesi con cui operare nella realtà per la risoluzione dei problemi, così come i fatti non sono «dati» puri e immutabili, come nell’empirismo tradizionale, ma sono «assunti», sono l’esito di operazioni di organizzazione e di selezione dell’esperienza. Le ipotesi con cui si cerca di risolvere i problemi, dunque, non sono altro che strumenti adeguati a questa soluzione; e in quanto strumenti non sono né vere né false, ma solo più o meno efficaci. Per indicare questa concezione Dewey ricorre all’espressione «strumentalismo», da lui preferita a quella, giudicata troppo controversa, di pragmatismo.

T16

Fatti e idee hanno «natura operazionale»

J. Dewey, Logica: teoria dell’indagine, 6

Sia i fatti osservati sia le idee considerate sono di natura operazionale. Le idee sono operazionali in quanto promuovono e dirigono ulteriori operazioni di osservazione; esse sono proponimenti e piani d’intervento sulle condizioni esistenti onde far venire alla luce nuovi fatti ed organizzare tutti i fatti selezionati in un tutto coerente. […] Gli ordini di realtà, che si presentano in seguito alle osservazioni sperimentali suscitate e dirette dalle idee, sono fatti in via di collaudo. Essi sono provvisori. Sono «fatti» in quanto sono osservati con organi sani e tecniche adeguate. Ma non sono ancora, per quel riguardo, i fatti del caso [cioè fatti significativi]. Essi sono attestati o «provati» rispetto alla loro funzione evidenziale, proprio come le idee (ipotesi) sono attestate in rapporto alla loro capacità di esercitare una funzione risolutiva. La forza operativa tanto delle idee che dei fatti è così riconosciuta nella misura in cui si connettono all’esperimento. Chiamarli operazionali è soltanto un riconoscimento teoretico di quanto effettivamente avviene quando l’indagine soddisfa le condizioni imposte dalla necessità dell’esperimento.

La verità o la falsità non compete, dunque, alle singole idee, ma solo al giudizio conclusivo dell’indagine: solo il giudizio finale può essere considerato vero, cioè un’«asserzione garantita». Tuttavia, esso non è infallibile, in quanto per Dewey, in linea con Peirce, un problema non si può mai dire risolto definitivamente. Dire che il giudizio finale è vero non significa che esso corrisponde esattamente alla realtà, ma solo che esso si rivela uno strumento idoneo alla soluzione del problema: Dewey rifiuta la concezione corrispondentistica della verità, per sostenerne una pragmatica. Il carattere pubblico Secondo lo strumentalismo di Dewey, dunque, la funzione pratica e strumentale di pensiero di pensiero e conoscenza è fondamentale, ma allo stesso tempo è determinante il e conoscenza loro aspetto pubblico e oggettivo: essi sono soggetti alla discussione e alla conferma sperimentale a opera dell’intera comunità scientifica, aspetto con il quale Dewey bilancia l’elemento soggettivistico insito in questa concezione della verità e, in generale, nel pragmatismo.

Una teoria pragmatica della verità

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Indagine, sperimentalismo, verità in Dewey

Indagine: processo con cui il pensiero si adatta all’ambiente e che si compone di cinque fasi

Le cinque fasi dell’indagine

Situazione indeterminata: confusa e disordinata

Situazione problematica: individua i problemi da risolvere

Idea: semplice suggestione per la soluzione del problema

Ragionamento: chiarisce l’idea confrontandola con le altre e la traduce in forma rigorosa

Idee e fatti hanno carattere operazionale: strumentalismo

Esperimento: mette alla prova l’idea confrontandola con i fatti

Se l’idea trova conferma nell’esperimento si definisce un giudizio finale sulla soluzione del problema che determina l’agire. Teoria pragmatica della verità

3 Pensiero e conoscenza funzionali alla sopravvivenza

La «transazione» tra uomo e ambiente

La negazione del dualismo mente-corpo

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La relazione con l’ambiente e il problema mente-corpo Come si è già accennato, il pensiero e la conoscenza scientifica si configurano, per Dewey, principalmente come risposte della mente umana di fronte alla problematicità dell’esperienza. Riprendendo la tesi fondamentale del darwinismo, essi rappresentano uno dei modi con il quale l’uomo ottiene, allo scopo della sopravvivenza, un sempre migliore adattamento a un ambiente circostante precario e incerto; adattamento che non è quindi solo biologico, ma anche intellettuale. L’uomo, scrive Dewey nel saggio Conoscenza e transazione, è in una continua relazione di «transazione» con la realtà circostante, cioè in una relazione di scambio, che modifica i termini stessi della relazione. Non si dà quindi una separazione assoluta fra uomo e ambiente, fra soggetto e oggetto, come avverrebbe invece se fra di essi ci fosse una relazione di mera «interazione», che non modifica i termini della relazione. In una relazione di transazione, infatti, un termine della relazione esiste solo in quanto esiste l’altro, così come avviene nelle transazioni economiche, dalle quali il vocabolo è ripreso: un venditore esiste solo se c’è un compratore. Allo stesso modo, nota Dewey, non si dà una separazione netta fra mente e corpo: contro ogni dualismo mente-corpo, la mente non può esistere indipendentemente dal corpo, configurandosi piuttosto come una particolare risposta del corpo di fronte alle sollecitazioni dell’ambiente. L’organismo umano ha quindi due aspetti inseparabili, quello mentale e quello corporeo, e per riferirsi a questa unità psicofisica Dewey ricorre alle espressioni «corpo-mente» e «realtà corporeo-mentale».

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T17

La «realtà corporeomentale»: l’unione di due forme di esperienza J. Dewey, Esperienza e natura, 7

4

Il nostro linguaggio è così permeato dei significati di teorie che hanno separato il corpo dalla mente, costituendone due regni esistenziali nettamente divisi fra di loro, che noi non disponiamo di parole che designino il fatto esistenziale così come esso realmente è. Le circonlocuzioni a cui siamo costretti a ricorrere […] ci inducono perciò a pensare che esistono in natura separazioni analoghe, le quali possono anche essere aggirate mediante complicate operazioni di accerchiamento. Ma la realtà corporeo-mentale designa semplicemente ciò che realmente ha luogo quando un corpo vivente entra in rapporto con situazioni di discorso, di comunicazione e di partecipazione. Nell’espressione «corpo-mente», nella quale le due parole sono separate da un trattino, «corpo» designa l’operazione continuata, che conserva via via i propri risultati, registrata e cumulativa di fattori che sono continui con il resto della natura, tanto inanimata quanto animata; mentre la parola «mente» designa i caratteri e le conseguenze che sono differenziali, che indicano dei tratti che emergono quando il «corpo» si trova impegnato in una situazione più ampia, più complessa e più interdipendente.

L’etica

La relazione continua fra l’uomo e l’ambiente è ribadita anche in sede di riflessione etica. Fra i saggi dedicati da Dewey all’etica, possono essere ricordati Etica, Natura e condotta dell’uomo e Teoria della valutazione, scritto per la neopositivistica Enciclopedia internazionale della scienza unificata (vedi Unità 16, p. 733). Le valutazioni morali nascono nella relazione di scambio dell’uomo con l’ambiente sociale, di fronte a una percezione di mancanza e insoddisfazione: in presenza di questa percezione l’uomo desidera e quindi valuta positivamente ciò che la fa cessare. Valutazioni che mutano La valutazione morale dipende, quindi, dai bisogni, dai desideri e dagli interescon l’ambiente si, ma l’interazione con l’ambiente modifica bisogni, desideri e interessi dell’uomo e quindi la stessa valutazione. Essa è legata alla costituzione biologica dell’uomo, ma questa costituzione risente costantemente delle modificazioni apportate dall’ambiente sociale. Proprio questa costante relazione fa venire meno, oltre alle distinzioni che si sono viste, anche quella fra un mondo di fatti e un mondo di valori completamente separati. Anche in questo caso Dewey rifiuta un dua➥ Tesi a confronto, p. 865 lismo tradizionale: quello tra fatti e valori. Valutazione morale e bisogni

T18

Nessun dualismo tra fatti e valori J. Dewey, Teoria della valutazione, 8

Non vi è nessun desiderio e nessun interesse che, in quanto distinto dal semplice impulso e dall’appetito meramente organico, non sia quel che è a causa della trasformazione effettuata in questi ultimi dalla loro interazione con l’ambiente culturale. Quando si esaminano le teorie correnti, che, del tutto a ragione, mettono in relazione la valutazione coi desideri e con gli interessi, nulla colpisce più della loro negligenza – tanto grande da essere sistematica – nel considerare la funzione delle condizioni ed istituzioni culturali nella formazione dei desideri e dei fini e quindi delle valutazioni. […] La pretesa separazione che esisterebbe fra il «mondo dei fatti» ed il «regno dei valori» sparirà dalle credenze umane soltanto quando si constaterà che i fenomeni di valutazione hanno la loro immediata sorgente nei modi biologici di comportamento e traggono il loro concreto contenuto dall’influenza delle condizioni culturali. 289

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Nonostante il rifiuto della netta indipendenza tra fatti e valori, quando si parla di valutazione, osserva Dewey, non vanno confuse la constatazione empirica di una valutazione effettivamente fatta e l’atto di fare una valutazione. Non vanno cioè confusi i «valori di fatto», ossia ciò che è effettivamente apprezzato da qualcuno in un determinato momento, dai «valori di diritto», ossia ciò che è apprezzabile, ciò che deve essere apprezzato: «un giudizio valutativo – scrive – non è una mera affermazione che una certa cosa è piaciuta; è un’investigazione sulle pretese della cosa in questione di essere stimata, apprezzata, valutata positivamente, tenuta cara». L’etica come unione L’etica, come teoria della valutazione, si occupa dei valori di diritto; tuttavia la dei valori di fatto conoscenza dei valori di fatto, di cosa è effettivamente apprezzato e valutato, è e di diritto indispensabile per effettuare un’adeguata valutazione di diritto. Quest’ultima, infatti, deve essere compiuta con intelligenza, ponderando con attenzione l’effettiva realizzabilità di mezzi e dei fini, e deve quindi trarre insegnamento dall’esperienza passata e da cosa è effettivamente apprezzato: in questo modo è possibile «un controllo intellettuale ed empiricamente ragionevole dei desideri e quindi delle valutazioni e delle proprietà di valore», ed è dunque possibile un ruolo della scienza nell’etica.

Distinzione tra «valori di fatto» e «di diritto»

T19

Le valutazioni etiche come calcolo del rapporto mezzi / fini J. Dewey, Teoria della valutazione, 8

Le valutazioni esistono di fatto e sono suscettibili di osservazione empirica, di modo che le proposizioni su di esse sono empiricamente verificabili. Le cose che gli individui e i gruppi tengono care e apprezzano ed i motivi per i quali essi le apprezzano sono suscettibili, in linea di principio, di accertamento, non importa quanto grandi siano le difficoltà pratiche che vi ostano. […] La conoscenza di tali valutazioni non fornisce da se stessa, come abbiamo visto, proposizioni di valutazione; essa è piuttosto della natura della conoscenza storica e culturale-antropologica. Ma tale conoscenza di fatto è conditio sine qua non per formulare proposizioni di valutazione. Questa asserzione implica soltanto il riconoscimento che l’esperienza passata, quando sia dovutamente analizzata ed ordinata, è la sola guida che si abbia nell’esperienza futura. Un individuo, nei limiti della sua personale esperienza, riesamina i suoi personali desideri e propositi, a misura che diviene consapevole delle conseguenze che essi hanno prodotto nel passato. Questa conoscenza è ciò che lo mette in grado di prevedere le probabili conseguenze delle sue progettate attività e di dirigere in conformità la sua condotta.

Oggetto della valutazione è la determinazione dei fini in vista di cui agire e dei mezzi con i quali realizzarli. Ma quella fra mezzi e fini è, secondo Dewey, un’altra delle distinzioni rigide da far venire meno. Non esistono dei «fini in sé», assoluti, senza alcun legame con i desideri e quindi con il contesto naturale, sociale e culturale, nel quale l’uomo si trova a scegliere: ogni fine è per Dewey un «fine in vista» di qualche altro fine. Allo stesso modo non esistono dei mezzi che non possono diventare dei fini, e dei fini che non possono diventare dei mezzi per fini ulteriori. Mezzi e valutazione Se è così, la valutazione di un fine dipende anche dai mezzi con i quali esso è del fine realizzabile: i mezzi possono essere concepiti come «le parti frazionarie del fine». La relazione tra fini e mezzi non è dunque unilaterale: non esistono fini e valori che sono tali assolutamente, in modo da rendere legittimo l’uso di ogni mezzo; la massima machiavellica per cui «il fine giustifica i mezzi» si rivela priva di fondamento.

La critica alla dicotomia mezzi / fini

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T20

La relazione mezzi / fini non è unilaterale J. Dewey, Teoria della valutazione, 6

L’etica ‘scientifica’ di Dewey

La concezione implicita nella massima «il fine giustifica i mezzi» è fondamentalmente la stessa di quella contenuta nella nozione dei fini-in-sé; invero, dal punto di vista storico, essa è il frutto di quest’ultima, poiché soltanto la concezione che alcune cose sono fini-in-sé può giustificare la credenza che la relazione tra i fini e i mezzi sia unilaterale, procedendo esclusivamente dal fine ai mezzi. […] L’unica alternativa alla concezione che il fine sia una parte arbitrariamente scelta delle conseguenze reali, la quale, in quanto considerata il «fine», giustificherebbe allora l’uso dei mezzi senza tener conto delle altre conseguenze che essi producono, sta nel valutare, a loro volta, desideri, fini-in-vista e conseguenze ottenute, come mezzi per ulteriori conseguenze. […] Si rivela così in modo sorprendente la fallacia implicita nella tesi che i fini hanno valore indipendentemente dall’apprezzamento dei mezzi adoperati e della loro propria ulteriore efficacia causale. Relazione continua tra uomo e ambiente: transazione Le valutazioni etiche mutano a seconda di esigenze, bisogni, desideri. Non esiste la distinzione tra fatti e valori Distinzione tra valori di fatto (constatazione empirica di ciò che è apprezzato) e valori di diritto (ciò che deve essere apprezzato) Etica: si occupa dei valori di diritto ma non può prescindere dai valori di fatto Valutazioni etiche come calcolo del rapporto tra mezzi e fini

Non esistono fini in sé che prescindono dai mezzi per realizzarli

5 Lo sviluppo individuale come fine della politica

Liberalismo democratico

Educazione come partecipazione attiva

La politica e la pedagogia Il valore e fine principale individuato da Dewey è quello dell’autonomia e dello sviluppo individuale: «il fine dell’azione o il bene – scrive – è la volontà realizzata, l’io sviluppato o soddisfatto». L’indicazione di questa finalità spiega la scelta, espressa da Dewey nei suoi scritti di carattere politico, a favore della democrazia e del liberalismo e contro ogni società pianificata. In Liberalismo e azione sociale Dewey si esprime a favore di un liberalismo corretto con l’intervento statale in campo economico (e quindi non liberista) che egli chiama «liberalismo radicale», e ritiene la democrazia l’ordine politico che meglio garantisce la relazione fra l’individuo e la società e nel quale «tutte le persone mature partecipano alla formazione dei valori che regolano la vita degli uomini associati». Ma il grande valore attribuito all’autonomia e allo sviluppo dell’individuo spiega anche la teoria dell’educazione sostenuta da Dewey nelle sue opere di carattere pedagogico (Il mio credo pedagogico e Scuola e società) e messa in pratica nella 291

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

sua scuola di Chicago. L’educazione deve cercare la partecipazione attiva all’apprendimento, ed è quindi insieme educazione alla democrazia: «l’insegnante è impegnato non solo nell’educazione del bambino, ma nella formazione della giusta vita sociale». L’insegnante deve partire dai concreti interessi del bambino, cercare di stimolare questi interessi e le sue emozioni, ed evitare l’imposizione dell’insegnamento. Nel processo di apprendimento il bambino non deve essere passivo ma attivo: deve «imparare facendo»; e «attivismo pedagogico» viene appunto definita questa concezione dell’educazione.

T21

La scuola come forma di vita di comunità J. Dewey, Il mio credo pedagogico

➥ Sommario, p. 300

Io credo che: – la scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale, la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno più efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali; – l’educazione è perciò un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro. – […] molta parte dell’educazione attuale fallisce poiché trascura questo principio fondamentale della scuola come forma di vita di comunità. Essa concepisce la scuola come il luogo dove si impartisce una certa somma di informazioni, dove devono essere apprese certe lezioni e dove devono venire formati certi abiti. Il valore di questi si concepisce come collocato in gran parte in un futuro remoto; il fanciullo deve fare queste cose in vista di qualche altra cosa che dovrà fare, e di cui esse sono la semplice preparazione. Per conseguenza esse non diventano parte dell’esperienza vitale del fanciullo e pertanto non sono veramente educative.

Il neoidealismo inglese

5 I testi

Th.H. Green Etica: L’autorealizzazione non riguarda solo l’individuo, T22

Una reazione a positivismo, empirismo e utilitarismo

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F.H. Bradley Apparenza e realtà: Contraddizione e apparenza, T23

Il pragmatismo sorge e si sviluppa in parallelo e in polemica con il neoidealismo che, assieme ad esso, costituisce la principale corrente filosofica del mondo anglosassone negli ultimi decenni dell’Ottocento. Il neoidealismo inglese nasce sull’onda della reazione al positivismo che, nello stesso torno di tempo, provoca anche in Italia la rinascita dell’idealismo e in Francia la diffusione dello spiritualismo: i pensatori inglesi che non condividono la cultura positivistica – interpretata come l’esito ultimo della propria tradi-

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zione di pensiero nazionale, cioè l’empirismo – si rivolgono alla filosofia classica tedesca. La critica dell’empirismo e del naturalismo scientifico è unita, sul piano etico, a una serrata polemica contro l’individualismo e l’utilitarismo, molto diffusi nella cultura filosofica inglese del XIX secolo.

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Green Non a caso, infatti, la confutazione dell’empirismo costituisce il punto di partenza della riflessione di Thomas Hill Green, una delle più importanti figure del neoidealismo inglese.

La vita e le opere Thomas Hill Green nacque a Birkin, nello Yorkshire nel 1836. Iniziati gli studi sotto la guida del padre, continuò poi nella Rugby School; a diciannove anni entrò nel Balliol College di Oxford dove iniziò a studiare i filosofi idealisti, Hegel e Fichte, che furono determinanti per l’evoluzione del suo pensiero. Dal 1860 divenne insegnante nel suo college e dal 1878 fino alla sua morte, avvenuta nel 1882, ricoprì la

Contro l’empirismo e lo scetticismo di Hume

La ripresa della teoria kantiana della conoscenza

Ruolo centrale della categoria di relazione

Insufficienza dell’io penso come garanzia della conoscenza

cattedra di etica nell’università di Oxford. Durante la sua carriera scrisse diversi articoli e saggi di filosofia, metafisica, etica, economia e religione, poi raccolti nei tre volumi delle Opere usciti postumi negli anni 18851888. Nel 1874 apparve lo scritto che lo rese famoso: la sua Introduzione al Trattato sulla natura umana di Hume, critica nei confronti dell’empirismo e del metodo introspettivo; mentre il suo testo più importante, l’Etica uscì postumo nel 1883.

Nell’Introduzione all’edizione critica delle opere di Hume – da lui curata – Green sottopone ad aspra critica l’empirismo humeano, per avere ridotto la coscienza e la conoscenza a una molteplicità di impressioni, considerate come atti percettivi intrinsecamente privi di connessione. La sua obiezione è che, se le cose stessero effettivamente così, non sarebbe possibile neanche cogliere la specificità di un’impressione rispetto alle altre, e risulterebbe inspiegabile la connessione tra una percezione e l’altra; entrambe le operazioni presuppongono, come loro condizione di possibilità, un principio che, essendo indipendente dalle percezioni e dalle impressioni, sia in grado di unificarle. Contro gli esiti scettici dell’empirismo humeano, Green riprende dunque la lezione kantiana, indicando nell’attività sintetica della coscienza e nelle forme a priori della conoscenza, identiche in ogni soggetto, la condizione di possibilità dell’esperienza: quest’ultima è intesa, sempre sulle orme di Kant, come insieme di fenomeni correlati l’uno all’altro da rapporti necessari, che hanno il loro fondamento non in una realtà intesa dogmaticamente come sussistente in sé – la «sostanza» della metafisica tradizionale, esistente indipendentemente dal soggetto – bensì nelle forme a priori della conoscenza, universalmente valide. Un ruolo fondamentale è attribuito da Green soprattutto alla categoria di relazione, assunta come unico parametro per discernere l’oggettività delle rappresentazioni, non più valutabile – dopo la svolta del pensiero moderno – sulla base della corrispondenza con le cose esterne: reale o oggettivo è l’oggetto che rientra in un ordine di relazioni inalterabile e permanente, mentre irreale o illusoria è quella rappresentazione che appartiene a un ordine di relazioni alterabile o contingente. Nella prospettiva di Green, però, il criticismo kantiano da solo non basta per togliere ogni appiglio allo scetticismo: l’assunzione dell’io penso come principio della legalità dell’esperienza fonda sì la validità universale della nostra cono293

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Un principio metafisico ulteriore

Conoscenza come partecipazione alla coscienza cosmica e innalzamento morale

La destinazione dell’uomo

Legame tra idealismo e morale

T22

L’autorealizzazione non riguarda solo l’individuo Th.H. Green, Etica, 5,286

Carattere progressista dell’etica di Green

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scenza, ma non garantisce che essa non costituisca nient’altro che un’illusione universalmente condivisa. L’unico modo per sottrarsi a questo dubbio è, per Green, il ricorso a un principio metafisico ulteriore non solo rispetto all’esperienza, bensì anche rispetto all’io penso: la «coscienza cosmica» (world-consciousness) o «autocoscienza eterna» – una riformulazione dello spirito autocosciente hegeliano – che con il proprio intelletto permea e sorregge l’intera esperienza, e rispetto alla quale ogni autocoscienza singola non è altro che una «riproduzione parziale». A partire da queste premesse metafisiche, Green concepisce la conoscenza come un processo di progressiva partecipazione dell’autocoscienza singola all’autocoscienza eterna, che ha al tempo stesso il significato di un innalzamento morale. Egli identifica, infatti, il bene morale con l’autorealizzazione, cioè la piena realizzazione di tutte le attitudini dello spirito umano, intesa, allo stesso modo di Fichte, come un processo di perfezionamento all’infinito, che ha come meta irraggiungibile il ricongiungimento con l’autocoscienza eterna o coscienza cosmica. Ciascun uomo può e deve approssimarsi all’autorealizzazione cercando di adempiere la propria destinazione, che è individuale, ma inserita all’interno del «piano» dell’autocoscienza eterna – comprendente l’intera umanità – e si articola concretamente solo all’interno della società: la realizzazione dell’autocoscienza eterna passa attraverso persone inserite in interconnessioni sociali, cui spettano compiti specifici e determinati a seconda della propria collocazione sociale. Nel pensiero di Green l’idealismo gnoseologico funge dunque da supporto teorico per la difesa di una morale che – in polemica con l’individualismo e l’utilitarismo dominanti nella cultura filosofica inglese dell’epoca – stabilisce un nesso inscindibile tra il bene del singolo e quello dell’intera umanità, coniugando l’affermazione del valore dell’individualità con istanze organicistiche: ciascuno è mosso dall’impulso verso la propria autorealizzazione, che è costitutivamente opposto rispetto al desiderio egoistico di piacere, in quanto la propria autorealizzazione e soddisfazione riguarda anche le altre persone; essa può, infatti, avvenire soltanto nell’umanità intesa come intero, che realizzi un bene comune conosciuto e compreso come tale, ove ciò è possibile esclusivamente attraverso la mediazione delle istituzioni sociali, definite come il «corpo» e l’«anima» della ragion pratica. Sarà bene qui richiamare i principali punti ai quali si era diretta la nostra indagine, nelle sue ultime fasi. Noi abbiamo affermato che lo sviluppo della moralità è basato sull’azione di un’idea di vero ed assoluto bene sull’uomo che consiste nella piena realizzazione delle attitudini dello spirito umano. Questa idea, comunque, secondo la nostra concezione, agisce sull’uomo, nel principio soltanto come una esigenza incosciente della piena natura del suo oggetto. L’esigenza è invero da principio affatto diversa da un desiderio di piacere. È da principio un’esigenza di un qualche benessere che sarà comune all’individuo che lo desidera ed agli altri, e solo come tale produce queste istituzioni della famiglia, della tribù e dello stato che determinano ulteriormente la moralità dell’individuo. […] Il riconoscimento dell’importanza strutturale delle istituzioni sociali nello sviluppo della personalità morale non ha, però, un significato conservatore nell’etica di Green, che è al contrario caratterizzata da motivi riformatori espliciti, riguardanti innanzitutto l’uguaglianza, compresa la rivendicazione dei dirit-

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ti delle donne: occorre sì obbedire alle leggi correnti, ma queste ultime non sono statiche e immutabili; esse concorrono al progresso morale – consistente innanzitutto nell’allargamento graduale del riconoscimento dell’ugual valore di tutti gli individui in quanto esseri umani – dal quale vengono a loro volta modellate e modificate attraverso la pubblicità delle nuove idee che, quando sono espressione di un verace avanzamento morale, producono inevitabilmente effetti riformatori. La teoria della conoscenza di Green

Contro l’empirismo di Hume: ricerca di un principio, indipendente da percezioni e impressioni, che possa unificare i dati dell’esperienza

Obiettivo

Ripresa della lezione kantiana: – attività sintetica della coscienza (io penso) – forme a priori della conoscenza universalmente valide (categorie e principi dell’intelletto) Premesse metafisiche Tesi di Green: – centralità della categoria di relazione per la conoscenza oggettiva – esistenza di un principio metafisico ulteriore: coscienza cosmica che con il proprio intelletto permea le autocoscienze individuali

Conclusioni teoretico-pratiche

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Idealismo gnoseologico: la conoscenza è una progressiva partecipazione del singolo all’autocoscienza cosmica Morale organicistica: innalzamento morale e destinazione del singolo come parte del «piano» dell’autocoscienza. Il bene del singolo è quello dell’intera umanità

Bradley Empirismo, utilitarismo e individualismo costituiscono gli obiettivi polemici anche di Francis Herbert Bradley, concordemente considerato come il principale esponente del neoidealismo inglese.

La vita e le opere Francis Herbert Bradley nacque a Clapham, nel Bedfordshire, nel 1846. Era figlio di un importante ministro evangelico, e suo fratello maggiore ebbe importanti incarichi all’università di Oxford e fu decano dell’abbazia di Westminster. Bradley svolse gli studi superiori presso il Marlborough College (1861-1865), e qui lesse per la prima volta la Critica della ragion pura di Kant. Nel 1865 entrò all’università di Oxford, e dopo la laurea, nel 1870, divenne membro della comunità del Merton College di Oxford, una condizione priva di obblighi di insegnamento, che ricoprì fino alla morte, avvenuta nel 1924. Di salute cagionevole, si dedicò allo studio, ottenendo anche notevoli riconosci-

menti sia in patria che all’estero: venne nominato membro dell’Accademia reale danese (1921), dell’Accademia dei Lincei e del Reale istituto lombardo di Milano (1922) e membro onorario dell’Accademia britannica (1923). La pubblicazione che lo rese famoso furono gli Studi di etica (1876), seguiti dai Principi di logica (1883), che ebbero una grande influenza sul pensiero inglese per la tesi dell’irriducibilità della logica alla psicologia; nel 1893 uscì Apparenza e realtà, opera fondamentale a cui si collegano i Saggi su verità e realtà del 1914. Postumi vennero pubblicati gli Aforismi (1930) e un raccolta di Saggi (1935); The Collected Works («Opere») di Bradley, in dodici volumi, sono usciti nel 1999.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Bradley tra Hegel e Herbart

Analisi critica della categoria di relazione

L’aporia tra relazione e termini della relazione

Esperienza ordinaria e contraddizione

Esperienza ordinaria e apparenza

T23

Contraddizione e apparenza

F.H. Bradley, Apparenza e realtà, 3

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A differenza di Green – che si ispira soprattutto a Kant, riprendendo però anche motivi fichtiani e hegeliani – Bradley assume come punto di partenza della propria speculazione Hegel, prendendo invece le distanze dagli altri esponenti della filosofia classica tedesca. Un’altra figura rilevante nella formazione bradleyana è piuttosto, in maniera paradossale, l’anti-idealista Herbart, che aveva sottoposto ad aspra critica la filosofia speculativa di Hegel. L’interesse per due autori così lontani rispecchia la complessità della personalità intellettuale di Bradley che, pur condividendo con Green la critica verso gli orientamenti empiristici della sua epoca e del suo Paese, per altri versi mostra una vivissima e antiintellettualistica attenzione alla concretezza dell’esperienza e del dato vissuto. L’opera principale di Bradley, Apparenza e realtà, è articolata in due parti. La prima esamina le nozioni centrali non solo dell’empirismo, ma di tutte le filosofie tradizionali, sottoponendole a un’impietosa demolizione scettica, fondata sull’affermazione dell’intrinseca contraddittorietà della categoria di relazione, che è individuata come la loro radice comune: qualità, sostanza e accidente, spazio, tempo, mutamento, causalità, cose in sé e io presentano tutte una struttura relazionale che le rende insostenibili, in quanto è intimamente aporetica. Relazione e termini non possono, infatti, esistere indipendentemente – una relazione è tale solo se ci sono dei termini da connettere, e ogni termine è tale solo se si differenzia da altri con i quali è in relazione – ma al tempo stesso non possono stare assieme: o la relazione toglie l’indipendenza dei termini che connette, eliminando così la sua stessa condizione di possibilità; oppure li lascia sussistere nella loro indipendenza, riducendosi però così essa stessa a un termine irrelato, che può essere connesso con gli altri solo attraverso un’ulteriore relazione, secondo un processo all’infinito. Sulla base di queste argomentazioni – che ripropongono il classico problema di come sia possibile considerare la realtà in maniera unitaria senza perdere le molteplici differenze presenti in essa – Bradley giunge alla conclusione che l’esperienza ordinaria, basata sulla «relazione», è un campo segnato da un’insanabile contraddizione, sulla quale gli uomini comuni «chiudono gli occhi» solo per esigenze pratiche: se si considera la questione da un punto di vista teorico e metafisico occorre riconoscere che, in quanto contraddittoria, l’esperienza ci dà solo l’«apparenza» e non la «realtà» vera. Sulle orme di Green, anche Bradley attribuisce dunque alla categoria di relazione un ruolo centrale, riconducendo ad essa tutti i concetti che sorreggono la nostra esperienza ordinaria del mondo; le conclusioni cui giunge sono però opposte: ben lungi dal costituire il fondamento dell’oggettività delle nostre rappresentazioni, la relazione è piuttosto ai suoi occhi il fattore che fa dell’esperienza comune un’«apparenza». La conclusione cui sono pervenuto è che ogni forma relazionale di pensiero – ogni forma, cioè, che proceda mediante lo schema che si basa sui termini e sulle relazioni – deve darci l’apparenza e non la realtà. Essa è un espediente, un ripiego, un puro compromesso pratico, come tale indiscutibilmente necessario, ma in ultima istanza indifendibile. Noi dobbiamo riguardare la realtà insieme come molteplice e una e evitare la contraddizione. Vogliamo dividere la realtà e vogliamo, quando ci fa comodo, considerarla indivisibile; vogliamo procedere finché ci pare nell’una o nell’altra di queste due vie e poi fermarci quando ci conviene. E ci riusciamo, ma ci riusciamo solo a patto di chiudere quell’occhio che,

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qualora rimanesse aperto, ci vieterebbe di attuare il nostro progetto […]. Ma quando queste incongruenze vengono a galla, come non può non avvenire in metafisica, il risultato è un’evidente e clamorosa contraddizione. […] Il lettore che ha seguito e afferrato il nocciolo di questo capitolo […] avrà inteso che la nostra esperienza, là dove è relazionale, è non vera, e ciò gli basterà per condannare inappellabilmente la gran massa dei fenomeni. Se l’esperienza ordinaria ci offre solo l’apparenza – in quanto è relazionale e dunque contraddittoria – la vera realtà non potrà che essere un principio privo di contraddizioni, il quale per essere tale dovrà essere sovrarelazionale: una totalità indivisa di soggetto e oggetto, che realizzi l’unità dei molti nell’uno senza metterli in relazione. Non si tratta, però, di un Assoluto al di fuori dell’esperienza e dell’apparenza: in questo caso, si riproporrebbe il problema della ‘relazione’ tra l’esperienza e ciò che la trascende. Il monismo di Bradley Per questo motivo, Bradley sostiene invece un rigoroso monismo, riferendosi all’Assoluto come a una totalità che contiene tutti gli elementi possibili dell’esperienza sensibile finita, semplicemente non così come si rivelano a noi – cioè nel modo dell’apparenza – bensì radicalmente trasfigurati, spogliati della loro individualità. Anche l’Assoluto è dunque esperienza, sia pure in un senso molto diverso da quello in cui quest’ultima è comunemente intesa.

Ricerca di un principio sovrarelazionale

Apparenza e realtà nel pensiero di Bradley Analisi della falsa conoscenza

Sfera dell’apparenza

Demolizione scettica non solo dell’empirismo, ma di tutte le nozioni della filosofia tradizionale: sostanza, qualità, accidente ecc.

Sono tutte fondate sulla categoria di relazione

Aporie tra relazioni e termini delle relazioni

L’esperienza ordinaria ci dà solo l’«apparenza» non la realtà

Come raggiungere la conoscenza vera

Sfera della realtà

Ricerca di un principio esente da contraddizioni, unitario e sovrarelazionale

Questo principio è l’Assoluto, che non è al di fuori di esperienza e apparenza, ma le comprende in sé. Monismo

Conoscenza dell’Assoluto: – non è conoscibile attraverso il discorso (anti-intellettualismo) – è conoscibile attraverso regioni dell’apparenza caratterizzate da armonia e comprensività come arte, religione e filosofia

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Anti-intellettualismo di Bradley: la differenza fondamentale da Hegel

Impossibilità di un sapere concettuale dell’Assoluto

Un’etica concreta, legata alla collocazione sociale

Consapevolezza dei limiti dell’etica sociale

➥ Sommario, p. 300

Assumendo una posizione fortemente anti-intellettualistica, Bradley presenta questa esperienza integrale e sovrarelazionale – in cui consiste l’Assoluto – come una dimensione altra rispetto al pensiero, che ha natura costitutivamente discorsiva e dunque relazionale. Ciò costituisce la differenza fondamentale della metafisica bradleyana rispetto al modello hegeliano: da quest’ultimo Bradley riprende sia la concezione dell’Assoluto come intero e come totalità indivisa sia l’individuazione della contraddizione come struttura costitutiva del pensiero; tuttavia, declassando a semplice struttura dell’apparenza la contraddizione – che per Hegel è invece l’immanente motore dialettico dell’autorealizzazione dell’Idea – Bradley giunge a divaricare l’Assoluto, inteso come incontraddittorio, e il pensiero che, essendo sempre relazionale e dunque contraddittorio, è confinato nel piano dell’apparenza. A partire da queste premesse, Bradley nega la possibilità di un sapere concettuale dell’Assoluto da parte della ragione umana: l’uomo non può mai attingere la vera realtà, ma può solamente avvicinarsi ad essa, attraversando regioni dell’apparenza che, per la loro armonia e comprensività, sono più vicine all’Assoluto – come l’arte, la religione e la filosofia – nessuna della quali può essere però considerata, secondo Bradley, come un approdo definitivo alla verità: nemmeno l’asserzione dell’unità del reale, con la quale culmina la metafisica, può essere considerata del tutto vera. Anche la concezione etica di Bradley – esposta negli Ethical Studies («Studi di etica») e nei capitoli conclusivi di Apparenza e realtà – rivela la forte presenza di motivi hegeliani, rielaborati in maniera originale. Da un lato, la critica bradleyana sia dell’edonismo utilitaristico sia del formalismo dell’etica kantiana – che, al di là della apparente opposizione, sono interpretati come teorie specularmente unilaterali ed errate – si riallaccia chiaramente alla denuncia hegeliana dei limiti strutturali del punto di vista della moralità, cioè di tutte quelle concezioni che assumono come fonte delle norme comportamentali la coscienza del soggetto. Non a caso, Bradley indica nella collocazione sociale dell’individuo – e nei doveri ad essa connessi – l’unico possibile fondamento di un’etica concreta, secondo un’impostazione che ricorda molto da vicino l’eticità hegeliana. Dall’altro lato, però, la sottolineatura dei limiti insiti anche nell’etica sociale – a partire dalla possibilità che la comunità alla quale si appartiene si trovi in una condizione negativa – induce Bradley a riporre il superamento verace e definitivo dei limiti della moralità nel punto di vista religioso, che non coincide con la religione tradizionale: movendo dal rifiuto del Dio personale e trascendente della tradizione giudaico-cristiana, egli intende, infatti, per religione il semplice contatto personale diretto con l’Ineffabile, al di fuori della mediazione istituzionale della Chiesa e dello Stato prevista dalle grandi confessioni religiose.

Suggerimenti bibliografici Un’introduzione agile e sintetica al movimento pragmatista è M.R. Calcaterra, Introduzione al pragmatismo americano, Laterza, Roma-Bari 1997. Per una presentazione articolata dei maggiori autori e delle loro teorie segnaliamo le opere di due dei maggiori storici italiani del movimento: C. Sini, Il pragmatismo americano, Laterza, Bari 1972; A. Santucci, Storia del pragmatismo, Laterza, Roma-Bari 1992. Una presentazione sintetica, opera di un allievo di R. Rorty, che delinea anche l’influenza del movimento sulla filosofia americana novecentesca: J.P. Murphy, Il pragmatismo, il Mulino, Bologna 1997.

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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo Sulla filosofia di Peirce, un’introduzione breve e chiara è G. Proni, Introduzione a Peirce, Bompiani, Milano 1990; mentre per la teoria sulla semiotica è utile R. Fabbrichesi Leo, Sulle tracce del segno. Semiotica, faneroscopia e cosmologia nel pensiero di Charles S. Peirce, La Nuova Italia, Firenze 1986; un’analisi della teoria dell’iconismo di Peirce, vista in confronto con lo schematismo kantiano è U. Eco, Kant, Peirce e l’ornitorinco, in Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997. Per avvicinarsi alla filosofia di James: P. Guarnieri, Introduzione a James, Laterza, Roma-Bari 1985. Due introduzioni molto utili alla filosofia di Dewey sono: A. Granese, Introduzione a Dewey, Laterza, Roma-Bari 1973 e A. De Maria, Invito al pensiero di Dewey, Mursia, Milano 1990. Per un’analisi più approfondita del suo pensiero, della teoria dell’indagine scientifica, dello strumentalismo e della concezione della democrazia partecipativa: M. Alcaro. John Dewey. Scienza, prassi, democrazia, Laterza, Roma-Bari 1997. Sul legame tra idealismo e filosofia pratica in Green: C. Palazzolo, Idealismo e liberalismo: la filosofia pratica di Th.H. Green, Sea, Carrara 1983; sul rapporto tra la filosofia di Green e la filosofia empirista: G. Bonino, Th.H. Green e il mito dell’empirismo britannico, Olschki, Firenze 1995. Una monografia dedicata alla filosofia di Bradley è G. Bertolotti, Le stagioni dell’assoluto: saggio su Bradley, La Nuova Italia, Firenze 1995. Una ricostruzione e un inquadramento della metafisica di Bradley nel panorama filosofico del primo Novecento si trova in G. Rametta, La metafisica di Bradley e la sua ricezione nel pensiero del primo Novecento, Cleup editrice, Padova 2006. I brani antologizzati sono tratti da: C.S. Peirce, Il fissarsi della credenza, par. 4, in Il pragmatismo, a cura di A. Santucci, UTET, Torino 1970: p. 70 (T1), pp. 78-79 (T4). C.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, par. 2, in Il pragmatismo, cit.: p. 89 (T2), pp. 8991 (T3). C.S. Peirce, Scienza e pragmatismo, a cura di P. Bairati, Paravia, Torino 1972: p. 175 (T5), pp. 115-117 (T6). W. James, Il pragmatismo, trad. parziale di Il significato del pragmatismo, in Il pragmatismo, cit., pp. 305-306. W. James, Il pragmatismo, trad. parziale in Il pensiero di William James, a cura di A. Santucci, Loescher, Torino 1969, pp. 172-173. W. James, La volontà di credere e altri saggi, Rizzoli, Milano 1984. W. James, Il filosofo morale e la vita morale, trad. parziale in Il pensiero di William James, a cura di A. Santucci, Loescher, Torino 1969, pp. 75-79. W. James, Principi di psicologia, Principato, Milano-Messina 1950. W. James, Saggi sull’empirismo radicale, a cura di N. Dazzi, Laterza, Bari 1961. J. Dewey, Necessità di un risanamento della filosofia, in Id. Intelligenza creativa. Saggi sull’atteggiamento pragmatico, cap. 1, La Nuova Italia, Firenze 1957. J. Dewey, Esperienza e natura, Paravia, Torino 1948. J. Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 178-179. J. Dewey, Logica: teoria dell’indagine, Einaudi, Torino 1974. J. Dewey, Teoria della valutazione, La Nuova Italia, Firenze 1961: pp. 96-97 (T18), pp. 88-89 (T19), pp. 65-67 (T20). J. Dewey, Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1954, pp. 10-12. Th.H. Green, Etica, trad. e introd. di C. Goretti, Bocca, Torino 1925, p. 296. F.H. Bradley, Apparenza e realtà, a cura di D. Sacchi, Rusconi, Milano 1984, pp. 171-172.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Sommario 1. IL

PRAGMATISMO AMERICANO

Il pragmatismo è il primo contributo originale del pensiero americano alla filosofia occidentale e ha un’influenza fondamentale negli Stati Uniti, con echi anche in Europa. Nasce nell’università di Harvard nel 1871 e il suo nucleo originario è costituito da un gruppo di studenti tra cui Peirce e James riuniti nel Methaphysical Club. Il movimento si caratterizza per la reazione all’hegelismo e al pensiero teologico e per il rifiuto delle tradizionali dicotomie del pensiero filosofico. Il tratto che accomuna tutti i suoi esponenti è l’attenzione all’esperienza e l’apertura verso il futuro: l’uomo è pensato in interazione continua con la prassi storico-sociale e con l’ambiente. 2. PEIRCE

L’iniziatore del pragmatismo è Peirce, che ne sviluppa una forma personale da lui definita pragmaticismo. Il primo aspetto rilevante della sua riflessione è la teoria della conoscenza che prende la forma di una teoria del significato, poiché il processo che porta dal dubbio alla credenza e poi all’abitudine e all’instaurarsi di una regola d’azione determina il significato dell’oggetto. [par. 1] In secondo luogo, Peirce analizza i tipi di ragionamento scientifico che servono all’accertamento della verità, deduzione, induzione e abduzione, e indica in quest’ultima il maggior fattore di progresso scientifico. [par. 2] Infine si dedica all’analisi dei segni fondando così la semiotica. Egli ne distingue tre tipi, icone, indici e simboli, che convergono nella formazione del giudizio percettivo, un segno ulteriore che Peirce definisce «interpretante». [par. 3] 3. JAMES

James ha portato il pragmatismo alla notorietà internazionale. Anch’egli sottolinea il legame tra pensiero e azione estendendo il metodo pragmatico all’accertamento della verità e collegando strettamente quest’ultimo all’efficacia pratica e all’utilità. [par. 1] Egli sostiene anche il soggettivismo ossia la «teoria della volontà di credere» rispetto agli argomenti religiosi o etici poiché i valori morali dipendono solo dal sentire del soggetto. [par. 2] James è il primo studioso americano di psicologia sperimentale: concepisce la mente come un unico flusso di sensazioni e interagente continuamente con il mondo esterno. Quando questo flusso è indistinto lo definisce esperienza pura. [par. 3]

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4. DEWEY

Il pensatore più influente del pragmatismo è John Dewey, che, criticando l’empirismo, concepisce l’esperienza come una risposta attiva dell’organismo capace di collegare i dati e legata all’elaborazione concettuale. Esiste un legame anche tra esperienza e storia. [par. 1] Per mettere ordine nei dati dell’esperienza Dewey descrive un processo di indagine che, attraverso varie fasi, l’ultima delle quali è l’esperimento, raggiunge la conoscenza certa. Sia le idee che i fatti hanno, secondo lui, un carattere strumentale, per cui egli definisce la propria teoria della conoscenza strumentalismo. [par. 2] La transazione tra uomo e ambiente è continua e non esiste una separazione tra i due, né tra la mente e il corpo. Anche le valutazioni morali sono condizionate dall’ambiente storico: per questo l’etica deve tener conto sia dei valori di fatto che dei valori di diritto e deve sempre valutare anche il ruolo dei mezzi rispetto ai fini. [parr. 3 e 4] In ambito politico Dewey abbraccia il liberalismo democratico, mentre la sua pedagogia è incentrata sull’attivismo pedagogico, ossia sull’educazione come partecipazione attiva dell’individuo. [par. 5] 5. IL

NEOIDEALISMO INGLESE

In Inghilterra, nel medesimo periodo, nasce e si sviluppa il neoidealismo che ha il suo centro nell’università di Oxford. Il primo rappresentante di esso è Thomas H. Green che critica la teoria empirista della conoscenza. Egli fa propri alcuni dei principi kantiani (io penso e forme a priori della conoscenza) e valorizza il ruolo della categoria di relazione. Sostiene poi che bisogna integrare i principi kantiani con un principio metafisico, la coscienza cosmica: la vera conoscenza consiste nella partecipazione alla coscienza cosmica e nell’innalzamento morale di ogni singolo, la cui autorealizzazione è parte organica dell’autorealizzazione dell’umanità. [par. 1] Il maggior pensatore del neoidealismo inglese è Francis H. Bradley che condivide le critiche all’empirismo, definendo la conoscenza comune e quella della tradizione filosofica come apparenza. La realtà invece è costituita da un principio assoluto, unitario e privo di determinazioni (monismo), conoscibile solo in maniera non concettuale. Aree privilegiate che forniscono una conoscenza parziale dell’Assoluto sono l’arte, la filosofia e la religione. In ambito etico Bradley concilia l’importanza di un’etica sociale con la consapevolezza dei limiti di quest’ultima; limiti che possono essere superati solo attraverso un punto di vista religioso. [par. 2]

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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo

Parole chiave Abduzione. Per Peirce è uno dei tre tipi di inferenza utilizzati nel ragionamento scientifico, e consiste in un ragionamento ipotetico che passa da uno o più fatti osservati a un principio o una legge che li spiega. Abitudine. Nella teoria della conoscenza di Peirce è il momento in cui una credenza si stabilisce in una regola d’azione e diviene la premessa per attribuire a un oggetto un significato pratico che orienta l’agire. Apparenza / Realtà. Opposizione in Bradley: la prima indica la sfera della falsa coscienza e della conoscenza apparente in cui rientrano sia l’esperienza ordinaria che le filosofie tradizionali, compreso l’empirismo; la seconda indica il raggiungimento della piena coscienza e della conoscenza vera, capace di cogliere l’Assoluto come principio privo di contraddizioni. Attivismo pedagogico. La concezione dell’educazione di Dewey che ha come principi cardine la partecipazione attiva e l’esigenza di andare incontro ai concreti interessi dei bambini. Coscienza cosmica. World-consciousness o «autocoscienza eterna», il principio metafisico che, secondo Green, è l’elemento unificatore delle autocoscienze individuali, superando in questo modo il rischio di esiti scettici: esso permea infatti tutti i singoli intelletti che ne sono solo una riproduzione parziale. Credenza. Termine utilizzato dai pragmatisti per indicare una conoscenza scelta come tale attraverso un metodo pragmatico. In Peirce indica la fase in cui si stabilisce un’abitudine d’azione e la sua validità è circoscritta all’ambito gnoseologico e all’instaurazione dei significati; in James invece si afferma che la credenza è il fondamento della verità in ogni ambito, comprese la religione e l’etica. Esperienza pura. Nella psicologia di James il flusso di sensazioni privo di determinazioni interne, che costituisce il materiale per ogni successiva elaborazione. Indagine. Processo, prolungato e di carattere pratico, che nella teoria della conoscenza di Dewey indica l’insieme delle operazioni (cinque fasi) grazie alle quali il pensiero si adatta sempre meglio all’ambiente. Interpretante. Nella semiotica di Peirce il segno attraverso cui il soggetto interpreta il significato di un altro segno.

Pragmatismo / Pragmaticismo. Termini entrambi coniati da Peirce, che definì con il secondo la propria posizione per distinguerla da quella di James: il primo indica in generale il movimento americano e la sua idea di fondo che la funzione principale del pensiero sia costruire degli abiti d’azione. Psicologia sperimentale. La scienza che studia il comportamento di uomini e animali attraverso la sperimentazione e la quantificazione. Il suo iniziatore è il tedesco W.M. Wundt che nel 1879 fonda a Lipsia il primo laboratorio; in America l’iniziatore è James. Segni. Il concetto base del pensiero e della comunicazione la cui funzione logica consiste nella capacità di riferirsi a un oggetto o a un significato. Semiotica. La scienza dei segni di cui Peirce è uno dei fondatori in quanto elabora una complessa teoria logica sui loro tipi, la loro formazione e il loro uso. Strumentalismo. Termine che indica la forma che il pragmatismo assume nel pensiero di Dewey: una teoria articolata, logica e gnoseologica, che comprende: 1) l’affermazione del carattere strumentale delle idee e dei fatti: le idee come ipotesi per operare sulle cose che vengono confrontate in maniera operazionale con i fatti; 2) la definizione di una teoria pragmatica della verità: la verità delle idee è determinata dalle conclusioni dell’indagine; 3) il carattere pubblico (aperto alla discussione) e oggettivo (le conclusioni così ottenute sono accettate da tutti) dell’intero processo. Teoria del significato. Analisi sulla formazione e sull’uso dei significati, ossia del corrispettivo mentale di oggetti, concetti, proposizioni ecc.; in Peirce coincide con la sua teoria della conoscenza. Transazione. In Dewey indica la relazione di scambio continuo uomo-ambiente, che modifica entrambi. Utilità. Efficacia pratica di un’idea con cui James identifica la verità dell’idea stessa. Valori di fatto / Valori di diritto. In etica, distinzione tra ciò che viene ritenuto moralmente buono da una comunità, da un gruppo ecc. e ciò che deve essere ritenuto buono. Dewey distingue questi due tipi di valutazione, e afferma che l’etica si occupa dei secondi, ma che deve tener conto anche dei primi.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario IL

PRAGMATISMO AMERICANO

1

Quali sono gli aspetti più importanti del pragmatismo? (max 4 righe)

Lavoriamo sui testi 15

Qual è l’unico motivo per rigettare una credenza secondo Peirce in T1? (max 1 riga)

16

Che cosa dobbiamo fare per sviluppare il significato di una cosa secondo Peirce in T3? (max 2 righe)

17

Per quale motivo Peirce in T5 conia il termine «abduzione»? (max 3 righe)

18

Qual è il fatto tangibile che sta all’origine di tutte le distinzioni operate dal pensiero secondo James in T7? (max 1 riga)

19

Perché secondo James in T10 sarebbe assurdo chiedersi se i giudizi morali sono veri? (max 1 riga)

20

Quali sono i caratteri che differenziano la propria concezione dell’esperienza da quella tradizionale secondo Dewey in T13? (max 8 righe)

21

Per quale motivo le idee sono operazionali secondo Dewey in T16? (max 2 righe)

22

Quali sono i motivi che ci inducono a credere nella separazione tra corpo e mente secondo Dewey in T17? (max 2 righe)

23

Secondo Dewey in T19, quale valore assume la conoscenza storica e culturale-antropologica in relazione alle scelte etiche? (max 4 righe)

24

Qual è il motivo che porta spesso al fallimento dell’educazione secondo Dewey in T21? (max 2 righe)

25

Secondo Green in T22 l’idea di un vero ed assoluto bene in principio è consapevole del proprio oggetto? (max 1 riga)

26

Qual è il valore di verità dell’esperienza relazionale secondo Bradley in T23? (max 1 riga)

PEIRCE 2

Qual è la funzione del dubbio nella teoria della conoscenza di Peirce? (max 2 righe)

3

Quali e quanti sono i metodi per consolidare una credenza secondo Peirce? (max 6 righe)

4

Che differenze esistono tra icone, indici e simboli secondo Peirce? E quali sono i rapporti tra questi tre tipi di segni? (max 8 righe)

JAMES 5

Qual è la funzione dell’utilità nella teoria della conoscenza di James? (max 1 riga)

6

Che cos’è la «teoria della volontà di credere» secondo James e in quali ambiti si applica? (max 3 righe)

7

Qual è il rapporto della mente con il mondo esterno secondo James? (max 2 righe)

DEWEY

IL

8

Qual è la posizione di Dewey nei confronti delle filosofie della storia? (max 2 righe)

9

Quali e quante sono le fasi dell’indagine secondo Dewey? (max 6 righe)

10

Qual è la soluzione di Dewey al problema del rapporto tra mente e corpo? (max 1 riga)

11

Qual è il fine comune tra etica e politica secondo Dewey? (max 2 righe)

12

Quali sono i caratteri essenziali della pedagogia di Dewey? (max 4 righe)

NEOIDEALISMO INGLESE

13

Quale funzione attribuisce Green alla categoria di relazione? (max 2 righe)

14

Quali sono le caratteristiche dell’Assoluto secondo Bradley? (max 4 righe)

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

1. Croce e Gentile: dal sodalizio alla rottura 2. Croce 1. La filosofia dello spirito 2. Lo «storicismo assoluto» 3. Crisi della civiltà e crisi del sistema: il «vitale»

3. Gentile 1. L’attualismo 2. Storia, filosofia e storia della filosofia 3. Una riforma pedagogica e politica ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Croce: Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

1 La rinascita dell’idealismo in Italia nel primo Novecento

L’importanza di Croce e Gentile nella cultura italiana

Due personalità distanti

Due formazioni diverse

Croce e Gentile: dal sodalizio alla rottura La filosofia italiana del primo Novecento è contraddistinta da una rinascita dell’idealismo – che la accomuna ad analoghe esperienze straniere, come l’idealismo anglo-americano (vedi Unità 7, p. 292 ss.) o la filosofia della vita (vedi Unità 6, p. 252 s.) – i cui principali animatori e protagonisti sono Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Croce e Gentile meritano un’attenzione particolare: e questo non solo in quanto hanno contribuito in maniera determinante alla genesi del neoidealismo italiano, ma anche e soprattutto per l’importante ruolo che entrambi hanno svolto nella storia del nostro Paese, nel bene e nel male (alcuni interpreti hanno addirittura definito l’egemonia crociana e gentiliana come una «dittatura intellettuale»). Ruolo che oltrepassa i ristretti limiti della sfera filosofica, per investire diversi aspetti dell’intera cultura e della società italiane, come la storiografia, la scuola e la politica. Si tratta di due personalità profondamente distanti, per origine sociale e formazione intellettuale. Croce può svolgere la propria attività di ricerca in piena libertà e indipendenza economica, al di fuori delle università, grazie al cospicuo patrimonio ereditato dalla famiglia, antica e ricca casata abruzzese. Gentile proviene invece da una numerosa famiglia siciliana, e può portare avanti i suoi studi solo procurandosi da vivere attraverso l’insegnamento, prima nella scuola e poi nell’università. La formazione crociana è una formazione da autodidatta, che inizia con studi storico-eruditi e di critica letteraria, in cui l’influsso determinante è esercitato dalla lezione realista dello storico e critico letterario Francesco De Sanctis (18171883); alla filosofia Croce approda sollecitato da Antonio Labriola, attraverso il quale recepisce il pensiero del filosofo tedesco antidealista e psicologo Herbart, che è la principale fonte del suo giovanile antihegelismo: il suo incontro con Hegel è dunque tardivo, anche se non per questo meno decisivo. Gentile si forma invece alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove l’insegnamento di Donato Jaia (1839-1914) lo inizia precocemente allo studio della filosofia di Kant, di Hegel e dei principali hegeliani italiani, come Bertrando Spaventa.

Spaventa e Labriola nella cultura italiana La filosofia italiana del secondo Ottocento è influenzata dalle maggiori correnti europee, ognuna delle quali trova un’eco nella riflessione di personalità che generalmente ricoprono incarichi nelle università. Lo spirito critico e polemico verso le correnti antispiritualiste trova espressione nella scuola hegeliana italiana il cui pensatore più originale è Bertrando Spaventa (1817-1883), un ex sacerdote, dal 1861 professore di filosofia all’università di Napoli e ideologicamente vicino alla Destra storica. Il suo primo corso universitario, risa-

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lente al 1862, è pubblicato da Giovanni Gentile nel 1909 con il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea: in esso Spaventa sostiene che la tradizione filosofica italiana di Tommaso Campanella e Giordano Bruno, proseguita da Giambattista Vico, ha avuto un ruolo determinante nella nascita della filosofia moderna. A Spaventa si deve anche una rielaborazione della logica hegeliana che accentua il ruolo dell’attività del pensiero contro l’immobilità dell’essere, con una maggior importanza del soggetto rispetto all’oggetto, al pensato. Questa interpretazione compare in Logica e metafisica

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

(1867), ripubblicato nel 1911 con l’aggiunta di parti inedite a cura di Gentile, e influenzerà in modo rilevante il pensiero di quest’ultimo. Un’altra personalità di rilievo della cultura italiana di quegli anni è Antonio Labriola (1843-1904), formatosi nella tradizione hegeliana alla scuola di Spaventa e divenuto poi anti-hegeliano dopo l’incontro con il pensiero di Herbart. Professore di morale e pedagogia all’università di Roma dal 1874, aderì poi al socialismo e al marxismo. La sua attività teorica segue il duplice intento di Le profonde divergenze e il comune obiettivo di far rinascere l’idealismo

«La Critica»

Lo sfociare di un contrasto insanabile sul tema dell’unità della filosofia

La polemica su «La Voce»

La divisione definitiva su guerra e fascismo

Gentile e il suo ruolo nella cultura italiana durante il fascismo

emanciparsi dal pensiero metafisico, ma anche di differenziarsi dal positivismo, di cui accetta il metodo scientifico, ma rifiuta il materialismo. La sua concezione del socialismo, esposta nei saggi In memoria del manifesto dei comunisti (1895), Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare (1896) e Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898) si incentra su una riflessione critica del materialismo storico e porta un contributo rilevante non solo nel pensiero italiano (vedi Unità 14, p. 587 s.) ma anche nel marxismo europeo.

Se si tiene conto di questo differente retroterra culturale, non sorprende che il rapporto tra Croce e Gentile sia fin dall’inizio – cioè dal 1896, anno in cui i due cominciano un intenso scambio epistolare – una concordia discors (un’armonia discordante). Fin dal primo incontro, le posizioni dei due pensatori sono nettamente contrapposte, nonostante la corrispondenza dei problemi al centro dell’attenzione di entrambi: la storia, la filosofia e la storia della filosofia. Ciò non pregiudica, però, la nascita di un intenso sodalizio intellettuale: sulla consapevolezza delle divergenze prevalse, in un primo momento, la convinzione che il contrasto costituisca, in un’amicizia filosofica, un fecondo stimolo e, soprattutto, il desiderio di collaborare a un’opera culturale comune, cioè la rinascita dell’idealismo. Desiderio che trova attuazione nella redazione della «Critica», rivista bimestrale di storia, letteratura e filosofia, nata con l’intento programmatico di liberare la cultura italiana dai residui positivistici e portata avanti, nei primi anni, prevalentemente da Croce e Gentile. Il contrasto tra i due pensatori, i cui prodromi emergono già nelle prime discussioni epistolari intorno al marxismo e alla storicità, diviene pubblico tra il 1912 e il 1913, investendo punti filosofici decisivi: da un lato, in Croce, la concezione della filosofia come un momento di riflessione critica sulla ricerca, come una questione di metodo, di classificazione ed elaborazione di categorie capaci di articolare l’esperienza e contemporaneamente la riflessione sull’esperienza (vedi sotto, p. 310); dall’altro, in Gentile, l’ansia metafisica dell’unità. Il rischio che le sue posizioni vengano confuse con quelle dell’amico inducono Croce a pubblicare, su «La Voce» (la rivista culturale fiorentina di tendenze anti-positiviste) del 1913, un polemico articolo Intorno all’idealismo attuale, al quale Gentile – che considera queste pagine come una vera scomunica – replica, sempre su «La Voce», con lo scritto Intorno all’idealismo attuale. Ricordi e confessioni. Il dissenso tra i due redattori della «Critica» diviene, così, di pubblico dominio, e poco dopo esplode, prevalentemente per ragioni politiche: dapprima nei dibattiti sull’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale – ai quali Croce e Gentile partecipano rispettivamente su posizione neutralista, favorevole alla non belligeranza italiana, e interventista, ossia favorevole all’ingresso in guerra contro l’Austria – e poi con l’avvento del fascismo, che divise in maniera definitiva la strada dei due pensatori. Gentile aderisce in maniera piena e completa al regime, assumendo posizioni di responsabilità e prestigio: 1) l’incarico di ministro della Pubblica istruzione, che ricopre negli anni dal 1922 al 1924, procedendo alla riforma della scuola che porta il suo nome – 305

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

L’influenza di Gentile al di là della cultura fascista

Croce e il fascismo: dall’attendismo all’aperta ostilità

La storiografia «eticopolitica» di Croce

➥ Sommario, p. 333

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fondata sul primato della formazione umanistica e ispirata a un forte aristocraticismo – destinata a restare operante per più di un cinquantennio, nonostante ritocchi e modifiche anche sostanziali; 2) a partire dal 1925, la direzione dell’Enciclopedia Italiana, sostenuta finanziariamente da Giovanni Treccani, alla quale peraltro egli chiama a collaborare anche studiosi non fascisti; 3) la carica di direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa e, infine, quella di presidente dell’Accademia d’Italia. Attraverso questi molteplici interventi nella cultura italiana – e soprattutto attraverso il suo insegnamento filosofico e il suo modo di intendere e praticare la «storia della filosofia» e della cultura – Gentile pesa non poco nella formazione delle nuove generazioni: anche uomini che successivamente presero altre strade, o che lo combattono duramente per la sua adesione al fascismo, intorno al 1920 risentono fortemente dell’influenza del suo pensiero, e ne conservano poi, nelle forme più varie, il segno. Al contrario, dopo un atteggiamento iniziale di ambiguo attendismo – fondato sulla sottovalutazione del fascismo come «reazione giovanile patriottica», destinata a spegnersi consentendo la restaurazione di uno Stato liberale rafforzato – Croce matura ed esprime pubblicamente, in seguito al delitto Matteotti (1924), una intransigente avversione verso il regime. Questa ostilità prende forma pubblica sia con la redazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti – in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, scritto da Gentile – sia sulle pagine della «Critica», che Mussolini non sopprime per il prestigio internazionale della rivista che assurse così a punto di riferimento per tutti gli oppositori del regime. L’antifascismo di Croce ispira in modo chiaro anche i principali scritti storici che egli pubblica nel ventennio, cioè la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e la Storia d’Europa nel secolo XIX, in cui è espressa la condanna inequivoca di ogni regime illiberale. Queste due opere, oltre ad avere un immediato impatto politico, esercitano un influsso forte e duraturo sul piano metodologico, come modello della «storiografia etico-politica» teorizzata da Croce che, in opposizione all’economicismo della storiografia marxista e alla storia statuale tedesca, pone al centro del discorso storico il rapporto tra la politica e il momento morale.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

Croce

2 I testi

B. Croce Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: La critica della tesi hegeliana della «morte dell’arte», T1 La filosofia della pratica: La forma economica è condi-

zione della forma etica, T2 Teoria e storia della storiografia: La filosofia come metodologia della storiografia, T3 Hegel e l’origine della dialettica: Vitalità e dialettica, T4

Benedetto Croce è sicuramente uno dei massimi filosofi italiani del Novecento. Il suo legame con la tradizione idealista è evidente fin dalla sua prima formulazione sistematica, la filosofia dello spirito, risalente al primo decennio del secolo.

1

La filosofia dello spirito L’elaborazione di un proprio sistema filosofico è preceduta in Croce dal confronto con le principali correnti anti-idealistiche e anti-spiritualistiche della filosofia italiana alla fine del XIX secolo, cioè il positivismo e il marxismo.

La vita e le opere Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (L’Aquila) nel 1866 in una famiglia di origini napoletane della grande borghesia, imparentata con gli Spaventa: Silvio, uomo politico liberale e Bertrando, filosofo hegeliano. La sua formazione iniziò con studi letterari (che non abbandonò mai) e fin dall’adolescenza si distaccò dalla religione. In collegio a Napoli a partire dal 1875, assistette ancora liceale alle lezioni di logica di Spaventa. Nel 1883 un terremoto distrusse la sua casa di Pescasseroli, causando la morte dei genitori e della sorella, ed egli stesso trascorse varie ore sotto le macerie. A causa di ciò Benedetto e il fratello furono affidati a Silvio Spaventa e andarono a vivere a Roma dove inizialmente Croce frequentò la facoltà di legge, che poi abbandonò, e dove conobbe Antonio Labriola. Nel 1886 si trasferì a Napoli e si dedicò essenzialmente agli studi eruditi e storici (sulla rivoluzione napoletana del 1799, sui teatri di Napoli e sul Seicento italiano), e in questi anni lesse La scienza nuova di Vico, autore per lui fondamentale a cui dedicò un importante saggio La filosofia di Vico nel 1911. Dal 1887 al 1892 compì anche vari viaggi di studio all’estero (Germania, Austria, Francia, Olanda, Spagna e Portogallo). Le sue riflessioni sulla storia di questi anni trovarono forma in La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893) mentre dalla sua ininterrotta relazione intellettuale con Labriola e dal suo interesse per il marxi-

smo derivò il saggio Materialismo storico ed economia marxistica (1900). Nel 1902 uscì l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, la prima parte del sistema, e l’anno successivo iniziò a pubblicare a sue spese la rivista «La Critica» che dal 1906 passò all’editore Laterza per cui Croce curò anche alcune collane e che pubblicò la maggior parte delle sue opere. Nel 1907 Croce pubblicò la sua traduzione dell’Enciclopedia di Hegel e il saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel e due anni dopo si aggiunsero all’Estetica le altre parti del suo sistema di filosofia dello spirito: la Logica come scienza del concetto puro (1909), che era stata preceduta nel 1905 dai Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, e la Filosofia della pratica (1909) dedicata all’etica e alla politica. Nel 1914 Croce si sposò con Adele Rossi; dal matrimonio nasceranno cinque figli: Giulio, l’unico maschio morto in giovane età e quattro figlie, Elena, Alda, Lidia e Silvia. Intanto nel 1910 era diventato senatore del Regno e dal 1920 al 1921 fu ministro della Pubblica istruzione nel V governo Giolitti, divenendo poi, dopo la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti nel 1925, il maggior esponente dell’antifascismo liberale, isolato e sottoposto ad attacchi violenti (il 1° novembre del 1926 subisce anche un attacco squadrista nella sua casa di Napoli), ma intoccabile a causa della sua fama europea.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Nonostante l’impegno politico non abbandonò mai gli studi pubblicando moltissimo sia in ambito filosofico sia storico, e letterario: Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911), Breviario di estetica (1912), Saggio sullo Hegel (1913), La letteratura della nuova Italia (sei volumi, 1914-1940), Teoria e storia della storiografia (1917), Nuovi saggi di estetica (1920), Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), La poesia di Dante (1921), Poesia e non poesia (1923), Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Etica e politica (1931), Storia d’Europa nel secolo XIX (1932), Poesia popolare e poesia d’arte (1933), La storia come pensiero e come azione (1938), Il carattere della filosofia moderna (1941). Dopo la caduta del fascismo tornò alla vita politica attiva,

come presidente del Partito liberale dal 1943 al 1946, come ministro nei governi Badoglio e Bonomi (1944) e poi come partecipante alla Consulta (1945) e alla Costituente (1946-1947). Rifiutò la carica di presidente provvisorio della Repubblica dopo il referendum del 1946 e fu senatore durante la prima legislatura a partire dal 1948. Intanto nel 1947 aveva fondato all’interno del palazzo di famiglia a Napoli l’Istituto italiano per gli Studi storici. Tra le ultime opere ricordiamo Discorsi di varia filosofia (1945), Filosofia e storiografia (1949), Storiografia e idealità morale (1950), Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Molto importanti sono anche i suoi numerosissimi articoli e gli epistolari che testimoniano delle sue relazioni culturali in Italia e fuori. Morì a Napoli nel 1952.

La genesi della riflessione sulla storia e sull’economia Croce e il dibattito sulla metodologia della storia

La storia ricondotta alla metodologia dell’arte

Rifiuto dei modelli epistemologici della storia positivista e della filosofia della storia idealista

L’atteggiamento critico verso il materialismo storico

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Nei primi scritti teorici di Croce la questione principale è il problema della definizione dello statuto epistemologico della storia. L’occasione che lo spinge a pronunciarsi per la prima volta sulla questione è un articolo nel quale lo storico positivista Pasquale Villari (1826-1917) aveva sostenuto la necessità da parte degli storici di assumere a modello il metodo delle scienze naturali, unica possibile garanzia di esattezza e rigore. A questa tesi Croce contrappone, in una memoria del 1893, la riconduzione della storiografia sotto il concetto generale dell’arte, intesa in questo momento del suo pensiero come la sfera della conoscenza avente per oggetto il particolare e per questo contrapposta alla scienza, mirante alla comprensione dell’universale tramite leggi generali. La storia ha il compito di narrare fatti individuali, e per questo rientra nell’ambito dell’arte, all’interno del quale si distingue per il riferimento a ciò che è realmente accaduto, che la differenzia dalla letteratura e dalle altre produzioni artistiche, le quali possono avere e spesso hanno per oggetto anche l’immaginario. Questa riconduzione della storia sotto il concetto generale dell’arte risponde a due esigenze: 1) innanzitutto l’intento di salvaguardare, in polemica con il positivismo, l’autonomia contenutistica e metodologica della storia rispetto alle scienze naturali: esigenza che Croce condivide con lo storicismo tedesco sviluppatosi negli ultimi decenni dell’Ottocento e in particolare con Dilthey (vedi Unità 6, p. 248 s.), cui fa esplicito riferimento nell’articolo giovanile Sulla classificazione dello scibile (1895); 2) ma la tesi della memoria giovanile, ancorando la storia alla concretezza del dato empirico, esprime anche una netta presa di distanza nei confronti delle costruzioni a priori e provvidenzialistiche dello svolgimento storico elaborate dalle filosofie idealistiche dell’Ottocento. Questo rifiuto delle filosofie della storia caratterizza anche l’interpretazione crociana del materialismo storico, al quale Croce si dedica in maniera intensiva tra il 1895 e il 1900, stimolato da Labriola. In polemica con tutte le interpretazioni deterministiche del pensiero marxista, Croce nega, infatti, energicamente che il materialismo storico sia una «filosofia della storia», cioè una deduzione a priori dello svolgimento storico. Al tempo stesso, egli esclude che il marxismo sia un

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

Materialismo storico come «canone» La concretezza del marxismo

Il realismo politicopragmatico di Marx, affine a quello di Machiavelli

Il rifiuto del socialismo

La critica verso alcuni capisaldi della teoria marxiana

Le origini teoriche della critica crociana all’economia marxiana

Croce giunge alla teoria dell’utile come atto dello spirito

nuovo «metodo» per interpretare la realtà o una «teoria», una visione del mondo compiuta, dotata di leggi generali e certe. Per Croce, il materialismo storico è invece un semplice «canone» per la ricerca storica, cioè una sorta di suggerimento a rivolgere maggiore attenzione al fattore economico, all’interno di una concezione realistica della storia. Questa delimitazione del valore del materialismo storico non significa, però, una negazione della sua importanza: al contrario, così inteso il marxismo ha svolto, secondo Croce, una funzione nettamente positiva, favorendo il rinnovamento del lavoro storiografico in direzione di una maggiore concretezza e di una maggiore attenzione all’interdipendenza di tutti gli aspetti della realtà, connessi dalla comune genesi a partire dal «sottosuolo economico». Croce riconosce inoltre al marxismo un’influenza benefica non solo sul terreno storico-metodologico, ma anche su quello politico-pragmatico, apprezzando l’energico e opportuno richiamo di Marx alla necessità di considerare realisticamente il fattore concreto della «forza» e della «potenza», senza indulgere a ideali astratti e utopistici: realismo che egli legge in continuità con la concezione moderna della politica e dello Stato, inaugurata da Niccolò Machiavelli. Ciò che Croce non accetta del marxismo è la pretesa di dedurre dall’analisi economica criteri dell’azione politica e morale: posizione che lo porta a distaccarsi dal suo maestro Labriola, negando l’esistenza di un rapporto necessario tra il materialismo storico e i programmi politici del socialismo, legati a situazioni contingenti e particolari. Croce rifiuta anche l’intera teoria marxiana della produzione capitalistica, di cui critica i punti essenziali, come l’equazione tra plusvalore e pluslavoro e la previsione della caduta tendenziale del saggio di profitto (vedi Unità 4, p. 157 e p. 159): la teoria marxiana del «valore» è, secondo Croce, il frutto della considerazione di «un’astratta società lavoratrice», che non ha alcuna efficacia nel ben più complesso sistema economico reale, dove molti beni economici non aumentano il loro valore attraverso il lavoro e dove spesso i prezzi sono determinati per la maggior parte dalla domanda di mercato e dai consumatori. La critica crociana della concezione economica marxiana è largamente ispirata ai principi dell’economia cosiddetta «purista» – in quanto fondata sulla netta distinzione tra fatti economici e morali – che, affermatasi in Europa negli anni settanta dell’Ottocento, si era diffusa in Italia attraverso la mediazione di Maffeo Pantaleoni (1857-1924) e Vilfredo Pareto (1848-1923). Gradualmente, Croce avverte, però, l’esigenza di spostare la riflessione sulla nozione di «valore» su un terreno diverso da quello dell’osservazione empirica, cioè su un piano meramente speculativo, allo scopo di individuare l’elemento originario e irriducibile che fa dell’economia una scienza indipendente dalle altre. Per questa strada, egli giunge all’identificazione del valore con il principio dell’utile, inteso come atto originario dello spirito. Quest’affermazione della natura spirituale del fatto economico, che Croce matura in opposizione alla considerazione purista del fatto economico come fenomeno edonistico, meccanico e quantitativo – cioè come semplice calcolo del piacere – costituisce il punto di partenza della quadripartizione categoriale che egli avrebbe di lì a poco posto a fondamento della prima filosofia dello spirito. Essa implica, infatti, il riconoscimento della sfera economica come sfera indipendente dell’attività umana, che arricchisce e complica la triade classica di arte, logica e moralità, i tre ambiti privilegiati della riflessione filosofica. 309

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Le radici della teoria crociana dello spirito La riflessione filosofica di Croce inizia dal dibattito sulla metodologia della storia

Storia = arte: ha per oggetto il particolare

Scienza: ha per oggetto l’universale

Autonomia di contenuto e di metodo della storia

Positivismo: le scienze storiche e quelle naturali sono conosciute nel medesimo modo e attraverso la stessa metodologia

Ancoraggio della storia al dato empirico

Rifiuto delle filosofie della storia idealiste e provvidenzialistiche

Materialismo storico come canone per la ricerca scientifica sulla società e sulla storia Realismo (analogie con Machiavelli) e attenzione al dato economico Riflessione sul marxismo Critica e rifiuto di alcune tesi marxiane: – rifiuto del socialismo – rifiuto dell’equazione tra plusvalore e pluslavoro – rifiuto della previsione della caduta tendenziale del saggio di profitto

Conclusioni

Giunge alla teoria del fatto economico e del principio dell’utile come atto dello spirito

La «dialettica dei distinti» La concezione dello spirito

Le quattro categorie fondamentali

Le distinzioni crociane: teoretico / pratico e particolare / universale

310

Il testo di fondazione della «filosofia dello spirito» è comunemente considerato l’Estetica del 1902. In essa Croce procede, infatti, alla definizione dello statuto e dei caratteri dell’arte, muovendo dalla tesi idealistica che tutta la realtà – compresa la natura – non sia altro che «spirito». Con quest’espressione egli non intende un’entità divina e trascendente, bensì la libera attività creativa dell’uomo, nella sua forma costante e universale: la radice di tutti i modi dell’attività umana, perennemente identica a se stessa al di sotto del fluire della storia. Così concepita, la vita dello «spirito» si manifesta per Croce in quattro forme fondamentali, delle quali una è costituita appunto dall’estetica, accanto alla logica, all’etica e all’economia: estetica ed economia sono momenti dell’individualità, mentre la logica e l’etica sono momenti dell’universalità, rispettivamente nella vita teoretica e in quella pratica. Croce parte, dunque, dalla bipartizione tradizionale dell’attività spirituale in teoretica e pratica – riguardanti rispettivamente la conoscenza e la modificazione del mondo in vista di un fine – sottoponendola a un’ulteriore articolazione in due gradi, cioè il particolare e l’universale: 1) la comprensione teoretica del mondo può, infatti, avvenire o attraverso l’intuizione, che è conoscenza dell’individuale ed è tipica dell’arte, o attraverso il concetto, che è invece conoscenza universale; 2) analogamente, l’attività pratica può essere mossa dall’utile individuale, oppure dal bene morale, che ha carattere universale. In questo modo, Croce offre un primo «schizzo sommario» dell’intera filosofia dello spirito, in cui sono distinte le quattro categorie e le scienze che vi corrispondono.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile Il confronto con la dialettica hegeliana e la teoria dei «distinti» ➥ Laboratorio di lettura, p. 336

I meriti della dialettica hegeliana

I limiti di applicazione della dialettica e l’autonomia reciproca tra i «distinti»

La compresenza eterna delle categorie: il «circolo»

La concretezza delle categorie

L’opposizione interna alle categorie

È soltanto in seguito a un serrato confronto critico con la filosofia hegeliana – la cui principale espressione è costituita dal saggio Ciò che vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel – che Croce perviene alla formulazione più matura del sistema, fondata sulla cosiddetta «dialettica dei distinti»: cosiddetta, perché si tratta di un’espressione che egli respinse sempre, dal momento che il rifiuto del valore assoluto del metodo dialettico costituisce il principale punto di divergenza rispetto al pensiero di Hegel. Alla dialettica hegeliana Croce attribuisce il merito di avere consentito per la prima volta di pensare in maniera adeguata gli opposti, rivelando come essi – oltre a escludersi – si richiamino e si presuppongano, nella misura in cui, presi isolatamente, sono astrazioni ideali, aventi la loro realtà soltanto in un terzo termine dal quale sono necessariamente superati: pensa, per esempio, all’«essere» e al «nulla» della prima triade della Scienza della logica hegeliana, che non hanno alcuna consistenza reale al di fuori del «divenire». Croce delimita, però, la validità della dialettica hegeliana esclusivamente alle coppie di opposti e contrari, negando recisamente che il rapporto tra le forme dello spirito sia un rapporto di opposizione. In Hegel infatti questa relazione è onnipresente, e questo determina il movimento dialettico che è immanente a tutto il sistema, compreso l’ultimo momento – cioè lo spirito assoluto – il cui svolgimento consiste nel progressivo e necessario superamento dell’arte e della religione nella filosofia, sintesi finale di tutto ciò che la precede. Per Croce, invece, le categorie dello spirito, essendo i modi eterni in cui questo esplica la propria attività, non possono annullarsi reciprocamente o trapassare l’una nell’altra: il bello non è opposto al vero, così come quest’ultimo non è opposto al buono o all’utile. Le categorie dello spirito si connettono piuttosto come «distinti», cioè come termini che, pur essendo legati da un nesso di intima e reciproca implicazione, conservano però la propria autonomia. Lo spirito si esprime interamente in ogni suo atto peculiare, nel quale intervengono dunque, in maniera mediata, tutte le altre categorie, eternamente compresenti: per esempio, la filosofia presuppone l’arte – poiché nessun concetto è possibile senza intuizione – così come nell’opera artistica non vi è solo, per quanto sia prevalente, la forma estetica, ma anche il concetto, l’utile e la moralità. La conoscenza è poi implicata dalle volizioni economiche ed etiche, che a loro volta sono materia per una successiva intuizione, in una relazione che per Croce può essere espressa adeguatamente solo attraverso l’immagine del «circolo», in cui ogni punto è insieme primo e ultimo. Ciò non toglie, però, l’autonoma consistenza sia dell’arte sia della filosofia o delle altre forme dello spirito che – a differenza dei contrari – non sono mere astrazioni, bensì sono tutte espressioni altrettanto reali e concrete dello spirito, e non hanno dunque bisogno di essere superate in un terzo termine. L’opposizione sorge non tra le diverse forme o «gradi» dello spirito, ma soltanto al loro interno, come dialettica: 1) del bello e del brutto in campo estetico; 2) del vero e del falso in campo filosofico; 3) dell’utile e del dannoso in campo economico; 4) del bene e del male in campo etico. 311

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La «dialettica dei distinti»

Tutta la realtà è spirito, compresa la natura

«Dialettica dei distinti» – circolo, cioè implicazione reciproca tra le categorie – non c’è opposizione tra i distinti, ma solo al loro interno – rifiuto della dialettica hegeliana, che concepisce l’opposizione come legge di tutta la realtà

Vita teoretica

Vita pratica

Universale

Filosofia / Logica: concetto opposizione tra vero e falso

Morale: bene opposizione tra bene e male

Particolare

Arte: intuizione opposizione tra bello e brutto

Economia: utile opposizione tra utile e dannoso

L’autonomia dell’arte ➥ Laboratorio sul lessico, Bello / brutto, p. 81

L’equazione tra arte, intuizione ed espressione

La polemica nei confronti delle estetiche sentimentali e intellettuali

Pregi ed errori dell’estetica hegeliana

312

L’estetica è la parte della filosofia dello spirito che ha ricevuto maggiore risonanza e fortuna, procurando a Croce una grande notorietà, non solo in Italia, bensì a livello internazionale, soprattutto per l’energica affermazione dell’indipendenza dell’arte che in essa è contenuta. La tesi centrale dell’estetica crociana è l’affermazione dell’equazione tra arte, intuizione ed espressione: l’attività artistica è risolta nell’intuizione che, a sua volta, è concepita come assolutamente identica con l’espressione, in base all’assunto che ogni atto intuitivo (del soggetto) sia sempre al tempo stesso un’attività espressiva (realizzazione di un oggetto). Identificazione tra intuizione ed espressione che incarna il rifiuto di tutte le antiche scissioni care alla metafisica tradizionale e ancora vive nella gnoseologia kantiana, come il dualismo tra interno ed esterno: per Croce non vi è separazione tra interiorità ed esteriorità, e nessuno può avere un’intuizione geniale senza essere capace di esprimerla. Questa definizione dell’attività artistica come «intuizione - espressione» consente a Croce di impostare una polemica su due fronti, sia contro il sentimentalismo estetico sia contro l’intellettualismo. Da un lato, il primo è inadeguato a cogliere la natura dell’arte, in quanto confonde sentimento e intuizione: nella prospettiva crociana, l’intuizione, in quanto espressione, non va confusa con il sentimento o la sensazione, immediati e passivi. Al pari degli altri momenti della vita dello spirito, essa è piuttosto attività libera e creativa, che consiste nel dare forma a un contenuto sentimentale, immediato e informe. Dall’altro lato, l’intellettualismo estetico è errato, in quanto non riconosce il rapporto di distinzione tra il genuino fatto artistico e i giudizi logici o le sovrastrutture dottrinali. Intellettualistica è per Croce anche l’estetica hegeliana, alla quale pure egli riconosce il merito di avere affermato il «carattere conoscitivo» dell’arte: parten-

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

do dall’erroneo presupposto che arte e filosofia abbiano lo stesso oggetto, cioè l’Assoluto, Hegel concepisce la prima, assieme alla religione, come un semplice stadio transitorio nello svolgimento della vita dello Spirito – destinato a ‘togliersi’ nel concetto speculativo – giungendo così a formulare la tesi della «morte dell’arte», che riconduce la crisi dell’arte nel mondo contemporaneo al movimento necessario dello spirito. La difesa crociana Rovesciando questa tesi contro la stessa estetica hegeliana, Croce definisce quedell’autonomia dell’arte st’ultima come un «elogio funebre» dell’arte scritto dalla filosofia, stigmatizzando con questa metafora la negazione hegeliana dell’indipendenza dell’attività artistica, derivante – secondo la sua interpretazione – dall’indebita applicazione della dialettica degli opposti al rapporto tra due forme dello spirito.

T1

La critica della tesi hegeliana della «morte dell’arte»

B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 2,9

Lo Hegel accentua più dei suoi predecessori il carattere conoscitivo dell’arte; ma appunto perciò va incontro a una difficoltà, che gli altri scansano alla meglio. Posta l’arte nella sfera dello Spirito assoluto, in compagnia della Religione e della Filosofia, come mai essa si può sostenere accanto a compagne così possenti e invadenti, e segnatamente accanto alla Filosofia, la quale, nel sistema hegeliano, sta alla cima dell’intero svolgimento spirituale? Se Arte e Religione adempissero a funzioni distinte dalla conoscenza dell’Assoluto, resterebbero gradi inferiori, ma necessari e non eliminabili, dello Spirito. Concorrendo, invece, entrambe al medesimo oggetto della Filosofia, permettendosi di rivaleggiare con questa, qual valore possono serbare? Nessuno, tranne tutt’al più quello di fasi storiche e transitorie della vita del genere umano. La tendenza dello Hegel, com’è in fondo antireligiosa e razionalistica, così è anche antiartistica. Strana e dolorosa conseguenza, quest’ultima, per un uomo, come egli era, fornito di senso estetico assai vivo e dell’arte amatore fervente […] il filosofo germanico non volle sottrarsi all’esigenza logica del suo sistema e dichiarò la mortalità, anzi la morte dell’arte. […] Di questo deperimento dell’arte nel mondo moderno si sogliono comunemente addurre varie ragioni, in ispecie il prevalere degli interessi materiali e politici; ma la vera ragione (dice lo Hegel) consiste nel grado inferiore che l’arte tiene rispetto al pensiero puro. […] L’Estetica dello Hegel è, perciò, un elogio funebre: passa a rassegna le forme successive dell’arte, mostra gli stadi progressivi che esse rappresentano di consunzione interna, e le compone tutte nel sepolcro, con l’epigrafe scrittavi sopra dalla Filosofia.

La dialettica dei distinti consente invece, secondo Croce, al tempo stesso di riscattare il valore autenticamente conoscitivo dell’arte e di salvaguardare la sua autonomia ideale dal logico. Da un lato, l’estetico non è illusione né svago, bensì ha una dignità conoscitiva non meno piena di quella del conoscere concettuale, che presuppone la sfera intuitivo-espressiva: non è possibile, infatti, pensare senza esprimersi. Dall’altro lato, esso costituisce una conoscenza sui generis, in quanto è conoscere l’individuale e non ha quindi il valore di verità logica. L’«arte per l’arte» L’affermazione della natura teoretica dell’attività artistica funge inoltre da base per sostenere l’autonomia dell’arte da ogni condizionamento pratico, avvalorando la tesi dell’«arte per l’arte», cioè dell’arte come fine a se stessa: per Croce il vero artista opera con il solo fine di conoscere i fatti individuali – reali o irreali – e di trasformare i sentimenti, attraverso l’intuizione, in un prodotto armonioso e bello, senza contemplare tra i suoi scopi né la difesa di interessi particolari né l’anelito alla trasformazione del mondo secondo fini universali.

Gli obiettivi dell’estetica di Croce

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il Bello

L’estetica crociana

Questa impostazione condiziona anche la definizione crociana del Bello come espressione pura e riuscita: l’artista realizza un’opera d’arte bella quando sa elevarsi all’espressione schietta, senza consentire l’intervento di elementi estranei. Il Brutto non ha dunque una consistenza autonoma, non è qualcosa di altro e separato dal Bello, bensì consiste soltanto nell’interferenza di fattori non-estetici, che alterano e inquinano il prodotto artistico: l’artista produce una brutta opera quando, invece di seguire l’intuizione ed esprimersi liberamente, persegue un utile personale oppure si fa sviare da ragionamenti astratti, mosso da finalità pedagogiche o moralistiche.

Arte

=

Autonomia dell’arte dagli altri distinti

=

Intuizione

=

Atto intuitivo: azione = del soggetto

Espressione

Atto espressivo: realizzazione di un oggetto

Obiettivi di Croce: – salvaguardare il valore conoscitivo dell’arte – affermare l’autonomia dell’arte dal logico

«Arte per l’arte»: l’arte è fine a se stessa, mira a conoscere i fatti individuali Opposizione tra bello (=espressione pura e riuscita e priva di elementi estranei) e brutto (= interferenza nell’espressione di elementi estranei, fattori non estetici)

– Rifiuto delle estetiche sentimentali: confondono sentimento e intuizione – Rifiuto delle estetiche intellettualistiche: sovrappongono all’atto intuitivo elementi estranei (logici, morali, utilitari ecc.) – Rifiuto dell’estetica hegeliana: arte come momento transitorio della vita dello spirito; «morte dell’arte»

Concetti e pseudoconcetti La logica come scienza dell’universale attraverso concetti

Gli pseudoconcetti: mancanti di universalità e concretezza

314

Nel sistema crociano l’arte – in quanto conoscenza dell’individuale attraverso l’intuizione-espressione – è una sfera del sapere distinta dalla logica, che è invece conoscenza dell’universale attraverso i concetti. Alla maniera hegeliana, Croce intende i concetti logici, denominati «concetti puri», come universali concreti, ossia, secondo Hegel, come universali raggiunti al termine di un processo dialettico che ‘supera’ le opposizioni astratte: 1) in primo luogo, il concetto puro è universale, nel senso che non si riferisce all’una o all’altra rappresentazione, o a gruppi di esse, bensì comprende la totalità indivisa delle rappresentazioni, collocandosi così su un piano differente rispetto ad esse (è dunque «onnirappresentativo» e «ultrarappresentativo», secondo la definizione crociana): la nozione di qualità è, per esempio, valida per tutte le cose, senza eccezioni, in quanto non vi è alcun oggetto sprovvisto di qualità; 2) in secondo luogo, il concetto puro è concreto, in quanto è immanente alla realtà: restando sempre all’esempio della qualità, quest’ultima, pur essendo universale, non è separata e trascendente rispetto alle cose, perché denota un loro effettivo e ineliminabile aspetto. Partendo da questi presupposti, Croce distingue i concetti della logica da quelli che egli denomina «pseudoconcetti», cioè tutte quelle nozioni usualmente considerate concetti, le quali non possiedono, però, gli attributi essenziali del concetto puro, cioè l’universalità e la concretezza.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

Pseudoconcetti: nati dall’attività pratica dello spirito

Superiorità della filosofia sulla scienza

L’autonomia della scienza

La logica crociana: filosofia e scienza

Essi sono di due tipi: 1) da un lato, vi sono gli pseudoconcetti empirici – come la nozione di gatto o di rosa – che difettano di universalità, in quanto si riferiscono a gruppi limitati e contingenti di rappresentazioni; 2) dall’altro, vi sono gli pseudoconcetti astratti, che mancano invece di concretezza, come le nozioni matematiche che, pur essendo universali, perdono ogni contatto con la realtà. In sé considerati, gli pseudoconcetti non sono errori, ma hanno anzi una loro legittimità, in quanto traggono origine dall’attività pratica dello spirito, che li forgia e utilizza allo scopo di richiamare alla mente, con un solo nome, una molteplicità di rappresentazioni. L’errore sorge solo se si scambia la natura degli pseudoconcetti con quella degli universali concreti, applicando alla filosofia il metodo e le classificazioni proprie delle scienze empiriche – secondo l’approccio positivista – o viceversa alle scienze positive il modello della filosofia, secondo l’impostazione che Croce imputa all’idealismo tedesco, in particolare hegeliano. La distinzione crociana tra concetti e pseudoconcetti funge dunque da base per affrontare il problema del rapporto tra scienze e filosofia, affermando l’indipendenza e il superiore valore gnoseologico della seconda. Per questo motivo, fin dal suo primo apparire, la teoria degli pseudoconcetti ha suscitato distanze e riserve, in quanto a molti sembrò espressione di una eccessiva svalutazione del ruolo delle scienze, considerate da Croce appunto come edifici di «pseudoconcetti», nettamente subordinati rispetto al sapere filosofico. Questa critica, pur essendo fondata, coglie però solo una parte della verità: come si è appena visto, Croce elaborò, infatti, tale dottrina non solo per confutare lo scientismo naturalistico dei positivisti, ma anche gli esiti estremi dell’idealismo di Hegel che, seguito e amplificato dai suoi epigoni, aveva ritenuto di potere applicare la dialettica anche alle nozioni empiriche, costruendo una filosofia della natura e una filosofia della storia che, nella prospettiva crociana, costituiscono una violenza alla concretezza del dato.

Logica o filosofia = conoscenza dell’universale attraverso concetti

Concetti puri Hanno sempre due caratteristiche: – universalità = comprende la totalità delle rappresentazioni (per esempio qualità) – concretezza = immanente alla realtà (per esempio qualità come aspetto immanente alle cose)

Scienza = forma di conoscenza pratica che utilizza nomi comuni / classi per definire delle molteplicità Pseudoconcetti Sono di due tipi: – pseudoconcetti empirici = si riferiscono a gruppi limitati di rappresentazioni (es. gatto, rosa) – pseudoconcetti astratti = non hanno contatto con la realtà (es. nozioni matematiche)

La filosofia è autonoma ed è una forma di conoscenza superiore alla scienza Obiettivi polemici di Croce: – concezione della scienza positivista: non si possono applicare alla filosofia il metodo e le forme di conoscenza della scienza – concezioni idealistiche (Hegel e i suoi epigoni): non si può applicare la dialettica ai dati empirici. Impossibilità di una filosofia della natura e di una filosofia della storia Autonomia della scienza

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

La filosofia della pratica: economia, etica e politica La sfera pratica dello spirito

Identità tra azione, volizione e intenzione

Distinzione azione / accadimento

La bipartizione della sfera pratica: economia ed etica

Relazione necessaria tra economia ed etica

Contro Kant: il piacere come molla dell’agire morale

T2

La forma economica è condizione della forma etica B. Croce, La filosofia della pratica, 2,1

316

Dopo aver chiarito le peculiarità delle due categorie della sfera teoretica, l’arte e la logica, Croce si rivolge all’analisi di quella pratica. La Filosofia della pratica, che rappresenta il terzo volume della filosofia dello spirito, non contiene una filosofia pratica – cioè una scienza pratica normativa – bensì offre un’analisi della sfera peculiare dell’attività pratica dello spirito, cogliendone le caratteristiche e le articolazioni interne. In primo luogo, Croce procede a definire una teoria dell’azione. Il punto di partenza è costituito dall’equazione tra azione, volizione e intenzione, che rappresenta, sul piano pratico, il corrispettivo dell’identità tra intuizione ed espressione: la volontà non va intesa, kantianamente, come un’intenzione, un elemento interno, di cui l’agire sarebbe l’esecuzione; azione e volontà si identificano, perché non vi è nessuna volizione priva di conseguenze pratiche esteriori, così come non può darsi un agire che non sia volontario. Per Croce occorre piuttosto distinguere tra l’azione e l’accadimento: il primo termine designa l’opera del singolo, mentre il secondo esprime il risultato del concorso delle volizioni individuali, che trascende queste ultime in quanto totalità superiore alle singole parti che la costituiscono. A questa teoria generale dell’azione segue l’esame delle articolazioni interne della sfera pratica, cioè l’economica e l’etica che, in parallelo con quella teoretica, hanno per finalità rispettivamente l’utile individuale e il bene universale. Questa bipartizione della sfera pratica costituisce una delle maggiori innovazioni apportate dalla riflessione crociana: sollevando l’utile a una delle forme dello spirito, Croce restituisce, infatti, dignità a una sfera dell’agire umano tradizionalmente svalutata, in quanto considerata «immorale» ed «egoistica». Il primo Croce non vede invece alcuna contrapposizione tra l’economia – intesa nel senso più ampio di attività indirizzata a fini individuali – e l’etica: l’utile non ha nulla di immorale; esso è piuttosto amorale, e in concreto è anzi una condizione imprescindibile del bene. Ogni azione umana, per quanto morale, è nella realtà effettuale sempre qualcosa di individualmente determinato: colui che compie una buona azione realizza una volizione morale specifica, soccorrendo per esempio non il prossimo in generale, bensì un singolo con determinate caratteristiche e che si trova in certe condizioni di sventura. Per Croce, inoltre, è impossibile tradurre in atto un’azione che non procuri un piacere individuale, molla indispensabile anche dell’agire morale, per quanto quest’ultimo non si esaurisca in esso: di qui il sarcasmo crociano sulla nozione kantiana di «azioni disinteressate» come pretesi modelli di moralità, o la tesi radicalmente antikantiana che il piacere non può mai essere in contrasto con il dovere, perché non c’è azione che non corrisponda a una soddisfazione e a un compiacimento individuali. Se vogliamo riconoscere la sola forma morale della pratica, ci accorgiamo che essa porta con sé l’altra, che volevamo respingere [la forma economica]; perché la nostra azione, sebbene universale nel suo significato, dev’essere sempre in concreto qualcosa di individualmente determinato. Quel che si mette in pratica non è la moralità in generale, ma sempre una determinata volizione morale; come ad altro proposito diceva lo Hegel che non si mangiano frutta in generale, ma ciliegie, pere, susine, anzi queste ciliegie, queste pere, queste susine: si soccorre col

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

confortarlo in questo e questo modo un individuo così e così fatto, che si trova nelle tali o tali altre condizioni di sventura; si rende giustizia, in un dato punto del tempo e dello spazio, su una questione determinata e ad esseri individuati. Quantunque una buona azione non sia unicamente il nostro individuale piacere, tale essa deve diventare: altrimenti, come potremmo noi tradurla in atto? Fare è compiacersi di quel che si fa, nell’atto che si fa.

Teoria generale dell’azione Bipartizione della sfera pratica: autonomia delle due sfere

La filosofia della pratica crociana

Da un lato, l’insistenza sulla distinzione tra utile e bene consente a Croce di attribuire una relativa autonomia non solo all’economia, ma anche alla politica e al diritto, in continuità con la lezione realistica di Niccolò Machiavelli, Giambattista Vico e Hegel. Dall’altro lato, la messa in rilievo dell’implicazione tra utile e bene funge invece da base per una critica serrata sia della morale utilitaria sia del moralismo astratto di ispirazione kantiana, che a Croce appaiono come posizioni specularmente unilaterali: il limite dell’utilitarismo è di esaurire la sfera della pratica nell’attività di tipo utilitario e in senso lato «economico», mentre quello del moralismo astratto è di non vedere la dimensione concreta, naturale e individuale della vita morale.

Obiettivi pratici e teorici della filosofia pratica di Croce

Due diversi obiettivi di Croce: realismo e critica sia dell’utilitarismo sia del moralismo astratto

Azione

Non esiste azione priva di intenzione e volizione

=

Volizione

=

Nessuna volizione è priva di conseguenze pratiche

=

Intenzione

=

L’intenzione non è qualcosa di interno contrapposto all’azione esterna

Distinzione tra azione (opera del singolo) e accadimento (= concorso tra azioni individuali)

Economia = attività indirizzata a fini individuali

Utile individuale

Piacere come molla dell’agire

Utile come condizione imprescindibile del bene

Etica = attività indirizzata a fini universali

Bene universale

Ogni azione morale è qualcosa di individualmente determinato

Interdipendenza e autonomia delle varie sfere della vita pratica (economia, etica, ma anche politica e diritto)

Valorizzazione dell’agire individuale: l’uomo realizza se stesso (la propria vocazione) contribuendo al progresso e al bene

Rifiuto di subordinare l’individuo allo Stato: polarizzazione costante tra questi due poli

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Analogie con i neoidealisti inglesi

Una moralità calata nella storia e la «vocazione» individuale

Lo sviluppo della filosofia pratica crociana: la tensione tra individuo e Stato

2

Sia pure a partire da presupposti teorici differenti, Croce condivide dunque con i principali esponenti del neoidealismo inglese, cioè Green e Bradley (vedi Unità 7, p. 295 ss.), la critica da un lato dell’individualismo utilitaristico e dall’altro del formalismo dell’etica kantiana, a favore di una morale concreta, calata nella società e nella storia. Non a caso, anch’egli indica come unico possibile fondamento dei doveri particolari e concreti del soggetto morale la peculiare posizione che ciascun individuo occupa nella società in base alle proprie disposizioni, che sono espressione della propria «vocazione», cioè del compito specifico che ciascun individuo è chiamato a svolgere per contribuire al progresso del Tutto. Il principio dell’etica non è l’adeguazione alla vuota universalità della legge morale, bensì la volizione dell’universale attraverso la propria individualità, che si definisce solo nel rapporto con gli altri uomini (considerato isolatamente, l’individuo è, infatti, solo un’astrazione). Questo richiamo all’importanza della società e della vita collettiva nella vita morale del soggetto rivela l’influsso dell’eticità hegeliana. Fin dall’inizio, però, la riflessione etica crociana si distingue dal modello hegeliano, profilando il rapporto tra individuo e Stato non in termini di conciliazione, bensì come i due poli di una costante e inesauribile dialettica. L’accento sulla tensione tra questi due poli risulta enfatizzato soprattutto negli ultimi scritti, nei quali Croce, sotto la pressione degli eventi storici – come l’avvento del fascismo e del nazismo – prende nettamente le distanze, anche in maniera autocritica, dalle concezioni organicistiche dello Stato, che teorizzano la necessità del sacrificio dell’individuo all’intero statuale.

Lo «storicismo assoluto» L’elaborazione del sistema induce Croce a rivedere gradualmente la propria giovanile interpretazione della storia come rappresentazione dei fatti – da collocare, in quanto conoscenza dell’individuale, nell’ambito della sfera estetica – fino a indicare in essa il culmine della conoscenza teoretica e a formulare la tesi dell’identità di storia e filosofia.

L’identità di filosofia e storia Innalzamento della storia dalla sfera estetica a quella del pensiero

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L’innalzamento della storiografia al di sopra della sfera estetica affonda le sue radici nell’equazione tra la storia e il giudizio individuale, cioè quella forma di giudizio che connette una rappresentazione estetica individuale con un predicato universale e, in quanto tale, costituisce la forma più alta e compiuta di conoscenza teoretica, consentendo di cogliere l’«universale concreto». L’affermazione del giudizio individuale, come tratto distintivo della storia, la innalza al di sopra del piano estetico: la vera storiografia, composta da giudizi individuali, non è mera rappresentazione o racconto di fatti accaduti, ma è piuttosto riflessione logica su questi ultimi che, senza nulla togliere alla concretezza del dato, lo trasfigura nella forma nel pensiero, esaminandolo alla luce di predicati universali, indispensabili per comprendere qualsiasi avvenimento storico.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile Storia e filosofia come medesima forma dello spirito

Il terreno comune tra storia e filosofia: il giudizio individuale

La filosofia come chiarificazione del ‘fare storia’

T3

La filosofia come metodologia della storiografia B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 1, Appendici, 3

In questo senso, la storia si rivela dunque essere impossibile senza la filosofia. Il rapporto tra le due non va, però, inteso come un nesso tra condizione e condizionato o nei termini di azione reciproca: filosofia e storia non sono infatti, per Croce, due forme distinte dello spirito, bensì piuttosto una sola e identica forma. A questa posizione egli arriva a partire dalla comprensione dell’universalità del sapere filosofico che, a differenza della generalità astratta e classificatoria delle scienze naturali, è una universalità concreta: concretezza che la filosofia può assumere solo giudicando fatti individuali e concreti. Sapere storico e sapere filosofico vengono così a coincidere, sul terreno comune del «giudizio individuale»: la distinzione usuale tra i due ha alle sue radici solo motivi didascalici, che spingono a presentare come filosofia solo quella esposizione in cui è dato risalto al concetto, e storia quella in cui è invece posto in primo piano il fatto. In realtà, in quanto riflessione logica sui fatti, la storia è sempre volta a risolvere problemi filosofici, così come ogni sistema filosofico elabora concetti solo per gettare luce sui fatti. In questo senso, in Teoria e storia della storiografia Croce definisce la filosofia come «metodologia della storiografia», cioè come chiarificazione delle categorie costitutive dell’interpretazione e del giudizio storico, rifiutando nettamente la concezione della filosofia come metafisica, in quanto tale preoccupata del problema unico e generale della realtà. A questo modello di filosofia egli contrappone l’ideale di un sapere filosofico non separato dalle altre discipline, ma piuttosto appannaggio di tutti gli studiosi di cose umane – e dunque storiche – tale da renderli in grado di affrontare i problemi che la storia via via pone. La Filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata posta, non può essere necessariamente altro che il momento metodologico della Storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti direttivi dell’interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (o di altro, se altro si riesca ad escogitare) e in questa varietà delle sue forme è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell’Estetica e della Logica, dell’Economica e dell’Etica, e tutte le congiunge e le risolve nella Filosofia dello Spirito.

Questa risoluzione della filosofia nella storiografia, fondata sull’assunto che la vita e la realtà non sono nient’altro che storia, è generalmente nota con l’etichetta «storicismo assoluto»: precisamente, Croce stesso adopera quest’espressione per definire la posizione radicale cui approda alla fine degli anni trenta, affermando che il pensiero e il giudizio storico sono l’unica possibile forma del conoscere. Radici della posizione Le radici filosofiche dello storicismo crociano sono: crociana 1) da un lato l’identificazione vichiana tra il «vero» e il «fatto» (principio del verum / factum) – secondo la quale l’uomo ha autentica conoscenza solo della storia, che è fatta da lui stesso – , primato epistemologico della storia rispetto a tutte le altre forme di conoscenza che è indicato con il termine «storicismo»; 2) dall’altro il principio hegeliano dell’andamento dialettico della storia, secondo il quale quest’ultima è retta da un’intrinseca razionalità, in quanto non è altro che il movimento di auto-realizzazione dello Spirito, procedente secondo un ritmo dialettico, all’interno del quale anche ciò che ci sembra negativo in realtà è semplicemente un momento necessario per l’affermazione del positivo. Pensiero e giudizio storico come unica forma di conoscenza

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Il tratto distintivo del «nuovo storicismo», invece, rispetto ai suoi modelli, e in particolare rispetto a quello hegeliano, consiste agli occhi di Croce nel radicale immanentismo. Secondo l’interpretazione crociana, un residuo di mentalità metafisica avrebbe indotto Hegel a concepire il proprio sistema come una «mitologica e trascendente religione» – cioè come una verità al di sopra e al di fuori del mondo storico – attribuendo alla struttura sistematica un carattere chiuso, definitivo. La verità è ‘storica’ Carattere in aperta contraddizione con il contributo essenziale offerto dal pensatore tedesco al riconoscimento della forma storicamente determinata della verità, espressa per esempio nella definizione hegeliana della filosofia come il «proprio tempo appreso in pensieri». La storia come Per Croce, invece, nessuna verità è definitiva, perché nella vita spirituale si creaprocesso aperto no sempre nuove condizioni che esigono un arricchimento e l’approdo a una nuova verità, anch’essa non definitiva: il movimento della storia richiede un continuo avanzamento dello sforzo di conoscerla.

Radicale immanentismo dello storicismo crociano

Lo «storicismo assoluto» di Croce

Revisione graduale della giovanile collocazione della storia nella sfera estetica Equazione tra la storia e il giudizio individuale (forma di giudizio che connette una rappresentazione estetica individuale con un predicato universale) La storia come conoscenza dell’«universale concreto» (forma più alta e compiuta di conoscenza teoretica) Identità di storia e filosofia: entrambe esprimono il giudizio individuale, ossia una riflessione logica su fatti e rappresentazioni che li trasforma in pensiero, concetti universali e concreti Filosofia come «metodologia della storiografia», cioè come chiarificazione delle categorie costitutive dell’interpretazione e del giudizio storico Storicismo assoluto: pensiero e giudizio storico come unica forma di conoscenza vera

Presupposti teorici dello storicismo assoluto: – principio vichiano del verum / factum – principio hegeliano della dialettica come legge della storia – principio hegeliano che la verità ha forma storica – rifiuto del sistema chiuso hegeliano

Caratteri dello storicismo assoluto: – radicale immanentismo – storia come processo aperto – continuo sforzo di conoscere la storia

Tra teoria e prassi: storia e storiografia L’innalzamento della storia a nucleo del sistema, con l’asserita identificazione di storia e filosofia, impone a Croce un approfondimento della natura della storicità – sia come corso di eventi storici (res gestae), sia come ricostruzione storiografica di essi (historia rerum gestarum) – e modifica anche la relazione tra le varie categorie dello spirito, i «distinti», dando alla storia un ruolo in questa relazione. Lo spirito come Alla radice di questa riflessione vi è l’assunto che il soggetto della storia non sia soggetto della storia né il singolo isolato né tanto meno la somma empirica degli individui, bensì lo

Due forme di storicità

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La storiografia come «contemporaneità»

Il nesso tra storia passata e vita presente

La storiografia come centro del circolo delle forme spirituali

La storiografia non deve dare giudizi di valore

Il circolo tra azione e pensiero

«spirito eternamente individuantesi», cioè lo spirito universale, quale si concretizza e individualizza nelle opere della fantasia e del pensiero, nell’attività economica e nell’agire morale. Lo «spirito» che, come si già detto, non designa un principio trascendente gli individui e la storia, bensì la forma costante dell’agire umano. Partendo dal presupposto dell’unità indissolubile di individuale e universale, Croce si sforza dunque di tenere assieme il ruolo fondamentale dell’individualità nel corso della storia con l’affermazione della dimensione universale di ogni evento storicamente significativo. La conoscenza della vita dello spirito universale che si individua, nelle sue distinte forme (arte, filosofia, economia ed etica), è costituita dalla storiografia, che per Croce ha come carattere essenziale la «contemporaneità». Ciò non significa che la storiografia sia autentica solo quando tratta eventi contemporanei. Nell’affermare che la vera storiografia è sempre e solo storiografia contemporanea, Croce adopera, infatti, l’aggettivo «contemporaneo» non nel senso comune – cioè in riferimento all’epoca storica presente – bensì per suggerire che l’attività storiografica, anche qualora riguardi documenti e fatti molto lontani nel tempo, non nasce dalla semplice curiosità erudita o dall’amore per antiche civiltà scomparse, bensì dal bisogno urgente di chiarire, nella loro intima genesi, fatti e problemi della nostra esperienza presente. Questo non significa che lo storico debba piegare le testimonianze storiche alle esigenze attuali. Una storiografia autentica nasce piuttosto quando tra passato e presente – cioè tra storia e vita – si instaura un nesso che è di unità, ma al tempo stesso di distinzione: impossibile sarebbe, per esempio, rievocare la figura di Robespierre, se non la sentissimo viva in noi, se non ci affascinasse qui e ora; nondimeno, sarebbe però altrettanto impossibile parlarne se non avvertissimo la sua distanza, e non la collocassimo dove merita di venire collocata. Questo rapporto di unità-distinzione tra storia passata e vita presente non è altro che il rapporto tra sfera teoretica e sfera pratica: in quanto forma suprema della conoscenza teoretica, la storiografia costituisce il punto di raccordo tra le due e il centro del circolo delle forme spirituali. Chiunque voglia perseguire uno scopo necessita, infatti, della conoscenza storica delle circostanze in cui si trova: conoscenza storica che è però una forma distinta dello spirito, la cui autonomia non può essere violata, attraverso una illegittima subordinazione alle finalità dell’agire pratico. Per questo motivo, Croce ritiene che la storiografia debba esimersi dall’esprimere giudizi di valore sulla maggiore o minore bontà dei protagonisti dei fatti narrati. Questi «pseudogiudizi», come li chiama Croce, rispondono infatti unicamente a istanze pratiche: servono a chi giudica per trovare dei «punti di orientamento e di appoggio per l’azione» nel quotidiano, ma non hanno nessun valore speculativo o teoretico. Conformemente alla propria natura di attività teoretica, la storiografia non deve, invece, essere mai «giustiziera», bensì «giustificatrice» di ciò che è accaduto, sforzandosi di comprenderne le cause e il significato nel corso dello svolgimento della vita dello spirito. La posizione della storiografia nel circolo dello spirito – al limite tra sfera teoretica e sfera pratica – è oggetto di ulteriore riflessione nella Storia come pensiero e come azione. Dopo avere ribadito la contemporaneità della storia, qui Croce presenta la storiografia come «liberazione dalla storia»: la ricerca storiografica, offrendoci una comprensione dei fatti trascorsi, ci consente di dominarli attraverso il pensiero, cioè di sottrarci alla pressione necessitante del passato. Ciò è premessa necessaria per la nuova vita, cioè per la storia come azione, che dovrà 321

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poi a sua volta essere nuovamente convertita in pensiero, per rendere possibile l’avanzamento dello spirito oltre il già dato. In questo modo, Croce accentua senza dubbio il nesso tra il pensiero e il fare, sforzandosi però di mantenere ferma la distinzione tra i due piani. L’attività storiografica, che pure è al tempo stesso un atto di liberazione e di libertà, è vincolata alla necessità storica, intesa però da Croce unicamente nel senso logico di conformità ai principi di identità e di non contraddizione; essa è premessa all’azione, ma non si risolve in essa, in quanto ha un valore in sé – indipendente dal successo delle opere che prepara – consistente nella sua coerenza logica. Dal canto suo, la storia come azione, cioè il concreto prodursi degli eventi, non è sottoposta alla necessità, bensì dipende esclusivamente dalla volontà degli uomini che, grazie all’azione catartica del pensiero, può essere scintilla del nuovo.

Storia come pensiero e come azione

Teoria e storia della storiografia

Storia e storiografia in Croce

3 Il male come semplice momento negativo

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Il soggetto della storia (res gestae = eventi storici) è lo «spirito eternamente individuantesi», non un principio trascendente ma la forma costante dell’agire La conoscenza della vita dello spirito universale che si individua, nelle sue distinte forme (arte, filosofia, economia ed etica), è costituita dalla storiografia (historia rerum gestarum = ricostruzione dei fatti) Caratteri della storiografia: – contemporaneità – nesso tra vita passata e presente come legame tra sfera teoretica e sfera pratica – centro del circolo delle forme spirituali – la storiografia è «giustificatrice»

La storiografia è «liberazione dalla storia»: la ricerca storiografica, attraverso la comprensione dei fatti trascorsi, ci consente di dominarli attraverso il pensiero

L’attività storiografica al tempo stesso: – è un atto di liberazione e di libertà – è vincolata alla necessità storica, nel senso logico di conformità ai principi di identità e di non contraddizione – è premessa all’azione, ma non si risolve in essa, in quanto ha un valore in sé, consistente nella sua coerenza logica

Il dominio della storia attraverso il pensiero è premessa necessaria per la storia come azione, che dovrà poi essere nuovamente convertita in pensiero

La storia come azione, cioè il concreto prodursi degli eventi: – non è sottoposta alla necessità, ma dipende esclusivamente dalla volontà degli uomini – grazie all’azione catartica del pensiero, può essere scintilla del nuovo

Crisi della civiltà e crisi del sistema: il «vitale» Di Croce si è a lungo parlato, e in verità si seguita a parlare, come dell’euforico filosofo del costante progresso dell’umanità «dal bene verso il meglio», secondo l’espressione effettivamente utilizzata in Teoria e storia della storiografia, che ha alla sua base la riduzione del male a semplice momento negativo della dialettica dello spirito, destinato a essere necessariamente tolto e superato dal bene.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile Croce e la consapevolezza della crisi del suo tempo

Dalla filosofia dello spirito alla filosofia della vita

Il rapporto tra «vitalità» e moralità

Sostituzione dell’utile con il vitale

Abbandono dell’equazione tra storia e progresso

Antagonismo tra «vitalità» e «moralità»

Trasformazione della vitalità nel ‘motore’ della dinamica dello spirito

Questo luogo comune storiografico consolidato non tiene conto, in realtà, dell’acuta consapevolezza della crisi del suo tempo che Croce maturò, a partire dagli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale. Questa consapevolezza si traduce in un’angoscia storica ed esistenziale, tale da indurlo non solo a mettere in discussione, in maniera autocritica, la concezione positiva della storia sostenuta nelle opere precedenti, ma anche a ripensare profondamente la dinamica dello spirito. L’esito di questo ripensamento è stato definito da autorevoli interpreti come un deciso spostamento della filosofia crociana da filosofia dello spirito a filosofia della vita. L’espressione principale della revisione della prima filosofia dello spirito è la sostituzione del concetto di «utilità» e del distinto economico con la nozione di «vitalità». Si tratta di un concetto che fa la sua comparsa per la prima volta nei Paralipomeni del libro sulla «Storia» (che occupano circa i due terzi del volume Il carattere della filosofia moderna, pubblicato da Croce nel 1941) in cui la storia è descritta come un conflitto inestinguibile tra «forze vitali» e «forze morali», che obbliga spesso queste ultime, per avere la meglio sulle prime, a sporcare i principi etici con il vigore della forza, facendosi esse stesse «vitalità»: al pari del momento economico, la vitalità emerge dunque come principio che è eterogeneo rispetto a quello morale – l’amorale o non-morale – ma al tempo stesso ne costituisce l’indispensabile presupposto. Nelle Indagini su Hegel, nelle quali il concetto di vitalità viene approfondito sotto il profilo filosofico, la corrispondenza con il distinto economico risulta in modo ancora più chiaro: la «vitalità» è infatti definita, al pari della vecchia categoria dell’utile, come il se stesso individuale, cioè la ricerca della felicità particolare, che come tale non si cura dei fini morali universali. Si tratta ora di vedere quali sono i cambiamenti che questa sostituzione implica. 1) In primo luogo, sul piano limitato della concezione dello svolgimento storico l’introduzione della nozione di vitalità implica l’abbandono dell’equazione tra storia e progresso affermata dal primo Croce: il progresso – viene ora argomentato – si verifica solo quando le forze morali hanno la meglio su quelle vitali, ove non si tratta di una vittoria scontata e necessaria; al contrario, può anche accadere che la vitalità abbia la meglio sulla moralità, e allora si producono le fasi di decadenza e la «crisi della civiltà». 2) In secondo luogo, a livello della concezione generale del sistema, si registra un mutamento considerevole nell’ambito della sfera pratica: mentre il rapporto tra utile e morale era concepito in termini di armonia, l’accento cade ora piuttosto sull’antagonismo tra «vitalità» e «moralità». Il nesso tra le due categorie della sfera pratica – cioè economia (o vitalità) e moralità – perde progressivamente il carattere della ‘distinzione’ logica, per acquisire quello della contrarietà o opposizione e, quindi, dell’unità dialettica. 3) Infine, questa revisione non riguarda solo la sfera pratica, ma coinvolge anche quella teoretica: pur essendo un momento eminentemente pratico, il «vitale» partecipa, molto più dell’antico distinto economico, al complessivo movimento dello spirito; anche nella sfera teoretica, infatti, il conseguimento del bello e del vero provoca un «fremito di piacere» ed è in qualche modo diretto ad esso. La vitalità tende dunque a superare i confini spettanti ad essa quale semplice distinto della sfera pratica: a differenza delle altre forme spirituali – che esauriscono la loro funzione nell’offrire la «materia» alla categoria successiva (come avviene, per esempio, nel caso della conoscenza storica, che of323

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fre la materia all’agire pratico) – essa acquisisce il ruolo preminente di forza motrice dell’intera dinamica spirituale, tendendo a identificarsi, in quanto irrequietezza costante e brama inestinguibile, con lo hegeliano momento della negatività, pungolo dell’eterna dialettica delle categorie.

T4

Vitalità e dialettica

B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica, 2

Per categoria della Vitalità è da intendere quella in cui l’individuo soddisfa le proprie volizioni e brame di benessere individuale. […] Né bisogna lasciarsi distrarre e attrarre dalla Vitalità già domata e regolata dalla morale e perdere così di vista quella che qui sola conta per noi e sola ha il nostro interessamento, che è la Vitalità cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore. Essa offre la «materia alle categorie successive», giusta la legge che regge il circolo delle categorie, che quella, che prima fu «forma», si presta poi all’ufficio di «materia»; né solo offre la materia, ma dà la cooperazione, fornendo alle forme successive le forze che furono sue. In effetto, come è già di sopra notato, quelle resterebbero senza voce e senza gesto, impotenti ad esprimersi, se non le soccorresse le forma vitale che dà alle loro verità, ai loro sogni di bellezza, alle loro azioni sublimi ed eroiche il piacere e il dolore, comune manifestazione in cui culmina ogni vita.

Il ruolo preminente attribuito al vitale nella dinamica spirituale equivale, in ultima analisi, all’ampliamento dello spazio della dialettica hegeliana – come movimento di opposizione e superamento – a scapito della dialettica dei distinti, che pure anche l’ultimo Croce si sforza di salvaguardare, almeno nella sfera teoretica. Intento cui corrisponde l’ipotesi, avanzata alla fine della propria vita, circa l’origine eminentemente pratica della dialettica hegeliana, definita come una «scoperta di alta Etica», il cui valore principale consiste nell’avere redento il mondo dal male, giustificandolo nel suo ufficio di elemento vitale. Inestirpabilità Questa giustificazione del male è una tesi in cui l’accento cade non tanto sul nedel negativo cessario superamento del male nel bene, quanto piuttosto sull’inestirpabilità del negativo da ogni aspetto della vita spirituale e sul suo carattere di minaccia co➥ Sommario, p. 333 stante per l’umanità.

Maggior spazio alla dialettica hegeliana

Il «vitale» e il pensiero dell’ultimo Croce

Consapevolezza della crisi del suo tempo

Nuova concezione della storia e della dinamica dello spirito – conflitto inestirpabile tra forze morali e forze vitali – le forze morali per essere efficaci devono farsi vitalità – la nozione di vitalità sostituisce il principio dell’utile nella sfera pratica

Cambiamenti nella filosofia dello spirito – abbandono dell’equazione tra storia e progresso – antagonismo tra moralità e vitalità / economia, che assume il carattere di un’opposizione – la vitalità tende a superare i suoi confini di semplice distinto della sfera pratica, e va a influire anche nella sfera teoretica del bello e del vero

Conseguenze teoriche generali – maggior ruolo della dialettica hegeliana nella vita dello spirito – la dialettica ‘redime‘ il male (il negativo), in quanto elemento vitale – inestirpabilità del male

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Gentile

3 I testi

G. Gentile La riforma della dialettica hegeliana: L’idealismo attuale e il divenire hegeliano, T5

Il circolo della filosofia e della storia della filosofia: L’identità di filosofia e storia della filosofia, T6

La riflessione di Croce ha subito nel tempo modificazioni profonde, dalla filosofia dello spirito come teoria dei distinti del primo Croce alla filosofia dello spirito in cui ha un ruolo preminente la nozione di vitale dell’ultimo Croce; senza dimenticare la costante riflessione sulla storia e il suo rapporto con la filosofia che si svolge parallelamente. Il pensiero di Gentile, invece, presenta una fedeltà di fondo alla sistemazione raggiunta con la teoria che va sotto il nome di «attualismo», «idealismo attuale» o «spiritualismo assoluto».

1 Il confronto con Croce sul marxismo

L’attualismo Il punto di partenza della speculazione filosofica di Gentile è costituito dall’analisi del marxismo che, al tempo stesso, rappresenta il primo terreno di confronto con Croce, com’è testimoniato dal serrato scambio epistolare tra i due filosofi negli ultimi anni del XIX secolo: scambio che diviene un capitolo significativo della discussione europea sulla scientificità del materialismo storico a cavallo tra Ottocento e Novecento.

La vita e le opere Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano, in provincia di Trapani nel 1875 da una famiglia della media borghesia. Nel 1895 vinse il concorso per entrare alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove ebbe tra i suoi maestri il professore di filosofia Donato Jaia, allievo di Bertrando Spaventa e hegeliano. Laureatosi nel 1897, per alcuni anni fu professore di filosofia nei licei, prima a Campobasso e poi a Napoli. Da Spaventa riprese la tesi di un legame tra filosofia tedesca e filosofia italiana contenuta nella sua prima pubblicazione, Rosmini e Gioberti (1898) e la tesi di una necessaria riforma dell’hegelismo, espressa in La riforma della dialettica hegeliana (1913). Il suo contributo al dibattito italiano sul marxismo fu invece La filosofia di Marx (1899); mentre il suo atteggiamento antipositivista trovò espressione nella sua collaborazione a «La Critica», la rivista di Croce. Nel 1901 sposò Erminia Nudi, da cui ebbe sei figli, e l’anno successivo divenne professore universitario di filosofia teoretica, prima a Palermo e poi a Pisa e a Roma. Alla riflessione sulla filosofia contemporanea dedicò Le origini della filosofia contemporanea in Italia (quattro volumi, 1917-1923) mentre l’elaborazione del suo siste-

ma filosofico prese forma in Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e nel Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922) cui si aggiunsero Sommario di filosofia come scienza filosofica (1912), i Fondamenti della filosofia del diritto (1916) e la Filosofia dell’arte (1931). Gentile aderì al fascismo entrando come ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini (19221924) e in questo periodo varò la riforma della pubblica istruzione che portò il suo nome e restò in vigore per oltre un ventennio anche dopo la caduta del fascismo. Nel 1925 fu il principale firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti e negli anni successivi l’intellettuale più rappresentativo del regime. Fu autore di molte opere dedicate alla storia della filosofia, tra cui I problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913), Studi vichiani (1915), Il pensiero italiano nel Rinascimento (1920), Studi sul Rinascimento (1923), I profeti del Risorgimento italiano (1923). Dopo la caduta del fascismo nel 1943 e l’armistizio dell’8 settembre aderì alla Repubblica sociale italiana e venne ucciso a Firenze (probabilmente da due partigiani) nel 1944. Postuma nel 1946 uscì Genesi e struttura della società.

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Prassi e pensiero Il Marx di Croce: economia e realismo politico

Il marxismo per Gentile: una filosofia della storia fonte di errori

Valorizzazione del concetto di «prassi», interpretato in continuità con la tradizione idealistica

Prassi fondata sull’attività produttiva del pensiero

L’interpretazione del marxismo proposta nei saggi raccolti nel volume La filosofia di Marx – dedicato a Croce – lascia in realtà emergere la distanza che, fin dal principio, separa Gentile dal filosofo abruzzese, con il quale pure stava iniziando un periodo di intensa collaborazione. Si è visto che Croce aveva valorizzato esclusivamente il «nocciolo sano e realistico» del marxismo – cioè l’invito a tenere conto del fattore economico nella ricerca storica e dei rapporti di forza nell’azione politica – negando invece ad esso ogni rilevanza sotto il profilo teorico, sia come filosofia della storia sia come compiuta visione del mondo. Al contrario, Gentile ritiene che la filosofia, ben lungi dall’essere un «condimento» del marxismo o un «ghirigoro metafisico», costituisca la base su cui s’imperniano tutte le idee storiche e politiche di Marx. Partendo da questo presupposto, egli afferma che il marxismo è una «filosofia della storia», cioè una concezione organica dello sviluppo storico fondata sulla dialettica hegeliana. Questa concezione è causa degli errori del marxismo che sono riconducibili al materialismo e alla conseguente pretesa di determinare a priori i fenomeni economici che, a differenza dello svolgimento dell’Idea, sono un fatto empirico e indeducibile. Nell’interpretazione gentiliana, l’ontologia e la gnoseologia materialistiche sono altresì incompatibili con il nucleo e il punto più fecondo della filosofia marxiana, che egli individua nel concetto di «prassi»: non è possibile, infatti, affermare che il mondo è il prodotto della prassi umana, se si parte dalla concezione materialistica del pensiero come forma derivata dell’attività dei sensi. La polemica con il vecchio materialismo – accusato da Marx, nelle Tesi su Feuerbach, di avere erroneamente inteso la realtà come un dato – è interpretata dunque da Gentile come l’espressione della continuità inconsapevole che legherebbe Marx con la grande tradizione idealistica che va da Vico a Hegel, in cui la categoria di praxis, ignota a Feuerbach e agli altri pensatori materialisti, affonda le sue radici. Il Marx teorico della prassi cui Gentile accorda il suo consenso risulta dunque contenuto, e in qualche modo in forma migliore, nelle filosofie idealiste italiane e tedesche: nella prospettiva gentiliana, infatti, il principio e la base della prassi non sono i bisogni sociali – secondo l’impostazione marxiana – bensì l’attività sintetica e produttiva del pensiero idealisticamente inteso, cioè come fare che, ponendo se stesso, pone e produce anche la realtà.

Attualismo e riforma della dialettica Dopo gli studi su Marx, di pari passo con una sistematica ricostruzione della storia della filosofia italiana e con un ripensamento di Kant e Hegel – mediato dalla lettura di Spaventa – Gentile viene precisando gli orientamenti del suo pensiero, insieme al senso della sua ricerca storiografica. L’esito è la sistemazione teorica che va sotto il nome di «attualismo», «idealismo attuale» o «spiritualismo assoluto». Etichette che lo stesso Gentile utilizza per esprimere in forma condensata le tesi fondamentali della propria filosofia, tra loro strettamente intrecciate: Il pensiero come atto: 1) la concezione del pensiero come atto, cioè come continua e incessante attività, attività incessante «pensiero pensante» che non va confuso con il «pensiero pensato»: nel momene autoproduzione to in cui l’atto del pensiero non è concepito più come atto, bensì come qualcosa L’idealismo attuale

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

Identità di pensiero e Assoluto

Il divenire e la dipendenza della realtà dal pensiero Continuità con la filosofia hegeliana e rottura con la dialettica antica

La dialettica del pensare

L’errore di Hegel: la ricaduta nella dialettica del pensato

La radice dell’errore

Un’unica categoria logica concreta

T5

L’idealismo attuale e il divenire hegeliano

G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana

di già compiuto, allora esso non è più pensiero, bensì un oggetto o un fatto. Il pensiero è invece «atto in atto» o perenne autoposizione o autoproduzione che, in quanto tale, è inoggettivabile, perché oggettivarlo significherebbe fissarlo e irrigidirlo in qualcosa di statico, in contraddizione con la sua costitutiva attività; 2) l’identificazione del pensiero o dell’Idea con l’Assoluto, fondata sul presupposto che soggetto del pensiero attuale non sia l’Io empirico, ma l’Io assoluto: non un pensante particolare, bensì l’Uno della coscienza come coscienza universale, al di sopra di ogni molteplicità e al di là del tempo, eterno; 3) l’assunzione del divenire come principio primo sia del conoscere sia del reale, che è alla radice dell’equazione tra la storia del pensiero e il processo dell’intera realtà: creando continuamente se stesso, il pensiero produce anche la realtà, che viene così ridotta a «spirito» (di qui la denominazione di «spiritualismo assoluto»). Gentile afferma esplicitamente la continuità tra l’idealismo attuale e la filosofia hegeliana, dalla quale egli riprende sia la tesi dell’identità tra pensiero e realtà, sia la concezione dinamica e dialettica dello spirito come divenire. Considerata sotto questo aspetto, la dialettica hegeliana rappresenta, secondo Gentile, una netta rottura rispetto alla «dialettica antica» – canonizzata da Platone e Aristotele – caratterizzata dalla tendenza a considerare i concetti e la verità come oggetti dati e dunque immutabili, e a ridurre conseguentemente il compito del pensiero e della conoscenza a semplice contemplazione e rispecchiamento di un mondo già esistente. Hegel si sarebbe piuttosto sforzato di sviluppare la «dialettica del pensare» inaugurata da Kant, con la scoperta che le funzioni del pensiero sono condizioni di possibilità dell’esperienza: dialettica del pensare che non ha più come presupposto una verità tutta quanta in eterno determinata, bensì la verità del pensiero che, in quanto atto, muta incessantemente. Riprendendo alcune considerazioni di Spaventa sulla prima triade della Scienza della logica – cioè la triade «essere», «nulla», «divenire» – Gentile avverte, però, l’esigenza di riformare la dialettica hegeliana: invece di realizzare il divenire del pensiero, Hegel avrebbe commesso l’errore di analizzarlo, ricadendo nella «dialettica del pensato»; riflettere sul pensiero significa, infatti, abbassarlo a oggetto, perdendone l’incessante autoproduzione e l’assoluta unità. L’intera scienza della logica è segnata da questo errore fondamentale: per Gentile, infatti, la deduzione di molteplici categorie offerta in essa, nonostante il carattere dinamico e immanente dello svolgimento dialettico, contraddice l’unità assoluta del pensiero come atto puro; il molteplice fa parte solo della sfera dell’empiria, e non del pensiero nella sua attualità, che è l’unico vero reale. Per questo motivo, lo stesso «essere», che Hegel assume come punto di partenza della logica, per mostrarne l’identità con il «non-essere» (il «nulla») nel «divenire», in realtà è l’«essere», o meglio il «divenire», del pensiero. Il nucleo della riforma della dialettica hegeliana che è alla radice dell’attualismo consiste, dunque, nell’assumere il pensiero, identificato con il divenire, come unica concreta categoria logica. Questa filosofia, che si può egualmente designare come un idealismo attuale (perché considera l’idea, che è l’assoluto come atto) o come uno spiritualismo assoluto (poiché soltanto in un assoluto idealismo, che concepisca l’idea come atto, tutto è spirito) muove appunto dalla equazione del divenire hegeliano con l’atto del pensiero, come unica concreta categoria logica: equazione, la cui incerta 327

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e imperfetta intelligenza [comprensione] è stata la prima radice di tutte le difficoltà da cui è stato travagliato l’idealismo hegeliano. Eliminazione anche della triade idea, natura e spirito

La prospettiva di monismo assoluto che si manifesta inizialmente nell’eliminazione della molteplicità delle categorie logiche, induce Gentile a rifiutare anche la triade «idea», «natura», «spirito», che costituisce lo scheletro del sistema hegeliano. Da un lato, infatti, parlare di Idea separatamente dallo Spirito – come fa Hegel – equivale a considerare il Logos in maniera analitica e astratta, al di fuori del suo movimento di autoproduzione che include tutta la realtà. Dall’altro lato, una volta approdati alla «dialettica del pensare», non è più possibile ammettere una concezione dialettica della natura, che non è pensare, bensì pensato, cioè astratta negazione del pensiero in atto, che vive negandosi e affermandosi.

L’unità «indistinta» dello Spirito Il dissenso tra Croce e Gentile: due diversi modi di ‘correggere’ Hegel

L’errore della dialettica crociana

Gentile e la ripresa della triade arte, religione e filosofia

Arte e religione come posizioni astratte

La filosofia e l’unità del pensiero

328

Sia Croce sia Gentile definiscono le linee del proprio pensiero attraverso un serrato confronto critico con Hegel, che sfocia in risultati completamente divergenti, tanto da mettere in crisi il rapporto di intensa collaborazione e amicizia che aveva legato i due filosofi nel primo quindicennio del secolo. Per Croce – come si è visto – la filosofia hegeliana è da correggere perché, applicando indebitamente la dialettica dell’opposizione a tutti i campi della vita spirituale, non ha riconosciuto la relativa autonomia delle forme spirituali, seppure legate da un nesso di implicazione reciproca. Per Gentile, al contrario, il difetto della filosofia hegeliana è quello di avere lasciato lo spazio a distinzioni – come la molteplicità delle categorie logiche o la triade Idea, Natura, Spirito – incompatibili con l’unità assoluta del pensiero come atto puro. A partire da questi presupposti, Gentile considera i distinti di Croce, nella loro irriducibilità reciproca e autonoma staticità, come un residuo della dialettica antica, cioè della logica del pensato, incapace di cogliere l’identità vivente dello spirito in atto. In generale, la tematica dell’articolazione delle forme spirituali non è al centro dell’attualismo gentiliano, che ha come sua meta l’unità. Gentile affronta raramente l’argomento, riprendendo lo schema hegeliano di articolazione dialettica dello Spirito assoluto in arte, religione e filosofia. L’assunzione del pensiero come unica categoria concreta e attuale lo porta, però, a enfatizzare, ancor più di Hegel, l’astrattezza dell’arte e della religione e la conseguente necessità della loro risoluzione nella filosofia. Sia l’arte sia la religione sono, secondo Gentile, posizioni astratte del pensiero, in quanto isolano soltanto un lato – rispettivamente quello soggettivo e quello oggettivo – dell’atto concreto del pensare. L’arte è «esaltazione del soggetto», nella misura in cui l’artista produce una creazione soggettiva (assolutamente individuale) liberandosi dai vincoli della realtà attraverso il sogno e la fantasia; la religione è invece esaltazione unilaterale dell’oggetto assoluto, che annulla ogni ruolo del soggetto. Soltanto la filosofia è unità di soggetto e oggetto, e dunque realizzazione completa dello spirito o meglio lo stesso atto eterno dello spirito, immanente in tutte le forme della vita spirituale, che pure in apparenza sembrerebbero distinguersi da essa, come l’arte, la religione e anche la scienza.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile L’attualismo di Gentile

Tesi fondamentali dell’attualismo

La concezione del pensiero come atto: «atto in atto» o perenne autoposizione o autoproduzione che, in quanto tale, è inoggettivabile

L’identificazione del pensiero con l’Io assoluto: non un pensante particolare, bensì l’Uno della coscienza come coscienza universale

Il divenire è il principio primo sia del conoscere sia del reale: – creando continuamente se stesso, il pensiero produce anche la realtà – equazione tra la storia della filosofia e il processo dell’intera realtà – riduzione della realtà a «spirito»

Rapporto con il sistema hegeliano

Da Hegel riprende: – la tesi dell’identità tra pensiero e realtà – la concezione dialettica dello spirito come divenire

Di Hegel rifiuta la molteplicità delle categorie logiche, che riduce il pensiero a pensato

Monismo assoluto

Per Gentile il pensiero, identificato con il divenire, è l’unica concreta categoria logica

Gentile rifiuta anche la triade «idea», «natura», «spirito», che costituisce lo scheletro del sistema hegeliano

Pensiero come unica categoria concreta e attuale: risoluzione dell’arte e della religione nella filosofia

2 Storia e filosofia

Croce: identità tra filosofia e storia

Gentile: identità tra filosofia e storia della filosofia

Storia, filosofia e storia della filosofia Il differente modo d’intendere la vita dello spirito è alla radice delle profonde divergenze che dividono Croce e Gentile riguardo a un nodo che è centrale nel pensiero di entrambi: il rapporto tra storia e filosofia. Si è visto che Croce – non da ultimo grazie al confronto critico con Gentile – risolve il problema affermando l’identità tra filosofia e storia, ove nel pensiero crociano quest’equazione esprime il rifiuto della metafisica e la riduzione della filosofia a metodologia storiografica: la filosofia offre la conoscenza dei rapporti tra le distinte forme in cui si individua la vita dello spirito universale, che è oggetto della storiografia. Gentile risolve invece l’intera storiografia nella filosofia: quest’ultima coincide con lo spirito in atto che, essendo tutta la realtà, è l’unico possibile oggetto e soggetto della storia. A questo risultato Gentile giunge partendo dalla tesi della circolarità o identità tra filosofia e storia della filosofia. Già Hegel aveva sostenuto che la filosofia coincide con il suo sviluppo storico. Nella prospettiva gentiliana, 329

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questa identità non va intesa, però, solo dal punto di vista dell’oggetto, ma dal punto di vista del soggetto, cioè nel senso che il filosofo non può elaborare la propria concezione filosofica senza confrontarsi con i sistemi filosofici del passato, così come nessuno può occuparsi di storia della filosofia senza avere un proprio sistema filosofico. Filosofia e storia della filosofia appaiono dunque distinguibili solo da un insufficiente punto di vista empirico: a ben guardare, la filosofia e la sua storia sono tutt’uno come processo e svolgimento dello spirito. La filosofia ingloba La filosofia – intesa come identica con la storia della filosofia – ingloba poi la stoanche la storia ria in tutti i suoi aspetti: si è visto, infatti, che nell’attualismo gentiliano arte e religione sono momenti astratti rispetto alla concretezza dell’atto spirituale, che si realizza solo nella filosofia; storia dell’arte e storia della religione finiscono così con il risolversi nella storia della filosofia. Filosofia, storia della filosofia e storia in Gentile

Gentile

Croce

Identità tra filosofia e storia della filosofia fondata sul fatto che la filosofia coincide con il suo sviluppo storico

Identità tra filosofia e storia: la filosofia è il momento metodologico della storiografia, in quanto chiarisce i rapporti tra i distinti in cui si articola la vita dello spirito universale, oggetto della storiografia

Identità dal punto di vista del soggetto: – il filosofo elabora la propria riflessione confrontandosi con i sistemi filosofici del passato – nessuno può occuparsi di storia della filosofia senza avere un proprio sistema filosofico

La filosofia coincide con lo spirito in atto che, essendo tutta la realtà, è l’unico possibile oggetto e soggetto della storia

La filosofia – intesa come identica con la storia della filosofia – ingloba anche la storia

Nello spirito come atto puro esiste solo un eterno presente – la «storia ideale eterna» – in cui confluiscono tutti i momenti temporali

Ogni storia è storia contemporanea, ma permane l’alterità tra presente e passato

Annullamento della separazione tra lo storico e il suo oggetto d’indagine

T6

L’identità di filosofia e storia della filosofia G. Gentile, Il circolo della filosofia e della storia della filosofia, 1

330

[…] questa identità della filosofia con la storia della filosofia (anzi, secondo me, con la storia in generale, poiché fuori della filosofia non vedo attualità spirituale, né fuori dello spirito vedo realtà di sorta, di cui si possa fare la storia), non va intesa soltanto a parte obiecti [dal punto di vista dell’oggetto], ma anche a parte subiecti [dal punto di vista del soggetto]: non solo come unità della filosofia per sé col suo corso storico, ma anche come unità della filosofia come costruzione personale e acquisizione personale d’ogni singolo filosofo, con la sto-

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riografia filosofica, o ricostruzione, che ogni singolo storico fa del corso storico della filosofia. Profondamente divergente è inoltre il modo in cui Croce e Gentile intendono il rapporto tra passato e presente. Si è visto che per Croce ogni storia è storia contemporanea, in quanto l’interesse per gli avvenimenti trascorsi deriva da un bisogno attuale che, però, non toglie l’alterità che distingue il passato dal presente, di cui occorre necessariamente tener conto per comprendere i fatti storici. Gentile: storia Al contrario, per Gentile il presupposto indispensabile per l’intelligenza della stocome eterno presente ria è l’annullamento della separazione tra lo storico e il suo oggetto d’indagine: conoscere un personaggio storico o un filosofo significa identificarsi con lui e ricreare in noi stessi la vita che visse o i pensieri che pensò. Ciò richiede il superamento della distinzione apparente tra passato e presente, che nella prospettiva gentiliana è valida solo dal punto di vista empirico. Dal punto di vista dell’idealismo attuale nello spirito come atto puro esiste solo un eterno presente – al di fuori del tempo – in cui confluiscono tutti i momenti temporali; non un’eternità immutabile e statica, bensì un eterno processo in atto, cioè una «storia ideale eterna», che per Gentile è la condizione necessaria per la pensabilità della storia temporale. Croce: ogni storia è contemporanea

3 Il monismo etico: indistinguibilità tra teoria e prassi

L’educazione

Unità di allievo e maestro nel soggetto trascendentale

Formazione di una personalità universale che si identifica con lo Stato

Una riforma pedagogica e politica L’assunzione dell’atto spirituale come realtà metafisica unica e assolutamente identica ha come risvolto, in sede pratica, un monismo etico, fondato sull’affermazione dell’identità di pensiero e volere. A differenza di Croce, Gentile considera l’attività teorica indistinguibile dall’attività pratica dello spirito; e questo perché per l’attualismo il conoscere non è contemplazione passiva di un mondo già dato, bensì atto spirituale che si traduce in realtà e, in quanto tale, è prassi e volontà. Essendo il soggetto dell’atto spirituale un soggetto trascendentale universale, anche la volontà che è al centro dell’etica gentiliana non sarà una volontà individuale, bensì una volontà universale e assoluta, che non ha nulla al di fuori di sé. Partendo dalla convinzione dell’identità di teoria e prassi, Gentile unisce sempre la costruzione teorica con un concreto programma etico-politico di trasformazione della realtà sociale, che ha il suo centro nella riforma dell’educazione. Alla base della riforma educativa proposta e attuata da Gentile vi è una peculiare concezione pedagogica: coerentemente con le premesse dell’idealismo attualistico, egli concepisce il processo educativo come un processo di autoeducazione, attraverso il quale si realizza l’unità, nel soggetto trascendentale, di maestro e allievo. Ciò implica il venir meno dell’antinomia tra la libertà dell’alunno e l’autorità del maestro: la contraddizione tra i due termini si rivela come apparente, se si intende il maestro come maestro interno al nostro animo e l’educazione come comunione intima di educando e educatore. Soltanto chi non si sia sollevato a cogliere l’assoluta unità dello Spirito come atto puro può vedere un’alterità e dunque un contrasto tra i due protagonisti del processo educativo. Centro di questa visione educativa è dunque non più l’individualità particolare, bensì la personalità che realizza l’universalità dello spirito, che non divide gli uomini, bensì li unisce. La formazione di questa personalità universale non può che condurre alla scomparsa di ogni conflitto tra la volontà del singolo e la leg331

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ge statale: la personalità universale – risultato di un simile processo educativo – non può non volere ciò che vuole la legge dello Stato. E questo perché nel monismo etico gentiliano la pedagogia è strettamente unita a una concezione politica che considera lo Stato non come un’entità oggettiva esterna e contrapposta all’individuo, bensì come volontà universale che esprime l’autocoscienza del soggetto trascendentale, l’Io assoluto, operante in maniera immanente in tutti gli individui. Stato etico: negazione A partire da questi presupposti, Gentile contrappone dunque all’individualismo della libertà individuale atomistico della tradizione giusnaturalistica moderna – secondo il quale l’indivie del diritto naturale duo viene prima dello Stato sia dal punto di vista cronologico sia dal punto di vista assiologico, cioè del valore da attribuirgli – la nozione di Stato etico. In quanto suprema manifestazione della vita etica, lo Stato non può avere un limite nella libertà degli individui, che è una mera astrazione, nella misura in cui gli individui sono liberi solo all’interno delle istituzioni statali. Non esiste inoltre alcun diritto naturale, ossia un diritto universale e valido di per se stesso al di fuori di un’autorità che lo impone: il diritto è soltanto la vo➥ Sommario, p. 333 lontà dello Stato o volontà universale, la cui attuazione è la legge.

Suggerimenti bibliografici Per una presentazione generale della posizione e del ruolo di Croce e Gentile, E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 19872; N. Badaloni - C. Muscetta, Labriola, Croce e Gentile, Laterza, Roma-Bari 1981; Croce e Gentile. Fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Editori Riuniti, Roma 1993. Per un’introduzione alla filosofia di Croce, si consigliano o il libro di M. Musté, Benedetto Croce, Morano Editore, Napoli 1990, o l’Introduzione a Croce di P. Bonetti, Laterza, Bari 1984. Una ricostruzione acuta dell’intero itinerario intellettuale di Croce è offerta nell’eccellente libro di G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Il Saggiatore, Milano 1990, successivamente ristampato da Laterza, Roma-Bari 2001. Interessante è la complessa interpretazione critica del pensiero crociano offerta da G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano 1975. Infine, per chi voglia approfondire l’estetica crociana P. D’Angelo, L’estetica di Benedetto Croce, Bari, Laterza 1982. Per accostarsi alla filosofia di Gentile, S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino 1989, e l’Introduzione a Gentile, di A. Lo Schiavo, Laterza, Roma-Bari 19862. Anche sulla filosofia di Gentile G. Sasso La potenza e l’atto. Due saggi su Giovanni Gentile, La Nuova Italia, Firenze 1998, e Le due Italie di Giovanni Gentile, il Mulino, Bologna 1998.

I brani antologizzati sono tratti da: B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990, pp. 385-387. B. Croce, La filosofia della pratica, Laterza, Roma-Bari 1963, pp. 213-214. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1989, pp. 166-167. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica, 2, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, citato da B. Croce, Dialogo con Hegel, a cura di G. Gembillo, ESI, Messina 1995, pp. 241-242. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Prefazione, Ed. Principato, Messina 1913, pp. VII-VIII. G. Gentile, Il circolo della filosofia e della storia della filosofia, I, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Garzanti, Milano 1991, p. 300.

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Sommario 1. CROCE

E

GENTILE:

DAL SODALIZIO ALLA ROTTURA

Nell’Italia del primo Novecento avviene la rinascita dell’idealismo attraverso la riflessione di Croce e Gentile che esercitano per vari decenni una vera egemonia nella cultura italiana. Nonostante le differenze di personalità e di formazione, per circa un decennio esiste tra loro un sodalizio che entra in crisi per motivi filosofici. La crisi diventa rottura insanabile con la nascita della dittatura fascista, nel 1925: Gentile diviene il più importante intellettuale del regime e pubblica il Manifesto degli intellettuali fascisti mentre Croce si oppone alla dittatura con il Manifesto degli intellettuali antifascisti. 2. CROCE

La riflessione filosofica di Croce inizia dal dibattito sulla metodologia della storia definita come la sfera della conoscenza avente per oggetto il particolare, analogamente all’arte. Croce rifiuta sia l’epistemologia della storia positivista che quelle idealistiche e prosegue la sua analisi con la critica del materialismo storico, di cui accetta il valore di «canone» realista per comprendere la realtà. Riconosce in questo modo autonomia all’economia come una delle categorie dello spirito. All’interno di quest’ultimo egli indica quattro sfere autonome (i distinti: logica, arte, economia ed etica), ma interdipendenti, legate da una dialettica dei distinti. Essi sono identificati attraverso due distinzioni fondamentali: quella tra pratico e teoretico e quella tra particolare e universale; tra i distinti non vi è opposizione, ma solo all’interno di ciascuno di essi. Successivamente Croce si dedica all’esposizione della sua filosofia dello spirito, iniziando dall’estetica: fondata sull’equazione tra arte, intuizione ed espressione, l’arte è una forma di conoscenza autonoma e fine a se stessa, l’arte per l’arte. La logica o filosofia è invece la conoscenza dei concetti puri contrapposti agli pseudoconcetti della scienza. Infine espone la sfera pratica del sistema, iniziando dalla teoria dell’azione fondata sull’equazione tra azione, volizione e intenzione. La filosofia della pratica è divisa in economia ed etica, che hanno come proprio principio rispettivamente l’utile e il bene; Croce rifiuta sia l’utilitarismo che il moralismo astratto e valorizza il rapporto tra individuo e società: il principio della sua etica è che ognuno contribuisce alla volizione dell’universale attraverso la propria individualità. [par. 1] Successivamente Croce

muta la propria concezione della storia e la identifica non più con l’arte ma con la filosofia: storia e filosofia sono entrambe fondate sul giudizio individuale; pensiero e conoscenza storica sono l’unica forma di conoscenza vera (storicismo assoluto). Partendo da questi presupposti Croce elabora una teoria della storiografia. [par. 2] In una seconda fase del suo pensiero Croce sostituisce nel distinto economia la nozione di utile con quella di vitalità, giungendo così a un ripensamento del sistema: scompare la definizione della storia come progresso; si manifesta un antagonismo nella sfera pratica che ha delle conseguenze anche sugli equilibri della sfera teoretica; è assegnato un ruolo maggiore all’opposizione tra distinti ed è accentuata l’inestirpabilità del male dalla realtà. [par. 3] 3. GENTILE

Anche Giovanni Gentile inizia la sua riflessione confrontandosi con il marxismo, di cui accetta la nozione di prassi come attività sintetica e produttiva del pensiero, interpretata cioè in senso idealistico. L’idealismo di Gentile è l’attualismo secondo cui la realtà si identifica con il pensiero, che è atto puro, ossia continua autoposizione di se stesso. Il pensiero è identico allo spirito, ossia all’Io assoluto che è l’Uno della coscienza universale. I tratti dominanti della filosofia di Gentile sono la caratterizzazione del reale attraverso l’unità metafisica, monismo assoluto; l’unità «indistinta» dello spirito, in contrasto con la teoria crociana, e la perenne attività del pensiero, il suo divenire. [par. 1] La filosofia è l’espressione di tutte queste caratteristiche e coincide con la storia e con la storia della filosofia: la loro identità è fondata sul soggetto, il filosofo, che elabora la propria riflessione confrontandosi con il pensiero del passato e comprende la storia della filosofia a partire dal proprio sistema. La storia è l’eterno presente in cui lo spirito come atto puro comprende la propria «storia ideale eterna». [par. 2] L’unità metafisica della realtà si riflette anche nell’unità tra sfera teoretica e sfera pratica: monismo etico. L’educazione è un processo di autoeducazione, attraverso il quale si realizza l’unità, nel soggetto trascendentale, di maestro e allievo. Essa fonda anche l’identificazione tra individuo e Stato, in una concezione organicista in cui si realizza una personalità universale. Quest’ultima è il fondamento dello Stato etico in cui scompare ogni forma di individualismo e ogni conflitto tra individuo e legge. [par. 3]

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Parole chiave Arte per l’arte. Nell’estetica di Croce la tesi dell’autonomia dell’arte da ogni condizionamento pratico, ossia il suo valere solo come fine a se stessa, con il solo scopo di conoscere i fatti individuali – reali o irreali – e di trasformare i sentimenti, attraverso l’intuizione, in un prodotto armonioso e bello. Atto puro. Nell’idealismo di Gentile espressione che identifica i due caratteri del pensiero: il fatto che è in atto, perché pone continuamente se stesso, si autoproduce, e la sua unità assoluta (la purezza) poiché esso è l’unica realtà esistente. Attualismo. Una delle definizioni della teoria dello spirito di Gentile – sinonimo di «idealismo attuale» o di «spiritualismo assoluto» – i cui principi sono: l’identità tra pensiero e realtà; la concezione del pensiero come atto; l’identificazione del pensiero con l’Io assoluto (l’unità della coscienza universale) e con il divenire, sia sotto forma di pensiero che come realtà, perché produce eternamente se stesso. Concetti puri. Nella filosofia / logica di Croce gli oggetti della conoscenza vera che hanno sempre due caratteristiche: sono universali, ossia si riferiscono a tutte le rappresentazioni, e sono concreti, ossia sono immanenti alla realtà. Dialettica dei distinti. La relazione delle quattro categorie dello spirito (arte, logica, etica ed economia) secondo Croce, anche se egli non accetta la definizione di «dialettica» perché tra esse non vi è opposizione: indica l’implicazione reciproca tra i distinti, autonomi ognuno nel proprio ambito, ed eternamente compresenti. Equazione tra arte, intuizione ed espressione. Nell’estetica di Croce indica che l’arte coincide con l’atto del soggetto che intuisce il bello, l’intuizione, e con l’atto attraverso cui lo esprime, l’espressione. Equazione tra azione, volizione e intenzione. Nella teoria dell’azione di Croce, contenuta nella sua filosofia pratica, indica l’impossibilità di separare l’azione dall’atto con cui la si vuole, la volizione, e dal motivo per cui la si vuole, l’intenzione. Monismo assoluto. Nell’attualismo di Gentile, l’unificazione di tutta la realtà nel pensiero, che abolisce tutte le scissioni presenti nell’idealismo di Hegel. Prassi. Dal greco pràxis, «attività pratica», nella teoria di Gentile indica l’attività pratica del pensiero che ponendo se stesso, pone anche la realtà. Gentile sostiene di derivare questo concetto dal pensiero di Marx, spogliandolo del suo legame con il materiali334

smo e riconducendolo alle sue origini idealistiche in Vico e Hegel. Pseudoconcetti. Termine composto dal prefisso pseudo, «falso» e dal sostantivo «concetto». Nella logica di Croce, gli oggetti della conoscenza scientifica, i falsi concetti, contrapposti ai concetti puri della logica; si dividono in pseudoconcetti empirici (riferiti a gruppi di rappresentazioni, come «gatto») e pseudoconcetti astratti (privi di contatto con la realtà, come le nozioni matematiche). Spirito. Termine derivante dalle filosofie idealistiche, che indica il principio immateriale produttivo della realtà. Il primo Croce lo concepisce diviso in quattro categorie, autonome, ma reciprocamente implicantesi; nella seconda fase del suo pensiero Croce procede a una revisione della filosofia dello spirito, in cui assume un ruolo centrale la nozione di vitalità. Gentile concepisce lo spirito come unità assoluta, priva di scissioni. Stato etico. Concezione gentiliana dello Stato come una realtà organica, incarnazione della volontà universale che esprime l’autocoscienza del soggetto trascendentale, l’Io assoluto, immanente in tutti gli individui, in cui non vi è spazio per la libertà individuale, né per il diritto naturale. Storia. Per Croce inizialmente la storia è una forma di espressione del particolare, analoga all’arte; poi diviene giudizio individuale, cioè riflessione logica sui fatti che li trasfigura nella forma nel pensiero, e quindi identica alla filosofia. Per Gentile la storia si identifica con la filosofia e la storia della filosofia perché il pensiero che si autoproduce è l’unica vera realtà. Storicismo assoluto. La concezione di Croce secondo cui la conoscenza storica è superiore a ogni altra forma di conoscenza (storicismo) sulla base del principio vichiano del verum / factum, ed è assoluta perché noi conosciamo la legge della storia, la dialettica. Storiografia. Per Croce, la ricostruzione dei fatti ossia la conoscenza della vita dello spirito universale che si individua nei distinti; conoscenza che ci consente di dominarli attraverso il pensiero. Vitalità. Nell’ultimo Croce la nozione di vitalità sostituisce il principio dell’utile nel distinto economia producendo una serie di trasformazioni nella filosofia dello spirito: l’abbandono della concezione della storia come progresso; l’antagonismo tra morale e vitale nella sfera pratica; la trasformazione del vitale in ‘motore’ della vita dello spirito influenzando non solo la sfera pratica ma anche quella teoretica.

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

Questionario CROCE

E

GENTILE:

DAL SODALIZIO ALLA ROTTURA

1

Quali sono le principali differenze di formazione e personalità tra Croce e Gentile? (max 6 righe)

2

Qual è il comune avversario contro cui si battono Croce e Gentile? (max 2 righe)

16

Qual è la concezione pedagogica di Gentile? (max 3 righe)

Lavoriamo sui testi

3

17

Qual è, secondo Croce in T1, il motivo per cui nel sistema di Hegel arte e religione non riescono a mantenere valore di fronte alla filosofia? (max 1 riga)

18

Per quale motivo la forma economica non può essere eliminata all’interno della forma etica, secondo Croce in T2? (max 2 righe)

Quali sono i motivi della rottura, filosofica e politica, tra Croce e Gentile? (max 4 righe)

CROCE 4

Qual è la concezione della storia da cui inizia la riflessione di Croce? (max 3 righe)

5

Illustra in un massimo di 6 righe il rapporto tra Croce e il pensiero di Marx.

19

Qual è il ruolo del piacere nell’attività pratica secondo Croce in T2? (max 4 righe)

6

Quali sono le parti della filosofia dello spirito crociana e qual è il ruolo dell’opposizione nelle loro relazioni reciproche? (max 4 righe)

20

Qual è il rapporto tra filosofia e storiografia secondo Croce in T3? (max 4 righe)

21

Illustra in un massimo di 6 righe il modo in cui la forma vitale offre «cooperazione» alle categorie dello spirito, secondo Croce in T4.

22

Su quale equazione si fonda lo spiritualismo assoluto, secondo Gentile in T5? (max 4 righe)

23

Quali sono i due punti di vista, oggettivo e soggettivo, che fondano l’identità tra filosofia e storia della filosofia, secondo Gentile in T6? (max 2 righe)

7

8

Illustra in un massimo di 8 righe i principi dell’estetica di Croce e il suo rapporto con gli altri distinti. Qual è il ruolo del principio dell’utile all’interno della filosofia pratica di Croce? (max 2 righe)

9

Che cos’è la storiografia secondo Croce? (max 4 righe)

10

In che senso Croce afferma che la storia è sempre contemporanea? E in che senso essa è «giustificatrice»? (max 4 righe)

11

Che cos’è il «vitale» secondo Croce e attraverso quali esperienze storiche egli matura questa nozione? (max 6 righe)

GENTILE 12

Illustra in un massimo di 4 righe il giudizio di Gentile sul marxismo.

13

Quali sono i principi dell’attualismo di Gentile? (max 8 righe)

14

Su cosa si fonda l’identità tra filosofia, storia e storia della filosofia secondo Gentile? (max 3 righe)

15

Che cos’è il monismo etico secondo Gentile? (max 2 righe) 335

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Laboratorio di lettura Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel Croce si avvicina relativamente tardi alla filosofia hegeliana, nei confronti della quale nutre inizialmente una pregiudiziale avversione: egli legge direttamente e sistematicamente gli scritti di Hegel solo a partire dal 1905, cioè da quando si accinge a tradurne l’Enciclopedia. Tuttavia, da questo momento in poi Hegel diventa per Croce un interlocutore privilegiato, la cui influenza appare determinante nei ‘punti di svolta’ del suo lungo itinerario filosofico: il confronto critico con la dialettica hegeliana culminante nel libro Ciò che vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel (1907) rappresenta un momento essenziale nella sistemazione definitiva dei nodi essenziali della filosofia dello spirito. Nella maturità è di nuovo la riflessione sulla filosofia hegeliana – che trova espressione in Indagini su Hegel (1952), l’ultimo volume pubblicato prima della morte – che consente a Croce di offrire una trattazione filosofica approfondita della nozione di «vitalità», dalla quale le linee portanti della filosofia dello spirito risultano profondamente scosse. Le pagine seguenti riportano il nucleo del primo confronto critico di Croce con la dialettica hegeliana: la rigorosa messa a fuoco delle divergenze e convergenze tra la teoria dei distinti – che è la base della filosofia dello spirito – e la dialettica hegeliana, in quanto dialettica degli opposti.

La dialettica hegeliana e la teoria dei distinti Domande di partenza: differenze tra teoria crociana e hegeliana

Commento e interpretazione

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Che cosa importa la teoria dei gradi? Quali sono i suoi termini, quale il loro rapporto? E quale differenza presenta rispetto ai termini e al rapporto della teoria degli opposti? Nella teoria dei gradi, ogni concetto, – e sia il concetto a, – è insieme distinto e unito col concetto, che gli è superiore di

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A. Le forme della vita dello spirito sono gradi «distinti» in un rapporto di implicazione reciproca e regressiva – per cui la prima è presupposta a quella successiva – che non annulla, però, la loro autonomia e indipendenza. B. Croce si riferisce alla trattazione del rapporto tra arte e filosofia contenuta nel III capitolo dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. C. Per Croce la distinzione tra poesia e prosa è collegata a quella tra arte e filosofia: la poesia è «il linguaggio del sentimento», mentre la prosa è «il linguaggio dell’intelletto»; dato che, nella sua realtà concreta, la prosa è anche sentimento, «ogni prosa ha anche un lato di poesia» (B. Croce, Estetica, 3, pp. 33-34). D. Nella filosofia dello spirito il linguaggio corrisponde all’intuizione, che è da Croce identificata con l’espressione. Di qui la riduzione della linguistica all’estetica: per Croce l’elemento filosoficamente rilevante del linguaggio coincide perfettamente con la natura generale dell’intuizione-espressione; esprimersi e discorrere sono due facce della stessa

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile Prima tesi: la teoria dei distinti risolve molti problemi di carattere logico

Invece la nozione di opposizione non li risolve

Conclusione: il rapporto di autonomia e implicazione tra distinti è la soluzione più appropriata

Analisi delle differenze logiche tra le due forme di relazione

Seconda tesi: si tratta di due forme di rapporto dialettico diverse, per cui non si possono usare le stesse definizioni

grado, b; onde se (nel cominciare l’esposizione del rapporto) a si pone senza b, b non si può porre senza a. [A] Prendendo di nuovo in esempio il rapporto di due concetti, che ho studiato a lungo altrove, quello di arte e filosofia [B] (o di poesia e prosa, [C] di linguaggio e di logica, d’intuizione e di pensiero, [D] e via dicendo) si vede come ciò che è un enimma insolubile e un rompicapo per la logica empirica e classificatoria, si risolva naturalmente nella logica speculativa, mercé la dottrina dei gradi. Non è possibile porre arte e filosofia come due specie distinte e coordinate di un genere cui entrambe si subordinino, e che sia, per esempio, la forma conoscitiva, in modo che la presenza della prima escluda l’altra, come accade pei membri coordinati. Prova di ciò offrono le tante distinzioni che si sono date, e che si continuano a dare, della poesia e della prosa, tutte vanissime, fondate tutte su caratteri arbitrari. Ma il nodo si scioglie, allorché il rapporto si pensi come di distinzione e d’unione insieme: la poesia può stare senza la prosa (sebbene non l’escluda), ma la prosa non può stare mai senza poesia; l’arte non esclude la filosofia, ma la filosofia include addirittura l’arte. Infatti, ogni filosofia non esiste mai altrimenti che in parole, immagini, metafore, forme di linguaggio, simboli che sono il suo lato artistico, e tanto reale e indispensabile che, ove mancasse, mancherebbe la filosofia stessa, non essendo concepibile una filosofia inespressa: l’uomo pensa parlando. […] Se noi ora dal rapporto di gradi a e b (e, nell’esempio scelto, arte e filosofia) passiamo al rapporto degli opposti nella sintesi, α β γ (e, nell’esempio, essere, non-essere e divenire), potremo scorgere la differenza logica tra i due rapporti. A e b sono due concetti, il secondo dei quali sarebbe arbitrario e astratto senza il primo, ma che, nel suo nesso col primo, è reale e concreto quanto quello. Invece, α e β, fuori di γ, non sono due concetti, ma due astrazioni: il solo concetto concreto è γ, il divenire. [E] Se si applicano ai due nessi i simboli aritmetici, nel primo abbiamo una diade, nel secondo un’unità, o, se si vuole, una triade, che è triunità. Se si vorrà chiamare dialettica (oggettiva) tanto la sintesi degli opposti quanto il nesso dei gradi, si dovrà non perdere di vista che l’una dialettica ha processo diverso da quello dell’altra. Se si vorranno applicare all’uno e all’altro nesso le denominazioni hegeliane dei «momenti» e del «superare», che è insieme «sopprimere» e «conservare», bisognerà poi avvertire che queste denominazioni assumono significato diverso in ciascuno di quei nessi. Infatti, nella teoria dei gradi, i due momenti, come

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medaglia. A partire da questi presupposti, Croce polemizza aspramente con le distinzioni introdotte dalla grammatica e dalla retorica, che tendono a dividere il continuum linguistico nelle «parti del discorso», cioè in nomi, verbi, radici ecc. Al contrario, l’espressione è un tutto indivisibile, e la sua unica realtà è data dalla proposizione, in quanto «organismo espressivo di senso compiuto»; i nomi esistono e acquistano significato solo all’interno di una proposizione. Quanto al resto, le lingue manifestano la realtà vivente della cultura, come è venuta formandosi nel corso del tempo, e la loro considerazione ricade quindi nel campo delle indagini di storia letteraria. E. Si trova qui enunciata la differenza fondamentale tra la hegeliana dialettica degli opposti e la teoria dei distinti: nella dialettica hegeliana i primi due termini – presi isolatamente – sono delle pure astrazioni, che hanno realtà e concretezza solo nella sintesi del terzo termine; i distinti crociani, pur implicandosi regressivamente e in maniera circolare, hanno invece tutti una realtà concreta.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Differenze logiche tra le due forme

Conclusione: nella teoria dei distinti le due forme, teoria dei distinti e opposizione, appartengono a livelli diversi

Terza tesi: Hegel non ha compreso la distinzione tra le due forme Motivi psicologici dell’errore di Hegel

si è notato, sono entrambi concreti; nella sintesi degli opposti, entrambi astratti, l’essere puro e il non-essere. Nel nesso dei gradi, a è superato in b, cioè soppresso come indipendente e conservato come dipendente: lo spirito, nel passare dall’arte alla filosofia, nega l’arte, e insieme la serba come forma espressiva della filosofia. Nel nesso degli opposti, considerato oggettivamente, α e β, distinti tra loro, sono entrambi soppressi e conservati; ma solo metaforicamente, perché non esistono mai come α e β distinti. Sono, codeste, differenze profonde, che rendono inammissibile il trattare entrambi i nessi al modo medesimo. Il vero non sta al falso nel rapporto stesso in cui sta al buono; il bello non sta al brutto nel rapporto stesso in cui sta alla verità filosofica. Vita senza morte e morte senza vita sono due falsità opposte, la cui verità è la vita, che è nesso di vita e di morte, di sé e del suo opposto. Ma verità senza bontà e bontà senza verità non sono due falsità, che si annullino in un terzo termine: sono false concezioni, che si risolvono in un nesso di gradi, per quale verità e bontà sono distinte e insieme unite: bontà senza verità è impossibile, quanto è impossibile volere il bene senza pensare; verità senza bontà è possibile, solo nel senso che coincide con la tesi filosofica della precedenza dello spirito teoretico sul pratico, coi teoremi dell’autonomia dell’arte e dell’autonomia della scienza. [F] […] Hegel non fece, fra teoria degli opposti e teoria dei distinti, la distinzione importantissima, che io mi sono sforzato di dilucidare. Egli concepì dialetticamente, al modo della dialettica degli opposti, il nesso dei gradi; e applicò a questo nesso la forma triadica, che è proprio della sintesi degli opposti. Teoria dei distinti e teoria degli opposti diventarono per lui tutt’uno. Ed era quasi inevitabile che ciò accadesse: per quella speciale condizione psicologica in cui si trova chi ha scoperto un nuovo aspetto del reale (in questo caso, la sintesi degli opposti), che è così tiranneggiato dalla sua stessa scoperta, così

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F. Per Croce l’opposizione sorge non tra le diverse forme o «gradi» dello spirito – vero e buono non sono per esempio opposti – ma soltanto al loro interno: come dialettica del brutto e del bello in campo estetico, del vero e del falso in campo filosofico, dell’utile e dannoso in campo economico e del bene e del male in campo etico. G. Pur riconoscendo il carattere geniale della dialettica hegeliana, Croce imputa a Hegel l’errore di avere applicato indebitamente a tutta la vita dello spirito un metodo valido solo per le coppie di contrari e di opposti. Egli riconduce questo errore sia al naturale entusiasmo di Hegel per la sua innovazione, sia allo stretto nesso tra la teoria dei distinti, la teoria degli opposti e la concezione dell’idea come universale concreto, cioè mediato dalla ricchezza e dalle articolazioni della realtà: l’universalità concreta dell’idea si può cogliere, infatti, solo se si intende la relazione tra i concetti non in maniera statica e estrinseca, bensì come un legame intimo e dinamico, come avviene sia nella dialettica dei distinti sia in quella degli opposti, che sotto questo profilo presentano dunque un carattere comune, a prescindere dalle differenze illustrate sopra. H. La confusione tra opposti e distinti è per Croce alla radice di tutti gli ulteriori errori del sistema hegeliano: primo tra tutti, la pretesa di imprigionare tutta la realtà nelle gabbie dello schema triadico di tesi, antitesi e sintesi. Questo «abuso della forma triadica» avrebbe impedito a Hegel di cogliere la realtà concreta e autonoma di diversi aspetti della vita dello spirito. I. Per Hegel arte e religione sono le prime due estrinsecazioni dello Spirito assoluto – rispettivamente nella forma inadeguata dell’intuizione e della rappresentazione – che per questo devono essere necessariamente superate dalla filosofia. Educato da Francesco De Sanctis a

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Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile

Difficoltà teoriche all’origine dell’errore di Hegel

Prove a sostegno della terza tesi interne al sistema hegeliano: l’abuso delle triadi logiche

Domande retoriche per riaffermare la terza tesi

inebriato del vino nuovo di quella verità, da vedersela innanzi dappertutto, da essere tratto a concepire tutto secondo la nuova formola. Era quasi inevitabile che così accadesse, anche per gli stretti quanto sottili rapporti, che legano la teoria dei distinti a quella degli opposti, e tutte due alla teoria dell’universale concreto o dell’idea. Anche nella teoria dei gradi ci sono, come in quella degli opposti, momenti vari che si superano, cioè si tolgono e, insieme, si conservano; anche in quella dei gradi c’è unità e distinzione, come nella teoria degli opposti. Il discernere le differenze era riserbato a un ulteriore periodo storico; quando il vino nuovo fosse ormai stagionato e riposato. [G] Della distinzione non fatta, e, anzi, della fatta confusione, si trovano le prove, si può dire, a ogni passo nel sistema di Hegel, in cui il rapporto dei concetti distinti è presentato sempre come rapporto di tesi, antitesi e sintesi. Così nell’antropologia si ha: anima naturale, tesi; anima sensitiva, antitesi; anima reale, sintesi. Nella psicologia: spirito teoretico, tesi; spirito pratico, antitesi; pensiero, sintesi. Nella filosofia della pratica: diritto, tesi; moralità, antitesi; eticità, sintesi; o ancora, in quest’ultima: famiglia, tesi; società civile, antitesi; stato, sintesi. Nella sfera dello spirito assoluto: arte, tesi; religione, antitesi; filosofia, sintesi; o in quella della logica soggettiva: concetto, tesi; giudizio, antitesi; sillogismo, sintesi; e nella logica dell’idea; vita, tesi; conoscenza, antitesi; idea assoluta, sintesi. E via dicendo. È questo il primo caso di quell’abuso della forma triadica, che tanto offende e ha offeso chi si accosti al sistema di Hegel; e giustamente è stato avvertito come abuso. [H] Giacché, come si fa a pensare che la religione sia il nonessere dell’arte, e che arte e religione siano due astratti, che hanno verità solo nella filosofia, sintesi di entrambi? [I] o che lo spirito pratico sia negazione di quello teoretico, [L] e la rappresentazione, negazione dell’intuizione, e la società civile, della famiglia, e la morale, del diritto; [M] e che

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un rispetto quasi religioso per l’autonomia dell’arte, Croce, fin dai suoi primi approcci come critico letterario, contrasta invece la «prevaricazione» intellettualistica operata da Hegel nei confronti dell’attività artistica, che nella filosofia dello spirito assurge a «forma aurorale» dello spirito, irriducibile – in quanto conoscenza dell’individuale – a mero momento prefilosofico, da superare nella filosofia. Diverso è invece il discorso per la religione, alla quale la filosofia dello spirito crociana – contraddistinta da un radicale immanentismo – non riconosce alcuno spazio, presentandola come una forma di conoscenza primitiva e inferiore, destinata a essere superata con la nascita e lo sviluppo delle scienze e della filosofia. L. Nella psicologia hegeliana – che è la terza e ultima parte dello spirito soggettivo – lo spirito pratico figura come secondo momento, negazione di quello teoretico, superata poi dallo spirito libero, che è sintesi di entrambi. Di contro, per Croce l’attività teoretica e l’attività pratica dello spirito sono anch’esse in un rapporto che è sì di implicazione reciproca ma anche di irriducibile distinzione. M. Croce riconduce il diritto all’economia – ossia alla volontà che persegue l’utile – che, almeno nella prima fase del suo pensiero, egli non concepisce in termini di opposizione rispetto alla morale: l’utile non è immorale, bensì amorale, e in concreto è anzi una condizione imprescindibile del bene, nella misura in cui ogni azione umana, per quanto morale, è nella realtà effettuale sempre qualcosa di individualmente determinato (vedi p. 316). Il tragico corso degli eventi storici renderà, però, sempre più problematica l’assunzione di un’armonia tra utile e bene, inducendo Croce a sostituire la categoria dell’utile con la nozione di vitalità, che mette in crisi l’impianto sistematico della prima filosofia dello spirito.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Argomenti a sostegno della terza tesi in Hegel: eccezioni al sistema triadico Talvolta si tratta solo di un uso linguistico, ma questo non cancella l’errore logico

Conclusione: l’errore di Hegel causa danni al suo intero sistema

tutti codesti concetti siano impensabili fuori delle loro sintesi, – spirito libero, pensiero, stato, eticità, – al modo stesso dell’essere e del non-essere, che non sono veri se non nel divenire? Certamente, Hegel qualche volta non si è tenuto fedele alla forma triadica (e già in certe sue tesi giovanili dichiarava che quadratum est lex naturae, triangulum mentis); e più spesso ha, con gli svolgimenti particolari, attenuato gli errori della forma triadica; ma non c’è determinazione particolare, che possa sopprimere la divisione assunta a fondamento. Altre volte, la forma triadica sembra quasi un modo immaginoso di esporre pensieri, che non attingono da essa la loro sostanziale verità; ma accettare siffatta interpretazione varrebbe screditare quella forma nel suo valore logico: nel valore, per l’appunto, che essa deve serbare pienissimo nella dialettica o sintesi degli opposti. E, d’altra parte, prendere a difendere le affermazioni di Hegel con argomenti estrinseci sarebbe procedere da avvocato, che vuol vincere con l’ingegnosità, e non con la verità; o da barattiere, che metta innanzi le monete d’oro buono per far scivolare, nella confusione, quelle di falsa lega. L’errore non è tale che possa correggersi per istrada, né è errore di dicitura: è errore sostanziale, che, per quanto piccolo possa sembrare nella formola riassuntiva che se n’è data – come di uno scambio tra teoria dei distinti e teoria degli opposti, – produce conseguenze gravissime; ché da esso discende, se mal non ho visto, tutto quanto vi ha di filosoficamente errato nel sistema di Hegel. [N]

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(da B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, in Dialogo con Hegel, a cura di G. Gembillo, ESI, Messina 1995, pp. 69-74)

N. Gli errori principali del sistema hegeliano sono per Croce tre: 1) in primo luogo, il già menzionato disconoscimento dell’autonomia dell’arte; 2) in secondo luogo, la negazione della «storia degli storici» – cioè dell’attività storiografica – a favore di una filosofia della storia teologizzante e metafisica, scarsamente rispettosa della concretezza dei singoli fatti storici, violentati dalla pretesa di applicare ad essi lo schema triadico; 3) infine, la tesi hegeliana secondo la quale le scienze naturali sarebbero viziate da una «imperfezione» gnoseologica costitutiva – e quindi ineliminabile – che ne renderebbe necessaria l’integrazione attraverso la costruzione di una «filosofia della natura», agli occhi di Croce anch’essa frutto della indebita applicazione dello schema triadico dialettico a nozioni empiriche: la distinzione crociana tra «pseudoconcetti» e «concetti puri» (vedi p. 314 s.) – in polemica con la filosofia della natura hegeliana – cerca proprio di restituire alle scienze empiriche uno spazio di autonomia, in cui possano sostenere le loro indagini senza l’intervento e la sovrapposizione del metodo filosofico.

Questionario sull’argomentazione 1

Quale esempio utilizza Croce per dimostrare che la logica di Hegel fallisce dove la sua teoria invece risolve il ‘rompicapo’? (max 2 righe)

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Per quale motivo Croce afferma che nell’opposizione tra α e β, essi sono soppressi e conservati solo «metaforicamente»? (max 1 riga)

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Quali sono le differenze tra le due forme di dialettica e come le dimostra Croce? (max 6 righe)

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Quali sono secondo Croce le motivazioni dell’errore di Hegel, del suo abuso delle triadi logiche? (max 4 righe)

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana LIBERTÀ 1. Libertà come fatto e libertà come valore Nella vita quotidiana facciamo costantemente uso del termine «libertà»: ci sentiamo liberi, ci chiediamo se lo siamo effettivamente, oppure desideriamo esserlo. Già in questi usi comuni emerge una distinzione di grande rilevanza: il termine «libertà» e l’aggettivo «libero» possono essere adoperati come descrizione di uno stato di fatto, indipendentemente dal valore che attribuiamo ad esso, come nei primi due casi, oppure possono essere adoperati per indicare un valore che vogliamo perseguire, come nel terzo caso. Nel linguaggio quotidiano la funzione descrittiva del termine «libertà» si confonde spesso con la funzione valutativa. La libertà quindi può essere considerata un fatto da constatare oppure un valore da promuovere. 2. Libertà generale e specifica Il termine «libertà» può, poi, essere impiegato per designare un concetto molto generale, che astrae dalle sue possibili specificazioni, come quando diciamo: «la libertà è un valore». Oppure può essere impiegato per designare libertà specifiche, le quali precisano a quale tipo di libertà si fa riferimento: libertà di movimento, di parola, di scelta, di azione ecc.; o le occorrenze concrete di quei tipi di libertà: libertà di andare domani da Roma a Milano, libertà di tenere oggi un comizio, oppure ancora libertà di fare quella determinata scelta. 3. I significati della libertà Detto questo, rimane però ancora da chiarire che cosa si intenda col termine «libertà», quali siano i suoi significati più importanti. La distinzione più importante riguarda il fatto se con «libertà» intendiamo riferirci a una relazione sociale fra gli individui oppure a una caratteristica della mente dell’uomo. Nel primo caso diciamo per esempio che i sudditi di un regime dispotico non sono liberi di votare, di associarsi in partiti politici e così via, oppure diciamo che un prigioniero non è libero perché rinchiuso in una cella dai suoi carcerieri; nel secondo caso diciamo invece che non si poteva scegliere diversamente da come effettivamente si è scelto, perché la scelta è un fatto determinato dal passato dell’individuo o dall’ambiente in cui vive ecc. Quando usiamo il termine «libertà» nel primo caso, facciamo riferimento a quella solitamente detta «libertà sociale» o «politica»; quando lo usiamo nel secondo caso, facciamo invece riferimento a quella chiamata «libertà del volere» o «libero arbitrio». 4. La libertà sociale La libertà sociale ha a che fare con la relazione tra gli individui. Possiamo distinguere due modi differenti di intendere la libertà sociale. Accezione negativa Uno è quello negativo: l’individuo è libero se non è costretto o vincolato da altri individui, e si parla, in questo caso, di «libertà negativa», in quanto si sottolinea l’assenza di qualcosa: la coercizione, il vincolo, l’impedimento, o la proibizione 341

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da parte delle leggi. Per fare qualche esempio, si è privi di rilevanti libertà negative se si vive sotto un regime dispotico che non consente di parlare pubblicamente, di associarsi ecc., o se si è rinchiusi in una cella da dei carcerieri. Accezione positiva Un altro modo di intendere la libertà sociale è quello positivo: l’individuo è libero se ha il potere di fare le cose che desidera, e si parla di «libertà positiva», in quanto si sottolinea la presenza di qualcosa: di un potere che è dato dal possesso della capacità o dei mezzi necessari ad agire. Il caso più frequente di libertà positiva è l’autonomia, la capacità di dare norme a se stessi. Per esempio, si è privi di libertà positiva qualora si viva in un regime in cui i cittadini non partecipano alle decisioni legislative, per una grave disabilità fisica, per una situazione di estrema povertà ecc. 5. La libertà del volere e le leggi di natura La libertà del volere riguarda esclusivamente le scelte e le deliberazioni del soggetto; essa si definisce in contrasto con la determinazione causale dei processi mentali che conducono alla scelta. In discussione, in questo caso, sono le leggi della natura e non quelle della società. Libertà Il problema della libertà del volere nasce, infatti, dal fatto che le scienze della e determinismo causale natura ritengono che nel mondo in cui viviamo ci sia un ordine naturale di carattere deterministico, per cui il verificarsi di un evento è necessario in base ad altri eventi precedenti che ne sono le condizioni sufficienti, cioè le cause. Questo ordine contrasta con la nostra convinzione di essere agenti liberi e responsabili al momento della scelta, con la sensazione comune di avere possibilità alternative e di poter indirizzare il futuro in più di una direzione. Scelte necessarie Se ogni evento fosse necessariamente determinato da una serie di cause antecedenti, e se anche le scelte che facciamo fossero eventi di questo tipo, non ci sarebbe nessuna possibilità di scegliere in modo diverso rispetto a come di fatto scegliamo: la sensazione di libertà che abbiamo al momento della scelta sarebbe solo una sensazione illusoria e ingannevole. Le nostre scelte sarebbero necessarie allo stesso modo di come è necessario che l’acqua contenuta in una pentola sopra una fonte di calore andrà in ebollizione una volta raggiunta la temperatura di cento gradi. 6. Il caso e la libertà del volere Eventi casuali Tuttavia, l’opposizione alla determinazione causale non è sufficiente per definire la libertà del volere; l’assenza di determinazione, infatti, di per sé non designa la libertà, ma il mero accadere fortuito di un evento, il caso. Anche se il determinismo fosse falso, non per questo potremmo affermare l’esistenza della libertà del volere: un atto che non ha una causa non è un atto libero, ma un atto casuale. Le condizioni Proprio per distinguerla dal caso, si ritiene allora che la libertà del volere predel libero arbitrio supponga due condizioni: l’esistenza di possibilità alternative, la possibilità, cioè, di scegliere altrimenti da come di fatto si sceglie (non è libero l’agente che può scegliere solo in un unico modo); e il controllo della scelta da parte dell’agente: che la scelta sia controllata dal soggetto, in quanto determinata da fattori interni ad esso, e non causata dall’esterno. I termini in gioco quando si affronta il problema della libertà del volere sono quindi tre: determinismo, caso e libertà.

L’illusione del libero arbitrio

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7. Siamo liberi di scegliere? Fatte queste precisazioni, si può porre la questione principale: l’uomo è effettivamente libero di scegliere o la sua scelta è univocamente determinata da cause

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Laboratorio sul lessico Libertà

L’inaccettabilità del determinismo

La posizione compatibilista

Opportunità di scelta e capacità di scelta

antecedenti? Non c’è accordo su come si debba rispondere a questa domanda. Alcuni ritengono che la libertà del volere sia solo un’illusione dell’esperienza soggettiva: il determinismo causale è vero perché è conforme ai risultati delle scienze della natura (oggi soprattutto le scienze che studiano la mente e il cervello, le «neuroscienze») e quindi non può esistere qualcosa come una volontà libera. Altri replicano che il determinismo causale non può essere vero. In primo luogo perché, se lo fosse, sarebbe contrario all’esperienza soggettiva che abbiamo in quanto agenti, dato che ognuno di noi è intimamente convinto, in normali condizioni fisiche e psichiche, di avere la possibilità di scegliere in modi diversi. In secondo luogo perché condurrebbe a conseguenze inaccettabili: richiederebbe, infatti, una vera e propria riforma del modo comune di concepire se stessi e dello stesso linguaggio, finendo per diventare prive di significato espressioni come «ho scelto liberamente» e «avrei potuto scegliere diversamente». Infine, perderebbe di senso la stessa responsabilità morale: se non si desse libertà del volere nessuno potrebbe più essere considerato responsabile delle proprie azioni; non avrebbe, infatti, senso ritenere responsabile chi può scegliere solo in un unico modo, così come consideriamo insensato biasimare o lodare un evento naturale. Si deve invece riconoscere che l’agente è dotato della capacità di autodeterminazione, della capacità cioè di interrompere la serie delle cause che lo determinano e di iniziare da sé una nuova serie causale. Il problema principale di fronte a cui si trovano entrambe queste posizioni è quello della plausibilità scientifica delle loro soluzioni: i risultati delle scienze, a questo riguardo, non sono certi. Le discipline scientifiche che studiano i processi decisionali, infatti, non sono ancora riuscite a stabilire con certezza se siamo o meno dotati della libertà del volere. Alcuni ritengono che determinismo e libertà possono essere compatibili, una volta intesa in senso corretto la nozione di libertà. Anche se il determinismo causale fosse vero, esso sarebbe compatibile con la libertà, in quanto non per questo si dovrebbe abbandonare l’uso delle nozioni solitamente associate alla libertà del volere: «libertà di scelta», «poter scegliere diversamente» e così via. Ciò che con queste nozioni comunemente si intende è il riferimento a due condizioni che possono benissimo coesistere col determinismo: l’opportunità di scegliere secondo le proprie preferenze, cioè l’assenza di fattori esterni che ostacolano la scelta, e la capacità di scegliere secondo le proprie preferenze, cioè la presenza di fattori interni che permettono la scelta. Secondo questa concezione, si è dotati di libertà del volere se si è dotati dell’opportunità e della capacità di scelta, condizioni, queste, che possono darsi tanto nel caso in cui sia valido il determinismo quanto nel caso in cui non lo sia. Immaginiamo, per esempio, di vivere in un mondo in cui ogni scelta è determinata da cause antecedenti. Anche in questo mondo, rimarrebbe appropriato dire che, se ci imbattiamo in qualcuno che ci affronta con la pistola minacciandoci: «o la borsa o la vita», allora non siamo liberi di scegliere se consegnare o meno la borsa perché non abbiamo l’opportunità di farlo (è presente un fattore esterno che ostacola la scelta) mentre saremmo liberi di sceglierlo se nessuno ci minacciasse. Allo stesso modo, anche in un mondo di questo tipo, un tossicodipendente non è dotato della capacità di scegliere se drogarsi o meno, e non va quindi considerato libero in questa scelta, mentre è libera di scegliere una persona normale che non soffre di quella dipendenza. Anche in un mondo in cui ogni scelta è determinata dal passato e dalle leggi della natura, cioè, si può affermare che è vero che una persona, in certe circostanze, è libera di scegliere, mentre non lo è in altre, oppure che una certa persona è libera mentre un’altra non lo è. 343

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Esercitiamoci sulla libertà 1. Rifletti e completa DESCRITTIVA (riferimento a _____________________ ) FUNZIONE del termine

LIBERTÀ

VALUTATIVA (riferimento a _____________________ ) SIGNIFICATO del termine

A. LIBERTÀ SOCIO-POLITICA [relazioni tra gli ____________ ]

ACCEZIONE ____________ assenza di vincoli, coercizioni, impedimenti ecc. [libertà ‘da’]

B. LIBERTÀ DEL VOLERE CONTRO (DI SCELTA) [caratteristica della ____________ ]

ACCEZIONE ____________ presenza (possesso) di poteri, mezzi, capacità ecc. [libertà ‘di’]

1) Determinismo causale; 2) __________________

PRESUPPONE: 1) l’esistenza di possibilità alternative; 2) ____________________________ ____________________________

2. Spunti per il dibattito: io e… la libertà 1

Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Quali sono le libertà sociali e politiche che consideri più importanti? – Qual è la tua opinione rispetto alla libertà del volere? Possiamo considerarci a tuo avviso completamente liberi nelle scelte che facciamo? – Credi che tutti gli individui godano effettivamente dello stesso grado di libertà del volere (e che essi siano da considerarsi ugualmente responsabili) oppure no?

Supponi che vi sia un mondo in cui vige una sorta di determinismo universale, per cui ogni effetto – comprese le azioni individuali – segue necessariamente da una causa, la quale è a sua volta effetto di una causa precedente e così via. Supponi inoltre che gli individui di tale mondo siano perfettamente consapevoli di ciò, e che lo accettino come una verità di fatto. – Quali conseguenze pensi potrebbe avere tale ipotesi dal punto di vista dei rapporti sociali tra gli individui e delle istituzioni politiche da essi accettate? 344

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– Credi inoltre che il concetto di responsabilità (morale e giuridica) perderebbe del tutto il proprio senso oppure che potrebbe conservarlo in una forma a noi estranea? – Immagina per esempio che il punto di vista morale degli individui appartenenti a tale mondo consista nel considerare i premi o le punizioni come gli effetti che seguono in modo necessario dalle azioni lodevoli o riprovevoli, considerate come loro cause. 3

Prendi in considerazione il caso ipotetico di un individuo che agisca assecondando sistematicamente i propri desideri più immediati. – Ti sentiresti di poter affermare che costui è completamente libero o piuttosto che non lo è affatto? – Un tale individuo sarebbe in possesso di un effettivo controllo sulle proprie scelte oppure risulterebbe egli stesso controllato dai propri desideri? – Considera la tua vita passata. Ti sei mai trovato in una situazione di questo tipo, per esempio dopo aver bevuto un po’ troppo? E se sì, ritieni che tu fossi privo della libertà di scelta?

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Unità 9 Freud e la psicoanalisi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

La rivoluzione psicoanalitica La natura della psicoanalisi e la scienza L’origine della psicoanalisi Il complesso di Edipo Il sogno e la vita quotidiana La sessualità L’estensione dell’orizzonte: il disagio della civiltà Gli sviluppi della psicoanalisi

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

I testi S. Freud Una difficoltà della psicoanalisi: Le tre umiliazioni del narcisismo umano, T1 J. Breuer, S. Freud Studi sull’isteria: Il fatto traumatico e i sintomi dell’isteria, T2; Rappresentazioni inconsce, T3 S. Freud Lettere a Wilhelm Fliess: Verità e invenzione nei racconti dei pazienti, T4; L’autoanalisi e la figura di Edipo, T5

L’Io e L’Es: La psiche e la morale, T6 Totem e tabù: I tabù come divieti morali, T7 L’interpretazione dei sogni: La perdita del padre, T8; Censura e deformazione del sogno, T9 Psicopatologia della vita quotidiana: La dimenticanza dei nomi, T10 Tre saggi sulla teoria sessuale: L’opinione comune sulla sessualità infantile, T11 Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni: Principio di piacere e principio di realtà, T12

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

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Freud «maestro del sospetto»

Freud come consapevole demolitore di certezze

T1

Le tre umiliazioni del narcisismo umano

S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi

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La rivoluzione psicoanalitica La nascita della psicoanalisi, agli albori del XX secolo, segna una rivoluzione che non ha molti termini di confronto nella tradizione scientifica e filosofica dell’Occidente: il risultato di questa profonda rivoluzione della cultura, infatti, è una sostanziale modifica del modo di guardare all’uomo e in generale alla «natura umana». Si tratta di un mutamento nel modo di rappresentare se stesso da parte dell’uomo che ha un’enorme influenza in tutti i campi del sapere. Se si volessero collocare la figura e l’opera di Sigmund Freud all’interno di una tradizione specifica, si potrebbero seguire diverse strade, tra le quali se ne possono indicare due. La prima segue l’indicazione di un filosofo francese del Novecento, Paul Ricoeur (1913-2005), che ha visto in Freud l’ultimo tra i tre grandi maestri del sospetto, dopo Marx e Nietzsche: si tratta dell’ultimo indagatore della realtà umana, a parere di Ricoeur, che come Marx e Nietzsche ha «sospettosamente» cercato le radici reali ma nascoste del comportamento e della vita sociale dell’uomo, mettendo in dubbio verità consolidate e rassicuranti anche perché apparentemente evidenti. La seconda strada potrebbe seguire un’indicazione orgogliosa fornita dallo stesso Freud, che dimostra di essere pienamente consapevole della novità e del carattere inquietante della rivoluzione psicoanalitica. Egli si colloca tra gli scienziati che nel corso della storia hanno scosso, demolito criticamente le certezze dell’uomo rispetto a se stesso, modificandone l’immagine. In alcune grandi, significative occasioni, nota Freud, la scienza ha svelato all’uomo, umiliandolo, una natura e una collocazione che non corrispondeva affatto alla rappresentazione che l’uomo si era fatta di sé, al contrario. Queste occasioni sono state in realtà, per il genere umano, grandi umiliazioni, inferte innanzitutto da Copernico, che ha mostrato come il pianeta dove l’uomo vive non sia al centro dell’universo (e nemmeno del sistema solare), e da Darwin, che ha mostrato l’evoluzione della natura umana come discendente da una natura animale. a) Dapprima, all’inizio delle sue indagini, l’uomo riteneva che la sua sede, la terra, se ne stesse immobile al centro dell’universo, mentre il sole, la luna e i pianeti si muovevano attorno ad essa con traiettorie circolari. L’uomo seguiva in ciò, in maniera ingenua, l’impressione ricavata dalle sue percezioni sensoriali: non avvertiva infatti un movimento della terra, e dovunque volgesse liberamente lo sguardo, si trovava sempre al centro di un cerchio che racchiudeva il mondo esterno. La posizione centrale della terra era comunque una garanzia per il ruolo dominante che egli esercitava nell’universo, e gli appariva ben concordare con la sua propensione. La distruzione di questa illusione narcisistica si collega per noi al nome e all’opera di Niccolò Copernico nel sedicesimo secolo […] l’amor proprio umano subì la sua prima umiliazione, quella cosmologica. b) L’uomo nel corso della sua evoluzione civile si eresse a signore delle altre creature del mondo animale. Non contento di un tale predominio, cominciò a porre un abisso fra il loro e il proprio essere […] Sappiamo che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell’uomo. L’uomo nulla di più è, e nulla di meglio, dell’animale; proviene egli stesso dalla serie animale ed è imparentato a qualche specie animale di più e a qual-

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che altra di meno […] E questa è la seconda umiliazione inferta al narcisismo umano, quella biologica. La terza umiliazione, di natura psicologica, colpisce probabilmente nel punto più sensibile. L’uomo non ha il dominio della propria coscienza

La scoperta dell’inconscio

La psiche come luogo di conflitto

Le «istanze» della psiche

Il confine tra salute e malattia mentale si assottiglia

La terza umiliazione, l’umiliazione psicologica, ha per protagonista proprio la psicoanalisi, ed è rappresentata da Freud come la più grave perché colpisce il «punto più sensibile»: convinto di essere completamente consapevole dei contenuti della propria coscienza, l’uomo ha sempre ritenuto di poterli dominare e organizzare a proprio piacimento. Egli «si ritiene sicuro tanto della completezza e della fedeltà delle informazioni, quanto della disponibilità dei mezzi col cui tramite rende effettivi i suoi comandi», ma è la psicoanalisi a distruggere questa ennesima illusione mostrando che l’Io non è padrone in casa propria. La concezione tradizionale di un soggetto che controlla i propri contenuti mentali anche soltanto grazie al fatto di averli presenti viene messa in crisi in modo radicale dall’idea dell’inconscio, che solo con Freud diventa uno dei temi centrali dell’indagine sull’uomo (anche se l’idea di un’attività inconscia della psiche, cioè della mente, ha dei precursori nella storia del pensiero). A pochi anni dal costituirsi della psicologia come scienza sulla scia della fisiologia e dello sperimentalismo positivistico ottocentesco (vedi Unità 3, p. 121), nel quale Freud si è formato, lo studio della mente umana viene sottoposto a una notevole rivoluzione. Freud conserva un modello che potremmo definire «cartesiano» del funzionamento della mente, perché in fondo considera ancora valido il dualismo tra una parte alta e una parte bassa di essa, tra ragione e materia, tra ragione e passione, anche se naturalmente i termini della questione sono profondamente mutati: non solo il contenuto della psiche è per il soggetto in gran parte oscuro, ma le sue capacità di controllo di esso, ovvero le possibilità di un «dominio razionale delle passioni», sono davvero ridotte al minimo. È per questo che l’Io non è più padrone in casa propria. Al centro della ricostruzione freudiana delle passioni, cioè degli impulsi o pulsioni (i Triebe), spinte derivanti da uno stato di tensione, c’è la sessualità come dimensione originaria e dinamica della natura umana: la sessualità ha il ruolo di protagonista nel funzionamento della psiche anche interagendo dinamicamente con altri elementi, sia di natura psichica (per esempio, le convinzioni morali e i sentimenti maturati attraverso l’educazione ricevuta), sia esterni alla psiche (gli ostacoli che la realtà esterna frappone al soddisfacimento delle pulsioni). Oltre a interagire con questi elementi, la sessualità viene contrastata da essi e riportata a un determinato ordine. Le limitazioni a cui le pulsioni sessuali devono sottostare riguardano, secondo Freud, non solo lo sviluppo del singolo individuo, ma anche lo sviluppo della civiltà. Per Freud, la sessualità consiste di pulsioni che sono alla ricerca di una propria soddisfazione, ma si tratta di una tensione che non è limitata all’apparato sessuale, bensì disseminata in tutto il corpo. L’immagine della psiche freudiana è un’immagine dinamica, e la psiche è sempre rappresentata come un luogo di conflitto tra le diverse «parti» o «istanze» che la compongono; si parla infatti di «topiche» (dal greco tòpos, «luogo»), cioè dei diversi elementi di cui la psiche è composta come di diversi spazi. La scoperta dell’inconscio è sicuramente da considerare il primo grande elemento innovativo della psicoanalisi. Ma c’è dell’altro, anche a fermarsi alle linee generali. Freud ha infatti mutato – in secondo luogo – il nostro modo di guardare al rap347

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porto tra salute e malattia per quanto riguarda la mente. Egli ha mostrato il carattere analogo dei meccanismi psichici nello stato di salute mentale e in quello di patologia, o meglio: ha mostrato che anche la vita mentale «normale» contiene un certo numero di elementi, di operazioni e soprattutto di tensioni comuni con la vita mentale patologica, e ha così modificato il nostro modo di guardare alla patologia mentale e alla sua possibilità di individuazione e di cura. Il confine tra normalità e patologia, cioè, si è grazie a Freud notevolmente assottigliato e sfumato, mostrandoci piuttosto l’esistenza di piccoli disturbi piuttosto comuni, di una psicopatologia della vita quotidiana, come si intitola il suo importante libro, e al tempo stesso mostrandoci i meccanismi «razionali» dai quali può derivare la follia. La scoperta Un terzo elemento della rivoluzione psicoanalitica riguarda l’infanzia. La psidella sessualità coanalisi infatti modifica radicalmente l’immagine dell’infanzia e dei bambini, infantile stravolgendone le tradizionali caratteristiche rassicuranti e rasserenanti contrapposte al mondo «corrotto» degli adulti. L’opinione «popolare» che nei bambini manchi una pulsione sessuale è infatti ritenuta da Freud un puro e semplice errore, come scriverà nei Tre saggi sulla teoria sessuale, che illustrano per la prima volta lo status delle sue ricerche sulla sessualità in generale e sulla sessualità infantile in particolare. Al contrario, la comprensione della vita sessuale infantile è essenziale per comprendere l’individuo adulto. Le pulsioni, e in particolare quelle sessuali, hanno dunque un ruolo centrale nella nuova concezione della natura umana che viene elaborata da Freud: esse sfuggono alla consapevolezza che l’individuo ha di sé, sono presenti sia nei soggetti ➥ Sommario, p. 364 sani sia in quelli malati e non solo negli adulti, ma anche nei bambini.

La vita e le opere Sigmund Freud nacque a Freiberg, in Moravia, nel 1856. Nel 1860 la famiglia si trasferì a Vienna. Iscrittosi nel 1873 alla facoltà di medicina, senza avere alcuna vocazione medica e spinto piuttosto dall’esigenza di comprendere gli enigmi del mondo, si laureò nel 1881 e iniziò studi di fisiologia. Date però le difficoltà economiche della famiglia e il desiderio di sposare Martha Bernays, rinunciò alla ricerca scientifica per avviarsi alla professione medica. Dal 1882 al 1885 lavorò presso la clinica psichiatrica dell’ospedale di Vienna. Conseguito il titolo di docente in neuropatologia, si recò a Parigi per seguire le lezioni sull’uso dell’ipnosi in psichiatria tenute dal neurologo Jean-Martin Charcot, che conduceva le proprie ricerche presso l’ospedale psichiatrico della Salpêtrière. Molto influenzato dall’esperienza parigina, tornò a Vienna e nel 1886 aprì un gabinetto di consultazioni mediche per la cura delle nevrosi, nel corso della quale sperimentò la terapia ipnotica. Fu significativa la collaborazione con Josef Breuer, con cui pubblicò nel 1895 Studi sull’isteria. I rapporti con Breuer si interruppero, però, l’anno successivo a causa di alcune divergenze teoriche. Dopo un lungo periodo di autoanalisi seguito alla morte del padre (1896) pubblicò, nel 1899, L’interpretazione dei sogni. Questa prima esposizione della teoria psicoanalitica fu poi ampliata e sistematizzata in Psicopatologia della vita quotidiana, del 1901, e nei Tre saggi sulla teoria sessuale, del 1905. Nello stesso anno ap-

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parve anche Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. Già da tempo erano iniziate le riunioni settimanali con alcuni suoi discepoli. Nel 1910 fu fondata la Società psicoanalitica internazionale, con la quale il movimento psicoanalitico divenne un’organizzazione istituzionale. In questi anni Freud pubblicò numerosi scritti, tra i quali Totem e tabù (1913), Introduzione al narcisismo (1914) e Una difficoltà della psicoanalisi (1916). Tra il 1915 e il 1917 preparò la prima serie di lezioni per il corso universitario Introduzione alla psicoanalisi. Nel 1920 uscirono Al di là del principio di piacere e nel 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Nel 1923, anno in cui fu sottoposto a due interventi per un tumore alla mascella, fu pubblicato L’Io e l’Es. La sua intensa produzione scientifica proseguì nonostante le gravi condizioni di salute: nel 1927 uscì L’avvenire di un’illusione e nel 1929 Il disagio della civiltà. Nello stesso anno scrisse la seconda serie di lezioni dell’Introduzione alla psicoanalisi. Con l’ascesa al potere di Hitler la psicoanalisi, considerata una creazione tipicamente ebraica, fu messa al bando da tutta la Germania. Contro il consiglio dei discepoli e degli amici si rifiutò di allontanarsi dall’Austria e solo dopo il saccheggio della sua casa a Vienna si convinse a lasciare la città. Ottenuto dalle autorità naziste il permesso di espatrio grazie all’intervento del presidente degli Stati Uniti Roosevelt, si trasferì a Londra nel 1938, anno in cui portò a termine L’uomo Mosè e il monoteismo. Morì nella capitale inglese nel 1939.

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2 Freud scienziato

Rapporto tra scienza e psicoanalisi

Critica di Popper alla psicoanalisi

La natura della psicoanalisi e la scienza Freud è e vuole essere uno scienziato: seppure con interessi anche filosofici, è un ammiratore di Darwin, si laurea in medicina e si occupa di neurofisiologia in un’atmosfera in cui gran peso esercitano le idee positivistiche. Ciononostante, egli è anche consapevole, come si è visto, del significato culturale delle grandi scoperte scientifiche: solo le religioni, ritiene, possono avere altrettanta presa della scienza sul formarsi delle concezioni del mondo, non l’arte, né la filosofia. Lo stesso ambito di applicazione e la forma espositiva della teoria psicoanalitica non sono però consueti per la trattatistica scientifica: se ci sono opere che hanno un taglio complessivo di tipo o di stile scientifico, si tratta comunque di testi che non si diffondono in dettagli tecnici e che hanno un tono discorsivo e saggistico, non il tono di chi si rivolge a una comunità di specialisti. Freud pubblica molte opere – soprattutto nell’ultima parte della sua vita – che con la medicina hanno poco a che fare; esse, però, sono piuttosto interessanti dal punto di vista filosofico, sociologico, antropologico e rivelano un’estensione delle ipotesi della psicoanalisi ben al di là delle discipline della mente. Soprattutto, la «scientificità» della psicoanalisi può essere messa in dubbio – e lo è stata fin dal suo primo diffondersi – anche da chi ne apprezzi o addirittura ne condivida molte tesi. È possibile cioè ritenere vere o verosimili certe tesi sulla psiche che hanno origine in Freud o negli sviluppi successivi del movimento psicoanalitico e al tempo stesso non ritenerle sufficientemente confermate secondo i canoni – di allora e di oggi – della ricerca scientifica. A questa diffidenza del mondo scientifico o di chi al metodo scientifico ritenga di ispirarsi – una diffidenza, talvolta, esagerata sia da Freud sia dai suoi allievi per assumere il ruolo dei perseguitati – corrisponde un atteggiamento di chiusura delle società professionali psicoanalitiche nei confronti del «mondo esterno». In parte questo atteggiamento si è conservato ancora oggi, dopo un secolo di discussione e di divisioni all’interno dello stesso campo della psicoanalisi. In un certo senso, quindi, la chiusura è stata reciproca: del mondo scientifico verso la psicoanalisi e dell’universo psicoanalitico verso l’esterno, anche per un’orgogliosa rivendicazione della propria originalità e novità. Paradossalmente, come alcuni interpreti hanno fatto notare, alla relativa chiusura del movimento psicoanalitico è corsa parallela un’enorme diffusione delle tesi e del lessico della psicoanalisi nel linguaggio quotidiano e comunque al di fuori del linguaggio scientifico, magari ricercando affannosamente la conferma di qualche tesi psicoanalitica nell’esperienza della vita di tutti i giorni. Da questo punto di vista, suonano sensate le parole di uno dei massimi filosofi della scienza del Novecento, Karl Raimund Popper (1902-1994) (vedi Unità 16, p. 736 ss.), il quale, austriaco come Freud, in Congetture e confutazioni ricorda l’Austria nella quale si vanno diffondendo le idee freudiane, ma ironizza polemicamente sull’eccessiva capacità di spiegazione della psicoanalisi e di altre teorie che Popper ritiene pseudo-scientifiche. Dopo il crollo dell’impero austriaco, in Austria c’era stata una rivoluzione: circolavano ovunque slogans e idee rivoluzionarie, come pure teorie nuove e spesso avventate. Fra quelle che suscitarono il mio interesse, la teoria della relatività di Einstein fu indubbiamente, di gran lunga, la più importante. Le altre tre furono: la teoria marxista della sto349

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ria, la psicanalisi di Freud e la cosiddetta «psicologia individuale» di Alfred Adler […] Fu durante l’estate del 1919 che cominciai a sentirmi sempre più insoddisfatto di queste tre teorie: la teoria marxista della storia, la psicanalisi e la psicologia individuale; e cominciai a dubitare della loro scientificità. Il mio problema dapprima assunse, forse, la semplice forma: «che cosa non va nel marxismo, nella psicanalisi e nella psicologia individuale? Perché queste dottrine sono così diverse dalle teorie fisiche, dalla teoria newtoniana, e soprattutto dalla teoria della relatività?» […] Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano […] il mondo pullulava di verifiche della teoria. Qualunque cosa accadesse, la confermava sempre […] L’elemento più caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante delle conferme, delle osservazioni, che «verificavano» le teorie in questione.

Popper utilizza il ricordo personale per sostenere la propria teoria – il falsificazionismo – per la quale sono vere scienze soltanto quelle che possono essere sottoposte a controlli empirici in grado di confutarle (e quindi le teorie «falsificabili»; vedi Unità 18, p. 801 ss.). La sua ironia, però, illustra un’esperienza non rara nella vita quotidiana, dove un certo mito della psicoanalisi viene alimentato anche dalla tendenza pervasiva alla ricerca di conferme di essa al di fuori di un rigoroso controllo empirico, scientifico. Dogmatismo A proposito del problema della scientificità della psicoanalisi, poi, alcuni osserdella psicoanalisi vatori più attenti dell’universo psicoanalitico hanno fatto notare un ennesimo elemento di tensione e di stridore: nata come esercizio critico e autocritico, la psicoanalisi è stata poi codificata, in alcune occasioni, in modi tali da mettere maggiormente in evidenza il suo lato dogmatico, rispetto al suo lato problematico. In altre parole, della psicoanalisi è stata sottolineata più la capacità di dare risposte che la capacità di porre domande, una qualità, quella di porre domande, che ➥ Sommario, p. 364 sembra corrispondere maggiormente alla sua impostazione più genuina.

3 L’ipnosi. La parola come strumento di cura

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L’origine della psicoanalisi L’origine della psicoanalisi – ossia dell’indagine sui meccanismi della vita psichica volta a comprendere e curare certi disturbi – viene di solito indicata negli Studi sull’isteria, pubblicati da Freud e dal medico viennese Josef Breuer (18421925) tra il 1892 e il 1895. Quest’opera è importante, anche se molti elementi verranno modificati nel corso dell’evoluzione del pensiero di Freud, perché indica alcune direzioni metodologiche, alcuni orientamenti che rimarranno stabili nel suo pensiero. Innanzitutto, ci si affida con decisione all’idea di curare i malati di isteria (un disturbo di natura psichica accompagnato da manifestazioni somatiche) da un punto di vista psichico e non fisiologico, organico, poiché ci si affida all’ipnosi. L’idea di utilizzare l’ipnosi, che verrà in breve tempo abbandonata da Freud come metodo per l’indagine psichica, proveniva da un’importante esperienza che egli aveva fatto a Parigi, presso Jean-Martin Charcot (1825-1893). All’ipnosi si accompagna la validità terapeutica del dialogo diretto tra medico e paziente, che rimane un punto fondamentale del trattamento analitico: è questo stesso dialogo a contribuire al trattamento del paziente e in determinati casi alla sua guarigione dai sintomi dell’isteria. Viene osservato infatti – inizialmente da Breuer

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– che il paziente sotto ipnosi, parlando di se stesso, rievoca un episodio traumatico che riemerge nel ricordo: la cosa stupefacente è che il racconto del trauma subito ha per conseguenza la scomparsa del sintomo, se il ricordo del trauma raggiunge una chiarezza sufficiente. Ciò che diventa – e resterà – centrale, in questa prospettiva, è proprio il dialogo, il ruolo indispensabile della parola e del racconto nel dialogo tra medico e paziente, per cui i sintomi vengono «spazzati via parlando». Il racconto dei traumi Il racconto del trauma assume un valore catartico, analogo al processo di purifiha una funzione cazione della religione antica: nel caso della terapia, si tratta della liberazione catartica dai sintomi che hanno origine in determinati traumi dei quali si erano, apparentemente, persi il ricordo e la traccia. È compito del medico, poi, interpretare la connessione tra l’evento traumatico e il sintomo patologico, che può non essere immediatamente chiara. La liberazione dai sintomi avviene grazie al fatto che il racconto del paziente in stato di ipnosi è accompagnato da una forte scarica emotiva: l’ipnosi fa riemergere i sentimenti e le reazioni, gli affetti, che il paziente aveva provato al tempo in cui si verificò l’evento traumatico.

T2

Il fatto traumatico e i sintomi dell’isteria

J. Breuer, S. Freud, Studi sull’isteria, Comunicazione preliminare

La coscienza è solo una parte della psiche

T3

Rappresentazioni inconsce J. Breuer, S. Freud, Studi sull’isteria

A fatti motivanti di tale tipo abbiamo potuto ricondurre nevralgie e anestesie delle specie più svariate e spesso perduranti da anni, contratture e paralisi, attacchi isterici e convulsioni epilettoidi, che tutti gli osservatori avevano scambiato per epilessia autentica, piccolo male e affezioni tipo tic, vomiti continui e anoressia spinta al punto del totale rifiuto del cibo, i più svariati disturbi della vista, allucinazioni visive ricorrenti e altre manifestazioni ancora. La sproporzione fra i sintomi isterici che continuano per anni e il fatto originario che si è prodotto una volta sola è la stessa di quelle che siamo normalmente abituati a osservare nella nevrosi traumatica. Spesso la connessione è tanto chiara che si comprende perfettamente come il fatto iniziale abbia prodotto proprio quel fenomeno e non altri. […] In altri casi la connessione non è tanto semplice, e tra il fatto originario e il fenomeno patologico vi è soltanto una relazione per così dire simbolica […]. Trovammo infatti, in principio con nostra grandissima sorpresa, che i singoli sintomi isterici scomparivano subito e in modo definitivo, quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto. Si è così aperta la strada per l’individuazione di uno spazio e di contenuti della psiche dei quali gli individui non sono coscienti, una caratteristica che non può essere limitata ai soli individui affetti da patologie psichiche. La sfera della coscienza come consapevolezza delle rappresentazioni (ossia delle tracce che quel che abbiamo percepito lascia nella nostra mente in forma di pensieri, ricordi e immagini) diventa una parte minima del contenuto della psiche: la psiche non è solo coscienza, ma tanto la coscienza quanto la nostra vita in generale sono profondamente condizionate da elementi di cui non siamo consapevoli. Ci sono dunque dei limiti all’autocoscienza, ossia alla coscienza che ognuno ha di sé. Noi chiamiamo coscienti quelle rappresentazioni delle quali sappiamo. […] Una gran parte di quel che chiamiamo umore proviene da […] rappresentazioni che esistono e agiscono sotto la soglia della coscienza. Anzi, tutta la condotta della nostra vita viene continuamente influenzata da rappresentazioni subconsce. […] soltanto le rappresentazioni più chiare, più intense, vengono percepite dall’autoco351

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scienza, mentre la grande massa delle rappresentazioni attuali, ma più deboli, rimane inconscia. […] Non pare quindi che esista alcun ostacolo di principio al riconoscimento delle rappresentazioni inconsce anche quali cause di fenomeni patologici. Il metodo delle libere associazioni

Origine sessuale dei disturbi psichici

I racconti dei pazienti devono essere interpretati

L’importanza dei fatti immaginari

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Al di là dello sviluppo e dell’approfondimento delle tesi originarie, due elementi in particolare del metodo degli Studi sull’isteria vengono modificati da Freud. Innanzitutto, viene abbandonato il metodo dell’ipnosi grazie al maturare dell’idea della rimozione, dalla coscienza, dei contenuti psichici, ossia di certe rappresentazioni – ricordi, pensieri, immagini. La rimozione è un meccanismo inconsapevole di autodifesa: se alcune rappresentazioni vengono ritenute «inammissibili» per la coscienza, e quindi rimosse, respinte, l’ipnosi non può essere in grado di farle riemergere (come Freud ipotizza già durante lo studio dell’isteria con pazienti che risultano impermeabili all’ipnosi). Il tema della rimozione verrà poi sviluppato pienamente da Freud nell’interpretazione dei sogni (vedi p. 357 s.). La nuova impostazione consiste nell’affidarsi a quello che diventerà il vero e proprio metodo della terapia analitica, ovvero il metodo delle libere associazioni. In esso si mantiene la centralità indispensabile della parola, ma si chiede al paziente di parlare liberamente senza omettere nessuna, appunto, delle libere associazioni psichiche che possono apparire completamente senza senso, ma che possono, al contrario, nascondere legami e connessioni che l’analista è in grado di individuare. In secondo luogo, si fa strada in Freud l’idea di un ruolo decisivo della sessualità: la natura del trauma che sta all’origine della patologia psichica è sessuale. Il bambino viene fatto oggetto di un’attenzione di tipo sessuale nel suo ambiente familiare, provocando così un’esperienza di tipo traumatico, come Freud ora ritiene sulla base dei ricordi dei propri pazienti. Del resto, proprio la divergenza di opinioni sul ruolo decisivo o meno della sessualità provoca la fine dell’amicizia e della collaborazione con Breuer. Il metodo delle libere associazioni e il ruolo centrale della sessualità nella vita della psiche in generale, e nel trattamento delle patologie in particolare, rimangono due acquisizioni del pensiero freudiano. L’idea del trauma sessuale infantile viene però corretta in un breve volgere di tempo, come emerge da una lettera di Freud del settembre 1897 in cui egli dichiara di non credere più ai propri pazienti (che chiama «i miei neurotica»), ovvero di non fidarsi della veridicità dei loro racconti. Freud si rende conto, infatti, che i racconti in cui i pazienti ricordano di essere stati fatti oggetto di attenzione sessuale in famiglia sono in realtà episodi inventati, prodotti cioè della fantasia del paziente, e non fatti realmente accaduti. Nella lettera Freud denuncia le difficoltà del suo lavoro e la consapevolezza di queste difficoltà, ma emerge anche un nuovo modo di considerare i racconti dei pazienti e una nuova attenzione per aspetti finora trascurati. La compresenza di fatti reali e immaginari nei racconti indica infatti la necessità di interpretarli dando importanza anche al tipo di fantasie, di distorsioni e di falsità che essi contengono. Freud considera i fatti immaginari non meno importanti, ai fini della terapia psicoanalitica, di quelli che sono realmente accaduti: dal punto di vista psichico i fatti immaginati sono altrettanto reali. Nella nevrosi, infatti, la realtà è quella del pensiero, non quella del mondo esterno. In più, la presenza di fatti immaginari nei racconti dei pazienti testimonia la presenza di una fantasia sessuale infantile che giocherà un ruolo essenziale nella teoria di Freud.

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T4

Verità e invenzione nei racconti dei pazienti

S. Freud, Lettera a Wilhelm Fliess del 21 settembre 1897

➥ Sommario, p. 364

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Non credo più ai miei neurotica […]. Voglio perciò […] spiegarti da dove sono venuti i motivi che mi hanno fatto dubitare. Le continue delusioni nei tentativi di condurre almeno un’analisi a reale compimento, la fuga di persone che per un certo tempo erano state coinvolte come meglio non si poteva, l’assenza dei successi pieni su cui avevo contato, è questo il primo gruppo di motivi. Poi la sorpresa che in tutti i casi la colpa fosse sempre da attribuire al padre, non escluso il mio, e l’accorgermi dell’inattesa frequenza dell’isteria, dovuta ogni volta alle medesime condizioni, mentre invece è poco credibile tale diffusione della perversione nei confronti dei bambini. Poi, in terzo luogo, la netta convinzione che non esista un «dato di realtà» nell’inconscio, di modo che è impossibile distinguere tra verità e finzione investita di affetto. (Di conseguenza, rimane la spiegazione che la fantasia sessuale si impossessi regolarmente del tema dei genitori.)

Il complesso di Edipo

Sulla base delle prime acquisizioni raggiunte con gli Studi sull’isteria e con la riflessione immediatamente successiva, tra il 1899 e il 1905, Freud getta le basi dell’intero edificio della psicoanalisi. Già nel 1896, però, Freud perde il padre, un evento che costituisce una svolta nella sua biografia e che lo spinge a un’accurata autoanalisi, ossia a condurre sui propri processi psichici lo stesso tipo di indagine che conduce sui pazienti. Queste esperienze personali saranno in effetti di grande importanza per la sua maturazione intellettuale. Il «complesso di Edipo» Un ruolo essenziale nella costruzione della teoria psicoanalitica viene svolto dal «complesso di Edipo», un’idea che Freud esplicita in una lettera dell’ottobre del 1897 e che dichiara «di valore generale». Freud non darà mai una trattazione organica del complesso di Edipo, ma questa teoria costituisce senz’altro uno degli elementi principali della sua riflessione. Maturata già nel corso dell’analisi dei suoi pazienti, la teoria del complesso di Edipo si rivela pienamente a Freud nel corso dell’autoanalisi seguita alla morte del padre. L’ispirazione della teoria viene evidentemente dalla tragedia di Sofocle (Freud conosceva bene la tragedia greca), Edipo re, dove gli eventi sono governati dal fato che per il mondo moderno è irrazionale: Edipo uccide, pur senza saperlo, il padre Laio, e sposa, altrettanto inconsapevolmente, la madre Giocasta. Quando la verità emerge, Giocasta si uccide ed Edipo si acceca.

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L’autoanalisi e la figura di Edipo

S. Freud, Lettera a Wilhelm Fliess del 15 ottobre 1897

Ambivalenza del bambino

[…] la mia autoanalisi è in effetti la cosa più importante che io abbia ora per le mani, e promette di essermi assai preziosa se arriverò a finirla […]. Mi è nata una sola idea di valore generale: in me stesso ho trovato l’innamoramento per la madre e la gelosia verso il padre, e ora ritengo che questo sia un evento generale della prima infanzia […]. Se è così, si comprende il potere avvincente dell’Edipo re, nonostante le obiezioni che la ragione oppone alla premessa del fato […]. Ogni membro dell’uditorio è stato, una volta, un tale Edipo in germe e in fantasia e, da questa realizzazione di un sogno trasferita nella realtà, ognuno si ritrae con orrore. […] Per «complesso» si intende una costellazione di rappresentazioni psichiche – pensieri, immagini, ricordi – accompagnate da stati emotivi molto intensi che riman353

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Le cause dell’ambivalenza

L’origine della moralità

Una moralità di tipo kantiano

Le tre parti della psiche: Es, Io, Super-Io

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gono al di sotto della soglia della coscienza. Nell’interpretazione di Freud, il complesso di Edipo esprime la relazione del bambino con i propri genitori come una relazione ambivalente, di amore-odio, con un fondamento di tipo sessuale. L’interpretazione prevalente tende infatti a vedere il complesso di Edipo non semplicemente come una relazione esclusiva di odio verso il padre da parte del figlio maschio, che fa oggetto di desiderio sessuale la madre ed è quindi geloso del padre. Anche il complesso di Edipo risente piuttosto del carattere ambivalente che si ritrova in molti aspetti della teoria freudiana e che testimonia l’attenzione di Freud per il carattere complesso delle relazioni e delle stesse pulsioni sessuali, anche se problematica rimane l’estensione del complesso di Edipo alle figlie femmine. Nel rapporto con il padre, il bambino ha un atteggiamento infatti ambivalente al quale corrisponde un’ulteriore ambivalenza nei confronti della madre. Da un lato la gelosia e quindi l’odio sono rivolti verso il padre perché si desidera la madre; dall’altro, odio e gelosia sono diretti verso la madre per un analogo desiderio, che è anche identificazione, con il padre, ovvero con il genitore dello stesso sesso. Questa ambivalenza, e questa complessità, hanno radice, almeno negli scritti maturi di Freud, nel carattere «triangolare» della relazione edipica (bambino-padremadre) e nella bisessualità costituzionale dell’individuo: l’essere umano è infatti per Freud attratto strutturalmente anche dal proprio sesso, oltre che dall’altro, e questo rende ovviamente più complesso il suo sistema di relazioni. Il complesso di Edipo è per Freud anche all’origine della moralità, sia dell’individuo sia della specie umana. L’uomo primitivo infatti, così come il bambino, è privo di moralità: quest’ultima è quindi un’istituzione intervenuta soltanto a un certo punto, nell’evoluzione della specie umana, non è originaria. In Totem e tabù, Freud ricostruisce attraverso un’ipotesi antropologica il sorgere della moralità. Dichiara esplicitamente di volere gettare un «barlume di luce sull’origine oscura del nostro imperativo categorico», un termine con il quale Freud sembra intendere in generale la sfera della moralità. La prima osservazione da fare riguarda proprio il modello di moralità che Freud ha in mente quando affronta questo argomento: è, evidentemente, una moralità di tipo kantiano – come rivela il riferimento all’imperativo categorico – che Freud interpreta seguendo una lettura già diffusa ai tempi di Kant, cioè l’interpretazione della moralità come rigido dovere e, in particolare, come dovere di non compiere certe azioni, ossia come divieto. La moralità è innanzitutto un sistema di divieti volto alla limitazione e al contenimento delle pulsioni, o impulsi, che sono innanzitutto pulsioni di tipo sessuale. Nell’individuo la genesi della moralità è legata alle diverse funzioni delle diverse parti o «istanze» della psiche, come emergono dalla «topica», la teoria della struttura della psiche umana esposta in uno scritto maturo, L’Io e l’Es, che può essere considerata la posizione definitiva di Freud. La psiche è infatti composta da tre diverse istanze che corrispondono a funzioni diverse: l’Io, l’Es (il pronome neutro della terza persona singolare nella lingua tedesca) e il Super-Io. L’Es è la parte davvero originaria, profonda della psiche, l’origine dei desideri e delle pulsioni. L’Io è la parte organizzata della mente, che filtra i contenuti dell’Es e che fa da mediatrice con il mondo reale esterno, consapevole dei limiti delle capacità umane e della realizzabilità o meno delle pulsioni e dei desideri che provengono dall’Es. Ma una funzione importante dell’Io consiste anche nella mediazione con la terza parte o istanza della psiche che non è originaria, ma si forma nel bambino nel corso del tempo, e che è il Super-Io.

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La topica descritta da Freud mette in luce la complessità della vita psichica e la conflittualità che la contraddistingue: la psiche è un luogo di tensione. Come si forma Il Super-Io è la fonte delle prescrizioni, incluse le prescrizioni morali, e si forma la coscienza morale sulla base dell’autorità dei genitori: la genesi e lo sviluppo del Super-Io consistono infatti nel ricevere e poi nell’interiorizzare progressivamente quelle prescrizioni che provengono dall’autorità dei genitori. In questo modo si forma sia una coscienza morale con i suoi ideali sia il senso di colpa. Le prescrizioni dei genitori, insieme con gli altri influssi e insegnamenti che si ricevono nel corso della vita, contribuiscono a formare un codice morale dell’individuo che questi ritiene oggettivo e valido per se stesso e magari frutto dell’autonomia, ma che in realtà si è formato nel corso del tempo grazie a un condizionamento esterno. Tutte e tre le istanze della psiche possono essere viste nella loro relazione con la dimensione morale, in positivo e in negativo. Mentre l’Es ignora del tutto la distinzione tra bene e male ed è dunque amorale, privo di moralità, l’Io cerca di conformarsi alle richieste morali derivanti dal Super-Io, che può essere anche molto esigente, fino a diventare «crudele».

T6

La psiche e la morale

S. Freud, L’Io e L’Es

Dal punto di vista del contenimento delle pulsioni, e cioè della moralità, ci si può esprimere così: l’Es è assolutamente amorale, l’Io si sforza di essere morale, il Super-Io può diventare ipermorale, e quindi crudele quanto solo l’Es può esserlo.

Topica

Psiche Es (sede delle passioni)

Io (funzione di mediazione)

Super-Io (fonte di prescrizioni)

Mondo esterno (limiti oggettivi al soddisfacimento delle pulsioni)

La formazione della moralità sul piano ontogenetico, cioè dell’individuo, ha per Freud una precisa corrispondenza sul piano filogenetico, cioè dello sviluppo della specie. Vediamo questo secondo aspetto. L’origine della moralità In Totem e tabù Freud intende individuare – lo abbiamo visto – l’origine dell’«imcome istituzione perativo categorico», ovvero della moralità, nella sua forma collettiva e primiticollettiva va, come tabù. L’ipotesi che viene proposta in Totem e tabù è quella di un’orda primordiale come forma di aggregazione sociale originaria in cui un solo maschio adulto, il padre, possiede un potere assoluto, incluso quello di potere disporre delle femmine dell’orda. Gli altri maschi dell’orda hanno verso il capo-padre un sentimento ambivalente così come ambivalente è il sentimento del bambino nei confronti del padre: essi odiano il capo perché inibisce la realizzazione delle loro pulsioni sessuali, ma al tempo stesso lo ammirano per la sua forza. L’odio verso il capo-padre porta i figli a commettere quella che Freud definisce «la memoranda azione criminosa», azione che dà origine ai primi tabù, e quindi alle prime prescrizioni come divieti di tipo morale: l’assassinio del padre, il padre «prepotente, geloso, che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i figli via via che crescono», seguito dal pasto con cui se ne divora il corpo per identificarsi con lui. La conseguenza è un meccanismo di sensi di colpa per l’assassinio del padre che dà origine alla prima forma di moralità e ai primi divieti morali: al pa355

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dre viene sostituito il totem, l’oggetto sacro – per lo più un animale –, che viene assunto come simbolo della tribù, e dai figli vengono sanciti il divieto di uccidere il totem e il divieto di unirsi alle donne, di cui, pure, ora potrebbero disporre.

T7

I tabù come divieti morali

S. Freud, Totem e tabù, 4

La moralità nell’individuo e nella specie

➥ Sommario, p. 364

Origine della moralità come istituzione collettiva

Dopo averlo soppresso, avere soddisfatto il loro odio e aver imposto il loro desiderio di identificazione con lui, dovette farsi sentire l’affezione nei suoi confronti fin allora rimasta sopraffatta. Questo si verificò nella forma del rimorso, sorse un senso di colpa che coincide qui con il rimorso sentito collettivamente. Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo: tutto si svolse nel modo che possiamo misurare ancor oggi sul destino degli uomini. Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’«obbedienza retrospettiva», che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dalla coscienza di colpa del figlio, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che proprio perciò dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico. I due tabù che stanno all’origine dell’istituzione della moralità come istituzione collettiva sono allora i due primi divieti: il divieto di uccidere il padre, che diventa il divieto di uccidere in generale, e il divieto dell’incesto, che consiste nella proibizione di compiere l’atto in nome del quale si è commesso l’omicidio: si tratta, in sostanza, dei due divieti che possono essere considerati fondamentali per la convivenza, pur se Freud ne reinterpreta l’origine in una ricostruzione assai discutibile, per quanto suggestiva. Si comprende, allora, perché Freud attribuisca un valore generale alla teoria del complesso di Edipo: grazie ad essa è possibile spiegare non solo lo sviluppo del bambino e la formazione della personalità adulta, ma anche il modo in cui si forma la coscienza morale nell’uomo – sia nei singoli individui, sia nella specie. Negli individui essa deriva dall’interiorizzazione dell’autorità che i genitori esercitano sul bambino; nella specie essa deriva dai due tabù. Il complesso di Edipo assume quindi una grande importanza, nel complesso della teoria freudiana, da diversi punti di vista.

Odio/ammirazione dei figli per il capo-padre I figli uccidono il capo-padre Senso di colpa dei figli per l’uccisione del capo-padre Sostituzione del capo-padre con il totem Divieti

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Divieto di uccidere il totem

Divieto di unirsi alle donne del totem

Divieto di uccidere in generale

Divieto dell’incesto

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Il sogno e la vita quotidiana L’interpretazione dei sogni costituisce un punto di passaggio di grande importanza nella costruzione della teoria psicoanalitica e, secondo molti interpreti, è l’opera principale di Freud. Come si è accennato per quel che riguarda il complesso di Edipo, gli anni della genesi di quest’opera sono segnati dalle vicende personali di Freud, e in particolare dalla morte del padre e dalla autoanalisi, come egli dichiarerà nella Prefazione alla seconda edizione della Interpretazione dei sogni (nel 1908):

T8

La perdita del padre

S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Prefazione

I sogni come chiave di accesso alla psiche

Contenuto manifesto e latente dei sogni

Il lavoro onirico

Il contenuto manifesto è un compromesso

Questo libro ha infatti per me anche un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autoanalisi, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all’avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo. Dopo aver riconosciuto questo fatto, mi sono sentito incapace di cancellarne le tracce. Ma naturalmente il sogno è una chiave di accesso alla psiche ben al di là delle esperienze individuali: esso è una via privilegiata per accostare il problema dell’inconscio nella vita psichica, e Freud ritiene di avere individuato una tecnica psicologica che opportunamente applicata nell’interpretazione del sogno mostri che «ogni sogno si rivela come una formazione psichica densa di significato». La caratterizzazione generale del sogno viene vista da Freud nell’appagamento di un desiderio: in generale, infatti, il sogno (anche un sogno di contenuto penoso) è «l’appagamento sostitutivo di un desiderio sessuale inaccettabile, rimosso». Con L’interpretazione dei sogni, l’idea della difesa che viene esercitata dalla psiche nei confronti di certi contenuti che ritiene inammissibili prende il nome prevalente di «rimozione» (Verdrängung), uno dei concetti fondamentali della teoria psicoanalitica: la rimozione è l’operazione con la quale il soggetto cerca di respingere o di mantenere sul piano inconscio certi contenuti – che possono essere immagini, pensieri o ricordi – legati a una certa pulsione o a un certo desiderio. L’interpretazione del sogno è legata innanzitutto all’individuazione delle sue componenti: il contenuto del sogno viene infatti distinto da Freud in un contenuto detto «latente» e uno detto «manifesto». Il contenuto manifesto è quello che viene esplicitamente raccontato, descritto dal soggetto che ha sognato: esso può apparire completamente privo di senso. Il contenuto latente è invece ciò che deve essere ricostruito dall’analista, ciò che deve quindi essere svelato attraverso un lavoro di interpretazione, e che costituisce la radice genuina del sogno. Il sogno deve essere decifrato, interpretato, al di là di quello che è stato il lavoro onirico, il processo di elaborazione che trasforma i vari materiali del sogno nel contenuto manifesto e che consiste in alcuni meccanismi, accuratamente descritti da Freud. Tra questi meccanismi si è molto insistito, anche nella divulgazione successiva delle teorie psicoanalitiche, soprattutto su un aspetto del lavoro onirico, quello della simbolizzazione: in realtà, questa svolge un ruolo marginale nella teoria, e solo successivamente la parte sulla «rappresentazione per simboli» verrà ampliata, e riceverà un peso notevole nella teoria di Carl Gustav Jung (vedi p. 362). Tutti i meccanismi in cui consiste il lavoro onirico cercano di rendere accettabili per la coscienza ricordi e pulsioni sessuali che costituiscono il contenuto latente del sogno ma che non compaiono, se non trasfigurati e deformati, nel con357

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tenuto manifesto, in una configurazione «di compromesso». Nel sogno trovano espressione da un lato il desiderio che ne è all’origine, dall’altro il lavoro di vera e propria censura nei confronti del desiderio, che è affine a quello della deformazione di esso nel contenuto manifesto del sogno.

T9

Censura e deformazione del sogno

S. Freud, L’interpretazione dei sogni, 4

Affinità tra salute e malattia mentale

Le amnesie

Gli «atti mancati»

T10

La dimenticanza dei nomi S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, 3

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La concordanza, che si spinge sino ai minimi particolari, tra i fenomeni della censura e quelli della deformazione onirica autorizza a supporre per essi condizioni determinanti analoghe. Possiamo dunque supporre nell’individuo, come cause della strutturazione del sogno, due forze psichiche, una delle quali plasma il desiderio espresso dal sogno, mentre l’altra esercita una censura su questo desiderio, provocando necessariamente una deformazione della sua espressione. Il sogno è analogo al sintomo: entrambi rivelano la rimozione di pulsioni e desideri che non hanno potuto realizzarsi, ma che non per questo scompaiono. Entrambi costituiscono quindi forme di appagamento sostitutivo del desiderio. Uno dei grandi contributi di Freud consiste nell’avere presentato una nuova interpretazione del rapporto tra salute e malattia mentale: tanto i sogni quanto certi segni, o sintomi, non sono presenti soltanto nelle patologie, ma anche nella vita quotidiana degli individui. I medesimi meccanismi psichici, infatti, sovrintendono al funzionamento della psiche tanto nell’ambito della malattia quanto della vita mentale ritenuta ‘sana’ o ‘normale’. A questa indagine Freud dedica uno dei suoi libri più importanti, Psicopatologia della vita quotidiana (che porta il sottotitolo: Dimenticanze, lapsus, sbadataggini, superstizioni ed errori) e l’indagine di poco successiva su Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. Nel corso della sua autoanalisi, Freud presta attenzione anche a quello che costituisce il tema essenziale della psicoanalisi, la memoria, notando certi meccanismi comuni tra amnesie e dimenticanze dei pazienti affetti da nevrosi e le amnesie e le dimenticanze della vita ordinaria di qualunque soggetto. Nel caso della nevrosi (la patologia i cui sintomi sono per Freud l’espressione di un conflitto psichico e di un compromesso tra desiderio e difesa o rimozione), l’amnesia ha un carattere stabile e permanente, e per superarla è necessaria una terapia analitica. In altri casi si osserva un’anomalia temporanea nell’attività della memoria. Anche in essi, però, agiscono forze dello stesso tipo di quelle operanti nei soggetti nevrotici. La spiegazione che Freud dà di questi casi è, ancora una volta, una ricostruzione razionale che attribuisce un significato a comportamenti e disturbi che, apparentemente, non ne hanno. Egli vuole indagare il motivo per cui non ricordiamo certe cose, che sembrerebbe ovvio ricordare, oppure per cui un ricordo anche molto remoto riemerge improvvisamente nella nostra memoria. Un caso esemplare del fenomeno è quello della dimenticanza dei nomi, che è secondo Freud uno degli «atti mancati» più frequenti. L’atto mancato (Fehlleistung) è l’incapacità apparentemente casuale di compiere un atto che si è normalmente capaci di compiere, come appunto una dimenticanza momentanea di un nome che conosciamo bene (o un lapsus, o la perdita di un oggetto). In generale si possono distinguere due casi principali di dimenticanza di nomi: o il nome stesso richiama cose sgradevoli, o viene posto in collegamento con un altro nome che ha questo effetto, cosicché i nomi possono essere perturbati nella riproduzione a cagione di loro stessi o delle loro relazioni associative prossime o lontane. Queste proposizioni generali, viste nel loro insieme, ci fanno capi-

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re perché la dimenticanza temporanea di nomi sia l’atto mancato più frequente che possiamo osservare. I «motti di spirito»

➥ Sommario, p. 364

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Alla stessa prospettiva dell’analisi del sogno e dell’interpretazione degli atti mancati appartiene anche l’analisi che Freud svolge del «motto di spirito» (Witz). Le battute e i giochi di parole sono un modo innocuo per soddisfare, sia pur in modo parziale, desideri e pulsioni alle quali non possiamo dare un’espressione. Tutte queste indagini mostrano che non esiste una linea netta e determinata tra normalità e anormalità mentale, ovvero che una componente «nevrotica» è, almeno in forme parziali, presente nella psiche di chiunque. La vita psichica di ogni individuo è caratterizzata dal conflitto tra pulsioni rivolte alla propria soddisfazione e rimozione di esse; e, come mostra l’analisi degli atti mancati, dei sogni e dei sintomi, il conflitto si risolve con un compromesso.

La sessualità

Freud è completamente consapevole della difficoltà di identificare esattamente che cosa sia la sessualità, e lo dichiara esplicitamente, sebbene questa nozione e anche quest’ambito stiano al centro della psicoanalisi. Sessualità nei bambini Per delimitare il campo, si può dire che per Freud la sessualità costituisce un insieme di stimoli e di attività presenti fin dall’infanzia che procurano un piacere irriducibile alla soddisfazione di un bisogno fisiologico (come la respirazione o la fame) e che si ritrovano nella forma di amore detto comunemente «sessuale». In particolare, Freud ritiene che la sessualità non possa 1) essere limitata all’atto della riproduzione; 2) essere limitata alla genitalità, ovvero agli organi genitali; 3) essere limitata agli individui adulti. Quest’ultimo elemento polemico verso chi ritenga che non vi sia una sessualità infantile è forse il tratto più caratteristico e più importante dell’impostazione psicoanalitica.

T11

L’opinione comune sulla sessualità infantile S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, secondo saggio

È opinione popolare, a proposito della pulsione sessuale, che essa manchi nell’infanzia e che si risvegli soltanto nel periodo di vita che va sotto il nome di pubertà. Ma questo non soltanto è un puro e semplice errore, bensì anche un errore gravido di conseguenze, perché è il principale responsabile della nostra attuale ignoranza a proposito delle condizioni fondamentali nella vita sessuale. È notevole che gli autori i quali si occupano di spiegare le proprietà e le reazioni dell’individuo adulto abbiano dedicato assai più attenzione a quell’epoca antecedente che è costituita dalla vita degli antenati, dunque abbiano attribuito all’ereditarietà un influsso assai più grande che all’altra epoca anteriore, che già ricade nell’esistenza individuale della persona, cioè all’infanzia.

Al centro della considerazione freudiana c’è la pulsione come spinta alla soddisfazione, come stato di tensione che cerca la soddisfazione attraverso un oggetto e cerca quindi di essere riportato in una condizione in cui la tensione non si dia più. Pulsioni sessuali Le pulsioni sono da distinguere dagli istinti, che caratterizzano la vita semplicemente animale: le pulsioni sono cioè una caratteristica specifica della specie umana, una rappresentazione psichica del bisogno, e possono essere soddisfatte in modo diverso da diversi individui e anche da uno stesso individuo in diverse

Le pulsioni sono spinte alla soddisfazione

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La «libido»

Le tre fasi dello sviluppo sessuale

Fase «orale»

Fase «anale»

Fase «fallica»

Principio di piacere e principio di realtà

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fasi della sua vita. La pulsione sessuale è una pulsione determinata (o, meglio, una serie di pulsioni) di particolare importanza, sebbene Freud ammetta anche l’esistenza di pulsioni differenti. Ogni pulsione sessuale ha una fonte, una meta e un oggetto: la fonte è il luogo fisico del corpo da cui proviene la tensione, la meta è la soppressione della tensione e l’oggetto è il mezzo per sopprimere lo stato di tensione. Le pulsioni hanno un carattere tanto somatico (fisico) quanto psichico: per la dimensione esclusivamente psichica, Freud usa il termine «libido», che costituisce una sorta di ‘misurazione’ psichica delle pulsioni che indica la quantità di energia da esse espressa o in esse contenuta. Uno dei capolavori di Freud, i Tre saggi sulla teoria sessuale (ampliati negli anni successivi alla prima edizione), è dedicato in buona parte alla sessualità infantile. La concezione freudiana della sessualità infantile si fonda sulla tesi dell’esistenza di zone erogene che costituiscono la sede dell’eccitazione sessuale e quindi della ricerca della soddisfazione. Il modificarsi delle zone erogene e del rapporto del bambino con esse nel corso del tempo caratterizza lo sviluppo della sessualità segnando diverse fasi; ogni fase è particolarmente concentrata su un organo, e soltanto con la crescita viene a coincidere con la zona genitale. Il piacere viene ricercato inizialmente, nella fase detta «orale», nella suzione del seno materno o del dito. La bocca è ora la zona erogena, e se inizialmente essa è lo strumento di nutrizione, progressivamente la suzione diventa non più soddisfazione del bisogno di mangiare, ma strumento di piacere indipendentemente dalla soddisfazione del bisogno fisiologico. La seconda fase è la fase «anale», in cui la zona erogena è l’ano ed è legata da un lato al piacere del trattenere e dell’espellere, dall’altro alla relazione affettiva con la madre, che cerca di insegnare al bambino a controllare la propria attività. L’ultima fase è quella «fallica», in cui la zona erogena è costituita dagli organi genitali maschili e femminili, e rappresenta il primo punto di passaggio verso la sessualità matura, sebbene a questo punto intervengano altri meccanismi legati al complesso edipico e ad altri fattori che influenzano la vita sessuale. Intorno al quinto o sesto anno di età comincia un periodo detto di «latenza» che ‘desessualizza’ la vita pulsionale fino alla pubertà. Pur essendo fasi diverse e distinte dello sviluppo sessuale, esse hanno un elemento comune: la ricerca del piacere, cioè la soddisfazione delle pulsioni. Da quanto si è appena detto appare chiara l’importanza del piacere nella teoria di Freud. La ricerca del piacere è il tratto costitutivo del nostro apparato psichico, o la sua «intenzione principale»: l’intera nostra attività psichica è tesa a conseguire il piacere e a evitare il dispiacere, secondo uno dei due principi fondamentali che la regolano, il principio di piacere. La ricerca del piacere, però, deve tenere conto del mondo esterno e delle sue caratteristiche, che il semplice principio di piacere tenderebbe a ignorare o a trascurare, nella ricerca di un piacere immediato. È qui che interviene il principio di realtà, il quale in fondo è sempre diretto allo stesso fine (è addirittura una sorta di modificazione del principio di piacere), cioè al conseguimento del piacere; nel perseguirlo, però, tiene conto dei fattori oggettivi che esercitano una funzione di limitazione o di condizionamento. L’intervento del principio di realtà è uno degli elementi che segnano la crescita dell’individuo e la maturazione dell’Io.

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T12

Principio di piacere e principio di realtà

S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, lezione 22

➥ Sommario, p. 364

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Pulsioni distruttive e autodistruttive

Origine della civiltà: la rinuncia

Il disagio dell’uomo

[…] sotto l’influsso di quella maestra di vita che è la Necessità, le pulsioni dell’Io imparano presto a sostituire il principio di piacere con una sua modificazione. […] l’Io apprende che è inevitabile rinunciare al soddisfacimento immediato, rimandare il conseguimento del piacere, sopportare un po’ di dispiacere e rinunciare totalmente a certe forme di piacere. L’Io così educato è diventato «ragionevole», non si lascia più dominare dal principio di piacere, ma obbedisce al principio di realtà, che in fondo vuole anch’esso ottenere piacere, ma un piacere il quale, pur essendo rinviato nel tempo e più limitato, è garantito dalla considerazione della realtà. Il passaggio dal principio di piacere a quello di realtà è uno dei più importanti progressi nello sviluppo dell’Io. Oltre a contribuire alla maturazione dell’Io, il principio di realtà è decisivo anche per l’insorgere dei disturbi psichici e, dunque, per la comprensione dei sintomi. Essi, infatti, sono l’appagamento di desideri o di pulsioni che sono stati rimossi: i sintomi sono un compromesso tra la ricerca del piacere e le limitazioni poste ad essa dalla realtà esterna. L’analisi condotta da Freud sui propri pazienti conferma questa ipotesi.

L’estensione dell’orizzonte: il disagio della civiltà Sviluppando una disposizione già emersa in scritti precedenti, come per esempio Totem e tabù, nella seconda parte della sua vita, a partire dal 1920, Freud da un lato approfondisce aspetti specifici della teoria psicoanalitica, ma parallelamente ne estende l’orizzonte ben al di là di una teoria scientifica della psiche e di verifiche cliniche di essa. Una delle tesi di tipo generale che emerge nel pensiero di Freud negli anni successivi alla prima guerra mondiale, e forse anche sotto l’influenza del carattere distruttivo di essa, è l’idea di una pulsione di morte (thànatos) da porre accanto alle pulsioni sessuali (eros): oltre a un’energia positiva che tende al piacere, nella psiche umana Freud individua ora anche una tendenza negativa alla distruzione e all’autodistruzione. Freud assume poi un atteggiamento di aperta critica nei confronti della religione (L’avvenire di un’illusione), che vede radicata nel bisogno e nell’angoscia degli uomini ma che è destinata a essere superata dal progresso della scienza. Di particolare importanza, oltre all’opera Psicologia delle masse e analisi dell’Io, è però lo scritto Il disagio della civiltà. Totem e tabù mostrava che la civiltà e la «moralità» hanno inizio con la rinuncia a soddisfare determinate pulsioni, aggressive e sessuali. L’intera storia della civiltà è infatti per Freud il risultato del sacrificio delle pulsioni e, al tempo stesso, della sublimazione di esse. La sublimazione è un meccanismo attraverso il quale le pulsioni, ovvero le energie psichiche, sono state nel tempo distolte dai loro obiettivi originari, desessualizzate, e sono state indirizzate verso obiettivi nuovi, come il lavoro da un lato ma anche la cultura e l’attività intellettuale dall’altro. La civiltà contiene un ineliminabile elemento di repressione, che ha permesso di ottenere la sicurezza nelle relazioni intersoggettive, ma che naturalmente comporta una limitazione della soddisfazione delle pulsioni, tanto di quelle di tipo sessuale quanto di quelle di tipo distruttivo. La limitazione delle pulsioni porta con sé la conseguenza di un uomo moderno che deve affrontare appunto un «di361

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sagio» per la mancata realizzazione delle sue componenti pulsionali. Ancora una volta all’interno di un’analogia tra sviluppo dell’individuo e sviluppo della specie, è la stessa cosa che accade al bambino che sia stato represso nelle proprie pulsioni: il bambino sviluppa le nevrosi così come lo fa l’uomo civilizzato, perché il bambino è per Freud una sorta di modello dell’uomo primitivo. Ambivalenza Il giudizio di Freud verso il processo della civiltà (Kultur) è comunque ambivadella civiltà lente, come ambivalente è il suo giudizio sulle forme di limitazione della natura pulsionale dell’uomo. Da un lato, infatti, è indispensabile la limitazione delle pulsioni per permettere una convivenza pacifica; dall’altro, questa limitazione provoca traumi che possono trovare espressione in «disagi» sia individuali sia di tipo collettivo. Le civiltà, così come ogni idea di un progresso, devono quindi essere viste a parere di Freud nella loro ambiguità e ambivalenza, non attraverso un’ottica banalmente positiva e progressiva. Quello dell’ambivalenza, d’altronde, è un tema ricorrente nel pensiero di Freud, così come lo è l’idea che ci sia una ➥ Sommario, p. 364 somiglianza tra lo sviluppo dei singoli esseri umani e lo sviluppo della specie.

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Gli sviluppi della psicoanalisi

Il movimento psicoanalitico comincia durante la vita di Freud con la formazione di una cerchia di allievi, che in alcuni casi però si differenziano e si distaccano dal maestro. Con il tratto comune di attenuare la natura sessuale dell’indagine analitica, le separazioni maggiori si ebbero contemporaneamente, negli anni 1911-1912. Alfred Adler (1870-1937) rompe con Freud dando inizio alla psicologia individuale, che lascia largo spazio all’educazione e ai problemi sociali. La rottura più rilevante è però probabilmente quella con Carl Gustav Jung (18751961), uno psichiatra svizzero insoddisfatto dei metodi tradizionali di diagnosi e di cura delle malattie mentali. Due le principali differenze rispetto alla teoria freudiana: innanzitutto, Jung attenua notevolmente il significato sessuale dell’energia psichica, intendendo quest’ultima come energia di tipo generale che si realizza nelle diverse forme di attività e di bisogni. In secondo luogo, Jung introduce la nozione di «inconscio collettivo», che trascende l’inconscio individuale ed è comune a tutti gli individui e a tutti i popoli. L’inconscio collettivo è presente nei sogni ma anche nei miti e nelle religioni, e si esprime in immagini primordiali o «archetipi». Queste immagini sono innate in tutti gli individui e non hanno un contenuto predeterminato, ma sono forme universali che possono ricevere un contenuto soltanto all’interno dell’esperienza concreta di ogni individuo. Ciò che differenzia in modo netto Freud da Jung è un atteggiamento razionalistico del fondatore della psicoanalisi rispetto a un maggiore interesse di Jung per elementi misterici e irrazionali, inclusa l’esperienza religiosa che abbiamo detto essere guardata con grande senso critico da Freud. L’indirizzo junghiano è comunque il più diffuso tra gli psicoanalisti non freudiani. Aspetti nuovi La storia della psicoanalisi ha visto non poche modificazioni, negli sviluppi sucdella psicoanalisi cessivi, rispetto all’impostazione originaria di Freud. Tra queste si possono sepostfreudiana gnalare, per esempio, lo spostamento dell’attenzione verso il primissimo periodo della vita (il primo anno), che implica una maggiore attenzione per il rapporto duale tra madre e bambino e una visione meno conflittuale rispetto a Freud che pensava a un rapporto triangolare, edipico. In secondo luogo, la causa delle neDistacco di Adler e Jung da Freud

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vrosi è stata progressivamente vista come da imputare non a un singolo evento o trauma, ma a diversi fattori. In terzo luogo, si è avuta una perdita di centralità della tematica sessuale, in parte dovuta in Freud alla repressione sessuale poi progressivamente attenuata almeno in Occidente. In quarto luogo, dopo Freud si è data maggiore importanza agli aspetti della relazione interpersonale e dell’intersoggettività negli studi sulla psiche. In quinto luogo, si sono sviluppati anche gli studi fisiologici e psicologici, portando a modificare alcune nozioni freudiane, inclusa quella di pulsione. Ciò nulla toglie, ovviamente, alla grandezza del pensiero di Freud e alla rivoluzione da lui compiuta nello studio della psiche.

Suggerimenti bibliografici Per un’utile introduzione generale vedi V. Cappelletti, Introduzione a Freud, Laterza, Roma-Bari 2000; un’altra introduzione, agile e ben scritta, al pensiero di Freud è G. Jervis - G. Bartolomei, Freud, Carocci, Roma 2001. Una biografia aggiornata è fornita da P. Gay, Freud, Rizzoli, Milano 1988, mentre E. Jones, Vita e opere di Sigmund Freud, Il Saggiatore, Milano 1962, è un’opera classica su Freud, scritta da un allievo. Per un testo attento alla formazione scientifica di Freud, vedi F. Sulloway, Freud, biologo della psiche, Feltrinelli, Milano 1982. Un utilissimo strumento di consultazione articolato per voci è fornito da J. Laplanche - J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, Laterza, Roma-Bari 1968. Segnaliamo poi un saggio interpretativo di un filosofo contemporaneo, P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967, e K. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972, che dà una lettura critica della psicoanalisi. La critica forse più interessante e approfondita dal punto di vista filosofico è di A. Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi. Una critica filosofica, Il Saggiatore, Milano 1988. Infine, per una storia generale della psicoanalisi da Freud alle scuole psicoanalitiche dei nostri giorni si può consultare S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano 1986. I brani antologizzati sono tratti da: S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in Id., Opere, 8 (Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 660-661. J. Breuer - S. Freud, Studi sull’isteria, Comunicazione preliminare, in S. Freud, Opere, 1 (Studi sull’isteria e altri scritti 1886-1895), Bollati Boringhieri, Torino 1989: pp. 176-178 (T2), pp. 367368 (T3). S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, a cura di J.M. Masson e M. Schröter, Bollati Boringhieri, Torino 1986: pp. 297-298 (T4), pp. 305-307 (T5). S. Freud, L’Io e l’Es, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 515-516. S. Freud, Totem e tabù, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 194-195. S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 20062, p. 18 (T8), pp. 147-148 (T9). S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, a cura di E. Sagittario e V. Abrate, Boringhieri, Torino 1986, pp. 54-55. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in La vita sessuale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 71. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 323. Il brano di Popper citato a p. 349 s. è tratto da Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972, pp. 63-64.

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Sommario 1. LA

RIVOLUZIONE PSICOANALITICA

La psicoanalisi modifica radicalmente l’immagine che l’uomo ha di sé. Anzitutto, l’analisi dell’inconscio mette in crisi la convinzione dell’uomo di conoscere e poter controllare tutti i contenuti della propria psiche. Freud, che ammette il dualismo tra ragione e passioni, mostra che l’uomo ha una conoscenza e un dominio molto limitati sulle proprie passioni, o pulsioni. La sessualità ha un ruolo centrale nel funzionamento della psiche, luogo di tensione e di conflitto tra parti diverse. La seconda novità introdotta dalla psicoanalisi è l’idea del conflitto come elemento comune alla vita mentale patologica e a quella normale. Freud mostra che anche nella vita quotidiana c’è una psicopatologia. Infine, Freud presenta un’immagine dell’infanzia molto diversa da quella tradizionale, mostrando che anche nei bambini sono presenti pulsioni sessuali e che la comprensione della sessualità infantile è essenziale per comprendere gli individui adulti. 2. LA

NATURA DELLA PSICOANALISI E LA SCIENZA

Freud si considera ed è uno scienziato, ma tra il mondo scientifico e il movimento psicoanalitico c’è un atteggiamento di reciproca chiusura. I concetti e il linguaggio della psicoanalisi hanno invece una larga diffusione nel linguaggio comune. 3. L’ORIGINE

DELLA PSICOANALISI

La psicoanalisi ha origine nelle ricerche sull’isteria e nell’uso dell’ipnosi come metodo di cura. Esso rivela l’importanza del dialogo tra analista e paziente. Freud, però, lo abbandona, perché ci sono casi in cui l’ipnosi non è in grado di far emergere le rappresentazioni psichiche ritenute inaccettabili dalla coscienza. Maturata l’idea della rimozione dalla coscienza di alcuni contenuti psichici, Freud adotta il metodo delle libere associazioni, anch’esso fondato sulla parola. Inoltre, Freud formula l’ipotesi che all’origine di ogni patologia ci sia un trauma infantile di natura sessuale. Ma poiché i racconti dei pazienti contengono fatti immaginari oltre che reali, è necessario darne un’interpretazione. 4. IL

COMPLESSO DI

EDIPO

Elaborata da Freud in seguito alla perdita del padre e all’autoanalisi, la teoria del complesso di Edipo rivela il carattere ambivalente, di amore-odio, del rapporto che il bambino ha con il padre e con la madre. Questa ambivalenza deriva anche dalla bisessualità connaturata agli esseri umani. La teoria spiega l’origine della moralità sia nell’individuo, sia nella specie umana. Nell’individuo essa è legata alle funzioni delle tre parti della psiche (Es, Io e Super-Io). Dall’interiorizzazione dell’autorità dei genitori derivano la coscienza morale dell’individuo e il senso di colpa. 364

La moralità come istituzione collettiva ha origine in due tabù: il divieto di uccidere il totem e il divieto dell’incesto, fondamentali per la convivenza nella comunità. 5. IL

SOGNO E LA VITA QUOTIDIANA

Fondamentale per la comprensione della psiche è l’interpretazione del sogno. Ogni sogno è l’appagamento sostitutivo di un desiderio, che è stato rimosso dalla coscienza perché ritenuto inammissibile. Il compito dell’analista è risalire al contenuto latente del sogno, che il lavoro onirico ha trasformato e deformato nel contenuto manifesto. Anche i sintomi patologici sono forme sostitutive di appagamento di desideri rimossi. L’analisi dei sogni e dei sintomi rivela le affinità tra normalità e patologia. L’affinità emerge anche dallo studio delle amnesie, presenti non solo in chi è affetto da nevrosi, ma anche in soggetti privi di disturbi psichici. Le amnesie sono un tipo di atti mancati, derivanti anch’essi dal conflitto tra pulsioni sessuali rimosse e coscienza. 6. LA

SESSUALITÀ

Lo sviluppo della sessualità infantile avviene in tre fasi (orale, anale e fallica), ciascuna concentrata su un particolare organo del corpo. La teoria della sessualità elaborata da Freud mostra che la vita psichica è tesa alla ricerca del piacere. Oltre al principio di piacere, la vita psichica è regolata dal principio di realtà, che tiene conto dei limiti posti dal mondo esterno all’individuo nella ricerca del piacere. 7. L’ESTENSIONE

DELL’ORIZZONTE: IL DISAGIO DELLA

CIVILTÀ

Oltre alla tendenza al piacere, Freud individua nella psiche umana la tendenza alla distruzione e all’autodistruzione, ossia la pulsione di morte. La civiltà è il risultato della sublimazione delle pulsioni sessuali e distruttive, meccanismo attraverso il quale esse vengono indirizzate verso obiettivi diversi da quelli originari. La repressione delle pulsioni, però, provoca disagio nell’individuo e nella collettività. Freud prende così le distanze da una visione interamente ottimistica del progresso. 8. GLI

SVILUPPI DELLA PSICOANALISI

Col tempo alcuni allievi di Freud si allontanano dal movimento psicoanalitico. Jung dà rilievo agli elementi irrazionali dell’esperienza umana e introduce la nozione di inconscio collettivo, che si esprime attraverso immagini primordiali o archetipi. In seguito sono stati introdotti altri, significativi cambiamenti nella teoria di Freud.

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Parole chiave Archetipi. Nella teoria di Jung sono forme universali che non hanno un contenuto specifico e possono acquisirlo solo all’interno dell’esperienza dell’individuo.

Principio di realtà. È l’altro principio fondamentale della vita psichica. Esso tiene conto delle limitazioni poste dal mondo esterno all’individuo nella ricerca del piacere.

Atti mancati. Atti apparentemente casuali e privi di significato che a volte non riusciamo a compiere. Essi sono il risultato del conflitto tra pulsioni inconsce e coscienza.

Psiche. Insieme delle funzioni mentali che permettono a ogni persona di passare dalla percezione di oggetti o fatti reali alla rappresentazione di essi. La psiche include la coscienza, ma non è riducibile ad essa.

Complesso di Edipo. Teoria con cui Freud spiega la relazione ambivalente, di amore-odio, che il bambino ha con i genitori.

Psicoanalisi. Il termine indica un metodo di indagine dei processi psichici, una tecnica per la cura dei disturbi psichici e una teoria del funzionamento della psiche.

Es. Parte originaria della psiche umana e sede delle pulsioni. Inconscio. L’insieme dei processi psichici che non giungono alla soglia della coscienza e sono soggetti alla rimozione. Interpretazione del sogno. Tecnica usata per decifrare il contenuto latente del sogno, cioè i ricordi e le pulsioni trasfigurate e deformate attraverso l’attività onirica nel contenuto manifesto per poter essere accettate dalla coscienza. Io. Parte organizzata della psiche umana. Ha la funzione di creare un compromesso tra le pulsioni provenienti dall’Es e le pressioni del mondo esterno e di mediare il rapporto tra l’individuo e le richieste del Super-Io. Libido. Termine con cui Freud indica la dimensione psichica delle pulsioni, attraverso la quale è possibile misurare la quantità di energia contenuta in esse o da esse espressa. Metodo delle libere associazioni. Metodo applicato nella cura delle patologie psichiche che consiste nell’invitare il paziente a comunicare liberamente tutti i pensieri e le immagini che si presentano alla sua coscienza. L’analisi delle associazioni tra essi mette in luce ciò che è stato rimosso. Nevrosi. Disturbo della psiche derivante dal conflitto tra un desiderio inaccettabile per la coscienza e la rimozione di quel desiderio. Principio di piacere. Uno dei due principi che regolano l’attività della psiche, tesa a ricercare il piacere e a evitare il dolore.

Psicopatologia. Studio delle cause e delle manifestazioni dei disturbi psichici. Secondo la teoria di Freud i disturbi psichici sono presenti anche nei soggetti apparentemente sani. Pulsione di morte. Tendenza della psiche umana alla distruzione e all’autodistruzione. Pulsioni. Spinte derivanti da uno stato di tensione e rivolte all’eliminazione della tensione stessa; non sono forze puramente somatiche, né energie puramente psichiche. Ogni pulsione ha una fonte, una meta e un oggetto. Rimozione. Meccanismo inconsapevole di difesa con cui l’individuo cerca di relegare nell’inconscio le immagini, i ricordi o i pensieri legati a pulsioni inaccettabili per la coscienza. Senso di colpa. Sentimento che l’individuo prova quando trasgredisce le prescrizioni; è all’origine della coscienza morale. Sessualità infantile. Secondo la teoria di Freud le pulsioni sessuali sono presenti anche nei bambini. Lo sviluppo della sessualità infantile avviene in tre fasi, ognuna concentrata su un particolare organo del corpo. Sublimazione. Meccanismo attraverso il quale le pulsioni sessuali vengono distolte dal loro obiettivo originario (la soddisfazione) e indirizzate verso obiettivi nuovi. Super-Io. Parte non originaria della psiche da cui derivano le prescrizioni morali. Si forma sulla base dell’autorità che i genitori esercitano sul bambino e che in seguito viene interiorizzata.

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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel

Questionario LA

LA

RIVOLUZIONE PSICOANALITICA

1

Quale umiliazione è stata inferta all’uomo dalla psicoanalisi? (max 3 righe)

2

Spiega in un massimo di 2 righe qual è secondo Freud il rapporto tra ragione e passioni nell’uomo.

3

Che cosa è una topica nella teoria freudiana? (max 3 righe)

4

Qual è l’elemento di novità introdotto da Freud nella concezione della vita infantile? (max 2 righe)

NATURA DELLA PSICOANALISI E LA SCIENZA

5

Perché Popper dubita della scientificità della psicoanalisi? (max 2 righe)

L’ORIGINE 6

7

IL

IL

15

EDIPO

Spiega in un massimo di 3 righe perché il rapporto che il bambino ha con i genitori è ambivalente.

Quali sono le differenze principali tra la teoria di Freud e quella di Jung? (max 5 righe)

Lavoriamo sui testi 16

Perché la terza umiliazione inferta all’uomo viene presentata in T1 come la più grave? (max 2 righe)

17

Quali sono le condizioni, descritte in T2, nelle quali si verifica la scomparsa dei sintomi isterici? (max 3 righe)

18

Quali sono le cause dei fenomeni patologici in T3? (max 2 righe)

19

Qual è il criterio in base al quale Freud distingue, in T3, le rappresentazioni che vengono percepite dall’autocoscienza? (max 1 riga)

20

Che cosa rende impossibile distinguere la realtà dalla finzione nei racconti dei pazienti in T4? (max 2 righe)

21

Perché Freud considera preziosa la sua autoanalisi in T5? (max 2 righe)

22

Come viene spiegata l’origine dei due tabù fondamentali del totemismo in T7? (max 4 righe)

Perché Freud sostituisce all’ipnosi il metodo delle libere associazioni? (max 4 righe)

9

Perché la teoria del complesso di Edipo è importante per capire l’origine della moralità come istituzione collettiva? (max 4 righe).

23

Quale ipotesi viene formulata in T9 sulla base dell’affinità tra la deformazione onirica e la censura? (max 3 righe)

10

Qual è la funzione dell’Io nella teoria freudiana della psiche? (max 2 righe)

24

Come viene spiegata da Freud la dimenticanza di nomi in T10? (max 2 righe)

25

Qual è la differenza tra il principio di piacere e il principio di realtà in T12? (max 3 righe)

SOGNO E LA VITA QUOTIDIANA

LA

SVILUPPI DELLA PSICOANALISI

DELLA PSICOANALISI

Da cosa dipende la validità terapeutica dell’ipnosi? (max 3 righe)

COMPLESSO DI

8

GLI

11

Perché i sogni richiedono un’interpretazione? (max 3 righe)

12

Qual è il ruolo dell’analisi degli atti mancati nella teoria di Freud? (max 3 righe)

SESSUALITÀ

13

Quali principi regolano la vita psichica? (max 3 righe)

L’ESTENSIONE

DELL’ORIZZONTE: IL DISAGIO

DELLA CIVILTÀ

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Spiega in un massimo di 3 righe perché Freud rifiuta una visione totalmente ottimistica del progresso umano.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

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Edim Cambridge - Harvard University/ Massachussetts Institute of Technology/ MIT

Princeton Princeton University

Los Angeles San Diego

New Haven - Yale University

New York - Columbia University

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Marburgo Francoforte sul Meno Heidelberg Cambridge

Edimburgo Londra Oxford Lovanio Friburgo Parigi

Amsterdam

Königsberg Berlino Brno

Mosca

Budapest

Introduzione Le filosofie del Novecento

Torino Roma Napoli

Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica Unità 11 Husserl Laboratorio sul lessico Oggettivo / soggettivo Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre Unità 14 Capitalismo e teoria della società Laboratorio sul lessico Responsabilità Percorso tematico Immagini critiche della scienza e della tecnica Unità 15 I padri dell’empirismo: Moore, Russell, Wittgenstein Percorso tematico La natura del linguaggio

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Introduzione Le filosofie del Novecento

1. La ricerca di uno statuto per la filosofia 2. Due tradizioni?

♦ La parola al critico: La filosofia contemporanea secondo Paolo Rossi

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

1 Frammentazione della riflessione filosofica

La filosofia indaga sulla propria funzione

La filosofia come disciplina istituzionale

Influenza del progresso scientifico sulla filosofia

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La ricerca di uno statuto per la filosofia È estremamente difficile fornire una caratterizzazione di tipo generale della filosofia, o meglio, delle filosofie del Novecento, e la difficoltà non dipende tanto dalla loro vicinanza temporale, per cui si riterrebbe più complesso tirarne un bilancio storiografico. O, almeno, non dipende soltanto da questo: la filosofia del XX secolo offre infatti di sé un’immagine estremamente differenziata. Dal punto di vista filosofico, l’Ottocento è stato il secolo che ha sancito la fine dei sistemi metafisici complessivi, il cui esempio più significativo era stato dato dalla filosofia di Hegel. Proprio per questo, molti interpreti vedono la filosofia dell’Ottocento come un processo di frammentazione dei contenuti della filosofia hegeliana e come una reazione ad essa: si comincia a mettere in discussione l’idea stessa della filosofia. In effetti, pensatori significativi del XIX secolo come Kierkegaard, Marx o Nietzsche pongono il problema dei compiti della filosofia avendo presente – e avendo di mira – il sistema hegeliano. E la stessa questione viene posta, verso la fine del secolo, anche da filosofi di statura minore. Il problema dello statuto, del significato e della funzione della filosofia diventa centrale nel corso del XX secolo. Ciò dipende da una nuova situazione del sapere che investe anche la filosofia e, in particolare, una sua ipotetica posizione privilegiata come disciplina di tipo generale, onnicomprensiva. Questa nuova situazione induce la filosofia a riflettere su se stessa e sui propri compiti con un’attenzione nuova, che costituisce uno dei non molti tratti comuni della filosofia del Novecento e che ne attraversa le differenti anime. Da altri punti di vista, infatti, il panorama risulta quanto mai diversificato, e se è comune la domanda su quali siano i compiti della filosofia, sono diverse, anche in modo radicale, le risposte che vengono date. In quanto appena detto c’è un aspetto paradossale, che riguarda la figura sociale del filosofo: la filosofia del Novecento si consolida come una disciplina istituzionale che si insegna nelle università (in Italia anche nella scuola), nella quale la ricerca e la produzione intellettuale sono strettamente legate, più che in precedenza, all’attività didattica, secondo un modello che ha origine nella Germania dell’Ottocento e giunge fino ai nostri giorni. Lo stesso consolidarsi di un ceto universitario di filosofi e insegnanti di filosofia professionisti corre però parallelo alla difficoltà di identificare i confini e i compiti di una riflessione che non affronti soltanto la storia della filosofia. La riflessione della filosofia su se stessa è anche il frutto di nuovi orizzonti aperti dal sapere non filosofico e dai suoi sviluppi. I decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento vedono infatti realizzarsi grandi progressi nelle scienze esatte e positive: pensa alla matematica e alla geometria o alla fisica. A quest’ultimo proposito basta ricordare la teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955), uno dei più importanti e radicali mutamenti della storia del pensiero scientifico in Occidente. Nel corso dell’Ottocento lo sviluppo delle scienze matematiche e naturali aveva condotto a riflettere sullo statuto e sulla natura delle discipline che avessero per oggetto l’uomo e la sua attività: di qui era venuta la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Le stesse scienze dell’uomo, però, o per il proprio sviluppo o per l’assimilazione dei metodi delle scienze naturali, sembrano ero-

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Introduzione Le filosofie del Novecento

Ambiguità della scienza e della tecnica

La filosofia non ha più un oggetto specifico

2

dere il dominio della riflessione filosofica con lo sviluppo della psicologia scientifica, della sociologia, della linguistica, dell’antropologia e via dicendo. Il confronto con lo sviluppo delle scienze non si esaurisce certo in una valutazione incondizionatamente positiva o con il dibattito metodologico. Il Novecento vede infatti svilupparsi anche un atteggiamento critico verso la scienza e la società moderne che ne vorrebbe sottolineare i limiti e gli aspetti negativi per la condizione dell’uomo. Questa attitudine critica, che emerge alla fine dell’Ottocento, si sviluppa in modo particolare tra le due guerre mondiali come una «cultura della crisi» e arriva fino ai nostri giorni, ponendo l’accento sull’ambiguità del progresso scientifico e tecnico e richiamando l’attenzione sui suoi possibili rischi: la scienza e la tecnica sono strumenti che, a seconda del modo in cui vengono usati dall’uomo, possono migliorarne la vita o rivelarsi, invece, estremamente dannosi. Ma torniamo allo statuto della filosofia. Se le grandi questioni scientifiche non possono essere oggetto della filosofia, perché sono affrontate dagli scienziati con un complesso strumentario tecnico più che con una riflessione complessiva, e se gli interrogativi che riguardano l’uomo, il suo rapporto con la cultura e con il linguaggio, con la psiche, con le problematiche sociali e politiche, diventano appannaggio di discipline specifiche (come la linguistica, la psicoanalisi e la sociologia), la filosofia comincia a dubitare di avere un proprio oggetto: è significativo che tra i primi a porsi il problema ci sia Dilthey, colui che aveva proposto la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, o scienze storico-sociali. Ma questa domanda coinvolge in sostanza tutti i filosofi del Novecento e arriva al dibattito contemporaneo: con il Novecento si conclude, insomma, sia l’idea di una filosofia come disciplina complessiva, sia l’idea – valida per parecchi secoli – che ci sia un condiviso, e tutto sommato ovvio, campo di indagine che sarebbe quello della «filosofia». Lo dimostra il fatto che nell’ambito della riflessione della filosofia su se stessa nascono caratterizzazioni diverse o addirittura contrapposte, alcune delle quali, semplicemente, rifiutano a filosofie diverse, o a stili di filosofia diversi, l’appellativo stesso di, appunto, «filosofia».

Due tradizioni?

All’interno del pensiero filosofico del Novecento si possono isolare due diversi stili, che corrispondono a interpretazioni differenti dei compiti della filosofia e ad aree linguistiche identificabili. Sviluppi dell’empirismo I Paesi di lingua inglese, inclusi ovviamente gli Stati Uniti d’America, vedono prevalere un orientamento di matrice empiristica che considera la matematica e le scienze naturali e positive un punto di riferimento epistemologico. Con strumenti concettualmente raffinati, e con una particolare attenzione per la logica e per il linguaggio (anche quello morale), questa impostazione prende le mosse, nei primi anni del secolo, dal lavoro di filosofi come Bertrand Russell (18721970), George Edward Moore (1873-1958) e Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e si sviluppa nel cosiddetto neoempirismo o neopositivismo (vedi Unità 16, p. 719 ss.), nelle teorie del significato e, a partire dalla fine del XX secolo, in un’atten➥ Percorso tematico, p. 751 zione particolare per le caratteristiche della mente. Due stili filosofici

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Diversa è la situazione in altri Paesi occidentali (soprattutto in Francia e in Germania), dove l’intrecciarsi di atteggiamenti intellettuali e temi diversi e un rapporto intenzionalmente più stretto con la tradizione filosofica producono un atteggiamento antipositivistico che si realizza in vari modi, ma che pone l’accento sull’autonomia dell’indagine filosofica rispetto alle scienze della natura. Ciò avviene per esempio nella fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938), nei tentativi di una nuova ontologia da parte di Martin Heidegger (1889-1976), nell’esistenzialismo (vedi Unità 13, p. 544 ss.) o nell’ermeneutica (vedi Unità 12, p. 526 ss.) come rapporto critico con la tradizione: anche l’ermeneutica pone il linguaggio al centro del proprio orizzonte (un altro tema comune alle filosofie novecentesche), ma in un senso ben diverso dalle filosofie di lingua inglese. Filosofia analitica Da qualche tempo è diventato abituale parlare, per indicare le due prospettive e filosofia continentale ora menzionate, di una filosofia analitica distinta da una filosofia continentale; questa è, peraltro, una distinzione eterogenea, nella quale il primo termine indica – seppur genericamente – un metodo, mentre il secondo delimita un’area geografica. La distinzione è stata infatti introdotta da alcuni filosofi anglosassoni di orientamento analitico, che hanno inteso così stabilire una dicotomia netta tra la propria attività filosofica e impostazioni differenti, che si sono sviluppate prevalentemente nel continente europeo al di fuori della Gran Bretagna. È una divisione che ha naturalmente qualche ragion d’essere, come abbiamo suggerito, ma che è stata spesso usata in modo polemico cercando, da una parte e dall’altra, di delegittimare la validità o l’interesse filosofico della parte avversaria. Guardando alle origini concrete delle diverse tradizioni, e ai loro esiti nella riflessione filosofica di oggi, bisogna riconoscere che questa distinzione può servire come strumento di orientamento, ma può essere anche messa in discussione, tenendo presente che i suoi confini si sono fatti sempre più indistinti. Legame con la tradizione

Suggerimenti bibliografici Un panorama della filosofia del Novecento delineato attraverso i problemi è quello di R. Bodei, La filosofia nel Novecento, Donzelli, Roma 1997; un interessante bilancio di un filosofo empirista è A.J. Ayer, La filosofia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1983. Offre un quadro equilibrato V. Verra, La filosofia dal ’45 a oggi, ERI, Torino 1976. Per la «cultura della crisi» tra le due guerre è di grande utilità l’antologia curata da M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi 1914-1939, Loescher, Torino 1982. Per la distinzione tra filosofia di orientamento «analitico» e filosofia «continentale» vedi F. D’Agostini - N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2000; F. D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina, Milano 1997; S. Cremaschi (a cura di), Filosofia analitica e filosofia continentale, La Nuova Italia, Firenze 1997.

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Introduzione Le filosofie del Novecento

La parola al critico La filosofia contemporanea secondo Paolo Rossi In questo brano lo storico della filosofia e delle idee Paolo Rossi identifica la filosofia del Novecento attraverso tre elementi principali, costituiti dallo sviluppo delle scienze e di campi di ricerca diversi dalla filosofia che ne affrontano i temi, dalla tendenza di altre discipline a costruire teorie di rilevanza generale e dallo sfumarsi dei confini tra ambiti diversi del sapere.

Le scienze intervengono nel dominio tradizionale della filosofia da P. Rossi, Le filosofie del Novecento: il pensiero contemporaneo attraverso i testi

Crisi dello scientismo positivistico

Alle scienze si aprono nuove possibilità e si pongono nuovi problemi

Per chi è legato a una concezione dogmatica del sapere filosofico la filosofia del Novecento offre senza dubbio aspetti quasi sconcertanti di assenza di sistematicità e di ‘disordine’. Più che al coerente perseguimento di ben determinati programmi filosofici si assiste in essa ad una serie di incontri che sembrano progressivamente attenuare la specificità dei singoli indirizzi. Le discussioni più importanti e più feconde sembrano avvenire non all’interno delle singole scuole o correnti, ma al punto di incontro e di confluenza di movimenti che hanno differenti origini storiche e che muovono da differenti presupposti teorici. Dopo la grande costruzione hegeliana – come è stato tante volte ripetuto – sembra essersi chiusa l’epoca dei ‘sistemi universali’, dei quadri organici e totalizzanti tendenti a unificare, secondo perfette architetture, il mondo naturale e quello della cultura. […] La cosiddetta ‘reazione al positivismo’, che caratterizza la cultura agli inizi del secolo, non mise soltanto in crisi una serie di particolari dottrine e teorie, ma anche il rinnovato illuminismo della filosofia positivistica, il suo scientismo spesso dogmatico, la euforica convinzione che le vie del progresso fossero ormai sicuramente tracciate e pacificamente percorribili, la fede entusiasta nell’applicabilità dei metodi in atto nelle scienze fisiche ad ogni e qualsiasi forma di conoscenza, infine l’idea che un’opera di semplice ‘coordinamento’ dei risultati del sapere scientifico esaurisse i compiti e le possibilità della filosofia. Alla dissoluzione della cultura positivistica dette un contributo decisivo la cosiddetta ‘crisi’ delle scienze. Il pensiero neoromantico interpretò tale crisi come il segno della dissoluzione e della sconfitta dell’intelletto e della scientificità. Essa segnava invece da un lato la crisi della metafisica scientista del positivismo; apriva dall’altro lato nuove e impensate vie di sviluppo al sapere scientifico. Negli anni che se-

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Il significato dei concetti tradizionali cambia

Tre fenomeni che hanno inciso sulla filosofia contemporanea

Distacco di varie sfere del sapere dalla filosofia

Varie discipline rivendicano il diritto di affrontare i problemi trattati dalla filosofia

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gnano il passaggio dall’Ottocento al Novecento – è opportuno non dimenticarlo – si verifica una serie di svolte decisive nelle scienze della natura e nelle scienze dell’uomo. La matematica e la fisica, la biologia e la psicologia, la patologia medica e la psichiatria si trovano di fronte a nuove strade e a nuovi problemi. Vanno radicalmente mutando di significato non pochi concetti tradizionali: ‘conoscenza’, ‘esperienza’, ‘realtà’, ‘continuità’, ‘rigore’, ‘fenomeno psichico’, ‘coscienza’, ‘organismo vivente’. Molte delle fondamentali strutture categoriali impiegate nella ricerca scientifica vengono profondamente rielaborate. Ma per rendersi conto più da vicino di talune caratteristiche della filosofia contemporanea converrà fare riferimento a tre ordini di fenomeni che appaiono saldamente connessi: 1) il distacco dalla filosofia (che ha origini remote e si continua nel presente) di una molteplicità di campi e settori del sapere; 2) il configurarsi di determinati settori del sapere come teorie generali e unitarie di interpretazione della realtà; 3) il mutamento che va subendo il concetto di specializzazione. 1) Lo spazio, il tempo, la causalità e il determinismo, l’origine del cosmo e della vita, la natura dell’universo e degli organismi, l’evoluzione e il divenire della natura, la costituzione della materia, le discussioni sulla probabilità, sul caso, sul finalismo, l’estensione della vita al di là dei confini della terra; su questi temi si è affaticata per due millenni la riflessione dei filosofi dall’età di Aristotele a quella di Diderot. In tempi lunghi, ma in modo progressivo, il discorso dei fisici, dei cosmologi, dei biologi, dei matematici è andato a occupare, relativamente a questi temi, il terreno della filosofia. Anche i discorsi sul modo di organizzare in comune la vita, sulla famiglia e sui costumi, sullo stato, sulle differenze fra le varie culture e sui processi di acculturazione, sui rapporti individuo-collettività, sui riti e sulla vita religiosa, sul rapporto istinto-ragione, sul significato e la funzione delle ideologie, per tanti secoli strettamente legati alla filosofia, non sembrano sfuggire al destino di un progressivo distacco. Antropologi, psicologi e psicanalisti, sociologi ed economisti, studiosi di linguistica e di statistica, cultori di geografia umana e teorici del diritto non hanno soltanto costruito metodi e tecniche di indagine sempre più raffinati, hanno anche elaborato teorie capaci di affrontare quei problemi in termini sempre più generali ed astratti. Hanno anche rivendicato per sé, in varie maniere, il diritto di sostituire le loro discussioni a quelle tradizionalmente svolte nell’ambito della filosofia. Indipendentemente dalle ambizioni, che possono talora sembrare eccessive, dei cultori delle scienze dell’uomo, è indubbio, tanto per fare un esempio, che l’analisi dei sentimenti e delle ‘passioni’ – a differenza di quanto avveniva nell’età di Spinoza e di Descartes – vanno cercate, per la seconda metà del secolo scorso e per questo secolo [cioè nell’Ottocento e nel Novecento], più nelle pagine di libri di psicologia e di psicanalisi (ed eventualmente in quelle di taluni romanzi) che non nei libri scritti da professori di filosofia. Anche i discorsi sulla verità e sulla falsità delle proposizioni, sul concetto di infinito, sulla coerenza di un sistema di enunciati, sul principio di contraddizione, sull’induzione e sulla deduzione, sul calcolo logico, sull’assiomatica, che hanno occupato per secoli tanta parte della produzione filosofica, non appaiono certo oggi di esclusiva pertinenza dei ‘filosofi’.

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Introduzione Le filosofie del Novecento Teorie generali di interpretazione della realtà

Un esempio: la psicoanalisi

I confini tra una scienza e l’altra diventano labili

2) Molti di quei settori del sapere che si sono distaccati e resi autonomi dalla filosofia hanno la spiccata tendenza a non mantenersi entro un loro campo ristretto e ben determinato. Non poche fra le discipline che costituiscono quei settori hanno la tendenza a configurarsi come teorie unitarie, ad allargare l’ambito del loro discorso, a renderlo generale, a farlo valere per ambiti e settori e campi di indagine diversi da quello originario, a giungere a discutere di fondamenti, a procedere verso possibili unificazioni. La mediazione della filosofia non sembra più indispensabile perché i settori cosiddetti ‘particolari’ si mettano a contatto con la totalità del sapere. La psicanalisi è nata indubbiamente sul terreno di una terapia delle nevrosi isteriche, ma già nell’opera stessa di Freud è presente anche la tendenza a servirsene anche come di uno strumento interpretativo di carattere generale, come un mezzo per la comprensione della totalità del mondo umano. Su questo terreno nascono le pagine freudiane sul mondo primitivo, sul passaggio dall’animalità all’umanità, sul mito, sulla civiltà, sulla religione, sulla guerra [vedi Unità 9, p. 361 s.]. Indipendentemente dal giudizio che si decida di dare sui risultati ottenuti, è fuori di dubbio che la psicanalisi o la prospettiva psicanalitica fa avvertire una non trascurabile presenza all’interno della critica letteraria, dell’indagine sociologica, delle ricerche di antropologia culturale, delle riflessioni sulla politica, dell’attività storiografica, degli studi sulla guerra (la cosiddetta polemologia). Un non diverso discorso potrebbe essere ripetuto per molti altri settori del sapere contemporaneo e per teorie e metodi di analisi della realtà e della cultura. […] 3) A differenza di quanto ritenevano i positivisti, i confini fra le varie scienze non sembrano […] poter essere una volta per tutte determinati. Né è possibile costruire una gerarchia delle scienze sulla base di un modello di scientificità assunto come perfetto come, in una certa fase della loro attività, hanno inteso fare i neopositivisti. Le frontiere delle scienze della natura e delle scienze dell’uomo appaiono continuamente mobili e aperte.

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(Sansoni, Firenze 1974, pp. VII-X)

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

1. Perché si parla di ‘nuova scienza’ 2. Le premesse matematiche 1. Le geometrie non euclidee 2. Geometria e spazio fisico 3. Gli sviluppi dell’algebra e la nascita della logica moderna 4. Il problema del continuo e l’aritmetizzazione dell’analisi

3. Il dibattito sui fondamenti della matematica 1. 2. 3. 4.

Il riduzionismo di Frege e l’antinomia di Russell Il logicismo L’intuizionismo di Brouwer Il formalismo di Hilbert e i teoremi di Gödel

4. Le premesse fisiche 1. 2. 3. 4.

Dove arriva la fisica classica I due principi della termodinamica La nascita della meccanica statistica L’elettromagnetismo di Maxwell

5. Le rivoluzioni della fisica 1. 2. 3. 4.

Einstein, la figura chiave La relatività ristretta La relatività generale I quanti di luce e la nascita della meccanica quantistica

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

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Perché si parla di ‘nuova scienza’

La nascita della scienza contemporanea

A cavallo tra Cinquecento e Seicento, le rivoluzionarie scoperte di Copernico, Keplero, Galilei e Newton hanno portato alla nascita della ‘scienza moderna’. Allo stesso modo assistiamo, tra l’Ottocento e il Novecento, a nuove scoperte rivoluzionarie nel campo della matematica e delle scienze della natura, che conducono a radicali mutamenti metodologici e concettuali nel sapere scientifico. La scienza contemporanea è il risultato di questo processo. Nell’Unità ricordiamo alcuni dei momenti salienti che lo caratterizzano, seguendo due principali fili conduttori. Da una parte, l’evoluzione del sapere scientifico procede di pari passo con il progressivo distacco dal piano dell’intuizione immediata, distacco che a volte costituisce addirittura la premessa di tale evoluzione. Le conquiste di Galilei furono possibili solo grazie a un processo di astrazione dai dati dell’esperienza immediata, sui quali riposava invece la fisica di tradizione aristotelica. Tre secoli dopo Einstein, con la sua teoria della relatività, fa compiere un passo decisivo alla conoscenza fisica andando contro la concezione comune che tempo e spazio siano ‘ingredienti’ del mondo fisico separati l’uno dall’altro. In modo analogo, conquiste nel campo della matematica come la scoperta delle geometrie non euclidee, la teoria degli insiemi e la nascita della logica moderna avvengono solo grazie a un allontanamento da concezioni basate sull’intuizione comune: con la distinzione dello spazio geometrico da quello della nostra esperienza quotidiana, con la liberazione dell’analisi dal ricorso all’evidenza geometrica o fisica per la comprensione dei suoi metodi e concetti, e con lo svincolamento della ricerca algebrica dalla dimensione puramente quantitativa. Dall’altra parte, il progresso scientifico è guidato anche dalla tendenza a una unificazione delle conoscenze e metodologie via via acquisite, che procede parallelamente al loro sviluppo e arricchimento. Risultati ottenuti in campi inizialmente del tutto separati vengono messi in collegamento e a volte confluiscono in un’unica teoria, come nel caso delle teorie sull’elettricità e il magnetismo, unificate nell’elettromagnetismo di Maxwell; analogie strutturali e metodologiche vengono individuate tra teorie nate e sviluppatesi in contesti del tutto diversi, suggerendo la riduzione delle une alle altre, come nel caso dei tentativi di riduzione dell’analisi all’aritmetica, della matematica alla logica, o, in campo fisico, della termodinamica alla meccanica statistica; tecniche e concetti di un particolare settore matematico finiscono per risultare di utilità decisiva per risolvere questioni aperte in altre aree della matematica o in un’altra disciplina: come nel caso della teoria dei gruppi, che nasce in un contesto puramente algebrico per poi diventare uno strumento decisivo, prima nella geometria, e in seguito nella fisica. Vediamo dunque come queste due linee conduttrici giungono a intrecciarsi in alcuni dei momenti più significativi degli sviluppi della matematica e della fisica tra l’Ottocento e il Novecento.

Il distacco dall’intuizione

L’unificazione della conoscenza

➥ Sommario, p. 426

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

Le premesse matematiche

2 I testi

J.-H. Poincaré La scienza e l’ipotesi: Gli assiomi come convenzioni, T1 G. Boole Indagine sulle leggi del pensiero: Il calcolo booleano, T2

R. Dedekind Che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i numeri?: I numeri come creazioni, T3 Continuità e numeri irrazionali: Il principio di continuità di Dedekind, T4

La matematica è tradizionalmente ritenuta la disciplina scientifica che meglio incarna l’ideale di un sapere esatto e certo. Ma su che cosa riposa questa concezione? Qual è l’oggetto specifico della conoscenza matematica, com’è essa stessa organizzata, quali sono le procedure razionali che usa? E che cosa garantisce al sapere matematico la sua certezza, la sua verità? Il modello euclideo Dai greci in poi e per oltre duemila anni, il modello per eccellenza del sapere rigoroso è stato identificato negli Elementi di Euclide. Lo stesso Newton s’ispira ad essi nel dare forma ai suoi Principia, e ancora oggi si trova utilizzata l’espressione «more geometrico» (secondo il metodo geometrico) come sinonimo di «metodo rigoroso». Quali caratteristiche ha dunque l’opera euclidea per rivestire questo ruolo? Il punto fondamentale consiste nel metodo seguito: gli Elementi (scritti intorno al 330 a.C.) rappresentano una sistemazione di tutte le conoscenze geometriche fino ad allora acquisite in una struttura di tipo assiomatico. La struttura Un sistema assiomatico è un sistema di conoscenze costruito nel seguente modo: assiomatica le fondamenta sono costituite da un certo numero (il più ristretto possibile) di concetti primitivi (cioè concetti che non vengono definiti attraverso altri concetti) e di assiomi o proposizioni primitive, che sono le proposizioni la cui verità non ha bisogno di essere dimostrata in quanto ritenuta di ‘immediata evidenza intuitiva’; su questa base, attraverso la definizione di concetti nuovi a partire da quelli primitivi e la dimostrazione di proposizioni nuove o teoremi (applicando inferenze logiche) a partire dagli assiomi, si deducono tutte le verità della teoria in oggetto. Attraverso questo meccanismo, l’evidenza irriducibile e intuitiva degli assiomi può trasmettersi, usando operazioni puramente logiche, a tutti i teoremi che costituiscono il sistema teorico considerato.

La certezza matematica

Il modello euclideo

Fondamenti evidenti (assiomi e concetti primitivi)

+ Struttura deduttiva

= Certezza

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Il problema dell’evidenza

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Ma sono davvero evidenti le verità delle proposizioni primitive di un sistema assiomatico? E quanto è legittimo l’appello all’evidenza intuitiva, una nozione di tipo psicologico piuttosto che logico, per garantire un fondamento solido a tutto il sistema di conoscenze elaborato? Nel XIX secolo, un insieme di questioni generate dagli sviluppi più avanzati della geometria, dell’algebra e dell’analisi mettono in crisi il criterio dell’evidenza intuitiva come garanzia di verità – fino ad allora rimasto uno dei cardini del pensiero matematico –, dando così inizio a una riflessione critica sui fondamenti della matematica.

La conoscenza matematica

Geometria Emergono nuove questioni generali

Algebra

Messa in discussione dell’evidenza intuitiva

Riflessione critica sui fondamenti

Analisi

Nuove esigenze di fondazione

Emerge progressivamente, nei vari campi della matematica, un’esigenza di chiarificazione e determinazione dei propri metodi e concetti, che, dove si concretizza, dà origine a sua volta a nuovi decisivi sviluppi. Illustriamo qui di seguito alcune delle premesse più significative di questo processo, a cominciare dalla scoperta delle geometrie non euclidee.

Le geometrie non euclidee

1 I postulati di Euclide

Negli Elementi di Euclide il sistema assiomatico della geometria è fondato su 23 definizioni e 13 proposizioni primitive, divise in 8 assiomi (o nozioni comuni) e nei seguenti 5 postulati: 1) 2) 3) 4) 5)

Figura 1

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Si può condurre una linea retta da un qualsiasi punto a ogni altro punto. Una retta terminata si può prolungare continuamente in linea retta. Si può descrivere un cerchio con qualsiasi centro e ogni distanza. Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro. Se una retta, venendo a cadere su due rette, forma con esse angoli interni e dalla stessa parte la cui somma è inferiore a due angoli retti, le due rette, se prolungate illimitatamente, devono necessariamente incontrarsi da quella parte (vedi Figura 1).

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica La questione delle parallele

Di questi postulati, il quinto è di ben maggior complessità concettuale degli altri e apparentemente assai poco evidente. È noto anche come postulato dell’unicità della parallela, in quanto di solito discusso nella seguente formulazione, che si deve a Proclo (410-485) ed è del tutto equivalente (nel contenuto) a quella di Euclide: 5.1) Data una retta r e un punto P fuori da essa, esiste una e una sola retta s passante per P e parallela a r (vedi Figura 2).

Figura 2

I tentativi di dimostrare il postulato delle parallele

Già i più antichi commentatori del testo euclideo, come Tolomeo (II secolo) e lo stesso Proclo, manifestarono resistenze ad accettare il quinto postulato come tale, e tentarono di conseguenza di dedurlo dagli altri assiomi e postulati, che erano ritenuti molto più intuitivi. I tentativi di dimostrazione del quinto postulato si susseguirono senza successo nel corso dei secoli. Nel Settecento, le ricerche intorno alla questione dei principi della geometria euclidea acquistarono maggiore sistematicità grazie agli studi dell’italiano Girolamo Saccheri (1677-1733), del tedesco Johann Heinrich Lambert (1728-1777) e del francese Adrien-Marie Legendre (1752-1833). A quest’ultimo, in particolare, si deve la dimostrazione dell’equivalenza tra il quinto postulato e il seguente enunciato: La somma degli angoli interni di un triangolo piano è 180o (o π radianti).

Variazioni sul postulato delle parallele

I pionieri delle geometrie non euclidee: Gauss, Bolyai e Lobacevskij

È proprio da queste ricerche settecentesche che comincia a germogliare l’ipotesi che possa essere violato il quinto postulato e che, quindi, quella euclidea non sia l’unica geometria possibile. Saccheri, Lambert e Legendre provano infatti a indagare sulle possibili conseguenze di una violazione del quinto postulato, sebbene ancora nell’intento di derivare una contraddizione dall’ipotesi di detta violazione e, in tal modo, la conferma indiretta della dimostrabilità del postulato stesso (ricorrendo cioè a quella che si chiama «dimostrazione per assurdo»). Di fatto è solo nell’Ottocento che, dal fallimento dei tentativi di dimostrazione del quinto postulato, si riesce davvero a trarre la conseguenza della possibilità di una geometria non euclidea. I tre matematici ai quali si deve questo passo rivoluzionario sono il tedesco Carl Friedrich  Gauss, l’ungherese János Bolyai (1802-1860) e il russo Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1793-1856). Per quanto di origine e formazione molto diverse, confrontandosi con il problema della dimostrazione del postulato delle parallele giungono tutti e tre a risultati molto simili. Gauss è il primo a formulare alcuni fondamentali aspetti della geometria non euclidea, probabilmente fin da giovanissimo. Tuttavia, temendo «le strida dei Beoti», rimanda di continuo la pubblicazione delle sue ricerche, fino a quando non riceve, nel 1832, il contributo di János Bolyai. I risultati di Bolyai (ottenuti già nel 1823) coincidevano quasi interamente con le ‘meditazioni’ che Gauss aveva intrapreso «in parte già da trenta-trentacinque anni» (come scrive lui stesso al padre del giovane János, un suo vecchio  amico e anch’egli matematico). Nel frattempo, in Russia, anche Lobacevskij giungeva a conclusioni analoghe, pubblicate a partire dal 1829 e delle quali Gauss viene a conoscenza solo negli anni quaranta. 383

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

La vita e le opere Carl Friedrich Gauss nacque a Brunswick in Germania il 30 aprile 1777. Genio precoce, impressionò fin da bambino per le sue capacità di calcolo. Nato in una famiglia di bassa estrazione sociale, beneficiò di finanziamenti statali per i suoi studi scolastici e universitari. Ottenne già nel 1796, mentre era studente all’università di Gottinga, risultati matematici straordinari dimostrando una serie di teoremi di geometria e aritmetica. Si dedicò agli studi scientifici per tutta la vita dando contributi fondamentali in branche diverse della matematica quali l’algebra, la teoria della probabilità, l’analisi, la geometria. A partire dal 1807 fu direttore dell’osservatorio astronomico di Gottinga, incarico che mantenne fino alla fine della sua vita. Fu cronologicamente il primo a elaLa geometria iperbolica

borare concetti geometrici non euclidei, anche se non il primo a pubblicare i propri risultati in materia. Si occupò anche di fisica e di astronomia conseguendo risultati di grande rilievo nei campi dell’ottica, della geodesica, dello studio dei fenomeni magnetici ed elettromagnetici. Tra i suoi allievi ci furono altri importanti studiosi, tra cui Richard Dedekind e Bernhard Riemann. Tra le sue opere maggiori si ricordano le Disquisitiones arithmeticae («Ricerche aritmetiche», 1801), la Theoria motus corpum cœlestium in sectionibus conici solem ambientium («Teoria del moto dei corpi celesti che si muovono secondo sezioni coniche intorno al sole», 1809) e Disquisitiones generales circa superficies curvas («Ricerche generali sulle superfici curve», 1827). Gauss morì a Gottinga nel 1855.

 Che risultato ottengono dunque Gauss, Bolyai e Lobacevskij? Una geometria che descrive uno spazio in cui valgono tutti i postulati di Euclide, a eccezione del quinto, che viene sostituito dal seguente: 5.2) Data una retta r e un punto A fuori da essa, esistono più rette parallele a r passanti per A (vedi Figura 3).

Figura 3

Relativamente alla somma degli angoli interni di un triangolo, il nuovo postulato è equivalente all’enunciato: La somma degli angoli interni di un triangolo è minore di 180o (o π radianti) (vedi Figura 4). Figura 4

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La geometria così ottenuta prende il nome di geometria iperbolica, e descrive le proprietà di figure che non possono stare su un piano (cioè su una superficie di curvatura nulla, come nel caso delle figure della geometria euclidea) ma solo su una superficie che è di curvatura negativa costante (vedi Figura 4). La geometria ellittica di Riemann

Esiste anche un’altra possibilità di modificare il quinto postulato e quindi la geometria euclidea. Si può negare del tutto l’esistenza di rette parallele, sostenendo il seguente postulato: 5.3) Data una retta r e un punto P fuori da essa, non esistono rette parallele a r passanti per P. Il che equivale a sostenere il seguente enunciato: La somma degli angoli interni di un triangolo è maggiore di 180o (o π radianti). La geometria così ottenuta si deve al matematico Georg Friedrich Bernhard Riemann, allievo di Gauss, ed è nota come geometria ellittica o sferica: descrive le proprietà di figure che stanno su una superficie che è di curvatura positiva costante (vedi Figura 5).

Figura 5

La vita e le opere Georg Friedrich Bernhard Riemann nacque nel 1826 a Breselenz, in Germania. Dopo aver ricevuto la sua prima istruzione dal padre, pastore protestante, all’età di quattordici anni andò a studiare a Lüneburg, dove emersero subito le sue grandi capacità in campo matematico. Si indirizzò quindi agli studi scientifici, proseguiti poi alle università di Gottinga e di Berlino. Fu allievo di importanti matematici tra cui Gauss, e si

dedicò allo studio e all’insegnamento dando tra gli altri un contributo fondamentale allo studio delle geometrie non euclidee. Scrisse Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria (1854) come tesi per l’abilitazione all’insegnamento, che fu poi pubblicata postuma (1867). Di salute precaria, si recò più volte in Italia per cercare sollievo dalla tubercolosi nel clima mediterraneo. Morì a soli 39 anni nel 1866 a Selasca in Italia.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Geometria euclidea e geometrie non euclidee

Data una retta r e un punto esterno P…

La somma degli angoli interni di un triangolo è…

Geometria euclidea

… c’è una e una sola retta parallela a r passante per P

= 180°

Geometrie iperboliche

… ci sono più rette parallele a r passanti per P

< 180°

Geometrie ellittiche

… non ci sono rette parallele a r passanti per P

> 180°

2 Lo spazio dell’esperienza e il problema della verità della geometria

La posizione empirista: Gauss e Lobac˘evskij

La posizione kantiana: la geometria euclidea è vera a priori

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Geometria e spazio fisico Alle geometrie iperboliche ed ellittiche può essere data una struttura assiomatica altrettanto rigorosa di quella della geometria euclidea. Il risultato degli studi che conducono alla loro formulazione è dunque la possibilità, dal punto di vista matematico, di geometrie alternative a quella euclidea. Questo pone tuttavia un problema fondamentale: se la geometria è la scienza dello spazio e lo spazio è inteso come quello della nostra esperienza sensibile, non dovrebbe essere possibile più di una geometria vera. E questa geometria dello spazio esterno era stata tradizionalmente identificata con quella euclidea. Non solo: con la fisica di Newton lo spazio euclideo era stato identificato addirittura con lo spazio fisico ‘assoluto’, lo scenario immobile e immateriale in cui, secondo la concezione newtoniana, avvengono i fenomeni naturali e si svolgono i processi fisici. Se si assume che non ci sia distinzione tra geometria matematica e geometria fisica (nel senso di scienza dello spazio fisico), qual è dunque la geometria ‘vera’ tra quelle matematicamente possibili? Per gli scopritori delle geometrie non euclidee, la risposta doveva venire dall’esperienza, cioè attraverso la realizzazione di opportune misurazioni. In questa direzione s’inseriscono i calcoli di Gauss sulla somma degli angoli di un triangolo che ha come vertici le cime di tre mon tagne, o quelli astronomici di Lobacevskij sulla somma degli angoli di un triangolo formato dalla Terra, dal Sole e dalla stella Sirio. Sia Gauss sia Lobacevskij ottengono risultati interpretabili nel senso di un accordo della ‘geometria fisica’ con la geometria euclidea. Ma le distanze che si possono trovare in natura, nota Lobacevskij, possono essere tali che anche una distanza astronomica come quel la della Terra dalla stella Sirio può apparire trascurabile. Lobacevskij ne trae la conclusione che, per quanto la geometria euclidea rappresenti in modo appropriato lo spazio come è percepito dai nostri sensi, «non si può garantire che non possa mostrarsi sensibilmente falsa anche prima di andare al di là del mondo a noi visibile». Questo approccio di tipo empirista al problema posto dalle geometrie non euclidee era tuttavia in forte contrasto con la concezione kantiana dello spazio: cioè l’idea che lo spazio non fosse «un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne», ma «una rappresentazione necessaria a priori, che serve da fondamento a tutte le intuizioni esterne». Dal punto di vista di una concezione della geometria euclidea come valida a priori (per Kant gli assiomi della geometria euclidea hanno lo statuto di giudizi sintetici a priori, valevoli universalmente e ne-

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cessariamente), non aveva certo senso cercare nell’esperienza dello spazio una risposta alla questione di quali fossero i veri assiomi geometrici: gli assiomi veri erano necessariamente quelli euclidei, e le geometrie alternative non rappresentavano altro che giochi logici. Il convenzionalismo Una terza posizione, che si distingue sia da quella empirista sia da quella aprioristica, verrà proposta verso la fine dell’Ottocento dal matematico (e fisicomatematico) francese Henri Poincaré. Si tratta del cosiddetto convenzionalismo geometrico, al quale Poincaré arriva, come vedremo, in seguito agli sviluppi della riflessione sulla geometria e, in particolare, in seguito alla definizione ‘gruppale’ (cioè nei termini del concetto algebrico di ‘gruppo’) della nozione di teoria geometrica.

La vita e le opere Jules-Henri Poincaré nacque a Nancy il 29 aprile 1854. Studente estremamente dotato, dopo gli studi all’École polytechnique e all’École des Mines ottenne il dottorato in matematica nel 1879 e successivamente iniziò l’attività accademica e di ricerca, prima alla facoltà di scienze di Caen poi alla facoltà di scienze di Parigi. Poincaré rappresentò una figura di uomo di scienza a tutto tondo: si occupò con uguale impegno di problemi di

Le varietà di Riemann Quando Poincaré presenta la sua posizione convenzionalista, le geometrie non euclidee sono ormai considerate legittime parti del sapere matematico. Inizialmente invece non era così: sia per il contrasto che rappresentavano con le impostazioni filosofiche dominanti, sia per il fatto che non sembravano trovare applicazioni di rilievo rispetto alle questioni allora importanti, le geometrie non euclidee sono rimaste ai margini della ricerca matematica, fino a quando, nel 1854, Bernhard Riemann ha tenuto di fronte alla facoltà di filosofia dell’università di Gottinga la sua lezione di abilitazione dal titolo Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria. La nuova concezione della geometria che presenta Riemann è infatti tale da comprendere in modo naturale le geometrie non euclidee come parte di una disciplina matematica allora già ben sviluppata: la geometria differenziale, nata come lo studio delle curve e delle superfici con i metodi del calcolo differenziale (fondato da Leibniz e Newton) – uno strumento particolarmente adatto per investigare proprietà geometriche variabili da punto a punto. Riemann prende le mosse, nel suo lavoro, dalle Disquisitiones generales circa superficies curvas, l’opera del 1827 con la quale il suo maestro Gauss aveva posto le basi della moderna geometria differenziale. La svolta operata da Gauss con la sua «teoria delle superfici» è la seguente: una superficie viene considerata non più come la frontiera di un solido, ovvero in modo estrinseco, ma di per se stessa, come «un velo infinitamente sottile» di cui si studiano le proprietà intrinseche, cioè quelle proprietà che non dipendono dallo spazio a dimensione maggiore

matematica e di fisica conseguendo importantissimi risultati teorici e oltre che alla ricerca si dedicò all’insegnamento, alla divulgazione scientifica e alla riflessione filosofica, dando importanti contributi anche alla filosofia della scienza. Tra le sue opere principali si ricordano, oltre ai numerosi articoli scientifici specialistici, i volumi: La scienza e l’ipotesi (1902), Il valore della scienza (1905), Scienza e metodo (1908). Morì a Parigi nel 1912.

in cui la superficie è immersa, ma solo da come essa stessa è fatta. Il contributo fondamentale di Riemann è quello di generalizzare questa concezione di Gauss dallo studio delle superfici, che sono spazi (o varietà) a due dimensioni, allo studio di spazi a dimensione qualsiasi, o varietà ndimensionali (con n uguale al numero di dimensioni considerate), estendendo quindi anche a questi spazi le nozioni base di lunghezza infinitesima, di geodetica (la più corta linea di congiunzione tra due punti) e di curvatura, definite da Gauss in relazione alle superfici. Quella a cui Riemann arriva in questo modo è una teoria generale e unitaria degli spazi metrici curvi: l’introduzione delle varietà n-dimensionali rende possibile realizzare tante geometrie quante sono le varietà e le relazioni metriche costruibili su di esse. Nel caso di varietà a due dimensioni, per esempio, la geometria euclidea è la naturale geometria del piano (varietà di curvatura nulla), mentre le geometrie non euclidee sono: quella sferica, la geometria di una varietà di curvatura positiva costante, e quella iperbolica, la geometria di una varietà di curvatura negativa costante (dove al tipo di curvatura corrisponde una determinata metrica). Per Riemann il concetto di varietà a più dimensioni sussiste indipendentemente dalle nostre intuizioni spaziali: la linea, la superficie e lo spazio sono solo gli esempi più intuitivi di varietà a una, due e tre dimensioni; ma è possibile costruire l’intera geometria senza utilizzare alcuna intuizione di tipo spaziale. Più precisamente, riguardo al rapporto tra geometria fisica e geometria matematica, la posizione di Riemann è la se-

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guente: poiché lo spazio fisico è solo uno dei possibili casi di varietà a tre dimensioni (ognuna caratterizzata dalle proprie relazioni metriche), le proprietà che lo distinguono da altre varietà tridimensionali possono essere tratte solo dall’esperienza: dai «fatti più semplici» a partire dai quali si possono determinare le relazioni metriche dello spazio fisico. Fatti che, in quanto tali, hanno certezza solo empirica, sono dunque ipotesi: del-

le quali si può valutare la probabilità, e poi giudicare se è lecito estenderle al di là dell’osservazione, nell’incommensurabilmente grande e nell’incommensurabilmente piccolo. Si pongono in tal modo le basi per l’utilizzo di spazi con curvature diverse da quello euclideo per descrivere lo spazio degli eventi fisici: un’idea che diventerà realtà con la teoria della relatività generale di Einstein (vedi p. 420).

La teoria dei gruppi e il Programma di Erlangen

Klein (1849-1925) e al norvegese Sophus Lie (18421899), allora giovani matematici ed esperti in un campo particolarmente fertile per la combinazione di metodi algebrici e geometrici basati sulla nozione d’invarianza, cioè la geometria proiettiva: lo studio delle proprietà geometriche che restano invariate sotto l’azione di determinate trasformazioni dette di «proiezione centrale». Klein, guidato dalla convinzione che la geometria possa essere trattata tutta in modo unitario, si dedica in particolar modo al problema di stabilire quali relazioni ci siano tra le diverse geometrie conosciute. La soluzione che trova è nell’ambito di una nuova concezione di geometria che espone nella prolusione che tiene nel 1872 all’università di Erlangen, dal titolo Considerazioni comparative intorno a ricerche geometriche recenti. In questo discorso di Klein, noto come Programma di Erlangen, una teoria geometrica viene definita – in relazione a un dato spazio e a un dato gruppo di trasformazioni – come lo studio di quelle proprietà delle figure dello spazio che restano invariate sotto l’azione delle trasformazioni del gruppo. Le proprietà geometriche acquistano così il significato di «invarianti rispetto a un dato gruppo di trasformazioni», cioè di proprietà di simmetria (se consideriamo che la simmetria è definita come «invarianza rispetto a un gruppo di trasformazioni»). Ogni specifica geometria risulta dunque determinata dal gruppo di simmetria che la caratterizza.

Il processo di generalizzazione della nozione di geometria avviato dalla teoria delle varietà di Riemann trova il suo compimento con l’applicazione della teoria dei gruppi allo studio delle proprietà geometriche e la conseguente definizione ‘gruppale’ di che cosa sia una teoria geometrica. La teoria dei gruppi ha un’origine puramente algebrica. Nasce con i contributi di Évariste Galois (1811-1832) alla soluzione del problema di come risolvere algebricamente delle equazioni di grado superiore al quarto, a partire dalla nozione di «gruppo di sostituzioni» delle soluzioni di un’equazione. Ma cosa s’intende con «gruppo»? Essenzialmente il fatto che, in un insieme di elementi, la combinazione o prodotto di due di questi elementi sia ancora un elemento dell’insieme. Così per esempio, nel caso del gruppo formato dalle operazioni di rotazione, il prodotto di due rotazioni è ancora una rotazione. Si tratta quindi di un concetto semplice ma estremamente fecondo. La prima trattazione sistematica della teoria dei gruppi è rappresentata dal Traité des substitutions et des équations algébriques («Trattato delle sostituzioni e delle equazioni algebriche», 1870) di Camille Jordan (1838-1922), che diventa il testo di riferimento sull’argomento per i matematici dell’epoca. L’idea di applicare i risultati di Galois e Jordan allo studio delle proprietà geometriche si deve al tedesco Felix

Poincaré sul finire degli anni ottanta approda a una concezione della geometria come studio di un gruppo di operazioni, in connessione con le sue ricerche sulle trasformazioni di simmetria di certe funzioni (da lui denominate «fuchsiane») utili alla soluzione di un determinato tipo di equazioni differenziali. Poincaré individua  uno stretto legame tra queste trasformazioni e la geometria iperbolica di Lobacevskij, e in uno degli scritti relativi a questi studi osserva significativamente: «Che cos’è infatti una geometria? È lo studio di un gruppo di operazioni formato dagli spostamenti cui si può sottoporre una figura senza deformarla. Nella geometria euclidea questo gruppo si riduce alle rotazioni e alle traslazioni.  Nella pseudogeometria di Lobacevskij è invece più complicato». Non c’è Se si accetta questa concezione della geometria, che significato possono dunque una geometria ‘vera’ avere «le ipotesi fondamentali della geometria», gli assiomi che dovrebbero permettere d’individuare la ‘vera’ geometria dello spazio fisico? La lezione che Poincaré trae dalla concezione gruppale è che, come l’esistenza di un gruppo non è incompatibile con l’esistenza di un altro gruppo, così la verità della geometria euclidea non è incompatibile con quella della geometria non euclidea di LoLa posizione di Poincaré

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 bacevskij. L’idea base del suo convenzionalismo riposa proprio su questo punto: si può scegliere, tra i gruppi possibili, il «gruppo particolare cui rapportare i fenomeni fisici» esattamente allo stesso modo in cui si possono scegliere «tre assi di coordinate per rapportarvi una figura geometrica». Come non si può dire che un sistema di coordinate (come quello cartesiano) è vero e un altro (come le coordinate polari) è falso,  così non si può dire che la geometria euclidea è vera e la geometria di Lobacevskij falsa. «Una geometria non può essere più vera di un’altra: può essere solo più comoda», scrive Poincaré in La scienza e l’ipotesi, dove riassume la sua posizione convenzionalista nei seguenti termini:

T1

Gli assiomi come convenzioni

J.-H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi

La conoscenza della geometria fisica

Gli assiomi geometrici non sono dunque né giudizi sintetici a priori né fatti sperimentali. Sono convenzioni: tra tutte le convenzioni possibili, la nostra scelta è guidata da fatti sperimentali; ma resta libera ed è limitata unicamente dalla necessità di evitare qualsiasi contraddizione. È così che i postulati possono rimanere rigorosamente veri anche se le leggi sperimentali che hanno determinato la loro adozione non sono che approssimative. In altri termini, gli assiomi della geometria non sono altro che definizioni camuffate. Rapporto tra teoria geometrica e spazio fisico

3

Empirismo

Solo una tra le diverse geometrie alternative è vera, solo attraverso l’esperienza (esperimenti, misurazioni) possiamo scoprire quale

Apriorismo kantiano

La geometria euclidea è valida universalmente e necessariamente per gli oggetti dell’esperienza sensibile (è una forma a priori di ogni possibile esperienza)

Convenzionalismo

Possiamo scegliere la geometria che preferiamo, tutte sono ugualmente valide per la rappresentazione degli oggetti fisici, si tratta solo di sistemi di convenzioni alternative

Gli sviluppi dell’algebra e la nascita della logica moderna

Con i progressi che si verificano in campo algebrico-geometrico, il metodo assiomatico in matematica acquista una grande libertà: gli assiomi, non più vincolati a un fondamento basato sull’intuizione, sono suscettibili di diverse interpretazioni, come si è visto nel caso di quelli geometrici. Resta la loro funzione di unificazione, ma il loro compito diventa di natura piuttosto ‘prescrittiva’ che ‘descrittiva’. Sintassi e semantica Si fa sempre più strada, in questo modo, una distinzione tra l’aspetto «simbolico» o «sintattico» e l’aspetto «interpretativo» o «semantico» delle teorie matematiche: una distinzione, cioè, tra la loro presentazione formale e le loro possibili interpretazioni (gli stati di cose che ne costituiscono i possibili ‘modelli’). Lo svincolamento degli aspetti formali dalla natura degli oggetti a cui le teorie si riferiscono favorisce, d’altra parte, la possibilità di stabilire nessi tra ambiti teorici diversi sulla base delle analogie strutturali tra gli uni e gli altri che possono emergere, in tal modo, più facilmente. Lo dimostra in modo esemplare l’applicazione della teoria dei gruppi a contesti diversi come l’algebra e la geometria, e in seguito, con i lavori di Sophus Lie sui gruppi continui di trasformazioni, anche alla fisica. Lo sviluppo in senso Questo processo di progressiva separazione tra aspetti formali e interpretativi astratto dell’algebra contraddistingue in modo particolare gli sviluppi della ricerca algebrica nel cor-

Il mutamento del metodo assiomatico

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so dell’Ottocento. L’algebra evolve infatti in direzione di un crescente distacco dal piano puramente quantitativo: alla concezione tradizionale dell’algebra come scienza delle equazioni algebriche e delle loro soluzioni se ne affianca una sempre più astratta. Da una parte, come si è visto, nasce e si sviluppa la teoria dei gruppi: con l’introduzione a opera di Galois del concetto di «gruppo di sostituzione» delle soluzioni di un’equazione si passa dal piano della ricerca di particolari formule risolutive allo studio delle proprietà di enti astratti come i gruppi. Dall’altra parte, la nozione stessa di algebra si generalizza, fino a diventare una scienza delle grandezze in generale: l’algebra simbolica, che si configura, nelle parole del matematico inglese George Peacock (1791-1858), come «una scienza dei simboli e delle loro combinazioni, costruite su loro proprie regole, che possono applicarsi all’aritmetica e a tutte le altre scienze per interpretazione: in questo modo l’interpretazione segue e non precede le operazioni dell’algebra e i loro risultati». In altri termini, le leggi del calcolo algebrico astratto non descrivono un determinato sistema di oggetti con le loro caratteristiche (come per esempio i numeri nel caso del calcolo aritmetico), ma precedono i sistemi di interpretazione, o modelli del calcolo, logicamente possibili.

L’algebra non commutativa di Hamilton Una volta svincolata dalle sue possibili interpretazioni, l’algebra simbolica può avere sviluppi radicali e inaspettati. Particolarmente significativo è quello rappresentato dall’elaborazione, da parte del matematico e fisico britannico William Rowan Hamilton (1805-1865), del primo esempio di algebra non commutativa, cioè di un’algebra in cui non vale la proprietà commutativa della moltiplicazione (la proprietà, fondamentale per l’arit-

metica, per cui il risultato di un prodotto non cambia se si inverte l’ordine dei fattori). Questo risultato, ottenuto da Hamilton utilizzando nuovi enti matematici che egli chiama quaternioni (in quanto implicano una quarta dimensione spaziale), segna una svolta nella ricerca algebrica: l’esistenza di un’algebra così radicalmente diversa da quella dell’aritmetica apre infatti la strada alla costruzione di ulteriori sistemi algebrici fino ad allora inconcepibili.

Il configurarsi dell’algebra sempre più come studio delle proprietà delle operazioni in senso astratto, indipendentemente dalla natura degli oggetti su cui queste operazioni agiscono, è ciò che permette la matematizzazione della logica e quindi la nascita della logica moderna. Sganciandosi progressivamente dagli aspetti quantitativi, l’algebra può infatti trattare di operazioni non più solo tra numeri o grandezze, ma anche tra enti del tutto diversi, come le proposizioni (collegate tra loro da operazioni quali la congiunzione, la disgiunzione e l’implicazione). Per esempio: nell’uguaglianza a + b = b + a, i simboli a e b possono essere interpretati come numeri e il simbolo + come l’operazione di addizione (l’uguaglianza delle due espressioni esprime, allora, la proprietà commutativa dell’addizione); ma è possibile anche interpretare i simboli a e b come proposizioni, il simbolo + come l’operazione di disgiunzione «o», il simbolo = come il connettivo logico «se e solo se». Anche questa interpretazione rende infatti vera l’uguaglianza. L’algebra della logica Lo sviluppo di un calcolo algebrico per le operazioni tra proposizioni, tradizioe l’opera di Boole nalmente studiate nell’ambito della logica, si deve essenzialmente all’opera dell’inglese George Boole. L’espressione «algebra della logica» (logical algebra) è del matematico inglese Augustus De Morgan (1806-1871), autore di una prima trattazione algebrica delle relazioni tra proposizioni. Ma il vero fondatore dell’algebra della logica è Boole, il cui calcolo simbolico (poi noto come calcolo booleano) apre la strada allo sviluppo della moderna logica formale (vedi Unità 15, p. 646 ss.). Algebra e logica

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La vita e le opere George Boole nacque a Lincoln in Inghilterra il 2 novembre 1815. Si occupò in età giovanile di matematica, di cui approfondì lo studio da autodidatta, e in particolare di algebra. Dopo aver ottenuto risultati di rilievo e averli pubblicati grazie anche all’incoraggiamento del curatore del «Cambridge Mathematical Journal», ottenne una medaglia della Royal Society e poi, dal 1849, la cattedra di matematica al Queen’s College di Cork, in Irlanda, in cui svolse tutta la sua carriera accademica.

Il suo contributo principale alla scienza moderna fu la creazione dell’algebra della logica, alla base della logica moderna e del lavoro teorico su cui in seguito si sarebbe fondata la logica dei circuiti elettronici digitali. La sua opera, finalizzata anche all’indagine delle leggi del pensiero, ha avuto un impatto rilevante anche sulla filosofia, soprattutto in relazione alla filosofia del linguaggio. Morì a Ballintemple l’8 dicembre 1864. Il testo fondamentale di Boole è Indagine sulle leggi del pensiero su cui sono fondate le teorie matematiche della logica e della probabilità (1854).

In Boole, tuttavia, il referente oggettivo del calcolo algebrico non è del tutto soppresso: inizialmente mosso solo dall’intento di «rivendicare per il Calcolo della Logica un posto in mezzo alle forme riconosciute dell’Analisi Matematica», nel suo capolavoro del 1854, dal significativo titolo Indagine sulle leggi del pensiero su cui sono fondate le teorie matematiche della logica e della probabilità, Boole arriva a concepire il suo calcolo come una descrizione delle stesse leggi del pensiero. Come dichiara nelle prime pagine, il suo scopo è proprio quello:

T2

Il calcolo booleano

G. Boole, Indagine sulle leggi del pensiero

[…] d’indagare le leggi fondamentali di quelle operazioni della mente per mezzo delle quali si attua il ragionamento; di dar loro espressione nel linguaggio simbolico di un calcolo e d’istituire, su questo fondamento, la scienza della logica costruendone il metodo.

L’algebra delle proposizioni

Simboli = proposizioni

Operazioni = operazioni logiche

Leggi del calcolo = leggi logiche

Logica Interpretazione Concependo l’algebra come scienza astratta del calcolo, si può creare un calcolo delle proposizioni ossia una ricostruzione algebrica della logica, che si svolge prima di ogni interpretazione dei simboli e quindi prescindendo dagli oggetti a cui essi si riferiscono.

4 I concetti dell’analisi

Il problema del continuo e l’aritmetizzazione dell’analisi La critica del ricorso all’intuizione per fondare il sapere matematico investe anche l’analisi: ossia la disciplina matematica che si sviluppa a partire dal calcolo differenziale e integrale (o calcolo infinitesimale) di Leibniz e Newton e che è intesa, in generale, come lo studio delle funzioni e delle loro variazioni. L’esigenza di rigore che si afferma sempre più nell’ambito della matematica ottocentesca si concretizza, per quanto riguarda l’analisi, nella ricerca di una determinazione soddisfacente dei concetti fondamentali di questa disciplina: come quelli di limite, convergenza, derivata e integrale. 391

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Alla radice del problema della determinazione di questi concetti, e in generale del fondamento del calcolo infinitesimale, è la definizione della nozione di continuità. Come notava il matematico tedesco Richard Dedekind nel suo scritto Continuità e numeri irrazionali, spesso si diceva che il calcolo si occupa di grandezze continue ma senza definire questa ‘continuità’; quando la si definiva, era per lo più facendo ricorso a rappresentazioni di tipo geometrico (e quindi, in ultima istanza, all’intuizione geometrica). Il problema era dunque quello di una fondazione rigorosa e non geometrica del concetto di grandezza continua. I tentativi La soluzione proposta, a opera soprattutto di tre matematici tedeschi, Karl Weierdi aritmetizzazione strass (1815-1897), Georg Cantor (1845-1918) e lo stesso Dedekind, è quella di dell’analisi una sistematica riduzione dei concetti analitici a concetti numerici, nota come aritmetizzazione dell’analisi. L’idea di fondo è che il concetto di numero possa costituire il fondamento adeguato in quanto ritenuto «del tutto indipendente dalle nozioni ed intuizioni dello spazio e del tempo, […] un’emanazione immediata delle leggi del pensiero». Nelle parole di Dedekind: Il problema delle grandezze continue

T3

I numeri come creazioni

R. Dedekind, Che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i numeri?

[…] i numeri sono libere creazioni della mente umana; servono quale strumento per apprendere con maggiore facilità e precisione le differenze fra le cose. Solo con la costruzione meramente logica della scienza dei numeri, e con la susseguente acquisizione del dominio numerico continuo, ci troviamo sufficientemente preparati a indagare le nostre nozioni di spazio e di tempo, rapportandole a questo dominio numerico creatosi nella nostra mente.

La vita e le opere Julius Wilhelm Richard Dedekind nacque a Brunswick in Germania il 6 ottobre 1831. Studiò matematica prima al Collegium Carolinum di Brunswick, poi all’università di Gottinga, dove divenne allievo di Gauss e conseguì il dottorato sotto la sua supervisione. Si trasferì quindi a Berlino e ottenne l’abilitazione all’insegnamento. Dal 1858 insegnò al Politecnico di Zurigo per poi tornare a Brunswick al Collegium Carolinum che nel frattempo era stato trasformato in Scuola tecnica superiore. Là si svolse tutta la sua carriera dal 1862 al 1912. La sua Numeri naturali e numeri reali

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lunga e creativa attività di ricerca fu dedicata alla teoria dei numeri e in particolare alle ricerche sulla definizione dei numeri reali. Dedekind conobbe Cantor nel 1874 e fu il primo a riconoscere la validità dei suoi studi sugli insiemi infiniti, dandogli un supporto fondamentale. Tra le sue opere principali si ricordano: Stetigkeit und irrationale Zahlen («Continuità e numeri irrazionali») del 1872 e soprattutto Was sind und was sollen die Zahlen? («Che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i numeri?») del 1888 in cui propone la sua definizione del continuo e un’assiomatizzazione dell’aritmetica. Morì a Brunswick il 12 febbraio 1916.

I numeri a cui si riferisce Dedekind e ai quali viene ricondotta tutta l’analisi sono i cosiddetti numeri naturali (i numeri interi positivi). A partire da questi vengono creati tutti gli altri numeri reali: lo zero, i numeri negativi, frazionari (razionali), irrazionali (che non possono essere scritti sotto forma di frazione). Questo programma viene messo in atto essenzialmente attraverso la realizzazione di un modello ‘aritmetizzato’ della retta, l’ente geometrico tradizionalmente usato come rappresentazione intuitiva del continuo. Partendo dalla constatazione che alla retta si attribuisce «assenza di lacune o continuità», si tratta di trovare in che cosa consista propriamente questa proprietà di continuità, per poter fondare su di essa «l’indagine di tutti i domini continui». «Con vaghe osservazioni sulla connessione ininterrotta nelle parti più piccole non si guadagna niente», osserva Dedekind, che propone invece la seguente soluzione al problema della continuità:

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T4

Il principio di continuità di Dedekind

R. Dedekind, Continuità e numeri irrazionali

Io trovo l’essenza della continuità nel seguente [principio]: si ripartiscano tutti i punti della retta in due classi, in modo tale che ogni punto della prima classe giaccia a sinistra di ogni punto della seconda; allora esiste uno ed un solo punto che produce la ripartizione di tutti i punti in due classi, la suddivisione della retta in due parti.

Un principio equivalente a questo assioma di continuità di Dedekind viene formulato contemporaneamente anche da Cantor. Nella trattazione del problema della continuità da parte sia di Dedekind sia di Cantor gioca un ruolo fondamentale la nozione di collezione infinita di punti, e a questo ruolo è associata, in entrambi, una determinata concezione dell’infinito: come infinito compiuto in sé (infinito attuale), invece che come grandezza variabile che cresce oltre ogni limite (infinito potenziale). La teoria degli insiemi Tale concezione è, in particolare, alla base degli studi di Cantor sugli insiemi ine la teoria dei numeri finiti di punti, da cui poi si sviluppa la sua teoria degli insiemi e, ad essa strettatransfiniti di Cantor mente collegata, la sua aritmetica dei numeri transfiniti, che è essenzialmente una teoria matematica dell’infinito attuale (o «transfinito»). Cantor introduce i numeri transfiniti in due modi distinti (ponendo così il problema, ancora oggi aperto, dei rapporti tra la gerarchia dei numeri transfiniti ottenuti nel primo modo, detti numeri ordinali transfiniti, e la gerarchia dei numeri transfiniti ottenuti nel secondo modo, detti numeri cardinali transfiniti). Sui numeri cardinali transfiniti è basata la sua ipotesi del continuo, cioè l’ipotesi che non ci siano numeri transfiniti com➥ Sommario, p. 426 presi tra il cardinale dei numeri naturali e il cardinale dei numeri reali. L’infinito attuale

Cantor: la teoria dei numeri transfiniti e l’ipotesi del continuo Il primo modo in cui Cantor introduce i numeri transfiniti è il seguente: è possibile generare, mediante la ripetuta addizione dell’unità, l’intero insieme dei numeri naturali; la successione numerica così determinata non possiede un numero massimo, ma è legittimo concepire un nuovo numero ω, il primo numero (ordinale) transfinito, che è il maggiore di tutti i numeri naturali così generati (e il più piccolo con tale proprietà), e di fatto ne indica l’insieme. Ripetendo il procedimento di passaggio al successore, si ottengono nuovi numeri ω + 1, ω + 2 ecc., e di nuovo si può concepire un numero ω x 2 ( = ω + ω), che ne denoti l’insieme e sia il più piccolo numero maggiore di tutti quelli così generati; e così via. Quello che Cantor ottiene in tal modo è una successione di numeri transfiniti, sulla quale istituisce una vera e propria aritmetica (con operazioni di somma e prodotto tra i numeri transfiniti che, però, non sono commutative, a differenza di quanto succede per le somme e i prodotti dell’aritmetica ordinaria). Il secondo modo di generare i numeri transfiniti proposto da Cantor si basa su una nozione fondamentale della sua teoria degli insiemi: quella di potenza o numero cardinale di un insieme. Un insieme è definito da Cantor come «una qualunque collezione M di oggetti m riuniti in un tutto, determinati e ben distinti, della nostra intuizione o del nostro pensiero». Due insiemi hanno allora la stessa potenza (sono equipotenti), e quindi hanno lo stesso numero cardinale, se si può stabilire una corrispondenza biunivoca tra i loro elementi. Questo permette, in particolare, di con-

frontare tra loro diverse ‘infinità’, come per esempio gli insiemi infiniti di punti rappresentati, rispettivamente, da una superficie e da una retta (che Cantor dimostra essere equipotenti, al contrario di quello che porterebbe a pensare l’intuizione). A tale punto Cantor raggiunge un risultato fondamentale. Scopre che è possibile generalizzare a insiemi arbitrari, e quindi anche infiniti, il seguente fatto: partendo da un insieme I di n elementi (per esempio un insieme composto da 10 oggetti), l’insieme delle parti (o sottoinsiemi) che si possono formare a partire dall’insieme I risulta essere molto più grande dell’insieme I (per la precisione: risulta avere 2n elementi; se l’insieme di partenza ha 10 elementi, l’insieme formato dalle sue ‘parti’ ha quindi 210, cioè 1024, elementi). Considerando gli insiemi delle parti di insiemi che sono infiniti, Cantor ottiene una gerarchia illimitata di nuovi numeri infiniti, i cardinali transfiniti. Il primo è il numero cardinale dell’insieme dei numeri naturali, chiamato ℵo (aleph-zero) dalla prima lettera dell’alfabeto ebraico. Il secondo, che coincide con l’insieme delle parti dell’insieme di numeri naturali ed è quindi indicato con 2ℵo, rappresenta il numero cardinale dell’insieme dei numeri reali, detto anche numero cardinale del continuo (i numeri reali corrispondono ai punti di una retta, e questi costituiscono, secondo l’assioma di continuità, un insieme continuo). È a questo punto che Cantor formula la sua ipotesi sul continuo: l’ipotesi che l’immediato successore transfinito del cardinale ℵo sia proprio il cardinale del continuo 2ℵo (cioè che non ci siano numeri transfiniti compresi tra il cardinale dei numeri naturali e il cardinale dei numeri reali).

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Il dibattito sui fondamenti della matematica

3 I testi

G. Frege I fondamenti dell’aritmetica: Senso e denotazione, T5

1 Il tentativo di ‘logicizzare’ l’aritmetica

Il riduzionismo di Frege e l’antinomia di Russell Il processo di riduzione messo in atto nel programma di aritmetizzazione dell’analisi viene ulteriormente portato avanti dal matematico e logico tedesco Gottlob Frege. Mentre Weierstrass, Dedekind e Cantor si fermano al concetto di numero naturale, Frege aspira a una fondazione razionale definitiva dell’aritmetica, dove il concetto di numero naturale è esso stesso ‘ridotto’, e questo nei termini di una combinazione di concetti puramente logici (da cui il nome di logicizzazione dell’aritmetica dato a questa fase del riduzionismo matematico).

La vita e le opere Friedrich Ludwig Gottlob Frege nacque a Wismar in Germania l’8 novembre 1848. Studiò nelle università di Jena e Gottinga, dove ottenne il dottorato in matematica nel 1873. L’anno successivo conseguì l’abilitazione all’insegnamento universitario all’università di Jena, dove poi svolse tutta la sua carriera accademica. Al centro dell’opera di Frege fu il problema dei fondamenti della matematica, ma le sue ricerche ebbero un rilievo molto più generale nella logica e nella filosofia del linguaggio. Nel Novecento è stato considerato un padre della filosofia analitica. Frege fu il fondatore della logica moderna con la creazione di un linguaggio formale per il calcolo delle proposizioni, la sua «ideografia» (Begriffschrift), inaugurando un approccio alla logica che fu poi ripreso e ‘canonizzato’ da Russell e Whitehead nei Principia Mathematica (1910-1913). Nelle ricerche sui fondamenti della matematica Frege fu il capostipite del «logicismo» con il suo tentativo di ridurre l’aritmetica alla logica, che però

La teoria del significato di Frege

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naufragò di fronte ai paradossi di Russell e Whitehead. La teoria del significato elaborata da Frege ha implicazioni che vanno al di là del linguaggio della matematica (che restò sempre il suo fulcro d’interesse) e dette luogo a una vera e propria filosofia del linguaggio, che fu il modello o il punto di riferimento polemico delle successive teorizzazioni dei filosofi analitici. Frege non riuscì a raggiungere i risultati che avrebbe desiderato nella fondazione della matematica a cui dedicò tutta la vita, ma risultò una figura centrale del dibattito filosofico e scientifico della sua epoca. Morì a Bad Kleinen il 26 luglio 1925. Tra le sue opere principali si ricordano: Begriffsschrift («Ideografia», 1879), Die Grundlagen der Arithmetik («I fondamenti dell’aritmetica», 1884), Grundgesetze der Arithmetik («La legge fondamentale dell’aritmetica», due volumi, 1893 e 1903), oltre a una serie di articoli fondamentali tra cui Funktion und Begriff («Funzione e concetto», 1891), Über Sinn und Bedeutung («Senso e denotazione», 1892), Der Gedanke («Il pensiero», 1918-1919).

Nella realizzazione di questo programma, Frege costruisce una buona parte di quella che poi è diventata nota come «logica dei predicati», sviluppando inoltre una vera e propria teoria del significato, centrata sulla distinzione tra senso e denotazione: cioè la distinzione tra l’aspetto intensionale (relativo al contenuto conoscitivo) e l’aspetto estensionale (relativo al riferimento concreto) delle

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espressioni. Nel caso del numero quattro, per esempio, questa distinzione tra il piano dei segni (indicati tra virgolette), il piano del concetto espresso (intensione o senso) e il piano del riferimento (estensione o significato) è illustrata nel seguente modo:

T5

Senso e denotazione

G. Frege, I fondamenti dell’aritmetica

Il principio di comprensione

La definizione di numero di Frege

La critica di Russell a Frege

L’antinomia di Russell

Chiamo il numero quattro la denotazione di ‘4’ e di ‘22’ […]. Distinguo però dalla denotazione di un nome il suo senso. ‘22’ e ‘2 + 2’ non hanno lo stesso senso, mentre ‘22 = 4’ e ‘2 + 2 = 4’ hanno ancora lo stesso senso. […] Dico che un nome esprime il suo senso e indica la sua denotazione. Sulla teoria fregeana del significato sono fondate, in particolare, le sue nozioni di funzione e concetto, che hanno un ruolo fondamentale nel programma di riduzione logica del concetto di numero. Un punto cruciale implicato dalla «teoria delle funzioni» (e dei concetti, visti come casi particolari di funzioni) elaborata da Frege è il cosiddetto «principio di comprensione», per cui a ogni proprietà o concetto è associata la rispettiva ‘estensione’, cioè l’insieme degli oggetti che godono di quella proprietà o cadono sotto quel concetto (Frege non usa il termine «insieme», ma quello di «classe»: qui, per semplicità, adoperiamo sempre il termine «insieme»). Grazie a tale principio Frege può arrivare alla definizione di numero come estensione di un opportuno concetto. Si tratta del concetto di «equinumerosità», che è così definito: due insiemi sono equinumerosi, cioè hanno lo stesso numero di oggetti, se i loro elementi possono essere messi in corrispondenza biunivoca. Con tale trattazione estensionale, Frege raggiunge dunque un doppio scopo: da una parte, la possibilità di usare ingredienti solo logici nella definizione di numero; dall’altra parte, la possibilità di garantire l’esistenza degli enti matematici, inclusi quelli infiniti (assegnare un’estensione a un concetto equivale a garantire l’esistenza di oggetti che cadono sotto di esso). Ma è davvero lecito passare da un concetto alla sua estensione? E dal fatto che l’estensione di un concetto coincide con quella di un altro concetto, si può sempre concludere che ogni oggetto che cade sotto il primo concetto cade anche sotto il secondo concetto? Queste domande, sollevate nel 1902 da Russell con un argomento divenuto molto famoso e noto come l’«antinomia di Russell», mettono in evidenza come proprio nel principio di comprensione, uno dei pilastri su cui si basa il programma logicista di Frege, si annidi il problema che ne rivela l’insostenibilità. L’argomento di Russell è centrato sul concetto di insieme che non appartiene a se stesso. L’estensione di questo concetto è, secondo la definizione di Frege, l’insieme I degli ‘insiemi che non appartengono a se stessi’. Russell pone allora la seguente domanda: questo insieme I appartiene a se stesso? Entrambe le risposte (sì / no) conducono a una contraddizione: 1) nel caso in cui si risponda di sì, l’insieme I deve cadere sotto il concetto la cui estensione è l’insieme in esame, e quindi non appartiene a se stesso: in altre parole, se l’insieme I appartiene a se stesso, allora è un insieme che non appartiene a se stesso; 2) nel caso in cui si risponda di no, l’insieme I cade sotto il concetto di cui rappresenta esso stesso l’estensione, e quindi appartiene a se stesso: in altre parole, se l’insieme I non appartiene a se stesso, allora è un insieme che appartiene a se stesso. 395

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Il sistema logico di Frege e l’antinomia di Russell

Sistema di Frege Teoria del significato: distinzione tra ‘senso’ (intensione) e ‘denotazione’ (estensione)

Principio di comprensione: a ogni proprietà (concetto) è associata la sua estensione

Porta all’antinomia di Russell

Definizioni di ‘funzione’ e ‘concetto’

Teoria delle funzioni

Definizione di numero

La crisi dei fondamenti

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L’effetto dell’antinomia di Russell sul suo programma logicista è così commentato da Frege: «A uno scrittore di scienza ben poco può giungere più sgradito del fatto che, dopo aver completato un lavoro, venga scosso uno dei fondamenti della sua costruzione». La contraddizione messa in evidenza dall’antinomia di Russell, alla quale se ne affiancheranno nel giro di poco tempo varie altre, segna simbolicamente l’avvio della cosiddetta «crisi dei fondamenti» nella riflessione sulla matematica dell’inizio del Novecento. Una crisi feconda di sviluppi, che si concentrano in particolare in tre tipi di programmi fondazionali che vengono elaborati per superarla: il logicismo, l’intuizionismo e il formalismo.

Il logicismo

Russell, per quanto autore della scoperta del carattere contraddittorio del sistema generale di logica proposto da Frege, non rinuncia al programma logicista. Anzi, mentre Frege si era limitato al tentativo di ridurre alla logica la teoria dei numeri, Russell mette in campo un progetto di ricostruzione globale della matematica secondo i principi della logica, i cui risultati sono presentati nell’opera in tre volumi Principia Mathematica frutto della collaborazione con il matematico, logico e filosofo inglese Alfred North Whitehead (1861-1947), apparsa tra il 1910 e il 1913. Concezione descrittiva Per arrivare al suo obiettivo, Russell intraprende la ricerca di un sistema altere concezione costitutiva nativo di logica in grado di evitare la contraddizione messa da lui in evidenza. In della matematica tale percorso, che lo porta ad approfondire le cause della sua antinomia e di altre contraddizioni via via emerse, Russell entra in contatto con un problema che diventerà oggetto centrale di discussione della filosofia della matematica del Novecento: il problema della esistenza degli enti matematici. Che senso attribuiscono i matematici a espressioni come «esiste un numero (un insieme ecc.) che gode di una data proprietà»? L’ente matematico considerato esiste indipendentemente dai metodi con cui è individuato (concezione realistica o platonica degli enti matematici), oppure non ha senso separare l’asserzione di esistenza dai moIl programma logicista dei Principia Mathematica

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L’autoriferimento alla radice delle antinomie

Autoriferimento e concezione costitutiva della matematica

Il «principio del circolo vizioso»

La teoria dei tipi di Russell

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di effettivi mediante i quali lo si determina? La questione ruota, in definitiva, intorno al contrasto tra una concezione descrittiva e una concezione costitutiva della matematica: da una parte gli enti matematici e le loro proprietà sono considerati come dati indipendentemente dalla nostra attività razionale, dall’altra parte sono visti come il risultato di atti costitutivi di questa attività. La questione è dunque strettamente collegata al modo in cui si definisce un ente matematico, ed è proprio questo che Russell identifica come il punto cruciale alla radice delle antinomie. In ognuna delle antinomie viene infatti usato un procedimento definitorio tale che, nella definizione di un ente, viene fatto riferimento a totalità alle quali l’ente appartiene (per cui Russell parla di «autoriferimento» come caratteristica comune delle antinomie esaminate). Secondo la terminologia introdotta da Poincaré questo tipo di definizioni sono chiamate «impredicative», mentre sono chiamate «predicative» le definizioni che non fanno riferimento alla totalità a cui l’ente da definire appartiene. Le definizioni impredicative rappresentano un particolare problema se si adotta una concezione costitutiva della matematica. Ne consegue infatti che nel momento in cui si costituisce un ente, attraverso la sua definizione, si fa già riferimento a qualcosa (la totalità a cui l’ente appartiene) che ancora non è stato costituito (dal momento che tale ente deve ancora essere definito). La soluzione proposta da Russell è di evitare le definizioni impredicative e le relative fallacie dell’autoriferimento ricorrendo a un processo di costituzione ‘dal basso’ dei concetti, in accordo con quello che chiama «principio del circolo vizioso»: cioè il principio per cui «nessuna totalità può contenere elementi definiti in termini di se stessa». Il modo per realizzare questo intento è d’introdurre una gerarchia di livelli o tipi. Il risultato è l’elaborazione di un nuovo sistema logico noto come «teoria ramificata dei tipi», in cui gli enti logici vengono organizzati secondo una disposizione gerarchica di tipi via via crescenti, dagli enti logicamente più semplici a quelli più complessi, definiti facendo riferimento solo a enti già definiti. Il problema del sistema logico che Russell ottiene in questo modo sta nella sua debolezza: dal rifiuto delle definizioni impredicative seguono delle limitazioni eccessive alla matematica costruibile sulla base di tale logica. Russell tenta di rimediare introducendo nuovi assiomi, che però sono ‘estranei’ allo spirito di partenza e alla fine ne violano proprio l’istanza predicativa.

L’intuizionismo di Brouwer

Il rifiuto delle definizioni impredicative caratterizza anche la posizione di Poincaré, nota come «predicativismo», nel dibattito sui fondamenti della matematica. Ma mentre Russell cerca un difficile compromesso tra l’ideale predicativista (legato a una concezione costitutiva della matematica) e i motivi di fondo del programma logicista di Frege (legato a una concezione descrittiva della matematica), il predicativismo di Poincaré si focalizza sul processo costitutivo degli enti matematici, e rivendica il carattere primitivo (e quindi non riducibile alla logica) del concetto di numero naturale. L’«intuizionismo» come Una posizione ancora più radicale in direzione ‘costruttivista’ è quella rapprecostruttivismo radicale sentata dal cosiddetto «intuizionismo», proposto nel 1907 dall’olandese LuitIl «predicativismo» di Poincaré

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zen Egbertus Jan Brouwer. Mentre Poincaré esercita la sua critica al logicismo da un punto di vista essenzialmente linguistico-formale, concentrandosi sul problema creato dalle definizioni impredicative, per Brouwer l’attività matematica è essenzialmente mentale, e l’atto di costruzione matematica non deve essere confuso con la definizione, che appartiene al piano del linguaggio matematico. Gli oggetti matematici Gli oggetti matematici sono frutto unicamente di atti mentali o costruzioni, e il come costruzioni linguaggio (con le sue definizioni) diventa solo un mezzo per comunicare gli atti mentali del soggetto matematico. Ma su cosa sono basati questi atti mentali? Alla loro radice, per Brouwer, sta un’«unica e fondamentale intuizione a priori»: «La matematica è creata da una libera azione, indipendente dall’esperienza; si sviluppa da un’unica e fondamentale intuizione a priori, che può essere chiamata invarianza nel cambiamento come pure unità nel molteplice».

La vita e le opere Luitzen Egbertus Jan Brouwer nacque a Overschie in Olanda nel 1881. Dopo gli studi all’università di Amsterdam dove conseguì il dottorato in matematica nel 1904, a partire dal 1907 iniziò la lunga elaborazione della matematica intuizionista e dal 1909 si dedicò all’insegnamento universitario e all’attività di ricerca, entrando a far parte tra l’altro dei comitati di redazione di varie riviste scientifiche. Fondò un nuovo tipo di matematica basato sui suoi

Il rifiuto dell’infinito attuale

L’intuizionismo e l’analisi matematica

La ricezione dell’intuizionismo

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principi intuizionisti, si occupò di geometria e di topologia, ma soprattutto dei fondamenti della matematica, avversando il formalismo e riconducendo intuizionisticamente la matematica ad atti mentali. Morì il 2 dicembre 1966 a Blaricum in Olanda. Oltre ai molti articoli scientifici poi raccolti in traduzione inglese nei due volumi postumi dei Collected Works («Opere», 1975-1976), si ricorda come testimonianza del punto di vista filosofico di Brouwer il libro giovanile Leven, Kunst en Mystiek («Vita, arte e misticismo», 1905).

In una simile concezione, l’esistenza di un ente matematico può significare solo una sua avvenuta costituzione. L’infinito attuale, che Cantor aveva posto alla base della sua teoria dei transfiniti, è dunque un non-senso per Brouwer: in quanto, essendo considerato come ‘dato’ non si può presupporre per esso un processo di costruzione. Questo significa, in particolare, che non è legittimo secondo Brouwer estrapolare certe leggi della logica, valide su domini finiti, ed estenderle a domini infiniti, considerandole in tal modo valide a priori. L’esempio più significativo è rappresentato dal principio del terzo escluso, ovvero il principio, fondamentale nella logica classica, per cui ogni ente matematico gode o non gode di una determinata proprietà. Il principio è valido su domini finiti, come si può verificare; ma se estrapolato ed esteso a domini infiniti comporta che le proprietà degli enti matematici siano determinate una volta per tutte, indipendentemente dalle nostre costruzioni mentali. La matematica intuizionista rifiuta dunque sia la logica classica sia il modello aritmetizzato del continuo di Cantor e di Dedekind. Gli strumenti usati in precedenza dall’analisi e dalla teoria degli insiemi sono semplicemente sbagliati per Brouwer, il cui obiettivo diventa quindi quello di ricostruire del tutto l’analisi, a partire da una nuova teoria ‘intuizionista’ del continuo. Il programma rigorosamente costruttivista sostenuto da Brouwer e dai suoi discepoli ha conosciuto fortune alterne, fino a essere oggi di nuovo al centro dell’attenzione in diversi settori della logica e della filosofia della matematica.

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4 Formalizzazione e fondazione

Il formalismo di Hilbert e i teoremi di Gödel Una risposta diversa dal logicismo e dal costruttivismo ai problemi emersi nei fondamenti della matematica è quella del programma formalistico del matematico tedesco David Hilbert. L’idea di base è che i metodi e concetti che non sono affidabili dal punto di vista intuitivo (come per esempio quelli che coinvolgono l’infinito attuale) non vadano esclusi ma ‘fondati’, e che questo sia possibile attraverso una completa e accurata formalizzazione delle teorie matematiche, sulla base del metodo assiomatico.

La vita e le opere David Hilbert nacque a Königsberg in Prussia il 23 gennaio 1862. Dopo aver studiato al Collegium fridericianum (la stessa scuola dove, oltre un secolo prima, si era formato il suo concittadino Immanuel Kant) e al Wilhelms-Gymnasium, Hilbert si diede allo studio della matematica all’università di Königsberg dove ottenne il dottorato nel 1885. Poi si dedicò alla docenza universitaria nella sua città fino al 1895 quando passò alla prestigiosa università di Gottinga dove restò a insegnare fino al pensionamento avvenuto nel 1930. Hilbert fu una figura molto popolare e rispettata tra i matematici della sua epoca; fu direttore di un’importante rivista scientifica, ebbe allievi di grande talento nonché, tra i suoi collaboratori quello che sarebbe diventato uno dei padri del computer, John von Neumann (1903-1957). Una teoria è giustificata se è non contraddittoria

L’esplicitazione delle regole di deduzione

Il programma di formalizzazione dell’aritmetica

Dette importanti contributi all’analisi e alla fisica, campo in cui, tra l’altro, ebbe un fruttuoso scambio di idee con Einstein circa la forma delle equazioni della teoria della relatività generale. Al centro di gran parte della sua attività scientifica ci furono le ricerche sui fondamenti della matematica, con l’elaborazione, la promozione e i tentativi di realizzazione del programma ‘formalistico’, che ebbe una brusca battuta d’arresto con i teoremi limitativi di Gödel (1931). Hilbert morì a Gottinga, il 14 febbraio 1943. Tra le sue opere, oltre all’intervento al Secondo congresso internazionale di matematica (Parigi, 1900) intitolato Mathematische Probleme («Problemi matematici») e i numerosi articoli specialistici, si segnala il volume sull’assiomatizzazione della geometria Grundlagen der Geometrie («Fondamenti della geometria», 1899).

Abbiamo visto come gli sviluppi della geometria e dell’algebra nell’Ottocento abbiano condotto a un progressivo dissolversi della funzione fondante dell’intuizione per gli assiomi delle teorie matematiche. Questo porta, nella concezione assiomatica, a cercare altrove la giustificazione degli assiomi usati, e in particolare nella loro non contraddittorietà (o consistenza). Hilbert scrive in proposito nel 1900: «Ma vorrei soprattutto indicare la seguente come la più importante tra le numerose questioni che possono venir sollevate intorno agli assiomi: dimostrare che essi sono non contraddittori, cioè che un numero finito di passaggi logici basati su di essi non può mai condurre a risultati contraddittori». Con la scoperta delle antinomie si pone l’esigenza di garantire il sistema assiomatico non solo da eventuali contraddizioni degli assiomi matematici, ma anche dalle contraddizioni che possono essere introdotte dall’apparato logico deduttivo. Da qui il programma formalista hilbertiano di una rigorosa esplicitazione di tutti i meccanismi logici e linguistici delle teorie, che – come si legge nel seguente testo – a partire dagli anni venti del Novecento si configura come una vera e propria teoria delle teorie matematiche, la «metamatematica»: «[…] a questa matematica propriamente detta si aggiunge una nuova matematica, una metamatematica che serve alla sicurezza di quella in quanto la preserva dal terrore di proibizioni non necessarie, nonché dalla inevitabilità dei paradossi». Il compito principale della metamatematica è dunque quello di fornire dimostrazioni di consistenza per le singole teorie matematiche, e prima di tutto, per l’aritmetica, a partire dalla loro completa formalizzazione. Ma questo programma 399

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viene bloccato da una scoperta che ha un effetto dirompente nel dibattito sui fondamenti della matematica, segnando una seconda svolta cruciale dopo quella della scoperta delle antinomie. Logicismo, intuizionismo e formalismo

La dimostrazione d’incompletezza di Gödel

Logicismo

La matematica è riconducibile alla logica

Intuizionismo

La matematica è frutto di una costruzione a partire da un’unica intuizione

Formalismo

La matematica è un sistema assiomatico valido a prescindere dall’interpretazione (non contraddittorio)

Si tratta della scoperta nel 1931 da parte dell’austriaco Kurt Gödel del fenomeno dell’incompletezza dei sistemi formali (dove con «sistema formale» s’intendono le teorie assiomatiche formalizzate nel senso hilbertiano). La completezza di una teoria formale riguarda la seguente proprietà: se la teoria sia in grado di dimostrare o refutare ogni sua proposizione (dove «refutare una proposizione» significa dimostrare la sua negazione). Da questo punto di vista la prima questione, sollevata da Hilbert nell’ambito del suo programma formalistico, era quella della completezza della teoria più elementare, l’aritmetica, nella versione assiomatica dovuta al matematico torinese Giuseppe Peano (1858-1932). La questione posta da Hilbert era quindi se gli assiomi di Peano della teoria elementare dei numeri fossero in grado di dimostrare o refutare ogni proposizione della teoria.

La vita e le opere Kurt Gödel nacque a Brno, nel territorio dell’attuale Repubblica ceca il 28 aprile 1906 da una famiglia di lingua tedesca. Studiò matematica e filosofia all’università di Vienna. Dopo aver conosciuto gli sviluppi più recenti della filosofia della matematica (Hilbert, Russell) ed essere entrato in contatto con i filosofi del Circolo di Vienna, si dedicò totalmente allo studio dei problemi di logica matematica ottenendo fin dall’inizio risultati eccezionali. Nel 1931, a soli venticinque anni, ottenne il suo risultato più eclatante, il teorema d’incompletezza dell’aritmetica. I due teoremi di Gödel

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Fondamenti della matematica

Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania e l’inizio della Seconda guerra mondiale, Gödel si trasferì negli Stati Uniti – dove aveva già viaggiato e aveva conosciuto Einstein. Si stabilì a Princeton (New Jersey) dove lavorò nel prestigioso Institute for Advanced Study per tutto il resto della vita. Diventò cittadino americano nel 1948. Afflitto da problemi psicologici, finì per lasciarsi morire d’inedia nel 1978. Gödel non ha scritto libri, ma una serie di fondamentali e altamente influenti articoli scientifici, raccolti insieme a tutti gli altri scritti (compresa la corrispondenza) nei quattro volumi postumi dei Collected Works («Opere», 1986-2003).

Gödel dimostra non solo che la risposta alla questione di Hilbert è negativa, ma anche che non è possibile costruire un’assiomatizzazione della teoria dei numeri che goda della proprietà di completezza: in altre parole, che l’aritmetica è non

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solo incompleta, ma anche incompletabile (primo teorema di Gödel). Da questo segue poi il secondo teorema di Gödel: il teorema che stabilisce l’indimostrabilità della non contraddittorietà di un sistema formale capace di formalizzare i mezzi ammessi per tale dimostrazione. Detto in altre parole: una teoria formale è capace di esprimere, ma non di dimostrare, la propria non contraddittorietà. Le conseguenze Il secondo teorema ha come conseguenza il fallimento del programma fondaziodei risultati di Gödel nale hilbertiano. Non solo: con i due teoremi di Gödel emerge chiaramente una sostanziale irriducibilità del concetto semantico di verità a quello sintattico di dimostrazione. Risulta infatti impossibile costruire una teoria assiomatica i cui teoremi (le proposizioni dimostrate) coincidano con le proposizioni vere dell’aritmetica (altrimenti detto: non tutte le formule ‘vere’ sono ‘teoremi’ della teoria). Comunque l’effetto dei teoremi di Gödel è stato tutt’altro che unicamente negativo. Le sue scoperte hanno dato impulso a sviluppi in campo logico, matematico e filosofico di enorme portata. Basti ricordare che dai lavori di Gödel ha origine la linea di ricerca che porta al concetto di computabilità effettiva, alla base ➥ Sommario, p. 426 della teoria della computabilità e, se vogliamo, degli odierni computer. Le matematiche tra Ottocento e Novecento: protagonisti e teorie

Frege avvia le ricerche sui fondamenti della matematica con il suo tentativo di ‘logicizzazione dell’aritmetica’. Il sistema del matematico tedesco crolla a causa del paradosso scoperto dal filosofo inglese Russell, che proseguirà poi il tentativo di ricostruzione logica dell’aritmetica

Nell’Ottocento attraverso i lavori di Peacock, De Morgan e soprattutto di Boole viene creata l’algebra della logica che è alla base della creazione della logica moderna

Nei primi decenni dell’Ottocento, tre matematici, il tedesco Gauss, l’ungherese  Bolyai e il russo Lobacevskij creano indipendentemente le geometrie non euclidee. Successivamente il lavoro di Gauss viene ripreso e sviluppato dal suo allievo Riemann

Irlanda

Nasce la matematica intuizionista a opera di Brouwer. Le sue riflessioni sul concetto di infinito e sulla natura delle operazioni matematiche avranno un posto di primo piano nel dibattito sui fondamenti della matematica

Poincaré sviluppa la posizione ‘convenzionalista’ sul rapporto tra geometria e fisica Nel 1940, a seguito dell’instaurazione del regime nazista e dell’inizio della Seconda guerra mondiale, Gödel si trasferisce negli Stati Uniti, come faranno molti altri studiosi austriaci e tedeschi

Gran Bretagna Olanda

Russia Germania

Francia

Ungheria Austria

Italia

Nel tentativo di dare un fondamento più solido alla matematica, Dedekind, Weierstrass e Cantor lavorano all’aritmetizzazione dell’analisi e alla definizione delle grandezze continue («numeri reali») sulla base dei numeri naturali

Il matematico tedesco Hilbert lancia il programma formalista di dimostrazione della non contraddittorietà dell’aritmetica all’interno di un sistema assiomatico puramente formale che ne ricostruisce le leggi. Sarà Gödel nel 1931 a dimostrarne l’impossibilità

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Le premesse fisiche

4 I testi

P.-S. Laplace Saggio filosofico sulle probabilità: La formula del mondo, T6

J.C. Maxwell Gli articoli scientifici di James Clerk Maxwell: La teoria del campo elettromagnetico, T8

L. Boltzmann Entropia e probabilità, T7

La fisica classica

1

Dalla nascita della scienza moderna nel Seicento – come esito di quel processo di cambiamento scientifico e concettuale che va sotto il nome di «rivoluzione scientifica» – alle nuove rivoluzioni che caratterizzano la fisica del primo Novecento la conoscenza della natura compie notevolissimi progressi. Ma per quanto siano di grande rilevanza, oltre che fondamentali per gli sviluppi successivi, le conquiste della fisica dopo Newton e prima di Einstein non rappresentano mutamenti tali da comportare una vera e propria svolta nella concezione della realtà fisica e delle modalità con le quali essa viene investigata. Si rimane cioè nell’ambito di quella che è nota come concezione «classica» del mondo fisico, o «fisica classica». Che cosa s’intende con questa espressione? Limitiamoci per ora a precisarne il significato in opposizione a quella che è la fisica ‘non classica’, vale a dire la fisica relativistica e la fisica quantistica. Con «classica» s’intende quindi la fisica che non è, da una parte, relativistica e, dall’altra parte, quantistica. Vediamo, a grandi linee, che cosa succede nel campo della fisica dopo l’instaurazione del paradigma newtoniano e prima delle scoperte rivoluzionarie che portano alla nascita della fisica contemporanea.

Dove arriva la fisica classica

I progressi compiuti dalla fisica tra il Settecento e l’Ottocento sono di fondamentale importanza e riguardano sia l’estensione e il raffinamento dei risultati già acquisiti, sia l’esplorazione di settori ancora non indagati e la scoperta di nuovi fenomeni. La meccanica razionale Si assiste, da un lato, a ricerche che, centrate sui concetti e principi della meccanica newtoniana e guidate dalla convinzione che la matematica sia lo strumento privilegiato per conseguire una conoscenza vera della natura, hanno come fine quello di arrivare alla riduzione dell’intera fisica a un capitolo dell’analisi matematica. Si tratta del programma di formalizzazione della dinamica – promosso da fisicimatematici come gli svizzeri Leonhard Euler (1707-1783) e Daniel Bernoulli (1700-1782), l’illuminista francese d’Alembert e il torinese d’origine (ma poi a lungo vissuto in Francia) Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) – che porta all’eProgressi notevoli

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laborazione della cosiddetta «meccanica analitica» (Mécanique Analytique è il titolo del capolavoro di Lagrange del 1788) o «meccanica razionale». Ricerche empiriche Dall’altro lato, si sviluppa una linea di ricerca di natura più ‘empirica’, in cui partendo da dati sperimentali relativi a fenomeni riconducibili a forze non ancora conosciute, come quelli termici, ottici, elettrici e magnetici, si cerca di arrivare a una loro trattazione generale e di carattere matematico. In questo tipo di ricerche domina inizialmente un modello della materia come aggregato discreto di punti materiali, permeato da determinati fluidi (il «calorico», il «fluido elettrico», il «fluido magnetico») costituiti anch’essi da particelle che interagiscono mediante opportune forze, le espressioni delle quali vengono ricavate a partire dai dati empirici a disposizione. L’obiettivo che guida questi studi è, in sostanza, quello di ricondurre la descrizione e spiegazione dei fenomeni termici, elettrici e magnetici nell’ambito di una universale teoria meccanica. Laplace e il sistema Il programma di raggiungere una teoria onnicomprensiva e formulata in modo del mondo matematico di tutti i fenomeni naturali sulla base dei principi della fisica newtoniana trova il suo culmine nell’opera del grande matematico e astronomo francese Pierre-Simon de Laplace. Laplace si propone di ottenere una completa «esposizione del sistema del mondo» (come recita il titolo di un suo scritto programmatico del 1796), prendendo a paradigma il metodo seguito nell’astronomia: che non è pura empiria, bensì il metodo che consiste nell’individuare le leggi dei moti che si nascondono dietro i dati empirici che quindi si eleva ai principi più generali, dai quali poi ridiscende «al principio della completa spiegazione di tutti i fenomeni sino nei loro minimi dettagli». Il programma, alla realizzazione del quale Laplace dedica i cinque volumi della sua ponderosa Meccanica celeste, è ispirato a una concezione interamente deterministica della natura. Laplace stesso formula nel seguente modo la tesi del determinismo fisico in un passo del suo Saggio filosofico sulle probabilità del 1814:

T6

La formula del mondo

P.-S. Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità

La crisi dei modelli meccanicistici

Un’Intelligenza che, per un dato istante conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’Universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Questa idea della completa conoscibilità della natura – sulla base dei dati empirici, dei principi della meccanica e dell’applicazione dell’analisi matematica – viene messa progressivamente in difficoltà nel corso dell’Ottocento dagli sviluppi nel campo della fisica del calore, da un lato, e della fisica dell’elettricità, del magnetismo e dei fenomeni ottici, dall’altro lato. I modelli di tipo meccanicistico utilizzati diventano insufficienti, oltre che sempre più inappropriati, a spiegare i fenomeni osservati, e comincia così a entrare in crisi l’idea che essi rispecchino fedelmente la realtà. Si assiste quindi a un progressivo distacco da un’interpretazione realistica dei modelli usati e, allo stesso tempo, a una crescente formalizzazione matematica delle teorie, finalizzata anche a liberare la scienza dal ricorso a presunte sostanze imponderabili come il calorico, i fluidi elettrici e magnetici e l’etere. Vengono inoltre introdotti concetti del tutto nuovi, come quelli di energia, potenziale e campo, che porteranno a cambiamenti radicali nelle modalità, oltre che nei contenuti, della conoscenza fisica. Con l’introduzione del 403

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concetto di energia, innanzitutto, cominciano ad acquistare un ruolo sempre più centrale i principi di conservazione dell’energia, il cui significato verrà legato, nel primo Novecento, ai principi di simmetria fisici. Parallelamente, con gli sviluppi della termodinamica e della meccanica statistica, entra a far parte integrante della descrizione fisica del mondo la nozione di probabilità. Le tre tappe Di questi sviluppi ricordiamo le tre tappe più significative: la formulazione dei più significative due principi della termodinamica, la nascita della meccanica statistica, e la teoria elettromagnetica di James Clerk Maxwell.

2 L’ipotesi del «calorico»

Il problema della irreversibilità

Il calore come energia e la nascita della termodinamica

Il primo principio della termodinamica e l’impossibilità del moto perpetuo di prima specie

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I due principi della termodinamica Alla fine del Settecento, l’interpretazione egemone del calore era quella che lo identificava con un fluido imponderabile, il «calorico», che permeava la materia. L’idea del fluido giustificava in modo intuitivo la sensazione del passaggio di ‘qualcosa’ da un corpo più caldo a uno più freddo, quando questi vengano messi a contatto, fino all’uniformarsi delle loro temperature. Un po’ come quando l’acqua passa da un contenitore con un certo livello di liquido a un altro contenitore con un livello di liquido più basso fino a quando i due livelli arrivano a combaciare (secondo il «principio dei vasi comunicanti»). L’ipotesi del calorico permetteva di rendere conto di diversi fenomeni termici fino ad allora osservati, come quelli relativi alle transizioni di fase delle sostanze (trasformazioni delle sostanze nei passaggi dallo stato solido, a quello liquido e a quello gassoso) e alla dilatazione per mezzo di calore (con il conseguente uso di calorimetri o termometri basati su questo effetto). C’erano tuttavia alcuni fenomeni, come quelli connessi alla propagazione del calore, che non potevano essere spiegati in base alla fisica del calorico. Si sapeva da tempo che il calore fluiva solo in una direzione, cioè dai corpi più caldi a quelli più freddi e mai viceversa. Questa irreversibilità degli scambi di calore costituiva un serio problema per una trattazione in termini meccanici dei fenomeni termici: le leggi della meccanica erano infatti del tutto reversibili. Da dove nasceva l’irreversibilità di certi processi termici? Tuttavia, il problema maggiore per la fisica basata sul calorico, concepito come un fluido che si conserva e che quindi può essere solo trasportato ma non generato, è quello che emerge nel corso della prima metà dell’Ottocento dalle esperienze e dagli studi sulla convertibilità tra calore e lavoro meccanico. Attraverso l’opera di personaggi come il francese Sadi Carnot (1796-1832), gli inglesi James P. Joule (1818-1889) e William Thomson (1824-1907), poi diventato Lord Kelvin, e il tedesco Rudolf Clausius (1822-1888), si arriva al definitivo superamento dell’ipotesi del calorico a favore dell’interpretazione del calore come una forma di energia. Questa forma di energia ha la caratteristica di poter essere trasformata in altre forme di energia, e in particolare in lavoro meccanico. Nasce così la moderna termodinamica, basata su quelli che oggi sono conosciuti come il primo e il secondo principio della termodinamica. Il primo principio della termodinamica esprime la conservazione dell’energia negli scambi tra calore e lavoro. Il principio stabilisce che quando si fornisce una quantità di calore dQ a un corpo in virtù di una differenza di temperatura, questa va in parte ad aumentare l’energia interna U del corpo (cioè l’energia che è immagazzinata in esso, dovuta al moto e alle interazioni delle particelle che lo

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costituiscono) e in parte viene spesa per compiere lavoro su altri corpi (nel caso che la situazione presa in considerazione lo permetta). Vale cioè la relazione dQ = dU + dL

Il secondo principio della termodinamica

L’impossibilità del moto perpetuo di seconda specie

L’entropia

Ricadute filosofiche del secondo principio

3 Le proprietà macroscopiche della materia

dove si indica con dU l’aumento di energia interna e con dL il lavoro compiuto. In sostanza il primo principio nega la possibilità di creare o distruggere energia, escludendo che possa esistere il «moto perpetuo di prima specie», cioè il funzionamento continuo di una macchina che crei la propria energia. Il secondo principio della termodinamica viene enunciato, rispettivamente da Clausius e da Kelvin, nei seguenti due modi equivalenti: 1) è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di far passare del calore da un corpo più freddo a uno più caldo (enunciato di Clausius); 2) è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia assorbire calore da un’unica sorgente a una data temperatura e convertirlo completamente in lavoro (enunciato di Kelvin). Il secondo principio riguarda quindi il modo di utilizzo dell’energia, negando che possa esistere il «moto perpetuo di seconda specie»: cioè una macchina che funziona sfruttando l’energia interna di un solo serbatoio. Per esempio, se non valesse il secondo principio, sarebbe possibile guidare una nave attraverso l’oceano estraendo calore dall’acqua, o far funzionare una centrale elettrica estraendo calore dall’aria circostante. Il senso del secondo principio è chiarito da Clausius nei termini della nozione di «entropia», da lui introdotta come «il contenuto di trasformazione di un corpo». La nozione serve a caratterizzare in modo quantitativo l’idea della ‘degradazione’ dell’energia nel caso di trasformazioni che non siano reversibili (che non possono cioè essere invertite nel tempo, o, in altre parole, che non sono tali che si possa, partendo dallo stato finale, recuperare lo stato iniziale). Il significato del secondo principio è che le trasformazioni descritte nei due enunciati non possano avvenire nel mondo reale proprio a causa della degradazione dell’energia, che corrisponde di fatto a un aumento dell’entropia del sistema considerato (quando questo sia isolato). L’idea è che l’entropia di un sistema isolato vada di fatto continuamente aumentando, fino a raggiungere il valore massimo compatibile con le caratteristiche del sistema, valore massimo a cui corrisponde l’impossibilità di ulteriori trasformazioni termiche reali e quindi una sorte di «morte termica» del sistema. Questa lettura del secondo principio ha avuto un doppio impatto sul pensiero filosofico e scientifico: da una parte, la generalizzazione del principio all’intero universo ha fatto parlare di una progressione inesorabile verso una «morte termica» universale; dall’altra parte, l’aumento dell’entropia nel tempo è stato interpretato come la prova dell’esistenza in natura di una ‘freccia’ temporale (così giustificando l’intuizione comune che il tempo ‘scorra’ dal passato verso il futuro). Entrambe le conclusioni non sono ben fondate, ma hanno animato (e tuttora animano) un vivo dibattito.

La nascita della meccanica statistica La termodinamica si basa sull’idea che il calore non sia altro che uno stato di moto delle particelle microscopiche componenti i corpi. Tuttavia la formulazione dei suoi principi e delle sue leggi avviene solo nei termini di grandezze ma405

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La teoria cinetica dei gas

Il comportamento dei sistemi complessi

croscopiche indipendentemente dai modelli del moto delle particelle. Nel caso di un gas, per esempio, la termodinamica ne spiega il comportamento attraverso leggi espresse da relazioni tra grandezze macroscopiche come il volume, la pressione e la temperatura, senza entrare nel merito dei moti delle molecole che lo compongono. Si pone allora la domanda se sia possibile dedurre queste leggi a partire dal comportamento fisico delle molecole componenti. Si tratta in sostanza del problema di spiegare e predire le proprietà fisiche macroscopiche della materia (come la temperatura, la pressione e il volume di un gas) a partire dalle proprietà dei suoi costituenti microfisici (come le posizioni, le velocità e le energie molecolari). La teoria cinetica dei gas, che si sviluppa grazie ai contributi di Clausius e del fisico scozzese Maxwell tra gli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, dimostra che questo è possibile se si rinuncia alla descrizione della dinamica di ogni singola particella costituente il gas e si impiega invece il calcolo delle probabilità. Dalla teoria cinetica dei gas trae origine la meccanica statistica, che ne estende il campo di applicazione dai fenomeni termici a tutti quei settori in cui si ha a che fare con sistemi costituiti da un grande numero di componenti. La meccanica statistica si occupa cioè di descrivere il comportamento dei sistemi fisici composti da molte particelle, o sistemi complessi. Alle fondamenta di questa disciplina contribuiscono in modo determinante, oltre a Maxwell, il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906) e lo scienziato americano Josiah Willard Gibbs (1839-1903), al quale si deve anche l’introduzione del nome «meccanica statistica».

La vita James Clerk Maxwell nacque in Scozia, a Edimburgo il 13 giugno 1831. Estremamente curioso e interessato alla matematica fin da bambino, Maxwell studiò all’Accademia e poi all’università di Edimburgo, per passare successivamente a Cambridge, in Inghilterra, dove si mise in luce come uno dei migliori studenti del prestigioso Trinity College e si laureò nel 1854. Dopo la laurea iniziarono subito le sue pubblicazioni scientifiche in vari campi della fisica, dal magnetismo all’astronomia. Si occupò a lungo di ottica e in particolare della percezione del colore, campo in cui ottenne ampi riconoscimenti.

La meccanica statistica di Boltzmann e l’entropia come disordine

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Insegnò in Scozia, ad Aberdeen e poi di nuovo in Inghilterra, prima a Londra e dal 1865 fino al termine della carriera a Cambridge. Uomo animato da una forte fede religiosa e da una passione altrettanto forte per la conoscenza della natura, Maxwell fu un infaticabile e geniale sperimentatore e inventò anche molti strumenti da laboratorio. Diede grandissimi contributi alla scienza del suo tempo, con la teoria cinetica dei gas, la sua teoria dei colori e soprattutto la teoria dell’elettromagnetismo, una formidabile sintesi che in poche equazioni compendiò le conoscenze provenienti da diverse aree di ricerca della fisica precedente. Morì a Cambridge il 5 novembre 1879.

Nell’ambito della meccanica statistica, e più precisamente nella formulazione raggiunta da Boltzmann, il secondo principio della termodinamica trova una nuova interpretazione in termini probabilistici. Nella teoria statistica di Boltzmann, infatti, l’entropia diventa una misura del numero delle possibili configurazioni di microparticelle che realizzano uno stato macroscopico: maggiore è il numero di configurazioni che realizzano un macrostato di un sistema (il che corrisponde a dire: maggiore è la probabilità che quello stato venga realizzato), maggiore è l’entropia associata al sistema in quello stato. Il numero dei modi in cui può essere realizzato uno stato macroscopico viene interpretato come un indice del disordine che regna al livello microscopico (o «disordine molecolare»). La definizione statistica dell’entropia stabilisce così una correlazione tra l’entropia e il disordi-

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ne, un fatto che viene solitamente espresso dicendo che l’aumento dell’entropia in un sistema isolato corrisponde a un aumento del grado di disordine del sistema. D’altra parte, maggiore è il numero di microstati impiegati per realizzare un macrostato, minore è la possibilità che questo macrostato possa subire cambiamenti, il che significa quindi maggiore vicinanza allo stato di equilibrio termodinamico. Boltzmann può dunque concludere come segue:

T7

Entropia e probabilità L. Boltzmann

L’entropia e il secondo principio della termodinamica

[…] lo stato di un sistema sarà, nella maggior parte dei casi, poco probabile e il sistema tenderà sempre [a causa dei moti disordinati degli atomi] verso stati più probabili, fino ad arrivare allo stato più probabile (cioè all’equilibrio termodinamico). Se applichiamo questa idea al secondo principio della termodinamica, possiamo identificare l’entropia con la probabilità dello stato corrispondente. Se si considera allora un sistema isolato di corpi (il cui stato cioè può cambiare solo per interazioni tra i suoi costituenti), in virtù del secondo principio della termodinamica, l’entropia totale deve aumentare continuamente: il sistema non può che passare da uno stato dato a uno più probabile.

Secondo principio della termodinamica (enunciato di Kelvin) È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia assorbire calore da un’unica sorgente a una data temperatura e convertirlo completamente in lavoro

Secondo principio della termodinamica (enunciato di Clausius) È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di far passare del calore da un corpo più freddo a uno più caldo

Perché?

Interpretazione entropica (Clausius) Aumento di entropia = degradazione dell’energia L’entropia tende sempre ad aumentare fino alla «morte termica»

Interpretazione statistica (Boltzmann) Entropia = misura del numero di microstati Più entropia = più disordine molecolare = più probabilità della configurazione macroscopica

4 Un’unica teoria per i fenomeni ottici, elettrici e magnetici

L’elettromagnetismo di Maxwell Nello studio dei fenomeni ottici, elettrici e magnetici si verificano, tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento, decisivi mutamenti e progressi, sia sperimentali sia teorici, che portano a una progressiva convergenza di questi settori della fisica inizialmente del tutto separati, fino alla loro sintesi conclusiva in un unico quadro concettuale rappresentato dalla teoria elettromagnetica di Maxwell. Come nel caso della teoria del calore, anche in questo processo si assiste al passaggio da concezioni fondate su modelli meccanicistici, centrati sull’ipotesi dell’esistenza di determinati fluidi ed eteri (il fluido elettrico, il fluido magnetico, 407

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La pila di Volta

Il quadro coulombiano di riferimento

L’esperimento di Oersted

Ampère e la nascita dell’elettrodinamica

Faraday e la scoperta dell’induzione elettromagnetica

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l’etere luminoso), alla elaborazione di un sistema di equazioni che compendia in un’unica teoria ambiti fenomenici ritenuti per lungo tempo irriducibili gli uni agli altri. E anche in questo caso le resistenze al cambiamento sono legate soprattutto alla difficoltà di accettare una caratterizzazione dei fenomeni studiati che non possa rientrare nell’ambito concettuale della meccanica newtoniana. Nel processo di progressiva unificazione che culmina nella sintesi maxwelliana gioca un ruolo decisivo, dal punto di vista sperimentale, l’invenzione della pila nel 1799 da parte di Alessandro Volta (1745-1827). Con la possibilità che ne deriva di generare una corrente elettrica continua diventano infatti realizzabili esperimenti che portano alla scoperta del mutuo effetto tra elettricità e magnetismo, fino ad allora considerati come ordini completamente separati di fenomeni. Il quadro di riferimento, all’epoca, è quello basato sulle leggi ricavate dallo scienziato francese Charles-Augustin de Coulomb (1736-1806). Compiendo misure accurate sulle forze che si esercitavano tra corpi carichi elettricamente, interpretati come corpi contenenti fluidi elettrici distribuiti uniformemente e staticamente, Coulomb era riuscito a ricondurre queste forze a interazioni a distanza tra le particelle componenti i fluidi, dove queste interazioni si comportavano come quella gravitazionale newtoniana tra particelle materiali: erano cioè forze la cui intensità era proporzionale all’inverso del quadrato della distanza tra le particelle su cui agivano. Analoghi risultati aveva ottenuto anche per le forze che si esercitavano tra magneti, interpretati come corpi contenenti fluidi magnetici distribuiti uniformemente e staticamente. In virtù della disponibilità di correnti elettriche continue – dopo l’invenzione della pila – il fisico danese Hans Christian Oersted (1777-1851) poté scoprire che un ago magnetico viene deviato se è messo in vicinanza a un filo conduttore in cui circola corrente. La scoperta violava dei presupposti fondamentali della teoria allora dominante, rivelando un imprevisto legame tra fenomeni elettrici e magnetici. Questo legame, inoltre, era da mettere in relazione con effetti prodotti dal movimento delle cariche elettriche, cioè effetti dinamici. Si poneva così il problema di comprendere come questi effetti dinamici fossero possibili. Il primo passo verso la soluzione del problema sollevato dall’esperimento di Oersted si deve allo scienziato francese André-Marie Ampère (1775-1836). Analizzando le mutue attrazioni tra fili percorsi da corrente e tra correnti e magneti, Ampère ipotizza una sostanziale equivalenza tra spire percorse da corrente e magneti, arrivando a stabilire che i magneti possano essere pensati come costituiti da piccolissimi circuiti, chiusi intorno alle particelle dei corpi magnetizzati. Ampère dà così origine all’elettrodinamica. La seconda tappa decisiva verso l’unificazione delle descrizioni dei fenomeni elettrici e magnetici è la scoperta del fenomeno di induzione elettromagnetica da parte del chimico e fisico britannico Michael Faraday (1791-1867). Faraday, autodidatta di formazione e quindi meno condizionato dal sapere dominante, introduce un nuovo strumento concettuale: la nozione di «linea di forza», alla quale è poi correlata la nozione di «campo», inteso come insieme di linee di forza. La nozione ha origine in Faraday – spinto dalla convinzione che ci debba essere qualcosa nello spazio interposto tra un circuito e un ago magnetizzato perché si verifichi l’effetto sperimentato da Oersted – dall’osservazione delle linee che i frammenti di limatura di ferro disegnano in un piano su cui è collocato un magnete o che è attraversato da un filo percorso da corrente. L’idea di Faraday è che le linee geometriche che si formano in questo modo, e il cui insieme realizza una

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L’introduzione del concetto di campo

Maxwell e l’elettromagnetismo

specie di «campo di forze», rappresentino le azioni elettriche e magnetiche che hanno luogo in quello spazio. In tale quadro si inserisce la sua scoperta della sostanziale «identità di azione» tra cariche elettriche in movimento («correnti voltaiche») e magneti, che è alla base della comunicazione che presenta nel 1831 e nella quale illustra esperimenti che provano l’induzione elettromagnetica: cioè il fatto che, come un circuito percorso da corrente è in grado di produrre linee di forza magnetiche circolari, allo stesso modo e simmetricamente si possono ottenere correnti elettriche variando nel tempo le linee di forza magnetiche concatenate con un circuito conduttore privo di generatore di corrente. Con il concetto di linea di forza e di campo di forza, che Faraday poi estende fino a includere nell’idea di un campo unificato di forze anche quelle di natura chimica e gravitazionale, cade la nozione di forza a distanza (alla base della concezione meccanicistica d’ispirazione newtoniana) e viene messa in discussione la possibilità di una propagazione istantanea delle azioni fisiche. Ai risultati di Faraday s’ispirerà Maxwell per fondare, in tre articoli scritti tra il 1855 e il 1864, la sua teoria del campo elettromagnetico (poi sistematicamente presentata nel suo Trattato di Elettricità e Magnetismo del 1873). L’obiettivo dichiarato di Maxwell è di raggiungere una spiegazione dei fenomeni elettrici e magnetici nei termini esclusivamente di azioni che hanno luogo sia nei corpi sia nello spazio circostante. Quella che propone in un testo del 1865 è dunque una teoria dinamica del campo elettromagnetico nei seguenti termini:

T8

La teoria che propongo può quindi essere chiamata una teoria del campo elettromagnetico, perché ha a che fare con lo spazio nelle vicinanze dei corpi elettrici o magnetici, e può essere chiamata una teoria dinamica, perché assume che in quello spazio vi sia materia in movimento dalla quale vengono prodotti i fenomeni elettromagnetici osservati.

Le equazioni di Maxwell e la teoria elettromagnetica della luce

Per Maxwell il campo elettromagnetico è così costituito da quelle parti dello spazio che contengono corpi elettrici o magnetici. Nella sua teoria, il comportamento del campo è descritto nei termini di grandezze fisiche che sono completamente determinate da un sistema di equazioni differenziali. Sono essenzialmente queste equazioni, riformulate in seguito da Heinrich Hertz (1857-1894) e Oliver Heaviside (1850-1925), a costituire quelle che oggi sono note come le equazioni di Maxwell. Le soluzioni generali che Maxwell ottiene da queste equazioni descrivono onde che si propagano nello spazio o «etere» (da Maxwell inizialmente identificato con un mezzo meccanico) e che hanno la stessa velocità e le stesse caratteristiche attribuite alle onde luminose dalla teoria ondulatoria della luce. Questo conduce Maxwell a formulare la sua teoria elettromagnetica della luce, basata sulla concezione che la luce non sia altro, appunto, che un’onda elettromagnetica.

La teoria del campo elettromagnetico J.C. Maxwell, Gli articoli scientifici

➥ Sommario, p. 426

La teoria elettromagnetica di Maxwell

Magnetismo Elettricità

Campo elettromagnetico il cui comportamento è descritto dalle equazioni di Maxwell

Luce

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Le rivoluzioni della fisica

5 I testi

A. Einstein Autobiografia scientifica: I principi della fisica prima di Einstein, T9; La meccanica classica come base di tutta la fisica, T10; Il paradosso da cui parte la costruzione della relatività einsteiniana, T11; Il paradosso della relatività galileiana, T12; L’idea fondamentale della relatività ristretta, T14; Il continuo quadridimensionale nella fisica classica, T15 L’elettrodinamica dei corpi in movimento: Le asimmetrie nell’elettrodinamica di Maxwell, T13

1 1905: annus mirabilis

T9

I principi della fisica prima di Einstein A. Einstein, Autobiografia scientifica

Concetti fondamentali e metodi della teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo: La relatività del campo gravitazionale, T16 Fondamenti della fisica teorica: Il principio di equivalenza e la teoria della relatività generale, T17 Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce: La discontinuità della luce, T18

Einstein, la figura chiave Nel 1905 escono sulla rivista «Annalen der Physik» tre articoli – rispettivamente, sui quanti di luce, il moto browniano e l’elettrodinamica dei corpi in movimento – destinati a cambiare le sorti della fisica del Novecento: l’autore è Albert Einstein, allora giovane impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna e l’anno è diventato noto come annus mirabilis nella storia della fisica. Tutti e tre gli articoli hanno premesse ben fondate nella fisica classica, ma esprimono risultati così innovativi da rivoluzionarla profondamente. La situazione in cui si trova allora la fisica è quella che, nella sua Autobiografia scientifica, il quasi settantenne Einstein ricorda nel seguente modo: […] in materia di principi predominava una rigidezza dogmatica: in origine (se origine vi fu) Dio creò le leggi del moto di Newton insieme con le masse e le forze necessarie. Questo è tutto; ogni altra cosa risulta deduttivamente attraverso lo sviluppo di metodi matematici appropriati. Ciò che il secolo XIX riuscì a fare basandosi solo su questo, specialmente con l’applicazione delle equazioni differenziali a derivate parziali, non poteva non suscitare l’ammirazione di ogni persona intelligente. La meccanica newtoniana rappresentava quindi il paradigma dominante, e in quanto tale veniva proposta come la base di tutta la fisica:

T10

La meccanica classica come base di tutta la fisica

A. Einstein, Autobiografia scientifica

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Però, ciò che faceva più impressione sullo studente non era tanto la costruzione della meccanica come scienza a sé […] quanto le conquiste della meccanica in campi che apparentemente non avevano nulla a che fare con essa; la teoria meccanica della luce, che concepiva il fenomeno luminoso come moto ondulatorio di un etere elastico quasi rigido, e più ancora la teoria cinetica dei gas […] Non dobbiamo quindi stupirci se tutti, o quasi tutti, i fisici del secolo scorso videro nella meccanica classica la base sicura e definitiva di tutta la fisica, e anzi, addirittura, di tutte le scienze naturali, e se insistettero instancabilmente nel tentativo di basare sulla meccanica anche la teoria elettromagnetica di Maxwell.

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Ma per quanto versatile ed efficace, la meccanica newtoniana non sembrava riuscire ad assolvere il compito di costituire la «base di tutta la fisica». Rimanevano molte questioni aperte, e la motivazione iniziale che spinge Einstein nei suoi lavori dell’‘anno mirabile’ è proprio quella di cercare di superare i limiti della fisica del suo tempo a partire dai problemi che non si riuscivano a risolvere nel suo ambito. Vediamo dunque qual è il percorso biografico e intellettuale che conduce Einstein a mettere in discussione i fondamenti della visione classica del mondo, diventando così la figura di riferimento della scienza del Novecento. Un simbolico passaggio Albert Einstein nacque lo stesso anno in cui morì Maxwell. Come nel caso di Gadi consegne lilei e Newton (nato nell’anno in cui morì Galilei) agli albori della scienza moderna, anche qui si può ravvisare un simbolico passaggio di consegne all’inizio di una nuova epoca della scienza: tra l’artefice della teoria che unifica i fenomeni elettrici, magnetici e ottici, e Einstein, che per tutta la vita perseguirà l’obiettivo di arrivare a una teoria completamente unificata della natura. Einstein tenta di superare i limiti della fisica del suo tempo

La vita e le opere Albert Einstein nacque a Ulm in Germania il 14 marzo del 1879 da una famiglia ebrea non osservante. Forse a causa di difficoltà caratteriali non fu un talento precoce, né uno studente particolarmente brillante negli anni della scuola. Si interessò comunque di problemi scientifici e filosofici fin da ragazzo. Al seguito della famiglia si spostò più volte, in Germania, Italia, Svizzera. Dopo un primo fallimento agli esami di ammissione, riuscì a frequentare il Politecnico di Zurigo, dove trovò un ambiente estremamente favorevole alla sua crescita umana e intellettuale e conobbe la futura moglie Mileva Mari´c, serba, l’unica donna ammessa a frequentare il Politecnico, anche lei grande appassionata di fisica. In Svizzera lavorò all’Ufficio brevetti, ma continuò a coltivare i suoi interessi scientifici e filosofici in discussioni con gli amici. Nel 1905 ottenne il dottorato e nello stesso anno pubblicò l’articolo in cui formulava la teoria della relatività ristretta, una delle pietre miliari della scienza naturale di ogni tempo. La carriera di Einstein ebbe uno sviluppo improvviso che lo portò da un incarico all’altro fino alla direzione dell’Istituto di fisica dell’università di Berlino (1914). Nel 1915 presentò, dopo lunghe ricerche, la teoria della relatività generale, una scoperta ancor più rivoluzionaria della teoria della

Dalla religione alla scienza della natura

relatività ristretta. Nel 1921 ottenne il Premio Nobel per la fisica per i suoi risultati negli studi sulla luce (pubblicati nell’articolo sull’effetto fotoelettrico del 1905). Nel 1932 Einstein insieme alla sua famiglia abbandonò la Germania e l’Europa a causa dell’odio razziale e delle persecuzioni antisemite che già si stavano facendo strada, anticipando di pochi mesi la presa del potere di Hitler e le leggi che espulsero i docenti ebrei dalle cattedre universitarie. Einstein da allora in poi visse negli Stati Uniti e divenne cittadino americano nel 1940. Einstein nella maturità fu un personaggio pubblico noto in tutto il mondo e, pur non abbandonando mai la ricerca scientifica, si dedicò anche ad altre attività, con un intenso impegno per cause civili e politiche, in particolare contro le discriminazioni razziali, contro l’uso delle armi nucleari e a favore di un socialismo democratico diverso sia dal sistema capitalistico sia dal sistema sovietico. Visse a Princeton dove lavorò all’Institute for Advanced Study fino alla morte, sopravvenuta il 18 aprile 1955. Einstein scrisse numerosi articoli scientifici, interventi su temi di interesse filosofico e politico e un’Autobiografia scientifica che furono poi raccolti nei Collected Papers of Albert Einstein («Raccolta degli scritti di Albert Einstein» in corso di pubblicazione; finora pubblicati dieci volumi).

L’infanzia e l’adolescenza di Einstein sono condizionate da diversi spostamenti della sua famiglia, motivati da problemi di natura economica, prima a Monaco, poi in Italia (Milano e Pavia). Anche per queste vicissitudini Einstein, fin da giovane, rimane colpito dalla «vanità delle speranze e degli sforzi degli uomini in una corsa affannosa attraverso la vita». Cerca dunque una prima «via d’uscita» nella religione, diventando «religiosissimo benché figlio di genitori (ebrei) completamente irreligiosi». Ma cessa di esserlo all’età di dodici anni, per effetto di letture di divulgazione scientifica che lo convincono «che molte delle storie che raccontava la Bibbia non potevano essere vere». Questa esperienza è molto formativa per il giovane Einstein, che ne trae «un atteggiamento di sospetto contro ogni genere di autorità». Venendo meno il «paradiso religioso del411

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

La formazione del giovane Einstein

Gli anni del Politecnico di Zurigo

La libertà della ricerca

Dall’elettromagnetismo di Maxwell alla relatività ristretta

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la giovinezza», per liberarsi «dalle catene del puramente personale» Einstein si rivolge allora alla contemplazione del mondo della natura: «Fuori c’era questo enorme mondo, che esiste indipendentemente da noi, esseri umani, e che ci sta di fronte come un grande eterno enigma, accessibile solo parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero. La contemplazione di questo mondo mi attirò come una liberazione». Il «possesso intellettuale di questo mondo extrapersonale» appare al dodicenne Albert come la «meta più alta fra quelle concesse all’uomo»; e anche se la strada per raggiungere «questo paradiso» non era «così comoda e allettante come quella del paradiso religioso», Einstein non si pentirà mai di averla scelta: «si è dimostrata una strada sicura e non ho mai rimpianto di averla scelta», ribadirà nella sua autobiografia. Ma come si svolge la sua educazione lungo tale percorso? Così lo scienziato ne ricorda i primi passi: «Dai dodici ai sedici anni mi familiarizzai con le nozioni fondamentali della matematica e del calcolo differenziale e integrale. […] Ebbi anche la fortuna di poter conoscere i risultati essenziali e i metodi di tutto il campo delle scienze naturali in un’ottima esposizione divulgativa […]. Avevo già studiato anche un po’ di fisica teorica quando, all’età di diciassette anni, entrai nel Politecnico di Zurigo come studente di matematica e fisica». Nei suoi anni al Politecnico di Zurigo, lo studente Einstein spende la maggior parte del suo tempo nel laboratorio di fisica, «affascinato dal contatto diretto con l’esperienza». Mentre nel campo della matematica – suddivisa come gli appare «in numerosi rami, ciascuno dei quali poteva facilmente assorbire il breve tempo che è concesso di vivere» – non si sente in grado di distinguere «ciò che è veramente essenziale», la stessa cosa non avviene per la fisica: «in questo campo imparai subito a discernere ciò che poteva condurre ai principi fondamentali». È proprio la costante ricerca dei principi fondamentali della descrizione della natura a segnare tutta l’attività scientifica di Einstein. Una ricerca che, sottolinea Einstein, è fondamentale compiere in piena libertà: «È un vero miracolo che i metodi moderni di istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca; perché questa delicata pianticella, oltre che di stimolo, ha soprattutto bisogno di libertà, senza la quale inevitabilmente si corrompe e muore». Einstein al Politecnico di Zurigo ha l’opportunità di fare ricerca con sufficiente libertà e si può quindi dedicare ai problemi aperti di quello che allora gli sembra l’argomento più affascinante della fisica, e cioè la teoria elettromagnetica di Maxwell. In particolare, il problema da cui parte Einstein nelle ricerche che lo condurranno ai risultati esposti nei lavori del 1905 è il seguente: «dalla formula della radiazione, quali conclusioni generali si possono trarre in merito alla struttura della radiazione e, ancor più generalmente, alle basi elettromagnetiche della fisica?». Le contraddizioni con i principi della meccanica e dell’elettrodinamica classica di determinati risultati sperimentali e teorici relativi alla radiazione, tra i quali innanzitutto quelli derivanti dall’opera precorritrice del fisico tedesco Max Planck (1858-1947) e dalla sua introduzione dell’ipotesi del quanto di energia (vedi p. 421 ss.), convincono presto Einstein della necessità di scoprire un nuovo «principio formale universale». La sua ricerca dura dieci anni, fino a quando la soluzione gli arriva dalla riflessione su un «paradosso» in cui si era imbattuto già all’età di sedici anni e nel quale è già contenuto il germe della sua teoria della relatività ristretta. Vediamo come.

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La relatività ristretta Il paradosso su cui comincia a riflettere il sedicenne Einstein è il seguente:

T11

Il paradosso da cui parte la costruzione della relatività einsteiniana

A. Einstein, Autobiografia scientifica

Il paradosso

Il significato della relatività

La relatività ristretta e i sistemi di riferimento inerziali

La relatività galileiana

[…] se io potessi seguire un raggio di luce a velocità c (la velocità della luce nel vuoto), il raggio mi apparirebbe come un campo elettromagnetico oscillante nello spazio, in stato di quiete. Ma nulla del genere sembra possa sussistere sulla base dell’esperienza o delle equazioni di Maxwell. Fin da principio mi sembrò intuitivamente chiaro che, dal punto di vista di un tale ipotetico osservatore, tutto debba accadere secondo le stesse leggi che valgono per un osservatore fermo rispetto alla Terra. Altrimenti, come farebbe il primo osservatore a sapere, cioè come potrebbe stabilire, di essere in uno stato di rapidissimo moto uniforme? In altre parole, se la velocità della luce dipendesse dallo stato di moto dell’osservatore che la misura, a un osservatore che viaggiasse alla sua stessa velocità (cioè alla velocità c) il raggio di luce dovrebbe apparire «in stato di quiete». Ma questo non sembra andare d’accordo con la teoria di Maxwell, che predice che la velocità c della luce (nel vuoto) sia una costante universale, un fatto confermato anche dagli esperimenti. Il problema rientra in quello generale di che cosa succeda, nella descrizione fisica, quando si passi da un osservatore o sistema di riferimento a un altro, dove per «sistema di riferimento» s’intende un sistema di coordinate spaziali per misurare le posizioni e un orologio per misurare gli intervalli temporali. Proprio di questo si occupa la teoria della relatività. Più precisamente la teoria della relatività stabilisce che cosa rimane invariato, e che cosa invece varia (e quindi sia «relativo»), al cambiare del sistema di riferimento. Relatività in senso einsteiniano non vuol dire, infatti, che «tutto è relativo»; vuol dire piuttosto il contrario: la teoria si basa sul principio (principio di relatività) che le leggi della fisica siano ‘oggettive’ nel senso che rimangano le stesse (siano «invarianti») quando si passa da un osservatore o sistema di riferimento a un altro. Nella teoria della relatività ristretta, questi sistemi di riferimento non sono qualsiasi: si tratta della classe dei sistemi inerziali, cosiddetti perché in essi vale il «principio d’inerzia» o prima legge di Newton (un corpo su cui non agiscono forze si trova in stato di quiete o di moto rettilineo uniforme). Questo significa che non si considera il cambiamento (o, in linguaggio più tecnico, la trasformazione) da un sistema di riferimento a un altro che si muova di moto accelerato rispetto al primo, ma solo trasformazioni tra sistemi di riferimento che si muovono di moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro (relatività «ristretta», quindi, in quanto limitata alla classe di sistemi di riferimento inerziali). Nella fisica classica vale il cosiddetto «principio di relatività galileiano», cioè il principio che le leggi della meccanica non debbono variare da un sistema di riferimento inerziale a un altro. «Galileiano» perché venne espresso per la prima volta da Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo nella forma dell’argomento del «gran navilio» (come definitiva prova della nullità di tutti gli argomenti contro il moto della Terra): cioè l’argomento per cui, in base a osservazioni meccaniche compiute all’interno di una nave, non è possibile «comprender se la nave cammina [di moto uniforme] o pure sta ferma». In altre parole, le leggi della meccanica sono le stesse per chi si trovi all’interno della nave (che funge da sistema di riferimento) sia 413

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Il gruppo di Galilei

Grandezze assolute e relative nella relatività galileiana

T12

Il paradosso della relatività galileiana

A. Einstein, Autobiografia scientifica

L’etere «luminifero» e l’esperimento di Michelson e Morley

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nel caso che la nave si muova di moto uniforme (e, aggiungiamo, rettilineo), sia nel caso che stia ferma; cioè le leggi non variano passando da un sistema di riferimento a un altro che si muove, rispetto al primo, di moto rettilineo uniforme. Due sistemi di riferimento possono essere collegati anche da trasformazioni puramente ‘geometriche’, ovvero non relative allo stato di moto, come: 1) le traslazioni nello spazio, 2) le rotazioni, 3) le traslazioni temporali. Se per esempio consideriamo un laboratorio (dotato di orologio) all’interno del quale si conducono esperimenti, queste trasformazioni corrispondono al passaggio a un altro laboratorio che è, rispettivamente, 1) spostato, 2) ruotato, e 3) il cui orologio segna un tempo diverso rispetto a quello di partenza. L’insieme delle trasformazioni tra sistemi inerziali che lasciano invariate le leggi della meccanica costituiscono, dal punto di vista matematico, un gruppo di trasformazioni, noto come «gruppo di Galilei» (sul concetto di «gruppo» vedi p. 388). In termini generali, la relatività galileiana esprime quindi l’invarianza delle leggi della meccanica rispetto alle trasformazioni del gruppo di Galilei; il che, ricordando la definizione di simmetria come invarianza rispetto a un gruppo di trasformazioni, equivale a dire che il gruppo di Galilei è il gruppo di simmetria delle leggi della meccanica (e le trasformazioni del gruppo di Galilei sono le trasformazioni di simmetria di queste leggi). Le grandezze fisiche che rimangono invariate sotto queste trasformazioni, e che sono di conseguenza assolute dal punto di vista della fisica classica, sono l’accelerazione, le distanze spaziali e gli intervalli temporali, mentre la velocità cambia: la velocità v di un corpo rispetto a un sistema di riferimento S, prende il valore composto (v + v’) se vista da un sistema di riferimento S’ che si muove di velocità v’ rispetto al sistema di partenza S. Ne segue che, secondo la relatività galileiana, anche la velocità della luce dovrebbe cambiare nel passare da un sistema di riferimento inerziale a un altro. Da qui il paradosso che, seguendo Einstein, può essere riformulato come segue: Secondo le regole di connessione del tempo e delle coordinate spaziali degli eventi usate nella fisica classica quando si passa da un sistema inerziale a un altro [cioè la relatività galileiana], le due ipotesi: 1) costanza della velocità della luce; 2) indipendenza delle leggi (compresa quindi, in particolare, la legge della costanza della velocità della luce) dalla scelta del sistema inerziale (principio della relatività ristretta); sono fra loro inconciliabili (anche se entrambe, prese separatamente, si basano sull’esperienza). Storicamente, un primo tentativo di risolvere il problema posto dalla costanza della velocità della luce fu quello basato sull’ipotesi dell’esistenza dell’etere come «mezzo luminifero»: cioè l’idea che il vuoto in cui si propagavano le onde elettromagnetiche fosse in realtà costituito dall’etere, identificato con il sistema di riferimento in quiete assoluta ipotizzato da Newton. Questo permetteva di restringere l’ambito di validità dell’elettrodinamica di Maxwell alla sottoclasse dei sistemi di riferimento inerziali che erano in quiete rispetto al sistema di riferimento etereo assoluto. La possibilità di verificare sperimentalmente questa congettura, misurando la velocità della luce rispetto a quella della Terra, era già stata proposta da Maxwell. Fu proprio il suggerimento di Maxwell a spingere Albert Abraham Michelson (1852-1931), nel 1881, a compiere il primo esperimento di

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

Altro problema del sistema di riferimento assoluto: alcune asimmetrie

T13

Le asimmetrie nell’elettrodinamica di Maxwell A. Einstein, L’elettrodinamica dei corpi in movimento

La relatività ristretta come generalizzazione della relatività galileiana

T14

L’idea fondamentale della relatività ristretta

A. Einstein, Autobiografia scientifica

Le trasformazioni di Lorentz

verifica dell’influenza del moto della Terra sulla velocità della luce, perfezionato nel 1887 da Michelson insieme a Edward Williams Morley (1838-1923). L’esperimento, da allora noto come «esperimento di Michelson e Morley», dette risultato nullo, con delusione dei due sperimentatori e sorpresa nel mondo accademico. Un altro fatto, oltre al fallimento dei tentativi di individuare un qualche movimento della Terra relativamente al «mezzo luminifero», che per il giovane ricercatore Einstein mette in seria discussione la possibilità di un sistema di riferimento assoluto, è rappresentato dalle «asimmetrie non conformi ai fenomeni» che nascono se le interazioni tra un magnete e un conduttore vengono pensate in relazione a un etere in quiete. È noto che l’elettrodinamica di Maxwell – così come essa è oggi comunemente intesa – conduce, nelle sue applicazioni a corpi in movimento, ad asimmetrie che non sembrano conformi ai fenomeni. Si pensi per esempio alle interazioni elettrodinamiche tra un magnete e un conduttore. Laddove la concezione usuale contempla due casi nettamente distinti, a seconda di quali dei due corpi sia in movimento, il fenomeno osservabile dipende, in questo caso, solo dal moto relativo di magnete e conduttore. Con queste parole inizia il fondamentale articolo del 1905 sulla relatività ristretta, intitolato L’elettrodinamica dei corpi in movimento. I fatti ricordati dimostrano in modo inequivocabile, per Einstein, che «i fenomeni elettrodinamici, al pari di quelli meccanici, non possiedono proprietà corrispondenti all’idea di quiete assoluta». E soprattutto suggeriscono che «per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica varranno anche le stesse leggi elettrodinamiche e ottiche». La teoria einsteiniana della relatività ristretta nasce quando questa «congettura» viene «elevata al rango di postulato». Il «principio formale universale» cercato per dieci anni da Einstein per risolvere il paradosso consiste dunque nella generalizzazione del principio di relatività – che per la fisica classica assume la forma «galileiana» e vale solo per le leggi della meccanica – a tutte le leggi della fisica, compresa quella dell’elettromagnetismo di Maxwell. Il principio della relatività ristretta einsteiniano stabilisce, cioè, che tutte le leggi della fisica non devono variare da un sistema di riferimento inerziale a un altro. Ma se deve valere anche per le equazioni di Maxwell, il gruppo di trasformazioni della relatività galileiana non è più quello giusto, visto che la velocità della luce non è invariante sotto di esse. La soluzione di Einstein poggia sulla seguente «idea fondamentale»: Le ipotesi 1) [la costanza della velocità della luce] e 2) [il principio della relatività ristretta] sono fra loro compatibili solo se si postulano relazioni di nuovo tipo («trasformazioni di Lorentz») per la conversione delle coordinate e dei tempi degli eventi; il che, tenuto conto dell’interpretazione fisica data precedentemente a tali grandezze, non equivale affatto a pura e semplice convenzione, ma implica certe ipotesi sul comportamento effettivo dei regoli campione e degli orologi in movimento, che l’esperienza può convalidare o confutare. Le «relazioni di nuovo tipo» qui postulate sono quelle già ricavate dal fisico olandese Hendrik Antoon Lorentz (1853-1928) – per questo note come «trasformazioni di Lorentz» – nella sua ricerca di trasformazioni delle coordinate spaziali e temporali che lasciassero invariate le equazioni di Maxwell. Queste trasforma415

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Le grandezze assolute della fisica classica diventano relative

Einstein e l’empirismo di Mach

Relatività galileiana e relatività einsteiniana ristretta

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zioni comportavano, in particolare, la contrazione delle lunghezze (nella direzione del moto) e la dilatazione degli intervalli temporali nel passaggio da un sistema di riferimento a un altro in moto rispetto al primo. Ma mentre per Lorentz, che credeva fermamente nell’ipotesi dell’etere, questi effetti valevano solo in presenza di forze elettromagnetiche e venivano interpretati come dovuti all’azione dell’apparente «vento d’etere» creato dal moto dei corpi (rispetto all’etere in quiete assoluta), la profonda novità della teoria einsteiniana consiste nel comprendere e postulare che quelle di Lorentz siano le trasformazioni di simmetria di tutte le leggi della fisica. La contrazione delle lunghezze e la dilatazione dei tempi sono dunque, per Einstein, effetti reali (e non «pura e semplice convenzione», come pensava per esempio Poincaré), che riguardano tutti i corpi fisici, anche se si fanno sentire solo nel caso di velocità molto vicine a quella della luce (e per questo non ce ne rendiamo conto nella nostra esperienza quotidiana). La teoria di Einstein limita così l’ambito di validità della fisica newtoniana a fenomeni in cui le velocità in gioco siano piccole rispetto alla velocità della luce. Gli effetti di contrazione delle lunghezze e di dilatazione dei tempi al cambiare dei sistemi di riferimento indicano che grandezze ‘assolute’ della fisica classica – nella fattispecie, le distanze spaziali e gli intervalli temporali – diventano invece ‘relative’ nella fisica einsteiniana. In particolare, se gli intervalli temporali non sono più invarianti nel passare da un sistema di riferimento a un altro, cade il concetto di simultaneità assoluta. Due eventi sono infatti simultanei se l’intervallo temporale ∆t che li separa è nullo; ma questo valore dell’intervallo ∆t dipende dal sistema di riferimento, e può quindi cambiare passando in un altro sistema, diventando così diverso da zero. Nella relatività einsteiniana, tempo e spazio sono indissolubilmente intrecciati: l’«assioma del carattere assoluto del tempo», profondamente radicato nel nostro inconscio, andava abbandonato. D’altra parte, come era già noto anche allo stesso Newton, il tempo assoluto, al pari dello spazio assoluto e della velocità assoluta, non erano grandezze osservabili (né direttamente, né indirettamente). Einstein, pur non sposando lo stretto empirismo di Ernst Mach (1838-1916), che nella sua riflessione storica e critica sulla meccanica (La meccanica nel suo sviluppo storico-critico) del 1883 rifiutava i concetti assoluti della fisica newtoniana proprio sulla base del loro carattere «puramente ideale, non conoscibile sperimentalmente», riconosce comunque la notevole influenza di questo pensatore, e in generale dell’istanza empirista, sulla propria formazione: «Il tipo di ragionamento critico necessario per la scoperta di questo punto essenziale» [il carattere arbitrario dell’assioma della simultaneità assoluta] «mi fu reso enormemente più facile dalla lettura degli scritti filosofici di David Hume e di Ernst Mach». Relatività galileiana

Relatività einsteiniana ristretta

Classe di sistemi di riferimento considerata

Sistemi di riferimento inerziali: in moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro

Sistemi di riferimento inerziali: in quiete o in moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro

Tesi sull’invarianza delle leggi fisiche

Nella classe dei sistemi di riferimento inerziali valgono le stesse leggi della meccanica

Nella classe dei sistemi di riferimento inerziali valgono le stesse leggi della fisica, tra cui meccanica ed elettromagnetismo

Grandezze invarianti

Accelerazione, distanze, intervalli di tempo

Intervallo spazio-temporale, velocità della luce

Grandezze relative

Velocità

Accelerazione, velocità, distanze, intervalli di tempo

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica Il legame indissolubile tra spazio e tempo

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Il continuo quadridimensionale nella fisica classica

A. Einstein, Autobiografia scientifica

Il fatto che le trasformazioni di simmetria delle leggi fisiche siano le trasformazioni di Lorentz invece di quelle di Galilei ha dunque profonde implicazioni sulla natura dello spazio e del tempo, che risultano indissolubilmente legati nella teoria einsteiniana, costituendo un «continuo quadridimensionale». Ma ciò non vuol dire che questa teoria «abbia scoperto per la prima volta la quadridimensionalità del continuo fisico», come sottolinea lo stesso Einstein: Anche la meccanica classica è basata sul continuo quadridimensionale dello spazio e del tempo. Solo che, nel continuo quadridimensionale della fisica classica, le «sezioni» corrispondenti a valori costanti del tempo hanno realtà assoluta, cioè indipendente dalla scelta del sistema di riferimento. Il continuo quadridimensionale, pertanto, si scinde in un continuo tridimensionale e in uno unidimensionale (tempo), e il punto di vista quadridimensionale non si impone come necessario. La teoria della relatività ristretta, d’altra parte, crea un rapporto di dipendenza formale fra il modo in cui le coordinate spaziali da un lato, e le coordinate temporali dall’altro, debbono entrare nelle leggi naturali.

Minkowski: la geometria del continuo quadridimensionale La struttura del nuovo continuo quadridimensionale implicato dalla relatività ristretta fu stabilita, nel 1908, dal matematico Hermann Minkowski (1864-1909), che era stato uno dei docenti di Einstein al Politecnico di Zurigo. Minkowski riuscì in particolare a introdurre un formalismo (il formalismo covariante) per esprimere le leggi fisiche tale che la forma matematica stessa della legge garantisce di per sé l’invarianza della legge rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Nello spazio-tempo di Minkowski, inoltre, tutte le proprietà di simmetria spazio-temporali delle leggi fisiche hanno un’interpretazione in termini ‘geometrici’, cioè come simmetrie della struttura spaziotemporale del mondo fisico. Nel caso delle simmetrie di natura puramente spaziale o puramente temporale, questo significato geometrico è facilmente intuibile e vale an-

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che per la struttura spazio-temporale della fisica classica: l’invarianza delle leggi fisiche per traslazione delle coordinate spaziali non esprime altro che l’equivalenza – per quanto riguarda la descrizione fisica – di tutti i punti dello spazio, ossia la proprietà di omogeneità dello spazio; allo stesso modo, l’invarianza per rotazioni spaziali corrisponde all’equivalenza di tutte le direzioni, cioè all’isotropia dello spazio, e l’invarianza per traslazioni lungo l’asse dei tempi corrisponde all’equivalenza degli istanti temporali, ovvero all’uniformità del tempo. La differenza con il caso classico emerge invece per le trasformazioni di velocità uniforme: mentre le trasformazioni di velocità uniforme del gruppo di Galilei non hanno un’interpretazione geometrica nel continuo quadridimensionale della fisica classica, quelle di Lorentz sono interpretabili come rotazioni del sistema di coordinate (quadridimensionale) nello spazio-tempo di Minkowski.

La relatività generale

Con la relatività ristretta, che stabilisce l’equivalenza di tutti i sistemi di riferimento inerziali dal punto di vista delle leggi della fisica, Einstein riusciva dunque a liberare la fisica da grandezze non osservabili come la quiete assoluta, la simultaneità assoluta e la velocità assoluta. Restava tuttavia qualcosa di ‘privilegiato’ nella descrizione fisica, la classe dei sistemi di riferimento inerziali. Perché limitare la relatività a questa classe di sistemi? Il problema che la relatività ristretta lasciava aperto era quindi comprendere, e possibilmente superare, questo apparente privilegio dei sistemi di riferimento inerziali rispetto a quelli non inerziali (cioè accelerati). Gravità e accelerazione Ma in che cosa differisce un sistema non inerziale da un sistema inerziale? È una uniforme differenza che si sperimenta molto facilmente nella vita quotidiana. Basti pensare a che cosa proviamo quando siamo a bordo di un veicolo che compie una curI limiti della relatività ristretta

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

va (variando quindi la direzione della velocità), oppure che accelera o che rallenta (decelera). In tutti e tre i casi il sistema in cui ci troviamo subisce una variazione nel suo moto e noi avvertiamo effetti (siamo spinti verso l’esterno, schiacciati all’indietro, proiettati in avanti) che non sentiamo se invece il veicolo procede in linea retta e a velocità costante. A che cosa sono dovuti questi effetti? Se siamo chiusi all’interno della vettura senza possibilità di vedere l’esterno, possiamo anche supporre che qualcosa di molto massiccio (un pianeta) sia giunto improvvisamente vicino a noi e ci attragga con la sua forza gravitazionale. Ci si trova così nella situazione di non essere in grado di distinguere, per mezzo di esperimenti compiuti all’interno del nostro sistema di riferimento, un’accelerazione (costante) da un effetto di tipo gravitazionale. In altre parole, vale il principio per cui la presenza di un campo gravitazionale è equivalente in tutto e per tutto a un’accelerazione uniforme del sistema di riferimento. Gravitazione e relatività È proprio a questa conclusione che Einstein arriva, nel 1907, mentre affronta il problema di come la teoria newtoniana della gravitazione debba essere modificata per diventare compatibile con la relatività ristretta. Come ricorderà egli stesso nel 1921:

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La relatività del campo gravitazionale

A. Einstein, Concetti fondamentali e metodi della teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo

Fu allora che ebbi il pensiero più felice della mia vita, nella forma seguente. Il campo gravitazionale ha solo un’esistenza relativa, in modo analogo al campo elettrico generato dall’induzione magnetoelettrica. Infatti per un osservatore che cada liberamente dal tetto di una casa, non esiste – almeno nelle immediate vicinanze – alcun campo gravitazionale. Infatti, se l’osservatore lascia cadere dei corpi, questi permangono in uno stato di quiete o di moto uniforme rispetto a lui, indipendentemente dalla loro particolare natura chimica o fisica (ovviamente si trascura la resistenza dell’aria). L’osservatore di conseguenza ha il diritto di interpretare il proprio stato come uno «stato di quiete». Grazie a quest’idea, quella singolarissima legge sperimentale secondo cui, in un campo gravitazionale, tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione, veniva improvvisamente ad acquistare un significato fisico profondo.

Alla base della «legge sperimentale» a cui si riferisce Einstein è il cosiddetto «principio di equivalenza». Si tratta del principio, scoperto già da Galilei e usato da Newton nei Principia, che asserisce l’uguaglianza della massa inerziale mi e della massa gravitazionale mg di un qualunque corpo. La massa inerziale mi di un corpo si misura applicando ad esso una forza nota F e stabilendo la sua accelerazione a in base alla legge di Newton F = mi a; quindi mi misura l’inerzia del corpo, cioè la sua riluttanza a essere messo in movimento o «resistenza all’accelerazione». La massa gravitazionale mg di un corpo è «quella che ne determina il peso in un dato campo gravitazionale, per esempio, sulla superficie della Terra», ed è quindi dedotta dalla legge di gravitazione di Newton. Indipendenza In base a tale legge la forza di attrazione tra la Terra, di massa M, e un corpo di dell’accelerazione massa mg è data dalla relazione Il principio di equivalenza

di gravità dalla massa dei corpi

F = G • M mg / r2 dove G è la costante di gravitazione universale e r è la distanza fra il corpo e il centro della Terra (in pratica, il raggio della Terra). Equiparando le due espressioni per la forza F, dall’uguaglianza della massa inerziale (mi) con quella gravitazionale (mg) segue che l’accelerazione di gravità g sulla Terra è ugua-

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

le a G • M / r2, ed è quindi indipendente dalla massa del corpo. Ciò spiega la legge già trovata da Galilei per cui, qualora si possa trascurare la viscosità dell’aria, i gravi cadono tutti con la stessa accelerazione. È proprio questo fatto che permette ad Einstein di arrivare all’ipotesi dell’equivalenza tra la presenza di un campo gravitazionale e un’accelerazione uniforme del sistema di riferimento:

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Il principio di equivalenza e la teoria della relatività generale

A. Einstein, Fondamenti della fisica teorica

La ragione profonda del principio di equivalenza

Il lungo cammino verso la teoria della relatività generale

Le difficoltà di Einstein

La teoria generale della relatività deve la sua origine al tentativo di spiegare un fatto noto già ai tempi di Galilei e Newton, ma fino ad allora sfuggito a tutte le interpretazioni teoriche: l’inerzia e il peso di un corpo, due cose di per se stesse distinte, sono misurati da una stessa costante: la massa. Da questa corrispondenza segue che è impossibile scoprire mediante un esperimento se un sistema è accelerato o se il suo moto è rettilineo e uniforme e gli effetti osservati sono dovuti a un campo gravitazionale (principio di equivalenza della teoria della relatività generale). Einstein si rende conto che «deve esistere una ragione profonda» per il fatto che «queste due quantità [l’inerzia e il peso], così diverse quanto alla loro definizione, siano misurate, in base all’esperienza, esattamente dallo stesso numero». E identifica tale «ragione profonda» nel seguente modo: «è una medesima proprietà della materia ad apparire come peso o come inerzia a seconda della modalità di descrizione», cioè a seconda che si consideri «il sistema di riferimento come in quiete, e il campo gravitazionale che apparentemente esiste rispetto ad esso come un campo reale», o che si consideri invece, equivalentemente, il sistema di riferimento come un sistema di coordinate uniformemente accelerato (in assenza di un campo gravitazionale). Del principio di equivalenza Einstein fa dunque la chiave di volta per generalizzare la teoria della relatività anche ai sistemi di riferimento uniformemente accelerati. È l’inizio di un lungo cammino che lo porterà a formulare, dopo otto anni, la teoria della relatività generale. A differenza di quanto era avvenuto con la relatività ristretta, presentata in forma compiuta fin dal primo lavoro del 1905, Einstein non giunge infatti facilmente al risultato finale. Le ragioni sono di diverso tipo. Sul versante biografico, per lo scienziato è un momento di notevole cambiamento. Einstein inizia in quel periodo la sua carriera accademica: prima a Berna e Zurigo, per poi spostarsi a Praga, in seguito di nuovo Zurigo e, infine, dal 1914 a Berlino, dove rimarrà fino a quando non emigrerà negli Stati Uniti, in seguito alla presa di potere da parte di Hitler nel 1933, per stabilirsi fino alla sua morte (1955) a Princeton, dove diventa membro del prestigioso Institute for Advanced Study. Sul versante scientifico, le difficoltà sono di natura sia concettuale sia tecnica. La formulazione della teoria richiede infatti un nuovo linguaggio matematico che Einstein non possiede e la cui acquisizione gli costerà molto lavoro. È significativo quel che scrive al riguardo in una lettera del 1912 al fisico Sommerfeld: «Al momento mi sto occupando esclusivamente del problema della gravitazione e ora credo che riuscirò a superare tutte le difficoltà grazie all’aiuto di un amico matematico di qui [Marcel Grossmann (1878-1936)]. Ma una cosa è certa, in tutta la mia vita non ho mai lavorato tanto duramente, e l’animo mi si è riempito di un grande rispetto per la matematica, la parte più sottile della quale avevo finora considerato, nella mia dabbenaggine, un puro lusso. In confronto a questo problema, l’originaria teoria della relatività è un gioco da bambini». 419

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Un nuovo linguaggio matematico

Accelerazione e curvatura dello spazio

L’utilizzo della geometria di Riemann

La relatività generale

Perché un nuovo linguaggio matematico? Il motivo è il seguente: la teoria della relatività estesa a sistemi accelerati comporta «una modificazione ancor più profonda dei principi geometrici e cinematici che non la relatività ristretta». Cambia radicalmente la struttura geometrica dello spazio-tempo degli eventi fisici: lo spazio-tempo non è più quello ‘piatto’ della fisica classica e della relatività ristretta, ma uno spazio-tempo curvo, e che in più interagisce con la materia. Anzi, è proprio l’interazione gravitazionale con la materia a provocare la curvatura dello spazio-tempo: l’effetto di un campo gravitazionale è, cioè, esprimibile nei termini della curvatura dello spazio-tempo. Einstein arriva a questo risultato riflettendo sulla natura del campo gravitazionale e su che cosa se ne possa dedurre al riguardo considerando quello che succede in un sistema accelerato nello spazio-tempo di Minkowski (poiché un’accelerazione costante è equivalente a un campo gravitazionale), dove si assume la relatività ristretta come la teoria di partenza. La conclusione alla quale Einstein giunge in tale maniera è appunto che, per un osservatore che si trova in un sistema accelerato nello spazio-tempo di Minkowski, la geometria sarà diversa da quella euclidea; di conseguenza, se vale il principio di equivalenza, anche per un osservatore che si trovi all’interno di un campo gravitazionale la geometria sarà, in generale, diversa da quella ‘piatta’ della geometria euclidea (tanto più quanto maggiore è l’intensità del campo gravitazionale). Per descrivere questo nuovo scenario degli eventi è quindi necessaria una geometria diversa da quella usata in precedenza nella fisica. Come scrive Einstein: «Se tutti i sistemi accelerati sono equivalenti, allora la geometria euclidea non può valere in ciascuno di essi. Abbandonare la geometria e conservare le leggi è come descrivere i pensieri senza le parole. Bisogna cercare le parole prima di poter esprimere dei pensieri». Le ‘nuove parole’ che Einstein trova per la sua teoria della gravitazione sono quelle della geometria elaborata da Riemann per descrivere spazi a curvatura positiva (vedi p. 387 s.), e il «calcolo differenziale assoluto» (poi denominato da Einstein «calcolo tensoriale»), che rappresenta la generalizzazione del calcolo differenziale agli ‘spazi’ con un numero qualsiasi di dimensioni (le «varietà n-dimensionali» di Riemann). Grazie a questo nuovo linguaggio, Einstein arriva nel 1913 a identificare il campo gravitazionale con le dieci componenti del tensore metrico della geometria spazio-temporale di Riemann. Tuttavia solo verso la fine del 1915 Einstein riuscirà a risolvere davvero il problema di esprimere le equazioni del campo tensoriale metrico (gravitazionale) in forma invariante per trasformazioni generali di coordinate, nell’intento di realizzare in tal modo il principio della relatività generale (cioè il principio di relatività esteso anche ai sistemi non inerziali) per tutte le leggi fisiche. Estensione della relatività ristretta ai sistemi in moto accelerato uniforme (o soggetti a campi gravitazionali)

Il continuo quadridimensionale (spazio-tempo) è «curvo» (geometria non euclidea)

La curvatura dello spazio-tempo dipende dall’accelerazione (o dall’intensità del campo gravitazionale)

Lo spazio-tempo interagisce con la materia

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

Con l’affermazione della relatività generale, la teoria della gravitazione universale di Newton viene dunque ricondotta a un’approssimazione (valida per campi gravitazionali poco intensi) della teoria della gravitazione di Einstein. Dal punto di vista delle conferme sperimentali, a differenza di quanto era successo per la relatività ristretta, che disponeva di un vasto numero di prove osservative nel campo dei fenomeni elettromagnetici, la relatività generale ha inizialmente solo due evidenze: la misura dell’equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale (il principio di equivalenza) e il corretto calcolo del valore misurato della variazione secolare della posizione del perielio (cioè il punto di maggior vicinanza al Sole) di Mercurio (il problema della cosiddetta «precessione del perielio di Mercurio», che la fisica newtoniana non riusciva a risolvere). Due conferme Questo spiega l’entusiasmo con cui viene salutata la prima previsione della teoalle previsioni ria: si tratta della spettacolare conferma sperimentale della stima ricavata da di Einstein Einstein della deviazione della luce da parte di un campo gravitazionale, conferma che avviene nel 1919 durante una spedizione nei mari del Sud condotta dal fisico britannico Sir Arthur Stanley Eddington (1882-1944), in cui viene misurata la deflessione dei raggi di luce provenienti da alcune stelle durante un’eclisse totale di Sole. A questa conferma si aggiungerà poi nei primi anni sessanta, quella della previsione einsteiniana della variazione della frequenza della luce quando entra o esce da un campo gravitazionale (il cosiddetto «redshift» o spostamento verso il rosso della radiazione).

Le prove sperimentali

4 Einstein e i quanti

Il problema della radiazione di corpo nero

La soluzione di Planck

I quanti di luce e la nascita della meccanica quantistica Negli stessi anni in cui ha inizio il processo che porta Einstein a formulare le sue teorie della relatività, nasce un’altra teoria rivoluzionaria della fisica del Novecento: la «teoria dei quanti». Anche in tal caso Einstein riveste un ruolo chiave, e questo già dal ‘mirabile’ 1905, con i suoi due lavori dedicati, rispettivamente, al «moto browniano» e ai quanti di luce o «fotoni». Ma vediamo il contesto in cui s’inseriscono questi due contributi dell’allora giovane scienziato. Nel dicembre del 1900, il fisico tedesco Max Planck aveva ottenuto una soluzione geniale di un problema relativo alla radiazione termica che aveva impegnato i fisici per quarant’anni: il problema della radiazione di corpo nero. Il problema nasceva dal fatto che non era possibile spiegare, sulla base delle leggi classiche della termodinamica e dell’elettromagnetismo, lo spettro della radiazione che si produceva in una cavità le cui pareti, a una data temperatura, non lasciavano uscire alcuna radiazione (cavità detta perciò «corpo nero»). La soluzione proposta da Planck si basava sulla seguente ipotesi riguardo alla fisica microscopica: mentre l’energia della radiazione elettromagnetica nel vuoto si distribuisce con continuità seguendo quanto previsto dalla teoria di Maxwell, la materia è costituita invece da minuscoli oscillatori elettrici che assorbono ed emettono energia radiante E solo per «quanti» discreti; da cui la relazione E = hν (dove h è la cosiddetta «costante di Planck» e ν è la frequenza dell’oscillatore materiale). Ma per Planck, che rimane molto ancorato al mondo della fisica classica, si tratta di un’ipotesi di carattere essenzialmente strumentale, cioè non relativa alla realtà dei fatti. L’accettazione di una ineliminabile discretizzazione dell’ener421

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

gia, e in generale delle grandezze fisiche su scala atomica, richiede vari anni. Il primo passo in questa direzione è compiuto proprio da Einstein nel 1905.

La vita Il fisico tedesco Max Karl Ernst Ludwig Planck nacque a Kiel il 23 aprile 1858. Studiò a Monaco, dove la famiglia si trasferì nel 1867 e fin dai primi anni si interessò alle materie scientifiche e in particolare alla fisica. Dopo aver studiato a Monaco e a Berlino ottenne il dottorato nel 1879 e l’abilitazione all’insegnamento nel 1880 con due tesi sulla teoria del calore. Nel 1889 propose per la prima volta l’ipotesi della discontinuità degli scambi di energia. Da lì con le sue elaIl problema del moto browniano

Einstein e il moto browniano

La radiazione, i fotoni e la riformulazione einsteiniana del problema del corpo nero

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borazioni successive e i contributi fondamentali di altri scienziati, tra cui Einstein, Bohr, Heisenberg, Schrödinger, ebbe avvio la fisica quantistica, una delle più profonde rivoluzioni della storia delle scienze naturali. Per la sua teoria quantistica Planck ottenne il premio Nobel per la fisica nel 1918. Nel 1944 fu colpito da un grave lutto per la fucilazione di uno dei quattro figli, Erwin, coinvolto in un attentato contro Hitler. Morì a Gottinga il 4 ottobre 1947.

Il ragionamento di Planck si basava sull’approccio statistico alla termodinamica sviluppato da Boltzmann (vedi p. 406 s.). Einstein, quando ne viene a conoscenza, ha già sviluppato per conto proprio ricerche nel campo della meccanica statistica e della teoria cinetico-molecolare basata su di essa, allo scopo di trovare fatti a conferma dell’ipotesi atomica (all’epoca non ancora del tutto accettata). Nel corso di questi studi, il giovane ricercatore s’imbatte in quei tipi di moto detti «browniani», dal loro scopritore, il botanico inglese Robert Brown (17731858). Brown aveva osservato nel 1828 che il polline, disperso nell’acqua, si divideva in corpuscoli che si muovevano in modo del tutto irregolare. Nel corso dell’Ottocento si era tentato senza successo di spiegare la peculiarità di questi moti in funzione della luce incidente sul fluido, della viscosità di quest’ultimo e delle dimensioni delle particelle sospese nell’acqua. L’idea di Einstein, nel suo lavoro sui moti browniani dal significativo titolo Il moto delle particelle in sospensione nei fluidi in quiete, come previsto dalla teoria cinetico-molecolare del calore, è che la presenza di tali moti sia invece riferibile all’esistenza di atomi di dimensioni finite che urtano sui corpuscoli di polline in sospensione nel fluido, e che quindi il loro carattere irregolare sia spiegabile sulla base delle fluttuazioni della pressione previste dalla teoria cinetico-molecolare. Questo permette ad Einstein di arrivare al seguente notevolissimo risultato: la possibilità di ottenere «una determinazione esatta della vera grandezza degli atomi» semplicemente misurando con un microscopio gli spostamenti medi dei corpuscoli in sospensione. Contemporaneamente, e sempre sulla base dello studio statistico delle fluttuazioni di particelle microscopiche, Einstein lavora anche al problema della natura della radiazione. Utilizzando le sue ricerche sul moto browniano pure in questo ambito, e supponendo che i corpuscoli in sospensione siano elettricamente carichi e che quindi emettano e assorbano radiazione, Einstein arriva a riformulare il problema del corpo nero nei termini di una sorta di moto browniano: gli oscillatori elementari, che secondo l’ipotesi di Planck costituiscono la materia (delle pareti della cavità), assumono il ruolo dei corpuscoli in sospensione, e il ‘fluido’ nel quale sono immersi è il campo di radiazione elettromagnetica presente nella cavità. Ciò gli permette di trattare il sistema complessivo secondo la teoria statistica del calore e di giungere alla seguente fondamentale conclusione: se vale l’ipotesi di Planck della quantizzazione dell’energia emessa e assorbita dai corpuscoli di materia, si deve concludere che anche la radiazione si comporta come se fosse composta da particelle, le cui fluttuazioni di energia e pressione

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

sono responsabili dei moti dei corpuscoli. La quantizzazione dell’energia deve valere, cioè, non solo per gli oscillatori materiali ma anche per la radiazione elettromagnetica: in altre parole, anche la radiazione, e non solo la materia come voleva l’ipotesi di Planck, è composta da particelle elementari o «quanti», i cosiddetti «fotoni». L’impatto dell’ipotesi L’ipotesi dei quanti di luce è per Einstein la chiave di volta per comprendere andei quanti di luce che altri fenomeni, oltre alla «radiazione di corpo nero», che l’elettromagnetismo classico non era in grado di spiegare. Come scrive Einstein nella parte introduttiva del suo fondamentale lavoro del 1905 intitolato Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce:

T18

La discontinuità della luce A. Einstein, Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce

L’effetto fotoelettrico

La luce: teoria classica e teoria quantistica

[…] nonostante gli esperimenti abbiano pienamente confermato la teoria della diffrazione, della riflessione, della rifrazione, della dispersione e così via [tutte fondate sulla natura ondulatoria della luce], è concepibile che una teoria della luce basata su funzioni spaziali continue porti a contraddizioni con l’esperienza se la si applica ai fenomeni della generazione e trasformazione della luce. A me sembra infatti che le osservazioni sulla «radiazione di corpo nero», la fotoluminiscenza, la generazione dei raggi catodici tramite luce ultravioletta e altre classi di fenomeni concernenti la generazione o la trasformazione della luce appaiano più comprensibili nell’ipotesi di una distribuzione spaziale discontinua dell’energia luminosa. Con l’ipotesi che «quando un raggio luminoso uscente da un punto si propaga, l’energia non si distribuisce in modo continuo», ma consiste invece «di quanti di energia, che possono essere generati e assorbiti solo nella loro interezza», Einstein riesce così a spiegare fenomeni che risultano incomprensibili se considerati solo nell’ambito di una teoria ondulatoria della luce. In particolare, riesce a ottenere la corretta descrizione dell’effetto fotoelettrico (emissione di elettroni da parte di un metallo su cui incide un fascio di luce), fornendo una spiegazione del fatto che il fenomeno si verifichi solo se la frequenza della radiazione incidente supera un dato «valore soglia».

Teoria classica della luce

Teoria quantistica della luce

L’energia luminosa si distribuisce in modo continuo

L’energia luminosa si distribuisce in modo discreto (in «quanti»)

È possibile generare e assorbire qualsiasi quantità di energia luminosa (l’energia può essere divisa a piacere)

È possibile generare e assorbire solo multipli di una certa quantità di energia luminosa (l’energia può essere divisa solo fino ai quanti di luce)

Entra in contraddizione con alcuni fenomeni

La lunga genesi della meccanica quantistica

Riesce a spiegare i fenomeni incompatibili con la teoria classica

Planck e Einstein rappresentano dunque le due figure chiave per la nascita della cosiddetta «teoria dei quanti». Dalle prime ipotesi sulla natura quantistica della materia e della radiazione fino alla completa formulazione della meccanica quantistica – la teoria fisica con la quale si descrive il comporta423

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Gli oggetti della fisica quantistica

L’indeterminatezza quantistica

Il principio di sovrapposizione

Un altro mondo?

➥ Sommario, p. 426

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mento degli oggetti microscopici – passeranno più di vent’anni. Si tratta di un lungo e travagliato processo, che vede tra i suoi principali protagonisti personaggi come il danese Niels Bohr (1885-1962), il tedesco Werner Heisenberg (1901-1976), l’austriaco Erwin Schrödinger (1887-1961) e l’inglese Paul A.M. Dirac (1902-1984), e che comporta profondi mutamenti nella concezione non solo del mondo microscopico ma anche di categorie fondamentali utilizzate dagli scienzati nella descrizione del mondo esterno quali quelle di «oggetto fisico», e «causalità». Gli oggetti della fisica quantistica, come gli atomi e le particelle subatomiche e subnucleari, non hanno le caratteristiche che di solito contraddistinguono gli oggetti fisici macroscopici (gli oggetti della fisica classica). Mentre questi ultimi sono di solito caratterizzati come ‘oggetti’ sulla base di proprietà come «avere una certa massa», «occupare una certa posizione nello spazio» e «persistere nel tempo» (cioè avere continuità nello spazio e nel tempo), ed «essere distinguibili da altri oggetti simili» (tramite la posizione, per esempio), lo stesso non si può dire per gli oggetti quantistici. Una particella come il fotone ha massa nulla, gli elettroni di uno stesso sistema atomico sono tra loro indistinguibili, le particelle quantistiche non hanno una traiettoria definita e possono essere create e distrutte (per effetto della relazione tra massa ed energia scoperta da Einstein come conseguenza della relatività ristretta). A un oggetto ‘classico’, come una pietra o un tavolo, possono essere attribuite con certezza tutte le proprietà che lo contraddistinguono come tale, mentre nel caso di un oggetto quantistico questo non succede. Per esempio, è impossibile attribuire allo stesso tempo a una particella microscopica un valore preciso della posizione e della velocità (e quindi definirne la traiettoria) per via del «principio di indeterminazione» di Heisenberg, che pone appunto delle limitazioni alla precisione con la quale è possibile effettuare misure contemporanee di posizione e velocità di una particella quantistica, e questo indipendentemente dal grado di sofisticazione dello strumento di misura. Infine, nel mondo quantistico vale il «principio di sovrapposizione», per cui la somma di due possibili stati di un sistema fisico è ancora uno stato possibile del sistema. Questo significa, per riprendere un famoso esperimento mentale di Schrödinger, che se il gatto fosse un oggetto quantistico, lo stato formato dalla sovrapposizione dello stato ‘gatto vivo’ e dello stato ‘gatto morto’ sarebbe ancora uno stato possibile per il povero gatto. In un tale stato di sovrapposizione il gatto non sarebbe né vivo né morto. Queste e altre caratteristiche fanno sì che il mondo descritto dalla meccanica quantistica risulti davvero molto lontano, anche dal punto di vista concettuale oltre che fisico, da quello delle nostra esperienza quotidiana. Ma dove comincia questo mondo? Dove è la demarcazione tra mondo classico e mondo quantistico? Oggi si sa che questo confine non coincide necessariamente con quello tra mondo macroscopico e mondo microscopico. Ma anche se così fosse, il problema di dove tracciare esattamente il confine tra macroscopico e microscopico rimane ed è tuttora al centro di un vivo dibattito.

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica Suggerimenti bibliografici Per comprendere gli sviluppi delle teorie matematiche esaminate alle pp. 381-393 e inquadrarle nell’ambito della storia della matematica vedi U. Bottazzini, Il flauto di Hilbert. Storia della matematica, UTET, Torino 2006, oltre alle monografie di R. Tazzioli, Gauss, «I grandi della scienza» n. 28, Le Scienze, 2002 e Riemann, «I grandi della scienza» n. 14, Le Scienze, 2000. Per una ricostruzione d’insieme del dibattito sui fondamenti della matematica vedi i volumi di A. Cantini, I fondamenti della matematica, Loescher, Torino 1979, E. Casari, La filosofia della matematica del ’900, Sansoni, Firenze 1973 e E. Casari - G. Israel - F. Marchetti, I fondamenti della matematica dall’’800 ad oggi, Guaraldi, Firenze 1978. Per un approfondimento specifico sul teorema di Gödel vedi G. Lolli, Incompletezza, il Mulino, Bologna 1992. Per una ricostruzione della storia della fisica tra Ottocento e Novecento vedi E. Bellone, Caos e armonia. Storia della fisica moderna e contemporanea, UTET, Torino 1990, mentre per approfondimenti su Einstein si consiglia la consultazione del volume da cui sono state tratte le citazioni utilizzate alle pp. 410-423: A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988. I brani antologizzati sono tratti da: J.-H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, a cura di C. Sinigaglia, Bompiani, Milano 2003, p. X. G. Boole, Indagine sulle leggi del pensiero, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1976, p. 9. R. Dedekind, Che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i numeri?, cit. in A. Cantini, I fondamenti della matematica, Loescher, Torino 1979, p. 77. R. Dedekind, Continuità e numeri irrazionali, cit. in A. Cantini, I fondamenti della matematica, cit., p. 76. G. Frege, I fondamenti dell’aritmetica, in A. Cantini, I fondamenti della matematica, cit. p. 98. P.-S. Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità, in U. Bottazzini, Il flauto di Hilbert, UTET, Torino 1990, p. 71. C. Cercignani, Ludwig Boltzmann e la Meccanica Statistica, La Goliardica Pavese, Pavia 1997, p. 133 (T7). J.C. Maxwell, The Scientific Papers of James Clerk Maxwell («Gli articoli scientifici di James Clerk Maxwell»), trad. in E. Bellone, Caos e armonia. Storia della fisica moderna e contemporanea, UTET, Torino 1990, p. 223. A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 69 (T9), pp. 6970 (T10), p. 86 (T11), p. 87 (T12), p. 88 (T14 e T15), pp. 118-119 (T18), p. 148 (T13), p. 571 (T17). A. Einstein, Collected Papers of Albert Einstein, vol. 7, Princeton University, Princeton 2002 (T16). Il brano di G. Peacock citato a p. 390 è tratto da U. Bottazzini, Il flauto di Hilbert, cit., p. 125.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Sommario 1. PERCHÉ

SI PARLA DI ‘NUOVA SCIENZA’

Il periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento segna un cambiamento epocale nella storia della scienza. Emergono teorie che scuotono la matematica e la fisica dalle fondamenta e senza le quali non è possibile comprendere la scienza contemporanea e la sua immagine del mondo: le geometrie non euclidee, la logica moderna, la teoria della relatività einsteiniana e la meccanica quantistica.

Ancora diverso è il programma formalista di David Hilbert, che si rivolge allo studio dei sistemi assiomatici intesi come teorie deduttive prescindendo dalle loro interpretazioni. Il formalismo vuole fondare l’aritmetica su se stessa costruendo un sistema assiomatico dell’aritmetica che dimostri la propria non contraddittorietà. Il programma formalista naufraga quando Gödel dimostra che un sistema con queste caratteristiche è impossibile. [par. 4]

2. LE

4. LE

PREMESSE MATEMATICHE

Dopo duemila anni viene messa in discussione la più ‘certa’ delle teorie matematiche: la geometria euclidea. I matematici dell’Ottocento (Gauss, Bolyai, Lobacˇevskij, Riemann) sviluppano altri sistemi di assiomi, che descrivono spazi di forma diversa. [par. 1] Si apre così il problema del rapporto tra spazio geometrico e spazio fisico. Contro la tesi kantiana della validità a priori della geometria euclidea riprende forza la posizione empirista, secondo cui è solo con gli esperimenti che si può decidere qual è la struttura dello spazio fisico. Nasce il convenzionalismo secondo cui la scelta tra una geometria e l’altra non sottostà a ragioni oggettive cogenti. [par. 2] Nel campo dell’algebra la progressiva astrazione porta all’abbandono del riferimento alle quantità. Nasce con Boole l’algebra della logica, il calcolo delle proposizioni che sarà la base per la nascita della logica moderna. [par. 3]

Per dare un fondamento sicuro all’analisi matematica si cerca di ridurla all’aritmetica e in questo contesto sono fondamentali le ricerche sulla definizione del continuo, ossia l’aritmetizzazione dell’analisi, di Dedekind e Cantor (che elabora l’aritmetica dei numeri transfiniti). [par. 4] 3. IL

DIBATTITO SUI FONDAMENTI DELLA MATEMATICA

Frege tenta di fondare la matematica attraverso la riduzione dell’aritmetica alla logica, logicismo, ma, come dimostra l’antinomia di Russell, il suo sistema non è completamente coerente. Con il fallimento del sistema di Frege l’esigenza di fondare la matematica diventa una crisi dei fondamenti. [par. 1] Nascono nuovi progetti fondazionali. Il primo è elaborato dallo stesso Russell, che nel solco logicista di Frege propone un nuovo sistema logico in cui non ci sono circoli viziosi e paradossi, ma che si dimostra troppo restrittivo e incapace di ricostruire l’intera matematica. [par. 2] Una linea di ricerca diversa è l’intuizionismo, che nasce dalle riflessioni di Brouwer. Egli elabora una nuova teoria del continuo e una nuova fondazione dell’analisi, che riconduce la matematica a una costruzione mentale a partire da un’unica intuizione fondamentale. [par. 3]

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PREMESSE FISICHE

La fisica nel periodo tra Newton e Einstein, la fisica classica, non porta rivoluzioni nella concezione della realtà fisica, ma compie grandi progressi sia con l’estensione e il raffinamento dei risultati già acquisiti, sia con l’esplorazione di settori ancora non indagati e la scoperta di nuovi fenomeni. [par. 1] Il tentativo di ridurre la fisica all’analisi matematica porta a creare nuovi strumenti di calcolo e alla nascita della meccanica razionale; un nuovo approccio allo studio di fenomeni fino ad allora poco conosciuti (calore, luce, elettricità, magnetismo) porta a comprenderli con l’introduzione dei concetti di energia e di entropia e la nascita di nuove teorie come la termodinamica, la meccanica statistica e l’elettromagnetismo. [parr. 2-3-4] 5. LE

RIVOLUZIONI DELLA FISICA

Il protagonista principale dei cambiamenti teorici che hanno segnato la fisica del Novecento è Albert Einstein. Partendo da una riflessione sulla teoria di Maxwell egli elabora la teoria della «relatività ristretta», che asserisce l’invarianza delle leggi della fisica al cambiare dei sistemi di riferimento inerziali e il carattere relativo del concetto di simultaneità. [parr. 1-2] Einstein si propone poi di estendere la teoria della relatività ai sistemi di riferimento non inerziali, cioè accelerati. Nasce la teoria della «relatività generale», che richiede una geometria non euclidea e con una curvatura che dipende dal campo gravitazionale. Si ha quindi una nuova fisica relativistica; quella newtoniana resta valida solo come approssimazione per sistemi con velocità molto minori di quella della luce e campi gravitazionali poco intensi. [par. 3] La seconda rivoluzione scientifica dell’inizio del Novecento è la nascita della fisica quantistica. Partendo da un’ipotesi di Planck sulla natura discreta dell’energia emessa e assorbita dalla materia, Einstein teorizza la quantizzazione della stessa energia elettromagnetica. Da queste premesse parte la costruzione della meccanica quantistica: un modo nuovo di considerare le particelle fisiche e i loro movimenti, radicalmente diverso da quello classico, con il principio di sovrapposizione e quello di indeterminazione che arrivano a mettere in discussione il concetto stesso di oggetto fisico com’è abitualmente inteso. [par. 4]

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Unità 10 La nuova scienza: matematica e fisica

Parole chiave Aritmetica dei numeri transfiniti. Calcolo aritmetico elaborato da Cantor nell’ambito dei suoi studi sulla definizione del continuo; si caratterizza per l’impiego di numeri infiniti di diversa grandezza. Aritmetizzazione dell’analisi. Tentativo di ridurre l’analisi all’aritmetica, con il proposito di dare all’analisi una fondazione più sicura; il problema principale in questa linea di ricerca è la definizione del concetto di quantità continua ovvero la costruzione dei numeri reali a partire dai numeri naturali. Elettromagnetismo. Insieme di fenomeni causati dall’azione delle forze elettriche e magnetiche, che dopo lunghi studi hanno trovato una descrizione esaustiva e una sintesi complessiva nelle equazioni di Maxwell, una delle ultime grandi conquiste della fisica ‘classica’. Entropia. Concetto fondamentale della fisica a partire dalla fine dell’Ottocento, particolarmente in relazione alla termodinamica. Introdotto da Clausius che lo definiva come il contenuto di trasformazione di un corpo, il concetto di entropia è stato successivamente riformulato nei termini della meccanica statistica come misura del numero dei microstati che compongono lo stato di un sistema fisico macroscopico. In base all’ultima definizione l’entropia può essere considerata l’indice del disordine di un sistema fisico. Fisica classica. Viene così definita la fisica precedente alle rivoluzioni relativistica e quantistica. La più importante delle teorie della fisica classica è la meccanica di Newton che fino ad Einstein è rimasta la base indiscussa di ogni sviluppo della fisica. Fisica relativistica. Viene così definita la fisica rivoluzionata dalle teorie della relatività di Einstein (teoria della relatività ristretta e teoria della relatività generale), in contrapposizione alla ‘fisica classica’ basata sulla meccanica di Newton. Nella fisica relativistica le leggi restano invariate in tutti i sistemi di riferimento, mentre le grandezze con cui si misura il movimento (spazio, tempo, velocità) sono relative al sistema di riferimento. Con le teorie di Einstein sono ridefinite la struttura dello spazio-tempo e la sua relazione con la materia. Formalismo. Programma di fondazione della matematica proposto da Hilbert e perseguito soprattutto con l’intento di costruire un sistema assiomatico dell’aritmetica in grado di dimostrare la propria non contraddittorietà, e quindi di giustificare se stesso indipendentemente da ogni interpretazione.

Geometrie non euclidee. Sistemi geometrici diversi da quello di Euclide, elaborati dai matematici dell’Ottocento e successivamente applicati alla fisica. Si caratterizzano per la variazione del quinto postulato del sistema di Euclide (postulato dell’unicità della parallela) e per la conseguente ‘curvatura’ dello spazio rispetto a quello ‘piatto’ euclideo. Intuizionismo. Teoria dei fondamenti della matematica sviluppata a partire dalle riflessioni di Brouwer, che riconducono la matematica al pensiero indipendente dal linguaggio e dalla logica; la matematica è vista come costruzione mentale a partire da un’unica intuizione fondamentale, cioè l’intuizione dell’invarianza nel cambiamento o dell’unità nel molteplice. Logicismo. Nel dibattito sui fondamenti della matematica è la posizione di coloro che tentano di ridurla alla logica, in particolare di ricostruire l’intera aritmetica all’interno di un sistema puramente logico. Ne sono esempi il sistema di Frege e quello dei Principia Mathematica di Russell e Whitehead. Principio di relatività galileiano. Principio risalente al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei secondo il quale le leggi meccaniche sono le stesse in ogni sistema di riferimento inerziale. La sua estensione alle equazioni dell’elettromagnetismo darà luogo alla teoria della relatività ristretta di Einstein. Quanti e fisica quantistica. L’introduzione dei quanti di energia, cioè la distribuzione discreta e non più continua dell’energia, cambia completamente volto alle teorie fisiche poiché comporta la distribuzione discreta (quantizzazione) e non più continua dell’energia. Nella fisica «quantistica» vengono sovvertiti principi basilari della concezione precedente (classica) del mondo fisico, come l’identificabilità e la determinatezza delle proprietà degli oggetti e la causalità. Reversibilità / Irreversibilità. Sono detti irreversibili i processi nei quali non si può tornare indietro: tali processi non possono essere invertiti nel tempo, ossia a partire dal loro stato finale non è possibile recuperare quello iniziale. Varietà n-dimensionali. Concetto introdotto da Riemann per definire ‘spazi’ con qualsiasi numero di dimensioni, caratterizzate da una curvatura che ne determina la geometria: ‘piatta’ come quella euclidea, oppure iperbolica o ellittica come quelle non euclidee studiate dai matematici a partire dall’Ottocento. 427

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Questionario PERCHÉ 1

LE

IL

SI PARLA DI ‘NUOVA SCIENZA’

Quali sono i due fili conduttori dei diversi mutamenti avvenuti nella scienza tra Ottocento e Novecento? (max 1 riga)

PREMESSE MATEMATICHE

2

Qual è la prova della validità degli assiomi nel sistema euclideo? (max 1 riga)

3

Con quale variazione rispetto al sistema euclideo sono state formulate le nuove geometrie di Gauss, Bolyai, Lobacˇevskij, Riemann? (max 2 righe)

4

L’infinito di cui si occupa Cantor è un infinito attuale o un infinito potenziale? (max 1 riga)

15

Lavoriamo sui testi 16

Per Poincaré ha senso cercare di scoprire ‘la’ geometria dello spazio fisico (T1)? (max 1 riga)

17

Il «calcolo» di Boole non fa riferimento ai numeri. Qual è invece il suo oggetto (T2)? (max 2 righe)

18

Perché per Dedekind è importante trovare una definizione della continuità (T3)? (max 2 righe)

19

Secondo Frege in T5, «22» e «2+2» hanno lo stesso senso? E se non l’hanno come devono essere riformulate per averlo? (max 2 righe)

20

L’ipotetica intelligenza di cui scrive Laplace sarebbe onnisciente rispetto al mondo fisico (T6)? (max 1 riga)

21

È possibile nell’ambito della meccanica quantistica una conoscenza del mondo fisico come quella dell’intelligenza ipotizzata da Laplace in T6? (max 3 righe)

DIBATTITO SUI FONDAMENTI DELLA MATEMATICA

5

6

LE

L’intuizionismo ammette l’infinito attuale? E perché? (max 3 righe)

PREMESSE FISICHE

7

Perché i due principi della termodinamica escludono la possibilità del moto perpetuo? (max 5 righe)

22

8

Che cos’è la «morte termica» e che rapporto ha con l’entropia e con il concetto di trasformazione irreversibile di un corpo? (max 6 righe)

Come si possono ricollegare le considerazioni svolte da Boltzmann in T7 all’ipotesi della «morte termica» dell’universo? (max 2 righe)

23

Con cosa viene identificato nello spazio fisico il campo elettromagnetico (T8)? (max 1 riga)

24

Nel contesto ricordato da Einstein come si giustifica da parte della fisica classica l’introduzione del concetto di «etere» che è un’entità non osservabile (T10)? (max 2 righe)

25

Che cosa c’è di non relativo secondo il principio della relatività ristretta enunciato da Einstein in T11? (max 2 righe)

9

10

LE

L’antinomia di Russell ha dimostrato l’impossibilità di fondare la matematica sulla logica? (max 2 righe)

Su quali tipi di oggetti si è concentrata inizialmente la fisica quantistica? (max 2 righe)

Come e perché entrando nell’ambito della meccanica statistica cambia l’interpretazione del concetto di entropia e del secondo principio della termodinamica? (max 4 righe) Che tipo di processi fisici descrivono le equazioni di Maxwell e a quali classi di fenomeni si applicano? (max 4 righe)

RIVOLUZIONI DELLA FISICA

11

Perché nella teoria della relatività di Einstein non è vero che tutto è relativo? (max 2 righe)

26

In che modo Einstein in T14 prende le distanze dal convenzionalismo di Poincaré? (max 5 righe)

12

Che rapporto c’è tra la teoria della relatività galileiana e la teoria della relatività einsteiniana? (max 3 righe)

27

13

Che rapporto c’è tra la teoria della relatività di Einstein e le teorie filosofiche dello spazio e del tempo rispettivamente kantiana ed empirista? (max 5 righe)

Perché nella fisica relativistica il continuo quadridimensionale non può essere diviso, come nella fisica classica, in continuo tridimensionale dello spazio e continuo unidimensionale del tempo (T15)? (max 5 righe)

14

In che modo la teoria della relatività generale allarga e completa quanto già stabilito con la teoria della relatività ristretta? (max 3 righe)

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Unità 11 Husserl

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

La filosofia come scienza autonoma e rigorosa Un funzionario dell’umanità in lotta per la ragione Lo psicologismo e il suo superamento La dimensione dell’ideale e la fenomenologia della conoscenza L’espansione e l’approfondimento del progetto fenomenologico L’indagine fenomenologica oltre il lògos Il mondo della vita e il destino della ragione

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: La filosofia come scienza rigorosa

I testi La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: La responsabilità del filosofo, T1; La crisi delle scienze obiettive, T11; Il mondo della vita e l’intersoggettività, T12; L’uomo e la ragione, T13 Ricerche logiche: La macchina calcolatrice e le leggi ideali, T2; Il relativismo specifico e il senso di «vero», T3 Ricerche logiche. Ricerche sulla fenomenologia e sulla teoria della conoscenza: La teoria fenomenologica della conoscenza, T4; La fenomenologia pura, T5

Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica: Intenzionalità e coscienza, T6 L’idea della fenomenologia: Fenomeno puro e riduzione fenomenologica, T7 Kant e l’idea della filosofia trascendentale: Il mondo in una considerazione trascendentale, T8 Lezioni sulla sintesi passiva: Dalla teoria alla vita prelinguistica, T9 Esperienza e giudizio: L’oggetto singolo e il mondo, T10

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

1 La filosofia sotto assedio

La nascita della psicologia empirica

L’assalto all’autonomia della ragione: Nietzsche e Schopenhauer

La sfida dello storicismo

L’assedio alla filosofia

La filosofia come scienza autonoma e rigorosa Nel momento in cui Husserl inizia il suo percorso intellettuale, la filosofia è una disciplina sotto assedio. È in questione la sua stessa natura: se essa abbia un suo metodo peculiare, e se possa avere un campo suo proprio, un ambito di ricerca esclusivo. Questa crisi è di vecchia data: con la rivoluzione scientifica e la nascita della scienza fisico-matematica della natura il sapere filosofico si era già trovato confrontato con un modello di conoscenza rigoroso e potente, che si offriva come alternativa. Ma alla fine dell’Ottocento la questione si era acuita, poiché le scienze della natura iniziavano a presentarsi come competenti non soltanto per l’indagine dei fenomeni fisici, ma anche nell’ambito della riflessione sui fondamenti del sapere. La nascita della psicologia empirica – con i primi centri sperimentali a Lipsia (Wundt), Würzburg (Oswald Külpe, 1862-1915), Berlino (Carl Stumpf, 18481936) – vede emergere un progetto di ricerca secondo il quale lo studio empirico dei processi mentali consentirebbe di individuare i principi di fondo della conoscenza e del pensiero umani, senza ricorrere a procedimenti puramente concettuali, speculativi, ma sulla base di un accertamento ormai scientifico. Il pensiero e dunque i fondamenti di ogni sapere diventano, in questo progetto, un nuovo e basilare territorio delle scienze naturali. La ragione in quanto tale perde la sua autonomia: è anch’essa un prodotto della natura, indagabile in base ai principi delle scienze naturali. Già autori come Schopenhauer e poi Nietzsche avevano preparato una naturalizzazione delle funzioni del pensiero e l’idea di eteronomia, di dipendenza della ragione da altro: per Schopenhauer l’intelletto è una funzione naturale, comune all’uomo e agli animali, seppure in gradi diversi; per Nietzsche in generale la ragione è vista come un organo in funzione della vita, governata dalla volontà di potenza che la caratterizza, da un impulso che non ha come tale un senso razionale. L’eredità delle vicende filosofiche dell’Ottocento offre altri elementi di crisi: il carattere condizionato della ragione si presentava anche sotto l’aspetto della sua storicità. L’idea di Weltanschauungen, di visioni del mondo differenti e inconciliabili, relative a diverse culture dislocate nel tempo e nello spazio metteva in questione l’idea di una verità assoluta, di un razionalità universale non sottoposta a vincoli. Non solo le scienze naturali, ma anche le scienze storiche sembrano porre in questione il ruolo della filosofia. Scienze naturali (modello di conoscenza oggettiva)

Scienze storiche (relativismo storico delle visioni del mondo) Filosofia

Psicologia (indagine scientifica ed empirica sul pensiero e la conoscenza) All’inizio del Novecento la filosofia è ‘assediata’ dallo sviluppo della conoscenza scientifica in diversi campi: le scienze naturali moderne si propongono come nuovo modello di conoscenza oggettiva del mondo, le scienze storiche offrono una nuova e più ampia conoscenza delle differenti culture e quindi la consapevolezza dell’esistenza di molte e diverse visioni del mondo ciascuna valida nel proprio contesto, la psicologia promette un’indagine metodica e sistematica sulle modalità e le capacità della conoscenza umana. La filosofia sembra quindi ‘superata’ e le sue prerogative sembrano assunte, con nuove e maggiori potenzialità, dalle scienze empiriche.

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Nel pensiero di Husserl diviene ben presto centrale il tentativo di rivendicare alla ricerca filosofica uno spazio autonomo e una sua scientificità peculiare: rivolto inizialmente alla tematica più cruciale, quella della logica – dei principi e delle leggi stesse del pensiero e dunque delle verità attingibili con la ragione – il suo progetto filosofico si estende però gradualmente ad ambiti sempre più vasti, fino a sfociare in un generale ripensamento dell’idea di ragione nei confronti tanto delle scienze della natura quanto di quelle dello spirito, proponendosi come una riflessione di ampio respiro sulla «crisi delle scienze europee», su un modello di razionalità di cui Husserl cercava di mostrare i fondamenti e di evidenziare i limiti. La fenomenologia – il metodo filosofico e la visione della filosofia che Husserl cercherà di sviluppare e di approfondire – si presenta come l’idea di una filosofia pensata come scienza autonoma e rigorosa, capace di fondare in modo certo ed evidente la conoscenza che essa stessa raggiunge, e di indicare l’orizzonte di senso di tutte le scienze costruite dall’uomo, recuperando una razionalità in grado di rispondere a questioni ‘ultime’. Le prospettive Il progetto husserliano coglie un punto nevralgico della situazione filosofica del della fenomenologia suo tempo e interpreta un’esigenza diffusamente avvertita, così riesce presto ad aggregare intorno a sé energie intellettuali importanti. Nei termini in cui Husserl stesso lo persegue, attraversa un’elaborazione tormentata, subendo già nel suo dipanarsi importanti trasformazioni; viene inoltre interpretato fin dai primi tempi in modi diversi dagli autori che scelgono di richiamarsi alla fenomenologia. Il ‘sogno’ di una filosofia come scienza rigorosa non arriva a realizzarsi nei termini in cui Husserl cerca di pensarlo. Non si può dire però che il tentativo di rivendicare alla filosofia un suo spazio e una sua specificità non abbia dato i suoi frutti. Sarà la strada indicata e aperta dalla fenomenologia a consentire lo sviluppo di una parte non irrilevante del pensiero del Novecento, non soltanto delle scuole «fenomenologiche» in senso stretto: filosofi di primo piano come Max Scheler (1874-1928), Nicolai Hartmann (1882-1950), Martin Heidegger (1889-1976), Jean-Paul Sartre (1905-1979), Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), Emmanuel Lévinas (1905-1995) non sono pensabili senza la fenomenologia husserliana, come non lo sono orientamenti di pensiero che la presuppongono: l’ermeneutica, il ➥ Sommario, p. 455 poststrutturalismo, aspetti importanti della filosofia della mente.

Husserl: dalla difesa della logica alla difesa della ragione in generale

2 La vita e le opere

Un funzionario dell’umanità in lotta per la ragione

 Edmund Husserl nacque a Prossnitz (oggi Prose jov) in Moravia (Impero austro-ungarico) l’8 aprile 1859. Dopo studi scientifici a Lipsia e a Berlino, si spostò a Vienna dove conseguì il dottorato in matematica, ma soprattutto in seguito all’incontro con Franz Brentano iniziò a occuparsi di filosofia e di psicologia. Nel 1887 ottenne l’abilitazione con una tesi sull’analisi psicologica dei concetti aritmetici, scritta sotto la supervisione di Carl Stumpf. Husserl, proveniente da una famiglia di origine ebraica e di idee liberali nei confronti della religione, si convertì al cristianesimo e, sempre nel 1887, si sposò con Malvine Steinschneider, che sarebbe poi rimasta al suo fianco per tutta la vita. La carriera di Husserl si svolse in Germania, nelle uni-

versità di Gottinga prima e di Friburgo poi. Nel 1928 Husserl abbandonò l’insegnamento, ma non la ricerca filosofica che proseguì fino alla fine dei suoi giorni, nonostante le difficoltà e l’amarezza causate dall’affermazione del nazismo, le cui leggi discriminatorie colpirono anche lui a causa delle sue origini ebraiche. Husserl morì a Friburgo il 26 aprile 1938 lasciando un’imponente mole di manoscritti inediti. Tra le sue opere principali: Ricerche logiche I (1900) e Ricerche logiche II (1901); L’idea della fenomenologia (lezioni inedite del 1907); Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913); La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, composta per la maggior parte nel 1935-1937, fu pubblicata nel 1953.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Un filosofo inquieto

Il «movimento fenomenologico»

La ricerca indefessa della chiarezza

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A dispetto del rigore, e qualche volta dell’impressione di aridità tecnica, che traspare dai suoi scritti, con la loro ricerca incessante di precisione e di certezza, Husserl è stato un pensatore inquieto e tormentato. La sua prima formazione intellettuale è prevalentemente quella di un matematico: studia matematica a Lipsia, Berlino (con l’importante studioso di questa disciplina Carl Weierstrass, 18151897), Vienna, e completa la sua tesi di dottorato nel 1882, intitolata Contributi alla teoria del calcolo delle variazioni. Gli interessi filosofici però si manifestano presto: a Vienna segue le lezioni di Franz Brentano (1838-1917), importante filosofo austriaco, il cui particolare interesse per la psicologia orienterà le sue ricerche. Su consiglio di Brentano si reca a Halle per abilitarsi con Carl Stumpf, filosofo e psicologo sperimentale. Nel suo percorso successivo intreccia prima filosofia e matematica con la Filosofia dell’aritmetica (1891) per muovere poi verso problematiche logiche e filosofiche. Dopo «un decennio di lavoro appassionato e spesso disperante» pubblica le voluminose Ricerche logiche, in cui affronta in modo radicale i principali problemi relativi allo statuto della logica, ma soprattutto delinea l’impostazione filosofica generale che chiama «fenomenologia». Le Ricerche logiche attirano l’attenzione di molti. Nel 1901 Husserl è professore a Gottinga, e qui comincia a formarsi dopo qualche anno intorno a lui qualcosa di simile a una ‘scuola’, un gruppo di studiosi che si richiamano alla fenomenologia, i cui principali rappresentanti sono Jean Hering (1880-1966), Edith Stein (1891-1942), Alexander Koyré (1892-1964), Roman Ingarden (1893-1970). Ancor prima a Monaco di Baviera nasce un circolo fenomenologico, costituito da Johannes Daubert (1877-1947), Alexander Pfänder (1870-1941), Adolf Reinach (1883-1917), Moritz Geiger (1880-1937), Hedwig Conrad Martius (1888-1966). Nonostante il carattere poco retorico e poco accattivante della scrittura di Husserl e delle sue tematiche, si profila un vero e proprio «movimento fenomenologico», che se non costituisce una scuola vera e propria, raccoglie però gruppi di filosofi – alcuni dei quali di primissimo piano – che in vario modo si ricollegano al pensiero di Husserl. La fenomenologia nel 1913 si esprime attraverso un suo organo, l’«Annale per la filosofia e la ricerca fenomenologica» («Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung»), che Husserl fonda insieme a Geiger, Pfänder, Reinach e Max Scheler. Il percorso filosofico e interiore di Husserl resta tuttavia inquieto. Nel 1906 annota: «ho provato a sufficienza i tormenti derivanti dalla mancanza di chiarezza». La ricerca di chiarezza è per lui insieme un compito intellettuale ed esistenziale, il tentativo di trovare per sé e per la ragione in quanto tale stabilità e unità. Così si esprime già in una lettera del 1896: «Questo tenace combattere al fine di giungere a saldi punti fermi, a una base sicura, a un frammento di vera scienza (qualcosa che non viene inventato, fatto, ma in quanto essente in sé può essere solo trovato), questa lotta contro tutti i punti di vista e tutte le pseudoteorie, che in fondo non pretendono esse stesse di essere obiettivamente vincolanti – in ciò si decide il successo o l’insuccesso, la felicità o l’infelicità della mia vita». Con le Ricerche logiche Husserl ritiene di aver trovato stabilità interiore, ma in realtà la sua posizione filosofica nel decennio successivo cambia in misura considerevole. La sua inquietudine non può non tradursi così anche in inquietudine del movimento fenomenologico: una parte dei suoi componenti non segue Husserl nella strada che delinea proprio nel numero inaugurale dell’«Annale», dove pubblica il primo volume delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Più che dar luogo a una scuola vera e propria, la

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L’incontro con Heidegger

Testi editi e inediti

Il pensiero come missione

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La responsabilità del filosofo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, par. 7

fenomenologia è in grado di esercitare la funzione di straordinario catalizzatore di energie filosofiche. Nel 1916 Husserl viene chiamato all’università di Friburgo, dove ha altri e importanti allievi, tra i quali Eugen Fink (1905-1975), Emmanuel Lévinas, Aron Gurvitsch (1901-1973), Alfred Schütz (1899-1959), Karl Löwith (1897-1973). Ma l’incontro più significativo a Friburgo è quello con Martin Heidegger, che diventa suo assistente e che a un certo punto Husserl – ritenendo che i fenomenologi di Monaco e Gottinga non vogliano seguirlo seriamente – vede come il suo allievo più fedele, fino a sostenere in una occasione che «la fenomenologia siamo io e Heidegger, e nessun altro». Con la pubblicazione nel 1927 nell’«Annale» del capolavoro di Heidegger Essere e tempo, ispirato alla metodologia di Husserl ma molto lontano dal suo pensiero nello stile e nei risultati, questa convinzione viene meno. A dispetto della risonanza della fenomenologia, il cammino di Husserl è in qualche modo solitario. La difficoltà a trovare veri seguaci spinge Husserl a scrivere a un certo punto di essere diventato lui stesso «il più grande nemico del noto movimento fenomenologico husserliano». Il carattere tormentato del suo percorso teorico, la sua sempre rinnovata ricerca di chiarezza e certezza fanno sì che Husserl nel corso della sua vita pubblichi poche opere, e che molte di esse si presentino come sempre rinnovate introduzioni alla fenomenologia, come scritti programmatici che ricominciano sempre daccapo. L’amplissimo lavoro concreto e di dettaglio che intanto svolge – esposto nelle lezioni universitarie – è stato reso noto in gran parte solo dopo la sua morte, grazie all’enorme quantità di manoscritti stenografati (circa 45.000 pagine) conservati ancora oggi nell’archivio Husserl di Lovanio. Husserl era consapevole di questo suo limite, e scriveva nel 1922: «la maggior parte dei miei lavori è nascosta nei miei manoscritti. Quasi maledico la mia incapacità di darmi forma finita ed il fatto che così tardi, in parte soltanto adesso, io sia fatto partecipe dei pensieri sistematici universali che, favoriti da tutte le mie ricerche particolari svolte finora, costringono ora anche a rielaborarle tutte. Tutto nello stadio della ristrutturazione! Forse io lavoro, con tutta la tensione delle forze umanamente possibile, solo per il mio lascito postumo». L’impegno di Husserl non era dettato da ambizioni personali, ma dalla convinzione di avere davanti a sé una missione, il «compito colossale che mi è capitato nella lotta annosa per definire il metodo di una filosofia rigorosamente scientifica». Su questo sfondo si comprendono meglio il suo lavoro affannoso, le esitazioni, il peso che avevano su di lui le incertezze. Non si trattava ai suoi occhi di un problema settoriale, ma della questione decisiva per la cultura occidentale e per l’umanità in genere: Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza universale. […] Noi siamo riusciti a comprendere, anche se solo nelle linee più generali, come il filosofare umano e i suoi risultati non abbiano affatto il significato puramente privato o comunque limitato di uno scopo culturale. Noi siamo dunque – e come potremmo dimenticarlo? – nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato, lo può soltanto attraverso la filosofia. 433

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La ‘miseria’ della situazione presente era però quella di non poter dare un fondamento a questa fede nella filosofia. Si trattava di trovare il modo, scriveva ancora Husserl, «di poter credere, noi che già crediamo». Gli ultimi anni Nel momento in cui lascia l’insegnamento, nel 1928, Husserl pensa di potersi ostacolati dal nazismo dedicare interamente, seppure anziano, a realizzare il suo compito filosofico; ma pochi anni dopo il nazionalsocialismo, al potere in Germania dal 1933, non solo gli toglie – in quanto ebreo – l’autorizzazione a insegnare, ma gli proibisce l’accesso all’università e dispone la cancellazione delle sue opere tra quelle che potevano essere considerate parte della «storia del popolo tedesco». Anche la partecipazione a un congresso mondiale di filosofia a Parigi nel 1937, un anno prima della sua morte, gli viene proibita. La conferenza su La crisi delle scienze europee – in cui presenta l’alternativa tra «il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia» – deve venire pubblicata all’estero, a Belgrado. Anche il libro Esperienza e giudizio, preparato e pubblicato dopo la sua morte nel 1938 dall’allievo Ludwig Landgrebe, deve essere stampato all’estero, a Praga: ma non arriva nelle librerie a causa dell’annessione nazista della Cecoslovacchia. L’enorme lascito manoscritto di Husserl viene salvato avventurosamente da un frate francescano, Leo Van Breda, che lo porta a Lovanio. Fino alla fine Husserl però è impegnato nell’approfondimento della sua filosofia. Tra le migliaia di pagine manoscritte se ne conserva una particolare: sono appunti scritti da Husserl sul retro della lettera dell’autorità nazista che gli proibisce l’ingresso all’università. Da funzionario ➥ Sommario, p. 455 della ragione, Husserl la gira e ci scrive su, continuando a lavorare. Il problema di fondare la filosofia

3 L’iniziale influenza dello psicologismo

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Lo psicologismo e il suo superamento I primi lavori di Husserl riguardano la filosofia della matematica. Husserl prepara il suo scritto di abilitazione sotto la guida di Stumpf, filosofo e psicologo che si era interessato dell’origine psicologica di diverse rappresentazioni, come la rappresentazione dello spazio, o dei suoni. A partire dai suoi interessi matematici, Husserl indaga l’origine psicologica del concetto di numero: Sul concetto di numero. Analisi psicologiche è il titolo della ricerca accademica che pubblica nel 1887, poi sviluppata nel suo primo libro vero e proprio, La filosofia dell’aritmetica. Il concetto di numero viene ricondotto agli atti psichici di collegamento, nei quali oggetti astratti – dei «qualcosa in generale» – vengono notati ognuno per sé mentalmente e poi unificati in una pluralità. Questa generale impostazione, di ricondurre oggetti del pensiero ad atti da cui scaturiscono, sarà conservata da Husserl anche in seguito: ma in questi primi lavori ciò avviene in un orizzonte teorico che risente dello «psicologismo», dell’idea cioè – sostenuta in modi diversi da autori come Wundt, Christoph Sigwart (1830-1904), Benno Erdmann (1851-1921), Theodor Lipps (1851-1914) – che qualunque operazione di pensiero abbia non solo la sua origine, ma il suo fondamento in atti psicologici. Tale concezione risale a una forma di empirismo, di cui è rappresentante esemplare John Stuart Mill, che considera la logica come una parte o una branca della psicologia, verso la quale essa sarebbe debitrice di tutte le sue basi teoriche.

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Il rischio connesso a questa tesi sta nel fatto che le leggi del pensiero, identificate con leggi psicologiche empiriche, perdono la loro assolutezza: se per esempio il principio di non contraddizione è soltanto il modo in cui di fatto ragioniamo, se la sua necessità è pensata come una costrizione fisica, esso potrebbe non esser valido per enti dotati di una diversa natura. Se le leggi logiche dipendono da una natura psichica, la loro verità, e soprattutto la verità di ciò che per loro tramite viene conosciuto, è in linea di principio relativa: non soltanto la singola verità asserita può essere condizionata e dunque errata, ma la verità in quanto tale non ha un senso indipendente da chi la conosce. La necessità Rispetto alla problematica della validità delle leggi del pensiero e della verità, della matematica la matematica rappresenta un banco di prova di indubbia importanza: è la disciplina in cui si ritiene di pervenire a verità condivise e dimostrabili, che costituiscono lo strumento per altre conoscenze rigorose. È possibile che ciò cui il ragionamento matematico si riferisce, come i concetti di numero, abbia il suo fondamento soltanto in un’attività psichica contingente? La critica di Frege La riflessione sulla matematica aveva un ruolo centrale in quel periodo anche per Frege, già autore nel 1884 di un libro su I fondamenti dell’aritmetica (vedi Unità 10, p. 394 s.), che recensisce nel 1894 l’opera di Husserl sulla filosofia dell’aritmetica. Frege aveva una posizione decisamente anti-psicologistica, che svilupperà affermando la tesi forte dell’esistenza di un «terzo regno» tra l’ambito delle rappresentazioni e quello delle cose del mondo esterno, tra il dominio psichico e quello fisico. Il terzo regno è quello costituito dai «pensieri», che da un lato non sono percepiti con i sensi, dall’altro però non hanno bisogno come le rappresentazioni di un supporto, un soggetto rappresentante, ma hanno un’esistenza oggettiva indipendente: ciò che è vero lo è indipendentemente dal fatto che qualcuno lo ritenga tale, così come un pianeta c’è anche prima che venga scoperto. Frege critica dunque la posizione di Husserl: «Per il fatto che riunisce nella parola “rappresentazione” ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivo, si confondono i confini tra di essi». Non appare perciò chiaro se l’«aggregato» che costituisce il concetto di numero sia una rappresentazione o qualcosa di oggettivo, come deve essere il numero per poter dar luogo a delle verità.

Il rischio dello psicologismo

Lo psicologismo del giovane Husserl e la critica di Frege

Le Ricerche logiche e l’allontanamento dello psicologismo

Posizione di Husserl nella Filosofia dell’aritmetica

Critica di Frege

I numeri hanno origine dagli atti di collegamento tra rappresentazioni

Nel concetto di rappresentazione si confonde la distinzione tra soggettivo e oggettivo

Le leggi aritmetiche sono fondate sulla psicologia

Nello psicologismo l’aritmetica diventa un fatto empirico e contingente (per un altro tipo di mente ci sarebbero altre leggi dell’aritmetica)

Psicologismo (i numeri sono il prodotto di atti mentali di esseri umani)

Anti-psicologismo (i numeri sono oggetti ideali)

Negli anni successivi alla Filosofia dell’aritmetica Husserl si muove sempre più chiaramente verso una posizione critica nei riguardi dello psicologismo e delle sue stesse ambiguità iniziali. Nel 1900 appare la prima parte delle Ricerche logiche, dedicata, con il titolo Prolegomeni a una logica pura, a stabilire rigorosa435

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La normatività della logica e l’oggettività ideale

➥ Laboratorio sul lessico, Oggettivo / soggettivo, p. 469

Contro lo psicologismo: distinguere tra processi del pensiero e leggi ideali

T2

La macchina calcolatrice e le leggi ideali Ricerche logiche, 1, par. 22

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mente la natura e i confini della logica come scienza autonoma rispetto alle visioni che la riconducevano alla psicologia, comprendendola come una «fisica del pensiero». Husserl muove dalla concezione diffusa della logica come dottrina tecnica, ossia come una disciplina normativa – fatta di prescrizioni – che indicherebbe come procedere per acquisire verità: come pensare, giudicare, dedurre, in generale come costruire una scienza. Ma una disciplina normativa richiede secondo lui una fondazione teorica, richiede cioè l’individuazione di leggi valide su cui basare le prescrizioni. Queste leggi devono avere una natura ideale, devono avere cioè una oggettività del tipo di quella posseduta dal «terzo regno» dei pensieri di cui parlava Frege: devono costituire, con le parole di Husserl, «un regno autonomo di verità». Mostrare che il regno dell’oggettività ideale è autonomo, rispetto alla metafisica e in particolare rispetto alla psicologia, è il compito negativo principale che Husserl si pone in quest’opera. Per farlo deve distinguere con chiarezza i processi fisici del pensiero, regolati da nessi causali, e che danno conoscenze solo probabili, dalle leggi ideali del pensiero, che danno conoscenze pienamente evidenti. Un modo che Husserl sceglie per chiarire questa differenza è quello di ricorrere all’esempio di una macchina pensante (Husserl naturalmente poteva riferirsi all’epoca solo a una calcolatrice meccanica). I risultati dei calcoli di una tale macchina sono dovuti a nessi meccanici, a leggi naturali, ma regolate sulla base delle proposizioni aritmetiche nei loro significati ideali. Sono questi che determinano cosa la macchina deve fare, ma nessuno spiegherebbe il funzionamento meccanico della macchina sulla base delle leggi aritmetiche, bensì di quelle fisiche, causali: si tratta allora di due legalità diverse. Lo stesso potrebbe accadere nell’uomo come «macchina pensante»: anche se nell’uomo – che è in grado, a differenza della macchina, di cogliere il significato delle proposizioni aritmetiche – si aggiunge un secondo processo in cui ha luogo la comprensione delle stesse leggi ideali. Questo processo, anche se si svolge nella stessa «macchina», ha una natura del tutto diversa: ideale e non causale. Le leggi causali secondo le quali il pensiero deve svolgersi in modo tale da poter essere legittimato dalle norme ideali della logica, e queste stesse norme – non sono la stessa cosa. Nel fatto che un essere sia costituito in modo tale da non poter pervenire ad un giudizio contraddittorio in alcun decorso unitario di idee, o compiere una deduzione che si trovi in contrasto con i modi sillogistici, non è affatto implicito che il principio di non-contraddizione, […] ecc., siano leggi naturali in grado di spiegare una siffatta costituzione. Questa differenza risulterà del tutto chiara se ricorriamo all’esempio della macchina calcolatrice. L’ordine e la connessione delle cifre risultanti vengono regolati secondo leggi naturali nel modo in cui è richiesto dai teoremi aritmetici per i loro significati. Ma per spiegare il funzionamento della macchina dal punto di vista fisico, nessuno si appellerà alle leggi aritmetiche invece che a quelle meccaniche. Questa macchina non è certamente una macchina che pensa. Essa non comprende se stessa e il significato delle sue prestazioni; ma la nostra macchina pensante non potrebbe pensare in modo analogo, con l’unica differenza che il percorso reale di un pensiero debba venire sempre riconosciuto come corretto attraverso la comprensione evidente, che emerge in un altro pensiero, della legalità logica? Quest’altro pensiero potrebbe appartenere tanto alle prestazioni di questa come a quelle di un’altra macchina pensante, ma la valutazione ideale e la spiegazione causale rimarrebbero comunque eterogenee. […] I logici psicologisti non riconoscono le differenze essenziali ed invalicabili tra leg-

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ge ideale e legge reale, tra regolamentazione normativa e regolamentazione causale, tra necessità logica e necessità reale, tra fondamento logico e fondamento reale. Tutte le leggi psicologiche sono generalizzazioni dall’esperienza, e possono avere solo, nel migliore dei casi, un alto grado di probabilità. Le leggi logiche, al contrario, secondo il loro stesso senso, pretendono di avere una validità assoluta, svincolata da qualsiasi circostanza di fatto. La verità Confutando lo psicologismo, Husserl intende opporsi alle conseguenze che ne scaturiscono, e che vengono tratte esplicitamente da alcuni degli autori con cui si confronta. La conseguenza principale di una impostazione psicologista è il relativismo, quel particolare relativismo che lega la verità logica a una determinata specie di essere vivente, l’uomo, e che Husserl chiama perciò anche «relativismo specifico» o antropologismo. Questa conseguenza urta per Husserl contro il senso stesso di ciò che intendiamo per «verità», che esclude che qualcosa considerato vero possa essere anche falso sotto altre condizioni:

La validità assoluta della logica

T3

Il relativismo specifico e il senso di «vero» Ricerche logiche, 1, par. 36

L’autonomia della dimensione ideale

➥ Sommario, p. 455

4 L’oggettività ideale come «essenza»

Il relativismo specifico asserisce che per ogni specie di esseri giudicanti è vero ciò che deve valere come vero secondo la loro costituzione e le loro leggi mentali. Questa teoria è assurda. Nel suo senso è infatti implicito che lo stesso contenuto giudicativo (proposizione) può essere vero per qualcuno cioè per un soggetto della specie homo, falso per qualcun altro, cioè per un soggetto di una specie diversamente costituita. Ma il medesimo contenuto giudicativo non può essere allo stesso tempo vero e falso. Ciò è semplicemente implicito nel senso delle parole «vero» e «falso». Il relativista usa queste parole con il senso che spetta loro, un senso che la sua stessa tesi contraddice. […] la risposta al relativismo specifico sarà: «La verità per questa o quella specie», ad esempio per la specie umana, questo è – così come qui lo si intende – un discorso assurdo. Certo, esso può anche avere un senso, ma in tal caso vuol dire qualcosa di totalmente diverso, indica cioè l’ambito di verità che sono accessibili e conoscibili per l’uomo come tale. Ciò che è vero è vero assolutamente, è vero «in sé». La verità è unica ed identica, sia che la colgano nel giudizio uomini o mostri, angeli o dei. Le leggi logiche parlano della verità in questa unità ideale, di fronte alla molteplicità reale di razze, individui, vissuti, e noi tutti parliamo della verità in questa unità ideale, a meno che non siamo confusi dall’errore relativistico. L’individuazione della dimensione dell’ideale come dimensione autonoma, se serve in negativo a mettere in crisi la prospettiva psicologistica, apre però il problema di una teoria positiva dell’ideale, di una teoria della conoscenza che renda conto della possibilità e del fondamento di questa sfera autonoma. Si pone cioè il problema, come dice Husserl, «delle condizioni di possibilità della verità in generale».

La dimensione dell’ideale e la fenomenologia della conoscenza Che le leggi del pensiero siano oggettive e «ideali» non significa per Husserl che esse siano in un qualche luogo soprasensibile: non sono «oggetti che, se non si trovano in qualche luogo nel «mondo», si troveranno tuttavia in un tò437

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pos ourànios [luogo celeste] o nello spirito divino». Per Husserl si tratta di «essenze», che definiscono le condizioni di possibilità essenziali di ogni conoscenza e possono essere colte perciò in modo non empirico: si possono manifestare in una comprensione evidente, in base al loro senso, così come abbiamo visto accadere per l’idea di verità. Nel momento in cui esse si mostrano con questo carattere alla stessa soggettività conoscente, si rivelano come nessi necessari per qualunque pensiero, che appartengono a un campo di possibilità definite, «all’essenza non specificamente della mente umana, ma del pensiero e della conoscenza in generale, non importa quale sia l’essere che giudica e conosce». La teoria Husserl parla di una «teoria delle teorie» o teoria formale della conoscenza, o fenomenologica teoria fenomenologica della conoscenza, che si occupa di questi nessi ideali. della conoscenza Essa si propone appunto non di spiegare, ma chiarire nessi di senso e di chiarirli in modo evidente, indubitabile, facendo ricorso alla conoscenza intuitiva in cui è dato, con un’evidenza che non lascia spazio a dubbi o fraintendimenti, il rapporto o l’oggetto ideale. Husserl chiama questa evidenza «riempimento adeguato».

T4

La teoria fenomenologica della conoscenza Ricerche logiche. Ricerche sulla fenomenologia e sulla teoria della conoscenza, Introduzione, par. 7

Essa non vuole spiegare, in senso psicofisico, l’evento fattuale della natura obiettiva, ma chiarificare l’idea della conoscenza nei suoi elementi costitutivi o nelle sue leggi; non vuole andare alla ricerca dei nessi reali della coesistenza o della successione, nei quali sono intessuti gli atti conoscitivi fattuali, ma comprendere il senso ideale dei nessi specifici nei quali si documenta l’obiettività della conoscenza; ritornando al riempimento adeguato dell’intuizione, essa vuole rendere chiare e distinte le forme pure della conoscenza e le sue leggi. Questa chiarificazione si compie nel quadro di una fenomenologia della conoscenza, di una fenomenologia che […] è rivolta alla strutture essenziali dei puri vissuti e delle loro componenti di senso.

I nessi essenziali che Husserl vuole qui indagare riguardano in primo luogo appunto la conoscenza: l’impostazione metodologica fondamentale è ritrovare questi nessi ideali nel modo in cui essi si manifestano alla soggettività conoscente, ma non tanto nel loro legame con singoli atti o funzioni psicologiche, bensì in quella che Husserl chiama una «intuizione essenziale». La comprensione intuitiva evidente è il mostrarsi alla coscienza di nessi ideali che sono intesi nella loro necessità, nel loro non poter essere altrimenti: così come ‘so’ che un corpo può essere in diversi luoghi ma non può non essere nello spazio, o che un suono può avere caratteristiche diverse ma non può non esser nel tempo e avere una sua altezza, so anche che non posso affermare qualcosa di una classe di oggetti senza affermarlo per un membro di questa classe ecc. Il fenomeno Il senso di alcuni nessi ideali mi si manifesta con evidenza indubitabile, e in secondo Husserl questa accezione – molto diversa da quella presente in Kant – è per Husserl «fenomeno». Raggiungere i fenomeni non è tuttavia un compito semplice: si tratta di risalire appunto, dice Husserl, alle origini di tutti gli usi sensati del pensiero: «la fenomenologia dischiude le “fonti” dalle quali “scaturiscono” i concetti fondamentali e le leggi ideali della logica pura – e alle quali questi stessi concetti e le leggi devono esser ricondotti per conferire loro quella “chiarezza e distinzione” che una comprensione critico-conoscitiva della logica pura esige». L’evidenza dei nessi ideali

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Unità 11 Husserl Conoscenza degli oggetti ideali e conoscenza degli oggetti empirici

Oggetti ideali e nessi ideali

Oggetti empirici e leggi empiriche

Modalità fondamentale di conoscenza

Intuizione delle essenze

Esperienza sensibile

Validità conoscitiva

Certa, infallibile, necessaria

Probabile, fallibile, contingente

Esempi di scienze

Logica, matematica

Scienze naturali

L’indicazione critica nei confronti dello psicologismo del carattere ideale delle leggi del pensiero ha dunque un versante positivo, l’idea di una logica pura che deve procedere fenomenologicamente, ossia manifestando essenze, nessi essenziali come condizioni evidenti di qualunque pensiero. In questo modo il versante soggettivo che veniva escluso nel suo senso psicologico e naturalistico, fisico, viene riscoperto come riferimento a una soggettività pura, che non è soggettività umana, alla quale viene ricondotto il manifestarsi con evidenza di queste essenze ideali. Questa fenomenologia pura dei vissuti del pensiero e della conoscenza, ossia delle ‘esperienze’ soggettive in cui le idealità oggettive si manifestano, si occupa secondo Husserl soltanto di quegli atti che si possono «analizzare nell’intuizione», ossia che non richiedono ragionamenti, inferenze, processi di pensiero di ‘scoperta’ per cogliere le loro verità, ma che hanno con esse un rapporto immediato e privo di incertezze. L’incertezza non c’è se appunto non si esce dalla sfera di quello che Husserl chiama il «vissuto» (Erlebnis), il contenuto interno, immanente della coscienza, e di ciò che in esso soltanto si manifesta. Una scienza «pura» Restando rigorosamente in quest’ambito è possibile costruire una scienza «pura», priva di componenti empiriche e dotata però di un fondamento assoluto: la fenomenologia come «dottrina generale delle essenze». L’evidenza non è Il compito di chiarimento svolto dalla ricerca fenomenologica è quello di identiun fatto psicologico ficare le evidenze – i nessi ideali – attraverso cui facciamo esperienza del mondo nel loro vero carattere, superando così equivoci anche di tipo filosofico. Lo stesso psicologismo può essere superato dall’idea che ciò che si manifesta con evidenza alla coscienza non è legato di per sé a una psicologia di fatto, a una certa natura empirica della psiche che lo coglie, ma è un fenomeno puro, qualcosa che si presenta in modo simile a un dato (Husserl dice una «datità»), ma con la differenza che è qualcosa che non va oltre il suo presentarsi alla coscienza e in essa interamente si risolve, si manifesta senza residui.

La soggettività pura e la certezza del «vissuto»

T5

La fenomenologia pura

Ricerche logiche. Ricerche sulla fenomenologia e sulla teoria della conoscenza, Introduzione, par. 2

➥ Sommario, p. 455

Per loro natura, queste chiarificazioni possono essere date soltanto da una dottrina fenomenologica delle essenze dei vissuti di pensiero e della conoscenza, che consideri costantemente l’oggetto intenzionato che ad essi inerisce per essenza (esattamente nei modi in cui «si manifesta», «si presenta», ecc., come tale in essi). Solo da una fenomenologia pura, che è tutto meno che psicologia intesa come scienza empirica delle proprietà e degli stati psichici delle realtà animali, lo psicologismo può essere radicalmente superato. Solo essa offre anche nella nostra sfera tutti i presupposti per una definitiva e sufficiente determinazione di tutte le evidenze ed i concetti fondamentali puramente logici. Solo essa dissipa la parvenza inevitabile, proprio perché sorge per motivi essenziali, che ci induce ad interpretare l’obiettività logica come qualcosa di psicologico. 439

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

5 L’indagine si rivolge ai vissuti in generale

L’espansione e l’approfondimento del progetto fenomenologico Le Ricerche logiche oltrepassano però da subito una indagine di carattere strettamente logico o di filosofia della logica: Husserl ha di mira fin da ora una teoria generale della conoscenza, che include nel progetto ancora più vasto di una «fenomenologia pura dei vissuti del pensiero e della conoscenza», a sua volta ricompresa in una «fenomenologia pura dei vissuti in generale». Le stesse Ricerche logiche si occupano di temi come il linguaggio, l’intenzionalità, la percezione, che esulano da una teoria delle funzioni logiche del pensiero. In quest’ambito un peso particolare va dato all’analisi del concetto di intenzionalità, che resterà tra i concetti fondamentali della fenomenologia husserliana e avrà una grande fortuna nella filosofia successiva, fino all’odierna filosofia della mente.

L’intenzionalità L’intenzionalità: come dirigersi verso un oggetto

Non tutti i vissuti hanno intenzionalità

Qualità e materia dell’atto intenzionale

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Husserl assume il termine «intenzionalità» dal suo maestro, Brentano, che lo aveva a sua volta ripreso dalla tradizione scolastica medievale. Nell’uso filosofico «intenzionalità» ha un significato molto diverso da quello dell’accezione comune di parole come «intenzione» o «intendere». In latino intendere significa in primo luogo «tendere verso», «dirigere». Il termine «intenzionalità» viene dunque usato per la proprietà di uno stato mentale di dirigersi verso un oggetto. In questo senso lo utilizza Brentano, che considera l’intenzionalità come tratto distintivo dei fenomeni psichici: «nella rappresentazione qualcosa è rappresentato, nel giudizio qualcosa viene accettato o rifiutato, nell’amore c’è un amato, nell’odio un odiato, nel desiderio un desiderato ecc.». I fenomeni psichici contengono in sé un oggetto: anche l’immaginazione o il sogno hanno un oggetto, si riferiscono a un ‘contenuto’, anche se questo può non esistere. Il concetto di intenzionalità in Husserl non è però utilizzato per definire il campo dei fenomeni psichici: egli ritiene vi siano fenomeni psichici che non sono intenzionali, non si riferiscono a un oggetto, come la gioia, il dolore, la depressione e simili. Tra gli Erlebnisse («vissuti»), i contenuti di coscienza, solo una parte ha la proprietà dell’intenzionalità, e a questi vissuti intenzionali Husserl dà il nome di atti. Gli atti o vissuti intenzionali hanno una struttura caratterizzata da due componenti: 1) la qualità dell’atto; 2) la materia dell’atto. La qualità è il carattere che contraddistingue il tipo di atto, che ne fa per esempio un giudizio, o una percezione, o un desiderio, o un timore ecc. Degli atti diversi quanto alla qualità possono avere uno stesso contenuto: io posso giudicare una certa persona, vederla, desiderarla, temerla, immaginarla ecc. La materia è invece ciò che fa sì che l’atto si possa riferire in un certo modo al suo oggetto. Un vissuto intenzionale può riferirsi a un certo oggetto, e più vissuti intenzionali possono avere, come abbiamo detto, qualità diverse conservando lo stesso oggetto. Ma fa parte dell’essenza di un atto che esso intenda un oggetto in un certo modo o sotto determinati aspetti: io posso parlare di triangolo equilatero o di triangolo equiangolo, e mi riferisco in questo modo allo stesso oggetto ma in diversa prospettiva; analogamente posso parlare di Albino Luciani, di papa Giovanni Paolo I, del successore di Paolo VI, riferendomi alla stessa persona in for-

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Unità 11 Husserl

ma diversa. Così «materie» diverse possono presentare un riferimento allo stesso Il «senso oggetto. Husserl parla della materia del vissuto intenzionale anche come del apprensionale» «senso apprensionale», il senso attraverso il quale viene appreso, colto un certo oggetto. La distinzione è analoga a quella tra «senso» e «riferimento» (o «denotazione») utilizzata da Frege in rapporto alle parole: ciò a cui due espressioni si riferiscono può essere lo stesso individuo ma sotto prospettive diverse, con due «sensi» differenti: posso parlare di «colui che ha scoperto la forma ellittica dell’orbita dei pianeti» oppure di «Keplero» riferendomi alla stessa persona. La struttura dell’atto intenzionale Qualità (tipo di atto)

Materia (modo in cui l’atto si riferisce all’oggetto)

Atto

Intenzionalità (riferimento all’oggetto) Oggetto

L’importanza dell’intenzionalità come carattere della coscienza

T6

Intenzionalità e coscienza Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, 1, par. 84

Già di decisiva importanza nelle Ricerche logiche, dove viene utilizzato nell’analisi del linguaggio ma anche di altri vissuti intenzionali come la percezione sensibile, il concetto di intenzionalità assume un ruolo sempre più centrale nello sviluppo della fenomenologia di Husserl. Da un lato, la struttura intenzionale degli atti non comporta che si esca dall’ambito della coscienza: come abbiamo visto, la proprietà di avere un contenuto non è una relazione estrinseca del vissuto con qualcosa, ma un aspetto del vissuto stesso. In questo senso, l’intenzionalità offre la possibilità di un’analisi tutta interna alla dimensione ‘pura’, dei nessi essenziali, quale Husserl la persegue come ambito privilegiato della ricerca filosofica. Dall’altro lato il concetto di intenzionalità sembra poter ricomprendere in sé tutte le forme attraverso le quali la coscienza si rivolge al mondo e tutti i modi in cui il mondo acquista un ‘senso’ per il soggetto: consente dunque di estendere la considerazione filosofica a ogni campo, oltre quello strettamente logico e quello soltanto conoscitivo. Diventa il concetto centrale intorno al quale ruota ogni caratterizzazione della coscienza, che acquisterà a sua volta un ruolo metodologico centrale nella prospettiva husserliana. Anche se non tutti i vissuti sono intenzionali, l’intenzionalità caratterizza la coscienza in quanto tale. Così anche i vissuti che non hanno un’intenzionalità propria vi partecipano in virtù della loro collocazione in un flusso di coscienza dotato di intenzionalità. Essa [l’intenzionalità] rappresenta una peculiarità essenziale della sfera dei vissuti in generale, in quanto tutti i vissuti partecipano in qualche modo all’intenzionalità, sebbene non si possa di ogni vissuto dire che abbia un’intenzionalità nel medesimo senso in cui diciamo di ogni vissuto che entri come obiectum nel raggio di una possibile riflessione, anche se si tratta di un astratto momento di vissuto, che è temporale. L’intenzionalità è ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente nello stesso tempo di indicare l’intera corrente dei vissuti come corrente di coscienza e come unità di un’unica coscienza. 441

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Parte seconda Le filosofie del Novecento L’intenzionalità e la ricerca di un metodo

Questo nesso tra coscienza e intenzionalità, presente fin dal principio, si approfondisce nel momento in cui Husserl cerca di dare una nuova e più solida fondazione alla stessa prospettiva fenomenologica. Caratterizzata inizialmente come scienza che opera una «descrizione» di essenze – in opposizione alle procedure empiriche, che costruiscono invece ipotesi attraverso inferenze – la fenomenologia deve trovare un metodo in cui la natura del suo procedimento e delle certezze raggiunte sia più chiaro, soprattutto in confronto con le scienze empiriche della natura.

La coscienza e la riduzione fenomenologica La pura «datità» e la certezza del cogito cartesiano

Dall’atteggiamento naturale a quello fenomenologico

L’atteggiamento naturale e l’epochè

Distinzione tra fenomenologia e psicologia

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Le «datità pure», ossia ciò che si manifesta alla coscienza con evidenza, come per esempio le leggi logiche, non sono, diceva Husserl, in un luogo celeste. Nello sviluppo del suo pensiero Husserl ritiene di individuare con chiarezza il loro luogo – la «fonte» delle datità pure – nella coscienza stessa, ma intesa in un senso del tutto distinto da quello della psicologia. I fenomeni come datità pure si possono raggiungere attraverso un metodo filosofico adeguato: non sono oggetto di introspezione, di semplice coscienza riflessiva, ma «è necessario un apposito addestramento per mantenersi all’interno della pura datità». Si tratta cioè di identificare una sfera della coscienza pura – concepita in analogia con la dimensione di certezza indicata dal cogito di Cartesio – nella quale sia sospeso provvisoriamente il riferimento a tutto ciò che è «trascendente» (ossia che va oltre la dimensione «immanente», interna ai puri fenomeni di coscienza), compresi gli stessi dati di fatto psicologici. Conquistare questa dimensione non è facile, richiede un’operazione che consiste in un cambiamento radicale di atteggiamento: dall’«atteggiamento naturale», in cui siamo rivolti alle cose presupponendo come ovvie la loro esistenza fuori di noi, la loro realtà e la loro conoscenza più adeguata attraverso le scienze, a un «atteggiamento fenomenologico», nel quale sospendiamo ogni adesione a tutto ciò che non si presenti con assoluta evidenza alla coscienza stessa, che la oltrepassi e dunque sia in linea di principio possibile oggetto di un dubbio. Facendo questo, sottolinea Husserl, non abbandoniamo la «tesi generale dell’atteggiamento naturale», ossia la fiducia nella realtà del mondo esterno e nella sua conoscibilità, che fa da presupposto a tutte le scienze naturali e dell’uomo: semplicemente la sospendiamo – Husserl usa il termine di origine scettica (epochè), che indica la sospensione del giudizio – per ricercare le possibilità pure che le stanno a fondamento. In altre parole, «mettiamo tra parentesi» l’atteggiamento naturale senza negarlo, per ricercarne le fonti. Queste vengono ritrovate in una sfera della coscienza pura che non coincide con la coscienza psicologica di un determinato io empirico, di un determinato individuo, perché anche questa viene messa tra parentesi come le altre cose presenti nel mondo. Viene così definitivamente chiarita la distinzione tra fenomenologia e psicologia. A ogni fenomeno psichico corrisponde un fenomeno puro, mettendo tra parentesi i riferimenti al mondo esterno (in particolare all’essere umano che è il ‘portatore’ di quella coscienza), che sono trascendenti rispetto al vissuto stesso, e limitandosi a guardare ciò che è evidente alla coscienza stessa nel vissuto, si ottiene un fenomeno evidente. Non si tratta allora di un’operazione soltanto riflessiva, del rivolgere semplicemente lo sguardo sul soggetto, ma dell’apertura di un campo di pure possibilità.

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Unità 11 Husserl

Il brano che segue illustra le peculiarità della riduzione fenomenologica ed è tratto dal testo delle lezioni in cui Husserl presentò per la prima volta il suo nuovo metodo trascendentale (L’idea della fenomenologia).

T7

Fenomeno puro e riduzione fenomenologica L’idea della fenomenologia, Lezione 3

La fenomenologia diventa trascendentale

Bisogna premunirsi contro il fondamentale scambio tra il fenomeno puro, nel senso della fenomenologia, e il fenomeno psicologico, che è oggetto della psicologia come scienza di tipo naturale. Se io, come essere umano che pensa in modo naturale, getto uno sguardo sulla percezione che sto vivendo, subito la appercepisco, e pressoché inevitabilmente (questo è un fatto) in relazione al mio io; essa è lì come vissuto di questa persona che lo vive, come suo stato, suo atto, e il contenuto della sensazione è lì come ciò che è dato a tale persona in forma di contenuto, come suo sentito e suo saputo, e si inquadra assieme con essa nel tempo oggettivo. La percezione, e in genere la cogitatio, così appercepita, è il fatto psicologico. […] Questo è dunque il fenomeno nel senso della scienza di tipo naturale che chiamiamo psicologia. Il fenomeno in questo senso cade sotto la legge alla quale dobbiamo sottoporci nella critica della conoscenza, la legge dell’epochè nei riguardi di ogni trascendente. L’io come persona, come cosa del mondo, e il vissuto come vissuto di questa persona, inquadrato nel tempo oggettivo, sia pure del tutto indeterminatamente: tutte queste sono trascendenze, e come tali sono gnoseologicamente zero. Solo attraverso una riduzione, che noi vogliamo chiamare appunto riduzione fenomenologica, conseguo una datità assoluta che non presenta più nulla di ciò che è trascendenza. Se pongo in questione l’io e il mondo e il vissuto dell’io come tale, allora la riflessione, semplicemente guardante, su ciò che è dato nell’appercezione del vissuto in giuoco, la riflessione sul mio io, offre come risultato il fenomeno di questa appercezione: si potrebbe dire, il fenomeno «percezione concepita come mia percezione». Naturalmente, nel modo di veder naturale, posso riportare anche questo fenomeno, a sua volta, al mio io, ponendo questo io in senso empirico, col dire di nuovo: io ho questo fenomeno, esso è il mio. Allora dovrei, per conseguire il fenomeno puro porre in questione ancora una volta l’io, come pure il tempo e il mondo, e così far risaltare un fenomeno puro, la cogitatio pura. Ma posso anche, mentre percepisco, volgere lo sguardo, un puro sguardo, alla percezione, proprio a essa, nel suo esser lì, e trascurare il rapporto all’io, o astrarre da esso; allora la percezione, afferrata e delimitata così, guardando, è una percezione in assoluto, che fa a meno di ogni trascendenza, che è data come puro fenomeno nel senso della fenomenologia. A ogni vissuto psichico, insomma, corrisponde sulla strada della riduzione fenomenologica, un fenomeno puro, che esibisce la sua immanente essenza (intesa in senso individuale) come assoluta datità. Ogni posizione di una «realtà non immanente», non contenuta nel fenomeno, benché in esso intenzionata, e insieme di una realtà che non sia data nel secondo senso, è neutralizzata, cioè sospesa. Sulla base di questo metodo della riduzione, la fenomenologia acquista un nuovo carattere: Husserl nei lavori scritti dopo le Ricerche logiche la concepisce come «fenomenologia trascendentale», ricollegandosi all’idea kantiana di filosofia trascendentale come analisi delle condizioni di possibilità dell’esperienza. L’analisi dei fenomeni puri di coscienza può diventare anche indagine della correlazione tra i molteplici vissuti intenzionali e gli oggetti così come si costituiscono attraverso tali vissuti, come polo oggettivo dotato del senso di 443

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qualcosa di «esistente in sé». In altri termini, la fenomenologia si pone il problema di come l’oggetto trascendente la coscienza venga «costituito» attraverso tutti gli atti che ad esso si riferiscono in quanto identico oggetto. Lo stesso oggetto trascendente la coscienza è, nel senso che gli attribuiamo, ciò che può essere il correlato di atti in cui di esso mi ricordo, in cui lo percepisco, in cui accerto sue qualità ecc. L’emergere Si tratta di mostrare come ogni oggetto emerge in una coscienza assoluta – della coscienza Husserl parla anche di un «ego trascendentale» – che però cessa di essere una assoluta coscienza umana o un qualunque tipo di coscienza empirica: la parola coscienza «perde ogni senso psicologico e si viene ricondotti infine ad un assoluto, che non è né un essere fisico né un essere psichico nel senso delle scienze della natura».

L’io puro e la fenomenologia trascendentale Il regno della coscienza pura e la realtà

L’io assoluto è quindi per Husserl il campo di pure possibilità di conoscenza e più in generale di manifestazione del mondo attraverso le quali soltanto ha senso parlare di un mondo reale, esistente. Nel modo in cui la geometria indaga figure possibili senza essere legata alle figure osservate nell’esperienza, «esattamente in questo modo la fenomenologia pura vuole esplorare il regno della coscienza pura e dei suoi fenomeni non secondo l’esistenza fattuale, ma secondo possibilità e leggi pure». Queste possibilità e leggi pure sono quelle al cui interno si definisce il senso stesso del mondo reale in quanto tale. La realtà diviene allora un’idea di verità completa a cui la comunità dei soggetti conoscenti può infinitamente approssimarsi con la conquista e il perfezionamento della conoscenza.

T8

In una considerazione puramente trascendentale il mondo, così come esso è in sé e secondo verità logica, è in ultima analisi soltanto una idea posta nell’infinito, che trae il suo senso come obiettivo dalla attualità della vita di coscienza. […] Nel processo complessivo, funzionante senza fratture, di riempiente realizzazione del senso del mondo (che non cessa di essere senso intenzionale) – e non solo nel processo interno al soggetto singolo, ma in quello che ha luogo nell’ambito di una comunità intersoggettiva – si mostra costantemente allo stesso tempo la sua futura realizzabilità, da proseguire all’infinito, e precisamente nella forma di processi conoscitivi di crescente perfezione. Proprio in ciò si mostra però anche l’esser reale del mondo stesso, come un telos, situato nell’infinito, di questo processo di realizzazione sempre più perfetta, che può esser proseguito spontaneamente in ogni tempo […]. In una coscienza puramente trascendentale «il mondo stesso» si presenta dunque solo come un peculiare senso di verità di grado più elevato, che viene alla luce nella soggettività o intersoggettività attuale, ossia come una idea costituentesi nella forma immanente della validità fondata. Il suo equivalente è l’idea della totalità pensata delle verità conoscibili all’infinito, riferite a tutti gli oggetti di esperienza reale e possibile. Essa prefigura a tutti i soggetti di conoscenza una legge universale, valida per loro in vista del complesso delle esperienze, e delle elaborazioni teoriche dell’esperienza che potranno svolgere.

Il mondo in una considerazione trascendentale Kant e l’idea della filosofia trascendentale

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L’indagine fenomenologica oltre il lògos

Nonostante il collegamento che a un certo punto Husserl stabilisce tra la sua fenomenologia e la filosofia trascendentale kantiana, l’orizzonte fenomenologico della soggettività è concepito in modo diverso da quello kantiano, perché oltrepassa l’ambito di una logica trascendentale come analisi di forme intellettuali, proponendosi di indagare – nell’atteggiamento fenomenologico – un’«architettura stratificata di strutture di coscienza, di sintesi di coscienza fondate l’una nell’altra o intrecciate l’una con l’altra» e correlativamente l’«architettura stratificata di strutture di senso che si costituiscono al suo interno»: due dimensioni – soggettiva e oggettiva – entrambe complesse e multiformi e non limitate a strutture logiche. I caratteri Così da un lato la fenomenologia trascendentale è più vicina a una psicologia ridella fenomenologia spetto alla filosofia trascendentale kantiana – Husserl svilupperà esplicitamente l’itrascendentale dea di una «psicologia fenomenologica» – dall’altro il mondo che nella sfera pura della soggettività viene costituito appare non limitato a quella struttura generalissima del mondo che la logica trascendentale kantiana conosceva a priori, rappresentata dall’idea dell’«oggetto in generale», corrispondente alle categorie intellettuali. Husserl indaga da subito tematiche come quelle della percezione, della coscienza del tempo, dell’immaginazione, del rapporto anche corporeo con il mondo, dell’esperienza dell’altro nell’empatia e dell’intersoggettività, con una concretezza e attenzione alla molteplicità delle forme dell’esperienza sempre più accentuata. Husserl e Kant

Le radici della logica: la sintesi passiva Intenzione, riempimento e significato

La genesi del senso prima della logica

L’estensione dell’ambito della logica

Fin dalle Ricerche logiche Husserl si era tenuto lontano da una posizione eccessivamente ‘logicista’, che identificasse nel concetto il luogo di ogni senso. Aveva sviluppato in quell’opera l’idea del «riempimento intuitivo» dei significati, secondo la quale i meri significati linguistici tendevano a un loro «compimento» oltre la dimensione puramente verbale, in forme di rapporto intuitivo con l’oggetto (come può essere la percezione sensibile, ma non soltanto questa: il «riempimento» avviene in ogni «datità intuitiva», nel senso fenomenologico) che realizzassero la più vasta intenzione di senso che stava loro dietro. L’intenzione significante è inserita fin da principio in un più ampio processo conoscitivo che ne può portare a compimento la finalità intrinseca. Già questa idea indicava una concezione delle conoscenze intellettive, realizzate attraverso giudizi, degli atti logici, come vissuti intenzionali radicati in un tessuto complessivo di atti conoscitivi. Questa tematica assume un ruolo man mano più importante, perché Husserl cerca a un certo punto di ricondurre le forme logiche a strati più profondi di costituzione del senso, di rintracciarne la genesi in operazioni nascoste che egli chiama «antepredicative» (precedenti cioè l’esplicita formulazione di giudizi predicativi), e in operazioni che sfuggono al controllo di un io cosciente. L’ambito di ciò che è di pertinenza della logica, già intesa in modo ampio fin dalle Ricerche logiche, che la vedevano come «dottrina della scienza», si estende così ulteriormente. Husserl arriva a dire – per esempio nella sua Logica formale e trascendentale del 1929 – che l’ambito della logica è quello di un «pensare» inteso in un senso molto ampio, relativo sì al lògos come espressione anche linguistica, dunque al mondo dei significati, ma che si applica a «ogni vissuto in cui 445

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Distinzione tra senso e significato

L’io e la costituzione del senso

Lo sfondo della sintesi passiva

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si costituisce coscienzialmente il senso che deve essere espresso; si chiama pensare quando anche si tratti di giudicare, di desiderare, di volere, di domandare, di presumere». In altre parole, la logica non deve occuparsi solo dei significati che danno luogo a proposizioni e giudizi e alle loro leggi, bensì anche, e prima di questi, dell’emergere dei sensi più profondi che in tali significati devono esprimersi. Le verità apodittiche dei logici, dirà Husserl, non riguardano «“verità in sé” fluttuanti nell’aria», ma sono radicate in una esperienza del mondo, in evidenze antepredicative che ne sono all’origine. Nello scritto intitolato Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Husserl aveva distinto chiaramente, superando un uso impreciso precedente, i significati dai sensi: se «significato» è il correlato di una intenzione linguistica, «senso» viene riservato per ogni correlato di un vissuto intenzionale di qualsiasi genere, distinto dall’oggetto reale a cui si riferisce. Dunque ogni atto immaginativo, o di ricordo, o percettivo, si riferisce a un senso – a una unità ideale identificabile – così come ogni atto linguistico si riferisce a un significato (l’unità ideale identificabile nel variare dei segni materiali quali la parola «albero» scritta o il suono di una voce che pronuncia questa parola ecc.). La stessa cosa può valere, fuori dal linguaggio, per esempio per una immagine: in tutte le copie di una fotografia l’immagine, distinta dalla sua singola riproduzione materiale, è una e identica, e per questo parliamo di copie di una stessa fotografia; così come è unica e identica una certa sinfonia in tutte le sue esecuzioni. Lo stesso ragionamento può valere per il correlato di ogni vissuto intenzionale. Anche una percezione, per esempio la visione di questo albero qui, ha il suo correlato in un senso (Husserl parla anche di «senso noematico»), che ne fa la «visione di questo albero». Questo «senso» ha un carattere ideale, non si identifica con la cosa materiale: se l’albero reale può bruciare, il senso che fa della visione quello che essa è – dice Husserl – non brucia. I significati sono in connessione con i sensi e li esprimono. Desideri, percezioni, immaginazione ecc. si traducono in parole fondate su significati. I vissuti relativi a sensi e significati fanno riferimento – in quanto genericamente «vissuti costitutivi di senso» – a un io, che ne costituisce un centro, un «punto di irradiazione», un io centrale che secondo Husserl è alla base di ogni altro concetto di io, come quello di «io-uomo personale e psicofisico». Ma l’approfondimento dello ‘scavo’ fenomenologico mostra che vi è qualcosa oltre questa dimensione: questo io, che Husserl chiama l’«io desto» è immerso in un ampio orizzonte di vissuti di sfondo nei quali non «abita», ai quali non partecipa direttamente. È un campo, dice Husserl, che «bussa forse alla porta dell’io ma non lo “colpisce”, l’io è per così dire sordo rispetto ad esso». Questa dimensione di sfondo non è però priva di importanza, anzi: il «grande e generale tema della donazione di senso», come lo chiama Husserl, può essere affrontato integralmente solo se si fa riferimento anche a questo sfondo e a operazioni che sfuggono al controllo ‘desto’ dell’io, operazioni che Husserl indicherà anche con il nome di «sintesi passive». Le forme più elevate della vita di coscienza, le forme logiche, hanno un’origine lontana in livelli ancora più profondi, nella «vita fluente e vivente» dalla quale le formazioni teoriche scaturiscono e traggono senso. Husserl ritiene necessario quindi intraprendere un’operazione di scavo fenomenologico, che analizza le strutture dell’intenzionalità della coscienza e ne ricostruisce le formazioni più alte (la teoria, il linguaggio) sulla base di quelle più profonde (l’esperienza prelinguistica e preteoretica), che costituiscono la «vita».

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Unità 11 Husserl

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Dalla teoria alla vita prelinguistica Lezioni sulla sintesi passiva

Solo la fenomenologia, grazie ad una regressione radicale verso la coscienza donatrice di senso e verso la totalità della vita di coscienza, ha trovato gli accessi, i metodi e le evidenze che rendono possibile una effettiva dottrina della scienza. A partire dalle proposizioni e dalle teorie, già realizzate, essa pone seriamente delle domande regressive sulla coscienza che pensa e su quell’ampia connessione della vita di coscienza nella quale queste formazioni si costituiscono e – accedendo ad un livello ancora più profondo – retrocede nella sua indagine, muovendo da tutti i tipi di oggetti, intesi come sostrati di una possibile teoria, per spingersi verso la coscienza che esperisce, verso i suoi attributi essenziali che rendono comprensibile l’operare dell’esperienza. La fenomenologia ci ha fatto comprendere, liberandoci dai pregiudizi, la natura dell’intenzionalità intesa come quella proprietà che costituisce l’essenza fondamentale della coscienza. Essa ha elaborato i metodi per sviluppare, di coscienza in coscienza, l’implicazione nascosta che è sempre data insieme a questa proprietà e quindi per render comprensibile il modo in cui si forma nella soggettività della vita di coscienza, in quanto sua operazione, l’obiettività in quanto vero essere di ogni specie, e come si forma poi, in quanto grado superiore, ciò che esiste come teoria. Se si risale dalla teoria, per così dire, morta e divenuta obiettiva, alla vita fluente e vivente dalla quale la teoria scaturisce in maniera evidente, e se si indaga riflessivamente l’intenzionalità di questo giudicare, di questo dedurre evidente, ecc., allora diviene immediatamente chiaro come ciò che ci si presenta come operazione del pensiero e che si potrebbe esprimere linguisticamente si basa su operazioni di coscienza più profonde. Così, per esempio, ogni teoria che si riferisce alla natura presuppone, per poter sorgere da un’evidenza effettiva, l’esperienza naturale, ciò che chiamiamo esperienza esterna. Insomma: ogni conoscenza teoretica ci riconduce dunque all’esperienza. Ad una considerazione più precisa appare infatti che già in ciò che si chiama esperienza viene compiuta un’operazione donatrice di senso, anzi un’operazione altamente articolata e complessa, un’operazione tale da collocarsi già sotto il titolo, preso in senso ampio, di ragione e non ragione; ed è solo l’operazione razionale, quella formata in una certa libera spontaneità, che può fungere da fondamento verificante di un’autentica teoria. È impossibile riuscire a comprendere il pensiero in senso specifico che, per essere esprimibile nel linguaggio e nei suoi termini generali e per mettere capo ad una scienza e ad una teoria, deve essere un’operazione estremamente elaborata, se non risaliamo al di qua di questo pensiero, fino a quegli atti e a quelle operazioni di cui consta la maggior parte della nostra vita. Nella sua ampiezza, infatti, questa vita non è soltanto una vita preteoretica, ma è anche una vita prelinguistica ed è tale da cessare subito di esistere nella sua originaria e primitiva peculiarità con il parlare.

Il mondo come orizzonte di senso L’evidenza dell’oggetto anteriore al giudizio

A questa dimensione della genesi della logica Husserl dedica particolare attenzione soprattutto nello scritto Esperienza e giudizio, apparso poco dopo la sua morte nel 1938. In esso l’«evidenza oggettuale» – quella che riguarda il presentarsi degli oggetti in quanto tali – viene vista come più originaria rispetto all’evidenza che si raggiunge nei giudizi, in quanto il darsi evidente degli oggetti 447

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ne costituisce la condizione di possibilità. La dimensione dei giudizi sembra fondata dal loro riferirsi a oggetti che devono mostrarsi in quanto tali prima del giudizio. Lo strato predicativo ultimo – o primo dal punto di vista conoscitivo – è quello di giudizi che si riferiscono a oggetti singoli (all’esperienza). Non si tratta dell’ovvio riferimento dei giudizi alle cose: piuttosto, del fondarsi dei significati sui sensi. Il contesto L’indagine fenomenologica mostra però come l’apprensione di oggetti singoli non dell’apprensione sia concepibile come qualcosa di isolato: essa si inserisce in un contesto che non dell’oggetto è oggetto esplicito di attenzione attiva, ma che determina in modo essenziale il senso di ciò che è dato. Questo contesto è dato da assunzioni implicite, «opinioni» presupposte, che alla fine costituiscono il senso di un «mondo» sotteso a ogni singolo oggetto.

T10

L’oggetto singolo e il mondo Esperienza e giudizio, par. 7

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L’affezione precede sempre l’atto del cogliere e non è l’azione afficiente di un singolo oggetto isolato. Esercitare affezione significa emergere da un ambiente che è sempre compresente, attirare a sé l’interesse, eventualmente l’interesse conoscitivo. L’ambiente è compresente come un dominio di pre-datità, di una predatità passiva, tale cioè che esiste già da sempre presente senza alcun fare aggiuntivo, senza che intervenga uno sguardo diretto a coglierlo, senza che si risvegli alcun interesse. Ogni attivazione conoscitiva presuppone un tale dominio, e così ogni atto rivolto a cogliere un oggetto singolo; a partire dal suo campo quest’oggetto esercita la sua affezione, esso è oggetto, un ente tra gli altri, già dato preliminarmente in una doxa passiva, in un campo che pure rappresenta l’unità della doxa passiva. Potremmo anche dire che ogni attività conoscitiva è preceduta ogni volta da un mondo, come suolo universale. Ciò significa innanzitutto che precede un suolo di universale credenza d’essere passiva, presupposto già da ogni singola azione conoscitiva. Tutto ciò che, come oggetto esistente, è scopo della conoscenza, è un ente sul piano del mondo che vale come ovviamente esistente. Un singolo esistente presunto in esso può anche risultare non esistente e la conoscenza può condurre a singole correzioni delle intenzioni d’essere; ma ciò significa solo che l’esistente è, anziché in questo, in un altro modo, che sta altrimenti sul suolo del mondo esistente nel suo complesso. È questo suolo universale della credenza del mondo che viene presupposto in ogni prassi, sia in quella della vita sia in quella teoretica del conoscere. L’essere del mondo nel suo complesso è quella verità ovvia che non viene mai messa in dubbio, e che non viene ottenuta per la prima volta dall’attività giudicativa ma costituisce già il presupposto di ogni giudicare. […] Quando io colgo separatamente un certo oggetto nel mio campo percettivo, per esempio quando vedo un libro sul tavolo, allora io colgo un esser-per-me che c’era già prima come esistente «là», «nel mio studio» anche quando non vi dirigevo l’attenzione. L’intera stanza da studio che si è presentata ora nel mio campo percettivo, c’era già altrettanto per me con tutti gli oggetti percettivamente rilevati, insieme al lato non veduto della stanza e ai suoi soliti oggetti, provvista del senso «stanza della mia abitazione» nella solita strada della mia residenza etc. Ogni ente che esercita affezione su di noi lo fa dunque sul piano del mondo e ci si dà come un presunto esistente; l’attività conoscitiva del giudizio tende a esaminare se l’ente è veramente così come ci si dà e come è stato presunto e se possiede le presunte determinazioni. Il mondo, come mondo che è, è la pre-datità passiva di ogni attività giudicativa, di ogni interesse teoretico per esso che intervenga.

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Lo sfondo di presupposti passivamente all’opera in ogni contatto intenzionale con gli oggetti costituisce una dimensione implicita ma ineludibile dalla quale scaturisce e sulla cui base si forma ogni altro senso, compresi alla fine i significati concettuali che costituiscono gli elementi di ogni conoscenza del mondo e poi delle vere e proprie scienze. Husserl cerca di rendere conto di questo sfondo con il concetto di orizzonte. Ogni percezione sensibile acquisisce il suo senso non soltanto in forza di ciò che dell’oggetto si presenta – per esempio i lati di un oggetto visibili allo sguardo – ma anche in base a ciò che è nascosto e che tuttavia è anticipato, e che nel decorso ulteriore dell’esperienza può essere confermato in un modo o nell’altro: un «repertorio di senso» in qualche modo noto, familiare, che orienta il nostro fare esperienza. Husserl lo chiama anche «l’orizzonte vuoto di un ignoto noto». Ciò che vale per la percezione sensibile vale per ogni altra forma di esperienza e poi di conoscenza, che trova il suo sfondo e la sua radice in questa dimensione implicitamente anticipata prima di ogni teoria. Il mondo della vita È questo orizzonte del «mondo» il presupposto più basilare delle attività e forme logiche: la logica concepita secondo l’impostazione della fenomenologia finisce per diventare, come dice Husserl, una «logica del mondo». Il «mondo» è in questa accezione una dimensione che è più vasta e più basilare di ciò che il solo rapporto teoretico con le cose può mostrarci, e di ciò che ci viene presentato in forma elaborata dalle diverse discipline scientifiche. È il mondo così come si manifesta nel rapporto vitale con esso della soggettività, e che Husserl chiama perciò, nell’ultima fase del suo pensiero, «mondo della vita» (Lebenswelt). A questa dimensione attribuisce un ruolo centrale per il ripensamento della stessa nozio➥ Sommario, p. 455 ne di ragione.

L’orizzonte come base implicita della costituzione del senso

Mondo, oggetto, teoria

Articolazione logico-teorica della conoscenza (giudizio)

Significato logico-linguistico

Esperienza dell’oggetto Strati pre-linguistici del senso Mondo (orizzonte di senso)

7 Filosofare in difesa del senso dell’umanità ai tempi del nazismo

Il mondo della vita e il destino della ragione Husserl attraversa, nel corso del suo tormentato cammino filosofico, tempi difficili: la Prima guerra mondiale, e poi la presa di potere da parte del nazismo, nel 1933, che ha come conseguenza il fatto che nel 1935 a Husserl – di origine ebraica – viene tolto il diritto all’insegnamento. Nello stesso anno Husserl tiene prima a Vienna e poi più ampiamente a Praga delle conferenze su La filosofia e la crisi dell’umanità europea. Una prima parte dell’elaborazione dei materiali di quelle conferenze fu pubblicata nel 1936 a Belgrado, fuori dalla Germania, nella rivista di un filosofo tedesco, Arthur Liebert, che aveva lasciato la Germania perché anch’egli ebreo. I materiali su cui Husserl continuò a lavorare negli anni 449

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1935-1937 uscirono postumi nel 1953 con il titolo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. In queste pagine Husserl cerca non soltanto di ridefinire per l’ennesima volta senso, metodi e scopi della fenomenologia, ma anche – in un momento storico, come egli stesso aveva scritto, in cui «è stato fatto di tutto per disorientarci rispetto alla ragione e alla dignità del genere umano» – di riflettere sulla natura della ragione umana in generale e sulla situazione culturale in cui si trovava la civiltà europea, cercando di identificare in quest’ambito il ruolo di quella filosofia la cui autonomia aveva difeso nel corso di tutta la sua attività intellettuale. La storia della filosofia moderna veniva vista così come «lotta per il senso dell’umanità». Domanda di senso, I temi della fenomenologia di Husserl, il concetto di «mondo della vita», ma anscienza e filosofia che l’idea di psicologia fenomenologica, le tematiche metodologiche della riduzione fenomenologica, la tematica dell’intersoggettività, sono inseriti in un contesto più ampio nel quale viene posta anzitutto la questione del rapporto tra razionalità filosofica e razionalità scientifica. Husserl si richiama a quella che ritiene essere una situazione spirituale effettiva, rappresentata dalla disillusione nei riguardi delle scienze oggettive per la loro incapacità di dare una risposta alle domande fondamentali dell’umanità. Questa incapacità deriva dalla loro stessa natura: quella di essere scienze di dati di fatto, che escludono per principio la soggettività e ciò che per essa ha un senso. Le stesse «scienze dello spirito», in particolare quelle storiche, non sembrano in grado di indicare un senso dello ➥ Percorso tematico, p. 625 svolgersi delle vicende umane.

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La crisi delle scienze obiettive

La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, par. 2

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Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla «prosperity» che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Il rivolgimento dell’atteggiamento generale del pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più recente generazione esso si è trasformato addirittura in uno stato d’animo ostile. Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso o del nonsenso dell’esistenza umana nel suo complesso. Questi problemi, nella loro generalità e nella loro necessità, non esigono forse, per tutti gli uomini, anche considerazioni generali e una soluzione razionalmente fondata? In definitiva essi concernono l’uomo nel suo comportamento di fronte al mondo circostante umano ed extra-umano, l’uomo che deve liberamente scegliere, l’uomo che è libero di plasmare razionalmente se stesso e il mondo che lo circonda. Che cos’ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto. Per quanto riguarda, d’altra parte, le scienze dello spirito, che pure, in tutte le loro discipline particolari e generali, considerano l’uomo nella sua esistenza spirituale, cioè nell’orizzonte della sua storicità, la loro rigorosa scientificità,

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si dice, esige che lo studioso eviti accuratamente qualsiasi presa di posizione valutativa, tutti i problemi concernenti la ragione o la non ragione dell’umanità tematizzata e delle sue formazioni culturali. La verità scientifica obiettiva è esclusivamente una constatazione di ciò che il mondo, sia il mondo psichico sia il mondo spirituale, di fatto è. Ma in realtà, il mondo e l’esistenza umana possono avere un senso se le scienze ammettono come valido e come vero soltanto ciò che è obiettivamente constatabile, se la storia non ha altro da insegnare se non che tutte le forme del mondo spirituale, tutti i legami di vita, gli ideali, le norme che volta per volta hanno fornito una direzione agli uomini, si formano e poi si dissolvono come onde fuggenti, che così è sempre stato e sempre sarà, che la ragione è destinata a trasformarsi sempre di nuovo in non-senso, gli atti provvidi in flagelli? Possiamo accontentarci di ciò, possiamo vivere in questo mondo in cui il divenire storico non è altro che una catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni? La soggettività e il mondo della vita come dimensione di origine del senso

Le dimensioni del mondo della vita

Dal mondo della vita alle strutture intenzionali e alla temporalità della coscienza

La radice di questa impotenza e crisi delle scienze obiettive sta secondo Husserl nel loro abbandono della dimensione nella quale ha origine ogni senso, ossia la soggettività trascendentale nel suo rapporto più originario con il «mondo della vita»: eppure essa costituisce il presupposto non chiarito anche delle scienze obiettivanti, che nella matematizzazione della natura abbandonano il terreno nel quale le loro stesse forme conoscitive hanno origine. Il mondo della vita è il «dimenticato fondamento di senso della scienza naturale»: il suo senso è frutto della «vita esperiente, prescientifica», rispetto al quale la scienza costituisce una formazione di grado più alto, con finalità settoriali, con una sua prospettiva particolare: si tratta, dice Husserl, del risultato di una idealizzazione, di «un vestito di idee gettato sul mondo della intuizione ed esperienza immediata, sul mondo della vita». Questo vestito di idee viene assolutizzato, scambiato per la realtà: questo errore fa sì che «si prenda per vero essere ciò che è un metodo». Sottolineare ciò non significa mettere in questione le scienze come tali, ma piuttosto l’obiettivismo naturalistico, la filosofia che dimentica questa differenza tra l’oggettivazione scientifica della natura e un terreno di senso più vasto di cui anche le scienze fanno parte. L’immediatezza del mondo della vita, se è tale solo in rapporto alle mediazioni metodologiche e ideali delle scienze positive, in realtà contiene in sé una complessità estrema di mediazioni, di dimensioni che in essa si intrecciano. Il mondo della vita non coincide con il mondo dell’esperienza sensibile, che Husserl esamina spesso come modello esemplare; è costituito invece da tutti gli «interessi» che precedono quelli solamente teoretici, e da una dimensione in cui si costituiscono sensi condivisi: «Tra gli oggetti del mondo della vita si trovano anche gli uomini, il loro operare e il loro patire, i loro legami sociali; gli uomini che vivono nell’orizzonte comune del mondo e che si sanno appunto in questo mondo». Questo mondo della vita funge da filo conduttore per risalire alle strutture intenzionali che gli stanno a fondamento. Il procedimento che risale alle fonti costitutive del mondo della vita incontra prima il «polo egologico», il cui tratto più rilevante è dato dalla temporalizzazione, dal suo costituirsi in modalità del tempo (un aspetto che Husserl indaga in particolare nelle lezioni Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, edite da Heidegger, suo allievo, per il quale questo aspetto rivestirà un peso particolare); ma poi risale a una dimensione ulteriore, che nella Crisi ha un’importanza centrale: la dimensione del451

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l’intersoggettività che si rivela costitutiva per il mondo della vita. Il riferimento al mondo della vita implica nel suo senso proprio il darsi di altri soggetti con i quali si concorda su di esso; l’ego trascendentale in questo modo si apre necessariamente al «noi».

T12

Il mondo della vita e l’intersoggettività La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, par. 50

Il mondo della vita e la soggettività trascendentale

La fenomenologia del mondo della vita e il concetto di razionalità

La filosofia come svolgimento della ragione nella sua autocomprensione

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Ma tutto si complica, appena rileviamo che la soggettività è ciò che è, cioè un io costitutivamente fungente, soltanto nell’intersoggettività. Riguardo all’«io» ciò comporta i nuovi temi delle sintesi, che investono l’io specifico e l’io-altro (ambedue in quanto puramente io), la sintesi io-tu e la sintesi più complicata del noi. In certo modo si tratta qui di nuovo di una temporalizzazione, la temporalizzazione della simultaneità dei poli egologici, oppure, che è lo stesso, dell’orizzonte personale (puramente egologico) in cui ogni io si sa. Si tratta della socialità universale (in questo senso l’«umanità») in quanto «spazio» di tutti i soggetti egologici. Ma naturalmente la sintesi dell’intersoggettività coinvolge tutto: il mondo-della-vita intersoggettivamente identico serve ovunque da «indice» intenzionale per le molteplicità delle apparizioni, le quali, connesse in una sintesi intersoggettiva, sono ciò attraverso cui tutti i soggetti egologici (e non soltanto attraverso le loro peculiari molteplicità individuali) si dirigono verso il mondo comune e verso le cose che sono in esso, cioè verso il campo di tutte le attività connesse nel noi generale, ecc. Il concetto di mondo della vita – che abbraccia tutto ciò che è il sostrato abituale della vita umana, dalle molteplici visioni del mondo all’esperienza sensibile, quotidiana, concreta con i suoi presupposti «ovvi», le sue convinzioni di fondo – ha avuto nella seconda metà del Novecento una notevole fortuna, soprattutto in ambito sociologico (fu l’allievo di Husserl Alfred Schütz a introdurlo in questo ambito di ricerche). Husserl lo concepisce però, come si è visto, nel suo stretto legame con una idea rinnovata e più complessa di soggettività trascendentale. Svolgere una fenomenologia del mondo della vita deve consentire per Husserl di ritrovare la dimensione in cui un senso per la ragione umana diventa di nuovo possibile. L’apparente fallimento del razionalismo è per Husserl soltanto il fallimento della sua manifestazione esteriore, del suo decadere a naturalismo e obiettivismo attraverso una razionalità unilaterale. La fenomenologia dovrebbe consentire di riscoprire la razionalità come un’idea disposta all’infinito, in divenire, che ha però una sua «forma finale», che per Husserl consiste nell’esigenza di «apoditticità», di conoscenza dotata di necessità, di certezza. Si tratta del principio che caratterizza lo spirito della filosofia moderna a partire da Cartesio, ma che deve ancora essere portato a compimento. Ma è l’intera filosofia a essere non tanto una disciplina tra le altre, ma «la ratio nel costante movimento dell’auto-rischiaramento», ossia lo svolgimento della ragione nella sua autocomprensione. E la ragione non costituisce solo una dimensione particolare dell’uomo, ma ciò in cui l’uomo può trovare il suo compimento: «ciò verso cui l’uomo, in quanto uomo, tende nel suo intimo, ciò che soltanto lo può pacificare, che può renderlo “felice”», in quanto «l’esser-uomo implica un essere-teleologico e un dover-essere». Non è in gioco per Husserl dunque il destino di una forma culturale particolare, ma della «fondazione originaria dell’umanità europea moderna», del significato complessivo della sua vita culturale. Una cultura guidata da una ragione in grado di gestire la sua dimensione finalistica è quella che può far ritrovare all’uomo il proprio senso. Il nesso che così si

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presenta tra vita dell’uomo singolo e ragione in quanto tratto fondamentale dell’umanità è incentrato per Husserl sull’idea di un’autonomia intrecciata alla responsabilità, che introduce l’io razionale nella dimensione di una razionalità comunitaria.

T13

La ragione è l’elemento specifico dell’uomo, di un essere che vive attraverso attività e abitualità personali. In quanto personale, questa vita è un costante divenire, e si sviluppa in una costante intenzionalità. E ciò che in questa vita diviene è la persona stessa. Il suo essere è sempre un divenire, e ciò vale anche nella correlazione di essere singolo personale e essere personale accomunato, per l’uomo e per l’umanità unitaria. La vita umana personale ha diversi gradi di auto-considerazione e di responsabilità di sé: dal grado degli atti singoli e occasionali a quello dell’auto-considerazione e della responsabilità universali, fino al grado in cui la coscienza coglie l’idea dell’autonomia, l’idea di una determinazione della volontà di plasmare la vita personale nell’unità sintetica di una vita nella dimensione di una responsabilità universale di sé; correlativamente di trasformare se stessi in un vero io, in un io libero e autonomo, che «cerchi» di realizzare la ragione innata in esso e lo sforzo di restare fedele a se stesso in quanto io-di-ragione identico a se stesso. Ma tutto ciò avviene nell’inscindibile correlazione delle persone singole e delle comunità, in virtù della loro unione interiore, immediata e mediata, in tutti gli interessi – un’unione nell’accordo e nel disaccordo – e nella necessità di promuovere una realizzazione sempre più perfetta della ragione personale singola soltanto in quanto personale-comunitaria, e viceversa.

La responsabilità dell’individuo e il senso etico della razionalità

La teleologia della ragione nasconde alla fine un senso anche etico che sta dietro ogni giustificazione razionale, un senso legato alla natura stessa della vita. Husserl aveva scritto nell’opera La filosofia come scienza rigorosa, in cui presentava nel 1910 la filosofia fenomenologica come alternativa allo psicologismo e allo storicismo: «La vita è tutta un prender posizione ed ogni presa di posizione è sottoposta ad un dovere, alla esigenza di giustificare ciò che è valido e giudicare ciò che non lo è, secondo norme che si pretendono dotate di un valore assoluto». Questa responsabilità dell’individuo si traduce nella ricerca di senso ultimo che può realizzarsi, secondo Husserl, attraverso una fenomenologia del mondo della vita.

L’uomo e la ragione

La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, par. 73

La razionalità della fenomenologia

Comprensione del senso della conoscenza (fenomenologia)

Vita pratica (mondo della vita)

Incremento della razionalità – realizzazione dell’umanità

Conoscenza teorica (scienza)

La fenomenologia riesce a dare una piena comprensione del senso della conoscenza ottenuta, mettendo in relazione due sfere di intenzionalità: la sfera logico-teorica della scienza e la sfera pratica del mondo della vita. È questa comprensione la razionalità a cui tende la fenomenologia.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento La comprensione non ha fine

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Husserl sembra consapevole del fatto che questo senso ultimo non può esser colto una volta per tutte, così come non può essere raggiunto il fondo della soggettività da cui scaturisce. Per entrambi può valere allora il richiamo che egli stesso fa al detto di Eraclito circa l’impossibilità di trovare i confini dell’anima, così commentandolo: «qualsiasi “fondo” si raggiunga esso rimanda effettivamente ad altri fondi, qualsiasi orizzonte si dischiuda esso ridesta altri orizzonti; tuttavia il tutto infinito, nell’infinità del suo movimento fluente, è orientato verso l’unità di un senso, ma certamente non in un modo che ci consenta di comprenderlo e afferrarlo senz’altro».

Suggerimenti bibliografici Per una presentazione generale della figura e del pensiero di Husserl si può vedere F.J. Wetz, Husserl, il Mulino, Bologna 2003, così come R. Miraglia, Il senso e l’evidenza: un percorso espositivo attraverso il pensiero husserliano, Cuem, Milano 1995, e R. Bernet - I. Kern - E. Marbach, Edmund Husserl, il Mulino, Bologna 1992 (più complesso ma molto accurato). Il volume di V. Costa - E. Franzini - P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002 segue gli sviluppi della fenomenologia dagli antecedenti (in particolare Brentano) a Husserl fino ai filosofi successivi che hanno partecipato al movimento fenomenologico o che sono stati influenzati dalla fenomenologia husserliana. Sulla storia del movimento fenomenologico nel suo contesto e le questioni principali su cui si sono impegnati Husserl e gli altri fenomenologi si può leggere H.G. Gadamer, Il movimento fenomenologico, Laterza, Roma-Bari 1994. Studi dedicati a temi specifici sono: R. Lanfredini, Husserl: la teoria dell’intenzionalità, Laterza, Roma-Bari 1995; Fenomenologia della ragion pratica. L’etica di Edmund Husserl, a cura di B. Centi e G. Gigliotti, Bibliopolis, Napoli 2004; J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 1984 (interpretazione di un problema centrale da parte di un importante filosofo del Novecento). A proposito di fenomenologia è da segnalare anche una introduzione ricca di spunti originali da parte di una filosofa italiana dei nostri giorni: R. De Monticelli, La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini, Milano 1998. I brani antologizzati sono tratti da: E. Husserl, Ricerche logiche, a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1988 (trad. leggermente modificata). E. Husserl, L’idea della fenomenologia, introd. e trad. di A. Vasa (modificata), a cura di M. Rosso, il Saggiatore, Milano 1981, p. 77. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 209. E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, a cura di C. La Rocca, Il Saggiatore, Milano 1990, pp. 169-170 e 172. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, a cura di P. Spinicci, trad. di V. Costa, Guerini, Milano 1993, pp. 321-322. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1987. E. Husserl, Esperienza e giudizio, trad. di F. Costa e L. Samonà (modificata), Bompiani, Milano 1995, pp. 27-28. Il brano di F. Brentano citato a p. 440 è tratto da La psicologia dal punto di vista empirico, 1874.

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Sommario 1. LA

FILOSOFIA COME SCIENZA AUTONOMA E RIGOROSA

La fenomenologia di Husserl è la risposta a uno stato di difficoltà della filosofia, il cui ruolo è minacciato dagli sviluppi delle scienze, che ne mettono sempre più in discussione la capacità di fondazione della conoscenza. Husserl si propone con la fenomenologia di dare un nuovo e rigoroso metodo alla filosofia, restituendole certezza e riaffermando il suo ruolo fondante. 2. UN

FUNZIONARIO DELL’UMANITÀ IN LOTTA PER LA RAGIONE

In Husserl l’aspirazione al rigore scientifico si coniuga con un appassionato coinvolgimento personale nella filosofia, intesa come missione al servizio dell’umanità. Così va intesa la ricerca di chiarezza e di certezza sulla struttura, i contenuti e la validità del pensiero che Husserl ha perseguito per tutta la vita. La dedizione assoluta alla ricerca e il bisogno di una chiarificazione sempre maggiore hanno portato Husserl a pubblicare pochi scritti. Nonostante i molti collaboratori di valore e la vasta risonanza culturale delle sue idee, egli ha lavorato sostanzialmente da solo e non ha avuto un successore, che abbia voluto continuarne l’opera sulla stessa linea. 3. LO

PSICOLOGISMO E IL SUO SUPERAMENTO

Nelle sue prime ricerche filosofiche Husserl si interessa dell’origine dei concetti aritmetici. La sua Filosofia dell’aritmetica riceve una severa critica da parte di Frege, che ne contesta lo «psicologismo», cioè la riduzione dei concetti a operazioni psicologiche. Questa riduzione rendebbe impossibile giustificare la validità oggettiva dell’aritmetica. Husserl poi cambia completamente posizione e sviluppa a sua volta nelle Ricerche logiche una critica dello psicologismo, in cui rivendica la necessità di una fondazione che possa dar conto della validità assoluta, non empirica, delle conoscenze logiche e matematiche. 4. LA DIMENSIONE DELL’IDEALE E LA FENOMENOLOGIA DELLA CONOSCENZA

Rifiutato lo psicologismo così come ogni forma di relativismo, Husserl tenta di fondare la logica come scienza di oggetti e leggi «ideali» indipendenti dall’esperienza, le cui conoscenze hanno carattere di certezza e validità oggettiva e assoluta. In questo contesto egli elabora una teoria della conoscenza degli oggetti ideali, che denomina essenze, e dei loro nessi, basata sul carattere di evidenza e quindi di conoscenza certa e indiscutibile propria di ogni conoscenza in cui l’oggetto è dato integralmente, senza alcuna ipotesi o assunzione che vada oltre ciò che è presente alla coscienza. Da qui parte la fenomenologia husserliana.

5. L’ESPANSIONE

E L’APPROFONDIMENTO DEL PROGETTO

FENOMENOLOGICO

Il campo della fenomenologia si espande oltre quello delle funzioni logiche, comprendendo ogni genere di coscienza e il suo rapporto con il mondo. La fenomenologia analizza le strutture dell’intenzionalità, ossia del riferimento agli oggetti da parte dei contenuti della coscienza o «vissuti». Husserl, come già Cartesio, individua nella conoscenza empirica un problema per la mancanza di evidenza degli oggetti esterni, contrapposta all’evidenza del vissuto di coscienza. Egli elabora quindi un nuovo metodo basato sulla «riduzione fenomenologica» che mette tra parentesi l’intero mondo per dar luogo a un’analisi «trascendentale» delle essenze e dei nessi di possibilità dei fenomeni «puri», indipendenti dal mondo, in cui ricostruire il senso di ogni rapporto tra coscienza e mondo. Emerge la nozione di io assoluto o ego trascendentale, come campo di possibilità pure. 6. L’INDAGINE

FENOMENOLOGICA OLTRE IL LÒGOS

Nel pensiero di Husserl è costante la preoccupazione di considerare la logica non come regno a sé stante, ma come parte della vita della coscienza, in cui trova il suo contesto e la sua origine. I concetti e i significati linguistici per Husserl sono parti di una più ampia e stratificata struttura di senso che appartiene all’intera vita della coscienza. Tutta l’intenzionalità della coscienza, anche quella intellettuale, ha la sua radice in operazioni «passive», che l’io «desto» in qualche modo «subisce». Così il significato concettuale e linguistico deriva dal «senso» dato nell’esperienza prelinguistica. Inoltre il contesto degli atti intenzionali è fatto in gran parte di assunzioni implicite: ogni atto di coscienza rivolto a qualcosa presuppone molte altre cose date come sfondo di quell’atto, fino a comprendere il «mondo» come orizzonte di senso. 7. IL

MONDO DELLA VITA E IL DESTINO DELLA RAGIONE

Nei suoi ultimi scritti Husserl riprende i temi principali della fenomenologia e li inserisce in un contesto storico-filosofico più ampio. La sua tesi è che solo dalla filosofia può venire una risposta alle domande fondamentali dell’umanità. Le scienze incrementano la conoscenza del mondo in ambiti sempre più specialistici, ma rischiano di smarrirne il senso più profondo. Per rintracciarlo occorre esaminare la genesi delle strutture dell’intenzionalità umana dal mondo della vita, cioè dal mondo come oggetto di interessi pratici che stanno alla radice di ogni esigenza e problema di tipo teoretico. Solo la filosofia, attraverso il metodo fenomenologico, può assumersi il compito infinito di comprendere tali nessi di senso e cogliere la finalità della conoscenza e il valore della razionalità come ciò che può consentire la realizzazione dell’uomo. 455

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Parole chiave Antepredicativo. Viene così denominata da Husserl tutta la conoscenza che precede l’articolazione del pensiero in giudizi. La considerazione della sfera antepredicativa permette a Husserl di analizzare la genesi delle strutture logiche. Atteggiamento naturale. L’atteggiamento mentale spontaneo in cui qualunque soggetto si trova sempre, caratterizzato secondo Husserl dalla tesi fondamentale che esiste un mondo al di fuori della coscienza e che essa è in grado di conoscerlo. È comune alla vita pratica, a ogni conoscenza scientifica e alla stessa riflessione filosofica. Dal punto di vista fenomenologico l’atteggiamento naturale non è in errore, ma è fondamentalmente acritico e occorre perciò sospenderlo (metterlo tra parentesi, con una volontaria «epochè» fenomenologica) per poterne giustificare le pretese conoscitive. Atto / Atto intenzionale. Husserl chiama «atti intenzionali» o semplicemente «atti» i vissuti dotati di una propria, specifica, intenzionalità, cioè quelli che si riferiscono a un oggetto, per esempio la credenza e il desiderio. Non tutti i vissuti sono atti, molte sensazioni e sentimenti, presi a sé, fuori dal loro contesto, sono vissuti privi di oggetto (per esempio la gioia, l’ansia). Ego trascendentale. È la soggettività pura a cui si accede solo tramite l’epochè fenomenologica. Si tratta di un ‘io’ che è privo di connotazioni umane poiché vale unicamente come soggetto dei vissuti che costituiscono il mondo e in cui ogni attributo che trascende la corrente dei vissuti stessa, ogni aspetto che appartiene al mondo esterno, è stato messo tra parentesi. Epochè. Termine greco che Husserl riprende dagli scettici antichi e che significa «sospensione del giudizio». L’epochè fenomenologica è caratterizzata dalla sospensione di tutti i giudizi sul mondo esterno e quindi dalla messa tra parentesi dell’intero mondo esterno. Attraverso questa operazione diventa possibile una riflessione critica sulla conoscenza non viziata da presupposti. Essenza. Nella fenomenologia husserliana questo termine designa gli oggetti ideali come i concetti generali, i tipi di individui, i numeri e i concetti logici. A differenza degli oggetti empirici, le essenze possono essere oggetto di conoscenza evidente, ossia di una intuizione che ne abbraccia completamente la natura. Fenomenologia. La scienza che analizza i fenomeni della coscienza, che Husserl elabora a partire dalle Ricerche logiche fino ai suoi ultimi scritti e a cui affi456

da interamente la propria filosofia. Husserl distingue nettamente fin dall’inizio la sua fenomenologia dalla psicologia e ritiene che solo la fenomenologia possa dare una chiarificazione e una giustificazione definitiva della conoscenza umana, proprio perché non è una scienza empirica, ma un’analisi condotta sul terreno dell’evidenza della coscienza, indipendentemente dal mondo esterno. Intenzionalità. Concetto che Husserl riprende da Brentano e mette al centro dell’analisi fenomenologica e di tutta la sua opera filosofica. L’intenzionalità è caratteristica della coscienza, anche se non appartiene a tutti i suoi vissuti, e consiste nel tendere a (riferirsi a) un oggetto. Così nella conoscenza qualcosa è conosciuto, nel desiderio qualcosa è desiderato, nella paura qualcosa è temuto, ecc. Il riferimento all’oggetto è una proprietà interna del contenuto di coscienza, non una relazione con qualcosa di esterno. L’oggetto potrebbe anche non esistere. Nulla infatti impedisce alla coscienza di pensare oggetti immaginari che non hanno una realtà al di fuori di lei. Mondo della vita. Il mondo come oggetto di tutti gli interessi pratici che precedono la concettualizzazione, l’espressione linguistica e le costruzioni logiche e teoriche. Secondo Husserl è solo risalendo al mondo della vita che si può ricostruire il senso dell’esperienza, di ogni impresa conoscitiva e della razionalità come fine dell’umanità. Orizzonte. Insieme di assunzioni implicite che funge da contesto di ogni presa di posizione esplicita dell’io ossia di ogni atto intenzionale in cui l’io è attivamente coinvolto. Secondo Husserl l’intero mondo è l’orizzonte di senso della coscienza degli oggetti esterni, cioè ogni rapportarsi della coscienza a un oggetto del mondo esterno porta con sé un insieme indefinito di assunzioni inconsapevoli sull’intero mondo. Vissuto. Termine generale che designa in Husserl ogni momento del flusso di coscienza. Gli «atti» o vissuti intenzionali, in cui l’io è attivamente coinvolto, sono solo alcuni dei vissuti. Caratteristica di tutti i vissuti è il potere essere portati a evidenza: la coscienza è in grado di conoscere perfettamente se stessa nel senso che può cogliere il vissuto presente per quello che esso è, purché non si impegni in assunzioni su quanto non è ‘dato’ nel vissuto stesso. Così per esempio le strutture intenzionali e le qualità sensoriali di un vissuto di coscienza sono conoscibili e descrivibili con certezza ed evidenza assoluta, mentre cade fuori da questa sfera di certezza la natura del vissuto di stato psicologico di un determinato essere umano.

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Questionario LA

FILOSOFIA COME SCIENZA AUTONOMA E RIGOROSA

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LO

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Perché gli sviluppi delle scienze hanno messo sotto assedio la filosofia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento? (max 3 righe)

Lavoriamo sui testi 11

Che cosa intende Husserl in T1 per «funzionario dell’umanità» e perché attribuisce questa missione proprio al filosofo? (max 3 righe)

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Perché secondo Husserl la macchina calcolatrice del suo esempio non è pensante (T2)? (max 2 righe)

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Husserl sostiene che a ogni fenomeno psichico corrisponde un fenomeno puro; qual è la differenza tra i due e come avviene il passaggio dall’uno all’altro (T7)? (max 4 righe)

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Attraverso che tipo di analisi Husserl tenta di ricondurre la teoria all’esperienza (T9)? (max 2 righe)

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Perché e in che senso Husserl sostiene che la conoscenza del mondo precede quella dei singoli oggetti (T10)? (max 3 righe)

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Come caratterizza Husserl in T12 la soggettività che costituisce il mondo della vita? (max 3 righe)

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In T13 viene stabilito un nesso tra la razionalità e il divenire dell’uomo? (max 2 righe)

PSICOLOGISMO E IL SUO SUPERAMENTO

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Husserl è mai stato uno psicologista? (max 2 righe)

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Perché secondo Husserl le leggi logiche non possono essere leggi naturali? (max 3 righe)

DIMENSIONE DELL’IDEALE E LA FENOMENOLOGIA

DELLA CONOSCENZA

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Per Husserl le «essenze» e i rapporti tra «essenze» sono conoscibili dalla mente umana? (max 3 righe)

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Com’è intesa nella fenomenologia husserliana la «datità»? (max 3 righe)

L’ESPANSIONE

E L’APPROFONDIMENTO DEL PROGETTO

FENOMENOLOGICO

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Per Husserl esistono fenomeni psichici privi di intenzionalità? (max 2 righe)

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Che rapporto c’è tra materia e oggetto di un atto intenzionale? (max 2 righe)

L’INDAGINE 8

IL

FENOMENOLOGICA OLTRE IL LÒGOS

In che modo Husserl distingue tra senso e significato? (max 2 righe)

MONDO DELLA VITA E IL DESTINO DELLA RAGIONE

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Qual è la ragione fondamentale per cui nessuna scienza empirica, né quelle naturali né quelle storiche e sociali, può rispondere alle domande sul senso? (max 2 righe)

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La ragione di cui parla Husserl in relazione alla filosofia fenomenologica è un valore relativo alla cultura europea moderna? (max 3 righe)

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LABORATORIO DI LETTURA La filosofia come scienza rigorosa Nel 1911 Husserl pubblica sulla rivista «Logos» un lungo saggio intitolato La filosofia come scienza rigorosa al centro del quale sta «l’idea che i supremi interessi della civiltà umana richiedono l’edificazione di una filosofia rigorosamente scientifica». Husserl cerca di delineare il progetto di una filosofia autonoma rispetto alle scienze della natura e dello spirito, che svolga una riflessione critica sui fondamenti di ogni sapere e una indagine approfondita sul metodo: quella a cui aveva dato il nome di «fenomenologia». Nel farlo egli critica le filosofie naturalistiche, che pretendono di fondare ogni conoscenza sulle scienze empiriche e in particolare lo psicologismo naturalistico, che riconduce tutto alla psicologia empirica, negando l’esistenza di leggi logiche oggettive. Ma critica anche lo storicismo e la «filosofia delle visioni del mondo», che si ispirano alle scienze umane piuttosto che a quelle naturali, ma secondo Husserl hanno in comune con lo psicologismo l’esito relativistico. Nella prima parte del saggio Husserl inizia a tracciare la distinzione tra la filosofia naturalistica e la sua propria prospettiva fenomenologica.

La filosofia naturalistica e la fenomenologia Oggetto della critica: naturalismo e storicismo

Commento e interpretazione

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Il naturalismo è un fenomeno conseguente alla scoperta della natura, della natura nel senso di un’unità dell’essere spazio-temporale secondo leggi naturali esatte. Con la progressiva realizzazione di questa idea in sempre nuove scienze della natura, da cui proviene una sovrabbondanza di conoscenze rigorose, si diffonde sempre più il naturalismo. In modo del tutto simile è cresciuto lo storicismo come fenomeno conseguente alla «scoperta della storia» e all’istituzione di nuove scienze dello spirito. Seguendo gli usi della comprensione dominante, lo scienziato che studia la natura tende a riguardare tutto come natura, quello che studia lo spirito tutto come spirito, come formazione storica e quindi a fraintendere ciò che non può

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A. Naturalismo e storicismo sono i due bersagli critici di questo scritto di Husserl. Entrambi hanno in comune la tendenza a ricondurre ogni forma di sapere a qualcosa che conduce in ultima analisi al relativismo. Lo storicismo considera ogni sapere come condizionato storicamente, il naturalismo come fondato su una base empirica che però non può offrire una fondazione a norme di carattere universale e oggettivo, quali quelle del pensiero o dell’etica. B. Il naturalismo non è filosoficamente una novità, ma nelle forme che Husserl ha di mira e che nelle Ricerche logiche ha combattuto come «psicologismo» si estende fino a ricomprendere in sé la dimensione dello «psichico». Si producono così il naturalismo della coscienza per il quale i contenuti di coscienza vengono interpretati come complessi di sensazioni e la naturalizzazione delle idee per cui le rappresentazioni non sono altro che da-

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Unità 11 Husserl Approfondimento: l’estensione del naturalismo allo psichico

Le due tesi principali del naturalismo

Prima confutazione: contraddittorietà del naturalismo

Esplicitazione della contraddizione del naturalismo

esser riguardato da tal punto di vista. [A] Il naturalista perciò, rivolgendoci ora particolarmente a lui, non vede altro che natura ed anzitutto natura fisica. Tutto ciò che è, o è già fisico, appartenendo al nesso unitario della natura fisica, o è pur psichico, ma allora non è che una variabile dipendente dal fisico, nel caso migliore un «fatto parallelo secondario». Ogni ente ha natura psico-fisica, è determinato cioè da una rigida legalità. Non si tratta di alcunché di essenzialmente nuovo quando nel senso del positivismo (sia che esso inclini ad un Kant naturalisticamente interpretato o che rinnovi e riformi in modo conseguente Hume) la natura fisica viene risolta sensisticamente in complessi di sensazioni, colori, suoni, impressioni tattili etc., ma il così detto psichico vien risolto in complessi unitari di tali o tali altre «sensazioni». Ciò che caratterizza tutte le forme del naturalismo estremo e conseguente, dal materialismo popolare fino al recente monismo sensistico ed all’energetismo, è da un canto il naturalismo della coscienza, comprese tutte le datità di coscienza immanenti-intenzionali, d’altro canto la naturalizzazione delle idee e perciò di ogni ideale e norma assoluti. [B] Alla fin fine il naturalismo senz’accorgersene distrugge se stesso. Prendiamo come indice esemplare di ogni idealità la logica formale; com’ è noto, i principi logicoformali, le così dette leggi del pensiero, sono interpretati dal naturalismo come leggi di natura. In altro luogo ho fatto vedere che questa concezione comporta un controsenso di quel genere che caratterizza ogni teoria scettica in senso pregnante. Si può anche sottoporre ad una simile critica radicale l’assiologia e la pratica, compresa l’etica, di tipo naturalistico ed anzi la stessa prassi naturalistica. Infatti a controsensi teoretici fanno seguito inevitabilmente controsensi (discordanze evidenti) negli attuali procedimenti teorici, assiologici, etici. [C] Si può ben dire insomma che il naturalista è nel suo modo di procedere idealista ed oggettivista. [D] Vige in lui la tendenza piena ad elevare sul piano della conoscenza, necessitando così ogni essere ragionevole, tutto ciò che in ogni campo è verità autentica, bellezza e bontà autentiche, e a far conoscere come determinarne l’essenza universale e con quali metodi ottenerla nei casi singoli. Mediante le scienze della natura e la filosofia scientifico-naturale egli crede che lo scopo sia sostanzialmente raggiunto, e con l’entusiasmo che gli dà questa convinzione egli si presenta come maestro e pratico riformatore. Ma egli è un idealista che edifica e pretende di fondare teorie le quali negano proprio ciò che egli presuppone nel suo procedimento idealistico, sia

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ti empirici tra gli altri, dotati dello stesso status ontologico. [Nota di Husserl] Vedi le mie Logische Untersuchungen, I volume, 1900 [trad. a cura di G. Piana, Ricerche logiche, vol. I, Il Saggiatore, Milano 1968]. C. Il naturalismo è autocontraddittorio, perché ammette implicitamente delle verità che la sua posizione filosofica non gli consente di fondare (per esempio un valore assoluto di principi logici che sarebbero invece leggi empiriche del cervello). In particolare le norme etiche non possono per Husserl trovare nessuna fondazione in fatti empirici, e quindi una posizione ‘edificante’ del naturalista è un controsenso. D. «Idealista» va inteso qui nel senso di chi persegue ideali elevati; «oggettivista» nel senso di chi ammette un’oggettività della conoscenza. [Nota di Husserl] Häckel e Ostwald possono qui servire come esimi rappresentanti.

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Osservazione metodologica: limiti di ogni argomentazione sulle conseguenze

Precisazione: il principio di scientificità rigorosa sostenuto dal naturalismo non è colpito dall’argomentazione

edificando teorie, sia fondando e raccomandando valori o norme pratiche come le più belle e le migliori. Ciò che egli presuppone sta nel fatto che egli teorizza, pone oggettivamente valori cui devono conformarsi le valutazioni, e pone regole secondo le quali ognuno deve volere ed agire. Il naturalista insegna, predica, moralizza, riforma. Ma egli nega ciò che è presupposto da ogni predica e dal senso proprio di ogni richiesta in quanto tale. Solo che egli non predica expressis verbis, come faceva l’antico scetticismo, dicendo che la sola cosa ragionevole era negare la ragione, quella teoretica come quella assiologica e quella pratica. Il filosofo naturalista respingerebbe anzi una tale posizione. Il controsenso non si trova in lui aperto ma è nascosto nel fatto che egli naturalizza la ragione. [E] Da tal punto di vista la controversia è di fatto decisa, anche se cresce l’ondata del positivismo e del pragmatismo che lo supera in relativismo. Proprio in tale circostanza si vede quanto sia debole il valore degli argomenti che si basano sulle conseguenze. I pregiudizi accecano e chi non vede altro che fatti empirici e dà valore intimamente solo alla scienza sperimentale, non si sentirà molto turbato da conseguenze assurde che nell’esperienza non si rivelano contrari ai fatti della natura. Egli le respingerà come «scolastica». L’argomentazione basata sulle conseguenze, d’altra parte, cioè per coloro che sono sensibili alla loro forza dimostrativa, sortisce facilmente falsi risultati. Dato che il naturalismo appare del tutto discreditato, esso, che voleva edificare la filosofia sulla base della scienza rigorosa e come scienza rigorosa, getta anche il discredito sul suo scopo metodico, tanto più, quanto anche da questo lato cresce la tendenza a non poter considerare come rigorosa che una scienza positiva e come scientifica la filosofia fondata su questa. [F] Ma anche questo è un pregiudizio e pertanto sarebbe un grosso errore voler deviare dalla linea della scienza rigorosa. Proprio nell’energia che mette il naturalismo nel realizzare il principio della scientificità rigorosa in tutte le sfere della natura e dello spirito, nella teoria e nella prassi, sforzandosi di risolvere scientificamente – secondo la sua opinione in modo scientifico-naturale esatto – i problemi filosofici dell’essere e del valore, sta il suo merito ed anche la parte principale della sua forza. Non esiste forse in tutta la vita moderna un’idea più potente e incessantemente penetrante di quella della scienza. Considerata nei suoi

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E. Il naturalista difende l’oggettività della conoscenza e i valori, ma questo è in – nascosta – contraddizione con la sua posizione filosofica, che non consente la fondazione di norme e valori assoluti. Secondo Husserl anche lo scetticismo antico era contraddittorio, in quanto predicava (dunque asseriva in positivo) l’impossibilità della conoscenza, ma in quel caso la contraddizione tra ciò che si predica e la filosofia sostenuta era palese. Husserl cita Ernst Häckel (1834-1919), importante zoologo tedesco che aveva sviluppato un suo sistema filosofico su base naturalistica (il «monismo», cui poco prima Husserl faceva riferimento), che comprendeva anche una sua etica (la «dottrina etica monistica», esposta nel libro Die Welträthsel [«Gli enigmi del mondo»] del 1899). Cita inoltre Wilhelm Ostwald (1853-1932), premio Nobel per la chimica nel 1909, che partecipava alla Lega monistica tedesca (Deutscher Monistenbund) fondata da Häckel (associazione di ‘liberi pensatori’ favorevoli a una visione scientifica del mondo), e aveva sviluppato un altro sistema filosofico naturalistico a cui Husserl fa riferimento, l’«energetismo». F. Il naturalismo, a dispetto della sua diffusione, è per Husserl filosoficamente debole, e questa sua debolezza rischia di mettere in crisi lo stesso ideale di scientificità in filoso-

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Necessità di un’argomentazione di tipo diverso: una critica costruttiva

Premessa metodologica della critica costruttiva

Tesi da confutare: la presunta filosofia esatta è la psicologia

giusti scopi, essa s’estende dappertutto. Presa nella sua perfezione ideale, essa sarebbe la ragione stessa che non può riconoscere altra autorità accanto e sopra di sé. Al dominio della scienza rigorosa appartengono, pertanto, anche tutti gli ideali teoretici, assiologici, pratici, che il naturalismo, travisandoli in senso empiristico, al tempo stesso falsifica. [G] Tuttavia le convinzioni generali dicono meno, quando non vengono giustificate, e le speranze nutrite per una scienza dicono meno, quando non si intravede alcuna via per il conseguimento dei suoi scopi. Se dunque l’idea di una filosofia come scienza rigorosa dei problemi indicati e di tutti gli altri che sono ad essi essenzialmente affini non deve restare impotente, dobbiamo allora aver innanzi agli occhi chiare possibilità di realizzarla; mediante la chiarificazione dei problemi e l’approfondimento del loro senso puro debbono scaturire in tutta evidenza i metodi adeguati a tali problemi in quanto richiesti dall’essenza propria di questi ultimi. Sotto questo rispetto ben poca utilità potremmo trarre dalla confutazione del naturalismo, dapprima certamente utile ed indispensabile, basata sulle conseguenze. Ben diverso è però se sottoponiamo ad una critica positiva e pur sempre basata su principi i suoi fondamenti, i suoi metodi ed i suoi risultati. Poiché questa critica distingue e chiarisce e obbliga a studiare il senso autentico dei motivi filosofici che sono per lo più formulati in problemi molto vaghi ed ambigui, essa è idonea a suscitare la rappresentazione di scopi e vie migliori e a favorire positivamente i nostri propositi. A tal fine noi discutiamo più ampiamente il carattere già segnalato della filosofia combattuta, cioè il naturalismo della coscienza. [H] […] Naturalmente non colleghiamo le nostre analisi critiche alle più popolari riflessioni degli scienziati filosofeggianti, ma ci occupiamo della filosofia dotta che si presenta in una costituzione veramente scientifica, specialmente però di un metodo e una disciplina per i quali essa crede di avere ottenuto definitivamente il rango di scienza esatta. Essa è tanto sicura di ciò, che guarda con disprezzo ogni altro genere di filosofia. Il suo modo di filosofare scientifico-esatto vale per essa come la giovane e vigorosa meccanica esatta di un Galilei rispetto alla torbida filosofia della natura del Rinascimento, o la chimica esatta di un Lavoisier rispetto all’alchimia. Se ora ci domandiamo quale sia la filosofia esatta, anche se solo parzialmente costruita,

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fia. Egli intende combattere queste tendenze perseguendo la filosofia come scienza rigorosa – dotata di una fondazione autonoma rispetto a quella delle scienze della natura, e più solida – a dispetto della precaria scientificità della filosofia che si pretende ‘scientifica’. G. Merito del naturalismo è il suo difendere e perseguire l’ideale della scientificità, seppure con mezzi inadeguati e contraddittori. Questo ideale va realizzato però per Husserl in tutti i campi e attraverso una filosofia che, oltrepassando la posizione empiristica, possa proporsi essa stessa come scienza rigorosa. H. Husserl, una volta messe in evidenza le conseguenze insostenibili del naturalismo e una volta stabilito che le scienze naturali e in generale tutte le scienze empiriche non sono le uniche scienze rigorose possibili, si rivolge al suo obiettivo principale che è gettare le basi di una scientificità filosofica non empirica. A questo scopo occorrerà un’argomentazione di tipo ‘positivo’ e ‘costruttivo’ che, mettendo in evidenza le insufficienze del naturalismo, faccia emergere la necessità di un altro tipo di ricerca. È ciò che si propone di fare nel seguito dell’argomentazione, riprendendo il tema del naturalismo della coscienza. 461

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Prima obiezione: la psicologia è scienza di fatti e non di principi normativi Seconda obiezione: prima premessa – ogni scienza naturale è ‘ingenua’ Seconda premessa – la psicologia è una scienza naturale ingenua come le altre

siamo allora rimandati alla psicologia psicofisica e più precisamente sperimentale, cui pur nessuno negherebbe il rango di scienza rigorosa. Essa è la psicologia scientifico-esatta lungamente cercata ed ora finalmente realizzata. Logica e gnoseologia, estetica, etica e pedagogia avrebbero ottenuto alfine mediante essa la loro fondazione scientifica e starebbero già per trasformarsi in discipline sperimentali. Inoltre la psicologia rigorosa sarebbe naturalmente la base di tutte le scienze dello spirito e perfino della metafisica, della quale essa non sarebbe però il solo fondamento, poiché alla fondamentazione (Fundamentierung) di questa universale teoria della realtà sarebbe parimenti interessata la scienza fisica della natura. [I] A tutto ciò noi obiettiamo: anzitutto bisogna comprendere, come mostrerà una breve riflessione, che la psicologia in generale in quanto scienza dei fatti è inadatta a fornire fondamenti in quelle discipline filosofiche che hanno a che fare con i principi puri di ogni normatività, cioè della logica pura, dell’assiologia e della pratica pure. […] Per i suoi punti di partenza ogni scienza della natura è ingenua. La natura che essa vuole studiare semplicemente c’è. Ovviamente ci sono cose, mobili, fisse, cangianti nello spazio infinito e, in quanto cose temporali, nel tempo infinito. Noi le percepiamo e le descriviamo in semplici giudizi sperimentali. Scopo della scienza della natura è conoscere queste datità ovvie in modo oggettivo e rigorosamente scientifico. [L] Lo stesso vale per la natura in senso psicofisico ampliato, cioè per le scienze, specialmente per la psicologia, che la studiano. Lo psichico non è un mondo. Esso è dato come io o come esperienza vissuta dell’io (in un senso per altro motivo diverso), e come tale si rivela connesso sperimentalmente a certe cose fisiche dette corpi. Anche questo è un dato ovvio. Ora studiare scientificamente questo psichico nella connessione psicofisica in cui esiste immediatamente, determinarlo in modo oggettivamente valido nelle regolarità secondo cui si forma e si trasforma, appare e scompare, questo è compito della psicologia. Ogni determinazione psicologica è eo ipso psicofisica, nel senso più ampio per cui non manca mai di un significato fisico aggiuntivo. Anche dove la psicologia – scienza sperimentale – ha mirato a puri eventi di coscienza e non a dipendenze psicofisiche, intese nello stretto senso ordinario, tali eventi sono intesi come appartenenti alla natura, cioè alla

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I. La filosofia che si pretende esatta e che ritiene quindi di avere un rango superiore alle altre quanto a scientificità è individuata da Husserl nello psicologismo: l’indagine empirica dei processi psichici si propone come fondamento di tutte le altre scienze, comprese le scienze storiche e le «scienze dello spirito» in quanto ogni scienza sarebbe riferita alle leggi del pensiero che la psicologia intende indagare in modo empirico-sperimentale. Gli «scienziati filosofeggianti» sono i già citati Häckel e Ostwald; Husserl ritiene di dover prendere in più seria considerazione i filosofi psicologisti, con i quali si era confrontato nelle Ricerche logiche: Wundt, Sigwart, Erdmann, Lipps, e, prima di loro, John Stuart Mill. L. La scienza della natura – in quello che Husserl chiama l’«atteggiamento naturale» – ammette l’esistenza di cose in sé sussistenti. Questa assunzione è legittima nel suo ambito e anche necessaria, è però «ingenua» dal punto di vista filosofico, in quanto trascura la relazione dei ‘dati’, delle cose in sé sussistenti nel mondo, con la coscienza con cui sono costitutivamente in rapporto. Innocua e necessaria nell’ambito delle scienze naturali, la posizione naturalistica diventa dannosa in filosofia.

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Conseguenza: se la filosofia non può essere ingenua allora non può identificarsi con la psicologia

Tesi di Husserl: necessità di una critica radicale dell’esperienza

Premessa alla prova della tesi: necessità di affrontare gli enigmi della gnoseologia

coscienza umana o animale, in quanto hanno da parte loro una connessione ammessa come ovvia con il corpo dell’uomo o dell’animale. Se si esclude il rapporto con la natura, si sottrae allo psichico il carattere di un fatto naturale determinabile in modo oggettivamente temporale, in breve di fatto psicologico. Resta dunque stabilito che ogni giudizio psicologico implica la posizione esistenziale della natura fisica, espressamente o no. [M] Da ciò risulta evidente che, se si dessero argomenti decisivi in base ai quali la scienza fisica della natura non può essere filosofia in senso specifico, non può servire mai e poi mai come fondamento della filosofia e solo in virtù della filosofia precedente può avere valore per gli scopi della metafisica, allora tutti questi argomenti dovrebbero trovare senz’altro applicazione alla psicologia. Ora di tali argomenti non ne mancano. Basta richiamarsi alla «ingenuità» con la quale, secondo ciò che si è detto, la scienza della natura assume la natura come data, un’ingenuità che si direbbe immortale e che sempre si rinnova ad ogni passo del procedimento proprio di questa scienza, quand’essa ricorre alla pura e semplice esperienza – ed alla fine ogni metodo scientifico-sperimentale riconduce proprio all’ esperienza. La scienza della natura è sempre a suo modo molto critica. Ben poco valgono per essa le singole esperienze comunque accumulate. È piuttosto nell’ordinamento e nella connessione delle esperienze, nella reciprocazione di esperire e pensare, la quale è sottoposta a fisse regole logiche, che si distingue l’esperienza valida da quella non valida ed ogni esperienza acquista il suo grado di validità, si elabora cioè in generale una conoscenza oggettivamente valida. Ma per quanto possiamo esser soddisfatti da questa critica dell’esperienza, finché rimaniamo nella scienza della natura e pensiamo secondo i suoi punti di vista – è ancora possibile una ben diversa critica dell’esperienza, è anzi indispensabile; questa critica pone in questione l’intera esperienza in generale e insieme il pensiero scientifico-sperimentale. [N] Come può l’esperienza in quanto coscienza produrre o trovare un oggetto? Come si convalidano reciprocamente esperienze mediante esperienze? Com’è possibile tale convalida al di là della cancellazione oppure del rafforzamento soggettivi? Come può un gioco della coscienza secondo la logica dell’esperienza significare qualcosa che abbia valore oggettivo, valga cioè per le cose

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M. La psicologia è una scienza della natura come le altre: anche quando non considera direttamente i nessi tra eventi del mondo esterno ed eventi della sfera psichica, ma si concentra su questa, essa la comprende come un caso particolare di ciò che si dà nel mondo della natura e che segue le stesse leggi della natura fisica. Questa tesi serve a Husserl come premessa per affermare, come farà poco più avanti, che le obiezioni contro la fisica come fondamento della filosofia si applicano anche alla psicologia. N. Il carattere ‘critico’ di ogni scienza – critico nel senso che essa confronta tesi e teorie l’una con l’altra sottoponendole costantemente a vaglio – non è sufficientemente radicale se la scienza deve avere pretese filosofiche, fondative. In questo caso è necessaria una ‘critica’ più basilare, che metta in questione non singole teorie e argomenti, ma l’intera impostazione della scienza della natura, ossia i suoi presupposti «ingenui» (appunto nel senso di non sottoposti a critica filosofica) che essa da sempre ammette. Si tratta non di una critica interna all’esperienza, ma di una critica dell’esperienza, nel senso di un’analisi dei suoi fondamenti. Nel saggio Husserl parla anche di «critica della ragione». 463

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Prova della tesi: la scienza non può autofondarsi – controsenso della gnoseologia naturalistica

Primo corollario della prova: sospensione di ogni posizione d’essere

Secondo corollario: necessità dell’indagine non psicologica della coscienza

esistenti in sé e per sé? Come mai le regole di gioco della coscienza, per così dire, non sono irrilevanti per le cose? Come dev’esser intesa in tutto e per tutto una scienza della natura che pretende ad ogni passo di porre e conoscere la natura esistente in sé di contro al flusso soggettivo della coscienza? Tutto ciò diviene un enigma, tosto che vi si applica una seria riflessione. Com’è noto, la gnoseologia è la disciplina che vuol dare risposta a quelle domande ma che finora, nonostante il lavoro intellettuale impiegato dai massimi studiosi, non ha dato risposta in modo scientificamente chiaro, univoco, decisivo. [O] Basta mantenersi in modo strettamente consequenziale al livello di questa problematica (una consequenzialità che finora è mancata in tutte le gnoseologie precedenti), per scoprire il controsenso di una «gnoseologia scientifico-naturalistica», oltre a quello di ogni gnoseologia psicologica. Se in generale si trovano nella scienza della natura alcuni enigmi, la loro risoluzione secondo principi e risultati trascende ovviamente il campo di tale scienza. La soluzione di ogni singolo problema che riguarda la scienza della natura come tale, e che quindi l’attraversa dapprincipio alla fine, non può essere attesa da essa. Volere una cosa simile e credere che essa possa contribuire alla soluzione di un tale problema raggiungendo qualche premessa, significa muoversi in un circolo vizioso. [P] Risulta chiaro altresì che ogni richiamo scientifico o prescientifico alla natura entro ogni gnoseologia che voglia attenersi al suo senso univoco, deve restare escluso a priori assieme a tutti gli enunciati che implicano posizioni esistenziali tetiche di cose nello spazio, nel tempo, nella causalità etc. Ciò si estende manifestamente anche a tutte le posizioni d’esistenza che riguardano l’esserci dei ricercatori, le loro facoltà psichiche etc. [Q] Inoltre, se la gnoseologia vuole studiare anche i problemi della relazione di coscienza ed essere, allora essa può aver sott’occhio soltanto l’essere come correlato della coscienza, come oggetto di intenzione coscienziale, cioè un percepito, ricordato, atteso, rappresentato in immagine, creduto, sup-

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O. La gnoseologia o teoria della conoscenza si interroga su come siano possibili tutte le assunzioni che la scienza normalmente fa: la possibilità dell’oggettività (produrre o trovare un oggetto), la possibilità della convalida empirica (della verità), la possibilità che rappresentazioni mentali si riferiscano a oggetti (l’intenzionalità), il fatto che regole del pensiero valgano anche per le cose (l’accordo tra pensiero ed essere) ecc. Si tratta dunque non di mettere in questione i presupposti della scienza fisica, nel senso di dubitare della loro validità, ma di comprenderli nella loro possibilità. Questo compito, secondo Husserl, finora non è stato svolto in modo soddisfacente. P. La comprensione della possibilità della conoscenza scientifica come tale non può avvenire all’interno della scienza stessa. Questa infatti fa uso di presupposti che sarebbero precisamente l’oggetto dell’indagine critica, e ciò dà luogo a un evidente circolo vizioso: non si può ricercare la fondatezza di certe regole facendo uso di quelle stesse regole. Q. L’assunzione dell’esistenza della natura, che è presupposto delle scienze fisiche, non può essere presa come punto di partenza, ma dev’essere sospesa per essere indagata nei suoi fondamenti. Tutti gli atti di coscienza «tetici», che ‘pongono’ l’esistenza di qualcosa, devono essere sospesi nella loro validità (Husserl parlerà anche di «messa tra parentesi»), per stabilire che cosa li legittimi muovendo dalla stessa coscienza, che non può più essere intesa come un ente naturale tra gli altri, ma come fonte delle posizioni di esistenza. R. Se l’«essere» è sospeso, non è sospeso il problema della relazione tra coscienza ed essere, che occorre risolvere indagando i diversi modi in cui l’essere stesso si manifesta come

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Terzo corollario: la questione di diritto della conoscenza

Ulteriore conseguenza: necessità dello studio della coscienza intenzionale e quindi della fenomenologia

posto, valutato etc. Si vede allora che la ricerca deve essere diretta ad una conoscenza scientifica di essenze da parte della coscienza, a ciò che la coscienza per sua essenza «è» in tutte le sue distinte formazioni stesse, ma altresì a ciò che essa «significa», inoltre ai diversi modi, in cui essa in conformità all’essenza di queste formazioni, intende qualcosa di oggettivo, eventualmente «dimostrando» il suo esser «valido», «reale». Questa intenzione della coscienza può essere di volta in volta chiara, oscura, presentificante o ripresentificante, simbolica (signitiv) o immaginativa, diretta o mediata dal pensiero, attenzionale in un modo o in un altro ed assumere pertanto infinite altre forme. [R] Ogni specie d’oggetto, la quale deve essere oggetto di un discorso razionale, di una conoscenza prescientifica e poi scientifica, deve annunciarsi nella conoscenza, cioè nella coscienza stessa e farsi portare a datità secondo il senso di ogni conoscenza. Tutte le specie di coscienza, in quanto si subordinano per così dire teleologicamente al concetto di conoscenza e si raggruppano anzi secondo le diverse categorie d’oggetto – in quanto gruppi di funzioni conoscitive corrispondenti specificamente a queste categorie – si debbono poter studiare nelle loro connessioni d’essenza e nel modo in cui si riferiscono alle forme di coscienza-di-datità corrispondenti. Così deve intendersi il senso della quaestio juris che deve sollevarsi per ogni atto di conoscenza, in modo da chiarire perfettamente l’essenza di una fondata giustificazione e di una giustificabilità o validità ideale, il che vale per tutti i gradi di conoscenza, ma in modo eminente per quella scientifica. [S] Che cosa poi significhi che c’è oggettività e che essa si dimostra conoscitivamente esistente nella sua determinatezza, ciò deve risultare evidente puramente dalla coscienza stessa, in modo da essere compreso senza residui. Per ciò è necessario lo studio dell’intera coscienza, poiché essa entra con tutte le sue forme nelle possibili funzioni conoscitive. Ma in quanto ogni coscienza è «coscienza di», lo studio della sua essenza comprende anche

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correlato della coscienza (come «percepito, ricordato, atteso, rappresentato in immagine, creduto, supposto, valutato»…). La coscienza dev’essere indagata nelle sue strutture invarianti (le «essenze», come la coscienza è), nel modo in cui in esse qualcosa viene inteso (come la coscienza significa) e poi, più specificamente, nel modo in cui qualcosa viene inteso con i caratteri di oggettività, e in cui questa oggettività viene assicurata («dimostrata»). Qualcosa di oggettivo e reale può darsi inoltre in diversi e molteplici modi, come ricordato, immaginato, intuito, pensato, in modo chiaro od oscuro: ciò che è oggettivo si manifesta in molti modi tra loro interconnessi dotati ognuno di uno specifico senso. S. Quella che Kant chiamava la quaestio iuris, la questione di legittimità di una conoscenza, distinta dalla quaestio facti (il modo in cui una conoscenza di fatto si produce) va risolta per Husserl attraverso l’analisi fenomenologica dei diversi modi in cui un oggetto si manifesta nella coscienza (viene «portato a datità»), che, pure se differenti, risultano però interconnessi tra di loro in vista di una conoscenza complessiva unitaria (in questo senso «teleologicamente», cioè secondo un tèlos, un fine complessivo). Anche un modo di presentarsi nella coscienza che non è di per sé sufficiente a produrre conoscenza e dunque oggettività (come per esempio il ricordo, l’immaginazione, la rappresentazione in segni ecc.) si intreccia però – secondo leggi che bisogna evidenziare – con il complesso di vissuti di coscienza per produrre infine l’oggettività. Se si mostra come questo avvenga, si indicano le fondamenta di legittimità dell’esistenza che la scienza solo presuppone, risolvendo così la quaestio iuris. L’oggettività non è più solo un fatto, ma è compresa nella sua possibilità.

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Conseguenza ‘positiva’ dell’argomentazione: approdo alla fenomenologia come scienza non naturale della coscienza

quello del significato e dell’oggettività della coscienza come tali. Studiare una qualsiasi specie di oggettività nella sua essenza universale (uno studio che può perseguire interessi lontani dalla gnoseologia e dalla ricerca sulla coscienza) significa indagare i modi in cui tale oggettività si dà ed esaurirne il contenuto essenziale in processi correlativi di «chiarificazione». Pur se l’atteggiamento qui richiesto non si volge ai modi della coscienza, per studiare la loro essenza, tuttavia il metodo della chiarificazione comporta che non si può fare a meno anche qui della riflessione sui modi dell’intenzionalità (Gemeintheit) e della datità. In ogni caso è viceversa inevitabile all’analisi d’essenza della coscienza una chiarificazione di tutte le specie fondamentali di oggettività, anzi questa chiarificazione è già inclusa in quell’analisi. Ciò però non vale che in un’analisi gnoseologica che vede come suo compito proprio la ricerca delle correlazioni. Pertanto noi comprendiamo tutti questi studi, pur relativamente separati, sotto la qualificazione fenomenologica. [T] Ci imbattiamo pertanto in una scienza – della cui enorme estensione i nostri contemporanei non hanno alcuna idea – che è sì scienza della coscienza ma non psicologia, cioè in una fenomenologia della coscienza contrapposta alla scienza naturale della coscienza. Poiché non si tratterà qui certamente d’un equivoco accidentale, si dovrà fin dapprincipio attendere che

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T. L’indagine che comprende la possibilità dell’oggettività non può essere parziale, perché deve appunto legittimare in modo pieno la conoscenza. Deve dunque poter raggiungere una completezza, che racchiude in sé tanto le forme diverse di coscienza, quanto il riferirsi ad altro della coscienza (il suo essere coscienza-di, nel linguaggio di Husserl intenzionalità). Husserl sottolinea qui che un’analisi di qualche tipo di oggettività non può non rivolgersi ai modi in cui l’oggettività si dà nella coscienza, e viceversa un’analisi della coscienza non può non tradursi in chiarificazione di forme di oggettività. La fenomenologia si mostra come scienza delle correlazioni, nel senso che mette al centro della sua ricerca la connessione inscindibile tra oggettività e coscienza e viceversa tra coscienza e oggettività. U. La possibilità della fenomenologia è legata alla distinzione tra coscienza empirica e co-

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Nuova ipotesi di ricerca: la gnoseologia psicologistica come fraintendimento e la possibilità di una psicologia basata sulla fenomenologia

fenomenologia e psicologia debbono trovarsi in rapporti molto stretti, in quanto hanno ambedue a che fare con la coscienza, anche se in maniere diverse e in «atteggiamenti» (Einstellungen) diversi. Ciò che vorremmo dire è che la psicologia ha a che fare con la «coscienza empirica», cioè con la coscienza nell’atteggiamento sperimentale, come qualcosa che esiste nella connessione della natura; invece la fenomenologia tratta con la coscienza «pura», cioè con la coscienza in atteggiamento fenomenologico. [U] Se ciò è esatto, risulterebbe che, pur essendo vero che la psicologia può esser tanto poco filosofia quanto la scienza fisica della natura, deve però trovarsi per ragioni essenziali vicina alla filosofia, tramite la fenomenologia, e che deve per suo destino restare intimamente legata ad essa. In conclusione si dovrebbe prevedere che ogni gnoseologia psicologistica dovrebbe la sua esistenza al fatto che, non comprendendo il senso autentico della problematica gnoseologica, soggiace alla confusione in cui era facile cadere tra coscienza pura ed empirica, o in altri termini alla «naturalizzazione» della coscienza pura. Questa è di fatto la mia concezione che nel seguito troverà ampie giustificazioni. [V]

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(da E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 1994)

scienza pura. Se un’analisi della coscienza empirica – quale quella perseguita dallo psicologismo – non può offrire alcuna fondazione delle leggi del pensiero e della verità, e dunque della filosofia, è il riferimento alla coscienza pura la strada che può consentire un’effettiva fondazione della filosofia, liberandola dall’ingenuità di voler basare la filosofia su scienze empiriche. V. La fenomenologia riscopre una stretta affinità con la psicologia, che però non va più intesa in senso empirico, ma come studio delle essenze della coscienza, e dunque come «psicologia fenomenologica». Husserl parlerà spesso negli anni successivi di una «psicologia fenomenologica», intesa come «scienza eidetica» (scienza delle essenze) che deve identificare quelli che chiamerà «sistemi strutturali invarianti». La psicologia fenomenologica dovrebbe offrire il fondamento per costruire una psicologia empirica «esatta».

Questionario sull’argomentazione 1

2

La critica di Husserl si rivolge contro il «naturalismo», ma non si riferisce a un testo o a un autore in particolare. Su che base Husserl può pretendere di attaccare tutti i «naturalismi»? (max 3 righe) Qual è il punto centrale della critica contro le conseguenze del naturalismo che Husserl svolge nella prima parte del brano? La si può considerare una dimostrazione per assurdo? (max 3 righe)

3

Sulla base di quale ragione Husserl afferma che la psicologia è una scienza ingenua? (max 5 righe)

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Con quale argomento di tipo logico Husserl sostiene che non può esistere una gnoseologia naturalistica? (max 3 righe)

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana Oggettivo / soggettivo

«Soggettivo» e «oggettivo» tra uso comune e filosofia

Il capovolgimento dell’uso filosofico di «soggetto» e «oggetto»

L’uso odierno di «soggettivo» e «oggettivo» come termini correlativi

1. Uso filosofico e uso comune dei due termini Vi sono parole di uso comune che hanno, per il loro ruolo nella vita umana, un posto centrale nella riflessione filosofica e diventano in essa oggetto di profonde analisi. Ma accade anche che sia la filosofia a produrre parole che diventano poi di uso comune, prendendo campo nel linguaggio di tutti i giorni. È il caso dei sostantivi «soggetto» e «oggetto» e degli aggettivi che ne derivano, «soggettivo» e «oggettivo». Il significato che questi termini hanno nel linguaggio comune deriva da quello che hanno assunto nella filosofia, in quella particolare accezione che soltanto in epoca relativamente recente è diventata dominante. «Soggetto» oggi identifica in prima istanza la persona, l’io, la mente, ciò che percepisce, conosce, agisce; «oggetto» si riferisce a ciò che non è persona, le cose, ciò che è esterno alla mente e a cui la mente può riferirsi. Nel Medioevo, ma ancora fino al Seicento il significato prevalente era quasi inverso. Subjectum era – come suggerisce l’etimologia della parola – ciò che sta sotto, ciò che sostiene gli accidenti, le proprietà mutevoli di qualcosa: la sostanza. Se si parlava invece di realitas objectiva ci si riferiva (per esempio in Cartesio) alla realtà rappresentata, come si presenta a una mente: quella che oggi chiameremmo una realtà «soggettiva». Ricordare questo capovolgimento, e l’origine dei termini che comunemente usiamo in una determinata epoca del discorso filosofico può servire a sottolinearne la problematicità e il loro intreccio complesso. «Soggettivo» chiamiamo dunque, nell’uso odierno del termine, qualcosa che è legato al soggetto, all’individuo, e che sembra pertanto risentire di questo legame. «Soggettiva» è una sensazione, della quale non sappiamo se corrisponda a qualcosa di reale, «soggettivo» è un modo di vedere che forse non è senz’altro condivisibile da altri, «soggettiva» è una scelta, legata a gusti e opzioni appunto soggettivi, non necessariamente di tutti. «Oggettivo» è invece un dato di fatto, non contestabile da nessuno, «oggettiva» è una situazione (che non dipende cioè da scelte del soggetto), «oggettivo» può essere un resoconto (che non assume un punto di vista individuale). Ciò che è oggettivo sembra essere legato al modo in cui stanno realmente – oggettivamente – le cose, e per questo dover valere per tutti. Ciò che vale per tutti vale intersoggettivamente (si usa in filosofia anche questo termine), cioè in un modo condivisibile da tutti i soggetti, tra tutti condiviso. Soggettivo e oggettivo, presentati come poli opposti, rimandano in realtà l’uno all’altro e manifestano legami tra di loro.

2. Due accezioni del termine «soggettivo» L’accezione Forse il più ambiguo tra i due è il termine «soggettivo». Nella filosofia contemepistemologica poranea si è andata delineando una distinzione tra due sensi, che corrispondono del termine «soggettivo» ad alcune delle cose che intendiamo quando usiamo questo termine, e che è uti469

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

➥ Laboratorio sul lessico, Relativo, p. 881

La parzialità del punto di vista soggettivo

L’accezione ontologica del termine «soggettivo»

L’essenzialità di un rapporto con il soggetto

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le non confondere. Il primo è il senso epistemologico di «soggettivo», cioè quello che ha di mira il valore conoscitivo di qualcosa. «Soggettivo» qui si riferisce a ciò che non si considera valido per tutti, ma solo per una determinata persona o in una certa prospettiva. Affermare che una opinione sarebbe soggettiva significa che essa non pretende di avere fondamenti tali da poter valere oggettivamente, e dunque non può esprimere una conoscenza generalizzabile. La mia esperienza soggettiva nel rapporto con i colleghi di lavoro può esser positiva, ciò non significa che lo sia per tutti. La mia regola di evitare vacanze in luoghi affollati può andare bene per me, ma non necessariamente a tutti: esprime una preferenza soggettiva. «Soggettivo» è qui una forma particolare di «relativo»: mentre «relativo» si può applicare a modi di vedere di una cultura o di un’epoca, dunque di molte persone, «soggettivo» indica ciò che è relativo a un determinato individuo, un determinato soggetto. Bisogna notare però che «soggettivo» non corrisponde necessariamente a falso, infondato: è possibile pensare a qualcosa che resta soggettivo senza essere falso. Questo lo si può comprendere meglio se si ricorre all’esempio (o alla metafora) del punto di vista. Un punto di vista può non consentire di considerare tutti gli aspetti di una situazione: in una certa prospettiva si vedono delle cose e non altre, ma ciò che si vede c’è realmente. Così, per uscire dall’esempio visivo, io posso non disporre di alcuni elementi di conoscenza rispetto alle conseguenze di una mia azione (non so per esempio che la persona cui offro un passaggio in auto è un pericoloso criminale che in questo modo sfugge alla polizia), ma gli elementi della mia valutazione soggettiva della situazione non sono per questo falsi (c’è davvero una persona che ha bisogno di un passaggio). Qui «soggettivo» equivale a «parziale»: l’essere relativo al soggetto non deforma la conoscenza, ma solo la limita. Qualcosa che è in questo senso soggettivo può però trasformarsi in qualcosa di falso se viene trattato come se non fosse soggettivo, ossia se si ignora il suo carattere parziale e lo si considera valido in generale. La mia esperienza soggettiva non è falsa, ma lo diventa se pretendo di basare solo su di essa un giudizio. Diverso è il senso ontologico di «soggettivo». La caratterizzazione di qualcosa come soggettivo in questo caso non intende indicare dei limiti alla conoscenza di qualcosa, derivanti dal legame con un soggetto (una insufficiente fondatezza, una parzialità), ma piuttosto il legame, la dipendenza dell’esistenza di qualcosa da un soggetto (che la pensa, la percepisce, la produce ecc.). Alcuni filosofi contemporanei attribuiscono per esempio ai fenomeni mentali, o a fenomeni coscienti, o alla coscienza in quanto tale, una soggettività ontologica. Intendono dire che gli aspetti qualitativi della vita mentale (la sensazione di un certo colore, un sapore, un dolore, un sentimento, un pensiero ecc.) sarebbero dipendenti nella loro esistenza dal fatto di essere provati da un soggetto. Un colore non visto, un dolore non avvertito da qualcuno non c’è e soprattutto non ci può essere: fa parte dell’essenza di questi fenomeni, del loro intrinseco modo di essere, quello di essere dipendenti da qualcuno o qualcosa che ne faccia in senso lato esperienza. Che qualcosa sia soggettivo in senso ontologico non comporta che lo sia in senso epistemologico: che un dolore non possa esistere se non viene provato da qualcuno, che il sapore di una madeleine o di un cioccolatino non vi sia se qualcuno non lo gusta non significa necessariamente che ognuno avverta un dolore diverso, o che senta un sapore differente rispetto agli altri. Il dolore per la puntura, il sapore del cioccolatino possono essere in linea di principio identici (anche se non è facile saperlo di fatto), e identico è probabilmente il pensiero «6 x

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Laboratorio sul lessico Oggettivo / soggettivo

4 = 24» che ognuno può concepire, ma che non c’è se qualcuno non lo concepisce (dal punto di vista ontologico è soggettivo, dal punto di vista epistemologico vale in modo oggettivo). Ciò che è in questo senso legato a un soggetto ha anche una qualità che solo nell’esperienza soggettiva si manifesta: il sapore sentito, il colore visto ecc. Non significa che sia «privato», ossia non comprensibile da punti di vista esterni al soggetto.

Lo sdoppiamento del reale tra eventi soggettivi ed eventi oggettivi

Il nesso tra le due diverse accezioni di «soggettivo»

La problematicità del rapporto tra «soggettivo» e «oggettivo»: separazione o intreccio?

3. Il problema del rapporto tra soggettività e oggettività Sostenere che esistano enti che hanno una natura «soggettiva» in senso ontologico ha una certa importanza nelle discussioni circa la filosofia della mente, e in genere nell’ontologia: vuol dire, tra le altre cose, identificare un ambito di cose esistenti essenzialmente distinto da un altro (ciò che non è dipendente nella sua esistenza da un soggetto) ed eventualmente non riducibile ad esso. Se un fenomeno mentale ha una natura essenzialmente soggettiva in senso ontologico, ciò può significare per esempio che un sentimento o una sensazione non possono essere interamente compresi in termini di processi fisiologici o neurologici, perché questi non hanno una natura ontologicamente soggettiva. Un processo neurologico, come per esempio scambi elettrochimici tra sinapsi, c’è in senso oggettivo, indipendentemente dal fatto che qualcuno lo «provi» (si «prova» una sensazione, non un fenomeno fisico): ma appunto non sembra identico all’esperienza soggettiva stessa. Ferma restando la distinzione stabilita, già le considerazioni accennate indicano che ci potrebbe essere un qualche nesso tra «soggettivo» in senso ontologico e «soggettivo» in senso epistemologico. Qualcosa che dipende essenzialmente dall’essere provato da un soggetto (da un determinato soggetto) si rende infatti meno facilmente disponibile a una indagine «oggettiva», ossia a procedure che possano stabilire i contorni effettivi della cosa, in modo da tutti accertabile. E tuttavia l’indagine psicologica, ma anche quella medica, ha imparato a trattare in modo oggettivo fenomeni soggettivi: da un lato ci si può affidare ai resoconti del soggetto, per esempio a quello che qualcuno racconta circa una sensazione di vertigine (va fatto però con prudenza, perché i resoconti cosiddetti «introspettivi» presentano particolari problemi e non sono sempre affidabili); dall’altro si possono indagare aspetti ontologicamente soggettivi tramite fenomeni concomitanti o connessi osservabili in modo oggettivo. A una allucinazione – che non può essere condivisa da altri – possono essere connessi fenomeni neurofisiologici che si possono stabilire in modo oggettivo. Se proviamo ad approfondire un poco i rapporti tra «soggettivo» e «oggettivo» vedremo che la distinzione presenta diversi aspetti problematici e comunque notevoli complicazioni. Trattandosi di termini correlati e complementari (è soggettivo ciò che non è oggettivo e viceversa), è il loro rapporto ciò che più di altro si rivela fonte di problemi. Sono, soggettivo e oggettivo, due ambiti complementari ma autonomi? In questo caso è il modo in cui può stabilirsi una relazione tra di essi che crea difficoltà. Come può la mente riferirsi a oggetti, o come possono oggetti «entrare» nella mente? Se invece si sostiene che le due dimensioni siano intrecciate tra di loro, è la distinzione che può diventare difficile e vacillare, fino alle due tesi estreme, quella secondo cui «tutto è soggettivo», oppure (una tesi meno intuitiva, ma presente nella filosofia contemporanea) quella secondo cui «non vi è nulla di propriamente soggettivo»: in altri termini non vi sono linguaggi privati, certezze accessibili solo al soggetto, la «qualità» soggettiva è un’illusione, i significati non sono nella testa ecc. 471

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Vantaggi e svantaggi della dimensione soggettiva

L’accezione comune di «oggettivo» e il problema dei criteri di oggettività

Il dato sensoriale come base dell’oggettività: un paradosso?

L’oggettività giudiziaria come modello dell’uso comune di «oggettivo»

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Tra i due ambiti, quello soggettivo sembra godere di un peculiare privilegio, che è stato identificato con la proprietà di essere sottratto al dubbio, di non essere soggetto a errore: solo io so se ho una certa sensazione di dolore, o se vedo un certo colore, e su questo non posso ingannarmi. Nella filosofia moderna e fino a oggi questo tratto è stato sempre di nuovo sottolineato e altrettanto spesso discusso e messo in questione. In ogni caso, il prezzo pagato da questa certezza della prima persona – l’«io» in cui si esprime il soggetto – è la mancata «presa» sul mondo: ciò che si presenta come soggettivamente dato e come tale indubbio non ha però alcuna garanzia di riferirsi a qualcosa nel mondo, di potere avere un senso anche oggettivo. 4. Quali criteri abbiamo per l’oggettività? Come si acquisisce questo senso, come si forma o come si presenta ciò che è «oggettivo»? Nei discorsi comuni consideriamo oggettivo ciò che si basa sui «fatti», o i cosiddetti «dati» (o unendo i due termini, i «dati di fatto»). I fatti basilari, i dati primi che rendono oggettiva una conoscenza sembrano essere quelli che semplicemente constatiamo, senza alcun intervento da parte nostra. Ma dove comincia il «fatto»? Quando è semplicemente dato un «dato»? Tradizionalmente, e ancor più in un ambito come quello contemporaneo fortemente segnato dalla presenza delle scienze empiriche della natura, si tende a considerare come modello di oggettività quanto possiamo osservare attraverso i sensi: ciò che vediamo, tocchiamo, ascoltiamo. Un dato potrebbe essere allora per esempio che «qui c’è un albero». Ma già questa proposizione sembra andare, a guardar bene, al di là dei dati. «Qui» si riferisce alla collocazione spaziale di un soggetto, a un ambito prossimo ad essa, che può essere sì condiviso da altri soggetti, ma non è un dato valido in ogni prospettiva. «Albero» è il termine di un certo linguaggio, l’italiano; la parola corrispondente in lingua danese, trae, può riferirsi anche al «legno»; la parola corrispondente a «legno» in francese, bois, può riferirsi anche al «bosco». L’apparente constatazione oggettiva è dunque già contaminata da elementi soggettivi (culturali in questo caso). Consapevoli di questo, della presenza di «schemi concettuali» già nelle constatazioni più elementari (e i concetti sembrano far parte della sfera del soggettivo, del mentale), alcuni filosofi identificano ciò che è un dato immacolato, scevro di interventi soggettivi, con i cosiddetti «dati dei sensi»: il risultato della stimolazione nervosa, la sensazione di colore, di resistenza al tatto ecc. In quanto non toccati da interventi di elaborazione, non formati in alcun modo, i dati dei sensi sarebbero ciò che è dotato di evidenza, su cui si può basare un linguaggio oggettivo, in grado di rendere conto in maniera condivisibile di ciò che c’è nel mondo. Si può osservare qui un curioso paradosso: ciò che dovrebbe garantire l’oggettività, il nucleo «oggettivo» perché non modificato, non elaborato del nostro rapporto col mondo si presenta allo stesso tempo come un elemento in massimo grado soggettivo: delle sensazioni «pure», che non sembrano propriamente coincidere con quello a cui pensiamo quando parliamo di «mondo oggettivo», ma piuttosto costituire un caleidoscopio tutto privato. Se pensiamo a un mondo oggettivo, pensiamo infatti a sedie, alberi, montagne, non a sensazioni pure e grezze di colore o altro. Identificare l’oggettività con un dato immobile presenta dunque molti problemi. Ciò che può valere come «oggettivo» va cercato allora al di fuori dell’idea di una registrazione quasi fotografica di qualcosa di stabile. Se pensiamo a ciò che co-

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Laboratorio sul lessico Oggettivo / soggettivo

Il ruolo di scopi e procedure nella ricerca dell’oggettività

Il problema di una metodologia generale per la ricerca dell’oggettività

La dimensione soggettiva è ineliminabile?

munemente consideriamo oggettivo possiamo scoprire qualcosa di diverso. Consideriamo un ambito in cui l’oggettività ci interessa personalmente più che nella conoscenza scientifica: quello dell’oggettività giudiziaria. Per esempio prendiamo un resoconto che vorremo avesse le caratteristiche dell’oggettività, quello relativo alla scena di un delitto. Una prima considerazione potrebbe farci pensare che il resoconto è tanto più oggettivo quanto più si limita ai dati, senza sovrapporvi interpretazioni (che possono essere appunto soggettive, e dunque discutibili, incerte, se non pregiudizialmente orientate). Si dovrebbe dire per esempio che vi è un’impronta (e descriverla, riprodurla in immagine ecc.), non che è «l’impronta dell’assassino»; che vi sono macchie di sangue, in una certa posizione (di cui si può stabilire in seguito, oggettivamente, il DNA, e dunque l’appartenenza a un certo individuo); che vi sono porte aperte, vetri rotti ecc. Bisogna però osservare almeno due cose: 1) i dati sono ottenuti come tali attraverso delle procedure, che anzitutto li selezionano (in quanto pertinenti alla spiegazione dell’accaduto) tra altri, e poi li descrivono per certi aspetti (la macchia di sangue è localizzata, descritta nella forma, messa in rapporto con altre); 2) se c’è una distinzione tendenziale tra dati oggettivi e loro utilizzo per una spiegazione – distinzione senza la quale l’oggettività dell’indagine sembra compromessa –, i dati assumono però la loro natura di dati solo nella prospettiva di una spiegazione di «ciò che è successo», ossia di una ricostruzione in termini causali di un evento (e di azioni). L’oggettività si raggiunge dunque al termine di un insieme complesso di procedure, guidate da regole anche diverse a seconda dell’ambito in cui essa viene ricercata. La decisione oggettiva che un giudice dovrà prendere sarà tanto più adeguata quanto più sono state seguite in molti campi metodologie appropriate: le dichiarazioni di persone coinvolte, per esempio, che devono permettere di considerare in modo oggettivo elementi soggettivi come intenzioni, sentimenti, rapporti interpersonali, devono essere ottenute in modo da non creare distorsioni, nel modo di riferirle dei soggetti, nel modo di registrarle. Così, nei più diversi ambiti in cui ci interessa che qualcosa sia «oggettivo», dalla scienza, all’indagine giudiziaria, alla ricerca storica, alla valutazione di una prova di esame, a una valutazione morale, questa qualità non è qualcosa di già pronto, ma qualcosa che si manifesta grazie a procedure complesse e conformi all’ambito in cui si sta operando, che possono unirsi tra di loro. Lo storico può fare uso di risultati ottenuti con tecniche scientifiche e una valutazione morale può e deve fare sua anzitutto una ricostruzione storica appropriata di ciò che è avvenuto ecc. Spesso le procedure per ottenere qualcosa di oggettivo sono legate al confronto con altri punti di vista, con il superamento di un punto di vista soggettivo in uno che può diventare intersoggettivo; altre volte l’oggettività può far ricorso a elementi che arrivano a essere condivisi, per esempio i «dati». Se possa esservi una metodologia unificante e dominante – per esempio quella delle scienze fisico-matematiche – per il conseguimento dell’oggettività è un problema aperto già all’interno delle scienze della natura, e che si acuisce se si estende lo sguardo ad ambiti ulteriori della vita umana. E aperta è la questione se per certi aspetti, per problemi come quelli del senso della vita, della libertà delle scelte, del rapporto con gli altri, l’ideale del raggiungimento di un punto di vista neutrale, che prescinda da ogni soggettività, possa essere sensatamente perseguito oppure se un punto di vista soggettivo – non per questo necessariamente arbitrario, privato, irrazionale – non risulti, alla fine, ineliminabile. 473

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Esercitiamoci sull’oggettivo / soggettivo 1. Rifletti e completa

SENSO «EPISTEMOLOGICO»

«SOGGETTIVO»

Qualcosa è soggettiva in senso epistemologico se è ____________ solo per un certo soggetto o da una determinata prospettiva.

1) relativo a un _________ 2) dipendente dal soggetto 3) visione prospettica 4) difficile da verificare

SENSO «ONTOLOGICO» Qualcosa è soggettiva in senso _________ se per la sua stessa esistenza ha bisogno del __________ a un qualche soggetto.

«OGGETTIVO»

PROBLEMA: quali criteri di «oggettività» possediamo?

1) esistente di fatto 2) ___________ dal soggetto 3) visione ___________ 4) ___________

– Riferimento ai dati sensoriali? – Scienze esatte? – Procedure generali? – ________________

2. Spunti per il dibattito: io e… oggettivo / soggettivo 1

Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – In quante accezioni diverse si usa il termine «soggettivo»? In che cosa si distinguono l’una dall’altra tali accezioni? – A che cosa viene associata comunemente l’idea di «oggettività»? Sul piano filosofico, qual è il significato di tale termine? – Quali sono i criteri di «oggettività» di cui possiamo disporre? Possono tali criteri prescindere da ogni elemento «soggettivo»?

– È possibile considerare «oggettivo» tanto il nostro modo di ragionare quanto quello proprio di forme di vita extraterrestre aventi un sistema nervoso centrale strutturato diversamente dal nostro? – Se la verità della matematica e la validità logica sono dipendenti dal funzionamento del nostro cervello, che cos’è un ‘errore’ di ragionamento? – C’è qualche argomento per sostenere che verità matematica e validità logica non possono dipendere dal modo in cui funziona il nostro cervello umano, e che dunque logica e matematica extraterresti non potrebbero essere diverse dalle nostre?

2

Facciamo l’ipotesi che le verità matematiche e la validità delle deduzioni logiche coinvolte nel ragionamento matematico dipendano dal modo in cui il nostro cervello umano è strutturato. Esse in questo modo non hanno valore ‘in sé’ ma indicano soltanto il modo in cui noi – esseri umani – ‘di fatto’ ragioniamo. Si può anche concepire la possibilità che forme di vita intelligente extraterrestre pensino secondo una logica e una matematica del tutto diverse dalla nostra. – Ti sentiresti di dire che il nostro ragionamento logico-matematico conserva comunque una sua oggettività? Se sì, in che senso? 474

3

I modi in cui si raggiunge o si cerca di realizzare l’oggettività in campi diversi come la scienza della natura, la storia, la critica d’arte, il giudizio morale ecc. sembrano diversi. – Riesci a descrivere differenti criteri di oggettività in alcuni di questi campi o in altri? – Vi sono secondo te campi in cui l’oggettività non è possibile? – Ci sono, invece, campi in cui il grado di oggettività raggiungibile è minore?

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Storicità e metafisica Un metafisico nella tempesta Il giovane Heidegger: fenomenologia, ontologia, vita Fenomenologia e fatticità Il capolavoro incompiuto Essere-nel-mondo La comprensione e l’essere Chi siamo e chi possiamo essere

9. L’orizzonte del tempo 10. Il progetto incompiuto e la «svolta» 11. Poesia, storia, verità 12. La tecnica 13. L’ermeneutica di Gadamer ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Una lezione di Heidegger

I testi M. Heidegger Ormai solo un Dio ci può salvare (Intervista con lo «Spiegel»): Il pensiero, T1 La dottrina del giudizio nello psicologismo: Logica, teoria della conoscenza, ontologia, T2 La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto: Il contesto «translogico»: metafisica e azione, T3; Lo spirito vivente, T4 Logica. Il problema della verità: Il baratro tra ideale e reale, T5; Comprendere come apertura preliminare, T16; Difficoltà col tempo, T20 Per la determinazione della filosofia: La cattedra e il mondo, T6; I sensi nell’esperienza del mondo-ambiente, T7 Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20): Intuizione di situazioni come interpretazione, T8 Ontologia. Ermeneutica della fatticità: Filosofia e critica storica, T9 Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica: La filosofia e Dio, T10

Essere e tempo: Il problema dell’essere e l’Esserci, T11; L’Esserci e l’esistenza, T12; Conoscenza ed essere-nelmondo, T13; La totalità di mezzi, T14; La comprensione dell’essere, T17; L’interpretazione e l’asserzione, T19; La temporalità e Cura, T21; Storicità, destino, destino-comune, T22 Prolegomeni alla storia del concetto di tempo: La significatività precede il linguaggio, T15 Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone: Comprendere l’essere, T18 Hölderlin e l’essenza della poesia: Linguaggio e storia, T23; Linguaggio e poesia, T24 Dell’essenza della verità: Verità e velatezza, T25 L’origine dell’opera d’arte: Il tempio e la Terra, T26 Perché i poeti?: La tecnica e il mondo, T27 Lettera sull’«umanismo»: La verità dell’essere, T28 H.-G. Gadamer Verità e metodo: Situazione storica e comprensione, T29; Il linguaggio e il senso non detto, T30

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

1 Un modo nuovo di affrontare il problema dell’essere

Convergenza tra metafisica e storia

Trasformazione della metafisica

Riflessione sulla tecnica e sul nichilismo

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Storicità e metafisica Il paradosso, almeno apparente, della figura di Martin Heidegger è che egli diventa un pensatore centrale del Novecento, e anche particolarmente coinvolto in un tentativo di ‘diagnosi’ della sua epoca, riproponendo con forza una tematica non certo nuova: la questione dell’«essere», il tema metafisico per eccellenza, che se certamente non era tramontato in modo definitivo, non sembrava più poter coagulare intorno a sé la riflessione filosofica più avanzata. Heidegger se ne occupa inizialmente nella prospettiva più tradizionale, nell’ambito di una filosofia di ispirazione religiosa, nella quale naturalmente le suggestioni metafisiche non potevano non conservare un ruolo centrale, ma appunto nel segno della continuità essenziale di una philosophia perennis. Il suo dialogo con alcune tra le prospettive più significative della sua epoca (la filosofia della vita e l’eredità di Nietzsche, la fenomenologia di Husserl, la riflessione sulle scienze dello spirito di Dilthey), diverse ma tutte a loro modo radicali, lo porta presto, sul fondamento di una straordinaria forza di pensiero, a porre le questioni tradizionali in un modo profondamente nuovo. Egli stesso avverte nei suoi primi anni come dimensioni contrapposte, anche se da conciliare, i due poli costituiti dalla metafisica, tradizionalmente rivolta a un essere sottratto alla temporalità, sovrasensibile, e dalla storia, il terreno molteplice e mutevole delle vicende umane. In forza della radicalità delle questioni che Heidegger pone, metafisica e storia finiscono nel suo pensiero per convergere forse per la prima volta: «essere» e «tempo», le parole-guida di tutto il suo percorso filosofico, vengono pensati nella loro congiunzione essenziale. La finitezza dell’uomo – il tempo finito così come è dato concretamente nell’esistenza umana – diventa non il punto di partenza da superare, ma quello in base al quale comprendere lo stesso ‘oggetto’ della metafisica, l’essere. È evidente che in un percorso del genere la metafisica non può più restare quello che era: ma lo sviluppo del pensiero di Heidegger lo condurrà a esiti così «eccedenti» rispetto al pensiero occidentale – Heidegger si commisura consapevolmente e decisamente con l’intero corso della filosofia a partire dalle sue origini e cerca di interpretarne lo sviluppo – che diventerà possibile ispirare al suo pensiero tanto posizioni che intendono prendere interamente congedo dalle tematiche metafisiche, quanto posizioni che con la problematica metafisica continuano a volersi misurare. E le questioni metafisiche vengono riproposte in un modo così critico nei confronti della metafisica tradizionale da metterla in discussione ben più delle posizioni che si volevano «antimetafisiche». I sentieri del pensiero di Heidegger sono accidentati e spesso diventa difficile anche identificarne univocamente gli esiti. Dopo un’esperienza di coinvolgimento nella vita sociale e politica, nella storia fatta dagli uomini, con l’assunzione della carica di rettore poco dopo la presa del potere in Germania da parte del nazismo, il suo pensiero sembra ritrarsi, assumendo uno stile spesso avvertito come enigmatico e oracolare, e prende la forma di una ‘preparazione’, di un ‘corrispondere’ a qualcosa su cui l’uomo non ha potere. Ma l’apparentemente astrattissimo problema dell’essere incrocia a un certo punto il concreto problema della tecnica in quanto forma dominante di espe-

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

Influenza di Heidegger sulla filosofia novecentesca

Riappropriarsi del passato

➥ Sommario, p. 532

rienza scaturita dalla cultura occidentale, che Heidegger vede come minaccia planetaria. Heidegger arriva a identificare – molto prima che potesse sembrare, se non evidente, possibile – nella cibernetica (lo studio dei sistemi di controllo e comunicazione nelle macchine e negli organismi viventi) la disciplina-guida del mondo contemporaneo. La riflessione sulla tecnica si congiunge strettamente con quella sul nichilismo, sulla scomparsa dei fini, sulla «morte di Dio» annunciata da Nietzsche: Heidegger dà voce in questo modo allo ‘spaesamento’ della cultura occidentale, al tramonto di sistemi di riferimento religiosi e concettuali in certa misura condivisi che ha caratterizzato l’esperienza dell’uomo occidentale nel Novecento. Lo fa senza la pretesa di offrire ricette: e anche per questo il suo pensiero, soprattutto quello più tardo, non offre tesi univoche, ‘soluzioni’ chiare. Per una parte della cultura filosofica del Novecento questo ha costituito un motivo di critica in più. È comunque proprio il «secondo» Heidegger – quello più cifrato, esoterico – quello che finirà per esercitare la maggiore influenza, anche se l’opera Essere e tempo ha un’eco enorme. Una parte rilevante della filosofia del XX secolo non è comprensibile senza il confronto con Heidegger, che per la natura stessa del suo pensiero non poteva non svolgersi in più direzioni. Autori come Sartre, Emmanuel Lévinas (1905-1995), Hans-Georg Gadamer (vedi p. 526 ss.), Paul Ricoeur (1913-2005), Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004) si muovono in modo autonomo in uno spazio di pensiero reso possibile da Heidegger. Heidegger restituisce al Novecento la possibilità di pensare in grande stile. Ma nel suo caso non si può non sottolineare che l’influenza della sua opera si estende, per così dire, anche ‘all’indietro’. Non soltanto per la sua visione storica del pensiero, e per il suo commisurarsi con grandi problemi e intere epoche, per lo sforzo di mettere in discussione una tradizione lunghissima, ma soprattutto per la sua impressionante capacità interpretativa, che si manifesta anche quando del pensiero di altri autori egli si ‘appropria’ all’interno di una prospettiva diversa. Heidegger ha reso possibile, e anzi necessario, rileggere gli autori più lontani della nostra tradizione, a partire già da Parmenide o Eraclito. Il suo confronto in particolare con Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Nietzsche, al di là delle ‘distorsioni’ anche radicali che interpretazioni accurate possono rimproverargli, ha rimesso in movimento e fatto percepire in modo nuovo la forza di questi pensatori. Come Heidegger scrisse in una lettera, in cui vedeva come un compito che oltrepassa le forze di un singolo uomo il produrre qualcosa di proprio e insieme preservare ciò che è grande, «quel preservare non è forte abbastanza, se non proviene da una nuova appropriazione».

Heidegger e la metafisica

Problema dell’essere

Metafisica tradizionale

Heidegger

L’essere è sovrasensibile e atemporale

L’essere è congiunto con il tempo

Separazione tra metafisica e storia

Convergenza tra metafisica e storia

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

2 Complessità del rapporto tra pensiero filosofico e azione

Gli inizi come teologo

Dal cattolicesimo al luteranesimo

I rapporti con Husserl

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Un metafisico nella tempesta La maggior parte delle opere di Heidegger è stata scritta in una piccola baita di legno sui monti, nella Foresta Nera, vicino a Friburgo. La sua distanza da tutto ciò che caratterizza comunemente la ‘modernità’ è quasi messa in scena da questo suo ‘punto di vista’, distaccato anche dalla già tranquilla provincia tedesca. Heidegger è stato e ha voluto essere un uomo di provincia: rifiutò le chiamate che ebbe da parte di grandi università, a Monaco e a Berlino. Eppure la sua figura intellettuale non è mai stata quella di un metafisico estraneo al suo mondo storico. I biografi di Heidegger ricordano spesso il modo in cui egli presentò in un suo corso di lezioni la vita di Aristotele: «nacque, lavorò e morì». Di un filosofo contano le opere, non le vicende biografiche; conta naturalmente anche quanto nelle opere parla dell’epoca in cui vive. I nessi tra un pensiero filosofico e l’azione concreta non sono mai immediati, lineari. Nel caso di Heidegger – che una volta scrisse di essersi mosso «nella direzione di una linea assai tortuosa verso l’infinito» e di cercare «la via di un circolo» – sarebbero particolarmente complessi da identificare. Ma Heidegger stesso ha reso difficile trattare la sua biografia come lui aveva fatto con Aristotele, perché il suo cammino intellettuale si è incrociato, e per un breve periodo per sua scelta, con gli eventi più tragici della storia europea. Nel 1933, pochi mesi dopo la presa del potere da parte di Hitler, Heidegger assume la carica di rettore, e cerca di svolgere un ruolo politico, considerando l’avvento del nazionalsocialismo una opportunità storica. Heidegger inizia i suoi studi come teologo. Figlio di un sagrestano cattolico, può studiare anche grazie a sussidi provenienti dalla Chiesa cattolica, e si iscrive all’università di Friburgo come studente di teologia cattolica. Dopo due anni passa a studi di scienze naturali, matematiche e di filosofia; consegue presto il dottorato, e a ventisette anni la libera docenza, ottenuta la quale aspira alla cattedra di «filosofia cristiana». Sono gli anni della Prima guerra mondiale, cui Heidegger partecipa però, a causa di problemi di salute, prima da un ufficio di Friburgo, poi in una stazione meteorologica nelle Ardenne. Nel 1916 era giunto a Friburgo Husserl, il fondatore della fenomenologia, con il quale Heidegger comincia a collaborare alla fine della guerra, nel 1919. L’anno prima era avvenuto però qualcosa di importante: Heidegger si allontana dal cattolicesimo. Lo sviluppo del suo pensiero gli ha reso «problematico ed inaccettabile il sistema del cattolicesimo – non il cristianesimo e la metafisica in quanto tali, determinazioni che hanno, però, assunto un senso nuovo». Heidegger si avvicina al luteranesimo, ma il suo rapporto, sempre intenso, con l’esperienza religiosa si muoverà in seguito soprattutto nell’orizzonte della «fuga degli dèi». Il rapporto con Husserl è stretto, anche se Heidegger da subito, nelle sue lezioni, si distingue dalle posizioni husserliane e assume un atteggiamento critico verso di esse. Ma Husserl arriva a considerarlo il suo «unico reale allievo», che non solo sarebbe diventato il suo erede, ma lo avrebbe anche superato. Nel 1923 Heidegger è chiamato a Marburgo, dove ha uno straordinario successo nelle sue lezioni. Come testimonia Gadamer, in Heidegger «vi era un pathos esistenziale, un irradiarsi di concentrazione spirituale, che faceva apparire spento

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

L’adesione al nazionalsocialismo

Nazionalsocialismo come resistenza alla modernità

Ritiro dall’impegno politico

quanto c’era stato fino ad allora». Nel 1927, con la pubblicazione di Essere e tempo, la fama di Heidegger si diffonde; allo stesso tempo, il rapporto con Husserl si va facendo più difficile: nonostante le rassicurazioni di Heidegger, Husserl avverte una distanza dal proprio pensiero, e il tentativo di collaborare nella stesura di una voce sulla «fenomenologia» per l’Encyclopedia Britannica fallisce. Ciononostante, quando lascia nel 1928 la sua cattedra, Husserl indica Heidegger come suo successore. Heidegger diventa ben presto una figura centrale dell’università di Friburgo. Quando, nel 1933, il nazismo prende il potere, egli crede di scorgere l’opportunità di un rivolgimento storico: «vedevo nel movimento allora giunto al potere» – scriverà nel 1945 – «la possibilità di un’intima raccolta e di un rinnovamento del popolo, e una via per trovare la sua destinazione storico-occidentale». Heidegger assume il ruolo di rettore, e pronuncia un discorso inaugurale, L’autoaffermazione dell’università tedesca, nel quale toni enfatici e retorici si coniugano con un tentativo di riflessione sulla possibilità di superare «l’incapsulamento della scienza in discipline separate». Il discorso si conclude con la citazione di un passo della Repubblica di Platone, tradotto da Heidegger con le parole: «Tutto ciò che è grande è nella tempesta». Di che genere fosse la tempesta cui ciecamente andava incontro ancora non poteva saperlo. Si è molto discusso e polemizzato su questo impegno politico di Heidegger, se egli avesse o meno tentato di orientare la rivoluzione nazionalsocialista, allora agli inizi, in una direzione diversa, e cercato di salvaguardare l’università e la sua autonomia, come egli stesso sosterrà dopo il crollo della Germania nazista. Certamente Heidegger crede – sulla base di una visione antimoderna e anti-illuministica della cultura – di vedere nel movimento nazista qualcosa che si oppone alla tendenza dominante dell’epoca. Già nel 1919 parlava in una lettera della «indomita direttiva, che in fondo era ancora illuministica, di inchiodare su una tavola in modo oggettivante e regolarizzante e appiattente la vita e tutti i vissuti, dove tutto diventa controllabile, dominabile, definibile, collegabile, spiegabile». Nel 1933 parla dell’«anti-spirito del comunismo» e anche dello «spirito morente del cristianesimo» come di ciò che deve essere oggetto di profonda discussione critica. E ancora in un corso del 1936 oppone «l’animo tedesco» alla «mentalità meccanicistica occidentale». Nel recupero del legame con la cultura nazionale, nell’avversione all’appiattimento presente nel «movimento» che prendeva il potere Heidegger leggeva una controtendenza. Ma certo riesce difficile comprendere come potesse vedere in Mussolini e in Hitler, come si legge nello stesso corso, «i due uomini che hanno introdotto un movimento opposto al nichilismo». In ogni caso il progetto che aveva in mente non viene realizzato. Heidegger ha difficoltà a portare avanti le sue idee e nel 1934 rassegna le dimissioni. Parlerà di «fallimento del rettorato», ritirandosi da allora in poi da ogni impegno politico concreto. Con la sconfitta della Germania Heidegger viene a trovarsi in gravi difficoltà, gli viene sospeso il diritto di insegnare, gli viene sequestrata la biblioteca – misure poi superate nel 1950 anche grazie all’intervento del filosofo Karl Jaspers (1883-1969), con il quale aveva intrattenuto una difficile amicizia. Alcuni motivi che hanno favorito la sua adesione al nazismo restano operanti nel suo pensiero anche dopo l’allontanamento dall’impegno politico: la visione dell’Europa come stretta nella morsa della Russia e dell’America (che rappresentano «da un punto di vista metafisico la stessa cosa: la medesima desolante frene479

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

sia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato»); il ruolo positivo di una cultura nazionale (nel 1943 scrive: «Il pianeta è in fiamme. L’essenza dell’uomo è fuori binario. Solo dai tedeschi può venire, posto che essi trovino ciò che è ‘tedesco’, la coscienza della storia universale»). Heidegger vede però già prima della fine della guerra il nazionalsocialismo non più come una resistenza alla modernità, ma in continuità con il dominio incondizionato della tecnica: la critica investe ora «l’uomo che si concepisce come nazione, si vuole come popolo, si coltiva come razza e infine si erge a padrone dell’orbe terracqueo». Il pensiero non può È questo «evento», la devastazione tecnica del mondo, che Heidegger in seguidare indicazioni to continuerà a cercare di pensare in chiave metafisica, concependolo come pratiche qualcosa che oltrepassa il controllo dell’uomo. La storia dell’uomo diventa una storia dell’essere, che viene letta in una sorta di ampia filosofia della storia. Il pensatore che aveva creduto di intervenire negli eventi storici per guidarli continua a rivolgersi insistentemente al suo tempo, ma dal solo punto di vista del pensiero. Ad esso affida un compito tanto centrale quanto ora estraneo all’idea di «dominare» il suo oggetto e guidare gli eventi. Dietro la tecnica va trovato qualcosa di «non tecnico», che consenta un rapporto nuovo e positivo con essa. Un pensiero che cerca questo non può risolversi in indicazioni, istruzioni per l’uso. Il pensiero non ha alcuna autorità intrinseca. Dal punto di vista della tecnica, dei risultati concreti, il pensiero appare del tutto inutile e incapace di dare una risposta ai problemi pratici, inclusi quelli politici, che pure sono urgenti.

T1

Il pensiero

M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare (Intervista con lo «Spiegel»)

➥ Sommario, p. 532

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Per quanto ne so, un singolo non è in grado, a partire dal pensiero, di ottenere una panoramica del mondo nella sua totalità che gli permetta di dare indicazioni pratiche e, ciò, perfino in ordine al compito di trovare innanzitutto una base per il pensiero stesso. Il pensiero, nella misura in cui si prenda sul serio rispetto alla grande tradizione, si sente qui impari al compito appena si accinge a dare indicazioni concrete. In base a quale competenza questo potrebbe accadere? Nell’ambito del pensiero non vi sono enunciati autoritativi. L’unica normatività del pensiero proviene dalla cosa stessa da pensare. Ma questa è la cosa più problematica di tutte. Per far capire questo stato di cose ci vorrebbe prima di tutto una discussione del rapporto tra la filosofia e le scienze, i cui successi tecnicopratici fanno oggi apparire sempre più superfluo un pensiero nel senso filosofico della parola. Alla difficile situazione nella quale si trova collocato il pensiero stesso, rispetto al suo compito proprio corrisponde quindi una estraniazione, alimentata proprio dalla posizione di potenza delle scienze, nei confronti del pensiero. Il quale non può permettersi di dare quella risposta a problemi praticoideologici che il momento richiederebbe. Commisurato a problemi epocali, il compito del pensiero sembra più vasto di quello di pronunciarsi su come agire. In ogni caso, Heidegger ha creduto – dopo il suo fallimentare intervento nella storia – che il suo compito non fosse questo, bensì quello di ridestare possibilità non pensate. Così, dopo gli anni dell’impegno politico e l’adesione al nazismo Heidegger abbandona la convinzione che il pensiero possa guidare la storia e gli eventi; tuttavia attribuisce ad esso l’importante funzione di individuare nella tecnica, dominante nell’età contemporanea, ciò che permette di avere con essa un rapporto positivo.

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

La vita e le opere Martin Heidegger nacque a Messkirch, nel Baden, nel 1889 da una famiglia cattolica di umili condizioni sociali. Grazie a una borsa di studio si trasferì a Costanza e poi a Friburgo, dove nel 1909 si iscrisse alla facoltà teologica. Nel 1911 lasciò gli studi teologici per dedicarsi alla matematica, alle scienze naturali e alla filosofia. Conseguito nel 1913 il dottorato con la tesi La dottrina del giudizio nello psicologismo (che fu pubblicata l’anno seguente), allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruolò come volontario, ma venne congedato dopo pochi mesi per motivi di salute. Richiamato nel 1915 prestò servizio a Friburgo, a Berlino e a Verdun. Nello stesso anno ottenne la libera docenza in filosofia all’università di Friburgo con la dissertazione La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, che venne pubblicata l’anno successivo. Nel 1917 sposò Elfride Petri, di religione luterana; nel 1918 abbandonò la Chiesa cattolica e si avvicinò al luteranesimo. Su proposta di Husserl, che nel 1916 era stato chiamato a Friburgo come successore di Heinrich Rickert, nel 1919 fu nominato assistente di filosofia. Nello stesso anno tenne un corso dal titolo Per la determinazione della filosofia. Nel 1922 scrisse la bozza programmatica di un libro, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica (pubblicata postuma nel 1989); la sua interpretazione colpì favorevolmente Paul Natorp, che lo fece nominare professore a Marburgo. Nel 1923 iniziò il suo insegnamento all’università di Marburgo; qui riunì intorno a sé una cerchia di allievi, tra cui HansGeorg Gadamer, Karl Löwith, Hans Jonas e Hannah Arendt. Nello stesso anno tenne il corso Ontologia. Ermeneutica della fatticità. Nel 1925 tenne un corso sui Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, che costituì un primo abbozzo di Essere e tempo; tra il 1925 e il 1926 il corso Logica. Il problema della verità. Nel 1927 tenne un corso sui Problemi fondamentali della fenomenologia e apparve Essere e tempo. Con questa opera, dedicata a Husserl, si fece evidente il distacco di Heidegger dalla fenomenologia husserliana. Ciononostante, nel 1928 Husserl lo indicò come suo successore all’università di Friburgo. Nel 1929 tenne la prolusione Che cos’è la metafisica?,

3 Che cosa significa essere?

che fu pubblicata lo stesso anno, insieme con gli scritti Kant e il problema della metafisica e L’essenza del fondamento. Nel 1930 tenne la conferenza Dell’essenza della verità (pubblicata nel 1943) e tra il 1931 e il 1932 tenne il corso Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone. Rifiutò chiamate dall’università di Berlino e di Monaco di Baviera. In occasione della nomina, avvenuta il 21 aprile del 1933, a rettore dell’università di Friburgo pronunciò il 27 maggio il discorso inaugurale L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il 1° maggio si era iscritto al Partito nazionalsocialista. Il 12 aprile 1934 dette però le dimissioni prima della scadenza dell’incarico di rettore a causa dei contrasti sorti con le autorità naziste (dovuti al suo rifiuto di sostituire due decani di facoltà colleghi sgraditi al regime o, secondo un’altra versione della vicenda, al fatto che i suoi progetti di riforma culturale non coincidevano con quelli del nazismo). Abbandonato l’impegno politico si dedicò interamente all’insegnamento e alla ricerca. Nel 1935 tenne l’importante conferenza L’origine dell’opera d’arte; l’anno seguente una conferenza a Roma su Hölderlin e l’essenza della poesia. Tra il 1936 e il 1938 scrisse i Contributi alla filosofia (apparsi postumi, nel 1989). Alla fine della guerra fu messo sotto accusa per la sua adesione al nazismo, gli venne confiscata la casa e gli fu vietato l’insegnamento. Nel 1946 tenne la conferenza Perché i poeti? e apparve la Lettera sull’«umanismo»; nel 1950 uscì Sentieri interrotti. Nel 1951 il divieto di insegnare fu tramutato in nomina a professore emerito, con facoltà di insegnare. Heidegger tenne in seguito alcuni corsi (tra cui quello importante del 1951-1952 dal titolo Che cosa significa pensare?) e seminari, al termine della sua attività accademica anche seminari privati con partecipanti scelti (l’ultimo a Zähringen, all’età di ottantaquattro anni). Nel 1954 pubblicò Saggi e discorsi, nel 1959 In cammino verso il linguaggio. Nel 1966 rilasciò al settimanale «Der Spiegel» l’intervista Ormai solo un Dio ci può salvare a condizione che venisse pubblicata solo dopo la sua morte, nella quale per la prima volta rispondeva pubblicamente alle polemiche sul suo rettorato. Nel 1967 uscì Segnavia. Morì a Friburgo nel 1976. Dal 1975 viene pubblicata l’edizione delle opere complete, comprendente i corsi di lezioni, prevista in centodue volumi.

Il giovane Heidegger: fenomenologia, ontologia, vita Heidegger stesso ha raccontato come tra le sue primissime letture già negli ultimi anni di liceo e poi nei primi di studio della teologia a Friburgo vi fossero un Compendio d’ontologia di Carl Braig (1853-1923) e poi l’opera Il molteplice significato dell’essente in Aristotele (1862) di Brentano. L’opera di Brentano – che muoveva dal detto aristotelico to on lèghetai pollàkos, «l’ente si dice in più sensi» – gli aveva suscitato l’interrogativo di fondo: «se l’essente è detto in più sen481

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Un orizzonte husserliano

Il senso

Il modo di essere del senso è la validità

Priorità dell’ontologia sulla logica

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si, quale ne è allora il significato guida fondamentale? Che significa essere?». Brentano era stato maestro di Husserl, e sulla scrivania di Heidegger nel suo primo anno di studi ci sono i due volumi delle Ricerche logiche husserliane, che lo colpiscono profondamente. La questione ontologica (concernente il significato dell’essere) e il metodo fenomenologico delineato da Husserl (che consiste nell’analizzare i fenomeni, le cose così come si manifestano nella coscienza, per cogliere la loro essenza) finiranno per fondersi in modo del tutto originale in Heidegger. Ma il suo primo scritto più ampio, la dissertazione per il dottorato, si muove prevalentemente nell’orizzonte delle problematiche husserliane originarie, dominato dalla questione dello psicologismo e del suo superamento, anche se gli autori cui si richiama e gli influssi sul suo pensiero sono molteplici. La dottrina del giudizio nello psicologismo critica con decisione alcune posizioni dello psicologismo, che riduce le leggi logiche a leggi psicologiche, sostenendo che questa impostazione non si limita a fraintendere la natura della logica, ma più radicalmente «non conosce affatto la ‘realtà’ logica». È questa a costituire il centro dell’attenzione di Heidegger. Un giudizio come «la copertina è gialla» può avvenire nei più diversi atteggiamenti psicologici, ma conserva qualcosa di identico in tutte le sue occorrenze, che Heidegger chiama «senso», seguendo l’uso terminologico di Frege (vedi Unità 10, p. 394 s.) e di Husserl, ma anche di Rickert (vedi Unità 6, p. 246 s.), importante filosofo neokantiano correlatore del suo lavoro. Il «senso» non ha né una natura fisica né una natura psicologica e neppure una natura metafisica – perché, dice Heidegger, ciò che è metafisico non viene conosciuto mai con quella immediatezza con la quale diveniamo consapevoli del senso di un giudizio. Che genere d’esistenza va allora attribuita al senso come fattore identico in più occorrenze psicologiche? Heidegger – riprendendo una terminologia di Lotze (vedi Unità 6, p. 240 s.), che aveva usato il concetto di «validità» – afferma che il modo d’essere del senso può esser designato con il termine «valere» (questa nozione sarà poi criticata nel suo pensiero maturo in Essere e tempo). L’esser giallo vale in relazione alla copertina. Il senso è identificato dal suo potere di essere interrogato rispetto al vero e al falso. Parlare di «valere» offre però solo una terminologia: resta da chiedersi quale struttura abbia questo modo d’essere. Il senso non esiste, ma vale; ma cosa è il senso? La risposta heideggeriana a questa domanda circa «il senso del senso» si limita a indicare, sulla base dell’analisi del giudizio, che il senso ha una struttura articolata, nella quale predomina l’elemento della copula, ciò che è l’elemento più originario che governa la relazione tra gli altri due elementi di un giudizio (soggetto e predicato). Heidegger pone – come del resto Husserl – la logica (il cui compito è elaborare un metodo per distinguere i ragionamenti validi da quelli non validi) nell’orizzonte gnoseologico, di una teoria della conoscenza, che deve spiegare per lui l’«impossessarsi dell’oggetto» che ha luogo attraverso il fenomeno del valere o della validità (un senso vale di un oggetto). In quest’opera, che Heidegger definirà anni dopo «maldestra», viene però messa già in luce una problematica ontologica che sembra più radicale di quella logica e anche di quella gnoseologica. Lo scritto viene concluso sottolineando come la problematica logica può essere posta adeguatamente sulla base di una

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chiarificazione di significati linguistici (e non dell’analisi dei processi mentali che danno origine ai concetti), per passare poi a problematiche di teoria della conoscenza, che a loro volta ricevono chiarezza ultima dalla risposta a questioni ontologiche:

T2

Logica, teoria della conoscenza, ontologia

M. Heidegger, La dottrina del giudizio nello psicologismo, 5,2, par. 6

Il primato dell’ontologia

Il vero lavoro preparatorio per la logica e il solo utilizzabile in modo da portare frutti non è svolto dalle ricerche psicologiche sull’origine e sulla composizione delle rappresentazioni, ma per mezzo di determinazioni univoche e chiarimenti di significati linguistici. E soltanto quando una logica viene edificata e completata su un tale fondamento, si potranno affrontare con maggiore sicurezza i problemi di teoria della conoscenza e articolare l’ambito generale dell’«essere» nei suoi diversi modi di realtà; la loro peculiarità potrà essere messa nettamente in rilievo e potrà essere determinato con sicurezza il modo della loro conoscenza e la portata di essa. Fondamento della logica = Analisi del significato linguistico dei giudizi che formuliamo

Questa analisi è necessaria per elaborare una teoria della conoscenza

Il problema di come conosciamo i diversi modi in cui l’essere è può essere risolto solo con l’ontologia

Ontologia = Analisi dei modi in cui l’essere è

Heidegger vede dunque già nelle sue prime ricerche il suo lavoro nell’orizzonte dell’ontologia. Il suo rapporto con la prospettiva fenomenologica si approfondisce proprio negli anni della tesi di dottorato, attraverso la lettura delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913) di Husserl e poi attraverso il contatto diretto con Husserl stesso, che nel 1916 arriva all’università di Friburgo. Ma anche altri motivi ed esperienze filosofiche muovono il pensiero del giovane Heidegger; essi ruotano in particolare intorno alle due dimensioni della vita individuale e della storicità. Le letture del giovane Heidegger stesso ricorda alcuni autori che, in modi molto diversi, possono esHeidegger sere ricondotti a quelle tematiche e che costituiscono comunque parte fondamentale del clima culturale in cui egli muove i suoi primi passi: «Non è possibile dire in modo conveniente tutto ciò che di assai stimolante mi apportarono gli anni tra il 1910 e il 1914. Vi si può alludere con una serie di nomi e di titoli: la seconda edizione accresciuta e raddoppiata della Volontà di potenza di Nietzsche, la traduzione delle opere di Kierkegaard, e di Dostoevskij, il rinato interesse per Hegel e Schelling, le poesie di Rilke e di Trakl, le Opere complete di Dilthey».  Si tratta non soltanto di filosofi, ma anche di scrittori (Fëdor Michajlovic Dostoevskij [1821-1881]) e di poeti (Rainer Maria Rilke [1875-1926], Georg Trakl [1887-1914]): Heidegger si mostra ben presto interessato a una percezione amVita individuale e storicità

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pia e profonda della vita umana, nella quale hanno un ruolo fondamentale esperienze come quella religiosa e quella poetica, e dove le visioni del mondo sono immerse in un contesto storico e vissute nel senso particolare che acquistano per il singolo individuo vivente. Occorre inserire Nel secondo lavoro accademico – la tesi di abilitazione La dottrina delle categola logica rie e del significato in Duns Scoto, anch’essa per Heidegger un’opera «maldestra» nella vita concreta – questi motivi emergono, seppure nelle ultime pagine di un lavoro dedicato alla filosofia medievale, che vuole inserirsi però in un percorso speculativo ambizioso e di ampia portata. La logica – dunque problemi come quelli delle categorie e del significato – va inserita in un contesto che Heidegger chiama «translogico», sia perché rimanda al quadro più ampio della metafisica, sia perché – impiantandosi nella coscienza – essa deve radicarsi poi nella concretezza dei sensi quali emergono nella «vita», che Heidegger non intende in senso meramente biologico. Il senso si realizza nelle azioni e non può essere compreso se non in relazione ad esse, che però non vanno ridotte a meri dati di fatto.

T3

Il contesto «translogico»: metafisica e azione

M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Conclusione

Non è possibile vedere nella sua vera luce la logica e i suoi problemi in genere, se il contesto, a partire dal quale essa viene interpretata, non diviene un contesto translogico. La filosofia non può a lungo andare far a meno della sua propria ottica, la metafisica. Per la teoria della verità ciò significa il compito di una interpretazione metafisico-teleologica, di carattere radicale della coscienza. In questa vive già – nella sua forma originaria più propria – ciò che possiede valore, se per valore s’intende l’azione viva, piena di senso e realizzatrice di senso, azione che viene invece completamente fraintesa, se la si neutralizza nel concetto d’un cieco dato di fatto biologico.

Heidegger da un lato rifiuta una nozione di «vita» connotata biologicamente, dall’altro riprende il concetto di «senso» legandolo ora non più soltanto alla dimensione di ciò che non è né psichico né fisico, quale emerge dagli atti logici (ossia dai giudizi che formuliamo), ma a una dimensione più profonda legata all’azione vitale, per la quale lo stesso concetto di «validità» proposto nel 1913 non sembra più essere adeguato. L’insufficienza ontologica di questo concetto – la poca chiarezza riguardo a quale tipo di «essere» sia con esso inteso – lo porta a chiedersi ora se la validità come modo d’essere del «senso» sia da intendere come «un peculiare ‘essere’, oppure ‘dover essere’, oppure nessuno dei due, ma solo mediante gruppi di problemi più profondi, inclusi nel concetto di spirito vivente». Dimensione Il concetto di «spirito vivente» cui si fa qui cenno ha – come nella filosofia hedella storicità: geliana, cui terminologicamente rimanda – un nesso essenziale con la storia: è, lo spirito vivente dice Heidegger, «per essenza spirito storico nel senso più ampio del termine». Alla prospettiva ideale dei «sensi» viene congiunta fin da ora una problematica che per Heidegger assumerà una forma sempre più radicale, quella del loro rapporto con la storicità e con il tempo, che in questa fase è ancora legata in modo molto stretto anche a una comprensione religiosa della vita e della sua esperienza individuale. Per comprendere il senso dunque, è necessario considerarlo all’interno del contesto storico nel quale gli individui agiscono: all’astrazione della teoria della conoscenza deve sostituirsi l’attenzione alla vita concreta degli individui, alla storia. L’insufficienza del concetto di validità

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T4

Lo spirito vivente

M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Conclusione

I sensi si radicano nella vita individuale e nella storia

➥ Sommario, p. 532

4

Il soggetto nel senso della teoria della conoscenza non spiega il significato metafisicamente più importante dello spirito, tanto meno il suo pieno contenuto. […] Lo spirito è comprensibile solo se in esso viene assunta tutta la ricchezza delle sue prestazioni, cioè la sua storia; con la quale crescente ricchezza, quando sia concettualizzata filosoficamente, viene fornito un mezzo di continuo potenziantesi per la comprensione vivente dell’assoluto spirito di Dio. […] Nel concetto dello spirito vivente e della sua relazione con la «origine» metafisica si apre la possibilità di guardare entro la sua struttura metafisica, in cui la singolarità, individualità degli atti è inclusa in una Unità vivente con l’universalità, con il sussistere per sé del senso. Dal punto di vista oggettivo, si presenta il problema del rapporto fra tempo ed eternità, mutamento e assoluta validità, mondo e Dio, problema che nel senso scientifico e teoretico si riflette nella storia (strutturazione del valore) e nella filosofia (validità del valore). Heidegger non utilizza qui ancora un linguaggio originale e una concettualità propria, ma identifica un problema centrale, quello della comprensione della dimensione ideale dei «sensi» nella sua unità con il terreno in cui essi si radicano, la vita individuale nella sua peculiare storicità: una comprensione che deve essere raggiunta sulla base di un approfondimento della struttura metafisica in cui queste diverse dimensioni possono trovare unità. Heidegger non indica qui una soluzione, ma piuttosto una strada che caratterizzerà tutta la sua ricerca successiva. Il suo percorso più maturo, che qui inizia, vedrà da un lato un’appropriazione sempre più profonda del metodo fenomenologico husserliano e allo stesso tempo una presa di distanza critica che va di pari passo con l’elaborazione di una propria prospettiva originale e con nuovi concetti per realizzarla. Heidegger prende, così, le distanze non solo dallo psicologismo, ma anche da Husserl: per comprendere il senso dei giudizi che formuliamo è necessario superare i confini della logica e della teoria della conoscenza e considerare il contesto al quale appartengono, quello della vita concreta e individuale. Per dare una risposta ai problemi della logica e della conoscenza è necessaria, dunque, una ricerca di carattere ontologico.

Fenomenologia e fatticità

Soltanto alla fine della Prima guerra mondiale, nel 1919, Heidegger può iniziare a lavorare a Friburgo con Husserl. L’interesse per la problematica fenomenologica e la vicinanza teorica con la sua impostazione non impediscono che Heidegger sviluppi una prospettiva autonoma, che si esprimerà pubblicamente e in forma matura e sistematica solo nel 1927, con l’opera Essere e tempo, ma che viene elaborata e comunicata già nelle sue lezioni universitarie, prima a Friburgo e poi – dal 1923 – a Marburgo. Il suo tentativo di allargare e radicalizzare la problematica fenomenologica quale si era espressa fino a quel momento si incentra sull’idea di «vita» e sul superamento di una impostazione solo «teoretica» del rapporto con il mondo. Il concetto di vita L’idea di vita era centrale nella cosiddetta «filosofia della vita» e in molti autori dell’epoca. Rispetto ad essi Heidegger da un lato assume l’idea della vita come

Heidegger amplia la fenomenologia

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qualcosa che trascende l’ambito di ciò che viene oggettivato nella teoria, dall’altro cerca di ricondurre questa nozione a una interpretazione ontologica più profonda, che conservi il nesso con l’idea fenomenologica di senso (fuori da una visione biologica della vita) e in generale con la «comprensibilità» della vita in quanto tale. Sullo sfondo c’è l’insoddisfazione per il modo in cui è stato affrontato – in Husserl, ma anche in altri autori cui egli faceva riferimento, come Lotze o Rickert o Dilthey – il problema della relazione tra ideale e reale, tra la dimensione che sembrerebbe permanere identica e sottratta al tempo e quella empirica, storica.

L’ideale, il reale, la vita Unità di reale e ideale

T5

Il baratro tra ideale e reale

M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, par. 10

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Questo problema per Heidegger è affrontato male perché impostato male, partendo da due ordini distinti e ricercando poi un ponte, mentre si trascura la ricerca della loro possibile originaria unità e dunque di una determinazione ontologica, di un modo di essere dell’essere, che non coincida né con quello dell’idealità né con quello della realtà. Tra il 1925 e il 1926 Heidegger ricostruisce in modo polemico questa falsa via filosofica, attribuendo anche a Husserl tale errore. L’errore consiste nel separare ciò che è sensibile, storico, temporale da ciò che è sovrasensibile, sovrastorico, atemporale e nel ricercare, poi, qualcosa che li tenga uniti. In realtà, sostiene Heidegger, ci si deve porre il problema se non vi sia una dimensione originaria a partire dalla quale comprendere questi due modi di essere, un ente che sia condizione di possibilità di entrambi. Forse il problema apparentemente profondo del superamento del baratro tra reale e ideale, sensibile e sovrasensibile, temporale e atemporale, storico e sovrastorico è un’impresa provinciale dove non ci si deve chiedere affatto se le «coppie di opposti» di reale-ideale, sensibile-sovrasensibile, essente-valido, storico-sovrastorico, temporale-atemporale siano pensate con tanta leggerezza e piattezza come sembra dalla loro enumerazione. Lo spirito provinciale trae l’apparenza di una giustificazione solo dal fatto che prima si costruiscono questi due ambiti e poi si pone tra loro un baratro: e ora si cerca anche il ponte. Si prenda il baratro e vi si lanci sopra il ponte: è un’indicazione astuta all’incirca come quella di chi dice di prendere un buco e metterci intorno dell’acciaio per costruire il fusto di un cannone. E forse sta anche in questa vuota interpretazione del problema il motivo per cui lo psicologismo intelligente non ha mai ammesso di essere stato confutato, perché esso può riferirsi con ragione al fatto che con la supposizione di questa separazione quasi chimica del pensiero vivente e della conoscenza non si ottiene nulla di essenziale, nulla che serva alla comprensione di quel che è più reale, alla comprensione dello stesso pensiero vivente, della vita in quanto conoscenza. E dico addirittura che in questa posizione che contrapponendosi allo psicologismo pensa di essere così filosofica e di aver superato ogni naturalismo si cela un naturalismo ancora più grossolano e fondamentale, benché più difficile da afferrare. Giacché, in fondo, ci si trova nella situazione di vedere in qualcosa di unico due serie separate, due campi, due sfere, due regioni, dell’ente e del valido, del sensibile e del non sensibile, del reale e dell’ideale, dello storico e del sovrastorico. Non si ha un essere originario a partire dal quale queste due coppie sarebbero intese come possibilità ad esso appartenenti, né lo si cerca, ma si

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ostenta la fondamentale particolarità di questa separazione, vedendosi così costretti a lanciare un ponte o a collegare i due ambiti, perché possano toccarsi per formare un tutto. […] Il problema dell’ente che non getta un ponte sul baratro aperto tra i due regni, ma, posto che sia legittimo intendere il problema in questo modo, dell’ente che rende possibili i due modi d’essere, mostrandoli nella loro originaria Unità, non è stato posto in questa forma da Husserl. Va ricercata dunque una dimensione d’essere originaria prima della separazione tra le due presunte sfere dell’ideale e del reale, del «senso» e del mondo fisico. Husserl aveva per Heidegger una traccia importante da seguire nell’idea di intenzionalità (idea secondo la quale ogni atto della coscienza è un tendere della coscienza a un oggetto specifico; per esempio, l’atto del pensare è sempre l’atto del pensare a qualcosa). Husserl, però, non seguì fino in fondo questa traccia in modo adeguato anche a causa di altri errori. Un limite importante della fenomenologia husserliana che Heidegger ritiene di individuare in questa fase, in cui pure la segue da vicino, è costituito dal predominio del modello dato dal rapporto conoscitivo con il mondo, quello che egli chiama «il primato del teoretico». Il nostro rapporto Il nostro rapporto con le cose del mondo non è governato in primo luogo dalla coprimario con le cose noscenza di dati, per poi attribuire ad essi altri tipi di sensi, ma ha originariamente non è teoretico una natura più complessa. Non incontriamo prima «dati» sulla cui base costruiamo «cose», ma al contrario, le cose si danno a noi in un orizzonte preliminare più vasto e non di tipo conoscitivo, al cui interno il rapporto solo teoretico con le cose si presenta come una possibilità particolare tra le altre, e derivata. In un corso di lezioni del 1919, il primo anno di collaborazione con Husserl, Heidegger cerca di mostrare questo con un esempio concreto, quello dell’apprensione di un oggetto come una cattedra. L’incontro con un oggetto presuppone il «mondo-ambiente», che non è un insieme di cose circostanti, ma un contesto di «sensi». È un errore pensare che il senso sia qualcosa che attribuiamo agli oggetti come se fosse un’etichetta: il senso è primario, si offre immediatamente a noi nel momento in cui facciamo esperienza degli oggetti nell’ambiente che li circonda. Il significato che le cose hanno per noi è qualcosa che cogliamo in modo immediato nell’entrare in contatto con esse, a partire da un contesto di sensi dato, non è una costruzione teorica successiva all’esperienza vissuta. Gli errori di Husserl

T6

La cattedra e il mondo

M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, par. 14

Entrando nell’aula vedo la cattedra. Rinunciamo a formulare linguisticamente l’esperienza. Cosa vedo «io»? Superfici scure che si stagliano ad angolo retto? No, vedo qualcosa di diverso: una cassa, e cioè una più grande con una più piccola costruitavi sopra? In nessun modo: io vedo la cattedra dalla quale devo parlare, voi vedete la cattedra dalla quale vi si parla, dalla quale io ho già parlato. Nella pura esperienza vissuta non c’è nemmeno – come si dice – un nesso di fondazione, come se io vedessi prima delle superfici scure che si stagliano, e che mi si offrono successivamente come cassa, poi come scrivania, infine come cattedra accademica, in modo da incollare ciò che è cattedratico alla cassa come se fosse un’etichetta. Tutto ciò è una cattiva, equivoca interpretazione, un distoglimento dal puro guardare direttamente dentro l’esperienza vissuta. Io vedo la cattedra per così dire in un colpo; e non la vedo solamente in modo isolato, ma vedo la cattedra come troppo alta per me. Vi vedo un libro sopra, immediatamente 487

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come qualcosa che mi disturba (un libro, e non un insieme stratificato di pagine coperte di macchioline nere), vedo la cattedra con un certo orientamento, con una certa illuminazione, su uno sfondo. […] Nell’esperienza vissuta del vedere la cattedra mi si offre qualcosa a partire da un mondo-ambiente immediato. Questa dimensione di mondo-ambiente (la cattedra, il libro, la lavagna, il quaderno di appunti, la stilografica, il bidello, il corpo degli studenti, il tram, l’automobile, etc., etc.) non è un insieme di cose con un determinato carattere di significato, oggetti anzitutto, e inoltre concepiti come significanti questa e quest’altra cosa; al contrario l’elemento significativo è il carattere primario, mi si offre immediatamente, senza passare con il pensiero attraverso il concepire cose. Vivendo in un mondo-ambiente, mi si significa dappertutto e sempre, tutto è dotato di mondo, «si dà-mondo [es weltet]». Gli oggetti non sono separati dai loro significati

Rifiuto dell’alternativa tra fisico e psichico

Il problema della vita

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Viene formulato con una singolare espressione impersonale – es weltet, «si dà mondo», come si direbbe es regnet, «piove» – il fenomeno secondo il quale siamo immersi in contesti vitali che orientano e determinano il nostro rapporto con le cose. Questo non è circoscritto a un singolo atto conoscitivo (un giudizio, per esempio), compiuto da una coscienza, ma rientra in un evento ampio e appunto impersonale più vasto, il darsi di un contesto di senso. L’idea di un senso che si riveli in una «datità» immediata, in una sfera pura della coscienza, e soprattutto in un atteggiamento conoscitivo, è rifiutata da Heidegger perché non corrisponderebbe al modo reale in cui sensi e significati si rivelano nell’esperienza effettiva. Il «puro guardare in una esperienza vissuta» dà per lui risultati diversi da quelli di Husserl: l’elemento più immediato con cui ha a che fare la coscienza è quello di un contesto di sensi e significati. Esso può avere caratteri diversi a seconda degli individui e delle culture, ma ha per tutti una struttura comune: il fatto che le cose vengono incontrate a partire da un orizzonte che conferisce loro il senso vitale che è proprio del modo in cui le cose stesse ci si manifestano. Non vi sono «oggetti» neutrali cui si incollano significati. Questo tipo di esperienza, l’«esperienza vissuta del mondo-ambiente», non si riferisce né a qualcosa di fisico né a qualcosa di psichico, perché non si riferisce a cose. Il problema di una ricerca fenomenologica è di rispettare questo carattere, sottraendo l’esperienza al «dominio generale di ciò che è teoretico»: «Ogni esperienza vissuta che voglio osservare la devo isolare, mettere in rilievo, devo spezzare e distruggere perfino l’interconnessione delle esperienze vissute, cosicché alla fine, nonostante ogni sforzo in contrario, ho tra le mani solo un mucchio di cose». Cercare di identificare una dimensione che non è di cose (siano esse oggetti fisici o stati mentali), che sfugge all’alternativa fisico-psichico, e che non si presenta originariamente in un atteggiamento conoscitivo diventa allora il problema centrale, che in questa fase Heidegger identifica con il problema della «vita». Il «senso» non è visto più come ciò che permane identico nel variare delle esperienze psicologiche – come avviene con i significati nelle diverse forme materiali in cui si incarnano – e che dunque è concepito come il correlato di una teoria, di un giudizio, di una percezione. Il mondo così come è progettato in una teoria non è il mondo effettivo, quello con cui abbiamo a che fare e a cui originariamente ci rapportiamo attraverso «sensi»: non è, per esempio, ciò che è colto in una concezione quantitativa dello spazio. Le esperienze che viviamo nel mondoambiente non possono essere spiegate sulla base di ciò che facciamo valere

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quando «conosciamo»: se le separiamo dal contesto vitale perdiamo le esperienze stesse – perdiamo cioè proprio quello che vorremmo comprendere.

T7

I sensi nell’esperienza del mondoambiente M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, par. 17

Heidegger e la tradizione

Illustriamo la questione proprio a proposito della percezione dello spazio, di quella del mondo-ambiente. Durante una escursione giungo per la prima volta a Freiburg e, entrando nella città, chiedo: «qual è la via più diretta per il Duomo?». Questo orientamento nello spazio come tale non ha nulla a che vedere con qualcosa di geometrico. La distanza fino al Duomo non è un segmento quantitativo; vicinanza e lontananza non sono un quanto; nemmeno la via più vicina e più breve significa qualcosa di quantitativo, pura estensione come tale. Analogamente per il fenomeno del tempo. Questi fenomeni dotati di senso dell’esperienza vissuta del mondo-ambiente non posso spiegarli distruggendo il loro carattere essenziale, sopprimendo il loro senso e delineando una teoria. Spiegazione attraverso frammentazione, il che significa qui distruzione: si vuole spiegare qualcosa che non si ha più come tale e non si vuole e non si è in grado di lasciar valere come tale.

Tradizione

Heidegger

Il nostro rapporto con il mondo è in primo luogo teoretico

Il nostro rapporto con il mondo non è in primo luogo teoretico

L’elemento più immediato con cui la coscienza ha a che fare sono oggetti neutrali

L’elemento più immediato con cui la coscienza ha a che fare è un contesto di sensi (il «mondo-ambiente»)

Prima incontriamo gli oggetti, poi attribuiamo ad essi un senso

Incontriamo gli oggetti all’interno di un contesto concreto che conferisce loro un senso

Gli oggetti sono separati dai significati che attribuiamo ad essi

Gli oggetti non sono separati dai significati che attribuiamo ad essi

L’interconnessione dei sensi ne determina un altro carattere che per Heidegger è decisivo: la loro storicità, il fatto che nell’esperienza vissuta «vibra il mio io storico». Sottrarre la dimensione dei sensi al predominio della visione teoretica vuol dire allora per Heidegger anche ricondurla alla concretezza con cui essa viene esperita, a quella che egli chiamerà fatticità: il modo in cui «di volta in volta» si esiste, la circostanza di essere in una determinata concreta situazione, caratterizzata da un certo tempo e un certo contesto. La fatticità non è un elemento che si aggiunge al nostro essere – come i significati si aggiungerebbero a mere «cose» –, ma è un aspetto insuperabile di ciò che siamo: non siamo una «umanità universale», per poi essere collocati in un certo mondo e in un certo momento, ma questa collocazione costituisce il nostro essere più proprio. Questo aspetto va preso sul serio dall’inizio per poter rendere conto di come l’uomo è effettivamente in rapporto col mondo. Il nostro incontro In polemica con il modo in cui si presentava il rapporto tra la sfera del reale e quelcon gli oggetti la dell’ideale Heidegger nega che esse siano separate l’una dall’altra. Nell’affrontare il problema della relazione che abbiamo con le cose Heidegger sostiene che

La dimensione dei sensi: fatticità

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non si tratta di una relazione in primo luogo conoscitiva. Il nostro incontro con gli oggetti avviene in un contesto concreto, quello della vita, ed è solo in esso che acquistano un senso. Il contesto concreto è essenziale anche per capire chi siamo: l’essere collocati in un certo ambiente, in un certo momento, è la dimensione essenziale e primaria del nostro essere, che Heidegger chiama «fatticità».

Un nuovo metodo di accesso

Revisione del metodo fenomenologico

Interpretazione dell’esperienza vissuta

T8

Intuizione di situazioni come interpretazione

M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20), Appendice

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Se il modello in base al quale vengono concepiti i «sensi» che costituiscono la vita oltrepassa quello della coscienza nel suo rapporto conoscitivo con il mondo, anche il metodo fenomenologico va rivisto. Nelle prime lezioni di Friburgo Heidegger critica l’idea di Husserl che la visione fenomenologica possa essere identificata con una descrizione: marchiare la sfera dei vissuti come un dato che dev’essere solo descritto è già far prevalere il punto di vista della teoria. La descrizione husserliana prende inoltre come modello di ogni scienza il sapere matematico. Ma, obietta Heidegger con un voluto paradosso, «la matematica è la scienza meno rigorosa di tutte perché qui l’accesso è più facile. La scienza dello spirito presuppone molta più esistenza scientifica di quanta un matematico possa mai raggiungere». Si tratta di trovare un modo di accesso e un modello di conoscenza adeguati alla complessità della vita. Contro l’intuizione fenomenologica (che nella teoria di Husserl voleva identificare essenze ideali manifeste alla coscienza) Heidegger parla allora già nel 1919 di una «intuizione ermeneutica»: l’ermeneutica, ossia la scienza dell’interpretazione di significati non evidenti di un testo, si presenta come il modello più adeguato per una dimensione in cui il senso non è in primo piano, ma è sullo sfondo e ha la natura di un tessuto complesso di contesti vitali. Da un lato, infatti, è emerso che i vissuti non sono cose, né elementi isolati; dall’altro, è emerso che il loro senso non è immediatamente in vista. La stessa «espressione» linguistica emerge da un orizzonte più ampio già prefigurato di significati. Una fenomenologia fedele a queste caratteristiche del fenomeno «vita» deve assumere un’altra forma, superare l’idea di descrizione. Dall’intuizione che descrive si passa alla interpretazione che comprende: oggetto della scienza dell’interpretazione, cioè dell’ermeneutica, sono i vissuti, la vita stessa, che non è qualcosa di astratto, ma scaturisce da situazioni concrete. Heidegger respinge, così, la tesi di Bergson (vedi Unità 6, p. 253 ss.), che considera il linguaggio dei concetti del tutto inadeguato per comprendere la vita. Nella misura in cui la fenomenologia si occupa di connessioni di senso, il fenomeno dell’espressione è solo una manifestazione del fatto che un senso si configura e assume forma compiuta attraverso l’altro. – Il carattere della significatività indica che la vita non scorre come una corrente in maniera ottusa (come la rappresenta Bergson in seguito alla messa in gioco di concetti biologici), ma è comprensibile. È un punto di vista molto diffuso nella filosofia contemporanea quello secondo il quale la vita nella sua fatticità sarebbe del tutto inaccessibile al concetto. Ma questo è solo il rovescio della medaglia del razionalismo di questa filosofia. […] La vita è sempre concretamente in situazioni. Se le sciogliamo concretamente, esse manifestano una struttura che è determinata dalla tendenza della situazione. I

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

vissuti non sono cose, non sono nulla di isolato, ma figure espressive di tendenze di situazioni vitali concrete. La scienza di vissuti è l’intuizione originariamente offerente della connessione di senso, delle situazioni, da cui scaturiscono i vissuti. – Come può esplicarsi l’intuizione di situazioni vitali? Nel puro comprendere, che prende forma compiuta nell’interpretazione di connessioni di senso. Due modelli di conoscenza dell’esperienza vissuta

Ermeneutica come strumento di comprensione della storicità

Filosofia come critica storica

L’autocomprensione storica della filosofia

Demolire la tradizione

Fenomenologia

Heidegger

I vissuti sono dati isolati l’uno dall’altro

I vissuti non sono isolati l’uno dall’altro e il loro senso non è evidente

Il metodo per accedere ai vissuti e comprenderli è la descrizione

Il metodo per accedere ai vissuti e comprenderli è l’interpretazione

L’ermeneutica era stata proposta in anni recenti da Dilthey come il metodo per comprendere la vita intesa come «connessione significativa»; in particolare ciò che della vita poteva essere compreso con maggiore oggettività: testi scritti, monumenti, in genere i prodotti di una cultura. L’ermeneutica si presentava allora come metodologia delle scienze dello spirito, ossia delle discipline (contrapposte alle scienze della natura) che studiano il mondo umano e il suo sviluppo storico. Heidegger ne radicalizza il senso e l’uso, facendone la chiave per qualcosa di più basilare e di più ampio, la comprensione della stessa esistenza umana nella sua storicità. Ma l’ermeneutica così intesa conserva un nesso con l’interpretazione di culture, perché l’inserimento della vita individuale in contesti storici di senso pone anche alla filosofia un compito ulteriore: essa non può limitarsi a esaminare strutture in qualche modo sovratemporali della vita, ma deve applicarsi alla propria stessa storia. Se l’uomo si comprende a partire da un mondo di sensi e significati che trova, questi possono essere cristallizzati, irrigiditi, così da non consentire più un’autentica comprensione di ciò che esprimevano. La filosofia deve rimettere in gioco e in movimento i concetti tramandati, diventare dunque anche critica storica. Heidegger parlerà di «demolizione» e poi di «distruzione» della tradizione, attribuendo però a questi termini un significato non negativo: essi indicano l’operazione che consiste nel rendere fluidi e rimettere in movimento dei concetti che avevano perso la loro forza interpretativa. Il compito di una autocomprensione storica della filosofia, già presente nello scritto di abilitazione del 1916, assumerà nel corso dello sviluppo di pensiero di Heidegger sempre maggiore spessore, proprio perché visto non come un compito settoriale di una disciplina, ma come essenzialmente legato con la struttura stessa della vita umana. Il punto di vista adeguato per accedere alla concretezza della vita deve essere guadagnato attraverso un percorso che metta in questione anche ciò che nelle connessioni di senso ha depositato la tradizione. Anche per questo aspetto la filosofia deve andare oltre un concetto ingenuo di accesso ai fenomeni quale sembra a Heidegger quello husserliano, che presume di poter svolgere una pura descrizione dei fenomeni (delle cose stesse così come appaiono) del tutto svincolata dal contesto storico nel quale essi si verificano. Il mostrarsi delle cose, delle «essenze», può esser condizionato, «coperto» da una tradizione. Manifestare i fenomeni vuol dire anche, allora, affrontare questi aspetti storicamente determinati. Per comprendere le cose, dunque, è necessario 491

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demolire la tradizione, liberandole dalle coperture. In un corso di lezioni del 1923, intitolato significativamente Ontologia. Ermeneutica della fatticità, questa modificazione in senso storico del metodo fenomenologico è esplicitata:

T9

Filosofia e critica storica

M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica della fatticità

La situazione propria di volta in volta di una scienza si confronta con un determinato stato delle sue cose. Il loro mostrarsi può essere un aspetto che si è fissato attraverso la tradizione in un modo tale che questa inautenticità non viene affatto più riconosciuta, ma viene ritenuta ciò che è autentico. E ciò che si mostra semplicemente in tale aspetto non è necessariamente ancora la cosa stessa. Se ci si appaga di ciò, nella preparazione del terreno si è già scambiato qualcosa di casuale per un ‘in sé’. Si prende una copertura per la cosa stessa. Una tale semplice assunzione non garantisce allora ancora niente. Si tratta di pervenire, oltrepassando la posizione iniziale, a una comprensione della cosa che sia libera da coperture. A tal fine è necessario rendere accessibile la storia delle coperture. Bisogna seguire la tradizione delle questioni filosofiche fino alle fonti della cosa. La tradizione deve essere demolita. Solamente in questo modo è possibile una posizione oggettiva originaria. Questo percorso a ritroso pone la filosofia nuovamente davanti ai nessi decisivi. Ciò è oggi possibile solamente per mezzo di una radicale critica storica. Questo non è un compito semplicemente nel senso di una comoda illustrazione ma è un compito fondamentale della stessa filosofia. Quanto la si faccia facile lo mostra la astoricità della fenomenologia: si crede che si possa raggiungere l’oggetto in una evidenza ingenua attraverso un orientamento arbitrario dello sguardo.

Indagare la vita, che non ha una natura universale prima di averne una storica, comporta un ripensamento critico della situazione e dunque della tradizione che la determina. Questa critica storica sarà inclusa nel progetto della prima grande opera sistematica di Heidegger, Essere e tempo, ma resterà un compito che sarà eseguito solo in parte nell’orbita di questa opera e che sarà invece sviluppato in seguito, in forma accentuata, in un confronto di amplissimo respiro con la tradizione filosofica dell’Occidente. Il senso autentico Ancora in polemica con la fenomenologia husserliana Heidegger sostiene che il delle cose modo adeguato per comprendere i vissuti e l’essenza stessa delle cose non è la descrizione, ma l’interpretazione, che sola può fare emergere il loro senso. E poiché la vita ha un carattere essenzialmente storico la comprensione dei vissuti e delle cose richiede una critica storica, una demolizione della tradizione, da parte della filosofia: occorre liberare le cose e i concetti dalle coperture che la tradizione ha sovrapposto ad essi e portare così alla luce il loro senso autentico. La ➥ Sommario, p. 532 critica storica, dunque, ha una funzione costruttiva.

Il compito della critica storica

5 Il problema dell’essere: ontologia fondamentale ➥ Percorso tematico, p. 703

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Il capolavoro incompiuto Nei primi anni venti Heidegger ha sviluppato ormai una impostazione problematica propria e una visione filosofica originale, che prende le distanze per molti versi dalla fenomenologia husserliana, mentre per altri intende proseguirne il metodo. La fenomenologia viene intesa ora infatti soprattutto come metodo, più che come corrente filosofica. Al centro dell’attenzione resta «l’essere della vita fattuale»,

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

L’elaborazione di una nuova terminologia filosofica

Ateismo metodologico

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La filosofia e Dio

M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica

visto come il terreno proprio di una indagine che voglia scoprire le radici delle altre apparenti modalità d’essere, l’ente fisico, l’ente ideale; lo sfondo ultimo, tuttavia, il fine più ampio della ricerca è la riproposizione del problema dell’essere in quanto tale. Rispetto ad esso l’indagine della vita fattuale diventa «ontologia fondamentale», ossia la ricerca ontologica che pone le basi, il fondamento, per una ontologia generale, in quanto ne costituisce il presupposto, indicandone la possibilità e il modo di procedere. Il primo svolgimento di questa ontologia è affidato da Heidegger alle pagine di Essere e tempo, opera apparsa nel 1927 che rappresenta l’esposizione più ampia e sistematica della sua filosofia, che però rimase incompiuta. In essa Heidegger elabora anche una terminologia filosofica originale, spesso complessa. Giustifica la «durezza» e la «ineleganza» di espressione delle sue pagine, che riconosce, appellandosi al fatto che «un conto è informare sull’ente raccontando, un altro è cogliere l’ente nel suo essere. Per questa seconda impresa mancano non soltanto la maggior parte delle parole, ma, prima di tutto, la ‘grammatica’». È importante notare che nel momento in cui realizza quest’opera, Heidegger ha abbandonato un’impostazione filosofica che lo portava comunque a muoversi nell’ambito di una filosofia religiosa, volta, come si diceva nello scritto del 1916, alla «comprensione viva dell’assoluto spirito di Dio». In Essere e tempo si avverte l’eco di molti motivi religiosi, spesso quasi la ‘traduzione’ filosofica di tematiche religiose, e dell’interpretazione della vita cristiana, ma nell’ambito di un atteggiamento metodologico «ateo» – che non vuol essere per questo irreligioso – già esplicitamente dichiarato in un testo del 1922. Ogni filosofia, che si comprende per quello che è, deve, in quanto rappresenta un modo fattuale di interpretazione della vita, sapere che, proprio quando ha ancora una «idea» di Dio, il ritrarsi in sé della vita allontanandosi da tale idea è, per esprimersi in termini religiosi, come levare la mano contro Dio. Ma solo così la filosofia sta davanti a Dio rettamente, cioè in modo conforme alla possibilità per lei disponibile; ateo significa qui: tenersi liberi dalla allettante occupazione di parlare soltanto di religiosità. Questo non comporterà una sparizione dei temi del divino e del sacro: al contrario, essi assumeranno un peso sempre maggiore nello sviluppo del pensiero di Heidegger, seppure al di fuori di qualunque forma di filosofia religiosa.

La questione dell’essere e l’Esserci Heidegger rilancia dunque il problema classico della metafisica, ma con la consapevolezza di farlo in un modo radicalmente nuovo. Basterebbero a dimostrarlo le prime righe di Essere e tempo, nelle quali afferma: «Benché la rinascita della ‘metafisica’ sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato». Per Heidegger ciò che manca non è tanto la soluzione del problema, quanto un’adeguata impostazione della questione: «il problema stesso è oscuro e privo di guida». Il primo compito è allora quello di elaborare la domanda circa l’essere, porla in modo nuovo su basi nuove. La precomprensione È sbagliato porre il problema dell’essere come un problema concettuale: in quedell’essere sto caso ci si scontra con ostacoli come la constatazione che quello di essere è il

Il problema dell’essere non è solo filosofico

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concetto più generale di tutti (dunque sembrerebbe indefinibile), oppure che si tratta di un concetto ovvio. Ma il problema dell’essere non è solo un problema filosofico. La tesi di fondo di Heidegger è che una certa «precomprensione» dell’essere sia qualcosa che orienta la vita umana in quanto tale. Noi sappiamo in qualche modo cosa significa «essere», ma questo «sapere» resta indeterminato, oscuro. Tuttavia, «questa comprensione media e vaga dell’essere è un fatto». L’Esserci Un accesso metodologicamente adeguato al problema dell’essere deve muovere allora dalla stessa interpretazione di questo fatto e dall’analisi delle condizioni di possibilità della stessa domanda circa l’essere. Ci si deve chiedere anzitutto come è possibile una comprensione dell’essere: la risposta può essere data solo da un’indagine sull’ente che ha di fatto tale comprensione, che si interroga sull’essere o può farlo. Questo ente è quello che noi stessi siamo, un ente per il quale Heidegger rinuncia al termine «uomo», per usare invece un termine che ritiene meno carico di presupposti, con il quale sostituisce anche il concetto di «vita» o «vita fattuale» utilizzato negli anni precedenti: «Esserci», Dasein. Il verbo dasein vuol dire in tedesco «esistere», ma contiene in sé l’idea di essere (sein) «là» (da): lega anche linguisticamente l’essere dell’uomo a un contesto di fatto in cui si trova e che gli è manifesto (il «Ci» dell’Esserci). Questo «là», questo «Ci» non va inteso nel senso di collocazione in un luogo o in un tempo fisico, ma come ciò che mette in un rapporto determinato con un certo «mondo». Per comprendere l’essere e coglierne il senso è necessario comprendere – «rendere trasparente» – l’ente che è in grado di porsi il problema stesso dell’essere, è cioè necessario comprendere l’Esserci; per questo particolare ente porre la domanda sull’essere è un modo di essere che lo rende diverso da tutti gli altri enti.

T11

Il problema dell’essere e l’Esserci

M. Heidegger, Essere e tempo, par. 2

Il modo d’essere dell’Esserci è l’esistenza

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Se il problema dell’essere deve esser posto esplicitamente e svolto nella piena trasparenza di se stesso, l’elaborazione di questo problema richiederà, in conseguenza delle delucidazioni da noi date, l’esplicazione del modo in cui si può volger lo sguardo all’essere, realizzarne la comprensione e afferrarne concettualmente il senso; e richiederà la preparazione della possibilità della scelta corretta dell’ente esemplare, nonché l’elaborazione della genuina via di accesso a questo ente. Ma volger lo sguardo, comprendere, afferrare concettualmente, scegliere, accedere a, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di essere di un determinato ente, di quell’ente che noi stessi, i cercanti, sempre siamo. Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: rendere trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è essa stessa determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede una adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere. L’«ontologia fondamentale» prende dunque anzitutto la forma di una «analitica ontologica dell’Esserci», cioè di una analisi del modo di essere dell’Esserci. Il modo di essere dell’Esserci, la sua particolare natura ontologica è caratterizzata da Heidegger come esistenza: l’esistenza è diversa dalla semplice presenza di una cosa, dal modo in cui una cosa «c’è», in quanto è caratterizzata da possibilità, è cioè un modo d’essere verso il quale si assume un atteggiamento, che si

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può realizzare in un modo o nell’altro. L’esistenza non è una realtà determinata, fissa, qualcosa che è già dato, com’è invece l’essere degli altri enti, ma è un insieme di possibilità tra cui l’uomo deve scegliere. L’esistenza Noi non esistiamo al modo di una pietra o di un albero, ma siamo immersi in un come insieme contesto di possibilità date verso il quale assumiamo posizione. Questo predodi possibilità minio della possibilità e del fatto che l’essere è in gioco nella nostra esistenza, che «ne va» di esso, è un tratto fondamentale dell’essere dell’Esserci. L’essenza dell’Esserci, dirà Heidegger, consiste nel suo aver da essere e non in quello che, in particolare, è. A queste possibilità esso si può rapportare in modo autentico o in modo inautentico, cioè essendo o non essendo se stesso.

T12

L’Esserci e l’esistenza

M. Heidegger, Essere e tempo, par. 4

Il problema dell’essere

L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente, esso è caratterizzato piuttosto dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che, di nuovo, significa: l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. […] L’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. E poiché la determinazione dell’essenza di questo ente non può avere luogo mediante l’indicazione della quiddità di un contenuto reale, e la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo essere in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione d’essere, per designare questo ente. L’Esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possibilità che ha di essere o non essere se stesso.

Il problema dell’essere non è solo un problema filosofico: una precomprensione dell’essere orienta la nostra vita

Per affrontare il problema dell’essere occorre capire com’è possibile la comprensione dell’essere

Per capirlo occorre un’indagine sull’ente che comprende l’essere e può porsi il problema dell’essere

Questo ente è l’Esserci Esserci: – ente in rapporto con un certo mondo – ente diverso dagli altri enti: il suo modo d’essere è l’esistenza, non la semplice presenza L’ontologia è fondata sull’analisi dell’esistenza, ossia sull’ontologia fondamentale

Dunque, il punto di partenza per affrontare il problema dell’essere è dato dal fatto che tutti noi abbiamo, nella vita quotidiana, una sia pur vaga e non chiara comprensione dell’essere. Il problema dell’essere non è, dunque, soltanto filosofico. Occorre allora chiedersi come sia possibile comprendere l’essere. Per dare una risposta a questa domanda è necessario individuare e analizzare l’ente che può porsi il problema dell’essere, ossia l’Esserci (l’uomo). L’ontologia fondamen495

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

tale di Heidegger è, così, anzitutto un’analisi del modo di essere dell’Esserci, ossia dell’esistenza: essa lo contraddistingue dagli altri enti ed è caratterizzata dalla possibilità che l’Esserci ha di essere o non essere se stesso.

L’analitica ontologica dell’Esserci Analisi dei modi d’essere: gli esistenziali

In che modo trovare accesso al modo di essere che ci caratterizza, o, nel linguaggio di Heidegger, che caratterizza l’Esserci? Il fatto di sottolineare preliminarmente, come si è visto, che questo modo d’essere differisce da quello delle cose perché comprende in sé essenzialmente la possibilità, e dunque quello che siamo è messo in gioco (non è un dato), non fa che acuire il problema. Ma è anche fondamentale, per Heidegger, evitare di assumere qualsiasi idea preconcetta, per quanto possa apparire ovvia, di ciò che siamo e di ciò che possa nel nostro caso significare «essere». La via di accesso dev’essere allora 1) quella di analizzare il modo in cui l’Esserci si mostra «innanzitutto e per lo più», ossia il suo modo di essere nella «quotidianità media» o «medietà»; 2) quella di identificare le strutture essenziali che sono alla base di questo e degli altri modi d’essere dell’Esserci. Heidegger indica queste strutture col termine «esistenziali», caratteri generali dell’essere dell’Esserci (come le «categorie» sono caratteri generali dell’essere). Questa fase, che resta provvisoria, dovrà poi essere oltrepassata 3) da un approfondimento che garantisca la completezza delle strutture messe in luce.

Il metodo. Fenomenologia ermeneutica La fenomenologia deve mostrare l’essere dell’ente

Fenomenologia e modello di comprensione «ermeneutico»

Che cos’è l’ermeneutica

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Heidegger ribadisce l’impianto fenomenologico della sua ricerca, dove «fenomenologia è il modo di raggiungere e di determinare ciò che deve costituire il tema dell’ontologia». La fenomenologia, lo si è detto, non è per Heidegger una disciplina che ha oggetti specifici, ma un metodo. L’indagine fenomenologica deve far sì che venga a mostrarsi ciò che di per sé non è manifesto (in Husserl, pur attraverso un difficile esercizio di pensiero, la fenomenologia metteva in luce ciò che è integralmente manifesto all’interno della sfera pura della coscienza): e questo è, per Heidegger, l’essere dell’ente, come «qualcosa che resta nascosto rispetto a ciò che si manifesta innanzi tutto e per lo più», che però allo stesso tempo è «qualcosa che appartiene, in linea essenziale, a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, in modo da costituirne il senso e il fondamento». Dunque, la fenomenologia è il metodo da seguire nello svolgere l’indagine ontologica (l’analisi delle strutture dei modi d’essere dell’ente). Come già prefigurato nelle lezioni precedenti Essere e tempo, il metodo fenomenologico si coniuga in Heidegger con la ripresa del modello di comprensione «ermeneutico», quello proprio della tecnica di interpretazione dei testi, che era stato ampliato da Dilthey a metodologia delle scienze dello spirito. Il primato di questo modello sarà giustificato dalla stessa analisi dell’Esserci, che mostrerà come comprensione e interpretazione siano le forme più basilari di rapporto col mondo. L’ermeneutica viene ad assumere così in Heidegger tre significati tra loro connessi, ai quali infine può ricollegarsi il significato di metodologia delle scienze dello spirito: 1) è l’operazione di interpretazione, il rendere noto, manifestare il senso dell’essere; 2) è anche, in un senso più metodologico, la riflessione su come sia

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

➥ Sommario, p. 532

possibile la stessa ricerca ontologica; 3) è l’interpretazione dell’essere dell’Esserci, coincide dunque con l’analitica dell’esistenza (cioè con l’analisi del modo di essere peculiare dell’Esserci). Quest’ultima metterà in luce la intrinseca storicità dell’Esserci, e dunque ciò su cui si basa, infine, l’«ermeneutica» nel senso per Heidegger più derivato: la metodologia delle scienze storiche dello spirito.

I significati dell’ermeneutica

Ermeneutica

Interpretazione e manifestazione del senso dell’essere

Riflessione su come è possibile l’ontologia

Interpretazione dell’essere dell’Esserci = analitica dell’esistenza

Senso derivato di ermeneutica: metodologia delle scienze dello spirito

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I tre aspetti dell’essere-nel-mondo

La nozione di «mondo»

Essere-nel-mondo La più importante struttura dell’Esserci, nel cui quadro vanno intese le altre, è quella che Heidegger indica con il nome «essere-nel-mondo». L’uso di una tale espressione unificata dai trattini vuole alludere al fatto che si tratta di un fenomeno unitario, di una struttura originariamente complessa, non frantumabile in parti. Ciò non significa che i suoi aspetti non possano essere indagati specificamente uno dopo l’altro. Heidegger li indica come 1) il «nel-mondo», ossia l’aspetto in cui prevalgono il concetto di «mondo» e le sue caratteristiche; 2) l’ente che ha come modo peculiare di essere quello di essere-nel-mondo: qui l’accento va sul «chi», sulla questione chi sia questo ente; 3) l’«in-essere»: qui l’accento va su ciò che fa sì che l’ente che è nel mondo sia appunto in esso, su ciò che congiunge i due termini, che rende accessibile il mondo all’Esserci. Dal momento che essere nel mondo non indica una collocazione fisica (l’uomo non è nel mondo come parte di esso, per esempio come l’acqua è nel bicchiere), l’«in» esprimerà l’«apertura» dell’Esserci al mondo, il suo potervi accedere. Come si comprende facilmente, la nozione che dà senso alle altre, e che riveste per questo un ruolo chiave, è quella di «mondo». Questo termine non va inteso nelle accezioni consuete: non come l’insieme degli enti esistenti, non come una certa regione ontologica (il «mondo» dei numeri, per esempio), e neanche come ciò in cui qualcuno vive, un ambiente, un mondo storico.

I tre aspetti dell’essere-nel-mondo

Essere-nel-mondo = Struttura fondamentale dell’Esserci «Nel-mondo»

Ente

«In-essere»

Aspetto in cui prevale il concetto di mondo

Aspetto che riguarda chi è l’ente il cui modo d’essere è quello di essere-nel-mondo

Apertura dell’Esserci al mondo

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

La mondità del mondo La struttura unitaria che Heidegger ha in mente con la nozione di «essere-nel-mondo» può essere letta come una estensione del concetto husserliano di intenzionalità. Se l’intenzionalità era quella proprietà dei «vissuti» (dei contenuti mentali) per la quale essi si riferiscono a un oggetto, l’essere-nel-mondo è il più vasto orizzonte in cui un simile rapporto – il rapporto soggetto-oggetto – può avere luogo. Heidegger ritiene un errore di fondo della filosofia del suo tempo quello di muovere da due poli contrapposti, soggetto e oggetto, per cercare poi il modo di collegarli, secondo quella che lui chiama l’impostazione della teoria della conoscenza. Il soggetto dovrebbe uscire dalla sua «sfera interna» per entrare in contatto col «mondo esterno». Questo rapporto a due – e questa particolare relazione data dal rappresentare le cose, dall’atteggiamento teoretico – è possibile però all’interno di un più vasto orizzonte nel quale l’Esserci e il mondo sono essenzialmente connessi l’uno all’altro. Non si tratta del rapporto conoscitivo tra un «io» e delle «cose», ma piuttosto della dimensione in cui questo rapporto (e ogni altro tipo di «accesso» a ciò che nel mondo ci viene incontro) è possibile. Il rapporto originario Prima del rapporto tra un soggetto e i suoi oggetti vi è una familiarità «originatra Esserci e mondo ria» (ossia dietro alla quale non si può risalire) tra Esserci e mondo, che si manon è teoretico nifesta in un rapporto non teoretico, nell’avere a che fare con le cose, sospendendo il quale soltanto si può avere – secondariamente, in modo non originario dunque – un rapporto conoscitivo con esse. Concepire il soggetto come qualcosa di isolato che deve entrare in contatto con le cose è fraintenderne la natura, creare una falsa astrazione. La conoscenza degli oggetti da parte dell’Esserci non stabilisce una nuova relazione tra il soggetto che conosce e il mondo, l’oggetto conosciuto, e non è il risultato di un’azione compiuta dal mondo sul soggetto: il conoscere è un modo di essere dell’Esserci. Quando l’Esserci osserva l’oggetto da conoscere non esce fuori da sé, nel mondo, per poi tornare in sé, perché esiste come essere-nel-mondo: l’esserenel-mondo (l’essere fuori da sé, presso gli oggetti) è il modo fondamentale di essere dell’Esserci. Ed è proprio perché il conoscere è un modo (ma non il modo primario) di essere dell’Esserci che per comprendere il processo della conoscenza occorre anzitutto un’interpretazione dell’Esserci e del suo modo primario di essere. Insufficienza della struttura soggetto-oggetto

T13

Conoscenza ed essere-nel-mondo M. Heidegger, Essere e tempo, par. 13

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Nel dirigersi verso… e nel cogliere, l’Esserci non esce da una sua sfera interiore, in cui sarebbe dapprima incapsulato; l’Esserci, in virtù del suo modo primario di essere, è già sempre «fuori» presso l’ente che incontra in un mondo già sempre scoperto. E il determinante soffermarsi presso un ente da conoscere non è un abbandono della sua sfera interna, poiché, anche in questo «esser fuori» presso l’oggetto, l’Esserci è, a bene intendere, «dentro»: cioè esiste come essere-nel-mondo che conosce. E, di nuovo, l’apprensione del conosciuto non è un ritorno nel «recinto» della coscienza con la preda conquistata, poiché anche nell’apprendere, nel conservare e nel ritenere 1’Esserci conoscente, in quanto Esserci, rimane fuori. Nella «semplice» conoscenza di una connessione dell’essere dell’ente, nella «pura» rappresentazione di sé, nel «semplice pensare a…» io sono fuori, nel mondo e presso l’ente, non meno che in una percezione originaria. Perfino l’oblio di qualcosa, in cui sembra che sia rotto ogni rapporto con ciò che prima era conosciuto, deve esser concepito come una modificazione dell’in-essere originario; lo stesso dicasi dell’inganno e dell’errore.

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Dal nesso indicato dei fondamenti propri dei modi di essere-nel-mondo, costitutivi della conoscenza del mondo, risulta: conoscendo, l’Esserci assume un nuovo stato d’essere rispetto a quel mondo che è già sempre scoperto nell’Esserci. Questa nuova possibilità di essere può organizzarsi autonomamente, divenire un compito preciso e, in quanto scienza, valere come guida dell’essere-nel-mondo. Ma il conoscere non instaura un commercium fra un soggetto e un mondo, e neppure sorge da un’azione del mondo su un soggetto. Il conoscere è un modo dell’Esserci fondato nell’essere-nel-mondo. Perciò l’essere-nel-mondo, in quanto costituzione fondamentale, richiede un’interpretazione preliminare. Comprendere il mondo

Dunque si tratta di esplicitare la struttura concreta unitaria dell’essere-nel-mondo, piuttosto che muovere da enti separati (l’Esserci da un lato e il mondo dall’altro). La prima cosa da comprendere è che cosa vada inteso come mondo. Ma questo può svelarsi soltanto attraverso una analisi concreta del nostro rapporto con le cose. Se il mondo è ontologicamente primario – è la condizione di possibilità del rapporto con le cose – esso va fatto emergere nella sua natura partendo da ciò che è più familiare. Heidegger sviluppa qui sistematicamente ciò che aveva già indicato nelle prime lezioni di Friburgo parlando, con i termini di allora, della «esperienza vissuta del mondo-ambiente».

Mezzo, rimando, appagatività Il «sapere» proprio dell’avere a che fare

L’ente intramondano è un mezzo

Un mezzo rimanda sempre a qualcos’altro

Come avviene effettivamente, nel nostro vivere quotidiano, il rapporto con le «cose» del mondo? L’atteggiamento conoscitivo, il rappresentare, non è affatto il modo primario di rapportarsi alle cose: piuttosto, noi anzitutto maneggiamo e usiamo le cose, abbiamo a che fare con esse. Ciò non avviene in modo cieco, ma sulla base di una specie di «sapere», un modo di vedere proprio dell’avere a che fare con le cose, che però è distinto da ogni conoscenza teoretica. Per comprendere meglio di cosa si tratti bisogna approfondire il carattere ontologico di ciò che incontriamo nel mondo, che Heidegger chiama «l’ente intramondano». La caratterizzazione adeguata dell’ente intramondano non è quella di «cosa», e neppure di cosa cui si aggiunge un «valore». Ciò che incontriamo nel mondo ci si mostra sempre con un suo possibile senso per noi. Pensiamo all’esempio della cattedra: anche chi non sappia che farsene (Heidegger fa l’esempio di un contadino della Foresta Nera o di un nero del Senegal che non l’abbiano mai vista, conosciuta come tale) la vive come «qualcosa di cui non sa che farsene», non come una pura «cosa». La caratterizzazione ontologica adeguata per l’ente intramondano – ente naturale o artificiale che sia – è dunque quella di «mezzo». Un mezzo rimanda però sempre, per sua natura, a qualcos’altro, è sempre «un mezzo per…». L’ente inteso come mezzo – sia pure «ciò di cui non sappiamo che farcene» – non esaurisce mai il suo essere in se stesso, e dunque nella sua semplice presenza. Come Heidegger scrive, «a rigor di termini, un mezzo non ‘c’è’ mai»: non c’è qualcosa che sia un mezzo isolato, non collegato ad altri enti che sono mezzi. Ciò significa che «all’essere del mezzo appartiene sempre una totalità di mezzi, all’interno della quale esso può essere questo mezzo che è»; ogni mezzo rimanda ad altri mezzi. Questa totalità è preliminare, nel senso che è presupponendola, a partire da essa, che si comprende ciò che è un mezzo. 499

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La totalità di mezzi

M. Heidegger, Essere e tempo, par. 15

I mezzi si rivelano nell’uso che ne facciamo

I mezzi acquistano senso in relazione all’Esserci

Il progetto dell’Esserci

Il mondo è una totalità di rimandi

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In via provvisoria bisogna far vedere fenomenologicamente un complesso di rimandi. Il mezzo, per la sua stessa natura, è sempre tale a partire dalla sua appartenenza ad altri mezzi: mezzo per scrivere, penna, inchiostro, carta, cartella, tavola, lampada, mobili, finestre, porte, camera. Queste «cose» non si manifestano mai innanzi tutto isolatamente, per riempire successivamente una stanza come una somma di entità reali. Ciò che si incontra per primo, anche se non colto, tematicamente: è la camera, e questa, di nuovo, non come «ciò che è racchiuso fra quattro pareti» in senso spaziale e geometrico, ma come mezzo per abitare. È a partire da esso che si rivela l’«arredamento» e in questo, a sua volta, il «singolo» mezzo. Prima del singolo mezzo, è già sempre scoperta una totalità di mezzi. Il modo in cui un mezzo si rivela come tale non è la contemplazione teoretica, ma quella «visione ambientale preveggente» – così la chiama Heidegger – che si manifesta nell’uso: la visione ambientale preveggente è un modo di vedere gli oggetti che guida l’uso che ne facciamo. Un martello si rivela propriamente nel martellare, immerso nella totalità di rimandi. Il martello rimanda all’opera, rispetto alla quale l’agire con esso acquista senso. Ma rimanda anche ai materiali di cui è fatto, legno e ferro, che svelano così la natura come fonte di «mezzi». Il martello rimanda, inoltre, anche al suo utilizzatore, alla mano che lo impugna, così come al fruitore dell’opera per la quale viene utilizzato. L’opera a sua volta rimanda al mondo in cui vivono gli utilizzatori, alla natura come ambiente in cui le opere fungono, in rapporto alla quale o contro la quale svolgono la loro funzione. Questi rimandi hanno un ente cui in ultima analisi si riferiscono, cui la totalità si «aggancia»: l’Esserci stesso. Essi hanno un qualche senso «in vista» dell’Esserci (l’Esserci è «l’in-vista-di-cui», dice Heidegger). Questo non significa che tutto sia finalisticamente orientato verso l’Esserci: il concetto che Heidegger qui utilizza («appagatività», ciò in cui la catena dei rimandi si appaga, ha un termine) non indica un fine ultimo, in quanto i rapporti di rimando non sono fini; non sono posti da qualcuno, non sono posti isolatamente, non sono univoci (il fine di uno strumento è uno, i rimandi di un «mezzo» sono molteplici e variabili), sussistono anche dove non vi sia alcun uso possibile. La totalità di rimandi «termina» però in relazione all’Esserci, in quanto esso non è un ente che abbia il modo di essere dell’utilizzabile intramondano, non è «mezzo», ma appunto «esserenel-mondo», «in vista di cui» vanno intesi i rimandi. La cosa non è un ente che abbia un suo fine (come nella metafisica aristotelica), e neppure una cosa «neutrale» che secondariamente viene inserita in una prospettiva finale (come nella concezione meccanicistica moderna), ma è in quanto «mezzo» inserita in una totalità di rimandi che assume senso in relazione a un «progetto» dell’Esserci, cioè alla selezione delle possibilità aperte all’Esserci. Il contesto di rimandi in cui un mezzo è inserito non aggiunge «colore» a un ente semplicemente presente: il modo di essere come mezzo – che Heidegger chiama «utilizzabilità» – è proprio dell’ente come è in sé, non un’aggiunta successiva. L’ente intramondano ha la natura del rimando, di qualcosa che rimanda ad altro e infine a una totalità. È in questa totalità che si manifesta la natura del «mondo». Il mondo è una totalità di rimandi, dove il concetto di «rimando» è visto come più originario, più basilare del concetto di «segno»: un segno è qualcosa che è esplicitamente as-

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sunto per rinviare ad altro, ma questo è possibile solo sulla base del fatto che gli enti stessi sono strutturati in un insieme di rimandi. Dunque, gli enti che l’Esserci incontra nel mondo (gli enti intramondani) sono mezzi che rimandano ad altri mezzi e, in ultima analisi, al mondo, ossia alla totalità. Essi non hanno un fine in se stessi e non sono mezzi per un fine ultimo: l’Esserci non è il fine per raggiungere il quale sono mezzi, ma è ciò in relazione a cui la totalità di mezzi che rimandano ad altri mezzi assume un senso. L’ente intramondano e l’Esserci

Mondo = Totalità di rimandi

Un rimando è ciò che riferisce un mezzo ad altri mezzi e alla totalità di mezzi

Ente intramondano = mezzo

– È ciò che l’Esserci incontra nel mondo – Non ha un fine proprio – Acquista senso in relazione al mondo e a un progetto dell’Esserci («in vista di cui») che non ha più il carattere di rimando – Non è un mezzo per un fine ultimo – Non è in primo luogo oggetto di conoscenza, ma si rivela all’Esserci nell’uso

Mondità e significatività Un mondo ha un suo carattere (può essere mondo pubblico, mondo ‘proprio’, mondo-ambiente, mondo storico) e si può parlare legittimamente di mondi; tutti però presuppongono «il concetto ontologico esistenziale della mondità», ovvero «l’apriori della mondità in generale», una struttura che rende possibili i diversi mondi e ne spiega la natura comune. ➥ Percorso tematico, p. 677 A questa struttura Heidegger dà il nome di «significatività»: la totalità di rimandi si manifesta all’Esserci nel suo complesso come significatività. I rimandi che abbiamo visto caratterizzano l’ente nel mondo e la totalità di rimandi cui rinviano sono manifesti in un atteggiamento dell’Esserci che Heidegger chiama comprensione, che è il modo dell’uomo di accedere alla totalità significativa in cui le cose sono inserite. La comprensione, come si esprime Heidegger, «apre» questa totalità. Il rapporto a due soggetto-oggetto è ricompreso e immerso in questa familiarità originaria tra Esserci e mondo. A partire da contesti di senso in cui ci ritroviamo possiamo comprendere cose e attribuire poi singoli significati. Comprendiamo Bisogna notare che la «significatività» non va intesa sulla base dei significati lini significati a partire guistici, del linguaggio che l’uomo utilizza, ma piuttosto vale per Heidegger il dalla significatività contrario: la dimensione complessiva di rimandi in cui l’uomo comprende le cose e se stesso operando nel mondo è la condizione che rende possibile l’emergere di significati verbali. In una lezione tenuta a Marburgo poco prima della pubblicazione di Essere e temGrazie alla comprensione l’uomo ha accesso alla mondità

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po, nel 1925, Heidegger esprime questa relazione con chiarezza: il punto di partenza per l’analisi dei significati delle parole è l’essere-nel-mondo, perché essi scaturiscono dal rapporto tra l’Esserci e il mondo. Il linguaggio si forma, cioè, all’interno del contesto concreto in cui l’uomo vive, ed è solo comprendendo questo contesto (la totalità significativa di rimandi) che possiamo comprendere i singoli significati.

T15

La significatività precede il linguaggio M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, par. 23

I sensi derivano dalla struttura del mondo

➥ Sommario, p. 532

7 Le tre dimensioni dell’apertura

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Non è così, che vi sarebbero anzitutto suoni verbali e che poi col tempo questi suoni verrebbero dotati di significati, ma al contrario, il momento primario è l’essere nel mondo, cioè il comprendere prendentesi cura e l’essere in un contesto di significato; sulla base di questi significati ora soltanto scaturiscono dall’esserci stesso la realizzazione sonora, i suoni e la comunicazione sonora. Non sono suoni a ricevere significato, ma al contrario, i significati vengono espressi in suoni. […] Si tratta di vedere il nesso graduale tra suono verbale e significato, che i significati vanno compresi a partire dalla significatività, e questo vuol dire di nuovo soltanto a partire dall’essere-nel-mondo. Se si è visto questo, allora si è guadagnata metodologicamente una comprensione di grande portata per la teoria del significato, si è cioè in grado di mettere da parte le impostazioni distorte e consuete nell’analisi dei significati, quali sono consuete in parte anche nella fenomenologia, così da non porre la questione muovendo da un suono verbale: come può una parola aver significato, e come può una parola significare qualcosa? Questa domanda è «costruttiva», del tutto sradicata dal reperto fenomenico del linguaggio e del parlare. Si è così indicata la strada per superare, come Heidegger si proponeva, il problema dell’essere ideale dei sensi e dei significati, ricercandone la radice in una struttura ontologica originaria. Essi non scaturiscono da una sfera ideale e soggettiva, ma dalla significatività come struttura del mondo, che riguarda il modo di presentarsi delle cose stesse a un ente (l’Esserci) che le comprende. Emerge così un nesso inaspettato tra il discorso come possibilità di articolare significati e il mondo come orizzonte della significatività. Dunque, la totalità di rimandi che è il mondo acquista un senso in relazione all’Esserci, e l’Esserci (ossia quell’ente che è l’uomo) può accedere a questa totalità attraverso la comprensione. La comprensione è un atteggiamento diverso dalla contemplazione teoretica.

La comprensione e l’essere In che modo abbiamo accesso alla significatività, all’orizzonte di rimandi in cui ogni rapporto con gli enti nel mondo assume senso? Come si è visto, l’ambito in cui Heidegger impianta la comprensione nel senso più comune e letterale – il comprendere significati linguistici, il conoscere e parlare di cose – è ampio e radicale. Il manifestarsi in generale della significatività del mondo, il fatto che l’Esserci ha accesso ad essa, è indicato da Heidegger con il termine «apertura». L’apertura però si articola in tre dimensioni distinte, seppure tra loro originariamente collegate, non derivabili l’una dall’altra: «cooriginarie». Esse sono la «situazione emotiva», la «comprensione» e il «discorso».

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica L’apertura dell’Esserci al mondo

Significatività = Orizzonte di rimandi in cui i rapporti dell’Esserci con gli altri enti acquistano senso L’Esserci ha accesso alla significatività attraverso la comprensione

Il fatto che l’Esserci ha accesso alla significatività è l’apertura

Tre dimensioni dell’apertura

Situazione emotiva

Comprensione

Discorso

Il mondo svelato dalle emozioni Primo carattere dell’Esserci: l’«esser-gettato»

La situazione emotiva

Riguarda il mondo nella sua totalità

Non è un fatto psichico

Il rapporto col mondo non è un rapporto soltanto intellettuale e rappresentativo. Noi siamo anzitutto «consegnati» al mondo, ossia immersi in un essere di fatto. Il mondo che troviamo, noi stessi come ci ritroviamo a essere: tutto ciò è sentito come qualcosa di cui non disponiamo e che in certa misura non intendiamo. Non sappiamo l’origine di questo esser di fatto e le sue prospettive (il «donde» e il «verso-dove»), ne comprendiamo soltanto il darsi come un vincolo: avvertiamo il bruto, opaco essere in un corpo e in una situazione non scelta, che sfuggono al decidere e al conoscere. Siamo in un corpo, in una situazione, in un tempo e in un luogo e li assumiamo come fatti che non sono di per sé trasparenti, anche se costituiscono per noi delle possibilità e dunque offrono dei sensi possibili. Heidegger chiama questo carattere dell’essere dell’Esserci l’«esser-gettato». Il modo in cui questa dimensione ci è accessibile è la «situazione emotiva»: quello che normalmente indichiamo come umore o emozione, ma che per Heidegger non costituisce uno stato psicologico, bensì piuttosto una modalità fondamentale del rapporto col mondo, della «apertura». L’Esserci è sempre in una certa situazione emotiva, non si dà uno stato emotivo neutro: lo stesso stato più imperturbabile, la contemplazione propria della «teoria», ha una sua connotazione emotiva. La «situazione emotiva» non riguarda un certo rapporto con determinati enti nel mondo: in essa si manifesta la nostra relazione con il mondo nella sua totalità, con noi stessi, gli altri, le cose – una relazione che precede ogni determinato conoscere, ogni particolare volere. Nel prosieguo dell’indagine ontologica Heidegger indicherà una particolare situazione emotiva, quella dell’angoscia, come quella che ci consente di instaurare un rapporto con l’essere in quanto tale. La situazione emotiva contribuisce a determinare l’apertura al mondo: il rapporto con le cose o con le persone comprende in sé aspetti quali la loro minacciosità, resistenza, inutilità, qualità che si riferiscono a un nostro poter esser «affetti», colpiti da ciò che si incontra. Queste connotazioni non sono per Heidegger «uno stato interiore che si esteriorizzerebbe misteriosamente per colorire di sé cose e persone», dunque niente di psichico, ma un modo necessario del loro rivelarsi a noi. Pensare il mondo come un agglomerato di pure e indifferenti cose sarebbe di nuovo solo una costruzione teorica fuorviante. 503

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La situazione emotiva, dunque, non è una caratteristica psicologica dell’Esserci, ma una delle tre modalità dell’apertura, ossia del manifestarsi all’Esserci della significatività del mondo.

La comprensione come progetto Il rapporto con la significatività, l’accesso ad essa che si coniuga con l’apertura dell’«esser-gettato» proprio della situazione emotiva, è indicato da Heidegger con il termine «comprensione». Essa non va intesa nel senso di un tipo di conoscenza tra gli altri (era in uso allora la distinzione, ancora oggi talora fatta valere, tra la spiegazione come modo di conoscere proprio delle scienze della natura e la comprensione come modo di conoscere peculiare delle scienze umane), ma come una struttura originaria alla base di ogni altra forma specifica. Comprendere Come si è già visto, Heidegger non concepisce il comprendere come un attegcome avere a che fare giamento conoscitivo, come un sapere esplicito, ma come un avere a che fare con con le cose le cose, un orientarsi in esse agendo. La comprensione in questo senso non è il risultato di un processo conoscitivo, ma è ciò che lo precede e lo rende possibile. Così il mio comprendere un pezzo di gesso per la lavagna in quanto gesso non è etichettare una cosa con un concetto, ma averci a che fare nel modo appropriato nel suo contesto, con cui io fin dall’inizio – ossia preliminarmente, prima di «conoscere» o «riconoscere» un oggetto – ho familiarità. Comprendere non è conoscere

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Comprendere come apertura preliminare

M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, par. 12 a

Comprendere è muoversi tra varie possibilità

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L’in-quanto-che-cosa è dunque compreso sin dall’inizio e solo a partire da esso ciò che mi viene incontro, ciò con cui ho a che fare, diventa in quanto tale comprensibile. L’in-quanto-che-cosa a partire dal quale comprendo e che ho già sin dall’inizio, benché in maniera non tematica, in questo «aver sin dall’inizio» non è colto certo tematicamente; io vivo nella comprensione dello scrivere, dell’illuminare, dell’uscire e dell’entrare, ecc. Più esattamente, io sono – come esserci: parlando, camminando, comprendendo – un aver a che fare comprendente. Il mio essere nel mondo è nient’altro che questo muovermi già comprendente in questi modi di essere. Heidegger si richiama anche al senso consueto di intendersi di qualcosa, essere in grado di affrontarlo, essere capace di…, per evidenziare come della «comprensione» faccia parte un essenziale riferimento alla dimensione della possibilità. Comprendendo, l’uomo si orienta in una indeterminatezza che il mondo gli offre, la determina in un certo senso: la comprensione è un movimento che lascia cadere delle possibilità per definirne altre. Pensiamo a qualcuno che «se ne intende» di automobili: sa affrontare una certa situazione (per esempio un guasto), decidendo tra possibili cose da fare, sa scegliere l’automobile giusta, sa – tra tanti altri modi di agire possibili – cosa fare per guidarla nel modo appropriato in determinate condizioni ecc. Non ridotto a conoscere, il comprendere è muoversi tra possibilità, in una situazione determinata, realizzando anche possibilità che sono proprie, determinando con il proprio contesto anche se stessi. Secondo Heidegger è nella comprensione che si rivela la struttura propria dell’Esserci secondo la quale «l’Esserci non è una semplicepresenza che, in più, possiede il requisito di potere qualcosa, ma, al contrario, è prima di tutto un esser-possibile».

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Questo esser possibile si coniuga con la fatticità, l’esser-gettato che si manifesta nella situazione emotiva: la comprensione è un poter orientarsi che muove da un disorientamento, dall’essere smarrito in una situazione di fatto, opaca. Ma la situazione viene interpretata appunto in vista di possibilità, si traduce grazie alla comprensione in un «progetto»: non in un piano escogitato in modo consapevole, ma in una determinata selezione delle possibilità date che si proietta verso un certo stato futuro, e che definisce così ogni volta il senso complessivo dell’esserenel-mondo. Ogni volta che agiamo in qualche modo diamo un’«interpretazione» – in un senso simile a quello in cui un esecutore interpreta un brano musicale, scegliendo in un campo di possibilità date dalla partitura – del complesso di ciò che possiamo essere, nel nostro rapporto con gli altri e con il mondo intorno a noi. La comprensione rivela Decisivo per l’indagine ontologica heideggeriana è il fatto che nel progettarsi in la significatività relazione a possibilità – che per il suo carattere globale muove naturalmente daldell’essere l’orizzonte della significatività – si realizza la comprensione dell’essere. La comprensione è ciò che rivela – seppure in modo non esplicito e concettuale – la significatività, e questa, diceva Heidegger nelle lezioni del 1923, «non è un carattere della cosa, ma un carattere dell’essere». Nel 1925 aggiungeva: «la significatività è anzitutto un modo dell’esser-presente». Quella precomprensione dell’essere da cui muoveva «come un fatto» il percorso di indagine di Essere e tempo è ora concepita come il rapporto tra l’Esserci e il mondo visto come orizzonte di significatività. Il «Ci» dell’Esserci indica l’apertura dell’Esserci, dell’uomo, al contesto in cui si trova, indica cioè il fatto che l’Esserci ha accesso alla significatività del mondo. Per l’uomo essere nel mondo significa progettare e il progettare è fondato sulle possibilità che gli sono aperte e sulla comprensione di esse. Ecco perché la comprensione è un modo di essere fondamentale dell’uomo. Comprensione e progetto

T17

L’apertura del Ci nella comprensione è essa stessa una modalità del poter-essere dell’Esserci. Nel progettamento del suo essere nell’in-vista-di-cui e nel contemporaneo progettamento di sé nella significatività (mondo) è insita l’apertura dell’essere in generale. Il progettarsi in possibilità presuppone già la comprensione dell’essere. Nel progetto, l’essere è compreso ma non è elaborato in concetti ontologici. L’ente che ha il modo di esser essenziale della progettazione dell’essere-nel-mondo porta con sé la comprensione dell’essere come costitutiva del suo essere. Ciò che precedentemente abbiamo postulato in modo dogmatico riceve ora la sua legittimazione in base a quella costituzione d’essere per cui l’Esserci, in quanto comprensione, è il suo Ci.

Il senso non è l’oggetto della comprensione

Nell’ambito del discorso sulla comprensione Heidegger ritorna sul concetto di «senso», che ormai ha perso tutte le connotazioni che aveva nell’orizzonte husserliano e nei suoi primi lavori. Attribuiamo comunemente senso a ciò che è compreso; ma in realtà ciò che è compreso non è il senso, ma l’ente (o l’essere). «Senso» è per Heidegger «ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa»: più uno sfondo e una precondizione del comprendere che un suo oggetto. Cosa significa in questo quadro comprendere l’essere? In Heidegger gioca una sorta di trasformazione della conoscenza a priori: comprendere l’essere non è conoscere, e non è neanche l’«intendersi» quotidiano delle cose, l’avere a che fare con loro, ma prefigurare – delineare prima di ogni effettiva esperienza – per co-

La comprensione dell’essere M. Heidegger, Essere e tempo, par. 31

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sì dire lo «spazio» in cui qualcosa può essere in diverse forme incontrato. Comprendere l’ente significa porre davanti a sé (pro-gettare) un’«immagine» di quell’ente, la sua struttura, per instaurare un rapporto con esso.

T18

Comprendere l’essere

M. Heidegger, Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone

Comprendere l’essere significa: progettare anticipatamente la legalità e le strutture essenziali dell’ente. Divenire liberi per l’ente, vedere-nella-luce, significa compiere il progetto d’essere in cui viene pro-gettata e tenuta davanti una veduta (immagine) dell’ente, per rapportarsi, con lo sguardo rivolto ad essa, all’ente in quanto tale. Quando parliamo del fatto che qualcosa «è» non stiamo enunciando una sua proprietà, ma ci stiamo riferendo allo sfondo da cui emerge, che è uno sfondo di presenze e di assenze, di sensi colti e impliciti senza i quali nessun presentarsi a noi delle cose è possibile. Heidegger distingue, dunque, la comprensione dalla conoscenza. La comprensione è una delle dimensioni dell’apertura, ossia del fatto che l’Esserci ha accesso alla significatività del mondo. Attraverso la comprensione l’uomo si orienta nella situazione in cui si trova e sceglie tra le diverse possibilità che gli sono aperte: la comprensione si traduce in un progetto.

La comprensione

Comprensione = Rapporto tra l’Esserci e la significatività (orizzonte di rimandi in cui il rapporto tra Esserci ed enti assume un senso) Non è un atteggiamento conoscitivo dell’Esserci verso le cose, ma è ciò che lo rende possibile

Grazie alla comprensione ci orientiamo nel mondo: selezioniamo le possibilità che ci sono aperte

La comprensione si risolve in un progetto

Interpretazione e discorso La comprensione è l’apertura preliminare in cui si muove il nostro rapporto con le cose. Non è un atto di esplicita conoscenza, non è rivolto in modo «tematico» – cioè facendone consapevole oggetto di conoscenza – alle cose. Tuttavia la comprensione può svilupparsi e si sviluppa in atti in cui qualcosa è compreso esplicitamente. Questa elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione, in forza della quale qualcosa può essere compreso «in quanto qualcosa», ossia nella sua natura propria, è chiamato da Heidegger «interpretazione». Potremmo dire che l’interpretazione, come «articolazione del compreso», è un atteggiamento rivolto non più al mondo – come la comprensione – ma alle cose. L’asserzione Anche qui il termine non va inteso nel suo significato consueto: l’interpretazione presuppone non è il chiarire significati di un testo o di un discorso. Essa non deve neanche l’interpretazione tradursi in un’asserzione o in un discorso, ma al contrario l’asserzione tematica (nella quale qualcosa viene detto in quanto qualcosa: come quando dico «questo

L’interpretazione è articolazione del compreso

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è un martello») è possibile soltanto perché pre-esiste come esprimibile l’«inquanto», ossia una interpretazione non verbale di qualcosa nella sua natura (per esempio, possiamo asserire che un certo oggetto è un martello soltanto se comprendiamo di che cosa si tratta, se comprendiamo in modo pre-linguistico qual è la sua natura specifica). Come i significati linguistici non sono qualcosa di originario, ma di derivato dalla «significatività», l’asserzione «questo è un martello» – il giudizio categorico – non è il momento in cui si costituisce l’interpretazione di qualcosa in quanto qualcosa, ma presuppone tale interpretazione, che avviene in altre forme. L’interpretazione non si esprime necessariamente per mezzo delle parole.

T19

L’interpretazione e l’asserzione M. Heidegger, Essere e tempo, par. 33

Com’è da intendersi la derivazione dell’asserzione dall’interpretazione? Che cosa si è modificato in quest’ultima? Possiamo chiarire questa modificazione attraverso alcuni casi limite di asserzione che la logica assume come casi normali e come esempi fra i «più semplici» del fenomeno dell’asserzione. Ciò che la logica costituisce a tema nella proposizione enunciativa categorica, ad esempio «il martello è pesante», essa lo dà già sempre per compreso «logicamente» senza bisogno di analisi di sorta. Si dà come ovvio che il «senso» della proposizione stia nel fatto che la cosa-martello ha la qualità della pesantezza. Nella visione ambientale preveggente e prendente cura non c’è posto «innanzi tutto» per asserzioni di questo genere. La visione ambientale preveggente ha le sue forme specifiche di interpretazione, che, nel caso del «giudizio teoretico» summenzionato, possono esser formulate così: «Il martello è troppo pesante» o meglio ancora: «È troppo pesante», «un altro martello!». L’atto originario dell’interpretazione non consiste in una proposizione enunciativa teoretica, ma nel riporre o nel cambiare l’utilizzabile che risulta inadatto alla visione ambientale preveggente e prendente cura, «senza dir verbo». La mancanza di parole non significa però la mancanza di un’interpretazione. D’altronde, l’interpretazione espressa in termini di visione ambientale preveggente non è necessariamente un’asserzione nel senso definito.

L’asserzione dunque si fonda sull’interpretazione, che a sua volta si fonda sulla comprensione. In questo modo Heidegger sottrae ogni predominio alla logica come modello della comprensione dell’essere. Non è sulla base della proposizione enunciativa, del giudizio, che si possono comprendere l’essere e il suo senso, ma sulla base di un manifestarsi «significativo» delle cose più vasto e preliminare. Il discorso rende E tuttavia Heidegger individua un terzo «esistenziale» (una terza dimensione possibile il linguaggio dell’apertura dell’Esserci al mondo), accanto alla situazione emotiva e alla comprensione, che non è da esse derivato ma cooriginario, posto allo stesso livello. È il discorso, anche qui da intendere non nel senso letterale di insieme di cose dette, ma come dimensione che costituisce la condizione di possibilità del linguaggio. L’asserzione è derivata dall’interpretazione, che, abbiamo visto, può non essere linguistica; l’interpretazione, come «articolazione del compreso», presuppone non solo appunto la comprensione, ma anche il discorso, che Heidegger caratterizza come «l’articolazione della comprensibilità». In altri termini: la comprensione come sfondo implicito e non tematico di significatività (non linguistica: insieme di rimandi) prende anche la forma di un tutto di significati (in senso linguistico) che può suddividersi in significati molteplici.

Il rifiuto del predominio della logica

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Parte seconda Le filosofie del Novecento L’originarietà del linguaggio

➥ Sommario, p. 532

Se dunque comprendere non è un etichettare con parole, e la prima dimensione della comprensione è quella del mondo come insieme di rimandi, questo non significa che ci sia uno strato o una dimensione letteralmente prelinguistica, perché la presenza di significati linguistici (e con essa la possibilità di parlare: questo è il «discorso» nel senso di Heidegger) è per l’Esserci altrettanto originaria del suo orientarsi nel mondo come totalità di rimandi. Come vedremo, in una ulteriore fase del pensiero di Heidegger questa dimensione acquisterà un ruolo ancora più centrale. Dunque, l’interpretazione (ossia la condizione per poter fare asserzioni sulle cose) è fondata su due dimensioni dell’apertura dell’Esserci al mondo, cioè sulla comprensione – grazie alla quale l’Esserci si orienta nel mondo – e sul discorso – che rende possibile il linguaggio.

L’interpretazione

Asserzioni sulle cose

Derivano dall’interpretazione, che è l’articolazione di ciò che viene compreso

L’interpretazione è fondata su due dimensioni dell’apertura dell’Esserci al mondo

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Comprensione

Discorso

L’aver a che fare con le cose

Condizione di possibilità del linguaggio

Chi siamo e chi possiamo essere

L’analisi della struttura dell’essere-nel-mondo (che, lo si è detto, è la struttura più importante dell’Esserci) include ovviamente anche, accanto all’analisi ontologica del «mondo» e dell’«in» (la relazione col mondo, l’apertura, il «Ci» dell’Esserci), l’indagine dell’aspetto riguardante più direttamente l’ente che noi stessi siamo. Heidegger lo indica come il problema del «Chi». L’approccio preparatorio all’Esserci doveva seguire le linee guida del modo in cui esso si presenta «innanzitutto e per lo più», nella sua medietà quotidiana. Questa dimensione, che riguarda l’intero modo di essere dell’Esserci, si manifesta particolarmente in relazione al «Chi». L’Esserci Due sono gli aspetti che Heidegger mette soprattutto in rilievo nella questione cirnon può essere pensato ca «chi» siamo. 1) Il primo è che, come non è concepibile un soggetto senza monsenza gli altri do, non è mai nemmeno pensabile un io isolato senza gli altri. L’apertura agli altri è anzi qualcosa che contribuisce a formare la mondità, la significatività stessa. Il con-essere – come Heidegger chiama la presenza degli altri, costitutiva dell’Esserci stesso – è un aspetto così radicale che si può affermare che gli altri non sono quello che resta dopo che ho sottratto me stesso: sono, piuttosto, «quelli dai quali per lo più non ci si distingue». La condivisione del mondo è così forte da permeare ciò che noi siamo. Il problema del «Chi»

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica L’Esserci non è se stesso

Il «Si» e la quotidianità

Perdita del senso e chiusura delle possibilità

Il mondo regola le possibilità dell’Esserci: la «deiezione»

L’autenticità possibile

➥ Sommario, p. 532

Ne deriva un secondo aspetto: 2) l’Esserci per lo più non è se stesso: decisivo è «il dominio inavvertito degli altri che l’Esserci, in quanto con-essere, assume fin dall’inizio». Strutturalmente, ossia non per mancanza o decisione nostra, noi siamo anzitutto condizionati dal tessuto in cui siamo inseriti e questo caratterizza anzitutto chi siamo: «Il Chi non è questo o quello, non è se stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti. Il Chi è il neutro, è il Si». In altre parole, il «Chi» non è un individuo particolare, ma ciò che sono tutti. Il «Si» indica il modo di essere di ognuno di noi nella quotidianità, nella quale regna una determinazione e limitazione delle possibilità del tutto anonima. In questo modo di essere l’individuo non si distingue dagli altri; si tratta, cioè, di un modo di essere convenzionale e non autentico. Nonostante il tono moralizzante della descrizione del «Si», che la rende simile a una critica della cultura, per Heidegger questo fenomeno indica solo un modo di essere che è il punto di partenza per ognuno. In esso si aprono però due possibilità: quella di essere autenticamente o non autenticamente se stessi, a seconda che si riesca a uscirne o vi si rimanga imprigionati. Anche questo aspetto condiziona il manifestarsi del mondo: il complesso di rimandi della significatività è anzitutto articolato dal «Si», in modo consono ad esso e «nei confini imposti dalla medietà del Si». E condiziona gli altri caratteri dell’essere-nel-mondo: il discorso può diventare «chiacchiera», nel senso che il rapporto con ciò che il linguaggio può originariamente rivelare decade, si oscura, gli enunciati stessi già solo per il fatto di essere ripetuti perdono il loro senso. La situazione emotiva può essere «prescritta» dal predominio dello stato interpretativo pubblico, dal modo in cui è prefigurato lo stesso emergere delle emozioni. L’apertura al modo della comprensione si chiude in una «curiosità» dove la rincorsa alle conoscenze e il loro accumulo non permettono un vero accesso ai fenomeni, ma solo l’irrequietezza del voler sapere: ci si ferma all’apparenza delle cose anziché cercare di comprenderle. Il rapporto tra singoli è essenzialmente distorto dal crearsi di simulazioni, contraffazioni: una distorsione del comprendere che Heidegger chiama «equivoco». Questo movimento complessivo di irrigidimento e decadenza del senso, di chiusura delle possibilità offerte dal comprendere, di cristallizzazione del progettarsi che costituisce il tratto fondamentale dell’esistenza è chiamato da Heidegger lo «stato di deiezione» dell’Esserci: sono «il mondo di cui mi prendo cura, e le cose con cui ho a che fare, in ultima analisi, a decidere di me e del mio essere», a regolare le mie possibilità. Il superamento di questo stato è tanto un problema del singolo quanto una questione centrale per l’indagine ontologica ed essa deve operare un decisivo approfondimento. La questione dell’autenticità possibile dell’Esserci si unisce a quella della totalità e unitarietà delle strutture messe in luce dall’indagine ontologica. La dimensione dell’essere dell’Esserci che Heidegger chiama «con-essere» lo pone in relazione costitutiva con gli altri. Nella vita quotidiana essa prende la forma del «Si», una dimensione nella quale l’Esserci non è distinto dagli altri e non è autentico. Non si tratta, però, di un modo di essere definitivo, perché l’Esserci ha la possibilità di rimanere in questa condizione o di liberarsene e di essere autenticamente se stesso. 509

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9 Comprensione autentica dell’Esserci e filosofia

L’orizzonte del tempo Se l’Esserci è indagato per arrivare a porre il problema del senso dell’essere, ed è indagato come l’ente che, a differenza degli altri enti, possiede di fatto una precomprensione dell’essere, ai fini della ricerca filosofica è essenziale indicare come questa precomprensione, che abbiamo visto caratterizzata dal predominio della «medietà», possa tuttavia render possibile una comprensione autentica. Se infatti è possibile per il singolo una comprensione autentica, diventa possibile per il filosofo una comprensione concettuale appropriata. Problema esistenziale e problema teorico sono qui strettamente intrecciati (anche se, come si è detto, il problema dell’essere non è un problema specificamente filosofico). Nel momento in cui scrive Essere e tempo, Heidegger pensa di poter dare una risposta positiva a questo intreccio, ma il fallimento del progetto perseguito con quest’opera lo convincerà che la strada qui indicata non è sufficiente.

Angoscia, Cura e temporalità Per avanzare nell’analitica esistenziale è necessario cercare la «più ampia e più originale» delle possibilità di apertura dell’Esserci. Heidegger ritiene di individuarla anzitutto nell’angoscia. La dimensione esistenziale dominata dal «Si» è secondo Heidegger caratterizzata da un movimento di fuga. Questa fuga non è una fuga di fronte a qualcosa che minacci concretamente l’Esserci, non è affatto una fuga di fronte a una cosa: è piuttosto una fuga nelle cose, determinata dalla situazione emotiva sotterraneamente presente dell’angoscia, che «pervade latentemente già da sempre» l’esistenza. La situazione emotiva dell’angoscia si rivolge all’essere-nel-mondo come tale: nel momento in cui si allontana dalle cose e dalla loro rete di rimandi, dall’utilizzabile, l’Esserci si trova di fronte a una sospensione della significatività: si trova confrontato con il proprio essere di fatto, con l’essere gettato in un mondo e insieme con l’esigenza di un senso complessivo, che non è però in grado di cogliere finché resta nel predominio del «Si», dell’inautenticità. Nella situazione emotiva dell’angoscia l’uomo avverte la labilità e la mera casualità della propria esistenza. L’angoscia rivela così uno spaesamento, una insensatezza, ma al contempo la possibilità per l’Esserci di esser libero per la propria autenticità, per la libertà di scegliere e possedere se stesso. L’angoscia è il primo Il ruolo cruciale dell’angoscia è dato dal fatto che essa offre un primo passo per passo verso la Cura una determinazione unitaria delle strutture dell’Esserci, comprese finora in isolamento: nell’angoscia si rivelano 1) un rapporto con il mondo nella sua totalità, nel quale si è gettati; 2) la possibilità di progettarsi che costituisce l’Esserci; 3) il suo esser per lo più in fuga nelle cose. Sono i tre «esistenziali»: fatticità (l’essere volta per volta in una situazione concreta, in un certo tempo), progetto (la scelta tra le possibilità che sono aperte all’Esserci), deiezione (il non essere autenticamente se stessi). Questi tre aspetti si mostrano ora in un movimento unitario e caratterizzato da un articolarsi temporale, che in seguito verrà ulteriormente in primo piano: l’Esserci è già in un mondo, ma è al contempo avanti a sé, si progetta verso il poter essere autenticamente se stesso, partendo da una sua dispersione nelle cose, in ciò

L’angoscia rivela insensatezza e possibilità di libertà

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

che è semplicemente presente. Sulla base di qualcosa di già dato, a partire dal perdersi nel presente, si progetta verso una futura autenticità. A questa struttura unitaria e temporale Heidegger dà ora il nome di Cura: la Cura è la struttura profonda dell’Esserci. Le manifestazioni concrete della Cura sono il prendersi cura (delle cose che usiamo) e l’aver cura (degli altri). La Cura

Cura = Struttura unitaria e temporale dell’Esserci Fatticità

Deiezione

Progetto

L’Esserci è già in un mondo

Nel presente l’Esserci è disperso nelle cose e non è autentico

L’Esserci si proietta in uno stato futuro, verso la possibilità di essere autentico

La decisione anticipatrice e l’essere-per-la-morte Il problema del senso complessivo dell’Esserci

La decisione rende possibile l’autenticità: l’«essere-per-la-morte»

Precorrere la propria morte ci permette di essere un tutto

Si è raggiunto così ciò che è più originario, la determinazione più radicale del nostro modo di essere? La questione che ora sorge è se quanto evidenziato possa essere ciò che governa tutto l’essere dell’Esserci, che garantisce dunque una comprensione adeguata del fenomeno in questione. Lo stesso carattere della Cura sembra contraddire questa tesi: in essa predomina la possibilità, l’aver da essere, il progetto; l’esistenza così caratterizzata sembra costituita più da una continua mancanza che da una struttura in grado di rendere comprensibile in modo adeguato il fenomeno. Dire che la Cura è la struttura più profonda dell’Esserci sembra cioè equivalere a dire ciò che l’Esserci non è (o, almeno, ciò che non è ancora) anziché quel che è. Un ente del genere – al quale manca sempre qualcosa per essere se stesso – sembra non avere un’«essenza» che si può cogliere. Qui il destino della ricerca filosofica si intreccia in modo singolare con l’attestazione di una possibile compiutezza dell’Esserci: se si riesce a mostrare che il singolo Esserci può fare un’esperienza compiuta del senso, autentica, allora la questione del senso complessivo – di ciò che determina la natura – di un Esserci in quanto tale può esser posta e risolta. Secondo Heidegger questa possibilità di essere se stesso, di fare un’esperienza autentica del proprio esistere da parte dell’Esserci si mostra in un atteggiamento che chiama «decisione» o «risolutezza»: la decisione progetta l’esistenza autentica dell’Esserci come un essere-per-la-morte. In questo atteggiamento noi ci riferiamo anzitutto alla morte come la nostra più propria possibilità e precorrendo tale possibilità ritorniamo alla nostra situazione. Il progetto diventa così non un differimento, un definirsi rispetto a obiettivi da realizzare, ma una rilettura complessiva delle possibilità. Essa ci mette in grado di liberarci dalle linee predefinite di comprensione, dettate dal «Si», e di percepire le nostre possibilità più autentiche. Il «precorrimento» o «anticipazione» della morte è un atteggiamento che oltrepassa la fuga e l’attesa, comprendendo la morte come la possibilità più radicale, che pur presentandosi come ciò che annulla ogni possibilità, in realtà è in grado 511

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Priorità dell’interpretazione ontologica sulla scelta esistenziale

di manifestare le possibilità autentiche (permettendo di comprenderle, dice Heidegger, «come finite»: determinate, non illimitate, ma reali). Assumendo la finitezza che ci costituisce, ci si libera dalla dispersione in possibilità che si presentano casualmente, e si possono cogliere le possibilità effettive, comprendendole e scegliendole; si dissolve ogni solidificazione, ogni irrigidimento in limitati ambiti di scelta, in progetti senza fondamento, che di fronte alla possibilità della morte perdono ogni senso: possiamo aprirci a un progetto davvero complessivo, liberandoci da esperienze inautentiche del linguaggio, da una comprensione perduta nelle cose, da un rapporto con gli altri condizionato dall’impersonalità di regole anonime, non fatte proprie. È la possibilità di essere un tutto di un ente altrimenti disperso e incompiuto che in questo modo viene alla luce. Le analisi che Heidegger collega a questa tematica sono molte, a cominciare da quella della «coscienza», intesa come un modo del discorso, una «chiamata» che proviene dalla stessa struttura profonda dell’Esserci, e che avviene nel silenzio senza parole, ma ci richiama al nostro poter essere noi stessi; la voce della coscienza si rivolge a noi in quanto enti dispersi nelle cose e ci richiama a ciò che siamo autenticamente. Sono le tematiche più vicine a una interpretazione dell’esistenza umana e hanno caratterizzato le letture del pensiero di Heidegger che lo inscrivono nell’ambito del cosiddetto «esistenzialismo» (vedi Unità 13, p. 544 s.). Heidegger riconosce il peculiare e quasi vertiginoso intreccio tra problematica filosofica e problemi che investono le scelte del singolo: per esempio, il fatto che l’interpretazione ontologica sembra prospettare anche una certa determinata visione della vita autentica («Alla base dell’interpretazione ontologica dell’esistenza dell’Esserci che abbiamo dato, ci sarà forse una particolare concezione ontica dell’esistenza autentica, un ideale concreto dell’Esserci? Appunto»). E tuttavia tiene fermo il prevalente intento ontologico delle sue pagine: è solo indicando che una comprensione autentica dell’esser-nel-mondo è possibile al singolo che si può garantire che la ricerca filosofica possa poi manifestarla. Il problema filosofico del senso complessivo dell’esistenza (ossia del modo di essere dell’Esserci) può essere risolto soltanto per mezzo di un’indagine ontologica che metta in luce la struttura dell’Esserci e mostri come l’Esserci possa liberarsi dalla condizione di inautenticità e di dispersione nelle cose in cui si trova ed essere un ente compiuto, un tutto. Questa possibilità è data dalla decisione: con essa l’Esserci anticipa la possibilità estrema che gli è aperta, ossia la possibilità della propria morte, e può così percepire le possibilità, non illimitate ma reali, che ha di fronte a sé. Attraverso la decisione l’Esserci può così essere autenticamente se stesso.

Temporalità come senso Rapporto tra Esserci e tempo vissuto

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L’Esserci può essere e comprendere se stesso rapportandosi a un tempo finito, a una provenienza con la quale va instaurato un rapporto positivo, a una situazione presente di cui vanno colte le possibilità. Il suo modo di essere è entrare in rapporto con il tempo inteso non come un lineare e infinito e indifferente susseguirsi di istanti, ma come un tempo vissuto in cui le tre «dimensioni» (passato, presente e futuro) si compenetrano e rimandano l’una all’altra in un movimento complessivo dove domina l’avvenire, invece che (come tradizionalmente avveniva secondo Heidegger nel pensiero filosofico) il presente, concepito per di più sulla scorta della semplice presenza degli oggetti.

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

Questo tempo originario è nascosto, occultato dal modo consueto di concepirlo, che prende a modello il tempo proprio degli oggetti (cioè degli enti diversi dall’Esserci, il modo di essere dei quali non è l’esistenza, ma la semplice presenza).

T20

Difficoltà col tempo

M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, par. 37

Compenetrazione tra passato, presente e futuro

Il primato dell’avvenire

La temporalità è ciò che rende comprensibile la Cura

T21

La temporalità e la Cura M. Heidegger, Essere e tempo, par. 65

La difficoltà nell’afferrare il tempo, però, è legata alla peculiare temporalità del tempo stesso, al fatto che innanzi tutto e per lo più il tempo si nasconde ed è conosciuto solo in quel che esso è impropriamente, e come ciò che è impropriamente. Il tempo, nello sguardo sul mondo, viene scoperto come ciò in cui si svolgono tutti gli eventi. Il tempo così concepito – il tempo del mondo – in questo modo guida ora, ammesso che venga fatto il tentativo di comprendere il tempo in maniera più originaria, l’ulteriore esplicazione del tempo. Dunque, il tempo o non viene visto affatto o lo si vede solo come modo di quel che è semplicemente-presente, del mondo o della natura. Concepite non come stati, momenti indifferenti di un tempo vuoto, ma come articolazioni di un tempo «pieno», dotato di senso, quale si manifesta a chi vive in esso in relazione a un mondo, e in particolare in quella possibilità data dalla «decisione anticipatrice» (l’atteggiamento che consiste nel prefigurarsi la propria morte), le dimensioni del tempo assumono un carattere del tutto diverso e si compenetrano l’una nell’altra. Passato e futuro non sono più, come avviene se li si commisura con l’«adesso», inteso come unico essere effettivo, due forme di non-essere. Anzi: ciò che è stato (dunque non il «passato» come scatola vuota) acquista senso in relazione al «progetto» che lo comprende e in forza del rapporto reciproco di esser-stato e avvenire si instaura un rapporto determinato col presente. Se leggiamo nel passato e nella situazione che ci è data determinate possibilità di azione, possiamo operare in un certo modo nel presente, alla luce di quelle possibilità che orientano, danno un particolare senso al nostro agire. Rispetto al modo di intendere il tempo proprio della metafisica, che si basava sul presente e sulla semplice presenza delle cose, nella concezione heideggeriana a prevalere è l’avvenire e con esso la dimensione di possibilità che lo caratterizza, che acquista un primato sulla realtà. La temporalità è colta anche qui non in relazione a una «teoria», alla contemplazione di cose, ma in connessione con un vivere, un essere-nel-mondo all’interno del quale la teoria è solo un atteggiamento tra tanti. Un tempo così inteso è ciò che costituisce il «senso», la condizione di comprensione della Cura, della struttura unitaria dell’Esserci. Heidegger indica con «temporalità» questa dimensione, distinguendola dal tempo come viene per lo più concepito, che costituisce non una visione «errata», ma derivata rispetto a quella autentica che le sta a fondamento. Nell’anticipare la propria morte l’uomo ad-viene a se stesso, precorre la possibilità estrema tra tutte quelle che gli sono aperte, possibilità che ha sempre avuto e che, dunque, non riguarda solo il futuro, ma anche il passato; in tal modo può, per così dire, riappropriarsi di sé, ritornare alla situazione presente cogliendo la possibilità di essere autenticamente se stesso. Ad-veniente rivenendo su se stessa, la decisione, presentando, si porta nella situazione. L’esser-stato scaturisce dall’avvenire in modo che l’avvenire che è stato (o meglio essente-stato) lascia scaturire il presente da sé. Questo fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante lo chiamiamo temporalità. So513

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

lo in quanto determinato dalla temporalità, l’Esserci rende possibile a se stesso l’autentico poter-essere-un-tutto che risultò proprio della decisione anticipatrice. La temporalità si rivela come il senso della Cura autentica. Due modi diversi di concepire il tempo

Tempo Metafisica tradizionale

Heidegger

Il tempo è lineare, è una successione di istanti

Il tempo non è lineare: è compenetrazione di passato, presente e futuro

Predomina la dimensione del presente

Predomina la dimensione del futuro

È il tempo del mondo e della natura

È temporalità, il tempo vissuto dall’uomo La temporalità è la condizione di comprensione della Cura

Dalla temporalità alla storicità

Storicità autentica ed eredità del passato

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La temporalità, dunque, è il tempo vissuto dall’uomo, una compenetrazione tra passato, presente e futuro nella quale domina la dimensione del futuro e, dunque, delle possibilità aperte all’Esserci. La temporalità è il senso della Cura, ossia ciò che rende comprensibile la struttura unitaria e temporale dell’Esserci; le varie strutture dell’Esserci rimandano, infatti, ad altrettante dimensioni del tempo: la fatticità (l’«esser-gettato») lega l’Esserci al passato (l’Esserci è già nel mondo), la deiezione lo radica nel presente, in cui non è autenticamente se stesso, e il progetto lo proietta verso il futuro e verso l’essere autenticamente se stesso. Se il tempo è il senso dell’Esserci – e «senso» è «ciò in cui la comprensibilità di qualcosa si mantiene senza venire alla luce esplicitamente e tematicamente», una condizione di comprensione – l’aver messo in rilievo questo senso obbliga a ripetere la comprensione sulla sua base. Sullo sfondo del senso temporale dell’Esserci le strutture già comprese possono essere intese in modo più profondo. Heidegger svolge questa «ripetizione» rileggendo le strutture già evidenziate – comprensione, situazione emotiva, discorso, deiezione – alla luce della loro intrinseca temporalità. In questa rilettura la temporalità si apre infine a una dimensione ulteriore, quella della storicità dell’Esserci. «Storico» non è qualcosa perché appartiene al passato – in che senso qualcosa che è ora può appartenere al passato, per esempio un mobile? –, ma perché (come le cosiddette «antichità») apparteneva a un mondo che era proprio dell’Esserci. Ma questo non significa che l’uomo è soggetto della storia come un insieme di eventi in cui egli è il protagonista. La storicità non è che un’elaborazione più concreta della temporalità, dunque un orizzonte al cui interno ogni comprensione di sé e del mondo è possibile. Anche la storicità ha una sua forma autentica: quella che si apre nella temporalità autentica della decisione anticipatrice, e fa sì che l’Esserci assuma come scelta una possibilità ereditata (che cioè riprenda in modo consapevole e deliberato una possibilità che ha avuto in passato), e assuma come destino quella possibilità di agire che gli si manifesta quando si sottrae alla dispersione. La storicità autenti-

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ca, dunque, è l’assunzione dell’eredità del passato, la ripresa deliberata e consapevole (la «ripetizione») delle possibilità tramandate dal passato. Il destino In altri termini, l’Esserci è in grado nella storicità autentica di cogliere il suo compito storico e il compito storico di una comunità. L’arco della vita individuale si apre sia verso una temporalità più vasta, che abbraccia un tempo che oltrepassa la vita del singolo, sia verso delle possibilità di azione più ampie, che vanno oltre le finalità che possono essere colte da un individuo. Destino e destino comune indicano questi modi di cogliere la storicità autentica dell’Esserci nella dimensione individuale e collettiva. Dire che l’Esserci ha un destino non equivale a dire che è esposto agli eventi; solo chi assume l’atteggiamento che Heidegger chiama «decisione» ha un destino, ma anche chi non lo assume viene colpito da eventi negativi o viene a trovarsi in situazioni vantaggiose. Anticipando la propria morte, ossia la possibilità del nulla, l’Esserci acquista il senso della propria finitudine e lascia cadere le infinite e illusorie possibilità che gli si offrono, per trovarsi invece di fronte alla possibilità di essere autenticamente se stesso. Ma questa possibilità si realizza propriamente all’interno di un «destino comune», che non è la semplice somma dei destini dei singoli individui.

T22

Storicità, destino, destino-comune M. Heidegger, Essere e tempo, par. 74

Soltanto l’anticipazione della morte scaccia ogni possibilità casuale e «provvisoria». Solo l’essere libero per la morte offre all’Esserci il proprio fine puro e semplice, e installa l’esistenza nella sua finitudine. La finitudine, una volta afferrata, sottrae l’esistenza alla molteplicità infinita delle possibilità che si offrono immediatamente (i comodi, le frivolezze e le superficialità) e porta l’Esserci in cospetto della semplicità del suo destino. Con questo termine designiamo l’accadere originario dell’Esserci quale ha luogo nella decisione autentica e in cui l’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta. L’Esserci è esposto ai colpi del destino solo perché, nel fondo del suo essere, è destino nel senso suddetto. Carico di destino, esistente nella decisione autotramandantesi, l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, è aperto al «venir incontro» delle circostanze «felici» e delle crudeltà del caso. Il destino non nasce dallo scontro delle circostanze e dei fatti. Anche l’indeciso è colpito da essi e talvolta più di colui che ha scelto; tuttavia egli non può «avere» un destino. Se l’Esserci, anticipando la morte, la erige a padrona di sé, allora, libero per essa, si comprende nella ultrapotenza della sua libertà finita e in quest’ultima, che «consiste» sempre soltanto nell’aver-scelto la scelta, può assumere su di sé l’impotenza dell’abbandono a se stesso e venire in chiaro delle circostanze della situazione aperta. Ma se l’Esserci, carico di destino, in quanto esserenel-mondo, esiste sempre e per essenza come con-essere con gli altri, il suo accadere è un con-accadere che si costituisce come destino-comune. Con questo termine intendiamo l’accadere della comunità, del popolo. Il destino-comune non è la somma dei singoli destini, allo stesso modo in cui l’essere-assieme non può essere concepito come una semplice somma di singoli soggetti. Nell’essere-assieme in un medesimo mondo e nella decisione per determinate possibilità, i destini sono già segnati anticipatamente. Solo nella comunicazione e nella lotta, la forza del destino-comune si rende libera. Il destino che l’Esserci ha in comune con e nella sua «generazione» esprime l’accadere pieno e autentico dell’Esserci. 515

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Le pagine in cui Heidegger affronta la storicità dell’Esserci in relazione al destino-comune di un popolo sono tra le meno asettiche di Essere e tempo. L’intreccio irrisolto tra analisi ontologica e peculiare esperienza individuale può suonare qui inquietante, se si pensa a come Heidegger intenderà concretamente, pochi anni dopo, con la sua adesione al nazismo, il destino della comunità costituita dal popolo tedesco. Il peso dell’esperienza La concreta e fallimentare esperienza storica che Heidegger poi attraverserà, instorica sieme al suo popolo, contribuirà a cambiare la sua concezione di questi termini. Seppure inteso ancora in un senso non usuale, «ontologico», il destino sarà qualcosa che l’Esserci non «ha», ma che piuttosto è proprio dell’essere stesso. Da quanto si è detto fin qui è emerso che il tempo è il senso dell’Esserci, ossia la condizione dell’essere dell’Esserci e la condizione per comprendere l’Esserci. Il tempo di cui parla Heidegger, ovvero la temporalità, non è il tempo lineare della natura e ha come dimensione propria la storicità. Come c’è un modo di essere autenticamente se stessi, contrapposto al modo non autentico di esserlo, c’è una storicità autentica; essa è l’orizzonte entro il quale l’Esserci può individuare il ➥ Sommario, p. 532 proprio compito storico sia come individuo, sia come collettività. Mutamento nella concezione heideggeriana del destino

10 Due parti non pubblicate di Essere e tempo

La svolta di Heidegger e il problema del linguaggio

Modificazioni stilistiche

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Il progetto incompiuto e la «svolta» Essere e tempo – la parte compiuta e pubblicata – si chiude con l’indicazione della temporalità come costituzione ontologica fondamentale dell’Esserci, sulla cui base andrebbe interpretata anche la comprensione dell’essere che gli è propria. E Heidegger conclude con le domande: «C’è una via che conduca dal tempo originario al senso dell’essere? Il tempo stesso si rivela forse come l’orizzonte dell’essere?». A «Tempo ed essere» doveva essere dedicata la terza sezione della prima parte dell’opera, mentre la seconda parte doveva riguardare la «distruzione della storia dell’ontologia». Quest’ultima era intesa, sul presupposto della storicità dell’Esserci, e dunque del fatto che ogni comprensione muove da una tradizione in cui si inserisce, come una reinterpretazione volta a rendere «nuovamente fluida una tradizione sclerotizzata» identificando nel loro senso proprio e mettendo in questione i concetti da essa elaborati. Né la sezione su «Tempo ed essere» né la seconda parte – su Kant, Cartesio, Aristotele – furono mai pubblicate, anche se Heidegger affrontò in lezioni universitarie di quegli anni i temi della «distruzione della storia dell’ontologia» e indicò nel corso Problemi fondamentali della fenomenologia, una trattazione che si muoveva nell’ambito dei problemi indicati dal titolo «Tempo ed essere». Heidegger stesso diede nel 1946 una interpretazione della mancata pubblicazione di «Tempo ed essere»: «La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica». Il problema del linguaggio, e del linguaggio della metafisica, verrà in effetti in primo piano nel percorso di pensiero successivo di Heidegger, che sicuramente subisce una trasformazione, a proposito della quale si è parlato, riprendendo un termine che Heidegger usa anche in un senso più pregnante, di «svolta». Di questa trasformazione sono state date più spiegazioni e più interpretazioni. Se, quando e in che senso vi sia stata una effettiva svolta è uno dei problemi più delica-

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

Nuovi contenuti Storicità dell’essere

Oblio dell’essere

Esperienza dell’essere attraverso il linguaggio

Hölderlin

➥ Sommario, p. 532

La svolta di Heidegger dopo Essere e tempo

ti dell’interpretazione heideggeriana, che le stesse parole di Heidegger sul tema non contribuiscono affatto a chiarire. Ma senz’altro vi è una trasformazione che si caratterizza anche attraverso una modificazione stilistica: Heidegger si esprime non più in trattazioni sistematiche, ma in saggi e conferenze, molto spesso dedicate all’interpretazione di filosofi o poeti; il linguaggio si fa, se possibile, più complesso, il percorso meno argomentativo e più evocativo, suggestivo, spesso caratterizzato da uno scavo nelle parole, con l’uso di etimologie e operazioni ardite sui vocaboli stessi. Dal punto di vista dei contenuti, l’accento si sposta su alcuni temi non in evidenza in Essere e tempo. 1) In primo luogo viene messa in rilievo la storicità non più dell’Esserci solo, ma dell’essere stesso (che è ontologicamente distinto da qualunque ente, incluso l’Esserci): la storia della metafisica come storia dell’essere, nella quale si svolgono diverse «aperture», «epoche», nelle quali l’ente viene diversamente esperito. 2) Comprendere questa storicità significa cercare di cogliere il modo in cui l’essere è arrivato a manifestarsi nell’epoca presente, un modo che Heidegger vedrà sempre più distintamente come caratterizzato dal nichilismo (dalla perdita dei valori tradizionali) e da un’esperienza dell’ente condizionata dalla tecnica: due aspetti che convergono nell’idea di un «oblio dell’essere» come tratto distintivo, che viene visto però non come un errore umano, ma come un modo peculiare di manifestarsi dell’essere stesso. 3) Le aperture storiche dell’essere vengono ricondotte sempre più decisamente alla dimensione del linguaggio e in particolare a quell’operare linguistico che è in grado di «istituire» un’esperienza dell’essere, la poesia. Attraverso il linguaggio l’uomo può incontrare e fare esperienza dell’essere di altri enti. Un poeta in particolare, Hölderlin, diventa figura esemplare ma soprattutto l’interprete di una esperienza dell’essere che è per Heidegger ancora la nostra. In dialogo con questo poeta Heidegger cerca di fare i conti con quelle che in una sua lettera a Jaspers chiama «due spine», «il confronto con la fede di provenienza e il fallimento del rettorato». Possiamo dire: l’esperienza della «morte di Dio» e del nichilismo e quella della crisi della convinzione di poter agire concretamente nella storia.

Essere e tempo

Stile più argomentativo, trattazione sistematica degli argomenti

Il problema dell’essere viene affrontato a partire dall’analisi dell’esistenza (analitica ontologica dell’Esserci)

svolta

Dopo Essere e tempo

Stile evocativo, trattazione non sistematica degli argomenti

Il problema dell’essere viene affrontato concentrandosi sull’essere: – storicità dell’essere – oblio dell’essere • nichilismo • dominio della tecnica – esperienza dell’essere attraverso la poesia

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Poesia, storia, verità Due tratti importanti del pensiero di Heidegger dopo Essere e tempo sono certamente il venire prepotentemente in primo piano del problema del linguaggio e la riformulazione in senso storico-epocale del problema del senso dell’essere, che è visto come legato a una sua storia che occorre ripercorrere e comprendere.

Il linguaggio e la poesia Il mondo si forma attraverso il linguaggio ➥ Percorso tematico, p. 677

T23

Linguaggio e storia

M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia

In una conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia del 1936 troviamo questi due temi connessi strettamente: è attraverso il linguaggio (che prima scaturiva dalla «significatività», la struttura che rende possibili i diversi mondi, tra cui quello storico) che si istituisce un mondo storico. E «mondo» ora non è solo condizione di senso, ma anche del suo contrario, del sottrarsi del senso (cui alludono termini come «arbitrio», «rumore», «decadenza», «confusione»). Il linguaggio non è solo uno strumento che l’uomo possiede accanto a molti altri, ma invece è proprio soltanto il linguaggio a concedere la possibilità di stare in mezzo all’apertura dell’ente. Solo dov’è linguaggio vi è mondo, cioè la cerchia sempre cangiante di decisione e opere, di azione e responsabilità, ma anche di arbitrio e rumore, decadenza e confusione. Solo dove vi è mondo che domina, vi è storia. Il linguaggio è un bene in senso più originario. Esso dà il benestare, cioè la garanzia che l’uomo possa essere in quanto storico.

Il mondo è, più decisamente che in Essere e tempo, mondo storico. Il linguaggio è, più esplicitamente che in Essere e tempo, luogo di apertura all’essere e di fondazione della storicità. Ma è soprattutto il rapporto tra storicità e linguaggio che sembra capovolgersi: se in Essere e tempo la temporalità tesseva insieme gli esistenziali, le strutture dell’Esserci, costituendo l’unità di situazione emotiva, comprensione, deiezione, e trovava la sua manifestazione nel discorso, ora sembra, al contrario, che la temporalità stessa provenga dal linguaggio, che non la manifesta ma la instaura. Mondo ed evento Il rivelarsi dei contesti di significati che costituiscono un mondo prende ora le forme di un evento: di qualcosa che accade, che ha una sua subitaneità, una sua gratuità; e si comincia a far parola ora degli ‘dèi’, di un istituire che ha il carattere non umano dell’incalcolabile, dell’inafferrabile, del sacro. Ma il rivelarsi del mondo ha le forme di un evento anche nel senso di un sopravvenire, di un aggiungersi, di un arrivare in qualche modo dall’esterno, di quello che Heidegger inizia a indicare con vocaboli come «donazione», «invio», «destino»: un appello a cui l’uomo deve ora rispondere, nel quale gioca un ruolo di rilievo un divino tanto più incombente in quanto indeterminato e sfuggente. La dimensione Hölderlin è per Heidegger il «poeta degli dèi fuggiti e del Dio che viene». Negli del sacro enigmatici Contributi alla filosofia, che Heidegger scrive in quegli anni (19361938), ma che non vorrà siano pubblicati prima della sua morte, si parla di «avvento degli dèi» e di un «ultimo Dio». Queste espressioni non vanno intese in un senso direttamente religioso, per esempio come profezie (l’ateismo metodologico del suo pensiero permane), ma come

Il linguaggio instaura la storicità

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l’indicazione della necessità di fare i conti con due dimensioni storiche: una in cui la presenza divina dominava e che costituisce il nostro passato («anche il fato della assenza di Dio è un modo in cui il mondo si modifica», si manifesta), senza la quale non possiamo però comprenderci nel presente, e una, in cui presente e avvenire si fondono, di apertura nei confronti della dimensione del sacro. Il presente non può né affermare né negare il sacro. Il legame di questa dimensione con la verità dell’essere è indicato così da Heidegger nella sua Lettera sull’«umanismo» (1946): «Solo partendo dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo partendo dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità». La poesia istituisce Il richiamo a Hölderlin serve a Heidegger anche per indicare una particolare il mondo esperienza del linguaggio, quella poetica, che è veramente in grado di dar luogo a un progetto d’essere, di aprire un mondo. Il linguaggio non è uno strumento, ma una dimensione in cui si apre un mondo. Heidegger arriva a scrivere: «Quando andiamo alla fontana, quando andiamo attraverso il bosco, noi attraversiamo già sempre la parola “fontana”, la parola “bosco”, anche se non pronunciamo queste parole e non pensiamo a nulla di linguistico». Se il linguaggio in genere è «il nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose», è la parola poetica a incarnare con particolare forza questa natura del linguaggio, perché è quella che, più che parlare di cose, evoca e istituisce un mondo.

T24

Linguaggio e poesia

M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia

Era risultato anzitutto: l’ambito operativo della poesia è il linguaggio. L’essenza della poesia deve dunque essere compresa a partire dall’essenza del linguaggio. Ma poi si è chiarito che la poesia è il nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose, non un dire qualsiasi, ma quello grazie al quale si mostra all’aperto tutto ciò che noi poi discutiamo e trattiamo nel linguaggio di tutti i giorni. Perciò la poesia non prende mai il linguaggio come un materiale già presente, ma è invece solo la poesia a rendere possibile il linguaggio. La poesia è il linguaggio originario di un popolo storico. È dunque viceversa l’essenza del linguaggio che va compresa a partire dall’essenza della poesia.

Un verso di Hölderlin che Heidegger esamina nella sua conferenza acquista su questo sfondo il suo senso: «ma ciò che resta lo fondano i poeti». La poesia non rivela più soltanto il «mondo» oltre le cose, ma essa è in grado di fondare un mondo storico – un mondo, potremmo dire, anche se Heidegger non si esprime qui in questo senso, «nuovo». Il dire poetico è in grado di cogliere nel linguaggio, inteso non come somma di cose dette ma come possibilità di senso, quanto in esso è in grado di istituire un’epoca storica. Il dire dei poeti è per Heidegger (ma qui ‘ripete’ quasi del tutto Hölderlin) un «afferrare i cenni degli dèi» e un interpretare la «voce del popolo». È in rapporto a due generi di possibilità: quelle trascendenti l’uomo e quelle depositate nella concreta ma inespressa tradizione umana. L’arte e la verità Non è dunque il poeta, come una sorta di vate-profeta, a creare dei mondi (non dobbiamo fraintendere Heidegger in questo senso), ma è il suo libero corrispondere a delle possibilità intrinseche, strutturali della linguisticità umana a far sì che ciò che più condiziona il senso dell’abitare umano sulla terra – i sensi e significati impliciti nelle cose – venga, da un lato, in luce e, dall’altro, acquisti forma ‘nuova’. Heidegger parla di un «porsi in opera della verità» che ha luogo nell’arte: l’arte non è una riproduzione o un’imitazione della verità; piuttosto, essa istituisce la

La poesia non rivela il mondo storico, ma lo fonda

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verità. Il porsi in opera della verità, però, ha luogo anche nella «azione che fonda uno stato», nell’«interrogare del pensatore», nel «sacrificio essenziale». Nel periodo successivo a Essere e tempo, dunque, Heidegger modifica notevolmente la propria concezione del rapporto tra la storicità e il linguaggio: il linguaggio non manifesta la storicità, ma la instaura. Il linguaggio, e in particolare la poesia, non è un mezzo per parlare delle cose, ma è ciò che istituisce l’essere di un mondo storico.

La verità e il suo nascondersi. La Terra La riflessione di Heidegger dopo Essere e tempo si caratterizza anche per un approfondimento del concetto di verità. In Essere e tempo la verità veniva vista, al di fuori di una concezione «logica», legata alla verità della proposizione, più radicalmente come l’aprirsi della dimensione al cui interno «soggetto» e «oggetto» potevano incontrarsi (in cui poteva aver luogo la verità nel senso più consueto di corrispondenza tra conoscere e cosa conosciuta), come la condizione di possibilità della concordanza. A partire da una conferenza del 1930 intitolata Dell’essenza della verità viene in primo piano la dimensione del «nascondimento». Nella verità il mondo La verità (in senso secondario, per esempio la veridicità di un’asserzione) che si manifesta l’uomo raggiunge è possibile in un certo rapporto con il manifestarsi di un mone si nasconde do (la verità in senso primario, originario). Questo rapporto – che Heidegger chiama il «lasciar-essere l’ente» – è legato alla comprensione come «progetto», alla dimensione del possibile, ha dunque a che fare in certo modo con la libertà umana, con il rendersi disponibile per il manifestarsi di un mondo. Il rapporto con la totalità di significati – che governa ogni «comportamento» dell’uomo verso l’ente, come il suo conoscerlo – non è mai, però, un disporre di essa, non è un determinarla, un renderla afferrabile interamente. La totalità che qui è in gioco non è oggettivabile, fissabile in concetti che la dominino. Nel momento in cui l’uomo determina l’ente, perde il rapporto con la totalità che ne è lo sfondo. In questo senso, alla verità appartiene intrinsecamente anche un movimento opposto al manifestarsi, il nascondimento. Allo svelarsi appartiene intrinsecamente una «velatezza»: nel momento in cui un ente, sia esso naturale o storico, si svela all’uomo, viene a velarsi la totalità di enti a cui quell’ente appartiene ed essa appare dunque inafferrabile, incomprensibile. La totalità non può essere compresa a partire dai singoli enti.

Due diverse concezioni della verità

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Verità e velatezza

M. Heidegger, Dell’essenza della verità

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Il lasciar-essere l’ente, che dispone in uno stato d’animo, penetra e precede ogni comportarsi che in esso sta aperto e si libra. Il comportarsi dell’uomo è pervaso nel suo stato d’animo dall’evidenza dell’ente nella sua totalità. Ma questa «totalità», nell’orizzonte dei calcoli e delle preoccupazioni quotidiane, appare come l’incalcolabile e l’inafferrabile. Essa non si lascia mai comprendere a partire dall’ente che di volta in volta è manifesto, appartenga esso alla natura o alla storia. Nonostante determini costantemente la disposizione di tutto, questa totalità rimane sempre l’indeterminato e l’indeterminabile, e coincide allora per lo più, di nuovo, con ciò che v’è di più corrente e meno pensato. Essa non è un niente, ma un velamento dell’ente nella sua totalità. Il lasciar-essere, proprio mentre nel singolo comportamento lascia essere l’ente in rapporto a cui si comporta, e così

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lo svela, proprio allora vela l’ente nella sua totalità. Il lasciar-essere è in sé contemporaneamente un velare. Nell’e-sistente libertà dell’esserci avviene il velamento dell’ente nella sua totalità, è la velatezza. La «Terra»

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Il tempio e la Terra

M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte

L’oscuro è ciò che rende possibile l’agire

La stessa dimensione di sensi impliciti che devono necessariamente restare tali è avvertita da Heidegger anche nell’esperienza esemplare dell’arte. In particolare in riferimento a forme d’arte non linguistiche, che come la poesia hanno la capacità di manifestare e istituire un «mondo», Heidegger enuclea una dimensione corrispondente a quella del «mondo»: la chiama «Terra». Essa riguarda proprio ciò che resta necessariamente implicito, non dischiuso, ma ciononostante costituisce una dimensione di senso positiva e indispensabile per il manifestarsi dell’ente. Essa riguarda essenzialmente ciò che di solito chiamiamo «materia», o «natura», ma che Heidegger vuole intendere in riferimento alla concezione greca della Phy`sis (secondo la quale «natura» è il principio che genera le cose che nascono, crescono e muoiono). Nell’esempio di un tempio greco, che «apre un mondo», Heidegger sottolinea come esso «lo riconduce, al contempo, alla Terra». La materia del tempio è in una relazione profonda di corrispondenza con gli elementi naturali. La Terra non va intesa in senso scientifico, come materia o come pianeta, ma come ciò che protegge e nasconde le cose; Heidegger la definisce «permanente riserva di significati» che non possono mai essere esplicitati in modo definitivo. Essa è il fondamento del mondo e attraverso il mondo può mostrarsi. Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l’opera tien testa alla bufera che la investe, rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono. Questo venir fuori e questo sorgere, come tali e nel loro insieme, è ciò che i Greci chiamarono originariamente Phy`sis. Essa illumina ad un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo la Terra. Da ciò che intendiamo con questo termine occorre tenere ben lontano ogni idea di massa materiale stratificata o di pianeta in senso astronomico. La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è-presente la Terra come la nascondente-proteggente. Così una dimensione materiale naturale come il colore sfugge a ogni comprensione: «Il colore splende e vuole solo splendere. Quando pretenderemo di scomporlo in un calcolo di vibrazioni ci sarà già sfuggito. Esso si manifesta solo se resta non svelato e non spiegato. La Terra destina al fallimento ogni indiscrezione calcolatrice». Con il concetto di Terra il senso del manifestare viene a essere ripensato e con esso anche ciò che si manifesterebbe, lo stesso orizzonte ontologico. L’opera rivela che nei contesti di senso impliciti che governano e regolano il nostro rapporto con le cose – mai semplice, mai isolato – è contenuto qualcosa di mai in nessun modo esplicitabile (neanche nel modo ‘simbolico’ dell’arte), che da qualunque esplicitazione o anche solo manifestazione sarebbe tradito, e che tuttavia 521

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

proprio nel suo insuperabile sottrarsi ‘agisce’ e regola il senso che assumono per noi le cose, assolve positivamente alla sua funzione di condizione di senso. Non tutti i «sensi» sono significati umani. Il sottrarsi, l’oscuro – non solo il non ‘conosciuto’, ma anche il non simbolicamente manifesto – non è dunque un limite, non è pura negatività, ma condizione positiva, che nell’intreccio conflittuale ma non contraddittorio con il «mondo» crea lo spazio per l’agire umano. Il mondo e la Terra Le due dimensioni della verità individuate da Heidegger – quella del manifecome immagini starsi e quella del «nascondimento» – vengono rappresentate attraverso le imdella verità magini del mondo e della Terra: il mondo è ciò in cui le cose si manifestano; la Terra racchiude i sensi delle cose che rimangono impliciti, nascosti. La Terra non ha, però, una funzione negativa; essa è infatti il fondamento del mondo, il terreno su cui esso si erge (proprio come l’edificio si erge sul suo basamento di roc➥ Sommario, p. 532 cia) ed è ciò che rende possibile il nostro rapporto con le cose. Il concetto di verità

Verità Posizione di Heidegger in Essere e tempo

Posizione di Heidegger dopo Essere e tempo

La verità è la condizione di possibilità dell’incontro tra il soggetto e gli oggetti

La verità è manifestazione di un ente e nascondimento della totalità a cui esso appartiene

Dimensione del manifestarsi = mondo

12 La prospettiva prevalente nel rapporto con l’ente

La tecnica annulla il progetto

La tecnica è distruzione dell’uomo

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Dimensione del nascondimento = Terra

La tecnica Heidegger sa bene però e dà progressivamente sempre maggiore importanza al fatto che il rapporto con le cose e con il loro sfondo di senso (che si manifesta e si vela insieme) nell’epoca contemporanea avviene nel predominio di una forma di esperienza in cui né il mondo né la Terra, né il rivelarsi né il positivo celarsi dei sensi nella loro totalità sono in primo piano, ma anzi sono radicalmente espulsi dalla prospettiva prevalente di rapporto con l’ente. Questa prospettiva che domina l’epoca contemporanea è identificata con la tecnica. Essa costituisce proprio «l’indiscrezione calcolatrice», un rapporto con l’ente che lo comprende solo in relazione alla sua possibilità di esser dominato nella conoscenza e nella manipolazione. Se l’essere si manifesta non in un puro «conoscere», ma anzitutto nell’aver a che fare con le cose, nella prassi, la tecnica rappresenta un modello di prassi in cui lo sfondo di indeterminatezza e libertà che caratterizza il rapporto con l’essere, il «progetto», è annullato: l’agire si è meccanizzato, è dominato dal risultato produttivo, dunque dalle cose. In quest’orizzonte l’apparente dominio dell’uomo, l’affermarsi della volontà umana diventa paradossalmente una distruzione dell’umano. All’apparenza la tecnica è lo

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strumento grazie al quale l’uomo trae dalla natura l’energia che è nascosta in essa. L’uomo è convinto di poter dare ordine al mondo e di poter migliorare la propria condizione attraverso la tecnica; in realtà, però, con essa non fa che rendere uniforme ogni cosa, la quale viene a essere concepita semplicemente come un prodotto umano. Il vero pericolo per l’uomo, però, non proviene dagli effetti che i prodotti della tecnica possono avere, bensì dalla stessa convinzione di poter mettere ordine nel mondo. E il tipo di conoscenza che si forma attraverso la tecnica – la conoscenza scientifica – impedisce all’uomo di comprendere l’essenza della tecnica stessa.

T27

La tecnica e il mondo

M. Heidegger, Perché i poeti?

Non è la bomba atomica, di cui tanto si parla, a costituire, in quanto ordigno di morte, il mortifero. Ciò che da tempo minaccia l’uomo di morte – e di una morte che concerne la sua stessa essenza – è l’incondizionatezza del puro volere, nel senso dell’autoimposizione deliberata e globale. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana. Ma la pace di questa pacificità è null’altro che l’agitazione ininterrotta della più sfrenata autoimposizione, orientata ormai su se stessa. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è la convinzione che la realizzazione della produzione assoluta possa aver luogo senza pericolo alcuno, purché restino in vigore anche altri interessi, ad esempio quelli della fede; come se questo rapporto essenziale in cui l’uomo si è contrapposto al tutto dell’ente in conseguenza del volere tecnico permettesse un soggiorno a sé stante in un luogo adiacente, tale da costituire qualcosa di più della fuga nel mondo delle illusioni (di cui fa parte anche la fuga verso gli Dei della Grecia). Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è la convinzione che la produzione tecnica metterà in ordine il mondo; mentre, al contrario, questo genere di ordine livella ogni ordo, cioè ogni rango, nella uniformità della produzione, dissolvendo così, sin dall’inizio, la possibile provenienza di ogni rango e di ogni riconoscimento dal fondamento dell’essere. Non è dunque il carattere totalitario del volere a costituire il pericolo originario, ma il volere stesso nella forma dell’autoimposizione all’interno di un mondo risolto in volontà. Il volere che vuole in base a questa volontà ha già deciso di sé come comando incondizionato. Con questa decisione esso si è rimesso alla organizzazione integrale. Ma è la tecnica a sbarrare prima di ogni altra cosa la comprensione della propria essenza. Difatti, man mano che prende piede, essa sviluppa in seno alle scienze un genere di sapere che è del tutto inidoneo alla comprensione dell’essenza della tecnica, e ancor più a risalire all’origine di questa essenza.

L’elemento tecnico che domina l’epoca contemporanea è dato dall’aderire dell’uomo alla possibilità di dominio che si scorge nella natura, e dall’organizzare il mondo in base a questa possibilità di dominio, che si estende alla cultura e all’uomo. La tecnica non è per Heidegger uno strumento, un aspetto della cultura umana, ma qualcosa che ha a che fare con la comprensione dell’essere propria della tradizione metafisica, che intende l’essere a partire dalle cose, da ciò che è semplicemente presente, e in questo modo fa scomparire, cadere nell’oblio la differenza tra enti ed essere. Ogni ente è ridotto La tecnica è solo l’espressione più evidente di una esperienza dell’essere che a oggetto nella sua forma moderna è diventata il ricondurre ogni ente a un soggetto che in per un soggetto forme diverse ne «dispone»: tutto è oggetto per un soggetto, comprese cose come i «valori», le «idee». Se tutto è oggetto per un soggetto, dell’essere non ne è più

La tecnica cancella la distinzione tra essere ed enti

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

La tecnica come destino

Compito della filosofia è meditare sull’essenza della tecnica

Il confronto tra tecnica e arte

Ambiguità della tecnica

Essenza ambigua della tecnica

L’oblio dell’essere da Platone a Nietzsche

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niente: il nichilismo – l’esperienza della mancanza di ogni senso – non è che il riflesso di questa radicale stortura metafisica. Essa però non è un semplice errore teoretico o qualcosa che stia in potere dell’umanità, bensì, secondo l’ultimo Heidegger, un «destino», un modo di manifestarsi dell’essere stesso. In esso il «velamento» diventa ancora più radicale, va al di là del nesso tra verità e velatezza, e diventa «oblio dell’essere». Il rapporto inautentico con le cose, la fuga nelle cose (lo stato di deiezione dell’Esserci) di cui Heidegger parlava in Essere e tempo, ha assunto ora una dimensione che sfugge al singolo Esserci, e anche alla comunità umana. La radicalità di questo evento è tale che lo stesso pensiero filosofico non può far altro che ridestare la sensibilità per la differenza tra essere ed ente e preparare una diversa epoca di cui non può pensare i contorni. Una meditazione sulla tecnica può essere resa possibile da un confronto con la creazione artistica. L’arte rappresenta un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica, dall’altro ne è radicalmente distinto: è anch’essa una forma del «produrre», e tuttavia nel fare artistico non predomina l’intento produttivo che ripete soltanto se stesso, il risolversi del fare nel risultato. Questo non significa per Heidegger contrapporre un modello «artistico» alla tecnica, ma solo indicare un ambito in cui l’interrogarsi sull’essenza della tecnica può diventare più profondo. La tecnica, sostiene Heidegger, ha un’«essenza ambigua»: da un lato getta «nel furioso movimento dell’impiegare, che impedisce ogni visione dell’evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l’essenza della verità» (la tecnica porta all’annullamento dell’essere perché riconduce ogni oggetto, ogni ente, a un soggetto, cioè all’uomo); dall’altro, secondo Heidegger essa può rendere possibile «ciò che salva», un’esperienza diversa dell’essere: la meditazione sull’essenza della tecnica conduce «l’uomo verso qualcosa che egli non potrebbe inventare né tanto meno produrre da se stesso; giacché un uomo che sia solo un uomo unicamente da se stesso è qualcosa che non esiste». Tecnica = Modello di prassi che riconduce ogni oggetto a un soggetto e riduce ogni oggetto alla sua impiegabilità

Aspetto negativo

Aspetto positivo

Elimina la differenza tra essere ed enti

Rende possibile per l’uomo una certa esperienza dell’essere

Porta all’oblio dell’essere

L’oblio dell’essere è un modo di manifestarsi dell’essere

Il tentativo di Heidegger di pensare l’essenza della tecnica è certamente in qualche modo una «ontologia dell’attualità», una diagnosi filosofica del mondo moderno, anche se Heidegger la inserisce in un disegno di ripensamento della storia dell’essere che fa risalire a Platone il primo velarsi dell’essenza della verità, la prima prefigurazione di un essere che viene ricompreso in un’ottica umana e

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

Il ruolo della filosofia nell’età della tecnica

Centralità dei problemi e libertà delle soluzioni

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La verità dell’essere

M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo»

in questo modo travisato. Heidegger vede poi nella moderna filosofia della soggettività a partire da Cartesio, con la riduzione dell’ente a rappresentazione di un soggetto (la incondizionata «oggettivazione» di tutto ciò che è), la preparazione del nichilismo di Nietzsche, che assorbe l’ente nella volontà di potenza. È una complessiva filosofia della storia (dell’essere) a venire così delineata, e ad essa Heidegger non ritiene si possa contrapporre né semplicemente una «decisione» né semplicemente una teoria adeguata. Lo stesso nichilismo come «oblio dell’essere» non può essere semplicemente superato, ma va mantenuta la consapevolezza di questo oblio. In una intervista rilasciata nel 1966, che Heidegger chiese fosse pubblicata solo dopo la sua morte, alla domanda se il filosofo potesse dare un aiuto a trovare strade alternative per il mondo moderno, rispose: «Non posso, perché i problemi sono così gravi che sarebbe contrario al senso di questo compito del pensiero presentarsi, per così dire, in pubblico a predicare e a distribuire censure morali. Forse si può osare la frase: al segreto della strapotenza planetaria dell’essenza impensata della tecnica corrisponde la provvisorietà e l’inapparenza del pensiero che tenta di pensare questo impensato». In altre parole, quel che la filosofia può fare di fronte al dominio della tecnica, che ha condotto all’oblio dell’essere, è continuare a porre il problema dell’essere e a indagare sulla natura della tecnica stessa. Questa distanza da un’efficacia immediata, questa «esitazione» caratterizza il pensiero di Heidegger da quando si è ritratto dal suo tentativo infelice di intervenire nella storia. Anche la semplice riuscita o il fallimento di una teoria sono visti da Heidegger in un orizzonte più vasto, dove non sono in primo piano i risultati filosofici, ma un modo d’interrogarsi e la profondità delle domande. Per un pensiero che ha avuto una straordinaria «efficacia» nell’influenzare la riflessione filosofica del Novecento, in direzioni che forse non sono quelle che Heidegger si sarebbe aspettato, il richiamo alla centralità dei problemi e alla libertà delle soluzioni può essere particolarmente significativo. Heidegger stesso lo propone nella sua Lettera sull’«umanismo». Si è ovunque dell’opinione che il tentativo compiuto in Essere e tempo sia finito in un vicolo cieco. Lasciamo questa opinione a se stessa. Il pensiero che in Essere e tempo ha tentato qualche passo, ancor oggi non è andato oltre «essere e tempo». Può darsi che nel frattempo sia entrato un po’ di più nella sua cosa. Tuttavia, finché la filosofia non fa che precludersi costantemente la possibilità di lasciarsi coinvolgere nella cosa del pensiero, cioè nella verità dell’essere, essa è assicurata contro il pericolo di infrangersi sulla durezza della sua cosa. Per questo c’è un abisso tra il «filosofare» sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga. Non sarebbe un male se mai un pensiero del genere riuscisse a un uomo. Gli sarebbe fatto l’unico dono che possa venire al pensiero da parte dell’essere. Ma è anche vero che non si raggiunge la cosa del pensiero mettendo in giro una serie di chiacchiere sulla «verità dell’essere» e sulla «storia dell’essere». Tutto sta unicamente nel fatto che la verità dell’essere giunga al linguaggio e che il pensiero pervenga a questo linguaggio. Forse allora il linguaggio richiederà, più che il precipitoso enunciare, il giusto silenzio. Ma tra noi, uomini d’oggi, chi vorrebbe avere la pretesa che i suoi tentativi di pensare si trovino come a casa propria sul sentiero del silenzio? Per lontano che vada, il nostro pensiero potrebbe forse rinviare alla verità dell’essere come a ciò che è da pensare. In tal modo essa sarebbe meglio sottratta al mero supporre e opinare, e sarebbe assegnata a quell’opera manuale, di525

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venuta rara, che è la scrittura. Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora. Se l’ambito della verità dell’essere sia un vicolo cieco oppure quella dimensione libera in cui la libertà serba la propria essenza, ognuno lo potrà giudicare dopo che egli stesso avrà tentato di procedere sulla via indicata o, ancor meglio, di tracciare una via migliore, cioè adeguata al problema.

L’ermeneutica di Gadamer

La vita e le opere Hans-Georg Gadamer nacque a Marburgo nel 1900. Dopo avere iniziato gli studi all’università di Breslavia, nel 1919 li proseguì a Marburgo. Conseguito il dottorato sotto la guida di Natorp seguì a Friburgo le lezioni di Husserl e di Heidegger e, contemporaneamente, studiò filologia. Nel 1923 tornò a Marburgo e proseguì gli studi con Heidegger. Nel 1928 ottenne la libera docenza in filosofia con una ricerca sul Filebo di Platone. Nel 1931 uscì L’etica dialettica di Platone. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo. La sua carriera universitaria proseguì con la nomina, nel 1937, a professore ordinario all’università di Marburgo; due anni dopo si spostò a Lipsia. Nel 1942 apparve Popolo e storia nel pensiero di Herder. Negli anni 1946 e 1947 fu rettore dell’università di Lipsia. Nel 1947 uscì Goethe e la filosofia e Gadamer lasciò Lipsia per Francoforte, dove rimase fino al 1949.

Successivamente gli fu affidata all’università di Heidelberg la cattedra di filosofia che era stata di Karl Jaspers (poi esonerato dall’insegnamento per la sua opposizione al nazismo). Divenne una delle figure più influenti nell’ambiente universitario e culturale della Repubblica Federale. Nel 1960 uscì la sua opera principale, Verità e metodo e tre anni dopo Il problema della coscienza storica. Nel 1970 Gadamer lasciò l’insegnamento e proseguì la propria attività culturale in vari Paesi, divenendo membro di numerose società e accademie e direttore di alcune di esse; tra le sue collaborazioni è da ricordare quella con l’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli. Tra le numerose pubblicazioni: Ermeneutica e metodica universale (raccolta di saggi apparsa nel 1971), L’attualità del bello (1977), I sentieri di Heidegger (1983) e La dialettica di Hegel (1996). È morto a Heidelberg nel 2002.

Il pensiero del «secondo» Heidegger si esprime in forme argomentative e stilistiche inconsuete. Se questo non ha impedito che se ne percepisse la forza, ne ha ostacolato la recezione in ambiti filosofici legati a tradizioni diverse. A rendere più fruibile, a «urbanizzare» (come si espresse Habermas) il pensiero di Heidegger, fuori dagli estremi stilistici enigmatici dell’ultima fase, ha contribuito quello dei suoi allievi che ha avuto maggiore fortuna e che forse ha conservato un legame più stretto con l’orizzonte heideggeriano, Hans-Georg Gadamer. Contrapposizione Nell’opera maggiore di Gadamer, Verità e metodo, il legame con la problematica tra verità e metodo «ermeneutica» classica – la metodologia dell’interpretazione testuale e delle scienze dello spirito – è più stretto di quello che Heidegger ha mantenuto nelle sue opere più tarde. Gadamer intende svolgere una «ontologia ermeneutica», ossia un’indagine fondata sull’identificazione tra l’essere e il linguaggio e, dunque, sull’idea che l’essere sia interpretazione. Gadamer lega però maggiormente l’ermeneutica alla problematica del comprendere propria delle scienze storiche dello spirito, e a una idea di «verità» che si distingue da quella propria delle scienze naturali. La diade «verità e metodo» indicata nel titolo della sua opera è vista non come una congiunzione, ma come una contrapposizione: la prima parte del libro mostra come sia possibile una «esperienza extrametodica della verità» che si manifesta nell’accesso alla verità proprio delle opere d’arte. Gadamer sostiene, cioè, che non tutte le esperienze di verità sono riducibili all’ambito della scienza, la quale è tesa a raggiungere una conoscenza neutrale e oggettiva del mondo; ci sono forme di esperienza attraverso le quali arriviamo a verità non verificabili con i metodi scientifici.

Gadamer e l’«urbanizzazione» di Heidegger

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica Influenza reciproca tra comprensione e tradizione

Circolo ermeneutico: la comprensione non è neutrale

Riabilitazione del pregiudizio e valore della tradizione

La comprensione è filtrata dalla storia

Per Gadamer «ogni incontro con il linguaggio dell’arte è un incontro con un evento non conchiuso ed è esso stesso parte di questo evento». L’opera d’arte mostra un carattere che è proprio di ogni esperienza di verità: il fatto che essa non consista in un rispecchiamento tra il soggetto e un oggetto, ma in un accadimento che trasforma entrambi gli elementi. Questo si comprende se si sottolinea, come Gadamer fa, il carattere complesso di ogni rapporto con gli elementi della «tradizione», che egli concepisce anche sulla scorta della nozione hegeliana di «spirito oggettivo»: ciò che è da un lato prodotto della coscienza umana, ma dall’altro si è depositato in «opere», in dati oggettivi. Chi deve «comprendere» ciò che è prodotto della tradizione non si trova mai in una posizione esterna, ma è essenzialmente coinvolto in ciò che cerca di intendere, perché da esso anche deriva ed è condizionato il suo modo di essere. Noi siamo il prodotto della tradizione che cerchiamo di comprendere, così come questa non ha una sua natura indipendente dal modo in cui la comprendiamo: ogni atto di comprensione trasforma noi e la tradizione stessa. Nella «teoria dell’esperienza ermeneutica» di Gadamer è perciò centrale «la scoperta heideggeriana della precomprensione», che Gadamer rilegge nel senso di una rivalutazione dei «pregiudizi». Heidegger aveva parlato in Essere e tempo della struttura circolare della comprensione, del fatto cioè che l’intendere qualcosa non può essere privo di presupposti, ma muove sempre da qualcosa di «già compreso»: la comprensione, sosteneva Heidegger, muove sempre dalle «convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono». Così, non è possibile una comprensione storica senza che lo storico sia in qualche modo orientato dal modo di vedere della sua epoca e abbia una visione preliminare del suo «oggetto». Il circolo che si viene in tal modo a creare, per cui dal già compreso si procede a comprendere, senza alcuna «neutralità» dell’interprete, non va visto per Heidegger come un circolo vizioso, come un limite della comprensione da superare; esso è, al contrario, la condizione stessa per poter comprendere, l’unico modo per poter avere accesso alla cosa da comprendere. Il «circolo ermeneutico» – così lo chiama Gadamer – è la struttura stessa della comprensione del senso. Heidegger sottolineava che ciò che è importante è non farsi dettare le prefigurazioni dal caso, ma farle emergere da un rapporto autentico con la cosa da comprendere: non si tratta di uscire dal circolo, ma di starci dentro nella maniera giusta. Gadamer oppone questa idea della ineludibile necessità di una precomprensione allo screditamento dei pregiudizi (il «pregiudizio contro i pregiudizi») che avrebbe avuto luogo nell’Illuminismo. Il pregiudizio non ha un carattere intrinsecamente negativo; esso, osserva Gadamer, è semplicemente un giudizio che viene pronunciato prima che sia stato fatto un esame completo della cosa da comprendere. Perciò un pregiudizio non è, di per sé, un giudizio falso. Il pregiudizio è una condizione positiva del comprendere, se viene portato a consapevolezza: «l’anticipazione di senso che guida la nostra comprensione di un testo non è un atto della soggettività, ma si determina in base a una comunanza che ci lega alla tradizione». In altre parole, i pregiudizi non sono giudizi arbitrari, ma giudizi che formuliamo perché viviamo in un certo contesto storico e culturale, perché apparteniamo a una certa tradizione. Su questa base viene rivalutato il concetto stesso di tradizione: non vi è un’assoluta alternativa tra autorità della tradizione e ragione, anche la tradizione può essere fonte di verità. A questa idea dell’essenziale coinvolgimento dell’interprete in ciò che interpreta è legata anche la tesi della intrinseca finitezza del conoscere: non vi è un pun527

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to di vista puro e assoluto dal quale comprendere il mondo, un soggetto che sia fuori dagli eventi; la comprensione non è tanto un atto del soggetto, quanto un inserirsi in un processo di trasmissione storica. La «coscienza Gadamer elabora il concetto di «coscienza della determinazione storica», ossia della determinazione di consapevolezza del fatto che siamo esseri storici, che facciamo parte della stostorica» ria; in questa coscienza della nostra determinazione storica deve manifestarsi la consapevolezza che qualcosa – per esempio un testo – ci parla non come puro oggetto, ma attraverso il filtro dato dalla «storia degli effetti», dal modo in cui è stato letto prima che noi ci rivolgiamo ad esso. Non disponiamo, dunque, di un punto di vista neutrale dal quale esaminare i testi. Il processo storico di comprensione di conseguenza non si presenta – contro la filosofia di Hegel, cui pure Gadamer da vicino si richiama – come un processo di completa trasparenza storica. La situazione nella quale ci troviamo di fronte ai dati storici da comprendere – che Gadamer chiama «situazione ermeneutica» – non è qualcosa che possiamo osservare da un punto di vista esterno e di cui possiamo avere una conoscenza oggettiva; è una situazione nella quale siamo e ciò ci impedisce di chiarirla completamente. L’impossibilità di farlo non deriva, però, dai limiti della nostra riflessione, ma dalla nostra storicità.

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Situazione storica e comprensione H.-G. Gadamer, Verità e metodo

Il dialogo come «fusione di orizzonti»

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La coscienza della determinazione storica è anzitutto coscienza della situazione ermeneutica. La presa di coscienza di una situazione, però, è sempre un compito carico di peculiare difficoltà. Il concetto di situazione implica infatti, come sua caratteristica essenziale, che essa non è qualcosa cui ci si trova di fronte e di cui si possa avere una conoscenza obiettiva. La situazione è qualcosa dentro cui stiamo, nella quale ci troviamo già sempre ad essere, e la chiarificazione di essa è un compito che non si conclude mai. Ciò vale anche per la situazione ermeneutica, cioè per la situazione in cui ci troviamo nei confronti del dato storico trasmesso, e che abbiamo da comprendere. Anche la chiarificazione di questa situazione, cioè la riflessione sulla storia degli effetti, non è qualcosa che si possa concludere; tale inconcludibilità non è però un difetto della riflessione, ma è legata alla stessa essenza dell’essere storico che noi siamo. Essere storico significa non poter mai risolversi totalmente in autotrasparenza. L’idea di comprensione adeguata a questa circostanza è dunque non quella di un rispecchiamento, ma quella di una «fusione di orizzonti»: l’interprete e il testo interpretato hanno ognuno il proprio contesto di senso, il proprio orizzonte, che in realtà però, come si è detto, non sono separati l’uno dall’altro. Comprendere vuol dire rendere possibile una fusione di orizzonti, di passato (a cui appartengono i dati da comprendere) e presente (nel quale noi viviamo), in modo tale che entrambi vengano a trasformarsi. Il modello è, insieme a quello della comprensione propria delle scienze storiche dello spirito, quello dell’esperienza del dialogo. Il riferimento a Platone è nell’opera di Gadamer fondamentale, ed è anche sulla base di una certa interpretazione della dialettica platonica (ossia del metodo indicato da Platone per ricercare la verità) che la sua teoria dell’esperienza ermeneutica viene a svilupparsi. Nel dialogo platonico l’esperienza della verità non è data dalla correttezza dell’enunciato, ma dalla «logica di domanda e risposta». Ciò che prevale nel dialogo è la domanda: nel domandare è insita da un lato una «apertura al senso», dall’altro una esperienza che ha un suo lato «negativo»: noi facciamo esperienza «in

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virtù dell’urto di ciò che non si adatta all’opinione preesistente», e per questo il domandare «è piuttosto un patire che un agire». Ma questo elemento negativo è proprio di ogni autentica esperienza. L’esperienza non è un atto del soggetto: nel dialogo opera «un logos che non è né mio né tuo», e una comprensione che si rivolge alla «cosa» da pensare. Non c’è un metodo Anche qui l’accesso alla verità avviene fuori dall’ambito definito da un metodo: se per fare domande la domanda è la condizione di ogni comprensione («che si ‘comprenda’ una frase solo quando la si intende come una risposta ad una domanda è di una evidenza eclatante», scrive Gadamer), non esiste d’altra parte un metodo che insegni a porre domande, così come non esiste un metodo che insegni ad applicare a una situazione concreta una regola, per esempio una legge: le regole, o le leggi, ci dicono come dobbiamo comportarci in determinate circostanze, ma non fa parte del loro contenuto dirci in quali casi dobbiamo applicarle. Le esperienze autentiche di comprensione vanno al di là di ciò che può esser metodicamente regolato. La comprensione è dialogo

Comprensione di un testo o di una tradizione = Fusione di orizzonti L’interprete e il testo o la tradizione interpretata non sono separati l’uno dall’altra Tra l’interprete e ciò che è interpretato c’è un dialogo, ossia uno scambio di domande e risposte La comprensione è dialogo Non c’è un metodo per comprendere, perché non c’è un metodo per fare domande

Il modello del dialogo pone in questione – in modo analogo a come avveniva in Heidegger – un’idea di conoscenza basata sul primato dell’enunciato assertivo. L’asserzione non esprime mai adeguatamente ciò che è più proprio del pensiero: è nel dialogo, nel susseguirsi di domande e risposte, che ciò che viene detto è mantenuto «unito ad un’infinità di non detto nell’unità di un senso». L’essere è linguaggio Su questa rilettura del modello ermeneutico che utilizza suggestioni hegeliane e platoniche Gadamer basa le due tesi fondamentali della sua opera: 1) l’idea del linguaggio come medium di ogni esperienza del mondo, riassunta nella tesi: ➥ Percorso tematico, p. 677 «l’essere che può venir compreso è linguaggio». Il linguaggio definisce in generale ogni rapporto dell’uomo con il mondo: «è un mezzo in cui io e mondo si congiungono, anzi si presentano nella loro originaria congenerità». Nel parlare di «mezzo» Gadamer non intende dire che il linguaggio è lo strumento grazie al quale uomo e mondo si congiungono; vuol dire, piuttosto, che il linguaggio è la dimensione nella quale si colloca il rapporto tra essi. Universalità Da 1) deriva 2) l’affermazione dell’universalità dell’esperienza ermeneutica: il modell’ermeneutica dello ermeneutico di esperienza è quello basilare, al cui interno possono svolgersi le forme di conoscenza proprie dell’oggettività scientifica, che «fa anch’essa parte di quelle relatività che sono abbracciate dal linguaggio in quanto orizzonte del mondo». L’ermeneutica è così «un aspetto universale della filosofia» e non una metodologia settoriale. Gadamer ritorna alla conclusione di Verità e metodo su una problematica Il rifiuto del primato dell’asserzione

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«estetica», l’esperienza del bello, per mostrare come in essa non parli soltanto un rapporto con le opere d’arte, ma un rapporto con il mondo stesso, e come l’esperienza ermeneutica abbia caratteri analoghi: il presentarsi come evento, l’immediatezza. Assolutezza Ma tutta la rilettura da parte di Gadamer di ciò che si manifesta nel linguaggio del linguaggio sta sotto il segno della finitezza. Il linguaggio è una sorta di «assoluto» rispetto a ogni «posizione d’essere», il mondo che appare nel linguaggio (non in un linguaggio particolare) non ha la determinazione di un oggetto delle scienze. Ciò significa che le parole non sono segni di cose che esistono indipendentemente da e prima di essi; dove non c’è linguaggio non ci sono cose: «non c’è cosa dove vien meno il linguaggio». In questo senso il linguaggio è un assoluto. Ma questo assoluto è di tipo molto particolare: se da un lato «le possibilità finite della parola sono messe in rapporto con il senso che si manifesta come con qualcosa che indica nella direzione di un infinito», dall’altro, come si mostra nel dialogo e anche nell’esperienza comune del linguaggio, non è possibile cogliere questo senso come totalità: «totalità non è un’oggettività da determinare». Richiamandosi a un termine hegeliano, Gadamer definisce «speculativo» l’esprimersi nel linguaggio di un rapporto con l’essere. Le parole non rispecchiano le singole cose, gli enti, ma un rapporto tra chi parla e la totalità dell’essere.

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Il linguaggio e il senso non detto

H.-G. Gadamer, Verità e metodo

Quando si dice quel che si ha in mente, quando ci si intende, accade che il detto viene tenuto unito ad una infinità di non detto nell’unità di un senso, e solo così viene reso comprensibile. Chi parla in questo modo può adoperare le parole più usate e abituali e tuttavia riesce ad esprimere ciò che non è detto e che ha da esser detto. In questo senso, colui che parla si atteggia speculativamente, in quanto le sue parole non rispecchiano l’ente, ma portano ad espressione un rapporto con la totalità dell’essere. A ciò è connesso il fatto che chi ripete qualcosa di già detto, anche se, come colui che redige un verbale, non intende affatto distorcerne il senso, modifica necessariamente il senso di ciò che è detto. In tal modo si manifesta già nel più quotidiano darsi del linguaggio un tratto essenziale del rispecchiamento speculativo: l’inafferrabilità di ciò che, pure, vuol essere la più fedele ripetizione del senso.

Il modello del dialogo platonico che gioca nel rapporto con i testi e con la tradizione conduce Gadamer anche a una diversa posizione verso la storia della metafisica rispetto a quella di Heidegger. Non c’è un linguaggio della metafisica, e dunque un oblio dell’essere: «il linguaggio della metafisica è, e resta, dialogo, anche se questo dialogo viene condotto sulla distanza di secoli o di millenni». Questo significa che il nostro rapporto con la tradizione è sempre in gioco e non condizionato da un originario sottrarsi: «Quello che dal punto di vista di Heidegger appare come un crescente oblio dell’essere, conserva nondimeno il suo diritto ad interloquire nel dialogo del pensiero con se stesso». Identificazione Dunque, l’ontologia ermeneutica di Gadamer è fondata sull’identificazione tra essere tra essere e linguaggio e linguaggio: ogni nostra esperienza avviene attraverso il linguaggio (che non è un mezzo, ma la dimensione nella quale abbiamo un rapporto con il mondo). Gadamer collega l’ermeneutica al problema della comprensione propria delle scienze dello spirito. La comprensione è circolare (presuppone certi pregiudizi, ai quali però Gadamer attribuisce un ruolo positivo), non è neutrale (perché siamo esseri storici) e non è rispecchiamento dell’oggetto da comprendere, ma ha la forma di un dialogo tra esso e il soggetto. Il dialogo, fondato sulle domande, è un modo per arrivare alla verità che ➥ Sommario, p. 532 si sottrae a qualunque metodo o regola: non ci sono regole per fare domande. L’essere si conserva attraverso il dialogo

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica Suggerimenti bibliografici Per affrontare dal punto di vista storico, e non solo filosofico, la controversa figura di Heidegger consigliamo H. Ott, Martin Heidegger, sentieri biografici, a cura di F. Cassinari, Sugar-Co, Milano 1990, e l’opera E. Nolte, Martin Heidegger tra politica e storia, Laterza, Roma-Bari 1994. Come introduzioni a Heidegger sono utili: G. Figal, Introduzione a Martin Heidegger, a cura di A. Lossi, ETS Edizioni, Pisa 2006, G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 2005 e la raccolta di saggi Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, Laterza, Roma-Bari 1997; mentre A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2000 può fornire l’aiuto indispensabile per avvicinarsi al capolavoro heideggeriano. Infine consigliamo la monografia G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1989. Come introduzione all’ermeneutica puoi leggere: B. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1998. Per approfondire la figura di Gadamer: J. Grondin, Gadamer. Una biografia, Bompiani, Milano 2005 e il volume H.-G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1987, in cui egli parla del suo rapporto con il maestro e degli aspetti che hanno maggiormente influenzato la sua formazione. Infine consigliamo B. Bianco, Introduzione a Gadamer, Laterza, Roma-Bari 2004 e la monografia D. Di Cesare, Gadamer, il Mulino, Bologna 2007 dove puoi trovare una panoramica completa del pensiero gadameriano al di là di Verità e metodo. I brani antologizzati sono tratti da: M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare (Intervista con lo «Spiegel»), Guanda, Parma 1987, p. 153. M. Heidegger, La dottrina del giudizio nello psicologismo, trad. di C. La Rocca. M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, a cura di A. Babolin, Laterza, Roma-Bari 1974 (trad. modificata): p. 249 (T3), pp. 249-253 (T4). M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, a cura di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986: p. 63 (T5), p. 98 (T16, trad. modificata), p. 272 (T20, trad. modificata). M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, a cura di G. Cantillo, trad. di G. Auletta, Guida, Napoli 1993: pp. 78-79 (T6), pp. 90-91 (T7). M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20), Appendice, trad. di C. La Rocca. M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica della fatticità, trad. di G. Auletta (leggermente modificata), Guida, Napoli 1992, p. 77. M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica, a cura di V. Vitiello - G. Cammarota, in «Filosofia e teologia», 4, 1990, p. 507. M. Heidegger, Essere e tempo, nuova edizione italiana a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2001 (trad. leggermente modificata). M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, trad. di C. La Rocca. M. Heidegger, Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 86. M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, in Id., La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988: p. 46 (T23), p. 52 (T24). M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 148. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 27-28. M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 271-272. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, pp. 75-76. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983: p. 352 (T29), p. 536 (T30).

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Sommario 1. STORICITÀ

E METAFISICA

Heidegger pone in modo nuovo il problema dell’essere, che converge col problema del tempo. Poi tale problema si incrocia con quello della tecnica. 2. UN

METAFISICO NELLA TEMPESTA

Heidegger non è estraneo alla storia del suo tempo; lo mostra l’iniziale adesione al nazismo. Fallito l’impegno politico, si volge alla riflessione sul suo tempo.

all’Esserci è l’interpretazione, fondata sulla comprensione e sul discorso e rivolta alle cose. 8. CHI

SIAMO E CHI POSSIAMO ESSERE

L’io non è pensabile come isolato dagli altri. Nella quotidianità l’Esserci è in uno stato di deiezione in cui è il mondo a decidere del suo essere, ma ha la possibilità di essere o non essere autenticamente se stesso. 9. L’ORIZZONTE

3. IL

GIOVANE

HEIDEGGER:

FENOMENOLOGIA,

ONTOLOGIA, VITA

Lo psicologismo fraintende la natura della logica. Il modo di essere del senso è la validità. L’ontologia ha priorità sulla logica, che va radicata nella vita. 4. FENOMENOLOGIA

E FATTICITÀ

Il nostro rapporto con le cose non è teoretico. La dimensione primaria del nostro essere è la fatticità. L’ermeneutica è il modello per comprendere i vissuti. La vita individuale è parte di un contesto storico, e occorre una critica storica che demolisca la tradizione. 5. IL

CAPOLAVORO INCOMPIUTO

Con l’ontologia fondamentale Heidegger pone al centro della propria indagine il problema dell’essere partendo dall’Esserci, il cui modo d’essere è l’esistenza, caratterizzata dalla possibilità. Occorre esaminare gli esistenziali, i caratteri generali dell’essere dell’Esserci. L’ermeneutica, analisi del modo d’essere dell’Esserci, ne manifesta il senso. 6. ESSERE-NEL-MONDO

La struttura basilare dell’Esserci è l’essere-nel-mondo. Il mondo non è quello storico, né l’insieme degli enti esistenti. Con esso l’Esserci ha un rapporto pratico; il soggetto non è separato dagli oggetti. Nel mondo incontriamo l’ente intramondano, mezzo che rimanda ad altri mezzi. Il mondo è la totalità dei rimandi che hanno senso in vista di un progetto dell’Esserci. I vari mondi sono resi possibili dalla mondità, che è significatività. Alla totalità significativa di rimandi si accede con la comprensione. 7. LA

COMPRENSIONE E L’ESSERE

Il fatto che l’Esserci ha accesso alla significatività è l’apertura, che ha tre dimensioni: situazione emotiva (in particolare l’angoscia), comprensione e discorso. Comprendere è muoversi tra possibilità. La comprensione rivela la struttura dell’Esserci e rende possibile un progetto, che definisce il senso complessivo dell’essere-nel-mondo. L’elaborazione delle possibilità aperte 532

DEL TEMPO

Nella situazione emotiva dell’angoscia l’Esserci può progettarsi verso l’autenticità. La struttura unitaria di fatticità, deiezione e progetto è la Cura. Grazie alla decisione l’Esserci può percepire le proprie autentiche possibilità e superare la dispersione. Modo d’essere dell’Esserci e condizione per comprenderlo è il tempo, compenetrazione tra passato, presente e futuro in cui domina il futuro. L’elaborazione concreta della temporalità è la storicità; nella storicità autentica l’Esserci può cogliere il proprio compito storico e quello della comunità. 10. IL

PROGETTO INCOMPIUTO E LA

«SVOLTA»

Dopo Essere e tempo Heidegger modifica stile e contenuti; dà rilievo alla storicità dell’essere, all’oblio dell’essere e al linguaggio, in particolare alla poesia, che permette un’esperienza dell’essere. 11. POESIA,

STORIA, VERITÀ

La poesia istituisce un mondo storico e la temporalità ed è messa in opera della verità. La verità è manifestazione di un ente e nascondimento della totalità a cui esso appartiene. La dimensione di sensi che rimangono nascosti è la Terra. 12. LA

TECNICA

Il rapporto tra uomo ed ente è dominato dalla tecnica, la cui essenza è ambigua. Tutta la filosofia ha travisato l’essere. Heidegger rinuncia a dare una soluzione al problema dell’essere, ma ritiene che sia importante riflettere su di esso. 13. L’ERMENEUTICA

DI

GADAMER

Nell’ontologia ermeneutica la verità è distinta dal metodo e non è rispecchiamento, ma evento che trasforma soggetto e oggetto; tradizione e comprensione di essa si condizionano. La comprensione del mondo ha la struttura di un circolo ermeneutico. I pregiudizi hanno in essa un ruolo positivo; la tradizione può essere fonte di verità. La comprensione è un dialogo tra soggetto e oggetto; non c’è un metodo per comprendere. Ogni esperienza del mondo è mediata dal linguaggio: l’esperienza ermeneutica è universale.

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Unità 12 Heidegger e l’ermeneutica

Parole chiave Apertura. L’accesso dell’Esserci alla significatività del mondo. Ha tre dimensioni: situazione emotiva, comprensione, discorso. Circolo ermeneutico. Struttura della comprensione del senso. Il comprendere qualcosa muove sempre da qualcosa che è già compreso. Comprensione. Modo di essere che dà accesso al mondo. In essa si rivela la struttura propria dell’Esserci, la possibilità. Il comprendere si manifesta nell’avere a che fare con le cose. Cura. Struttura unitaria e temporale dell’Esserci; comprende fatticità, progetto e deiezione. Decisione. Atteggiamento che consiste nel prefigurarsi la possibilità della morte e permette all’Esserci di percepire le proprie possibilità ed essere autentico. Ente intramondano. Ciò che il soggetto incontra nel mondo. Ha la natura ontologica di mezzo che rimanda ad altri mezzi e, infine, a una totalità di mezzi. Ermeneutica. Per Heidegger è il modello adeguato per comprendere l’esistenza umana nella sua storicità. Manifesta il senso dell’essere, è riflessione su com’è possibile l’ontologia ed è interpretazione del modo di essere dell’Esserci. Gadamer ne sottolinea l’universalità. Esistenza. Modo d’essere dell’Esserci. Diversa dalla semplice presenza, è caratterizzata dal predominio della possibilità e dalla possibilità per l’uomo di essere o non essere se stesso. Esistenziali. Caratteri generali di ogni modo d’essere dell’Esserci. Esserci. Termine che Heidegger sostituisce a quello di «uomo». È l’unico ente che ha una comprensione dell’essere e si pone il problema dell’essere.

Interpretazione. È articolazione di ciò che viene compreso, elaborazione delle possibilità aperte all’uomo e selezionate attraverso la comprensione. Ha come oggetto le cose, non il mondo; è la condizione necessaria per poter fare asserzioni. Mondo. Totalità di rimandi, il rapporto con la quale è preliminare rispetto all’incontro con la singola cosa: i mezzi (gli enti intramondani) rimandano ad altri mezzi e all’Esserci. Nascondimento. Dimensione della verità opposta al manifestarsi in essa di un mondo. Ontologia ermeneutica. Indagine svolta da Gadamer e fondata sull’identificazione tra essere e linguaggio. Già in Heidegger l’ontologia fenomenologica è caratterizzata come «ermeneutica». Ontologia fondamentale. Indagine della vita fattuale o del modo di essere dell’Esserci. Per Heidegger è il fondamento dell’ontologia generale. Senso. Ciò che rimane invariato nei giudizi, quali che siano gli atteggiamenti psicologici che li accompagnano. In Husserl caratterizza anche atti conoscitivi diversi, come la percezione. In Essere e tempo Heidegger sostiene che il senso non è oggetto della comprensione, ma precondizione di essa, e lo svincola dal legame con la dimensione cognitiva. Significatività. Orizzonte complessivo di rimandi in cui il rapporto tra Esserci ed enti assume senso. Costituisce la struttura del mondo e la condizione di possibilità dei «significati» linguistici. Situazione emotiva. Modalità dell’apertura, cioè del rapporto dell’uomo col mondo nella sua totalità. Dà accesso al carattere dell’essere dell’Esserci che Heidegger chiama l’«esser-gettato».

Essere. Oggetto della metafisica tradizionale distinto dagli enti. Heidegger lo intende in modo nuovo, collegandolo al tempo. Gadamer lo identifica col linguaggio.

Tecnica. Modello di prassi in cui l’uomo comprende l’ente solo in relazione alla possibilità di conoscerlo e manipolarlo. Elimina la differenza tra essere ed enti, ma la riflessione sulla sua essenza permette una diversa esperienza dell’essere.

Essere-nel-mondo. La struttura più importante dell’Esserci e il contesto in cui ha luogo il rapporto tra soggetto e oggetto. Complesso, non divisibile in parti autonome, ha tre aspetti: «nel-mondo», «ente», «in-essere».

Tempo. Modo d’essere dell’Esserci e condizione per comprenderlo. È compenetrazione tra passato, presente e futuro; in esso predomina la dimensione del futuro.

Fatticità. Modo in cui di volta in volta si esiste; è l’essere in un contesto concreto.

Tradizione. Per Gadamer è il prodotto della coscienza umana e ciò che si deposita nelle opere. 533

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Questionario STORICITÀ 1

UN

Spiega in cosa consiste l’originalità del modo in cui Heidegger affronta il problema dell’essere. (max 3 righe)

METAFISICO NELLA TEMPESTA

2

IL

L’ERMENEUTICA

E METAFISICA

GIOVANE

HEIDEGGER:

FENOMENOLOGIA, ONTOLOGIA,

3

Quale rapporto c’è, secondo Heidegger, tra la logica e l’ontologia? (max 3 righe)

FENOMENOLOGIA 4

IL

E FATTICITÀ

Quale rapporto c’è tra la comprensione dei prodotti di una tradizione e quella tradizione? (max 4 righe)

14

Come viene definito il linguaggio nella teoria di Gadamer? (max 5 righe)

Lavoriamo sui testi 15

Quale rapporto emerge in T1 tra il pensiero e le scienze? (max 2 righe)

16

Qual è, secondo T3, la condizione per comprendere i problemi di ordine logico? (max 2 righe)

17

Come viene presentato in T5 il rapporto tra sfera del reale e sfera dell’ideale? (max 3 righe)

18

Qual è, secondo T8, l’origine dei vissuti? (max 1 riga)

19

Come deve essere affrontato il problema di cui si parla in T11? (max 3 righe)

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Quale definizione viene data del conoscere in T13? (max 3 righe)

21

Come viene definita la comprensione dell’essere in T18? (max 2 righe)

22

Quale spiegazione viene data in T20 della difficoltà di comprendere il tempo? (max 3 righe)

23

Che cos’è il destino comune di cui Heidegger parla in T22? (max 4 righe)

24

Come viene spiegata in T24 l’affermazione che la poesia rende possibile il linguaggio? (max 3 righe)

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Qual è la minaccia per l’uomo della quale Heidegger parla in T27? (max 4 righe)

26

Come viene spiegata in T29 l’impossibilità di chiarire in modo completo la situazione ermeneutica? (max 3 righe)

Qual è l’errore che Heidegger attribuisce a Husserl? (max 5 righe)

CAPOLAVORO INCOMPIUTO

5

Quale differenza c’è tra l’Esserci e gli altri enti? (max 4 righe)

GADAMER

13

Qual è il giudizio di Heidegger sul nazionalsocialismo? (max 5 righe)

VITA

DI

ESSERE-NEL-MONDO 6

LA

Qual è la condizione necessaria perché il soggetto possa avere un rapporto conoscitivo con l’oggetto? (max 2 righe)

COMPRENSIONE E L’ESSERE

7

CHI

Quale differenza c’è tra comprensione e interpretazione? (max 2 righe)

SIAMO E CHI POSSIAMO ESSERE

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Quali sono le caratteristiche dello stato di deiezione? (max 5 righe)

L’ORIZZONTE 9

IL

DEL TEMPO

Che cosa si rivela nell’angoscia? (max 5 righe)

PROGETTO INCOMPIUTO E LA

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POESIA, 11

LA

«SVOLTA»

Quali nuovi temi emergono dopo Essere e tempo? (max 5 righe) STORIA, VERITÀ

Come cambia dopo Essere e tempo la concezione heideggeriana del rapporto tra temporalità e linguaggio? (max 3 righe)

TECNICA

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Spiega qual è, secondo Heidegger, l’aspetto positivo della tecnica. (max 5 righe)

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LABORATORIO DI LETTURA Una lezione di Heidegger Nel 1919, ancora libero docente, Heidegger tiene all’università di Friburgo, nel «semestre straordinario di guerra per partecipanti alla guerra» che si svolge da gennaio ad aprile, un corso di lezioni su L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo. Heidegger ha concluso nel 1915, pubblicandolo l’anno successivo, il suo lavoro di abilitazione alla libera docenza La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Nel 1919 collabora con Husserl, il fondatore della fenomenologia, chiamato a Friburgo nel 1916, dal cui pensiero è fortemente impressionato; tuttavia sta già elaborando una prospettiva propria e originale, che si esprimerà in forma organica nel capolavoro del 1927, Essere e tempo. Nelle lezioni del 1919 si confronta da un lato con il neokantismo, dall’altro propone una sua idea della fenomenologia come «scienza originaria pre-teoretica», nella quale si richiama esplicitamente a Husserl, ma al contempo prende le distanze da quello che ritiene essere un primato dell’atteggiamento «teoretico» nel metodo husserliano, che lo porterebbe a distorcere il senso originario della «esperienza vissuta», la dimensione cioè della vita soggettiva nella quale andrebbe trovata la fondazione di ogni sapere. Nel corso di una delle sue lezioni Heidegger analizza una esperienza vissuta molto semplice e comune, quella del vedere una cattedra, cercando di far emergere una posizione che è già lontana da quella di Husserl, pur utilizzando spesso il linguaggio husserliano, e che manifesta molti elementi della impostazione che caratterizzerà poi l’«ontologia ermeneutica» di Essere e tempo.

L’esperienza vissuta del vedere una cattedra o l’esperienza vissuta del mondo-ambiente Proposta e motivazione di una seconda analisi

Commento e interpretazione

Vogliamo però renderci presente, non soltanto al fine di alleggerire il lavoro di comprensione, una seconda esperienza vissuta che sta in un certo contrasto con la prima, e che al contempo con il rendersi visibile di questo contrasto ci aiuta ad orientarci nella problematica. [A]

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A. Heidegger ha svolto nelle lezioni precedenti, nell’ambito del problema della natura della filosofia, una analisi critica delle posizioni del neokantismo, in particolare di Windelband e di Rickert (vedi Unità 6, p. 246 s.), sullo sfondo del quale trova il problema della connessione tra lo psichico e la dimensione ideale della «validità», del dover-essere, delle «norme». Heidegger approfondisce la discussione, da un lato, contestando il primato del modello «teoretico» che egli ritrova in queste posizioni, e cioè l’idea che lo strato fondamentale dell’essere su cui si basano tutti gli altri sia da concepire sul modello del rapporto conoscitivo con il mondo; dall’altro, indicando l’insufficiente caratterizzazione ontologica delle dimensioni indicate come «essere» (inteso come dato psichico) e «valore», così come del loro rapporto. Si pone dunque la domanda di fondo «che cos’è lo psichico?» e propone di affrontarla anzitutto cercando – secondo l’esigenza del metodo fenomenologico di Husserl (vedi Unità 11, p. 435 ss.) – di descrivere il fenomeno in questione senza farsi guidare da teoremi pregiudiziali e preconcetti, rimanendo fedele a ciò che si mostra. Ma, è questo il passo ulteriore di approfondimento, se si assume che «ci sono solo fatti» – ossia che l’«essere» va attribuito alla dimensione dei fatti, distinti dalle norme – è necessa535

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La prima, l’esperienza vissuta del domandare «c’è qualcosa?», era risultata nel suo contenuto seguendo l’assunzione di un unico ed esclusivo contesto cosale come esistente (assolutizzazione della cosalità). Ciò può suscitare l’impressione che, allo stato attuale della problematica, si renda necessaria la scelta di un’altra esperienza vissuta ai fini dell’analisi. [B] Le cose non stanno così; e che non debbano andare così, che piuttosto ci sia una possibilità, concepibile specificamente, di includere ogni esperienza vissuta nell’analisi e di prenderla come esempio, si può rendere evidente. Ma questo ambito delle possibilità di scelta si estende solamente alle mie esperienze vissute, a quelle che io ho, che io ho avuto. [C] Immedesimazione Ammettiamolo, accresciamo i «presupposti» inserendone uno molto rudiin una particolare mentale. Io non porto a datità a me stesso una nuova esperienza vissuta, esperienza vissuta una datità solamente per quanto riguarda me stesso, ma prego Voi tutti, ogni isolato io-stesso che siede qui, di fare lo stesso. E cioè vogliamo immedesimarci tutti in una esperienza vissuta che è fino ad un certo grado unitaria. Voi entrate come di solito in questa aula all’ora solita e vi dirigete al vostro posto abituale. Tenete ferma questa esperienza del «vedere il vostro posto»; alternativamente potete anche mettervi nei miei panni:

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rio interrogarsi anche su cosa significhi quel «ci sono», su cosa voglia dire quel «c’è…», che non sembra indicare anch’esso un fatto. E allora il problema conduce alla questione ulteriore di che cosa avvenga quando diciamo «c’è qualcosa?», ossia di quale sia l’esperienza vissuta (l’Erlebnis, un termine centrale nella filosofia del primo Novecento e nello stesso Husserl) implicita in ciò, l’«esperienza vissuta della domanda» (il Frageerlebnis). È questa la questione che Heidegger ha analizzato in precedenza, la «prima» esperienza vissuta cui si riferisce ora introducendo quella che intende trattare. B. Si era analizzata la domanda «c’è qualcosa?», riferendosi dunque semplicemente a qualcosa, a una ‘cosa’ del tutto indeterminata e astratta: un ambito che poteva comprendere, come Heidegger aveva sottolineato, sedie, case, alberi, sonate di Mozart, numeri, triangoli, religioni… Può sembrare allora che si debba prendere in esame un altro ambito (per esempio, quello dello «psichico», della dimensione soggettiva, come ambito distinto da quello delle cose), ma questo per Heidegger non è affatto il punto: qualunque «esperienza vissuta» può essere presa ad esempio, e se ne può mostrare la differenza rispetto all’ambito ‘cosale’ che in essa si manifesta. Un’esperienza vissuta non è una ‘cosa’ come tutte le altre. (Lo «psichico», dunque, come Heidegger potrà mostrare, non è un «dato»). C. Qualunque esperienza vissuta, dunque, è equivalente per l’analisi. Ma il carattere di ogni esperienza vissuta è quello di essere la mia – anche se, come Heidegger aveva mostrato in relazione all’esempio precedente, in esperienze vissute come quella del domandare la presenza del singolo io non è visibile, nonostante resti un necessario riferimento a un io impersonale (l’«interrogante»). Heidegger propone ora di ripartire da un’esperienza che è più manifestamente quella di un io singolo, che può essere però considerata come possibile per ognuno: il vedere una cattedra. D. La proposta è quella di prendere un’esperienza consueta, e Heidegger si riferisce a quella più vicina anche alla situazione in cui si trova, la situazione di una lezione universitaria, e in particolare a quella verificatasi poco prima dell’inizio della lezione, al momento dell’ingresso nell’aula. Si riferisce prima all’esperienza vissuta dei suoi ascoltatori (degli studenti che entrano nell’aula), poi a quella considerata dal proprio punto di vista (quello del docente che si dirige verso la cattedra). E propone infine di analizzare questa, perché si tratta sì di descrivere l’esperienza come esperienza del singolo, ma non come esperienza di un singolo, ossia di una determinata persona. Per questo propone ai suoi ascoltatori di immedesimarsi in un punto di vista possibile, piuttosto che analizzare

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entrando nell’aula vedo la cattedra. [D] Rinunciamo a formulare linguisticamente l’esperienza. Cosa vedo «io»? Superfici scure che si stagliano ad angolo retto? No, vedo qualcosa di diverso: una cassa, e cioè una più grande con una più piccola costruitavi sopra? In nessun modo: io vedo la cattedra dalla quale devo parlare, voi vedete la cattedra dalla quale vi si parla, dalla quale io ho già parlato. Nella pura esperienza vissuta non c’è nemmeno – come si dice – un nesso di fondazione, come se io vedessi prima delle superfici scure che si stagliano, e che mi si offrono successivamente come cassa, poi come scrivania, infine come cattedra accademica, in modo da incollare ciò che è cattedratico alla cassa come se fosse un’etichetta. Tutto ciò è una cattiva, equivoca interpretazione, un diInterpretazione stoglimento dal puro guardare direttamente dentro l’esperienza vissuta. fenomenologica adeguata [E] Io vedo la cattedra per così dire in un colpo; e non la vedo solamente in modo isolato, ma vedo la cattedra come troppo alta per me. Vi vedo un libro sopra, immediatamente come qualcosa che mi disturba (un libro, e non un insieme stratificato di pagine coperte di macchioline nere), vedo la cattedra con un certo orientamento, con una certa illuminazione, su uno sfondo. [F] Rifiuto di un modo di analizzarla

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soltanto il proprio. Il problema della diversità ed eventuale irriducibilità dei punti di vista verrà posto successivamente. L’espressione «portarsi a datità» è tipica del vocabolario di Husserl: significa ricondurre un fenomeno (qualcosa che si manifesta alla coscienza) a ciò che è contenuto nel fenomeno soggettivo in quanto tale, senza trascendere la sfera della coscienza, e dunque identificando ciò che è essenzialmente proprio di quel fenomeno, ciò che in esso è dato e può dunque diventare interamente trasparente, evidente. Equivale al «puro guardare direttamente dentro l’esperienza vissuta» di cui Heidegger parla poco più avanti. E. Heidegger nega qui che in una descrizione fedele (cui non si sovrappongano costruzioni teoretiche artificiali) dell’esperienza vissuta si ritrovino delle fasi, che possono essere rinvenute semmai in una sua analisi dal punto di vista dei processi psicologici: in un primo momento si vedono superfici, forme e colori, che poi vengono interpretate come «cassa», la quale viene successivamente riconosciuta come «scrivania», poi come «cattedra», secondo una graduale costruzione che muove da dati cui poi vengono attribuiti man mano significati. Ma le cose, se si descrive l’esperienza vissuta del vedere la cattedra per quello che è, non stanno così: essa si mostra fin dal primo momento come un vedere la cattedra, e anche questa non come semplice oggetto in qualche modo classificato attraverso un nome, ma come «la cattedra dalla quale vi si parla» ecc. Il senso proprio dell’esperienza vissuta del vedere – quello che si manifesta a una analisi fenomenologica, la quale cerca di mostrare le cose per quello che sono – non presenta «nessi di fondazione»; esso non presenta cioè (nella terminologia di Husserl alla quale Heidegger si richiama con il «come si dice») un rapporto essenziale tale che un elemento presupponga necessariamente l’altro (il vedere casse presupporrebbe il vedere superfici, il vedere scrivanie presupporrebbe il vedere casse ecc.). Nella terza delle sue Ricerche logiche (1900-1901) Husserl distingue diversi tipi di nessi di fondazione, per esempio quelli bilaterali o reciproci (come quello tra colore ed estensione: non può esservi un colore senza estensione, né una estensione senza colore) o unilaterali (un giudizio presuppone una rappresentazione, ma una rappresentazione può esistere senza che venga formulato alcun giudizio). F. Approfondendo la descrizione, Heidegger sottolinea non soltanto che ciò che vedo immediatamente è la cattedra (dunque qualcosa con tutti i suoi significati), ma che lo vedo anche immediatamente in una determinata relazione con me e con un contesto più gene-

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Voi direte certamente che ciò si può rinvenire immediatamente nell’esperienza vissuta per me e in una certa misura anche per voi, perché anche voi vedete come cattedra questa determinata composizione di legno e di assi. Questo oggetto, che noi tutti qui percepiamo, ha in qualche modo il significato determinato di «cattedra». [G] Diversamente stanno già le cose se conduciamo in aula un contadino delle alte colline della Selva Nera. È la cattedra che vede, o una cassa oppure una costruzione di assi? Egli vede «il posto per il professore», egli vede l’oggetto come dotato di un significato. Posto il caso che qualcuno vi veda una cassa, egli non vedrebbe coRafforzamento munque un pezzo di legno, una cosa, un oggetto della natura. [H] Ma pendell’obiezione: siamo ad un nero del Senegal trapiantato improvvisamente qui dalla sua un altro esempio capanna. Cosa veda fissando questo oggetto diventa difficile dirlo nei particolari, forse qualcosa che ha a che vedere con la magia oppure qualcosa dietro la quale ci si possa riparare dalle frecce e da lanci di sassi, oppure, ciò che è forse la cosa più probabile, egli non saprebbe che farsene, dunque vedrebbe un semplice complesso di superfici, una semplice cosa, un qualcosa che semplicemente c’è? Dunque il mio vedere e quello del nero del Senegal sono fondamentalmente differenti. Essi hanno in comune solamente il fatto che in entrambi i casi viene visto qualcosa. Il mio vedere è

Obiezione: legame con una particolare prospettiva. Esempio di un’altra prospettiva

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rale di cose. La cattedra può essere più o meno adatta, utilizzabile da me, ed è da subito vista come connessa con altro, con il libro che vi è sopra, con lo sfondo, con la luce ecc. Essa ha un nesso con un complessivo contesto vitale nel quale assume quel particolare senso che ha per me. In Essere e tempo Heidegger sottolinea come sia preliminare e originario l’atto di comprendere qualcosa come dotato del senso che assume in un complessivo contesto di significatività (un «mondo» in questa particolare accezione), e fa riferimento all’ascoltare, in modo analogo a quello in cui in queste lezioni analizza il vedere: l’ascoltare, scrive, «è fenomenicamente più originario di ciò che la “psicologia” definisce “innanzi tutto” come “udito”, cioè la ricezione dei suoni e la percezione dei rumori. […] “Innanzi tutto” non sentiamo mai rumori e complessi di suoni, ma il carro che cigola, la motocicletta che assorda. Si sente la colonna in marcia, il vento del nord, il picchio che batte, il fuoco che crepita». Ciò che si manifesta in un atteggiamento teoretico-conoscitivo è derivato: «È necessario un procedimento artificioso e complicato per poter “sentire” un “rumore puro”» (par. 34). G. L’identificazione di questi caratteri dell’esperienza vissuta – il presentarsi immediatamente in essa di significati vitali in un contesto di significati – non deve essere vista però (è questa l’obiezione che ora Heidegger vuole prevenire) come dipendente dal fatto che si condivida una determinata cultura. Secondo questa obiezione, il presentarsi immediatamente della cattedra come cattedra deriverebbe dal fatto che tutti noi (ossia, in questa situazione, gli studenti e il docente) condividiamo alcune conoscenze di base che sono diventate ovvie. Allargando l’ambito delle persone coinvolte, se così fosse, quanto è stato detto – che noi vediamo necessariamente la cattedra in quanto cattedra – potrebbe essere messo in questione. Heidegger propone allora di considerare esempi di persone con un retroterra culturale differente, per verificare se tali esempi rendano discutibile quanto osservato finora. H. Nell’esempio del contadino della Foresta Nera (la foresta intorno a Friburgo), egli vedrebbe il «posto per il docente», se non proprio «la cattedra»; ma anche se qualcuno vedesse solo una «cassa» (non riconoscendo la funzione di quella cosa di legno), vedrebbe comunque immediatamente qualcosa con un determinato significato che ne esclude altri – una cassa, non una cosa della natura, non un pezzo di legno: dunque, di nuovo, immediatamente significati. Qui si fa avanti l’idea che nell’esperienza vissuta del vedere non

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Confutazione delle obiezioni: sono possibili tesi universalmente valide relative all’esperienza vissuta Tesi: primato dell’esperienza dotata di senso sull’apprensione del ‘qualcosa’

in altissima misura individuale, e perciò non lo posso porre come tale a fondamento dell’analisi dell’esperienza vissuta, dato che l’analisi deve produrre alla fine, nel contesto della elaborazione di un problema, dei risultati universalmente validi, scientifici. [I] Posto che le esperienze vissute siano completamente differenti e che ci siano solamente le mie, ritengo che siano comunque possibili delle tesi universalmente valide. Ciò implica che esse sarebbero valide anche per l’esperienza vissuta del nero del Senegal. Prescindiamo ancora una volta da questa affermazione e portiamoci nuovamente a datità l’esperienza vissuta del senegalese. Anche nel caso in cui egli vedesse la cattedra come un semplice qualcosa che è là, essa avrebbe per lui un significato, un elemento significativo. C’è però la possibilità di portare ad evidenza che l’ipotesi che il nero del Senegal privo di cultura scientifica (ma non senza cultura) trasportato qui improvvisamente vedrebbe la cattedra come un semplice qualcosa che è là sia un controsenso – non una contraddizione, cioè impossibile in senso logico-formale. Piuttosto il nero vedrà la cattedra come qualcosa «di cui non sa che farsene». L’elemento dotato di significato «essere estraneo di un mezzo» e l’elemento dotato di significato «cattedra» sono così assolutamente identici secondo il loro nucleo essenziale. [L]

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vi sia un significato predeterminato per un certo «oggetto», ma che, comunque, essa non sia mai priva di significati vitali. I. L’esempio del nero del Senegal (che Heidegger, nei primi decenni del Novecento, concepisce senz’altro come un uomo ‘non civilizzato’) rende più problematica l’analisi: sembra che nella sua esperienza vissuta non possa esservi nulla di quello che c’è nell’esperienza quale si configura dal punto di vista del docente e dei suoi studenti. Non soltanto la cosa sembra offrirsi con significati diversi (come accade nel caso del contadino), ma sembra che possa presentarsi priva di ogni senso: e dunque ritornerebbe in vigore la tesi secondo cui si vede anzitutto «un qualcosa che semplicemente c’è», un puro oggetto indeterminato, ‘neutro’. Questo sarebbe almeno il nucleo comune alle diverse esperienze vissute, ciò che può valere per tutti e che dunque costituirebbe quanto può essere attribuito in una considerazione scientifica alla «esperienza vissuta» del vedere come tale. Il legame che il vedere ha con me, con il mio io singolo, diventerebbe di nuovo qualcosa di inessenziale, che non può far parte di una analisi dell’esperienza vissuta. L. Contraddicendo la conclusione che si pretenderebbe di trarre dall’esempio del senegalese, Heidegger giunge a mettere in luce e precisare il vero aspetto centrale della sua tesi. Non è possibile l’apprensione di una cosa che sia neutrale, priva di significati. Il senegalese non vedrebbe mai una semplice ‘cosa’, anche nel caso limite in cui della cattedra «non sapesse cosa farsene»: «l’essere estraneo di un mezzo» – come Heidegger dice con termini che sono già quelli di Essere e tempo – rappresenta un senso vitale che nella sua essenza è identico ad altri significati, pur avendo la forma limite dell’estraneità, dell’assenza di senso. Questa, però, non è la neutralità di una semplice cosa, ma appunto l’estraneità di qualcosa che non si sa come utilizzare o a cui non si sa attribuire un significato (ma anche questo è un significato, per quanto negativo). L’inutilizzabiltà, direbbe Heidegger con il linguaggio di Essere e tempo, è una forma difettiva dell’utilizzabilità, l’insensatezza una forma difettiva di significato, perché inserita in un contesto che è di per sé significativo: l’esperienza della mancanza di significato presuppone un orizzonte di significato. Se ne conclude che le due esperienze vissute, apparentemente incommensurabili, del senegalese e del docente hanno un nucleo essenziale comune, quello di presentarsi come esperienze in cui immediatamente si mostra un elemento di significato (che lega in qualche modo la cosa esperita alla vita del singolo), anche se il significato

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Parte seconda Le filosofie del Novecento L’esperienza vissuta come esperienza del darsi di un mondo

Corollario: la presenza dell’‘io’ nell’esperienza vissuta della cattedra

Nell’esperienza vissuta del vedere la cattedra mi si offre qualcosa a partire da un mondo-ambiente immediato. Questa dimensione di mondo-ambiente (la cattedra, il libro, la lavagna, il quaderno di appunti, la stilografica, il bidello, il corpo degli studenti, il tram, l’automobile, ecc. ecc.) non è un insieme di cose con un determinato carattere di significato, oggetti anzitutto, e inoltre concepiti come significanti questa e quest’altra cosa; al contrario l’elemento significativo è il carattere primario, mi si offre immediatamente, senza passare con il pensiero attraverso il concepire cose. Vivendo in un mondo-ambiente, mi si significa dappertutto e sempre, tutto è dotato di mondo, «si dà mondo [es weltet]», il che non coincide con «ha valore [es wertet]» [M] […] Rappresentiamoci nuovamente l’esperienza vissuta del mondo-ambiente, il mio vedere la cattedra. Considerando il mio comportamento visivo rispetto alla cattedra che si offre all’interno di un mondo-ambiente trovo forse nel senso puro dell’esperienza vissuta come tale qualcosa come un io? In questo esperire, in questo vivere rivolti a qualcosa, è racchiuso qualcosa di me: è il mio io ad uscire del tutto da sé e a vibrare insieme a questo

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e, dunque, il legame con la vita del singolo può essere differente in diversi soggetti. Con il linguaggio fenomenologico Heidegger spiega poi che questo è qualcosa che appartiene per essenza al fenomeno «esperienza vissuta», così che si potrebbe mostrare con evidenza che negare questo aspetto distruggerebbe l’esperienza vissuta in ciò che è (appunto nella sua essenza) producendo quello che Husserl chiamava un controsenso: non una contraddizione logica (come quella di chi affermasse allo stesso tempo una cosa e il suo contrario), ma la negazione di nessi essenziali che riguardano il contenuto o il senso di un concetto (per esempio, quelli per i quali non posso chiedere quanti centimetri misura il rosso, o di che colore sono dieci centimetri). Nell’essenza di ciò che chiamiamo «esperienza vissuta» vi è questo rapporto con significati vitali – negarlo significherebbe distruggerla per quello che è. Precisamente questo – la distruzione dell’Erlebnis (dell’esperienza vissuta) come tale – è ciò che Heidegger cercherà, nelle lezioni che seguono, di dimostrare che avviene se si assume lo psichico come fondamento intendendolo come un ‘dato’ quale si presenta nel processo conoscitivo. L’esperienza vissuta, che deve costituire la base di una fenomenologia come «scienza originaria», viene de-vitalizzata, stravolta nel suo senso più proprio. M. Qui Heidegger fa un ulteriore passo: non soltanto ripete che l’elemento significativo è primario, non si aggiunge a un’apprensione ‘neutrale’ della cosa, ma lo intende – come poi espliciterà con chiarezza in Essere e tempo – come una interconnessione significativa, come un tessuto di rimandi tra le cose, un orizzonte complessivo che precede ogni singola esperienza di un determinato ente e la orienta e costituisce un «mondo». Per questo l’esperienza vissuta del vedere un oggetto è chiamata l’«esperienza vissuta del mondo-ambiente» (Umwelterlebnis): non è l’esperienza di un insieme di cose, ma quella di un contesto di «sensi». L’espressione es weltet, una delle escogitazioni linguistiche di Heidegger per le quali in seguito sarà famoso, è formata usando il sostantivo Welt («mondo») e inventando un verbo, ricalcando espressioni impersonali della lingua tedesca, come es regnet («piove»), ma anche es gibt (letteralmente «si dà», ma più propriamente «c’è»). Va ricordato che l’esperienza vissuta del domandare era stata esaminata in relazione alla domanda gibt es etwas? («c’è qualcosa?»). Qui Heidegger sta allora implicitamente contrapponendo l’es weltet (traducibile approssimativamente con «si dà mondo») all’es gibt etwas («c’è qualcosa»): quest’ultima espressione indica la forma dell’esperienza vissuta dominata dal modello teoretico-conoscitivo, che, come si sottolinea nel seguito, fa sparire la dimen-

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Confronto con l’esperienza vissuta del domandare: l’assenza dell’io storico e la devitalizzazione

«vedere», così come l’io del nero di cui si parlava nel suo fare esperienza vissuta del «qualcosa di cui egli non sa che farsene». Più esattamente: è solamente nel risuonare di quello che è di volta in volta il proprio io che si fa esperienza vissuta di qualcosa che si presenta in un mondo-ambiente, si dà mondo, e laddove e quando esso si dà per me sono io in qualche modo che vi partecipo interamente. [N] Confrontiamo con ciò l’esperienza vissuta del domandare. In essa non ritrovo me stesso. Il qualcosa in generale, del cui «esserci» si domanda, non dà mondo. L’aver un mondo è qui cancellato, se cogliamo come un qualcosa in generale ogni possibile elemento che si offre all’interno di un mondo-ambiente. Questo cogliere, questo stabilire come oggetto in generale, vive a spese della rimozione del mio proprio io. Nel senso del qualcosa in generale è implicito che io non vibro in consonanza con lo stabilirlo come tale, ma questo risuonare, questo emergere contestuale di me stesso viene inibito. L’essere oggetto come tale non mi tocca. L’io che stabilisce non sono più affatto io. Lo stabilire come esperienza vissuta è ancora soltanto un rudimento dell’esperire vivente [Er-leben]; è un esperire de-vitalizzante [Ent-leben]. [O] L’oggettivo, il

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sione di senso del mondo-ambiente. La forma impersonale dell’espressione es weltet allude anche al carattere di «evento» (come il piovere) impersonale, che oltrepassa il modello dell’azione di un soggetto su un oggetto (e viceversa). Heidegger lo contrappone al «processo», inteso come decorso oggettivo di fatti, e ne sottolinea il carattere «né fisico né psichico». N. Heidegger cerca ora di nuovo, con atteggiamento fenomenologico, se il senso (possiamo dire anche: l’essenza) dell’esperienza vissuta implichi la presenza di un io, o se essa possa essere concepita prescindendo da esso. La risposta è che ciò non è possibile, in quanto, benché tale esperienza sia rivolta alla cosa di cui si fa esperienza, in quest’ultima si manifesta un senso per un determinato io, seppure in forme che possono essere diverse in diversi individui. Il mondo in cui la comprensione della cosa avviene si manifesta come mondo relativo a un io. Heidegger negli anni successivi rinuncerà a parlare di «io» per usare invece il termine «Esserci» e concepirà il rapporto qui in questione come quella struttura dell’Esserci chiamata «essere-nel-mondo». L’«uscire da sé» dell’io di cui parla qui Heidegger è quel dirigersi verso le cose che Husserl indicava col temine intenzionalità e che Heidegger ripensa in Essere e tempo appunto con il concetto di essere-nel-mondo. O. Riferendosi infine all’esperienza vissuta del domandare, rappresentativa dell’atteggiamento teoretico, Heidegger mostra che in essa non emerge il rapporto vitale con un io, ma nell’oggettivazione, nell’assunzione di una cosa come ‘oggetto’ l’io concreto rispetto al quale le cose assumono un senso e si inseriscono in un mondo non emerge affatto. Rispetto al nostro rapporto originario con le cose l’atteggiamento teoretico è de-vitalizzante, fa sparire ciò che è più proprio del nostro modo di incontrare le cose. È opportuno notare che Heidegger, negli anni che seguono questa lezione e che precedono Essere e tempo, userà il temine «vita» (Leben) per indicare quello che poi chiamerà Esserci. Nel 1920 parlerà della vita come del «dominio originario della fenomenologia». Va osservato anche che, pur risuonando in queste posizioni di Heidegger alcuni motivi della cosiddetta «filosofia della vita» (che contrappone la vita alle forme in cui si tenta di coglierla), Heidegger non sostiene l’irriducibilità della vita, intesa come qualcosa di oscuro e sfuggente, al concetto o al linguaggio, ma cerca di individuare quali tipi di significati sorgano nel rapporto vitale con il mondo e quale ne sia la logica peculiare. La vita, dirà Heidegger in un altro corso di lezioni dell’anno successivo, in polemica con Bergson (vedi Unità 6, p. 262), non «scorre ottusamente», ma è «comprensibile» proprio in virtù del primato della significatività in cui tutto si presenta.

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conosciuto, è in quanto tale allontanato, è distaccato dall’esperienza vissuta autentica. L’accadere obiettivo, l’accadere come oggettivo, conosciuto, lo designiamo con il termine processo; passa semplicemente accanto, davanti al mio io conoscente, ha con questo solo il rapporto dell’essere conosciuto, questo riferimento all’io sbiadito, ridotto ad un minimo di esperienza vissuta. È costitutivo dell’essenza dei fatti e di una interconnessione di fatti l’offrirsi solo e proprio nel conoscere, cioè nel comportamento teoretico, e di offrirsi per l’io teoretico. Nel comportamento teoretico io sono rivolto a qualcosa, ma io non vivo (come io storico) rivolto a questo o quell’elemento dotato di mondo. [P]

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(da M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia (1919), a cura di G. Cantillo, trad. di G. Auletta, modificata, Guida, Napoli 1993, pp. 77-80)

P. Emerge qui, seppure in modo incidentale, la tesi secondo la quale l’io che «vibra» nell’esperienza vissuta originaria – e non in quella particolare e derivata dell’atteggiamento teoretico – è un io storico. La dimensione della storicità e della temporalità del rapporto con un mondo sarà in primo piano in Essere e tempo. All’accadere oggettivo di una interconnessione di fatti viene implicitamente opposto un accadere inteso in senso diverso, l’accadere storico, che Heidegger comprenderà come dotato di una temporalità non lineare qual è, invece, quella di una concatenazione fattuale.

Questionario sull’argomentazione 1

Qual è il carattere peculiare di ogni esperienza vissuta? (max 1 riga)

2

Quale differenza c’è tra l’atteggiamento teoretico e quello fenomenologico (come lo intende Heidegger) nei confronti delle esperienze vissute? (max 5 righe)

3

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C’è, secondo Heidegger, un elemento comune alle esperienze vissute dello stesso oggetto da

parte di individui diversi? Se c’è, di quale elemento si tratta? (max 3 righe) 4

Quale rapporto c’è tra le singole esperienze vissute e il «mondo-ambiente»? (max 2 righe)

5

Quali sono, secondo Heidegger, i limiti dell’atteggiamento teoretico nei confronti dell’esperienza vissuta rispetto all’atteggiamento fenomenologico? (max 4 righe)

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

1. Jaspers e la filosofia dell’esistenza 1. 2. 3. 4.

Caratteri generali dell’esistenzialismo Jaspers: la filosofia e la scienza Situazione e libertà Il naufragio e la trascendenza

2. Sartre e l’esistenzialismo francese 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Le origini dell’esistenzialismo in Francia: Marcel L’essere in-sé e l’essere per-sé La libertà e la malafede L’essere per-altri e la morale dell’impegno Merleau-Ponty Mounier e il personalismo

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Jaspers e la filosofia dell’esistenza

1 I testi

K. Jaspers Filosofia: La ricerca scientifica e il suo senso, T1; L’io di fronte alla situazione-limite, T2; Scelta e riconoscimento dell’identità, T3; L’angoscia di fronte alla morte e la certez-

1 La Grande guerra e la genesi dell’esistenzialismo

L’esistenzialismo nella letteratura e nel costume

Il concetto di «esistenza»

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za d’essere, T4; Il naufragio della metafisica, T5; Trascendenza e autenticità dell’essere, T6; Azione e consapevolezza dell’essere, T7

Caratteri generali dell’esistenzialismo La filosofia dell’esistenza, o esistenzialismo, è forse la corrente filosofica del Novecento che ha avuto maggiore diffusione pubblica e notorietà. L’esistenzialismo ha la sua origine nella riflessione di due filosofi tedeschi che ha luogo fra la Prima e la Seconda guerra mondiale: Heidegger e Karl Jaspers. Fondamentale per la sua nascita è il trauma fisico e morale causato in Europa dall’esperienza sanguinosa della Prima guerra mondiale, con la perdita di fiducia nelle concezioni ottimistiche e provvidenzialistiche della storia: «quella vita sana e felice che si viveva prima della guerra – scrive Jaspers –, quella vita semplice e schietta anche nella sua sublime spiritualità, non poteva mai più ritornare. E la filosofia, nei suoi motivi segreti, divenne più importante che mai». Dalla Germania la filosofia dell’esistenza si diffonde velocemente nel resto dell’Europa: trova terreno fertile in Italia e ha grande successo in Francia, dove attorno alla figura dello scrittore e filosofo Jean-Paul Sartre si sviluppa un ambiente intellettuale in grado di traghettare la filosofia dell’esistenza oltre il secondo dopoguerra. La grande notorietà pubblica della filosofia dell’esistenza è dovuta al fatto che essa si mostra in grado di uscire dal ristretto ambito filosofico per costituire un’importante fonte di ispirazione in campo letterario e artistico (grazie ai lavori di Sartre, della sua compagna Simone de Beauvoir e di Albert Camus), tanto da diventare, alla fine della Seconda guerra mondiale, un fenomeno di costume, capace di indicare lo spirito di un’epoca, oltre che l’atmosfera vissuta nella Parigi dell’immediato dopoguerra, dove bastava frequentare certi caffè del quartiere di St. Germain per venire a contatto con l’esistenzialismo: «l’altro ieri, uscendo dal Café de Flore – ricorda nel 1946 Jean Wahl, uno dei protagonisti della cultura francese del tempo, autore di importanti studi su Kierkegaard – ho incontrato un gruppo di studenti; uno si è staccato dal gruppo e mi ha detto: “Certamente, il signore è esistenzialista”». Pur nelle grandi diversità che caratterizzano il pensiero dei principali esponenti dell’esistenzialismo, si possono individuare alcuni aspetti caratteristici che accomunano questi pensatori, i quali possono essere assunti come nucleo comune dell’esistenzialismo. Il primo aspetto, in contrapposizione alla sottovalutazione dell’individuo operata nelle filosofie della storia tradizionali (idealiste, positivi-

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

Limitazioni e libertà dell’esistenza

Kierkegaard e l’esistenzialismo

ste e marxiste), è la riflessione sull’esistenza, che è il modo di essere proprio dell’uomo, ed è insieme esistenza individuale e solitaria. Questa esistenza è costitutivamente un’esistenza finita, sottoposta a condizioni limitanti, come il dolore, la lotta, la morte, e quindi sempre in rapporto con un mondo esterno che la condiziona e la limita: con una situazione. Ma, altro aspetto altrettanto fondamentale, l’esistenza umana è intesa anche come esistenza essenzialmente libera, non predeterminata né dalla natura né dal contesto sociale, in grado di scegliere come organizzare la propria vita, se dare o meno ad essa un senso. L’esistenza umana è cioè sempre un’esistenza caratterizzata dalla dimensione della possibilità, e della progettualità verso il futuro. In questo modo l’esistenza è in grado di rapportarsi liberamente all’essere, verso il quale essa è in costante tensione. Tutti questi aspetti hanno un antecedente storico nel pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard (noto in Germania con i saggi del teologo Karl Barth e in Francia con la pubblicazione negli anni trenta degli studi kierkegaardiani di Jean Wahl), che in reazione allo hegelismo aveva richiamato l’attenzione sulla finitezza del singolo e sulla solitudine dell’esistenza di fronte al peso della scelta (vedi Unità 2, p. 63). L’esistenzialismo è stato interpretato anche come una sorta di Kierkegaard-Renaissance nel pensiero del Novecento.

La vita e le opere Nato a Oldenburg nel 1883, Karl Jaspers si laureò in medicina ad Heidelberg nel 1909, dove iniziò a occuparsi di psichiatria e psicologia. Nel 1913 pubblicò la Psicopatologia generale, opera fortemente influenzata dalla fenomenologia di Husserl. Nel 1919 pubblicò l’opera che viene considerata la prima espressione dell’esistenzialismo tedesco: Psicologia delle visioni del mondo. Dal 1922 fu chiamato a insegnare filosofia all’università di Heidelberg, insegnamento che Jaspers tenne fino al 1937, anno in cui fu costretto a lasciare l’università per avere sposato una don-

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na ebrea. In quegli anni vennero pubblicate alcune delle sue opere più importanti: La situazione spirituale del nostro tempo (1931), Filosofia (in tre volumi, 1932), Ragione ed esistenza (1935), Filosofia dell’esistenza (1938). Ripreso nel 1945 l’insegnamento prima ad Heidelberg, poi nel 1948 a Basilea, Jaspers affrontò pubblicamente il tema della colpa del popolo tedesco di fronte alle atrocità del nazismo e il pericolo della guerra atomica. A questo periodo risalgono le opere Il problema della colpa (1946), Sulla verità (1948), Ragione e libertà (1959), La bomba atomica e il futuro degli uomini (1962). Morì a Basilea nel 1969.

Jaspers: la filosofia e la scienza

Jaspers delinea i temi fondamentali della filosofia dell’esistenza in Psicologia delle visioni del mondo, un testo che si situa a metà strada tra la ricerca psicologica e quella filosofica; questi temi vengono poi ripresi nell’opera principale, Filosofia, che è composta da tre volumi: Orientazione filosofica nel mondo, Chiarificazione dell’esistenza, Metafisica. Fondamentale in quest’opera è l’influsso del pensiero di Kierkegaard, con la messa in luce della solitudine dell’esistenza individuale, del «singolo», di fronte alla tragicità della scelta, tanto che Jaspers è stato visto come uno dei principali artefici della KierkegaardRenaissance. La distinzione di ruoli Fin dall’inizio degli anni venti Jaspers è in stretto contatto con Heidegger, con il tra scienza e filosofia quale condivide alcuni temi caratteristici della nascente filosofia dell’esistenza. I percorsi dei due filosofi sono tuttavia autonomi. Jaspers giunge alla filosofia attraverso gli studi di medicina e psichiatria, dai quali emerge la consapevolezza della distinzione e della non sovrapposizione tra scienza e filosofia. ContrariaDalla psicologia alla filosofia

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mente alle tesi di Husserl e della fenomenologia (sulle quali si era formato Heidegger), la filosofia, sostiene Jaspers nel I libro della Filosofia, dedicato alla Orientazione filosofica nel mondo, non è «scienza rigorosa»: la scienza mette ordine nel mondo, vi opera quella che Jaspers chiama una «orientazione scientifica», e ha come scopo la «conoscenza chiara del mondo». La filosofia riflette sulle scienze e sui loro risultati così «da rendere realmente presente l’intimo senso loro», un senso che sfugge al metodo e alla comprensione della scienza, che non è in grado di dare una direzione alla vita né di stabilire valori.

T1

La ricerca scientifica e il suo senso

K. Jaspers, Filosofia, 1,2

L’orientazione nel mondo è scienza in quanto nella sua intenzione e nel suo metodo critico realizza una conoscenza logicamente vincolante. L’esattezza rigorosa è, come tale, riscontrabile in quantità di qualsiasi genere e in dimensioni indefinite; per la scienza essa è ancora indifferente e non ha alcun senso pretendere di conoscerla come tale. Ma il senso della scienza, per quanto sia assodato e presente quando l’indagine è condotta con passione, non è a sua volta scientificamente dimostrabile. Chi pretende una risposta alla domanda relativa al senso della scienza, e poi, trovandosi nell’impossibilità di darne una che sia dimostrabile, ne nega il senso e cessa di preoccuparsene, assume un atteggiamento che è incontestabile. Chiarire il senso della scienza che di fatto si è realizzata è solo una possibilità filosofica. Come il mondo nella sua oggettività non si chiude in se stesso e non offre da sé una consistenza intuibile, così il sapere che lo riguarda non si arresta a se stesso, ma rinvia oltre. La scienza giunge fin dove giunge il sapere logicamente vincolante, ma è ad un tempo qualcosa di più. Avvertire questo qualcosa «di più» non conduce ad una dimostrazione, ma ad un appello che chiede di poter cogliere il senso della scienza. Soltanto la riflessione filosofica dunque, in quanto ricerca di senso, è in grado di chiarire quel «qualcosa di più» che la ricerca scientifica arriva soltanto a indicare senza riuscire a spiegare e che costituisce un criterio per l’azione.

Ricerca scientifica e riflessione filosofica

L’esistenza come essere situati

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Elaborazione di teorie scientifiche = «orientazione scientifica nel mondo»

Chiarificazione logicamente vincolante dei rapporti oggettivi tra i fatti del mondo

Non conduce all’azione

Riflessione filosofica sull’esserci = «orientazione filosofica nel mondo»

Chiarificazione del senso dell’esserci e della stessa pratica scientifica

Conduce all’azione e alla libertà

Per Jaspers l’uomo è inteso come un’esistenza individuale che si pone in relazione al mondo: l’esistenza è un essere situati nel mondo, un essere qui, un esser-ci (in tedesco: Da-sein), così come sono situate e quindi «esserci» tutte le cose presenti nel mondo. Il mondo con cui l’uomo entra in relazione può tuttavia essere inteso in due modi diversi: il mondo può essere la realtà che è oggetto del-

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

l’esperienza e della conoscenza scientifica, e può essere il mondo come esserci soggettivo, il mondo vissuto direttamente dal soggetto. Il mondo della scienza è il mondo che è oggetto di conoscenza universalmente valida; il mondo in questo senso è un oggetto esterno, e la scienza per giungere a questa conoscenza opera una «orientazione scientifica nel mondo», attraverso la pluralità dei modi di conoscenza particolare. L’«orientazione Ma la conoscenza scientifica non può afferrare la totalità dell’essere: la conofilosofica» nel mondo scenza scientifica si muove sempre entro un determinato orizzonte ed è quindi una conoscenza limitata e parziale. Ad essa, infatti, sfugge la conoscenza della totalità, così come sfugge la comprensione dell’esserci soggettivo. Per operare questa comprensione è necessaria la filosofia e lo stabilirsi di una «orientazione filosofica nel mondo», attraverso la quale è possibile un diverso accesso all’essere, un accesso di tipo esistenziale, fondato sull’esperienza interiore, vissuta, di un soggetto che fa progetti e opera scelte: essa rende chiaro «quel che io veramente intendo, quel che io veramente voglio, quel che io veramente credo». Una conoscenza che è propria, secondo Jaspers, della psicopatologia rispetto alle altre scienze mediche.

3 La situazione limite

T2

L’io di fronte alla situazionelimite

K. Jaspers, Filosofia, 2,6

Situazione e libertà L’uomo è dunque inteso come un’esistenza individuale. Ma l’esistenza umana, si è detto, ha in comune con le altre cose quella di essere in rapporto col mondo, di essere «situata» nel mondo; di essere cioè sempre in relazione con una situazione esterna, con determinati dati di fatto che la condizionano e la limitano da un punto di vista sia spaziale sia temporale: quella che Jaspers chiama situazionelimite, e di cui parla già in Psicologia delle visioni del mondo. L’esistenza è dunque un essere situati, un «esser-ci»: vi è uno spazio esterno che limita le possibilità di scelta, e vi è un tempo, il passato, che nessuno ha scelto ma che pesa sulle scelte. Il rapporto con la situazione-limite è per l’esistenza umana inevitabile: «sperimentare situazioni-limite ed esistere è la stessa cosa», scrive Jaspers. L’esistenza non è mai un inizio assoluto: essa si pone sempre in un rapporto di dipendenza dalla situazione esterna, in un rapporto di limitazione e di schiavitù che ne ostacola le possibilità di azione e di scelta. Quando decido e agisco non sono una totalità ma un io legato a quei particolari dati di fatto che mi si offrono nell’oggettività e nella particolarità della mia situazione. […] Io non sono il teatro dell’idea generale da cui si svilupperebbe, quasi per necessaria conseguenza, l’evento temporale del mio esserci; al contrario, ciò che constato è che, mentre la totalità non è mai compiuta e l’estensione del mio possibile me-stesso non ha mai toccato i limiti, il tempo già incalza. Non potrei mai agire se volessi attendere lo sviluppo dell’idea e aver presente l’insieme dei suoi presupposti e delle sue possibilità. Dall’attrito che si determina tra l’incompiutezza della totalità e la necessità imposta dal tempo di venire ad una decisione e di scegliere tra vivere ora e non vivere affatto, nasce per prima cosa una specifica consapevolezza della schiavitù che ci rende dipendenti dalle circostanze di tempo e di luogo che vengono a diminuire le possibili verifiche ideali e ogni altra forma di assicurazione. 547

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Esistenza umana, possibilità e libertà

➥ Laboratorio sul lessico, Libertà, p. 341

T3

Scelta e riconoscimento dell’identità K. Jaspers, Filosofia, 2,6

Tuttavia, diversamente dall’esserci empirico delle cose presenti nel mondo, l’esistenza umana non è un mero esserci. Essa ha come caratteristica la possibilità di superare i limiti della situazione, è nel suo senso più profondo una possibilità: «il mio esserci – scrive Jaspers – non è esistenza, ma l’uomo è, nell’esserci, possibile esistenza». L’esistenza è cioè sempre un poter essere, un progetto in grado di trascendere la limitazione della situazione: l’esistenza è cioè nella sua essenza libertà. L’esistenza umana è dunque dotata di una «libertà originaria», di cui acquisisce consapevolezza proprio di fronte alla schiavitù imposta dalla situazione. Ci sono tanti modi in cui la libertà può manifestarsi; come libertà psicologica: la libertà come assenza di condizionamenti esterni e di cause determinanti; come libertà sociologica: la libertà civile e politica. Ma tutti questi modi presuppongono la libertà originaria esistenziale, senza la quale anche queste non ci sarebbero. Ma poi vengo a sperimentare che questa scelta, determinata dalle circostanze temporali, non è solo espressione di un’irrimediabile negatività e schiavitù, qualcosa che s’ha da effettuare per forza senza la consapevolezza dell’idea, ma è una scelta in cui divento consapevole di quella libertà che è libertà originaria perché solo in essa mi riconosco, nella mia identità, per quel che sono. Da questo punto di vista tutti gli altri momenti di libertà appaiono solo come condizioni perché si porti alla luce questa libertà esistenziale che è la più profonda, e che in nessun modo può essere oggettivata e generalizzata. Dopo aver riconosciuto i momenti antecedenti e dopo essermene appropriato, si presenta il limite, di fronte al quale, o mi rendo conto con disperazione di non esser proprio nulla, oppure mi accorgo di un essere più profondo e originario. Chi è se stesso sceglie nell’unicità irripetibile della propria storicità, in cui si manifesta a se stesso e all’altra esistenza.

Nel II libro della Filosofia, Chiarificazione dell’esistenza, Jaspers analizza alcuni limiti caratteristici dell’esistenza umana: il dolore e la morte, la lotta e la colpa. La lotta e la colpa sono situazioni-limite prodotte dall’uomo stesso; ogni essere vivente è costretto a lottare con gli altri per garantire la propria sopravvivenza, e se in questa lotta si causa sofferenza l’uomo ne è colpevole e ne viene ad assumere consapevolmente la colpa e quindi la responsabilità. Il dolore Le altre sono situazioni-limite che l’esistenza umana si trova invece a subire pascome limitazione sivamente. L’esserci umano è destinato al dolore: il dolore può essere di diversi generi, può essere dolore fisico o spirituale, così come può avere diverse intensità, ma rappresenta una limitazione dell’esserci di cui ogni uomo è destinato a sopportare la propria parte: «il dolore – scrive Jaspers – è limitazione dell’esserci, è parziale annientamento; dietro ogni dolore c’è la morte. Ci sono molte differenze nel genere e nell’intensità di dolore. A tutti può capitare lo stesso dolore, ciascuno ha la sua parte da sopportare, nessuno è risparmiato». La morte come destino Come è destinato al dolore, l’esserci umano è destinato alla morte, al non essere più; e quando di questa fine si diventa consapevoli, comprendendo la storicità dell’esserci sensibile e corporeo e della stessa esistenza, la sua temporalità, si prova verso di essa, come mette in luce anche Heidegger, un sentimento di angoscia (Angst): sentimento che può essere da una parte disperazione di fronte al non essere più dell’esserci sensibile, alla sua cessazione, ossia «angoscia dell’esserci»; ma dall’altra anche disperazione di fronte al nulla dell’esistenza, al nulla come mancanza di senso e di scopo, ossia «angoscia esistenziale». La lotta e la colpa

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

T4

L’angoscia di fronte alla morte e la certezza d’essere

K. Jaspers, Filosofia, 2,7

L’angoscia che si prova davanti al non-essere non la si può eliminare con la semplice volontà d’esserci, anzi resta l’ultima cosa quando si riduce tutto all’esserci, come determinata realtà fenomenica, come vita nel mondo accompagnata da coscienza e memoria. Contro il tentativo di nascondere questa angoscia mediante rappresentazioni che si riferiscono a un’immortalità sensibile, è radicale comprendere che, dell’esserci sensibile, con la morte non resta nulla. Solo da questo nulla può derivarmi la certezza della vera esistenza, che pur appartenendo al tempo, non è temporale. Questa esistenza conosce un’altra disperazione di fronte al non essere, una disperazione che la può afferrare nonostante la vitalità del suo esserci e in contrasto con la freschezza e la pienezza che l’accompagna. L’angoscia del non-essere esistenziale è qualitativamente così diversa da quella che si prova di fronte al non essere della vita che, nonostante l’equivalenza dei termini «non essere» e «morte», solo la prima può veramente dominare. Solo la certezza di cui è dotata l’angoscia esistenziale può relativizzare l’angoscia dell’esserci. Partendo dalla certezza d’essere propria dell’esistenza si può dominare la brama di vivere e trovar pace di fronte alla morte, intesa come serenità nella consapevolezza della fine. Ma se nella comunicazione che si articola nella coscienza storica non s’è realizzata alcuna fede in una certezza d’essere, la morte esistenziale, di fronte alla morte biologica, finisce col portare alla più completa disperazione, per cui sembra che non sia possibile altra vita se non quella che si snoda tra l’oblio e l’illusione di un vuoto non-sapere. L’angoscia esistenziale derivante dalla consapevolezza dell’inevitabilità della morte può dunque essere placata soltanto scegliendo volontariamente l’esistenza per quello che è (senza false illusioni), ossia una limitazione intrinseca che lascia però intravedere una «certezza d’essere».

4

Il naufragio e la trascendenza

L’esserci umano, in quanto esistenza, è ricerca dell’essere. Il problema fondamentale però, con cui si apre il III libro della Filosofia, Metafisica, è chiarire che cosa sia l’essere e come esso sia conoscibile. Innanzitutto, scrive Jaspers, l’essere non si riduce al semplice oggetto conosciuto, né può essere identificato con la totalità di ciò che è conosciuto: non si può confondere un oggetto con l’essere e si ha sempre una conoscenza solo parziale della totalità delle cose (come si è detto, si conosce sempre all’interno di un determinato orizzonte); l’essere, scrive Jaspers, «mentre ci si rivela venendoci incontro in ogni oggetto e in ogni orizzonte, pure come tale sempre indietreggia e ci si allontana». L’essere è allora concepito come ciò che è al di là di ogni orizzonte determinato, ma che comprende e circoscrive tutto: quello che Jaspers chiama il «tutto-abbracciante» (Umgreifende), su cui ritorna in La filosofia dell’esistenza e in Intorno alla verità, del 1947. La tensione verso Come esistenza l’esserci umano si indirizza verso l’essere, e in questo modo si l’essere e il naufragio «libera dal vincolo dell’essere determinato»; tuttavia l’essere non può essere colto pienamente. Sia la conoscenza scientifica, sia la prassi umana sono infatti sempre parziali e limitate. Ci sono delle situazioni-limite (la morte, il dolore, la lotta, la colpa) che non possono essere definitivamente superate: «nelle situazioni-limite – scrive Jaspers – diventa manifesto che tutto ciò che per noi è positi-

La distinzione tra l’essere e gli oggetti

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vo è legato al negativo, che pur opponendosi gli appartiene. Non c’è alcun bene che non sia anche un male possibile e reale, non c’è verità senza falsità, non c’è vita senza morte; ogni felicità è congiunta al dolore, ogni realizzazione al rischio e alla perdita». Di fronte all’impossibilità di raggiungere l’essere, l’uomo si trova in una situazione di lacerazione e di scacco, e sperimenta il naufragio di tutti i suoi tentativi: quello che Jaspers chiama il «naufragio dell’esistenza».

T5

Il naufragio della metafisica

K. Jaspers, Filosofia, 3,1

La realizzazione dell’esistenza come trascendenza

T6

Trascendenza e autenticità dell’essere

K. Jaspers, Filosofia, 3,1

Libertà ed esistenza autentica

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Se voglio sapere che cos’è l’essere, quanto più implacabilmente pongo la domanda e quanto meno mi lascio ingannare da un’immagine costituita dell’essere, tanto più decisamente mi si manifesta la lacerazione dell’essere. Io non ho mai l’essere, ma sempre e solo un essere. L’essere si riduce alla vuota determinazione dell’affermazione che si esprime nella copula «è», che è una funzione indeterminabile ed equivoca della comunicazione, ma non si presenta mai come un concetto capace di abbracciare tutto l’essere in ciò che ha di comune, né come la totalità di un’interiorità che considera tutte le forme dell’essere come sue esteriorizzazioni, né, tanto meno, come un essere specifico che possieda come suo segno distintivo quello d’essere l’origine della totalità. Se cerco di comprendere l’essere in quanto essere, naufrago inesorabilmente. Ogni tentativo di comprensione razionale o concettuale dell’essere è dunque destinato a fallire. Tuttavia, sebbene l’essere sia irraggiungibile, l’esistenza umana trova la sua piena realizzazione nella ricerca dell’essere. C’è un bisogno originario dell’uomo di andare oltre l’esserci, di trascendere i limiti della situazione, perché l’uomo avverte una profonda insoddisfazione nel vivere come semplice esserci, appiattito sulla situazione. Questa trascendenza si realizza nell’atto di darsi degli scopi e dei progetti, nell’operare delle scelte in cui si acquieta temporaneamente la richiesta di senso. Solo in quanto l’esistenza cerca di porsi oltre la limitazione della situazione e si dà un progetto, essa si mostra conforme alla sua essenza, cioè libera. Il rapporto con la trascendenza, intesa come questo continuo andare oltre, diventa dunque l’elemento essenziale dell’esistenza, in quanto esistenza libera; esso si ripropone dopo ogni scacco e ogni fallimento che l’uomo è chiamato a sopportare. L’essenza dell’essere sfugge ad ogni tentativo della mia conoscenza. Tuttavia questa profondità senza fondo, che è vuota per l’intelletto, è piena di significato per l’esistenza. Io mi trovo ad un tempo nel trascendere, dove questa profondità si manifestò, e nell’esserci temporale dove il cercare come tale divenne trovare, perché, nel suo esserci temporale, l’uomo che trascende può diventare, come esistenza possibile, l’unità della presenza e della ricerca, una presenza che esiste solo come ricerca e che non si separa mai da ciò che cerca. Se è possibile cercare qualcosa solo anticipando ciò che si deve trovare, devo aver già presente la trascendenza quando la cerco. Nel trascendere non conosco l’essere oggettivamente come nell’orientazione nel mondo, né lo penetro come penetro me stesso nella chiarificazione dell’esistenza, ma lo avverto nell’interiorità della mia azione che, anche nel naufragio, rimane accanto all’essere autentico. Pur non essendo un punto d’appoggio oggettivo, l’essere può dare all’esistenza, che dimora nell’esserci, la forza di elevarsi ad un tempo a se stessa e alla trascendenza. In rapporto alla trascendenza l’uomo assume consapevolezza della propria libertà, supera la passività della situazione e si riconosce come esistenza libera in

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

grado di scegliere se dare o meno un senso al mondo: «io sono responsabile di me – scrive Jaspers – perché voglio me stesso». In questo continuo sforzo di trascendere i limiti imposti dalla situazione, l’esserci umano diviene esistenza autentica. L’esistenza autentica coincide con la libertà e con l’incessante trascendere i limiti del proprio esserci. Tuttavia l’esistenza umana potrebbe anche non andare nella direzione della trascendenza e dell’autenticità: l’esistenza «dirige i suoi passi verso l’essere o, allontanandosene, verso il nulla». Qualora questo sforzo di trascendere la situazione non si desse, l’uomo non raggiungerebbe una condizione di autenticità, ma resterebbe un esserci passivo, schiavo della situazione esterna: incapace di dare senso al mondo, perso nell’«abisso del nulla», esistenza inautentica. Situazione-limite e trascendenza dell’esserci

Situazione-limite: insieme degli ostacoli che limitano la realizzazione dell’esserci

L’esserci sceglie: va oltre la propria situazione-limite

L’esserci non sceglie: soccombe al limite e si perde nel nulla

Trascendenza della propria situazione-limite (progettualità)

Angoscia esistenziale (inautenticità)

L’esserci ritrova la libertà e comprende l’esistenza (autenticità)

T7

Un se-stesso non possiede questa consapevolezza [dell’essere] attraverso un sapere, un’adeguata rappresentazione, una garanzia oggettiva, ma solo perché, e nella misura in cui è veramente se stesso di fronte alla sua trascendenza ogni volta che decide e agisce su di sé nel mondo. Si rende allora conto di dipendere da una trascendenza che ha voluto la cosa più alta possibile: un libero essere-se-stesso che diventa a sua volta origine, un esserci che si manifesta nella fugacità dell’esserci temporale. Senza alcun fondamento, il se-stesso è sicuro di sé solo in rapporto alla trascendenza, senza la quale scivola nell’abisso del nulla. Se mi considero nella manifestazione dell’esserci, non mi colgo mai nel mio autentico me-stesso; ogni manifestazione finita acquista, col mio trascendere, un peso e una rilevanza che, come mero esserci, non potrebbe avere. Vedo la trascendenza e mi accerto del mio essere, anche quando essa non mi parla o io assumo nei suoi confronti un atteggiamento di sfida. Se però non la vedo, sento che mi perdo e affondo.

La libertà come origine e come compito

L’esistenza è quindi originariamente libera, ma di fronte ai limiti imposti dalla situazione deve costantemente riconquistare questa libertà originaria, in uno sforzo di trascendimento della situazione che la rende esistenza autentica e responsabile. La libertà viene dunque usata da Jaspers sia per indicare lo statuto ontologico dell’esistenza umana, in un’accezione descrittiva, sia per indicare il compito che essa deve realizzare, in un’accezione valutativa.

Azione e consapevolezza dell’essere K. Jaspers, Filosofia, 2,2

➥ Sommario, p. 562

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Sartre e l’esistenzialismo francese

2 I testi

J.P. Sartre L’essere e il nulla: Il nulla come possibilità propria dell’essere, T8; L’intenzionalità costitutiva della coscienza, T9; L’uomo di fronte alle proprie responsabilità, T11; Vergogna e riconoscimento, T13 L’esistenzialismo è un umanismo: L’esistenza umana

1

come progettualità, T10; L’angoscia e il sentimento di responsabilità, T12; Libertà umana e creazione dei valori, T14 M. Merleau-Ponty Fenomenologia della percezione: Il tutto della percezione e le coscienze altrui, T15

Le origini dell’esistenzialismo in Francia: Marcel

Un terreno particolarmente fertile per la filosofia dell’esistenza è la Francia. Il primo filosofo francese a sviluppare tematiche esistenzialistiche è il parigino Gabriel Marcel (1889-1973), autore di Giornale metafisico (1927), Essere e avere (1935) e Il mistero dell’essere (1952). Marcel può essere considerato il principale rappresentante dell’esistenzialismo religioso francese, da lui innestato sulla tradizione dello spiritualismo cristiano. Come Jaspers, egli sottolinea la trascendenza e la non conoscibilità dell’essere. L’essere, che è identificato con Dio, rimane per l’uomo un «mistero», ma con esso l’esistenza umana è in costante rapporto. La vita umana L’uomo si trova scisso tra una vita impostata sulla base dell’immanenza, cioè deltra immanenza l’avere e del possesso esteriore (nella quale vige una relazione di dipendenza e trascendenza dell’uomo dall’oggetto posseduto), che è prevalente nella società contemporanea, e una vita impostata sulla base della trascendenza, cioè dell’essere e del coinvolgimento interiore. È solo attraverso l’amore e la fedeltà, in un rapporto di «disponibilità» verso gli altri, che l’esistenza umana, che ha come elemento essenziale l’incarnazione nel corpo, può sviluppare la propria potenzialità e quindi avvertire l’essere: la fedeltà, scrive Marcel, testimonia «il riconoscimento non teorico e verbale, ma effettivo, di un certo permanente ontologico, d’un permanente che dura e in rapporto al quale noi stessi duriamo».

Marcel e l’esistenzialismo religioso

2

L’essere in-sé e l’essere per-sé

Ma il principale esponente dell’esistenzialismo francese è il filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre, uno dei maggiori intellettuali francesi del Novecento. L’essere in-sé Il principale testo filosofico di Sartre è L’essere e il nulla, pubblicato durante la e la sua pienezza Seconda guerra mondiale, dopo la liberazione dal campo di prigionia tedesco. 552

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La vita e le opere Nato a Parigi nel 1905 da una famiglia della borghesia intellettuale, Jean-Paul Sartre studiò filosofia e psicologia alla École Normale Supérieure dal 1924 al 1927. Negli anni trenta svolse l’attività di insegnante liceale e iniziò un’intensa attività di scrittore, sotto l’influenza del pensiero di Husserl e Heidegger. In questi anni pubblicò La trascendenza dell’Ego (1936), L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria delle emozioni (1939), il romanzo La nausea (1938) e la raccolta di racconti Il muro (1939). Richiamato alle armi durante la guerra, fu prigioniero dei tedeschi e prese parte alla resistenza. Nel 1943 uscì la sua opera di maggiore rilievo filosofico: L’essere e il nulla. Nel dopoguerra insieme ad

altri intellettuali parigini, fra cui Aron, Camus, Merleau-Ponty e la sua compagna Simone de Beauvoir, fondò la rivista «Les temps modernes» («I tempi moderni») e si impegnò attivamente nel dibattito intellettuale e politico, su posizioni prima vicine, poi critiche, verso il Partito comunista francese e l’Unione Sovietica. Nel 1946 uscì un’altra opera che avrà molta influenza: L’esistenzialismo è un umanismo. Del 1960 è la Critica della ragione dialettica, la quale segna l’incontro tra esistenzialismo e marxismo. Negli anni successivi la sua produzione filosofica e letteraria assunse una notorietà internazionale, tanto che Sartre vinse e rifiutò, nel 1964, il premio Nobel per la letteratura. Divenuto cieco nel 1973, morì a Parigi nel 1980.

L’essere, secondo Sartre, si dà in due diverse modalità. La prima è quella costituita dall’essere in-sé: in questo senso l’essere è inteso come esterno alla coscienza individuale, anteriore a ogni determinazione data dal soggetto. Esso, dice Sartre, è ciò che è, sempre identico a se stesso; in esso non si dà alcuna negazione, alcun vuoto d’essere: non è dunque ancora presente il nulla. L’essere per-sé La seconda modalità dell’essere è quella costituita dall’essere per-sé, cioè che è e la scoperta del nulla presente a se stesso, e che Sartre identifica con la coscienza individuale. Con l’essere per-sé, ossia con la coscienza, vengono poste le determinazioni dell’essere in-sé, e viene attribuito ad esso un senso e dei significati; con la coscienza sorge la negazione dell’essere, e quindi la contingenza e il nulla, che ha la propria origine nell’essere per-sé. È solo, dunque, con la coscienza umana, con l’uomo, che sorge nell’essere il nulla e la consapevolezza della gratuità delle cose, della mancanza di senso e scopo dell’essere in-sé. Questa esperienza rivelatrice del nulla viene descritta da Sartre nel romanzo La nausea: «tutto è gratuito – dice il protagonista del romanzo Antoine Roquentin –, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare […]: ecco la Nausea». Essere «in sé», essere «per sé», «nulla»

Essere in-sé: – esterno alla coscienza – pienezza di essere – assenza di determinazioni Essere per-sé: – coincide con la coscienza – è proteso verso altro da sé – determina l’essere in-sé

T8

Il nulla come possibilità propria dell’essere J.-P. Sartre, L’essere e il nulla

L’essere per-sé (= la coscienza) introduce la negazione nell’essere in-sé, pervenendo al nulla

Il nulla è la problematizzazione dell’essere da parte dell’essere, cioè la coscienza o per-sé. È un avvenimento assoluto che viene all’essere per mezzo dell’essere, e che, senza aver l’essere, è sempre sostenuto dall’essere. Essendo in sé isolato nel suo essere per la sua totale positività, nessun essere può produrre dell’essere e nulla può arrivare all’essere per mezzo dell’essere, se non il nulla. Il nulla è la possibilità propria dell’essere, e la sua unica possibilità. Inoltre, questa possibilità originale appare solo nell’atto assoluto che la realizza. 553

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Essendo il nulla nulla d’essere, non può venire all’essere che per mezzo dell’essere stesso. E senza dubbio viene all’essere per mezzo di un essere singolare, che è la realtà umana. Ma questo essere si costituisce come realtà umana in quanto non è nient’altro che il progetto originale del suo nulla. La realtà umana è l’essere in quanto è nel suo essere e per il suo essere fondamento unico del nulla in seno all’essere. Così come l’essere in-sé, secondo Sartre, è irriducibile all’essere per-sé, alla coscienza umana, allo stesso modo l’essere per-sé, la coscienza, è irriducibile all’essere in-sé. Tuttavia, come emerge anche nei suoi primi scritti filosofici di impronta fenomenologica, L’immaginazione, Abbozzo di una teoria delle emozioni, L’immaginario, la coscienza è sempre in rapporto con l’essere in-sé: essa (anche la coscienza non conoscitiva ma affettiva, presente nella sfera emozionale) è sempre coscienza «di qualcosa», «intenzionata» verso qualcosa. Come in Husserl, la coscienza è cioè caratterizzata dalla proprietà dell’intenzionalità, dal «tendere verso» qualcosa di esterno e da essa indipendente, il mondo; e questa è una proprietà pre-riflessiva, indipendente dalla consapevolezza del soggetto. Coscienza ed esistenza In quanto dotata della caratteristica dell’intenzionalità, la coscienza è quindi sempre protesa verso qualcosa di altro e distante; essa è cioè sempre «fuori di sé», un ex-sistere: è cioè, nel suo senso letterale, esistenza. D’altronde, la coscienza, come essere per-sé, si costituisce fin dall’origine come negazione dell’essere in-sé, ed è quindi sempre imperfezione e mancanza, ricerca del proprio completamento nella direzione di un essere esterno e distante. L’intenzionalità come tratto costitutivo della coscienza

T9

L’intenzionalità costitutiva della coscienza J.-P. Sartre, L’essere e il nulla

Il distacco da Heidegger

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Il primo passo di una filosofia deve essere quello di espellere le cose dalla coscienza e ristabilire il vero rapporto di questa col mondo, cioè che la coscienza è coscienza posizionale del mondo. Ogni coscienza è posizionale in quanto si trascende per attingere un oggetto e si esaurisce in questa posizione; tutto ciò che vi è di intenzione nella mia coscienza attuale è rivolto al di fuori, verso il tavolo; tutte le mie attività giudicative o pratiche, tutta la mia affettività del momento si trascendono, mirano al tavolo e vi restano assorbite. Non ogni coscienza è conoscenza (vi sono coscienze affettive, per esempio), ma ogni coscienza conoscente può essere conoscenza soltanto del suo oggetto. […] La coscienza riflessiva pone la coscienza riflessa come suo oggetto: io formo, nell’atto di riflessione, dei giudizi sulla coscienza riflessa: ne ho vergogna, ne sono fiero, la voglio, la rifiuto, ecc. Invece la coscienza immediata che si ha nella percezione non permette né di giudicare né di volere né di provare vergogna. Essa non conosce la percezione, non la pone; tutto ciò che vi è di intenzionale nella mia coscienza attuale è diretto verso l’esterno, verso il mondo. Sartre identifica, dunque, l’esistenza con l’essere per-sé, con la coscienza. Per questa accentuazione dell’elemento coscienzialistico, la sua filosofia dell’esistenza si distacca da quella di Heidegger: in polemica con il filosofo tedesco, nota che «il Dasein, privato all’origine della dimensione della coscienza, non potrà mai riconquistare questa dimensione». Come ha osservato Pietro Chiodi (19151970), interpretando l’esserci heideggeriano come coscienza, Sartre opera nell’esistenzialismo una sorta di rivoluzione copernicana che gli consente «di ricuperare, sotto vesti esistenzialistiche, gran parte dei motivi tradizionali dello spiritualismo coscienzialistico e intimistico francese».

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La libertà e la malafede

Come anche per Jaspers, secondo Sartre la caratteristica principale dell’esistenza è la libertà. Ponendosi sempre come negazione di qualcosa di esterno, di una «situazione» e «fattità» esterna che è costituita dall’essere in-sé, l’esistenza umana è intrinsecamente possibilità, ed è quindi libera in quanto non pre-determinata da ➥ Laboratorio sul lessico, niente altro, né dalla natura, né dagli altri uomini, né da Dio (Sartre si dichiara Libertà, p. 341 ateo). In ogni situazione l’uomo è libero di scegliere, di darsi dei progetti e organizzare autonomamente la propria esistenza futura; nel mondo del resto non ci sono fini se non quelli che l’uomo stesso pone consapevolmente con la propria progettualità indirizzata al futuro: «non c’è libertà che in una situazione e non c’è situazione che mediante libertà – scrive Sartre. – La realtà umana incontra dappertutto resistenze e ostacoli che non ha creato. Ma questi ostacoli non hanno senso che mediante la libera scelta che la realtà umana è». L’uomo «condannato» Sartre analizza diversi tipi di situazione che possono creare ostacoli alla libertà: il a essere libero nostro posto nello spazio, il nostro corpo, il nostro passato, la nostra relazione con gli altri; tuttavia essi possono essere superati dalla progettualità umana. L’esistenza umana è libera e non può sfuggire alla propria libertà, ogni limite è destinato a essere da essa oltrepassato, l’unica cosa che essa non può scegliere è quella di cessare di essere libera: «io sono condannato – scrive – ad esistere per sempre al di là dei moventi e dei motivi del mio atto: io sono condannato ad essere libero. Ciò significa che non si possono trovare alla mia libertà altri limiti che la libertà stessa; o se si preferisce che non siamo liberi di cessare di essere liberi». Non c’è dunque alcuna determinazione esterna in grado di porre limiti invalicabili alla libertà umana: l’uomo è l’unico essere, sostiene Sartre, per il quale l’esistenza precede l’essenza. Non vi è infatti alcuna essenza o natura umana che sia antecedente all’esistenza dell’uomo e al suo trovarsi «gettato» nel mondo; è l’uomo stesso a creare la propria essenza e la propria natura, elaborando progetti di vita e operando scelte concrete che gli consentono di andare sempre oltre il proprio limite. La libertà costitutiva dell’esistenza umana

T10

L’esistenza umana come progettualità J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo

L’assoluta responsabilità umana

Che cosa significa che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo. […] L’uomo è, dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente, invece di essere muschio, putridume o cavolfiore; niente esiste prima di questo progetto; niente esiste nel cielo intelligibile; l’uomo sarà anzitutto quello che avrà progettato di essere. In quanto costitutivamente libero di scegliere, l’uomo è costitutivamente responsabile delle proprie scelte. Come si è condannati alla libertà, per Sartre si è condannati alla responsabilità. E questa responsabilità riguarda non solo le singole decisioni prese dal soggetto, ma tutto ciò che accade nel mondo. Sartre definisce questa concezione della responsabilità come «assoluta»: «l’uomo – scrive –, es555

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sendo condannato ad essere libero, porta il peso del mondo tutto intero sulle spalle: egli è responsabile del mondo e di se stesso». Anche di un avvenimento come lo scoppio di una guerra ogni soggetto umano porta la responsabilità: perché essa è sempre anche la sua guerra, ad essa avrebbe potuto opporsi o sottrarsi: «se ho preferito la guerra alla morte o al disonore, è come se portassi l’intera responsabilità della guerra». Si è dunque responsabili del mondo intero e non possono essere avanzate scuse o giustificazioni: anche il conformismo e la mancanza di scelta è pur sempre una scelta. Questo richiede all’uomo un impegno costante.

T11

L’uomo di fronte alle proprie responsabilità J.-P. Sartre, L’essere e il nulla

Esistenza umana ed essenza umana

Prendiamo la parola «responsabilità» nel suo senso banale di «coscienza (di) essere l’autore incontestabile di un avvenimento o di un oggetto». In questo senso, la responsabilità del per-sé è molto grave, perché è colui per cui succede che c’è un mondo; e poiché è pure colui che si fa essere, qualunque sia la situazione in cui si trova, il per-sé deve assumere interamente la situazione col suo coefficiente di avversità, fosse pure insostenibile; deve assumerla con la coscienza orgogliosa di esserne l’autore, perché gli inconvenienti peggiori o le peggiori minacce che rischiano di raggiungere la mia persona non hanno senso che per il mio progetto; compaiono sullo sfondo del mio progetto di impegno. È quindi insensato pensare di rammaricarsi perché nulla di estraneo ha deciso di ciò che proviamo, di ciò che viviamo o di ciò che siamo. D’altra parte questa responsabilità assoluta non è accettazione: è semplice rivendicazione logica delle conseguenze della nostra libertà. Quello che mi accade, accade per opera mia e non potrei affliggermi né rivoltarmi né rassegnarmi. D’altra parte tutto ciò che mi accade è mio: con ciò bisogna intendere che sono sempre all’altezza di quello che mi accade, in quanto uomo, perché ciò che accade agli uomini per opera di altri uomini e di se stesso non potrebbe essere che umano. Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture non sono stati di cose inumani: non ci sono situazioni disumane; è solo per paura, per fuga e ricorso a comportamenti magici che deciderò dell’inumano; ma questa decisione è umana e ne sopporterò tutta la responsabilità. Ma la situazione è mia inoltre, perché è l’immagine della libera scelta di me stesso e tutto ciò che mi presenta è mio in quanto che mi rappresenta e mi simbolizza. Non sono forse io che decido del coefficiente di avversità delle cose, e persino della loro imprevedibilità, decidendo di me stesso?

1) L’uomo esiste prima della sua essenza, ossia non vi è una ‘natura umana’ precostituita

4) L’esistenza umana resta sempre aperta rispetto alla propria essenza

L’angoscia di fronte alla scelta

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2) L’uomo progetta e opera delle scelte di vita, creando nuovi valori e assumendosi responsabilità

3) Solo a questo punto ha senso parlare di una essenza dell’uomo: egli è come si è fatto da solo

Proprio la difficoltà dell’impegno che la concezione della responsabilità richiede lascia l’uomo in una disperazione profonda, che Sartre chiama «angoscia». Di fronte al peso di una scelta da compiere da solo, l’individuo prova la sensazione

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dell’abbandono e della disperazione: «è nell’angoscia che l’uomo prende coscienza della sua libertà». L’angoscia è simile alla paura, ma non è la paura: se la paura è una sensazione che si prova di fronte a eventi esterni, l’angoscia si prova di fronte alla solitudine della scelta. Malafede e fuga Non tutti però provano questa sensazione di angoscia; molti possono non ascoltare dalle scelte la propria coscienza, mascherare l’angoscia, in un atteggiamento di fuga da se stessi, che Sartre denomina «malafede», che è una sorta di menzogna verso se stessi: se nella menzogna si inganna altri, nella malafede si inganna se stessi; con essa l’uomo mente deliberatamente a sé, costruendosi una immagine falsa della situazione, per sfuggire alla propria responsabilità e all’angoscia connessa alla scelta.

T12

L’angoscia e il sentimento di responsabilità J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo

L’uomo è angoscia. Questo significa: l’uomo che assume un impegno ed è consapevole di essere non soltanto colui che sceglie di essere, ma anche un legislatore che sceglie nello stesso tempo, e per sé e per l’intera umanità, non può sfuggire al sentimento della propria completa e profonda responsabilità. Certo molti uomini non sono angosciati, ma noi affermiamo che essi celano a se stessi la propria angoscia, che la fuggono; certo molti uomini credono, quando agiscono, di non impegnare che se stessi, e quando si dice loro: «ma se tutti facessero così?», alzano le spalle e rispondono: non tutti fanno così. Ma in verità ci si deve sempre chiedere: che cosa accadrebbe se tutti facessero altrettanto? E non si sfugge a questo pensiero inquietante che con una specie di malafede. Colui che mente e si scusa dicendo: non tutti fanno così, è qualcuno che si trova a disagio con la propria coscienza, perché il fatto di mentire implica un valore universale attribuito alla menzogna. L’angoscia appare anche quando si maschera. L’angoscia è dunque per Sartre il segno distintivo dell’autenticità di ogni scelta.

4 L’uomo come «cosa» per gli altri

T13

Vergogna e riconoscimento J.-P. Sartre, L’essere e il nulla

L’essere per-altri e la morale dell’impegno Così come è essenziale per l’uomo il rapporto con l’essere in-sé è essenziale per esso il rapporto con gli altri uomini. L’uomo, dice Sartre nell’Essere e il nulla, è un «essere per-altri»; l’altro entra nella soggettività umana: di fronte agli altri l’esperienza che ognuno ha di se stesso viene modificata. Così come l’altro è per me un oggetto, qualcosa che è veduto o udito, così io mi trasformo per l’altro in un oggetto: egli mi vede e mi ode come qualcosa di esterno, non come un essere persé, ma come un essere in-sé. Di fronte allo sguardo dell’altro sono ridotto a cosa, e a seguito di questa degradazione provo sensazioni specifiche, come quelle del pudore, della timidezza e della vergogna. La vergogna nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno. Faccio un gesto maldestro o volgare: quel gesto aderisce a me, non lo giudico né lo biasimo, lo vivo semplicemente, lo realizzo al modo del per-sé. Ma ecco che improvvisamente alzo gli occhi: qualcuno era là e mi ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e ho vergogna. La mia vergogna non è certo riflessiva, perché la presenza d’altri alla mia coscienza, fosse anche alla maniera di un catalizzatore, è incompatibile con l’atteggiamento riflessivo: nel campo della riflessione non posso mai incontrare altro che la coscienza che è mia. 557

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Altri è il mediatore indispensabile tra me e me stesso: ho vergogna di me stesso quale appaio ad altri. E, con l’apparizione di altri, sono posto in condizione di portare un giudizio su me stesso come su un oggetto, perché come oggetto mi manifesto ad altri. […] La vergogna è, per natura, riconoscimento. Riconosco di essere come altri mi vede. Il rapporto con l’altro come conflitto

L’esistenzialismo come filosofia della solidarietà

L’uomo creatore della propria morale

T14

Libertà umana e creazione dei valori J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo

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Proprio come conseguenza di questa reciproca riduzione a cose, caratteristica fondamentale del rapporto con gli altri è il conflitto e la lotta. Il rapporto con l’altro si pone sempre in una relazione di limitazione reciproca e di competizione volta all’affermazione di sé e alla sopraffazione. Anche la relazione di amore, che è un tentativo di possedere l’altro senza ridurlo a cosa, è destinata allo scacco e allo scontro: «l’inferno sono gli altri», dice uno dei personaggi del dramma A porte chiuse, del 1945, riprendendo un tema dell’Essere e il nulla. Questo aspetto conflittuale del rapporto con gli altri è tuttavia attenuato nel dopoguerra. La sfiducia verso gli altri e la sfiducia nel senso stesso dell’azione dell’uomo, il quale nell’Essere e il nulla non può mai superare la lacerazione fra essere in-sé e per-sé, lascia il posto a un atteggiamento più costruttivo che mette in luce le possibilità di intervento e trasformazione della realtà. In questa direzione Sartre sottolinea la dimensione dell’impegno e della responsabilità sociale. L’uomo ha la capacità di progettare il proprio futuro e così cambiare la realtà: «l’esistenzialismo – scrive Sartre in questi anni – non è un godimento solitario, ma una filosofia umanista dell’azione, dello sforzo, della lotta, della solidarietà». Nel saggio L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre sviluppa quella che chiama «una morale dell’azione e dell’impegno». Anche se Dio non esiste, non per questo viene meno la sfida alla trasformazione morale e politica della realtà. Solo che non esistono morali a priori già pronte e costituite a cui l’uomo si debba semplicemente adeguare. Le norme morali della tradizione sono troppo vaghe e indefinite per essere una guida efficace nelle concrete situazioni nelle quali ci si trova a scegliere. L’uomo deve invece costantemente creare una propria morale in rapporto alla concreta situazione in cui agisce: è l’uomo, non Dio, l’origine dei valori, e sta a lui scegliere quali valori far propri in relazione alla situazione, quale senso attribuire ad essa, inventando i valori: «tu sei libero, scegli, cioè inventa – scrive Sartre. – Nessuna morale generale ti può indicare ciò che è da fare», «l’uomo si fa; non è qualcosa di bell’e fatto in partenza; egli si fa scegliendo la propria morale». Dostoevskij ha scritto: «Se Dio non esiste tutto è permesso». Ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l’uomo è «abbandonato» perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità d’ancorarsi. E anzitutto non trova delle scuse. Se davvero l’esistenza precede l’essenza non si potrà mai fornire spiegazioni riferendosi ad una natura umana data e fissata; in altri termini non vi è determinismo: l’uomo è libero, l’uomo è libertà. Se d’altro canto Dio non esiste, non troviamo di fronte a noi dei valori o degli ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Siamo soli, senza scuse. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e ciò non di meno libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa. […]

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Siccome ho soppresso Iddio padre, è pur necessario qualcuno per inventare valori. Bisogna prendere le cose come sono. E, d’altra parte, dire che noi inventiamo i valori non significa altro che questo: la vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate la vita di per sé non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete. La reciprocità tra libertà mia e libertà altrui

L’avvicinamento alla filosofia marxista

Il «gruppo» e la «serie» degli individui

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Per il Sartre di questi anni non solo ha un senso l’impegno per la progettazione della realtà, ma si possono dare relazioni con gli altri che non sono di natura conflittuale, ma di aiuto e cooperazione. La libertà di ciascuno deve anzi essere messa in rapporto con la libertà degli altri; l’una si realizza, dice ora Sartre, solo se si realizza anche l’altra: «volendo la libertà, scopriamo che essa dipende dalla libertà degli altri, e che la libertà degli altri dipende dalla nostra. […] Dal momento che c’è un impegno io sono obbligato a volere insieme la mia libertà e la libertà degli altri, né posso prendere la mia libertà come fine se non prendo ugualmente come fine anche la libertà degli altri». Vi è effettivamente, scrive adesso Sartre, «la possibilità di creare una comunità umana». Questo riconoscimento va di pari passo all’apertura dell’esistenzialismo nei confronti del marxismo, un’originale versione del quale Sartre sviluppa nello scritto Critica della ragione dialettica. L’uomo è il soggetto della storia; la storia viene fatta dalla prassi dell’uomo, e in primo luogo dal lavoro con il quale l’uomo soddisfa i propri bisogni. Ma su questa attività pesano i condizionamenti economici e sociali della realtà storica, compresa l’alienazione dell’uomo dal lavoro, caratteristica della società capitalistica: «le condizioni materiali dell’esistenza dell’uomo – scrive Sartre – circoscrivono il campo delle sue possibilità». La storia procede perciò in maniera dialettica e conflittuale. Di fronte a un pericolo comune, gli uomini possono però unirsi gli uni con gli altri in modo da formare una comunità di intenti e di sentire: questa fusione di intenti caratterizza ciò che Sartre chiama il «gruppo» in opposizione alla «serie», che è un’unione transitoria fra più individui priva di un’effettiva unità di intenti. Se una fila di persone in attesa dell’autobus può essere considerata un esempio di serie, la classe sociale è l’esempio più tipico di «gruppo in fusione». Tuttavia il gruppo corre il rischio di una eccessiva organizzazione e istituzionalizzazione, con la creazione di una rigida gerarchia e burocrazia, che finisce per alienare e far tornare di nuovo estranei gli individui gli uni con gli altri. L’esperienza dell’Unione Sovietica testimonia secondo Sartre questo rischio.

Merleau-Ponty

Alcuni dei temi principali della riflessione sartriana si ritrovano, in modo originale, anche nel pensiero di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), professore nelle università parigine e amico di Sartre, con cui collabora alla direzione di «Les temps modernes» fino al 1953. La critica a Sartre Formatosi sullo studio della fenomenologia di Husserl, Merleau-Ponty critica Sare il «mondo della vita» tre per avere esasperato la contrapposizione fra essere per-sé ed essere in-sé, così da ricadere nel dualismo cartesiano tra mente e mondo. Come sostiene nella Struttura del comportamento (1942), e nella Fenomenologia della percezione (1945), l’esistenza è un rapporto tra la coscienza e il mondo, ma questo rapporto ha la sua oriMerlau-Ponty e Sartre

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gine in una dimensione antecedente a ogni riflessione e quindi a ogni distinzione tra soggetto e oggetto: in quello che Merleau-Ponty chiama, con Husserl, il «mondo della vita». L’esistenza ha come luogo fondamentale l’esperienza vissuta della percezione, una esperienza primaria e pre-discorsiva, in cui coscienza e mondo si costituiscono in un rapporto di reciproca implicazione e interazione. La dimensione corporea L’elemento fondamentale della percezione è la dipendenza dal corpo, che è ine il rapporto sieme oggetto percepito e soggetto percepiente. Proprio questa dimensione corcon gli altri porea consente a Merleau-Ponty di ribadire, nell’esperienza percettiva, la complementarietà del proprio corpo con quello degli altri: «siamo mescolati al mondo e agli altri – scrive – in una confusione inestricabile». In polemica con la posizione di Sartre nell’Essere e il nulla, il rapporto con gli altri non è quindi solo conflittuale, ma è fin dalla sua origine un rapporto di comunicazione e di legame.

T15

Il tutto della percezione e le coscienze altrui M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 2,4

Dobbiamo concepire le prospettive e il punto di vista come il nostro inserimento nel mondo-individuo, e la percezione non più come una costituzione dell’oggetto vero, ma come la nostra inerenza alle cose. Con i campi sensoriali e con il mondo come campo di tutti i campi la coscienza scopre in se stessa l’opacità di un passato originario. Se esperisco questo inerire della mia coscienza al suo corpo e al suo mondo, la percezione dell’altro e la pluralità delle coscienze non presentano più difficoltà. Se, per me che rifletto sulla percezione, il soggetto percepiente appare fornito di un montaggio primordiale nei confronti del mondo, se appare trascinante dietro di sé questa cosa corporea senza la quale per lui non ci sarebbero altre cose, perché mai gli altri corpi che percepisco non dovrebbero, a loro volta, essere abitati da coscienze? Se la mia coscienza ha un corpo, perché gli altri corpi non «avrebbero» delle coscienze?

Così come non esiste una coscienza individuale nettamente separata dal mondo, allo stesso modo, per Merleau-Ponty, non si dà al soggetto una libertà assoluta, sganciata da ogni condizionamento, come quella che Sartre sostiene nell’Essere e il nulla. La libertà è invece sempre «condizionata». Essa è collocata in una determinata situazione e in un determinato tempo, legata a un passato che influisce sulla scelta; il mondo ha una propria struttura che pesa sulle decisioni individuali: si nasce sempre «dal» mondo; tuttavia, insieme si nasce anche «al» mondo, in quanto esso non è mai un orizzonte chiuso e definitivo: «noi scegliamo il nostro mondo e il mondo ci sceglie». La responsabilità individuale deve sempre fare i conti con la contingenza e i condizionamenti della situazione storica: «non c’è mai determinismo – scrive Merleau-Ponty – e non c’è mai scelta assoluta, io non sono mai cosa e non sono mai coscienza nuda». La critica Nonostante il forte avvicinamento di questa prospettiva esistenzialistica con il della dialettica marxismo operato nell’immediato dopoguerra attraverso la riflessione sui testi del marxista giovane Marx, testimoniato da Umanesimo e terrore del 1947 e dai saggi raccolti nel 1948 in Senso e non-senso, l’interazione fra la situazione storica e la libertà umana porta presto Merleau-Ponty a motivare il distacco dal Partito comunista francese e da Sartre (allora su posizioni di adesione alla politica sovietica). Nel saggio del 1955 Le avventure della dialettica, Merleau-Ponty critica la concezione marxista della dialettica, interpretata come legata a una visione predeterminata dello sviluppo storico, incapace di cogliere il valore e l’apertura della prassi umana: «non c’è dialettica – scrive – senza opposizione e senza libertà, e opposizione e libertà non durano a lungo in una rivoluzione».

I condizionamenti della libertà

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

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Mounier e il personalismo

Una certa vicinanza con i temi dell’esistenzialismo si trova anche nel «personalismo» cristiano di Emmanuel Mounier (1905-1950), fondatore nel 1932 della rivista «Esprit» («Spirito») e autore di Manifesto al servizio del personalismo (1936), Introduzione agli esistenzialismi (1947), Il personalismo (1949). Mounier sottolinea la centralità della persona umana, cioè dell’individuo corporeo che è insieme «spirito», e in quanto tale dotato di un’assoluta unicità e di una libertà che è sempre «sotto condizioni», legata alla situazione nella quale la persona è collocata. La realizzazione Proprio in quanto spirito, la persona è in costante rapporto con la trascendenza: dell’uomo essa è cioè un continuo superamento di se stessa sia verso Dio e la dimensione nella comunità religiosa, sia verso gli altri e la dimensione sociale. La centralità della comunione con gli altri richiede alla persona un costante impegno sociale, volto alla trasformazione del mondo (in una sorta di terza via rispetto al capitalismo e al comunismo), poiché solo nella comunità, nella «persona collettiva», la persona umana può trovare la sua più piena realizzazione; un aspetto per il quale Mou➥ Sommario, p. 562 nier è critico verso il carattere individualistico dell’esistenzialismo.

Il personalismo cristiano di Mounier

Suggerimenti bibliografici Per una introduzione alle tematiche dell’esistenzialismo è ancora utile la raccolta antologica curata da P. Chiodi, Il pensiero esistenzialista, Garzanti, Milano 1959, ma si può vedere anche P. Prini, Storia dell’esistenzialismo, Studium, Roma 1989. Sul pensiero di Jaspers si può consultare U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Analisi del linguaggio occidentale in Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977; e soprattutto G. Cantillo, Introduzione a Jaspers, Laterza, Roma-Bari 2001. Su Marcel è consultabile P. Prini, G. Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Studium, Roma 1977. Su Sartre si possono vedere almeno F. Fergnani, Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, G. Invitto, Sartre. Dal «gioco dell’essere» al lavoro ermeneutico, Angeli, Milano 1988 e S. Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, Roma-Bari 1990, ma è ancora utile il lavoro di P. Chiodi, Sartre e il marxismo, Feltrinelli, Milano 1965. Su Merleau-Ponty è da vedere A. Bonomi, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, Il Saggiatore, Milano 1967, e L. Vanzago, Modi del tempo: simultaneità, processualità e relazione tra Whithead e Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2001. Su Mounier, infine A. La Macchia, Personalismo comunitario e filosofia dell’esistenza, Levante, Bari 1993.

I brani antologizzati sono tratti da: K. Jaspers, Filosofia, UTET, Torino 1978. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1984: pp. 16-17 (T9), p. 123 (T8), pp. 285286 (T13), pp. 665-666 (T11). J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1978: pp. 50-51 (T10), pp. 55-57 (T12), pp. 62-63 e 104 (T14). M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965.

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Sommario 1. JASPERS

E LA FILOSOFIA DELL’ESISTENZA

La corrente filosofica detta «esistenzialismo» affonda le sue radici (fatta eccezione per l’antecedente storico di Kierkegaard) nella Germania del primo dopoguerra, in particolare nella riflessione di Heidegger e Karl Jaspers. Jaspers concentra il discorso filosofico sull’esistenza del singolo individuo, isolato nel mondo e posto sempre di fronte a circostanze che lo limitano ma che al tempo stesso gli offrono una possibilità di riscattarsi. [par. 1] Tra i fondatori dell’esistenzialismo tedesco, Jaspers si sposta gradualmente da una formazione psichiatrica a interessi filosofici. Egli distingue nettamente il compito delle scienze (chiarire i fatti del mondo) da quello della filosofia (chiarire il senso della scienza stessa). La filosofia si concentra sull’esserci, ossia sul mondo in quanto vissuto soggettivamente dall’individuo, contrariamente alle scienze, che chiariscono i rapporti oggettivi tra i vari enti. Nel far ciò la filosofia cerca di comprendere anche il senso della scienza nella sua totalità. [par. 2] L’esistenza umana è collocata sempre in una situazione-limite spazio-temporalmente determinata che la condiziona costantemente ma che la spinge anche a compiere delle scelte, le quali mettono in luce l’originaria libertà dell’uomo. Limitazioni che l’uomo pone attivamente sono la lotta e la colpa che ne consegue; limitazioni che l’uomo subisce passivamente sono il dolore e la morte. [par 3] Mentre la domanda metafisica circa il senso dell’essere è destinata a un «naufragio» concettuale, l’esistenza del singolo trova una sua realizzazione nella dimensione progettuale e nelle scelte di vita concrete, che comportano una trascendenza rispetto alla situazione-limite. In tale dimensione si realizza pienamente la libertà umana e l’esserci ritrova la propria autenticità. [par. 4] 2. SARTRE

E L’ESISTENZIALISMO FRANCESE

Tra i precursori dell’esistenzialismo francese è da menzionare il filosofo spiritualista Gabriel Marcel, nel quale il concetto di «trascendenza» assume connotati di natura prettamente religiosa. [par. 1] Nella sua opera maggiore, L’essere e il nulla, Sartre distingue due modalità in cui si dà l’essere: l’essere in-

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sé, indipendente dalla coscienza, e l’essere per-sé, espressione della coscienza che pone la negazione dell’essere e il nulla. La realtà umana si configura come il fondamento stesso del nulla, la sua condizione di possibilità. Caratteristica strutturale dell’essere per-sé, ossia della coscienza, è poi l’intenzionalità, il protendersi continuamente oltre se stessa, verso l’essere in sé. La coscienza è dunque essenzialmente mancanza e imperfezione. [par. 2] Secondo Sartre l’uomo non può sottrarsi alla libertà, poiché essa è costitutiva della sua stessa esistenza: l’uomo è dunque «condannato» a essere libero. Tale «condanna» alla libertà vale anche per la responsabilità umana: l’uomo è responsabile di tutto ciò che accade attorno a lui, e il singolo individuo è sempre corresponsabile. La coscienza di una tale responsabilità assoluta può gettare l’uomo nell’angoscia di fronte alle scelte che è chiamato a compiere, o farlo fuggire in un atteggiamento di «malafede». [par. 3] Per gli altri l’uomo è innanzitutto una cosa del mondo, una limitazione, e da questo riconoscimento sorge il sentimento della vergogna e la natura essenzialmente conflittuale dei rapporti umani. Negli scritti del dopoguerra si fa tuttavia strada in Sartre un atteggiamento più fiducioso nei confronti di una collaborazione fra gli uomini volta al progresso comune e alla solidarietà. Gli uomini sono chiamati a inventare nuovi valori; non esistono né norme morali né una natura umana dati a priori. Si delinea un avvicinamento tra esistenzialismo e marxismo, all’insegna di un processo di liberazione collettivo. [par. 4] Amico e collega di Sartre, Merleau-Ponty ribadisce l’essenziale unitarietà del «mondo della vita», di contro alla rigida dicotomia sartriana tra essere «in sé» ed essere «per sé». In quest’ottica gli altri – in quanto parte del nostro campo fenomenico – sono inestricabilmente legati a noi stessi. Anche le nostre scelte non sono mai libere in senso assoluto, né determinate in senso assoluto, bensì sempre soggette a condizionamenti. [par. 5]

Mounier è invece il principale esponente della tradizione personalistica cristiana. Egli concepisce la trascendenza come realizzazione della persona nella dimensione comunitaria e spirituale. [par. 6]

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Unità 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre

Parole chiave Angoscia. Termine centrale nella filosofia esistenzialista. Esso indica da una parte il sentimento di disperazione davanti al nulla e alla morte; dall’altra, il sentimento che assale colui che, consapevole della propria responsabilità, si trova di fronte a una scelta alla quale non può sottrarsi. Esistenza. Concetto chiave della filosofia dell’esistenzialismo, esso indica il modo di essere proprio dell’uomo, che è insieme esistenza individuale e solitaria, sottoposta a limitazioni e condizionamenti, ma aperta a varie possibilità. Esser-ci. In tedesco Da-sein, termine impiegato da Jaspers (e da Heidegger) per indicare il modo di essere di tutte le cose presenti nel mondo: esse sono sempre situate nello spazio e nel tempo, un essere-qui. L’esserci umano è però anche esistenza. Essere in-sé. Nel pensiero di Sartre, l’espressione indica quella modalità dell’essere per cui esso si dà indipendentemente dalla coscienza, come pienezza di essere priva di determinazioni. Essere per-sé. Sempre in Sartre, il termine indica la coscienza che, riflettendo sull’essere in-sé e introducendovi determinazioni e negazioni, perviene alla consapevolezza del nulla.

Libertà. Nel pensiero di Jaspers e di Sartre, essa costituisce sia la natura più profonda dell’esserci, sia il compito che gli sta davanti. Nulla. Concetto chiave dell’esistenzialismo. Il termine, pur nella diversità delle accezioni, indica la negazione dell’essere e al tempo stesso la consapevolezza che l’esistenza umana ha della propria cessazione. L’ambivalenza del nulla è data dal fatto che esso può essere vissuto dall’esistenza sia con angoscia (inautenticità), sia come opportunità di scelta e progettualità (autenticità). Possibilità. Nell’esistenzialismo il termine indica la progettualità propria dell’esistenza umana, il suo protendersi verso l’essere e oltre le proprie limitazioni. Situazione-limite. Essa è secondo Jaspers il tratto caratteristico dell’esserci e dell’esistenza umana, posta costantemente di fronte a limitazioni di vario genere (spaziali, temporali ecc.) e tuttavia aperta a diverse possibilità. Trascendenza. La capacità, propria dell’uomo, di andare oltre la situazione-limite in cui è collocato, resa possibile dall’operare progetti e scelte di vita concrete. In essa si dischiude la profonda libertà umana.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Questionario JASPERS 1

2

3

4

SARTRE

E LA FILOSOFIA DELL’ESISTENZA

13

Come si configura la distinzione di compiti fra le scienze e la filosofia secondo il pensiero di Jaspers? (max 5 righe)

In cosa consiste l’identità profonda di cui si rende consapevole chi opera una scelta, secondo quanto asserito nel brano T3? (max 6 righe)

14

Per quale motivo secondo Jaspers si rende necessaria una «orientazione filosofica del mondo»? (max 4 righe)

È possibile formarsi un concetto dell’essere in quanto tale, stando a quanto afferma Jaspers in T5? Perché? (max 5 righe)

15

Come è possibile placare l’angoscia di fronte all’impossibilità di comprendere l’essere secondo Jaspers? (max 6 righe)

Che rapporto c’è tra ricerca dell’essere e trascendenza nel brano di Jaspers riportato in T6? (max 6 righe)

16

In che senso si può affermare, stando a T6, che l’esserci trova l’autentico se stesso solo nella trascendenza? (max 4 righe)

17

In che rapporto sta l’essere della realtà umana con il nulla secondo quanto Sartre afferma in T8? (max 6 righe)

18

Qual è il rapporto tra coscienza, conoscenza e intenzionalità, stando a quanto Sartre sostiene in T9? (max 5 righe)

19

Perché non è possibile definire una «natura» dell’uomo che preceda la sua esistenza, secondo quanto affermato da Sartre in T10? (max 5 righe)

20

Che cosa intende affermare Sartre in T11, quando dice che «non ci sono situazioni disumane»? (max 4 righe)

21

Rileggi il brano T12 e indica quale nesso viene espresso da Sartre tra angoscia, responsabilità e universalizzazione delle scelte. (max 6 righe)

22

In cosa consiste il senso dell’esistenza secondo quanto afferma Sartre in T14? (max 4 righe)

23

Che tipo di dimostrazione dell’esistenza delle coscienze altrui propone Merleau-Ponty in T15? (max 6 righe)

E L’ESISTENZIALISMO FRANCESE

5

Qual è il rapporto tra l’essere per-sé e l’essere in-sé secondo Sartre? (max 5 righe)

6

Che immagine dei rapporti tra libertà umana e responsabilità emerge dalla filosofia di Sartre? (max 6 righe)

7

8

lità di scelta che da essa si dischiudono? (max 7 righe)

Che rapporto c’è tra i concetti di «situazione» e di «possibilità» nella filosofia dell’esistenzialismo? (max 6 righe)

In quale contesto e con che significato Sartre impiega il termine «angoscia»? (max 5 righe) Per quale ragione di carattere ontologico secondo Sartre i rapporti umani sono essenzialmente conflittuali? (max 5 righe)

9

Qual è, secondo Sartre, il rapporto dell’uomo con i valori morali? (max 8 righe)

10

In cosa consiste la critica rivolta da MerleauPonty a Sartre riguardo alla distinzione tra essere in sé ed essere per sé? (max 7 righe)

Lavoriamo sui testi 11

Perché si pone il problema del ‘senso’ della ricerca scientifica, stando a quanto Jaspers afferma in T1? (max 4 righe)

12

Che rapporto c’è nel brano T2 tra le limitazioni intrinseche alla situazione umana e le possibi-

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società 1. Analisi del capitalismo 2. Weber 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La comprensione del mondo moderno Protestantesimo e spirito del capitalismo La religione e il disincantamento del mondo La razionalità del capitalismo La filosofia dei valori Etica e politica

3. Il marxismo occidentale: Gramsci e Lukács 1. Gramsci 2. Lukács

4. La Scuola di Francoforte 1. Horkheimer 2. Adorno e Benjamin 3. Marcuse ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Weber, La politica come professione

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Analisi del capitalismo

1 Gli sviluppi del capitalismo

Nascita della sociologia

Marx, Engels e il marxismo

La Rivoluzione russa

Solidità e capacità di espansione del capitalismo

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Il XIX secolo vede un grande sviluppo del capitalismo e, di conseguenza, anche il maturare di una riflessione che ne prende in esame i caratteri. Si fa luce progressivamente infatti, nel corso dell’Ottocento, l’opportunità di uno studio sistematico dei fatti sociali: la rivoluzione industriale e la nascita del capitalismo, che coincide con la crisi delle forme di società tradizionale, vedono già dalla fine del XVIII secolo il formarsi di discipline che successivamente sarebbero state chiamate «scienze sociali», a partire dall’economia politica di Smith e Ricardo. Di fronte alla rivoluzione industriale, filosofi come Saint-Simon e Comte assumono un atteggiamento di deciso ottimismo: l’idea caratteristica della mentalità positivistica è guardare sia alla scienza moderna sia alla tecnica, anche e soprattutto nel suo impiego industriale, come a decisivi fattori di progresso che contribuiscono e ancor più contribuiranno al benessere tanto collettivo quanto individuale. La questione sociale, la questione cioè del rapporto tra l’uomo e la società, diventa comunque una questione centrale. Non è un caso che il termine «sociologia» nasca, nella prima metà dell’Ottocento, tra le pagine del Corso di filosofia positiva di Comte, e che abbia un peso notevole nel pensiero di Spencer. Critici verso l’economia politica classica, e al tempo stesso suoi eredi, sono Marx ed Engels, che intrecciano la critica del modo di produzione capitalistico, e della società che su esso si fonda, con la critica delle categorie economiche. Ma in fondo l’atteggiamento critico di Marx e di Engels non inficia un tratto ottimistico della loro analisi che coincide con ciò che loro ritengono un’indagine «scientifica» del socialismo: la funzione storica della borghesia e del capitalismo è una funzione progressiva che ha permesso un incredibile aumento della produzione di ricchezza, e ora si tratta di adeguare l’organizzazione della società a questa grande capacità di realizzare ricchezza. La tradizione marxista successiva a Marx ed Engels vede lo sviluppo, tra le altre, delle teorie del ‘crollo’ del capitalismo, con Karl Kautsky (1854-1939) e Rosa Luxemburg (1870-1919): si mette l’accento sul carattere instabile dell’economia capitalistica, prevedendo un imminente collasso finale del sistema. Parallelamente, ma in direzione contraria, il «revisionismo» di Eduard Bernstein (18501932) sottolinea le capacità di sopravvivenza del modo di produzione capitalistico e suggerisce l’opportunità di una politica socialista di tipo riformatore, più adeguata rispetto a una politica fondata sulla speranza della rivoluzione. Nell’arco di pochi anni, poi, pur se poco compatibile con l’analisi marxiana della transizione dal capitalismo al comunismo, interviene un fenomeno storico di enormi proporzioni come la Rivoluzione russa del 1917, che diventa un punto di riferimento per il movimento operaio internazionale. Ma il tentativo di rinnovamento radicale si scontra ben presto, tra le altre cose, con l’emergere di forme politiche inquietanti che caratterizzano alcuni Paesi capitalistici, dove si arriva alle dittature fascista e nazista. Il capitalismo, però, non va incontro a nessun ‘crollo’, anche se alcuni guardano in questi termini alla grande crisi economica del 1929. Esso dimostra piuttosto la propria capacità di adattamento e la capacità di espandere la propria forza e i

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

propri mercati, come anche la capacità di sopravvivere a due guerre mondiali in cui i Paesi capitalistici si trovano a fronteggiarsi e a combattersi. E dimostra anche la capacità di estendere la propria influenza, attraverso la sua forma per Marx fondamentale – la merce –, su tutti i piani della vita, dando luogo a un mondo sociale dominato proprio da questa categoria, dalla produzione di massa e dalla pubblicità delle merci. Studi sull’origine Gli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo vedono un imponente sviluppo dell’ine sui caratteri dagine sulla natura e sulla genesi del capitalismo, come testimoniano lavori di grandel capitalismo de importanza nell’ambito delle scienze sociali: per esempio, Comunità e società di Ferdinand Tönnies (1855-1936), del 1887, e l’indagine sulla genesi del capitalismo, Il capitalismo moderno, di Werner Sombart (1863-1941), del 1902. In questi stessi anni nascono, poi, le prime riviste di sociologia e le prime riviste di scienze sociali. La genesi e i caratteri del capitalismo moderno e delle sue trasformazioni sono l’oggetto della riflessione di alcuni significativi pensatori che mettono i problemi sociali – e in particolare i problemi sociali di un mondo capitalistico ormai sviluppato – al centro della loro indagine. In questa prospettiva possono esser fatte rientrare le indagini di Max Weber, del marxismo vivace e non-ortodosso di György Lukács e di Antonio Gramsci e l’attitudine radicale e tendenzialmente ➥ Sommario, p. 612 impolitica della Scuola di Francoforte.

Weber

2 I testi

M. Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: Il tempo è denaro, T1; L’attività economica come scopo in se stessa, T2; La «gabbia d’acciaio», T8 La politica come professione: Il problema della teodicea, T3; Principi e responsabilità, T11 La scienza come professione: Il significato della razionalizzazione, T4; Grecia antica e ordinamento dei valori, T9

1

Sociologia della religione: La scienza moderna e il senso del mondo, T5 Economia e società: Razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo, T6; I tipi del potere legittimo, T7 Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche: La filosofia dei valori non può essere un sistema, T10

La comprensione del mondo moderno

Weber è uno dei pensatori più importanti e rappresentativi del XX secolo. Il suo contributo è infatti di enorme rilevanza, per la riflessione successiva, in gran parte degli argomenti e degli ambiti in cui ha fatto sentire la sua voce. Weber teorico Studioso di formazione giuridica ed economica, padre delle scienze sociali del della società Novecento, Weber estende i suoi interessi molto al di là del diritto e dell’econo567

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Analisi del capitalismo e sociologia delle religioni

Il processo di razionalizzazione

Il rapporto tra l’uomo e le varie sfere di valore

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mia, diventando un punto di riferimento per la teoria della società ma anche per la riflessione filosofica, alla quale guarda con qualche sospetto, ma che lo influenza profondamente. Oltretutto, la sua casa di Heidelberg viene frequentata, per fare un esempio, da personaggi come Jaspers e György Lukács. Lo stesso appellativo ampiamente inadeguato che ha circolato a lungo per caratterizzare il suo pensiero, quello di «Marx della borghesia», dà la misura di quanto la statura intellettuale di Weber come teorico della società sia stata messa al pari con la maggiore dottrina sociale dell’Ottocento. E il suo contributo non si esaurisce certo nella sua critica della concezione materialistica della storia. Né egli, che pur confessava esplicitamente la propria appartenenza anche ideale alla classe borghese, può essere considerato un apologeta della società borghese e del capitalismo moderno, del quale più volte indica i rischi e i pericoli per le sorti, anche esistenziali, degli individui. Non è un caso che la sua riflessione abbia avuto un’influenza profonda, magari con qualche forzatura, in critici della società contemporanea come i pensatori della cosiddetta Scuola di Francoforte. Max Weber ha dato un contributo fondamentale alla comprensione di gran parte delle questioni che vengono poste dal capitalismo moderno e contemporaneo, a partire da quella della sua genesi e quindi della costituzione di uno «spirito» imprenditoriale capitalistico. Questa ricerca rientra per Weber nell’ampio panorama della sociologia delle religioni e, in particolare, nello studio dell’atteggiamento delle religioni verso la condotta della vita e soprattutto verso l’economia. In questa prospettiva, Weber ha dato indicazioni di grande acutezza anche per il confronto tra modelli di vita orientali e modelli di vita occidentali: pur essendo l’oggetto della sua analisi il mondo occidentale, l’impostazione comparativa prende in considerazione anche religioni e forme di vita diverse da quelle occidentali per chiarirne i caratteri peculiari. Weber ha messo in luce che in Occidente si è avuto un determinato processo di «razionalizzazione», consistente nel tentativo di dare una spiegazione razionale della realtà. Weber mostra che tale processo ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo del capitalismo moderno e, al tempo stesso, che sono molteplici i modi in cui possiamo guardare alla razionalità. La società occidentale nei suoi vari aspetti – il capitalismo moderno è un aspetto centrale – è la realizzazione di un certo tipo di razionalità. Essa si esprime sì nel capitalismo, ma anche in un certo tipo di Stato organizzato ‘razionalmente’, nel progressivo distacco dalla religione e, infine, in un sostanziale stato di disagio in cui l’individuo moderno si trova a vivere a causa del dominio di questa razionalità. In questo Weber condivide con altri autori, per esempio con Freud, la perplessità per l’ambiguità della civiltà e per i costi umani del ‘progresso’. Non da ultimo, Weber ha affrontato, anche sulla scia della riflessione di Nietzsche, la questione del rapporto dell’uomo con i valori, cioè con le differenti sfere di valore (etica, politica, religione, economia ecc.) che possono entrare in conflitto tra loro. È in questa prospettiva che emerge la difficoltà del rapporto tra etica e politica e la necessità che la politica non risponda soltanto a esigenze di tipo ‘morale’. Su questo tema, forse solo Machiavelli e Hegel hanno avuto altrettanta perspicacia e acutezza di analisi e di giudizio.

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

La vita e le opere Max Weber nacque a Erfurt, in Turingia, nel 1864 da un’agiata famiglia di tradizione liberale, che aveva relazioni con i più noti esponenti della cultura tedesca. Iniziati presso l’università di Heidelberg gli studi di giurisprudenza, parallelamente a studi di economia, teologia e filosofia, si laureò a Gottinga nel 1889 con una tesi sulle società mercantili del Medioevo. Dopo aver condotto alcune ricerche sull’economia agricola e sulla divisione del lavoro si dedicò allo studio della metodologia delle scienze sociali e dell’economia. Nel 1894 gli fu assegnata la cattedra di economia politica all’università di Friburgo; nel 1897 proseguì l’insegnamento presso l’università di Heidelberg. A causa di un grave esaurimento nervoso dovette però interrompere per alcuni anni la carriera accademica e gli impegni scientifici. Tra il 1903 e il 1906 scrisse: L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), una delle sue opere maggiori, e Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo (1906). Fu, nel 1908, tra i fondatori della Società tedesca di sociologia. Nel 1914 si schierò a favore dell’entrata in guerra della

2 Interesse scientifico di Weber per la religione

L’etica protestante è all’origine dello spirito capitalistico

Germania, ma in seguito rivide profondamente le proprie posizioni. Ripreso nel 1918 l’insegnamento all’università di Vienna, dopo la proclamazione della repubblica aderì al Partito socialdemocratico. Sostenitore della repubblica presidenziale, esercitò un peso notevole nella commissione istituita per la stesura della Costituzione di Weimar e fu tra i promotori dell’articolo 48, che attribuiva al presidente della Repubblica, in caso di emergenza, il potere di sospendere le garanzie costituzionali. Allo stesso tempo, sostenne il diritto delle minoranze di esercitare una forma di controllo sulla politica del governo e assunse un atteggiamento fortemente critico tanto nei confronti dell’antisemitismo, quanto nei confronti del leninismo. Nel 1917 uscì il saggio Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche. In seguito divenne docente all’università di Vienna e poi all’università di Monaco, dove tenne le conferenze La scienza come professione e La politica come professione (tra il 1917 e il 1919). Nel 1920 abbandonò il Partito socialdemocratico. Morì a Monaco nello stesso anno. La raccolta di scritti Sociologia della religione fu pubblicata postuma (1920-1921), così come la sua opera maggiore di sociologia, Economia e società (1922).

Protestantesimo e spirito del capitalismo Come ha messo in luce il maggiore studioso italiano di Weber, Pietro Rossi, l’interesse di Weber per la religione e per la sociologia delle religioni è un interesse derivato: la religione non è oggetto di indagine per se stessa, ma in quanto ha contribuito a far sorgere (o, in certi casi, a non far sorgere) quello specifico fenomeno storico che è il capitalismo moderno. Ciò va detto anche perché per quanto riguarda il proprio atteggiamento personale Weber si dichiara insensibile al fascino della religione, che pure nella sua famiglia ha un notevole peso nella figura di sua madre. In una lettera del 1909 Weber esprime con chiarezza questa sua posizione personale, utilizzando un curioso aggettivo – «non-musicale» – per definire l’estraneità della sua natura individuale alle suggestioni religiose: «Dal punto di vista religioso io sono certo nonmusicale, e non ho né il bisogno né la capacità di formarmi un qualche ‘edificio’ spirituale di tipo religioso». L’interesse scientifico per la religione è invece un elemento costante della riflessione di Weber, a partire dal saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ad esso seguono il saggio Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo e il gigantesco lavoro sulla sociologia delle religioni, che costituisce una sorta di approfondimento e ampliamento della prima indagine sul rapporto tra capitalismo e protestantesimo. Si tratta di analizzare l’atteggiamento etico di religioni diverse, incluse quelle orientali, per fare un confronto con l’etica protestante e cogliere in questo modo come quest’ultima sia stata il fattore principale per il formarsi di uno spirito capitalistico: il capitalismo moderno è infatti un fenomeno storico squisitamente 569

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Critica delle spiegazioni unilaterali dei fenomeni storici

Lo spirito del capitalismo: ricerca del profitto come fine in sé

Il carattere ascetico dello spirito capitalistico

T1

Il tempo è denaro

M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

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occidentale. La sociologia delle religioni viene sviluppata da Weber sia nella raccolta di scritti esplicitamente dedicati a questo tema (che egli stava per riunire al momento della morte), sia in una parte della sua opera maggiore di sociologia, Economia e società, pubblicata postuma. Nel mettere in risalto la motivazione religiosa dell’individuo nel sorgere del capitalismo, Weber si contrappone consapevolmente, come sempre farà, alla concezione materialistica della storia. Non che egli sottovaluti la componente economica nella spiegazione dei fenomeni storici, tutt’altro: nella Premessa, scritta poco prima di morire per la raccolta degli scritti di sociologia delle religioni, Weber dichiara esplicitamente che il saggio sull’etica protestante sottolinea solo un aspetto del problema, quello dell’influenza della motivazione religiosa sull’economia, mentre esiste anche l’aspetto inverso. Ma certo la spiegazione data da Marx dei processi storici è ritenuta da Weber semplicistica perché tiene conto di un solo tipo di cause o di fattori, cioè i fattori economici. Il formarsi dei fenomeni è invece per Weber più complesso, e frutto di più fattori. Sul fronte opposto, va ricordato, Weber polemizza aspramente anche contro chi (come i sostenitori di una prospettiva spiritualistica) pretenda di avere ‘superato’ la concezione materialistica della storia con una spiegazione dei fenomeni storici altrettanto unilaterale, ma fondata su un elemento diverso come le religioni. Il difetto di entrambe le concezioni consiste proprio nella unilateralità della spiegazione, indipendentemente da quale sia l’elemento che viene messo al centro dell’orizzonte. Nell’indagine sull’etica protestante, al contrario di quanto molti interpreti, anche contemporanei, hanno pensato, Weber non ritiene di affrontare la genesi dell’intero fenomeno chiamato «capitalismo», nel suo complesso. Si tratta piuttosto di un’indagine specifica sul suo «spirito», come correttamente recita il titolo del saggio: è il problema della specifica motivazione individuale che sta alla base del nascere del capitalismo moderno, diversa dalle motivazioni di ricerca della ricchezza presenti in forme economiche differenti. Lo «spirito del capitalismo» consiste nella ricerca del profitto come fine in sé, indipendentemente da altri tipi di motivazioni che possono essere la ricerca del piacere o, tanto meno, del lusso. La ricerca del profitto diventa così un principio etico, come Weber pensa che emerga con nettezza dalle parole di un personaggio estremamente rappresentativo dello spirito capitalistico, l’americano Benjamin Franklin (1706-1790), le cui parole, scritte intorno alla metà del Settecento, vengono riportate da Weber nel suo saggio. Nel testo di Franklin ricorre il tema dell’importanza del lavoro e del denaro: il denaro è strumento di ricchezza perché quando venga utilizzato in modo adeguato innesca un processo fecondo e fruttifero; il denaro produce altro denaro. La spesa volta semplicemente al proprio piacere è una spesa improduttiva e quindi moralmente inaccettabile, così come l’ozio: lo spirito del capitalismo include quindi una forma di rinuncia, cioè di ascesi. «Ricordati che il tempo è denaro; chi col suo lavoro potrebbe guadagnare dieci scellini al giorno e va per mezza giornata a passeggio, o fa il poltrone nella sua stanza, se anche spende soltanto sei pence per i suoi piaceri non deve contare soltanto questi; oltre ad essi egli ha speso, o piuttosto gettato via, altri cinque scellini. Ricordati che il credito è denaro. Se qualcuno mi lascia il suo denaro, dopo che esso è esigibile, mi regala gli interessi, o quanto posso intraprendere con essi do-

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

po questo periodo. Ciò ammonta a una somma considerevole, se un uomo ha molto e buon credito e ne fa buon uso. Ricordati che il denaro è per natura fecondo e fruttifero. Il denaro può produrre denaro, i frutti possono produrne ancora di più, e così via. Cinque scellini impiegati diventano, impiegati di nuovo, sette scellini e tre pence, e così di seguito finché sono cento lire sterline […]. Chi uccide una scrofa annulla tutta la sua discendenza fino al millesimo individuo. Chi annienta un pezzo da cinque scellini assassina (sic!) tutto ciò che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire sterline». Radici religiose dell’etica capitalistica

T2

L’attività economica come scopo in se stessa

M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

Il profitto è il segno esteriore della grazia divina

Questa mentalità, o anche questa etica, descritta da Weber attraverso Franklin, è difficilmente accettabile per il senso comune, se viene intesa con questa ‘purezza’. La peculiarità di una mentalità o di un’etica del genere può essere giustificata e spiegata, nel suo sorgere, soltanto attraverso il riferimento a radici non pienamente razionali, che valorizzano religiosamente il lavoro e la ricerca del successo economico. Dal punto di vista dello spirito capitalistico il massimo bene dell’uomo consiste nell’accumulare una quantità sempre maggiore di denaro: l’acquisizione di denaro è uno scopo in se stessa, non un mezzo per raggiungere altri scopi (per esempio, per soddisfare bisogni ed esigenze materiali). […] il summum bonum di questa «etica» – cioè l’acquisizione di denaro e di sempre più denaro, evitando nel modo più rigoroso ogni godimento spensierato – è così completamente spoglio di ogni punto di vista eudemonistico, per non dire edonistico, è concepito con tanta purezza come scopo autonomo, da apparire come qualcosa di completamente trascendente e di assolutamente irrazionale di fronte alla «felicità» o all’«utilità» del singolo individuo. L’uomo è in rapporto all’attività acquisitiva come scopo della sua vita, non più l’attività acquisitiva all’uomo come mezzo per lo scopo del soddisfacimento delle sue necessità di vita materiali. Questo rovesciamento – addirittura privo di senso per la sensibilità comune – di quello che potremmo chiamare lo stato «naturale» delle cose è evidentemente un motivo ispiratore del capitalismo altrettanto incondizionato quanto è invece estraneo all’uomo non toccato dal suo soffio. Weber indica in un certo aspetto dell’etica protestante – e per la precisione calvinista e puritana – l’elemento che sta alla base del sorgere dello spirito del capitalismo: il profitto del lavoro assume in questo specifico indirizzo della fede cristiana la veste di una conferma della grazia divina necessaria per potere accedere alla salvezza, visto che la tradizione protestante, nelle sue diverse forme, mette radicalmente in dubbio la possibilità di giungere alla salvezza attraverso le opere. La salvezza è qualcosa che può essere ottenuto soltanto dalla – imperscrutabile, per l’occhio umano – sovrana grazia divina. Il successo nell’attività economica viene interpretato, in questa prospettiva, come il segno della grazia e quindi come l’indicazione del fatto che si appartiene alla schiera dei salvati. Un «indefesso lavoro professionale» e un corrispondente successo economico diventano quindi in certe correnti del calvinismo (diffuse in modo particolare nei Paesi dove si sviluppa il primo capitalismo) il segno esteriore della grazia divina, la certezza della salvezza come, appunto, certitudo salutis. È di questo 571

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Individualismo e capitalismo

Scomparsa del fondamento religioso dello spirito capitalistico

3 Analisi del rapporto tra religioni ed economia

che il calvinista va in cerca con la sua dedizione «ascetica» al lavoro e all’attività professionale. Qui ha la sua radice anche il peculiare individualismo moderno che costituisce un altro carattere del capitalismo: l’etica protestante è un’etica della salvezza individuale alla quale si è «predestinati» dalla grazia divina, ed è per questo aspetto radicalmente contrapposta al cattolicesimo, che indica la via della salvezza attraverso l’appartenenza a un’istituzione come la Chiesa. Weber sottolinea che questa radice religiosa si perde nel corso del tempo: già in Franklin, evidentemente, la dimensione economica se ne è resa autonoma, ed è scomparso ogni riferimento a una giustificazione religiosa dell’ascesi e del perseguimento del profitto. Così nasce lo «spirito» capitalistico, venendo meno il fondamento religioso che ne è all’origine, attraverso il processo di razionalizzazione che costituisce un tratto caratteristico dell’analisi weberiana del mondo occidentale e che si interseca con la sua indagine sulla sociologia delle religioni. Sebbene l’etica protestante sia un elemento essenziale per comprendere il formarsi dello spirito capitalistico, Weber è ben lontano dal ritenere che essa sia sufficiente per dare una spiegazione esaustiva del fenomeno del capitalismo. Ciò è del tutto coerente con il rifiuto delle spiegazioni unilaterali dei fenomeni storici: tra i diversi fattori che operano nella storia – quali quelli religiosi e quelli economici – c’è un condizionamento reciproco.

La religione e il disincantamento del mondo Lo studio delle «religioni universali» è al tempo stesso un approfondimento e un ampliamento del quadro concettuale aperto con l’indagine sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. L’oggetto dell’analisi di Weber è una particolare dimensione delle grandi religioni che valga a mettere in luce la peculiarità della nascita del capitalismo moderno e delle cause per cui questo determinato fenomeno storico, anche attraverso il suo «spirito» nel senso appena descritto, si è verificato in Occidente. A questo fine, Weber prende in esame il modo in cui le diverse religioni si confrontano con l’economia e in generale con il «mondo» inteso come insieme delle attività umane, incluse ovviamente le relazioni economiche e sociali. Procede poi a un confronto tra l’etica propria di ciascuna religione e l’etica ascetica protestante che sta all’origine dello spirito capitalistico.

Le religioni universali e il mondo Le forme, o le etiche religiose, che Weber individua sono sostanzialmente di due tipi: l’etica di adattamento al mondo e l’etica del rifiuto del mondo. In tutti questi casi si può parlare di forme di razionalismo: in ciascun caso, infatti, la religione, che pure sorge sul terreno della magia, si è distaccata dalle pratiche magiche – in gradi diversi. Il passaggio dalla magia alla religione è già un segno di un processo di razionalizzazione, è cioè il segno del tentativo di costruire un’immagine e una spiegazione razionale della realtà. L’etica confuciana L’unica etica religiosa considerata una forma di adattamento al mondo è l’etica

Le etiche religiose: adattamento e rifiuto del mondo

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

La religione della redenzione e il problema del male

La riformulazione del problema della teodicea

T3

Il problema della teodicea

M. Weber, La politica come professione

confuciana: in questo caso, il confronto con il mondo e in particolare con l’attività economica è un rapporto di indifferenza che si traduce in un adattamento alle condizioni sociali esistenti, tradizionali. Si tratta di un atteggiamento che non prevede alcuna spinta alla trasformazione razionale del mondo, come invece avviene nell’etica protestante. La tradizione e l’adattamento ad essa sono i caratteri principali di questa etica. Per questo il confucianesimo, che come il cristianesimo è una religione universale, a differenza di esso non è una religione della redenzione. La religione della redenzione – caratteristica dell’etica del rifiuto del mondo – presuppone infatti che il mondo sia dotato di un senso etico, di qualche forma di giustificazione della sofferenza e di compensazione rispetto a questa, cioè rispetto alla presenza del male nel mondo. È proprio e soltanto nei confronti del male e della sofferenza che ha un senso parlare di «redenzione»: nel cristianesimo, per esempio, la sofferenza va incontro a una trasfigurazione religiosa promettendo una compensazione nell’aldilà della sofferenza che si sia patita in questa vita. È una riformulazione, questa di Weber, del tradizionale problema del male e della teodicea, ossia della giustificazione di Dio rispetto al male presente nel mondo. Si tratta di un problema che attraversa la riflessione religiosa e filosofica non solo in Occidente, e che Weber descrive addirittura con un filo d’ironia. In particolare per il cristianesimo, la tensione inevitabile è tra le diverse forme di male presenti nel mondo e l’ipotesi di un dio allo stesso tempo onnipotente e buono: un dio che fosse davvero buono non avrebbe forse risparmiato agli uomini ogni forma di dolore e sofferenza e impedito che venissero commesse ingiustizie? E se è realmente onnipotente, perché mai ha creato un mondo così imperfetto? Sembrano esserci due soli modi per risolvere la tensione tra la presenza del male e l’ipotesi della divinità come essere buono e onnipotente: o si rinuncia ad attribuire a questa divinità bontà e onnipotenza, o si ammette che il mondo è governato da principi di ricompensa e di punizione del tutto diversi da quelli a cui ricorrono gli esseri umani. L’antichissimo problema della teodicea è dato per l’appunto dalla questione di come sia possibile che una potenza che viene presentata al tempo stesso come onnipotente e buona abbia potuto creare un simile mondo irrazionale del dolore immeritato, dell’ingiustizia impunita e della stupidità incorreggibile. O tale potenza non possiede una di quelle due qualità, oppure sono principi completamente diversi di ricompensa e di pena a governare la vita, principi che noi possiamo interpretare metafisicamente oppure che sono destinati a rimanere per sempre inaccessibili alla nostra interpretazione. Questo problema dell’esperienza dell’irrazionalità del mondo ha rappresentato la forza motrice dello sviluppo di tutte le religioni.

Mentre l’etica dell’adattamento al mondo ha una caratterizzazione univoca che corrisponde all’etica confuciana, l’etica del rifiuto del mondo assume un diverso carattere nelle differenti forme di religione di redenzione, che sono la mistica e l’ascetismo. Il misticismo Nel caso della mistica, il rifiuto del mondo assume il significato di una fuga dal e la fuga dal mondo mondo, come avviene nell’etica induista e ancor più nell’etica buddhista. In queste religioni il rifiuto del mondo si traduce in una fissità dell’ordinamento sociale nelle caste, o nella vita di elemosina del monaco buddhista, che non pre-

Due modi diversi di rifiutare il mondo: mistica e ascetismo

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vedono l’inserimento attivo nella vita economica e una modificazione della vita tradizionale. Analogia tra buddhismo L’effetto sociale, seppure su altre basi, è analogo a quello del confucianesimo, per e confucianesimo quanto riguarda la possibilità di una modificazione razionale del mondo: si ha cioè la rinuncia al tentativo di compiere una tale modificazione. Il buddhismo assume come fine dell’uomo l’unione con il soprannaturale: ciò a cui l’uomo deve tendere non è la realizzazione nel mondo della volontà divina, ma il contatto diretto con la divinità. Nella religione buddhista, dunque, l’individuo è considerato il «vaso» del divino, al quale si ha accesso attraverso la contemplazione; l’uomo non è uno «strumento» della divinità, ossia il mezzo per realizzarne i disegni, come avviene nel caso dell’ascesi e in particolare dell’ascesi protestante (il giudaismo antico, che pure viene preso in esame da Weber, non costruisce un percorso di salvezza individuale, ma collettivo: la salvezza è la salvezza del popolo ebraico). L’ascesi protestante È soltanto l’ascesi protestante, quindi, come Weber ritiene di aver già dimostrato, la peculiare etica religiosa che rappresenta l’ascesi; essa rende possibile un confronto con il mondo che tende alla modificazione di esso, e quindi si pone all’origine del capitalismo moderno. I due tipi di etica religiosa

Etiche religiose

Etica di adattamento al mondo: prescrive di accettare la tradizione

Etica confuciana

hanno lo stesso esito: rinuncia a cambiare il mondo

Weber e le religioni Le religioni universali vengono definite da Weber sistemi religiosi che regolano la vita degli uomini e che sono riusciti a radunare attorno a sé grandi masse di fedeli. Essi sono: confucianesimo, induismo, buddhismo, cristianesimo, islamismo ed ebraismo. Tranne il confucianesimo, si tratta di religioni della redenzione, ossia di religioni che tentano di offrire all’uomo i mezzi per la liberazione dal male, cioè la salvezza. Al centro del protestantesimo, insieme di movimenti religiosi cristiani che si svilupparono dalla Riforma di Lutero (XVI secolo), è la dottrina della predestinazione. Essa afferma che la salvezza e la dannazione delle anime dipendono unicamente dalla volontà imperscrutabile di Dio, che concede la grazia solo agli eletti. Tuttavia, benché agli uomini sia preclusa la conoscenza del criterio dell’elezione divina, la dottrina della predestinazione non determina un atteggiamento di rassegnazione e di passività.

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Etica di rifiuto del mondo

Mistica: il rifiuto si traduce in fuga dal mondo

Ascetismo: il rifiuto si esprime nel tentativo di cambiare il mondo

Etica induista Etica buddhista

Ascesi protestante

Ciò è particolarmente evidente nel calvinismo, che è stato uno dei primi movimenti protestanti e la fonte principale di ispirazione del puritanesimo, movimento religioso protestante sorto all’interno della Chiesa anglicana con il fine di conformarla ai principi calvinisti. Nella religione calvinista l’operosità e il lavoro assumono un valore fondamentale: la dottrina della predestinazione impegna i credenti ad agire perché l’assolvimento dei comandamenti di Dio e la realizzazione della volontà divina nel mondo sono il segno della predestinazione alla salvezza. In particolare, il successo economico che un uomo raggiunge è il segno tangibile del fatto che egli è un eletto. Le religioni della redenzione si distinguono in ascetiche e mistiche. L’ascetismo e la mistica sono due diverse forme di ricerca della salvezza e sono espressione dello stesso atteggiamento: il rifiuto del mondo. Nell’ascetismo (caratteristico della religione protestante) tale rifiuto si esprime nel tentativo di modificare il mondo – tentativo

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nel compiere il quale l’uomo si considera uno strumento della volontà divina. Nella mistica il rifiuto del mondo si esprime invece nella fuga da esso e nella contemplazione e si traduce, quindi, nella conformità agli ordinamenti economici e sociali esistenti. Sono religioni mistiche sia l’induismo sia il buddhismo. L’induismo (la cui origine risale al 1500 a.C.) è un gruppo di religioni accomunate dall’idea che nel mondo non ci sia un progresso, ma una degenerazione, finché la divinità non pone un nuovo inizio. Comune è anche la dottrina della genesi e della fine ciclica del mondo, alla quale è collegata la dottrina della rinascita (reincarnazione). L’induismo è strettamente collegato alla suddivisione della società in caste, ossia in una gerarchia di gruppi sociali separati rigidamente l’uno dall’altro. Ciascuno di essi è caratterizzato da una professione specifica; ogni individuo appartiene per nascita alla casta di cui fa parte il padre ed è proibito il matrimonio tra membri di caste diverse. Il buddhismo è una dottrina religiosa e filosofica, fon-

data nel VI-V secolo a.C., secondo la quale tutto è dolore, il dolore ha una causa e ha un termine, il nirvana (termine sanscrito che significa, appunto, «estinzione del dolore»). La liberazione dal dolore può essere raggiunta soltanto attraverso la rinuncia al mondo e l’annientamento di qualunque desiderio. Fine della vita umana è l’unione con il divino, che viene ottenuta attraverso la meditazione e la contemplazione. Delle religioni della redenzione non fa parte secondo Weber il confucianesimo, scuola di pensiero cinese sorta tra il VI e il V secolo a.C. Sebbene il confucianesimo sostenga l’uguaglianza naturale di tutti gli individui, anche la società confuciana (come la società nella quale domina la religione induista) è caratterizzata da un ordinamento gerarchico. Il confucianesimo assume l’armonia come principio ordinatore dell’universo e pone come dovere primo dell’uomo la pratica delle virtù, il cui fine è garantire la conservazione e la stabilità dell’ordine costituito; viene invece respinto ogni tentativo di alterare il rapporto tra l’uomo e il cosmo.

Il disincantamento del mondo Al processo di razionalizzazione contribuisce per Weber anche la religione, e per il suo distacco dalla magia, e per il suo riferimento a un corpo di dottrine che rimandano a testi determinati (l’Antico e il Nuovo Testamento, il Canone buddhistico, i Veda induisti). ➥ Percorso tematico, p. 225 Un tratto tipicamente moderno e occidentale è però per Weber l’aspetto della razionalizzazione che egli chiama «disincantamento del mondo». Esso corrisponde al processo di secolarizzazione dell’Occidente e tende a eliminare la dimensione religiosa da tutti gli ambiti della vita, compreso quello economico, come si vede nel passaggio dall’etica ascetica protestante allo spirito del capitalismo che si è ormai liberato delle proprie motivazioni religiose (per esempio nella sommaria descrizione che di esso è stata data con le parole di Benjamin Franklin). Il conflitto tra religione Nell’estensione e nell’ampliamento del processo di razionalizzazione dell’Occie scienza moderna dente, la religione, che pure ha dato ad esso un contributo, diventa un elemento irrazionale che nei fatti, a parere di Weber, tende a sparire dall’orizzonte. Ciò ha diverse cause, tra le quali assume un peso preponderante la scienza moderna, la sfera del sapere intellettuale con la quale la religione entra in un conflitto sempre più aspro nel quale quest’ultima è destinata – almeno per ora – a soccombere. La scienza moderna si forma e si sviluppa, infatti, proprio perseguendo e compiendo il disincantamento del mondo attraverso una sempre più estesa spiegazione razionale degli eventi. Questo tipo di spiegazione è fondato sul sapere empirico e sul principio di causalità, in base al quale tra i fenomeni naturali o gli eventi c’è una relazione necessaria di causa ed effetto. Peraltro ciò non significa necessariamente una conoscenza maggiore dei meccanismi della realtà, come rileva ironicamente Weber: chiunque viaggi in tram non ha la minima idea – salvo poche eccezioni – del meccanismo per il quale il tram si muove, e da questo punto di vista il primitivo conosce molto meglio dell’uomo moderno il modo in cui si procura il cibo. Ma l’uomo moderno è in grado di calcolare razionalmente gli eventi e di dominarli attraverso la tecnica; non è affatto Il processo di razionalizzazione

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necessario, né sensato, ricorrere alla magia per sottomettere le potenze che dominano la natura o per guadagnarsi il loro favore.

T4

Il significato della razionalizzazione M. Weber, La scienza come professione

La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o per ingraziarseli, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale. Soprattutto questo è il significato dell’intellettualizzazione come tale.

Il crescente disincantamento del mondo e quindi il crescente dominio della razionalità scientifica sono l’ultimo esito di un sapere intellettuale che con l’emergere del concetto razionale come strumento di conoscenza ha le sue radici in Platone e nel sapere antico. Nel conflitto con la religione – che da strumento di razionalizzazione diventa un limite irrazionale al diffondersi della razionalità – la scienza moderna mette però in crisi anche la possibilità di un’attribuzione al mondo di un senso etico oggettivo che costituisce il tratto caratteristico delle religioni di redenzione e in particolare del cristianesimo. Il mondo perde di significato. La sostituzione dell’ordine etico della religione con un ordine semplicemente fisico e razionale crea quindi le condizioni per un mondo oggettivo che si trova privato di senso etico, ovvero di quel senso che la religione ha voluto costruire come congruente e compatibile con la sofferenza dell’uomo, rimandando a forme di compensazione della sofferenza in un’altra vita. È anche questo un effetto del processo di disincantamento del mondo che, se costituisce una conquista della razionalità, provoca la perdita di riferimenti oggettivi e assoluti per la propria esistenza e per il proprio agire. Conseguenze negative La tensione tra senso etico del mondo e sapere scientifico non è per Weber una tendel dominio sione componibile. E il dominio del sapere scientifico finisce per togliere senso al della scienza mondo e per rendere gli individui consapevoli di vivere in un mondo privato di senso. Il mondo infatti ha un senso etico soltanto se è creato e orientato da un dio. Al progresso della scienza verso una spiegazione razionale degli eventi e del mondo corrisponde, dunque, un altrettanto progressivo allontanamento della religione dalla sfera della razionalità e una graduale perdita di punti di riferimento oggettivi per l’uomo. Il disincantamento priva il mondo di un senso etico oggettivo

Il percorso della religione

Distacco della religione dalla magia

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La religione contribuisce al processo di razionalizzazione del mondo

La secolarizzazione dell’Occidente elimina la dimensione religiosa della vita umana Il disincantamento del mondo prodotto dalla scienza priva il mondo del senso etico che la religione attribuisce ad esso

La religione diventa irrazionale

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

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La scienza moderna e il senso del mondo

M. Weber, Sociologia della religione, 2

Ma certamente la tensione di maggior rilievo e più fondamentale diventa alla fine la consapevole tensione della religiosità proprio nei confronti del dominio del conoscere concettuale. […] ovunque un conoscere empirico razionale ha realizzato coerentemente il disincantamento del mondo e la sua trasformazione in un meccanismo causale, là si presenta definitivamente la tensione verso le pretese del postulato etico secondo cui il mondo sarebbe un cosmo ordinato da Dio, e perciò un cosmo orientato in modo fornito di senso etico. Infatti la considerazione empirica del mondo, soprattutto quella orientata in senso matematico, sviluppa in linea di principio il rifiuto di ogni forma di considerazione che voglia cercare un «senso» dell’accadere intra-mondano in generale. A ogni aumento del razionalismo della scienza empirica la religione viene perciò progressivamente spinta dall’ambito razionale nell’irrazionale, e soltanto allora essa diventa la potenza sopra-personale intrinsecamente irrazionale o anti-razionale. Se all’inizio la religione ha contribuito al processo di razionalizzazione del mondo occidentale, nel corso del tempo è maturato un contrasto sempre più accentuato tra pensiero religioso e pensiero scientifico. Il mondo disincantato che la scienza descrive è privo di quel senso etico oggettivo che la religione attribuisce ad esso e il contrasto tra scienza e religione si configura, così, come contrasto tra razionalità e irrazionalità. Della perdita di senso etico oggettivo del mondo, peraltro, Weber non manca di sottolineare gli aspetti problematici per la vita umana.

4 La nozione di razionalità è complessa

La razionalità del capitalismo L’idea di razionalizzazione, e quindi di razionalità, è nella prospettiva di Weber una nozione complessa: la religione, e in particolare la religione di redenzione, ha una funzione di razionalizzazione, ma in determinati momenti può costituire anche un ostacolo ed essere considerata «irrazionale» quando subentri un punto di vista diverso, quello della scienza moderna, che tende a relegare la religione in una posizione marginale. Ma non solo determinati fenomeni possono essere razionali in un contesto e mutare di segno in un altro (per cui ciò che è razionale in un contesto, o rispetto a un certo valore, o in un momento storico, può diventare irrazionale in un altro): l’idea weberiana della complessità della razionalità è ben più profonda e articolata. In realtà, ci sono differenti forme della razionalità, come emerge dalle pagine di Economia e società.

L’agire razionale L’agire è secondo Weber un atteggiamento umano al quale il soggetto che agisce congiunge un senso soggettivo, pur se ci sono forme di agire che sono ‘al limite’, cioè che possono oltrepassare il limite dell’agire sensato. Ciò avviene, secondo Weber, nel caso dell’agire di tipo affettivo (determinato dagli affetti e dai sentimenti) o tradizionale (determinato dall’abitudine). L’agire razionale Weber è particolarmente interessato alla questione della razionalità, e per questo rispetto al valore la sua attenzione è rivolta principalmente a due forme di agire, l’agire razionale rie rispetto allo scopo spetto al valore (wertrational) e l’agire razionale rispetto allo scopo (zweckrational). L’agire soggettivo

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Razionalità materiale e formale dell’agire

La prima forma è tutta concentrata sul valore, sull’ideale che deve essere perseguito e che si vuole perseguire, sul contenuto, sulla materia dell’azione; è razionale l’azione compiuta per raggiungere certi fini, o secondo determinati valori. La seconda ha invece una funzione strumentale, formale, e riguarda la scelta dei mezzi migliori in vista di un fine, valutando tutte le condizioni e le circostanze, nonché confrontando l’uno con l’altro i vari fini che possono essere perseguiti.

Le azioni e la razionalità

L’agire

Non sempre dotato di senso soggettivo

Agire di tipo affettivo: è determinato da affetti e sentimenti

T6

Razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo M. Weber, Economia e società, 1

Complessità della razionalità

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Agire di tipo tradizionale: è determinato dall’abitudine

Dotato di senso soggettivo

Agire razionale rispetto al valore: la razionalità dell’azione è determinata dai fini perseguiti

Agire razionale rispetto allo scopo: la razionalità dell’azione è determinata dall’adeguatezza dei mezzi ai fini perseguiti

Razionalità materiale

Razionalità formale

Agisce in maniera puramente razionale rispetto al valore colui che – senza riguardo per le conseguenze prevedibili – opera al servizio della propria convinzione relativa a ciò che ritiene essergli comandato dal dovere, dalla dignità, dalla bellezza, dal precetto religioso, dalla pietà o dall’importanza di una «causa» di qualsiasi specie. L’agire razionale rispetto al valore (nel significato che assume nella nostra terminologia) è sempre un agire secondo «imperativi» o in conformità a «esigenze» che l’agente crede gli siano poste […]. Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo colui che orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze, ed infine anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco […]. Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore in sé (la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta conformità al dovere). La distinzione tra le due forme di razionalità conferma una volta di più la consapevolezza weberiana della complessità e della non-univocità della nozione di «razionalità»: ciò che emerge è insomma il carattere ‘relativo’ della nozione. Pur se le forme descritte da Weber sono dichiarate da lui stesso forme «pure» – perché nella realtà empirica si trova sempre una compresenza delle diverse forme –, ciascuna forma di agire razionale ha necessariamente una propria, peculiare «razionalità», che costituisce un punto di vista dal quale altre forme vengono giudicate «irrazionali». L’agire razionale rispetto al valore è sempre irrazionale

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per l’agire razionale rispetto allo scopo; al tempo stesso, però, l’agire razionale rispetto allo scopo è irrazionale dal punto di vista dell’agire razionale rispetto al valore – perché non assume mai lo scopo come valore, e quindi come «incondizionatamente valido».

La razionalità formale Due forme di razionalità

Il mondo moderno è dominato dalla razionalità formale

L’analisi weberiana delle forme di potere legittimo

T7

I tipi del potere legittimo M. Weber, Economia e società, 1

L’Occidente moderno e lo sviluppo del capitalismo sono strettamente legati alla razionalità rispetto allo scopo, che costituisce il tratto caratteristico della «razionalità formale», contrapposta alla «razionalità materiale»: la prima ha per fondamento il calcolo razionale, come si vede soprattutto in ambito economico, mentre la seconda è una razionalità che, come nell’agire razionale rispetto al valore, fa valere «esigenze etiche, politiche, utilitarie, edonistiche». La razionalità formale propria dell’Occidente moderno è una delle caratteristiche specifiche del capitalismo, anche se il suo significato non si esaurisce nella dimensione economica. Comunque, la razionalità formale svincola il comportamento economico dei soggetti da qualunque altro punto di riferimento o scopo che non sia la ricerca razionale del profitto, che è appunto legata al calcolo. In questo senso, diventa evidente anche il rapporto tra lo sviluppo della razionalità formale e lo sviluppo della scienza moderna fondata sulla matematica, che è la protagonista del disincantamento del mondo. La razionalità formale domina però il mondo moderno, oltre che sul piano economico, anche sul piano politico e giuridico. È in quest’ambito che si colloca l’analisi weberiana delle forme del potere: il potere, quando è legittimo, può essere per Weber di tre diversi tipi, e tra questi soltanto uno, quello specificamente moderno, può essere definito «razionale». La razionalità del potere consiste nell’affidabilità e – ancora una volta – nella calcolabilità dei comportamenti di chi lo esercita: è possibile fare affidamento su di essi e prevederli perché questo tipo di potere non dipende dall’arbitrio dei singoli individui che lo esercitano, ma dalla legalità delle norme stabilite. A chi esercita il potere è stato conferito per legge il diritto di esercitarlo; e l’obbedienza al potere non è rivolta alla particolare persona (o al particolare gruppo) che lo detiene, ma alla legge di cui egli è il rappresentante. L’esercizio del potere, quindi, è caratterizzato da impersonalità. Le altre forme del potere sono il potere tradizionale e il potere carismatico. La validità del primo è fondata sulla consuetudine e sulle tradizioni; quella del secondo è fondata sulla fiducia nelle qualità di un particolare individuo, per esempio del profeta, del condottiero eletto in guerra o, in età contemporanea, del capo o «duce» politico. La differenza tra potere razionale, potere tradizionale e potere carismatico consiste dunque nel fondamento della loro legittimità e nella persona (o nelle persone) a cui si obbedisce. Vi sono tre tipi puri di potere legittimo. La validità della sua legittimità può essere infatti, in primo luogo: 1) di carattere razionale – quando poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere (potere legale) in base ad essi; 2) di carattere tradizionale – quando poggia sulla credenza quotidiana nel carat579

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tere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità (potere tradizionale); 3) di carattere carismatico – quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa (potere carismatico). Nel caso del potere fondato sulla statuizione si obbedisce all’ordinamento impersonale statuito legalmente e agli individui preposti in base ad esso, in virtù della legalità formale delle sue prescrizioni e nell’ambito di queste. Nel caso del potere tradizionale si obbedisce alla persona del signore designata dalla tradizione e vincolata (in tale ambito) alla tradizione, in virtù della reverenza da parte di coloro che la riconoscono. Nel caso del potere carismatico si obbedisce al duce in quanto tale, qualificato carismaticamente, in virtù della fiducia personale nella rivelazione, nell’eroismo o nell’esemplarità, che sussiste nell’ambito di validità della credenza in questo suo carisma. Le tre forme di potere legittimo

Potere legittimo

Potere razionale

Potere tradizionale

Potere carismatico

Fondato sulla credenza nella legalità degli ordinamenti e nel diritto al comando di chi lo esercita

Fondato sulla credenza nella validità della tradizione

Fondato sulla dedizione a un individuo dotato di particolari qualità

L’obbedienza non è rivolta a una persona, ma a un ordinamento

L’obbedienza è rivolta al signore

L’obbedienza è rivolta al duce

La burocrazia e la gabbia d’acciaio La razionalità formale, e quindi la calcolabilità dei comportamenti degli apparati politici e giuridici, ha per Weber un ennesimo tratto che caratterizza il mondo moderno e che costituisce un oggetto specifico della sua analisi: la burocrazia come tratto essenziale dello Stato razionale e legale moderno. L’esistenza e l’organizzazione di un apparato amministrativo burocratico è un elemento che si è rivelato fondamentale per lo Stato moderno come Stato razionale legale: la burocrazia è l’espressione per eccellenza della impersonalità dell’apparato del potere legale. L’amministrazione dello Stato non è affidata, infatti, a un unico individuo, ma a un insieme di individui organizzato in modo gerarchico. La burocrazia La burocrazia costituisce il vero e proprio destino inevitabile dell’organizzazione come destino economica e politica moderna. Sebbene la burocrazia si sia sviluppata parallelamente al capitalismo, essa non è un elemento peculiare delle società capitalistiche: anche una società orientata in direzione socialista ne ha bisogno. E se il capitali-

Impersonalità del potere razionale: la burocrazia

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Pessimismo di Weber sulla condizione dell’uomo nell’età moderna

T8

La «gabbia d’acciaio»

M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

smo venisse abolito, scrive Weber, «la burocrazia dominerebbe da sola». E riguardo alla burocrazia Weber non manca di esprimere tutta la sua preoccupazione per le sorti dell’individuo, che può finire per essere stritolato dalla ‘macchina’ burocratica, senza più spazi di libertà individuale. Il processo di burocratizzazione, ossia la trasformazione della società in senso burocratico, è infatti sempre crescente; e questa crescente organizzazione burocratica tende a produrre un certo ‘tipo umano’ i cui valori tendono a esaurirsi nella passione per l’ordine e per la disciplina, generando così un certo tipo di uomo: l’uomo d’ordine (Ordnungsmensch). Weber guarda quindi anche con apprensione e con accenti critici al mondo moderno, da un lato per il crescente sviluppo della burocrazia, dall’altro per le necessità della divisione del lavoro e quindi di una specializzazione del lavoro anch’essa sempre crescente. Se l’asceta protestante voleva essere specializzato nella propria professione, e di questa specializzazione fece uno stile di vita scelto eticamente, l’uomo moderno è costretto alla specializzazione, e finisce per restare imprigionato in una «gabbia d’acciaio» che è l’esito del capitalismo moderno. Al contrario di Marx, Weber non crede nella possibilità del riscatto da questa condizione. Il pessimismo con cui Weber guarda alla condizione dell’uomo moderno deriva dalla constatazione dell’ordinamento economico del mondo. Esso si impone – con la produzione meccanica di beni di consumo meramente esteriori – a tutti gli individui. L’etica protestante e puritana da cui lo spirito del capitalismo ha avuto origine tendeva alla trasformazione del mondo attraverso il lavoro – lavoro che, come sosteneva nel Seicento il teologo puritano Richard Baxter, era interamente al servizio della gloria di Dio. Oggi sono invece i beni prodotti dal sistema capitalistico a dominare sull’uomo; il capitalismo ha, per così dire, perduto il suo spirito. Il Puritano voleva essere l’uomo di una professione – noi dobbiamo esserlo. Quando infatti l’ascesi fu trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a dominare l’eticità intra-mondana, essa cooperò all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente forza coercitiva – e forse continuerà a determinare finché non sarà bruciato l’ultimo quintale di combustibile fossile – lo stile di vita di tutti gli individui nati in questo ingranaggio, e non soltanto di quelli direttamente attivi nell’acquisizione economica. Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come un «sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento». Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere crescente e, alla fine, ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo spirito – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia. In ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno. Se dunque il processo di disincantamento del mondo sembrava preludere al dominio dell’uomo sugli eventi per mezzo della propria razionalità, l’esito di questo processo si è rivelato l’esatto opposto. La società occidentale contemporanea è dominata dalla razionalità formale, ossia da una forma di razionalità puramente strumentale, non solo nella sfera economica, ma anche in quella giuridica e in quella politica, come dimostra la burocrazia. 581

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La filosofia dei valori L’indagine sul metodo delle scienze sociali (economia, diritto, sociologia), alla quale Weber dedica diversi saggi, diventa nel corso del tempo una ricerca di più ampio respiro e dai tratti marcatamente filosofici: intersecandosi con la riflessione sulle diverse sfere di valore che nasce nell’ambito dello studio delle religioni, e con la spinosa questione della ‘oggettività’ delle scienze sociali, il pensiero weberiano ha per esito una vera e propria filosofia dei valori. Questa filosofia implicita di chi non vorrebbe essere un filosofo matura sullo sfondo della riflessione di Nietzsche e del dibattito sulla filosofia dei valori vivo in una delle maggiori scuole neokantiane, quella del Baden, sorta a Heidelberg. Il neokantismo è l’indirizzo o l’insieme di indirizzi filosofici che, nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, si richiamano al pensiero di Kant, in polemica tanto con l’idealismo tedesco, quanto con il positivismo.

Dal metodo ai valori L’oggettività delle scienze sociali

I limiti della scienza nella sfera dei valori

Nel mondo moderno non c’è armonia tra il sapere e i valori

Differenza rispetto alla civiltà greca

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Weber difende la possibilità dell’oggettività delle scienze sociali, mettendo decisamente in evidenza i principali caratteri di un atteggiamento scientifico che voglia appunto raggiungere, per quanto possibile, risultati oggettivi: da un lato, è indispensabile tenere distinti i giudizi di valore dai giudizi di fatto – ossia la sfera del dover essere da quella dell’essere –, senza pretendere di derivare i primi dai secondi; dall’altro, la scienza deve utilizzare spiegazioni di tipo causale. Ma chiariti questi scarni elementi essenziali, Weber deve ammettere che la scienza, nel confronto con i valori, è inevitabilmente limitata: essa non è in grado di dare risposte e di offrire soluzioni nei casi in cui ci sia un conflitto tra valori, pur se è essenziale la sua funzione di chiarimento per la comprensione del significato dei valori e di cosa significhi scegliere un certo valore piuttosto che un altro. E non solo: in realtà, quali siano i presupposti dell’indagine scientifica, in base ai quali vengono scelti gli oggetti da sottoporre a indagine, e cosa sia «degno di essere conosciuto» non può essere detto con i mezzi della scienza, ma è frutto di scelte soggettive non argomentabili. Il compito della scienza è farci conoscere la realtà, dare una spiegazione razionale degli eventi e dei fenomeni e costruire argomentazioni razionali, ma è essa stessa fondata su valori per i quali non è possibile alcuna giustificazione razionale. Lo sviluppo della scienza moderna, e il conseguente disincantamento del mondo, hanno messo in crisi l’unità armonica tra sapere e valori che esisteva, per esempio, nell’intellettualismo etico di Platone, che sull’armonia del sapere con gli altri valori fondava il perseguimento del valore morale rappresentato dalla pòlis. È la straordinaria esperienza dei discepoli di Socrate, che riescono a ordinare il mondo dei valori riferendo tutto, anche il sapere, alla vita politica della comunità, della pòlis. La civiltà greca è permeata dalla convinzione che comprendere i concetti di bontà, bellezza, coraggio, e così via, possa offrire all’individuo una guida per la condotta: conoscere questi concetti è uno strumento indispensabile per sapere quali cose siano buone e quali scelte e azioni siano giuste, soprattutto in relazione alla vita politica – ossia alla vita della pòlis.

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T9

Grecia antica e ordinamento dei valori M. Weber, La scienza come professione

E da ciò sembrava conseguire che, se solo si fosse trovato l’esatto concetto del bello, del buono, o anche soltanto del coraggio, dell’anima, e via dicendo, si potrebbe cogliere anche il suo vero essere, e ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare come agire correttamente nella vita, soprattutto come cittadino. A questa questione, infatti, tutto riportava la mentalità eminentemente politica dei Greci. Perciò si coltivava la scienza.

Il politeismo dei valori Non c’è un ordinamento oggettivo dei valori

➥ Percorso tematico, p. 225

Varie forme di razionalizzazione

Il conflitto è la dimensione caratteristica dei valori

Anche in questo contesto l’analisi weberiana del mondo moderno è di grande radicalità: le diverse sfere di valore, come la conoscenza, la religione, l’etica, la politica, sono oggi in perenne conflitto, e non c’è un ordinamento oggettivo che ponga fine a questo contrasto, perché nel mondo disincantato non ci sono più punti di riferimento oggettivi e assoluti. Il mondo razionalizzato non ha più un «senso» etico oggettivo come ha avuto nel passato, e quindi non ha più un ordinamento oggettivo dei valori, né un valore che possa costituire il punto di riferimento in base al quale ordinare gli altri, ma ha piuttosto un politeismo dei valori, che è ben più radicale del politeismo antico. Non è una novità della società moderna che gli individui siano collocati «in diversi ordini di vita, sottoposti a leggi diverse tra loro», tanto è vero che il politeismo greco faceva sacrifici a divinità diverse che potevano essere in lotta tra loro. Ma il politeismo dei valori moderno è più grave e più acuto perché le sfere di valore non possono essere inserite in un ordine gerarchico stabilito e rassicurante. Le diverse sfere di valore sono per Weber dotate ciascuna di una propria vita e di una propria legalità, tanto da avere ciascuna una particolare forma di razionalizzazione. Torna qui, nell’analisi dei valori, la consapevolezza weberiana della complessità della nozione di razionalità e dei processi di razionalizzazione. Processi che possono essere di razionalizzazione da una prospettiva non lo sono da un’altra prospettiva, per esempio se il punto di vista scelto si fonda su un valore diverso. Un esempio significativo è la spersonalizzazione dei rapporti umani caratteristica di una società che si basa sul mercato e cioè sullo scambio delle merci. Le relazioni personali diventano, così, relazioni tra cose (le merci) e, pur essendo molto significative dal punto di vista economico, non lo sono dal punto di vista etico. La società basata sul mercato è, dunque, «economicamente razionale ma appunto perciò eticamente irrazionale». Nella mancanza di punti di riferimento oggettivi, i diversi valori non possono che entrare in conflitto, e in un conflitto sempre più esplicito. L’esame dei valori non può che condurre cioè a un «politeismo assoluto», nel quale è negata, in linea di principio, persino la possibilità di un compromesso tra i valori in conflitto. Non c’è un valore tale che tutti gli altri siano relativi o riconducibili ad esso; tra i diversi valori si dà, piuttosto, un’alternativa. Il tentativo di un ordinamento dei valori – come quello di Rickert –, cioè di qualche forma di sistema dei valori, non riesce a cogliere proprio il tratto fondamentale del mondo dei valori, che è quello del conflitto. 583

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T10

La filosofia dei valori non può essere un sistema M. Weber, Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche

[…] un’autentica filosofia dei valori non potrebbe poi dimenticare, procedendo innanzi, che uno schema concettuale dei «valori», per quanto bene ordinato, sarebbe incapace di rendere giustizia proprio al punto più decisivo del problema. Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in ultima analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso.

Di fronte alla mancanza di un ordinamento oggettivo dei valori, in un mondo che non ha più un senso etico oggettivo perché è ormai disincantato, tutta la responsabilità della scelta ricade sulle spalle dell’individuo e della personalità individuale, cosicché proprio la nozione di scelta diventa fondamentale, tanto da fare accostare Weber, secondo qualche interprete, alla filosofia dell’esistenza. L’essenza della personalità consiste proprio nella capacità, nella volontà e nella forza di scegliere i punti di riferimento per la propria vita. La scelta è ciò che caratterizza la vita umana e la rende diversa da un evento naturale, anche se Weber è pessimista sulle capacità e quindi sulla personalità dell’uomo comune: chi è capace di scegliere assume piuttosto i tratti aristocratici di un eroe, dove l’etica eroica si contrappone all’etica «della media» (Durchschnittsethik). Influenza di Nietzsche È probabile che un qualche influsso, su questa posizione di Weber, l’abbia avuto su Weber il pensiero di Nietzsche, con i suoi marcati tratti aristocratici e antiegualitari. Chi non è capace di assumere su di sé il peso della scelta individuale e quindi il destino dell’epoca, che consiste nel disincantamento del mondo, viene consigliato da Weber di tornarsene «in silenzio […] nelle braccia delle antiche chiese, larga➥ Laboratorio sul lessico, mente e misericordiosamente aperte». Chi è capace di resistere alla consapevoOggettivo / soggettivo, p. 469 lezza della perdita di un senso etico oggettivo del mondo sarà invece in grado di scegliere e di dare al mondo un senso proprio, irriducibilmente soggettivo. La scelta caratterizza la personalità

6 Il rapporto tra etica e politica

Etica e politica Per quanto riguarda il rapporto tra valori e tra le diverse sfere di valore, Weber è particolarmente interessato al rapporto tra etica e politica. Da un lato Weber intende limitare le pretese dei ‘moralisti’ di dettare le leggi del comportamento politico su basi esclusivamente morali (mentre nella sfera dell’agire politico può essere addirittura necessario assumersi una ‘colpa’ etica); dall’altro cerca di individuare le caratteristiche di un’etica per la politica.

La politica Politica, Stato e monopolio della forza

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La stessa definizione di «politica» e di «Stato» esclude il riferimento a elementi morali, mentre sottolinea il carattere della forza. La politica, per Weber, è infatti la direzione o l’influenza esercitata sulla direzione dello Stato; e quest’ultimo, dal punto di vista sociologico, può essere definito come una «comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio – un elemento, questo del territorio, che è tra le sue componenti caratteristiche –, pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica».

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Due modelli di etica Etica dei principi ed etica della responsabilità ➥ Laboratorio sul lessico, Responsabilità, p. 621

T11

Principi e responsabilità M. Weber, La politica come professione

La tesi «filosofica» forse più famosa di Weber è la contrapposizione tra due modelli di etica, l’etica dei principi (Gesinnungsethik, letteralmente: etica della disposizione d’animo) e l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik). L’etica dei principi è un’etica che consiste nella coerenza ferma, ma anche proprio per questo rigida, delle proprie convinzioni; l’etica della responsabilità, invece, è un’etica che tiene responsabilmente conto delle circostanze in cui l’individuo agisce concretamente, e mette quindi in primo piano l’importanza delle conseguenze dell’agire. Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principi» oppure di un’«etica della responsabilità». Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. Non si tratta ovviamente di questo. Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima dell’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, recita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire.

I due modelli di etica per la politica

Preferenza di Weber per l’etica della responsabilità

Etica

dei principi

della responsabilità

Prescrive di agire in modo coerente con le proprie convinzioni e trascura le conseguenze

Prescrive di tenere conto delle conseguenze delle proprie azioni

Etica di tipo religioso: adottarla significa agire come se il mondo avesse un senso etico oggettivo

Etica adeguata all’agire politico e, in generale, alla vita dell’uomo moderno

L’etica dei principi è un’etica di tipo «religioso» anche quando sia adottata da chi non si affida alla religione: agendo secondo l’etica dei principi, si agisce come se il mondo fosse non disincantato, ma governato da un senso etico che promuova la realizzazione della bontà delle convinzioni. Si agisce quindi come se ci fosse una sorta di provvidenza che tenga conto della sincerità e della coerenza delle azioni degli individui. Ma ciò non è vero, e per questo Weber sostiene con decisione la scelta (perché 585

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Etica della responsabilità come modello per l’agire politico

L’etica della responsabilità come modello etico

➥ Sommario, p. 612

3 I testi

anche in questo caso non può che trattarsi di una scelta, non essendoci un valore oggettivo a cui richiamarsi) in favore dell’etica della responsabilità. Essa non possiede una coerenza data una volta per tutte nell’assolutezza della propria convinzione, ma deve piuttosto costruirsi una coerenza in una successione di scelte fatte sempre avendo presenti le circostanze concrete dell’azione e le conseguenze che dall’azione derivano. L’etica della responsabilità è innanzitutto, per Weber, l’etica del politico. Ampiamente critico verso quel destino della società moderna costituito dalla pervasiva presenza della burocrazia, egli guarda con preoccupazione alla mancanza di uomini politici (anche e soprattutto in Germania) in grado di assumersi le proprie responsabilità e di scegliere, di prendere decisioni, ciò che il burocrate, per la sua natura, non è in grado di fare. Elaborata per modellare un’etica adeguata all’agire politico, mostrando il carattere negativo del comportamento secondo l’etica dei principi, l’etica della responsabilità diventa in realtà per Weber la posizione etica complessiva che meglio corrisponde, anche al di là dell’agire politico, alla complessità e alle difficoltà della vita moderna. L’etica della responsabilità come etica eroica diventa quindi un modello etico da seguire, pur con la consapevolezza che difficilmente essa potrà diventare un comportamento generalizzato, di validità universale. Formulata come un’etica opposta all’etica dei principi, l’etica della responsabilità finisce per essere presentata come un’etica che comprende in sé la fedeltà ai propri principi e l’attenzione per le conseguenze e per le situazioni. Etica dei principi ed etica della responsabilità possono quindi trovare una sintesi nell’etica della responsabilità.

Il marxismo occidentale: Gramsci e Lukács

A. Labriola La concezione materialistica della storia: Il rifiuto dell’idealismo e del marxismo naturalistico, T12 A. Gramsci Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce: La realtà è un fatto storico, T13; Superamento della filosofia della prassi, T14; Le ideologie sono strumenti di dominio, T15

Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura: Il rapporto tra intellettuali e gruppo sociale dominante, T16 G. Lukács Storia e coscienza di classe: Le contraddizioni appartengono all’essenza della società capitalistica, T17; La contrapposizione tra l’individuo e il suo lavoro, T18; La coscienza di classe del proletariato tende alla verità, T19 La distruzione della ragione: Il pensiero irrazionalistico è espressione della borghesia, T20

Una particolare attenzione al pensiero di Hegel accomuna alcuni autori che si rifanno esplicitamente a Marx e che intendono collocarsi all’interno della tradizione che si richiama al pensatore di Treviri, il cosiddetto «marxismo». Alcuni appartengono al contesto culturale italiano e innestano nel marxismo alcune te586

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

si hegeliane attraverso la mediazione del neoidealismo; altri appartengono al contesto culturale tedesco e, oltre al recupero di Hegel, risentono direttamente della teorizzazione weberiana.

1 L’influenza di Labriola

Il rifiuto del marxismo naturalistico e meccanicistico

Il rifiuto dell’idealismo

T12

Il rifiuto dell’idealismo e del marxismo naturalistico A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Saggio 3

Struttura e sovrastruttura: un rapporto complesso

Gramsci Il principale esponente del marxismo italiano del Novecento è Antonio Gramsci. Ma il pensiero di Gramsci trova un importante antecedente nell’opera di Antonio Labriola (Cassino, 1843 - Roma, 1904), professore all’università di Roma, a cui si deve l’avvio del dibattito teorico sul marxismo in Italia. Nella sua opera principale, i Saggi sul materialismo storico (1896), Labriola polemizza da una parte contro le interpretazioni positivistiche del marxismo, dall’altra contro l’idealismo. In opposizione al marxismo naturalistico e meccanicistico che si andava diffondendo nella socialdemocrazia tedesca in parallelo all’affermazione dell’evoluzionismo darwiniano, Labriola ritiene che la storia, pur avendo le proprie radici nella natura, sia frutto del lavoro e dell’azione dell’uomo: essa è perciò fuori dall’orizzonte di necessità del mondo naturale così che non le può essere applicato uno schema di sviluppo meccanico e predeterminato e non si dà un’evoluzione naturale verso il comunismo. Dall’altra parte, in opposizione all’idealismo, Labriola riprende e approfondisce il materialismo storico di Marx, la tesi cioè che i rapporti di produzione economica (la «struttura») siano prioritari sui rapporti sociali e culturali (la «sovrastruttura»); contro l’idealismo, il materialismo storico costituisce il principale metodo di interpretazione della storia e della società. Poiché, inoltre, pone in primo piano i rapporti di produzione economica e il lavoro, il materialismo storico è interpretato come una «filosofia della praxis» sociale e storica dell’uomo; e, proprio in quanto legata all’attività pratica, essa rifugge da ogni ipostatizzazione naturalistica. La natura non è un insieme di fatti dati una volta per tutte, ma è il risultato di un processo che si attua nel tempo. Il materialismo storico, ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma di idealismo, che consideri le cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguenza o come altro dicasi, d’un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La rivoluzione intellettuale che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i processi della storia umana, è coeva e rispondente a quell’altra rivoluzione intellettuale, che è riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto, che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non proceda, e molto meno il creato d’una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto. Tuttavia il materialismo storico non è un metodo che può essere applicato meccanicamente, come se tutti i rapporti sociali si riducessero semplicemente a rapporti economici. Secondo Labriola, i rapporti fra la struttura e la sovrastruttura sono complessi e mediati; la sovrastruttura (i rapporti sociali, le ideologie, i va587

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Il materialismo storico come metodo di interpretazione di società e storia

lori, la cultura, l’arte) non è «pura parvenza», ma ha un ruolo attivo nella storia. Il materialismo storico, del resto, non rappresenta una visione scientifica completa ma solo un metodo di interpretazione della società e della storia, un «filo conduttore»: «la sottostante struttura economica che determina tutto il resto – scrive Labriola –, non è un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori a guisa d’immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni, e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie. Da quel sostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato, spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile». La riflessione sul materialismo storico e sulla filosofia del marxismo ritorna nel pensiero di Antonio Gramsci, insieme a una lucida analisi delle tradizioni culturali italiane e del contesto sociale e politico nel quale poteva inserirsi l’azione rivoluzionaria del Partito comunista.

La vita e le opere Antonio Gramsci nacque ad Ales, in provincia di Cagliari, nel 1891. Dopo gli studi liceali, si iscrisse alla facoltà di lettere dell’università di Torino, ma interruppe gli studi per dedicarsi all’attività politica. Nel 1919 fondò la rivista «Ordine Nuovo», che sarebbe poi diventata un quotidiano e che proponeva di individuare nei consigli di fabbrica nuclei di democrazia operaia diretta e futuri organi del potere proletario. Sempre più critico nei confronti del Partito socialista, nel 1921 fu con Palmiro Togliatti tra i fondatori del Partito comunista d’Italia. Tra il 1922 e il 1923 visse in Unione Sovietica, impegnato nell’Internazionale comunista. Tornato in Italia,

nel 1924 divenne segretario generale del partito e fu eletto deputato. Nello stesso anno fondò «L’Unità. Quotidiano degli operai e dei contadini». Nonostante l’immunità parlamentare, nel 1926 fu arrestato dalla polizia e l’anno successivo il Tribunale speciale fascista lo riconobbe colpevole di cospirazione e istigazione alla guerra civile. Processato a Roma nel 1928, fu condannato a venti anni di reclusione, che scontò al confino di Ustica e nella casa penale di Turi (Bari). Nel 1929 iniziò a scrivere i Quaderni del carcere. Ottenuta per motivi di salute la riduzione della pena, nel 1937 venne rilasciato, ma morì pochi giorni dopo in seguito a un’emorragia cerebrale.

È durante il periodo di prigionia trascorso a Turi che Gramsci si dedica a un intenso lavoro di studio e di approfondimento, annotando frammentariamente le proprie riflessioni su più di trenta quaderni, pubblicati nel dopoguerra col titolo Quaderni del carcere. Come Labriola, Gramsci assume come obiettivo polemico le interpretazioni positivistiche e meccanicistiche del marxismo e l’idealismo italiano rappresentato da Croce e Gentile. Contro l’interpretazione del marxismo come sociologia materialistico-scientifica operata da Nikolaj Bucharin (1888-1937), e contro l’applicazione del metodo dialettico alla natura operata da Engels nell’Antidühring (vedi Unità 4, p. 163), Gramsci sottolinea l’autonomia della storia dalla determinazione naturale: se la natura è governata da leggi necessarie, la storia è frutto della prassi dell’uomo che costantemente modifica le condizioni naturali, storicizzandole. La storia non può quindi essere compresa «secondo criteri costituiti sul modello delle scienze naturali», poiché l’azione umana può sovvertire qualsiasi previsione e legge generale. Storicismo Questo aspetto è colto, secondo Gramsci, dallo storicismo crociano, che ha il mee filosofia della prassi rito di insistere sulla storicità della realtà; ma in Croce questa storicità è concepita come espressione dello Spirito, ed è quindi sottoposta a un travestimento idealistico e speculativo. Il vero storicismo assoluto – del quale parla Croce – è uno storicismo reale e immanentistico. Il marxismo, consapevole della propria storicità, si presenta infatti come storicismo assoluto; e dato che la storia è fatta dal lavoro dell’uomo, dalla sua prassi sociale, il marxismo è detto, come già aveva fatto Labriola, «filosofia della prassi»: «mondanizzazione e terrestrità assolu-

Autonomia della storia dalle leggi di natura

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ta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia». Sostenere che la storia è il prodotto dell’attività umana vuol dire anche sottolineare il carattere umano, non trascendente, della realtà in cui l’uomo vive. Lo storicismo di Gramsci e Croce

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La realtà è un fatto storico A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce

Storicismo assoluto

Idealistico: Croce

Immanentistico: Gramsci

La storicità della realtà è espressione dello Spirito

La storia è il prodotto dell’attività umana

La filosofia della prassi deriva certamente dalla concezione immanentistica della realtà, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo. […] Non solo la filosofia della prassi è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come «soggettività storica di un gruppo sociale», come fatto reale, che si presenta come fenomeno di «speculazione filosofica» ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi un’unità morale. […] La filosofia della prassi è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa.

La filosofia della prassi non concepisce la «struttura» della società come qualcosa di astratto e di dottrinario, come nell’interpretazione del marxismo data da Croce, ma la concepisce storicamente come «l’insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini si muovono e operano»: nell’espressione «materialismo storico» l’accento di Gramsci cade più sul termine «storico» che sul termine «materialismo». La filosofia della prassi è inoltre dotata di un metodo attraverso il quale giungere alla comprensione della storia: questo metodo non è quello delle scienze naturali, ma il metodo dialettico. Per questo ruolo della dialettica, scrive Gramsci, la filosofia della prassi «è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo». La dialettica idealistica non è tuttavia sufficiente: in essa ogni contraddizione viene superata come momento dello sviluppo dello Spirito; la dialettica del materialismo è invece riconoscimento delle contraddizioni oggettive presenti nella società, che non possono essere risolte dall’azione umana se non al termine del processo rivoluzionario. Marxismo Il marxismo è dunque coscienza delle contraddizioni e del proprio ruolo all’income coscienza terno di un certo contesto sociale, consapevolezza della propria transitorietà stodelle contraddizioni rica, del fatto che il marxismo stesso è destinato a scomparire nella società comunista, col passaggio dal «regno della necessità» della società borghese al «regno della libertà» della società comunista. La filosofia della prassi condivide quindi la stessa sorte delle altre filosofie, anche se si distingue da esse per il fatto che non è una mera manifestazione delle contraddizioni della società, ma ne è l’espressione consapevole. Il metodo dialettico del materialismo storico

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Superamento della filosofia della prassi

A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce

Che la filosofia della prassi concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transitoria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente da tutto il suo sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata. Ma ogni sistema filosofico a sé preso non è stato l’espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché tale espressione poteva essere data solo dall’insieme dei sistemi in lotta fra loro. […] In un certo senso la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intiero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione. […] Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla «necessità» e non alla «libertà», che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata anche la filosofia della prassi: nel regno della «libertà» il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità della lotta.

Due tipi di dialettica

Dialettica

Dell’idealismo

Del materialismo storico

Superamento delle contraddizioni della società come momenti di sviluppo dello Spirito

Riconoscimento delle contraddizioni presenti nella società

All’interno di questo quadro filosofico, nei Quaderni, Gramsci si interroga su quali siano le condizioni che possano portare alla rivoluzione socialista in Italia. A differenza dell’impostazione ortodossa del marxismo, che si era andata cristallizzando all’interno della Terza internazionale (l’organizzazione dei partiti comunisti fondata da Lenin nel 1919), la sua analisi si caratterizza per il grande peso che viene attribuito alle condizioni culturali e ideologiche, cioè ai fenomeni sovrastrutturali (alle «superstrutture», come dice Gramsci) rispetto alla struttura economica della società: essi sono dotati di una realtà oggettiva e operano nella storia e nella società. La guerra di posizione Gramsci riprende da Lenin la necessità di riflettere sulla praticabilità della rivolucome strategia italiana zione socialista, lo sforzo di tenere insieme teoria e pratica, ma nota grandi diffeverso il socialismo renze fra l’Italia e la Russia. Se in Russia prima della Rivoluzione d’ottobre lo Stato era molto forte e la società civile molto debole e disgregata, in Italia Stato e società civile hanno un rapporto più equilibrato: in queste condizioni la strategia rivoluzionaria non si può fondare su un attacco frontale, ma deve operare per la conquista della società civile: deve cioè presentarsi come una «guerra di posizione». Importanza dei fenomeni sovrastrutturali

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La guerra di posizione avviene sul piano della lotta ideologica e politica: la supremazia nella società civile non si esercita attraverso il «dominio» della forza, ma attraverso la «direzione» ideologica delle classi sociali. Questa direzione viene esercitata da specifici apparati della società civile: la scuola, la chiesa, i partiti, i sindacati, la stampa, che trasmettono i principi e i valori della classe dominante, cioè della borghesia, che è nella società capitalistica anche classe dirigente. La classe dominante è quella che esercita il potere, anche attraverso l’uso della forza, sui propri avversari; classe dirigente è invece quella che dà una direzione intellettuale e morale ai gruppi sociali affini e alleati. L’egemonia L’azione rivoluzionaria deve quindi indirizzarsi alla conquista dell’egemonia pocome supremazia litica e ideologica sulla società civile, cioè della supremazia fondata sul consenfondata sul consenso so anziché sulla forza, penetrando negli apparati attraverso i quali si attua la lotta ideologica e diffondendo i valori e gli ideali della classe operaia: «un gruppo sociale – nota Gramsci – può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (ed è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa “dominante” ma deve continuare ad essere anche “dirigente”». Delle varie ideologie Gramsci sottolinea il carattere oggettivo e non arbitrario: ciascuna di esse è un fatto storico con il quale gli uomini prendono coscienza del loro ruolo sociale, ed è necessario eliminare l’egemonia ideologica esercitata dalla classe dominante borghese per modificare i rapporti di forza vigenti nella società. Classe dominante e classe dirigente

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Le ideologie sono strumenti di dominio

A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce

Per la filosofia della prassi le ideologie sono tutt’altro che arbitrarie; esse sono fatti storici reali che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio, non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti, per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della prassi. […] Per la filosofia della prassi le superstrutture sono una realtà (o lo diventano, quando non sono pure elucubrazioni individuali), oggettiva e operante; essa afferma esplicitamente che gli uomini prendono conoscenza della loro posizione sociale e quindi dei loro compiti sul terreno delle ideologie, ciò che non è piccola affermazione di realtà; la stessa filosofia della prassi è una superstruttura, è il terreno in cui determinati gruppi sociali prendono coscienza del proprio essere sociale, della propria forza, dei propri compiti, del proprio divenire.

Per ottenere l’egemonia, il proletariato deve soppiantare la borghesia nel suo ruolo dirigente delle classi sociali subalterne, costituendo con esse stabili alleanze sociali e culturali: un «blocco storico», in grado di operare una riforma intellettuale e morale della società. Un blocco storico di questo tipo può essere costituito in Italia dall’alleanza della classe operaia del Nord con le masse contadine del Sud, socialmente arretrate e su cui è forte l’influenza della Chiesa. Questa alleanza è in grado di opporsi al tradizionale blocco storico costituito dall’unione degli industriali del Nord con i grandi proprietari terrieri del Sud, che ha condotto, secondo Gramsci, al Risorgimento. Il ruolo In questa lotta per l’egemonia grande peso hanno gli intellettuali: non solo i grandegli intellettuali di intellettuali delle università, ma anche il quadro intellettuale più diffuso, dal personale della scuola a quello della stampa e dei partiti. «Una “massa” – scrive

Il «blocco storico»

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Gramsci – non si “distingue” e non diventa “indipendente” senza organizzarsi e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica». Ogni classe tende a produrre intellettuali che sono organici a se stessa, che hanno il ruolo di mediare il consenso in funzione degli interessi della classe cui appartengono. Per operare efficacemente sul piano della lotta ideologica, anche la classe operaia ha bisogno dei propri intellettuali organici.

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Il rapporto tra intellettuali e gruppo sociale dominante A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura

Il Partito comunista come «moderno Principe»

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Il rapporto tra gli intellettuali e il mondo della produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è «mediato», in diverso grado, da tutto il tessuto sociale, dal complesso delle superstrutture, di cui appunto gli intellettuali sono i «funzionari». […] Gli intellettuali sono i «commessi» del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso «spontaneo» dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce «storicamente» dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dell’apparato di coercizione statale che assicura «legalmente» la disciplina di quei gruppi che non «consentono» né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo viene meno. Il Partito comunista si configura agli occhi di Gramsci come un intellettuale organico che agisce in funzione della guida politica e morale della classe operaia. Esso costituisce, come in Lenin, l’avanguardia organizzata del proletariato: rappresenta dunque una volontà più ampia (quella del proletariato) e si pone un fine ben preciso (la società comunista). Poiché queste ultime sono anche le caratteristiche che Machiavelli attribuiva al Principe, esso è considerato da Gramsci come il «moderno Principe». Nelle condizioni della società capitalistica, il principe non può più essere un individuo singolo, una persona reale, ma solo un organismo complesso, in grado di rappresentare una volontà collettiva, come appunto il partito comunista. Riassumendo, nel marxismo di Gramsci, dunque, la sovrastruttura della società – l’insieme dei fenomeni culturali e delle ideologie – acquista un peso notevole rispetto alla struttura economica: la sovrastruttura svolge un ruolo attivo nella storia dell’uomo. Gramsci sostiene che la trasformazione della società deve passare attraverso la conquista dell’egemonia anche ideologica da parte della classe operaia. Per ottenerla occorre creare un blocco di alleanze sia sociali sia culturali, facendo leva sulla guida morale e politica degli intellettuali e del Partito comunista.

Lukács Insieme a Gramsci, l’ungherese György Lukács è l’altro grande esponente della filosofia marxista novecentesca.

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La vita e le opere György Lukács nacque a Budapest nel 1885 da un’agiata famiglia di origine ebraica. Dopo aver ottenuto nel 1909 il dottorato in filosofia, si dedicò a studi di arte e letteratura a Berlino e a Heidelberg, dove entrò in contatto con Weber. Nel 1912 uscì il saggio L’anima e le forme e nel 1914 Teoria del romanzo. Nel 1918 aderì al Partito comunista ungherese e nel 1919 divenne commissario del popolo all’istruzione nella repubblica dei consigli ungherese di Béla Kun, e commissario politico dell’Armata Rossa ungherese. Dopo la caduta della repubblica visse tra Vienna e Berlino. Nel 1923 uscirono i saggi di Storia e coscienza di classe. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, dal 1933 al 1945, visse in Russia, approfondendo lo studio del pensiero di Hegel e di Marx e dedicandosi,

parallelamente, a studi di estetica, critica letteraria e storia della letteratura. Dopo il lungo esilio, nel 1945 tornò in Ungheria e insegnò estetica e filosofia della cultura all’università di Budapest. Tra le opere pubblicate in questo periodo: Goethe e il suo tempo, nel 1947; Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica nel 1948 e i Saggi sul realismo (1948-1955). Nel 1953 uscì Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna e nel 1954 La distruzione della ragione. Lukács prese parte attiva alla vita politica del Paese come ministro dell’istruzione nel governo Nagy, che venne represso dai sovietici nel 1956. Deportato per alcuni mesi nel 1957 in Romania, nello stesso anno poté fare ritorno a Budapest e si dedicò interamente agli studi filosofici; nel 1963 uscì Estetica. Morì a Budapest nel 1971.

In Lukács si assiste a un recupero diretto nel marxismo del pensiero hegeliano. L’obiettivo dei saggi raccolti nella sua prima grande opera, Storia e coscienza di classe, del 1923, è quello di chiarire quale sia il «metodo del marxismo»: questo metodo è costituito dalla dialettica che Marx eredita da Hegel (il sottotitolo del testo è appunto Studi sulla dialettica marxista). Contrariamente però all’estensione della dialettica alla totalità della natura operata da Engels (e poi ripresa da quella che diverrà la dottrina ufficiale del marxismo sovietico, il cosiddetto «materialismo dialettico»), per Lukács (così come, si è visto, per Gramsci) il campo di applicazione della dialettica è costituito dal mondo umano: essa serve all’analisi della storia e della società e insieme alla loro modificazione rivoluzionaria. La società come totalità La scienza della natura concepisce i fatti come qualcosa di dato e come isolati gli uni dagli altri, il metodo dialettico concepisce invece i fatti della società capitalistica, all’apparenza isolati e privi di relazione, come prodotti di determinati rapporti sociali. Essi vengono quindi compresi solo come momenti all’interno di una «totalità» più ampia di cui fanno parte: «solo operando questa connessione – scrive Lukács – nella quale i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà». La conoscenza vera dei fatti sociali comporta quindi la conoscenza della loro funzione all’interno della totalità costituita dalla società borghese: questi fatti sono «momenti dialettico-dinamici di un intero che è esso stesso dialettico-dinamico». La società va dunque studiata come una totalità le cui parti sono in relazione reciproca; essa è conosciuta non attraverso l’analisi isolata delle singole parti, ma attraverso una considerazione unitaria: «la categoria della totalità – scrive Lukács –, il dominio determinante e onnilaterale dell’intero sulle parti è l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base di una scienza interamente nuova». La stessa interazione fra la struttura e la sovrastruttura della società è una interazione di carattere dialettico e dinamico. La contraddizione La considerazione dialettica della società porta a scoprire che in essa sussistono oggettiva delle contraddizioni che non possono essere risolte; un elemento, questo, che separa la dialettica di Marx da quella hegeliana. Nella totalità costituita dalla società capitalistica esistono dunque «contraddizioni oggettive», prima fra tutte quella fra forze di produzione e rapporti di produzione. La società capitalistica è Il recupero della dialettica hegeliana

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quindi una società oggettivamente contraddittoria, che non deve solo essere studiata ma anche modificata in senso rivoluzionario; su queste contraddizioni deve fare forza l’azione del proletariato, allo scopo di superarla.

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Le contraddizioni appartengono all’essenza della società capitalistica G. Lukács, Storia e coscienza di classe

Questa considerazione dialettica della totalità, che in apparenza si allontana così nettamente dalla realtà immediata e che in apparenza costruisce la realtà in modo così «non-scientifico», è l’unico metodo per cogliere e riprodurre nel pensiero la realtà. La totalità concreta è quindi la categoria autentica della realtà. La giustezza di questa concezione si rivela tuttavia chiaramente soltanto quando poniamo al centro della nostra attenzione il sostrato reale, materiale del nostro metodo, la società capitalistica, con l’antagonismo ad essa immanente tra forze di produzione e rapporti di produzione. Il metodo delle scienze della natura, l’ideale metodologico di ogni scienza riflessiva e di ogni revisionismo, non conosce nessuna contraddizione, nessun antagonismo nel proprio materiale. […] Riguardo alla realtà sociale, invece, queste contraddizioni non sono segni di una comprensione scientifica ancora imperfetta della realtà, ma appartengono piuttosto indissolubilmente all’essenza della realtà stessa, all’essenza della società capitalistica. Nella conoscenza dell’intero esse non vengono superate al punto da cessare di essere contraddizioni. All’opposto: esse vengono comprese come contraddizioni necessarie, come fondamenti antagonistici di questo ordinamento della produzione. Quando la teoria, come conoscenza della totalità, mostra una via per il superamento di queste contraddizioni, per la loro soppressione, lo fa indicando quelle tendenze reali del processo di sviluppo sociale, che nel corso di questo sviluppo sono destinate a sopprimere realmente queste contraddizioni nella realtà sociale.

La tendenza della scienza borghese a isolare e parcellizzare i fatti è la conseguenza di una caratteristica della società capitalistica: quella alla «reificazione» dei rapporti sociali, cioè alla loro trasformazione in «cose» estranee all’uomo, alienate dall’uomo. I rapporti sociali sono prodotti dall’uomo, ma nel processo di reificazione la loro origine umana viene persa, divenendo qualcosa di estraneo all’uomo, a lui alieno («alienazione»), in grado di dominarlo, qualcosa retto da leggi proprie che l’uomo non riesce a infrangere. L’influenza Il tema della reificazione e dell’alienazione viene ripreso da Marx, che sottolidi Marx e Weber nea questo aspetto in relazione alla trasformazione del prodotto del lavoro in merce: questa trasformazione comporta l’estraneazione del prodotto del lavoro umano dall’uomo stesso, il suo alienarsi in qualcosa di esterno e indipendente che lo domina; ciò che Marx chiama il «feticismo della merce». Ma è una tesi, questa della reificazione, nella quale si può scorgere anche l’influenza dell’analisi weberiana del processo di razionalizzazione della società capitalistica, cioè della trasformazione dei rapporti sociali in una «gabbia di acciaio» che imprigiona l’uomo. Il processo di reificazione genera una contrapposizione netta tra l’individuo e la sua attività: nel mercato i prodotti del lavoro umano, trasformati in merce, acquistano oggettività e sono regolati da leggi autonome; l’uomo può soltanto conoscerle, essendogli preclusa qualunque forma di intervento su di esse. Tale processo non investe solo i prodotti dell’attività umana, ma anche l’attività stessa: lo stesso lavoro viene reificato, trasformato in merce, e diviene così estraneo al lavoratore.

La reificazione dei rapporti sociali

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La contrapposizione tra l’individuo e il suo lavoro G. Lukács, Storia e coscienza di classe

La falsa coscienza

La coscienza di classe del proletariato

Ruolo attivo e dinamico della coscienza di classe

A proposito di questo fatto strutturale fondamentale [la trasformazione del prodotto del lavoro in merce] bisogna osservare anzitutto che attraverso di esso viene contrapposta all’uomo la propria attività, il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di indipendente da lui, che lo domina mediante leggi autonome estranee all’uomo. E ciò accade sia oggettivamente che soggettivamente. Dal punto di vista oggettivo, sorge un mondo di cose già fatte e di rapporti tra cose (il mondo delle merci ed il loro movimento sul mercato), regolato da leggi che, pur potendo essere conosciute a poco a poco dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione. L’individuo può dunque utilizzare a proprio vantaggio la conoscenza di queste leggi, senza che con ciò gli sia data minimamente la possibilità di produrre, mediante la propria attività, un effetto di trasformazione sullo stesso decorso della realtà. Dal punto di vista soggettivo – in una economia compiutamente mercificata – l’attività umana si oggettiva di fronte all’uomo stesso trasformandosi in merce, la quale, sottoposta all’oggettività estranea all’uomo dalle leggi naturali della società, deve necessariamente compiere i propri movimenti in maniera altrettanto indipendente dall’uomo, così come accade per qualsiasi bene destinato a soddisfare i bisogni non appena si è trasformato in cosa-merce. La stessa conoscenza della realtà, tuttavia, non è che un momento della totalità sociale. La sua possibilità risente quindi del darsi di condizioni storiche oggettive: è solo a un certo momento dello sviluppo storico che si crea la possibilità oggettiva di una conoscenza vera della totalità sociale. Questo momento è legato al superamento della società borghese; nella società borghese si sviluppa una coscienza di classe borghese, che è consapevolezza delle contraddizioni della società capitalistica e insieme loro mascheramento ideologico. Questa coscienza di classe è dunque, con le parole di Marx, una «falsa coscienza», e la classe borghese non è in grado di superare queste contraddizioni attraverso la creazione di una nuova società, pena la soppressione di se stessa come classe. È solo con la coscienza di classe del proletariato che si è in grado di conoscere e insieme di superare le contraddizioni attraverso la creazione di una società senza classi: il comunismo. La coscienza di classe del proletariato non è la mera somma delle coscienze individuali, ma è la consapevolezza di un soggetto storico nella sua totalità: essa costituisce il proletariato come totalità in grado di operare sulla totalità della società borghese. La coscienza di classe del proletariato è inoltre, per Lukács, coscienza tendenzialmente vera in quanto non rappresenta gli interessi di un gruppo contro un altro, ma gli interessi di tutti, poiché il proletariato è la classe più sfruttata e alienata. In questo modo la conoscenza vera della società capitalistica e l’azione per il suo superamento diventano una possibilità oggettiva permessa dalla storia: il proletariato, scrive Lukács «non ha da realizzare ideali ma solamente liberare gli elementi della società nuova». Tuttavia, se la coscienza di classe, che è un fenomeno sovrastrutturale, risente delle possibilità oggettive determinate dalla struttura economica, essa non è un suo risultato meccanico e passivo: assume un ruolo attivo e dinamico in grado di orientare il processo storico. Ciò è possibile proprio perché, mentre nella classe borghese valgono gli interessi dei singoli individui in opposizione a quelli della società, coloro che appartengono al proletariato hanno interessi comuni e perse595

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guono il medesimo fine: essi assumono il punto di vista della totalità, che è invece del tutto assente nella borghesia.

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La coscienza di classe del proletariato tende alla verità G. Lukács, Storia e coscienza di classe

Nello sviluppo del proletariato la «falsa» coscienza ha una funzione del tutto diversa che nelle classi precedenti. Mentre cioè nella coscienza di classe della borghesia, in forza del suo rapportarsi all’intero della società, anche il corretto accertamento di singoli dati di fatto o momenti dello sviluppo mette in luce i limiti presenti nella coscienza, scoprendosi come «falsa» coscienza, nella stessa «falsa» coscienza del proletariato esiste invece, perfino nei suoi errori materiali, un’intenzione verso la verità. […] Soltanto con il crescere della consapevolezza, attraverso l’agire e l’autocritica consapevoli, la mera intenzione verso la verità si trasforma, liberandosi dei suoi falsi velami, nella conoscenza effettivamente vera, storicamente rilevante e capace di operare dei rivolgimenti sociali. […] Ciò che nelle altre classi appariva come opposizione tra interesse di classe e interesse della società, come opposizione tra azione individuale e sue conseguenze sociali, ecc., dunque come limite esterno della coscienza, viene qui trasferito all’interno della coscienza proletaria di classe come opposizione tra interesse del momento e obiettivo finale. Ed è perciò che il superamento interno di questa scissione dialettica rende possibile la vittoria esterna del proletariato nella lotta di classe.

La coscienza di classe

Coscienza di classe

Della borghesia

Del proletariato

Falsa

Vera

Consapevolezza delle contraddizioni della società

Consapevolezza delle contraddizioni della società

Mascheramento ideologico delle contraddizioni

Capacità di superare le contraddizioni

Le tesi di Storia e coscienza di classe furono duramente censurate dall’Internazionale comunista per la loro impronta «soggettivistica» e «idealistica». Lukács accetta la condanna e ritira il libro. Si orienta allora verso lo studio della letteratura e dell’estetica e verso la storiografia filosofica. Fra i saggi che riguardano il primo argomento possono essere citati i Saggi sul realismo, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna e i due volumi dell’Estetica, nei quali Lukács esprime la convinzione che l’arte, espressione, come ogni ideologia, della società e della condizione storica, debba essere loro rispecchiamento realistico. L’invenzione del «tipo» Questo rispecchiamento non avviene tuttavia attraverso la costruzione di una mera copia artistica della realtà, ma attraverso l’elaborazione di un «tipo» in grado di rappresentare il contesto sociale e storico dal quale emerge: l’invenzione fantastica di circostanze o personaggi caratteristici di una certa epoca con L’estetica marxista

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i quali ottenere «la riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche». L’estetica realistica del marxismo non è così contraria, per Lukács, alla fantasia. L’opera d’arte è inoltre dotata di una propria oggettività che va oltre le intenzioni consapevoli del singolo artista: anche in un artista conservatore come Balzac, nota Lukács, possono essere colte «le più importanti tendenze dell’evoluzione sociale». La critica Fra i saggi che riguardano la storiografia filosofica possono essere ricordati Il giodell’irrazionalismo vane Hegel e i problemi della società capitalistica e La distruzione della ragione. In quest’ultimo testo Lukács interpreta il pensiero tedesco tra Ottocento e Novecento (Schelling, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Dilthey, Weber, Spengler, Heidegger, Jaspers, fino al nazismo) come espressione di un pensiero borghese e conservatore, accomunato dalla svalutazione della ragione; ad esso contrappone il pensiero razionalistico e progressivo del marxismo, ispirato al metodo dialettico, che consente la conoscenza e la trasformazione della realtà.

T20

Il pensiero irrazionalistico è espressione della borghesia

G. Lukács, La distruzione della ragione

Il marxismo tedesco

➥ Sommario, p. 612

Le diverse fasi dell’irrazionalismo sono sorte come risposte reazionarie ai problemi della lotta di classe. Il contenuto, la forma, il tono ecc. della sua reazione al progresso della società vengono quindi determinati non da una dialettica di tal genere ad esso intrinseca e peculiare, ma piuttosto dall’avversario, dalle condizioni di lotta che vengono imposte alla borghesia reazionaria. A ciò bisogna attenersi come a un principio fondamentale dello sviluppo dell’irrazionalismo. Questo non significa tuttavia che l’irrazionalismo – all’interno della cornice sociale così determinata – non mostri un’unità ideale. Al contrario, proprio da questo suo carattere deriva che i problemi contenutistici e metodologici da esso sollevati sono saldamente connessi e rivelano una sorprendente (e stretta) unità. La svalutazione dell’intelletto e della ragione, l’esaltazione acritica dell’intuizione, l’aristocratica teoria della conoscenza, il ripudio del progresso storico-sociale, la creazione di miti ecc. sono motivi che ritroviamo praticamente in ogni pensatore irrazionalista. La reazione filosofica dei sostenitori dei residui feudali e della borghesia al progresso sociale può, in determinate circostanze e da parte di singoli rappresentanti di quest’indirizzo particolarmente dotati, ricevere una forma brillante e geniale; ma il contenuto filosofico presente nell’intero sviluppo è estremamente monotono e scarso. Sono molteplici, dunque, gli aspetti del pensiero di Lukács: da un lato, l’analisi della società capitalistica e del ruolo che il proletariato ha nella trasformazione di questa società e nel superamento delle contraddizioni interne ad essa; dall’altro, l’interesse per la cultura filosofica e letteraria e la riflessione sulla funzione dell’arte. Il recupero nel marxismo del pensiero hegeliano, lo sforzo verso l’elaborazione di una filosofia marxista, la separazione tra mondo della natura e mondo dell’uomo, sono temi ricorrenti anche in altri testi di filosofi marxisti tedeschi, come Marxismo e filosofia (1923) di Karl Korsch (1886-1961), e Il principio speranza (19531959) di Ernst Bloch (1885-1977).

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La Scuola di Francoforte

4 I testi

M. Horkheimer L’Istituto per la ricerca sociale e la sua rivista: La ricerca sociale è interdisciplinare, T21 Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale: Due tipi di ragione, T22 M. Horkheimer, T.W. Adorno Dialettica dell’illuminismo: La società industriale trasforma gli uomini in cose, T23; Il divertimento è rinuncia alla riflessione sulla realtà sociale, T24 T. W. Adorno Dialettica negativa: La dialettica deve far emergere le contraddizioni della realtà, T25

La teoria critica

L’Istituto per la ricerca sociale nasce a Francoforte nel 1922, e dal 1931 viene diretto da Horkheimer, che fonda la «Zeitschrift für Sozialforschung» («Rivista per la ricerca sociale») e fissa l’obiettivo dell’Istituto nella elaborazione di una «teoria critica» della società capitalistica. Oltre ai filosofi appena menzionati, collaborano con l’Istituto anche economisti, come Heinryk Grossmann (1881-1950) e Friedrich Pollock (1894-1970) (direttore dell’Istituto prima di Horkheimer), sociologi, come Karl August Wittfogel (1896-1988), psicologi, come Erich Fromm (1900-1980), e politologi, come Franz Neumann (1900-1954). Dopo l’avvento del nazismo, l’Istituto si trasferisce prima

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W. Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: All’unicità degli oggetti si è sostituita la loro ripetibilità, T27 H. Marcuse Eros e civiltà: Negazione del principio di prestazione e liberazione degli istinti, T28

La tradizione hegeliana e insieme la lezione di Weber giocano un ruolo importante anche nella peculiare interpretazione del marxismo proposta dai principali rappresentanti della cosiddetta «Scuola di Francoforte»: Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Walter Benjamin e Herbert Marcuse.

La storia della scuola di Francoforte

Il carattere interdisciplinare

Il carattere di feticcio della musica e la sua regressione nell’ascolto: La valutazione della musica è una finzione, T26

a Ginevra e poi a New York, e con esso i suoi principali esponenti, quasi tutti di origine ebraica. Alla fine della Seconda guerra mondiale alcuni, come Marcuse e Fromm, restano negli Stati Uniti, mentre altri, come Horkheimer e Adorno, tornano a Francoforte, dove nel 1950 riaprono la sede dell’Istituto. Grazie all’insegnamento universitario di Horkheimer e Adorno, da questo momento in poi si può propriamente parlare di una vera e propria «Scuola di Francoforte». Horkheimer ne è direttore fino al 1958, anno in cui gli succede Adorno. Dopo la morte di quest’ultimo, nel 1969, l’Istituto cessa sostanzialmente la propria attività. Fra i principali esponenti della seconda generazione francofortese possono essere citati Oskar Negt (nato nel 1934) e soprattutto Jürgen Habermas (nato nel 1929).

L’impostazione della Scuola di Francoforte si caratterizza in tutti i suoi esponenti come un singolare connubio di riflessioni filosofiche, ispirate a Marx e Hegel, nelle quali non è secondaria la proposta politica e morale di una società futura migliore, con la conduzione di un effettivo progetto di ricerca sociale – attento ai contributi della sociologia, della psicoanalisi freudiana, della critica artistica e letteraria – capace di condurre a risultati interessanti e innovativi. Rispetto al marxismo tradizionale si assiste quindi a una decisa apertura di carattere interdisciplinare, accompagnata però dalla sfiducia nelle vie tradizionali della trasformazione sociale e in generale nelle capacità dell’azione politica.

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Horkheimer Max Horkheimer è, come si è visto, il direttore dell’Istituto francofortese prima e dopo la Seconda guerra mondiale.

La vita e le opere Max Horkheimer nacque nei pressi di Stoccarda nel 1895 da una ricca famiglia borghese di origine ebraica. Nel 1922 si laureò in filosofia con una tesi su Kant e prese l’abilitazione all’insegnamento. Dal 1931 assunse la direzione dell’Istituto per la ricerca sociale, che era stato fondato nel 1922. Nel 1932 fondò la «Rivista per la ricerca sociale». Nel 1936, in collaborazione con Erich Fromm e Herbert Marcuse, pubblicò Autorità e famiglia; di questi anni sono anche i vari saggi scritti per la rivista (e raccolti in volume nel 1968 col titolo Teoria critica). Nel 1947 uscirono Analisi e critica della società capitalistica

Centralità della dialettica

L’analisi interdisciplinare

Dialettica dell’illuminismo, scritto in collaborazione con Adorno, e la raccolta di conferenze tenute alla Columbia University, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale. Nel periodo di esilio negli Stati Uniti (prima a New York, poi in California) curò la pubblicazione di Studi sul pregiudizio, una ricerca sociopsicologica sull’antisemitismo e la discriminazione razziale. Dopo il ritorno a Francoforte nel 1950, con Theodor Adorno riaprì l’Istituto, di cui fu direttore fino al 1958, e divenne rettore dell’università. Nel 1972 vennero pubblicati i saggi raccolti in La società di transizione. Morì a Norimberga nel 1973.

Negli articoli apparsi sulla «Rivista per la ricerca sociale» (dall’anno della sua fondazione, il 1932, a quello della sua chiusura, il 1941), raccolti nel 1968 col titolo Teoria critica, Horkheimer delinea il progetto della «teoria critica della società», che diviene il tratto caratteristico della Scuola di Francoforte. In essi viene proposto un progetto di analisi della società di carattere marxista, che intende fare i conti con le trasformazioni più recenti della società capitalistica e con l’affermazione del fascismo e del nazismo. La teoria critica si configura come un’analisi di questa società, che intende essere anche «critica» perché si muove all’interno di una prospettiva indirizzata al suo superamento. Tratto caratteristico del marxismo prospettato da Horkheimer è la ripresa di Hegel e della dialettica, in opposizione da una parte al marxismo positivistico della socialdemocrazia tedesca, dall’altra al materialismo dialettico sovietico. Sottolineare la centralità della dialettica significa concepire i fatti non come isolati gli uni dagli altri, ma all’interno di una totalità più ampia che li condiziona, così come significa mettere in luce le contraddizioni oggettive della società capitalistica. È una concezione del marxismo su cui è chiara l’influenza di Lukács, ma nella quale è assente la fiducia nel realizzarsi della coscienza di classe del proletariato e quindi della rivoluzione socialista: le vicende storiche degli ultimi anni segnano anzi la sconfitta del movimento operaio e la vittoria della reazione. Secondo le tesi del materialismo storico, la teoria critica mostra come la società capitalistica sia retta da fattori economici, ma insieme mette in luce il ruolo dei fenomeni sovrastrutturali, in primo luogo delle dinamiche psicologiche e culturali, che sono in grado di rafforzare e tenere insieme l’ordine sociale capitalistico. Essa si caratterizza, dunque, fin dall’inizio per il carattere interdisciplinare: lo sforzo è quello di collegare la riflessione filosofica con i contributi che provengono dall’economia, dalla sociologia e dalla psicoanalisi freudiana, che assume un grande rilievo nell’analisi francofortese. «Per comprendere – scrive Horkheimer – il problema del perché una società funziona in un determinato modo, del perché è stabile o in dissoluzione, occorre conoscere quella che è di volta in volta la costituzione psichica degli uomini nei diversi gruppi sociali, sapere come il loro carattere si è formato in connessione con tutte le potenze di formazione culturale dell’epoca». Così si apre l’articolo nel quale Horkheimer de599

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linea il programma della «Rivista per la ricerca sociale», sottolineandone il carattere scientifico e l’interdisciplinarità:

T21

La ricerca sociale è interdisciplinare

M. Horkheimer, L’Istituto per la ricerca sociale e la sua rivista

Il ruolo della famiglia nella società borghese

La formula «ricerca sociale» non ha la pretesa di tracciare nuove linee di confine su una carta geografica delle scienze […]. Le indagini sugli ambiti di realtà e sui livelli di astrazione più diversi, che essa sta qui a indicare, trovano la loro istanza unitaria nel doveroso intento di fornire un contributo alla teoria della società contemporanea nel suo complesso. Questo principio unificatore […] distingue la ricerca sociale, al cui servizio la rivista vorrebbe porsi, tanto dalla mera descrizione dei fatti, quanto da costruzioni estranee all’empiria. Essa aspira a una conoscenza dell’intero corso della società e presuppone, perciò, che sotto la caotica superficie degli eventi sia dato conoscere una struttura di potenze attive afferrabile per via concettuale. Per la ricerca sociale la storia non è manifestazione del semplice arbitrio, bensì una dinamica retta da leggi: la sua conoscenza è pertanto una scienza. Questa, naturalmente, dipende in misura particolare dallo sviluppo di altre discipline. Per poter raggiungere il proprio scopo – cogliere i processi della vita sociale secondo il livello di conoscenza di volta in volta possibile – la ricerca sociale deve riuscire a concentrare sul suo problema una serie di scienze specialistiche, e metterle poi a frutto per i propri fini. Nelle moderne società capitalistiche il dominio di classe non è diretto ma interiorizzato psicologicamente dal soggetto, grazie alle istituzioni che hanno come scopo l’educazione e la formazione, prima fra tutte la famiglia. Ad essa Horkheimer dedica, insieme a Fromm e Marcuse, un importante studio: Autorità e famiglia. La famiglia borghese è fondata su un rapporto gerarchico autoritario: essa pone al vertice il capo-famiglia maschio a cui sono subordinati la moglie e i figli; essa è inoltre in grado di consolidare nei suoi membri, attraverso il processo educativo, una mentalità autoritaria. La mentalità che si riscontra nella famiglia è analoga a quella su cui si regge il sistema borghese, nel quale il proletario è subordinato al capitalista, e che ha il suo sbocco naturale nel fascismo, interpretato come l’esito ultimo della società capitalistica: «in quanto è una delle più importanti agenzie educative – scrive Horkheimer – la famiglia provvede alla riproduzione dei caratteri umani come sono richiesti dalla vita sociale, e dà loro in gran parte l’indispensabile capacità di assumere lo specifico comportamento autoritario dal quale dipende in larga misura il sussistere dell’ordinamento borghese».

L’autorità: famiglia e società borghese

Autorità

Famiglia

Società borghese

Struttura gerarchica: il capo-famiglia domina su moglie e figli

Struttura gerarchica: il capitalista domina sul proletario

Interiorizzazione dell’autorità paterna attraverso l’educazione

Formazione della mentalità autoritaria

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La mentalità autoritaria è alla base della società borghese

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società Due tipi di società autoritaria

Ragione soggettiva e ragione oggettiva

Ripresa dell’analisi di Weber sulla razionalità

T22

Due tipi di ragione

M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale

Il trasferimento negli Stati Uniti accentua l’attenzione degli esponenti della Scuola di Francoforte verso la società industriale, la sua organizzazione e il suo carattere tecnologico. In questa fase si situano due importanti lavori di Horkheimer: Eclissi della ragione e, insieme con Adorno, Dialettica dell’illuminismo. In linea con l’analisi weberiana della razionalizzazione capitalistica (vedi p. 577 ss.), la moderna società industriale è retta da una mentalità autoritaria e da un impressionante sviluppo dell’apparato burocratico. Queste, per Horkheimer, sono caratteristiche non solo della società borghese, ma anche del socialismo realizzato in Unione Sovietica che è anch’esso una forma di capitalismo di Stato, una variante della società autoritaria in cui il potere è detenuto direttamente dallo Stato. In Eclissi della ragione Horkheimer esamina «il concetto di razionalità che sta alla base della moderna cultura industriale»: se nel passato (da Platone all’idealismo) prevaleva una «ragione oggettiva», in quanto la ragione era concepita come immanente alla realtà, e in grado di fornire essa stessa i fini dell’agire umano, era cioè una ragione finale, nella società industriale si afferma una «ragione soggettiva», che non è in grado di valutare la razionalità dei fini stessi, ma solo l’adeguatezza dei mezzi in relazione a fini dati: è cioè una ragione strumentale. Horkheimer riprende, così, la distinzione weberiana tra razionalità rispetto al valore e razionalità rispetto allo scopo: per la ragione strumentale un fine vale l’altro. In questo modo l’individuo contemporaneo perde la capacità di valutare razionalmente i fini imposti dalla società industriale e burocratica. La stessa razionalità della scienza (e delle filosofie ad essa collegate, come il neopositivismo e il pragmatismo) è una razionalità meramente formale e strumentale: la scienza tace sui fini e «può essere piegata al servizio delle più diaboliche forze sociali». Nella società industriale, scrive Horkheimer, «la ragione è ormai completamente aggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura». La forza che in ultima analisi rende possibili azioni ragionevoli è la facoltà di classificare, la facoltà di induzione e di deduzione, cioè il funzionamento astratto del meccanismo del pensiero, sempre identico quale che sia il contenuto specifico. Questo tipo di ragione si può chiamare ragione soggettiva. Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto fra mezzi e fini, l’idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che in genere si danno per scontati e che si suppone si spieghino da sé. Essa non attribuisce molta importanza alla questione se in sé gli scopi siano ragionevoli. […] Per quanto ingenua e superficiale possa sembrare tale definizione della ragione, essa è il sintomo importante di un profondo mutamento avvenuto negli ultimi secoli del pensiero occidentale. Per molto tempo era prevalsa una concezione diametralmente opposta della ragione; secondo questa concezione, la ragione esisteva non solo nella mente dell’individuo ma anche nel mondo oggettivo: nei rapporti fra gli esseri umani e fra le classi sociali, nelle istituzioni sociali, nella natura e nelle sue manifestazioni. Grandi sistemi filosofici, come quelli di Platone e di Aristotele, la filosofia scolastica e l’idealismo tedesco, furono impostati sulla base di una teoria oggettiva della ragione. Il grado di ragionevolezza di una vita umana dipendeva dalla misura in cui essa si armonizzava con la totalità; e la struttura oggettiva di questa – non solo l’uomo e i suoi fini – doveva rappresentare la pietra di paragone per saggiare la ragionevolezza dei pensieri e delle azioni individuali. […] Quel che più contava, nell’ambito di tale concezione, erano i fini, non i mezzi. 601

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Due concezioni opposte della ragione

Ragione

Oggettiva = Finale

– Valuta la razionalità dei fini – Esiste sia nella mente dell’uomo, sia nel mondo

Dominante da Platone e Aristotele all’idealismo tedesco

L’Illuminismo come dominio strumentale del mondo

La società industriale moderna: culmine dell’Illuminismo e barbarie

Esito autodistruttivo dell’Illuminismo

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Soggettiva = Strumentale

– Valuta l’adeguatezza dei mezzi rispetto a fini dati – Esiste solo nella mente dell’uomo

Dominante nella cultura industriale

Questo tema ritorna in una delle principali opere della Scuola di Francoforte, la Dialettica dell’illuminismo. Fra Horkheimer e Adorno vi è una completa sintonia: «sarebbe difficile – nota Horkheimer – dire quali idee siano nate nella sua mente e quali nella mia: la nostra filosofia è una sola». L’Illuminismo è inteso in una accezione molto ampia: esso coincide con l’atteggiamento con il quale inizia la storia dell’uomo, quello che, al fine di liberare l’uomo dalla schiavitù verso la natura, conduce al dominio strumentale del mondo, al suo padroneggiamento tecnologico. Questo atteggiamento si riscontra in tutta la storia, dalla creazione dei primi utensili all’energia atomica, ed è anche il tratto caratteristico della scienza, per come essa si è venuta delineando fin da Bacone, col suo celebre motto: «sapere è potere». La società industriale moderna costituisce l’apice dell’Illuminismo e della razionalizzazione strumentale. Tuttavia proprio il culmine di questo sviluppo coincide con la barbarie, con la creazione di un sistema sociale, quello industriale capitalistico, in cui l’uomo è completamente dominato da potenze estranee e reso uniforme da un insieme di apparati che costituiscono la sua formazione culturale e il suo pensiero: è l’industria culturale (l’insieme dei mezzi di comunicazione di massa), che inculca nella mente come naturali i modelli di comportamento richiesti dal sistema sociale e trasforma l’individuo in massa. L’Illuminismo è dunque segnato da una dialettica autodistruttiva, che lo porta a negare se stesso; nato dallo sforzo di vincere l’asservimento verso le forze della natura, esso ha condotto a una nuova forma di schiavitù, quella della società industriale di massa: «l’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». Se nell’antichità il mondo era dominato da divinità e demoni, nemmeno nell’età contemporanea l’uomo è in grado di modificare il contesto che lo circonda ed è invece dominato dalla realtà stessa. L’individuo non è affatto padrone della propria vita e delle proprie scelte, e l’unico criterio per valutarlo è il suo successo o fallimento nell’adattarsi ai modelli che gli vengono imposti dalla società.

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

T23

La società industriale trasforma gli uomini in cose

M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 1

Nel mondo illuminato la mitologia è penetrata e trapassata nel profano. La realtà completamente epurata dai demoni e dai loro ultimi rampolli concettuali, assume, nella sua naturalezza tirata a lucido, il carattere di nume che la preistoria assegnava ai demoni. Sotto l’etichetta dei fatti bruti l’ingiustizia sociale da cui essi nascono è consacrata, oggi, non meno sicuramente, come qualcosa di immutabile in eterno, quanto era sacrosanto e intoccabile lo stregone sotto la protezione dei suoi dei. L’estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. Il singolo si riduce a un nodo o crocevia di reazioni e comportamenti convenzionali che si attendono praticamente da lui. L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime. L’apparato economico dota automaticamente, prima ancora della pianificazione totale, le merci dei valori che decidono del comportamento degli uomini. Attraverso le innumerevoli agenzie della produzione di massa e della sua cultura, i modi obbligati di condotta sono inculcati al singolo come i soli naturali, decorosi e ragionevoli. Egli si determina più solo come cosa, come elemento statistico, come success or failure. Il suo criterio è l’autoconservazione, l’adeguazione riuscita o non all’oggettività della sua funzione e ai moduli che le sono fissati.

Quello che è assente dalla prospettiva delineata da Horkheimer e Adorno è la fiPerdita di fiducia ducia in una possibile trasformazione politica di questa società, una posizione nell’azione politica che si accentua negli anni del soggiorno americano. Il sistema di dominio su cui si regge la società capitalistica penetra nella struttura psichica dell’individuo: non esiste un soggetto sociale in grado di guidare la rivoluzione verso una società migliore, nemmeno il proletariato, che è esso stesso manipolato e omologato, ridotto a massa uniforme. Solo la filosofia può, assolvendo alla sua funzione di critica, testimoniare la speranza di un mondo migliore. Ricapitolando, rispetto al marxismo tradizionale, dunque, la teoria critica di Horkheimer è un’analisi più ampia della società capitalistica, attenta ai vari aspetti della vita dell’uomo (sia come membro della collettività, sia come individuo). E benché a tale analisi sia sotteso un atteggiamento di rifiuto di questa società e l’intento di metterne in luce tutte le contraddizioni, essa mostra la perdita della fiducia di poterla trasformare attraverso l’azione politica.

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Adorno e Benjamin Il filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno è l’altro grande protagonista dell’esperienza francofortese.

La vita e le opere Theodor Wiesengrund Adorno nacque a Francoforte nel 1903 da padre ebreo e madre di origini corse, di cui assunse il cognome. Studiò a Francoforte composizione musicale con Berg e Schönberg e filosofia, e iniziò a collaborare con l’Istituto per la ricerca sociale. Nel 1933 uscì Kierkegaard. La costruzione dell’estetico. Nel 1947 pubblicò, insieme con Horkheimer, Dialettica

dell’illuminismo, nel 1949 uscì Filosofia della musica moderna. Durante il nazismo emigrò a Oxford e poi a New York e Los Angeles. In questo periodo lavorò nelle università americane e diresse la ricerca sulla Personalità autoritaria (pubblicata nel 1950). Tornato a Francoforte con Horkheimer nel dopoguerra, ricoprì prima l’incarico di vice-direttore dell’Istituto, poi quello di direttore (che tenne fino al 1969). Nel 1951 fu

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pubblicata la raccolta di aforismi Minima moralia e nel 1952 la monografia Wagner, a cui seguì Mahler (del 1960). Numerosi gli scritti degli ultimi anni, tra cui: Introduzione alla sociologia della musica (1962), Tre stu-

di su Hegel (1963), Dialettica negativa (1966), Dialettica e positivismo in sociologia (1969) e Teoria estetica, che non fu portata a termine e venne pubblicata postuma. Morì in Svizzera nel 1969.

L’attenzione all’industria culturale, su cui Adorno si sofferma insieme a Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, ritorna anche nel testo di aforismi del 1951, Minima moralia. Con esso Adorno si riallaccia alla tradizione dei moralisti seicenteschi: il testo è dedicato all’analisi di come il sistema capitalistico si rifletta nell’esperienza individuale quotidiana, al «modo in cui le forme del processo produttivo si ripetono nella vita privata o nei settori del lavoro esentati da queste forme». L’industria culturale è costituita dall’apparato dei mezzi di comunicazione di massa (giornali, cinema, dischi, pubblicità, televisione ecc.), che hanno trovato un’enorme diffusione nella società industriale capitalistica. Attraverso di essa il sistema sociale riesce a intervenire sulla struttura psichica dell’individuo, imponendo i propri modelli di comportamento, creando bisogni e determinando i consumi: «l’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea e le inventa. Essa gliele inculca, conducendosi come se fosse anche essa un cliente». L’industria culturale rende dunque l’individuo passivo ed etero-diretto, «privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere». La programmazione L’individuo viene così ridotto a una massa indifferenziata; persino il tempo libedel tempo libero ro, lo svago e il divertimento finiscono per essere programmati dall’industria culturale, che ne stabilisce le modalità e i modelli. Il divertimento è anzi uno degli strumenti con cui la società esercita il proprio dominio sull’uomo, poiché lo distoglie dalla riflessione sul mondo in cui vive e sui suoi aspetti negativi. Il divertimento di massa significa dunque conformarsi alla società attuale e rinunciare alla possibilità di metterla in discussione e di cambiarla.

L’industria culturale

T24

Il divertimento è rinuncia alla riflessione sulla realtà sociale

M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 3

La dialettica negativa

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Più le posizioni dell’industria culturale diventano solide e inattaccabili, e più essa può permettersi di procedere in modo brutale e sommario coi bisogni del consumatore, di produrli, dirigerli, disciplinarli, e ritirare perfino il divertimento: non ci sono limiti in questo campo al progresso culturale. […] L’affinità originaria del mondo degli affari e di quello dell’amusement si rivela nel significato proprio di quest’ultimo: che non è altro che l’apologia della società. Divertirsi significa essere d’accordo. L’amusement è possibile solo in quanto si isola e si ottunde rispetto alla totalità del processo sociale, e abbandona assurdamente, fin dall’inizio, la pretesa irrinunciabile di ogni opera, per quanto insignificante essa possa essere: quella di riflettere, nella propria limitazione, il tutto. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene esposta e messa in mostra. Alla base del divertimento c’è un sentimento di impotenza. Esso è effettivamente una fuga, ma non già come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultima velleità di resistenza che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui. La liberazione promessa dall’amusement è quella del pensiero come negazione. Negli ultimi anni la riflessione filosofica di Adorno si concentra sul tema che abbiamo visto centrale tanto in Gramsci quanto in Lukács: la dialettica, affrontata nei

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Tre studi su Hegel, del 1963, e soprattutto nel testo del 1966, Dialettica negativa. Se la dialettica di Hegel è una dialettica della sintesi e della conciliazione, in quanto fa coincidere la realtà con la razionalità, così che il pensiero riesce a cogliere la totalità del reale, la dialettica del materialismo sottolinea la distanza della realtà dalla razionalità, l’impossibilità per il pensiero di cogliere un reale che non è ragione. Dopo Auschwitz, nota Adorno, «il testo che la filosofia deve leggere è incompleto, pieno di contrasti e lacunoso e molto vi può essere attribuito a cieche forze demoniache». La dialettica si concentra allora sul negativo, sul disarmonico, sul non realizzato: sulla contraddizione oggettiva che non può essere risolta come nella dialettica idealistica. Solo così può essere conservata, secondo Adorno, una distanza dalla realtà, la possibilità di un’azione trasformatrice e rivoluzionaria. Il pensiero Le contraddizioni presenti nella realtà, nelle cose, dunque, non derivano da un e le contraddizioni difetto del pensiero, dall’incapacità di comprendere la realtà, sono bensì parte di essa; tra il pensiero e gli oggetti del pensiero non può esserci che un rapporto disarmonico. Tuttavia, benché il pensiero non possa eliminare le contraddizioni, esso può portarle alla luce.

T25

La dialettica deve far emergere le contraddizioni della realtà T.W. Adorno, Dialettica negativa

Critica del positivismo

La contraddizione dialettica non è né una mera proiezione sulla cosa di una fallita costruzione concettuale, né una metafisica fuori di senno. L’esperienza vieta di appianare nell’unità della coscienza quanto di contraddittorio si presenta. Per esempio una contraddizione come quella tra la missione sentita come sua dal singolo e quella che la società gli impone, se vuole guadagnarsi da vivere, il «ruolo», è riducibile a unità solo manipolandola, solo inserendo meschini concetti superiori, che fanno svanire le differenze essenziali; altrettanto quella del principio di scambio, che nella realtà sussistente incrementa le forze produttive, ma al tempo stesso minaccia sempre più di distruggerle. […] La coscienza soggettiva, che non sopporta le contraddizioni, cade in una scelta disperata. […] La contraddizione oggettiva e le sue emanazioni non può eliminarle da sé tramite il dispositivo concettuale. Può però comprenderla; tutto il resto è vana rassicurazione. […] La conoscenza dialettica non deve costruire come i suoi avversari le rinfacciano, contraddizioni dall’alto e avanzare sciogliendole anche se la Logica di Hegel a tratti procede proprio così. Piuttosto il suo compito è di rintracciare l’inadeguatezza di pensiero e cosa; percepirla nella cosa. Essa non ha da temere il rimprovero di essere ossessionata dall’idea fissa dell’antagonismo oggettivo, mentre la cosa sarebbe già pacificata; niente d’individuale trova la sua pace nell’intero non pacificato. Polemizzando nel 1961, al convegno sulla «Logica delle scienze sociali», con Popper e la tesi neopositivistica dell’unità metodologica di scienze sociali e naturali (vedi Unità 16, p. 735 s.), Adorno sostiene che anche il metodo delle scienze sociali deve tener conto della presenza della contraddizione nelle cose e del fatto che un fenomeno può essere conosciuto non astraendolo dagli altri fenomeni, ma solo nella relazione con la totalità di cui fa parte. Solo se si tiene conto di questi due fattori – contraddizioni della realtà e relazione tra singoli fenomeni e totalità – si può conservare la speranza di trasformare il fenomeno: «nucleo della critica al positivismo – scrive Adorno – è la considerazione che esso si preclude l’esperienza della totalità ciecamente dominante come pure l’impulso e l’aspirazione che le cose possano infine cambiare». 605

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Parte seconda Le filosofie del Novecento L’arte: strumento di denuncia o forma di evasione

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La valutazione della musica è una finzione

T.W. Adorno, Il carattere di feticcio della musica e la sua regressione nell’ascolto

Walter Benjamin

Rispetto agli altri esponenti della Scuola di Francoforte, la riflessione di Adorno si caratterizza per la capacità di tenere insieme la speculazione filosofica con una notevole attività di critico delle espressioni della cultura borghese, in particolar modo della musica. Al tema della musica Adorno dedica importanti saggi, fra i quali la Filosofia della musica moderna e l’Introduzione alla sociologia della musica. L’arte può essere denuncia della disarmonia del mondo, come avviene nella musica dodecafonica di Arnold Schönberg (1874-1951), le cui dissonanze esprimono le contraddizioni della realtà, ma può anche essere mascheramento di una realtà irrazionale e strumento di conformismo ed evasione, come avviene nel jazz, nella musica popolare e nel cinema, con i quali l’arte viene ridotta a merce standardizzata, il cui valore fa tutt’uno col valore commerciale. Nella società industriale contemporanea l’arte ha perduto la sua autonomia ed è asservita agli interessi del mercato; parallelamente, gli individui sono privati della possibilità di valutare e di scegliere autonomamente tra i prodotti artistici, tanto forte è il condizionamento esercitato dalla società. Nei suoi saggi sulla musica Adorno afferma che nella società attuale è difficile perfino capire se un certo prodotto artistico piaccia davvero o se il fatto che piace sia soltanto frutto del condizionamento sociale subìto dall’individuo. Se si cerca di scoprire a chi «piace» una canzonetta di successo, non si può trattenere il sospetto che piacere e dispiacere siano concetti inadeguati alla realtà dei fatti, anche se il soggetto intervistato ammanta con questi termini le sue reazioni. La notorietà della canzonetta prende il posto del valore che le viene attribuito: il fatto che piaccia è quasi equivalente al fatto che la si sappia riconoscere. Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione. Non può sottrarsi alla loro strapotenza, né scegliere fra quello che gli viene presentato: tutto è talmente simile che la preferenza è legata al mero dettaglio biografico o alla particolare situazione in cui avviene l’ascolto. Per quanto riguarda la ricezione attuale della musica, le categorie dell’arte intesa come un fatto autonomo sono fuori corso; ciò vale in larga misura anche per la musica seria, quella che barbaramente si suole chiamare «classica», per poterle sfuggire con maggior agio. Questa capacità di tenere insieme riflessione filosofica e riflessione artistica e letteraria è un tratto che accomuna Adorno a un altro protagonista della prima fase dell’Istituto francofortese, da cui Adorno è fortemente influenzato: Walter Benjamin.

La vita e le opere Walter Benjamin nacque a Berlino nel 1892 da una famiglia di origini ebraiche. Dopo aver studiato filosofia e letteratura in Germania e in Svizzera, nel 1918 si laureò a Berna con una tesi di storia dell’arte e intraprese l’attività di critico letterario. Fin dal 1924, in seguito alla lettura delle opere di Lukács e Brecht, maturò un forte interesse per il marxismo e si recò a Mosca, dove conobbe Horkheimer e Adorno. Nel 1928 uscì il saggio Il dramma barocco tedesco. Nel 1933 iniziò a collaborare con l’Istituto per la

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ricerca sociale. All’avvento del nazismo andò in esilio a Parigi. Nel 1936 furono pubblicati il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Uomini tedeschi. Nel 1940, quando stava lavorando alle Tesi di filosofia della storia, le truppe tedesche entrarono in Francia e Benjamin riuscì a ottenere con l’aiuto di Horkheimer il visto per gli Stati Uniti; fu però fermato dalle guardie di frontiera spagnole a Port Bou, dove si uccise per non essere riconsegnato ai tedeschi.

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Nel saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin affronta il tema del destino dell’arte nella moderna società industriale. In essa l’opera d’arte diviene una merce riproducibile per via seriale in tante copie identiche: è ciò che avviene con il cinema rispetto al teatro, con le riproduzioni musicali su disco rispetto ai concerti, con le riproduzioni fotografiche della pittura o della scultura e così via. Il prodotto culturale, da oggetto di un’intuizione artistica irripetibile, diviene allora un oggetto di consumo e perde quella che Benjamin considera la caratteristica principale dell’opera d’arte, la sua unicità e la sua «aura», che le deriva dalla sua antica nascita al servizio di un rituale magico e religioso. L’arte come dominio L’opera d’arte riproducibile tecnicamente non invita dunque più al raccoglimendelle masse to e alla contemplazione, ma ha come scopo il divertimento e, attraverso questo, il controllo psicologico degli individui. Essa diviene uno strumento attraverso il quale si esercita il dominio delle masse nel modo di produzione capitalistico. La perdita della dimensione dell’individualità nella società industriale si riflette sull’arte e sulla capacità di apprezzarla: ciò che colpisce in un’opera d’arte non sono la sua unicità e la sua irripetibilità, ma le caratteristiche che essa ha in comune con altre. Gli individui sono sensibili alle somiglianze tra gli oggetti anziché alle differenze tra essi. L’arte come merce riproducibile

T27

All’unicità degli oggetti si è sostituita la loro ripetibilità

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

La storia è priva di razionalità

Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effige, nella riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione quale viene proposta dai giornali illustrati e dai settimanali, si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro. L’unicità e la durata s’intrecciano strettissimamente in quest’ultimo quanto la labilità e la ripetibilità nella prima. La liberazione dell’oggetto dalla sua guaina, la distruzione dell’aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico. Così nell’ambito dell’intuizione si annuncia ciò che nell’ambito della teoria si manifesta come un incremento della statistica. L’adeguazione della realtà alle masse e delle masse alla realtà è un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per l’intuizione. Al momento della morte Benjamin stava lavorando alle Tesi di filosofia della storia, rimaste incompiute, nelle quali denuncia l’ottimismo della filosofia storicistica e idealistica. Affermare che la storia è razionale è solo fare l’apologia di un presente che è invece dominio sull’uomo. Solo recuperando la tradizione messianica e il senso del sacro, sostiene Benjamin in quest’opera, l’umanità potrà raggiungere una futura redenzione. Essa non è però il risultato di un miglioramento progressivo della condizione umana, ma è riposta nell’avvento, improvviso, di un’epoca messianica. 607

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Marcuse Herbert Marcuse è l’esponente francofortese che ha avuto la maggiore notorietà e il maggior peso dal punto di vista politico.

La vita e le opere Herbert Marcuse nacque a Berlino nel 1898 da una famiglia ebraica appartenente all’alta borghesia. Iscrittosi in età molto giovane al Partito socialdemocratico tedesco, ne uscì per protesta dopo l’assassinio, nel 1919, di Karl Liebknecht e di Rosa Luxemburg, e abbandonò l’impegno politico attivo. Si trasferì a Friburgo e studiò prima letteratura e poi filosofia con Heidegger. Distaccatosi da quest’ultimo dopo la sua adesione al nazismo, si avvicinò al marxismo attraverso la lettura di Lukács e iniziò la collaborazione con l’Istituto per la ricerca sociale. Nel 1928 uscì Contributi per una fenomenologia del materialismo storico. Nel

Psicoanalisi e marxismo

Il lavoro come asservimento e la repressione degli istinti

Repressione aggiuntiva e principio di prestazione

Il Grande Rifiuto

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1933, esule a Parigi dopo l’ascesa al potere di Hitler, collaborò con Horkheimer alla stesura dello studio Autorità e famiglia (pubblicato nel 1936). Nel 1934 emigrò negli Stati Uniti, e a New York lavorò per le università e il governo americano. Nel 1941 uscì Ragione e rivoluzione. Nel 1955 fu pubblicato Eros e civiltà, nel 1958 lo studio sul Marxismo sovietico, nel 1964 L’uomo a una dimensione. Studi sull’ideologia nella società industriale avanzata. In questi anni insegnò a Boston e a San Diego e prese parte alla contestazione studentesca degli anni sessanta, di cui divenne il principale ispiratore. Nel 1972 uscì Controrivoluzione e rivolta e nel 1978 La dimensione estetica. Morì a Starnberg, in Baviera, nel 1979.

La riflessione di Marcuse si caratterizza per l’attenzione prestata alla psicoanalisi freudiana, e per il modo nel quale essa viene fatta interagire col materialismo storico marxiano. Due sono i testi principali di Marcuse: Eros e Civiltà e L’uomo a una dimensione, nei quali vengono rielaborati molti dei temi affrontati nei saggi apparsi fin dal 1933 sulla «Rivista per la ricerca sociale». Secondo Freud, sostiene Marcuse in Eros e civiltà, la civiltà si costituisce attraverso la repressione degli istinti individuali, e in particolare della ricerca del piacere; data la scarsità delle risorse, la società può sopravvivere solo reprimendo la soddisfazione del piacere individuale e imponendo all’uomo il lavoro, che fin dai primi saggi Marcuse considera, a differenza di Marx, non tanto la realizzazione dell’uomo, quanto un asservimento alla necessità, e al quale contrappone l’esperienza libera del gioco. Tuttavia, Freud ha scambiato per esigenze della civiltà quelle che sono esigenze solo di una particolare società storica, quella fondata sul dominio di classe. Questa società esercita, oltre alla necessaria repressione degli istinti connessa al costituirsi della vita associata, una repressione aggiuntiva, connessa alle necessità del sistema sociale capitalistico di indirizzare tutte le energie individuali a scopi produttivi, a quello che Marcuse chiama il «principio di prestazione». È una necessità, questa, condivisa anche dal socialismo realizzato in Unione Sovietica, duramente criticato come regime totalitario. Questa repressione si esercita attraverso la divisione gerarchica del lavoro, la struttura autoritaria della famiglia, la pianificazione e il controllo sociale dell’esistenza privata: la ricerca del piacere viene così sostituita con le esigenze della produzione. Tuttavia, il rimosso continua a essere presente nell’inconscio individuale, e questo può consentire di liberare l’immaginazione e formulare il «Grande Rifiuto» (termine ripreso dal surrealismo di André Breton, 1896-1966) verso la società fondata su queste basi. Tutto ciò è facilitato dal fatto che lo sviluppo tecnologico consente una diminuzione della necessità del lavoro, e indirizza le energie verso il gioco e verso lo sviluppo degli istinti e dell’eros. Sebbene, dunque, il mondo in cui l’uomo vive sia dominato dal principio di pre-

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stazione, è questo stesso principio a creare le condizioni per il recupero della libertà e per la realizzazione individuale.

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Negazione del principio di prestazione e liberazione degli istinti

H. Marcuse, Eros e civiltà

Le repressioni esercitate dalla società sull’individuo

L’uomo a una sola dimensione e la «tolleranza repressiva»

È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione, ed è la possibilità di determinare l’esistenza umana in base ai valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di prestazione. Questa negazione annulla la razionalità del dominio, e «de-realizza» consciamente il mondo formato da questa razionalità facendolo rideterminare dalla razionalità della soddisfazione. Una simile svolta storica in direzione del progresso è resa possibile soltanto dalle realizzazioni del principio di prestazione, ma essa trasforma l’esistenza umana nella sua totalità, compreso il mondo del lavoro e la lotta contro la natura. […] Al di là del principio di prestazione, la produttività e anche i suoi valori culturali perdono la loro validità. La lotta per l’esistenza si svolge su un terreno nuovo e con obiettivi nuovi: essa si trasforma nella lotta concertata contro ogni restrizione del libero gioco delle facoltà umane, contro la fatica, la malattia, la morte. Inoltre mentre il dominio del principio di prestazione era accompagnato da un corrispondente controllo della dinamica istintuale, il riorientamento della lotta per l’esistenza porterebbe con sé un cambiamento decisivo di questa dinamica. […] Esso inciderebbe sulla struttura stessa della psiche, altererebbe l’equilibrio tra Eros e Thanatos, riattiverebbe settori di soddisfazione repressi e placherebbe le tendenze conservatrici degli istinti. Una nuova esperienza fondamentale dell’essere cambierebbe l’esistenza umana nella sua totalità.

Istinti individuali

Repressione necessaria (Freud e Marcuse)

Repressione aggiuntiva (Marcuse)

Legata alla necessità di sopravvivenza della società

Legata alle esigenze della produzione

Caratteristica di ogni organizzazione sociale

Caratteristica del sistema capitalistico

Questi temi ritornano anche nell’Uomo a una dimensione, che diverrà uno dei punti di riferimento della contestazione giovanile degli anni sessanta e settanta. In esso Marcuse sottolinea come l’uomo della società industriale avanzata sia un uomo standardizzato e omologato secondo le esigenze del sistema sociale ed economico; questo sistema si presenta come un sistema totalitario, in quanto mette in atto un’amministrazione totale dell’esistenza, riducendo l’esistenza, i bisogni e le aspirazioni umane, a una sola dimensione, quella della produzione e del consumo. In questo sistema vige una «tolleranza repressiva»: esso si caratterizza per l’estensione delle libertà individuali (libertà di opinione, di parola, di stampa ecc.); queste libertà, però, sono solo apparenti, non ledono gli interessi dell’ordine esistente ma servono a rafforzare il conformismo generale. Il fatto che ciascuno possa scegliere tra vari beni con i quali soddisfare i propri bisogni non è una prova della sua libertà e autonomia; al contrario, dimostra che l’individuo è 609

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soggetto al controllo e al dominio della società. I bisogni sono infatti creati e imposti dal sistema capitalistico, anche se all’apparenza sono spontanei. Importanza dell’utopia In questa società nemmeno il pensiero filosofico è capace di trascendere i fatti e la realtà esistente (ne sono esempi il neopositivismo e il pragmatismo), così che esso rinuncia alla propria funzione critica. Occorre invece un pensiero in grado di pronunciare il Grande Rifiuto verso questa società e fare proprio il valore dell’utopia, ossia della concezione di una società ideale, radicalmente diversa. Solo attraverso l’utopia si è in grado di immaginare un ordine sociale in cui l’uomo sviluppi se stesso non in una sola dimensione, ma in molte dimensioni – un ordine sociale, dunque, nel quale egli abbia una libertà autentica e nel quale possa soddisfare i suoi bisogni reali, anziché quelli indotti dal sistema di produzione. I nuovi soggetti Marcuse è attento a individuare anche quale potrebbe essere il soggetto rivoluantagonisti zionario in grado di operare un tale cambiamento: non basta più il proletariato, quasi ovunque integrato e omologato; occorre invece fare riferimento a gruppi non ancora integrati nel sistema, al «sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili», sia dell’Occidente sia del Terzo Mondo. Queste soggettività marginali, sebbene non abbiano chiara coscienza del proprio ruolo, rappresentano un antagonismo che è oggettivamente (anche se non consapevolmente) rivoluzionario: «la loro opposizione – scrive Marcuse – colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola la regola del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato». Nella riflessione di Marcuse emergono dunque due elementi essenziali per la possibilità di trasformazione dell’attuale società capitalistica in una società che consenta la piena realizzazione dell’uomo: l’utopia e l’azione di quanti vivono ai margini della società e che, al contrario del proletariato, non sono sottoposti ai ➥ Sommario, p. 612 vincoli del sistema capitalistico.

Suggerimenti bibliografici La biografia più ricca, e più appassionata su Weber, è quella della moglie Marianne Weber, Max Weber. Una biografia, il Mulino, Bologna 1995. Una monografia complessiva abbastanza ampia e recente, scritta da un sociologo, è D. Käsler, Max Weber, il Mulino, Bologna 2004, mentre una guida più agile è N.M. De Feo, Introduzione a Weber, Laterza, Roma-Bari 2001. Oltre alle introduzioni di P. Rossi alle edizioni italiane da lui curate delle opere weberiane, dello stesso autore è da vedere almeno il volume Max Weber. Razionalità e razionalizzazione, Il Saggiatore, Milano 1982. Sullo stesso tema sono importanti i libri di W. Schluchter, Lo sviluppo del razionalismo occidentale, il Mulino, Bologna 1987, e, in particolare per l’attitudine critica di Weber, anche la raccolta intitolata I paradossi della razionalizzazione: studi su Max Weber, Liguori, Napoli 1987. Particolare attenzione alla «filosofia implicita» di Weber e al rapporto con Nietzsche è prestata poi da W. Hennis, Il problema Max Weber, Laterza, Roma-Bari 1991. Sul rapporto tra etica e politica un lavoro recente è quello di D. D’Andrea, L’incubo degli ultimi uomini. Etica e politica in Max Weber, Carocci, Roma 2005; vedi anche A. D’Attorre, Perché gli uomini ubbidiscono. Max Weber e l’analisi della socialità umana, Bibliopolis, Napoli 2004. Per i rapporti con la politica tedesca vedi W. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca 1890-1920, il Mulino, Bologna 1993. Fra la grande quantità di saggi dedicati a Gramsci nel nostro Paese, si può segnalare: L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1984; e N. Bobbio, Saggi su Gramsci, Feltrinelli, Milano 1990. Per opere più recenti vedi F. Frosini, Gramsci e la filosofia, Carocci, Roma 2003, e la raccolta di saggi, Le parole di Gramsci, a cura di F. Frosini e G. Liguori, Carocci, Roma 2004. Sui Quaderni gramsciani vedi G. Francioni, L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni del carcere», Bibliopolis, Napoli 1984. Su Lukács è da vedere almeno M. Vacatello, Lukács. Da «Storia e coscienza di classe» al giudi-

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società zio sulla cultura borghese, La Nuova Italia, Firenze 1968; G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Laterza, Bari 1976, F. Cerutti, Totalità, bisogni, organizzazione: ridiscutendo Storia e coscienza di classe, La Nuova Italia, Firenze 1980, e sull’ultimo Lukács N. Tertulian, Lukács. La rinascita dell’ontologia, Editori Riuniti, Roma 1986. Come opere introduttive alla Scuola di Francoforte si possono consultare M. Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali (1932-50), Einaudi, Torino 1979; G. Bedeschi, Introduzione alla Scuola di Francoforte, Laterza, Roma-Bari 1987; e soprattutto il completo e aggiornato R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte. Storia, sviluppo teorico, significato politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Su Horkheimer si può vedere A. Ponsetto, Max Horkheimer. Dalla distruzione del mito al mito della distruzione, il Mulino, Bologna 1981 e S. Petrucciani, Ragione e dominio. L’autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Sellerio, Roma 1984. Su Adorno è da vedere M. Vacatello, Th. W. Adorno. Il rinvio della prassi, La Nuova Italia, Firenze 1972 e M. Jay, Theodor W. Adorno, il Mulino, Bologna 1987. Su Benjamin: F. Desideri, Walter Benjamin, Il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980 e J. Roberts, Walter Benjamin, il Mulino, Bologna 1987. Su Marcuse si può segnalare il recente R. Laudani, Politica come movimento. Il pensiero di Herbert Marcuse, il Mulino, Bologna 2005. I brani antologizzati sono tratti da: M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Id., Sociologia della religione, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 2002: vol. 1, pp. 34 (T1), p. 38 (T2), pp. 184-185 (T8). M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001: p. 102 (T11), p. 105 (T3). M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, cit.: p. 17 (T4), p. 20 (T9). M. Weber, Sociologia della religione, cit., vol. 2, p. 343. M. Weber, Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 1986: vol. 1, pp. 22-23 (T6), pp. 210-211 (T7). M. Weber, Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche, in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 563. A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Saggio 3, Laterza, Bari 1965, pp. 216-217. A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1948: pp. 93-94 (T14), pp. 190-191 (T13), p. 236 (T15). A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1948, pp. 9-10. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano 1988: p. 14 (T17), pp. 94-96 (T19), p. 112 (T18). G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 10. M. Horkheimer, L’Istituto per la ricerca sociale e la sua rivista, in La Scuola di Francoforte. Storia e testi, a cura di E. Donaggio, Einaudi, Torino 2005, p. 5. M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969, pp. 11-12. M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1967: cap. 1, pp. 2425 (T23), p. 154 (T24). T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 138. T. W. Adorno, Il carattere di feticcio della musica e la sua regressione nell’ascolto, in La Scuola di Francoforte. Storia e testi, cit., pp. 118-119. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, p. 25. H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967, pp. 181-182.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Sommario 1. ANALISI

DEL CAPITALISMO

Con la rivoluzione industriale e la nascita del capitalismo la società tradizionale entra in crisi. È dunque necessaria un’indagine sul capitalismo e sui problemi sociali che ne derivano. 2. WEBER

Il capitalismo è il frutto del processo di razionalizzazione dell’Occidente. Weber individua l’origine dello spirito capitalistico nella religione; i suoi studi sull’economia sono parte dell’indagine sulla sociologia delle religioni e sul rapporto tra l’uomo e le varie sfere di valore. [par. 1] Weber considera la religione un fattore determinante, benché non l’unico, nella genesi del capitalismo. L’analisi dell’atteggiamento etico delle religioni fa emergere il ruolo dell’etica protestante nel formarsi dello spirito del capitalismo, benché esso abbia poi perduto il suo fondamento religioso. [par. 2] Weber distingue tra etica di adattamento al mondo ed etica del rifiuto del mondo. La seconda è propria delle religioni della redenzione, fondate sull’idea che il mondo abbia un senso etico e che ci sia una giustificazione del male. Pur avendo inizialmente contribuito alla razionalizzazione del mondo, la religione entra in contrasto con la scienza, responsabile del disincantamento del mondo. [par. 3] Weber distingue due forme di agire razionale, rispetto al valore e rispetto allo scopo, ognuna irrazionale dal punto di vista dell’altra. La prima è una forma di razionalità materiale; la seconda è una forma di razionalità formale e domina il mondo occidentale moderno dal punto di vista economico, giuridico e politico. Dei tre tipi di potere legittimo quello legale è l’unico razionale. L’espressione della razionalità formale nello Stato moderno è la burocrazia, che priva però l’uomo della sua libertà. [par. 4] Un importante aspetto dell’indagine di Weber sul metodo delle scienze sociali è il problema dell’oggettività: la scienza può essere oggettiva, ma nessun valore è giustificabile razionalmente. La perdita di senso etico oggettivo rende impossibile un ordinamento oggettivo dei valori. Il mondo moderno è caratterizzato dal politeismo dei valori, i quali possono essere solo oggetto di scelta. [par. 5] Un esempio del conflitto tra valori è dato dal rapporto tra etica e politica. Weber intende elaborare un’etica per la politica e distingue due tipi di etica tra loro inconciliabili, etica dei principi ed etica della responsabilità: la seconda è un modello per l’agire politico e per la vita dell’uomo moderno. [par. 6] 3. IL

MARXISMO OCCIDENTALE:

GRAMSCI

E

LUKÁCS

Il marxismo gramsciano è influenzato da Labriola: Gramsci ne condivide la critica al materialismo natu612

ralistico e all’idealismo. Allo storicismo idealistico di Croce Gramsci oppone uno storicismo immanentistico: la storia è il prodotto dell’attività umana; per comprenderla occorre il metodo dialettico del materialismo storico, filosofia della prassi umana ed espressione consapevole delle contraddizioni della società. Anch’essa verrà però superata col passaggio alla società comunista. Gramsci sottolinea il peso della sovrastruttura nella società. Per ottenere il potere la classe operaia deve raggiungere l’egemonia politica e ideologica. Ciò richiede l’alleanza con altri gruppi sociali e la guida degli intellettuali, e del Partito comunista. [par. 1] Lukács riprende la dialettica hegeliana come metodo di analisi della società, totalità tra le cui parti c’è un rapporto dinamico. L’analisi fa emergere le contraddizioni della società capitalistica, che solo la coscienza di classe del proletariato può conoscere e superare. Studioso di estetica, Lukács sostiene che l’arte ha la funzione di rappresentare la società attraverso l’invenzione di tipi, e ciò non esclude il ricorso alla fantasia. [par. 2] 4. LA SCUOLA

DI

FRANCOFORTE

Fine della ricerca sociale ispirata a Marx e Hegel e interdisciplinare della Scuola di Francoforte è elaborare una teoria critica della società capitalistica. Gli esponenti della scuola sono però pessimisti sulle possibilità di trasformazione sociale. Nel marxismo di Horkheimer è centrale la dialettica: i fatti sono parte di una totalità. Per comprendere la società capitalistica occorre il contributo di varie discipline, tra cui la psicoanalisi. La razionalità soggettiva domina nella società industriale, che è l’apice dell’Illuminismo. Esso è un atteggiamento caratteristico che tende al dominio della natura. L’unica speranza di miglioramento è riposta nella filosofia. [par. 1] Anche Adorno analizza il processo con cui l’industria culturale domina sull’individuo e lo trasforma in massa. Il pensiero non può eliminare le contraddizioni della realtà, ma può comprenderle grazie alla dialettica. Comune ad Adorno e Benjamin è la riflessione sull’arte nella società industriale. Benjamin sottolinea la perdita di unicità delle opere d’arte e la loro riproducibilità grazie alla produzione tecnologica. L’arte è uno degli strumenti di dominio sull’uomo, la cui redenzione è possibile solo recuperando il senso del sacro. [par. 2] Marcuse integra il marxismo con la psicoanalisi freudiana. Oltre alla repressione degli istinti, la società capitalistica esercita sull’uomo una repressione legata alle esigenze della produzione, ovvero al principio di prestazione. Lo sviluppo dell’uomo, che il sistema capitalistico ha ridotto a una sola dimensione, è possibile grazie all’utopia e all’azione dei soggetti che vivono ai margini della società. [par. 3]

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Unità 14 Capitalismo e teoria della società

Parole chiave Burocrazia. Complesso degli addetti all’amministrazione pubblica caratterizzato da un’organizzazione gerarchica. Nella teoria di Weber essa è il tratto essenziale dello Stato moderno ed è espressione dell’impersonalità del potere legale. Disincantamento del mondo. Aspetto del processo di razionalizzazione verificatosi nel mondo occidentale moderno, che consiste nell’eliminare la dimensione religiosa da tutte le sfere della vita umana. Lo ha in larga parte compiuto la scienza, che dà una spiegazione razionale della realtà e genera la consapevolezza di poter dominare il mondo, ma anche la perdita di punti di riferimento oggettivi per quel che riguarda i valori. Egemonia. Distinta dal dominio, è intesa come direzione politica e culturale. Gramsci la considera necessaria per la conquista del potere da parte della classe operaia. Etica dei principi. È fondata sulla coerenza delle azioni dell’individuo con le sue convinzioni e trascura le conseguenze dei comportamenti effettivi. Ha un carattere religioso, perché adottarla vuol dire agire come se il mondo fosse dotato di un senso etico oggettivo. Etica della responsabilità. È fondata sull’idea che ognuno sia responsabile delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni. Weber la considera il modello adeguato all’agire politico e, in generale, alla complessa vita dell’uomo moderno. Etica del rifiuto del mondo. Etica religiosa fondata sull’idea di redenzione. Nella mistica il rifiuto del mondo si traduce in una fuga da esso e nella contemplazione; nell’ascesi esso si esprime nel tentativo di modificare il mondo. Etica di adattamento al mondo. Etica religiosa caratterizzata dall’accettazione e dall’adattamento alle condizioni sociali esistenti. È l’etica del confucianesimo. Illuminismo. Nella teoria di Horkheimer e Adorno è un atteggiamento caratteristico rivolto a rendere l’uomo capace di dominare la natura per mezzo della ragione strumentale e della conoscenza delle leggi che la regolano. Marxismo. Termine usato a partire dalla fine del XIX secolo per indicare le dottrine ispirate a Marx e Engels. Metodo dialettico. Metodo di analisi della storia e della società diverso da quello delle scienze naturali.

La dialettica del materialismo storico porta alla luce le contraddizioni presenti nella realtà. Politeismo dei valori. Espressione con cui Weber indica il conflitto irrisolvibile tra valori che caratterizza la modernità. Potere. Weber distingue tre tipi di potere legittimo: 1) razionale, fondato sulla credenza nella legalità degli ordinamenti stabiliti; 2) tradizionale, fondato sulla credenza nella validità della tradizione; 3) carismatico, fondato sulla dedizione a un individuo dotato di un particolare carisma. Razionalità formale. È fondata sul calcolo dei mezzi più adatti a raggiungere i fini del soggetto agente. Razionalità materiale. È fondata sui fini da perseguire, indipendentemente dalla considerazione dei mezzi adeguati a raggiungerli. Razionalizzazione. Processo attraverso il quale si tenta di elaborare un’immagine razionale della realtà e di darne una spiegazione razionale. Ci sono varie forme di razionalizzazione, una per ogni sfera di valore. Reificazione. Percorso di trasformazione dei rapporti sociali in «cose» estranee all’uomo. Secondo Lukács i rapporti sociali sono prodotti dall’uomo, ma nel processo di reificazione la loro origine umana viene persa divenendo qualcosa di estraneo all’uomo e alieno, in grado di dominarlo. Scelta. Categoria che secondo Weber domina nell’ambito dei valori e costituisce l’essenza stessa della personalità dell’individuo. Sociologia delle religioni. Indagine sul rapporto tra la religione e le varie sfere della vita umana, in particolare l’economia. Spirito del capitalismo. Espressione con cui Weber indica la motivazione specifica che è all’origine del capitalismo moderno. Essa consiste nella ricerca del profitto come fine in sé; tale ricerca impone l’astensione dall’ozio e una forma di ascesi. Teoria critica. Elaborata dalla Scuola di Francoforte, è un’analisi della società capitalistica volta a mostrarne gli aspetti negativi e a superarla. Utopia. Termine che indica la concezione immaginaria di una società ideale. Marcuse la considera l’unica via per pensare a un ordine sociale in cui l’uomo possa realizzarsi in tutte le dimensioni della propria vita. 613

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Questionario Lavoriamo sui testi

WEBER 1

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Quali soluzioni vengono proposte in T3 al problema della teodicea? (max 4 righe)

Qual è il ruolo dell’etica protestante nella formazione dello spirito del capitalismo? (max 5 righe)

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Come viene spiegata in T5 la tensione tra religione e scienza? (max 4 righe)

3

Quali sono le conseguenze del disincantamento del mondo? (max 4 righe)

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A cosa si riferisce l’immagine della «gabbia d’acciaio» in T8? (max 3 righe)

4

Perché Weber considera la nozione di razionalità una nozione complessa? (max 5 righe)

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Qual è il punto decisivo del problema di cui Weber parla in T10? (max 2 righe)

5

Spiega in un massimo di 5 righe perché Weber nega che sia possibile stabilire un sistema di valori.

20

Quali sono gli esiti delle rivoluzioni intellettuali di cui si parla in T12? (max 5 righe)

21

Come viene spiegata in T15 l’oggettività delle ideologie? (max 3 righe)

22

Come viene spiegata in T17 la differenza tra la dialettica e le scienze della natura? (max 4 righe)

23

Qual è l’origine delle varie fasi dell’irrazionalismo di cui si parla in T20? (max 2 righe)

24

Come viene definita in T21 la concezione della storia propria della ricerca sociale? (max 2 righe)

25

Quali conseguenze vengono attribuite in T23 al dominio dell’uomo sugli oggetti? (max 4 righe)

26

Come viene definito in T25 il compito della dialettica? (max 2 righe)

27

Quali circostanze vengono indicate in T27 come fondamento della decadenza dell’aura delle opere d’arte? (max 5 righe)

28

Quali sono gli effetti descritti in T28 della negazione del principio di prestazione? (max 4 righe)

6

IL

Spiega in un massimo di 4 righe i maggiori contributi di Weber alla teoria della società.

Perché Weber rifiuta l’etica dei principi? (max 4 righe)

MARXISMO OCCIDENTALE:

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GRAMSCI

E

LUKÁCS

Spiega in un massimo di 5 righe perché Labriola considera il materialismo storico una filosofia della prassi.

8

Quale differenza c’è tra lo storicismo di Croce e lo storicismo di Gramsci? (max 5 righe)

9

Perché Gramsci ritiene che la dialettica idealistica sia insufficiente per comprendere la storia? (max 3 righe)

10

Quali sono le condizioni necessarie, secondo Gramsci, perché il proletariato ottenga l’egemonia? (max 5 righe)

11

Perché Lukács sostiene che la coscienza di classe del proletariato è coscienza vera? (max 3 righe)

LA SCUOLA

DI

FRANCOFORTE

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Spiega in un massimo di 4 righe le principali differenze tra il marxismo tradizionale e la Scuola di Francoforte.

13

Qual è l’esito autodistruttivo dell’Illuminismo? (max 4 righe)

14

Spiega in un massimo di 5 righe il ruolo dell’arte nella società industriale.

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Qual è l’aspetto innovativo del pensiero di Marcuse rispetto a Freud? (max 5 righe)

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LABORATORIO DI LETTURA Weber, La politica come professione Il brano è tratto dalla conferenza di Weber sulla Politica come professione, tenuta a Monaco il 28 gennaio 1919. La data ha una particolare rilevanza perché si è appena conclusa, con la disfatta tedesca, la Prima guerra mondiale. La sconsolata diagnosi weberiana riguarda la difficoltà dell’individuazione di uomini politici all’altezza dei tempi, come la stessa sconfitta della Germania ha dimostrato. L’analisi della politica e delle qualità necessarie all’uomo politico sfociano, nella parte finale della conferenza, nel tentativo di delineare un’etica della politica e in generale un modello etico non velleitario, ma nemmeno semplicemente votato alla politica «di potenza» come è successo nello Stato tedesco sconfitto. È qui che Weber si sofferma sui due modelli di un’etica dei principi e di un’etica della responsabilità.

Etica e politica Prima premessa: debolezza del politico che ricerca solo il potere

Commento e interpretazione

Il mero «politico della potenza», come cerca di celebrarlo un culto praticato con zelo anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma in effetti opera nel vuoto e nell’assurdo. In ciò i critici della «politica di potenza» hanno pienamente ragione. Dall’improvviso crollo interiore di alcuni tipici rappresentanti di questo principio abbiamo potuto constatare quale intima debolezza e impotenza si nasconda dietro questi gesti boriosi, ma del tutto vuoti. [A] Esso è il prodotto di una indifferenza assai misera e superficiale di fronte al senso dell’agire umano, la quale non ha alcun tipo di rapporto con la coscienza del tragico a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l’agire politico. [B]

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A. Weber prende in esame le caratteristiche necessarie per colui che dichiari di avere la «vocazione» per la politica (in tedesco Beruf significa sia «vocazione» sia «professione», e Weber gioca su questa ambiguità). Chi ricerca il potere per il potere si compiace semplicemente di possederlo. La figura del «politico della potenza» priva di un contenuto che non sia l’esibizione e la conservazione del potere, ovvero il politico che non abbia salde convinzioni e saldi ideali è in realtà meno capace anche di difendere e di sostenere la propria lotta politica, e soprattutto è incapace di aderire genuinamente alla propria lotta. Il politico vuoto di convinzioni che è semplicemente legato al potere e non ha obiettivi propri da perseguire rischia sempre di crollare: in questa critica, il riferimento di Weber è alla classe politica tedesca, priva di vere e proprie capacità politiche, che egli ritiene incapace e che è stata incapace di guidare il Paese anche durante la guerra mondiale appena conclusa. Non va però dimenticato che Weber sottolinea sempre il legame tra il potere e la politica, quindi in sostanza tra la violenza e la politica. Ciò che egli cerca di fare è proprio mantenere una visione realistica della politica, ma al tempo stesso non svuotarla del valore delle convinzioni e delle «cause» da sostenere. B. La chiave dell’agire umano, proprio perché per Weber non c’è un senso oggettivo degli eventi del mondo, sta nel senso che viene attribuito dal soggetto che agisce alle proprie azioni. Se l’agire ha la sua radice semplicemente nella conservazione del potere senza al-

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Seconda premessa: le convinzioni sono un sostegno indispensabile per l’azione Conclusione: è necessario scegliere una causa al servizio della quale porsi

Domanda: quale rapporto c’è tra etica e politica?

È del tutto vero e costituisce uno dei dati fondamentali di tutta la storia – di cui non possiamo qui occuparci più da vicino – che il risultato finale dell’agire politico si trova spesso, o meglio, di regola, in un rapporto del tutto inadeguato e spesso del tutto paradossale con il suo significato originario. Ma proprio per questo un tale significato – il fatto di servire una causa – non deve mai mancare, se l’agire deve altrimenti avere un suo sostegno interiore. [C] Quale debba essere la causa per i cui fini l’uomo politico aspira al potere e fa uso del potere è una questione di fede. Egli può mettersi al servizio di scopi nazionali o umanitari, sociali ed etici o culturali, intramondani o religiosi, può essere sostenuto da una solida fede nel progresso – non importa in che senso – oppure può rifiutare in modo distaccato questo genere di fede, può pretendere di stare al servizio di un’«idea» oppure respingere in via di principio una tale pretesa e voler servire i fini esteriori della vita quotidiana, ma sempre deve comunque esserci una qualche fede. Altrimenti – e questo è assolutamente esatto – la maledizione della nullità delle creature grava anche sui successi politici esteriormente più solidi. [D] Con quanto abbiamo detto ci siamo già addentrati nella discussione dell’ultimo problema di cui dobbiamo occuparci stasera: il problema, cioè, dell’etica della politica in quanto causa. [E] A quale vocazione può essa rispondere, a prescindere del tutto dai suoi fini, nell’ambito dell’organizzazione

C.

D.

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tro significato, ciò che colpisce è proprio la sua superficialità e la sua meschinità. Non essendoci poi dietro l’agire convinzioni profonde e un senso che venga attribuito dal soggetto alle azioni, manca anche, e tanto più, la percezione di un fatto che Weber affronterà più volte in queste pagine: il fatto che il rapporto tra il senso che chi agisce attribuisce alla propria azione e il realizzarsi dell’azione nel mondo reale può essere un rapporto di tipo tragico. In esso chi compie un’azione non è consapevole dell’effetto che la sua azione può avere, anche perché l’azione, una volta diventata oggettiva e parte del mondo, subisce molti altri condizionamenti oltre ai propositi del soggetto agente. Questo aspetto «tragico» dell’agire è reale a maggior ragione nel caso dell’agire politico. Weber è consapevole della difficoltà del tema affrontato, della natura complessa dell’agire in generale e dell’agire politico in particolare. È un fatto che spesso il risultato finale dell’agire politico non corrisponde al senso che a quell’agire ha dato chi ha promosso l’azione. Ma questa distanza tra proposito e fatto reale, tra proposito e azione, non giustifica il cinismo di chi pensi che dato che c’è distanza tra il principio ideale o la «causa» in nome della quale si agisce e l’effetto reale dell’azione, allora la convinzione ideale sia superflua. Al contrario: essa non può mai mancare, per Weber, è un ingrediente indispensabile. Innanzitutto è assolutamente necessaria una causa, ovvero una prospettiva ideale, ma certo quale causa si debba servire è una questione di scelta, di fede, non può essere cioè argomentato razionalmente in modo compiuto, ma trova un limite al di là del quale l’argomentazione si arena. Weber non prende esplicitamente posizione nei confronti di una fede o di un’altra, di una convinzione oppure di un’altra, ma menziona molte possibilità. Il tratto essenziale del brano è comunque la contrapposizione tra i diversi modi di confrontarsi con la realtà e la sottolineatura del fatto che per quanto ben organizzato, il confronto con il mondo si risolve comunque attraverso una scelta. Il semplice successo esteriore non è sufficiente a dare un senso all’esistenza individuale, che è sempre sottoposta al rischio dell’insensatezza, ovvero della «nullità delle creature». La questione del punto di riferimento ideale della politica, ovvero della «causa» per la quale ci si batte, è la questione dell’etica della politica, cioè del tipo di condotta di vita e di atteggiamento che si deve assumere nell’agire politico. Innanzitutto, Weber si pone il problema della collocazione dell’etica della politica all’inter-

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Risposte che Weber respinge

Risposta di Weber: tra etica e politica c’è una tensione

Prima premessa: contrasto tra etica dei principi ed etica della responsabilità

etica complessiva della condotta di vita? Qual è, per così dire, il luogo etico in cui essa dimora? [F] Qui di certo si scontrano concezioni ultime del mondo, tra le quali si deve infine scegliere. [G] […] Ma qual è dunque il rapporto reale tra etica e politica? Non hanno niente a che fare l’una con l’altra, come si è talvolta affermato? O è vero, al contrario, che la «stessa» etica vale per l’agire politico come per ogni altro agire? Si è talvolta pensato che tra queste due affermazioni si ponesse un’alternativa: sarebbe giusta o l’una o l’altra. Ma è dunque vero che imperativi identici dal punto di vista del contenuto potrebbero essere formulati da qualsiasi etica al mondo per rapporti erotici e di affari, familiari e di ufficio, per le relazioni con la moglie, l’erbivendola, il figlio, il concorrente, l’amico, l’imputato? Dovrebbe essere davvero così indifferente per le esigenze etiche nei confronti della politica che questa operi con un mezzo così specifico come la potenza, dietro cui vi è la violenza? [H] […] Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principi» oppure di un’«etica della responsabilità». Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. [I] Non si

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no della generale condotta di vita di un individuo. Quale spazio e quale ruolo ha la politica, in particolare per chi si occupi di essa professionalmente, nel confronto con altri valori che possono essere importanti per l’individuo e con i quali essa può entrare in conflitto? G. Emerge una delle convinzioni fondamentali di Weber: nelle decisioni importanti e nella necessità di prendere posizione si deve sempre scegliere, ed è proprio nella capacità di scegliere che consiste il valore della personalità e in particolare il valore di chi voglia dedicarsi alla politica. H. Weber pone qui alcune domande, tutte importanti, sul rapporto tra l’etica e la politica come sfere di valore autonome. Innanzitutto ci si può chiedere se etica e politica siano non solo autonome, ma completamente indipendenti l’una dall’altra, tanto da permettere forme di agire completamente diverse a seconda che l’azione riguardi l’ambito dell’etica o quello dell’agire politico. Sarebbe, questa, una tesi della radicale separazione tra etica e politica. La seconda domanda rappresenta la tesi contraria, l’idea cioè che ci sia una stessa etica, una stessa condotta di vita, da utilizzare sia sul piano etico della condotta individuale sia sul piano dell’agire politico. In terzo luogo, è una tesi discutibile, sostiene Weber, anche quella che vede queste due tesi come contrapposte, tali che riconoscere l’una escluda il potere riconoscere anche l’altra. Subito dopo Weber esprime una forte perplessità di fronte all’ipotesi che l’etica sia in qualche senso uno strumento utilizzabile non solo per affrontare la politica, ma in generale per affrontare situazioni e ruoli differenziati in contesti diversi. Emerge anche qui il carattere limitato di qualunque norma di comportamento che voglia dare indicazioni universali indipendentemente dai contesti in cui ci si trova ad agire. Ma la questione più spinosa è sempre quella qui conclusiva, già emersa più volte nel pensiero di Weber e che tornerà anche più avanti: la violenza è uno strumento inevitabile e caratteristico della politica, ed è questo carattere che costituisce il maggior fattore di tensione tra etica e politica. I. Weber presenta i due modelli etici fondamentali come contrapposti in modo inconciliabile. In realtà, questa inconciliabilità si attenuerà nel corso dell’esposizione. Non sono comunque modelli etici tali che sia possibile eliminare semplicisticamente uno dei due, proprio perché l’etica dei principi non è mancanza di responsabilità né l’etica della responsabilità è assenza totale di principi. Sono due modelli, nella prospettiva weberiana,

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Chi adotta l’etica dei principi trascura gli effetti delle proprie azioni

Chi adotta l’etica della responsabilità tiene conto delle conseguenze delle proprie azioni

Seconda premessa: nella politica si fa uso della violenza per raggiungere certi fini

tratta ovviamente di questo. Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima dell’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, recita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. A un sindacalista convinto che agisca in base all’etica dei principi voi potrete dimostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’azione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudizio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati tali. [L] Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media degli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giustamente detto Fichte – di dare per scontata la loro bontà e perfezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguenze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. [M] Colui che agisce secondo l’etica dei principi si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro principio – per esempio la fiamma della protesta contro l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continuamente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare. [N] Ma nemmeno così il problema è ancora esaurito. Nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fini «buoni» è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eticamente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o anche alla probabilità, che insorgano altre conse-

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coerenti, ai quali non può essere contrapposto con successo un argomentare razionale, o almeno non oltre un certo limite: da quel punto in poi si tratta di una scelta. L’essenziale, e l’analisi teorica o scientifica può fare soltanto questo, è che ci si renda conto di che cosa significa scegliere in una direzione o in un’altra. L. Vediamo innanzitutto i tratti principali dell’etica dei principi. Weber la formula prima in termini religiosi, ma essa può essere espressa anche dall’atteggiamento del sindacalista rivoluzionario che non scende a patti con la realtà. In prospettiva religiosa, chi agisce secondo l’etica dei principi conserva e vuole conservare la purezza della propria anima e si affida, per quanto riguarda il risultato, alla provvidenza divina. Ma ciò che costituisce il tratto di una sorta di santità, se inteso come un agire permeato di razionalità, diventa una coerenza fine a se stessa che Weber non apprezza – anche se non ne può dimostrare l’insostenibilità – se viene trasferita sul piano di un agire politico che a suo parere dovrebbe tenere conto delle conseguenze. Il sindacalista che agisce secondo l’etica dei principi, nel caso che il suo agire «coerente» abbia effetti negativi, magari prevedibili, per gli stessi interessi che lui rappresenta se la prenderà con il mondo o con gli altri, che non recepiscono il tratto positivo del suo comportamento coerente. M. Chi agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, invece, delle circostanze concrete in cui si trova a operare. Egli sa che gli effetti delle sue azioni possono essere diversi da quello che pensa e spera, perché questi effetti cadono in un mondo oggettivo in cui anche altri fattori concorrono a determinare le conseguenze dell’azione.

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Conclusione: l’agire politico è inadeguato a chi aspira al bene

Premessa: anche la politica richiede passione

guenze cattive. E nessuna etica al mondo può giustificare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente pericolosi e le sue possibili conseguenze collaterali. […] Il mezzo specifico della violenza legittima, semplicemente in quanto tale, nelle mani dei gruppi umani, è ciò che determina la peculiarità di tutti i problemi etici della politica. [O] […] Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. I grandi virtuosi dell’amore cosmico per l’uomo e del bene – provengano essi da Nazareth, da Assisi o dai palazzi reali indiani – non hanno operato con il mezzo politico della violenza, il loro regno «non era di questo mondo», e tuttavia agirono e agiscono in questo mondo, e le figure di Platon Farataev [personaggio di Guerra e pace di Tolstoj] e dei santi dostoevskiani sono pur sempre quelle che si adattano meglio a tali modelli. Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da potere essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile. [P] […] In verità: la politica vien fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto. [Q] In ciò coloro che agiscono in base all’etica dei principi hanno pienamente ragione […] Pertanto l’etica dei principi e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la «vocazione per la politica». [R] […]

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N. L’agire di chi agisce secondo l’etica dei principi è mosso prevalentemente da un intento di testimonianza, per dimostrare appunto la fedeltà ai principi e per testimoniare questa fedeltà, più che per ottenere effetti concreti: ciò che conta è il valore esemplare dell’agire, anche se le azioni compiute sono del tutto irrazionali dal punto di vista dell’etica della responsabilità, perché il soggetto agente non tiene conto delle conseguenze possibili di esse. O. È il tema centrale della concezione weberiana della politica e del suo rapporto con gli altri valori, già menzionato sopra: in politica si può rendere necessario l’uso di mezzi eticamente dubbi, per esempio mezzi violenti, per raggiungere i propri fini. P. L’etica, e tanto più l’etica di personaggi considerati eticamente superiori o addirittura alla stregua di «santi», è in costante tensione con la politica, e può in ogni momento entrare in un conflitto insanabile con essa. Q. Qui comincia, nel testo di Weber (siamo alla parte finale della conferenza), il recupero della possibilità di una conciliazione tra etica dei principi ed etica della responsabilità. Anche la politica, come si era accennato precedentemente, ha bisogno della passione, cioè della dedizione a una causa. R. Dopo avere presentato i due modelli di etica come inconciliabili, Weber sostiene ora la necessità di un loro completamento reciproco, di una loro complementarità: sono necessari i principi che danno sostanza e spessore all’agire, ma è necessaria anche l’attenzione per le conseguenze e l’assunzione di responsabilità per ciò che avviene, sulla base di un agire che tiene conto delle circostanze.

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Conclusione: i due tipi di etica sono, insieme, il modello per l’agire politico

La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fermezza interiore che permette di assistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido e volgare per ciò che egli vuole offrirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica. [S]

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(da M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 96 ss.)

S. Weber sottolinea la difficoltà e la durezza della politica, che richiede passione, cioè dedizione a una causa, e al tempo stesso la comprensione della situazione concreta. A dimostrare che la posizione weberiana non è necessariamente una posizione moderata di graduale e timido miglioramento, leggiamo qui l’affermazione che per realizzare il possibile ci vuole anche il tentativo di realizzare obiettivi che sembrano irraggiungibili. La posizione weberiana si rivela nel riconoscimento del carattere sostanzialmente eroico dell’agire politico, in un senso «assai poco enfatico» della parola. La vocazione per la politica è posseduta soltanto da coloro che sono in grado di mantenere la propria convinzione e la capacità di affrontare la realtà anche nei momenti di difficoltà, nei quali sembra che l’agire non abbia alcun effetto, o almeno alcun effetto positivo, sul mondo. Ha la vocazione per la politica soltanto chi anche in queste circostanze non si perde d’animo e ha il coraggio di andare avanti nella propria lotta e nella propria azione.

Questionario sull’argomentazione 1

Perché l’agire, e in particolare l’agire politico, deve sempre conservare il proprio significato originario? (max 4 righe)

4

Quali sono i paradossi etici dei quali chi voglia dedicarsi alla politica deve essere consapevole? (max 3 righe)

2

Quale conseguenza ha per il rapporto tra etica e politica il fatto che la seconda opera per mezzo della violenza? (max 1 riga)

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Per quale ragione l’etica dei principi e l’etica della responsabilità sono considerate da Weber complementari? (max 4 righe)

Perché l’etica dei principi contrasta con l’etica della responsabilità? (max 5 righe) 620

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana RESPONSABILITÀ La nozione comune di responsabilità

La responsabilità descrittiva

La responsabilità normativa

Divergenza tra i due sensi di «reponsabile»

L’attribuzione a qualcuno di una «responsabilità» e il fatto stesso che ci sentiamo responsabili è qualcosa di molto comune: un assassino viene considerato responsabile dell’omicidio che ha commesso, un automobilista viene ritenuto responsabile per avere superato il limite di velocità, io stesso mi sento responsabile del benessere dei miei figli. Prendiamo il caso di un assassino: che cosa significa considerarlo responsabile della morte di qualcuno, e per quale ragione, dopo essere stato giudicato responsabile, può essere condannato a passare anni della propria vita in prigione? 1. Gli usi di «responsabile» Innanzitutto, si può osservare che il termine «responsabile» non viene applicato solo alle persone: consideriamo un assassino responsabile di un omicidio, ma possiamo considerare anche un fulmine responsabile di un incendio o un maremoto di una inondazione. C’è qualche differenza fra questi usi di «responsabile»? Una differenza pare effettivamente esserci: quando diciamo che un fulmine è responsabile di un incendio intendiamo «responsabile» come sinonimo di «essere causa di». In questo caso, per stabilire se qualcosa o qualcuno è responsabile basta una constatazione di carattere empirico: basta cercare chi o cosa ha effettivamente causato l’avvenimento di cui si cerca il responsabile. La questione è risolvibile dunque, almeno in linea di principio, attraverso una semplice osservazione. Così facendo, per ritenere un fulmine responsabile di un incendio non abbiamo bisogno di considerare che cosa il fulmine avrebbe dovuto fare in alternativa, ma solo che cosa ha fatto. Si può dire che utilizziamo il termine «responsabile» in un modo esclusivamente descrittivo. Anche un assassino può essere considerato responsabile in questo senso, in quanto, come il fulmine, è causa di un avvenimento, in questo caso la morte di qualcuno. Tuttavia, quando giudichiamo un assassino responsabile di un omicidio o quando ci sentiamo responsabili per avere fatto qualcosa, non intendiamo solo questo. Non vogliamo cioè solo sapere se l’assassino è causa della morte di qualcuno, quanto giudicare se egli deve rispondere da un punto di vista morale o giuridico dell’azione che ha compiuto, perché in relazione ad essa aveva dei doveri e avrebbe dovuto agire diversamente. In questo senso considerare qualcuno responsabile significa fare riferimento a doveri e principi, come il dovere di non uccidere. La cosa può essere chiarita con un esempio: prendiamo il caso che io venga assalito da un bandito armato di tutto punto e che nella colluttazione lo uccida per evitare che lui uccida me. Sono considerato moralmente o giuridicamente responsabile della morte del bandito? La risposta solitamente è no, sebbene io sia la causa della sua morte. In questo caso, infatti, non mi è attribuibile un dovere di non uccidere, dato che è in gioco la mia stessa vita; si tratta infatti di una uccisione per legittima difesa che fa 621

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venire meno l’attribuzione di responsabilità. In un certo senso sono responsabile in quanto causa della morte di qualcuno, ma non sono responsabile in quanto non sono chiamato a rendere conto da un punto di vista morale o giuridico dell’azione che ho compiuto. Nello stabilire se sono responsabile della morte di qualcuno usiamo dunque «responsabile» in un senso diverso da quello usato per il fulmine: se nel caso del fulmine facciamo un uso descrittivo di questo termine, nel caso dell’omicidio ne facciamo un uso normativo, stabiliamo cioè chi è chiamato a rispondere per non avere adempiuto a dei doveri. E come dimostra proprio questo esempio, i due usi possono divergere.

Due diverse attribuzioni di responsabilità

Le due attribuzioni non coincidono sempre

Riferimento a doveri morali o giuridici

Responsabilità retrospettiva

Responsabilità prospettiva

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2. Essere responsabili e sentirsi responsabili Si deve tuttavia distinguere l’essere considerati responsabili e il sentirsi responsabili. Nel primo caso l’attribuzione di responsabilità normativa avviene attraverso un giudizio da parte di altri, che mi considerano moralmente o giuridicamente responsabile in relazione a doveri che loro mi attribuiscono. Nel secondo caso interviene un elemento psicologico: sono io a sentirmi responsabile in relazione a doveri che io stesso mi attribuisco. Le due attribuzioni di responsabilità possono non coincidere: si può cioè essere giudicati responsabili senza sentirsi responsabili, per esempio perché si ritiene che gli altri abbiano espresso un giudizio sbagliato; oppure si può sentirsi responsabili per azioni o eventi per i quali gli altri non ci attribuiscono alcuna particolare responsabilità, per esempio nel caso in cui si sia causata accidentalmente la morte di qualcuno in un incidente stradale del quale non avevamo alcuna colpa. 3. Responsabilità morale e giuridica Ci sono diversi tipi di responsabilità normativa. La prima distinzione che può essere fatta è proprio quella fra la responsabilità morale e la responsabilità giuridica. Essa dipende dal fatto se nell’attribuzione di responsabilità si faccia riferimento a dei doveri morali o a dei doveri giuridici. Se uccido premeditatamente una persona sono responsabile sia da un punto di vista morale, sia da un punto di vista giuridico (il dovere di non uccidere è tanto un dovere morale, quanto un dovere riconosciuto dalla legislazione). Se invece in un’autostrada deserta supero il limite di velocità sono responsabile solo da un punto di vista giuridico, mentre se non rispetto la promessa che ho fatto a mio figlio di portarlo a vedere gli animali allo zoo sono responsabile solo da un punto di vista morale. 4. Responsabilità verso il passato e verso il futuro L’aggettivo «responsabile» può inoltre essere adoperato per riferirsi ad azioni o scelte compiute nel passato, per esempio quando si punisce qualcuno per un reato commesso: in questo caso si ha a che fare con una responsabilità di carattere retrospettivo. Oppure questo aggettivo può essere usato in relazione a eventi che non si sono ancora verificati o ad azioni e scelte non ancora compiute: per esempio, quando si ritiene qualcuno responsabile delle conseguenze future delle sue azioni, sugli altri a lui contemporanei o sulle generazioni che verranno, come può avvenire nel caso in cui egli abbia causato gravi danni ambientali. In questo caso si ha a che fare con una responsabilità di carattere prospettivo. Questo tipo di responsabilità guarda al futuro; l’altro, invece, guarda al passato.

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Laboratorio sul lessico Responsabilità

Responsabilità del singolo

Responsabilità di enti collettivi

Perché attribuire responsabilità?

La responsabilità come retribuzione

La responsabilità come prevenzione e correzione

5. Responsabilità personale e collettiva Infine, si possono distinguere altri due tipi di responsabilità, a seconda di chi è il soggetto al quale la responsabilità viene attribuita. Il caso più frequente è quello in cui si fa riferimento a una responsabilità di carattere personale, alla responsabilità cioè di una singola persona: la responsabilità morale o giuridica è solitamente considerata la responsabilità di un singolo individuo di fronte ad altri. Per esempio, se prometto a un amico di aiutarlo e non lo aiuto, vengo giudicato personalmente responsabile per non aver mantenuto la promessa fatta; se qualcuno commette un furto è personalmente responsabile del reato commesso. Ma si può fare riferimento anche a forme di responsabilità collettiva, applicabile cioè a enti collettivi, come i governi, le associazioni, i partiti, oppure le imprese e le aziende commerciali: si parla in questo caso, per esempio, della responsabilità di un governo per avere fatto una guerra, o della responsabilità delle imprese verso i propri dipendenti e verso l’ambiente e così via. 6. La giustificazione della responsabilità Vi è poi il problema di come può essere giustificata l’attribuzione di responsabilità morale o giuridica. Immaginiamo il caso di un assassino che viene condannato a venti anni di prigione. A quale scopo viene considerato responsabile delle azioni che ha compiuto e a cosa serve la pena che egli deve scontare? La pena deve mirare alla compensazione del male che è stato causato o deve mirare a correggere chi l’ha commesso e a evitare che questo male si ripeta? Il problema è, in generale, quale sia la giusta concezione della responsabilità. Secondo alcuni il fine dell’attribuzione di responsabilità è la retribuzione verso le azioni compiute, così che il premio o la punizione hanno principalmente carattere di compensazione. L’attribuzione di responsabilità è giusta quando è commisurata all’azione compiuta: così una pena è giusta se è una retribuzione commisurata all’entità del male causato, un premio è giusto se è una retribuzione commisurata all’entità del bene prodotto. Si può raffigurare questa concezione attraverso l’immagine della bilancia: se il commettere un crimine fa pendere da una parte i piatti della bilancia, la punizione ripristina l’equilibrio. Un’altra immagine che può rendere l’idea di questa concezione è quella del pagamento: se il commettere un crimine comporta il contrarre un debito, con la punizione il debito viene saldato. Secondo questa concezione, quando si punisce qualcuno lo si fa per compensare il male commesso, quando lo si premia lo si fa per compensare il bene causato. Secondo altri il fine dell’attribuzione di responsabilità è quello di produrre delle buone conseguenze future: quando si punisce qualcuno lo si fa per evitare che una certa azione si ripeta e per correggere chi l’ha compiuta; quando lo si premia lo si fa per incoraggiare il ripetersi di un’azione. Centrale è la valutazione delle conseguenze prodotte con il fatto di considerare qualcuno responsabile. L’attribuzione della responsabilità non ha uno scopo vendicativo, ma correttivo e preventivo: essa ha un intento di prevenzione, correzione e incoraggiamento ed è giusta quando questi risultati vengono raggiunti. Secondo questa concezione della responsabilità si considera qualcuno responsabile per modificare il comportamento futuro suo e degli altri membri della società: l’assassino deve essere messo in carcere per evitare che egli stesso o altri individui commettano in futuro la stessa azione e perché il suo comportamento venga corretto attraverso un’opera di rieducazione. 623

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Esercitiamoci sulla responsabilità 1. Rifletti e completa

RESPONSABILITÀ Vari usi di questo concetto

Esempio: ______________ ______________

Responsabilità descrittiva = essere causa di qualcosa

Responsabilità normativa = dover rispondere di qualcosa

Viene attribuita a cose, fenomeni o persone

Viene attribuita solo alle persone

Esempio: ___________ ___________

Esempio: ___________ ___________

Essere responsabili

Responsabilità morale = relativa ai doveri morali

Esempio: ___________ ___________ Esempio: ___________ ___________

Retrospettiva

Personale

Esempio: ______________ ______________ Esempio: ___________ ___________

Sentirsi responsabili

Responsabilità giuridica = relativa ai doveri giuridici

Esempio: ___________ ___________

Prospettiva

Esempio: ___________ ___________

Collettiva

Esempio: ___________ ___________

2. Spunti per il dibattito: io e… la responsabilità 1

Dopo aver letto il testo e completato lo schema rispondi alle seguenti domande: – Pensi che ci siano casi in cui la responsabilità delle conseguenze negative di un evento ricada soltanto sui fenomeni naturali e non anche sugli esseri umani? – Ritieni che sia più grave la responsabilità giuridica o quella morale? – Secondo la tua concezione della responsabilità la pena comminata a chi è responsabile di un reato è un mezzo per correggere il suo comportamento o è un mezzo per punirlo per il male che ha fatto?

Immagina che all’età di diciannove anni un ragazzo commetta un furto in una casa dove vive una persona anziana. Il ragazzo viene scoperto e, preso dalla paura di essere denunciato, colpisce l’anziano alla testa e ne provoca, pur senza volerlo, la morte. 624

2

Viene arrestato e condannato a venti anni di reclusione. Nel corso del tempo cambia molto; in carcere ha iniziato a lavorare, non ha mai tentato di evadere e, ripensando a ciò che ha fatto, si rende conto di aver commesso un atto del tutto ingiustificabile. – Pensi che il cambiamento avvenuto in questa persona dipenda dal fatto che vive l’esperienza del carcere e che, dunque, il carcere possa servire a migliorare gli individui? – Se il tribunale decidesse di ridurre la pena e di rimettere questa persona in libertà entro qualche anno, ma i parenti della vittima si opponessero a questa decisione, ritieni che la loro opposizione sarebbe giustificata? – Secondo te il fatto che il ragazzo ha ucciso in modo non intenzionale la persona che stava derubando è significativo per stabilire in quale misura è moralmente responsabile della sua morte?

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Percorso tematico

Immagini critiche della scienza e della tecnica

I testi B. Russell Icaro o il futuro della scienza: I rischi della scienza, T1 S. Freud L’avvenire di un’illusione e Il disagio della civiltà: L’ambiguità della civiltà, T2 K. Jaspers La situazione spirituale del nostro tempo: La tecnica e la massa, T3

E. Husserl La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: Le scienze e l’esistenza umana, T4 A. Einstein Scienza e società: Tre pericoli della scienza contemporanea, T5 M. Horkheimer Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale: La scienza fa parte della società, T6

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

Immagini critiche della scienza e della tecnica 1

Atteggiamenti critici verso la scienza

Nel secolo in cui si assiste a uno sviluppo incredibile della scienza e delle sue applicazioni nei più diversi ambiti emergono anche atteggiamenti critici verso la scienza, o almeno perplessità, anche da parte degli scienziati e di chi ne veda con favore i progressi, verso il cattivo uso che ne possa essere fatto. Questo atteggiamento nasce negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha un fortissimo sviluppo negli anni tra le due guerre mondiali – che sono tradizionalmente considerati anni di ‘crisi’ – e si ripresenta poi periodicamente nella riflessione successiva, fino a oggi. Le espressioni intellettuali di questo ‘disagio’ hanno diverse forme e si sviluppano in diverse direzioni, ma sono accomunate da una considerazione dello sviluppo scientifico e tecnologico – il tema della «tecnica» – che comincia a essere visto non solo o non tanto come un fattore di liberazione dell’uomo nella sua dipendenza dalla natura, ma come l’elaborazione e la produzione di strumenti che finiscono per dominare l’uomo stesso, o che comunque sono suscettibili di avere effetti negativi sulla condizione degli esseri umani. La scienza e la tecnica In molti casi, questo atteggiamento di critica del mondo moderno si contrappone possono avere effetti consapevolmente ed esplicitamente alla fiducia positivistica nel progresso sciennegativi tifico come mezzo di progresso anche sociale e politico e si sviluppa non solo nella filosofia, ma anche nella letteratura, ricevendo una particolare attenzione nei Paesi di lingua tedesca. Filosofi e scrittori guardano con preoccupazione a un mondo in cui il sapere astratto della matematica, la tecnica, l’industria hanno progressivamente sostituito il mondo della tradizione e della cultura, ritenute più adeguate alle esigenze dell’uomo o dello «spirito». Le perplessità sugli effetti dell’enorme sviluppo della scienza della natura coinvolgono però anche intellettuali, scienziati e filosofi che contribuiscono in modo decisivo a quello sviluppo: si è comunque consapevoli, anche tra quelli che possono essere considerati gli eredi del positivismo ottocentesco, che la scienza e la tecnica offrono certamente grandi potenzialità, ma che al tempo stesso un uso sbagliato di queste potenzialità potrebbe avere un effetto disastroso. Disagio verso il progresso della scienza e della tecnica

2 L’irrazionalità dell’uomo può rendere dannoso il progresso

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Bertrand Russell: i pericoli dell’egoismo e del potere politico Può valere la pena di prendere le mosse proprio da un matematico e filosofo che ha indubbiamente un legame stretto con il progresso del pensiero scientifico e che non può certo essere ritenuto polemico verso la scienza: Bertrand Russell (vedi Unità 15, p. 645 ss.).

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Percorso tematico Immagini critiche della scienza e della tecnica

Polemizzando nel 1924 con un biochimico inglese – John Scott Haldane (18601936) – che aveva assunto un atteggiamento ottimistico sul futuro della scienza, Russell sottolinea quanto la scienza, in sé positiva, possa essere utilizzata per gli interessi di gruppi di potere piuttosto che per il benessere collettivo, quando a prevalere siano gli interessi egoistici e la naturale irrazionalità umana. Russell si richiama alle figure mitologiche di Dedalo e Icaro per mostrare che si può perdere il controllo delle innovazioni della scienza. Il progresso scientifico può rivelarsi una maledizione per l’umanità e condurla alla rovina, esattamente come successe a Icaro: si avvicinò tanto al sole che le ali di penne e cera che il padre, Dedalo, aveva costruito per lui, si sciolsero, ed egli precipitò in mare.

T1

I rischi della scienza

B. Russell, Icaro o il futuro della scienza

3

Il libro di Haldane, Daedalus, presenta un’attraente immagine del futuro, quale potrebbe essere attraverso un uso delle scoperte scientifiche capace di promuovere la felicità umana. Sarei ben lieto di potermi dichiarare d’accordo con le sue previsioni, ma una lunga esperienza di statisti e governi mi ha reso piuttosto scettico. Mi sento costretto ad aver timore che la scienza sarà usata per promuovere il potere dei gruppi dominanti piuttosto che per rendere gli uomini felici. Icaro, dopo che suo padre Dedalo gli ebbe insegnato a volare, fu distrutto dalla sua avventatezza. Temo che lo stesso destino possa toccare ai popoli cui i moderni uomini di scienza hanno insegnato a volare. […] I cambiamenti cui è stato soggetto negli ultimi due secoli il mondo in cui viviamo in seguito all’applicazione delle scoperte scientifiche sono stati in parte buoni, in parte cattivi; ma se, alla fine, la scienza proverà di essere stata una benedizione o una maledizione è ancora, a mio avviso, una questione dubbia. […] La scienza ha accresciuto il controllo umano sulla natura e si potrebbe perciò ugualmente supporre che aumenterà la sua felicità e il suo benessere. Le cose starebbero così se gli uomini fossero razionali, ma di fatto essi sono solo grovigli di passioni e istinti.

Freud: il disagio della civiltà

Nei suoi ultimi scritti Freud estende la teoria psicoanalitica ben al di là dei limiti di una teoria della psiche e delle sue patologie, affrontando temi di carattere generale che riguardano l’esistenza sociale dell’uomo, l’arte, la religione. In questa estensione rientra anche la sua indagine sul «disagio della civiltà». L’analisi condotta da Freud sullo sviluppo della civiltà intende metterne in rilievo l’ambiguità, i caratteri tanto positivi quanto negativi. Infatti, lo sviluppo della civiltà si è concentrato, con la scienza e la tecnica, sul dominio della natura, e per far questo ha limitato e represso tutte le pulsioni dell’uomo (cioè le spinte derivanti da uno stato di tensione) che avrebbero portato a un conflitto, ma le tendenze aggressive non sono per questo scomparse, al contrario: esse costituiscono nel mondo contemporaneo uno degli elementi più importanti. Il controllo della natura e l’acquisizione di beni materiali non le hanno infatti eliminate. Limiti al perseguimento Per quanto si possa apprezzare la limitazione delle pulsioni in vista di una condella felicità vivenza pacifica, quella limitazione ha condizionato negativamente la possibilità di perseguire la felicità, che costituisce per Freud il vero fine di ogni uomo. Oggi il problema dell’aggressività si pone però con grande urgenza perché i mezzi Aspetti positivi e negativi dello sviluppo della civiltà

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di distruzione sono diventati molto potenti. Nei brani di Freud qui riportati – tratti da due scritti del 1927 e del 1929: L’avvenire di un’illusione e Il disagio della civiltà – emerge tutta l’ambiguità della civiltà e del progresso. Il problema maggiore che si pone all’uomo contemporaneo non è più quello di proteggersi dai pericoli derivanti dal mondo esterno, ma di proteggersi da quelli legati alla tendenza alla distruzione connaturata alla psiche. Se l’uomo primitivo viveva in condizioni di maggiore insicurezza, era ciononostante più felice perché privo delle limitazioni dell’uomo civile. Rispetto all’uomo contemporaneo, poi, quello primitivo disponeva di mezzi molto limitati per danneggiare i propri simili; la disponibilità di tali mezzi nella società attuale è una fonte ulteriore di inquietudine e di infelicità.

T2

L’ambiguità della civiltà

S. Freud, L’avvenire di un’illusione

S. Freud, Il disagio della civiltà

Si deve, a mio parere, tenere conto del fatto che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, e perciò antisociali e ostili alla civiltà, e che in un gran numero di persone sono abbastanza forti da determinarne il comportamento nella società umana. A questo fatto psicologico spetta un’importanza decisiva quanto al giudizio sulla civiltà. Mentre a tutta prima si poteva pensare che l’essenziale di questa consistesse nel dominio della natura in vista dell’acquisizione di beni materiali e che, con una loro opportuna distribuzione tra gli uomini, i pericoli che li minacciano potessero venire eliminati, l’aspetto più importante ci appare ora non più quello materiale ma quello psichico. Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché egli stenti a trovare la sua felicità in essa. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza. […] Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. Il giudizio che Freud, come Russell, esprime sul progresso della scienza e della civiltà non è di radicale condanna, perché la sopravvivenza degli esseri umani è possibile solo ponendo dei limiti alle loro pulsioni. Rispetto a Russell, però, che attribuisce gli effetti negativi del progresso solo all’irrazionalità umana, Freud ritiene che questi effetti derivino, in parte, dal progresso stesso della scienza e della civiltà.

4 Nella massa l’uomo perde la propria individualità

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Jaspers: la spersonalizzazione dell’uomo Lo sviluppo della scienza e della tecnica occupa il centro della polemica, ma con esso anche quelle che sembrano le conseguenze, o gli effetti collaterali, di questo sviluppo. Nel brano qui citato, del 1931, Jasper sottolinea come la tecnica e

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la produzione in serie spersonalizzino completamente il rapporto dell’uomo con ciò che egli consuma e usa. L’industria moderna fondata sulla tecnica e sulle merci non produce pezzi unici che abbiano caratteristiche specifiche e particolari che un individuo possa scegliere, ma tipi di oggetti, modelli ripetibili che tendono a uniformare il gusto e la vita degli individui. È il tema della massa, della ‘folla’ e della massificazione, che fa sicuramente parte dell’orizzonte problematico della critica del mondo moderno. L’individuo è funzionale Emersa alla fine del secolo precedente – ne è un’espressione anche il pensiero allo sviluppo filosofico di Nietzsche (vedi Unità 5, p. 182) –, la polemica sul nuovo peso e suldella tecnica la nuova importanza dell’elemento collettivo – della massa, appunto – per la società aveva trovato una prima espressione nel libro di Gustave Le Bon (18411931) La psicologia delle folle, pubblicato nel 1895, che aveva richiamato anche l’attenzione di Freud. L’opera di Le Bon ha una grande influenza anche perché mostra il peso dell’elemento collettivo nei comportamenti individuali, che ne sono in sostanza dipendenti. È questo il tema affrontato nel seguente brano da Jaspers, che mostra così un ulteriore aspetto della spersonalizzazione dell’individuo nel mondo moderno: la tecnica e l’industria hanno bisogno di individui funzionali al loro sviluppo e al loro funzionamento. L’esistenza di ciascuno è puramente strumentale ai fini della produzione industriale e l’individuo perde le caratteristiche che ne fanno un essere diverso da tutti gli altri, esattamente come accade ai prodotti della società industriale: questi sono oggetti in serie, che non hanno valore in se stessi e che sono facilmente sostituibili.

T3

La tecnica e la massa

K. Jaspers, La situazione spirituale del nostro tempo

La tecnica porta alla vita quotidiana la soddisfazione assicurata dei suoi bisogni, ma in un modo che ne diminuisce il piacere, perché lo si aspetta come una cosa evidente, e non lo si prova positivamente come soddisfazione. Tutto è pura merce, negoziabile sul momento in cambio di denaro; non c’è più nulla che abbia il colore di un prodotto personale. Si producono gli oggetti d’uso in serie, li si utilizza e poi li si butta via; li si cambia con facilità. La tecnica non cerca la qualità unica e preziosa, l’oggetto prezioso che trascenda la moda inserendosi in una vita personale, che sia circondato di cure e venga riparato quando è necessario. […] L’uomo, in quanto appartiene alla massa, non è più lui. La massa è prima di tutto un elemento dissolvente: nella misura in cui le appartengo, c’è in me una volontà che non è la mia. D’altra parte, la massa isola l’individuo e ne fa un atomo in balia del suo appetito d’esistenza; essa riposa sulla finzione dell’uguaglianza di tutti. Ed è precisamente nel momento in cui nessuno è più se stesso che diviene possibile il paragone fra gli uomini; nella misura in cui sono se stessi, invece, non sono paragonabili. Quello che possiede l’altro, vorrei possederlo anch’io; quello che può l’altro, avrei potuto farlo anch’io. È il regno segreto dell’invidia, e nello stesso tempo del desiderio, che porta gli uomini ad essere felici se si assicurano un possesso più esteso e una considerazione più grande. Oggi questo inevitabile effetto della massa è ancora più accentuato dal complicato gioco delle articolazioni della società industriale. La massa estende il suo dominio perfino nelle attività particolari e nel modo di vita degli individui. Ognuno si trova costretto, in ragione di una necessità vitale, a compiere una funzione che possa servire in qualche modo la massa. La massa e il meccanismo che essa si è forgiato sono oggetti del nostro interesse più vitale. Essa è il nostro pa629

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

drone, costituisce, per tutti quelli che non si illudono, il dominio da cui la loro esistenza dipende in modo totale e nel quale si iscrivono le loro attività, le loro cure e i loro obblighi. Jaspers dà, così, una valutazione drasticamente negativa del progresso tecnologico: le sue conseguenze per i singoli individui sono la perdita della personalità e della libertà.

5 Le scienze trascurano il problema del senso dell’esistenza umana

T4

Le scienze e l’esistenza umana

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale

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Husserl: la crisi delle scienze europee L’idea che il sapere che si è sviluppato nella tradizione scientifica occidentale sia un sapere insufficiente e limitato per le reali esigenze dell’uomo viene affermata anche da Husserl, il fondatore della fenomenologia, nell’ultima fase della sua riflessione, e in particolare nell’opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, alla quale lavora tra il 1935 e il 1937. Le scienze – sostiene Husserl – in realtà non si occupano di ciò che è davvero importante nella vita degli uomini, ed è questo elemento che spiega il sorgere di un atteggiamento critico nei loro confronti. La questione dell’esistenza umana e del senso di questa esistenza viene infatti completamente trascurata dalle discipline scientifiche, e non solo. Le stesse «scienze dello spirito», cioè le discipline storico-sociali che hanno per oggetto il mondo umano (vedi Unità 6, p. 249 ss.), in nome della scientificità rimangono, come le scienze della natura, confinate in un sapere che dal punto di vista della vita umana e degli interrogativi maggiori che essa si pone è sterile: le vicende storiche, in questo modo, sembrano semplicemente mostrare il carattere transitorio ed effimero di tutte le vicende umane. Questa sterilità delle scienze della natura e delle scienze dello spirito non può che generare insoddisfazione: le scienze dello spirito assumono nei confronti del mondo umano storico e sociale che è il loro oggetto di studio lo stesso atteggiamento neutrale, puramente descrittivo, che le scienze della natura hanno nei confronti dei fenomeni naturali. Le une e le altre si limitano a descrivere fatti – siano essi relativi al mondo naturale o allo spirito – e non si pongono affatto il problema di capire se le vicissitudini umane abbiano o non abbiano un significato. Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla «prosperity» che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Il rivolgimento dell’atteggiamento generale del pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più recente generazione esso si è trasformato addirittura in uno stato d’animo ostile. Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso o del non-

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Percorso tematico Immagini critiche della scienza e della tecnica

senso dell’esistenza umana nel suo complesso. Questi problemi, nella loro generalità e nella loro necessità, non esigono forse, per tutti gli uomini, anche considerazioni generali e una soluzione razionalmente fondata? In definitiva essi concernono l’uomo nel suo comportamento di fronte al mondo circostante umano ed extra-umano, l’uomo che deve liberamente scegliere, l’uomo che è libero di plasmare razionalmente se stesso e il mondo che lo circonda. Che cos’ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto. Per quanto riguarda, d’altra parte, le scienze dello spirito, che pure, in tutte le loro discipline particolari e generali, considerano l’uomo nella sua esistenza spirituale, cioè nell’orizzonte della sua storicità, la loro rigorosa scientificità, si dice, esige che lo studioso eviti accuratamente qualsiasi presa di posizione valutativa, tutti i problemi concernenti la ragione o la non ragione dell’umanità tematizzata e delle sue formazioni culturali. La verità scientifica obiettiva è esclusivamente una constatazione di ciò che il mondo, sia il mondo psichico sia il mondo spirituale, di fatto è. Ma in realtà, il mondo e l’esistenza umana possono avere un senso se le scienze ammettono come valido e come vero soltanto ciò che è obiettivamente constatabile, se la storia non ha altro da insegnare se non che tutte le forme del mondo spirituale, tutti i legami di vita, gli ideali, le norme che volta per volta hanno fornito una direzione agli uomini, si formano e poi si dissolvono come onde fuggenti, che così è sempre stato e sempre sarà, che la ragione è destinata a trasformarsi sempre di nuovo in non-senso, gli atti provvidi in flagelli? Possiamo accontentarci di ciò, possiamo vivere in questo mondo in cui il divenire storico non è altro che una catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni?

6 Le applicazioni del sapere scientifico possono danneggiare l’uomo

Einstein: vantaggi e pericoli della scienza Anche uno dei maggiori scienziati di tutti i tempi, Einstein, esprime la propria preoccupazione per le possibili applicazioni della scienza. La scienza ha grandi potenzialità che potrebbero essere utilizzate per il benessere collettivo, ma i notevoli sviluppi scientifici avuti negli ultimi decenni contengono anche dei rischi, che Einstein individua – in un intervento del 1935 – negli effetti della meccanizzazione sul mondo del lavoro, nella nuova disponibilità di armi sofisticate e nei rischi connessi all’informazione e alla nuova capacità di manipolare le coscienze. Se è vero che le scoperte scientifiche e le invenzioni che esse hanno reso possibili hanno apportato numerosi benefici alla vita dell’uomo, è altrettanto vero – ad avviso di Einstein, come già di Russell e di Freud – che il progresso può avere conseguenze negative. Innanzitutto, i processi di produzione si sono automatizzati; quindi, per produrre i beni di consumo è necessario il lavoro di un numero molto minore di individui rispetto al passato. In secondo luogo, sono stati creati strumenti e armi di distruzione molto potenti, che mettono in grave pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana. Infine, si è notevolmente ridotta la libertà dell’individuo in una società, qual è quella contemporanea, che dispone di numerosi mezzi di informazione e di diffusione della conoscenza. 631

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T5

Tre pericoli della scienza contemporanea A. Einstein, Scienza e società

L’effetto pratico più appariscente della scienza è il fatto che essa rende possibile l’invenzione di cose che arricchiscono la vita, anche se nel contempo la complicano: invenzioni quali la macchina a vapore, le ferrovie, l’energia e la luce elettrica, il telegrafo, la radio, l’automobile, l’aeroplano, la dinamite, e così via. A queste dobbiamo aggiungere le scoperte della biologia e della medicina in difesa della vita e, in particolare, la produzione di preparati per alleviare il dolore e i metodi di conservazione dei generi alimentari. Il beneficio pratico maggiore che tutte queste invenzioni apportano all’uomo lo vedo nella liberazione da quell’ingrato lavoro muscolare che un tempo era indispensabile già per la sola sopravvivenza. Possiamo affermare che se oggi la schiavitù è stata abolita lo dobbiamo alle conseguenze pratiche della scienza. D’altra parte la tecnologia, o scienza applicata, ha posto l’uomo di fronte a problemi di estrema gravità cui urge trovare una soluzione soddisfacente, se non si vuole mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Si tratta di creare un nuovo tipo di organizzazione sociale e una nuova cultura per evitare che il progresso tecnologico ci porti alla catastrofe. L’automazione, in un’economia non organizzata, ha avuto come risultato il fatto che buona parte dell’umanità non è più necessaria per la produzione di beni, venendo così a trovarsi esclusa dal processo della circolazione economica. Di qui, come prima conseguenza, la perdita secca del potere d’acquisto e la svalutazione del lavoro a causa dell’eccessiva concorrenza, fattori, questi, che a loro volta producono, a tempi sempre più ravvicinati, la paralisi nella produzione di beni. La proprietà dei mezzi di produzione, d’altra parte, conferisce un potere contro il quale le salvaguardie rappresentate dalle nostre tradizionali istituzioni politiche sono inadeguate. L’umanità è coinvolta in una lotta per l’adattamento alle nuove condizioni: lotta che potrà portare alla vera liberazione se la nostra generazione si mostrerà all’altezza del compito. La tecnologia ha anche accorciato le distanze, e creato mezzi nuovi e straordinariamente efficaci di distruzione, che nelle mani di nazioni che proclamano un’illimitata libertà d’azione diventano delle minacce alla sicurezza e all’esistenza stessa dell’umanità […]. Anche in questo caso ci troviamo nel mezzo di una lotta il cui esito deciderà il destino di tutti noi. Infine, i mezzi d’informazione (di riproduzione a stampa della parola, o di diffusione, come la radio), combinati con le armi moderne, hanno dato la possibilità di ridurre anima e corpo in schiavitù di un’autorità centrale, e ciò rappresenta una terza fonte di pericolo per l’umanità. Le moderne tirannidi, con la loro opera nefasta, mostrano chiaramente quanto lontani si sia da una utilizzazione razionale di queste scoperte per il benessere dell’umanità. Le scoperte scientifiche e l’avanzamento tecnologico non sono intrinsecamente negativi: ciò che può renderli tali è l’uso che ne viene fatto.

7

Horkheimer: sapere scientifico e ideologia borghese In certi casi, infine, l’atteggiamento critico verso il sapere moderno e la ragione moderna vede entrambi come strettamente legati e dipendenti da una determinata forma di organizzazione economica e sociale: la società borghese e il modo

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Percorso tematico Immagini critiche della scienza e della tecnica

Il sapere scientifico è strumento della classe borghese

Critica dell’esaltazione della scienza

T6

La scienza fa parte della società

M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale

di produzione capitalistico già indagato da Marx (vedi Unità 4, p. 151 ss.) e dalla tradizione marxista (vedi Unità 14, p. 566 s.). Marx, in realtà, aveva una concezione cumulativa dello sviluppo economico e tecnico, tanto che riconosceva pienamente la funzione positiva esercitata dal capitalismo e dalla borghesia nella storia: è in grazia di questo sviluppo che si può pensare, per Marx, al passaggio verso una società più giusta. Ben distanti dall’ottimismo di Marx, alcuni intellettuali fortemente influenzati dal marxismo, come Horkheimer e Adorno – i rappresentanti della cosiddetta «Scuola di Francoforte» –, ritengono che la stessa forma di ragione scientifica e tecnica che si è sviluppata a partire dal primo emergere di una classe borghese – nell’Inghilterra del Seicento – sia stata funzionale alle strategie di dominio di questa classe e abbia segnato profondamente il processo storico del mondo moderno e contemporaneo. È, questa, una delle tesi portanti del libro Dialettica dell’illuminismo, scritto negli anni quaranta da Horkheimer e Adorno; negli stessi anni Horkheimer tiene un ciclo di lezioni alla Columbia University che poi pubblicherà (nel 1947) con il titolo Eclissi della ragione. Horkheimer è critico nei confronti dell’esaltazione della scienza fatta dai «positivisti» suoi contemporanei (cioè i neopositivisti, vedi Unità 16, p. 719 ss.): scienza e tecnica pretendono di costituire il vero motore del progresso, ma in realtà esse sono strumento della società e della produzione economica capitalistica. È da questa prospettiva che ne va valutato il carattere positivo o negativo. Non è possibile, osserva Horkheimer, stabilire a priori se la scienza promuova lo sviluppo della società o, al contrario, sia di impedimento ad esso. Questa impossibilità dipende dal fatto – trascurato dai neopositivisti – che la scienza è tutt’altro che autonoma rispetto alla società e, in particolare, ai modi di produzione che la caratterizzano: il contenuto delle teorie scientifiche, la suddivisione del sapere scientifico in discipline specifiche, i metodi usati nella ricerca e i suoi stessi fini sono determinati dall’organizzazione sociale ed economica di cui la scienza è strumento. Oggi quasi tutti sono d’accordo nel ritenere che la società non ha perso nulla con il declino del pensiero filosofico, perché uno strumento di conoscenza assai più potente ha preso il suo posto: il pensiero scientifico. Si sente spesso dire che tutti i problemi affrontati dalla filosofia o sono privi di senso o si possono risolvere con i moderni metodi sperimentali. In effetti, una delle tendenze predominanti della filosofia moderna è quella di passare alla scienza, perché lo esegua, tutto il lavoro lasciato incompiuto dalla speculazione tradizionale. Questa tendenza all’ipostatizzazione della scienza caratterizza tutte le scuole chiamate oggi positiviste. […] Secondo i positivisti, quel che ci occorre è una profonda fiducia nella scienza. Naturalmente i positivisti sono consapevoli degli impieghi distruttivi che si vanno facendo di quest’ultima, ma affermano che essi rappresentano un pervertimento della scienza. È vero? Il progresso oggettivo della scienza e della sua applicazione, la tecnica, non giustifica l’opinione corrente che la scienza sia distruttiva solo quand’è distolta dai suoi veri fini e necessariamente costruttiva quando è intesa nel modo giusto. Certo della scienza si potrebbero fare impieghi migliori; non è però affatto certo che la via verso la realizzazione delle potenzialità costruttive della scienza sia quella ch’essa stessa percorre oggi. I positivisti sembrano dimenticare che la scienza naturale così come essi la concepiscono è soprattutto uno strumento ausi633

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liario della produzione, uno dei molti elementi del processo sociale. È quindi impossibile stabilire a priori quale parte la scienza giochi nel progresso o regresso della società: i suoi effetti da questo punto di vista sono positivi o negativi come la funzione ch’essa assume nell’andamento generale del processo economico. La scienza oggi, la sua differenza da altre forze e attività intellettuali, la sua suddivisione in campi specifici, i suoi procedimenti, i suoi contenuti, la sua organizzazione possono essere compresi solo in rapporto alla società al cui servizio essa funziona. La dottrina positivista, che considera lo strumento «scienza» come l’automatico campione del progresso, è fallace come qualunque altra glorificazione della tecnica. La tecnocrazia economica si attende tutto dall’emancipazione degli strumenti materiali di produzione; e se Platone voleva mettere a capo del suo stato ideale i filosofi, i tecnocrati vorrebbero che la società fosse governata dagli ingegneri. Il positivismo è tecnocrazia filosofica; per esso, il requisito essenziale a chi voglia far parte degli organi dirigenti è una fede incrollabile nella matematica. Dunque, se Jaspers sottolineava il carattere strumentale dei singoli individui rispetto allo sviluppo e alla produzione tecnologica e industriale, Horkheimer insiste sulla dipendenza della scienza dalla società. Diversamente, poi, da Russell e da Einstein – che distinguono il sapere scientifico dagli usi che ne vengono fatti – e da Husserl – che esprime un giudizio negativo su tutte le scienze (naturali e storico-sociali) –, Horkheimer sostiene che la valutazione della scienza richiede un’attenta analisi del contesto economico e sociale del quale essa fa parte.

I brani antologizzati sono tratti da: B. Russell, Icaro o il futuro della scienza, trad. in M. Nacci (a cura di), Tecnica e cultura della crisi 1914-1939, Loescher, Torino 1982, pp. 188-189. S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 147. S. Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, cit., pp. 250, 280. K. Jaspers, La situazione spirituale del nostro tempo, trad. in M. Nacci (a cura di), Tecnica e cultura della crisi 1914-1939, cit., pp. 341, 347. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1987, par. 2. A. Einstein, Scienza e società, in Id., Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Milano 1988, pp. 608-609. M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969, pp. 55-56.

Questionario 1

Qual è, secondo Russell, la fonte dei rischi che il progresso della scienza comporta per la vita degli esseri umani? (max 1 riga)

In che cosa consiste, secondo Freud, l’ambiguità del progresso? (max 5 righe) 634

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Quale valutazione viene data da Einstein della scienza e delle sue applicazioni pratiche? (max 5 righe)

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Spiega in un massimo di 6 righe la differenza tra l’atteggiamento di Husserl e quello di Horkheimer nei confronti della scienza.

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein 1. L’empirismo e la filosofia analitica 2. Moore 1. La difesa del senso comune 2. L’analisi dell’etica 3. La fallacia naturalistica 4. I criteri della condotta 3. Russell 1. La logica 2. L’epistemologia 3. L’impegno politico e la riflessione etica

4. Wittgenstein 1. Il linguaggio e il mondo 2. Logica, scienza e filosofia 3. Le Ricerche filosofiche

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

L’empirismo e la filosofia analitica

1 L’empirismo del Novecento

Lo stretto legame tra indagine scientifica e filosofica

La filosofia come analisi del linguaggio

Termini ed enunciati

La centralità della logica

➥ Sommario, p. 666

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Ricollegandosi all’esperienza del positivismo ottocentesco, l’empirismo rinasce agli inizi del Novecento in contrapposizione alla filosofia speculativa del neoidealismo. Sarebbe tuttavia un errore ridurre l’empirismo novecentesco soltanto a questo aspetto di reazione. In parallelo alla crescita delle scienze naturali e sociali, l’empirismo si sviluppa in modo autonomo, fino a diventare uno dei tratti prevalenti della filosofia del Novecento. Aspetto caratteristico dell’empirismo novecentesco è la costante attenzione rivolta alla scienza. I filosofi che si richiamano all’empirismo ritengono che la filosofia non possa prescindere dai risultati della scienza, e che, come la scienza insegna, solo l’esperienza possa costituire la conferma delle congetture teoriche. Come nel positivismo ottocentesco, l’esperienza viene assunta come il punto di riferimento della filosofia, in modo da eliminare le questioni della metafisica tradizionale. L’aspetto che maggiormente distingue l’empirismo del Novecento dal positivismo ottocentesco è l’attenzione al linguaggio. La filosofia dell’empirismo intende essere rigorosa e chiara e aspira al controllo intersoggettivo dei suoi risultati; ma il pensiero e i concetti, su cui la filosofia si trova a riflettere, non sono direttamente osservabili e si sottopongono quindi con difficoltà al controllo intersoggettivo. Il linguaggio con cui il pensiero viene espresso è, invece, direttamente osservabile: esso può essere udito come segno sonoro e osservato come segno scritto. La filosofia dei padri dell’empirismo novecentesco si concentra allora sulla chiarificazione del pensiero attraverso l’analisi del linguaggio in cui esso viene espresso. In quanto analisi del linguaggio e del significato, questo modo di concepire e praticare la filosofia è detto «filosofia analitica». Essa non è tuttavia una scuola, non ha in comune un nucleo dottrinario o dei contenuti definiti, è invece un modo di fare filosofia, uno ‘stile’: quello che si concentra sull’analisi concettuale e linguistica. Il fenomeno del linguaggio si trova così a essere oggetto di un’attenzione privilegiata. Il linguaggio è composto di termini (nomi o predicati), e i termini possono essere messi in relazione fra loro per comporre degli enunciati. Gli enunciati sono espressioni linguistiche dotate di significato, e possono assumere differenti tipologie: possono essere enunciati dichiarativi, come «la porta è chiusa», enunciati imperativi, come «chiudi la porta!», enunciati esclamativi, come «Oh, se la porta fosse chiusa!», enunciati interrogativi, come «è chiusa la porta?», e così via. L’enunciato dichiarativo viene chiamato «asserzione» o «proposizione»: esso è o vero o falso. Al contrario, gli altri tipi di enunciati che abbiamo citato non possono essere né veri né falsi, così come non lo sono i termini presi singolarmente. Proprio in conseguenza di questa attenzione per il fenomeno del linguaggio, un altro aspetto caratteristico della filosofia dell’empirismo è l’attenzione per la logica come disciplina che studia le regole di deduzione e di implicazione tra gli enunciati. La filosofia dell’empirismo novecentesco si caratterizza quindi come una filosofia che riprende dalla logica alcuni strumenti fondamentali, e che assume la logica come modello di rigore e chiarezza. Essa è, dunque, fin dal suo inizio con Moore, Russell e Wittgenstein, una filosofia logico-linguistica.

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein

Moore

2 I testi

G.E. Moore La prova dell’esistenza del mondo esterno: L’esistenza degli oggetti esterni, T1 Natura e realtà degli oggetti della percezione: Colore, forma, spazialità, T2

Principia Ethica: La chiarificazione dei problemi filosofici, T3; La domanda fondamentale dell’etica, T4; L’indefinibilità di «buono», T5; L’irriducibilità di «buono», T6; Buono come mezzo e buono in se stesso, T7 Etica: La critica filosofica dell’edonismo, T8

Due filosofi formatisi nella Cambridge di fine Ottocento sono ritenuti i padri fondatori della filosofia analitica: George Edward Moore e Bertrand Russell.

La vita George Edward Moore nacque nei dintorni di Londra nel 1873; studiò e intraprese la carriera universitaria a Cambridge, dove fu compagno di studi di Russell e conobbe Wittgenstein. A Cambridge rimase pressoché per tutta la vita: vi insegnò ininterrottamente dal 1911 al 1939 e, dopo una parentesi all’università di New York Filosofo della morale e della conoscenza

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durante la Seconda guerra mondiale, vi soggiornò fino al 1958, anno della morte. La sua grande influenza filosofica è dovuta, oltre che agli scritti pubblicati, all’attività di insegnante nonché alle numerose conversazioni seminariali e ai dibattiti ristretti cui prese parte con alcune delle personalità filosofiche più significative del tempo.

Moore è uno dei più importanti filosofi morali del Novecento. La sua riflessione sull’etica e sul significato dei termini morali diventa infatti punto di riferimento della filosofia morale successiva. Ma importante è anche la sua riflessione gnoseologica, all’interno della quale si esplicita il richiamo al senso comune e la critica alla filosofia dell’idealismo, tratti predominanti della rinascita dell’empirismo novecentesco.

La difesa del senso comune

Fin dai primi scritti di carattere epistemologico e di teoria della conoscenza, Moore polemizza con la concezione dell’idealismo predominante nella filosofia inglese del tempo, per l’influenza di pensatori come Francis H. Bradley, Thomas Green e John E. MacTaggart, insegnante di Moore al Trinity College; si tratta di una concezione su cui Moore si era formato e che inizialmente aveva fatto propria. Per Bradley, il mondo che è percepito dai sensi e che è composto da una pluralità di oggetti posti in relazioni spazio-temporali è solo apparenza e nasconde una realtà ultima che è un’unità assoluta, non soggetta a relazioni. Il realismo concettuale Moore critica la tesi di Bradley (e prima ancora di Berkeley) secondo cui «ogni cosa che è, è qualcosa di mentale», cioè la tesi per cui ciò che esiste si riduce a ciò che viene percepito dalla coscienza (esse est percipi). Nella Natura del giudizio, del 1899, in reazione all’idealismo, Moore sostiene addirittura che gli stessi concetti, «i possibili oggetti di pensiero», hanno una esistenza reale, indipenLa critica dei neoidealisti inglesi

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La distinzione tra coscienza e oggetto ➥ Laboratorio sul lessico, Oggettivo / soggettivo, p. 469

L’impostazione realistica

L’evidenza dell’esperienza quotidiana

La difesa del senso comune

T1

L’esistenza degli oggetti esterni G.E. Moore, La prova dell’esistenza del mondo esterno

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dente da chi li pensa, dato che «è indifferente alla loro natura che qualcuno li pensi o meno»; questa tesi va sotto il nome di «realismo concettuale». Essa è attenuata però già nella Confutazione dell’idealismo, del 1903: qui Moore non parla più di un’esistenza reale dei concetti, ma si limita a obiettare all’idealismo che l’oggetto della percezione non si può ridurre al soggetto, dato che continua a esistere anche se nessuno lo percepisce. Soggetto e oggetto devono quindi essere accuratamente distinti: nella sensazione di un colore non è contenuta solo la coscienza soggettiva del colore, ma anche qualcosa di più, cioè l’oggetto della coscienza, ossia il colore; non si potrebbero altrimenti distinguere sensazioni diverse, come quella del colore blu o quella del colore verde, che hanno in comune l’elemento della coscienza, ma non l’oggetto della coscienza. Osserva Moore: «In ogni sensazione vi sono […] due elementi distinti, uno chiamato coscienza e l’altro chiamato oggetto della coscienza. Deve essere effettivamente così, se la sensazione del blu e quella del verde, per quanto diverse sotto un aspetto, risultano simili sotto un altro: il blu è un oggetto della sensazione e il verde un altro, e la coscienza, che entrambe le sensazioni hanno in comune, è differente sia dal primo, sia dal secondo». All’idealismo Moore contrappone quindi un’impostazione di carattere realistico, che nei suoi tratti fondamentali rimane un punto di riferimento costante del suo pensiero: l’essere non si riduce all’essere percepito, ma è dotato di una realtà indipendente rispetto alla coscienza soggettiva. In questo modo, secondo Moore, si può uscire dal dubbio scettico e dalla convinzione idealistica che tutto si riduca alla coscienza soggettiva: avere una sensazione di qualcosa è già uscire fuori dalla soggettività. L’esperienza quotidiana è dotata di un’evidenza che può essere assunta come criterio risolutore dei dubbi scettici: «non si pone nessun problema – scrive – circa il modo in cui possiamo “uscire dal cerchio delle nostre idee e sensazioni personali”. Avere semplicemente una sensazione è già essere fuori di quel cerchio. Significa conoscere qualcosa che, in realtà, non è una parte della mia esperienza, come qualsiasi cosa che posso conoscere». Questa strategia di difesa del senso comune viene ulteriormente sviluppata negli scritti successivi. Così nei saggi Alcuni principali problemi della filosofia (19101911, ma pubblicato nel 1953), In difesa del senso comune (1925), e La prova dell’esistenza del mondo esterno (1939), Moore difende le principali verità implicite nel modo comune di concepire il mondo. Che ci siano oggetti materiali nello spazio, i quali esistono anche quando non sono percepiti, che ci siano atti di coscienza soggettivi nel tempo, che in generale esista un mondo esterno e altri esseri del tutto simili a noi, sono convinzioni che non hanno bisogno di una prova particolare per essere vere. Sono infatti percepite come verità certe e autoevidenti: non abbiamo dubbi sull’esistenza di una sedia dietro di noi o delle nostre mani; basta mostrarle per togliere ogni dubbio. Come afferma nella Prova dell’esistenza del mondo esterno: Mi sembra ben lungi dall’essere vero – come Kant afferma di ritenere – che ci sia una sola prova possibile dell’esistenza di cose al di fuori di noi, e precisamente quella che egli stesso ha fornito; io sono ora perfettamente in grado di offrire un gran numero di prove differenti, ciascuna delle quali è una dimostrazione compiutamente rigorosa; e credo, altresì, di essere stato in grado in molte oc-

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casioni di offrire molte altre prove. In questo momento, io sono perfettamente in grado di dimostrare, per esempio, che esistono due mani umane. Come? Tenendo levate le mie due mani e dicendo, mentre faccio un certo gesto con la mia mano destra, «Ecco qui una mano», e poi aggiungendo, mentre faccio un gesto con la sinistra, «Ed ecco qui un’altra mano». E se, facendo ciò, io ho anche dimostrato ipso facto l’esistenza di cose esterne, vedete bene che io sono ora in grado di ripetere la prova in numerosi altri modi: non c’è nessun bisogno di moltiplicare gli esempi. L’inferenza dai dati sensoriali agli oggetti

T2

Colore, forma, spazialità G.E. Moore, Natura e realtà degli oggetti della percezione

Il contenuto della percezione

Un problema che si apre nell’impostazione gnoseologica di Moore è quello di determinare che cosa è il contenuto della percezione. Se nei primi saggi egli sosteneva che contenuto della percezione fossero direttamente gli oggetti, a partire dal 1905 giunge alla conclusione che contenuto della percezione non sono gli oggetti, ma solo dei contenuti sensibili: i cosiddetti «dati sensoriali», per esempio le forme, i colori, le relazioni spaziali. Quando si osserva qualcosa, per esempio un libro su di uno scaffale, non si percepisce subito l’oggetto, ma solo un insieme di sensazioni riconducibili all’oggetto, per esempio un colore di una determinata forma e dimensione, che sta in una relazione spaziale tridimensionale con altri colori di determinate forme e dimensioni. Solo successivamente, sulla base di questi dati sensoriali, viene inferita l’esistenza degli oggetti, stabilendo per esempio che una forma di un determinato colore e dimensione costituisce la copertina di un libro. Alla maggior parte di noi è familiare l’esperienza che descriveremmo con il dire che abbiamo visto un libro rosso o un libro blu l’uno accanto all’altro sullo scaffale. Ma che cosa esattamente osserviamo o percepiamo quando abbiamo questa esperienza? Certamente osserviamo un colore che chiamiamo blu e un differente colore che chiamiamo rosso; osserviamo anche che ognuno di questi colori ha dei lati particolari ed una certa forma; e osserviamo inoltre che queste due macchie colorate hanno tra loro la relazione spaziale che esprimiamo con il dire che sono l’una accanto all’altra. Tutto ciò certamente vediamo e percepiamo direttamente ora, qualunque possa essere stato il processo mediante il quale siamo giunti a percepirlo. Ma quando noi diciamo, come faremmo nel discorso ordinario, che gli oggetti che percepiamo sono dei libri, certamente intendiamo attribuire ad essi delle proprietà che, in un senso che tutti intendiamo, non sono effettivamente viste da noi nel momento in cui stiamo semplicemente guardando ai due libri su uno scaffale due yards più in là. E si tratta di tutte proprietà per le quali intendo escludere che siano direttamente osservate o percepite da noi. Quando io parlo di ciò che osserviamo quando noi vediamo due libri su di uno scaffale, intendo limitare l’espressione a ciò che vediamo effettivamente. Ed intesa in questo modo l’espressione include i colori, i lati e la forma dei colori e le relazioni spaziali in tre dimensioni tra queste macchie di colore, ma non include null’altro. Tuttavia, questi dati sensoriali devono essere distinti dalle semplici ‘sensazioni’ soggettive: essi non sono le sensazioni ma l’oggetto delle sensazioni, non sono il vedere, ma ciò che è veduto. Dunque, il contenuto della percezione consiste nei dati sensoriali stessi: essi sono distinti dalla coscienza che li percepisce e sono costituiti essenzialmente da colori, forme, relazioni spaziali. Sebbene l’imposta639

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zione realistica originaria venga nel corso degli anni attenuata, non scompare mai in Moore l’atteggiamento critico verso la riduzione del mondo esterno alla coscienza operata dall’idealismo.

2 L’origine dello stile ‘analitico’

T3

La chiarificazione dei problemi filosofici G.E. Moore, Principia Ethica

L’analisi dell’etica Moore dedica all’etica due libri: Principia Ethica (1903), ed Etica (1912), che riprende e approfondisce le tesi sostenute nel primo lavoro. È con Principia Ethica che prende avvio il nuovo stile nel trattare le questioni della filosofia morale e più in generale della stessa filosofia, il cosiddetto stile ‘analitico’, centrato sull’analisi del linguaggio e ispirato a criteri di rigore, chiarezza e semplicità. Secondo Moore, scopo dell’etica non è solo indicare cosa dobbiamo fare, cioè fornire i criteri per giudicare le azioni e le persone, ma anche analizzare il significato dei termini morali, al fine di eliminare errori e confusioni. Compito della filosofia è chiarire le domande a cui deve essere data risposta e fare un attento lavoro di analisi e di distinzione concettuale: se questo compito si realizzasse pienamente, ad avviso di Moore, potrebbero essere risolte molte delle più complesse questioni della filosofia. Così si apre Principia Ethica: Io ritengo che le difficoltà e i dissensi di cui la storia dell’etica è piena come quella di tutti gli altri campi della filosofia siano dovuti principalmente a una causa molto semplice: al fatto, cioè, che spesso si tenta di rispondere a una domanda senza prima chiarire precisamente quale sia la domanda cui si vuol dare risposta. Non so fino a che punto questa fonte di errore avrebbe potuto essere neutralizzata se i filosofi avessero almeno cercato di scoprire quale era la domanda che si ponevano, prima di mettere mano a rispondervi; il lavoro di analisi e di distinzione è spesso molto difficile, e capita sovente che non si riesca a scoprire quello che ci occorre, anche se si sia fatto un ben definito tentativo di arrivarci. Ma tendo a credere che in molti casi un tentativo risoluto sarebbe sufficiente ad assicurare il successo; sicché, se solo un tale tentativo si facesse, molte delle più manifeste difficoltà e dissensi che si incontrano in filosofia potrebbero sparire.

Se si applica alla morale questo compito di analisi e di distinzione, si nota come la domanda fondamentale dell’etica – «che cosa è buono?» – possa assumere due significati diversi, da tenere ben distinti. Con essa si può intendere: «quale cosa è buona?» (o «quali cose sono buone?»); e in questo caso l’etica specifica i criteri generali in base ai quali giudichiamo che certe cose sono buone (mentre non è ritenuto compito dell’etica proporre un elenco delle cose buone, come fa invece la casistica): l’etica definisce i principi generali e lascia al soggetto determinare la loro applicazione alle circostanze. Ma si può intendere anche: «qual è il significato di “buono”?». Secondo Moore, questo secondo aspetto della domanda è stato troppo spesso trascurato, e ciò ha portato a errori e incomprensioni che si sarebbero invece potuti evitare, se i due sensi fossero stati distinti. La distinzione tra etica Entrambe le domande appartengono all’etica, ma questi due livelli non vanno normativa e metaetica confusi: una parte dell’etica (quella che sarà poi chiamata «etica normativa»), si occupa di definire i criteri della valutazione morale, in base ai quali stabilire quali azioni sono giuste e quali sono i nostri doveri. Un’altra parte dell’etica I significati di «buono»

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(quella che sarà poi chiamata «metaetica», in quanto riflessione sull’etica, ma non direttamente riflessione etica) si interroga sul significato dei termini e degli enunciati morali indipendentemente da quale particolare concezione etica venga sostenuta. Questo è il passo in cui la distinzione viene per la prima volta esplicitata; passo che può essere considerato il luogo di nascita della metaetica del Novecento. Che cosa si intende, si chiede Moore, ponendoci la domanda «che cosa è buono?»

T4

La domanda fondamentale dell’etica G.E. Moore, Principia Ethica

Il «buono» come qualità semplice e l’intuizionismo

T5

L’indefinibilità di «buono» G.E. Moore, Principia Ethica

Può darsi che si voglia domandare non quale cosa o quali cose siano buone, ma come si debba definire «buono». Questa è una ricerca che appartiene solo all’etica e non alla casistica; ed è di questo che ci occuperemo anzitutto. Si tratta di un’indagine che merita una attenzione specialissima; giacché questo problema, di come «buono» vada definito, è il problema più fondamentale di tutta l’etica. Ciò che «buono» significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo oggetto semplice di pensiero che appartenga peculiarmente all’etica. La sua definizione, di conseguenza, è il punto essenziale nella definizione dell’etica; e inoltre un errore su questo punto porta con sé un numero di giudizi etici errati di gran lunga più grande che qualsiasi altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa e non se ne vede chiaramente la risposta, tutto il resto dell’etica ha un valore praticamente nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica. Fatta questa distinzione, Moore separa la parte dedicata all’analisi del termine «buono» da quella direttamente propositiva, quella cioè che fissa (1) quali siano i principi che devono guidare la condotta e (2) quali cose siano dotate di valore in se stesse (su questa parte ci soffermeremo nel prossimo paragrafo). L’analisi del concetto di «buono» porta a chiarire che «buono» è un termine semplice, poiché non è scomponibile in parti in cui può essere ulteriormente analizzato. Questo equivale per Moore a dire che è un termine indefinibile, dato che solo i termini complessi possono essere ulteriormente analizzati in parti, e quindi, secondo la particolare concezione della definizione utilizzata da Moore, definiti attraverso l’enumerazione delle loro parti. Il termine «buono» è come il termine «giallo», il quale non può essere ulteriormente analizzato, non come il termine «cavallo», che è definibile attraverso l’enumerazione delle qualità di questo animale. Secondo Moore, allora, per conoscere che qualcosa è buono non possiamo ricorrere ad alcuna definizione: ciò può soltanto essere appreso direttamente, attraverso l’intuizione; e «intuizionismo» viene appunto definita la concezione sostenuta da Moore. Ciò che sostengo è che «buono» è una nozione semplice, proprio come è una nozione semplice «giallo»; e che, come non c’è alcun mezzo di spiegare a qualcuno che già non lo sappia che cosa sia giallo, così non c’è modo di spiegargli che cosa sia buono. Definizioni della specie che io cercavo, che cioè descrivano la reale natura dell’oggetto o della nozione denotata da una parola e che non dicano semplicemente il significato che la parola ha comunemente, sono possibili soltanto quando l’oggetto o la nozione in questione sia qualcosa di complesso. Si può dare la definizione di un cavallo, perché un cavallo ha molte diverse proprietà e qualità, che, tutte, si possono enumerare. Ma quando si siano enumerate tutte, e quando si sia ridotto il cavallo ai suoi termini più semplici, questi ultimi a loro 641

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volta non potranno essere ulteriormente definiti. Essi sono semplicemente qualcosa che si pensa o si percepisce e la loro natura non può esser fatta conoscere per mezzo di alcune definizioni a chi non sia in grado di pensarli o percepirli. Tuttavia, l’analogia fra il termine «buono» e il termine «giallo» non è piena, perché «giallo» è una proprietà naturale, mentre «buono» è una proprietà che Moore considera non naturale.

3

La fallacia naturalistica

Un errore molto comune nelle concezioni etiche, secondo Moore, è quello di pensare che «buono» sia una proprietà definibile, e che questa definizione consista nel riferimento a qualche proprietà naturale, della quale «buono» può essere considerato sinonimo. Questo errore viene considerato da Moore un errore logico, cioè una fallacia, che consiste appunto nel definire, attraverso il ricorso a una proprietà naturale, un concetto che è invece indefinibile (in quanto è semplice): è la cosiddetta «fallacia naturalistica». Non si può dare alcuna definizione di un concetto etico. In questo modo Moore nega che i termini valutativi come «buono» possano essere definiti e tradotti attraverso termini o espressioni non valutative come, per esempio, «che procura benessere alla società», o «approvato da tutti», o «più evoluto»: non si può per esempio dire che «buono» significa «più evoluto». La «legge di Hume» Questa posizione di Moore si ricollega alla cosiddetta «legge di Hume» (in quane la separazione to sostenuta da Hume nel Trattato sulla natura umana), secondo la quale un dofatti-valori vere, cioè una prescrizione, non può essere derivato da un fatto, cioè da una descrizione, a meno di un errore logico. Non si può affermare, per esempio, che da➥ Tesi a confronto, p. 865 to che l’uomo ha certe caratteristiche naturali allora ne deriva che egli debba seguirle o assecondarle: essere in un certo modo non è un argomento valido per dover essere proprio in quel modo. Sia nella versione di Hume, sia nella critica di Moore alla fallacia naturalistica, ciò che emerge è la differenza di piani tra i fatti (il piano dell’essere) e i valori (il piano del dovere). Per Moore, il valore non deriva dall’essere ma deve essere appreso come tale (attraverso un’intuizione). L’indefinibilità dei termini valutativi

T6

L’irriducibilità di «buono» G.E. Moore, Principia Ethica

La critica delle principali concezioni etiche

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Un errore di questa specie si è sempre comunemente fatto circa il concetto di «buono». Può essere vero che tutte le cose che sono buone sono anche qualcosa d’altro, così come è vero che tutte le cose che sono gialle producono un certo tipo di vibrazione nell’aria. Ed è un fatto che l’etica cerca di scoprire quali sono tutte quelle altre qualità che appartengono a tutte le cose buone. Ma troppi filosofi hanno creduto di definire realmente il buono con l’enumerare semplicemente quelle altre qualità; pensando che tali qualità, di fatto, fossero semplicemente non «altre», ma assolutamente e interamente identiche alla «bontà». Propongo di chiamare tale punto di vista «fallacia naturalistica» e mi sforzerò di mostrarne l’insostenibilità. Nella fallacia naturalistica incorrono le principali concezioni etiche. Sia le etiche naturalistiche in senso stretto, che identificano «buono» con una proprietà naturale: come l’etica evoluzionistica di Spencer, che fa coincidere «buono» con

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein La «legge di Hume» Piano dei fatti

Piano dei valori

(o dell’essere)

(o del dover essere)

Descrizioni

Prescrizioni

Non si dà passaggio logico da un piano all’altro

ciò che è più evoluto; e come l’edonismo di Mill, che fa coincidere «buono» con ciò che è desiderato. Sia le etiche metafisiche, come quella di Green (o anche di Kant), che identificano «buono» con una proprietà soprasensibile e, in senso stretto, non naturale, come la volontà. L’argomento L’argomento che Moore utilizza contro tutte queste concezioni etiche è il cosiddella «domanda aperta» detto argomento della «domanda aperta». Se «buono» significasse ciò che è più evoluto o ciò che procura piacere ecc., diverrebbe privo di senso chiedere: «ciò è più evoluto, ma è buono?» oppure «ciò procura piacere, ma è buono?». Domande di questo tipo sono invece pienamente ammissibili, cioè aperte, e ciò dimostra l’errore di chi pretende di definire «buono» con una proprietà descrittiva, cadendo così nella fallacia naturalistica. L’etica come scienza «Buono» indica quindi una proprietà semplice, non naturale e non definibile attraverso il rimando ad altre proprietà, ma appresa attraverso un atto di intuizione. Proprio perché fondati su un’intuizione immediata, i giudizi morali sono portatori di una conoscenza genuina. Per questa ragione, l’etica è potenzialmente una conoscenza sistematica e può divenire una scienza: riprendendo, con una piccola variazione, un titolo di Kant, «ho tentato di scrivere – sostiene Moore – i “Prolegomeni a ogni etica futura che voglia presentarsi come scienza”».

4 Valore intrinseco e valore strumentale

I criteri della condotta Rispondere alla domanda «che cosa è buono?» non significa però solo chiedersi come «buono» possa essere definito, ma, come si è detto, anche quali cose siano buone. E appunto all’individuazione delle cose buone e dei criteri in base ai quali stabilire quando un’azione è giusta, o doverosa, Moore dedica grande attenzione. Tuttavia, come si è detto, non è compito dell’etica proporre direttamente un elenco delle cose buone, come fa invece la casistica, né è compito dell’etica «il consiglio e l’esortazione morale»: l’etica si limita a definire i criteri generali in base ai quali ognuno può valutare se una cosa è buona e quindi se un’azione è giusta. Innanzitutto, nel dire che una cosa è buona, occorre distinguere se è buona in se stessa o è buona come un mezzo per la realizzazione di altre cose buone in sé. Dobbiamo cioè distinguere se stiamo parlando del suo valore intrinseco o del suo valore strumentale. 643

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T7

Buono come mezzo e buono in se stesso G.E. Moore, Principia Ethica

È necessario per l’etica enumerare tutti i giudizi universali veri che asseriscono che una certa cosa è buona, in qualunque situazione si dia. Ma, sebbene tutti questi giudizi si riferiscano a quell’unica nozione che ho chiamato «buono», non vi si riferiscono tutti allo stesso modo. Essi possono asserire che quest’unica proprietà è sempre connessa con la cosa in questione oppure asserire che la cosa in questione è solo una causa o una condizione necessaria per l’esistenza di altre cose a cui tale unica proprietà appartiene. La natura di queste due specie di giudizi etici universali è molto diversa; e gran parte delle difficoltà che si incontrano nella speculazione etica dipendono dal fatto che non si sono distinti chiaramente. Invero la loro differenza ha trovato espressione nel linguaggio ordinario col contrasto fra termini come «buono come mezzo» e «buono in se stesso», «valore strumentale» e «valore intrinseco».

Il valore strumentale di una determinata cosa può essere mostrato attraverso una conoscenza empirica di carattere causale, osservando cioè se gli effetti di una certa azione producono l’obiettivo ricercato, dato che in generale dipende dalle circostanze se un determinato mezzo è adatto a un determinato fine. Il valore intrinseco non può invece essere dimostrato attraverso una conoscenza empirica di carattere causale, ma può solo essere appreso attraverso l’intuizione; ed è un valore universale in quanto è un valore in se stesso, che non dipende da altre circostanze. Concezione pluralistica Secondo Moore, alcuni generi di cose sono buoni in se stessi, cioè sono valori indel valore e critica trinseci: la bellezza e l’affetto verso le persone. Ad essi può essere aggiunto il piadell’edonismo cere, dato che la sua presenza accresce il loro valore. Moore sostiene perciò una concezione pluralistica del valore, e si oppone all’edonismo, il quale ritiene che l’unica cosa dotata di valore intrinseco sia il piacere. In Etica Moore propone, come argomento contro l’edonismo, un esperimento mentale: l’immaginarsi due mondi possibili, uno in cui esiste solo il piacere, un altro in cui è presente una quantità lievemente minore di piacere, ma dove esistono anche l’amore, la bellezza, la scienza e così via. Per Moore sarebbe assurdo preferire il primo al secondo, così come sarebbe assurdo che, se nei due mondi la quantità di piacere fosse uguale, non ci fossero motivi per preferire l’uno all’altro. Proprio questo senso di assurdità prova l’errore dell’edonismo. Rapporti causali e intuizione

T8

La critica filosofica dell’edonismo G.E. Moore, Etica

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È vero che una totalità sarà intrinsecamente migliore di un’altra ogni volta che, e soltanto se, contiene una maggiore quantità di piacere, prescindendo da come possono essere le due totalità sotto altri aspetti? Mi sembra pressoché impossibile che chiunque abbia completamente presenti le conseguenze di una convinzione come questa, possa ritenerla vera. Essa comporta, per esempio, il riconoscimento che un mondo in cui non esistesse assolutamente niente salvo il piacere, un mondo senza scienza, senza amore, senza godimento della bellezza, senza qualità morali, debba tuttavia essere intrinsecamente migliore e più degno di essere creato, purché la sola quantità di piacere presente in esso sia appena di poco superiore a quella presente in un mondo in cui esistono tutte queste cose oltre il piacere. Questa convinzione comporta inoltre il riconoscimento che, anche se la quantità totale di piacere in ciascun mondo fosse esattamente uguale, tuttavia il fatto che tutti gli esseri di un mondo possedessero più conoscenze in molti diversi settori e un pieno apprezzamento di tutto ciò che è bello o degno di amore nel loro mondo, e che nessuno degli esseri appartenenti all’altro mondo possedesse invece nessuna di queste cose, non ci offrirebbe nessun motivo per preferire il primo al secondo.

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein L’utilitarismo ideale e pluralistico di Moore

➥ Sommario, p. 666

Nonostante questo rifiuto dell’edonismo, Moore fa proprio un criterio di valutazione della condotta analogo a quello dell’utilitarismo e rappresentato dall’unione del «conseguenzialismo» (secondo il quale un’azione è giusta in ragione delle sue conseguenze buone) e del principio di «massimizzazione» (secondo il quale un’azione è giusta se produce la massima somma possibile di conseguenze buone). In questo modo, Moore ritiene che «giusto» sia equivalente a «causa di buoni risultati» e che perciò si identifichi con «utile». Questa teoria di Moore è stata definita «utilitarismo ideale», o «utilitarismo pluralistico», in quanto condivide con l’utilitarismo il criterio generale di valutazione della condotta (la massimizzazione delle conseguenze buone), ma rifiuta la teoria monistica del valore propria dell’utilitarismo (per la quale l’unico bene è il piacere) e la sostituisce con una teoria pluralistica: va perciò cercata la massimizzazione della bellezza e dell’affetto, oltre che del piacere. Una volta chiarito quali azioni sono giuste possono poi essere derivati i doveri, definiti come le uniche azioni giuste a disposizione nelle varie circostanze, per cui il compimento di qualunque altra azione sarebbe ingiusto: dovere, scrive Moore, è «quell’azione che causa nell’universo l’esistenza di un bene maggiore che qualunque altra azione possibile».

Russell

3 I testi

B. Russell La nostra conoscenza del mondo esterno: Logica delle relazioni e logica dei predicati, T9 La filosofia dell’atomismo logico: Atomismo logico e senso comune, T10; Un linguaggio logicamente perfetto, T11

Un intellettuale poliedrico

I problemi della filosofia: Conoscenza per esperienza e conoscenza per descrizione, T12 La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti: Evoluzione umana e limiti dell’empirismo, T13 Religione e scienza: Valutazione etica ed espressione delle emozioni, T14

Con Moore, Bertrand Russell è l’altro padre fondatore della filosofia analitica contemporanea e uno dei principali esponenti dell’empirismo novecentesco, oltre che uno dei più grandi e influenti intellettuali del secolo. L’attività filosofica di Russell spazia dai campi della logica e dell’epistemologia, a quelli della filosofia politica e dell’etica, intrecciandosi con una mole enorme di saggi in ambito culturale e politico in difesa della laicità, dei diritti civili, della pace, del disarmo nucleare, che hanno contribuito alla grande diffusione del suo pensiero: come è scritto nella voce Russell dell’Enciclopedia della filosofia curata da Paul Edwards, «si può tranquillamente affermare che dai tempi di Voltaire non c’è stato un filosofo con un pubblico così immenso». Tuttavia, sono stati soprattutto i saggi logici ed epistemologici dei primi due decenni del Novecento che hanno influenzato la filosofia successiva e hanno delineato la statura filosofica di Russell. 645

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La vita Bertrand Arthur William Russell nacque a Trelleck, in Galles, nel 1872. Orfano dei genitori (il padre era il visconte di Amberley), passò gli anni della giovinezza col nonno, lord John Russell, ex primo ministro del governo britannico. Ricevette un’educazione privata fino all’ingresso nel Trinity College di Cambridge, dove studiò matematica e filosofia. In tale contesto culturale subì dapprima l’influenza dell’idealismo di Bradley, ma il suo pensiero ebbe ben presto una svolta in senso realista con la frequentazione di Moore. In occasione della partecipazione al congresso internazionale di filosofia del 1900, Russell entrò in contatto con il matematico italiano G. Peano.

1 Il distacco dall’idealismo

Predicati e relazioni nell’idealismo

Il riconoscimento delle relazioni esterne

La molteplicità del reale e la logica delle relazioni

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A Cambridge conobbe il giovane Wittgenstein, che divenne suo allievo, ma dal quale venne fortemente influenzato su alcune tesi filosofiche, e iniziò l’insegnamento universitario. Allontanato dall’università e incarcerato per il suo impegno pacifista durante la Prima guerra mondiale, si dedicò all’attività di pedagogista e di pubblicista politico, che gli procurò la revoca dell’insegnamento nelle università americane durante la Seconda guerra mondiale, ma anche il Premio Nobel per la letteratura nel 1950. Reintegrato nel 1944 all’università di Cambridge, come membro a vita del Trinity College, morì, quasi centenario, dopo anni di lotte per la pace e per il disarmo nucleare, nella sua casa gallese, nel 1970.

La logica Come Moore, Russell si forma a contatto con l’idealismo inglese di Bradley e MacTaggart, condividendone inizialmente l’impostazione: ne è testimonianza il Saggio sui fondamenti della geometria, del 1897. Il distacco è tuttavia molto repentino ed è dovuto principalmente all’influenza di Moore e ai suoi argomenti a favore del realismo e del senso comune. Un problema centrale nell’idealismo inglese era costituito dalla possibilità di distinguere i «predicati», che attribuiscono proprietà a un soggetto e che quindi rimanderebbero alla sua natura intrinseca (per esempio «Socrate è umano»), dalle «relazioni» che indicano invece dei rapporti fra più entità (per esempio «Socrate è marito di Santippe»). Per Bradley questa distinzione è impossibile: secondo la concezione monistica, la Realtà è unica e tutto ciò che è predicabile non può che assegnare una proprietà intrinseca all’unica Realtà; ogni relazione fra due entità non è altro, quindi, che un predicato del tutto che le comprende. E anche per Russell, inizialmente, i predicati sono equivalenti alle relazioni. Sotto l’influenza di Moore, tuttavia, Russell si distacca da queste concezioni, e riconosce l’autonomia delle relazioni. Come sostiene in Un’esposizione critica della filosofia di Leibniz (1900) e poi nei Principi della matematica (1903), l’idealismo commette un errore logico fondamentale. Per Bradley ogni proposizione attribuisce un predicato all’unica Realtà; c’è quindi una sola logica possibile: la logica «soggetto-predicato». Il linguaggio però non contiene solo proposizioni di questa forma, ma anche proposizioni che fanno riferimento a relazioni, per esempio «A è maggiore di B», «A è prima di B» e così via. Contrariamente a quanto sostenuto da Bradley, queste relazioni non modificano la natura delle entità collegate, che anzi sussistono indipendentemente dalla relazione: sono cioè relazioni esterne e non intrinseche, e vanno riconosciute come tali. Se ci sono le relazioni allora ci sono gli enti tra i quali intercorrono le relazioni; la realtà quindi non è unica, come mostra il senso comune, ma composta da una molteplicità di enti che si trovano fra loro in relazioni esterne. Per rendere conto di questa realtà occorre quindi andare oltre la semplice logica «soggetto-predicato» e sviluppare una nuova logica che analizzi i vari tipi di relazioni: la «logica delle relazioni».

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Possono così essere individuate relazioni «simmetriche», che valgono per entrambi i termini della relazione, come le relazioni «simile a», «parente di» (se A è simile a B, allora B è simile ad A; se A è parente di B, allora B è parente di A); e relazioni «asimmetriche», che non valgono per entrambi i termini, come le relazioni «maggiore di», «padre di» (se A è maggiore di B, allora B non è maggiore di A; se A è padre di B, allora B non è padre di A). Allo stesso modo possono essere individuate relazioni «transitive», come le relazioni «maggiore di» o «sopra di» (se A è maggiore di B e B è maggiore di C, allora A è maggiore di C) e relazioni «intransitive», come la relazione «padre di», «più alto di un centimetro di» ecc. Vi sono infine relazioni «riflessive», ossia quelle che un oggetto intrattiene con se stesso, per esempio l’identità: A è identico ad A. Logica delle relazioni La logica delle relazioni riesce a rendere conto delle relazioni di ordine («mage matematica giore di», «minore di») e di successione («prima di», «dopo di»), che sono fondamentali nella matematica. Queste relazioni sono asimmetriche, dato che per esse è indispensabile tenere conto del verso della relazione; ma proprio esse sfuggono alla logica «soggetto-predicato», che nell’enunciato «A è maggiore di B», interpreta «maggiore di B» come un predicato di A, non riuscendo così a cogliere la relazione di ordine e di verso che intercorre fra due entità indipendenti. Varie tipologie di relazioni

T9

Logica delle relazioni e logica dei predicati B. Russell, La nostra conoscenza del mondo esterno

Russell e il «logicismo»

La logica tradizionale ha completamente fallito: essa credeva che ci fosse una sola forma di proposizione semplice […], cioè a dire la formula secondo cui si ascrive un predicato ad un soggetto. Questa è la forma appropriata all’assegnazione delle qualità di un oggetto dato – possiamo dire «questa cosa è rotonda e rossa ecc. ecc.». La grammatica favorisce questa forma, ma filosoficamente essa è tutt’altro che universale anzi non è nemmeno molto comune. Se diciamo «questa cosa è più grande di quella» non assegniamo semplicemente una qualità a «questo» ma affermiamo una relazione di «questo» con «quello». Possiamo esprimere lo stesso fatto dicendo «quella cosa è più piccola di questa» in cui dal punto di vista della grammatica il soggetto è cambiato. In tal modo le proposizioni che affermano che due cose hanno una certa relazione hanno una forma differente dalle proposizioni del tipo: soggetto-predicato. E il fatto di non essersi accorti di questa differenza o di non averne tenuto conto è stata la sorgente di molti errori nella metafisica tradizionale. La fede e la convinzione inconscia che tutte le proposizioni siano della forma: soggetto-predicato, in altre parole che ogni fatto consista in una cosa che possiede una qualità, ha fatto sì che la maggior parte dei filosofi sia incapace di render conto del mondo della scienza e del mondo di ogni giorno. Un altro aspetto centrale della ricerca logica di Russell è che per lui come per Frege, che in quegli anni lavora allo stesso obiettivo (vedi Unità 10, p. 395 s.), la matematica, in quanto fondata su relazioni di ordine e di successione, può essere ridotta alla logica, secondo un progetto di deduzione della matematica da nozioni logiche fondamentali, il «logicismo»: «il fatto che tutta la matematica risulti logica simbolica – scrive – è una delle più grandi scoperte del nostro tempo; e quando si è stabilito questo fatto, il resto dei principi della matematica consiste nell’analisi della logica simbolica stessa». Fondamentale per l’elaborazione della nuova logica e per l’esecuzione di questo progetto è l’incontro di Russell con il matematico italiano Giuseppe Peano (1858-1932), avvenuto nel 1900 al Congresso internazione di filosofia di Parigi, 647

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incontro ricordato da Russell come una vera e propria rivoluzione del suo pensiero. Al progetto di deduzione della matematica a partire dalla logica Russell dedica I principi della matematica del 1903 e poi i tre volumi dei Principia Mathematica, scritti fra il 1910 e il 1913, in collaborazione con Whitehead, suo insegnante a Cambridge. In tale testo viene proposta tra l’altro una teoria (la cosiddetta «teoria dei tipi logici») allo scopo di risolvere il paradosso, noto come «antinomia della teoria degli insiemi», in cui si imbatte il progetto di riduzione della matematica alla logica sostenuto nel testo del 1903. Logica dei predicati e logica delle relazioni

Logica dei predicati

Logica delle relazioni

Analisi di ogni enunciato in termini di:

Analisi di ogni enunciato in termini di:

soggetto + predicato

soggetti + relazione

Esempi:

Esempi:

1) «Carlo corre» viene interpretato come l’attribuzione del predicato «correre» al soggetto Carlo

1) «Carlo corre» viene interpretato come il sussistere della relazione (a un posto) «x corre» in riferimento a Carlo, analoga alla predicazione

2) «Carlo ama Maria» viene interpretato come l’attribuzione del predicato (complesso) «amare Maria» al soggetto Carlo 3) «Carlo abita tra Firenze e Arezzo» viene interpretato come l’attribuzione del predicato (complesso) «abitare tra Firenze e Arezzo» al soggetto Carlo

2) «Carlo ama Maria» viene interpretato come il sussistere della relazione (a due posti) «x ama y» tra Carlo e Maria 3) «Carlo abita tra Firenze e Arezzo» viene interpretato come il sussistere della relazione (a tre posti) «x abita tra y e z» tra Carlo, Firenze, Arezzo

Le ricerche logiche di Russell hanno anche sottolineato la distanza fra la forma logica e la forma grammaticale del linguaggio, fra l’analisi logica e l’analisi grammaticale. La semplice struttura grammaticale di un enunciato può spesso essere fonte di errore e confusione, che solo l’analisi logica può cogliere. Questa distanza era già stata messa chiaramente in luce da Russell in un breve saggio del 1905, Sulla denotazione, che è alla base della filosofia del linguaggio del Novecento. La «teoria In esso Russell espone la cosiddetta «teoria delle descrizioni definite», come delle descrizioni tentativo di soluzione dei problemi connessi alla presenza nel linguaggio di pardefinite» ticolari «descrizioni definite» cioè di sintagmi nominali singolari preceduti dall’articolo determinativo, del tipo «l’attuale re di Francia» o «la montagna d’oro». Al contrario delle altre descrizioni definite, per esempio «la moglie di Carlo» o «la montagna più alta del mondo», queste non identificano in modo univoco alcuna entità, sono anzi prive di denotazione, dato che queste entità non esistono. Secondo Frege, il fatto che queste descrizioni siano prive di denotazione comporta che gli enunciati che le contengono, seppure significanti, non possano essere né veri né falsi. Russell ritiene invece che questi enunciati siano falsi. La sua proposta consiste nell’eliminare l’ambiguità connessa al riferimento a entità inesistenti attraverso una parafrasi degli enunciati in grado di eliminare le descrizioni stesse, e con esse l’illusione del riferimento a un oggetto esistente. Così l’enunciato «l’attuale re di Francia è calvo», viene parafrasato in un altro in cui non compare la descrizione definita «l’attuale re di Francia», cioè nell’enunciato «esiste un individuo che ha la proprietà di essere l’attuale re di Francia e solo questo

Forma logica e forma grammaticale

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individuo ha questa proprietà e questo individuo è calvo». Tale enunciato è falso, dato che non esiste alcun individuo che gode della proprietà di essere l’attuale re di Francia, essendo la Francia una repubblica. Solo una parafrasi di questo tipo riesce per Russell a rendere conto della struttura logica dell’enunciato, struttura che rimane nascosta sotto la forma grammaticale soggetto-predicato. La teoria delle descrizioni definite

Considera l’enunciato: (a) «l’attuale re di Francia è calvo» 1) L’espressione «l’attuale re di Francia» non indica niente, poiché la Francia è una repubblica 2) Problema: l’enunciato (a) è dunque vero o falso? 3) Proposta di Frege: l’enunciato (a) ha un senso, ma non è né vero né falso, poiché il suo soggetto non esiste 4) Proposta di Russell: l’enunciato (a) possiede la seguente struttura logica (b) «esiste qualcosa che è l’attuale re di Francia e c’è solo una cosa che è l’attuale re di Francia e questo qualcosa è calvo» 5) L’enunciato (b) esprime lo stesso senso di (a) ed è falso, poiché (I) ha struttura congiuntiva e (II) il primo membro di tale congiunzione è falso Vantaggio della proposta di Russell: la logica può trattare anche enunciati che contengono espressioni non denotanti alcuna cosa esistente nel mondo

2

L’epistemologia

Il sistema logico elaborato nei Principia Mathematica insieme alla teoria delle descrizioni definite costituisce la base su cui Russell sviluppa, dopo l’incontro con Wittgenstein, suo allievo a Cambridge dal 1912, la cosiddetta «teoria dell’atomismo logico», che trova la prima esposizione pubblica nelle conferenze su La filosofia dell’atomismo logico, tenute a Londra nel 1918. Secondo questa concezione il mondo non è una realtà unica e indivisibile, come nella logica monistica dell’idealismo di Bradley, ma è costituito da una molteplicità di fatti fra loro in relazione, detti «fatti atomici», ossia non ulteriormente scomponibili in altri fatti (non si tratta dunque di atomi di carattere fisico, bensì di carattere logico, cioè elementi ultimi a cui giunge l’analisi logica). Tuttavia, anche un fatto atomico può essere ulteriormente diviso nell’analisi logica: esso è a sua volta costituito da un «particolare semplice», cioè non complesso (un individuo logico), che possiede una ‘proprietà’ semplice oppure che sta in una ‘relazione’ semplice con altri particolari. Le proposizioni Ai fatti atomici corrispondono sul piano del linguaggio le proposizioni atomiche. atomiche Un esempio di fatto atomico è quello espresso da una proposizione che attribuisce una proprietà semplice a un particolare semplice, come «questo è rosso», proposizione che ha forma logica «P(a)» dove «P» designa la proprietà («rosso») e «a» il particolare («questo»). Il legame dei particolari con le proprietà e le relazioni è di carattere esterno, in quanto non modifica l’identità del particolare. Aspetto centrale dell’atomismo logico di Russell, su cui torneremo più avanti, è che i particolari semplici, le proprietà e le relazioni sono immediatamente percepibili, e corrispondono ai dati delle sensazioni.

La filosofia dell’atomismo logico

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

T10

Atomismo logico e senso comune B. Russell, La filosofia dell’atomismo logico

Le proposizioni molecolari

T11

Un linguaggio logicamente perfetto

B. Russell, La filosofia dell’atomismo logico

La logica che voglio introdurre è atomistica, contrapposta dunque alla logica monistica di coloro che seguono, più o meno, Hegel. Quando dico che la mia logica è atomistica voglio dire che sono d’accordo con l’opinione del senso comune che ritiene che esistono numerose cose e distinte tra loro. Non ritengo che la molteplicità apparente del mondo consista semplicemente in fasi e in divisioni irreali di una Realtà singola e indivisibile. […] La ragione per la quale chiamo atomismo logico la mia dottrina è che gli atomi ai quali intendo arrivare, come residuo ultimo dell’analisi, sono atomi logici e non atomi fisici. […] Quello che voglio dire è che l’atomo al quale voglio arrivare è l’atomo dell’analisi logica, non l’atomo dell’analisi fisica. Le proposizioni atomiche rappresentano quindi i fatti atomici, e sono vere se corrispondono ai fatti, false se non vi corrispondono. Russell immagina una corrispondenza strutturale fra linguaggio e realtà: il linguaggio è rappresentazione della realtà. Dalle proposizioni atomiche possono essere poi composte le proposizioni molecolari, grazie ai connettivi logici «e», «o», «non», «se… allora…» (connettivo, quest’ultimo, che rappresenta l’implicazione del tipo «se A allora B», dove A e B stanno per due proposizioni atomiche qualunque), in modo che la verità delle proposizioni molecolari conservi la verità delle proposizioni atomiche da cui derivano. Si tende così a costruire un linguaggio logicamente perfetto, sul modello di quello delineato nei Principia Mathematica, in grado di superare le imprecisioni del linguaggio comune e di rappresentare la realtà nella maniera corretta, cioè ad essa corrispondente. Così scrive Russell: In un linguaggio logicamente perfetto le parole di una proposizione corrisponderebbero una ad una alle componenti del fatto corrispondente, con l’eccezione di parole come «o», «non», «se», «allora», che hanno una funzione differente. In un linguaggio logicamente perfetto ci sarà una parola e non più di una per ogni oggetto semplice, e ogni cosa che non è semplice sarà espressa da una combinazione di parole, da una combinazione derivata, naturalmente, dalle parole per le cose semplici che sono incluse, una parola per ogni componente singolo. Un linguaggio di questo tipo sarà completamente analitico, e mostrerà a prima vista la struttura logica dei fatti asseriti o negati. Il linguaggio esposto nei Principia Mathematica vuole essere un linguaggio di questo genere.

La dottrina dell’atomismo logico si basa su una concezione epistemologica ispirata a un radicale empirismo: i particolari, le proprietà e le relazioni costitutive dei fatti atomici corrispondono ai dati di senso sui quali si basa la nostra conoscenza del mondo esterno. Di essi veniamo a conoscenza immediatamente, attraverso un processo di conoscenza diretta. Queste premesse epistemologiche erano state fissate da Russell in alcuni lavori degli anni precedenti, in particolare nei saggi I problemi della filosofia, del 1912 e La nostra conoscenza del mondo esterno, del 1914. Le due modalità In essi, Russell distingue due generi di conoscenza: la «conoscenza per espedella conoscenza rienza diretta» («knowledge by acquaintance») e la «conoscenza per descrizione» («knowledge by description»). La prima è una conoscenza immediata, che ci rende direttamente consapevoli dei «dati di senso»: «colore, forma regolarità ecc.»; i quali però, come in Moore, non sono da considerarsi stati mentali: non sono cioè la percezione ma ciò che viene percepito. La seconda invece è una conoscenza mediata, è cioè una conoscenza espressa attraverso descrizioni, alla quale si ar-

Empirismo e atomismo logico

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riva dopo un processo di inferenza, o di costruzione, a partire dai dati di senso. È la conoscenza che abbiamo degli oggetti fisici, i quali non sono considerati da Russell, così come da Moore, direttamente percepibili: quando guardo un tavolo ho infatti conoscenza diretta solo di particolari dati di senso: il colore, la forma ecc.; da essi inferisco l’esistenza di un oggetto, che a sua volta corrisponde a una particolare descrizione: «l’oggetto fisico che causa questi e altri dati di senso». La conoscenza per esperienza diretta è certa e indubitabile, la conoscenza per descrizione è invece soggetta al dubbio, e occorre sempre controllare se essa sia confermata dalla conoscenza per esperienza diretta.

T12

Conoscenza per esperienza e conoscenza per descrizione B. Russell, I problemi della filosofia

Diremo di avere «conoscenza per esperienza diretta» di una cosa qualsiasi quando ne siamo direttamente consapevoli senza l’intermediario di alcun processo di inferenza o della conoscenza di alcuna verità. Così in presenza del mio tavolo, conosco direttamente i dati di senso che costituiscono l’apparenza del tavolo – il suo colore, la sua forma, la sua durezza, la sua levigatezza, ecc. Tutte queste sono cose di cui sono immediatamente consapevole quando vedo e tocco il tavolo. […] I dati di senso che costituiscono l’apparenza del tavolo sono, dunque, cose di cui ho conoscenza per esperienza diretta, cose conosciute da me immediatamente proprio così come sono. La mia conoscenza del tavolo in quanto oggetto fisico, al contrario, non è conoscenza per esperienza diretta. Essa è di fatto ottenuta attraverso la conoscenza per esperienza diretta dei dati di senso che costituiscono l’apparenza del tavolo. Abbiamo visto che è possibile dubitare, senza essere assurdi, se ci sia davvero un tavolo, mentre non è possibile dubitare dei dati di senso. La mia conoscenza del tavolo è del tipo che chiameremmo «conoscenza per descrizione».

La conoscenza scientifica nel suo complesso è così una conoscenza per descrizione, e come tale riguarda oggetti molto distanti da ciò che è direttamente percepibile. Tuttavia il grado ultimo per giudicare tanto la verità di una determinata proposizione quanto il suo stesso significato è costituito dalla conoscenza per esperienza diretta: «dobbiamo – scrive Russell – collegare un qualche significato alle parole che usiamo, se dobbiamo parlare in modo significante e non emettere puri rumori, e il significato che colleghiamo alle nostre parole deve essere qualcosa di cui abbiamo conoscenza per esperienza diretta». Un aspetto, questo, che diventerà centrale nella filosofia dell’empirismo logico. I limiti dell’empirismo Nel corso degli anni, tuttavia, la fiducia di Russell nella certezza e indubitabilità della conoscenza scientifica, così come nella possibilità di un ‘rispecchiamento’ assolutamente fedele del mondo, viene progressivamente meno. Come afferma nella sua ultima grande opera filosofica, La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti, del 1948, bisogna ammettere che «tutta la conoscenza umana è incerta, inesatta e imparziale». Il problema principale che si pone alla conoscenza scientifica è quello su cui si era già interrogato Hume: come giustificare l’inferenza induttiva. Come ha mostrato Hume, essa non può essere giustificata sulla base dell’esperienza; occorre allora per Russell fare riferimento a delle assunzioni sulla natura del mondo, a dei principi, o postulati, a cui si è giunti nel corso dello sviluppo evolutivo del genere umano, e che sono indispensabili per conferire validità alle generalizzazioni induttive, e quindi alla conoscenza scientifica: per esempio il principio di causalità o il principio di somiglianza, per cui cose simili si comportano in maniera simile.

Il carattere fondamentale dell’esperienza diretta

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Tuttavia la validità di questi principi non può essere giustificata direttamente sulla base dell’esperienza; l’empirismo stesso come teoria della conoscenza presenta dunque dei limiti.

T13

Evoluzione umana e limiti dell’empirismo

B. Russell, La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti

3

I principi sono «conosciuti» in un senso differente da quello in cui sono conosciuti i fatti particolari. Essi sono conosciuti nel senso che noi generalizziamo in concordanza con essi quando usiamo l’esperienza per convincerci di una proposizione universale come «i cani abbaiano». Quando il genere umano ha visto crescere la propria intelligenza, i suoi abiti inferenziali sono gradualmente giunti ad un maggiore accordo con le leggi di natura che hanno reso, in generale, tali abiti più spesso una fonte di aspettative vere che non di false. La formazione di abiti inferenziali che conducano ad aspettative vere è parte dell’adattamento all’ambiente da cui dipende la sopravvivenza biologica. Ma, sebbene in questo modo i nostri postulati possano venire inseriti in una cornice che possiede quello che potremmo definire un «sapore» empiristico, resta innegabile che la conoscenza che abbiamo di essi, nella misura in cui li conosciamo, non può essere basata sull’esperienza, benché tutte le loro conseguenze verificabili sono tali da essere confermate dall’esperienza. In questo senso, si deve ammettere, l’empirismo, come teoria della conoscenza, si è mostrato inadeguato, sebbene in misura minore di ogni precedente teoria della conoscenza.

L’impegno politico e la riflessione etica

La riflessione logica ed epistemologica non esaurisce la produzione filosofica di Russell, che nel corso della vita è sempre molto attento alle dimensioni della politica e dell’etica, nelle quali ha esercitato a lungo il suo impegno civile e intellettuale. Russell non è un teorico della politica, quanto piuttosto un intellettuale militante che ha combattuto contro il dogmatismo e il fanatismo, per la difesa della pace, della libertà individuale di scelta e di coscienza (anche in tema di sessualità e di educazione), subendo direttamente le conseguenze di tale impegno. Fra gli scritti di carattere militante possono essere ricordati Teoria e pratica del bolscevismo (1920), Matrimonio e morale (1927), Il potere (1938), mentre fra le numerose iniziative politiche può essere ricordata la costituzione nel 1966 di un tribunale internazionale contro i crimini di guerra e la violazione dei diritti dell’uomo: il cosiddetto «Tribunale Russell», che riconobbe gli Stati Uniti colpevoli di genocidio durante la guerra del Vietnam. L’etica oggettivistica Maggiore attenzione teorica è dedicata da Russell all’etica, anche se non si è di del giovane Russell fronte a specifiche trattazioni sistematiche, come in Moore. Il primo intervento di Russell in ambito etico è un saggio del 1910, Elementi di etica, nel quale, sulla scia dei Principia Ethica, viene proposta una teoria oggettivistica analoga a quella sostenuta da Moore. L’etica, scrive Russell, fa parte della scienza, «è semplicemente una tra le scienze»: compito dell’etica «è quello di scoprire proposizioni vere sulla condotta virtuosa e viziosa, e queste proposizioni sono parte della verità quanto le proposizioni vere sull’ossigeno o sulla tavola pitagorica». I concetti morali, «buono» o «cattivo», sono semplici e non definibili attraverso altri concetti, pena l’incorrere in fallacie del tipo analizzato da Moore; sono oggettivi, e la verità dei giudizi morali viene colta come autoevidente. I casi di disaccordo moL’impegno civile e intellettuale

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rale non possono essere trattati come differenze di gusto: c’è una verità, per quanto difficile da scoprire, che consente di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. L’autocritica Ma questa teoria viene presto abbandonata. Una posizione soggettivistica viene e la posizione esplicitamente sostenuta, in chiave autocritica, in Religione e scienza, del 1935. soggettivistica in etica L’etica adesso per Russell è al di fuori del dominio della scienza, né si può dare una genuina conoscenza dei valori. Ogni giudizio etico non è né vero né falso, in ➥ Laboratorio sul lessico, quanto non è un’asserzione su qualcosa che esiste, ma solo l’espressione delle Oggettivo / soggettivo, p. 469 emozioni e dei desideri del soggetto. In caso di presenza di un disaccordo morale, non c’è modo di dimostrare chi abbia ragione o torto, come avviene invece nella soluzione di un problema scientifico: «ove l’etica è coinvolta […] è impossibile produrre argomenti intellettuali conclusivi»; la possibilità di riconciliazione non può percorrere la via della conoscenza ma solo quella della persuasione emotiva. Al posto dell’originario intuizionismo, Russell abbraccia ora una forma di soggettivismo etico, analogo a quello sviluppato negli stessi anni da Alfred Jules Ayer in Linguaggio, verità e logica (1936): «la dottrina che ho finora patrocinato è una forma della dottrina che chiamo ‘soggettività’ dei valori. Questa dottrina consiste nel sostenere che, se due uomini non concordano sui valori, non vi è contrasto su nessuna specie di verità, ma differenza di gusto».

T14

Valutazione etica ed espressione delle emozioni B. Russell, Religione e scienza

L’universalità dei giudizi morali

➥ Sommario, p. 666

Quando cerchiamo di essere chiari su quello che intendiamo quando diciamo che «il Bene» è questo o quello ci troviamo coinvolti in grandissime difficoltà. […] In un problema scientifico si possono produrre delle prove da entrambe le parti e alla fine si vede che una delle due parti sostiene una tesi migliore, o, se ciò non accade, si lascia il problema indeciso. Ma in un problema come quello nel quale si è chiamati a decidere se il Bene finale sia questo o quello, non vi sono prove a favore di nessuna delle tesi in presenza; ogni sostenitore di una tesi non può che richiamarsi alle proprie emozioni ed adoperare tutti quegli artifizi retorici che saranno in grado di suscitare emozioni analoghe anche negli altri. […] Ci troviamo in questo caso di fronte a un contrasto acuto che riveste una grande importanza pratica, ma non abbiamo assolutamente alcun mezzo, di natura scientifica o intellettuale, grazie al quale possiamo persuadere una parte che l’altra ha ragione. Vi sono, è vero, dei modi di modificare le opinioni degli uomini su tali argomenti, ma sono tutti emotivi, non intellettuali. I problemi relativi ai «valori», cioè relativi a ciò che è bene o male in sé e per sé, indipendentemente dagli effetti che produce, stanno al di fuori del dominio della scienza […]. Ciò significa che, quando affermiamo che questo o quello ha del «valore», conferiamo un’espressione alle nostre proprie emozioni, non a un fatto che sarebbe ancora vero se i nostri sentimenti personali fossero differenti. Russell si pone, tuttavia, il problema di separare i giudizi morali dai semplici giudizi di gusto. Un giudizio, per esempio, come «la bellezza è buona», è diverso dal giudizio «le ostriche sono buone», e questa differenza risiede nel fatto che i giudizi morali presentano una caratteristica loro peculiare: l’universalità. L’etica conferisce infatti un’importanza universale ad alcuni dei nostri desideri, in modo tale che essi non riguardano più solo il singolo individuo ma l’intera collettività: «un giudizio di valore intrinseco deve essere interpretato non come un’affermazione, ma come l’espressione di un desiderio che concerne i desideri dell’umanità». Russell anticipa così un tema, quello dell’universalità come caratteristica logica dei giudizi morali, che avrà grande fortuna nella filosofia morale del secondo Novecento. 653

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Wittgenstein

4 I testi

L. Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus: Fatti, stati di cose e oggetti, T15; Natura delle proposizioni, T16; La verità come concordanza con i fatti, T17; Tautologie e contraddizioni, T18; Induzione e causalità, T19; Natura, scopo e limite della filosofia, T20 Le due fasi del pensiero di Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein è considerato uno dei più importanti filosofi del Novecento, sia per l’originalità della sua riflessione, sia per l’influenza che il suo pensiero ha avuto e continua tuttora ad avere. Tale pensiero presenta almeno due fasi distinte: la prima (il cosiddetto «primo Wittgenstein») è quella della formazione giovanile e dei contatti con Frege e Russell, fase che trova espressione nel Tractatus logico-philosophicus, del 1921; la seconda (il cosiddetto «secondo Wittgenstein») è quella che si sviluppa dalla ripresa dell’attività filosofica nel 1929, e trova espressione in tutta una serie di manoscritti rimasti inediti e pubblicati postumi, il principale dei quali è rappresentato dalle Ricerche filosofiche. La prima fase ha grande influenza sullo sviluppo del neopositivismo e del Circolo di Vienna, la seconda sulla filosofia analitica del linguaggio comune.

La vita Ludwig Wittgenstein nacque a Vienna nel 1889 da una ricca e influente famiglia al centro della vita economica e intellettuale viennese. Il padre era un importante industriale dell’acciaio, la madre una musicista, il fratello Paul un affermato pianista. Il giovane Wittgenstein studiò dapprima ingegneria a Berlino, specializzandosi poi in aeronautica a Manchester. In seguito maturò uno spiccato interesse per questioni matematiche e filosofiche; si trasferì dunque nel 1911 a Cambridge, dove fu allievo di B. Russell ed entrò in contatto con G.E. Moore. Dal 1913 iniziò a scrivere su argomenti di filosofia della logica. Volontario nell’esercito austriaco durante la Prima guerra mondiale, venne catturato sul fronte italiano e imprigionato a Cassino. Durante la prigionia portò a compimento l’unica opera di cui curò la pubblicazione, il Tractatus logico-philosophicus, che inviò a Russell, il quale ne fu profondamente influenzato. Dopo la guerra Witt-

1 Genesi del Tractatus

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Ricerche filosofiche: La molteplicità dei «giuochi linguistici», T21; La «famiglia» dei giuochi linguistici, T22; Il carattere descrittivo della filosofia, T23; La dissoluzione dei problemi filosofici, T24

genstein, ritenendo di aver risolto nell’essenziale i problemi filosofici, abbandonò la filosofia e si dedicò all’insegnamento elementare in alcuni paesi della bassa Austria. Nel 1926 pubblicò un piccolo dizionario per le scuole elementari. Nel 1927, su sollecitazione di M. Schlick, riprese l’attività filosofica, partecipando alle sedute del Circolo di Vienna, dal quale mantenne tuttavia una certa distanza. Ma fu soprattutto l’insoddisfazione per le tesi esposte nel suo Tractatus a spingere Wittgenstein a tornare nel 1929 all’università di Cambridge, dove insegnò, con varie interruzioni, dal 1930 al 1947, succedendo a Moore nella cattedra di filosofia e logica. A Cambridge, Wittgenstein morì, ammalato di cancro, nel 1951. Alla sua morte egli lasciò il manoscritto di un libro pronto per la pubblicazione (le Ricerche filosofiche, uscite nel 1953) e migliaia di pagine di appunti che furono pubblicati negli anni successivi.

Il linguaggio e il mondo Il Tractatus logico-philosophicus è la prima grande opera di Wittgenstein, nonché l’unico libro pubblicato nel corso della sua vita. Esso raccoglie le riflessioni maturate negli anni della formazione a Cambridge, che il filosofo austriaco prepara

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L’ontologia del Tractatus: stati di cose e fatti

Oggetti e forme

T15

Fatti, stati di cose e oggetti

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

e custodisce con sé in forma di manoscritto nel periodo della guerra e della prigionia. Nel 1921 l’opera viene pubblicata in tedesco nella rivista «Annalen der Naturphilosophie», poi, nel 1922, in inglese con testo tedesco a fronte, come volume, con la prefazione di Russell e il titolo latino suggerito da Moore. L’esposizione si articola in una serie di proposizioni numerate e sotto-numerate, che presentano una teoria analoga a quella sviluppata nelle conferenze sull’atomismo logico di Russell (il quale riconosce esplicitamente il debito verso Wittgenstein). Nel Tractatus sono delineate un’ontologia e una teoria del linguaggio. Come anche nell’atomismo logico di Russell, l’ontologia, cioè la costituzione del mondo, su cui Wittgenstein richiama l’attenzione, è composta di fatti atomici e di elementi da cui tali fatti sono a loro volta composti. La realtà, dice Wittgenstein, è il mondo, e il mondo è costituito da stati di cose, cioè da fatti elementari. L’unione di più stati di cose dà origine a fatti complessi, detti da Wittgenstein semplicemente «fatti». Gli stati di cose, così come i fatti complessi, sono indipendenti gli uni dagli altri; i primi sono a loro volta costituiti da elementi semplici chiamati «oggetti», o «cose», che costituiscono quella che viene detta la «sostanza del mondo». Gli oggetti permangono costanti e fissi e, come nella teoria delle relazioni di Russell, non mutano nelle connessioni in cui si presentano; essi possono tuttavia combinarsi in modi differenti per dare luogo ai differenti stati di cose. Il modo in cui gli oggetti si combinano è la loro «forma»: forme sono per esempio lo spazio, il tempo, e anche, per Wittgenstein, il colore. La forma dell’oggetto determina la «struttura» dello stato di cose e quindi del fatto. Così si apre il Tractatus: 1 Il mondo è tutto ciò che accade. 1.1 Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. 1.11 Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti. 1.12 Ché la totalità di fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade. […] 1.2 Il mondo si divide in fatti. 1.21 Qualcosa può accadere o non accadere e tutto il resto rimanere eguale. 2 Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. 2.01 Lo stato di cose è un nesso d’oggetti (entità, cose). […] 2.02 L’oggetto è semplice. […] 2.021 Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò essi non possono essere composti. […] 2.0251 Spazio, tempo e colore (cromaticità) sono forme degli oggetti. […] 2.031 Nello stato di cose gli oggetti sono in una determinata relazione l’uno con l’altro. 2.032 Il modo, nel quale gli oggetti ineriscono l’uno all’altro nello stato di cose, è la struttura dello stato di cose. 2.033 La forma è la possibilità della struttura. 2.034 La struttura del fatto consta delle strutture degli stati di cose. 2.04 La totalità degli stati di cose sussistenti è il mondo. 655

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Il mondo viene colto dal pensiero, e il pensiero si esprime nel linguaggio. Il linguaggio è composto da proposizioni, cioè da enunciati dotati di significato, che ➥ Percorso tematico, p. 677 possono essere vere o false, e che diversamente dal pensiero sono direttamente percepibili mediante i sensi, dato che ogni proposizione viene espressa con un segno fonico o grafico percepibile. Le proposizioni sono internamente articolate, in quanto sono a loro volta composte da termini, cioè da «nomi», e sono dotate di una forma, o struttura generale, analoga a quella degli stati di cose, con i termini al posto degli oggetti. La corrispondenza I nomi si riferiscono agli oggetti degli stati di cose e, dice Wittgenstein, li raptra linguaggio e mondo presentano, così come la proposizione nel suo insieme corrisponde allo stato di cose nel suo insieme e rappresenta lo stato di cose. Non è tuttavia il nome in se stesso a essere vero o falso, ma solo la proposizione nel suo complesso; per fare un esempio: il nome «Socrate» di per sé non è né vero né falso, mentre lo è la proposizione «Socrate è ateniese». Questa raffigurazione non va tuttavia intesa come una riproduzione che somigli al mondo, ma come una raffigurazione meramente «logica», cioè formale, dato che ciò che viene raffigurato è solo la struttura dello stato di cose, la combinazione possibile dei suoi elementi; in questo modo, scrive Wittgenstein, un disco, uno spartito di musica o delle onde sonore possono tutti raffigurare la struttura logica del medesimo stato di cose. Pensiero e linguaggio

T16

Natura delle proposizioni

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

3.1 Nella proposizione il pensiero si esprime in modo percepibile mediante i sensi. […] 3.141 La proposizione non è un miscuglio di parole. – (Come il tema musicale non è un miscuglio di suoni.) La proposizione è articolata. […] 3.2 Nella proposizione il pensiero può essere espresso così che agli oggetti del pensiero corrispondano elementi del segno proposizionale. […] 3.202 I segni semplici impiegati nella proposizione si chiamano nomi. 3.203 Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato. («A» è lo stesso segno che «A».) 3.21 Alla configurazione dei segni semplici nel segno proposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nella situazione. 3.22 Il nome è il rappresentante, nella proposizione, dell’oggetto.

Il pensiero e il linguaggio sono quindi concepiti da Wittgenstein come raffigurazione e immagine del mondo. Il problema principale che Wittgenstein si pone nel Tractatus è proprio quello di definire le condizioni per cui il linguaggio si possa dire significante, cioè dotato di senso. Condizione affinché un nome sia significante è che designi un particolare oggetto della realtà; condizione affinché le proposizioni del linguaggio siano significanti è che esse raffigurino la forma degli stati di cose, di modo che ai termini da cui è composta la proposizione corrispondano gli oggetti di cui è composto lo stato di cose. Un’immagine è quindi dotata di significato se ha questa corrispondenza strutturale con la realtà, fissando la struttura dello stato di cose le condizioni di possibilità della situazione rappresentata dall’immagine. Raffigurazione, In questo modo, Wittgenstein propone quella che è stata definita una «teoria rafconcordanza e verità figurativa del linguaggio»: il linguaggio è significante solo in quanto raffigura dei fatti; un linguaggio che non ha questa funzione raffigurativa è privo di senso. La

Pensiero e linguaggio come raffigurazione del mondo

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condizione per cui una proposizione può considerarsi dotata di senso è che essa possa essere verificabile o falsificabile: «comprendere una proposizione – scrive Wittgenstein – vuol dire sapere che cosa accada se essa è vera»; un aspetto che avrà una grande ripresa nell’empirismo logico, come si vedrà nella prossima Unità. Tuttavia, che l’immagine sia dotata di senso, abbia cioè una forma (una combinazione di elementi) analoga a quella della realtà, non vuol dire che essa sia di per se stessa anche vera: la verità o la falsità della raffigurazione non dipende solo dalla forma della rappresentazione, dal suo essere dotata di senso e quindi possibile, ma anche dalla sua concordanza o non concordanza con la realtà che rappresenta: è nella concordanza del senso dell’immagine con la realtà che consiste la sua verità. Come conseguenza, sostiene Wittgenstein, non si può sapere a priori se una immagine è vera, ma solo dopo che è stata confrontata con la realtà.

T17

La verità come concordanza con i fatti

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

La costruzione delle proposizioni complesse

Linguaggio e mondo nel Tractatus

2.21 L’immagine concorda o non concorda con la realtà; essa è corretta o scorretta, vera o falsa. 2.22 L’immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la forma di raffigurazione. 2.221 Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso. 2.222 Nella concordanza o non concordanza del senso dell’immagine con la realtà consiste la verità o falsità dell’immagine. 2.223 Per riconoscere se l’immagine sia vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà. 2.224 Dall’immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa. 2.225 Un’immagine vera a priori non v’è. 3 L’immagine logica dei fatti è il pensiero. Le proposizioni del linguaggio possono essere distinte in proposizioni semplici, o elementari, e in proposizioni complesse, o molecolari, che possono essere costruite dall’unione di proposizioni semplici attraverso l’impiego delle costanti logiche già indicate da Russell: la congiunzione «e», la negazione «non», la disgiunzione «o» e l’implicazione «se… allora…». La verità delle proposizioni complesse dipende dalla verità delle proposizioni semplici, così che possono essere stabilite della tavole della verità, per ogni proposizione complessa. Le proposizioni complesse possono quindi essere scomposte in proposizioni semplici, che sono vere o false a seconda che rappresentino o meno i fatti e si accordino col mondo. Le costanti logiche, invece, sono solo strumenti con i quali eseguiamo operazioni logiche e non hanno alcuna funzione raffigurativa.

Linguaggio (logico)

Mondo (ontologia)

1) Nomi o «segni semplici» (essi indicano gli oggetti)

1) Oggetti semplici o individui logici (la «sostanza del mondo»)

2) Proposizioni atomiche (non ulteriormente scomponibili in altre proposizioni) 3) Proposizioni complesse (composte a partire da quelle atomiche mediante le costanti logiche «e», «o», «non» ecc.)

Concordanza

2) Stati di cose o fatti elementari («nesso di oggetti») 3) Fatti complessi o strutturati (composti da vari stati di cose)

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2 Proposizioni tautologiche e proposizioni contraddittorie

T18

Tautologie e contraddizioni

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

Le verità della logica e della matematica

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Logica, scienza e filosofia Ci sono tuttavia, per Wittgenstein, due classi di proposizioni che sono rispettivamente sempre vere o sempre false, indipendentemente dal valore di verità delle proposizioni elementari da cui sono composte: le prime sono dette tautologie, le seconde contraddizioni. Una tautologia è una proposizione vera indipendentemente dal valore di verità delle proposizioni elementari da cui è composta: così per esempio la proposizione molecolare «oggi piove o oggi non piove» (che ha forma logica «P o non P»), è sempre vera indipendentemente dal fatto che sia vero che oggi piova o non piova. Una contraddizione, invece, è una proposizione che risulta falsa indipendentemente dal valore di verità delle proposizioni elementari da cui è composta: così per esempio la proposizione molecolare «oggi piove e oggi non piove» («P e non P»), è sempre falsa, indipendentemente dal fatto che oggi piova o non piova. Tautologie e contraddizioni hanno quindi un valore di verità e di falsità anche senza il loro confronto con il mondo. E poiché esse non raffigurano il mondo, esse sono, dice Wittgenstein, «prive di senso». Dire che sono prive di senso non vuol dire, tuttavia, che sono anche «insensate»: esse danno infatti indicazioni sul modo in cui noi parliamo del mondo quando impieghiamo le costanti logiche e quindi sulla struttura logica del mondo, definendo in tal modo le regole con cui funziona il pensiero. Vi è dunque, per Wittgenstein, una distinzione tra un senso ‘fattuale’ – quello posseduto dalle proposizioni che rappresentano fatti reali o possibili – e un senso puramente ‘logico’. 4.46 Tra i possibili gruppi di condizioni di verità vi sono due casi estremi. Nel primo caso, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari. Noi diciamo che le condizioni di verità sono tautologiche. Nel secondo caso, la proposizione è falsa per tutte le possibilità di verità: le condizioni di verità sono contraddittorie. Nel primo caso noi chiamiamo la proposizione una tautologia; nel secondo, una contraddizione. 4.461 La proposizione mostra ciò che dice; la tautologia e la contraddizione mostrano che esse non dicono nulla. La tautologia non ha condizioni di verità, poiché è incondizionatamente vera; e la contraddizione è sotto nessuna condizione vera. Tautologia e contraddizione sono prive di senso. (Come il punto onde due frecce divergono in direzione opposta.) (Ad esempio, io non so nulla sul tempo se so che o piove o non piove.) 4.4611 Tautologia e contraddizione non sono però insensate; esse appartengono al simbolismo, così come lo «o» al simbolismo dell’aritmetica. 4.462 Tautologia e contraddizione non sono immagini della realtà. Esse non rappresentano alcuna possibile situazione. Infatti, quella ammette ogni possibile situazione; questa, nessuna. Nella tautologia le condizioni della concordanza con il mondo – le relazioni di rappresentazione – si annullano l’una l’altra, così che essa non sta in alcuna relazione di rappresentazione con la realtà. Le proposizioni della logica e della matematica sono per Wittgenstein tautologie: esse sono vere indipendentemente dalla loro relazione col mondo, e sono quindi prive di senso, anche se – come abbiamo visto – non sono insensate, in quanto contribuiscono a definire le regole della logica e del pensiero. Esse sono cioè

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proposizioni prive di un contenuto descrittivo e fattuale (non sono ‘immagine’ di alcun fatto), e quindi sono vere a priori: una conclusione che avrà grande peso sullo sviluppo dell’empirismo logico e che viene chiamata «concezione a priori della logica e della matematica». Le proposizioni della scienza empirica sono invece proposizioni dotate di senso, in quanto proposizioni che raffigurano il mondo e sono quindi vere o false a posteriori. La critica del nesso Il quadro in cui si muove la scienza naturale è, dunque, quello delimitato dal causale confronto con la realtà. Come in Hume, per Wittgenstein non è possibile una giustificazione scientifica dell’inferenza induttiva o del nesso di causalità. Dall’osservazione di due eventi non si può inferire per esempio che l’uno sia causa dell’altro: ogni proposizione elementare della scienza rappresenta un fatto atomico, e dall’esistenza di un fatto atomico non si può derivare l’esistenza di un altro fatto atomico, in quanto i fatti sono indipendenti l’uno dall’altro. L’unica inferenza valida è quella a priori della logica, mentre altre forme di inferenza non sono giustificate: da un punto di vista scientifico, credere nel nesso causale non è altro che «superstizione».

T19

Induzione e causalità

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

5.133 Ogni inferenza avviene a priori. 5.134 Da una proposizione elementare non può inferirsene un’altra. 5.135 In nessun modo può concludersi dal sussistere d’una qualsiasi situazione al sussistere d’una situazione affatto differente da essa. 5.136 Un nesso causale che giustifichi una tale conclusione non v’è. 5.1361 Gli eventi del futuro non possiamo arguirli dagli eventi presenti. La credenza nel nesso causale è superstizione.

La filosofia non fa parte della scienza. La scienza è costituita da proposizioni che cercano di raffigurare il mondo; le proposizioni della filosofia non hanno invece questa portata conoscitiva, e in senso stretto, secondo Wittgenstein, nemmeno si dovrebbe parlare di «proposizioni filosofiche». La filosofia, infatti, non ha per scopo la conoscenza del mondo, ma l’analisi e la chiarificazione dei pensieri e del linguaggio in cui essi sono espressi: essa è «critica del linguaggio». Funzione fondativa L’analisi filosofica ha una funzione ‘fondativa’: ricerca la struttura logica unica e normativa dell’analisi del linguaggio; essa ha inoltre una funzione correttiva e normativa: corregge le filosofica imprecisioni del linguaggio, i pensieri «torbidi e indistinti», e cerca di approssimarsi a un linguaggio ideale, che è quello della logica, col suo simbolismo rigoroso. I suoi limiti sono quelli posti dalla scienza naturale, che fissa ciò che è as➥ Percorso tematico, p. 703 seribile come vero e falso; oltre questi limiti essa non può andare. Deve, anzi, insegnare a rispettarli, smascherando le illusioni della metafisica, che formula proposizioni insensate perché non suscettibili di confronto col mondo: la maggior parte delle proposizioni e delle questioni in materia di filosofia, nota Wittgenstein, non sono false, ma insensate.

La filosofia come critica del linguaggio scientifico

T20

Natura, scopo e limite della filosofia

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

4.003 Le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza. Le domande e le proposizioni dei filosofi si fondano per la maggior parte sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio. (Esse sono come la domanda se il bene sia più o meno identico al bello). 659

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Né meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi. 4.0031 Tutta la filosofia è «critica del linguaggio». […] 4.111 La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola «filosofia» deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali). 4.112 Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri. La filosofia non è una dottrina ma un’attività. Un’opera filosofica consta essenzialmente di chiarificazioni. Il risultato della filosofia sono non «proposizioni filosofiche», ma il chiarificarsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i pensieri che altrimenti sarebbero torbidi e indistinti. […] 6.53 Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare –, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni delle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto. Oltre la sfera di ciò che è correttamente formulabile e scientificamente padroneggiabile, del «dicibile», vi è quella dell’indicibile, del «mistico», che è fuori della portata conoscitiva dell’uomo e su cui la filosofia deve tacere. Al mistico, secondo Wittgenstein, appartengono le questioni dell’esistenza di Dio, di cosa sia il mondo nella sua essenza, di cosa siano i valori o il senso della vita. Queste questioni sono fuori della possibilità della conoscenza scientifica e della stessa filosofia, e non hanno alcuna relazione con i risultati della scienza: «noi sentiamo – scrive – che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati». Questo non vuol dire tuttavia che questi problemi siano insignificanti per l’uomo, ma solo che essi non riguardano la scienza e la filosofia, ma direttamente la vita vissuta. Essi sono questioni che sorgono fuori dalla filosofia e possono trovare soluzione solo qualora la filosofia cessi di occuparsene: «la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso». Su queste questioni la scienza e la filosofia debbono tacere, in quanto su di esse non hanno nulla da dire; secondo quanto è detto nell’ultima proposizione del Tractatus, la numero 7: «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Lo statuto L’etica stessa non ha a che fare con proposizioni che possono essere vere o falnon conoscitivo se, e quindi, dice Wittgenstein, non vi possono essere vere e proprie proposidell’etica zioni etiche. L’etica non raffigura niente del mondo, e quindi, una volta assunta la teoria raffigurativa del significato, l’etica stessa non potrebbe essere nemmeno formulata. ➥ Tesi a confronto, p. 865 Wittgenstein fa propria così un’impostazione che sottolinea la netta separazione dell’etica dalla scienza, del mondo dei fatti dal mondo dei valori: non ci sono valori nel mondo, il senso del mondo deve essere trovato al di fuori di esso: «nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v’è, deve essere fuori di ogni avvenire ed essere-così» (questa impostazione viene ribadita anche in uno scritto più tardo, la Conferenza sull’etica del 1930, e si mostra vicina al soggettivismo sviluppato poi da Russell e Ayer).

La filosofia e il mistico

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3 La seconda fase del pensiero di Wittgenstein

Le Ricerche filosofiche e la critica del Tractatus

Una nuova teoria del significato ➥ Percorso tematico, p. 677

Significato e giuochi linguistici

T21

La molteplicità dei «giuochi linguistici» L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche

Le Ricerche filosofiche Nella Prefazione al Tractatus Wittgenstein esprime la convinzione «di avere nell’essenziale risolti definitivamente i problemi» affrontati. Ed è probabilmente questo il motivo principale per cui, dopo la pubblicazione dell’opera, egli si distacca dalla ricerca filosofica per dedicarsi all’insegnamento elementare. Tuttavia con il ritorno a Vienna e gli incontri con i matematici Brouwer e Ramsey e con i filosofi Schlick e Waismann, Wittgenstein riprende a occuparsi di questioni di filosofia e decide di trasferirsi a Cambridge. Il lavoro di questa fase è testimoniato da numerosi manoscritti e appunti inediti, che gli allievi riescono a pubblicare dopo la sua morte: le Osservazioni filosofiche (1929-1930), la Grammatica filosofica (1932-1934), Il libro blu e il libro marrone (1933-1935), le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1937-1944), le Ricerche filosofiche (19451949), Della certezza (1950-1951). Il ritorno alla filosofia è un ritorno soprattutto in chiave autocritica rispetto alle principali tesi sostenute nel Tractatus. Questa presa di distanza viene progressivamente documentata negli scritti del periodo, e trova una chiara formulazione nelle Ricerche filosofiche, il principale degli scritti di questa fase (il cosiddetto «secondo Wittgenstein»). Il testo, già quasi pronto per la pubblicazione, è articolato in brevi paragrafi numerati dall’autore. Il primo aspetto che viene rifiutato è la concezione del significato che sta alla base della teoria del linguaggio del Tractutus: la teoria del significato come raffigurazione. Secondo questa teoria il linguaggio è un insieme di nomi che hanno significato in quanto raffigurano gli oggetti di cui è composto il mondo: ogni termine si riferisce a un oggetto e ha significato in virtù di questo riferimento. Questa concezione del linguaggio prevede come unica funzione di esso quella dichiarativa e raffigurativa, come unico scopo quello di denominare le cose del mondo. Questa concezione appare ora a Wittgenstein estremamente riduttiva del modo in cui funziona il linguaggio, che invece viene adoperato per una grande quantità di scopi e usi. Per rendere conto di questa pluralità di usi, Wittgenstein ricorre alla metafora del gioco: ogni parola e ogni proposizione può infatti essere adoperata in innumerevoli attività, in innumerevoli giuochi linguistici, a nessuno dei quali può essere assegnata una posizione predominante, nemmeno a quello che ha come scopo la descrizione del mondo. Il parlare è concepito da Wittgenstein come un’attività naturale dell’uomo, così come sono naturali le attività che servono al sostentamento: è cioè una delle forme in cui si manifesta la vita dell’uomo, «una forma di vita»; e questa attività può essere diretta a innumerevoli scopi: può servire a descrivere e ad asserire, ma anche a lodare, a lamentarsi, a dare ordini, a imprecare e così via. 23. Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «giuoco linguistico» è destinata a mette661

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re in evidenza che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giuochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: Comandare, e agire secondo il comando – Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni – Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) – Riferire un avvenimento – Far congetture intorno all’avvenimento – Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova – Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi – Inventare una storia; e leggerla – Recitare in teatro – Cantare in girotondo – Sciogliere indovinelli – Fare una battuta; raccontarla – Risolvere un problema di aritmetica applicata – Tradurre da una lingua in un’altra – Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare. È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi di impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici. (E anche l’autore del Tractatus logico-philosophicus.) Il significato come ‘uso’

L’intersoggettività del significato e delle regole

La «somiglianza di famiglia»

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Se è così, non si riesce a cogliere il significato di una parola solo attraverso il riferimento a un oggetto del mondo: il significato della parola risiede piuttosto nel modo in cui essa viene usata. Il significato consiste nell’uso. Per comprendere un termine occorre, cioè, capire come è usato, i contesti in cui esso risulta appropriato, le regole che ci troviamo a seguire nell’impiegarlo: «per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo – scrive –, la parola “significato” si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio». La comprensione del significato di una parola o di un enunciato non è allora un processo mentale privato, ma è sempre un processo pubblico e intersoggettivo. Le regole che presiedono al funzionamento del linguaggio non sono né regole che nascono per essere seguite una volta sola, né regole eterne e immodificabili, ma regole che sorgono dall’uso e dall’abitudine, dalla pratica e dal contesto in cui il linguaggio viene ad avere una funzione, e che possono quindi cambiare una volta che cambia questa funzione: «seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)». Il riferimento alle regole è un elemento che il linguaggio ha in comune col fenomeno del gioco: per funzionare entrambi devono seguire determinate regole, ognuna delle quali contribuisce a definire il tipo di gioco e di linguaggio. Tuttavia, nonostante la centralità di questo riferimento alle regole, Wittgenstein mette in luce come non sia facile trovare un elemento comune a tutti i vari giochi linguistici; come non sia possibile una loro definizione precisa, che faccia riferimento a una loro forma generale, che possa coglierne l’essenza. Fra di essi vige piuttosto una «somiglianza di famiglia»: sono simili per alcuni aspetti ma differenti per altri, così come i membri di una famiglia sono simili l’un l’altro per alcuni aspetti ma differenti per altri. È perciò la somiglianza di famiglia l’unico criterio, vago e indeterminato, che abbiamo per identificare i vari giuochi linguistici.

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein La teoria del significato nel primo e secondo Wittgenstein

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La «famiglia» dei giuochi linguistici L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche

La filosofia come descrizione dell’uso linguistico quotidiano ➥ Percorso tematico, p. 703

T23

Il carattere descrittivo della filosofia L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche

«Primo Wittgenstein» (Tractatus)

«Secondo Wittgenstein» (Ricerche filosofiche)

1) Il significato di un termine consiste nell’oggetto che esso designa 2) Il significato di una proposizione consiste nello «stato di cose» (reale o possibile) che essa rappresenta 3) Il significato di una espressione linguistica è indipendente dal contesto di uso della medesima 4) Il linguaggio ha una funzione essenzialmente descrittiva

1) Il significato di un termine consiste nell’uso che se ne fa in certe circostanze 2) Il significato di una proposizione consiste nel ruolo che essa ricopre all’interno di un dato «gioco linguistico» 3) Il significato di una espressione linguistica è strettamente dipendente dal suo contesto di uso 4) Il linguaggio, come «forma di vita», ha molteplici funzioni diverse

Teoria ‘raffigurativa’ del significato

Teoria del significato come ‘uso’

Mi si potrebbe obiettare: «Tu la fai facile! Parli di ogni sorta di giuochi linguistici, ma non hai ancora detto che cosa sia l’essenziale del giuoco linguistico, e quindi del linguaggio; che cosa sia comune a tutti questi processi, e ne faccia un linguaggio, o parte di un linguaggio. Così ti esoneri proprio da quella parte della ricerca, che a suo tempo ti ha dato i maggiori grattacapi: cioè quella riguardante la forma generale della proposizione e del linguaggio». E questo è vero. Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti «linguaggi». […] Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione «somiglianze di famiglia»; infatti le varie somiglianze che sussistono fra i membri di una famiglia si sovrappongono e si incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i giuochi formano una famiglia. Compito della filosofia è l’analisi del linguaggio. Ma questa analisi non ha più, come aveva nel Tractatus, una funzione fondativa, volta a scoprire una struttura logica unica, comune a tutti i tipi di linguaggio; e non ha più nemmeno una funzione normativa, volta a eliminare le ambiguità e le imprecisioni del linguaggio ordinario, al fine di costruire un linguaggio ideale e perfetto. L’analisi filosofica ha adesso più semplicemente una funzione descrittiva. Compito della filosofia è la descrizione dell’uso comune, nella convinzione che il linguaggio comune sia dotato di un proprio ordine: anche la più vaga delle proposizioni fornite di senso, dice adesso Wittgenstein, ha un proprio ordine, che l’analisi filosofica deve cogliere e limitarsi a descrivere. 98. Da un lato è chiaro che ogni proposizione del nostro linguaggio ‘è in ordine così come è’. Vale a dire: non ci sforziamo di raggiungere un ideale: come se le vaghe proposizioni che usiamo comunemente non avessero ancora un senso del tutto ineccepibile e noi dovessimo ancora costruire un linguaggio perfetto. – D’altra parte sembra chiaro questo: che, dove c’è senso, là deve esserci ordine perfetto. – L’ordine perfetto deve dunque essere presente anche nella proposizione più vaga. […] 663

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124. La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto come è. […] […] 130. I nostri chiari e semplici giochi linguistici non sono studi preparatori per una futura regolamentazione del linguaggio, – non sono, per così dire, prime approssimazioni nelle quali non si tiene conto dell’attrito e della resistenza dell’aria. I giuochi linguistici sono piuttosto termini di paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro linguaggio. La filosofia come terapia

La maggior parte dei problemi filosofici nasce dal mancato riconoscimento di questa differenziazione dei contesti d’uso del linguaggio comune; nasce cioè dal separare il linguaggio dalle circostanze del suo impiego. I problemi filosofici sono paragonati a «crampi mentali», da cui ci si può liberare tornando all’uso ordinario delle parole. La filosofia ha così anche una funzione di terapia verso le confusioni nate dall’essersi allontanati da quest’uso. La filosofia è come una medicina: cura le malattie nate da un errato impiego del linguaggio, è una terapia contro i «nonsensi» che nascono dal non riconoscere l’ordine insito nei vari usi del linguaggio ordinario, nei vari giochi linguistici. Questi problemi vengono non tanto «risolti» dall’analisi filosofica, quanto direttamente «dissolti». Per quest’opera di dissoluzione dei problemi essa non ha a disposizione un solo metodo, ma tanti metodi quanti sono i vari giochi linguistici.

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132 Vogliamo mettere ordine nella nostra conoscenza dell’uso del linguaggio: un ordine per uno scopo determinato; uno dei molti ordini possibili; non l’ordine. A tale scopo metteremo continuamente in rilievo quelle distinzioni che le nostre comuni forme linguistiche ci fanno facilmente trascurare. […] 133. Non vogliamo raffinare o perfezionare in modo inaudito il sistema di regole per l’impiego delle nostre parole. La chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. – Quella che mette a riposo la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa. Invece si indica un metodo dando esempi; e la serie degli esempi si può interrompere. – Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie.

La «filosofia del linguaggio comune»

Se, come si vedrà nella prossima Unità, la prima fase del pensiero di Wittgenstein costituisce un modello di riferimento a cui attingono gli empiristi logici, questa seconda fase inaugura quella che è stata definita «filosofia del linguaggio comune», e che sarà particolarmente praticata a Oxford e a Cambridge nel secondo dopoguerra.

La dissoluzione dei problemi filosofici L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein Suggerimenti bibliografici Per le origini della filosofia analitica vedi J.O. Urmson, L’analisi filosofica, Mursia, Milano 1974 e M. Dummett, Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2001. Per una panoramica sulla filosofia di Moore nel contesto più ampio della filosofia analitica anglosassone vedi A. Granese, G.E. Moore e la filosofia analitica inglese, La Nuova Italia, Firenze 1970. Un’introduzione chiara e focalizzata sulla figura e il pensiero di Moore è quella di E. Lecaldano, Introduzione a Moore, Laterza, Roma-Bari 19812. Per quanto riguarda la teoria della conoscenza sviluppata da Moore è da segnalare lo studio di M. Borioni, La gnoseologia di George E. Moore, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984. Il testo di G. Preti, Il problema dei valori: l’etica di G.E. Moore, Angeli, Milano 1986, offre invece un’analisi chiara ed esauriente della prospettiva etica di questo padre dell’empirismo contemporaneo. Per una recente e chiara introduzione generale al pensiero di Russell segnaliamo il testo di M. Di Francesco, Introduzione a Russell, Laterza, Roma-Bari 1990. Una monografia classica su Russell, scritta da un importante allievo di Russell stesso e di Wittgenstein è rappresentata dallo studio dell’empirista contemporaneo A.J. Ayer, Russell, Mondadori, Milano 1992. Più tecnici e ricchi di raffronti tra la filosofia di Russell e le questioni di logica ed epistemologia dibattute nel Novecento sono i lavori di A. Granese, Che cosa ha veramente detto Russell, Ubaldini, Roma 1971 e di S. Rota Gribaudi, Bertrand Russell, Angeli, Milano 1985. Due introduzioni piuttosto recenti alla vita e al pensiero di Wittgenstein sono rappresentate dai testi di D. Marconi, Guida a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1997 e L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano 1997. Forse un po’ datata, ma pur sempre valida, è anche l’introduzione di A.G. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1973. La monografia di A.J. Ayer, Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 1986 rappresenta invece – come quella su Russell – la testimonianza di un allievo diretto di Wittgenstein nonché importante esponente dell’empirismo logico. In particolare per gli aspetti biografici si segnala anche il classico studio di A. Kenny (suo allievo), Wittgenstein, Bollati Boringhieri, Torino 2001. I brani antologizzati sono tratti da: G.E. Moore, La prova dell’esistenza del mondo esterno, in Id., Studi filosofici, Laterza, Roma-Bari 1961, pp. 153-154. G.E. Moore, The Nature and Reality of Objects of Perception («Natura e realtà degli oggetti della percezione»), in Id., Philosophical Studies, Londra 1922, pp. 67-68. G.E. Moore, Principia Ethica, Bompiani, Milano 1964: p. 35 (T3), pp. 48-49 (T4), p. 51 (T5), pp. 55-56 (T6), p. 70 (T7). G.E. Moore, Etica, Angeli, Milano 1982, pp. 134-135. B. Russell, La nostra conoscenza del mondo esterno, Longanesi, Milano 1966, pp. 119-120. B. Russell, La filosofia dell’atomismo logico, in Id., Logica e conoscenza. Saggi 1901-1950, Longanesi, Milano 1961: pp. 138-139 (T10), pp. 197-198 (T11). B. Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano 1959, p. 26. B. Russell, La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti, Longanesi, Milano 1951, pp. 526-527. B. Russell, Religione e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1951, pp. 192-193. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Id., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998, pp. 25-29 (T15), pp. 33-35 (T16), pp. 29-32 e 42-43 (T17), pp. 56-62 (T18), p. 68 (T19), pp. 43, 49-50 e 109 (T20). L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999: pp. 21-22 (T21), pp. 46-47 (T22), pp. 63, 69-70 (T23), pp. 71-72 (T24). Il brano di Moore citato a p. 638 è tratto da La confutazione dell’idealismo, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino 1969, p, 59.

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Sommario 1. L’EMPIRISMO

E LA FILOSOFIA ANALITICA

L’empirismo novecentesco contiene elementi di notevole originalità rispetto al positivismo ottocentesco, legati in particolare all’uso della logica come strumento per l’analisi del linguaggio e delle teorie scientifiche. In questo senso l’empirismo del Novecento ha condiviso lo stile della filosofia analitica e assume tra i suoi obiettivi principali la chiarificazione del significato degli enunciati. 2. MOORE

Moore è uno dei principali filosofi morali del Novecento, ma si distingue anche per la sua decisa difesa del senso comune contro la filosofia neoidealista inglese. Il mondo esterno appare costituito, per il giovane Moore, da una serie di oggetti materiali aventi dimensioni spazio-temporali e ordinati secondo certe relazioni reciproche. Per il Moore più maturo, invece, l’oggetto della percezione è costituito da dati sensoriali non riducibili alla coscienza. [par. 1] Secondo Moore la domanda fondamentale dell’etica è chiedere quale sia il significato del termine «buono» (metaetica) e quali cose siano buone (etica normativa). Secondo Moore il termine «buono» indica una qualità semplice, non ulteriormente analizzabile e quindi non definibile. Di conseguenza ciò che è buono può essere conosciuto solo attraverso un’intuizione (intuizionismo). [par. 2] Seguendo la cosiddetta «legge di Hume» Moore sostiene che «buono» non è definibile e che ogni tentativo di definirlo in termini di proprietà descrittive costituisce un errore logico, che egli chiama fallacia naturalistica. [par. 3] Per quanto concerne l’aspetto normativo della riflessione etica, Moore distingue il valore intrinseco dal valore strumentale. Il primo viene appreso mediante un’intuizione; il secondo viene appreso mediante considerazioni di carattere causale. Per Moore esistono due generi di cose dotate di valore intrinseco: l’affetto verso gli altri e la bellezza. In questo senso Moore sostiene una concezione pluralistica del valore, in opposizione all’edonismo. La sua posizione etica è detta anche «utilitarismo ideale». [par. 4] 3. RUSSELL

Sotto l’influenza di Moore e della sua rivalutazione del senso comune, il giovane Russell prende presto le distanze dal neoidealismo inglese. Egli ammette l’esistenza di una molteplicità reale di enti, e dunque afferma la superiorità della logica delle relazioni rispetto alla tradizionale logica dei predicati. Nell’ambito dei fondamenti della matematica Russell sostiene il logicismo inaugurato da Frege. L’elaborazione della teoria delle descrizioni definite costituisce inoltre un importante contributo alla riflessione logica e filosofica sulla natura del linguaggio. [par. 1] In opposizione alla con666

cezione monista della realtà propria dei neoidealisti inglesi, Russell elabora la teoria dell’atomismo logico, secondo cui la realtà sarebbe composta da una molteplicità di fatti atomici. A tali fatti corrisponderebbero, sul piano del linguaggio, le proposizioni atomiche. Dalle proposizioni atomiche possono essere costruite, mediante l’applicazione dei connettivi logici, le proposizioni molecolari. La filosofia dell’atomismo logico è fondata su una epistemologia di carattere empiristico. La conoscenza infatti si attua per Russell secondo due modalità fondamentali: per esperienza diretta oppure per descrizione. [par. 2] In ambito etico, il giovane Russell abbraccia – sulla scia di Moore – una prospettiva oggettivistica: «buono» e «cattivo» sono proprietà che certe cose possiedono indipendentemente dal giudizio che possiamo darne. Il Russell maturo aderisce invece a una posizione soggettivistica, sostenendo che i giudizi morali sono soltanto espressione delle nostre emozioni e dei nostri desideri per quanto pretendano consenso. [par. 3] 4. WITTGENSTEIN

Il pensiero del «primo Wittgenstein» trova la sua espressione nel Tractatus logico-philosophicus, opera in cui egli teorizza un’ontologia di stati di cose costituiti da oggetti in relazione reciproca. L’espressione percepibile del pensiero è costituita dal linguaggio e dalle proposizioni in cui esso è articolato. Il rapporto tra linguaggio e mondo consiste nella raffigurazione, per cui gli elementi della proposizione corrispondono a certi oggetti del mondo. Dalla possibilità raffigurativa del linguaggio dipende il suo possedere un senso, ma è solo attraverso la concordanza o meno con la realtà che può essere stabilita la verità o la falsità delle proposizioni. [par. 1] La logica ci mostra che vi sono proposizioni sempre vere e proposizioni sempre false, in virtù della loro forma; queste sono dette, rispettivamente, tautologie e contraddizioni. Esse non rappresentano alcuno stato di cose ma mostrano certe regole del nostro linguaggio e del nostro pensiero. Scopo della filosofia non è la formulazione di proposizioni filosofiche, bensì la chiarificazione delle proposizioni scientifiche. Essa può dunque soltanto tacere di fronte a ogni problema che non sia strettamente scientifico, bensì etico, esistenziale o mistico. [par. 2] Il cosiddetto «secondo Wittgenstein» si caratterizza per una radicale autocritica rivolta verso alcune tesi fondamentali del Tractatus, prima fra tutte la teoria «raffigurativa» del significato. Per il Wittgenstein delle Ricerche le parole, così come gli utensili, hanno vari scopi e metodi d’impiego, non soltanto quello di indicare oggetti. In questa fase del suo pensiero Wittgenstein concepisce il linguaggio come una delle tante attività umane, un’attività multiforme, costituita da innumerevoli giuochi linguistici. [par. 3]

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Unità 15 I padri dell’empirismo novecentesco: Moore, Russell, Wittgenstein

Parole chiave Analisi del linguaggio. Secondo la tradizione filosofica analitica, l’analisi del linguaggio costituisce lo strumento principale dell’analisi del pensiero e del significato.

Logica. In un senso ristretto essa può essere caratterizzata come lo studio sistematico dei nessi di carattere deduttivo tra gli enunciati del linguaggio in riferimento alla loro forma.

Atomismo logico. Concezione logica e filosofica inaugurata da Russell, secondo la quale la realtà sarebbe composta da una molteplicità di «fatti atomici», ossia non ulteriormente scomponibili in altri fatti.

Logicismo. Teoria relativa ai fondamenti della matematica inaugurata da Frege e sviluppata da Russell. Secondo la prospettiva logicista la matematica nel suo complesso è derivabile da concetti di natura prettamente logica, quali quelli di «insieme», «appartenenza», «identità» ecc.

Concordanza. Per il Wittgenstein del Tractatus, essa costituisce la condizione necessaria e sufficiente della verità di una proposizione. Una proposizione è vera se raffigura un fatto sussistente, altrimenti è falsa. Contraddizioni. In logica, esse sono proposizioni complesse che risultano sempre false, in virtù della loro forma, indipendentemente dalle circostanze che sussistono nella realtà. Enunciato dichiarativo. Configurazione linguistica dotata di senso e che è vera o falsa. Quest’ultimo requisito va sotto il nome di principio di «bivalenza». Etica normativa. È quella branca della riflessione etica che si occupa di definire i criteri della valutazione morale, in base ai quali stabilire quali cose sono buone e quali azioni sono giuste. Fallacia naturalistica. Essa consiste nell’errore che secondo Moore viene commesso nel credere che la qualità «buono» sia definibile sulla base di altre qualità più semplici di tipo non valutativo. L’errore logico che starebbe alla base della fallacia naturalistica consiste nella pretesa di derivare un valore (dover essere) da meri fatti (essere). Filosofia analitica. Corrente della filosofia novecentesca, inaugurata dall’analisi logica del linguaggio di Frege e Russell. Essa ha per scopo principale la chiarificazione del significato dei termini impiegati nelle asserzioni filosofiche e scientifiche. Secondo l’approccio analitico la filosofia consiste essenzialmente nell’analisi logico-concettuale del linguaggio. Giuochi linguistici. Nella filosofia del secondo Wittgenstein, questa espressione indica l’insieme di tutte le attività umane in cui il linguaggio è coinvolto e ciò che fa sì che i termini e le proposizioni abbiano un significato, stabilito caso per caso sulla base delle regole d’uso delle espressioni. Intuizionismo. L’idea, sostenuta tra gli altri da Moore, che la conoscenza di ciò che è buono sia un atto mentale di carattere intuitivo (immediato), data la non analizzabilità del concetto di ‘buono’ in termini di altre proprietà.

Metaetica. È quella branca della riflessione etica che si occupa di esaminare il significato dei termini fondamentali della morale, quali «buono», «giusto», «doveroso» ecc. e dei giudizi morali. Proposizioni atomiche. Sono le proposizioni non ulteriormente scomponibili in altre proposizioni più semplici. Alle proposizioni atomiche vere corrispondono, nella realtà, i fatti atomici. Proposizioni molecolari. Proposizioni composte a partire dalle proposizioni atomiche mediante i connettivi logici «e», «o», «non», «se allora». Alle proposizioni molecolari vere corrispondono i fatti complessi. Raffigurazione. Per il Wittgenstein del Tractatus, essa è la relazione che sussiste tra il linguaggio (in quanto espressione del pensiero) e il mondo. Essa è resa possibile dall’identità di forma logica tra le proposizioni e gli stati di cose che esse rappresentano. Senso comune. Nella concezione di Moore tale espressione indica quell’insieme di credenze condivise e indubitabili che accomunano ogni individuo non filosofo. La filosofia del senso comune si contrappone così all’idealismo e si configura come una forma di realismo che difende la distinzione tra soggetto e oggetto. Stati di cose. Nell’ontologia del Tractatus di Wittgenstein, tale espressione indica i fatti elementari o atomici. Gli stati di cose, che sono costituiti da un nesso di oggetti, possono comporsi tra loro in fatti più complessi. Tautologie. In logica, esse sono proposizioni complesse che risultano sempre vere, in virtù della loro forma, indipendentemente dai fatti. Valore intrinseco. Secondo Moore esso è una proprietà che certe cose hanno in se stesse, indipendentemente dalle conseguenze che comportano, e che le rende ‘buone’. Valore strumentale. Per Moore consiste nella proprietà che certe cose hanno in quanto mezzi per il raggiungimento di certi fini dotati di valore intrinseco. 667

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Questionario L’EMPIRISMO

E LA FILOSOFIA ANALITICA

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Che ruolo ha l’analisi del linguaggio nell’ambito dell’empirismo del Novecento? (max 3 righe)

2

Che cosa distingue gli enunciati dichiarativi dagli altri tipi di enunciato? (max 2 righe)

15

Come caratterizzeresti l’atteggiamento del «primo Wittgenstein» nei confronti del linguaggio ordinario rispetto a quello del «secondo Wittgenstein»? (max 6 righe)

Lavoriamo sui testi MOORE 3

Quale argomento avanza Moore a favore della distinzione tra coscienza soggettiva e oggetto della coscienza? (max 5 righe)

16

Ti sembra convincente l’argomento fornito da Moore in T1 a favore dell’esistenza di oggetti esterni alla mente? (max 5 righe)

4

Come può essere caratterizzata la distinzione tra metaetica ed etica normativa? (max 5 righe)

17

Che cosa osserviamo effettivamente quando guardiamo un oggetto, secondo quanto Moore afferma in T2? (max 3 righe)

5

Perché secondo Moore non è possibile fornire una definizione del termine «buono»? (max 2 righe)

18

Da che cosa si origina la «fallacia naturalistica» stando a quanto sostiene Moore in T6? (max 6 righe)

19

Quali conseguenze ha comportato per Russell la sottovalutazione della logica delle relazioni, secondo quanto egli afferma in T9? (max 5 righe)

Quali sono i motivi che spingono Russell a sviluppare una logica delle relazioni che vada oltre la tradizionale logica dei predicati? (max 5 righe)

20

Che rapporto c’è tra oggetti, stati di cose e fatti, stando a quanto Wittgenstein asserisce in T15? (max 6 righe)

Che cosa si intende per «fatto atomico»? Che cosa corrisponde ad esso sul piano del linguaggio? (max 4 righe)

21

Quali sono i tratti caratteristici della «conoscenza per esperienza diretta» e della «conoscenza per descrizione»? (max 6 righe)

Perché gli oggetti non possono essere composti, secondo quanto Wittgenstein asserisce in T15? (max 4 righe)

22

Da quali fattori dipende la verità o la falsità di una proposizione stando a quanto Wittgenstein sostiene in T17? (max 6 righe)

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In che cosa consiste la fallacia naturalistica? (max 4 righe)

RUSSELL 7

8

9

WITTGENSTEIN 10

Quali sono le affinità tra l’ontologia del Tractatus e quella dell’atomismo logico sostenuto da Russell? (max 6 righe)

23

Che cosa mostrano le tautologie e le contraddizioni, secondo quanto afferma Wittgenstein in T18? Qual è la loro funzione? (max 5 righe)

11

In cosa consiste per Wittgenstein la verità? (max 2 righe)

24

12

Come si possono caratterizzare quelle particolari proposizioni che vanno sotto il nome di «tautologie»? (max 3 righe)

In che cosa consiste il prodotto autentico della filosofia, secondo quanto espresso da Wittgenstein in T20? (max 4 righe)

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Come si configura l’attività filosofica in relazione ai problemi filosofici, secondo quanto Wittgenstein asserisce in T24? (max 5 righe)

13

Perché la filosofia secondo Wittgenstein deve tacere di fronte a ogni problema etico, esistenziale o mistico? (max 5 righe)

14

In che cosa consiste il principale obiettivo critico del cosiddetto «secondo Wittgenstein»? (max 4 righe)

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Laboratorio di lettura Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus Nelle pagine iniziali del Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein delinea una ben precisa ontologia e una ben precisa teoria del linguaggio. La realtà è il mondo, e il mondo è costituito da stati di cose, da fatti e da oggetti. Il mondo viene colto dal pensiero, e il pensiero si esprime nel linguaggio. Il linguaggio è dotato di senso in quanto raffigura dei fatti; un linguaggio che non ha una funzione raffigurativa è privo di senso. Tuttavia, che una proposizione del linguaggio sia dotata di senso, non vuol dire che sia anche vera: la verità o la falsità della proposizione non dipende solo dal suo essere sensata, ma dalla sua concordanza o non concordanza con la realtà che rappresenta. La teoria del linguaggio come raffigurazione qui sviluppata verrà nettamente rifiutata da Wittgenstein negli scritti degli anni trenta e quaranta.

Ontologia e analisi logica del linguaggio Prima tesi: l’ontologia di riferimento

Commento e interpretazione

1 [A] Il mondo è tutto ciò che accade. [B] 1.1 Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. 1.11 Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti. 1.12 Ché la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade. 1.13 I fatti nello spazio logico sono il mondo. 1.2 Il mondo si divide in fatti. [C]

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A. Il Tractatus si compone di una serie di proposizioni numerate e sotto-numerate dall’autore a seconda del loro ordine e del loro rilievo. Osserva Wittgenstein, in nota, a proposito di questo modo di articolare l’esposizione: «I decimali, che numerano le singole proposizioni, ne denotano l’importanza logica, il rilievo che ad esse spetta nella mia esposizione. Le proposizioni n. 1, n. 2, n. 3, etc., sono commenti alla proposizione n; le proposizioni n. m1, n. m2, etc., commenti alla proposizione n.m; e così via». Il testo, va inoltre rilevato, non è costituito da un’esposizione di tesi con le rispettive argomentazioni, quanto piuttosto da una serie di osservazioni: il Tractatus intende mostrare, anziché argomentare, le tesi sostenute, facendo forza su una loro presunta evidenza. B. Wittgenstein nel Tractatus assume come presupposto che esista un mondo, che ci sia una realtà alle spalle del pensiero e del linguaggio. Il primo problema che viene affrontato è il problema dell’ontologia: stabilire cioè che cosa effettivamente esiste nel mondo; solo successivamente vengono affrontate questioni di teoria del significato, logica e gnoseologia. C. L’ontologia, cioè la costituzione del mondo, su cui Wittgenstein richiama l’attenzione, è composta da quelli che chiama «fatti». A differenza della metafisica tradizionale, e conformemente all’atomismo logico di Russell, sono i fatti e non le cose, gli elementi di cui è composta la realtà, ai quali si giunge attraverso l’analisi logica. Sebbene Wittgenstein non dia esemplificazioni di cosa intenda con «fatti» e con «cose», si può semplificare il discorso dicendo che un tavolo è una cosa ma non un fatto, mentre

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Seconda tesi: l’analisi dei fatti

Analisi della seconda tesi. Primo chiarimento: oggetti, stati di cose e possibilità

1.21 Qualcosa può accadere o non accadere e tutto il resto rimanere eguale. [D] 2 Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. 2.01 Lo stato di cose è un nesso d’oggetti (entità, cose). 2.011 È essenziale alla cosa il poter essere parte costitutiva d’uno stato di cose. [E] 2.012 Nella logica nulla è accidentale: Se la cosa può ricorrere nello stato di cose, la possibilità dello stato di cose dev’essere già pregiudicata nella cosa. [F] 2.0121 Parrebbe quasi un accidente se alla cosa, che potesse sussistere per sé sola, successivamente potesse convenire una situazione. Se le cose possono ricorrere in stati di cose, ciò deve già essere in esse. (Qualcosa di logico non può essere solo-possibile. La logica tratta di ogni possibilità, e tutte le possibilità sono i suoi fatti.) Come non possiamo affatto concepire oggetti spaziali fuori dello spazio, oggetti temporali fuori del tempo, così noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri. Se posso concepire l’oggetto nel contesto dello stato di cose, io non posso concepirlo fuori della possibilità di questo contesto. [G] 2.0122 La cosa è indipendente nella misura nella quale essa può ricorrere in tutte le situazioni possibili, ma questa forma d’indipendenza è una forma di connessione con lo stato di cose, una forma di non-indipendenza. (È impossibile che le parole appaiano in due differenti modi: da sole, e nella proposizione.) [H] […]

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è un fatto che un tavolo è nella stanza; nel linguaggio le cose sono designate da termini, per esempio il termine «tavolo»; i fatti invece da proposizioni, per esempio la proposizione «il tavolo è nella stanza». D. I fatti sono indipendenti gli uni dagli altri: l’accadere di un fatto non muta gli altri fatti. Come nella teoria delle relazioni di Russell, le relazioni che si danno fra di essi sono relazioni esterne e non intrinseche, proprio perché non ne mutano la natura. E. Wittgenstein distingue i «fatti» (Tatsachen) dagli «stati di cose» (Sachverhalte). Un problema tradizionale nell’interpretazione del Tractatus è capire cosa si intenda con queste espressioni, dato che esse compaiono in due diverse accezioni: l’espressione «stato di cose» è usata (nella proposizione 2) per indicare una situazione potenziale, mentre un fatto è l’attuarsi effettivo di uno stato di cose; la distinzione rimanderebbe dunque a quella fra una situazione solo possibile e una situazione reale. Ma le due espressioni sono usate anche per denotare la prima una configurazione singola, la seconda una combinazione di configurazioni (come per esempio nella proposizione 2.034); in questa seconda accezione, gli stati di cose sono fatti semplici ed elementari: l’unione di più stati di cose dà origine a fatti complessi, detti semplicemente «fatti». A ogni modo, indipendentemente da quale delle due accezioni venga usata, gli stati di cose, così come i fatti, sono concepiti come indipendenti gli uni dagli altri e sono a loro volta costituiti da elementi semplici, chiamati «oggetti» o «cose». F. Come emerge già dall’uso della metafora dello «spazio logico» nella proposizione 1.13, Wittgenstein pone in stretta relazione la struttura logica del pensiero e del linguaggio con la costituzione ontologica del mondo. Nel Tractatus si dà per scontato che esista una sola struttura logica del linguaggio e del pensiero e si assume che essa sia direttamente correlata alla struttura del mondo. L’ontologia di cui è composto il mondo non viene quindi direttamente asserita come esi-

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Secondo chiarimento: la sostanza del mondo

Terzo chiarimento: forma e sostanza

2.0124 Se sono dati tutti gli oggetti, con ciò sono dati tutti gli stati di cose possibili. 2.013 Ogni cosa è come in uno spazio di possibili stati di cose. Questo spazio io posso pensarlo vuoto, ma io non posso pensare la cosa senza spazio. 2.0131 L’oggetto spaziale dev’essere nello spazio infinito. (Il punto dello spazio è un posto d’argomento.) La macchia nel campo visivo può non esser rossa, ma un colore non può non averlo: Essa ha, per così dire, lo spazio cromatico intorno a sé. Il suono deve avere una altezza, l’oggetto del tatto una durezza, e così via. 2.014 Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni. [I] 2.0141 La possibilità della sua ricorrenza in stati di cose è la forma dell’oggetto. [L] 2.02 L’oggetto è semplice. 2.0201 Ogni enunciato sopra complessi può scomporsi in un enunciato sopra le loro parti costitutive e nelle proposizioni che descrivono completamente i complessi. 2.021 Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò essi non possono essere composti. [M] 2.0211 Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione vera. 2.0212 Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine (vera o falsa) del mondo. 2.022 È manifesto che un mondo, per quanto differente sia pensato dal mondo reale, deve avere in comune con il mondo reale qualcosa – una forma.

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stente, ma è ricavata indirettamente dall’analisi del funzionamento logico del linguaggio e del pensiero: è cioè l’ontologia richiesta dalla logica, anziché un’ontologia conforme a un modello precostituito. Wittgenstein ritiene, dunque, che vi sia un’unica struttura concettuale e linguistica logicamente perfetta, in grado di rappresentare la struttura della realtà. È una concezione che andrà in crisi di fronte alla possibilità di costruire convenzionalmente più sistemi logici alternativi. Gli oggetti, o cose, possono combinarsi in modi differenti per dare luogo ai differenti stati di cose e fatti. Gli oggetti non sarebbero realmente possibili come elementi isolati, senza relazione con altri elementi e tali da non rientrare in stati di cose. Secondo Wittgenstein, non si può concepire una cosa fuori dal suo far parte di possibili situazioni e stati di cose. Gli oggetti, o cose, sono indipendenti non in quanto sussistono per se stessi senza relazioni con altri, ma solo in quanto possono far parte di più stati di cose. Se i fatti sono dunque indipendenti in quanto sussistono per sé senza bisogno di relazioni con altri fatti, questa indipendenza non si dà per gli oggetti di cui sono composti. Secondo Wittgenstein, non ci sono cose senza la possibilità degli stati di cose, così come non ci sono oggetti spaziali senza spazio, o oggetti visibili senza colore. Così, se sono date tutte le cose, sono allo stesso tempo dati tutti gli stati di cose possibili, dato che essi si originano dalla composizione delle cose. Il modo in cui gli oggetti si possono combinare all’interno di uno stato di cose è detto da Wittgenstein «forma» dell’oggetto. La forma dell’oggetto, si dirà subito dopo, determina a sua volta la «struttura» dello stato di cose e quindi del fatto. Come nella teoria delle relazioni di Russell, gli oggetti sono elementi semplici e quindi non sono ulteriormente scomponibili. Proprio in quanto elementi semplici che entrano nelle varie combinazioni possibili per dar luogo a fatti, essi costituiscono quella che viene detta la «sostanza del mondo», cioè la sua componente più elementare. 671

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2.023 Questa forma fissa consta appunto degli oggetti. [N] 2.024 La sostanza è ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade. 2.025 Essa è forma e contenuto. 2.0251 Spazio, tempo e colore (cromaticità) sono forme degli oggetti. [O] 2.026 Solo se vi sono oggetti può esservi una forma fissa del mondo. 2.027 Il fisso, il sussistere e l’oggetto sono tutt’uno. 2.0271 L’oggetto è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante. 2.0272 La configurazione degli oggetti forma lo stato di cose. [P] Quarto chiarimento: 2.03 Nello stato di cose gli oggetti sono interconnessi, come le maglie di la struttura una catena. degli stati di cose 2.031 Nello stato di cose gli oggetti sono in una determinata relazione l’uno con l’altro. 2.032 Il modo, nel quale gli oggetti ineriscono l’uno all’altro nello stato di cose, è la struttura dello stato di cose. 2.033 La forma è la possibilità della struttura. [Q] 2.034 La struttura del fatto consta delle strutture degli stati di cose. [R] 2.04 La totalità degli stati di cose sussistenti è il mondo. 2.05 La totalità degli stati di cose sussistenti determina anche quali stati di cose non sussistono. 2.06 Il sussistere o non sussistere di stati di cose è la realtà. (Il sussistere di stati di cose lo chiamiamo anche un fatto positivo; il non sussistere, un fatto negativo.)

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N. Se il mondo non fosse composto da oggetti semplici in relazione con altri oggetti, se quindi esso non avesse una sostanza (data dagli oggetti), e una forma (data dalla combinazione degli oggetti), non sarebbe possibile secondo Wittgenstein per il pensiero e il linguaggio essere dotati di senso, poiché essi hanno un senso solo in quanto si riferiscono a qualcosa di determinato. Se dunque non esistesse una sostanza del mondo composta da oggetti semplici (costanti e fissi), il fatto che una proposizione sia dotata di senso non potrebbe risultare dall’analisi della proposizione stessa ma solo da una proposizione esterna vera che garantisse come effettivamente esistenti gli oggetti a cui la prima proposizione si riferisce. Non sarebbe dunque possibile nemmeno formulare proposizioni vere o false, in quanto conformi o non conformi alla realtà. Del resto per Wittgenstein senso e verità di una proposizione sono strettamente connessi: il senso di una proposizione consiste nel suo essere verificabile o falsificabile: come scrive nella proposizione 4.024, «comprendere una proposizione è sapere che cosa accada se essa è vera». Un aspetto che è stato ripreso dagli empiristi logici e che va sotto il nome di «principio di verificazione» (vedi Unità 16, p. 723). O. Secondo Wittgenstein, la sostanza del mondo, costituita dagli oggetti, ha necessariamente una propria forma, che è la forma degli oggetti da cui è composta. Forme degli oggetti, cioè modi in cui essi possono combinarsi per dar luogo a stati di cose e fatti, sono lo spazio, il tempo, ma anche il colore: è impossibile infatti percepire un oggetto senza spazio, tempo, o colore. P. Come in Russell, gli oggetti permangono costanti e fissi e non mutano nelle relazioni e connessioni in cui si presentano. Ciò che varia sono solo le loro possibili combinazioni che danno luogo ai differenti stati di cose. Q. La forma dell’oggetto rende possibile la connessione con altri oggetti per costituire uno stato di cose. In quanto costituito da più cose in stretta relazione fra loro, lo stato di cose ha una struttura, e questa struttura, secondo Wittgenstein, dipende dalla

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Quinto chiarimento: fatti e immagini dei fatti

Sesto chiarimento: natura dell’immagine: la forma di raffigurazione

2.061 Gli stati di cose sono indipendenti l’uno dall’altro. 2.062 Dal sussistere o non sussistere di uno stato di cose non può concludersi il sussistere o non sussistere di un altro. 2.063 La realtà tutta è il mondo. [S] 2.1 Noi ci facciamo immagini dei fatti. [T] 2.11 L’immagine presenta la situazione nello spazio logico, il sussistere e non sussistere di stati di cose. 2.12 L’immagine è un modello della realtà. [U] 2.13 Agli oggetti corrispondono nell’immagine gli elementi dell’immagine. 2.131 Gli elementi dell’immagine sono rappresentanti degli oggetti nell’immagine. 2.14 L’immagine consiste nell’essere i suoi elementi in una determinata relazione l’uno con l’altro. 2.141 L’immagine è un fatto. [V] 2.15 Che gli elementi dell’immagine siano in una determinata relazione l’uno con l’altro rappresenta che le cose sono in questa relazione l’una con l’altra. Questa connessione degli elementi dell’immagine io la chiamo struttura dell’immagine; la possibilità di questa struttura io la chiamo la forma di raffigurazione dell’immagine. 2.151 La forma di raffigurazione è la possibilità che le cose siano l’una con l’altra nella stessa relazione che gli elementi dell’immagine. [W] 2.1511 È così che l’immagine è connessa con la realtà; giunge ad essa. 2.1512 Essa è come un metro apposto alla realtà.

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forma delle cose stesse, proprio in quanto questa forma ne determina le connessioni possibili. Le varie strutture degli «stati di cose», cioè, in questa accezione, dei fatti elementari, costituiscono la struttura dei fatti complessi, cioè in questa accezione, dei «fatti». La forma delle cose determina quindi la struttura degli stati di cose, e questa la struttura del fatto. Come si è già osservato, a differenza delle cose, gli stati di cose sono considerati indipendenti gli uni dagli altri. La totalità degli stati di cose effettivamente esistenti è il mondo, e quindi la realtà. Dopo avere presentato l’ontologia da cui è composto il mondo, Wittgenstein affronta il problema di stabilire le condizioni alle quali le nostre immagini della realtà, possano essere applicate ad essa e quindi possano essere significanti e vere. L’immagine si presenta come una raffigurazione del mondo sul piano logico, cioè formale: è un modello formale del mondo. Il pensiero e il linguaggio, si vedrà subito dopo, sono concepiti come le principali immagini e raffigurazioni del mondo. Affinché l’immagine sia una corretta raffigurazione della realtà, i vari elementi da cui essa è formata devono corrispondere ai vari oggetti che formano gli stati di cose e devono rispettare le loro relazioni: immagine e realtà devono quindi condividere la stessa struttura, essere cioè isomorfe. In quanto l’immagine è composta da vari elementi in relazione fra loro, come avviene nei fatti, è detta anch’essa un fatto. Wittgenstein ritiene che vi siano diversi tipi di immagini della realtà. Esse cambiano a seconda della forma di raffigurazione adoperata, a seconda cioè dei mezzi espressivi con i quali si ottiene la raffigurazione: ci può essere, così, un’immagine spaziale, se essa fa ricorso a proprietà spaziali, o un’immagine cromatica, se essa fa ricorso a proprietà cromatiche, un’immagine sonora e così via. La relazione fra i vari elementi dell’immagine costituisce la struttura dell’immagine; essa rispecchia la relazione esistente fra le cose che compongono i fatti. 673

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2.15121 Solo i punti estremi delle righe di graduazione toccano l’oggetto da misurare. [X] 2.1513 Secondo questa concezione, dunque, appartiene all’immagine anche quella relazione di raffigurazione che dell’immagine fa appunto un’immagine. 2.1514 La relazione di raffigurazione consta delle coordinate degli elementi dell’immagine e delle cose. 2.1515 Queste coordinazioni sono quasi le antenne degli elementi dell’immagine, con le quali l’immagine tocca la realtà. [Y] Settimo chiarimento: 2.16 Il fatto, per essere immagine, deve avere qualcosa in comune con il l’isomorfismo tra fatto raffigurato. e immagine 2.161 Nell’immagine e nel raffigurato qualcosa dev’essere identico, affinché quella possa essere un’immagine di questo. 2.17 Ciò che l’immagine deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente – nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria dell’immagine. 2.171 L’immagine può raffigurare ogni realtà della quale ha la forma. L’immagine spaziale, tutto lo spaziale; la cromatica, tutto il cromatico; etc. [Z] 2.172 La sua propria forma di raffigurazione, tuttavia, l’immagine non può raffigurarla; essa la esibisce. 2.173 L’immagine rappresenta il suo oggetto dal di fuori (suo punto di vista è la sua forma di rappresentazione), perciò l’immagine rappresenta il suo oggetto correttamente o falsamente. 2.174 L’immagine non può, tuttavia, porsi fuori della propria forma di rappresentazione. [AA] 2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in

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X. Attraverso questa riproduzione della struttura degli stati di cose nella struttura dell’immagine, l’immagine raffigura la realtà e ha un ‘contatto’ con essa. Come un metro (o una carta geografica o un modellino di un oggetto) essa riesce a rappresentare la realtà, ma solo nella sua struttura, non potendo esserne una copia esatta: come la riga del metro essa corrisponde alla realtà solo nei punti fondamentali. Y. In questo modo, stabilendo una relazione fra gli elementi da cui è composta l’immagine e le cose, si ottiene una relazione di raffigurazione fra l’immagine e la realtà: l’immagine corrisponde alla realtà. Z. L’immagine riesce a raffigurare la realtà e a riprodurne la struttura in quanto ne condivide la forma di raffigurazione (che può essere intesa come l’insieme dei mezzi espressivi con i quali si raffigura qualcosa): in quanto, cioè, usa dei mezzi espressivi analoghi alle caratteristiche della realtà. Così, attraverso un’immagine spaziale si può avere un’adeguata raffigurazione di cose nello spazio, oppure attraverso un’immagine cromatica un’adeguata raffigurazione di cose colorate. AA.Come detto, ogni immagine è dotata di una propria forma di raffigurazione, cioè di propri mezzi espressivi, e da essa non può prescindere. Questi mezzi vengono direttamente esibiti dall’immagine: così per esempio un’immagine cromatica esibisce una forma di raffigurazione cromatica. BB.Se è vero che ogni immagine ha una propria forma di raffigurazione, tutte le immagini condividono l’avere una struttura che corrisponde alla relazione esistente fra le cose. Questa struttura, comune a tutte le immagini, è detta «forma logica» in quanto ricavata dalla relazione tra componenti elementari ultime. L’immagine logica è dunque quell’immagine che adopera come forma di raffigurazione la forma logica, cioè quei mezzi

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Ottavo chiarimento: la verità come concordanza e il senso dell’immagine

comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente –, è la forma logica, ossia la forma della realtà. 2.181 Se la forma di raffigurazione è la forma logica, l’immagine si chiama l’immagine logica. 2.182 Ogni immagine è anche un’immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un’immagine spaziale.) 2.19 L’immagine logica può raffigurare il mondo. 2.2 L’immagine ha in comune con il raffigurato la forma logica di raffigurazione. [BB] 2.201 L’immagine raffigura la realtà rappresentando una possibilità del sussistere e non sussistere di stati di cose. 2.202 L’immagine rappresenta una possibile situazione nello spazio logico. 2.203 L’immagine contiene la possibilità della situazione che essa rappresenta. [CC] 2.21 L’immagine concorda o non concorda con la realtà; essa è corretta o scorretta, vera o falsa. 2.22 L’immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la forma di raffigurazione. 2.221 Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso. 2.222 Nella concordanza o non-concordanza del senso dell’immagine con la realtà consiste la verità o falsità dell’immagine. 2.223 Per riconoscere se l’immagine sia vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà. [DD] 2.224 Dall’immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa. 2.225 Un’immagine vera a priori non v’è. [EE]

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espressivi costituiti da elementi semplici, indipendentemente da quale sia la loro particolare natura; poiché tutte le immagini hanno elementi in relazione fra loro, tutte le immagini sono anche immagini logiche. L’immagine logica raffigura quindi la realtà e ha una corrispondenza strutturale con essa. Questa raffigurazione non va tuttavia intesa come una riproduzione che somigli alla realtà, ma è una raffigurazione solo «logica», dato che ciò che viene raffigurato è solo la struttura dello stato di cose, la combinazione dei suoi elementi; in questo modo, dirà più avanti Wittgenstein, un disco, uno spartito di musica o delle onde sonore possono raffigurare la struttura logica del medesimo stato di cose. CC.La raffigurazione operata dall’immagine è però la raffigurazione solo di una realtà potenziale, di una situazione solo possibile, di stati di cose che possono sussistere effettivamente (ed essere perciò fatti), oppure non sussistere. E, proprio in quanto raffigurazione di una qualche possibile realtà, essa è dotata di senso. DD.L’immagine è dunque dotata di senso se ha una forma analoga a quella di una qualche realtà, ed è quindi possibile. Tuttavia, che l’immagine sia dotata di senso non vuol dire che essa sia di per se stessa anche vera: la verità o la falsità della raffigurazione non dipende solo dal suo essere rappresentazione di una possibile realtà, dal suo essere dotata di senso, ma anche dalla sua concordanza o non concordanza con la realtà effettiva che rappresenta: è nella concordanza del senso dell’immagine con la realtà che consiste la sua verità. Wittgenstein fa propria, nel Tractatus, la tradizionale teoria della verità come ‘corrispondenza’ con la realtà. EE. Come conseguenza, sostiene Wittgenstein, se una immagine è vera non può essere stabilito a priori, ma solo dopo che è stata confrontata con la realtà. Non esistono quindi ve-

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Parte seconda Le filosofie del Novecento Terza tesi: natura del pensiero

3 L’immagine logica dei fatti è il pensiero. 3.001 «Uno stato di cose è pensabile» vuol dire: Noi possiamo farci un’immagine di esso. 3.01 La totalità dei pensieri veri è un’immagine del mondo. [FF]

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(da L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Id. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998, pp. 25-32)

rità a priori, tali indipendentemente da un confronto con la realtà. Nella terminologia usata dagli empiristi logici, non esistono giudizi sintetici a priori, ma solo a posteriori. FF. Se, come abbiamo visto, tutte le immagini sono anche immagini logiche, c’è un’immagine della realtà che può essere solo logica: questa immagine è il pensiero. Nel pensiero, e dunque nel linguaggio attraverso il quale il pensiero è espresso, si ottiene un’immagine logica, cioè formale, dei fatti, in grado di rispecchiare la loro struttura.

Questionario sull’argomentazione 1

L’ontologia che fa da sfondo al Tractatus è, per così dire, ‘ritagliata’ sulla base dell’analisi logica del linguaggio. Ossia, sebbene l’opera si apra con una descrizione delle componenti ultime della realtà, tali componenti vengono dedotte da Wittgenstein sulla base dell’analisi della struttura logica degli enunciati. Indica quelle proposizioni in cui risulta esplicita questa dipendenza dell’ontologia dall’analisi logica del linguaggio. (max 4 righe)

Stando ai passi del Tractatus sopra riportati, descrivi che cosa, secondo Wittgenstein, rende possibile un rapporto tra proposizioni e fatti, e in che cosa consiste esattamente tale rapporto. (max 8 righe) 676

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Il concetto di «sostanza», che ha una lunghissima storia nella tradizione del pensiero filosofico, ricopre nel Tractatus un ruolo specifico. Indica qual è tale ruolo e che cosa distingue questa accezione di «sostanza» dalle dottrine filosofiche tradizionali. (max 6 righe)

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Il Tractatus, per ammissione dello stesso Russell, ha esercitato una forte influenza sulla formulazione della filosofia dell’atomismo logico. Individua, sulla base del brano che hai letto, le affinità e le divergenze tra la teoria di Russell e quella del suo giovane allievo Wittgenstein. (max 8 righe)

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I testi L. Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus: Il linguaggio è un travestimento del pensiero, T1

M. Heidegger Logica. Il problema della verità: La comprensione, T4 Perché i poeti?: Il linguaggio è la casa dell’essere, T5

E. Cassirer Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettivo: Attraverso il linguaggio si formano gli oggetti, T2

H.-G. Gadamer Uomo e linguaggio: I tre caratteri essenziali della lingua, T6

L. Wittgenstein Ricerche filosofiche: Ci sono innumerevoli modi di usare il linguaggio, T3

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La natura del linguaggio 1

Il linguaggio come strumento di conoscenza

Tra gli autori che hanno considerato centrale il linguaggio nella filosofia del Novecento c’è certamente Wittgenstein, che però, nel corso del suo sviluppo filosofico, ha sostenuto due concezioni del linguaggio diverse. Funzione cognitiva La prima è quella espressa nella sua opera del 1921, il Tractatus logico-philodel linguaggio sophicus, nella quale Wittgenstein sostiene una concezione del linguaggio come espressione del pensiero e raffigurazione della realtà. La sua funzione essenziale è quella di asserire o negare stati di cose del mondo, e ciò avviene attraverso qualcosa che linguaggio e mondo hanno in comune. La funzione del linguaggio è dunque soprattutto cognitiva, e il linguaggio d’uso comune dev’essere perciò corretto attraverso un’analisi della sua struttura logica, che consenta di creare un linguaggio idealizzato privo del ‘travestimento’ linguistico che si crea nel linguaggio comune. Il linguaggio idealizzato Un linguaggio del genere è in grado di significare, rappresentare il mondo (la totalità dei fatti) senza distorsioni, evitando gli ostacoli posti dagli «altri fini» che hanno presieduto alla formazione del linguaggio. A differenza di ciò che accade nel linguaggio che usiamo comunemente, nel linguaggio idealizzato (qual è quello che già Frege [vedi Unità 10, p. 394] e Russell [vedi Unità 15, p. 645] si impegnano a elaborare) ogni segno (ogni parola) indica una sola cosa, non cose diverse tra loro; solo così si possono evitare le ambiguità e la confusione che caratterizzano, invece, il linguaggio della vita quotidiana e far emergere i pensieri che tale linguaggio «traveste» anziché riprodurli nella loro forma autentica.

T1

Il linguaggio è un travestimento del pensiero

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

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2.0272 La configurazione degli oggetti forma lo stato di cose. […] 2.1 Noi ci facciamo immagini dei fatti. 2.11 L’immagine presenta la situazione nello spazio logico, il sussistere e non sussistere di stati di cose. […] 2.151 La forma della raffigurazione è la possibilità che le cose stiano l’una all’altra nella stessa relazione che gli elementi dell’immagine. 2.1511 L’immagine è così legata con la realtà; giunge ad essa. […] 2.1514 La relazione di raffigurazione consta delle coordinazioni degli elementi dell’immagine e delle cose. […] 3 L’immagine logica dei fatti è il pensiero. […] 3.1 Nella proposizione il pensiero s’esprime sensibilmente. […] 3.21 Alla configurazione dei segni semplici nel segno proposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nella situazione. […]

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3.221 Gli oggetti li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è. […] 3.323 Nel linguaggio comune avviene molto di frequente che la stessa parola designi in modo diverso – dunque appartenga a simboli diversi –, o che due parole, che designano in modo diverso, esteriormente siano applicate nella proposizione allo stesso modo. Così la parola «è» appare come copula, quale segno d’eguaglianza e quale espressione dell’esistenza; «esistere», quale verbo intransitivo, come «andare»; «identico», quale aggettivo; noi parliamo di Qualcosa, ma anche del fatto che qualcosa avviene. […] 3.324 Così nascono facilmente le confusioni più fondamentali (delle quali la filosofia è tutta piena). 3.325 Per sfuggire a questi errori dobbiamo impiegare un linguaggio segnico, il quale li escluda non impiegando, in simboli diversi, lo stesso segno, e non impiegando, apparentemente nello stesso modo, segni che designano in modo diverso. Un linguaggio segnico, dunque, che obbedisca alla grammatica logica – alla sintassi logica –, (l’ideografia di Frege e Russell è un tale linguaggio, che certo non esclude ancora tutti gli sbagli.) […] 4 Il pensiero è la proposizione munita di senso. 4.001 La totalità delle proposizioni è il linguaggio. 4.002 L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. – Così come si parla senza sapere come i singoli suoni siano emessi. Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, né è meno complicato di questo. È umanamente impossibile desumerne immediatamente la logica del linguaggio. Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far riconoscere la forma del corpo. Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate. Linguaggio come strumento

Wittgenstein è dunque consapevole che il linguaggio ha una pluralità di dimensioni, ma ne privilegia quella di strumento di conoscenza, di raffigurazione della realtà. Il rapporto del linguaggio con il mondo è qui estrinseco, anche se è stretto il rapporto del linguaggio con il pensiero: il pensiero è «la proposizione dotata di senso», e «la totalità delle proposizioni è il linguaggio». Trattandosi di uno strumento, esso è a disposizione dell’uomo e dunque perfezionabile. Seguendo una lunga tradizione, Wittgenstein indica perciò l’obiettivo di elaborare una lingua ideale priva dei difetti del linguaggio comune. Del resto, il progetto di creare una lingua priva di confusione e ambiguità è coerente con la tesi che Wittgenstein sostiene in questi anni sulla funzione del linguaggio: esso è un mezzo per raffigurare situazioni e stati di cose. 679

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Il linguaggio è una forma simbolica

Il linguaggio costituisce gli oggetti

Le parole conferiscono unità alle cose

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La costituzione degli oggetti nel linguaggio. Il linguaggio strumento ontologico Accanto al ruolo conoscitivo del linguaggio viene in luce però, nel corso del Novecento, in prospettive filosofiche anche molto diverse tra loro, un ruolo più radicale, ‘costitutivo’ del linguaggio, nel quale esso non è visto come estrinseco strumento di conoscenza o di comunicazione. Ernst Cassirer muove da una ripresa del pensiero kantiano e mette al centro della sua filosofia una riflessione di ampio respiro su tutte le «forme simboliche» (vedi Unità 6, p. 242). Così il filosofo tedesco contrappone in generale a una idea delle funzioni mentali (tra cui la capacità linguistica ha un peso centrale), viste come ‘raffigurative’ – una posizione ben esemplificata in Wittgenstein –, una concezione secondo la quale esse sono funzioni originariamente formative: le funzioni mentali sono attività grazie alle quali diamo forma ai molteplici dati dell’esperienza e li unifichiamo. Lo facciamo per mezzo di simboli, che nella teoria di Cassirer sono i segni sensibili (le immagini) di qualcosa di spirituale. Il linguaggio è una delle principali forme di produzione simbolica dell’uomo. All’idea di una operazione raffigurativa (abbildlich: «che riproduce immagini») Cassirer contrappone dunque un operato che costituisce originariamente l’immagine del reale (urbildlich: «che forma originariamente immagini»). Cassirer riconosce così al linguaggio il ruolo di determinare la stessa costituzione degli oggetti del mondo: esso non si riferisce a oggetti già fatti, non parte da essi, ma arriva a costituirne, dà forma alle stesse cose del mondo, intervenendo già nell’organizzazione della percezione. Qui il linguaggio è detto ancora «strumento», ma (al contrario di ciò che si è detto parlando di Wittgenstein) non è uno strumento che l’uomo controlli: è strumento nel senso più radicale e ampio di mezzo attraverso il quale il mondo diviene ciò che per noi è: strumento non di comunicazione o di conoscenza, ma ontologico, cioè strumento grazie al quale si costituisce la realtà stessa. Essa è qualcosa che contribuiamo a costituire, non è semplicemente data a noi come oggetto da conoscere di fronte al quale siamo passivi. Le parole del linguaggio non sono, quindi, mere etichette o nomi che diamo a cose già esistenti e proprio per questa ragione non possono essere separate da esse. Ciò, ad avviso di Cassirer, emerge dal modo in cui i bambini apprendono il linguaggio: di fronte a qualcosa che non conoscono non chiedono qual è il nome di quella cosa, ma «che cosa è» quella cosa; apprendere una parola nuova significa, così, imparare cos’è una certa cosa. E a differenza di chi, come il filosofo Fritz Mauthner (1849-1923), ritiene che i nomi siano solo metafore delle nostre singole percezioni sensoriali e che, avendo un carattere generale, impoveriscano la molteplicità e la ricchezza delle cose che designano, Cassirer non considera affatto un difetto del linguaggio il fatto che in esso viene usata la stessa parola per indicare oggetti diversi. I nomi e le parole, infatti, sono uno strumento per dare unità alle cose (e, dunque, una condizione per conoscerle). Non è vero, dunque, che nel linguaggio viene meno la ricchezza della realtà.

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Percorso tematico La natura del linguaggio

T2

Attraverso il linguaggio si formano gli oggetti

E. Cassirer, Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettivo

La tesi che vorrei qui sostenere […] mira a indicare che una tale provincia [«una provincia dello psichico che è specificamente connessa al linguaggio e che ne è essenzialmente dipendente», come si dice in precedenza] sussiste effettivamente, in quanto si deve assumere un nesso essenziale e necessario tra la funzione fondamentale del linguaggio e la funzione del rappresentare oggettuale. Il rappresentare «oggettuale» – così voglio cercare di argomentare – non è l’inizio dal quale muove il processo della formazione linguistica, ma lo scopo cui questo processo conduce; non è il suo terminus a quo, ma il suo terminus ad quem. Il linguaggio non interviene in un mondo di intuizione oggettuale già pronta, per aggiungere in esso alle singole cose date e chiaramente delimitate l’una nei confronti dell’altra soltanto i loro «nomi» in quanto segni puramente esteriori ed arbitrari – bensì il linguaggio è esso stesso un mezzo della formazione degli oggetti, anzi esso è in certo senso il mezzo, il più importante e privilegiato strumento per l’acquisizione e la costruzione di un puro «mondo oggettuale». […] Mi sembra caratteristico che la forma in cui un bambino chiede il nome di una cosa non consiste, per quanto io possa vedere, mai nel chiedere come una cosa «si chiama», ma piuttosto nel chiedere che cosa una cosa «è». L’interesse del bambino non è legato all’atto del designare, che egli non conosce affatto come atto isolato. Anche per i popoli primitivi è caratteristico, che una vera e propria separazione tra «parola» e «cosa» per la loro coscienza ancora non esiste affatto, che la parola piuttosto è una parte costitutiva oggettiva della cosa, costituisce anzi la sua propria essenza. Così anche il bambino chiede il nome per prendere in certo modo possesso dell’oggetto. Tra cosa e nome ha luogo una piena «concrescenza»: esse crescono connesse l’una all’altra e l’una dentro l’altra. Non è possibile osservare immediatamente il processo psicologico di questa concrescenza; ma si può renderselo comprensibile se si tiene presente lo scopo al quale tende ogni rappresentazione oggettuale e al quale essa è rivolta. Questo scopo non è altro che quello della formazione di una unità mentale. «Allora diciamo di conoscere l’oggetto» – si dice in Kant – «quando abbiamo prodotto nel molteplice dell’intuizione una unità sintetica». Questo produrre l’unità sintetica è ciò a cui la lingua partecipa in modo essenziale. La critica del linguaggio scettica ha sempre – dai tempi della sofistica greca fino alla critica del linguaggio di Fritz Mauthner – considerato come una essenziale imperfezione del linguaggio il fatto che esso è costretto a designare con un nome una quantità di diverse impressioni o rappresentazioni. La sconfinata ricchezza della realtà, la sua pervasiva individualità, la sua concretezza e vitalità andrebbero in questo modo perse – e il loro posto verrebbe preso dall’astratto e misero schema della parola. Ma quella che qui viene considerata una manchevolezza fondamentale del linguaggio e viene lamentata come la sua miseria è piuttosto, a guardare meglio, una delle sue virtù essenziali. Infatti solo in questo modo esso raggiunge una nuova «sinopsi» mentale del molteplice […]. Una casa vista di fronte, da dietro, di lato – un oggetto considerato da diversi punti di vista e in diverse illuminazioni sono senza dubbio dal punto di vista intuitivo esperienze vissute assolutamente diverse. Ma in quanto ad ognuna di queste esperienze vissute nello sviluppo del linguaggio, nell’apprendimento del «nome» viene associato e attribuito un segno, esse realizzano tra di loro un nuovo legame ed istituiscono una nuova relazione. L’unità del nome serve come punto di cristallizzazione per la molteplicità delle rappresentazioni: fenomeni in sé eterogenei diventano omogenei e affini riferendosi ad un punto medio comune. E in forza di questo riferimento essi divengono anche come apparenze un solo e medesimo «oggetto» e vengono interpretati come suoi «adombramenti». 681

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Dunque, al contrario di Wittgenstein, che nel Tractatus logico-philosophicus attribuisce al linguaggio una funzione meramente strumentale – quella di rappresentare la realtà – e ritiene che ci sia un rapporto estrinseco tra il linguaggio e il mondo che raffigura, Cassirer sostiene che tra essi c’è un legame intrinseco: il mondo, la realtà nella quale viviamo, si costituisce (anche) attraverso il linguaggio.

3

Oltre il linguaggio come strumento: la pluralità degli usi e il linguaggio come espressione di una «forma di vita»

La riflessione degli anni successivi alla stesura del Tractatus porterà Wittgenstein a una concezione rinnovata del linguaggio, nella quale i suoi «altri fini» di cui si parlava in quell’opera (fini diversi da quello di rispecchiare la realtà) acquistano un’importanza prevalente. Non vengono però solo sottolineati usi diversi e molteplici: il linguaggio assume una funzione non più di strumento che l’uomo utilizza per la conoscenza, bensì di elemento costitutivo delle diverse «forme di vita» umane. Il linguaggio come ciò che denomina oggetti attraverso parole è quello che può servire tanto come strumento di conoscenza, quanto come strumento di comunicazione. Significato come uso Per questa seconda fase del pensiero di Wittgenstein, che trova espressione nelle Ricerche filosofiche (1953), se il linguaggio funziona anche in questo modo, «non tutto ciò che chiamiamo linguaggio è questo sistema». I modi di usare il linguaggio hanno una pluralità di funzioni e di regole – che costituiscono diversi «giochi linguistici», cioè diverse attività ognuna delle quali ha le proprie regole – e si radicano, in ultima analisi, in modi di azione e di vita dell’uomo. Il linguaggio ha per esempio funzioni «performative» (dal verbo inglese to perform, «eseguire»), ossia aspetti in cui viene usato non per rappresentare qualcosa, ma per fare qualcosa (dare un ordine, unire in matrimonio ecc.). È all’uso di una parola in un certo contesto vitale che va ricondotto il suo significato, e non alla dimensione del rispecchiamento della realtà. Il linguaggio non è Se il linguaggio è ancora qualcosa che si ‘usa’, e dunque, in qualche misura, è un mero strumento uno strumento, inizia però anche a presentarsi come elemento costitutivo di modi di vivere, di cui l’uomo non dispone ma che determinano ciò che l’uomo è («immaginarsi un linguaggio è immaginarsi una forma di vita»). Il manifestarsi di una fitta pluralità di usi strumentali del linguaggio fa intravedere una natura del linguaggio che va oltre il suo essere estrinseco strumento. Nel sottolineare la molteplicità degli usi che facciamo delle parole Wittgenstein mette, così, in discussione qualunque pretesa di ricondurre questi vari usi a un unico modello e il linguaggio a una forma univoca: il linguaggio muta continuamente – proprio perché ha un legame molto stretto con i nostri modi di vivere – e se nascono continuamente giochi linguistici nuovi, altri vengono abbandonati.

Il linguaggio costituisce le forme di vita

T3

Ci sono innumerevoli modi di usare il linguaggio

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche

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Possiamo anche immaginare che l’intiero processo dell’uso delle parole […] sia uno di quei giuochi mediante i quali i bambini apprendono la lingua materna. Li chiamerò «giuochi linguistici» e talvolta parlerò di un linguaggio primitivo come di un giuoco linguistico. […] Inoltre chiamerò «giuoco linguistico» anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto. […]

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11. Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là.) Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia! […] 23. Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invece invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica.) Qui la parola «giuoco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giuochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: Comandare, e agire secondo il comando – Descrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioni – Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) – Riferire un avvenimento – Far congetture intorno all’avvenimento – Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova – Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi – Inventare una storia; e leggerla – Recitare in teatro – Cantare in girotondo – Sciogliere indovinelli – Fare una battuta; raccontarla – Risolvere un problema di aritmetica applicata – Tradurre da una lingua in un’altra – Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare. – È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi d’impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici. (E anche l’autore del Tractatus logico-philosophicus.) Influenza di Wittgenstein

Queste riflessioni del secondo Wittgenstein, autocritiche anche rispetto alle posizioni espresse nell’opera del 1921, influenzeranno una parte della filosofia del linguaggio successiva, quella di autori come John Langshaw Austin (1911-1960) e John Roger Searle (nato nel 1932), che si occuperanno con la teoria degli «atti linguistici» dell’analisi filosofica del linguaggio comune. Secondo questa teoria ogni proferimento è un’azione, un atto linguistico che ha vari aspetti: quando pronunciamo una frase compiamo un atto locutorio (l’atto di dire qualcosa), un atto illocutorio (l’atto che compiamo nel dire quella cosa; per esempio, nel dire «ti prometto che ti restituirò il libro» sto facendo una promes683

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sa) e un atto perlocutorio (l’atto che compiamo col dire ciò che diciamo, ossia l’effetto che produciamo sulla persona a cui ci rivolgiamo; se dico a qualcuno «la strada è ghiacciata», la mia affermazione può spingere quella persona a moderare la velocità nella guida). Si è visto, dunque, che Wittgenstein prende le distanze dalla concezione del linguaggio come strumento di conoscenza e raffigurazione della realtà: è un mezzo per fare varie cose oltre che per descrivere, ma non ha una funzione meramente strumentale nella vita degli esseri umani; i diversi giochi linguistici, i vari modi di usare il linguaggio, emergono all’interno di certe forme di vita e ne sono l’espressione.

4

Il linguaggio e la significatività del mondo

Il pensiero di Heidegger assegna alla dimensione linguistica un ruolo importante, che si accentuerà con gli sviluppi del suo pensiero. Il linguaggio è visto però come qualcosa che scaturisce da una più ampia e generale «significatività» che costituisce il «mondo» (ossia la totalità di rimandi, di cose che rimandano ad altre cose) come orizzonte preliminare di incontro con le cose. La significatività è l’orizzonte complessivo di rimandi nel quale assume senso il rapporto tra l’uomo (l’Esserci) e ogni altra cosa (ogni altro ente) ed è ciò che rende possibili i significati del linguaggio. L’impostazione di Heidegger all’epoca di Essere e tempo (1927) è quella di comprendere filosoficamente l’origine del linguaggio sulla base di una più profonda modalità di rapporto col mondo da parte dell’uomo; questa modalità, detta «comprensione», manifesta un contesto complessivo e storicamente connotato di significati dal quale i singoli linguaggi storici in qualche modo scaturiscono. Soltanto questa caratterizzazione filosofica, «ontologica», della possibilità del linguaggio – l’indagine sull’«origine del significare» – consente per Heidegger la conoscenza empirico-storica dei linguaggi effettivi. È possibile comprendere i singoli significati linguistici soltanto comprendendo il contesto concreto in cui viviamo, all’interno del quale si forma il linguaggio. L’uomo non crea Anche in questo caso il linguaggio non è arbitraria creazione dell’uomo, suo struil linguaggio mento, ma articola, dà voce, a orizzonti di significato che orientano – precedendolo – ogni nostro rapporto con le cose. Non l’oggettività, come in Cassirer, ma il «mondo» inteso in questo senso di sfondo totale di significati è legato intrinsecamente al linguaggio. Del linguaggio Heidegger sottolinea, dunque, il carattere storico, derivante appunto dal fatto che esso ha origine dal rapporto tra l’Esserci (che è, a sua volta, storico) e il mondo. Per capire come si è formato il linguaggio e quali sono i significati delle parole è necessaria un’indagine di tipo ontologico, del tutto trascurata dalle discipline che del linguaggio si occupano: esso ha origine dalla comprensione, ossia da un modo d’essere dell’Esserci che gli dà accesso al mondo e gli rivela la significatività.

Il linguaggio ha origine dall’incontro tra uomo e mondo

T4

La comprensione M. Heidegger, Logica. Il problema della verità

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Solo se questa capacità di comprendere (di dare significato) appartiene già all’esserci, quest’ultimo può esprimersi con dei suoni in modo tale che queste emissioni di voce siano parole che ora hanno qualcosa come un significato. Essendo esso stesso nel suo essere significante, l’esserci vive nei significati e

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Percorso tematico La natura del linguaggio

può esprimersi con essi. E solo in quanto ci sono tali emissioni di voce che spettano al significato, ossia parole, ci sono i vocaboli; vale a dire che solo ora le forme linguistiche possono essere sciolte dal significato che le impronta. Indichiamo un tale insieme di emissioni di voce, nel quale in certa misura la comprensione di un esserci è sviluppata ed è esistenziale, come linguaggio; così facendo, quando parlo dell’insieme dell’esserci, non intendo il singolo esserci, ma l’esserci insieme come esser-insieme storico. Quale modo d’essere abbia il fenomeno che chiamiamo linguaggio è rimasto fino ad oggi fondamentalmente oscuro. Il linguaggio, che cresce ogni giorno e ogni giorno si dissolve, cambia di generazione in generazione, o che può restare spento per secoli, questo peculiare essere del linguaggio è ancora interamente inspiegato; in altri termini, il modo d’essere di quel che costituisce il tema di tutta la filologia e di tutta la linguistica è in ultima analisi ontologicamente del tutto enigmatico. Si può dire qualcosa circa l’essere del linguaggio perché il linguaggio è possibile solo grazie alla presenza della comprensione, ossia dell’esserci cui la struttura della comprensione appartiene; e poiché l’esserci in quanto comprendente e significante è in se stesso storico, il peculiare modo d’essere della molteplicità di parole che chiamiamo patrimonio lessicale complessivo o linguaggio è storico. Benché questa determinazione sia ancora abbastanza vuota, tuttavia essa mostra comunque che i fenomeni del linguaggio, ora nel senso più ristretto di forma linguistica, possono essere compresi separatamente rispetto al contenuto del significato, che tutti questi contesti strutturali della forma linguistica possono essere compresi solo a partire dalla storicità dell’esserci. Non entriamo qui nel fenomeno stesso del linguaggio, ma tocchiamo questo fenomeno solo relativamente al significato, in cui il linguaggio si fonda. Corrispondentemente al contesto di questa fondazione del farsi linguaggio e parola della voce nel comprendere e significare, bisogna tener separate anche le domande che si rivolgono al linguaggio, per lo più in maniera confusa. Chiedersi dell’inizio di una lingua è fondamentalmente diverso dal chiedersi dell’origine del significare. Quella prima domanda circa l’inizio di una lingua o del linguaggio in generale, posto che un’indagine di questo genere sia in linea di principio possibile, la domanda circa l’inizio o anche lo sviluppo di una lingua presuppone già il chiarimento della domanda circa l’origine del significato in generale. L’ontologia ha, dunque, la priorità sull’analisi dei significati linguistici.

5 Il linguaggio rende possibile il manifestarsi delle cose

Il linguaggio come orizzonte di esperienza Anche Heidegger, come abbiamo visto avvenire in Wittgenstein, sviluppa e trasforma o radicalizza nella prosecuzione del suo cammino filosofico la propria visione del linguaggio. L’orizzonte di significati prelinguistico e il linguaggio storico si compenetrano più strettamente nella seconda fase del suo pensiero, e viene in primo piano l’esperienza particolare della poesia, e con essa, ancora più nettamente, il carattere non strumentale del linguaggio. Il linguaggio è «casa dell’essere», racchiude in sé ciò che determina le possibilità di manifestarsi delle cose. 685

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

T5

Il linguaggio è la casa dell’essere M. Heidegger, Perché i poeti?

C’è mondo solo dove c’è linguaggio

L’esperienza del mondo è mediata dal linguaggio

Caratteristiche del linguaggio

T6

I tre caratteri essenziali della lingua

H.-G. Gadamer, Uomo e linguaggio

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Il linguaggio è il recinto (templum) cioè la casa dell’essere. L’essenza del linguaggio non si esaurisce nel significare, né è qualcosa di connesso esclusivamente a segni e cifre. Essendo il linguaggio la casa dell’essere, possiamo accedere all’ente solo passando costantemente per questa casa. Se andiamo alla fontana, se attraversiamo un bosco, attraversiamo già sempre la parola «fontana», la parola «bosco», anche se non pronunciamo queste parole e non ci riferiamo a nulla di linguistico. In questo senso Heidegger può arrivare a dire che «non siamo noi ad avere il linguaggio, ma è il linguaggio che ha noi»: nel linguaggio si apre un mondo storico e nel linguaggio si fa esperienza dell’«essere»: «Il linguaggio non è solo uno strumento che l’uomo possiede accanto a molti altri, ma invece è proprio soltanto il linguaggio a concedere la possibilità di stare in mezzo all’apertura dell’ente. Solo dov’è linguaggio vi è mondo». Laddove, in Essere e tempo, Heidegger sosteneva che il linguaggio trae origine dalla significatività (cioè dalla struttura che rende possibile, tra gli altri, il mondo storico), ora afferma che è il mondo a costituirsi grazie al linguaggio. La concezione di Heidegger viene ripresa, liberandola dai toni più suggestivi assunti nella seconda fase del suo pensiero e dal riferimento prevalente alla poesia, e collegandola in modo diretto alla problematica dell’interpretazione di testi e all’esperienza del dialogo, dal suo allievo Gadamer. Gadamer sviluppa una teoria del linguaggio come «mezzo» (nel senso di medium, di elemento mediatore, di orizzonte, non di strumento) dell’esperienza del mondo. Nella concezione di Gadamer il linguaggio è sottratto al dominio del soggetto, della coscienza, ed è piuttosto l’ambito in cui il soggetto incontra l’altro da sé: il mondo, gli altri, e l’intera dimensione del non-detto che sorregge e informa sempre il linguaggio espresso e a cui questo essenzialmente rimanda. Del linguaggio Gadamer mette in luce tre caratteristiche. Anzitutto, il linguaggio non è uno strumento che impariamo a usare per descrivere il mondo: conoscenza del mondo e acquisizione del linguaggio non sono due processi distinti; non siamo coscienti del linguaggio che parliamo (per esempio, della sua struttura grammaticale e sintattica) nel momento in cui parliamo; è questo ciò che Gadamer vuol dire quando afferma che la lingua è caratterizzata dall’«oblio di se stessa». In secondo luogo, il linguaggio non è individuale, non appartiene al singolo individuo: parlare vuol dire dialogare con altri; e se quello che diciamo non è comprensibile, ciò che stiamo facendo nel dirlo non è parlare. Infine, il linguaggio è universale e onnicomprensivo: non c’è nulla che non possiamo dire e tutto ciò che diciamo rimanda ad altro, che rimane non detto e che è necessario comprendere per poter capire ciò che viene detto. La sfera del linguaggio, dunque, include anche i pensieri che non vengono espressi a parole. Il linguaggio non è uno dei mezzi con cui la coscienza si media con il mondo. Esso non rappresenta, accanto al segno e all’utensile – entrambi appartenenti certamente alla caratteristica essenziale dell’uomo – un terzo strumento. La lingua soprattutto non è nessuno strumento, né utensile. Poiché è essenziale per lo strumento che noi ne padroneggiamo l’uso e cioè che possiamo prenderlo in mano e lasciarlo quando non serve più. Ma questo certo non è la stessa cosa che pronunciare delle parole secondo gli schemi sintattici di una lingua e, dopo il loro uso, lasciarle riaffondare nella scorta generale di parole di cui disponiamo. Una

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Percorso tematico La natura del linguaggio

tale analogia è falsa, proprio perché noi non ci troviamo mai come coscienza di fronte al mondo, e in una condizione, per così dire, muta, cerchiamo di raggiungere lo strumento di cui abbiamo bisogno per farci comprendere. Noi piuttosto in tutto il nostro stesso sapere, in tutto il sapere del mondo, siamo presi dalla lingua, che è propriamente nostra. Noi cresciamo, impariamo a conoscere il mondo, impariamo a conoscere gli uomini e infine noi stessi, mentre impariamo a parlare. Imparare a parlare non significa essere introdotti all’uso di uno strumento disponibile, per giungere alla raffigurazione del mondo a noi familiare e conosciuta, ma significa acquistare conoscenza e familiarità del mondo stesso, così come esso ci si fa incontro. […] Noi siamo sempre già anticipati, in tutto il nostro pensare e conoscere, dalla interpretazione linguistica del mondo, crescere nella quale significa crescere al mondo. In tal senso il linguaggio è la vera traccia della nostra finitezza. Essa è sempre oltre di noi. La coscienza del singolo non è la misura con la quale il suo essere possa venir commisurato. Anzi, non c’è dopotutto nessuna singola coscienza in cui il linguaggio, che essa parla, esiste veramente. In che modo esiste dunque il linguaggio? Certamente non senza la singola coscienza. Ma certamente neanche in un essere insieme di molti che sono, ognuno per sé, una singola coscienza. Nessun individuo preso singolarmente però, quando parla, ha una vera e propria coscienza del suo parlare. Sono situazioni eccezionali quelle in cui uno diventa cosciente della lingua in cui si esprime. Per esempio, quando qualcuno, intenzionato a dire qualcosa, sta per pronunciare una parola, su cui si interrompe, poiché gli risulta estranea o buffa, così che egli si chiede: «Si può dire veramente così?». Allora la lingua che parliamo diventa per un momento cosciente, poiché essa non fa ciò che dovrebbe fare. Cos’è allora ciò che dovrebbe fare? Io penso che lo si possa distinguere in tre modi. Il primo consiste nell’essenziale oblio di se stessa, che appartiene alla lingua. La sua struttura più profonda, grammatica, sintassi ecc., dunque tutto quello che caratterizza la glottologia, non è affatto cosciente alla lingua viva. È dunque a causa delle peculiari perversioni del naturale che la scuola moderna è costretta a fornire grammatica e sintassi, invece che a una lingua morta come il latino, alla propria lingua madre. Ma si tratta di una prova veramente enorme di astrazione, che viene richiesta a chiunque deve portare a esplicita coscienza la grammatica della lingua, che egli padroneggia come propria lingua madre. La reale messa in opera della lingua ne provoca, in ciò che in lei vien detto di volta in volta, il completo dileguare. Nell’apprendimento delle lingue straniere, v’è un’esperienza molto simpatica, in cui abbiamo avuto modo di accorgerci di questo. Sono le frasi che vengono adoperate come esempio nei libri di testo o nei corsi di lingua. Il loro compito è di rendere astrattamente cosciente un determinato fatto linguistico. Già quando ci si dedicava al compito di astrazione, rappresentato dallo studio della grammatica e della sintassi di una lingua, c’erano frasi di sublime assurdità che dicevano in qualche modo qualcosa su Cesare o sullo zio Carlo. La più recente tendenza è di comunicare, mediante tali frasi che servono di esempio, molte interessanti notizie sul paese estero, e ciò produce l’indesiderato effetto accessorio per cui la funzione di esempio della frase si oscura secondo il grado di interesse che suscita il contenuto di ciò che viene detto. Quanto più la lingua è viva esecuzione, tanto meno si è coscienti di essa. Così è proprio dell’oblio di sé da parte della lingua che il suo proprio essere consista in ciò che in essa vien detto, e che 687

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Parte seconda Le filosofie del Novecento

ci manifesta il mondo comune in cui viviamo, e al quale appartiene la grande catena della tradizione che dalla letteratura delle lingue straniere, siano esse prodotto di lingue morte o vive, giunge fino a noi. Il vero essere della lingua è ciò da cui siamo assorbiti, quando l’udiamo, è ciò che viene detto. Un secondo tratto essenziale dell’essere della lingua mi sembra la sua mancanza dell’Io. Chi parla una lingua che nessuno capisce, non parla. Parlare significa parlare a qualcuno. La parola vuol essere la parola giusta; questo però non significa solo che essa rappresenta a me stesso la cosa intesa, ma che quella parola rende presente la cosa agli occhi dell’altro cui io parlo. In questo senso il parlare non appartiene alla sfera dell’Io ma del Noi. Perciò Ferdinand Ebner ha fatto allora giustamente seguire al titolo del suo significativo scritto La parola e le realtà spirituali il sottotitolo: Frammenti pneumatologici. Poiché la realtà spirituale del linguaggio è quella del pneuma, dello spirito che unisce l’Io al Tu. La realtà della lingua consiste, come si è notato da lungo tempo, nel colloquio. In ogni colloquio però domina uno spirito, cattivo o buono, uno spirito dell’ostinazione e dell’irrigidimento, o uno spirito della comunicazione e dello scambio continuo e corrente tra l’Io e il Tu. Quindi c’è un terzo modo, che io vorrei chiamare l’universalità del linguaggio. Esso non è un determinato campo del dicibile, accanto al quale esistano altri campi dell’indicibile, ma è onnicomprensivo. Non c’è nulla che possa essere sottratto, in via di principio, all’esser detto, fintantoché l’intendere intenda qualcosa. È questa l’universalità della ragione, con cui il poter dire tiene instancabilmente il passo. Così anche ogni colloquio ha una interna infinità, o non ha fine. Lo si interrompe sia perché si ritenga di aver detto abbastanza, sia perché si ritenga che non ci sia più nulla da dire. Ma ogni rottura di tal genere ha un’intima relazione con la ripresa del discorso. Noi facciamo questa esperienza, spesso in modo doloroso, allorché si pretende da noi che rispondiamo. La domanda a cui si deve rispondere – pensiamo, per esempio, al caso limite dell’interrogatorio o del processo davanti a un tribunale – è come una barriera eretta contro lo spirito di chi parla, che vorrebbe esprimersi, e vorrebbe un colloquio («Qui parlo io» oppure «Risponda alla mia domanda!»). Tutto ciò che è detto ha la sua verità non semplicemente per sé, ma rinvia in ogni direzione, indietro e in avanti, a ciò che non è detto. Ogni asserzione è motivata, e ciò significa che si può rivolgere, in modo sensato, a tutto ciò che vien detto, la domanda: «Perché dici questo?». E soltanto quando il non detto viene compreso con ciò che è detto, l’enunciato diventa comprensibile. Lo vediamo soprattutto nel caso della domanda. Una domanda di cui non comprendiamo i motivi, non può neanche trovare risposta. Perché, infatti, la storia della motivazione della domanda apre, primissimamente, l’ambito dal quale può esser tratta e quindi data la sua risposta. Così in verità, nella domanda come nella risposta, si instaura un discorso infinito, nel cui ambito si trovano la parola e la risposta. Tutto ciò che si dice opera in tale ambito. Comune a Heidegger e a Gadamer è la convinzione che quella di raffigurare il mondo non sia l’unica funzione del linguaggio, né (come invece ritiene il secondo Wittgenstein) una delle sue funzioni. Le parole non rispecchiano un mondo che esiste indipendentemente da esse: il linguaggio, sostiene Gadamer, è la dimensione nella quale si colloca il rapporto tra noi e il mondo ed è, in questo senso, un assoluto. 688

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Percorso tematico La natura del linguaggio I brani antologizzati sono tratti da: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A.G. Conte (leggermente modificata), Einaudi, Torino 1974. E. Cassirer, Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettivo (1932), trad. di C. La Rocca L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, pp. 13, 15, 2122. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, a cura di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, pp. 101-102. M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 287. H.-G. Gadamer, Uomo e linguaggio, in Id., Verità e metodo, 2, trad. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1996, pp.117-118, 119-120, 121-122.

Questionario 1

Su quale concezione del linguaggio è fondata la convinzione di Wittgenstein che occorra un linguaggio idealizzato? (max 3 righe)

2

Perché Cassirer nega che il rapporto tra linguaggio e oggetti sia estrinseco? (max 6 righe)

3

Quale rapporto c’è, secondo Heidegger, tra il linguaggio e il mondo? (max 8 righe)

4

Come viene definito il linguaggio nella teoria di Gadamer? (max 5 righe) 689

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Cambridge - Harvard University/ Massachussetts Institute of Technology/ MIT

Palo Alto

Stanford University

New Haven Santa Monica Los Angeles

Ithaca

Cornell University

Yale University

Princeton

Princeton University

Baltimora

San Paolo

E Oxf Lond Frib P

y/

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Marburgo Francoforte Heidelberg Bruxelles Cambridge Edimburgo Oxford Londra Friburgo Berlino Parigi Vienna Ginevra

El-Biar Nuova Delhi

Introduzione Santiniketan Il dibattito filosofico contemporaneo Calcutta

Percorso tematico Che cos’è la filosofia? Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo Percorso tematico Mente, cervello, macchina Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo Unità 18 La filosofia della scienza Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica Percorso tematico Utilitarismo e oltre Laboratorio sul lessico Relativo

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Introduzione Il dibattito filosofico contemporaneo 1. Gli sviluppi della filosofia contemporanea 2. Analitici e continentali: una distinzione legittima? 3. La filosofia morale e politica

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

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Rapporto tra filosofia e scienza: l’empirismo logico

Critica della metafisica

La filosofia come riflessione sulla scienza

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Gli sviluppi della filosofia contemporanea Per introdurre al dibattito filosofico contemporaneo, questa sezione affronta alcune correnti e alcuni autori che caratterizzano gli sviluppi della filosofia del Novecento e che, insieme con alcuni classici del medesimo secolo già affrontati – come Husserl, Heidegger o Wittgenstein –, conducono alla discussione filosofica di oggi. In questa introduzione vogliamo segnalare anche alcune questioni che non verranno effettivamente trattate nelle prossime Unità, ma che sono direttamente collegate ai temi che affronteremo, e che oggi vengono vivacemente dibattuti. Fin dai suoi inizi il XX secolo vede uno sviluppo imponente del pensiero scientifico – con enormi progressi, tra l’altro, della matematica, della logica e della fisica – e dopo il positivismo ottocentesco emergono indirizzi filosofici che hanno grande attenzione per la scienza e guardano ad essa come a un modello generale della conoscenza umana. Questo rapporto tra filosofia e scienza gioca un ruolo centrale in filosofi come Russell e Wittgenstein, ai quali viene spesso fatta risalire tutta la – variegata – tradizione empiristica o «analitica» novecentesca. Il momento di maggiore radicalità dell’empirismo contemporaneo – e forse di rapporto più stretto, almeno nelle enunciazioni di principio, tra scienza e filosofia – lo si ha con la diffusione del programma antimetafisico promosso dal movimento detto «empirismo logico» (o «neopositivismo» o «positivismo logico»), che nasce intorno agli anni venti negli ambienti delle università di Vienna e di Berlino ed è rappresentato da filosofi come Rudolf Carnap (1891-1970) e Hans Reichenbach (1891-1953). Gli empiristi logici riprendono alcune istanze della filosofia positivistica del secolo precedente, radicalizzandone il carattere empiristico e, soprattutto, dando gran peso al linguaggio e alla logica formale, anche sulla scia dell’insegnamento di Russell e del Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus (pubblicato nel 1921). Il programma antimetafisico si fonda, almeno inizialmente, su una rigida concezione di quali affermazioni, o, meglio, proposizioni, possano essere dotate di significato: nella prospettiva degli empiristi logici, infatti, sono prive di significato, insensate, e quindi in realtà pseudoproposizioni, quelle che asseriscono qualcosa che non è empirico e che quindi non può essere verificato attraverso l’osservazione dei fatti, e cioè confermato dall’esperienza. È chiaro che perdono di senso, in questo modo, le affermazioni della metafisica, ma in realtà rischiano di cadere nella stessa insensatezza anche, per esempio, le affermazioni dell’etica e dell’estetica, che per la grande maggioranza degli empiristi logici non hanno basi razionali e non costituiscono conoscenze genuine, non potendo essere verificate empiricamente. Il ruolo della filosofia, in questa prospettiva, viene notevolmente ridimensionato, e ricondotto alla riflessione sulla scienza, ovvero all’epistemologia come teoria della conoscenza scientifica. Molte domande filosofiche tradizionali diventano o domande prive di senso (è il caso di quelle della metafisica e della teologia) o domande che, nel caso del mondo dei valori e del mondo sociale, devono essere affrontate con strumenti empirici come quelli della psicologia sperimentale e della sociologia, che sono discipline empiriche e quindi «verificabili».

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Introduzione Il dibattito filosofico contemporaneo Revisione dell’empirismo radicale

Delimitazione dei confini della scienza

Paradigmi e rivoluzioni scientifiche

Lo strutturalismo

In realtà, gli sviluppi della riflessione che pure muove dalle premesse empiristiche di Russell, di Wittgenstein e, poi, dell’empirismo logico, mostreranno che una posizione radicalmente empiristica non è sostenibile, come emerge già dagli sviluppi della filosofia di Wittgenstein, dai ripensamenti degli stessi empiristi logici, dal pensiero di Willard Van Orman Quine (1908-2000) negli anni cinquanta e, poi, di Hilary Putnam (nato nel 1926) e, infine, anche dalla riflessione filosofica sulla scienza che proprio nel corso del Novecento assume una configurazione autonoma. Questi sviluppi mostrano quanto l’empirismo radicale sia indotto a tornare sulle proprie posizioni. Con il tempo emerge infatti la consapevolezza che i fatti – che sembravano costituire il criterio decisivo con cui valutare addirittura la sensatezza delle asserzioni – non sono mai fatti ‘neutrali’, semplicemente e passivamente recepiti dal soggetto della conoscenza, ma vengono interpretati alla luce di teorie anche nel caso delle tesi considerate più «verificabili», come quelle della conoscenza scientifica. L’empirismo radicale, quindi, non corrisponde al concreto processo conoscitivo. L’evoluzione verso una differente considerazione dell’esperienza si sviluppa anche in una riflessione specifica sulla conoscenza scientifica che dà luogo, come si è accennato, alla filosofia della scienza come branca rilevante, e relativamente autonoma, della filosofia contemporanea (vedi Unità 18, p. 790 s.). In una prospettiva che individua comunque nella scienza l’esperienza conoscitiva fondamentale, Karl Popper (1902-1994) sposta l’attenzione dai criteri cercati dagli empiristi logici per giudicare la sensatezza o meno delle proposizioni (una ricerca per Popper vana: non è affatto detto che ciò che non è verificabile sia privo di significato) alle caratteristiche specifiche della conoscenza scientifica. Il problema della riflessione filosofica sulla scienza non consiste nell’individuare un modello esclusivo delle proposizioni che abbiano un senso, ma nell’individuazione dei tratti distintivi della conoscenza scientifica. Non si tratta del problema del significato delle proposizioni, ma della distinzione, della demarcazione della scienza da ciò che scienza non è: le proposizioni metafisiche, morali o religiose possono sì essere dotate di senso, ma non sono scientifiche. Una decisa spinta alla filosofia della scienza viene da Thomas S. Kuhn (19221996), all’inizio degli anni sessanta, con il libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962). Il concreto procedere della scienza non viene individuato nella passiva registrazione dei fatti, ma nell’interpretazione dei fatti all’interno di determinati modelli teorici, che Kuhn chiama «paradigmi»: la crisi di un paradigma e la sostituzione di esso con un paradigma nuovo sono ciò che caratterizza una rivoluzione scientifica, come sono state, per esempio, la rivoluzione copernicana o quella einsteiniana. Il processo della conoscenza scientifica non è lineare: i vari paradigmi sono tra loro incommensurabili, tali cioè che non è possibile confrontarli l’uno con l’altro. A partire dagli anni settanta, poi, la filosofia della scienza si svilupperà in modo notevole, e autonomo, in analisi specifiche che tengono conto della complessità della scienza contemporanea. Nel corso del XX secolo si sviluppa anche una riflessione epistemologica di tipo diverso, che prende in esame i fenomeni linguistici e sociali e che ha un notevole peso nella discussione contemporanea: si tratta dello strutturalismo, una impostazione metodologica che privilegia il funzionamento sincronico (non la genesi storica, diacronica) del linguaggio e delle istituzioni sociali. Nato nell’ambito della linguistica e sviluppatosi nell’indagine antropologica – con Claude Lévi697

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Strauss (nato nel 1908) –, lo strutturalismo ha un’enorme diffusione, coinvolgendo i terreni più diversi – dalla sociologia alla critica letteraria – e anche posizioni filosofiche determinate (come avviene nel caso del marxismo). Il «postmodernismo» È in questo ambito che matura la riflessione di un filosofo francese ben presente nel dibattito attuale come Michel Foucault (1926-1984), la cui analisi critica intreccia l’esame della formazione del sapere nelle società moderne con il sorgere e il proliferare di un potere disseminato nella società. A Foucault, e ad altri filosofi come Nietzsche o Heidegger o, più di recente, Jacques Derrida (19302004), si è vagamente ispirato un atteggiamento teorico che si è servito del termine, non ben definito, di «postmodernismo». Postmoderno Nata nell’architettura, la connotazione della postmodernità è ampiamente diffusa, come antimoderno? ma non ha trovato – almeno finora – una propria determinazione concettuale, salvo l’atteggiamento polemico verso strutture sociali o dottrine che possono essere il capitalismo, la filosofia di Hegel o comunque la pretesa di una conoscenza salda, che non sembra più sostenibile nell’epoca, appunto, post-moderna, dove tutto sembrerebbe caduco, transeunte, relativo. Al di là della difficoltà di definire la modernità – spesso intesa, in realtà, come ‘mondo contemporaneo’ –, di frequente questo atteggiamento teorico ha assunto i caratteri di un atteggiamento antimoderno, ovvero polemico verso le caratteristiche della società industriale e verso le teorie che in un modo o nell’altro in essa, o grazie ad essa, sono sorte.

2 Due diversi stili filosofici

Origine e trasformazione della filosofia analitica

Analisi del linguaggio e della mente

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Analitici e continentali: una distinzione legittima? L’atteggiamento o lo stile filosofico che si riconosce nella tradizione empiristica del Novecento e nei suoi sviluppi, diciamo così, post-empiristici, ha caratterizzato la propria impostazione contrapponendola a una molteplicità di impostazioni diverse, che non hanno per questo cessato di sussistere, né di interagire con la prima. Si è così creata la distinzione o la contrapposizione tra l’atteggiamento filosofico detto «analitico» e quella che è stata genericamente detta – dai filosofi analitici – filosofia continentale; considerata nel suo insieme, quest’ultima non ha molti tratti comuni all’infuori della esclusione dal panorama, o dal partito, «analitico». L’origine dell’orientamento analitico viene spesso – non sempre – individuata nei padri dell’empirismo novecentesco, ossia in Russell, in Wittgenstein e in Moore, e nell’idea che la filosofia debba costituire innanzitutto un’attività di chiarimento – ‘analitico’, appunto – dei diversi usi del linguaggio, mentre le scienze empiriche costituirebbero la fonte e il veicolo della conoscenza genuina. Gli stessi sviluppi di questa impostazione, però, sembrano far venire meno i suoi assunti di fondo, accettando invece il coinvolgimento di presupposti non empiristici, e riconoscendo la difficoltà di mantenersi su un piano esclusivamente ‘analitico’. Questi sviluppi sono confermati, del resto, anche dal fiorire, all’interno di questa tradizione, di una riflessione che non si limita all’analisi, in particolare per quanto riguarda l’etica e la filosofia politica (come vedremo più avanti). Oltretutto, quello che veniva presentato come uno stile filosofico complessivo si occupa in prevalenza, oggi, di due discipline filosofiche determinate, e cioè della filosofia del linguaggio e della filosofia della mente. La filosofia del linguaggio ha la sua origine nelle indagini del cosiddetto «secondo» Wittgenstein (quelle svolte dal filosofo austriaco nelle Ricerche filosofiche,

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Introduzione Il dibattito filosofico contemporaneo

➥ Percorso tematico, p. 751 Fenomenologia, ermeneutica ed estetica

Attenuazione del contrasto tra filosofia analitica e filosofia continentale

3 Analisi del linguaggio morale

apparse nel 1953) e negli sviluppi successivi dell’analisi del linguaggio, incluso il linguaggio comune, per esempio sulla scia delle indagini di Austin (la cui opera principale, del 1962, è Come fare cose con le parole). La filosofia della mente costituisce probabilmente la novità più rilevante del dibattito filosofico contemporaneo, nata anche in seguito agli sviluppi delle conoscenze scientifiche riguardanti da un lato la neurofisiologia, dall’altro l’intelligenza artificiale, ovvero la riflessione teorica legata agli impressionanti sviluppi dell’informatica e dell’elettronica. La natura della coscienza, il rapporto tra la mente e il corpo, il rapporto tra fenomeni fisici e stati mentali (per esempio, credenze, intenzioni e desideri) non sono certo una novità degli ultimi decenni (basta pensare alla distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa); è tuttavia innegabile che la scienza contemporanea abbia contribuito a rendere di grande interesse il dibattito, vivacissimo, che si svolge su questi temi. Al di fuori dell’empirismo (o del post-empirismo) e della tradizione analitica si presenta una molteplicità di opzioni e di stili o indirizzi filosofici. Qui troviamo il filone fenomenologico che si richiama a Husserl (vedi Unità 11, p. 431), gli sviluppi dell’ermeneutica che in Gadamer ha un punto di riferimento (vedi Unità 12, p. 526 ss.) e, per esempio, gran parte della riflessione estetica (che solo di recente ha visto uno sviluppo anche all’interno della tradizione ‘analitica’). Prima di passare a delineare gli sviluppi della filosofia etico-politica dobbiamo dire ancora qualcosa su questa distinzione, che sembra restare significativa per il dibattito filosofico: quella, appunto, tra filosofia analitica e filosofia continentale. Senza volere trarre un bilancio, è forse utile fare almeno un’osservazione sull’opportunità di continuare a servirsene. Sicuramente ci sono filosofi che si definiscono «analitici», e ci sono anche filosofi che, pur non potendosi definire «continentali» (una caratterizzazione, questa, che sarebbe poco sensata), certamente rifiuterebbero, con motivazioni diverse, l’appellativo di «analitico». E questa è poco più di una constatazione. È però indubbio, e sempre più verificabile nella discussione filosofica, che i confini si sono in più occasioni assottigliati, e che filosofi dell’una e dell’altra parte non si riconoscono più in una netta contrapposizione tra ciò che rientra nella filosofia analitica e ciò che ne sarebbe, a torto o a ragione, ritenuto esterno. Gli esempi si potrebbero sprecare, e riguardano i protagonisti del dibattito degli ultimi decenni, da Habermas (nato nel 1929), erede della tradizione hegeliana e marxista della teoria critica (vedi Unità 14, p. 598), a Richard Rorty (1931-2007), sostenitore a suo tempo (1967) di una «svolta linguistica» di tipo analitico che avrebbe dovuto segnare un punto di non ritorno, fino a oggi capofila delle critiche alla tradizione analitica. È all’interno dello stesso ambito dei filosofi (ora, o almeno una volta) analitici che maggiore sembra l’insofferenza per una contrapposizione rigida: lo dimostrano non solo personaggi come Rorty, ma anche i maggiori rappresentanti di questa tradizione, come Michael Dummett (nato nel 1925) o Putnam.

La filosofia morale e politica Buona parte della filosofia morale del XX secolo, dopo i Principia Ethica (1903) di Moore, è stata dedicata a sviluppare un aspetto specifico dell’indagine sulla moralità. Ciò ha voluto dire che questa indagine si è a lungo soffermata sul si699

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Metaetica ed etica normativa

Intuizionismo, emotivismo e prescrittivismo

Naturalismo

➥ Tesi a confronto, p. 865 Ripresa dell’etica normativa

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gnificato dei termini morali e dei giudizi morali, trascurando, o lasciando sullo sfondo, il problema dei criteri per giudicare la correttezza morale delle azioni o dei comportamenti. È un aspetto, anche questo, di quell’attenzione per il linguaggio che ha caratterizzato la filosofia del Novecento: indagare il significato del linguaggio morale come un linguaggio specifico è stato ritenuto infatti uno dei compiti essenziali del filosofo morale (vedi Unità 19, p. 820). In questo specifico ambito, la filosofia analitica o la filosofia che a questa tradizione si sia richiamata è stata in effetti dominante, e costituisce oggi un punto di riferimento – insieme con i classici della filosofia morale (come Kant) – per orientarsi nel dibattito etico. In questa prospettiva è nata una terminologia specifica per designare i due rispettivi campi di indagine etica: la «metaetica», quando si tratti di problemi del linguaggio o in generale della natura della moralità (che cosa sia, che cosa significhi giudicare moralmente, se la moralità sia ‘oggettiva’ o sia espressione di stati soggettivi, e così via); e l’«etica normativa», quando si tratti di individuare i criteri per giudicare la correttezza morale delle azioni. Alcuni filosofi, come lo stesso Moore o – negli anni trenta – William David Ross (1877-1971), si sono in effetti occupati sia di questioni di metaetica sia di questioni di etica normativa, ma gran parte dell’attività dei filosofi morali si è dedicata, all’incirca fino agli anni sessanta, ai problemi del significato dei giudizi morali. Le posizioni principali che si sono delineate hanno fondato la moralità o su qualità oggettive (una posizione intuizionistica, come nel caso di Moore, e di Ross), o su emozioni soggettive (una posizione emotivistica, come in Ayer o Charles Leslie Stevenson, 1908-1979) o, infine, su caratteristiche proprie del linguaggio morale, utilizzando quell’attenzione per la funzione o l’uso del linguaggio che caratterizza gli sviluppi della filosofia di Wittgenstein e che costituisce un tratto essenziale della filosofia del linguaggio contemporanea. Un esempio di quest’ultima posizione è la teoria prescrittivistica di Richard Mervyn Hare (1919-2002): la funzione del linguaggio morale consiste, in questa prospettiva, nel guidare la condotta, ossia nel dire che cosa si deve fare. Più tardi, la riflessione sulla moralità ha rivalutato anche la posizione naturalistica – un esempio importante è quello di Philippa Foot (nata nel 1920) –, fondata sull’idea che i valori non siano sostanzialmente differenti dai fatti, e rimettendo in discussione quindi quella critica del naturalismo che era stata accettata da molti a partire dall’attacco ad essa rivolto da Moore nei Principia Ethica (vedi Unità 15, p. 642 ss.). Hare e Foot, tra gli altri, si sono anche resi conto ben presto di quanto la filosofia non si potesse limitare all’analisi del significato dei giudizi morali: prima la Seconda guerra mondiale e l’esperienza del nazismo, poi, più tardi, i grandi problemi etici delle società occidentali come la giustizia sociale, il razzismo, i diritti civili, i problemi dell’ambiente hanno indotto a pensare che i problemi dell’etica normativa (concernenti le scelte che dobbiamo fare e il modo in cui dobbiamo agire) dovessero tornare a essere oggetto della riflessione filosofica. L’espressione probabilmente più importante di questo ritorno di interesse per l’etica normativa è stata la pubblicazione, nel 1971, di Una teoria della giustizia di John Rawls, uno dei libri più influenti della filosofia etico-politica del XX secolo (vedi Unità 19, p. 837). Rawls sottopone a una radicale critica la filosofia morale normativa allora domi-

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Introduzione Il dibattito filosofico contemporaneo

La riflessione filosofica sui problemi politici

La «bioetica»

Altri tipi di etica applicata

nante – e ancora oggi estremamente vivace –, l’utilitarismo, e dà così inizio al ricco dibattito di oggi. Tra l’altro, l’opera di Rawls ha segnato anche un prepotente ritorno di interesse, nella filosofia morale contemporanea, per l’etica di Kant, che attraversa oggi un momento di grande rivalutazione non solo come un classico del pensiero, ma anche come un apparato concettuale tuttora valido per affrontare i problemi morali. La riflessione dello stesso Rawls e di altri filosofi contemporanei sulla democrazia e sul «diritto dei popoli», insieme con il profondo mutamento della situazione internazionale dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989 e la fine della guerra fredda, hanno stimolato il pensiero filosofico-politico ad affrontare i problemi che ne sono, inevitabilmente, derivati. Le trasformazioni dei rapporti economici e sociali, insieme con i profondi mutamenti della comunicazione, hanno posto nuovi problemi, che spesso vengono affrontati sotto la denominazione complessiva di «globalizzazione», un processo che ha reso sempre più interdipendenti gli eventi, di tutti i tipi, che si svolgono nelle varie parti della terra. Ciò ha implicato, tra le altre cose, un incontro tra culture e tra valori diversi che rende particolarmente attuali temi classici della filosofia come il confronto tra posizioni in disaccordo. La fine del XX secolo ha visto affacciarsi un nuovo ambito di indagine per la filosofia e in particolare per l’etica: la «bioetica» (la stessa parola è un neologismo creato negli anni settanta del secolo scorso) (vedi Unità 19, p. 846 ss.). Sul piano strettamente filosofico lo sviluppo della bioetica rientra nella ripresa di interesse per le questioni normative che si è appena menzionata. Ci si è così rivolti, con gli strumenti della filosofia e dell’argomentazione razionale, in parte a problemi già da tempo presenti nella vita individuale e sociale, come il suicidio, l’eutanasia o l’aborto, in parte a problemi nuovi dovuti ai notevoli progressi delle scienze biologiche che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo e al parallelo sviluppo di nuove capacità di intervento tecnico sulla natura da parte dell’uomo, come nel caso dell’ingegneria genetica o della possibilità di riprodurre in laboratorio strutture biologiche. In un senso generale, la bioetica fa parte dell’etica applicata, ovvero del ragionamento morale utilizzato per affrontare direttamente le questioni pratiche, e può essere intesa in modo molto ampio, includendo, per esempio, i problemi morali che sorgono nel rapporto con gli altri animali – gli animali non-umani – e con l’ambiente. Di tali problemi si interessano, rispettivamente, l’etica degli animali e l’etica ambientale.

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Suggerimenti bibliografici Un’ampia trattazione delle principali correnti e delle diverse discipline filosofiche contemporanee è offerta dall’opera diretta da P. Rossi, La filosofia, UTET, Torino 1995, 4 voll. Introduzioni sistematiche – quindi non di tipo storico – alla riflessione filosofica sono offerte da R. Bodei, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Zanichelli, Bologna 2005; M. Hollis, Introduzione alla filosofia, il Mulino, Bologna 1985; T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il Saggiatore, Milano 1989; N. Warburton, Il primo libro di filosofia, Einaudi, Torino 2007. Interseca la prospettiva teorica con la prospettiva storica G. Calandra, Laboratorio di filosofia, Angeli, Milano 2001. Per l’interpretazione dei testi filosofici è utile il libro di R. Brandt, La lettura del testo filosofico, Laterza, Roma-Bari 1998. Ottime introduzioni alla filosofia del linguaggio sono quelle di P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, Carocci, Roma 1998, e di C. Penco, Introduzione alla filosofia del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2004. Un’utilissima introduzione alla filosofia della mente che collega il dibattito contemporaneo con la tradizione filosofica è quella di S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2002.

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Percorso tematico Che cos’è la filosofia?

I testi W. Dilthey L’essenza della filosofia: Il concetto di filosofia non è univoco, T1; La filosofia come cultura, T2

M. Heidegger I problemi fondamentali della fenomenologia: La filosofia è la scienza dell’essere, T5

L. Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus: Cos’è la filosofia, T3

M. Dummett La natura e il futuro della filosofia: Non c’è continuità tra la filosofia e le scienze naturali, T6

R. Carnap Sintassi logica del linguaggio: Oggetto della filosofia sono le questioni logiche, T4

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Che cos’è la filosofia? 1

La crisi novecentesca della filosofia

La filosofia ha sempre riflettuto su se stessa e ha sempre cercato di definirsi in relazione ad altre forme del sapere. Nonostante la pluralità delle posizioni e delle risposte, degli stessi metodi filosofici utilizzati e teorizzati, nella tradizione occidentale che va almeno da Platone a Hegel si è registrata una concordanza senz’altro maggiore circa la natura e gli scopi della filosofia rispetto a quella che viene a prodursi nel Novecento. Per quanto la questione della metafisica – in qualche modo la disciplina-guida nella filosofia – e della sua ‘crisi’ fosse emersa almeno dal Seicento, in seguito soprattutto all’imporsi del modello conoscitivo vincente delle scienze fisico-matematiche della natura, è nel Novecento che non soltanto la posizione nei riguardi della metafisica, ma questioni forse ancora più radicali di metodo portano a una netta differenziazione dei linguaggi filosofici, per cui si iniziano a intendere per «filosofia» cose abbastanza diverse, che in qualche caso si ritengono o si propongono quasi come incompatibili. Filosofia analitica La divaricazione del pensiero contemporaneo tra due stili filosofici difficili da cae continentale ratterizzare in modo univoco, ma comunque sentiti da molti come alternativi (la filosofia «analitica» e quella «continentale», vedi p. 698), ha le sue radici in una sorta di espansione della nebulosa filosofica nella quale, con le differenze, si sono accentuate le distanze. In modo molto approssimativo, la differenza tra lo stile «analitico» (che caratterizza la filosofia di area anglofona) e quello «continentale» (proprio, appunto, della filosofia dell’Europa continentale) può essere formulata nel modo seguente: la filosofia analitica privilegia l’analisi e il chiarimento dei concetti e assume come modello la logica e le discipline scientifiche; la filosofia continentale attribuisce invece grande importanza alle discipline umanistiche e sottolinea il carattere storico del sapere. Questa divaricazione – alla quale parte del pensiero contemporaneo lavora per superarla, parte per approfondirla – si è espressa nella riflessione di alcuni importanti pensatori che reagivano, in modi appunto diversi e talvolta antitetici, alla crisi dei sistemi filosofici, ma soprattutto alla messa in questione della funzione della filosofia che era stata anticipata nell’Ottocento da autori come Kierkegaard, Marx, Nietzsche.

Concezioni diverse e contrastanti della filosofia

2 Problema dell’unità della filosofia

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Dilthey: esiste «la» filosofia? Nei primi anni del Novecento Dilthey, importante filosofo e teorico delle «scienze dello spirito» (distinte dalle scienze della natura), dotato di acuta consapevolezza storica, si pone la domanda se – proprio in considerazione della pluralità di forme in cui si è realizzata – si possa parlare della filosofia, o si debba piutto-

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Percorso tematico Che cos’è la filosofia?

sto constatare una molteplicità irriducibile a unità di forme diverse. Per rispondere a tale domanda – scrive Dilthey in L’essenza della filosofia (1907) – è necessario capire se ci sia un legame tra le varie concezioni della filosofia che sono state sostenute nelle diverse epoche; se non si riesce a individuarlo, ciò dimostra che non di filosofia si deve parlare, ma di filosofie.

T1

Siamo abituati a riassumere certi prodotti spirituali che sono sorti nel corso della storia in grande numero nelle diverse nazioni sotto la rappresentazione generale «filosofia». Se noi esprimiamo ciò che vi è di comune in questi singoli dati di fatto designati dall’uso linguistico come filosofia o come filosofici, sorge il concetto di filosofia. Il supremo compimento di questo concetto sarebbe raggiunto se potesse esibire in modo adeguato l’essenza della filosofia. Un tale concetto essenziale enuncerebbe la legge di formazione che agisce nel sorgere di ogni singolo sistema filosofico, e ne risulterebbero le relazioni di affinità tra i singoli dati di fatto ad esso subordinati. Una soluzione di questo compito ideale è possibile soltanto presupponendo che in ciò che noi designiamo col nome di «filosofia» o «filosofico» sia contenuto anche veramente un tale stato di cose generale, in modo tale che agisca in tutti questi casi singoli una legge formativa e così un nesso interno abbracci l’intero ambito di questa denominazione. Ogni volta che si parla dell’essenza della filosofia, è questa l’assunzione che si fa. […] Ora, si può parlare in questo senso esatto di un’essenza della filosofia? Ciò non è affatto ovvio. Il nome «filosofia» o «filosofico» ha così tanti significati diversi a seconda del tempo e del luogo, e così disparati sono i prodotti spirituali che sono stati designati dai loro creatori con questo nome, che potrebbe sembrare che le diverse epoche abbiano legato la bella parola filosofia, coniata dai Greci, a sempre diversi prodotti spirituali. Infatti, alcuni intendono con filosofia la fondazione delle singole scienze; altri estendono questo concetto di filosofia aggiungendo a questa fondazione il compito di derivarne il nesso tra le singole scienze; oppure la filosofia viene limitata alla ricerca del nesso tra le singole scienze; o ancora la filosofia viene di nuovo definita come la scienza dello spirito, la scienza dell’esperienza interna; o infine si intende per filosofia anche la comprensione della condotta di vita o la scienza dei valori universali. Dov’è il legame interno che connette l’una con l’altra concezioni così disparate del concetto di filosofia, figure di essa così multiformi? Se un tale legame non può essere trovato, allora abbiamo a che fare soltanto con prestazioni diverse che si sono manifestate sotto mutevoli condizioni storiche come un bisogno culturale e che portano una comune designazione solo esteriormente e per casualità storiche – allora vi sono filosofie, ma non vi è la filosofia.

Metodo induttivo e storico per cogliere l’essenza della filosofia

Dilthey propone di affrontare la questione attraverso un metodo storico e induttivo, piuttosto che attraverso un’analisi concettuale. Per decidere se si può parlare di un’essenza della filosofia è necessario rivolgersi ai dati di fatto storici e cercare se vi siano degli elementi comuni che generalizzando a partire appunto dai casi particolari, possano consentire la formazione di un concetto generale adeguato. Il risultato che Dilthey ritiene di poter raggiungere è positivo: pur nella diversità di metodi, stili e soluzioni, dai metafisici dell’antichità ai positivisti e agli scettici del presente, l’essenza della filosofia è rintracciabile nell’essere un «sistema culturale» della società umana dotato della funzione «di porsi in relazione con

Il concetto di filosofia non è univoco W. Dilthey, L’essenza della filosofia

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enigmi riguardanti il mondo e la vita attraverso concetti dotati di validità universale». La filosofia, così Dilthey conclude, è

T2

La filosofia come cultura W. Dilthey, L’essenza della filosofia

una operazione che scaturisce dal bisogno del singolo spirito di riflessione sul proprio fare, di intima configurazione e solidità dell’agire, di solida forma della propria relazione con il tutto della società umana, ed essa è al contempo una funzione che è fondata nella struttura della società e che è richiesta per la perfezione della vita di questa. Dilthey ritiene dunque che, al di là delle differenze che possiamo osservare tra le varie concezioni filosofiche (e tra i molteplici modi in cui è stata concepita la filosofia stessa), sia possibile – attraverso un’indagine storica – individuare un’origine e una funzione comuni ad esse.

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Wittgenstein: filosofia come attività

La soluzione di Dilthey era quella di un filosofo sensibile alla problematica storica, più interessato qui a comprendere un fenomeno che a indicare un metodo alternativo e idee programmatiche ‘militanti’, anche se cercava di rendere conto proprio della pluralità di stili, metodi e teorie in filosofia. Altri autori hanno rivolto le loro riflessioni all’essenza della filosofia con l’intento di difendere con esse la loro concezione e di indurre a una scelta circa il filosofare. Tra questi, Wittgenstein, considerato tra gli ispiratori della «filosofia analitica», ma anche filosofo geniale e difficilmente incasellabile in precise categorie. La filosofia Nella sua prima e importante opera, il Tractatus logico-philosophicus, Wittgennon è una dottrina stein difende anzitutto una visione della filosofia come distinta dalle scienze naturali e non ‘costruttiva’, ossia tale da non configurare un vero e proprio sapere, una dottrina, ma piuttosto un’attività. Per questo nella prefazione al Tractatus, pur ritenendo di aver risolto in modo definitivo molti problemi filosofici, Wittgenstein non propone il suo testo come qualcosa che contenga una dottrina pronta (un «manuale»): «Questo libro», scrive, «lo comprenderà forse solo colui che abbia già pensato da sé una volta i pensieri che vi sono espressi – o, almeno, pensieri simili. Esso non è dunque un manuale. Il suo fine sarebbe raggiunto se piacesse ad uno che lo legga comprendendolo». Coerentemente con ciò, ma non senza voluti paradossi, la filosofia in quanto sapere risulta priva di uno status proprio. Compito della filosofia non è ricercare la verità su questioni quali quelle relative al mondo, alla vita, alla morte, ai valori (questioni che Wittgenstein indica con la parola «mistico»); il risultato sarebbe un insieme di proposizioni prive di senso. La filosofia non deve formulare proposizioni, ma chiarirle, deve cioè chiarire i pensieri che vengono espressi attraverso il linguaggio. Essa non produce, dunque, alcun tipo di conoscenza: è una disciplina diversa dalle scienze naturali, le quali costituiscono la totalità delle proposizioni vere.

Difesa di una certa concezione della filosofia

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Cos’è la filosofia

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

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4 Il pensiero è la proposizione munita di senso. 4.001 La totalità delle proposizioni è il linguaggio. 4.002 L’uomo possiede la capacità di costruire i linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi.

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– Così come si parla senza sapere come i singoli suoni siano emessi. Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, né è meno complicato di questo. È umanamente impossibile desumerne immediatamente la logica del linguaggio. Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far riconoscere la forma del corpo. Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate. 4.003 Il più delle proposizioni e questioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato. Perciò a questioni di questa specie non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo stabilire la loro insensatezza. Il più delle questioni e proposizioni dei filosofi si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio. (Esse sono della specie della questione se il bene sia più o meno identico del bello.) Né meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi. 4.0031 Tutta la filosofia è «critica del linguaggio». […] 4.11 La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali). 4.111 La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola «filosofia» deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali). 4.112 Scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia non è una dottrina, ma un’attività. Un’opera filosofica consiste essenzialmente d’illustrazioni. Risultato della filosofia non sono «proposizioni filosofiche», ma il chiarirsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i pensieri che altrimenti, direi, sarebbero torbidi e indistinti. […] 4.113 La filosofia limita il campo disputabile della scienza naturale. 4.114 Essa deve delimitare il pensabile e con ciò l’impensabile. Essa deve delimitare l’impensabile dal di dentro attraverso il pensabile. 4.115 Essa significherà l’indicibile rappresentando chiaro il dicibile. 4.116 Tutto ciò che possa essere pensato può essere pensato chiaramente. Tutto ciò che può formularsi può formularsi chiaramente. 4.12 La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve aver comune per poterla rappresentare – la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori dalla logica, vale a dire, fuori del mondo. […] 6.52 Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. 707

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6.521 La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso. (Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?) 6.522 Vi è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico. 6.53 Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare –, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto. 6.54 Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.) Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. 7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Filosofia come analisi del linguaggio

L’importanza dell’«indicibile» Funzione terapeutica della filosofia

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L’attività filosofica è sostanzialmente chiarificazione di pensieri e dunque, dal momento che il pensiero è proposizione munita di senso, critica del linguaggio. Wittgenstein mette così al centro dell’attenzione l’analisi del linguaggio, considerando molte questioni ‘classiche’ della filosofia (quelle metafisiche) come esterne alla sfera di ciò che possiede un senso: «i problemi più profondi propriamente non sono problemi» perché non posseggono una soluzione nell’ambito di un linguaggio sensato, che è quello che si occupa di raffigurare stati di cose del mondo. La «mancanza di senso» di tali questioni non significa per Wittgenstein una loro svalutazione, ché anzi nel «mistico» o nell’«indicibile» è racchiuso tutto ciò che ha valore, che riguarda i nostri problemi vitali. Wittgenstein prosegue in questo modo e radicalizza la critica della metafisica di origine kantiana, l’opera di distinzione tra usi sensati e usi insensati del linguaggio, indicando soltanto nelle scienze naturali forme di linguaggio dotate di senso, senza ritenere però che esse possano pronunciarsi su ogni campo della vita umana (per esempio, sui problemi morali). Il compito della filosofia è di tipo prevalentemente «terapeutico», essa deve cioè liberare dalle oscurità – dai malintesi, dai disguidi – che si creano nell’uso del linguaggio, in questo modo rendendo anche avvertibile «l’indicibile», ciò «di cui non si può parlare». Una parte della filosofia del Novecento – in particolare, il neopositivismo logico (vedi Unità 16, p. 719 ss.) – si è riallacciata a Wittgenstein privilegiando la sua ricerca di chiarezza attraverso l’analisi del linguaggio, la critica della metafisica, ma con minore sensibilità per il lato che Wittgenstein intendeva anche sottolineare, il compito della filosofia di limitare «il campo disputabile della scienza naturale». Così, se da un lato Wittgenstein nega che la filosofia abbia un contenuto specifico e sia una forma diretta di conoscenza – non deve aspirare a costruire teorie o a dare una soluzione a certi problemi –, dall’altro attribuisce ad essa una funzione positiva: quella di chiarire il linguaggio e individuare i limiti del pensiero (che coincide con il linguaggio stesso) e della sfera dell’indagine scientifica.

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Percorso tematico Che cos’è la filosofia?

4 La filosofia è epistemologia

T4

Oggetto della filosofia sono le questioni logiche

R. Carnap, Sintassi logica del linguaggio

Carnap: filosofia come analisi logica della scienza Rudolf Carnap, importante filosofo tedesco esponente del «Circolo di Vienna», che aveva al suo centro la riflessione sulla scienza contemporanea e dal quale scaturirà un rinnovamento dell’epistemologia, accentua la posizione di Wittgenstein nel senso di una riconduzione della filosofia appunto a epistemologia, riflessione sui fondamenti logici della scienza, considerando ciò che esula da questa (per esempio, la metafisica e l’etica) come mera espressione di «sentimenti», priva di ogni valore cognitivo. Carnap osserva come ciò che viene chiamato «filosofia» sia un insieme inestricabile di indagini. Alcune di esse riguardano oggetti specifici che vengono indagati anche dalle singole scienze – per esempio, la natura, l’uomo e il linguaggio –, altre oggetti di cui non si occupa nessuna scienza – per esempio, le cose in sé e i valori; solo le prime sono scientifiche. Distinte da queste, ma anch’esse scientifiche, sono le indagini sui problemi di carattere logico, che concernono l’analisi delle proposizioni, dei concetti e delle teorie della scienza. Purificata dalle questioni non scientifiche, la filosofia risulta essere – sostiene Carnap – soltanto analisi logica della scienza. Il nome «filosofia» serve secondo l’uso linguistico consueto come designazione riassuntiva di ricerche di specie molto diversa. Si trovano in queste ricerche sia questioni oggettuali che questioni logiche. Le questioni oggettuali riguardano in parte (pretesi) oggetti, che non si trovano negli ambiti oggettivi delle scienze specialistiche (ad es. le cose in sé, il trascendente, l’assoluto, l’idea oggettiva, il fondamento originario del mondo, il non-ente; inoltre valori, norme assolute, il dovere assoluto, e simili); questo avviene soprattutto in quella parte della filosofia che si usa chiamare metafisica. D’altra parte le questioni oggettuali della filosofia riguardano qualcosa che si presenta anche nelle scienze specialistiche (ad es. l’uomo, la società, il linguaggio, la storia, l’economia, la natura, lo spazio e il tempo, la causalità e simili); questo avviene soprattutto nelle parti della filosofia che si usano chiamare filosofia della natura, filosofia della storia, filosofia del linguaggio, ecc. Le questioni logiche si presentano soprattutto nella logica (inclusa la logica applicata); inoltre nella cosiddetta teoria della conoscenza, dove esse però per lo più vengono mischiate a questioni psicologiche. Nei cosiddetti problemi di fondazione dei diversi ambiti scientifici (ad es. della fisica, della biologia, della psicologia, della storia) si trovano sia questioni oggettuali che questioni logiche. L’analisi logica dei problemi filosofici mostra ora che esse hanno un carattere molto diverso. Nel caso delle questioni oggettuali i cui oggetti non si ripresentano nelle scienze specialistiche, l’analisi critica ha chiarito che si tratta di questioni apparenti. Le pretese proposizioni della metafisica, della filosofia dei valori, dell’etica (quando essa dev’essere una disciplina normativa e non una ricerca fattuale di tipo psicologico-sociologico) sono proposizioni apparenti; esse non hanno alcun contenuto teoretico, ma sono solo esternazioni di sentimenti, che stimolano in chi ascolta di nuovo sentimenti e atteggiamenti volizionali. Le rimanenti questioni, ossia, secondo le designazioni consuete: questioni della logica, della teoria della conoscenza, della filosofia della natura, della filosofia della storia ecc., vengono designate da coloro che considerano non scientifica la metafisica, come questioni della filosofia scientifica. 709

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[Per questo] vogliamo sostenere qui la concezione che tutte le questioni filosofiche rimanenti sono questioni logiche. […] Oltre alle questioni delle singole scienze specialistiche restano come questioni scientifiche autentiche solo le questioni dell’analisi logica della scienza, delle sue proposizioni, concetti, teorie ecc. Vogliamo chiamare, in modo riassuntivo, questo complesso di questioni logica della scienza. […] Secondo questa concezione resta dunque, se la filosofia viene purificata di tutte le parti costitutive non scientifiche, come unica parte residua la logica della scienza. Nella maggior parte delle ricerche filosofiche però una chiara distinzione tra parti scientifiche e parti non scientifiche non è affatto possibile. Perciò vogliamo dire piuttosto: il posto dell’inestricabile quantità di problemi che viene chiamata filosofia viene preso dalla logica della scienza. Se sulla base di questa concezione si vuole ancora applicare la designazione «filosofia» o «filosofia scientifica» all’ambito restante, è una questione di opportunità che non dev’essere decisa qui. La metafisica e l’etica non fanno parte della filosofia

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Come si vede, in questa riformulazione dei compiti della filosofia non resta esclusa soltanto la metafisica, ma finiscono tra le «proposizioni apparenti» (proposizioni che, in realtà, sono prive di significato) anche quelle dell’etica; esse vengono ricondotte a questioni a-razionali di sentimenti, che possono soltanto essere studiati come dati di fatto, e sono dunque privi di ogni senso normativo. I sentimenti, così come ogni altro dato di fatto, possono essere descritti e spiegati, ma non possono guidare la nostra vita, né indicarci cosa dobbiamo pensare o cosa dobbiamo fare. Sebbene, dunque, ritenga come Wittgenstein che la filosofia non sia un ramo della conoscenza, Carnap ne sottolinea il carattere scientifico: essa deve fare uso di un metodo rigoroso come quello proprio della scienza ed è una disciplina posta al servizio della scienza stessa.

Heidegger: filosofia e metafisica

Le posizioni antimetafisiche non sono però affatto incontrastate nella filosofia del Novecento. Più o meno negli stessi anni in cui scriveva Carnap si assisteva a una sorta di rinascita delle problematiche metafisiche. Sulla base della fenomenologia di Husserl (vedi Unità 11, p. 437 ss.), che aveva cercato di indicare un campo autonomo della ricerca filosofica che fosse allo stesso tempo quello di una conoscenza di tipo «rigoroso», Heidegger elabora un rinnovato progetto di ontologia. Tale progetto si pone in contrasto sia con le «filosofie delle visioni del mondo», che legavano la filosofia a una visione prerazionale e connessa alla situazione storica concreta del singolo, sia con le liquidazioni della metafisica tramite riduzione della filosofia a logica delle scienze. Filosofia come analisi In un corso di lezioni universitarie svolto nell’anno in cui pubblica la sua opera dell’essere fondamentale, Essere e tempo, Heidegger esprime una posizione parallela e quasi speculare a quella di Carnap. La filosofia non si occupa di analisi della scienza, ma della comprensione preliminare dell’essere sulla quale si basa ogni rapporto dell’uomo con gli enti e dunque anche la scienza. Non sono «scientifiche» solo le singole scienze particolari, che si occupano di diversi enti, di diversi ambiti di ciò che è, ma è «scientiRipresa dell’indagine ontologica

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Percorso tematico Che cos’è la filosofia?

La filosofia non è una visione del mondo

La filosofia e il problema dell’essere

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La filosofia è la scienza dell’essere

M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, parr. 2-3

fica» anche la filosofia in quanto ontologia, in quanto cioè scienza dell’essere (dei diversi modi in cui l’essere è): essa è la disciplina che si occupa di ciò che precede la conoscenza degli enti, ossia di una (implicita) «precomprensione» dell’essere che per Heidegger è un dato di fatto che caratterizza il rapporto dell’uomo con il mondo. L’uomo – che nel linguaggio di Heidegger è l’«Esserci» – è l’unico ente che ha una comprensione dell’essere (e che si pone il problema stesso dell’essere). La filosofia si occupa in questo senso di ciò che c’è «prima»: si riprende così in certo modo l’a priori come dimensione preliminare rispetto all’esperienza. Alla filosofia come Weltanschauung, come visione del mondo, Heidegger oppone il carattere «scientifico» della filosofia, che comporta anche il suo carattere per così dire ‘di secondo grado’ (in questo senso la sua posizione è simile a quella di Carnap): la filosofia non si rivolge alle cose del mondo, agli enti, in senso ‘positivo’, dunque a un mondo dato di fatto (come fa la «visione del mondo»), ma al mondo ‘in generale’; essa può mostrare le condizioni di possibilità del formarsi di ogni visione del mondo, ma non può porsi come obiettivo quello di crearne una. Per poter comprendere i singoli enti di cui abbiamo esperienza e con i quali abbiamo un rapporto è necessario, sostiene Heidegger, comprendere l’essere – che è distinto da tali enti; allo stesso modo, per esempio, possiamo stabilire un rapporto con i vari esseri viventi solo se comprendiamo che cosa significa «vita». Se il compito delle singole scienze, le «scienze positive» (scienze naturali, matematica, storia dell’arte, e così via), è quello di studiare certi enti particolari (le piante, gli animali, lo spazio ecc.), la filosofia ha invece come unico oggetto l’essere. Il problema dell’essere, lo si è accennato, non è secondo Heidegger un problema specificamente filosofico: lo dimostra il fatto che la parola «essere» ricorre costantemente nel linguaggio della vita quotidiana. Ciononostante, il concetto di «essere» è tutt’altro che chiaro e ovvio, come già – fa notare Heidegger – era stato sottolineato da Aristotele. Dal momento che all’essenza della visione del mondo e quindi, in generale, alla sua costruzione appartiene una siffatta positività, vale a dire il rapporto con l’ente, col mondo esistente, con l’esserci che è, una tale costruzione non può affatto essere compito della filosofia, ma questo non esclude, anzi implica, che la filosofia rappresenti una eminente forma originaria di visione del mondo. La filosofia può e forse deve, tra le altre cose, mostrare che all’essenza dell’esserci appartiene qualcosa come una visione del mondo. La filosofia può e deve definire la struttura di una visione del mondo in generale. Ma essa non può elaborare o porre questa o quella visione del mondo particolare. […] È possibile giustificare il presupposto che la filosofia non si rapporta positivamente agli enti come fanno invece le scienze? Ma allora di che cosa si deve occupare la filosofia se non si occupa dell’ente, di ciò che è, dell’essente nella sua totalità? Ciò che non è, è il niente. La filosofia come scienza assoluta deve quindi aver per tema il niente? Che cosa può esserci al di fuori della natura, della storia, di Dio, dello spazio, del numero? Di tutto questo noi diciamo, anche se in sensi diversi, che è. Lo chiamiamo ente. Rapportati a queste cose, in maniera teoretica oppure pratica, noi siamo in relazione con l’ente. Niente è al di fuori di questo ente. Forse non vi sono altri enti oltre a quelli menzionati, forse però si dà ancora qualcosa, qualcosa che certamente non è, ma che tuttavia, in un senso anco711

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ra tutto da determinare, si dà. Più ancora. In fondo si dà qualcosa che si deve dare perché divenga accessibile l’ente in quanto tale, perché diventi possibile il nostro rapporto con esso, qualcosa che forse non è, ma che è necessario si dia se vogliamo in generale comprendere e sperimentare qualcosa come l’ente. Noi possiamo cogliere gli enti in quanto tali, gli enti in quanto enti, solo se comprendiamo qualcosa come l’essere. Se non comprendessimo, sia pure dapprima in modo rozzo e non concettuale, ciò che vuol dire effettività (Wirklichkeit), ci risulterebbe inaccessibile anche ciò che è effettivo. Se non comprendessimo ciò che significa realtà (Realität), ci resterebbe nascosto anche il reale. Se non comprendessimo il significato di vita e di vitale, non potremmo rapportarci agli esseri viventi. Se non comprendessimo che cosa vuol dire esistenza ed esistenzialità, non saremmo in grado noi stessi di esistere come esserci. Se non comprendessimo il senso di costanza e di stabilità, ci rimarrebbero incomprensibili anche tutte le relazioni costanti tra gli enti geometrici e tra i numeri. Dobbiamo comprendere l’effettività, la realtà, la vita, l’esistenzialità, la stabilità, se vogliamo rapportarci positivamente a determinati enti effettivi, reali, viventi, esistenti, stabili. Dobbiamo comprendere l’essere per poter essere assegnati ad un mondo che è, per poter esistere in esso, per poter essere il nostro proprio esserci esistente. Dobbiamo poter comprendere l’effettività prima di ogni esperienza di ciò che è effettivo. La comprensione dell’effettività o dell’essere nel senso più esteso risulta, rispetto all’esperienza dell’ente, precedente in un senso ben determinato. Comprendere in via preliminare l’essere prima di ogni fattuale esperienza degli enti non significa però che è necessario un concetto esplicito dell’essere per avere un’esperienza teorica o pratica dell’ente. Dobbiamo comprendere l’essere, quell’essere che non può più esser detto un ente, quell’essere che non è un essere tra altri enti, quell’essere che nondimeno deve darsi e che si dà nella comprensione dell’essere. Noi ora affermiamo che l’essere è l’autentico e unico tema della filosofia. Non si tratta di una nostra scoperta: questa posizione tematica viene in luce già agli inizi della filosofia, nel mondo antico, e si realizza nella forma più grandiosa con la logica hegeliana. Ora noi sosteniamo semplicemente che l’essere è l’autentico e unico tema della filosofia. Espresso in termini negativi ciò significa: la filosofia non è scienza dell’ente, ma è scienza dell’essere, ovvero, come dicevano i Greci, è ontologia. Noi assumiamo quest’espressione nella sua massima estensione e non in quel significato ristretto che essa ha assunto con la scolastica o anche con la filosofia moderna, con Cartesio e con Leibniz. […] La filosofia è la scienza dell’essere. Per filosofia intenderemo d’ora in poi la filosofia scientifica e nient’altro. Di conseguenza, tutte le scienze non filosofiche hanno per tema l’ente, e questo è già dato al loro sguardo sempre in quanto ente. Esse lo presuppongono, per esse risulta un positum. Tutte le proposizioni delle scienze non filosofiche, anche gli enunciati della matematica, sono proposizioni positive. Noi chiameremo pertanto tutte le scienze non filosofiche, per distinguerle dalla filosofia, «scienze positive». Le scienze positive trattano dell’ente, cioè di ambiti di volta in volta determinati, ad esempio della natura. Entro questi ambiti, a sua volta, l’indagine scientifica si ritaglia sfere ulteriormente determinate: la natura inanimata, fisico-materiale, e la natura organica. La sfera degli organismi viventi si articola a sua volta in campi d’indagine ancora più specifici: il mondo vegetale e il mondo animale. L’ente come storia costituisce un altro ambito. Le sue articolazioni sono la storia dell’arte, la storia politica, la sto712

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ria della scienza e della religione. Un ulteriore ambito dell’ente concerne invece lo spazio puro della geometria, che è diverso dallo spazio-ambiente scoperto in modo preteoretico. L’ente che appartiene a questi diversi ambiti ci è noto, anche se innanzi tutto e per lo più non siamo in grado di circoscrivere i loro contorni in modo preciso e univoco. Siamo invece in grado di dar sempre il nome ad un ente che appartiene come caso particolare ad un certo ambito, onde caratterizzarlo in via provvisoria quanto basta dal punto di vista pratico per le scienze positive. Possiamo sempre procurarci un ente determinato che possa valere come esempio di un certo ambito. La vera suddivisione dei campi d’indagine si attua storicamente, non seguendo il piano stabilito di un sistema scientifico, ma conformandosi ai vari indirizzi fondamentali di ricerca delle scienze positive. L’ente di un qualsivoglia ambito noi possiamo sempre e con facilità raffigurarcelo e rappresentarcelo. Possiamo, come si suol dire, farcene un’idea. Orbene, come stanno le cose con l’oggetto della filosofia? Possiamo rappresentarci qualcosa come l’essere? Non ci colgono le vertigini in questo tentativo? All’inizio, in effetti, siamo confusi e brancoliamo nel buio. L’ente – è ben qualcosa, il tavolo, la sedia, l’albero, il cielo, il corpo, la parola, l’azione. L’ente, va bene – ma l’essere? L’essere ha tutta l’apparenza del nulla – e nientemeno che Hegel ha affermato: l’essere e il nulla sono lo stesso. La filosofia come scienza dell’essere diviene allora la scienza del nulla? Quale punto di partenza della nostra trattazione dobbiamo fissare, senza illusioni o addolcimenti, il fatto che, con il termine «essere», dapprima io non posso pensar nulla. Ma, d’altra parte, è vero che noi pensiamo l’essere costantemente. Lo pensiamo ogni volta che diciamo, innumerevoli volte ogni giorno, esplicitamente e ad alta voce oppure in silenzio, «questo è così e così», «quello non è così», «questo era, sarà». Ogni volta che facciamo uso di un verbo noi abbiamo già pensato l’essere, l’abbiamo sempre, in qualche modo, già compreso. Comprendiamo immediatamente: oggi è sabato, il sole è tramontato. Comprendiamo l’«è» che usiamo discorrendo, e d’altra parte non ne abbiamo il concetto. Il senso di questo «è» ci rimane oscuro. La comprensione dell’«è», quindi dell’essere in generale, è così naturale che è potuto largamente prosperare in filosofia un dogma fino ad oggi indiscusso: l’essere è il concetto più semplice e più ovvio; esso non è suscettibile di determinazione né ha bisogno di esser determinato. Ci si richiama al sano intelletto comune che è proprio dell’uomo. Ma tutte le volte che del sano intelletto comune si fa l’istanza ultima della filosofia, questa deve diffidare. […] Ma se l’essere fosse il concetto più complicato e oscuro? Se portare al concetto l’essere fosse il compito più urgente della filosofia, il compito che sempre e di nuovo questa deve assumersi? Oggi che si fa filosofia in modo così barbaro e delirante come mai forse in nessun periodo della storia spirituale dell’Occidente, oggi che si grida ai quattro venti che la metafisica è risorta, oggi si è dimenticato completamente ciò che dice Aristotele in una delle più importanti indagini della sua Metafisica: «E in verità ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca, davanti al quale la domanda costantemente s’arena, è il problema di che cosa sia l’essere» (Metafisica, Z 1, 1028 b2, sgg.). Se la filosofia è la scienza dell’essere, allora sorge, quale questione iniziale, finale e fondamentale della filosofia, la domanda: che cosa significa «essere»? A partire da che cosa dev’essere compreso qualcosa come l’essere in generale? Com’è in generale possibile la comprensione dell’essere? 713

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Così, pur sostenendo – come, lo si è detto, Carnap – che la filosofia ha un carattere scientifico e che non è fonte di conoscenza del mondo, Heidegger ne sottolinea l’autonomia rispetto alle scienze non filosofiche. Essa ha infatti un oggetto diverso – l’essere –, la comprensione del quale è condizione di possibilità del rapporto tra noi e gli enti che vengono studiati dalle altre discipline scientifiche. La filosofia ha il compito di chiarire cos’è l’essere e di spiegare com’è possibile avere una comprensione dell’essere (comprensione che, di fatto, abbiamo).

6 Analisi del linguaggio comune

Filosofia come ermeneutica

Tendenze contrastanti nel dibattito contemporaneo

La filosofia è una disciplina autonoma

Il rifiuto dello scientismo

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Una posizione contemporanea. Dummett contro lo scientismo Le vicende della filosofia e lo sviluppo delle sue concezioni nel Novecento hanno naturalmente una storia lunga e complessa. La tradizione antimetafisica rappresentata da Carnap ha trovato sviluppi complessi e molteplici nell’ambito della «filosofia analitica», influenzata anche dalla seconda fase del pensiero di Wittgenstein. In essa veniva alla luce l’esigenza di un’analisi non soltanto dei linguaggi scientifici, ma soprattutto del linguaggio comune e dei suoi diversi «giochi linguistici», che rimandavano, secondo Wittgenstein, a «forme di vita» di cui erano manifestazione. L’ontologia proposta da Heidegger e in genere gli sviluppi della fenomenologia portano a esiti diversi, di cui è espressione anche la cosiddetta «ermeneutica», la filosofia che mette al centro il linguaggio come medium dell’esperienza umana del mondo, inteso secondo il modello dell’interpretazione dei testi. L’ermeneutica è stata spesso considerata come la forma paradigmatica della cosiddetta filosofia «continentale», caratterizzata tra le altre cose da uno stile filosofico in cui resta importante il dialogo con la tradizione di pensiero del passato, e da un atteggiamento in cui la dimensione delle scienze umane, ma anche dell’esperienza artistica, conserva un ruolo centrale nei confronti di modelli di sapere ispirati alle scienze naturali. Il privilegio, seppur inteso in modo diverso, del linguaggio nella filosofia analitica e nell’ermeneutica ha creato alcuni apparenti punti di contatto tra le due tradizioni. Negli ultimi tempi, per alcuni versi, la contrapposizione rigida tra gli stili e le impostazioni filosofiche di tipo «analitico» e quelle di tipo «ermeneutico» o «continentale» si è andata attenuando. Per altri versi, i successi di nuove scienze naturali, come le neuroscienze che studiano la struttura, il funzionamento e le capacità del cervello e intervengono direttamente in ambiti di interesse filosofico, hanno rafforzato le posizioni che indicano come modello esclusivo di sapere quello delle scienze naturali: esso dovrebbe guidare o sostituire del tutto il sapere filosofico. Michael Dummett (nato nel 1925), importante filosofo di scuola analitica, propone una visione della filosofia che vuole essere libera dall’ispirazione a modelli scientifici propria di parte della filosofia analitica e intende conservare uno spazio e una metodologia autonoma per la filosofia, nella quale discipline come l’etica o l’estetica mantengono il loro senso. Dummett respinge in modo netto lo scientismo, ossia la convinzione che le uniche conoscenze possibili siano quelle derivanti dalle scienze naturali:

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laddove la scienza studia la realtà in quanto tale, indipendentemente dal rapporto che gli esseri umani hanno con essa, oggetto dell’indagine filosofica sono il pensiero umano e i diversi modi in cui concepiamo la realtà nella quale viviamo. Quindi, a differenza dello scienziato (che elabora teorie servendosi di concetti diversi da quelli che usiamo quotidianamente), il filosofo pone al centro della propria riflessione i concetti attraverso i quali ci esprimiamo nella vita comune e comunichiamo con gli altri e che costituiscono una «forma di vita».

T6

Non c’è continuità tra la filosofia e le scienze naturali

M. Dummett, La natura e il futuro della filosofia

La scienza della neurologia ha […] avuto un impatto assai maggiore sui filosofi della scuola analitica, e su quelli statunitensi in particolare, che sul pubblico generale dei paesi occidentali. E questo è un esempio della svolta scientista recentemente compiuta dalla filosofia analitica. Lo scientismo è la tendenza a considerare le scienze naturali come l’unica vera fonte di conoscenza. Questo assunto impone l’abbandono dell’idea che la filosofia abbia una metodologia sua propria: se può affatto dare un contributo alla conoscenza deve esservi continuità tra filosofia e scienze naturali […]. Il compito della filosofia si riduce all’aggiunta di elementi ornamentali alle teorie prodotte dagli scienziati. Gli scienziati, al pari dei matematici, non si prefiggono il compito di usare concetti fissati da definizioni precise universalmente accettate; è sufficiente che il contenuto dei concetti che usano sia determinato dal ruolo che svolgono all’interno delle teorie e dalla connessione, nel caso in cui sia diretta, con l’osservazione. Quel che le scienze naturali producono sono teorie che possono essere trasmesse da uno scienziato all’altro: esse sono soggette alla discussione e alla revisione, ma a nessuno stadio dipendono dal modo in cui sono state presentate da coloro che le hanno ideate. Gli scienziati, a differenza dei filosofi, non sono interessati ad esaminare i concetti con cui comunemente operano gli esseri umani. Quel che la filosofia produce sono esplorazioni che possono a volte dare origine a teorie; ma una grande opera filosofica non dischiude mai il suo contenuto ad una prima lettura o ad un singolo lettore. La filosofia non mira a formulare tesi separabili dal modo in cui il loro ideatore le ha espresse, ma a farci venire a capo di grovigli concettuali molto complessi; questa è la ragione per cui non possiamo fare un riassunto di tutto quel che Platone o Kant avevano da dire ed incapsularlo in un manuale, ovviando così alla necessità di leggere le loro opere. I concetti esplorati dai filosofi sono quelli con cui pensiamo e ci rapportiamo gli uni agli altri: descrivere questi concetti vuol dire delineare il ruolo che svolgono in quella che Wittgenstein ha chiamato la nostra «forma di vita». Per contro, i concetti che figurano nelle teorie scientifiche hanno pochissimo a che fare con la nostra forma di vita: sono costruiti in modo da essere il più indipendenti possibile dalle modalità percettive dell’uomo e dalla posizione che egli occupa nel cosmo. Ampi settori della filosofia – l’etica e l’estetica, ad esempio – si occupano di ciò che è specificatamente umano. Per la metafisica dello spazio e del tempo, invece, non è così: al centro del suo interesse è la realtà in quanto tale, indipendentemente da noi. Ma ogni indagine filosofica deve prendere le mosse dai nostri concetti – e ciò vale sia per i concetti scientifici che per quelli ordinari. La filosofia cerca di esplorare la struttura del pensiero umano, e lo fa chiarificando i nostri modi di concepire la realtà. Coloro che hanno una mentalità scientistica disdegnano le riflessioni filosofiche, così concepite; preferiscono impiegare concetti scientifici, come se la verità fosse di casa solo nei sistemi concettuali co715

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struiti a fini teorici specialistici. Alle spiegazioni filosofiche vengono sostituite le loro versioni «naturalizzate». Queste teorie «naturalizzate» spiegano, poniamo, nozioni che hanno a che vedere col significato in termini che prescindono completamente dall’impiego del linguaggio nella comunicazione da parte degli esseri umani e negano quindi che la teoria del significato debba fornire un’analisi della comprensione che i parlanti hanno degli enunciati prodotti nello scambio linguistico. Il nostro possesso di certi concetti viene talvolta spiegato sulla base di ipotetici vantaggi evolutivi. Questa non è filosofia, e non è neppure scienza. È il risultato dell’abbaglio preso da coloro che hanno intrapreso una certa indagine intellettuale sulla scia dei successi conseguiti in un altro settore. Il fatto che tanti filosofi analitici siano vittime di questo abbaglio ostacolerà la riconciliazione della scuola analitica con le scuole rivali. La posizione di Dummett costituisce, invece, una sorta di conciliazione tra la concezione della filosofia come analisi del linguaggio e la convinzione che essa sia una disciplina autonoma, il cui oggetto e i cui metodi sono diversi da quelli dell’indagine scientifica.

I brani antologizzati sono tratti da: W. Dilthey, L’essenza della filosofia, trad. di C. La Rocca. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1974. R. Carnap, Sintassi logica del linguaggio, a cura di A. Pasquinelli (trad. modificata), Silva, Milano 1961, pp. 376-378. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di F.-W. Von Hermann, trad. di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1988, pp. 8-13. M. Dummett, La natura e il futuro della filosofia, Il Melangolo, Genova 2001, pp. 37-39.

Questionario 1

Qual è il metodo con cui Dilthey ritiene che sia possibile risolvere il problema dell’essenza della filosofia? (max 4 righe)

Spiega in un massimo di 7 righe la differenza tra la posizione di Wittgenstein e quella di Carnap sul rapporto tra la filosofia e le scienze naturali. 716

2

3

Qual è, secondo Heidegger, l’oggetto d’indagine della filosofia? (max 6 righe)

4

Spiega in un massimo di 6 righe quali differenze ci sono, secondo Dummett, tra l’indagine filosofica e l’indagine scientifica.

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1. L’empirismo e la scienza 2. L’empirismo logico 1. 2. 3. 4.

Il Circolo di Vienna Schlick e la svolta della filosofia Carnap e la costruzione logica del mondo Reichenbach e Neurath

3. Gli sviluppi dell’empirismo 1. Popper e il falsificazionismo 2. Quine e i due dogmi dell’empirismo 3. Putnam e il realismo interno

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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L’empirismo e la scienza

1 La diffusione dell’empirismo novecentesco

L’ideale di una filosofia scientifica

La filosofia e la scienza

La svolta linguistica e analitica

La logica come strumento della ricerca filosofica

Lo sviluppo dell’empirismo

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Sorto dalla riflessione anti-idealistica di due filosofi britannici, Moore e Russell, il movimento empiristico trova fra le due guerre una sponda importante nell’Europa continentale, a Vienna e a Berlino, e da qui si diffonde, dopo la Seconda guerra mondiale, a livello internazionale, divenendo il tratto prevalente nella filosofia angloamericana del secondo dopoguerra. Come si è osservato nell’Unità 15, la filosofia dell’empirismo instaura un rapporto stretto con la riflessione scientifica: la filosofia desume dalla scienza il suo metodo e i suoi caratteri principali. Di contro alle ambiguità e alle difficoltà della speculazione metafisica, la filosofia dell’empirismo intende essere rigorosa e aspira alla semplicità e alla chiarezza, basandosi sulla discussione esplicita degli argomenti portati a sostegno delle tesi filosofiche. Come la scienza, essa viene concepita non come ‘parto’ della mente di un singolo pensatore che lavora in completo isolamento, ma come un’impresa intersoggettiva, che cerca il confronto e lo scambio. L’ideale è appunto quello di una «filosofia scientifica», che aspira allo stesso rigore e alla stessa certezza della scienza. Tuttavia, nonostante questo legame con il metodo della scienza, l’empirismo novecentesco tende anche a ribadire la separazione e la differenza fra la filosofia e la scienza. Sebbene la scienza costituisca il punto di riferimento, la filosofia non è scienza. La scienza ha come scopo la descrizione e la spiegazione della realtà naturale e sociale, essa dice cosa esiste nel mondo e cosa non esiste; la filosofia ha invece per scopo la riflessione sul metodo e sulle procedure della scienza, così come la riflessione sugli altri ambiti del sapere umano: sull’etica, sulla politica e sull’arte. Non è quindi direttamente compito della filosofia fare affermazioni sulla realtà. L’aspirazione al rigore e alla chiarezza spiega l’attenzione che viene rivolta al linguaggio. La filosofia dell’empirismo si concentra infatti sulla chiarificazione del pensiero attraverso l’analisi del linguaggio in cui esso viene espresso: è questo ciò che viene usualmente definito come la «svolta linguistica» della filosofia del Novecento. I termini e gli enunciati sono entità linguistiche portatrici di significato; la filosofia, concepita come analisi del linguaggio, è principalmente analisi dei significati espressi dai termini e dagli enunciati. La filosofia, scrive Schlick nel 1930, annunciando la svolta analitica nella filosofia del Novecento, non è, come la scienza, «un sistema di conoscenze […]. La filosofia è l’attività mediante la quale si chiarisce e si determina il senso degli enunciati. Dalla filosofia le proposizioni vengono esplicate, e dalla scienza vengono verificate. Qui si considera la verità degli enunciati; là che cosa propriamente quegli enunciati significhino». Come osservato nell’Unità 15, questa attenzione al linguaggio spiega anche l’attenzione alla logica come disciplina che studia le regole di deduzione e di implicazione dei termini e degli enunciati. La logica è assunta come strumento indispensabile della filosofia e come modello di rigore e chiarezza: la filosofia dell’empirismo è filosofia logico-linguistica. Negli empiristi logici (Schlick, Carnap, Reichenbach, Neurath) questa concezione della filosofia si concretizza in un imponente lavoro di analisi della scienza, di studio della sua struttura e dei suoi fondamenti logici ed epistemologici. Viene discusso il rapporto fra la teoria e l’evidenza empirica, e i modi attraverso i quali la teoria può essere confermata.

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➥ Sommario, p. 748

Tuttavia, negli anni (a opera di filosofi come Popper, Quine, Putnam), si assiste a un processo di sempre maggiore apertura, attenuazione e critica delle tesi originarie dell’empirismo logico: è il cosiddetto processo di «liberalizzazione dell’empirismo» che caratterizza gli sviluppi dell’empirismo del Novecento fino ai nostri giorni.

L’empirismo logico

2 I testi

P. Frank La scienza moderna e la sua filosofia: La genesi del ‘manifesto’, T1 H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna: La natura delle asserzioni metafisiche, T2; Gli errori della metafisica tradizionale, T3; La negazione dei giudizi sintetici a priori, T4 M. Schlick Significato e verificazione: Il principio di verificazione, T5 Teoria generale della conoscenza: La natura del giudizio, T6 La svolta della filosofia: La metafisica come insieme di pseudo-problemi, T7; La filosofia «regina delle scienze», T8

L’empirismo logico e la sua diffusione nel mondo

Problemi di etica: L’etica come scienza dei fatti della coscienza, T9 R. Carnap Autobiografia intellettuale: Esperienza e costituzione degli oggetti, T10 Controllabilità e significato: Controllo e conferma degli enunciati, T11 H. Reichenbach L’empirismo logico in Germania e lo stato attuale dei suoi problemi: L’utilità dell’induzione, T12 O. Neurath Fisicalismo: Scienza e filosofia, T13 Proposizioni protocollari: Proposizioni e coerenza del sistema, T14

Il movimento filosofico che va sotto il nome di «empirismo logico» (o anche di «neoempirismo», «positivismo logico» e «neopositivismo») si diffonde in Austria e in Germania a cavallo fra le due guerre mondiali. Nelle capitali dei due Paesi giovani filosofi che rifiutano il carattere metafisico e speculativo della filosofia del tempo si associano per formare i cosiddetti «circoli» di Vienna e di Berlino. Da qui, dopo la Seconda guerra mondiale, anche a seguito dell’emigrazione all’estero dei suoi principali esponenti in fuga dall’avanzata del nazismo, il movimento si estende progressivamente al resto dell’Europa e all’America, divenendo una delle più importanti correnti filosofiche del Novecento. 719

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1 La nascita del Circolo di Vienna

Il Circolo di Berlino e la collaborazione con Vienna

Il ‘manifesto’ del Circolo di Vienna

T1

La genesi del ‘manifesto’

P. Frank, La scienza moderna e la sua filosofia

I tratti peculiari dell’empirismo logico

720

Il Circolo di Vienna Il «Circolo di Vienna» nasce sotto l’impulso del filosofo della scienza Moritz Schlick e del logico Hans Hahn. Attorno ai due, dal 1924, ogni giovedì sera si riunisce un gruppo di discussione formato da giovani filosofi, fra i quali Otto Neurath, Herbert Feigl, Friedrich Waisman, Victor Kraft, e dal 1926 Carnap, chiamato a insegnare a Vienna. Il gruppo si organizza in un’associazione stabile, l’«Associazione Ernst Mach», e diventa ben presto punto di attrazione per altri filosofi esterni al gruppo, come Philipp Frank, docente di fisica a Praga, l’inglese Ayer, e ancora Karl Popper e Hans Kelsen. Nel 1928, un circolo analogo si costituisce a Berlino attorno alla «Società per la filosofia scientifica» guidata da Hans Reichenbach, che a Berlino insegna filosofia della fisica; al circolo partecipano, oltre a Reichenbach, Richard von Mises, Kurt Grelling, Carl Gustav Hempel. I due circoli organizzano a Praga, nel 1929, un convegno sull’«Epistemologia delle scienze esatte» (seguito da altri convegni negli anni successivi, fra cui quello di Parigi nel 1935 che sancisce la notorietà internazionale del movimento) e si dotano di una rivista ufficiale, «Erkenntnis» («Conoscenza»), che inizia le pubblicazioni nel 1930 e prosegue fino al 1938, anno in cui i circoli terminano di fatto la loro attività, a seguito dell’emigrazione, durante gli anni del regime nazista, dei loro rappresentanti più significativi. Sempre nel 1929, Carnap, Hahn e Neurath firmano un breve scritto, La concezione scientifica del mondo: il Circolo di Vienna, concepito come ‘manifesto’ dell’empirismo logico, in cui vengono sintetizzate le idee principali del nuovo movimento. Così Philipp Frank ricorda quell’esperienza: Nel 1929, avevamo la sensazione che dalla collaborazione che aveva centro a Vienna fosse emersa una particolare filosofia di nuovo tipo. Tutti i genitori amano mostrare le fotografie dei propri bambini, perciò anche noi eravamo in cerca di mezzi di comunicazione per presentare al grosso pubblico il parto del nostro cervello, scoprirne le reazioni e riceverne nuovi stimoli. Per prima cosa decidemmo di pubblicare una monografia sul nostro movimento, poi organizzare un dibattito; e infine avere a nostra disposizione una rivista filosofica per poter pubblicare i contributi del gruppo. Mentre preparavamo la monografia, ci accorgemmo che il nostro gruppo e la nostra filosofia non avevano nomi. A non pochi di noi erano antipatiche le parole «filosofia» e «positivismo», e non si voleva che apparissero nel titolo. Alcuni odiavano tutti gli «ismi» nostrani o stranieri. Alla fine, scegliemmo la denominazione di «concezione scientifica del mondo». Qualcuno, tra cui Schlick, pensava che qualsiasi scienziato ragionevole avrebbe concordato con la nostra presentazione della conoscenza. Il titolo prescelto sembrava alquanto arido a Neurath, che propose di aggiungervi «Il Circolo di Vienna», pensando che l’espressione avrebbe evocato il valzer viennese, i boschi di Vienna e altre amenità. La monografia fu scritta da Carnap, Hahn, Neurath in stretta collaborazione. Il manifesto del circolo viennese individua le principali fonti di ispirazione del movimento nella riflessione sulla scienza di Mach e Poincaré e nella riflessione sulla logica e sul linguaggio di Russell, Whitehead e Wittgenstein; esso delinea inoltre sinteticamente i principali caratteri della nuova filosofia. Essa è presen-

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

L’attacco rivolto alla metafisica tradizionale

Una filosofia dal carattere intersoggettivo

T2

La natura delle asserzioni metafisiche

H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna

tata come una filosofia «empiristica e positivistica», in quanto si ritiene che l’unica forma genuina di conoscenza sia quella «empirica, basata sui dati immediati», conformemente a quanto sostenuto dal positivismo tradizionale; ma rispetto a quest’ultimo, essa è contraddistinta dall’applicazione del metodo dell’analisi logica, elaborato da Russell e Wittgenstein. Proprio quest’ultimo aspetto, scrivono gli autori del manifesto, è ciò che distingue il «nuovo empirismo e positivismo da quello anteriore, che era orientato in senso più biologico-psicologico», motivo per cui il nuovo empirismo viene chiamato «empirismo logico». Se compito della scienza è dire ciò che esiste, la filosofia è analisi del significato: essa serve a chiarire i concetti e il linguaggio della scienza, e lo fa riprendendo dalla scienza l’aspirazione al rigore e alla chiarezza. Il principale obiettivo della nuova filosofia consiste nella netta opposizione alla metafisica. Secondo gli autori del manifesto, le affermazioni della metafisica devono essere messe alla prova dell’analisi logica e della conferma empirica. Se vengono sottoposte a questa prova, si aprono due possibilità: 1) possono essere tradotte in genuine questioni scientifiche, e quindi di pertinenza della scienza; 2) finiscono per risultare prive di significato, manifestandosi come «pseudo-problemi». In questo secondo caso, le asserzioni della metafisica non esprimono alcun contenuto conoscitivo, ma solo un contenuto emotivo: il loro strumento espressivo adeguato non sarebbe, perciò, la filosofia, ma l’arte: la poesia e la musica. Riecheggiando Wittgenstein, gli autori del manifesto sostengono che in filosofia non esistono questioni insolubili. In opposizione alla metafisica, deve allora essere proposta una «concezione scientifica del mondo», che ha come scopi «precisione e chiarezza di pensiero» e che respinge «le oscure lontananze e le profondità impenetrabili». Essa si basa su un lavoro di ricerca collettivo, sull’intersoggettività e la pubblicità della ricerca, e, proprio per questo suo carattere, persegue un programma di unificazione delle scienze. La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili. Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce in parte a smascherarle quali pseudo-problemi; in parte a convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale. […] Se qualcuno afferma «esiste un dio», «il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio», «nell’essere vivente vi è un’entelechia come principio motore», noi non gli rispondiamo «quanto dici è falso», bensì a nostra volta gli poniamo un quesito: «che cosa intendi dire con i tuoi asserti?». Risulta chiaro, allora, che esiste un confine preciso fra due tipi di asserzioni. All’uno appartengono gli asserti formulati nella scienza empirica […]. Gli altri asserti, cui appartengono quelli citati sopra, si rivelano affatto privi di significato, assumendoli come li intende il metafisico. Spesso è possibile reinterpretarli quali asserti empirici; allora però, essi perdono il proprio contenuto emotivo, che in genere è basilare per lo stesso metafisico. Il metafisico e il teologo credono, a torto, di asserire qualcosa, di rappresentare stati di fatto, mediante le loro proposizioni. Viceversa, l’analisi mostra che simili proposizioni non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi. Espressioni del genere possono, certo, avere un ruolo pregnante nella vita; ma al riguardo, lo strumento espressivo adeguato è l’arte, per esempio la lirica o la musica. Si sceglie, invece, la veste linguistica propria di una teoria, ingenerando un pericolo: quello di simulare un contenuto teorico inesistente. Se un metafisico o 721

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un teologo vogliono mantenere nel linguaggio la forma usuale, debbono consapevolmente e chiaramente ammettere di non fornire rappresentazioni, bensì espressioni; di non suggerire teorie, informazioni, bensì poesie o miti. I due errori fondamentali della metafisica

T3

Gli errori della metafisica tradizionale

H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna

La critica dei giudizi sintetici a priori

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Oltre ad avere origini psicologiche e sociali, la metafisica ha le sue radici in due errori logico-linguistici. Il primo consiste in un’aderenza troppo stretta alla struttura del linguaggio ordinario: come aveva già messo in evidenza Russell, infatti, la struttura soggetto-predicato del linguaggio comune procura alla filosofia diversi problemi; comporta per esempio il rischio di ipostatizzare come sostantivi che rimandano a oggetti quelle parole che descrivono qualità, relazioni o processi: così si possono intendere la «durezza», o l’«amicizia» come sostantivi che designano oggetti, mentre designano rispettivamente una qualità e una relazione. Il secondo errore consiste nella convinzione che il pensiero possa essere da solo, senza l’esperienza, produttivo di conoscenza; ma come aveva già messo in luce Wittgenstein, la funzione logica del pensiero consiste solo di inferenze tautologiche a partire da quanto asserito nelle premesse, senza poter aggiungere niente a quanto già contenuto in esse. Nelle teorie metafisiche, addirittura già nelle formulazioni stesse dei quesiti metafisici, sono presenti due errori logici basilari: un’aderenza troppo stretta alla struttura dei linguaggi tradizionali e un inadeguato intendimento della funzione logica del pensiero. La lingua comune, per esempio, usa la medesima forma grammaticale, cioè il sostantivo, per designare sia cose («mela»), sia qualità («durezza»), sia relazioni («amicizia»), sia processi («sonno»); in tal modo essa induce erroneamente a intendere i concetti funzionali come concetti di cose (ipostatizzazione, sostanzializzazione). È possibile addurre esempi molteplici di simili travisamenti linguistici, che sono del pari risultati fatali per la filosofia. Il secondo errore basilare consiste nel ritenere che il pensiero possa, da solo, senza far leva su dati empirici, condurre alla conoscenza, o almeno sia in grado di ricavare per via d’inferenze da elementi fattuali noti nuove cognizioni. L’indagine logica, però, mostra che il pensiero, l’inferenza, consistono semplicemente nel passaggio da proposizioni ad altre proposizioni, le quali ultime non asseriscono alcunché che non sia già asserito dalle prime (trasformazione tautologica). Risulta, quindi, impossibile sviluppare una metafisica a partire dal «pensiero puro». Il pensiero non è quindi direttamente produttivo di conoscenza. Gli autori del manifesto mettono in evidenza quella che definiscono come la tesi principale della nuova filosofia: la negazione dei giudizi sintetici a priori teorizzati da Kant; di giudizi cioè che accrescono la nostra conoscenza, ma che sono validi indipendentemente dall’esperienza. Non si danno conoscenze derivabili dalla pura ragione, senza ricorso all’esperienza. In questo modo, si opera una ripartizione dei giudizi in due classi: i giudizi analitici, che sono veri in virtù del significato dei termini (per esempio il giudizio «lo scapolo è un uomo non sposato») e i giudizi sintetici, che sono veri in virtù del significato e dell’esperienza (per esempio il giudizio «Socrate è ateniese»). Escludendo la possibilità di giudizi sintetici a priori, ciò che è analitico diventa allora sinonimo di a priori e ‘necessario’, mentre ciò che è sintetico diventa sinonimo di a posteriori, ‘empirico’ e ‘contingente’.

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo Il carattere analitico della logica e della matematica

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La negazione dei giudizi sintetici a priori

H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna

Giudizi analitici e giudizi sintetici nella prospettiva dell’empirismo logico

Al campo delle verità analitiche, e quindi a priori, appartengono le verità della logica e della matematica. Con Russell e Wittgenstein, viene sostenuta la cosiddetta «dottrina linguistica dell’a priori e delle verità logico-matematiche», secondo la quale la matematica è riducibile alla logica, e la logica si fonda su un calcolo proposizionale di carattere tautologico. Come Hahn asserisce nel saggio del 1933 Logica, matematica e conoscenza della natura, logica e matematica, non sono la descrizione delle proprietà universali delle cose e non hanno alcuna portata empirica, ma trattano «soltanto del modo in cui noi parliamo degli oggetti; la logica deriva anzitutto dal linguaggio». Nella concezione scientifica del mondo non si danno conoscenze incondizionatamente valide derivanti dalla pura ragione, né «giudizi sintetici a priori», quali ricorrono alla base sia della gnoseologia di Kant, sia, ancor più, di tutte le ontologie e metafisiche pre- o post-kantiane. […] La tesi fondamentale dell’empirismo moderno consiste proprio nell’escludere la possibilità di una conoscenza sintetica a priori. La concezione scientifica del mondo riconosce solo le proposizioni empiriche su oggetti di ogni sorta e le proposizioni analitiche della logica e della matematica. Giudizi analitici

Giudizi sintetici

1) Sono veri in virtù del significato dei termini 2) Sono validi indipendentemente da ogni esperienza (ossia a priori) 3) Hanno carattere necessario (non possono essere falsi) 4) Non ampliano la nostra conoscenza 5) Sono propri della logica e della matematica

1) Sono veri in virtù del significato dei termini e dell’esperienza 2) Sono validi solo sulla base di una conferma empirica (ossia a posteriori) 3) Hanno carattere contingente (possono essere falsi) 4) Ampliano la nostra conoscenza 5) Sono propri delle scienze naturali

Per gli empiristi logici non esistono giudizi sintetici a priori (come invece per Kant); ossia, giudizi che coniugano la necessità propria dei giudizi analitici e il carattere conoscitivo proprio dei giudizi sintetici.

La tesi del rifiuto della metafisica si appoggia oltre che sull’inesistenza dei giudizi sintetici a priori, anche su un’altra tesi, condivisa da tutto il movimento: il cosiddetto «principio di verificazione», secondo il quale hanno significato solo gli enunciati che possono essere soggetti a possibile verifica empirica, così che il significato di un enunciato consiste nel metodo della sua verificazione. Gli enunciati sintetici che non possono essere verificati, come le asserzioni della metafisica che si sono viste («esiste un Dio», «il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio» ecc.), sono da ritenersi senza significato in quanto non suscettibili di verifica empirica: «privi di senso, in quanto non verificabili e vacui». Le due classi In questo modo, gli empiristi logici riprendono le tesi di Russell e Wittgenstein di enunciati significanti sul significato («comprendere una proposizione vuol dire sapere che accada se essa è vera», scrive Wittgenstein nel Tractatus), sulla riducibilità delle proposizioni molecolari a proposizioni elementari e sul rinvio diretto di queste ultime all’esperienza e al mondo dei fatti. Gli enunciati possono allora essere dotati di significato in due casi: 1) quando sono enunciati analitici, veri o falsi in virtù del linguaggio e quindi privi di contenuto empirico; oppure 2) quando sono enunciati sintetici, che possono essere o verificati direttamente, attraverso il rimando alIl nesso tra significato e verificazione

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l’esperienza, o verificati indirettamente, in quanto riconducibili, in linea di principio, ad asserzioni direttamente verificabili. Come è scritto nel manifesto, «il senso di ogni asserto scientifico deve risultare specificabile mediante riduzione ad asserti sul dato». Così espone il principio di verificazione Moritz Schlick:

T5

Ogni volta che, a proposito di una frase, ci chiediamo «che cosa significa?», ciò che ci attendiamo è un’indicazione delle circostanze in cui la frase viene usata; vogliamo una descrizione delle condizioni nelle quali la frase rappresenta una proposizione vera e di quelle nelle quali rappresenta una proposizione falsa. […] Stabilire il significato di una frase equivale a stabilire le regole, in accordo con le quali essa deve essere usata, il che è lo stesso che stabilire il modo in cui essa deve venire verificata (o falsificata). Il significato di una proposizione è il metodo usato per verificarla.

La portata del principio di verificazione

Il principio di verificazione viene presentato nel manifesto come un criterio di significanza tout court, per cui se un singolo enunciato non è verificabile è per ciò stesso anche insensato. Tuttavia gli stessi empiristi logici tendono in seguito a indebolirne la portata, intendendolo piuttosto come un criterio di significanza ‘conoscitiva’. In questa accezione esso non asserirebbe che enunciati non verificabili sono del tutto privi di significato (si può pensare per esempio agli enunciati dell’etica o dell’estetica, che per alcuni non sono verificabili, ma che non sono privi di senso), quanto piuttosto che sono privi di significato conoscitivo; cioè che essi non costituiscono autentiche conoscenze, anche se possono avere un significato di altro tipo, per esempio emotivo. Come ha scritto Paolo Parrini (vedi i «Suggerimenti bibliografici» a p. 746), uno dei principali studiosi dell’empirismo logico: «nessuna tesi neopositivista ha subito più critiche e riformulazioni del criterio empiristico di significanza conoscitiva».

Il principio di verificazione M. Schlick, Significato e verificazione

Significato e verifica empirica

Qual è il significato dell’enunciato «l’acqua bolle a 100 gradi centigradi»?

Qual è il significato dell’enunciato «Firenze è la città più popolosa d’Italia»?

Qual è il significato dell’enunciato «L’essenza della realtà è la Volontà»?

Esperienza e logica formale

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Il significato di tali enunciati consiste nel metodo attraverso cui essi vengono sottoposti a verifica: – il primo è significante e vero; – il secondo è significante e falso

Tale enunciato non è significante perché non esiste alcun metodo della sua verifica

Ricapitolando, la filosofia del Circolo di Vienna si caratterizza dunque come una ripresa dell’impostazione empiristica classica e positivistica, stando alla quale soltanto l’esperienza è in grado di ampliare le nostre conoscenze, mentre il pensiero, da solo, non è produttivo di conoscenza. Tale ripresa viene tuttavia arricchita in modo sostanziale attraverso l’impiego massiccio della logica formale, che serve da strumento di analisi delle teorie scientifiche e dei nessi di carattere de-

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duttivo tra le proposizioni della scienza. In generale, gli esponenti del Circolo di Vienna si dimostrano avversi tanto alla metafisica tradizionale di stampo razionalistico quanto a quella kantiana, che ha tentato una conciliazione tra razionalismo ed empirismo, e sostengono la tesi che non esistono giudizi sintetici a priori.

2 La critica della conoscenza intuitiva

Schlick e la svolta della filosofia Moritz Schlick è, come si è visto, uno dei padri dell’empirismo logico. La prima opera di Schlick dedicata sistematicamente alla conoscenza scientifica è la Teoria generale della conoscenza, pubblicata nel 1918, nella quale il filosofo tedesco polemizza contro la conoscenza di carattere intuitivo sostenuta da Bergson e Husserl. L’intuizione, dice Schlick, è comunemente presentata come un genere superiore di conoscenza, in quanto procurerebbe un contatto diretto con l’oggetto conosciuto, senza la deformazione dell’astrazione e del linguaggio; ma questa è una tesi non sostenibile.

La vita e le opere Moritz Schlick nacque a Berlino nel 1882 e si laureò con il fisico Max Planck, insegnando poi fisica all’università di Kiel. Dal 1922 ebbe la cattedra di filosofia delle scienze induttive all’università di Vienna, occupata in precedenza da Ernst Mach. Proprio a Vienna nacque nel 1924 l’omonimo «Circolo», sulla scorta di una serie di seminari organizzati dallo stesso Schlick e che videro la partecipazione, tra gli altri, di Rudolf Carnap, Otto Neu-

rath, Hans Hahn. Nel 1936 la vita di Schlick fu prematuramente stroncata da uno studente filonazista, che sparò al filosofo sulla scalinata dell’università di Vienna. Tra le principali opere filosofiche di Schlick sono da menzionare: L’essenza della verità nella logica moderna (1910), Teoria generale della conoscenza (1918), Problemi di etica (1930), La causalità nella fisica contemporanea (1931), Forma e contenuto (1935), Significato e verificazione (1936).

Secondo Schlick occorre distinguere due generi di conoscenza: il conoscere nel senso dell’essere noto e intuito (kennen), e il conoscere nel senso del ri-conoscere (erkennen); l’intuizione procura solo un contatto diretto con le cose, fa esperire le cose, ma non le fa conoscere. Si conosce infatti solo attraverso il pensiero e la concettualizzazione, che portano a classificare, comparare e ordinare. La conoscenza più alta non è quindi quella intuitiva, ma quella del sapere scientifico, che cerca di correlare il maggior numero possibile di fatti «servendosi del minor numero possibile di concetti». La teoria scientifica È tuttavia errato, per Schlick, presentare la teoria scientifica come se fosse alla ricerca di una raffigurazione completa dei fatti; la teoria può dirsi vera quando designa i fatti in maniera univoca e non ambigua: essa è vera, cioè, se si presentano gli eventi previsti dai giudizi della teoria; mentre se si presentano altri eventi, non previsti dalla teoria, si è di fronte a una designazione ambigua ed essa deve ritenersi falsa. La teoria scientifica cerca solo la «coordinazione» fra giudizi e fatti. La distinzione tra «conoscere» e «riconoscere«

T6

La natura del giudizio

M. Schlick, Teoria generale della conoscenza

Dobbiamo toglierci completamente dalla testa che un giudizio possa essere qualcosa di più che un segno in relazione a un insieme di fatti, che la connessione fra i due possa consistere in qualcosa di più intimo che nella mera coordinazione, che un giudizio sia in qualche modo nella posizione di descrivere, esprimere o raffigurare in maniera adeguata un insieme di fatti. Non si sa nulla del genere. 725

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Un giudizio raffigura la natura di ciò che è giudicato tanto poco quanto una nota musicale raffigura un tono, o il nome di un uomo la sua personalità. […] Una prova si svolge sempre nel modo seguente: dai giudizi di cui disponiamo, deriviamo nuovi giudizi che designano eventi futuri (e sono perciò predizioni); e se, invece dei fatti anticipati, siamo posti di fronte a fatti che devono essere designati da giudizi diversi da quelli che abbiamo derivato, allora vi sono contraddizione e ambiguità e chiamiamo falsi i giudizi da cui siamo partiti. Se dovessimo permettere alla nostra predizione, la quale è un segno per un insieme atteso di fatti previsti nell’immaginazione, di essere un segno anche per l’insieme di fatti effettivamente presentatisi, allora il medesimo giudizio significherebbe due eventi differenti, e se dovessimo sentirlo pronunciare in seguito non sapremmo quale sarebbe l’evento inteso. La polemica antimetafisica torna negli scritti successivi alla formazione del Circolo di Vienna e alla discussione dell’opera di Russell e Wittgenstein. Nel saggio La svolta della filosofia, con cui si apre la rivista «Erkenntnis» nel 1930, Schlick accusa la metafisica di voler esprimere attraverso il linguaggio ciò che è invece indicibile, e cioè il contenuto qualitativo delle cose, la loro essenza; questo è un tentativo privo di senso, e non costituisce un problema autentico per la filosofia. Gli unici enunciati dotati di significato sono quelli analitici della logica e della matematica e quelli sintetici della scienza, il cui significato risiede nella verifica empirica. La natura formale I contenuti qualitativi e soggettivi dell’esperienza, colti attraverso l’esperienza della conoscenza vissuta personale – si sostiene anche nelle lezioni del 1932, Forma e contenuto –, sono incomunicabili e quindi inconoscibili, perché solo i rapporti formali che vigono fra i contenuti della conoscenza, e non i contenuti stessi, possono essere oggetto di conoscenza: «se guardo una superficie rossa, non posso dire a nessuno come è costituita l’esperienza vissuta del rosso». Non ci sono pertanto verità specifiche di pertinenza della filosofia, che la filosofia possa cogliere andando oltre la scienza. Tutti quei problemi della filosofia che hanno a che fare con il contenuto dell’esperienza soggettiva, lungi dall’ottenere una soluzione, vanno dunque incontro a una dissoluzione in quanto problemi non genuini.

L’impossibilità di esprimere il contenuto qualitativo

T7

La metafisica come insieme di pseudoproblemi

M. Schlick, La svolta della filosofia

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Conoscibile risulta tutto quel che si può esprimere, e questo coincide con ciò su cui sensatamente si possono formulare quesiti. Non esiste, pertanto, alcun interrogativo al quale non sia per principio possibile rispondere, alcun problema per principio insolubile. Quelli che finora sono stati ritenuti tali non appaiono quesiti genuini, bensì solo concatenazioni di termini prive di senso. Esteriormente, esse hanno l’aspetto di quesiti, poiché sembrano accordarsi con le comuni regole grammaticali; in verità, consistono di suoni vuoti, poiché trasgrediscono le profonde regole interne della sintassi logica, che la nuova analisi ha messo in luce. […] L’aspirazione dei metafisici è stata sempre rivolta all’assurdo scopo di esprimere il contenuto puramente qualitativo (l’«essenza» delle cose) mediante asserti conoscitivi, ossia di dire l’indicibile; le qualità non si lasciano «dire», bensì solo mostrare nell’esperienza; ma con questo la conoscenza non ha nulla a che vedere. Così la metafisica viene meno, non perché la soluzione del suo problema sia un’impresa che eccede le capacità della ragione umana (come, per esempio, pensò Kant), bensì perché tale problema non sussiste.

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo Forma e contenuto della conoscenza

Contenuto – Qualità (colori, odori, sapori, …) – ‘Essenza’, ‘sostanza’ degli oggetti – ‘Scopo’ della realtà – ‘Senso’ dell’esistenza […]

Conoscenza intuitiva (metafisica) Pretesa (infondata) di esprimere il ‘contenuto’ della realtà

Forma contro

– Relazioni spaziali, temporali ecc. – Regolarità nell’occorrenza dei fenomeni – Possibilità di descrizione e previsione – Elaborazione di leggi […]

Conoscenza scientifica Descrizione oggettiva delle relazioni formali tra i fenomeni

Come per gli autori del manifesto del Circolo di Vienna, anche per Schlick la filosofia non è un sistema di asserzioni empiriche, non ha un proprio contenuto conoscitivo, non è cioè scienza, è piuttosto un’attività di analisi e di chiarificazione del significato degli enunciati della scienza. È questa la vera ‘svolta’ nel modo di concepire la filosofia rispetto alla tradizione: la filosofia chiarisce il senso degli enunciati, la scienza li verifica; l’una ha per scopo il significato, l’altra la verità. Questo non significa, tuttavia, che la filosofia sia di minore importanza rispetto alle scienze: è anzi prioritaria rispetto ad esse, dato che la determinazione del senso deve precedere il lavoro di verifica. Le stesse scienze nascono come parte della filosofia, e si sono emancipate da essa solo dopo che il significato dei loro principali concetti è stato chiarito: se, sostiene Schlick, la psicologia, l’etica e l’estetica sono ancora considerate capitoli della filosofia, «significa che esse non dispongono di concetti fondamentali sufficientemente chiari e che i loro sforzi sono ancora prevalentemente diretti a determinare il senso delle loro proposizioni». L’analisi concettuale Presentare l’analisi come una svolta nella filosofia, non implica comunque che nel passato tutta la filosofia del passato debba essere rifiutata come metafisica; in essa possono infatti essere rintracciati numerosi contributi all’analisi concettuale, tanto che il vero padre della filosofia dell’empirismo logico deve essere considerato Socrate: il primo che ha insegnato a interrogarsi sul significato delle proposizioni. La filosofia come analisi del significato

T8

La filosofia «regina delle scienze»

M. Schlick, La svolta della filosofia

Che cos’è allora la filosofia? Certo, non è una scienza; ma è parimenti qualcosa di così significativo e grande, da meritare d’ora in poi, esattamente come un tempo, il titolo di regina delle scienze. Infatti, non è per nulla detto che la regina delle scienze debba essere essa stessa una scienza. Ora noi riconosciamo in essa – e in questo consiste la caratterizzazione positiva della svolta considerata – anziché un sistema di conoscenze un sistema di atti. La filosofia è, insomma, l’attività mediante la quale si chiarisce e si determina il senso degli enunciati. Dalla filosofia le proposizioni vengono esplicate, e dalla scienza vengono verificate. Qui si considera la verità degli enunciati; là che cosa propriamente quegli enunciati significhino. Il contenuto, l’anima e lo spirito della scienza hanno ovviamente la loro base, in ultima analisi, nel senso effettivo delle sue proposizioni; la specificazione del senso è pertanto l’attività filosofica, che costituisce l’alfa e l’omega della conoscenza scientifica. 727

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea La filosofia come attività ➥ Percorso tematico, p. 703

Il criterio di significanza

La concezione naturalistica dell’etica

T9

L’etica come scienza dei fatti della coscienza M. Schlick, Problemi di etica

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Inoltre, quando Schlick, seguendo Wittgenstein, parla della filosofia come un’attività di analisi, non ricorre a un’immagine metaforica: la filosofia è intesa come un’attività in un senso vero e proprio. Poiché sulla base del principio di verificazione il significato degli enunciati consiste nella loro verifica empirica, la determinazione ultima del significato risiede in un atto di ostensione, nell’«esibizione concreta di ciò che si intende, e quindi in atti pratici». Dunque la filosofia si configura per Schlick essenzialmente come un’attività volta a chiarire il significato dei termini e degli enunciati che usiamo tanto nella scienza quanto nel discorso quotidiano. E il criterio di significanza consiste nel principio di verificazione. Ciò comporta una critica serrata della metafisica, non in quanto falsa, bensì – più radicalmente – in quanto fondata su termini privi di significato. La riflessione di Schlick non ha per oggetto solo la scienza e la teoria della conoscenza, ma si estende anche all’etica a cui egli dedica un libro del 1930, Problemi di etica. Contrariamente alla riflessione morale di altri esponenti dell’empirismo logico, quali Ayer, Carnap, o Reichenbach, Schlick non separa l’etica dalla scienza, il mondo dei fatti dal mondo dei valori. Afferma invece che le discipline che trattano dei valori, cioè l’etica e l’estetica, possano diventare «parte del grandioso sistema delle scienze»: è dunque possibile «una scienza del comportamento morale», in quanto si ritiene che le norme e i valori ultimi possano essere derivabili dalla natura e dalla vita, così che ciò che è buono si identifica con ciò che procura piacere ed è richiesto dalla società. Dall’osservazione della natura come dato di fatto, possono, cioè, essere tratte indicazioni su come agire e su ciò che deve essere considerato di valore. Schlick sostiene dunque una concezione etica di carattere naturalistico, contraria alla cosiddetta «legge di Hume», che prescrive l’inderivabilità di una conclusione valutativa da premesse di carattere descrittivo. L’etica non può quindi andare contro la natura; qualora lo faccia essa perde il suo carattere di scienza, e il filosofo morale abbandona il ruolo di scienziato per divenire un «moralista», colui che intende proporre e creare nuovi valori, anziché conoscerli. Ciò che costituisce le norme ultime o i valori supremi deve essere desunto dalla natura umana e dalla vita come dato di fatto. Perciò il risultato dell’etica non può mai essere in contraddizione con la vita, l’etica non può dichiarare cattivi o falsi quei valori che ne stanno alla base; le sue norme non possono esigere o comandare niente che sia in reale opposizione con le norme riconosciute dalla vita. Dove avviene tale opposizione, è segno sicuro che il filosofo etico ha frainteso il suo compito e non è riuscito ad assolverlo, che è diventato involontariamente un moralista e si sente a disagio nel ruolo di conoscitore, preferendo invece essere un creatore di valori etici. […] Le valutazioni ultime sono dunque fatti che esistono nella coscienza umana, e se anche l’etica fosse una scienza normativa, essa non cesserebbe perciò di essere una scienza di fatti. L’etica ha a che fare interamente con il positivo; questa mi sembra la più importante delle proposizioni che ne determinano il compito. Ci appare estranea la foga di quei filosofi che sostengono che le questioni dell’etica sono le più nobili e sublimi perché non si riferiscono alla realtà comune ma interessano il puro «dover essere».

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

3 La costruzione logica del mondo: riduzionismo e fenomenismo

Carnap e la costruzione logica del mondo L’opera principale di Carnap è La costruzione logica del mondo, nella quale egli cerca di conciliare l’eredità dell’empirismo di Mach con le tesi logico-matematiche di Russell e Wittgenstein. Riprendendo il modello russelliano di derivazione della conoscenza dall’esperienza immediata, Carnap cerca di delineare il processo che porta alla costituzione degli oggetti della scienza a partire dall’esperienza soggettiva, immediatamente vissuta. Viene presentato così un «sistema di costituzione» in grado di mostrare il modo in cui gli oggetti delle varie scienze possono essere riconducibili alle esperienze immediate. Le esperienze immediate costituiscono la base fenomenica da cui gli oggetti possono essere costruiti o a cui possono essere ridotti, a seconda della direzione intrapresa dall’analisi. Per questa riduzione a una base fenomenica soggettiva, le tesi proposte in questo testo vengono caratterizzate come riduzionismo e come fenomenismo.

La vita e le opere Rudolf Carnap nacque a Ronsdorf, piccolo centro della Germania nord-occidentale presso Wuppertal, nel 1891. Fu allievo di Gottlob Frege a Jena, dove conseguì il dottorato di ricerca con un lavoro sul problema scientifico e filosofico dello spazio. Dal 1926 partecipò attivamente alle discussioni e alle ricerche del Circolo di Vienna, del quale diventò uno dei principali esponenti nonché autori del ‘manifesto’ programmatico. Nel 1935 fondò assieme a Reichenbach – esponente di spicco del Circolo di Berlino – la rivista «Erkenntnis», destinata ad avere un largo successo internazionale e a

diffondere i più importanti contributi della filosofia neo-empiristica. All’avvento del nazismo Carnap, come molti suoi colleghi, si trasferì negli Stati Uniti, prima a Chicago e successivamente a Los Angeles. In quella sede partecipò, assieme a Otto Neurath, all’edizione dell’Enciclopedia internazionale della scienza unificata. Morì a Santa Monica, in California, nel 1970. Tra le sue opere principali sono da annoverare: La costruzione logica del mondo (1928), La sintassi logica del linguaggio (1934), Controllabilità e significato (1936), Introduzione alla semantica (1942), Fondamenti logici della probabilità (1950).

Due sono gli aspetti fondamentali del sistema di costituzione proposto da Carnap: il primo è che per approdare ad esso il filosofo tedesco si serve dei metodi di deduzione logica degli enunciati elaborati da Russell e Whitehead. Il secondo è che, diversamente da Russell, l’esperienza immediata a cui si fa riferimento non è costituita da singole sensazioni, cioè da dati sensoriali semplici e irrelati, ma da esperienze psichiche globali, dette «esperienze vissute elementari», proprio perché (in linea con le tesi della «psicologia della Gestalt») la percezione della mente è concepita sempre come una percezione non parziale, ma globale. La costituzione Da questa base, attraverso un metodo che Carnap definisce «metodo della quadegli oggetti si-analisi», vengono costituiti prima i vari aspetti della percezione sensibile: le posizioni nel campo visivo, i colori, le relazioni di somiglianza ecc.; poi gli oggetti nello spazio tridimensionale, fra cui il corpo del soggetto e i corpi delle altre persone; infine le altre menti e i loro stati. Si parte quindi da esperienze globali primitive e su di esse vengono costituiti mano a mano gli oggetti delle varie scienze. Così Carnap descrive il metodo della «quasi analisi»: Analisi logica e «psicologia della Gestalt»

T10

Esperienza e costituzione degli oggetti

R. Carnap, Autobiografia intellettuale

Sulla base di una certa relazione primitiva fra le esperienze, il metodo della quasi-analisi conduce volta a volta ai vari domini sensibili – prima al dominio visivo, quindi alle posizioni nel campo visivo, ai colori e al loro sistema di somiglianza, all’ordine temporale e così via. Successivamente vengono costituite le cose percepite nello spazio tridimensionale e tra esse quella cosa particolare che viene di solito chiamata il mio corpo proprio, e poi i corpi delle altre persone. 729

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Ancora più avanti vengono costituite le cosiddette altre menti, vale a dire gli stati mentali ascritti ad altri corpi in funzione del loro comportamento, in analogia all’esperienza dei nostri propri stati mentali.

Esperienza e costruzione logica degli oggetti

Fenomenismo e unificazione delle scienze

La critica della metafisica

Dal fenomenismo al «fisicalismo»: le proposizioni protocollari

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Metodo costruttivo della «quasi-analisi»

Esperienze vissute elementari (percezioni globali)

Disposizione dei colori e delle forme nel campo visivo, secondo relazioni di somiglianza

Organizzazione delle percezioni secondo relazioni spaziali e temporali

Costruzione delle menti altrui sulla base del comportamento esibito dagli altri corpi

Costruzione degli altri corpi in analogia col proprio corpo

Costruzione delle cose e del proprio corpo nello spazio tridimensionale

Col riportare gli oggetti delle varie scienze alla medesima base fenomenica, il sistema di costituzione riesce a conseguire l’unificazione delle scienze e a «superare lo spezzarsi della scienza globale nelle singole, irrelate, giustapposte scienze particolari». Tuttavia, sebbene derivabili da una comune base fenomenica, gli oggetti appartenenti alle varie discipline non perdono la loro autonomia specifica: gli oggetti della biologia, per esempio, non possono essere ridotti a quelli della fisica, sebbene la fisica preceda la biologia nel sistema di costituzione. Inoltre, come viene sostenuto anche nel manifesto del Circolo di Vienna, Carnap considera inaccessibili alla scienza i contenuti qualitativi e fenomenici, che pure sono la base dell’esperienza del soggetto e a cui gli stessi concetti scientifici vanno riportati. La scienza tratta, infatti, soltanto delle relazioni formali e strutturali fra tali contenuti: solo perché astrae dal vissuto soggettivo essa riesce a raggiungere l’oggettività, cioè la validità intersoggettiva delle proprie affermazioni. Da queste premesse Carnap giunge alla critica della metafisica: ogni concetto e ogni asserzione non formulabile nel sistema di costituzione vanno rifiutati in quanto «pseudoconcetti» e «pseudoasserzioni» privi di significato; è questa per esempio la sorte dei problemi concernenti l’«essenza» degli oggetti; ed è una critica su cui Carnap torna nell’influente saggio del 1930, La critica della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio. Tuttavia, oltre la scienza Carnap riconosce, come Wittgenstein nel Tractatus, la persistenza di bisogni emotivi e vitali, su cui la scienza non ha niente da dire. Negli anni successivi Carnap modifica e approfondisce le tesi sostenute nella Costruzione. In primo luogo, rifiuta il fenomenismo per abbracciare il cosiddetto «fisicalismo», tesi secondo la quale la fisica costituisce il punto di riferimento per tutte le altre scienze, che ad essa possono essere ridotte: «il linguaggio fisico è un linguaggio universale, ossia un linguaggio in cui ogni enunciato può venir tradotto». La base empirica della scienza non è più costituita dall’esperienza fenomenica soggettiva ma da asserzioni elementari che registrano i dati percepiti dallo scienziato, dette «proposizioni protocollari», concepite come direttamente

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

La possibilità di costruire logiche alternative

La concezione convenzionalistica della logica

Revisione del principio di verificazione

Il principio di controllabilità

T11

Controllo e conferma degli enunciati

R. Carnap, Controllabilità e significato

dipendenti dall’esperienza e quindi irrevocabili; come tali esse rappresentano la base per la verifica delle altre asserzioni. In secondo luogo, nel testo del 1934, La sintassi logica del linguaggio, Carnap giunge al riconoscimento della possibile costruzione di sistemi logico-linguistici alternativi. Cambiando le regole di formazione e di trasformazione dei simboli del linguaggio (cioè la sua «sintassi»), è possibile costruire più di una logica, ognuna in se stessa coerente. La logica, sostiene Carnap, è una costruzione convenzionale e non c’è una sola logica possibile: «ognuno – scrive – è libero di costruire la propria logica, cioè la propria forma di linguaggio, nel modo che vuole. Tutto quello che si esige da lui, se egli intende dar ragione del proprio metodo, è che lo stabilisca chiaramente e suggerisca regole sintattiche invece di argomenti filosofici». In questo modo viene superata l’idea, presente nell’atomismo logico di Russell e Wittgenstein, dell’esistenza di un’unica struttura linguistica logicamente perfetta, in grado di rappresentare la struttura della realtà, struttura che per Wittgenstein può solo essere mostrata ma non descritta. Sono invece possibili più strutture logiche che non hanno alcun legame diretto con la realtà, essendo solo costruzioni convenzionali, ed esse possono essere descritte ricorrendo alla distinzione fra il «linguaggio-oggetto» con cui opera la logica e il «metalinguaggio» che si usa per parlare di esso. Dopo il trasferimento negli Stati Uniti, Carnap giunge a rivedere e attenuare molte delle tesi originarie. Il principio di verificazione, per esempio, che Carnap aveva enunciato nel manifesto del Circolo di Vienna, è interpretato non più come criterio di significanza tout court, ma soltanto come criterio di significanza ‘conoscitiva’: anche asserzioni non verificabili, dice ora Carnap, possono essere dotate di «altre componenti di significato, per esempio emotive o motivazionali, le quali anche se non cognitive, possono avere forti effetti psicologici». Nel saggio del 1936 Controllabilità e significato, Carnap sostituisce il principio di verificazione con un meno impegnativo «principio di controllabilità» o di «confermabilità». Se per «verificazione» si intende un riconoscimento completo e definitivo della verità, nessuna proposizione potrebbe mai essere verificata: le proposizioni universali fanno infatti riferimento a un numero infinito di casi, mentre le nostre osservazioni sono sempre un numero finito; e anche per le proposizioni particolari l’accertamento non è mai completo, dato che non si può escludere la possibilità dell’errore. Se non possono essere verificate, le proposizioni possono però essere controllate e confermate da ogni singola osservazione. Il principio di controllabilità, comunque, rimane un criterio sufficiente per espellere dal discorso scientifico la metafisica e per operare una separazione netta fra asserti conoscitivamente significanti e asserti conoscitivamente non significanti. Se per verificazione s’intende una dimostrazione assoluta di verità, allora nessun enunciato (sintetico) è mai verificabile. Possiamo, al più, confermare un enunciato. Anziché del problema della verificazione, parleremo quindi del problema della conferma. Noi distinguiamo il controllo di un enunciato dalla sua conferma, intendendo con ciò un procedimento – ad esempio la realizzazione di determinati esperimenti – che conduce in una certa misura alla conferma o dell’enunciato stesso o della sua negazione. Diremo che un enunciato è controllabile, se, di fatto, conosciamo un metodo per procedere alla sua eventuale conferma; e di731

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remo che è confermabile, se sappiamo sotto quali condizioni l’enunciato sarebbe confermato […]. Inoltre compiremo un tentativo per formulare il principio dell’empirismo in maniera più esatta, stabilendo un requisito di confermabilità o di controllabilità come criterio di significanza. Carnap, dunque, oltre a essere uno dei fondatori del Circolo di Vienna e uno dei maggiori esponenti dell’empirismo logico, indica la strada di una maggiore apertura di alcuni principi fondamentali dell’empirismo logico, quali il principio di verificazione e l’idea che vi sia un’unica logica adeguata agli scopi della scienza nella descrizione della struttura della realtà.

4

Reichenbach e Neurath Hans Reichenbach è, come si è detto, il principale esponente della versione berlinese dell’empirismo logico, da lui interpretata, rispetto a quella viennese, come più attenta all’analisi dei problemi specifici della scienza e meno incline alla teorizzazione generale.

Reichenbach e la componente convenzionale nella scienza Il ruolo della soggettività nelle teorie scientifiche

Un aspetto caratteristico della filosofia di Reichenbach, negli anni della formazione del Circolo di Berlino, è l’accento posto sul ruolo della soggettività nella scienza. Secondo il filosofo tedesco, infatti, non tutte le componenti della teoria sono classificabili come asserzioni tautologiche di tipo logico-matematico o come enunciati sintetici empiricamente determinabili. Come aveva già sostenuto Poincaré, nella teoria occorre riconoscere la presenza anche di elementi di natura convenzionale, e quindi soggettiva e arbitraria. Ci sono cioè alcune componenti della teoria che non sono né empiricamente verificabili, né mere tautologie, ma stipulazioni convenzionali, definizioni linguistiche prive di contenuto empirico. Afferma Reichenbach in proposito: «la descrizione della natura non viene spogliata della sua arbitrarietà da un assolutismo ingenuo, ma dal riconoscimento e dalla formulazione dei punti di arbitrarietà. L’unica via per giungere ad una conoscenza oggettiva passa attraverso il farsi consapevoli del ruolo che la soggettività ha nei nostri metodi di ricerca» (La filosofia dello spazio e del tempo).

La vita e le opere Hans Reichenbach nacque ad Amburgo nel 1891 e studiò fisica teorica con Max Planck e Albert Einstein, matematica con David Hilbert, filosofia con Ernst Cassirer. Dopo un periodo di insegnamento alla facoltà di ingegneria dell’università di Stoccarda, fu docente di filosofia della fisica all’università di Berlino dal 1926 al 1933, dove fu uno degli esponenti di spicco del Circolo di Berlino. Assieme a Rudolf Carnap fu uno tra i fondatori della ri-

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vista «Erkenntnis», l’organo principale del neo-empirismo. Con l’avvento del nazismo si trasferì nell’università della California, dove insegnò dal 1938 fino alla morte, avvenuta a Los Angeles nel 1953. Tra le sue opere principali sono da menzionare: La filosofia dello spazio e del tempo (1928), Teoria della probabilità (1935), Esperienza e predizione (1938), Fondamenti filosofici della meccanica quantistica (1944), La nascita della filosofia scientifica (1951).

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo La giustificazione pragmatica dell’induzione

T12

L’utilità dell’induzione

H. Reichenbach, L’empirismo logico in Germania e lo stato attuale dei suoi problemi

La concezione probabilistica delle leggi scientifiche

Reichenbach affronta il problema dell’induzione, e, come Schlick, ne propone una giustificazione di carattere pragmatico. Se è vero che non vi è la possibilità di una conferma empirica diretta della validità delle inferenze induttive, è anche vero che non vi è nemmeno la conferma empirica della loro non validità: «la rinuncia all’assunzione dell’induzione sarebbe necessaria solo se sapessimo che l’assunzione è falsa. Ma le cose non stanno così: noi non sappiamo se è vera o falsa». E questo basta per avere fiducia nell’induzione e nella previsione del futuro: non è certo che l’induzione conduca al successo ma essa ci dà almeno una possibilità di successo. La sua efficacia pratica è sufficiente a fornirne la giustificazione. L’induzione è il nostro strumento per prevedere il futuro; l’applichiamo in tentativi sempre ripetuti puntando su di essa come nostra migliore scommessa. E siccome il successo non dipende da noi, ciò è tutto quanto possiamo fare. Non possiamo realizzare le condizioni sufficienti della predizione; ma possiamo realizzare le sue condizioni necessarie. È stato un errore della filosofia tradizionale richiedere, per una giustificazione dell’induzione, la dimostrazione che l’induzione deve condurre al successo, mentre una giustificazione soddisfacente è ottenibile una volta dimostrato che l’induzione ci fornisce almeno una chance di successo. Tuttavia, poiché le stesse leggi scientifiche possono essere interpretate come predizioni sul verificarsi di eventi futuri, esse, dato il carattere di incertezza delle previsioni future, devono essere intese in senso probabilistico: esse affermano solo che il verificarsi di eventi futuri è altamente probabile.

Neurath e il progetto di unificazione delle scienze Economista e filosofo, Neurath è il principale organizzatore dell’Enciclopedia internazionale della scienza unificata, il cui progetto viene presentato al convegno di Parigi del 1935, al quale partecipano, oltre ai rappresentanti dei Circoli di Vienna e Berlino, filosofi autorevoli, fra i quali Russell, l’americano Charles Morris e il logico polacco Alfred Tarski. Obiettivo dell’Enciclopedia (articolata non in voci ma in una serie di monografie con un indice analitico, della quale sono usciti i primi due volumi in diciotto fascicoli monografici) e della stessa filosofia di Neurath è il raggiungimento dell’unificazione e dell’integrazione fra le varie scienze. Nelle intenzioni del filosofo austriaco, l’unificazione delle scienze non deve essere intesa come «una giustapposizione artificiale e speculativa di una filosofia autonoma e di un autonomo gruppo di scienze», ma come «una scienza unificata, dipartimentalizzata in scienze speciali».

La vita e le opere Otto Neurath nacque a Vienna nel 1882, dove studiò filosofia, sociologia ed economia. Inizialmente marxista, si avvicinò poi al comportamentismo. Negli anni venti fu tra i fondatori del Circolo di Vienna e uno degli autori del relativo manifesto programmatico. All’interno delle ricerche del Circolo egli si occupò principalmente delle scienze sociali e della loro collocazione all’interno del più am-

pio sistema delle scienze empiriche. A questo proposito diresse, assieme a Rudolf Carnap, l’Enciclopedia internazionale della scienza unificata, che venne pubblicata a Chicago a partire dal 1938. Morì a Oxford nel 1945. Tra le sue opere principali vanno annoverate: Sociologia empirica: il contenuto scientifico della storia e dell’economia politica (1931), L’uomo in formazione (1939), Fondamenti della scienza sociale (1944).

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Un progetto in costante divenire

L’unificazione della terminologia e il predominio della fisica

T13

Scienza e filosofia

O. Neurath, Fisicalismo

Tuttavia, questa ricerca di unificazione della scienza non è un’attività che possa portare a un sistema generale chiuso e immodificabile; le ricerche dei vari rami della scienza, infatti, non cessano di progredire. L’unificazione va allora intesa come un compito in costante progressione: «è fuorviante e anche causa di confusioni – scrive Neurath – parlare in anticipo de IL SISTEMA della scienza, come se la forma e il contenuto di tale sistema fossero determinati una volta per tutte. L’unificazione e la sistematizzazione della scienza sono attività permanenti». Passo preliminare per raggiungere questo obiettivo è l’unificazione della terminologia e del linguaggio delle varie scienze, di modo che non vengano moltiplicati i termini utilizzati, ma anzi compaiano sempre nelle stesse accezioni. L’unificazione della scienza è possibile perché vi è una scienza fondamentale che costituisce il modello di riferimento di tutte le altre scienze: la fisica, in quanto è la scienza più certa e rigorosa. Come Neurath afferma nel saggio del 1931, intitolato Fisicalismo, «la scienza unificata è fisica nella sua forma più ampia, un tessuto di leggi esprimenti connessioni spazio-temporali». Occorre allora, secondo Neurath, una ricostruzione fisicalistica delle stesse scienze umane, che le ‘depuri’ dalla terminologia metafisica (per esempio da espressioni come «lo spirito di un’epoca», «i poteri dello spirito») e consenta di superare la contrapposizione fra scienze della natura e scienze dello spirito. Ma, diversamente da Schlick, Neurath ritiene che questo lavoro di chiarificazione linguistica e concettuale non sia compito della filosofia, ma della stessa scienza, proprio perché, nella sua concezione, la filosofia diventa essa stessa parte della scienza unificata. Tutti i membri del Circolo di Vienna sono d’accordo sul fatto che non c’è alcuna «filosofia» con asserzioni sue proprie. Alcuni, tuttavia, desiderano ancora separare le discussioni sui fondamenti concettuali delle scienze dal campo scientifico e consentirne la continuazione come «filosofare». Considerazioni più stringenti mostrano che neppure questa separazione è praticabile, e che la definizione dei concetti è parte integrante del lavoro della scienza unificata.

Ma non è questo l’unico punto di differenza con Schlick e gli altri filosofi del Circolo di Vienna. Il pensiero di Neurath si differenzia dalle concezioni prevalenti nell’empirismo logico anche per il modo di concepire le asserzioni basilari di cui è composta la scienza (le cosiddette «proposizioni protocollari») e alla stessa concezione della verità. Per Carnap, così come per Schlick, le proposizioni protocollari sono direttamente dipendenti dall’esperienza immediata, di modo che esse non possono essere revocate dalle altre asserzioni e costituiscono anzi la loro base di verifica. Nel saggio del 1933, Proposizioni protocollari, Neurath sostiene invece che nella scienza non ci sono proposizioni immutabili e definitivamente garantite. Anche le proposizioni protocollari possono mutare così come mutano le proposizioni non protocollari (gli enunciati teorici e le leggi): non vi è «alcun modo di stabilire – scrive – delle proposizioni protocollari pure e definitivamente garantite come punti di partenza della scienza. Non vi è alcuna tabula rasa». La concezione Scopo della scienza non è il ‘rispecchiamento’ del mondo, ma la costruzione di della verità un sistema coerente di proposizioni, e per raggiungere questo scopo possono escome ‘coerenza’ sere sostituite o eliminate tanto le proposizioni protocollari quanto le proposizioni non protocollari: «noi – dice Neurath con una metafora divenuta famosa – siamo come marinai che devono riparare la loro nave in mare aperto senza poterla smantellare in un bacino per ricostruirla con materiali migliori». In luogo della

La critica delle proposizioni protocollari

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

tradizionale concezione che interpreta la verità come corrispondenza fra asserzioni e fatti, la verità va intesa allora come coerenza fra le asserzioni che compongono la teoria; un’asserzione è vera solo se si accorda con la totalità delle altre asserzioni presenti nel sistema, non generando contraddizioni; mentre se non riesce ad accordarsi, è falsa. Credere che le asserzioni si accordino direttamente con l’esperienza e il mondo esterno è incorrere in un errore metafisico.

T14

Proposizioni e coerenza del sistema

O. Neurath, Proposizioni protocollari

Verità come corrispondenza e verità come coerenza

Ogni legge e ogni proposizione fisicalista della scienza unificata o di una delle sue scienze reali può subire delle modificazioni; e così anche ogni proposizione protocollare. Nella scienza unificata ci si adopera per costruire un «sistema privo di contraddizioni» formato da proposizioni protocollari e proposizioni non protocollari (comprese le leggi scientifiche). Quando ci si presenta una nuova proposizione, la confrontiamo con il sistema di cui disponiamo e controlliamo se la nuova proposizione è o non è in contraddizione con quel sistema. Nel caso in cui la nuova proposizione si riveli contraddittoria rispetto al sistema – ad esempio la proposizione: «In Africa i leoni cantano solo in do maggiore» – si presentano due alternative: eliminare quella proposizione in quanto non se ne può fare uso, (falsa), ovvero «accettare» la proposizione e quindi modificare il sistema in modo tale che, accresciuto di essa, il sistema rimanga coerente. La nuova proposizione si potrà definire, allora, «vera». La sorte di essere eliminata può toccare anche ad una proposizione protocollare. Per nessuna proposizione esiste un noli me tangere.

Concezione corrispondentista della verità (Moore, Russell, primo Wittgenstein, Schlick)

1) Relazione di corrispondenza (o ‘raffigurazione’) tra le proposizioni e i fatti 2) Idea di una verità ‘oggettiva’ e di una realtà indipendente dalle nostre teorie 3) Possibilità del linguaggio di ‘trascendere’ se stesso fino a ‘toccare’ la realtà 4) Distinzione netta tra contenuto ‘empirico’ e contenuto ‘logico’ dei giudizi

contro

Concezione coerentista della verità (Neurath, Quine, Putnam)

Verso una ‘liberalizzazione’ dell’empirismo logico

➥ Sommario, p. 748

1) Relazioni reciproche tra proposizioni appartenenti allo stesso linguaggio o alla stessa teoria 2) Idea di una verità sempre ‘rivedibile’ e di una realtà dipendente dalle nostre teorie 3) Impossibilità del linguaggio di ‘trascendere’ se stesso 4) Distinzione di grado tra contenuto ‘empirico’ e contenuto ‘logico’ dei giudizi

Neurath sostiene così una teoria della verità come coerenza, senza per questo abbandonare l’empirismo. Replicando a Schlick, che gli aveva fatto notare che se si toglie il confronto con l’esperienza si rischia di perdere il criterio con cui scegliere fra sistemi egualmente coerenti, Neurath riconosce che ci possano essere molti sistemi di asserzioni non contraddittori, ma essi devono poi essere selezionati sulla base delle asserzioni protocollari ammesse: «il perseguimento della conoscenza della realtà si riduce allo sforzo di stabilire l’accordo fra le asserzioni della scienza e quante più asserzioni protocollari possibili. Ma questo è sufficiente; su ciò riposa l’empirismo». Sono aspetti che avranno una grande ripresa nella fase di liberalizzazione e di superamento della filosofia dell’empirismo logico, come si vedrà. 735

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Gli sviluppi dell’empirismo

3 I testi

K. Popper La logica della scoperta scientifica: L’elemento creativo dell’attività scientifica, T15; Gli incerti fondamenti della scienza, T17 Problemi, scopi e responsabilità della scienza: Scientificità e confutabilità, T16 Tre punti di vista sulla conoscenza umana: Teorie scientifiche, confutabilità, realtà oggettiva, T18 W.V.O. Quine Due dogmi dell’empirismo: I «due dogmi» dell’empirismo

Una nuova stagione dell’empirismo contemporaneo

1 Il ruolo delle «congetture» nella scienza

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moderno, T19; Critica della nozione di «analiticità», T20; Il «campo di forza» della scienza e le sue dinamiche, T21 Parola e oggetto: La sottodeterminazione empirica del riferimento, T22 Epistemologia naturalizzata: L’epistemologia come parte della psicologia sperimentale, T23 H. Putnam Due prospettive filosofiche: Prospettiva «esternista» e prospettiva «internista», T24

Come si è visto precedentemente, dopo l’emigrazione negli Stati Uniti dei principali esponenti dei Circoli di Vienna e di Berlino si assiste a una progressiva attenuazione delle tesi più radicali sostenute nelle prime formulazioni dell’empirismo logico, e in generale al loro superamento. È un processo generale che è stato definito di «liberalizzazione dell’empirismo» e che vede fra i suoi protagonisti alcuni filosofi legati all’esperienza neopositivistica ma anche consapevoli della necessità di un allontanamento da essa. Se, tuttavia, questa nuova fase può essere considerata un processo di apertura e insieme di dissoluzione dell’empirismo logico, non è certo un processo di dissoluzione dell’empirismo tout court, che resta invece un punto di riferimento. Tre filosofi possono essere scelti come esponenti di questa nuova fase: Karl Popper, Willard Van Orman Quine, Hilary Putnam.

Popper e il falsificazionismo L’opera principale di Popper è La logica della scoperta scientifica, pubblicata in edizione tedesca nel 1935 e poi in edizione inglese riveduta nel 1959. Essa mette in discussione alcuni assunti fondamentali del modo tradizionale di concepire la scienza (su questo vedi anche Unità 18, p. 801 ss.). Il primo assunto che viene criticato è quello che individua nell’inferenza induttiva il metodo con cui può essere costruita una teoria scientifica. Secondo Popper, le teorie scientifiche non sono costruite per induzione dai dati osservativi, ma sono frutto di un’attività inventiva e creativa, sono cioè «congetture», escogitate anche indipendentemente dall’esperienza. L’esperienza ha un altro ruolo, che è quello di controllare le ipotesi così escogitate. Popper separa così il «contesto della scoperta» di una teoria, che è quello in cui essa viene congetturata, e il «contesto della giustificazione», che è quello in cui essa viene controllata empiricamente.

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

La vita e le opere Karl Raimund Popper nacque nei pressi di Vienna nel 1902. Pur essendosi formato nell’ambiente dell’empirismo logico e a stretto contatto con esso, non ne fece mai parte, prendendo anzi le distanze da tale movimento filosofico. La sua opera principale, La logica della scoperta scientifica (1935) è una chiara testimonianza di ciò.

Ipotesi, deduzione, controllo

T15

L’elemento creativo dell’attività scientifica

K. Popper, La logica della scoperta scientifica

Nel 1937, in seguito al dilagare del nazismo, emigrò in Nuova Zelanda e successivamente in Inghilterra, dove visse e lavorò presso l’università di Londra fino alla sua morte, avvenuta nel 1994. Altre sue opere importanti sono: Che cos’è la dialettica (1937), La società aperta e i suoi nemici (1945), La miseria dello storicismo (1957), Congetture e confutazioni (1962).

Il metodo della scienza non è per Popper un metodo induttivo, ma ipotetico-deduttivo: si formulano ipotesi e si controllano le conseguenze da esse dedotte. La logica della conoscenza non ha come oggetto la ricostruzione del processo mentale che ha portato alla scoperta dell’ipotesi teorica, ma la ricostruzione dei controlli in base ai quali si stabilisce se essa possa essere considerata una scoperta scientifica genuina. Il mio modo di vedere la cosa (per quello che vale) è che non esista nessun metodo logico per avere nuove idee, e nessuna ricostruzione logica di questo processo. Il mio punto di vista si può esprimere dicendo che ogni scoperta contiene un «elemento irrazionale» o «un’intuizione creativa» […]. Secondo il mio punto di vista, il metodo consistente nel sottoporre le teorie a controlli critici e nello scegliere secondo i risultati dei controlli, procede sempre lungo le linee seguenti. Da una nuova idea, avanzata per tentativi e non ancora giustificata in alcun modo – una anticipazione, un’ipotesi, un sistema di teorie, o qualunque cosa si preferisca – si traggono conclusioni per mezzo della deduzione logica. […] Infine c’è il controllo della teoria condotto mediante le applicazioni empiriche delle conclusioni che possono essere derivate da essa.

Opponendosi alla tesi principale dell’empirismo logico, cioè al principio di verificazione, Popper sostiene che il controllo empirico di una teoria non consiste in una procedura di «verifica». Il criterio della verificabilità è infatti un criterio impraticabile: esso da una parte è troppo ristretto, in quanto porta a escludere dalla scienza tutte le asserzioni universali, che non possono essere conclusivamente verificate; non è possibile per esempio verificare in modo definitivo l’asserzione «tutti i corvi sono neri», dato che essa fa riferimento a un numero infinito di casi, mentre le nostre osservazioni sono sempre finite (in linea di principio, non si può infatti escludere l’osservazione futura di un corvo bianco). È questo del resto il problema tradizionale dell’induzione: dall’osservazione di un numero finito di casi non è possibile inferire con certezza un’asserzione universale. Dall’altra parte, quel criterio è troppo ampio, perché ammette come genuine teorie scientifiche le costruzioni intellettuali che, ad avviso di Popper, dovrebbero invece essere considerate pseudo-scientifiche, come la psicoanalisi di Freud e il marxismo, dato che, almeno ad avviso dei loro sostenitori, esse risultano confermate da sempre nuovi fatti. (Alla critica della filosofia della storia e della società che secondo Popper sarebbe sostenuta dal marxismo sono dedicati anche La miseria dello storicismo e La società aperta e i suoi nemici, testi che hanno avuto grande influenza nel clima di scontro ideologico del dopoguerra.) Il criterio Al criterio della verificazione va invece sostituito il criterio della falsificazione: il della «falsificazione» controllo empirico delle teoria consiste in una procedura di «falsificazione» o di e i suoi vantaggi «confutazione», proprio perché se un’asserzione universale non può essere verifica-

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ta da un’osservazione singolare, può invece essere confutata da una tale osservazione. Se l’osservazione di un corvo nero non è sufficiente a verificare l’ipotesi che tutti i corvi siano neri, l’osservazione di un corvo bianco è sufficiente a confutarla. Verificazione Il criterio della falsificazione evita i due problemi del criterio di verificazione: cone falsificazione sente di ammettere come scientifiche le asserzioni universali, proprio perché in linea di principio falsificabili, e porta a escludere come pseudo-scientifici il marxismo e la psicoanalisi, in quanto empiricamente non falsificabili a detta dei loro stessi sostenitori. Ogni teoria scientifica, per essere tale, deve infatti specificare le condizioni della propria confutabilità empirica cercando di elaborare contro-esempi; se una teoria supera i vari controlli e i tentativi di confutarla, essa è «corroborata», ossia confermata, dall’esperienza. Quanto maggiore è il contenuto informativo della teoria e quindi quanto più ricca è una teoria, tanto più improbabili e rischiose le previsioni che con essa si possono fare, e tanto più severo sarà il controllo e maggiore la corroborazione e la scientificità della teoria. Contesto della scoperta e contesto della giustificazione

Costruzione di una teoria scientifica Contesto della scoperta

Contesto della giustificazione

– Elaborazione di una congettura (ipotesi empirica) – Ruolo giocato dall’intuizione – Elemento creativo dell’attività scientifica

– Deduzione delle conseguenze della congettura – Controllo empirico delle conseguenze – Ricerca di un controesempio che falsifichi le conseguenze

Il controesempio è stato trovato Allora la congettura risulta confutata ed è da rifiutare o da modificare

Il controesempio non è stato trovato Allora si ripetono i controlli empirici per un numero di volte sufficiente a confermare la congettura

La «demarcazione» tra metafisica e scienza

In questo modo, Popper si distacca dall’empirismo logico, conservandone tuttavia alcuni aspetti di fondo: se pure, diversamente dal principio di verificazione, il principio di falsificazione non è un criterio semantico, in grado di individuare quali enunciati siano dotati di significato, esso è tuttavia un criterio di «demarcazione» tra quali enunciati possono essere considerati scientifici e quali non lo possono essere. In quanto criterio di demarcazione, esso consente, come vogliono anche gli empiristi logici, di separare la scienza dalla speculazione metafisica, la quale risulta priva del requisito della scientificità, non essendo confutabile. La metafisica tuttavia non è considerata da Popper né priva di senso, né storicamente inutile: se in certi casi ha ostacolato la scienza, in altri ne ha «aiutato il progresso».

T16

Ogni volta che uno scienziato pretende che la sua teoria sia sostenuta dall’esperimento e dall’osservazione dovremmo porgli la seguente domanda. Puoi descrivere una qualsiasi osservazione possibile, che, effettivamente compiuta, confuterebbe la tua teoria? Se non lo puoi, allora è chiaro che la teoria non ha il carattere di una teoria empirica; infatti, se tutte le osservazioni concepibili vanno

Scientificità e confutabilità K. Popper, Problemi, scopi e responsabilità della scienza

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

d’accordo con la tua teoria, allora non hai il diritto di pretendere che una qualsiasi osservazione particolare offra un sostegno empirico alla tua teoria. Oppure, per dirla più in breve: solo se puoi dirmi in qual modo la tua teoria possa essere confutata, o falsificata, possiamo accettare la pretesa che la tua teoria abbia il carattere di una teoria empirica. Questo criterio di demarcazione fra teorie non empiriche e teorie che hanno carattere empirico, l’ho chiamato anche criterio di falsificabilità, o criterio di confutabilità. Esso non implica che le teorie inconfutabili sono false, e non implica neppure che sono prive di significato. Ma implica che, finché non possiamo dare una descrizione dell’aspetto che ha una possibile confutazione della teoria, allora quella teoria è al di fuori della scienza empirica. Il principio di falsificazione non ha avuto tuttavia una sorte migliore del principio di verificazione: esso è stato a lungo discusso, proprio perché non è parso immune da problemi. Lo stesso Popper riconosce che esso non riesce a confutare le asserzioni esistenziali, per esempio l’asserzione «esiste un corvo bianco»: per quanti corvi neri si possano osservare non se ne può escludere uno bianco. In secondo luogo, il principio di falsificazione sembra funzionare solo se vengono imposte particolari restrizioni alla teoria, come per esempio il divieto di ipotesi ad hoc, cioè di ipotesi escogitate dallo scienziato solo allo scopo di evitare la falsificazione. In generale – si può osservare – il criterio della falsificazione non sembra godere di una posizione privilegiata rispetto a quello della verificazione: se non è possibile una verificazione conclusiva non è nemmeno possibile una falsificazione conclusiva, che sia in grado di mostrare l’assoluta falsità di una teoria. Confutabilità Un altro aspetto caratteristico della riflessione di Popper è la concezione delle delle asserzioni asserzioni osservative. Non esistono, secondo Popper, asserzioni osservative teoosservative ricamente neutre, dipendenti completamente dall’esperienza e immutabili. Ogni asserzione, anche quelle osservative, può essere sottoposta a controllo e quindi confutata. Ricorrendo a una metafora, la scienza non riposa sulla roccia di asserzioni osservative indubitabili, ma è costruita su palafitte fondate su osservazioni che possono essere messe in discussione, cioè in un terreno paludoso, con dei sostegni solo temporaneamente stabili.

Limiti del criterio di falsificazione

T17

Gli incerti fondamenti della scienza

K. Popper, La logica della scoperta scientifica

Il razionalismo critico e la verosimiglianza

La base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di «assoluto». La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o «data»; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura. La scienza per Popper è costituita quindi da «audaci congetture e severi tentativi di confutazione». Questo metodo è chiamato da Popper metodo del «razionalismo critico», in quanto fondato sull’elaborazione di ipotesi razionali sottoposte a una costante critica e a controllo empirico. Se la teoria non può pretendere di raggiungere definitivamente la verità, essa costituisce tuttavia un tentativo per avvicinarsi ad essa, e quanto più una teoria si approssima alla realtà, tanto più 739

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essa, dice Popper, va considerata «verosimile». Ci sono quindi vari gradi di «verosimiglianza» di una teoria a seconda del «grado di migliore (o peggiore) corrispondenza con la realtà o di migliore (o peggiore) somiglianza o similarità con la verità». Questo comporta, contro i dubbi scettici, che deve essere riconosciuta l’esistenza di una realtà esterna indipendente dal soggetto, e che essa può essere conosciuta: la teoria asserisce qualcosa intorno alla realtà e può cozzare contro di essa, o ad essa cercare di approssimarsi.

T18

Teorie scientifiche, confutabilità, realtà oggettiva

K. Popper, Tre punti di vista sulla conoscenza umana

Le nostre falsificazioni indicano così i punti in cui abbiamo per così dire, toccato la realtà. […] Ammetto che, se non sappiamo come controllare una teoria, possiamo essere in dubbio se esista qualcosa del genere (o del livello) descritto dalla teoria; e se sappiamo positivamente che la teoria non può essere controllata, allora i nostri dubbi cresceranno: possiamo supporre che sia un puro e semplice mito, un racconto di fate. Ma se una teoria è controllabile, implica che eventi di un certo tipo non possono accadere, e così asserisce qualcosa intorno alla realtà. (È questa la ragione per cui richiediamo che, quanto più una teoria è congetturale, tanto più alto sia il suo grado di controllabilità). Le congetture controllabili, o i tentativi di indovinare, sono dunque congetture (o tentativi di indovinare qualcosa) intorno alla realtà; dal loro carattere incerto o congetturale segue soltanto che la nostra conoscenza circa la realtà che descrivono è incerta o congetturale. […] Le teorie sono nostre invenzioni, nostre idee: non si impongono su di noi, ma sono i nostri strumenti di pensiero, che abbiamo fatto da noi: questo è stato visto chiaramente dagli idealisti. Ma alcune di queste teorie possono cozzare contro la realtà: e quando cozzano, sappiamo che c’è una realtà; che esiste qualcosa, a rammentarci il fatto che le nostre idee possono essere errate. Il «razionalismo critico» di Popper supera dunque l’empirismo logico in quanto viene negata la possibilità, da parte della scienza, di raggiungere verità oggettive, ma risulta pur sempre in linea con lo spirito dell’empirismo in quanto il termine ultimo di paragone della validità o meno delle nostre (rivedibili) teorie resta l’esperienza, ossia il controllo empirico.

2 La critica ai due «dogmi» dell’empirismo logico

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Quine e i due dogmi dell’empirismo In un saggio di grande importanza del 1950, Due dogmi dell’empirismo, Quine attacca due dei presupposti fondamentali dell’empirismo logico: 1) la distinzione fra enunciati analitici ed enunciati sintetici, cioè fra enunciati che sono veri in virtù del significato (quali, per gli empiristi logici, gli enunciati della logica e della matematica) ed enunciati che sono veri in virtù del significato e dell’esperienza (come le proposizioni della scienza), e 2) il principio di verificazione, secondo il quale – come abbiamo visto – il significato di un enunciato è il metodo con cui viene verificato; principio che presuppone il cosiddetto «riduzionismo», cioè la tesi per cui le asserzioni della scienza sono significanti in quanto singolarmente riducibili a dati di esperienza. Questi due presupposti vengono ora considerati da Quine due «dogmi» che hanno condizionato l’empirismo e dai quali esso deve essere liberato.

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T19

I «due dogmi» dell’empirismo moderno

W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo

L’empirismo moderno è stato per molta parte condizionato da due dogmi: I) una presunta discriminazione fra verità che sarebbero analitiche per il fatto di basarsi sul significato dei termini, e non su dati di fatto, e verità che sarebbero sintetiche perché si fonderebbero su dati di fatto; II) la tesi per cui tutte le proposizioni significanti sarebbero equivalenti a certi costrutti logici sulla base di termini in relazione diretta con l’esperienza immediata, e cioè il riduzionismo. Noi abbandoneremo sia l’uno che l’altro dogma perché ne dimostreremo l’infondatezza.

La vita e le opere Willard Van Orman Quine nacque ad Akron, in Ohio, nel 1908. Si laureò in matematica alla Harvard University sotto la guida di A.N. Whitehead (autore, assieme a B. Russell, dei Principia Mathematica, 1910-1913). Interessato anche alla filosofia, studiò poi per un certo periodo in Europa, dove entrò in contatto con Rudolf Carnap, con il quale instaurò un proficuo scambio intellettuale e umano (a lui dedicherà una delle sue principali opere filosofiche, Il circolo vizioso di ogni caratterizzazione dell’analiticità

Il rifiuto della distinzione tra ‘analitico’ e ‘sintetico’

T20

Critica della nozione di «analiticità»

W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo

Parola e oggetto). In seguito Quine divenne professore alla Harvard University, dove fu un docente attivo e prolifico, fino alla morte, avvenuta nel 2000. Tra i lavori principali sono da menzionare: Nuovi fondamenti della logica matematica (1937), Logica matematica (1940), Due dogmi dell’empirismo (1950), Parola e oggetto (1960), La relatività ontologica e altri saggi (1969), Filosofia della logica (1970), Le radici del riferimento (1974).

Gli enunciati analitici sono enunciati che sono veri in virtù del significato dei termini che li compongono; per esempio l’enunciato «lo scapolo è un uomo non sposato» è vero in virtù del significato dei termini «scapolo» e «uomo non sposato», che sono appunto considerati sinonimi. La nozione di «analiticità» sembra dunque poggiare su quella di uguaglianza di significato, cioè sulla nozione di «sinonimia». Tuttavia, una volta che si chieda una caratterizzazione di quest’ultima nozione, nota Quine, si osserva come essa non sia specificabile se non ricorrendo ad altre nozioni (come per esempio quella di «definizione»), le quali presuppongono direttamente o indirettamente la nozione iniziale che si vuole spiegare. Siamo quindi di fronte a un circolo vizioso: la nozione semantica di analiticità può essere spiegata solo attraverso il ricorso ad altre nozioni semantiche (significato, sinonimia, definizione ecc.), per la cui specificazione si fa riferimento alla nozione iniziale. Questa circolarità della definizione mostra che queste nozioni non possono essere spiegate senza fare riferimento a nozioni della stessa famiglia, non possono essere spiegate, cioè, da un punto di vista rigorosamente empirico, che si limiti a ciò che è direttamente osservabile e non faccia riferimento a nozioni semantiche. Esse vanno quindi rifiutate. Ma rifiutando la nozione di analiticità si rifiuta la stessa distinzione fra enunciati analitici ed enunciati sintetici, perno della filosofia dell’empirismo logico, che si dimostra ora un «dogma» infondato, un «articolo di fede». È ovvio che la verità in generale dipende sia da fatti linguistici che da fatti extralinguistici. L’asserzione «Bruto uccise Cesare» sarebbe falsa se il mondo fosse stato diverso per certi aspetti, ma sarebbe anche falsa se la parola «uccise» avesse per caso il senso di «generò». Così si è tentati a supporre che in generale si possa analizzare in qualche modo la verità di una proposizione in una componente linguistica e in una componente fattuale. E quindi, poi, sembra ovvio che alcune proposizioni non abbiano alcuna componente fattuale; queste ultime, allora, sarebbero le proposizioni analitiche. Ma, per tutta la sua ragionevolezza a priori, non si è affatto tracciata una distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche. Credere che si debba tracciare una tale distinzione è un non empirico dogma degli empiristi, un metafisico articolo di fede. 741

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Il secondo dogma dell’empirismo moderno è come si è visto il riduzionismo: la tesi che ogni singola asserzione della scienza sia dotata di significato conoscitivo perché direttamente riducibile a dati di esperienza (o riducibile ad altre asserzioni, a loro volta riducibili a dati di esperienza). Ma, obietta Quine riprendendo una tesi formulata dall’epistemologo francese Duhem e presente anche in Neurath, le proposizioni della scienza non si confrontano con l’esperienza singolarmente, ma sempre come un insieme, come un tutto: «le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongono al tribunale dell’esperienza sensibile non individualmente ma solo come un insieme solidale. […] L’unità di misura della significanza empirica è tutta la scienza nella sua globalità»; e olismo (dal greco òlos, «tutto») viene appunto definita questa teoria. La scienza come Ricorrendo a una metafora divenuta celebre, Quine paragona la scienza a un camun «campo di forza» po di forza, che tocca l’esperienza solo ai suoi margini periferici: ogni proposizione della scienza (sia le proposizioni che si trovano alla periferia, cioè in contatto con l’esperienza, sia quelle che sono più centrali, come le proposizioni della logica e della matematica) può essere messa in dubbio e revocata, se ciò contribuisce a un miglior equilibrio complessivo. L’esperienza determina il campo di forza in modo così vago che è lasciata ampia libertà nello scegliere quale parte modificare: la scienza è «sotto-determinata» dall’esperienza, non ne è cioè completamente determinata. La stessa distinzione fra enunciati più vicini all’esperienza ed enunciati più lontani è solo una distinzione di grado, e dipende dalla tendenza pragmatica a modificare più facilmente certe parti anziché altre.

La concezione ‘olistica’ del significato conoscitivo

T21

Il «campo di forza» della scienza e le sue dinamiche

W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo

L’empirismo radicale e la relatività ontologica

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Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde della fisica atomica o financo della matematica pura o della logica, tutto è un edificio fatto dall’uomo che tocca l’esperienza solo lungo i suoi margini. O, per mutare immagine, la scienza nella sua globalità è come un campo di forza i cui punti limite sono l’esperienza. Un disaccordo con l’esperienza alla periferia provoca un riordinamento all’interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. Una nuova valutazione di certe proposizioni implica una nuova valutazione di altre a causa delle loro reciproche connessioni logiche – mentre le leggi logiche sono soltanto, a loro volta, certe altre proposizioni del sistema, certi altri elementi del campo. Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne un’altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche. Ma l’intero campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l’esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria. Una esperienza particolare non è mai vincolata a nessuna proposizione particolare all’interno del campo tranne che indirettamente, per delle esigenze di equilibrio che interessano il campo nella sua globalità. Nonostante questa apertura all’olismo e al pragmatismo, l’impostazione di Quine rimane comunque un’impostazione di carattere empiristico, anzi di «empirismo radicale», perché la base su cui si eleva la costruzione scientifica è costituita dagli «stimoli sensoriali» che il soggetto si trova a ricevere dalla realtà esterna. Il

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Linguaggio e osservazione del comportamento

L’indeterminatezza della traduzione

T22

La sottodeterminazione empirica del riferimento W.V.O. Quine, Parola e oggetto

problema della scienza è appunto che nessuna costruzione teorica risulta pienamente determinata da questa base empirica: la scienza parte dagli stimoli sensoriali, ma nel suo procedere ha bisogno di una costruzione teorica ed è possibile che ci siano più teorie compatibili con gli stessi dati sensoriali. Gli stessi enunciati che si riferiscono all’esistenza di oggetti sono enunciati ‘carichi’ di teoria; il riferimento a oggetti è infatti qualcosa che va oltre lo stimolo sensoriale immediato. L’esperienza immediata ci mostra solo macchie di colore, una certa forma ecc., ed è con un salto nella teoria che stabiliamo che tutto ciò può indicare un determinato oggetto. Il riferimento oggettuale dipende da precise cornici teoriche e non solo dai dati osservativi: l’ontologia (cioè ciò che esiste) è dunque relativa a una «teoria di sfondo», come Quine afferma nel saggio del 1968, La relatività ontologica. In un importante testo del 1960, Parola e oggetto, Quine applica la tesi della sotto-determinazione empirica delle teorie allo stesso fenomeno del linguaggio, sostenendo che dalla stessa base sensoriale, cioè dall’osservazione del comportamento verbale dei parlanti di una certa lingua, è possibile costruire più linguaggi, tutti compatibili con l’evidenza empirica. Per mostrarlo, Quine immagina il caso di una «traduzione radicale», cioè della traduzione di una lingua completamente ignota, per effettuare la quale ci si può basare solo sull’osservazione del comportamento linguistico dei parlanti in certe circostanze. Conformemente all’impostazione empiristica che si è vista, la traduzione prende le mosse da ciò che è direttamente osservabile, cioè dal comportamento verbale dei parlanti. Così per esempio di fronte a una determinata osservazione l’indigeno, indicando qualcosa, dice «gavagai» e il linguista traduce «coniglio». Tuttavia, l’osservazione di ciò che è accaduto potrebbe essere di per sé compatibile anche con traduzioni differenti, come «parte di coniglio» o «segmento temporale di coniglio» o «coniglità». Quello che il linguista fa è solo una ipotesi, che Quine chiama «ipotesi analitica», per mezzo della quale si interpreta la lingua del parlante. L’oggetto «coniglio» è una costruzione teorica del traduttore, che si basa sulla fiducia nell’esistenza di un’analogia di fondo fra la sua mente e quella dell’indigeno: che, per esempio, l’indigeno sia tanto simile a lui da avere un termine generale per conigli ma non per parti di coniglio o segmenti temporali di coniglio. La traduzione è dunque empiricamente sotto-determinata, essendoci più traduzioni compatibili con lo stesso stimolo sensibile: tesi che va sotto il nome di indeterminatezza della traduzione, e che è stata approfondita anche dal filosofo statunitense Donald Davidson (nato nel 1917). Gli enunciati direttamente traducibili, traducibili mediante un’evidenza indipendente di occasioni stimolatorie, sono rari e determinano in modo disgraziatamente insufficiente le ipotesi analitiche da cui dipende la traduzione di tutti gli altri enunciati. Proiettare in qualche modo tali ipotesi oltre gli enunciati indipendentemente traducibili significa in effetti attribuire, in maniera inverificabile, il nostro senso di analogia linguistica alla mente indigena. E neppure i dettami del nostro proprio senso dell’analogia tenderebbero ad alcuna unicità intrinseca; l’uso di ciò che viene in mente prima del resto genera un’aria di determinatezza, anche se la libertà sembra prevalere. Non può esserci dubbio che sistemi rivali di ipotesi analitiche possono adattarsi alla perfezione alla totalità del comportamento verbale, e possono anche adattarsi alla totalità delle disposizioni al comportamento verbale, e tuttavia specificare traduzioni fra loro incompatibili di innumerevoli enunciati non suscettibili di controllo indipendente. 743

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Riferimento e «traduzione radicale»

Evidenza empirica: Il linguista osserva il comportamento di un parlante indigeno che dice «gavagai» indicando qualcosa che passa

Ipotesi analitiche (possibili traduzioni): ipotesi 1. «gavagai» = «coniglio» ipotesi 2. «gavagai» = «parte di coniglio» ipotesi 3. «gavagai» = «segmento temporale di coniglio» ipotesi 4. «gavagai» = «coniglità» […]

1) Ogni ipotesi analitica compatibile con l’evidenza empirica è una possibile e legittima traduzione di «gavagai» 2) Esistono innumerevoli «manuali di traduzione» da una lingua nell’altra, tutti compatibili con l’evidenza empirica e dunque corretti 3) Non esiste alcun metodo empirico che ci permetta di determinare il riferimento ‘oggettivo’ dei termini che usiamo

Nell’impostazione di Quine, la scienza e la conoscenza umana si costruiscono dunque a partire dagli stimoli sensoriali, ed è solo in seguito allo sviluppo della stessa scienza che è sorta la domanda sulla validità della conoscenza. È quando la scienza ha mostrato la falsità delle credenze passate, scrive Quine nel saggio del 1968, Epistemologia naturalizzata, che è nata la questione epistemologica della giustificazione della conoscenza scientifica. L’epistemologia Ma proprio perché nata dentro lo sviluppo della stessa scienza, la riflessione sul«naturalizzata» la conoscenza non deve più essere considerata, secondo il filosofo americano, come qualcosa di esterno alla scienza, che ha la pretesa di fondarla e di mostrarne la correttezza a partire dalla base empirica: è piuttosto essa stessa parte della scienza naturale, di quel settore della scienza costituito dalla psicologia sperimentale; una tesi che abbiamo visto già presente in Neurath. La psicologia ci spiega come da certi dati sensoriali possano essere tratte delle descrizioni teoriche del mondo esterno e come le nostre conoscenze siano frutto di un’evoluzione naturale che ha portato a un sempre migliore adattamento con l’ambiente. È la stessa scienza naturale quindi che si interroga sulla validità della conoscenza: l’epistemologia diviene parte della scienza naturale, viene cioè «naturalizzata».

Il problema della validità della conoscenza

T23

L’epistemologia come parte della psicologia sperimentale W.V.O. Quine, Epistemologia naturalizzata

L’epistemologia, o qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale. Essa studia un fenomeno naturale cioè un soggetto umano fisico. A questo soggetto umano è dato un certo input sensorialmente controllato – certi modelli di irradiazione di frequenze assortite, per esempio – e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti a studiare per circa le medesime ragioni che sempre ci spinsero all’epistemologia, vale a dire per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria e in quali modi la teoria della natura trascenda qualunque evidenza disponibile. L’approccio comportamentistico e fisicalistico alla conoscenza dunque fa sì che Quine rappresenti uno degli esponenti di spicco dell’empirismo contemporaneo. Quest’ultima corrente, pur raccogliendo l’eredità dell’empirismo logico (approc-

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

cio scientifico alla filosofia, avversione alla metafisica, attenzione ai problemi del linguaggio) giunge a esiti relativistici e olistici che sono estranei alla prima fase dell’empirismo del Novecento.

3 Un filosofo dai molteplici interessi

La critica del «realismo metafisico»

La proposta del «realismo interno»

T24

Prospettiva «esternista» e prospettiva «internista»

H. Putnam, Due prospettive filosofiche

Putnam e il realismo interno Hilary Putnam nasce a Chicago nel 1926; allievo di Quine e di Reichenbach, è professore di filosofia e matematica all’università di Harvard. Filosofo di molteplici interessi, la sua riflessione spazia dai temi della logica a quelli della filosofia della mente, dell’epistemologia e dell’etica. Ci soffermiamo su due aspetti: la proposta del realismo interno come soluzione del problema della conoscenza umana e la critica alla dicotomia fra giudizi di fatto e giudizi di valore, da Putnam definita (con esplicito richiamo a Quine) come il «terzo dogma dell’empirismo». La concezione tradizionale della conoscenza è quella che Putnam definisce come «realismo metafisico». Essa si basa sulla credenza nell’esistenza di una realtà esterna completamente indipendente dal soggetto conoscente, che la studia da una posizione che gli consente uno sguardo oggettivo, analogo a quello di Dio sul mondo. La conoscenza cerca di rappresentare la realtà, e riesce veramente a farlo se corrisponde alla realtà esterna. Secondo questa teoria, l’unica concezione ammissibile della verità è quella che la interpreta come corrispondenza fra la teoria (o il linguaggio) e la realtà. Ma, obietta Putnam, non si dà mai la possibilità di riferirci a cose indipendenti dalla mente. La prospettiva del realismo metafisico va allora sostituita con una prospettiva di «realismo interno», secondo la quale che cosa è la realtà e da quali oggetti essa è composta è determinabile solo all’interno di una data teoria scientifica (in modo analogo a quanto sostenuto da Neurath e Quine). Secondo questa prospettiva, la verità di una credenza è data dalla sua accettabilità razionale, a sua volta determinata dalla coerenza di essa con le altre credenze e con l’esperienza ammessa dalla teoria. Non vi è in questa prospettiva alcuno sguardo esterno e indipendente sul mondo, ma vi sono solo punti di vista di persone con i propri interessi e scopi. Sono dunque possibili più teorie compatibili con la stessa evidenza empirica. I problemi che abbiamo analizzato danno origine in modo naturale a due diversi punti di vista filosofici […]. Una di tali prospettive è quella del realismo metafisico, secondo la quale il mondo consiste di una certa totalità fissa di oggetti indipendenti dalla nostra mente, esiste esattamente una sola descrizione vera e completa di «come è il mondo» e la verità comporta una relazione di corrispondenza di qualche genere tra le parole, o i segni del pensiero, e le cose esterne, o insiemi di cose esterne. La chiamerò «prospettiva esternista», poiché il suo punto di vista preferito è quello dell’Occhio di Dio. La prospettiva che difenderò […] si è affacciata relativamente tardi nella storia della filosofia e ancora ai nostri giorni continua a essere confusa con altri punti di vista di tipo ben diverso. La chiamerò «prospettiva internista», poiché una caratteristica di tale tesi è quella di ritenere che chiedersi di quali oggetti consista il mondo abbia senso soltanto all’interno di una data teoria o descrizione. Molti 745

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filosofi «internisti», sebbene non tutti, ritengono, inoltre, che vi sia più di una teoria o descrizione «vera» del mondo. La «verità» è, secondo una visione internista, una specie di accettabilità razionale (idealizzata) – una specie di coerenza ideale delle nostre credenze le une con le altre e con esperienze in quanto tali esperienze siano esse stesse rappresentate nel nostro sistema di credenze – anziché una corrispondenza con uno «stato di cose» indipendente dal discorso e dalla mente. Non c’è alcun punto di vista dell’Occhio di Dio che si possa verosimilmente conoscere o immaginare: invece vi sono soltanto vari punti di vista di persone reali, che riflettono diversi interessi e scopi, sottesi alle loro descrizioni e teorie.

Giudizi valutativi e pratica scientifica

Fine della dicotomia tra fatti e valori ➥ Tesi a confronto, p. 865

➥ Sommario, p. 748

Tuttavia, nonostante questa concezione coerentistica e pragmatista della verità, anche la prospettiva di Putnam rimane di carattere empiristico, per il ruolo fondamentale svolto dall’evidenza empirica. Proprio perché la scienza è opera di un soggetto che interagisce con il mondo con i propri interessi e i propri scopi, una delle tesi dell’empirismo tradizionale che per Putnam deve essere rifiutata è quella secondo la quale la scienza è costituita solo da enunciati descrittivi, ed è completamente estranea a giudizi di valore. La scienza presuppone, invece, delle assunzioni di valore: ci sono dei valori, come quelli di rilevanza, coerenza, plausibilità, semplicità (i cosiddetti «valori epistemici»), che guidano la costruzione, il controllo e la selezione delle teorie: «i giudizi normativi sono essenziali alla pratica della scienza stessa». In questo modo, secondo Putnam, la nozione stessa di ciò che la scienza asserisce come un fatto implica un riferimento indiretto ai valori, e da questo segue che viene meno ogni dicotomia, cioè ogni separazione netta e assoluta, tra fatti e valori, fra enunciati descrittivi ed enunciati valutativi: «qualsiasi fatto è permeato di valore e ciascuno dei nostri valori permea qualche fatto». Ma non è solo il linguaggio della scienza che spinge a rifiutare la dicotomia tra elementi descrittivi e valutativi: anche il linguaggio comune è ricco di termini che non rientrano nella dicotomia tra i fatti e i valori, e nei quali asserzioni e valutazioni appaiono inestricabilmente intrecciate. Ci sono termini, cioè, allo stesso tempo inestricabilmente descrittivi e valutativi, ed essi fungono da contro-esempi alla separazione netta tra fatti e valori; un termine come «crudele», per esempio, può avere un uso valutativo (quando dico che quell’insegnante è crudele), e un uso descrittivo (quando uno storico dice che un certo monarca è stato crudele): «‘crudele’ semplicemente ignora – scrive Putnam – la supposta dicotomia fatto / valore». Sono questioni su cui la discussione è ancora aperta.

Suggerimenti bibliografici Per una introduzione classica all’empirismo logico vedi J.R. Weinberg Introduzione al positivismo logico, Einaudi, Torino 1950, inoltre F. Barone Il neopositivismo logico, Laterza, Roma-Bari 1986. I lavori di P. Parrini Una filosofia senza dogmi: materiali per un bilancio dell’empirismo contemporaneo, il Mulino, Bologna 1980 e L’empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Carocci, Roma 2002 rappresentano invece due contributi alla filosofia dell’empirismo logico, della quale sottolineano l’attualità e le prospettive teoriche che restano aperte per il futuro. Una chiara esposizione del pensiero di Carnap è costituita dal volume di A. Pasquinelli Introduzione a Carnap, Laterza, Roma-Bari 1972 e da La filosofia di R. Carnap, a cura di P.A. Schilpp, Il Saggiatore, Milano 1974.

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo Il libro di D. Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath, Feltrinelli, Milano 1986, offre un’introduzione alla filosofia di Neurath, con particolare attenzione agli aspetti politici e sociologici di questo pensatore. Come prima introduzione alla filosofia di Popper segnaliamo il volume di R. Corvi, Un invito al pensiero di Popper, Mursia, Milano 1993; analitici nella trattazione sono i lavori di M. Pera, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Roma-Bari 1981 e M. Motterlini, Popper, Il Saggiatore, Milano 1998. Per quanto concerne l’empirismo contemporaneo ci limitiamo a rimandare al volume di G. Origgi, Introduzione a Quine, Laterza, Roma-Bari 2000, che costituisce un’esauriente introduzione alla complessa filosofia di Quine e a quello di M. Dell’Utri, Le vie del realismo. Verità, linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, Angeli, Milano 1992, che si focalizza sulla critica di Putnam al realismo metafisico. I brani antologizzati sono tratti da: P. Frank, La scienza moderna e la sua filosofia, il Mulino, Bologna 1973, p. 53 (T1). H. Hahn - O. Neurath - R. Carnap, La concezione scientifica del mondo. Il circolo di Vienna, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 75-78 (T2); 77-78 (T3); 78-79 (T4). M. Schlick, Significato e verificazione, in Id., Tra realismo e neopositivismo, il Mulino, Bologna 1974, pp. 30-32 (T5). M. Schlick, Teoria generale della conoscenza, Angeli, Milano 1986, pp. 57-58 (T6). M. Schlick, La svolta della filosofia, in Id., Tra realismo e neopositivismo, il Mulino, Bologna 1974, pp. 30-32 (T7); p. 31 (T8). M. Schlick, Problemi di etica, in Id., Problemi di etica e aforismi, Patron, Bologna 1970, pp. 2324 (T9). R. Carnap, Autobiografia intellettuale, in La filosofia di Rudolf Carnap, Mondadori, Milano 1974, p. 17 (T10). R. Carnap, Controllabilità e significato, in Id., Analiticità, significanza, induzione, il Mulino, Bologna 1971, pp. 151-152 (T11). H. Reichenbach, Logistic Empiricism in Germany and the Present State of Its Problems («L’empirismo logico in Germania e lo stato attuale dei suoi problemi»), «Journal of Philosophy», 1936, p. 144 (T12). O. Neurath, Physicalismus («Fisicalismo»), in Id., Gesammelte philosophische und metodologische Schriften, Hölder-Pichler-Tempsky, Vienna 1981, p. 414 (T13). O. Neurath, Proposizioni protocollari, in Id., Sociologia e neopositivismo, Ubaldini, Roma 1968, pp. 58-59 (T14). K. Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970, pp. 11-12 (T15); pp. 107108 (T17). K. Popper, Problemi, scopi e responsabilità della scienza, in Id., Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino 1969, p. 130 (T16). K. Popper, Tre punti di vista sulla conoscenza umana, in Id., Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, cit., pp. 42-43 (T18). W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo, in Id., Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966, p. 20 (T19); p. 35 (T20); pp. 40-41 (T21). W.V.O. Quine, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1970, p. 94 (T22). W.V.O. Quine, Epistemologia naturalizzata, in Id., La relatività ontologica ed altri saggi, Armando, Roma 1986, p. 106 (T23). H. Putnam, Due prospettive filosofiche, in Id., Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano 1989, pp. 57-58 (T24).

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Sommario 1. L’EMPIRISMO

E LA SCIENZA

Sulla scia dei padri dell’empirismo del Novecento si sviluppa tra le due guerre una corrente filosofica, l’empirismo logico, che ha i suoi maggiori centri a Vienna e a Berlino. Essa opera una critica della metafisica tradizionale e si concentra sullo studio dei fondamenti delle teorie scientifiche attraverso l’analisi logica del linguaggio, inaugurando quella che è stata definita la svolta linguistica della filosofia del Novecento. 2. L’EMPIRISMO

LOGICO

Il Circolo di Vienna si caratterizza, analogamente a quanto accade negli stessi anni a Berlino, in senso scientifico e anti-metafisico. Il ‘manifesto’ del Circolo di Vienna (1929) è una testimonianza dell’impostazione empiristica della nuova filosofia, che propugna un lavoro filosofico di tipo intersoggettivo e attento ai risultati della scienza, avendo come obiettivo principale l’analisi del significato, tanto dei termini impiegati nelle teorie scientifiche, quanto di quelli in uso nel linguaggio quotidiano. Secondo l’empirismo logico non esistono giudizi sintetici a priori, bensì solo giudizi analitici a priori e giudizi sintetici a posteriori. Sempre da un punto di vista semantico risulta centrale il principio di verificazione, che identifica il significato di un enunciato con il metodo della sua verifica empirica. [par. 1] Schlick opera ben presto una dura critica alla conoscenza per intuizione, contrapponendo un conoscere diretto (kennen) a un conoscere mediato e indiretto (erkennen), proprio della conoscenza scientifica. La metafisica tradizionale si configura come un insieme di pseudo-problemi, di tentativi insensati di esprimere l’essenza delle cose. La filosofia si configura come una vera e propria attività volta a chiarire il significato dei termini impiegati dalla scienza e non costituisce dunque un insieme specifico di conoscenze. [par. 2] Carnap applica i metodi di analisi logica messi a punto da Russell e Whitehead all’epistemologia empirista. Nella Costruzione logica del mondo (1928) egli si sforza di mostrare come ogni oggetto possa essere costruito concettualmente a partire da percezioni globali soggettive, mediante passaggi di carattere puramente logico (riduzionismo). I fenomeni, che costituiscono la base ultima su cui poggia tutta la conoscenza (fenomenismo) non sono tuttavia oggetto di scienza in se stessi, bensì soltanto per quanto concerne le loro relazioni formali reciproche. Negli anni successivi Carnap aderisce alla tesi ontologica del fisicalismo, stando alla quale soltanto gli oggetti della fisica hanno piena realtà. Punto di partenza per la costruzione di ogni teoria scientifica diventano le cosiddette proposizioni protocollari, che registrano i dati immediati dell’esperienza. Sul piano semantico il principio di verificazione viene sottoposto a critica da Carnap e sostituito con il più cauto «principio di controllabilità». [par. 3] 748

Reichenbach si concentra sull’analisi dei fondamenti delle teorie scientifiche, mettendone in luce gli elementi di soggettività e convenzionalità. Nell’ottica di Reichenbach, le stesse asserzioni scientifiche, lungi dal mirare a cogliere verità assolute, si limitano a fornire previsioni e spiegazioni altamente probabili dei fenomeni. Neurath, economista, sociologo e filosofo, contribuisce dal 1935 al progetto di un’Enciclopedia internazionale della scienza unificata, che prevede un sistema in costante divenire di tutte le discipline scientifiche sotto il predominio e la guida della fisica (fisicalismo). Egli assume un atteggiamento critico anche rispetto alla presunta indubitabilità delle proposizioni protocollari. La stessa verità viene concepita da Neurath come ‘coerenza’ di una proposizione con il sistema di proposizioni di cui fa parte. [par. 4] 3. GLI

SVILUPPI DELL’EMPIRISMO

Popper distingue, nell’elaborazione di una teoria scientifica, il contesto della «scoperta» da quello della «giustificazione». Al posto del principio di verificazione Popper introduce un criterio di falsificazione delle teorie, che è criterio della loro scientificità, non del significato. Popper afferma che le asserzioni scientifiche devono essere sottoposte a confutazione. Il procedere della scienza si configura come un insieme di congetture e tentativi di confutazione delle stesse, nella consapevolezza di non raggiungere mai verità ultime sulla realtà, bensì soltanto concezioni ‘verosimili’ di essa. [par. 1] Quine attacca due principi caratterizzanti dell’empirismo logico, ossia: la distinzione tra enunciati analitici e sintetici e la tesi del riduzionismo. A parere di Quine, infatti, non si può fornire una spiegazione adeguata di «analitico»; inoltre, la verità di una proposizione non è specificabile singolarmente ma dipende dalle relazioni che intercorrono tra la proposizione data e le altre proposizioni del linguaggio cui essa appartiene (olismo). Quine mette in luce il fenomeno dell’indeterminatezza della traduzione, consistente nel fatto che più linguaggi differenti costituiscono altrettante traduzioni corrette di un linguaggio dato. La stessa epistemologia, come riflessione sui fondamenti e sulla possibilità della conoscenza scientifica, diventa un ramo della psicologia sperimentale. [par. 2] Putnam mette in discussione l’idea che sia possibile fornire una descrizione ‘oggettiva’ della realtà, difendendo una modalità di realismo detto «interno», ossia dipendente dalle scelte teoriche e pratiche che stanno alla base delle nostre teorie. Altra tesi sostenuta da Putnam e assai distante dalla prospettiva dell’empirismo logico è quella secondo cui esisterebbe un intreccio inestricabile tra giudizi descrittivi e giudizi normativi, ossia tra fatti e valori. [par. 3]

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Unità 16 Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo

Parole chiave Analisi del significato. Secondo gli esponenti dell’empirismo logico, essa costituisce il compito principale della filosofia, la quale, lungi dal produrre conoscenze in senso stretto, è essenzialmente attività di chiarificazione del significato dei termini e degli enunciati impiegati nella scienza e nel discorso quotidiano. Criterio della falsificazione. Proposto da Popper in alternativa al principio di verificazione tipico dell’empirismo logico ma con senso diverso; tale criterio prevede che una qualunque teoria, per dirsi ‘scientifica’, debba ammettere la possibilità di una sua confutazione. Fenomenismo. Concezione epistemologica – sostenuta anche dal giovane Carnap – secondo cui i fenomeni, o percezioni globali soggettive, costituiscono la base ultima su cui poggia l’intero edificio della conoscenza e della scienza. Fisicalismo. Tesi epistemologica secondo la quale la fisica costituisce il punto di riferimento per tutte le altre scienze. Giudizi analitici. Sono quei giudizi che risultano validi in virtù del significato dei termini in essi impiegati. Essi sono validi a priori, hanno carattere necessario e non accrescono la conoscenza. Giudizi sintetici. Sono quei giudizi la cui validità non dipende esclusivamente dal significato dei termini. Per gli empiristi logici essi sono validi soltanto a posteriori, hanno carattere contingente e accrescono la conoscenza.

Indeterminatezza della traduzione. Fenomeno semantico messo in luce da Quine, il quale sostiene che da un punto di vista comportamentistico non vi è modo di stabilire quale sia la traduzione corretta di un linguaggio dato (essendovene più di una) e dunque neanche ciò che i termini di tale linguaggio denotino. Olismo. Dal greco òlos, «tutto». In Quine, e in generale nell’empirismo contemporaneo, il termine indica quella concezione che guarda al significato conoscitivo di ogni proposizione non come un fatto isolato in se stesso, bensì strettamente dipendente dall’insieme (dal «tutto») delle altre proposizioni del linguaggio. Principio di verificazione. Tesi di carattere semantico condivisa dagli empiristi logici; essa afferma che soltanto gli enunciati che possono essere soggetti a verifica empirica sono dotati di significato, così che il significato stesso di un enunciato viene a coincidere col metodo della sua verificazione. Carnap indebolisce tale tesi, sostituendola con il «principio di controllabilità». Proposizioni protocollari. Nella terminologia dell’empirismo logico, sono le registrazioni linguistiche dell’esperienza immediata e costituiscono la base su cui costruire l’edificio delle varie teorie scientifiche. Riduzionismo. In generale, concezione filosofica volta a mostrare come un complesso possa essere ridotto – mediante opportuni strumenti concettuali e linguistici – a una serie di elementi semplici. Nella filosofia di Carnap il termine indica il processo attraverso cui gli oggetti della scienza e dell’esperienza quotidiana vengono riportati (ridotti) alle esperienze fenomeniche soggettive. È oggetto della critica di Quine.

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Questionario L’EMPIRISMO

13

In che senso si può affermare, stando a quanto asserito in T8, che la filosofia è la «regina delle scienze»? Cos’è che la pone a fondamento della conoscenza scientifica? (max 6 righe)

In cosa consistono i due errori fondamentali della metafisica tradizionale secondo gli empiristi logici? (max 5 righe)

14

In cosa consiste la distinzione tra ‘controllo’ e ‘conferma’ di un enunciato così come emerge dal brano T11 di Carnap? (max 4 righe)

3

In cosa consiste il «principio di verificazione»? (max 7 righe)

15

4

Qual è la funzione della filosofia secondo Schlick? In che rapporto si pone la filosofia con la conoscenza scientifica? (max 5 righe)

Quale idea del rapporto tra riflessione sui fondamenti della scienza e riflessione scientifica emerge da quanto Neurath afferma in T13? (max 5 righe)

16

Come cambia in Carnap il punto di vista sulla natura della logica rispetto a Russell e al Wittgenstein del Tractatus? (max 5 righe)

Qual è il valore supremo di una teoria scientifica stando a quanto emerge dal brano di Neurath T14? (max 3 righe)

17

In che cosa consiste la concezione della verità come ‘coerenza’ promossa da Neurath? (max 6 righe)

Che ruolo svolge l’intuizione nella genesi di una teoria scientifica, stando a quanto Popper afferma in T15? (max 4 righe)

18

Quali sono i tratti caratterizzanti del contesto della scoperta e del contesto della giustificazione di una teoria scientifica secondo la concezione di Popper? (max 6 righe)

Perché, stando a quanto Popper afferma in T16, il criterio di confutabilità è più adatto di quello di verificabilità al fine di stabilire la scientificità di una teoria empirica? (max 6 righe)

19

In cosa consistono i «due dogmi dell’empirismo» secondo Quine? Perché egli li chiama «dogmi»? Che argomenti porta a sostegno di ciò? (max 8 righe)

Cos’è che rende arbitraria la distinzione tra proposizioni sintetiche e proposizioni analitiche, stando a quanto Quine afferma in T20? (max 6 righe)

20

Quali sono i fattori da cui dipende l’indeterminatezza della traduzione, secondo quanto Quine afferma in T22? (max 5 righe)

21

Quale diventa, da un punto di vista empirista radicale, il problema di fondo dell’epistemologia, stando a quanto Quine sostiene in T23? (max 4 righe)

22

Leggi attentamente il brano T24 di Putnam e cerca di individuare quali sono le tesi da lui sostenute che si discostano maggiormente dalla prospettiva dell’empirismo logico. (max 5 righe)

1

In che forme si configura l’attacco alla metafisica tradizionale da parte del ‘manifesto’ del Circolo di Vienna? (max 6 righe)

2

5

6

GLI

LOGICO

SVILUPPI DELL’EMPIRISMO

7

8

Lavoriamo sui testi 9

Che idea riguardo al rapporto tra ‘vita’ e ‘conoscenza’ è possibile ricavare a tuo avviso stando alle affermazioni contenute in T2? (max 5 righe)

10

Quale parte del brano T3 può essere considerata un chiaro esempio della ‘svolta linguistica’ promossa dall’empirismo logico? (max 3 righe)

11

In cosa consiste la tesi fondamentale dell’empirismo logico, stando a quanto si sostiene in T4? (max 3 righe)

12

Che atteggiamento viene assunto da Schlick rispetto ai quesiti tradizionali della metafisica nel brano T7? Condividi tale impostazione? Giustifica la tua risposta. (max 8 righe)

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Percorso tematico Mente, cervello, macchina

I testi L. Wittgenstein Libro blu: Il senso del problema di una macchina pensante, T1 A.M. Turing Calcolatori e intelligenza: Un approccio operativo al problema del pensiero meccanico, T2 J. Searle Menti, cervelli e programmi: Manipolazione sintattica e comprensione semantica, T3

D. Dennett Pensiero veloce: Macchine calcolatrici e produzione di eventi mentali, T4; La semantica e il problema della coscienza, T5 Th. Nagel Che effetto fa essere un pipistrello?: Il carattere soggettivo dell’esperienza cosciente, T6; Il problema dell’esperienza soggettiva di un pipistrello, T7; La comprensione dell’esperienza cosciente, T8

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Mente, cervello, macchina 1 L’origine del problema: anima e corpo

Il modello dualistico di Cartesio

Materialismo e razionalismo a confronto

I moderni calcolatori e il problema dell’intelligenza artificiale

Il progetto dell’IA e la riduzione del pensiero alla materia

752

Pensiero e materia La questione del rapporto tra il pensiero e la materia è molto antica, e nel corso della storia della filosofia ha preso a lungo la forma della questione del rapporto tra «anima» e «corpo». Con l’identificazione del cervello come sede del pensiero questo problema si trasforma in quello della connessione tra la mente e appunto il cervello. Cartesio, per esempio, lo affronta identificando una sede precisa nel cervello (l’ipofisi o ghiandola pineale) nella quale a suo giudizio avverrebbe lo scambio tra due entità – due sostanze – concepite come distinte, secondo un modello dualistico: il pensiero, incorporeo, «spirituale», e il cervello, corporeo, «materiale». In quel luogo, l’anima «osserva» le tracce corporee provenienti dai sensi. Al dualismo cartesiano si sono opposte sempre posizioni moniste (come quella di Spinoza), o materialiste (per esempio quella di Hobbes), che riconducevano le funzioni del pensiero esclusivamente ad attività materiali. I processi mentali, nella prospettiva materialistica moderna, rispondono a un modello meccanicistico (fondato su relazioni di causa ed effetto) e la mente è concepibile dunque in analogia con una macchina. Nella tradizione razionalista, invece, l’idea che qualcosa di materiale potesse pensare continuava però a essere rifiutata, anche proprio in relazione all’ipotesi che una macchina potesse avere rappresentazioni. Assai noto è l’esperimento mentale di Leibniz che ipotizza una macchina strutturata in modo che possa pensare: immaginandola ingrandita, per potervi entrare, come in un mulino, si troverebbero però secondo Leibniz «sempre soltanto pezzi che si spingono a vicenda, mai qualcosa che possa somigliare ad una percezione», ossia a una rappresentazione, a qualcosa che può costituire un pensiero. Nel Novecento questa possibilità prefigurata da Leibniz non è più un’immagine o un esperimento mentale: con lo sviluppo dei moderni calcolatori interviene la realtà, almeno parziale, di qualcosa che possiede certamente una natura materiale e che è costruito tuttavia per «pensare», per comportarsi come una mente. Una «macchina pensante» non è più qualcosa di immaginato, ma un concreto progetto di ricerca tecnologica. I «cervelli elettronici» o calcolatori diventano protagonisti del programma di ricerca denominato Intelligenza Artificiale (IA), ossia del tentativo di produrre una macchina in grado di svolgere funzioni proprie di una mente umana. Il successo o l’insuccesso del programma della IA diventa un banco di prova per la questione filosofica della riducibilità o meno del pensiero alla materia, a leggi fisiche che consentano di spiegarlo integralmente. Se il programma di costruzione di macchine che sono in grado di svolgere le stesse funzioni della mente umana riesce, allora la possibilità che qualcosa di materiale possa pensare viene dimostrata, prima che in relazione al cervello umano, attraverso la macchina o il «cervello artificiale». La questione tecnica e soprattutto la riflessione di principio su di essa acquistano così un ruolo cruciale.

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Percorso tematico Mente, cervello, macchina

2 La riformulazione del problema da parte di Wittgenstein

T1

Il senso del problema di una macchina pensante L. Wittgenstein, Libro blu

L’intuizione comune di fronte allo sviluppo tecnologico

Wittgenstein: il problema di una macchina che pensa Wittgenstein pone il problema del rapporto tra mondo fisico e mondo mentale senza abbracciare una posizione fisicalista (che riduce cioè i processi mentali a eventi fisici) né una dualista, ma cercando – secondo lo stile delle riflessioni proprio della fase successiva al Tractatus logico-philosophicus – di mettere in luce i fraintendimenti concettuali nascosti nella problematica stessa. Nel momento in cui mette in gioco la questione della macchina pensante, Wittgenstein chiarisce che si tratta di un problema concettuale di principio, e non di un problema tecnico, o che almeno così ce lo rappresentiamo nel momento in cui poniamo la domanda. Il nucleo centrale della difficoltà intuitiva che possiamo avere nel concepire una macchina pensante sta nel fatto che la dimensione mentale può presentarsi non come un ambito tra i vari che compongono il mondo, ma come un «fondamento», dice Wittgenstein, di ciò che possiamo dire di questi. Ci sembra talvolta come se i fenomeni dell’esperienza personale siano fenomeni collocati agli strati superiori dell’atmosfera, in opposizione ai fenomeni materiali, che si presentano al suolo. Vi sono modi di vedere secondo i quali questi fenomeni sorgono negli strati superiori quando i fenomeni materiali raggiungono un determinato grado di complessità. Per esempio, che fenomeni mentali, l’esperienza dei sensi, la volontà, ecc. si presentano allorquando una specie di esseri viventi animali si è sviluppata con una certa complessità. In ciò sembra esservi evidentemente qualcosa di vero, dato che certamente le amebe non parlano né scrivono né discutono, mentre noi facciamo tutto ciò. D’altro lato qui sorge il problema che può esser espresso con la seguente domanda: «È possibile che una macchina possa pensare?» (possa l’azione di una tale macchina essere descritta e predetta per mezzo delle leggi fisiche o eventualmente solo per mezzo di leggi di tipo diverso, che riguardano il comportamento organico). E noi propriamente non esprimiamo con questa domanda la difficoltà che consiste nel fatto che non conosciamo ancora nessuna macchina che lo sappia fare. La domanda non è analoga a quella che qualcuno ha potuto porre cent’anni fa: «Può una macchina rendere liquido un gas?». Il punto debole è qui piuttosto che la proposizione «una macchina pensa (percepisce, desidera)» sembra in qualche modo insensata. È come se avessimo chiesto «il numero 3 ha un colore?». («Che colore potrebbe essere, dal momento che evidentemente non ha nessuno dei colori che ci sono noti?») Infatti da un certo punto di vista sembra che l’esperienza personale – lungi dall’essere il prodotto di processi fisici, chimici e fisiologici – sia il fondamento di tutto ciò che noi possiamo dire sensatamente di tali processi. Quando vediamo la cosa così tendiamo ad utilizzare la nostra idea di un materiale di costruzione in un altro modo fuorviante e a dire che l’intero mondo, mentale come fisico, è fatto di un solo materiale. Wittgenstein non abbraccia mai una soluzione dualista, ma pone qui il problema di un presupposto in certa misura sottinteso ad alcune intuizioni del senso comune, che avvertono come quasi insensata l’idea che una macchina possa pensare. Lo sviluppo tecnico mette però di fatto sempre più in questione tale intuizione, almeno indebolendola, dal momento che alcuni compiti che attribuiamo alla mente umana vengono svolti con successo dai calcolatori elettronici, e que753

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

sto rende più plausibile l’ipotesi che anche altre funzioni del pensiero umano – al limite, tutte – possano essere riprodotte da macchine. Un problema tecnico Tutto sembrerebbe ridursi a una questione «di fatto», ossia alla possibilità teco di principio? nica di raggiungere un risultato di una notevole complessità, che però in futuro potrebbe diventare possibile. C’è qualche serio argomento di principio che possa contraddire questa ipotesi? Che mostri cioè che la questione non è tecnica, ma si arresta a difficoltà concettuali insormontabili (come quella di indicare il colore di un numero)?

3

Come scoprire se una macchina può pensare? Il test di Turing

Prima ancora di porsi il problema se una macchina può pensare, ci si può e ci si deve porre il problema di che cosa significhi che una macchina può pensare. Il problema ovviamente non interessa solo filosofi, ma anche chi di macchine pensanti si occupa direttamente dal punto di vista tecnico. Il matematico e logico Alan M. Turing (1912-1954), pioniere dell’informatica, cerca di dare alla questione una direzione nuova, introducendo una definizione ‘operativa’ di intelligenza che deve svincolare la problematica da aspetti meramente concettuali (come quelli di trovare definizioni condivisibili di «pensiero» o «intelligenza»), ma anche da resistenze istintive basate su intuizioni, come quelle date dalla difficoltà – che segnalava Wittgenstein – di concepire una macchina come qualcosa che pensa, in quanto entità troppo ‘diversa’ dall’essere umano. L’idea del test di Turing Il ‘test’ che Turing propone – secondo il quale è da considerarsi pensante la macchina che (non visibile dall’osservatore) sostiene una conversazione con un essere umano senza che questo noti che si tratta di una macchina – vuole liberare con una mossa spiazzante la questione di fatto da troppe complicazioni concettuali e pregiudizi. L’approccio ‘operativo’ al problema dell’intelligenza

T2

Un approccio operativo al problema del pensiero meccanico

A.M. Turing, Calcolatori e intelligenza

754

IL GIOCO DELL’IMITAZIONE

Mi propongo di considerare la domanda «Le macchine possono pensare?». Si dovrebbe cominciare col definire il significato dei termini «macchina» e «pensare». Le definizioni potrebbero essere formulate in modo da riflettere al massimo grado l’uso normale di queste parole, ma in ciò vi sono dei pericoli. Se il significato delle parole «macchina» e «pensare» è da ricavarsi in base al loro uso comune, è difficile sfuggire alla conclusione che per scoprire il significato e la risposta alla domanda «Le macchine possono pensare?» si debba ricorrere a un’indagine statistica, come può esserlo un sondaggio Gallup. Il che è assurdo. Invece di tentare di dare una definizione del genere, sostituirò quella domanda con un’altra, che è strettamente connessa alla prima ed è espressa con parole relativamente non ambigue. La nuova forma del problema può essere descritta ricorrendo a un gioco che chiameremo «gioco dell’imitazione». Vi sono tre giocatori: un uomo (A), una donna (B) e un interrogante (C), che può essere dell’uno o dell’altro sesso. L’interrogante sta in una stanza da solo, separato dagli altri due. Scopo del gioco per l’interrogante è quello di determinare quale delle altre due persone sia l’uomo e quale

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Percorso tematico Mente, cervello, macchina

la donna. Egli le conosce tramite le etichette X e Y, e alla fine del gioco dirà «X è A e Y è B», oppure «X è B e Y è A». L’interrogante ha facoltà di porre ad A e a B domande del tipo: C: «X, vuole dirmi per favore quanto sono lunghi i suoi capelli?» Ora, supponendo che X sia A, è A che deve rispondere. Scopo di A nel gioco è quello d’ingannare C e d’indurlo a sbagliare l’identificazione. La sua risposta quindi potrebbe essere: «Ho i capelli pettinati alla maschietta e le ciocche più lunghe sono circa venti centimetri». Per evitare che il tono della voce possa aiutare l’interrogante, le risposte dovrebbero essere scritte, o meglio ancora battute a macchina. La soluzione migliore sarebbe quella di collegare le due stanze con una telescrivente. Oppure le domande e le risposte potrebbero essere riportate da un intermediario. Scopo del gioco per il terzo giocatore (B) è quello di aiutare l’interrogante. Probabilmente la strategia migliore per B, cioè per la donna, è di dare risposte veritiere. Essa può aggiungere alle sue risposte frasi del tipo: «Sono io la donna, non dargli ascolto!»; ma ciò non approderà a nulla, dato che anche l’uomo può fare osservazioni analoghe. Ora chiediamoci: «Che cosa accadrà se in questo gioco una macchina prenderà il posto di A?». L’interrogante sbaglierà altrettanto spesso in questo caso di quando il gioco è effettuato fra un uomo e una donna? Queste domande sostituiscono la nostra domanda originaria: «Le macchine possono pensare?». CRITICA DEL NUOVO PROBLEMA

Oltre a chiedere: «Qual è la risposta alla domanda in questa sua nuova formulazione?», si può anche chiedere: «Vale la pena indagare su questo nuovo problema?». Ci occuperemo senz’altro indugio di quest’ultima domanda, interrompendo così un regresso all’infinito. Il nuovo problema ha il vantaggio di tracciare una linea di demarcazione abbastanza netta tra le capacità fisiche e quelle intellettuali dell’uomo. Nessun ingegnere o chimico sostiene di poter fabbricare un materiale indistinguibile dalla pelle umana. È possibile che prima o poi forse ci si riesca ma anche supponendo che questa invenzione sia già stata fatta, dovrebbe esser chiaro che rivestire una «macchina pensante» di questa carne artificiale non servirebbe granché a renderla più umana. La forma che abbiamo dato al problema riflette questo fatto nella condizione che l’interrogante non deve vedere o toccare i suoi compagni di gioco o udirne la voce. Altri vantaggi del criterio proposto possono essere messi in luce attraverso esempi di domande e risposte. Eccone una: D.: Per cortesia, mi scriva un sonetto che tratti del Ponte sul Forth [un ponte sul fiordo di Forth, in Scozia]. R.: Non faccia affidamento su di me per questo, non ho mai saputo scrivere poesie. D.: Sommi 34957 a 70764. R.: (Pausa di circa 30 secondi e poi la risposta) 105621. D.: Gioca a scacchi? 755

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R.: Sì. D.: Ho il Re in e1 e nessun altro pezzo. Lei ha solo il Re in c3 e una Torre in h8. Tocca a lei muovere. Che mossa fa? R.: (Dopo una pausa di 15 secondi) Torre in h1, matto. Il metodo basato su domanda e risposta sembra essere quello più adatto a consentirci d’introdurre quasi tutti i campi dell’attività umana che desideriamo considerare. Non vogliamo penalizzare la macchina per la sua incapacità di brillare in un concorso di bellezza, né penalizzare l’uomo perché perde una corsa contro un aeroplano. Le condizioni in cui si svolge il nostro gioco rendono non pertinenti questi difetti. I «testimoni», se lo ritengono opportuno, possono gloriarsi quanto vogliono del loro fascino, della loro forza o del loro eroismo, ma l’interrogante non può pretendere dimostrazioni pratiche. Il gioco può forse essere criticato sulla base del fatto che è troppo nettamente a sfavore della macchina. Se l’uomo dovesse fingere di essere la macchina, farebbe certamente una ben misera figura. Sarebbe tradito immediatamente dalla sua lentezza e imprecisione nell’aritmetica. Non potrebbe darsi che le macchine si comportino in una maniera che non può non essere descritta come pensiero, ma che è molto differente da quanto fa un essere umano? Questa obiezione è molto forte, ma almeno possiamo dire che, se ciò nonostante si può costruire una macchina in grado di giocare soddisfacentemente il gioco dell’imitazione, non c’è bisogno di preoccuparsene. Si potrebbe obiettare che, giocando al «gioco dell’imitazione», la strategia migliore per la macchina potrebbe forse non essere l’imitazione del comportamento umano. Può anche darsi; ma non credo che si possa dare gran peso a una possibilità del genere. In ogni caso, non è nostra intenzione esaminare qui la teoria di questo gioco, e sarà dato per scontato che la strategia migliore per la macchina sia quella di provare a formulare le risposte che sarebbero date spontaneamente da un essere umano. La prospettiva funzionalista introdotta da Turing

4 L’irriducibilità della mente rispetto al calcolo

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Il test di Turing prefigura una posizione che in filosofia della mente si chiama «funzionalista», secondo la quale una mente viene definita non tanto da ciò che la costituisce, ma da ciò che essa è in grado di fare, dalle funzioni che svolge, che possono essere le stesse anche in sistemi costituiti da materiali di natura diversa (come un cervello biologico, fatto di materiale organico, o un cervello elettronico, fatto di chip di silicio o altro). Così come un campanello resta tale indipendentemente dal fatto che funzioni tramite un filo elettrico, tramite un sistema meccanico come una cordicella, tramite onde radio o altro, una mente è una mente se fa ciò che è previsto che faccia. Una definizione «operativa» come quella di Turing può essere però contestata se si ritiene che essa finisca per mettere tra parentesi qualcosa di essenziale, che sfuggirebbe comunque al test concepito su base operativa.

Searle e la stanza cinese Un filosofo che ritiene di disporre di argomenti contro il progetto dell’IA – che dunque ritiene di poter contestare in linea di principio la possibilità di macchine pensanti – è lo statunitense John Searle (nato nel 1932), il quale sostiene la differenza di principio tra la mente umana, concepita come dotata di intenziona-

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lità (ossia di capacità di riferirsi a entità nel mondo), e qualunque programma implementabile in un moderno calcolatore. Dimensione semantica Searle cerca di rendere immediatamente plausibile questa sua posizione con un e dimensione sintattica «esperimento mentale» che costituisce in qualche modo una ripresa del test di Turing, di cui viene mostrata però l’insufficienza, attraverso una sua riduzione ad absurdum, in quanto esso non consentirebbe di cogliere una differenza essenziale, quella tra la «semantica» propria della mente e la natura «sintattica» dei calcolatori. Questa differenza persisterebbe anche quando le entrate e le uscite (input e output) di un sistema dessero l’impressione di un funzionamento paragonabile a quello della mente umana.

T3

Manipolazione sintattica e comprensione semantica

J. Searle, Menti, cervelli e programmi

Supponiamo che io mi trovi chiuso in una stanza con un grande foglio di carta tutto coperto di ideogrammi cinesi. Supponiamo inoltre che io non conosca il cinese (ed è proprio così), scritto o parlato, e che io non sia nemmeno sicuro di riuscire a distinguere la scrittura cinese dalla scrittura, diciamo, giapponese o da sgorbi privi di significato: per me gli ideogrammi cinesi sono appunto sgorbi privi di significato. Ora supponiamo che, dopo questo primo foglio in cinese, mi venga fornito un secondo foglio scritto nella stessa scrittura, e con esso un insieme di regole per correlare il secondo foglio col primo. Le regole sono scritte in inglese e io capisco queste regole come qualsiasi altro individuo di madrelingua inglese. Esse mi permettono di correlare un insieme di simboli formali con un altro insieme di simboli formali; qui «formale» significa semplicemente che io posso identificare i simboli soltanto in base alla loro forma grafica. Supponiamo ancora che mi venga data una terza dose di simboli cinesi insieme con alcune istruzioni, anche queste in inglese, che mi permettono di correlare certi elementi di questo terzo foglio coi primi due, e che queste regole mi insegnino a tracciare certi simboli cinesi aventi una certa forma in risposta a certi tipi di forme assegnatemi nel terzo foglio. A mia insaputa le persone che mi forniscono tutti questi simboli chiamano il contenuto del primo foglio «scrittura», quello del secondo «storia» e quello del terzo «domande». Inoltre chiamano «risposte alle domande» i simboli che io do loro in risposta al contenuto del terzo foglio e chiamano «programma» l’insieme delle regole in inglese che mi hanno fornito. Ora, tanto per complicare un po’ le cose, immaginiamo che queste stesse persone mi diano anche delle storie in inglese, che io capisco, e che poi mi facciano domande in inglese su queste storie, e che io risponda loro in inglese. Supponiamo ancora che dopo un po’ io diventi così bravo nel seguire le istruzioni per manipolare i simboli cinesi e che i programmatori diventino così bravi nello scrivere i programmi che, dal punto di vista esterno, di qualcuno cioè che stia fuori della stanza in cui io sono rinchiuso, le mie risposte alle domande siano assolutamente indistinguibili da quelle che darebbero persone di madrelingua cinese. Nessuno, stando solo alle mie risposte, può rendersi conto che io non so neanche una parola di cinese. Supponiamo per giunta che le mie risposte alle domande in inglese siano, e certo lo sarebbero, indistinguibili da quelle fornite da altre persone di madrelingua inglese, per il semplice motivo che io sono di madrelingua inglese. Dal punto di vista esterno, cioè dal punto di vista di qualcuno che legga le mie «risposte», le risposte alle domande in cinese e a quelle in inglese sono altrettanto buone. 757

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Ma nel caso del cinese, a differenza dell’inglese, io do le risposte manipolando simboli formali non interpretati. Per quanto riguarda il cinese, mi comporto né più né meno che come un calcolatore: eseguo operazioni di calcolo su elementi specificati per via formale. Per quanto riguarda il cinese, dunque, io sono semplicemente un’istanziazione (ossia un’entità totalmente corrispondente al suo tipo astratto) del programma del calcolatore. Orbene, l’IA forte sostiene che il calcolatore programmato capisce le storie e che il programma in un certo qual senso spiega la capacità di comprendere dell’uomo. Ma ora siamo in grado di esaminare queste affermazioni alla luce del nostro esperimento ideale. La distinzione tra manipolare simboli e comprendere

Critiche all’argomento di Searle

Dennett e la mente come software

5 Semantica e sintassi

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L’esperimento mentale mostra secondo Searle 1) che è possibile avere input e output correlati in modo corretto (domande e risposte pertinenti) senza che vi sia alcuna effettiva comprensione; 2) che un programma non spiega le capacità di comprendere dell’uomo, dal momento che esso può funzionare quando non c’è comprensione. In definitiva, nell’esempio della stanza cinese «io ho tutto ciò che l’intelligenza artificiale può introdurre in me per mezzo di un programma, eppure non capisco nulla». Tradotto l’esperimento mentale in termini argomentativi, il ragionamento di Searle può essere riassunto in questo modo: 1) i programmi sono completamente sintattici; 2) la sintassi non è la stessa cosa e non è di per sé sufficiente per la semantica; 3) la mente ha una semantica; 4) quindi i programmi non sono delle menti. La posizione di Searle e il suo esperimento mentale hanno suscitato una discussione molto ampia. Alcuni hanno osservato che la capacità di comprensione, nell’esempio della stanza cinese, va attribuita al sistema complessivo e non a un suo elemento, ossia la persona che si trova nella stanza. Riferirsi solo a questa falserebbe l’analogia. Tra gli autori che non solo contestano l’argomento di Searle, ma che difendono una posizione molto diversa vi è il filosofo americano Daniel Dennett. Dennett sostiene una posizione funzionalista e ritiene che la mente non sia in linea di principio diversa da un software, implementato però, ossia realizzato, su una «macchina» che non ha la struttura lineare dei moderni calcolatori elettronici (le cosiddette «macchine neumanniane»), bensì un’architettura parallela: una struttura che, con operazioni che si svolgono simultaneamente e non in serie, consente una velocità e complessità infinitamente superiori. Il problema di comprendere la mente come macchina sarebbe dunque solamente tecnico – si tratterebbe di identificare il tipo giusto di macchina cui riferirsi – la semplice idea di calcolatore elettronico sarebbe imprecisa, senza che vi sia però alcun ostacolo di principio. Sullo sfondo di questa generale impostazione Dennett critica gli argomenti di Searle.

Le critiche di Dennett Dennett identifica alcuni argomenti che sono alla base dell’esperimento della stanza cinese e cerca di mostrarne l’inconsistenza. In particolare, l’idea che la sintassi non sia sufficiente per la semantica varrebbe solo per una «sintassi sullo scaffale», ossia per un programma non realizzato da una macchina che lo tra-

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duce in determinate operazioni. La sintassi concretata, attivata è invece sufficiente – secondo Dennett – a produrre intenzionalità.

T4

Macchine calcolatrici e produzione di eventi mentali D. Dennett, Pensiero veloce

Proposizione 1. I programmi sono puramente formali (vale a dire sintattici). Proposizione 2. La sintassi non è di per se stessa né equivalente a, né sufficiente per, la semantica. Proposizione 3. Le menti hanno contenuti mentali (vale a dire contenuti semantici). Conclusione 1. Avere un programma – un qualsiasi programma di per sé – non è né sufficiente per, né equivalente a, avere una mente. Searle sfida i suoi oppositori a mostrare esplicitamente che cosa pensino vi sia di sbagliato in questo argomento, e io farò proprio questo, concentrandomi innanzitutto sulla conclusione, la quale, malgrado tutta la sua apparente semplicità e chiarezza, è sottilmente ambigua. Parto con la conclusione perché sono venuto a sapere che molti sostenitori di Searle sono molto più sicuri della sua conclusione di quanto non lo siano della via con cui egli arriva ad essa, per cui tendono a considerare le critiche dei vari passi come un mero cavillare accademico. Una volta che avremo visto che cosa vi sia di sbagliato nella conclusione, potremo tornare indietro a diagnosticare i passi errati che hanno condotto Searle a quel punto. Perché alcuni sono tanto sicuri della conclusione? Forse in parte, io arguisco, perché vogliono tanto intensamente che sia vera. (Uno dei pochi aspetti del prolungato dibattito a proposito dell’esperimento mentale di Searle che mi ha affascinato è l’intensità del sentimento con cui molti – gente profana, scienziati, filosofi – abbracciano la conclusione di Searle.) […] Innanzi tutto dobbiamo chiarire una confusione secondaria concernente ciò che Searle intende con «programma di computer di per sé». C’è un senso in cui è assolutamente ovvio che nessun programma di per sé può produrre uno o l’altro degli effetti menzionati […]: nessun programma di computer che rimane non implementato sullo scaffale, una mera sequenza astratta di simboli, può causare qualcosa. Di per sé (in questo senso) nessun programma di computer può nemmeno sommare 2 più 2 e ottenere 4. In questo senso, nessun programma di computer di per sé può far sì che occorra un trattamento di testi, e tanto meno produrre fenomeni mentali con un contenuto intenzionale. Forse parte della convinzione cui Searle ha dato vita nel senso che è proprio ovvio che nessun programma di computer «di per sé» potrebbe «produrre intenzionalità», deriva in realtà dal fatto di confondere quest’affermazione ovvia (e irrilevante) con qualcosa di più sostanziale – e dubbio: che nessun programma di computer concretamente implementato, attivato, potrebbe «produrre intenzionalità». Ma soltanto quest’ultima affermazione rappresenta una sfida per l’IA; per cui assumiamo che Searle, almeno, abbia le idee del tutto chiare a questo riguardo e pensi di aver dimostrato che nessuna incarnazione materiale in atto di un programma di computer «formale» potrebbe «produrre intenzionalità» o essere in grado di «causare fenomeni mentali» esclusivamente in virtù del suo essere un’incarnazione di un programma formale siffatto. La visione di Searle, dunque, approda a questo: prendiamo un oggetto materiale (un oggetto materiale qualsiasi) che non abbia il potere di causare fenomeni mentali; non è possibile trasformarlo in un oggetto che abbia di fatto il potere di 759

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produrre fenomeni mentali semplicemente programmandolo – riorganizzando le dipendenze condizionali delle transizioni fra i suoi stati. I poteri causali cruciali dei cervelli non hanno nulla a che fare con i programmi che essi potrebbero essere detti attivare, per cui «dare a qualcosa il giusto programma» non potrebbe essere un modo per dargli una mente. La mia visione, al contrario, è che tale programmazione, tale riprogettazione delle regolarità della transizione di stato di un oggetto, è proprio ciò che potrebbe dare a qualcosa una mente (nell’unico senso che ha senso) – ma che, in realtà, sia empiricamente improbabile che i tipi giusti di programmi possano essere attivati su qualcosa all’infuori dei cervelli umani organici. Un computer digitale elettronico secondo Dennett non può esser programmato per produrre un controllo dell’attività intenzionale così rapida e intelligente come in cervelli umani, ma solo a causa delle sue particolarità tecniche che empiricamente non lo consentirebbero. Gli argomenti di principio di Searle non sono validi. Dennett ritiene in definitiva che sia un altro il motivo per cui Searle rifiuta l’idea di una macchina pensante: la prospettiva in prima persona che egli rappresenta nell’esempio della stanza cinese, ossia quella forma di «comprendere» umano che ha consapevolezza di sé, non la semplice «semantica» intesa nel senso di intenzionalità, possibilità di riferirsi a cose nel mondo da parte della mente. Il carattere «derivato» Per Dennett invece l’intenzionalità non è una proprietà intrinseca di un sistema, dell’intenzionalità e non ha a che fare con la coscienza, ma è derivata da una programmazione che gli consente di interagire in un certo modo con il suo ambiente (nel caso di entità biologiche, come gli animali e l’uomo, questa «programmazione» è data dal processo di evoluzione naturale). In questo senso ogni intenzionalità è «derivata», esattamente come quella di una macchina. La forza intuitiva dell’esperimento di Searle non sta dunque negli argomenti che vorrebbe illustrare, e che sono confutabili, ma nell’assunzione di una prospettiva in prima persona, che viene espressa nell’appello al punto di vista cosciente. Questione di principio o problema tecnico?

T5

La semantica e il problema della coscienza D. Dennett, Pensiero veloce

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È questo dunque il punto cruciale per Searle: la coscienza, non la «semantica». La sua visione non riposa, come egli dice, sul «concetto moderno di calcolo e di fatto sulla nostra moderna visione scientifica del mondo», ma sull’idea, che egli ritiene confermabile da chiunque abbia un momento libero per riflettere, che l’IA forte non riuscirebbe a distinguere fra un «perfetto zombie» e un essere dotato di intenzionalità intrinseca, reale. La coscienza introspettiva, ciò che si prova ad essere noi (e a capire il cinese) è il vero argomento di Searle. Malgrado il suo insistere che questo semplicissimo argomento è il centrotavola della sua visione, e che la «parabola» della Stanza Cinese è solo un vivido promemoria della verità della sua seconda premessa, il suo caso dipende in realtà dal «punto di vista in prima persona» dell’individuo nella Stanza Cinese. Searle ha evidentemente confuso una tesi concernente l’inderivabilità della semantica dalla sintassi con una tesi concernente l’inderivabità della coscienza della semantica dalla sintassi. Per Searle, l’idea del genuino intelletto, della genuina «semanticità» come spesso la chiama, non è scindibile dall’idea di coscienza. Egli non arriva a prendere in considerazione la possibilità di una semanticità inconscia. I problemi della coscienza sono seri e imbarazzanti, per l’IA e per chiunque altro. La questione se una macchina possa essere cosciente è un problema di cui ho parlato per esteso in precedenza […] e di cui parlerò più in dettaglio in futuro. Non

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è questo il tempo o il luogo adatto per una discussione esauriente. Per il momento, limitiamoci a osservare che il caso di Searle, così com’è, non dipende affatto dal semplicissimo argomento della formalità dei programmi e dell’inderivabilità della semantica dalla sintassi, bensì dalle radicate intuizioni che la maggior parte della gente ha riguardo alla coscienza e alla sua evidente irrealizzabilità nelle macchine. L’irriducibilità dell’esperienza del «comprendere»

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Dietro al problema di Searle relativo all’irriducibilità della semantica alla sintassi, vi sarebbe dunque, a ben guardare, un problema del tutto diverso: quello dell’impossibilità di derivare qualcosa come la «coscienza» a partire da una mera manipolazione sintattica. Dunque non soltanto l’impossibilità di derivare la «semantica», intesa come riferimento al mondo degli stati mentali, ma la – presunta – impossibilità di ricreare attraverso un programma di computer l’esperienza del «comprendere», quale la si prova in prima persona, in modo cosciente.

La mente e la coscienza come «ciò che si prova». Thomas Nagel e il pipistrello

Dennett riporta dunque la posizione di Searle a un elemento in qualche misura di derivazione cartesiana: la presunta irriducibilità della prospettiva in prima persona. In effetti Searle difende anche questa posizione, quella cioè della «soggettività ontologica» della coscienza. A differenza di un privilegio «epistemologico» (conoscitivo) attribuito alla coscienza (in Cartesio esso consisteva nella indubitabilità di ciò che appartiene alla sfera della coscienza in prima persona) questo carattere individua un aspetto che sembra delimitare due «modi di essere» distinti: quello di tutto ciò che può essere «descritto» per così dire in terza persona (enumerando caratteristiche accessibili da qualunque punto di vista) e, dall’altra parte, di ciò che può essere soltanto «provato» in prima persona. Pur riferendosi principalmente alla «coscienza», che non è da identificare senz’altro con la «mente» (ma semmai ne costituisce una parte o una funzione tra le altre), questa tesi, molto discussa, sembra comunque porre un argine alla identificazione di mente e cervello. L’approccio anti- Il filosofo che ha, prima di Searle, posto in modo intuitivamente pregnante queriduzionistico di Nagel sto problema di una distinzione di principio attraverso la «soggettività ontologica» è Thomas Nagel (nato nel 1937), con un esempio rimasto famoso. Nagel muove dal concetto di «esperienza cosciente» o semplicemente «esperienza» per evidenziarne l’inaccessibilità mediante un approccio solo scientifico e sostenere dunque più in generale l’irriducibilità della mente a fenomeni fisici. L’elemento cartesiano nell’argomento di Searle

T6

Il carattere soggettivo dell’esperienza cosciente

Th. Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello?

L’esperienza cosciente è un fenomeno esteso. Si manifesta a numerosi livelli di vita animale, anche se non possiamo essere sicuri della sua presenza negli organismi più semplici, e è molto difficile dire in generale ciò che ne attesta la presenza. (Certi estremisti sono disposti a negarla anche a mammiferi diversi dall’uomo). Senza dubbio si manifesta in innumerevoli forme per noi totalmente inimmaginabili, su altri pianeti, in altri sistemi solari, attraverso l’universo. Ma senza tenere conto del modo in cui la forma può variare, il fatto che un organismo abbia in qualche modo esperienza conscia significa, fondamentalmente, che fa un certo effetto essere quell’organismo. Possono esservi ulteriori implica761

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zioni a proposito della forma dell’esperienza; ci possono anche essere (sebbene io ne dubiti) implicazioni a proposito del comportamento dell’organismo. Ma, fondamentalmente, un organismo ha stati mentali coscienti se e solo se fa un certo effetto essere quell’organismo – un certo effetto per l’organismo. Possiamo chiamare questo il carattere soggettivo dell’esperienza. Esso non è colto da nessuna delle analisi familiari del mentale elaborate recentemente, perché sono tutte logicamente compatibili con la sua assenza. Non è analizzabile nei termini di qualche sistema esplicativo di stati funzionali, o di stati intenzionali, perché questi potrebbero essere attribuiti a robot o automi che si comportano come persone anche se non fanno esperienza di niente. La coscienza di un pipistrello

T7

Il problema dell’esperienza soggettiva di un pipistrello

Th. Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello?

La dimensione soggettiva della comprensione

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Per rendere intuitiva questa tesi Nagel ricorre all’esempio di una forma di coscienza diversa dalla nostra, quella dei pipistrelli, che posseggono un tipo di percezione il cui aspetto soggettivo – l’effetto che fa averlo – non è immaginabile e neanche comprensibile da chi non possegga lo stesso tipo di funzione percettiva, per quanto il meccanismo oggettivo fisiologico e funzionale che ne sta alla base sia perfettamente comprensibile in termini fisici. La sostanza della credenza secondo cui i pipistrelli hanno una esperienza è che fa un certo effetto essere un pipistrello. Ora sappiamo che molti pipistrelli (i microchiropteri, per essere precisi) percepiscono il mondo esterno principalmente con un ecogoniometro, o ecolocalizzatore, che scorge i riflessi che provengono dagli oggetti all’interno del loro raggio d’azione, attraverso le loro strida brevi, sottilmente modulate, a alta frequenza. I loro cervelli sono destinati a connettere gli impulsi esterni alle eco successive, e l’informazione così acquisita permette ai pipistrelli di farsi giudizi precisi della distanza, della forma, del movimento e della struttura comparabili ai giudizi che noi ci facciamo attraverso la vista. Ma l’ecogoniometro di un pipistrello, anche se è chiaramente una forma di percezione, non è simile, nel suo modo di funzionare, a uno qualsiasi dei nostri sensi, e non c’è ragione di supporre che sia soggettivamente simile a qualsiasi cosa di cui noi possiamo fare esperienza, o a qualsiasi cosa possiamo immaginare. Questo sembra creare difficoltà per la nozione dell’effetto che fa essere un pipistrello. Dobbiamo considerare se qualche metodo ci permette di estrapolare a partire dal nostro caso particolare la vita interiore del pipistrello, e, se non è così, quali metodi alternativi possono esservi per comprendere la nozione. La nostra esperienza particolare fornisce il materiale fondamentale per la nostra immaginazione, e il campo di essa è quindi limitato. Non servirà a niente cercare di immaginare che abbiamo membrane palmate sui nostri arti che ci permettono di volare qua e là al crepuscolo e all’alba acchiappando insetti con la bocca; che abbiamo una vista molto debole e percepiamo il mondo circostante con un sistema di segnali sonori riflessi a alta frequenza; e che passiamo la giornata appesi a testa ingiù in una soffitta. Per quanto io possa immaginarmi tutto questo (che non è molto), ciò mi dice soltanto che effetto farebbe a me comportarmi, come si comporta un pipistrello. Ma la questione non è questa. Io desidero sapere che effetto fa essere un pipistrello a un pipistrello. La questione del punto di vista risulta cruciale per il pipistrello come per la coscienza umana, e dunque un approccio nel quale, come nel discorso scientifico, il punto di vista risulti indifferente sembra comportare in questo caso problemi

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radicali. Qui il processo verso una migliore comprensione non sembra coincidere con quello verso un punto di vista sempre più neutrale.

T8

La comprensione dell’esperienza cosciente Th. Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello?

Irriducibilità dei fenomeni mentali?

Questo ha direttamente a che fare con il problema mente-corpo. Se i fatti dell’esperienza – fatti che riguardano che effetto fa l’esperienza per il soggetto che la prova – sono accessibili solo da un punto di vista, allora è un mistero come il vero carattere delle esperienze potrebbe essere rivelato nel funzionamento fisico di quell’organismo. […] È difficile capire cosa si potrebbe intendere per carattere oggettivo di un’esperienza, indipendentemente dal punto di vista particolare da cui il suo soggetto la percepisce. Dopo tutto, cosa resterebbe dell’effetto che fa essere un pipistrello se si rimuove il punto di vista del pipistrello? […] Sembra che siamo di fronte a una difficoltà generale della riduzione psicofisica. In altri campi il processo di riduzione è una mossa verso una maggiore oggettività, verso un punto di vista più accurato della reale natura delle cose. Questo avviene quando riduciamo la nostra dipendenza da punti di vista individuali, o specifici della specie, riguardo all’oggetto della nostra ricerca. Lo descriviamo non nei termini delle impressioni che fa sui nostri sensi, ma nei termini dei suoi effetti più generali e delle proprietà che possono essere scoperte con mezzi diversi dai sensi umani. Meno la ricerca dipende da un punto di vista specificamente umano, più la nostra descrizione è oggettiva. È possibile seguire questo percorso perché, sebbene i concetti e le idee che impieghiamo per riflettere sul mondo esterno siano inizialmente applicati da un punto di vista che implica il nostro apparato percettivo, noi li usiamo per fare riferimento a cose che sono al di là di essi – sulle quali abbiamo il punto di vista fenomenico. Di conseguenza possiamo abbandonare questo punto di vista a favore di un altro, e pensare ancora alle stesse cose. L’esperienza stessa, tuttavia, non sembra accordarsi con questo modello. L’idea di passare dall’apparenza alla realtà sembra non avere qui alcun senso. Che cos’è in questo caso analogo al perseguimento di una comprensione più oggettiva degli stessi fenomeni attraverso l’abbandono del punto di vista soggettivo iniziale adottato sui fenomeni in favore di un altro che è più oggettivo, ma riguarda la stessa cosa? Certamente sembra poco probabile che ci avviciniamo alla natura reale dell’esperienza umana lasciandoci dietro la particolarità del nostro punto di vista umano e andando alla ricerca di una descrizione in termini accessibili a esseri che potrebbero non immaginare che effetto fa essere noi. Se il carattere soggettivo della esperienza è pienamente comprensibile solo da un punto di vista, allora ogni spostamento verso una maggiore oggettività – vale a dire, un minore attaccamento a un punto di vista specifico – non ci porta più vicino alla reale natura del fenomeno: ce ne allontana ancor di più. La tesi di Nagel è stata ripresa nei suoi aspetti di fondo da altri autori, come appunto Searle o David Chalmers, ma, ben lungi da esaurire la discussione, è da altri autori vivacemente criticata e contestata, tra l’altro con l’osservazione che introdurrebbe una sorta di «mistero» insuperabile, poco compatibile con una visione razionale prima che scientifica dei fenomeni mentali. Essa ripropone in ogni caso la questione non tanto della possibilità di ricondurre la mente a processi meccanici o fisici, ma soprattutto quella se sia possibile com763

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prendere interamente la vita della mente sulla base esclusivamente di modelli scientifici e trascurando il ruolo in qualche misura cruciale e peculiare dei processi mentali rispetto a tutto ciò – le cose del mondo – che attraverso di essi e in essi si presenta.

I brani antologizzati sono tratti da: L. Wittgenstein, Libro blu e Libro marrone (1933-1934), Einaudi, Torino 1983. A.M. Turing, Calcolatori e intelligenza (1950), in D.R. Hofstadter / D.C. Dennett (a cura di), L’io della mente, Adelphi, Milano 1985. J.R. Searle, Menti, cervelli e programmi (1980), in D.R. Hofstadter / D.C. Dennett (a cura di), L’io della mente, Adelphi, Milano 1985. D.C. Dennett, Pensiero veloce (1987), in Id., L’atteggiamento intenzionale, il Mulino, Bologna 1987. Th. Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello? (1974), in Id., Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986.

Questionario 1

Cosa distingue il modello cartesiano dai modelli materialistici del rapporto tra mente e cervello? (max 4 righe)

2

Su che cosa è basato l’esperimento mentale di Leibniz contro la riduzione della mente a una macchina? (max 4 righe)

3

4

In che cosa consiste il nucleo del problema del rapporto tra pensiero e macchine, stando a quanto Wittgenstein argomenta in T1? (max 5 righe)

In che modo Dennett intende controbattere alla conclusione stabilita da Searle riguardo alla netta distinzione tra eventi mentali e manipolazione sintattica? (max 6 righe)

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Stando al brano riportato in T5, Dennett sostiene che Searle affronterebbe implicitamente un problema assai diverso da quello presentato esplicitamente. Di che genere di problema si tratta? (max 5 righe)

8

Perché – secondo quanto sostiene Nagel in T6 – l’esperienza cosciente non sarebbe riconducibile a nessuna spiegazione di tipo scientifico? (max 4 righe)

9

Che cosa comporta – secondo la prospettiva espressa da Nagel in T8 – il carattere essenzialmente soggettivo dell’esperienza cosciente ai fini della sua comprensione? (max 4 righe)

In che modo Turing si propone di riformulare in modo nuovo il problema del rapporto tra macchine e pensiero nel brano riportato in T2? (max 5 righe)

Qual è il punto principale su cui si concentra la critica di Searle alla prospettiva funzionalista, nel brano riportato in T3? (max 4 righe) 764

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo

1. Genesi e diffusione dello strutturalismo 1. De Saussure e il Circolo di Praga: la rivoluzione strutturalista in campo linguistico 2. Lévi-Strauss: la diffusione dello strutturalismo nelle scienze umane

3. Derrida e il decostruzionismo 1. Il primato della scrittura 2. Decostruzione e «differance» 3. Decostruzione etico-politica e «democrazia a venire»

2. Foucault 1. Archeologia del sapere e morte dell’uomo 2. Genealogia del potere, «assoggettamento» e «soggettivazione»

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Genesi e diffusione dello strutturalismo

1 I testi

C. Lévi-Strauss Il cotto e il crudo: Il pensiero senza soggetto, T1

Una corrente di pensiero di vasta influenza

1 Padri e precursori

A partire dalla fine degli anni cinquanta, in Francia si afferma – in opposizione alle filosofie che pongono al centro l’esistenza e il soggetto umano – una corrente di pensiero detta «strutturalismo», secondo la quale i fenomeni sociali e culturali non sono produzioni individuali, ma dipendono da strutture e processi anonimi sottostanti ad esse. Considerato da alcuni poco più che un’effimera moda culturale, lo strutturalismo ha invece progressivamente conquistato vasti consensi e un’influenza sempre maggiore in numerose discipline, nelle quali la metodologia strutturalistica si è imposta, per una certa fase, come l’impostazione più stimolante e al tempo stesso più rigorosa.

De Saussure e il Circolo di Praga: la rivoluzione strutturalista in campo linguistico Lo strutturalismo nasce nei primi decenni del Novecento entro l’area delle indagini linguistiche. Padre o precursore dell’indirizzo strutturalistico è considerato lo studioso svizzero Ferdinand de Saussure, che pure non utilizzò mai il termine «struttura», apparso invece per la prima volta nelle Tesi del Circolo linguistico di Praga (1929), opera dei tre studiosi russi R. Jakobson (1896-1982), S. Karcevskij (1884-1955) e N. Trubeckoj (1890-1938).

La vita e le opere Ferdinand de Saussure nacque a Ginevra il 26 novembre 1857, studiò in Svizzera, in Francia e in Germania. Dopo venti anni di insegnamento universitario a Parigi, si trasferì nel 1901 all’università di Ginevra dove ottenne l’istituzione della nuova cattedra di linguistica generale e proseguì la sua attività di insegnamento e di ricerca fino alla La distinzione fondamentale tra «lingua» e «parola»

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morte sopraggiunta il 22 febbraio 1913. Dai corsi tenuti a Ginevra derivò direttamente il suo capolavoro, il Corso di linguistica generale, pubblicato a cura di alcuni allievi. Per la sua concezione teorica e metodologica, de Saussure è considerato uno dei padri della linguistica moderna e dello strutturalismo. La sua opera principale è il Corso di linguistica generale.

De Saussure ha apportato un contributo fondamentale all’avvio dell’orientamento strutturalistico nel campo della linguistica, teorizzando la distinzione tra due livelli all’interno del linguaggio: 1) la lingua (langue), come insieme limitato di vari raggruppamenti fonici e codice delle regole che presiedono alle combinazioni possibili di tali fonemi; 2) la parola (parole), che costituisce l’esecuzione in-

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo

dividuale delle regole della lingua, e può provocare cambiamenti in essa, nel corso della storia. De Saussure individua il compito della linguistica nello studio della lingua, non sotto il profilo diacronico – cioè nella sua evoluzione storica – bensì in modo sincronico, cioè come compresenza e «sistema dei segni» che la costituiscono in uno stato dato. L’arbitrarietà del segno Il «segno» è per de Saussure non la relazione tra una cosa e un nome, bensì tra un suono – che egli definisce significante – e un concetto, detto significato: questa unione non è né un rapporto necessario, prodotto meccanicamente dalla realtà fisica, né il frutto di una libera scelta, bensì un legame del tutto arbitrario, come è provato dal fatto che in lingue diverse sono usati suoni diversi in riferimento allo stesso significato. Il segno Segno

=

{

Significante (suono) + Significato (concetto)

Il segno nella teoria di de Saussure è l’unione del significante con il significato, costituita arbitrariamente.

La teoria di de Saussure e i suoi sviluppi a opera del Circolo di Praga costituiscono una vera e propria rivoluzione teorica rispetto all’indirizzo precedentemente dominante nel campo della linguistica, che fino a quel momento – partendo dalla concezione del linguaggio come elaborazione volontaria di individui storicamente e socialmente determinati – aveva considerato i fenomeni linguistici nel loro intreccio con i fattori storico-sociali, utilizzando un metodo empiristico e storicistico, attento cioè al divenire dei fenomeni esaminati e rivolto alla descrizione di fatti particolari più che alla enucleazione di leggi generali. La rivoluzione Di contro, pur con divergenze interne anche sensibili, la nuova scuola strutturastrutturalista lista – sviluppando le indicazioni di de Saussure sul linguaggio come lingua, cioè in linguistica come ‘sistema’ o ‘struttura’ di segni arbitrari indipendente dalla coscienza dei soggetti parlanti e dotato di una legalità logica immanente non condizionata dal divenire storico-temporale e dal contesto sociale – studia i fenomeni linguistici non nella loro singolarità, bensì come elementi di un sistema, avvalendosi di un metodo radicalmente diverso rispetto a quello empiristico e storicistico, fondato sull’analisi sincronica e su procedure formali volte a enucleare la struttura eminentemente logica del sistema ‘lingua’.

I precedenti: la linguistica storico-sociale

2 Lévi-Strauss e le scienze dell’uomo

Lévi-Strauss: la diffusione dello strutturalismo nelle scienze umane Il principale propulsore della diffusione dello strutturalismo nelle scienze umane è stato l’antropologo Claude Lévi-Strauss, che ha dedicato gran parte della propria attività intellettuale allo sforzo di rifondare su basi strutturalistiche non solo le discipline etnico-antropologiche, ma anche più in generale la scienza delle elaborazioni socioculturali dell’uomo. 767

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La vita e le opere Claude Lévi-Strauss, nato a Bruxelles da genitori francesi di origine ebraica il 28 novembre 1908, si trasferì con la famiglia a Parigi dove, dopo gli studi alla Sorbona, si laureò in filosofia nel 1931. Negli anni trenta insegnò filosofia nei licei iniziando a interessarsi di scienze umane, in particolare di sociologia e di etnologia. Nel 1935 accettò un incarico di insegnamento di sociologia in Brasile, dove iniziò le sue ricerche sul campo. Di queste i risultati confluirono molti anni dopo nel volume Tristi tropici (1955). Tornò in Francia nel 1939, ma due anni dopo, a causa delle persecuzioni antisemite, emigrò negli Stati Uniti dove insegnò sociologia e frequentò molti studiosi europei in esilio, tra cui il linguista Roman Jakobson (18961982), che fu con lui uno dei principali esponenti dello strutturalismo. Nel 1949 pubblicò Le strutture elementari della parentela, che divenne una delle sue opere mag-

L’antropologia e le altre scienze: sociologia, linguistica

Verso un’antropologia scientifica: la ricerca di leggi universali

La struttura come sistema di leggi inconsce

L’oggettività della struttura ➥ Laboratorio sul lessico, Oggettivo / soggettivo, p. 469

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giori. Come fondatore dell’antropologia strutturale e punto di riferimento teorico e metodologico per studiosi di varie discipline ottenne, negli anni successivi, una notevole attenzione dentro e fuori il mondo accademico. Negli anni sessanta divenne molto noto dopo la pubblicazione del suo saggio sul Pensiero selvaggio (1962) che ne fece un protagonista dei dibattiti culturali dell’epoca (si ricorda la sua polemica con Jean-Paul Sartre). Successivamente si diede allo studio delle mitologie e nel 1973 ottenne un alto riconoscimento pubblico con l’elezione a membro dell’Académie Française, seguito da altri premi e riconoscimenti tra cui la Legion d’Onore. Negli anni novanta, ormai anziano, ha pubblicato scritti autobiografici e sull’arte. Tra le opere principali di Claude Lévi-Strauss si annoverano quelle già ricordate sopra: Le strutture elementari della parentela; Tristi tropici; Pensiero selvaggio; Mitologiche (quattro volumi).

Lévi-Strauss coniuga alcune istanze della scuola sociologica di Durkheim e Marcel Mauss – fondata sull’assunto che i fenomeni socioculturali non siano spiegabili come espressioni di scelte o istinti individuali, bensì in termini di rappresentazioni collettive, frutto cioè di una mente collettiva – con i principi metodologici della linguistica strutturalistica del Circolo di Praga che soli, ai suoi occhi, possono sollevare l’antropologia e le altre discipline umanistiche al rango di una scienza vera e propria. Per essere tale, l’antropologia deve puntare, come tutte le altre scienze rigorose, a individuare leggi formali valide per classi universali di fenomeni. Quest’obiettivo è conseguibile, agli occhi di Lévi-Strauss, solo se si analizzano gli elementi della realtà etno-antropologica allo stesso modo in cui la linguistica di Praga ha indagato i fonemi, cioè considerandoli come parte di un sistema di regole e relazioni sincroniche, indipendente dal divenire storico e da eventuali fattori e condizionamenti esterni. Rispetto alla linguistica strutturalista, il pensiero di Lévi-Strauss si contraddistingue per la forte accentuazione del carattere inconscio delle leggi che presiederebbero ai fenomeni linguistici e antropologici: partendo da questo presupposto, egli concepisce il compito dell’antropologo come la ricerca delle strutture invarianti ‘profonde’ – cioè inconsce – che organizzano e reggono il complesso, apparentemente caotico e insensato, dei fenomeni superficiali. Nonostante il loro carattere astratto e logico-matematico, queste strutture invarianti non sono, per Lévi-Strauss, delle pure e semplici forme, elaborate in maniera arbitraria dal ricercatore e separate dai contenuti del mondo reale, ma sono piuttosto immanenti e inerenti ad essi. Questa concezione non va, però, confusa con un realismo ingenuo, che intenderebbe le strutture alla stregua delle ‘forme’ aristoteliche, cioè come realtà oggettivo-naturali situate davanti al soggetto e attingibili attraverso procedure empirico-sperimentali. Piuttosto, secondo Lévi-Strauss le strutture sono sì nelle cose, ma solo a un certo livello della riflessione, cioè al livello di una ricerca logicoformale molto complessa, opera della mente umana: semplicemente, dal momento che nella prospettiva strutturalista la mente umana non è soggettività cosciente – bensì è essa stessa espressione della natura, in quanto sottoposta a leg-

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Antiumanesimo e antistoricismo

Il mito come prodotto di un pensiero collettivo inconscio

T1

Il pensiero senza soggetto C. Lévi-Strauss, Il cotto e il crudo

gi inconsce – la scoperta delle strutture a opera del ricercatore non è una costruzione soggettiva arbitraria, bensì la rivelazione di regole e strutture che reggono al tempo stesso sia il soggetto sia l’oggetto, sia la cultura sia la natura. L’enfasi posta da Lévi-Strauss sul primato dell’inconscio collettivo nella genesi sia della realtà etno-antropologica sia delle produzioni culturali umane ha per conseguenza l’assunzione di una prospettiva marcatamente antiumanistica e antistoricistica. L’accentuazione del ruolo dell’inconscio collettivo ha, infatti, come conseguenza il ridimensionamento e la marginalizzazione delle nozioni di soggettività e di coscienza, cioè quegli attributi in base ai quali una lunga e consolidata tradizione filosofica aveva sostenuto la centralità dell’uomo nell’universo. Questo approccio anti-umanistico emerge in modo chiaro, in particolare, nell’analisi strutturale dei miti – cui è dedicata la tetralogia intitolata Mitologiche – condotta nel deliberato intento di dimostrare come perfino i miti, comunemente considerati il frutto di una libera inventività sociale, siano invece il risultato necessario di leggi e strutture inconsce collettive e universali. Coloro che elaborano il mito e credono in esso naturalmente non sono consapevoli di queste leggi e strutture che presiedono al loro pensiero e alla loro credenza: una simile consapevolezza annullerebbe la loro fede nel racconto mitologico, così come, se i soggetti parlanti fossero coscienti delle leggi grammaticali e foniche che applicano in ogni momento del loro parlare, smarrirebbero il filo del discorso. L’analisi strutturalistica sia del linguaggio sia dei miti costituisce dunque una prova del fatto che gli uomini non agiscono bensì sono agiti da forze e forme di cui non sono padroni né tanto meno coscienti: non sono gli uomini a pensare i miti, bensì i miti a pensarsi negli uomini, secondo regole logiche inconsce e universali. Ciò che vale per il linguaggio vale anche per i miti: il soggetto che nel discorrere applicasse coscientemente le leggi fonologiche e grammaticali, ammesso che egli possieda la scienza e la capacità necessarie, perderebbe però quasi subito il filo delle sue idee. Allo stesso modo, l’esercizio e l’uso del pensiero mitico esigono che le sue proprietà rimangano celate: altrimenti ci si metterebbe nella posizione del mitologo, che non può credere ai miti per il fatto che si applica a selezionarli. L’analisi mitica non ha e non può avere il fine di mostrare come pensino gli uomini. […] Noi non pretendiamo quindi di pensare come gli uomini pensino nei miti, ma viceversa come i miti si pensano negli uomini, e a loro insaputa. Struttura profonda e regole inconsce

Pensiero soggettivo (coscienza individuale)

Strutture profonde del pensiero (regole logiche inconsce e universali)

La critica allo storicismo

Strettamente intrecciata con questa impostazione anti-umanistica è la polemica anti-storicistica, che contraddistingue soprattutto le ultime opere di Lévi-Strauss e che vede nel privilegiamento della storicità e, soprattutto, in un certo modo di considerare la storia – continuistico, progressivo e teleologico – il correlato delle concezioni umanistiche-coscienzialistiche: una volta marginalizzato il ruolo 769

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I ‘civili’ e i ‘selvaggi’: società calde e fredde

La ricerca del progresso non è una necessità ➥ Sommario, p. 786

dell’attività libero-cosciente dell’uomo, anche la dimensione storica di quest’attività perde rilievo, in quanto la storia è ridotta a mero epifenomeno dello «spirito», inteso come insieme di strutture invarianti di operatori logici e di regole formali di comportamento, che guidano universalmente e inconsciamente l’azione di qualsiasi comunità o soggetto umano. Il rifiuto e la critica dei motivi centrali del pensiero storicistico sfociano in LéviStrauss nell’esaltazione della saggia barbarie dei primitivi, della purezza delle origini e del mondo dei selvaggi, in contrapposizione al mondo civile. Pur non negando l’enorme progresso compiuto dall’umanità grazie a determinate invenzioni e scoperte, egli formula, infatti, un giudizio sostanzialmente negativo sul senso di questo cammino: le società occidentali – definite da Lévi-Strauss «società calde» – hanno privilegiato un’attività e un dinamismo ciechi, alla base di una storia cumulativa che ha costi molto alti, come lo spreco di energie, i continui conflitti o le ripetute violenze della cultura sulla natura; da esse si distinguono le ‘società primitive’ – denominate «società fredde» – che hanno resistito alle modificazioni, imprimendo un carattere stazionario alla loro storia. Attraverso la distinzione tra società calde e fredde, Lévi-Strauss abbandona l’equazione tra storia, umanità e progresso, propria della tradizione storicistica: la storia è solo una delle scelte possibili che gli uomini possono compiere, e non è affatto detto che sia la migliore.

Foucault

2 I testi

M. Foucault Le parole e le cose (Intervista con Raymond Bellour): L’«archeologia» e le condizioni di possibilità della conoscenza, T2

Una figura poliedrica

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Nella temperie culturale dello strutturalismo matura in Francia Michel Foucault, figura intellettuale poliedrica – difficilmente etichettabile o inquadrabile all’interno di una corrente di pensiero e persino di una disciplina – che con i suoi scritti e la sua vita ha suscitato e continua tuttora a provocare numerosi e accesi dibattiti.

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La vita e le opere Michel Foucault nacque a Poitiers il 15 ottobre 1926. Figlio di un medico, studiò presso scuole cattoliche, tra cui il Lycée Henri IV di Parigi dove trovò come insegnante di filosofia Jean Hyppolite, autorevole interprete di Hegel. Nel 1946 fu ammesso alla Scuola Normale Superiore, dove ebbe tra i suoi insegnanti due filosofi di primo piano come Maurice Merleau-Ponty e Louis Althusser. Gli anni dello studio universitario furono molto intensi sul piano personale, segnati da una crisi depressiva. Foucault riuscì comunque a ottenere la licenza in filosofia e in psicologia all’università della Sorbona e conobbe da vicino le principali correnti filosofiche della Francia dell’epoca, dalla fenomenologia allo strutturalismo, oltre alle opere di Nietzsche e Heidegger. Si avvicinò alla riflessione sulle questioni politiche attraverso Althusser e nei primi anni cinquanta fu iscritto al Partito comunista francese. Negli anni successivi si occupò di psicologia e lavorò in alcuni Istituti di cultura francese all’estero. Nel 1961 ottenne il dottorato con una tesi che nello stesso anno pubblicò in volume come Storia della follia nell’età classica. Insegnò psicologia all’università di Clermont Ferrand, poi per tre anni insegnò filosofia in Tunisia. Nella primavera del 1968 si trovò lontano dalla contestazione, ancora in Tunisia, ma in giugno rientrò in Francia per partecipare Una formazione variegata

Un pensiero in costante trasformazione

Un nucleo costante: il soggetto tra sapere e potere

La filosofia e l’attualità: «impegno» e «militanza»

alla fondazione di un nuovo centro universitario interdisciplinare a Vincennes e si schierò dalla parte degli studenti. Nel 1970, quando erano già stati pubblicati tra gli altri Le parole e le cose e l’Archeologia del sapere, Foucault ottenne al Collège de France la cattedra di Storia dei sistemi di pensiero, succedendo al suo ex insegnante Jean Hyppolite. Negli anni settanta Foucault fu molto attivo in varie iniziative sociali e politiche, tra cui la fondazione del GIP (Gruppo d’Informazione sulle Prigioni). Viaggiò molto e fu tra l’altro a Teheran nel 1978 quando le manifestazioni di protesta contro lo scià stavano preparando la rivoluzione islamica iraniana. Fu molto attento alle questioni relative all’immigrazione e ai diritti dei rifugiati, che riconosceva come uno dei temi di maggiore importanza per la storia successiva dell’umanità. Nel 1981 comunque rifiutò di aderire agli appelli per la campagna elettorale del socialista Mitterrand, convinto che gli intellettuali non debbano ergersi a ‘direttori di coscienza’ in tali frangenti. Nel 1984 la salute di Foucault iniziò a declinare, finché il filosofo si spense il 25 giugno. Tra le opere principali di Foucault vanno ricordati almeno: Storia della follia nell’età classica; Nascita della clinica; Le parole e le cose; Archeologia del sapere; Sorvegliare e punire e i tre volumi della Storia della sessualità: La volontà di sapere, L’uso dei piaceri e La cura di sé.

Il carattere multiforme del pensiero di Foucault deriva innanzitutto dalla formazione universitaria e post-universitaria, nella quale convergono elementi eterogenei: il confronto critico con Hegel – mediato dall’insegnamento di Jean Hyppolite, interprete autorevole della Fenomenologia dello spirito – e la lettura di Heidegger, Husserl e Nietzsche; l’incontro con lo strutturalismo; il contatto con la scuola storica delle Annales; lo studio della psicologia, praticata – dopo il conseguimento del diploma di licence – presso il laboratorio di elettro-encefalografia dell’ospedale psichiatrico di Saint-Anne, lo stesso nel quale aveva in precedenza trascorso un periodo di ricovero per un’acuta depressione. La molteplicità di direzioni della formazione foucaultiana riflette un temperamento inquieto nei confronti della realtà che è alla base di un pensiero in continua trasformazione, pronto a rimettersi costantemente in discussione, fino alla morte prematura: per Foucault, infatti, la filosofia non consiste «nel legittimare ciò che si sa, ma nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso». Al di là e al di sotto di quest’incessante lavoro di ripensamento e trasformazione, è tuttavia possibile individuare un nucleo costante al centro dell’indagine e dell’interesse di Foucault: la questione delle leggi e regole inconsapevoli che presiedono al processo di costituzione del soggetto umano, nel circolo del reciproco condizionarsi di sapere e potere. Su questo plesso di problemi, Foucault porta avanti una ricerca che, pur essendo fondata su principi metodologici e teorici di carattere filosofico, è sempre calata nel concreto di una data realtà storica, presa in esame su scala microscopica, allo scopo di evitare astratte generalizzazioni. Tutti gli studi di Foucault, anche quando consistono in una ricostruzione del passato vicino o remoto, hanno un rapporto diretto e un forte orientamento verso l’attualità, nei cui riguardi l’indagine del filosofo francese vuole essere al tempo 771

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

stesso diagnosi critica e intervento. In questa prospettiva, è possibile definire il suo pensiero una filosofia «militante», a condizione di non confondere questa etichetta con le comuni categorie di «impegno intellettuale» e politico, che egli ha costantemente rigettato: dopo una breve adesione al Partito comunista francese, Foucault si è, infatti, sempre rifiutato di schierarsi pubblicamente a favore di un partito, nella convinzione che simili prese di posizione abbiano in sé qualcosa di autoritario, non di critico, e che l’intellettuale non debba erigersi a ‘direttore di coscienza’ elettorale.

1 L’«archeologia» come filo conduttore delle prime opere

Alla ricerca dei saperi impliciti

«Archeologia» e storia della follia

Ragione e follia

Archeologia del sapere e morte dell’uomo Nonostante le differenze tematiche e anche teoriche, nei primi scritti di Foucault è possibile rinvenire un filo conduttore unitario, costituito dalla nozione di «archeologia»: il termine, presente già nella prefazione della Storia della follia, compare poi nel sottotitolo sia della Nascita della clinica sia di Le parole e le cose – che sono rispettivamente Archeologia di uno sguardo medico e Archeologia delle scienze umane – fino a dare il titolo allo scritto che ne offre la chiarificazione teorica più matura, cioè L’archeologia del sapere. Con l’espressione «archeologia» Foucault non intende una disciplina separata dalle altre, ma un orientamento di ricerca che non tematizza in maniera diretta conoscenze, istituzioni e pratiche, bensì cerca di portare alla luce il ‘sapere implicito’ – cioè il sistema inconscio e anonimo di regole – che ai suoi occhi costituisce la condizione di possibilità delle opinioni, delle dottrine e dei comportamenti diffusi in una data società. Per esempio, l’obiettivo della Storia della follia non è la ricostruzione dello sviluppo della follia come fenomeno già dato e individuato dalla psicopatologia, né tanto meno la registrazione delle diverse accezioni assunte dal concetto di «follia» in diverse epoche, secondo il metodo dello storicismo tradizionale. Foucault mira, piuttosto, a risalire dalle pratiche d’internamento dei malati di mente, iniziate nella metà del Seicento, al sapere implicito che le ha rese possibili: il sapere dell’età classica (secondo la periodizzazione francese) – espresso in maniera paradigmatica nelle Meditazioni di Cartesio – contraddistinto dalla netta separazione tra ragione e follia, nel Medioevo e nel Rinascimento ancora considerata come incarnazione della verità oscura della vita umana. Il linguaggio della psichiatria è un monologo della ragione «sulla follia» – e non un dialogo tra le due – che è fiorito proprio sulla condanna al silenzio di quest’ultima: piuttosto che tracciare la storia del linguaggio psichiatrico, Foucault si propone di redigere l’‘archeologia’ di questo ‘silenzio’. Pratiche d’internamento dei ‘folli’ (creazione dei manicomi) Psichiatria = discorso della ragione sulla follia

Silenzio della follia

Ragione che esclude la follia (XVII secolo)

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo

T2

L’«archeologia» e le condizioni di possibilità della conoscenza M. Foucault, Le parole e le cose (Intervista con Raymond Bellour)

Con archeologia vorrei designare non esattamente una disciplina, ma un campo di ricerca, che sarebbe il seguente. In una società le conoscenze, le idee filosofiche, le opinioni di tutti i giorni, ma anche le istituzioni, le pratiche commerciali e poliziesche, i costumi, tutto rimanda a un certo sapere implicito proprio di queste società. Questo sapere è profondamente diverso dalle conoscenze che si possono trovare nei libri scientifici, nelle teorie filosofiche, nelle giustificazioni religiose, ma è esso a rendere possibile in un dato momento la comparsa di una teoria, di un’opinione, di una pratica. Così, perché alla fine del XVIII secolo venissero aperti in tutta Europa grandi centri di internamento, è servito un certo sapere della follia opposto alla non-follia, dell’ordine opposto al disordine: è questo sapere che ho voluto interrogare, come condizione di possibilità delle conoscenze, delle istituzioni e delle pratiche.

Il progetto archeologico foucaultiano ha un’evidente matrice kantiana che lo stesso Foucault ha riconosciuto, dichiarando, in un intervento apparso su una rivista francese all’inizio degli anni settanta, di avere ripreso il termine «archeologia» da Kant, che lo aveva impiegato nel saggio I progressi della metafisica in Germania dai tempi di Leibniz e Wolff (1793), per designare la «storia di quel che rende necessaria una determinata forma di pensiero». Più in generale, si può dire che, come la filosofia trascendentale kantiana si era proposta di enucleare – attraverso l’indagine sulle forme a priori della nostra conoscenza – le condizioni di possibilità dell’esperienza, la ricerca archeologica foucaultiana mira a risalire dal livello concreto dell’esperienza e del sapere alle condizioni della sua costituzione. Foucault modifica, però, il progetto di critica kantiano in alcuni punti fondamentali, che è opportuno mettere adeguatamente in rilievo: 1) in primo luogo, contro l’universalismo kantiano egli insiste sul carattere storico e concreto delle condizioni che hanno reso possibile l’affermazione di un certo sapere e di una certa esperienza: a questo scopo, egli adopera spesso la nozione di ‘a priori’, accompagnandola però sempre con l’aggettivo «storico» o «concreto»; 2) in secondo luogo, mentre Kant mirava a individuare le condizioni a priori della conoscenza autentica, Foucault si allontana da ogni prospettiva prescrittiva, sospendendo il giudizio sul valore di verità dei saperi o delle pratiche di cui si propone di indagare l’archeologia; 3) infine, per Foucault le condizioni di possibilità dell’esperienza non sono le forme della facoltà conoscitiva del soggetto: al contrario, egli rifiuta ogni analisi che ponga al centro il soggetto, sia empirico sia trascendentale. Il decentramento Il decentramento del soggetto riceve un’espressione paradigmatica in Le parole e del soggetto umano le cose. Innanzitutto, una delle tesi fondamentali del libro – deliberatamente polemica e provocatoria – è che l’uomo così come lo intendono i vari umanesimi, cioè come soggetto unitario fondatore di senso, sia «un’invenzione recente», che ha alle sue spalle appena due secoli di storia: esso è il principio distintivo dell’‘episteme’ moderna – iniziata alla fine del XVIII secolo – rispetto a quella del Rinascimento, retta dal principio della somiglianza, e a quella dell’età classica, fondata sul principio della rappresentazione secondo un dato ordine, ma priva di ogni riferimento a un soggetto in grado di unificare sinteticamente le varie funzioni del rappresentare. L’episteme moderna, ponendo al suo centro l’uomo inteso come soggettività autocosciente – cioè come attività di riflessione su di L’archeologia di Foucault e il criticismo di Kant

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La nascita delle scienze umane e la «morte dell’uomo»

Il rifiuto della concezione della storia come evoluzione continua

La storicità della struttura

Il «sapere» come «discorso»

Analisi foucaultiana del discorso e analisi strutturale della lingua

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sé – ha fatto di esso al tempo stesso il soggetto e l’oggetto del sapere, rendendo così possibile la nascita delle scienze umane. Ben lungi dal segnare l’apoteosi dell’uomo o del soggetto, lo stesso sviluppo delle scienze umane ne ha al contrario preparato la morte: nell’orientamento ad esse impresso dallo strutturalismo, le contro-scienze della psicoanalisi, dell’etnologia e della linguistica, formatesi ai margini del discorso antropologico, hanno lasciato emergere le strutture che determinano dall’esterno la coscienza umana – come l’inconscio o il sistema di regole anonime e formali del linguaggio – mettendo così in causa la capacità cognitiva del soggetto autocosciente. Riallacciandosi esplicitamente allo strutturalismo, Foucault conclude, dunque, la propria indagine archeologica sulle scienze umane formulando un programma, poi divenuto celebre, di sovversione della filosofia del soggetto moderno: nella prospettiva foucaultiana, il vuoto lasciato da questa «morte dell’uomo» non costituisce, infatti, una lacuna da colmare, ma al contrario l’«apertura di uno spazio» entro il quale di nuovo si può e si deve pensare, superando i limiti angusti dell’umanesimo. In Foucault, come in tutti gli esponenti di spicco dello strutturalismo, la polemica antiumanistica è unita a un’altrettanto aspra polemica antistoricistica. Foucault in particolare rifiuta nettamente la concezione storicistica della storia come progresso e come evoluzione continua. Il filosofo francese distingue, nel corso della storia, diverse epoche – il Rinascimento, l’età classica e la modernità – che hanno alla loro base una differente ‘episteme’; la successione delle epoche non rappresenta, però, ai suoi occhi un progresso conoscitivo e non avviene in modo continuo, bensì si produce tramite forti rotture. Quanto appena detto, tuttavia, lascia emergere in modo chiaro anche la divergenza fondamentale dell’approccio foucaultiano da quello degli strutturalisti: a differenza di questi ultimi, Foucault non si propone di individuare strutture invariabili e intemporali, bensì strutture storiche, come l’episteme, che variano nel tempo e che di conseguenza non si possono intendere come un sistema chiuso di regole, bensì soltanto come insiemi eterogenei composti da elementi molteplici e aperti in diverse direzioni. Lo stesso Foucault ha espressamente insistito sugli elementi distintivi della propria indagine archeologica rispetto all’impostazione strutturalista, soprattutto ne L’archeologia del sapere. Il termine «sapere», che compare nel titolo dell’opera, non designa né determinate discipline né il conoscere in generale: non si tratta del prodotto di un soggetto cosciente, ma del «discorso», che Foucault intende come insieme anonimo di serie di enunciati che si sono storicamente presentate. L’archeologia del sapere consiste dunque in un’analisi del discorso che, però, differisce in maniera costitutiva – come Foucault tiene a rimarcare – dall’analisi formale della «lingua» compiuta dagli strutturalisti. Questi ultimi prendono in considerazione il complesso di regole in base al quale diventa possibile un numero illimitato di enunciati, ossia, nei termini di de Saussure, la lingua come «distinta» dalla «parola». L’analisi foucaultiana del discorso descrive invece gli «enunciati» effettivamente pronunciati, sforzandosi di enucleare «l’archivio» o il complesso di regole anonime che, all’interno di una data cultura, hanno fatto sì che siano comparsi proprio quegli enunciati e non altri. L’indagine archeologica sul sapere come discorso mira in altri termini a disseppellire le regole che in una certa società definiscono «i limiti e le forme di dicibilità», cioè determinano di che cosa si può parlare e in che modo è possibile parlarne.

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo Foucault, lo strutturalismo e la storia

Strutturalismo

Foucault

Antisoggettivismo

Antisoggettivismo

Antistoricismo

Antistoricismo

La struttura è astorica (fuori dal tempo)

La struttura è a priori storico

Punti in comune

Divergenza

2 Il discorso come sistema autosufficiente

Una nuova prospettiva: il potere come tentativo di controllare il discorso

Dall’archeologia alla genealogia

Foucault e Nietzsche

Genealogia del potere, «assoggettamento» e «soggettivazione» Nell’Archeologia del sapere Foucault prende in considerazione i discorsi come insiemi autosufficienti e autoregolantisi, non riconducibili a una causa esterna – come le condizioni storico-economiche o lo spirito dei tempi – né tanto meno a un fondamento unitario altrettanto estrinseco, come il soggetto o l’autore: e questo a partire dal presupposto che i discorsi non siano sistemi di segni che rinviano ad altro, bensì piuttosto pratiche che formano non solo gli oggetti di cui parlano ma, in una certa misura, anche i soggetti che li pronunciano. A partire dalla lezione inaugurale al Collège de France, intitolata L’ordine del discorso, Foucault sposta invece la propria attenzione dalle pratiche discorsive all’insieme di procedure, più o meno scoperte, attraverso le quali il potere mira a controllare il discorso – in quanto sua componente costitutiva – escludendo da esso alcuni soggetti o delimitando il campo di ciò che si può dire, attraverso l’interdetto o anche attraverso la semplice opposizione tra vero e falso. Sulla base di queste premesse, Foucault dedica gli studi successivi degli anni settanta – i cui risultati principali sono contenuti in Sorvegliare e punire e in La volontà di sapere – all’approfondimento del significato e delle modalità delle relazioni di potere. A questo spostamento tematico corrisponde un mutamento di impostazione. Una volta focalizzata l’attenzione sul «potere», la questione non è più quella di enucleare – come nelle indagini archeologiche – le strutture di sapere anonime che sono alla base della regolarità dei discorsi pronunciati e delle diverse scienze praticate. Si tratta piuttosto di comprendere e mostrare in che modo, nel corso della storia, si sono concretamente affermati – nella lotta con i loro antagonisti – determinati discorsi, espressione di determinate forme di potere: a questo scopo, Foucault ritiene necessario il passaggio dall’archeologia a quella che egli definisce «genealogia». Il termine «genealogia» è di chiara e dichiarata matrice nietzscheana. Nietzsche (vedi Unità 5, p. 197 ss.) lo aveva utilizzato per designare la propria ricerca critica sulla genesi dei concetti chiave della morale occidentale, che – riducendoli al frutto di un rovesciamento dei valori, corrispondente al capovolgimento dei rapporti di forza tra nobili e caste sacerdotali – mirava a confutarne il valore assoluto. Il progetto genealogico foucaultiano riprende da Nietzsche in primo luogo l’idea che la storia – e in particolare la storia del potere – sia la storia dell’emergere di una forza a scapito di altre, attraverso uno scontro il cui esito non può essere anticipato, in quanto non risponde a nessuna teleologia, bensì espri775

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La storia senza soggetto

Il potere come rete produttiva

La diffusione del potere nella vita quotidiana

Il soggetto, la cultura e il potere

me semplicemente la vittoria della ‘volontà di potenza’ e della volontà di sapere più energica. Partendo da questi presupposti, Foucault intende la genealogia come un’indagine storica che non ricerca un’origine sovra-storica e metafisica degli eventi, ma piuttosto la loro ‘provenienza’ e la loro ‘emergenza’ a partire da innumerevoli e molteplici possibilità differenti, in un gioco dinamico sempre aperto di confronto tra forze e pulsioni, che non hanno nulla a che fare con la soggettività autocosciente. Questo ridimensionamento del ruolo del soggetto nella dinamica degli eventi storici è il secondo motivo alla base del richiamo a Nietzsche, feroce critico della soggettività: Foucault stesso afferma, infatti, di utilizzare il termine nietzscheano «genealogia» per designare una «forma di storia» che, attraverso l’analisi della meccanica del potere, renda conto della formazione di saperi e campi di oggetti, senza avere bisogno di riferirsi a un soggetto al di là e al di sopra degli avvenimenti studiati. L’individuazione della genealogia come l’unico strumento adeguato per lo studio del potere ha alla sua radice una peculiare concezione di quest’ultimo. Foucault rigetta, infatti, la concezione tradizionale e oggettivante del potere come istanza coattiva centralizzata, contraddistinta in maniera essenziale dalla funzione di interdire, di porre dei limiti: concezione ‘giuridico-negativa’ del potere espressa emblematicamente dal modello hobbesiano del Leviatano, ma operante anche nella psicoanalisi freudiana, che ingenuamente vede l’autorità paterna come un’autorità fondata essenzialmente sulla repressione o inibizione degli istinti. A questa visione Foucault contrappone una visione ‘tecnico-positiva’ del potere come «rete produttiva»: «rete», in quanto il potere – ben lungi dall’essere localizzato esclusivamente nei detentori della sovranità – è immanente a ogni forma di relazione sociale, al punto che anche la resistenza che gli si oppone fa parte dei giochi che lo costituiscono; «produttiva», in quanto esso non è soltanto una potenza che dice no, bensì un’istanza positiva che si regge solo in quanto induce piacere, forma discorsi, produce sapere. Coerentemente con questi presupposti, negli anni settanta Foucault concentra la propria attenzione sui meccanismi infinitesimali attraverso i quali il potere-sapere si diffonde in ogni aspetto della vita quotidiana: le tecniche, le procedure e l’applicazione delle strategie del potere a livello locale costituiscono la tipologia di problemi che egli definisce «microfisica del potere». Quest’ultima deve ai suoi occhi fungere da punto di partenza per un’analisi ascendente, che mostri in quale modo i meccanismi di potere disseminati nella società vengano trasformati ed estesi in forme di dominazione globale, come per esempio lo Stato. È in questa prospettiva che Foucault prende in considerazione i meccanismi di esclusione, gli apparati di sorveglianza, la nascita dell’istituzione carceraria, la medicalizzazione della sessualità, nell’intento di cogliere l’«istanza materiale dell’assoggettamento in quanto costituzione dei soggetti», cioè il modo in cui il potere si inscrive nel corpo e nella mente del soggetto, indirizzandolo a una certa forma di auto-consapevolezza e a vivere in maniera conforme a determinate esigenze. Valori e istituzioni culturali Lotta tra poteri per affermarsi

Assoggettamento dell’individuo

Il potere come rete produttiva diffusa

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Negli anni immediatamente antecedenti alla morte, l’asse della ricerca foucaultiana subisce infine un lento spostamento verso un nuovo campo di problemi. Mentre gli studi precedenti avevano messo a fuoco le pratiche di ‘assoggettamento’ – attraverso le quali il sapere-potere costituisce l’individuo come oggetto di una sorveglianza capillare –, le ultime ricerche si concentrano invece sulle tecniche di soggettivazione, attraverso le quali gli esseri umani si riconoscono come ‘soggetti’ che, pur appartenendo a un concreto sistema di relazioni di potere, ne rappresentano anche un limite e una potenziale fonte di resistenza. Le tecnologie del sé Accanto alle forme di dominio e ‘governo degli altri’, l’ultimo Foucault prende dunque in considerazione anche le estrinsecazioni di libertà ad esse complementari: quelle che egli definisce le «tecnologie del sé», intendendo con questa espressione l’insieme di pratiche che consentono agli individui di eseguire sul proprio corpo e sulla propria anima un certo numero di operazioni, tali da portare a una trasformazione di se stessi che sottrae all’assoggettamento. A differenza di molti degli esponenti di spicco dello strutturalismo, Foucault prevede e cerca in qualche modo di promuovere la possibilità, da parte del soggetto, di andare al di là della struttura che lo domina. Il disassoggettamento Il ‘disassoggettamento’ teorizzato e auspicato da Foucault è, però, qualcosa di molto diverso dagli ideali utopici di liberazione vagheggiati dalle grandi ideologie come il marxismo. Esso non è rivolto contro un unico grande nemico, ma piuttosto contro i molteplici rapporti di potere – diffusi su scala locale – che sono più immediati, più vicini al soggetto. La liberazione da tali rapporti di potere non è quindi un obiettivo lontano, da rinviare all’avvenire, ma un traguardo raggiungi➥ Sommario, p. 786 bile e che va raggiunto il più presto possibile. Un nuovo campo di problemi: la soggettivazione

Derrida e il decostruzionismo

3 I testi

J. Derrida Le politiche dell’amicizia: Fraternità, amicizia e «democrazia a venire», T3 La decostruzione

Accanto a Foucault, la figura più significativa nel panorama post-strutturalista francese è Jacques Derrida, autore della proposta teorica abitualmente definita con il termine «decostruzionismo», la cui influenza si è estesa molto al di là della filosofia in senso stretto, riguardando la teoria della letteratura e dell’arte, l’architettura, la teoria del diritto, la teologia. 777

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La vita e le opere Jacques Derrida nacque il 15 luglio 1930 a El-Biar, nell’area di Algeri da una famiglia di origine ebraica. Incontrò varie difficoltà nella sua carriera scolastica, tra cui l’espulsione dalle scuole pubbliche nel 1942 in seguito alle discriminazioni del governo di Vichy e compì studi liceali irregolari. Comunque fin da giovanissimo iniziò a interessarsi al pensiero di diversi filosofi tra cui Nietzsche. Nel 1949 si trasferì in Francia e frequentò le classi preparatorie per l’esame di ammissione alla Scuola Normale Superiore di Parigi assieme a quelli che erano destinati a diventare le personalità più eminenti dell’ambiente culturale francese nei decenni successivi, come il sociologo Pierre Bourdieu. Ebbe tra i suoi insegnanti Louis Althusser, Jean Hyppolite e Foucault. Nel 1953 ottenne la licenza in filosofia e in lettere alla Sorbona. I suoi primi interessi teorici furono indirizzati soprattutto alla fenomenologia husserliana (oggetto della sua tesi) e alla psicoanalisi. Nel 1956 vinse una borsa di studio che lo portò a Harvard. Nel 1957 si sposò con Marguerite Aucouturier (da cui ebbe in seguito due figli) e iniziò a lavorare alla tesi di dottorato. Tornò in Algeria per svolgere il servizio militare durante la guerra. Nel 1959 fu di nuovo in Francia, iniziò l’insegnamento liceale cadendo però in depressione. Dal 1960 diventò docente alla Sorbona, quindi dal 1964 alla Scuola Normale Superiore. Agli inizi degli anni sessanta iniziò a pubblicare i suoi primi scritti. Nel 1963 tenne una conferenza critica sulla Storia della follia dopo la quale si interruppero i rapporti con Foucault. Nel 1966 Derrida tornò negli Stati Uniti per una conferenza e iniziò a farsi conoscere nell’ambiente universitario americano, dove ottenne in seguito vari incarichi di insegnamento. Nel 1967 pubblicò la sua tesi di dottorato Della grammatologia e altri due studi importanti: La scrittura e la differenza e La voce e il fenomeno. Da qui iniziò la fama di Derrida anche al di fuori del ri-

La formazione filosofica di Derrida

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stretto ambito degli specialisti di filosofia. Nel 1968 partecipò con una certa ritrosia alle manifestazioni della contestazione, che mostrò apertamente di non condividere del tutto. Nel 1971 tenne in Canada una conferenza sulla filosofia del linguaggio di Austin che diede inizio a una lunga polemica tra Derrida e i filosofi analitici (in particolare John Searle). Negli anni settanta insegnò in varie università, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Algeria, e pubblicò molti volumi e articoli di vasta risonanza internazionale. Si impegnò attivamente per la difesa dell’insegnamento della filosofia nelle scuole, contro il progetto di riforma della scuola francese elaborato nel 1975. Si attivò inoltre per sostenere i dissidenti cèchi e andò anche a Praga a partecipare a un loro seminario, finendo anche in arresto. Su incarico del governo francese fu uno dei fondatori e il primo direttore (dal 1983) del Collège Internationale de Philosophie. Parallelamente si impegnò a sostenere la causa della ribellione contro l’apartheid sudafricano e proseguì l’insegnamento negli Stati Uniti (a Yale e poi a Irvine). Successivamente ottenne numerosi riconoscimenti di prestigio, tra cui nel 1992 la Legion d’Onore e la laurea honoris causa a Cambridge (nonostante le proteste di alcuni filosofi analitici). Si occupò ancora della questione sudafricana in relazione ai problemi della riconciliazione dopo la fine dell’apartheid, e dei problemi legati alla convivenza tra israeliani e palestinesi. Nel 2003 gli fu conferita la laurea honoris causa dall’università di Gerusalemme, dove si era recato più volte nei vent’anni precedenti. È morto a Parigi il 9 ottobre 2004 dopo una lunga malattia. Tra le opere principali di Jacques Derrida vanno ricordate, oltre a quelle sopra citate (Della grammatologia, La scrittura e la differenza e La voce e il fenomeno), almeno: Margini – della filosofia, Glas, Spettri di Marx, La disseminazione, Le politiche dell’amicizia, Limited Inc, La carte postale.

La formazione universitaria di Derrida seguì il classico percorso di letture di uno studente della Scuola Normale Superiore di Parigi negli anni cinquanta: Marx, Nietzsche, Freud, Hegel, Heidegger e Husserl. Le sue prime ricerche sarebbero poi state dedicate proprio alla fenomenologia husserliana (vedi Unità 11, p. 437 ss.). Durante gli anni di università il filosofo francese entrò in contatto anche con gli strutturalisti e seguì i corsi di Foucault, con il quale condivideva l’esigenza di integrare l’antiumanesimo e l’antistoricismo strutturalista con la ricerca della ‘genesi’ materiale dei discorsi e delle scienze. La soluzione derridiana di questo problema differisce, però, in maniera profonda rispetto al progetto archeologico e genealogico foucaultiano. Non a caso, l’ingresso di Derrida sulla scena filosofica francese è quasi contemporaneo a una presa di distanza pubblica nei confronti di Foucault – espressa nella conferenza Cogito e storia della follia – che, nonostante la minima differenza di età, suona come una vera e propria rivolta dell’allievo contro il maestro.

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo

1 La scrittura e la voce

La scrittura come traccia

La traccia e la temporalità della coscienza

Segni, oggetti e idee

L’iterabilità delle idee

Oggettività, idealità e iterabilità

Il primato della scrittura Il nucleo del pensiero di Derrida – nella configurazione autonoma e fortemente caratterizzata assunta a partire dai tre libri usciti nel 1967, La voce e il fenomeno, La scrittura e la differenza e Della grammatologia – è costituito dall’affermazione del primato della ‘scrittura’ sulla voce, in consapevole e deliberata rottura rispetto alla tradizione filosofica occidentale, che egli considera contraddistinta, da Platone fino a Heidegger, da un orientamento fonologocentrico, fondato sulla supremazia del lògos e sul privilegiamento della voce, considerata espressione diretta e immediata del primo. Rovesciando questo orientamento, Derrida indica nella ‘scrittura’ la condizione di possibilità dello stesso pensiero e, più in generale, dell’intera esperienza, intendendo per ‘scrittura’ non la trascrizione di un contenuto mentale e linguistico, bensì in senso lato il fenomeno del ‘tracciare’: ogni forma di segno o di iscrizione, compreso l’imprimersi di una sensazione nella nostra mente. Così concepita, la scrittura risulta il supporto indispensabile attraverso il quale il soggetto entra in relazione sia con gli altri oggetti sia con se stesso. Nella prospettiva derridiana, lo stesso io non è immediatamente presente a se stesso, come nella concezione del soggetto al centro della filosofia moderna, inaugurata da Cartesio. Riprendendo e sviluppando in maniera originale alcune analisi sulla temporalità contenute nelle Ricerche logiche di Husserl, Derrida concepisce piuttosto la coscienza come un flusso temporale, risultato mobile della ritenzione del passato e dell’anticipazione del futuro, cioè due ‘non-presenti’ o ‘assenti’, che si danno solo attraverso delle tracce, dei segni. L’individuazione dei segni come sussidio imprescindibile attraverso il quale il soggetto può riferirsi agli oggetti si fonda invece sull’equazione tra oggettività, idealità e iterabilità. Da un lato, Derrida parte dal presupposto secondo il quale gli oggetti sono effettivamente reali e pienamente presenti solo in quanto ‘idee’, cioè in quanto entità che, pur non essendo esterne e trascendenti rispetto al soggetto, sono però oggettivamente valide, indipendenti da colui che le pensa, e dunque tali da esistere anche dopo che chi le ha pensate abbia cessato di pensarle. Dall’altro lato Derrida identifica idealità e iterabilità: nella sua prospettiva il fattore che attribuisce all’idea una persistenza oggettiva e un valore assoluto non è la spiritualità – che al contrario potrebbe confinarla nella psiche di un singolo uomo – bensì la sua iterabilità, cioè la sua possibilità di essere indefinitamente ripetuta. L’identificazione di idealità e iterabilità costituisce il presupposto dell’individuazione del segno come condizione di possibilità degli oggetti dell’esperienza: la possibilità di ripetere ha inizio, infatti, solo nel momento in cui si istituisce un codice, la cui forma originaria è data proprio dal segno scritto, dalla traccia che può presentarsi ed essere ripetuta – e decifrata – da chiunque, anche in assenza dello scrittore. Ciò rende la scrittura ‘acontestuale’, poiché un testo è leggibile «anche se il momento della sua produzione è irrimediabilmente perduto»; essa è composta da segni che, proprio per la loro ripetibilità indefinita, possono funzionare anche se estratti dal concatenamento in cui sono dati. Oggetto ideale

Iterabilità (l’ideale può essere replicato)

Oggettività (indipendenza dal dato soggettivo)

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea La riduzione del ruolo del soggetto

Grammatologia e strutturalismo

Derrida e Foucault

L’impossibilità di uscire dalla tradizione

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Questa impostazione filosofica implica un netto ridimensionamento del ruolo del soggetto, che accomuna Derrida allo strutturalismo e a Foucault: in primo luogo, la sparizione del soggetto costituisce la condizione necessaria per la costituzione della oggettività / idealità, una volta identificata quest’ultima con l’iterabilità indefinita; in secondo luogo, il nesso costitutivo tra la scrittura e l’iterabilità porta alla rottura del legame tra l’intenzione dell’autore e il significato del testo, e la scrittura viene assimilata a una sorta di deriva o «disseminazione». La grammatologia derridiana – cioè l’analisi del segno scritto, considerato come indipendente rispetto alla soggettività autocosciente dello scrivente – si colloca in una linea di chiara continuità con le indagini degli strutturalisti, volte a individuare la struttura inconscia soggiacente a tutte le produzioni culturali umane. In questo tipo d’indagine, però, a differenza della formalistica strutturalista, Derrida privilegia la scrittura rispetto al linguaggio. Questa scelta poggia sulla convinzione che il linguaggio sia l’elemento che ci aiuta a mediare concettualmente i nostri rapporti con il mondo, rispetto al quale la scrittura o meglio l’«archiscrittura» (cioè il mero fenomeno del ‘tracciare’) è posta in uno strato più originario e dunque più strutturale. Con Foucault il rapporto appare ancora più stretto e complicato. Da un lato, la grammatologia derridiana è mossa da esigenze analoghe a quelle che animano le ricerche archeologiche foucaultiane: entrambe si riallacciano, infatti, alla ricerca trascendentale di Kant sulle condizioni di possibilità dell’esperienza, ponendosi però il problema di individuare un ‘a priori’ materiale e concreto, cioè un termine medio tra la sfera intelligibile e quella empirica. Dall’altro, però, l’esito è molto differente: come si è appena visto, infatti, Derrida, partito dall’apprendistato fenomenologico, individua la condizione di possibilità dell’esperienza nel segno scritto. La scrittura così intesa è un a priori materiale, dal momento che è sensibile e insieme – in quanto rimanda a qualcos’altro – intelligibile, ma a differenza dell’‘episteme’ foucaultiana non è un a priori storico. Il segno scritto per Derrida è, in ogni epoca, indipendentemente dalle circostanze storiche, la condizione a un tempo sensibile e intelligibile della nostra esperienza. Esso così viene a configurarsi come la radice comune della sensibilità e dell’intelletto, che Kant considerava un mistero delle profondità dell’anima umana e individuava nell’«immaginazione trascendentale». La divergenza appena illustrata imprime al pensiero di Derrida un carattere più conservatore e più cauto rispetto al radicalismo di Foucault. Come si è visto, quest’ultimo aveva sostenuto che, a parte la volontà di potenza, tutto è storico, e la storia è fatta di rotture e discontinuità radicali: anche l’uomo e la ragione, nati con Cartesio e sviluppatisi con le scienze umane, sono per Foucault destinati a sparire attraverso il confronto con qualcosa che si sottrae alla coscienza cartesiana e alla razionalità europea, cioè la struttura enucleata dai linguisti e dagli etnologi. Questa posizione filosofica rende possibile e fonda un atteggiamento di rifiuto radicale della tradizione in quanto tale: se tutto è storico, tutto è contingente e può essere messo in discussione. Al contrario, Derrida ritiene che vi sia una struttura intelligibile ed empirica – la scrittura – che in ogni tempo condiziona il nostro modo di pensare, il nostro rapporto con noi stessi e con il mondo e per questo motivo ritiene che sia impossibile pretendere di guardare dall’esterno alla nostra razionalità o giungere a qualcosa di esterno ad esso, come Foucault aveva preteso di fare o diagnosticato, nell’intento di rompere radicalmente con la tradizione.

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo Il rifiuto dell’archeologia del sapere

2 Le illusioni delle metafisiche della presenza

La storia fallimentare della metafisica

Non c’è un oltrepassamento della metafisica

Il progetto della decostruzione

Partendo da questi presupposti, Derrida rifiuta le procedure di tipo archeologico messe in opera da Foucault; a sua volta, quest’ultimo accusa Derrida di limitarsi a letture interne dei testi, senza procedere archeologicamente, precludendosi così la possibilità di riconoscere il ‘sapere implicito’ che in ogni epoca presiede alla formazione dei differenti ordini discorsivi e costituisce dunque lo spazio storico entro cui è necessario leggere un autore.

Decostruzione e «differance» L’individuazione del ‘segno’ come condizione di possibilità di ogni nostra esperienza rivela come illusoria l’aspirazione alla presenza piena che, secondo Derrida, contraddistingue tutta la tradizione metafisica occidentale: dalle metafisiche realistiche dell’antichità, incentrate sull’Essere – cioè su un oggetto interamente presente, senza la mediazione di schemi concettuali – alle moderne metafisiche dell’io, fondate sull’idea dell’immediata presenza del soggetto a se stesso. Il segno è, infatti, ciò che per definizione rinvia a un altro da sé, e in quanto tale è costitutivamente opposto alla presenza piena. Partendo da questi presupposti, Derrida concepisce la storia della metafisica occidentale non, heideggerianamente, come la storia del progressivo oblio e occultamento dell’Essere, bensì piuttosto come la frustrante narrazione di un inevitabile scacco, accompagnato da una serie di rimozioni, prima fra tutte quella della ‘scrittura’, del ‘segno’, il tramite indispensabile, che costituisce la presenza di soggetto ed Essere, e proprio per questo è ciò che rivela l’impossibilità della loro presenza piena e immediata. Un ‘ritorno del rimosso’ è per Derrida il fatto che tutte le rappresentazioni scientifiche dell’anima, da Platone fino alla neurofisiologia contemporanea, la descrivano come una tavola scrittoria, riducendo però poi l’elemento scritto – e in questo consiste la rimozione – a scala da gettare via una volta che si sia raggiunto o che si sia creduto di raggiungere l’obiettivo, cioè una prossimità dell’anima con se stessa così intima da non avere più bisogno della mediazione dello scritto. La denuncia delle aporie insite nella metafisica occidentale non si traduce nell’ambizione a oltrepassare la metafisica, condivisa da molti dei filosofi francesi dell’epoca, a partire dalla lettura di Nietzsche e Heidegger. Per Derrida, l’impossibilità per qualsiasi filosofia, anche per la sua, di giungere alle ‘cose stesse’ – cioè a una coscienza pura e a un oggetto non mediato – significa anche impossibilità di disfarsi completamente degli schemi che hanno finora filtrato il nostro rapporto con gli altri e con il mondo, cioè impossibilità di uscire in maniera radicale dalla tradizione o da quella che Heidegger aveva chiamato «storia della metafisica». Accantonato il progetto di superamento della metafisica – ritenuto una semplice ‘chimera’ – Derrida procede piuttosto alla «decostruzione» del pensiero occidentale dall’interno. Derrida non definisce né analizza in modo articolato che cosa significhi la nozione di «decostruzione», ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica e letteraria. In generale, si può dire che la decostruzione sia una strategia di analisi dei testi che – giocando sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che sta ai margini dell’opera – mira a esplicitare l’interdipendenza tra i termini opposti di un discorso filosofico e, so781

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La decostruzione come evento imprevisto

Il riferimento a Heidegger

L’intento positivo della decostruzione

Derrida e Gadamer

La «differance» come residuo della decostruzione

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prattutto, le rimozioni, il ‘non-detto’ su cui esso è costruito, al di là delle intenzioni consapevoli del suo autore. Quanto appena detto non deve, però, indurre a pensare che la decostruzione sia un metodo accessibile con una scelta deliberata: essa è piuttosto ‘ciò che accade’, cioè l’irruzione di un evento che destruttura il senso e ristruttura il contesto, irriducibile alla decisione e all’intenzione teorica controllata di un soggetto; Derrida la definisce anche come «venuta dell’Altro», riferendosi al ritorno, nella decostruzione, di ciò che era stato rimosso nella costruzione originale dell’opera. Nella Grammatologia, dove il termine «decostruzione» compare per la prima volta, Derrida lo presenta come la traduzione della Destruktion («distruzione») della metafisica, di cui parla Heidegger all’inizio di Essere e tempo: il progetto di «pensare veramente l’essere» – cioè la struttura originaria soggiacente alle differenti visioni del mondo, corrispondenti agli schemi concettuali e linguistici di uomini appartenenti a epoche storiche diverse – richiede, infatti, una distruzione della storia dell’ontologia, che privi queste diverse configurazioni delle loro incrostazioni storiche. Già in Heidegger, dunque, non si tratta semplicemente di «distruggere», ma piuttosto di far emergere le strutture portanti e originarie; Derrida sceglie il termine «decostruzione», più debole di «distruzione», proprio per sottolineare meglio il nesso d’interdipendenza e complementarità tra la pratica decostruttiva e l’intento costruttivo. Al di là delle diverse interpretazioni nichilistiche che ne sono state offerte, la decostruzione non è un semplice gioco – fondato sull’assunto dell’equipollenza tra retta interpretazione e fraintendimento – ma piuttosto un procedimento animato dall’intenzione di far emergere, nei limiti del possibile, la struttura totale della nostra razionalità, che si manifesta più in negativo che in positivo, cioè più attraverso il non-detto che attraverso quanto è esplicitamente affermato. Pur riprendendo da Heidegger l’intento di svelare l’occulto – in filosofia e in letteratura – Derrida non condivide l’idea heideggeriana che l’occultamento dell’Essere sia progredito storicamente: l’Essere non è più nascosto in Cartesio o in Kant di quanto non lo fosse in Platone, così come non è più evidente in Parmenide, poiché la rimozione con cui si misura la decostruzione non è storica, bensì strutturale, cioè costitutiva non solo di tutta la metafisica, ma dell’essere umano in quanto tale. La decostruzione derridiana risulta dunque dallo sviluppo e dalla rielaborazione del pensiero heideggeriano in una direzione radicalmente divergente rispetto a quella dell’ermeneutica di Gadamer (vedi Unità 12, p. 526 ss.), fondata sull’assunto della possibilità di riattualizzare il significato di un testo e sulla concezione della verità come risultato sempre progrediente della fusione degli orizzonti dei diversi soggetti interpretanti. In primo luogo, la decostruzione non deriva dall’intenzione di riappropriarsi del testo, poiché non è il frutto di una decisione, ma semplicemente ‘accade’, nel senso illustrato sopra. In secondo luogo, per Derrida non vi è un senso o una verità da far emergere e disvelare, mediante la progressiva fusione di orizzonti tra l’interprete e il testo o tra i diversi soggetti interpretanti. Dal momento che l’iterabilità indefinita è il carattere costitutivo della scrittura, l’intenzione di esprimere un significato si disperde in maniera irreversibile nel momento stesso della composizione dei testi; in essi non vi è dunque mai una verità originaria o unitaria totalmente data, ma la verità vi si trova solo come disseminata. Radice e risultato della decostruzione – ossia ciò che rimane dopo la decostruzione – è una nozione antitetica rispetto alla piena presenza, al centro della metafisica occidentale: quella che Derrida definisce «differance». Si tratta di un

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo

La differenza e il differire

La struttura originaria del differire non è completamente conoscibile

3 Il senso etico della decostruzione

La morale del logocentrismo

L’emergere dei temi etici e politici negli anni ottanta

neologismo: in francese, infatti, differenza si scrive «difference». La parola coniata da Derrida, «differance» è omofona, cioè si pronuncia allo stesso modo, ma si scrive in modo diverso, con la a invece che con la e. Questa variazione ortografica è motivata dal fatto che la desinenza in -ance in francese ha valore di gerundio: essa consente dunque a Derrida di indicare con un medesimo termine sia il fatto che due cose siano diverse – il segno è diverso da ciò di cui prende il posto – sia l’atto del differire, nel senso del latino differire, cioè «rinviare», che comporta una dimensione temporale. Tra i due significati di «differance» vi è per Derrida un nesso essenziale: la differenza è il risultato del differire, cioè di un movimento temporale attraverso il quale da una radice comune sono venuti fuori due esiti diversi. Il fatto che le parole e i segni vogliano dire qualcosa non è, per esempio, inscritto in una loro essenza originaria, bensì dipende esclusivamente dalla loro disposizione o meglio dal loro venire dopo rispetto ad altre parole o segni: dunque non è identità, ma differenza. Il movimento del differire che genera lo scarto tra la presenza piena e il segno è ciò che per Derrida costituisce la ‘struttura originaria’, di cui non è possibile, però, offrire una teoria generale: non si tratta, infatti, di una struttura riconoscibile, ma di un inconscio, al quale la decostruzione può accedere parzialmente e solo partendo da una ‘traccia’ o ‘assenza’.

Decostruzione etico-politica e «democrazia a venire» Fin dalle origini, la decostruzione dei testi della metafisica occidentale ha sottotraccia un significato e un valore etico-politico, ancor più che teorico, che collega Derrida agli strutturalisti e a Foucault, sia pure con le differenze che si sono illustrate. Nella prospettiva derridiana, infatti, il logocentrismo non costituisce un errore solo sotto il profilo teorico, ma rappresenta anche la radice di determinati comportamenti: se siamo cattivi e ingiusti, egoisti, razzisti, maschilisti ecc., è perché siamo animati da un sogno di presenza e compattezza, di identità morale, sociale e sessuale, che ci spinge a rimuovere l’altro, che in realtà pure ci costituisce. Il logocentrismo per Derrida è anche la costruzione di una gerarchia di valori, che identifica la coscienza, la voce e la presenza con il ‘bene’ e il ‘giusto’, contrapponendoli all’inconscio, alla scrittura e alla differenza, considerati come il male e l’ingiusto. La storia della metafisica occidentale appare dunque come una battaglia tra il Bene e il Male – nella quale il Bene che ha la meglio in realtà è un falso bene – di cui la decostruzione, sulla scia del Nietzsche genealogista della morale, intende smascherare e confutare i presupposti: considerata sotto questo profilo, la decostruzione mira all’emancipazione dai numerosi pregiudizi morali che alimentano i nostri discorsi e orientano le nostre scelte. È soltanto a partire dagli anni ottanta che Derrida ha iniziato a occuparsi in maniera diretta di etica e politica, trasferendo le acquisizioni ottenute nella decostruzione della tradizione filosofica – cioè attraverso il confronto con il passato – in un dialogo con il presente. Questa svolta è sollecitata sia dal mutamento del quadro storico-politico, sia dalle accuse di indifferentismo etico-politico, tradizionalismo accademico e conservatorismo politico mossegli da più parti, e in particolare da Foucault e da Habermas, nel corso degli anni settanta. 783

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Per difendersi dalle accuse ricevute, Derrida chiarisce che considerare irrealizzabile la pretesa di uscire dalla tradizione non equivale affatto a sostenere che non bisogna sognare di farlo. Al contrario, una tale aspirazione ha un fondamento nella sua ontologia, che vede nella presenza e nel dato un ‘segno’ verso qualcosa che la eccede non solo nel passato, ma anche nel futuro. Trasposto in termini etico-politici, questo assunto si traduce nel tentativo di pensare i concetti della tradizione – come la democrazia, la giustizia e il diritto – nei termini di un ‘a venire’: la vera democrazia, la vera giustizia e il vero diritto non sono quelli dati e tramandati, ma quelli che si possono attendere o a cui si può tendere come avvenire, tali da sfuggire a ogni possibile concettualizzazione. La necessità L’apertura verso questa «democrazia a venire» richiede, secondo Derrida, una di ripensare la politica messa in discussione della tradizione politica logocentrica, fondata sull’aue l’amicizia toctonia e sulla prossimità o, più in generale, sulla concezione dell’amicizia come omofilia – cioè come rapporto tra esseri che, in quanto uomini, sono uguali – o come fraternità, legame tra fratelli che condividono l’origine e l’eredità paterna. Questa problematizzazione deve fungere come punto di partenza per giungere a un’idea di politica più ampia, definita in alcuni scritti «politica dell’accoglienza incondizionata», che – partendo da una diversa concezione dell’amicizia come rapporto «senza reciprocità né condivisione», tale cioè da non annullare l’alterità dell’altro – possa porre le condizioni per un rapporto sociale non più modellato su valori di presenza, uguaglianza o procedure di inclusione / esclusione, bensì sul valore del rispetto per l’assoluta differenza tra gli uomini.

La trasformazione dei concetti tradizionali di democrazia, giustizia e diritto

T3

Fraternità, amicizia e «democrazia a venire»

J. Derrida, Le politiche dell’amicizia

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Malgrado le apparenze che questo libro ha contribuito ad accrescere, nulla vi è detto contro il fratello o contro la fraternità. Nessuna protesta, nessuna contestazione. Ancor meno la tentazione di dirne male o di maledire. […] Dov’è allora il problema? Eccolo: non ho smesso di chiedermi, chiedo che ci si chieda che cosa vuol dire quando si dice «fratello», quando si chiama qualcuno «fratello». E quando vi si riassume o sussume l’umanità dell’uomo al pari dell’alterità dell’altro. […] Mi sono chiesto e chiedo che cosa si vuol dire allorché non si vuol dire […]. Mi chiedo, ecco tutto, e chiedo che ci si chieda qual è la politica implicita in questo linguaggio. Da sempre e oggi più che mai. Qual è la portata politica di questa parola scelta, tra tante altre possibili, anche e soprattutto se questa scelta non è deliberata? Giusto una domanda, ma che suppone un’affermazione. Se la mia ipotesi deve restare un’ipotesi, non può sbarazzarsi di un impegno. […] Se si volesse ritradurre questo impegno in ipotesi o in problema, [essi] prenderebbero forse allora, per concludere provvisoriamente qui, la seguente forma: è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono in fraternità, ovvero di famiglia e di etnia androcentrata? È possibile […] non già fondare, laddove non si tratta indubbiamente più di fondare, ma aprire all’avvenire, o piuttosto al «vieni» di una certa democrazia? Perché la democrazia resta a venire, e lì è la sua essenza fintanto che resta: non solo resterà indefinitamente perfettibile, e dunque sempre insufficiente e futura, ma, appartenendo al tempo della promessa, resterà sempre, in ciascuno dei suoi tempi futuri, a venire: anche quando c’è democrazia, questa non esiste mai, non è mai presente, resta il tema di un concetto non presentabile.

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo La filosofia politica di Derrida e l’attualità

➥ Sommario, p. 786

Identità, differenza e democrazia

Al di là dell’apparente astrattezza – accentuata dall’oscurità e complessità del linguaggio – la riflessione di Derrida sulla «democrazia a venire» ha un’immediata valenza politica e si confronta con alcune questioni centrali del mondo contemporaneo: dal problema della differenza di genere e dell’esclusione del femminile, agli sconvolgimenti geopolitici provocati sia dalle migrazioni sia dalla deterritorializzazione in atto a opera delle teletecnologie. Simili sconvolgimenti impongono un ripensamento del tema dell’identità culturale, istituzionale e politica dell’Europa, attraverso il quale Derrida interviene nella discussione sui valori fondativi dell’Unione Europea, opponendosi ai tentativi di monogenealogia, che riconducono l’identità europea alla discendenza da un’unica matrice culturale – come per esempio le radici cristiane – da preservare e difendere di fronte ai massicci flussi migratori o di fronte all’apertura verso i Paesi dell’Est. Nella prospettiva derridiana, le ‘monogenealogie’ sono sempre una mistificazione nella storia della cultura: l’Europa è stata da sempre greca e insieme cristiana, araba e altro ancora, e il suo futuro e la sua chance sono legate al restare fedeli a questa apertura verso l’altro.

Democrazia tradizionale – amicizia come prossimità

Valorizzazione dell’identità

Democrazia «a venire» – accoglienza incondizionata

Valorizzazione delle differenze

Suggerimenti bibliografici Per una visione d’insieme dello strutturalismo si possono leggere: AA.VV., Che cos’è lo strutturalismo?, ILI, Milano 1971; S. Moravia, Lo strutturalismo francese, Sansoni, Firenze 1975. Una monografia incentrata sulle conseguenze e i successori dello strutturalismo è D. Tarizzo, Il pensiero libero: la filosofia francese dopo lo strutturalismo, Cortina, Milano 2003. Un punto di vista critico si può trovare in J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1997. Tra i testi specificatamente dedicati a Foucault si segnalano: S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari 2005; G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2002; H.L. Dreyfus - P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989; P.A. Rovatti (a cura di), Effetto Foucault, Feltrinelli, Milano 1986. Tra i testi specificatamente dedicati a Derrida segnaliamo invece: M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma 2003; G. Piana, Le scene della scrittura nell’opera di Jacques Derrida, Mimesis, Milano 2001; S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Jaca Book, Milano 1997; C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Infine, sul confronto tra Foucault e Derrida, con specifico riferimento alla polemica sul tema della follia, è interessante la testimonianza e ricostruzione da parte del secondo: J. Derrida, «Essere giusti con Freud». La storia della follia nell’età della psicanalisi, Cortina, Milano 1994. I brani antologizzati sono tratti da: C. Lévi-Strauss, Il cotto e il crudo, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 114-115. M. Foucault, Le parole e le cose (intervista con Raymond Bellour), in Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste 1961-1970: follia, scrittura, discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 29-30. J. Derrida, Le politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1996, p. 361.

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Sommario 1. GENESI

E DIFFUSIONE DELLO STRUTTURALISMO

Lo strutturalismo nasce nel campo delle scienze linguistiche nei primi decenni del Novecento, con la teoria della linguistica generale di de Saussure e i successivi sviluppi a opera del Circolo linguistico di Praga, in cui viene introdotto il termine «struttura». Le idee guida della ‘rivoluzione strutturalista’ in linguistica sono l’abbandono del metodo storicistico e lo studio della lingua come sistema di segni autonomo governato da regole proprie, che vanno comprese indipendentemente dal loro contesto storico-sociale e dalle intenzioni dei soggetti (i parlanti) che si esprimono attraverso la parola, l’atto concreto di parlare. [par. 1] La diffusione dello strutturalismo avviene però nel secondo dopoguerra a partire dalla Francia, con una progressiva estensione dell’approccio strutturale, e quindi antistoricistico e antisoggettivistico, allo studio dei fenomeni sociali e antropologici, che trova in Claude Lévi-Strauss il suo massimo esponente. Si arriva così a elaborare una nuova concezione, non ‘umanistica’, delle scienze umane. In particolare l’antropologia strutturalista di Lévi-Strauss cerca di studiare i fenomeni culturali e sociali così come la linguistica strutturalista ha studiato i segni: come sistemi di regole autonomi. Solo così sarebbe possibile uno studio veramente scientifico, che cioè possa individuare costanti e leggi universali come quelle che distinguono per esempio le società calde dalle società fredde. Lévi-Strauss arriva a studiare il pensiero mitologico come struttura inconscia che governa la produzione di miti da parte delle culture, come causa e non come prodotto del pensiero dei singoli uomini. [par. 2] 2. FOUCAULT

Tra i filosofi maturati nella Francia degli anni cinquanta, in una cultura fortemente caratterizzata dallo strutturalismo, si segnala la figura di Michel Foucault, autore poliedrico che ha saputo interpretare le istanze dello strutturalismo in modo originale e ricco di sviluppi filosofici avendo sempre come punto focale il nesso tra sapere, potere e soggettività. Il complesso percorso di Foucault può essere scandito in tre fasi. Nella prima egli svolge una serie di analisi «archeologiche» per individuare i presupposti impliciti, i «saperi» e i «discorsi» anonimi che determinano il pensiero, il linguaggio e le pratiche sociali dell’Europa moderna. L’«archeologia» di Foucault è affine alla critica kantiana e alle analisi strutturaliste, ma si differenzia da entrambe per il carattere storico delle «strutture». In una seconda fase Foucault si concentra sulla «genealogia» ossia la genesi dei «discorsi» in

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relazione ai diversi ‘poteri’ che tentano di affermarsi. In questa fase il punto di riferimento filosofico è Nietzsche, e in particolare la «genealogia della morale». [par. 1]

Infine, nell’ultima fase delle sue ricerche, Foucault inizia a interessarsi a un nuovo campo di problemi, che va sotto il nome di «soggettivazione». Qui il tema della costruzione della soggettività è visto in chiave di possibile conquista della libertà individuale: il singolo, assoggettato a innumerevoli istanze dei poteri in opera in ogni società, può tentare di «disassoggettarsi» difendendo la propria individualità e trasformando se stesso autonomamente attraverso un insieme di pratiche che Foucault cerca di studiare in dettaglio e che denomina «tecnologie del sé». [par. 2] 3. DERRIDA

E IL DECOSTRUZIONISMO

Insieme con Foucault, l’altra figura più significativa della filosofia post-strutturalista è Jacques Derrida. Partito da una formazione prevalentemente fenomenologica, Derrida ridimensiona il ruolo del soggetto nella costituzione dell’oggettività, che va ricondotta ai segni o tracce di cui è fatta ogni esperienza. In questo senso viene rivalutata la scrittura, contro il privilegiamento dell’espressione orale nella tradizione filosofica, e viene esclusa la possibilità di un’oggettività interamente e pienamente ‘presente’. L’oggetto è sempre dato attraverso una rete di segni e di rimandi. È impossibile risalire a un dato originario, a una conoscenza immediata dell’essere, sia nel senso ‘oggettivo’ della metafisica antica, sia nel senso ‘soggettivo’ della metafisica moderna dell’io. [par. 1] Derrida ritiene anche impossibile superare una volta per tutte la tradizione metafisica e propone invece, rifacendosi in parte a Heidegger, di affidarsi alla «decostruzione» dei testi tramandati: l’evento che durante la lettura e l’interpretazione porta a scoprire ciò che il testo e la tradizione che esso trasmette nascondono, rimuovono, non dicono. Attraverso la decostruzione si può tentare di conoscere – ma solo parzialmente – la «differance», il movimento inconscio che dà senso ai segni. [par. 2] Negli ultimi anni Derrida si è occupato esplicitamente di etica e di politica, portando in primo piano il tema della difesa della differenza tra culture e tra persone contro i tentativi di fondare le relazioni di amicizia sull’identità e ha elaborato un’idea di «democrazia a venire» che, pur irraggiungibile, può essere perseguita indefinitamente attraverso una politica di apertura all’altro, al diverso da sé, che Derrida chiama «accoglienza incondizionata». [par. 3]

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Unità 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo

Parole chiave Archeologia. Termine utilizzato da Foucault, che si ispira a Kant, per designare la ricerca sui sistemi inconsci e anonimi di regole che condizionano il pensiero e l’agire degli uomini nelle diverse epoche di una civiltà (archeologia del sapere). Decostruzione. Termine di Derrida, che designa il processo che fa emergere ciò che nel testo è non detto, rimosso. Per Derrida tale processo accade in modo imprevedibile e spontaneo nella lettura e nell’interpretazione. Il suo risultato, ovvero il suo residuo, è la «differance». Democrazia a venire. Derrida chiama così la proposta, presente nelle sue opere degli ultimi anni, di una politica che persegua forme di democrazia sempre nuove e mai fissate in una formula definitiva, basandosi sul principio dell’accoglienza incondizionata dell’altro e delle differenze di cui l’altro è portatore. Differance. Neologismo di Derrida, designa il risultato, il residuo della «decostruzione», una differenza che è al tempo stesso l’opposto dell’identità e l’opposto della presenza. È importante per Derrida sottolineare il senso temporale di «differire» come rinviare, rimandare. Discorso. Nel pensiero di Foucault, il discorso è un insieme di costruzioni linguistiche, di sequenze di enunciati, che non ha un autore determinato, ma, in quanto struttura ricorrente e anonima, condiziona il pensare e il parlare di tutta una civiltà in una certa epoca. Disseminazione. Con questo termine Derrida intende sottolineare il carattere disperso, non compatto e non unitario che assumono i significati linguistici quando sia riconosciuto che essi non possono essere identificati una volta per tutte con le intenzioni dei parlanti. Genealogia. Termine che Foucault riprende da Nietzsche e che designa la ricerca delle origini dei ‘discorsi’, ricondotte alla lotta tra poteri diversi. Lingua (langue). Termine con cui de Saussure designa il sistema di regole che determina le possibilità di espressione ed è indipendente dalle intenzioni dei soggetti (parlanti). Nella sua concezione è della lingua che si deve occupare la scienza del linguaggio,

considerandola nel suo aspetto ‘sincronico’ cioè a prescindere dalla sua storia, senza fare riferimento a un prima e un dopo. Logocentrismo. Derrida utilizza questo termine per designare il primato della ragione nella tradizione di pensiero della filosofia e di tutta la civiltà occidentale, almeno da Platone in poi, che sarebbe, a suo giudizio, alla base del primato dell’identità sulla differenza e quindi di varie forme di esclusione, discriminazione e in ultima analisi di violenza. Microfisica del potere. Termine utilizzato da Foucault per designare l’indagine delle modalità con cui il potere si manifesta nei rapporti sociali ai livelli più elementari e ‘microscopici’ nella vita quotidiana degli individui. Parola (parole). Termine utilizzato da de Saussure per designare l’atto concreto di parlare, singolare e creativo del soggetto. De Saussure tiene particolarmente a distinguere tra la «parola» e la «lingua», poiché intende limitare a quest’ultima il campo di studi della linguistica. Significante. Termine introdotto da de Saussure nella sua teoria del segno, di cui costituisce l’elemento materiale (nel caso della lingua parlata il suono). Significato. Termine che, nella teoria di de Saussure, è la seconda componente del «segno»: il concetto associato arbitrariamente al significante. Società calde. Termine di Lévi-Strauss introdotto in opposizione a «società fredde». Designa le società che cercano continuamente il cambiamento e quindi l’evoluzione storica, come per esempio avviene in Europa e nel Nord America. Società fredde. Termine di Lévi-Strauss introdotto in opposizione a «società calde». Designa le società che non cercano alcun cambiamento, ma sono invece statiche nel tempo e quindi, in un certo senso, prive di storia, come sarebbe il caso delle società cosiddette «primitive» studiate dagli antropologi. Soggettivazione. Nelle ultime riflessioni di Foucault, questo termine designa un processo di costruzione della soggettività come luogo di resistenza all’azione dei poteri sull’individuo.

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Questionario GENESI

E DIFFUSIONE DELLO STRUTTURALISMO

1

Che cosa intende de Saussure per arbitrarietà del segno? (max 3 righe)

2

A quale tipo di approccio alla linguistica si contrappone quello di de Saussure? (max 1 riga)

3

Di quali discipline scientifiche si è occupato Lévi-Strauss? (max 2 righe)

FOUCAULT

10

Quale concetto è al centro del nesso tra la tradizione metafisica e le discriminazioni politiche dal punto di vista di Derrida? (max 2 righe)

11

La decostruzione per Derrida è un’operazione compiuta intenzionalmente con obiettivi specifici? (max 2 righe)

Lavoriamo sui testi 12

Che cosa vuol dire che i miti «si pensano negli uomini» come afferma Lévi-Strauss in T1? (max 3 righe)

Qual è, secondo Foucault, la condizione principale che ha permesso la nascita della psichiatria? (max 4 righe)

13

Perché è importante risalire dai fenomeni culturali al «sapere» implicito secondo Foucault in T2? (max 2 righe)

6

Perché Foucault parla del potere come di una «rete»? (max 3 righe)

14

Il «sapere» di cui parla Foucault in T2 è qualcosa di specificamente filosofico? (max 2 righe)

7

Che cosa sono e a cosa servono per Foucault le tecnologie del sé? (max 2 righe)

15

Perché a Derrida preme far riflettere sul concetto di «fratello» in T3? (max 3 righe)

16

La «democrazia a venire» di cui parla Derrida in T3 è un obiettivo raggiungibile in un futuro prossimo? (max 3 righe)

4

L’a priori storico di Foucault coincide con il sintetico a priori di Kant? (max 3 righe)

5

DERRIDA

E IL DECOSTRUZIONISMO

8

Il primato della scrittura teorizzato da Derrida va riferito solo ai segni linguistici? (max 3 righe)

9

Qual è, secondo Derrida, la motivazione del primato della comunicazione orale nella filosofia occidentale da Platone in poi? (max 3 righe)

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Unità 18 La filosofia della scienza

1. Scienza e filosofia della scienza 2. Il metodo scientifico 3. La questione del realismo scientifico ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

I testi K. Popper La logica della scoperta scientifica: L’asserzione scientifica, T1; L’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, T2

N.R. Hanson I modelli della scoperta scientifica: L’osservazione non è neutrale, T4

T.S. Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche: Storia e filosofia della scienza, T3

B.C. van Fraassen L’immagine scientifica: L’empirismo costruttivo, T5

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

1

Scienza e filosofia della scienza

La filosofia della scienza si occupa della natura, della validità e dello scopo del sapere scientifico. Le domande basilari da cui trae origine la riflessione filosofica sulla scienza sono le seguenti: – che cos’è la scienza? In che cosa consiste la peculiarità di questo tipo di sapere? – a che cosa mira la scienza? Solo a fornirci gli strumenti per orientarci nel mondo che ci circonda o anche a raggiungere una descrizione vera della realtà? L’oggetto della filosofia La prima domanda viene posta in riferimento alle scienze naturali, dalla fisica, della scienza alla chimica alla biologia, e alle scienze ‘esatte’ come la matematica e la logica. La seconda domanda invece viene posta essenzialmente riguardo alle scienze naturali. Con le discipline fin qui nominate non si esaurisce certo l’elenco di quelle che sono chiamate ‘scienze’: pensa, per esempio, all’economia, alla psicologia o alla sociologia. In questa Unità, tuttavia, ci concentriamo sulle scienze esatte e sulle scienze della natura, in quanto di queste si è tradizionalmente occupata la disciplina filosofica specifica che va correntemente sotto il nome di «filosofia della scienza». Le domande della filosofia della scienza

Che cos’è la scienza: il problema della demarcazione Il criterio di demarcazione per caratterizzare la scientificità

La scienza come sapere razionale, oggettivo e fondato

Il metodo scientifico come base per la demarcazione

790

In base a che cosa possiamo distinguere una conoscenza scientifica da una conoscenza non scientifica? Come giustifichiamo questa distinzione e, in generale, in che modo garantiamo il carattere di scientificità della conoscenza acquisita? Nessuno dubita che la fisica, la biologia o la matematica siano «scienze». Conosciamo diversi esempi di discipline scientifiche, ma quando poniamo la domanda «che cos’è la scienza?» vogliamo qualcosa di più di un semplice elenco. Ci interessa comprendere che cosa caratterizza queste discipline in quanto «scienze», distinguendole da altre forme di conoscenza, come per esempio quella artistica, che non consideriamo scientifiche. Ma, innanzitutto, perché riteniamo che sia importante trovare un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza? Il motivo principale è l’indiscutibile successo della scienza, che ci fa attribuire a questa forma di sapere un merito speciale. La rilevanza delle ricadute tecnologiche del sapere scientifico sulla nostra vita, fatto che ognuno di noi sperimenta continuamente nella quotidianità, porta a pensare che per avere una tale efficacia la scienza rappresenti una forma di conoscenza con qualità particolari. Più precisamente, l’intuizione comune è che il sapere scientifico rappresenti il modello per eccellenza di conoscenza razionale, oggettiva e fondata. Che cosa s’intende, esattamente, con gli attributi «razionale», «oggettivo», «fondato»? La filosofia della scienza analizza il significato di queste attribuzioni e il modo in cui le credenze che si hanno comunemente sulla scienza sono o non sono giustificate. L’idea che ha tradizionalmente guidato i filosofi della scienza in questa riflessione è che sia possibile definire in che cosa consiste il metodo scientifico, cioè il metodo seguendo il quale siamo sicuri del carattere scientifico della conoscenza acquisita. Il metodo scientifico è diventato così ciò su cui fondare il criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, e buona parte del dibattito filosofico sulla scienza è stato centrato proprio sulla ricerca di una sua definizione universalmente valida.

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Unità 18 La filosofia della scienza L’indagine epistemologica

La questione del metodo scientifico rientra nell’indagine di natura epistemologica sulla scienza, cioè l’indagine su quale tipo di conoscenza rappresenti la scienza, e come essa sia giustificata in quanto tale. L’indagine epistemologica non esaurisce l’ambito di riflessione della filosofia della scienza. Esiste anche un altro ordine di questioni, considerate da molti ancora più fondamentali: quelle che nascono intorno alla domanda «qual è lo scopo della scienza?» e che riguardano, essenzialmente, il rapporto tra le teorie che concepiamo e il mondo in cui viviamo.

A che cosa mira la scienza: verità e teorie scientifiche La verità come problema ulteriore rispetto alla demarcazione

La verità come scopo della scienza

Il realismo scientifico: la scienza ci dice com’è davvero il mondo

Le critiche al realismo scientifico

Immaginiamo di avere risolto il problema della definizione di che cosa sia la scienza. Supponiamo cioè di avere chiarito cosa intendiamo con conoscenza razionale, oggettiva e fondata, e in particolare di aver trovato quale sia il metodo da seguire per raggiungere una conoscenza con queste caratteristiche. Resta comunque aperta la seguente questione: la conoscenza così ottenuta è anche vera? E quale peso ha la verità di una teoria rispetto alla sua valutazione come «teoria scientifica»? Le teorie devono anche essere vere per essere riconosciute come teorie valide? Le risposte che vengono date a queste domande dipendono da come viene concepito lo scopo della scienza. Per quanto riguarda le scienze della natura – ed è di queste che ci occuperemo in relazione al problema della verità delle teorie – la questione della verità di quanto ci dice la scienza sul mondo entra nel dibattito filosofico innanzitutto in relazione alla valutazione di questo tipo di conoscenza come scienza mirata alla comprensione del mondo esterno. Se infatti ci chiediamo a che scopo vengano formulate le teorie sul mondo fisico, la risposta più comune, soprattutto tra gli scienziati, è che sia per fornire una descrizione vera della realtà, dove «verità» è intesa nel senso di corrispondenza ai fatti (la descrizione fornita dalle teorie fisiche è vera in quanto corrispondente ai «fatti» del mondo fisico). Questa risposta è caratteristica della posizione filosofica chiamata realismo scientifico: cioè la posizione in base alla quale, secondo una definizione generalmente accettata e ‘minimale’ data dal filosofo della scienza Bastiaan Cornelis van Fraassen nel suo classico testo L’immagine scientifica, «la scienza mira a fornirci, con le sue teorie, una storia letteralmente vera di ciò che è il mondo, e l’accettazione di una teoria scientifica implica la credenza che essa sia vera». Il realismo scientifico può essere formulato in modo più o meno sofisticato, ma in qualsiasi sua versione risponde alla seguente convinzione: il significato della scienza non è solo quello di fornirci gli strumenti più affidabili ed efficaci per predire i fenomeni fisici, come invece ritiene lo strumentalismo scientifico. Secondo il realista, la scienza rappresenta qualcosa di più: ci dice qualcosa sulla realtà fisica, su come il mondo è davvero fatto, e questo è intimamente legato a quanto c’è di vero in quello che dice. Per chi accetta questa posizione, la questione della verità delle teorie scientifiche assume dunque un ruolo centrale riguardo alla valutazione della scienza come impresa conoscitiva: lo scopo e la credibilità che vengono assegnati alle teorie scientifiche dipendono strettamente dalla verità di queste ultime. E la loro verità fornisce anche una spiegazione dell’indiscutibile successo della scienza: le teorie funzionano perché sono vere, il successo della scienza non appare come un ‘miracolo’. Il realismo scientifico, per quanto risulti una posizione del tutto naturale e sicuramente vicina all’intuizione comune, è stato variamente attaccato. Uno dei punti 791

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

chiave intorno a cui si sono concentrate le critiche riguarda proprio il ruolo che esso attribuisce alla nozione di verità. La critica più immediata nasce in relazione al fatto, messo in evidenza dalla storia della scienza, che le teorie possono essere fallibili, avere validità solo parziale o approssimata. Se dunque le teorie dicono qualcosa sulla realtà in quanto sono vere, la loro verità sarà per lo più solo parziale o approssimata. Riguardo a questo punto il realista scientifico si difende normalmente interpretando il succedersi delle teorie come un progressivo avvicinamento alla teoria ‘esattamente vera’. Ma questa soluzione è, a sua volta, criticata da molti in quanto apparentemente messa in difficoltà dalle cosiddette «rivoluzioni scientifiche»: cioè da quei casi, come vedremo in seguito, in cui il passaggio da una teoria a quella successiva avviene in modo rivoluzionario e comporta un cambiamento radicale nell’immagine del mondo fino ad allora comunemente accettata. Realismo Su questo genere di questioni si è sviluppato un dibattito molto articolato e tute antirealismo: tora aperto tra i difensori del realismo scientifico e i sostenitori di diverse forme un dibattito aperto di antirealismo che si contrappongono per qualche aspetto al realismo scientifico. A questo dibattito è dedicato il terzo paragrafo dell’Unità.

Le filosofie delle scienze particolari La filosofia della scienza e le altre discipline che si occupano della scienza

La storia della scienza

La filosofia della scienza e le filosofie delle scienze particolari

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Ciò che contraddistingue la filosofia della scienza come disciplina è dunque il tipo di domande che essa si pone sulla scienza – per esempio «Che cos’è la scienza?», «Qual è il suo scopo?», «Le teorie scientifiche sono vere?» – e i mezzi che usa per trovare risposte, come l’analisi delle argomentazioni, della loro correttezza, del loro statuto linguistico e logico. Ci sono altre discipline che studiano la scienza, e il tipo di questioni che esse affrontano sono diverse da quelle della filosofia della scienza, così come i loro metodi. La storia della scienza, per esempio, si concentra sullo studio di come sono nate e si sono sviluppate particolari discipline o teorie scientifiche, usando tipici strumenti storiografici come l’indagine delle fonti, quali i documenti e resoconti ufficiali, o le memorie e le lettere dei protagonisti. La sociologia (e politica) della scienza verte su questioni come quelle relative all’organizzazione di una comunità scientifica, al ruolo che hanno le riviste (e, oggi, Internet) nella comunicazione e accettazione di una teoria e al peso di ragioni economiche e politiche nella gestione e direzione della ricerca. La filosofia della scienza, pur servendosi dei risultati delle altre discipline che hanno la scienza come oggetto (specialmente per quanto riguarda la storia della scienza), non si occupa in generale degli aspetti storici, sociali, politici o economici dell’impresa scientifica.Vedremo tuttavia che ci sono stati momenti nella storia della riflessione filosofica sulla scienza in cui alcuni di questi aspetti hanno contato molto nella proposta di una nuova posizione epistemologica. Un esempio a questo proposito è lo sviluppo della concezione dell’evoluzione scientifica di Thomas Samuel Kuhn, basata sulla nozione di rivoluzione scientifica, che deriva dallo studio della storia della scienza (vedi p. 808 ss.). Finora abbiamo parlato della riflessione filosofica sulla scienza intesa in generale. Le scienze, tuttavia, sono varie e molto diverse tra loro: ha senso trattarle in modo unitario? Storicamente, dal positivismo logico in poi, l’indagine filosofica ha avuto come oggetto la scienza considerata in generale, cioè relativamente a quelle caratteristiche ritenute comuni a tutte le scienze; anche se poi, di fatto,

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veniva presa ad esempio soprattutto quella che appariva come il paradigma di scienza e cioè la fisica. Ma accanto a questa riflessione di carattere generale sulla scienza, hanno ultimamente preso sempre più piede filosofie delle scienze particolari, cioè filosofie che assumono come proprio oggetto d’indagine le caratteristiche, i concetti e i metodi specifici delle singole discipline. Tra queste, la filosofia della matematica e la filosofia della fisica hanno ormai una tradizione già consolidata (vedi Unità 10, p. 394 ss., p. 410 ss.). I motivi del fiorire Altrettanto non si può dire, invece, di altre filosofie delle scienze, come quelle delle filosofie della biologia, della chimica, della medicina o delle scienze cognitive, che handella scienza particolari no cominciato solo da poco a configurarsi come vere e proprie discipline. Questo recente fiorire di filosofie delle scienze particolari ha diversi motivi. Da una parte, il notevole sviluppo se non addirittura la nascita di alcune discipline, come la biologia molecolare o le scienze cognitive, che richiedono una riflessione appropriata e mirata. Dall’altra parte, le difficoltà che il dibattito tradizionale sulla scienza ha incontrato, e continua a incontrare, nel tentativo di giungere a risposte universalmente valide alle questioni epistemologiche e ontologiche poste dalle teorie scientifiche. In questa Unità, comunque, ci limiteremo a prendere in considerazione il dibattito filosofico di carattere generale sulla scienza. L’ambito disciplinare della filosofia della scienza

Epistemologia (teoria della conoscenza scientifica)

Metodo scientifico

Spiegare le caratteristiche di oggettività, razionalità e fondatezza

Scienza e mondo

La scienza serve solo a fare previsioni o anche a conoscere la verità?

Filosofia della scienza Lo scopo della scienza

La filosofia della scienza

➥ Sommario, p. 816

2 Il metodo dell’induzione baconiana

La filosofia della scienza si caratterizza quindi come una disciplina filosofica specifica, che si occupa di indagare in generale la natura delle scienze esatte e delle scienze naturali, caratterizzandole rispetto alle altre forme di sapere e cercando di rispondere alle domande che sorgono relativamente alla sua natura di conoscenza razionale, oggettiva e fondata (aspetto epistemologico della filosofia della scienza), al suo scopo e alla sua capacità di attingere alla verità sul mondo esterno.

Il metodo scientifico Le radici del dibattito contemporaneo sul metodo scientifico vanno rintracciate nella riflessione filosofica di Bacone sulla nascente scienza della natura all’inizio dell’età moderna. Bacone sviluppa infatti una vera e propria metodologia scientifica, da sostituire al metodo di acquisizione della conoscenza caratteristico della tradizione aristotelica – quello fondato sulla logica deduttiva contenuta nell’Organo di Aristotele – da lui ritenuto sterile e inadeguato alla scien793

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La questione della validità dell’induzione come filo conduttore del dibattito sul metodo

za dei suoi tempi. Alla metodologia aristotelica Bacone contrappone, nella sua opera del 1620 intitolata appunto Nuovo Organo, una nuova logica che è basata sull’induzione, cioè il procedimento attraverso il quale, dall’esame dei casi particolari, si passa a principi di carattere generale. Ma questo passaggio non avviene in modo immediato, come nel caso dell’induzione usata già dallo stesso Aristotele. Bacone stabilisce in modo dettagliato come si debba procedere: solo dopo un attento lavoro di raccolta dei dati sperimentali e la loro successiva registrazione secondo precise «tavole», in cui i dati vengono ordinati secondo opportuni criteri e posti a confronto tra loro, si può compiere la generalizzazione induttiva. L’induzione baconiana si presenta quindi come un procedimento in cui i dati raccolti dall’esperienza vengono opportunamente bilanciati con le ipotesi e le congetture della ragione. Per questo equilibrio fra esperienza e ragione che lo caratterizza, sono ancora oggi in molti a pensare che il modo di procedere stabilito da Bacone costituisca il nucleo del moderno metodo scientifico. Sicuramente l’analisi baconiana è alla base della cosiddetta «soluzione induttivista» alla questione del metodo scientifico. Tale soluzione, come vedremo, presenta diversi problemi, che porteranno i filosofi della scienza del Novecento o alla ricerca di un suo raffinamento, l’induttivismo detto «sofisticato» per distinguerlo da quello iniziale chiamato «ingenuo», o alla proposta di soluzioni alternative, come quella «falsificazionista» di Karl Popper, o addirittura alla negazione dell’esistenza di un metodo scientifico.

Il principio d’induzione e l’induttivismo La prima e più immediata soluzione al problema di definire il metodo scientifico è dunque quella induttivista. Secondo la soluzione induttivista il metodo scientifico consiste nel seguire in successione le seguenti due procedure: 1) l’accumulazione di osservazioni, da effettuare senza pregiudizi o preconcetti: si devono registrare i dati dell’esperienza sensoriale, sia come li troviamo a disposizione nel mondo fisico, sia come si presentano nelle particolari condizioni in cui gli oggetti d’osservazione sono posti nei nostri esperimenti. I risultati dell’osservazione sono espressi dai cosiddetti «asserti osservativi»; 2) l’inferenza induttiva, che permette di passare dalle osservazioni particolari accumulate, espresse dagli asserti osservativi, a generalizzazioni universali, ovvero asserti di carattere generale sulle proprietà di tutti gli oggetti di un certo tipo. Per esempio, «tutti i metalli conducono l’elettricità» è una generalizzazione universale sui metalli, fondata sull’osservazione del comportamento di un certo numero di metalli quando sono messi nelle condizioni di condurre l’elettricità. Queste generalizzazioni universali sono chiamate anche «leggi della natura» e spesso assumono la forma di equazioni matematiche che pongono in relazione diverse grandezze fisiche. Un esempio per tutti: la legge di gravitazione universale di Newton, che asserisce che la forza gravitazionale F tra due corpi aventi massa m1 e m2, e separati da una distanza r, è data dalla relazione F = G • m1 • m2 / r2 , dove G è la costante di gravitazione universale. La natura dell’inferenza L’induttivismo si fonda quindi sull’osservazione e sull’inferenza induttiva. Torneinduttiva remo in seguito sui problemi che nascono relativamente alla natura dell’osservazione. Riguardo all’inferenza induttiva, la questione che si pone è in quali casi Le due procedure del metodo induttivo: accumulazione di osservazioni e inferenza induttiva

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L’induzione enumerativa

Il principio d’induzione

Il problema dell’induzione

sia davvero legittimo inferire una generalizzazione universale a partire da una serie di asserti osservativi. L’induzione enumerativa – cioè la metodologia in accordo alla quale basta osservare un gran numero di casi in cui un dato fenomeno od oggetto possiede una certa caratteristica (per esempio, il fatto che del sale posto nell’acqua si sciolga o che i corvi che si osservano siano neri) per essere giustificati nell’inferire che il fenomeno o l’oggetto ha sempre quella proprietà (ogni qual volta il sale viene messo nell’acqua si scioglie, tutti i corvi sono neri) – venne criticata già da Bacone perché troppo semplicistica. Un procedimento induttivo un po’ più elaborato e che si accorda bene con il senso comune è il seguente: si inferisce una generalizzazione universale da una collezione di asserti osservativi quando: 1) si è compiuto un grande numero di osservazioni; 2) le osservazioni sono state compiute in una grande varietà di circostanze; 3) non si è trovato nessun caso che contraddica la generalizzazione universale a cui si vuole arrivare. Così, per esempio, perché sia legittimo inferire che tutti i corvi sono neri si devono osservare molti corvi, in molte parti della terra, e si deve andare in cerca di casi che contraddicano la generalizzazione, cioè casi di corvi che non siano neri. Se, in seguito a questo procedimento non si è trovato nessun corvo che non sia nero, allora siamo giustificati nell’inferire la generalizzazione «tutti i corvi sono neri». Il principio che stabilisce che è legittimo inferire una generalizzazione universale da una collezione di asserti osservativi quando siano soddisfatte le condizioni 1), 2) e 3) è noto come «principio di induzione». Per l’induttivismo, seguire il metodo scientifico significa quindi applicare il principio d’induzione. Le generalizzazioni ottenute in questo modo assumono lo statuto di leggi. A partire da queste leggi, usando la deduzione, si possono poi spiegare o predire altri fenomeni o proprietà. Secondo il resoconto induttivista del metodo scientifico, la conoscenza scientifica è dunque fondata in quanto basata sull’esperienza, oggettiva perché ottenuta seguendo certe regole condivise e razionale perché risultato di una procedura ragionevole. Ma è davvero così razionale il metodo induttivo? Il principio d’induzione su cui riposa non ha validità logica, se la logica è quella tradizionalmente intesa, cioè la logica deduttiva; ma non può essere giustificato nemmeno empiricamente: una sua giustificazione basata sull’esperienza – il principio è valido perché così si è dimostrato in tutti i casi in cui è stato applicato – richiederebbe l’utilizzo del principio stesso e quindi ci porterebbe in un circolo vizioso. Il nocciolo del problema dell’induzione è il seguente: per quante osservazioni si possano compiere, queste non saranno mai tutte quelle possibili e quindi la conclusione di un argomento induttivo potrà sempre risultare falsa. Sarebbe necessaria l’osservazione di tutti i casi possibili previsti dalla generalizzazione induttiva per essere davvero sicuri della verità della conclusione ottenuta. Ci sono casi esemplari di generalizzazioni basate su un gran numero di osservazioni che si sono successivamente rivelate scorrette, come nel celebre caso della generalizzazione «tutti i cigni sono bianchi», ritenuta vera in Europa fino a quando in Australia non furono rinvenuti dei cigni neri. Sembra proprio che, come sostiene Russell nella sua opera I problemi della filosofia, il ragionamento induttivo non sia più giustificato di quello di un tacchino che crede che verrà nutrito tutti i giorni perché così è sempre stato nel suo passato (mentre un bel giorno il contadino, invece di nutrirlo, gli torce il collo per mangiarselo). 795

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea La critica di Hume all’inferenza induttiva

L’abitudine e la credenza

Induzione e causalità

Questioni di fatto e generalizzazione

Il ruolo della relazione causa-effetto

La relazione causa-effetto come congiunzione costante

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La giustificazione dell’induzione è una delle grandi questioni aperte del dibattito filosofico sulla conoscenza scientifica. Il riferimento classico sul problema posto dall’induzione – l’inferenza induttiva ammette o no una giustificazione razionale – è la trattazione che ne fa Hume nella sua opera Ricerca sull’intelletto umano del 1748. La risposta di Hume alla questione della razionalità del procedimento induttivo è negativa: non possiamo avere una giustificazione razionale per le nostre inferenze induttive, che sono basate piuttosto sull’abitudine e sull’istinto di sopravvivenza che non sulla ragione. Per Hume, infatti, a fondamento dell’induzione non c’è altro che un’abitudine o un’attitudine psicologica a formare credenze su ciò che non si è ancora osservato a partire da ciò che si è già osservato. Una simile attitudine è molto utile, e forse addirittura necessaria, per la nostra sopravvivenza, e ciò giustifica il nostro continuo servirci di inferenze induttive, per quanto queste (secondo Hume) non abbiano fondamento razionale. Hume arriva alla sua conclusione mettendo in rapporto la natura dell’inferenza induttiva con la natura della relazione di causalità. Il ragionamento seguito da Hume può essere schematicamente riassunto nei punti qui elencati. 1) L’inferenza induttiva riguarda quelle che Hume chiama questioni di fatto, cioè «quel tipo di oggetti della ragione umana» che vanno oltre la natura dei nostri concetti e ci trasmettono delle informazioni riguardo a come è fatto il mondo. Al contrario di quanto succede con le proposizioni che riguardano solo relazioni tra idee, cioè le proposizioni il cui contenuto è limitato alle relazioni tra i nostri concetti e le nostre idee (del tipo «un cavallo è un animale», «gli scapoli non sono sposati»), la verità di una proposizione relativa alle questioni di fatto non può essere provata deduttivamente, ma solo attraverso il ricorso all’esperienza. Ma l’evidenza sperimentale a disposizione riguarda unicamente le esperienze passate e presenti. Come provare allora la verità di proposizioni, come quelle che esprimono generalizzazioni induttive, che dicono qualcosa su esperienze ancora da fare e che, inoltre, non possono nemmeno essere tutte compiute? 2) L’unica possibilità è ricorrere alla relazione di causa ed effetto: «solo per mezzo di questa relazione possiamo andare oltre l’evidenza della nostra memoria e dei nostri sensi». Per esempio, se osserviamo che quando il sole splende sulla terra gli oggetti che si trovano su di essa si scaldano, inferiamo che questo comportamento si ripeterà in futuro perché consideriamo il sole come la causa del surriscaldamento degli oggetti. Le idee del sole che splende sulla terra e del riscaldamento degli oggetti su di essa non sono logicamente connesse: non c’è niente di logicamente contraddittorio nel pensare che il sole raffreddi la terra. L’unico modo di connettere idee che non sono tra loro logicamente correlate, come quelle sopra accennate, è di supporre che tra di esse intercorrano connessioni causali. 3) Ma in che cosa consiste la relazione di causa ed effetto? È solo esaminando la nostra esperienza della relazione di causa-effetto che possiamo comprenderne la natura, perché si tratta di conoscenza di questioni di fatto. E l’esame della nostra esperienza della relazione causale rivela che la causalità non consiste in altro che in una costante congiunzione; che A causi B significa che nella nostra esperienza A è costantemente congiunto con B. Non c’è dunque necessità nella relazione causale. Vediamo solo, nel tempo, che allo stesso tipo di eventi segue lo stesso tipo di effetti, e ci abituiamo ad attendere che sia

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così anche in futuro. Ma poiché non abbiamo ancora avuto esperienza del futuro comportamento degli oggetti in questione, la nostra credenza in una particolare relazione di causa ed effetto può riposare solo sul convincimento che il futuro assomiglierà al passato. Per esempio, dal momento che nel passato l’esperienza del mangiare del pane è sempre stata seguita dalla sensazione di essere nutrito, si suppone che il pane nutra in generale e che pertanto anche il prossimo pezzo di pane che si mangerà ci nutrirà. La tesi dell’uniformità 4) Ma perché il futuro deve assomigliare al passato e le leggi di natura devono delle leggi di natura essere le stesse in luoghi diversi? L’esperienza passata può giustificare le nostre credenze sul futuro solo se abbiamo ragioni indipendenti per credere che il futuro sarà come il passato; ma non abbiamo ragioni del genere. D’altra parte, per sopravvivere non abbiamo altra scelta che assumere che il prossimo pezzo di pane ci nutrirà, che il sole sorgerà anche domani, e che in molti altri modi il futuro sarà come il passato. Sono solo le nostre passioni, i nostri desideri e i nostri istinti animali a indurci ad andare oltre la ragione e a credere in cose come l’uniformità della natura o la relazione di causa ed effetto. Conclusione: 5) Per quanto dunque il nostro ragionamento induttivo sia fondato su un ragiol’induzione namento di causa ed effetto, ne segue che esso non ha alcun fondamento, pernon ha giustificazione ché è sempre possibile per una relazione causale essere diversa in futuro. L’urazionale nica base che abbiamo a sostegno dell’inferenza induttiva è la nostra credenza nel fatto che il futuro assomiglierà al passato. Ma che il futuro assomigli al passato è giustificato solo dall’esperienza passata, vale a dire induttivamente, ed è proprio la giustificazione dell’induzione a essere in questione. Pertanto non abbiamo alcuna giustificazione per le nostre pratiche induttive; piuttosto che della ragione, queste sono il prodotto dei nostri istinti animali e delle nostre abitudini. Hume sul problema dell’induzione

Induzione = generalizzazione a partire dall’esperienza

Non si può basare solo sull’esperienza, che sarà sempre incompleta

Non si basa su una relazione logica tra idee

Il solo modo di unire idee che non hanno relazione logica è la relazione di causa-effetto

La relazione causa-effetto è data solo come congiunzione costante e non necessaria

L’induzione richiede la credenza che il futuro sarà come il passato

Tale credenza si basa solo sull’istinto e sull’abitudine

L’induzione non ha fondamento razionale

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Le strategie a difesa dell’induzione

Se Hume avesse ragione, la conoscenza scientifica basata sul metodo induttivo non avrebbe alcun fondamento razionale. Come difendere l’induttivismo dalle sue accuse? Le soluzioni proposte al problema dell’induzione sono di diversi tipi. Una strategia, per esempio, consiste nell’adottare qualche principio e nell’utilizzarlo come premessa dei ragionamenti induttivi in modo da renderli deduttivamente validi. Ciò a cui si ricorre a tale scopo è tipicamente una forma di principio di uniformità della natura. Hume metteva in dubbio la possibilità di giustificare la fondatezza di un simile principio, ma pensa al ruolo fondamentale che hanno assunto nella fisica del Novecento principi di uniformità della natura come quelli di simmetria spazio-temporale, cioè i principi che postulano l’invarianza delle leggi di natura nello spazio e nel tempo (vedi Unità 10, p. 413 ss.). Un altro tipo di strategia mira invece a dissolvere il problema piuttosto che a risolverlo: come quando si sostiene che sia più razionale usare il metodo induttivo che non usarlo, o che siamo più certi della validità dell’induzione di quanto lo si sia degli argomenti che Hume le ha rivolto contro; o come quando si sostiene che la circolarità implicata in una difesa induttiva dell’induzione non sia diversa da quella implicata in una difesa deduttiva della deduzione, e che quindi l’induzione sia altrettanto razionale della deduzione. Ma le strategie di maggior impatto sul dibattito novecentesco circa il metodo scientifico sono, da una parte, quella che si fonda su una soluzione probabilistica al problema dell’induzione, e dall’altra parte, quella più radicale che accantona del tutto l’induzione come base del metodo scientifico, proponendo un resoconto alternativo di come procede e si struttura la conoscenza scientifica.

Probabilità e conferma La soluzione probabilistica al problema dell’induzione consiste nel modificare il principio d’induzione in modo da indebolirne la conclusione, che diventa un’asserzione probabilistica: non si chiede più, cioè, che la generalizzazione universale a cui si arriva sia vera, ma solo che sia probabile, dove ovviamente si desidera (e si cerca di fare in modo) che la probabilità si avvicini quanto più possibile alla certezza. In questo modo il fatto che, nell’inferenza induttiva, partendo da premesse vere non si abbia certezza sulla verità della conclusione (a differenza di quanto accade nella deduzione) non è più problematico. Si accetta il fatto che la conclusione non è certa, ma si fa in modo da valutarne il grado di incertezza, e se possibile diminuirlo. Quello che si fa, in altre parole, è prendere atto del fatto che, nella conoscenza della natura, non arriviamo mai ad attingere la certezza, ma solo un alto grado di probabilità, e che questo sia il massimo che possiamo raggiungere. L’induzione Prendiamo un esempio concreto d’inferenza induttiva: supponiamo di aver osprobabilistica servato, in un grande numero di casi e nelle più svariate circostanze, che i corvi sono neri e di non aver mai trovato un caso di corvo che non fosse nero. Su questa base, mentre l’induzione ingenua arriva alla conclusione «tutti i corvi sono neri», l’induzione probabilistica si limita ad asserire che «c’è una certa probabilità che tutti i corvi siano neri». L’idea che sta alla base di questa strategia è che il valore di probabilità della generalizzazione universale «tutti i corvi sono neri» possa essere rappresentato come una funzione del numero n di esempi positivi osservati: più precisamente, che al crescere di n la probabilità che «tutti i corvi

Indebolire la conclusione

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Conferma, evidenza, probabilità

La teoria della conferma

Diverse nozioni di probabilità

siano neri» tenda al valore 1, cioè alla certezza. (La probabilità p è un numero compreso tra 0 per la probabilità nulla e 1 per la certezza. Se quella che si valuta è la probabilità che un’asserzione sia vera, quando si ha p = 0 l’asserzione è, sicuramente, falsa; quando p = 1 la probabilità è massima, cioè l’asserzione è vera.) Da questo punto di vista ogni nuova osservazione positiva (ogni nuovo caso osservato di corvo nero) assume il valore di ulteriore conferma dell’asserzione universale «tutti i corvi sono neri». Per l’induttivista probabilista, dunque, ogni conoscenza di carattere empirico è soltanto probabile e mai completamente certa; maggiore è la quantità dell’evidenza che si colleziona, maggiore è la certezza della conoscenza ottenuta, ma questo processo non ha necessariamente un termine, e le ipotesi fatte, non importa quanto ben confermate, potrebbero sempre risultare prima o poi false. Per quanto in quest’ottica non si possa mai essere sicuri al cento per cento che una generalizzazione dall’esperienza varrà anche in futuro, il probabilista sostiene che è possibile avvicinarsi molto alla certezza, e che ciò è sufficiente a giustificare la conoscenza scientifica. Se si sposa questa strategia, il problema del fondamento dell’induzione è quindi spostato al problema del rapporto tra un’ipotesi teorica (un’asserzione di carattere universale, come sono le generalizzazioni induttive) e le evidenze che valgono come sue conferme. Compito dell’induttivista probabilista diventa fornire un resoconto plausibile di che cosa voglia dire costituire un’evidenza per un’ipotesi, cioè fornire una teoria della conferma. In tale contesto gioca un ruolo fondamentale la teoria matematica della probabilità, che viene utilizzata per elaborare una precisa logica induttiva. I tentativi più rilevanti in questa direzione sono quelli di due dei maggiori protagonisti dell’empirismo logico, Reichenbach e Carnap. Entrambi, pur partendo da concetti diversi di probabilità, hanno dedicato molto lavoro al tentativo di elaborare una teoria a priori della logica induttiva attraverso la quale poter calcolare il grado di conferma di ogni particolare ipotesi. Qualsiasi teoria della conferma, tuttavia, deve fare i conti con due principali problemi, innanzitutto quello posto dalla nozione stessa di probabilità. Esistono infatti differenti definizioni della probabilità, che sono diversamente appropriate a seconda dei contesti considerati. La definizione classica di probabilità la identifica con il rapporto tra il numero di casi favorevoli all’evento di cui si valuta la probabilità e il numero di tutti i casi ugualmente possibili. Questa definizione è senz’altro adeguata per situazioni come quella in cui si valuta la probabilità dell’uscita di una faccia di un dado o di una moneta: per esempio, la probabilità che esca la faccia 2 nel lancio di un dado è uguale a 1/6, dove 1 è il numero di casi favorevoli e 6 è il numero di casi possibili, supponendo che il dado non sia truccato e che quindi le sue facce abbiano tutte la stessa probabilità. La probabilità classica non va tuttavia bene per situazioni come quelle in cui si valuta la probabilità di guarigione da una determinata malattia o degli incidenti aerei per una certa compagnia, nelle quali è più adatta una nozione frequentista di probabilità: al posto dei casi equipossibili, si considerano i casi effettivamente sperimentati e si considera quindi la frequenza relativa dell’evento in questione, cioè quante volte esso si verifica rispetto al numero di casi osservati. Se invece i casi rispetto ai quali si misurano quelli favorevoli non possono essere osservati, come per esempio quando si vuole valutare la probabilità di trovare altre forme di vita nell’universo, si deve ricorrere ancora ad altre nozioni, come la nozione logica di probabilità, in accordo alla quale la probabilità è concepita come la misura del799

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l’evidenza a favore di un’ipotesi ed è definita nei termini di una relazione logica tra una coppia di asserzioni: quella che esprime l’ipotesi e quella che esprime l’evidenza a favore dell’ipotesi. Un’altra alternativa per le situazioni in cui non si possono osservare tutti i casi è la nozione soggettiva di probabilità, che identifica la probabilità con il grado di credenza di una persona razionale nei confronti di una data ipotesi sulla base dell’evidenza a disposizione, ed è una nozione che spesso viene precisata nei termini di quanto si è disposti a scommettere a favore dell’ipotesi in questione. Nozioni di probabilità

Definizione

Situazioni di applicazione

p = numero di casi favorevoli / numero di casi equipossibili

Quando tutti i casi possibili hanno la stessa probabilità di verificarsi

Nozione frequentista di probabilità

p = frequenza dei casi favorevoli / numero di casi osservati

Quando non è nota la probabilità dei singoli casi ma è possibile l’osservazione sistematica

Nozione logica di probabilità

p = relazione logica tra ipotesi ed evidenza a favore

Quando si ha a disposizione una buona teoria della conferma

Nozione soggettiva di probabilità

p = grado di credenza nell’ipotesi di una persona razionale in base all’evidenza disponibile a favore

Quando si è disposti a scommettere sulla validità dell’ipotesi

Nozione classica di probabilità

Che cos’è una conferma?

Il paradosso della conferma di Hempel

Il nuovo enigma dell’induzione di Goodman

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Il secondo problema riguarda che cosa può valere come ‘conferma’ di un’ipotesi. Che cosa voglia dire per qualcosa costituire un’evidenza a favore di un’ipotesi, se le istanze positive facciano sempre crescere la nostra confidenza in un’ipotesi e si disponga di un buon criterio per capire quali siano davvero le istanze positive sono infatti questioni aperte, come dimostrano i cosiddetti «paradossi della conferma». Il primo paradosso, messo in luce nel 1945 da Carl Hempel (1905-1997), un eminente rappresentante dell’empirismo logico, riguarda casi come quello dell’inferenza induttiva sul colore dei corvi visto sopra in cui il valore di probabilità della conclusione è in funzione del numero di istanze positive osservate. In questa prospettiva ogni nuovo esempio positivo osservato fa crescere il valore di probabilità dell’ipotesi: nel caso discusso, ogni nuova osservazione di un corvo nero rende più probabile la verità dell’asserzione «tutti i corvi sono neri», rappresentandone una nuova conferma. Il problema nasce considerando il fatto che, secondo la logica, le due proposizioni «tutti i corvi sono neri» e «tutte le cose che non sono nere non sono corvi» sono equivalenti. Dal momento che sembra ragionevole supporre che, quando una certa evidenza empirica conferma una data ipotesi, essa confermi anche le ipotesi che sono ad essa logicamente equivalenti, si arriva alla seguente paradossale situazione: l’osservazione di un qualsiasi oggetto che non sia un corvo e che non sia nero, come per esempio una rosa rossa o un cigno bianco, vale come conferma dell’ipotesi «tutti i corvi sono neri», in quanto conferma l’ipotesi logicamente equivalente «tutte le cose che non sono nere non sono corvi». Un altro paradosso è quello discusso dal filosofo americano Nelson Goodman (1906-1998) nel 1953 e noto come «nuovo enigma dell’induzione». La difficoltà messa in evidenza da Goodman riguarda il fatto che non sempre gli esempi po-

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sitivi fungono da supporto di una generalizzazione induttiva. Questo avviene quando una stessa evidenza empirica corrobora in ugual misura più ipotesi. Goodman illustra questa situazione mettendo a confronto le due seguenti generalizzazioni: 1) «tutti gli smeraldi sono verdi»; 2) «tutti gli smeraldi sono blerdi». Il predicato «blerde» (contrazione di «blu + verde») introdotto da Goodman ha il seguente significato: un qualcosa è «blerde» se, quando è osservato prima del tempo t è verde, mentre quando è osservato dopo il tempo t è blu. Supponiamo che il tempo t coincida con l’istante presente. Tutti i casi di smeraldi verdi osservati finora (senza che si sia mai trovato uno smeraldo che non fosse verde) fungono da supporto empirico per la generalizzazione «tutti gli smeraldi sono verdi». Il problema è che i casi di smeraldi verdi osservati, allo stesso modo in cui confermano questa generalizzazione, altrettanto confermano la seconda generalizzazione «tutti gli smeraldi sono blerdi». Secondo la definizione di «blerde», infatti, tutti gli smeraldi verdi fino a ora osservati sono anche «blerdi». Con quali predicati Il predicato «blerde» è ovviamente artificioso, ma il punto che sottolinea Goodsi possono man con questo esempio è che abbiamo bisogno di un modo per distinguere i prefare induzioni? dicati con cui possiamo legittimamente svolgere le nostre inferenze induttive da quelli con cui non possiamo farlo. Il problema evidenziato da Goodman sussisterebbe anche se riuscissimo a risolvere il problema ordinario dell’induzione; il che dimostra l’opportunità di un trattamento molto attento di che cosa possa valere come evidenza empirica.

La vita e le opere Nelson Goodman, filosofo americano, nacque a Sommerville (Massachusetts) il 7 agosto 1906. Dopo la laurea in filosofia a Harvard nel 1928, parallelamente agli studi di dottorato nella stessa università si dedicò al commercio di opere d’arte. Dopo il dottorato insegnò filosofia in varie università fino a reinsediarsi definitivamente a Harvard nel 1968. Goodman fu uno dei maggiori esponenti della filosofia analitica americana e si segnalò in particolare per la molteplicità dei suoi interessi: per tutta la sua carriera affiancò allo studio del linguaggio e della

conoscenza scientifica lo studio dei linguaggi dell’arte e del contributo delle opere d’arte alla costruzione della conoscenza umana del mondo. Le sue opere ebbero un impatto importante in entrambi i campi dell’epistemologia e dell’estetica. Goodman è morto a Needham (Massachusetts) il 25 novembre 1998. Tra le sue opere principali si segnalano La struttura dell’apparenza (1951), Fatti, finzione e previsione (1954), I linguaggi dell’arte (1968), Problemi e progetti (1972), Modi di fabbricazione del mondo (1978).

La soluzione falsificazionista Invece di cercare un modo di giustificare razionalmente l’induzione, un’altra strategia è quella di offrire un resoconto alternativo di come procede la conoscenza scientifica, mettendo del tutto da parte l’induzione. Di questo tipo è la risposta radicale al problema dell’induzione proposta da Popper nella Logica della scoperta scientifica (1935) (vedi Unità 16, p. 736 ss.). Per Popper si tratta di uno pseudoproblema perché la scienza non si basa sull’induzione, e quindi su una teoria della conferma, per la propria giustificazione. Le teorie vaghe sono Secondo Popper è proprio il ritenere che siano le progressive conferme a rendele più facilmente re scientifica una ipotesi o teoria il punto da rifiutare. È infatti fin troppo facile confermate accumulare istanze positive che confermano una teoria, soprattutto se la teoria è così generale nelle sue asserzioni da sembrare non escludere niente. Le teorie L’abbandono dell’induttivismo

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La distinzione tra scoperta e giustificazione

L’oggetto dell’epistemologia è la giustificazione

Il ruolo del controllo empirico

Scientifico come confutabile

La falsificabilità come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza

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che sembrano avere un grande potere esplicativo, come il marxismo e la psicoanalisi, vanno guardate con sospetto, proprio perché attraverso di esse sembra possibile spiegare un tale numero e una tale varietà di cose. Il problema di queste teorie, per Popper, è che non avanzano previsioni precise, e che, proprio per questo loro essere vaghe, possono inglobare ogni genere di cosa. Infatti, più una teoria è vaga (e quindi poco scientifica, in accordo al senso comune), più è facile trovare istanze confermative. Da qui la conclusione di Popper che il metodo scientifico non vada assolutamente centrato sul momento della conferma, come fanno gli induttivisti. Ma su che cosa basarsi allora, per caratterizzare la ‘scientificità’ di una teoria? Nel rispondere a questa domanda Popper opera una preliminare e importante distinzione tra due momenti della conoscenza scientifica, «il processo che consiste nel concepire una nuova idea» e «i metodi e i risultati dell’esaminarla logicamente», diventata nota come la distinzione tra il contesto della scoperta e il contesto della giustificazione. Il punto fondamentale, per Popper, è che il compito dell’epistemologia o «logica della conoscenza» riguarda solo il secondo momento del processo conoscitivo, quello della giustificazione: «esso consiste unicamente nell’investigare i metodi impiegati in quei controlli sistematici ai quali dev’essere sottoposta ogni nuova idea che si debba prendere seriamente in considerazione». Mentre la ricostruzione dei processi che caratterizzano il primo momento nel formarsi di una teoria, quello della scoperta o «congettura» di nuove idee, non sono il compito della logica, bensì della psicologia della conoscenza. Secondo Popper, infatti, «non esiste nessun metodo logico per aver nuove idee», in quanto «ogni scoperta contiene un ‘elemento irrazionale’ o ‘un’intuizione creativa’». L’elaborazione di una metodologia scientifica si deve quindi basare sul momento della giustificazione; ma questa, secondo Popper, non può essere centrata sulla nozione di verificazione. Come si è già visto, il problema della validità del principio d’induzione consiste proprio nell’impossibilità di verificare empiricamente, cioè per mezzo di osservazioni empiriche espresse da asserzioni singolari, un’ipotesi teorica espressa da un’asserzione universale: per verificarla sarebbe necessaria l’osservazione di tutti i casi possibili contemplati dall’asserzione universale. Nemmeno la versione indebolita della verificazione, che è rappresentata dalla nozione di conferma, va bene per Popper, per i motivi ricordati sopra. Ma il ruolo dell’osservazione non è per questo sminuito: deve solo essere interpretato in modo diverso, non più come base per la verificazione o conferma ma come elemento di controllo. Una ipotesi o teoria è «empirica o scientifica», per Popper, «solo quando può essere controllata dall’esperienza», può cioè essere messa alla prova ed eventualmente confutata empiricamente. «Scientifico» è quindi ciò che è confutabile in base all’esperienza, o – secondo la terminologia usata da Popper – falsificabile: per esempio, l’asserzione «domani qui pioverà o non pioverà» non è scientifica perché non può essere falsificata; sono invece falsificabili le asserzioni «domani qui pioverà» e «domani qui non pioverà», che possono essere sottoposte a controllo empirico Alla verificabilità di una teoria come criterio di demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, Popper sostituisce così la falsificabilità, e a sostegno di questa sua soluzione al problema della demarcazione, adduce due ordini di considerazioni tra loro strettamente connesse. In primo luogo il fatto che la conoscenza scientifica sia fondata su leggi, cioè asserzioni di carattere universale.

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T1

L’asserzione scientifica

K. Popper, La logica della scoperta scientifica

[…] la quantità di informazione intorno al mondo fornita da un’asserzione scientifica è tanto più grande quanto maggiore è la possibilità che essa entri in conflitto, in virtù del suo carattere logico, con possibili asserzioni singolari (non per nulla chiamiamo «leggi» le leggi di natura: quanto più vietano, tanto più dicono). In secondo luogo, la completa asimmetria tra il procedimento di verificazione e quello di falsificazione di un’asserzione universale.

T2

L’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità K. Popper, La logica della scoperta scientifica

[…] la mia proposta si basa su un’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venir contraddette da asserzioni singolari. Di conseguenza è possibile, per mezzo di inferenze puramente deduttive […], concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali. Un tale ragionamento, che conclude alla falsità di asserzioni universali, è il solo tipo di inferenza strettamente deduttiva che proceda, per così dire, nella «direzione induttiva»; cioè da asserzioni singolari ad asserzioni universali.

Se si prende ad esempio l’asserzione universale «tutti i cigni sono bianchi», indipendentemente dal numero osservato di istanze positive (cigni bianchi) è sempre possibile che la successiva istanza (il prossimo cigno che osserveremo) la falsifichi. In altre parole, le istanze positive non bastano mai. Mentre è sufficiente osservare un solo cigno che non è bianco per falsificare tale ipotesi. Il controllo Centrando il criterio di scientificità sulla falsificabilità, Popper ne conclude che come tentativo la scienza procede senza induzione, dal momento che l’inferenza da un’istanza di confutazione falsificante alla falsità di una teoria è di natura puramente deduttiva. Su questa base costruisce una metodologia scientifica, il falsificazionismo, secondo la quale il procedere scientifico consiste, invece che nell’accumulazione di istanze positive per confermare le ipotesi teoriche (come per gli induttivisti), nella ricerca di evidenze negative per mettere alla prova o cercare di falsificare tali ipotesi. La scienza, secondo Popper, procede per «congetture e confutazioni». Quando si è sviluppata un’ipotesi o fatta una congettura, bisogna dedurne predizioni che ne consentano il controllo sperimentale. Se il controllo conduce a un risultato negativo, l’ipotesi è falsificata e deve essere abbandonata; ma se il risultato del controllo è positivo e quindi l’ipotesi non è falsificata, ciò non significa che sia vera ma solo che dovrà essere sottoposta a controlli ancora più rigorosi e a tentativi ancora più ingegnosi di falsificarla. Secondo Popper, la scienza procede infatti attraverso un analogo della selezione naturale, e gli scienziati imparano solo dai propri errori. Le teorie più adeguate sono le teorie che sono sopravvissute a ripetuti tentativi di falsificazione e in quanto tali sono maggiormente «corroborate», ma questo non vuol dire che non possano essere falsificate in futuro. Nella scienza, per Popper, tutto è dunque provvisorio e sottoposto a continue correzioni e sostituzioni.

Un solo caso contrario è sufficiente a falsificare una teoria

Induttivismo e falsificazionismo Induttivismo

Falsificazionismo

Le teorie scientifiche sono costruzioni basate sulla generalizzazione dall’esperienza

La creazione delle teorie scientifiche (contesto della scoperta) va distinta dal loro controllo empirico (contesto della giustificazione)

Il controllo empirico avviene sulla base delle progressive conferme ottenute dall’esperienza

Il controllo empirico avviene tentando di smentire le ipotesi sulla base di casi contrari ottenuti dall’esperienza (falsificazione)

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Ma la conoscenza scientifica procede davvero in questo modo? Il falsificazionismo presenta diversi problemi, alcuni dei quali sono piuttosto generali e mettono in dubbio il fatto che si possa dar conto del metodo scientifico senza utilizzare affatto l’inferenza induttiva. Ricordiamo qui di seguito alcune delle principali difficoltà che incontra la metodologia popperiana. Primo problema: Secondo il resoconto falsificazionista, il controllo delle teorie scientifiche proceil valore falsificante de nel seguente modo: gli scienziati deducono una previsione da un’ipotesi, comdegli esperimenti piono un esperimento per vedere se la previsione è corretta e, se l’osservazione non la conferma, decidono che l’ipotesi è falsificata. Schematicamente, varrebbe cioè la seguente inferenza deduttiva relativamente a un’ipotesi I e all’asserto osservativo O che è implicato da essa e la falsifica:

I problemi del falsificazionismo

(a) I → O (I implica O, dove O può essere deciso tramite l’osservazione) (b) O (O è falso) (c)

I (I è falsa.)

dove il simbolo → rappresenta l’implicazione logica, il simbolo la negazione logica, e lo schema si legge come: date le premesse (a) e (b), segue la conclusione (c). Se per esempio I è l’ipotesi che tutti i metalli si espandono quando sono riscaldati, e O è l’asserto che un particolare campione di ferro si espande quando viene riscaldato, I implica chiaramente O. Ne segue che, se O è falso, I è falsificata. L’olismo di Duhem In realtà le cose non funzionano proprio così. Come osservava Pierre Duhem nele Quine la sua opera La teoria fisica, «un esperimento fisico non può mai condannare una singola isolata ipotesi, ma solo un intero corpo teorico». In altre parole, le predizioni implicate da una teoria scientifica non derivano mai da singole e isolate ipotesi, come sembrerebbe dallo schema visto sopra, ma sempre da un insieme di ipotesi, ed è questo insieme a essere eventualmente in contraddizione con il risultato dell’esperimento. La scienza fisica, per Duhem, «è un sistema che deve essere preso come un intero». La sua è una concezione olistica della fisica, concepita come «un organismo» in cui una parte non può essere fatta funzionare senza chiamare in gioco anche tutte le altre. Un olismo che è portato alle sue estreme conseguenze da Quine, che arriva a includere nell’insieme di ipotesi da considerare congiuntamente anche le leggi della logica.

La vita e le opere Pierre Duhem, fisico, filosofo e storico della scienza francese, nacque a Parigi il 10 giugno 1861. Duhem iniziò la sua carriera come scienziato, dando rilevanti contributi nell’applicazione della termodinamica in vari ambiti della fisica e della chimica e insegnando fisica teorica all’università di Bordeaux. A partire dal 1893 affiancò all’attività di ricerca scientifica gli studi di filosofia della scienza e poi di storia della scienza, soprattutto in relazione al Medioevo. In seguito è stato ricordato e studiato soprattutto per le sue tesi epistemologiche e storiche. Cattolico fervente, fu un convinto sostenitore della conciliazione tra scienza e fede, asserendo che la sua concezione metafisica e religiosa del mondo non aveva af-

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fatto limitato le sue ricerche fisiche e filosofiche. Nelle sue analisi storiche egli cercò di evidenziare gli elementi di continuità tra la scienza medievale e la scienza moderna, in controtendenza rispetto alla tesi prevalente tra gli specialisti dell’assoluta novità della scienza moderna, in particolare della meccanica. Duhem morì in seguito a una crisi cardiaca a Cabrespine (Francia) il 14 settembre 1916. Le sue opere maggiori sono il volume teorico di filosofia della scienza La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura (1906) e la ponderosa opera storica non tradotta in italiano, Le système du monde: histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic (1913-1959) in dieci volumi, in gran parte pubblicati postumi.

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A illustrazione del problema che nasce riguardo al valore falsificante degli esperimenti, Duhem discute un caso realmente avvenuto e da molti considerato come un esperimento cruciale per quanto riguarda la teoria della luce. Il contesto storico è rappresentato dal dibattito tra i sostenitori di due teorie rivali sulla natura della luce: la teoria corpuscolare, attribuita a Newton, che vedeva la luce come un flusso di minuscole particelle in rapido movimento, e la teoria ondulatoria, dovuta in buona parte all’olandese Christiaan Huygens (1629-1695), che vedeva la luce come una perturbazione a onda che si propagava attraverso un mezzo etereo che permeava tutto lo spazio. La teoria corpuscolare prediceva che la velocità della luce nell’acqua sarebbe risultata superiore a quella nell’aria, la teoria ondulatoria il contrario. Verso la metà del XIX secolo venne allestito un esperimento considerato decisivo per stabilire quale delle due predizioni fosse in accordo con l’esperienza. L’esperimento, condotto dal fisico francese Léon Foucault (1819-1868), era allestito in modo tale che la predizione derivata dalla teoria corpuscolare era esprimibile dall’asserto singolare «la macchia priva di colore appare alla destra di quella verdastra», mentre la predizione derivata dalla teoria ondulatoria era esprimibile dall’asserto «la macchia priva di colore appare alla sinistra di quella verdastra». Sembrava quindi di avere a disposizione un caso esemplare di «esperimento cruciale»: bastava osservare se la macchia priva di colore risultasse a destra o a sinistra di quella verdastra e il risultato avrebbe permesso di stabilire quale delle due teorie rivali fosse quella confermata (o, nella terminologia popperiana, quella non falsificata). Quando l’esperimento fu portato a termine, si determinò di fatto che la luce si era mossa più lentamente nell’acqua che nell’aria, e furono in molti a interpretare questo risultato come una definitiva confutazione dell’ipotesi corpuscolare. Ma la situazione, come osserva Duhem, non è così semplice. La teoria corpuscolare, dalla quale segue che la luce si muove più rapidamente nell’acqua che nell’aria, comprende una serie di assunzioni oltre a quella secondo la quale la luce consiste di particelle (come per esempio l’assunzione che le particelle di luce si attraggono e respingono a vicenda, ma con forze che risultano trascurabili se le particelle sono molto vicine tra loro). È la congiunzione di queste ipotesi a essere falsificata dall’esperimento, non necessariamente l’ipotesi che la luce consista di particelle. Lo schema Se si accetta l’analisi di Duhem, lo schema di falsificazione precedente deve esdi falsificazione sere corretto e sostituito nel seguente modo (indicando con A l’insieme di assunsecondo la concezione zioni ausiliari che accompagnano l’ipotesi I) Un esempio storico: l’«esperimento cruciale» di Foucault sulle teorie della luce

olistica

(a) (I & A) → O (I insieme ad A implicano O) (b) O (O è falso) (c)

(I & A) (la congiunzione di I e A è falsa.)

Ciò che risulta è quindi la falsificazione della congiunzione dell’ipotesi con l’insieme di assunzioni ausiliari A. Questo significa tre possibili situazioni: 1) l’ipotesi I è falsa; 2) una o più assunzioni dell’insieme A sono false; 3) sia I sia una o più assunzioni dell’insieme A sono false. Non è sicuro La falsità della sola ipotesi I rappresenta quindi soltanto una delle tre possibiche l’ipotesi sia falsa lità. Come si fa a sapere se a essere stata falsificata dall’esperimento sia l’ipotesi messa alla prova e non piuttosto qualche altra assunzione nell’insieme A? Ma 805

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La risposta di Popper

Secondo problema: la non falsificabilità di alcune categorie di asserzioni scientifiche

Terzo problema: la non corrispondenza con il comportamento effettivo degli scienziati

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si può essere ancora più radicali e, seguendo Quine, includere nell’insieme di assunzioni ausiliari A anche le leggi della logica, e così inserire l’ulteriore possibilità che a essere falsificata sia solo la logica mentre tutte le assunzioni fisiche sono corrette. Come può dunque difendersi Popper di fronte a questo problema? Popper è costretto ad ammettere che non è possibile che un esperimento confuti in modo definitivo una teoria. La sua scappatoia, che tuttavia non elimina la questione, sta nel sostenere che, accanto a un insieme di asserti sperimentali che costituiscono i falsificatori potenziali di una teoria, deve esserci anche un insieme di procedure sperimentali, di tecniche, e così via, che garantisca che gli scienziati possano trovare un accordo sul modo in cui determinare la verità o la falsità di ciascun asserto osservativo. Popper si richiama così al carattere intersoggettivo della conoscenza scientifica per difendere il valore della propria metodologia: la falsificazione è possibile solo se gli scienziati sono intersoggettivamente concordi su cosa è sottoposto a controllo in ogni determinata occasione. Il criterio di falsificabilità non sembra applicabile a una parte di asserzioni che sono legittimamente ritenute ‘scientifiche’, come: 1) le asserzioni esistenziali (gli enunciati che asseriscono l’esistenza di entità non direttamente osservabili – le cosiddette «entità teoriche» – come i quark o i buchi neri, non sono falsificabili nel senso di Popper); 2) le asserzioni probabilistiche nel caso di eventi singoli (per esempio, l’asserzione «la probabilità che dal lancio di una moneta risulti la faccia ‘testa’ è 1/2» non è falsificabile con l’osservazione di che cosa succede con un lancio della moneta, visto che la probabilità 1/2 è consistente con i due possibili esiti, testa e croce). La metodologia falsificazionista è spesso contraddetta dal modo in cui si comportano di fatto gli scienziati. La storia della scienza offre numerosi esempi di casi in cui, piuttosto che abbandonare una teoria di fronte a una falsificazione, si cercano modifiche o assunzioni supplementari pur di salvarla. Questo fatto è riconosciuto e accettato dallo stesso Popper, che concede la possibilità di salvare una teoria di fronte a una falsificazione con l’aggiunta di ulteriori assunzioni, purché queste non siano puramente ad hoc. Come si distingue tra assunzioni genuine e assunzioni ad hoc? Secondo Popper in base al fatto che le assunzioni genuine implicano nuove predizioni. Un esempio è fornito da un caso della storia della scienza ottocentesca: la difformità dell’orbita osservata del pianeta Urano rispetto a quanto prevedeva la meccanica newtoniana. Invece di considerare per questo motivo falsificata la teoria newtoniana, si ipotizzò l’esistenza di un altro pianeta (Nettuno) per render conto dei dati. Un simile comportamento è accettabile, secondo Popper, perché, avanzando la previsione che il nuovo pianeta sarebbe stato osservabile, tale modifica accresceva il contenuto empirico della teoria (e di fatto Nettuno venne poi davvero osservato). Ma se in questo caso il problema trovò presto una soluzione, a volte si prosegue per anni, addirittura per decenni, con una teoria che è palesemente falsificata. Lo dimostra lo stesso caso della teoria della gravitazione newtoniana, che pur falsificata dai risultati sperimentali ottenuti per alcune caratteristiche dell’orbita del pianeta Mercurio, resistette per decenni. Solo quando Einstein elaborò la teoria generale della relatività che, tra le altre cose, prediceva in modo corretto i valori osservati per l’orbita di Mercurio, si accettò di abbandonare la teoria newtoniana (vedi Unità 10, p. 421).

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In generale si può dire che, quando gli scienziati hanno a disposizione una teoria di successo (come indubbiamente è stata la meccanica newtoniana), è solo in presenza di alternative di successo maggiore (nel caso considerato, la teoria generale della relatività) che sono disposti ad abbandonare la teoria di partenza: l’esistenza di osservazioni falsificanti non costituisce di per sé una ragione sufficiente, al contrario di quanto vorrebbe il falsificazionismo popperiano. I meriti Se, in conclusione, il falsificazionismo non sembra essere in grado di rappresendell’epistemologia tare una completa e soddisfacente risposta al problema del metodo scientifico, di Popper vanno comunque riconosciuti a Popper dei meriti fondamentali relativamente al progresso del dibattito epistemologico. Popper ha attirato l’attenzione su aspetti del buon procedere scientifico che sono ora molto enfatizzati, come un atteggiamento critico nei confronti del sapere ricevuto e l’uso del pensiero creativo per risolvere i problemi attraverso congetture audaci che aprano la via a nuove possibilità in campo sia teorico sia sperimentale. Oggi è generalmente accettato che la nascita delle teorie scientifiche non segue precise regole metodologiche come pensavano gli induttivisti prima maniera, ma risulta da un’attività in gran parte creativa, come sottolineato da Popper. E chi accetta questo riconosce anche, di conseguenza, che parlando di metodologia scientifica sia fondamentale distinguere tra il modo in cui le teorie vengono concepite e il successivo procedimento attraverso il quale esse vengono controllate.

Le teorie di successo

L’induttivismo sofisticato e la ‘concezione standard’ La distinzione popperiana tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione è stata, come si è visto, molto importante per lo sviluppo della discussione sulla metodologia scientifica e ha portato, in particolare, a una modificazione dell’induttivismo dalla forma ‘ingenua’ iniziale alla forma ‘sofisticata’ dei principali protagonisti dell’empirismo logico, primo fra tutti Carnap (vedi Unità 16, p. 729 ss.). L’induttivista sofisticato, a differenza di quello ingenuo, separa infatti la questione relativa al modo in cui le teorie sono elaborate dalla questione relativa al modo in cui le teorie vanno controllate rispetto alle loro rivali. Le teorie possono essere elaborate in qualsiasi modo, e viene riconosciuto il ruolo, in questa fase, di fattori non razionali come possono essere le convinzioni metafisiche o le credenze religiose dei singoli scienziati. È nel momento della giustificazione delle teorie che interviene la metodologia scientifica, che per l’induttivista sofisticato consiste essenzialmente nell’elaborazione di una teoria razionale della conferma, dove il loro grado di conferma è dato dalla relazione che intercorre tra l’evidenza disponibile e la teoria scientifica. I punti in comune La discussione sul metodo scientifico ci ha così portato dall’induttivismo ingetra Popper nuo al falsificazionismo di Popper per finire con una forma più sofisticata di ine l’empirismo logico duttivismo, che è di fatto quella sposata dai principali esponenti dell’empirismo logico (la concezione dominante nella filosofia della scienza dopo la Seconda guerra mondiale fino agli anni sessanta del Novecento). Tra gli empiristi logici e Popper ci sono dunque differenze sostanziali riguardo al modo di affrontare il problema dell’induzione e alla scelta del criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza. Ma ci sono anche importanti consonanze, a cominciare dalla profonda convinzione che la scienza rappresenti una forma di conoscenza razionale e oggettiva. Tra gli aspetti che sicuramente accomunano le concezioni sul-

L’elaborazione di una teoria razionale della conferma

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Il carattere cumulativo della scienza Il carattere unitario della scienza

La distinzione tra scoperta e giustificazione

Il carattere ‘neutrale’ dell’osservazione La distinzione tra termini teorici e termini osservativi Il riferimento fisso La critica alla concezione standard

la natura della scienza di Popper e degli empiristi logici, possiamo ricordare: 1) il carattere cumulativo dell’impresa scientifica: gli scienziati costruiscono partendo dai risultati dei loro predecessori, e il progresso della scienza comporta una crescita costante della nostra conoscenza del mondo; 2) il carattere unitario della scienza, sia nel senso metodologico (esiste un unico insieme di metodi fondamentali che valgono per tutte le scienze), sia nel senso del riduzionismo, per cui tutte le scienze naturali sono considerate (in linea di principio) riducibili alla fisica, che si occupa dei costituenti ultimi della materia e quindi di tutte le cose che compongono il mondo fisico; 3) la netta distinzione epistemologica tra il contesto della scoperta e il contesto della giustificazione, per cui aspetti come le particolari motivazioni e le contingenti cause da cui hanno avuto origine le teorie sono considerati del tutto irrilevanti rispetto alla questione principale della conferma o corroborazione delle teorie; 4) il carattere ‘neutrale’ dell’osservazione: l’osservazione e gli esperimenti costituiscono una base neutrale (cioè oggettiva, non condizionata dalle teorie) per la conoscenza scientifica, o almeno per il controllo delle teorie scientifiche; 5) la possibilità di tracciare una netta distinzione, nel linguaggio di una teoria, tra i termini che si riferiscono a qualcosa di direttamente osservabile (come «rosso», «bagnato», «caldo») e quelli che invece non hanno questo tipo di immediato riferimento (come «gravità», «carica», «elettrone»); 6) la fissità del riferimento: i termini usati nelle teorie si riferiscono a determinati oggetti del mondo fisico e questo riferimento non cambia nel tempo. Ma tutti questi punti, che caratterizzano quella che è diventata nota come «concezione standard» della scienza, vengono posti in discussione dallo storico e filosofo della scienza americano Thomas Kuhn. Con la sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn segna una svolta decisiva nel dibattito epistemologico, proponendo una concezione della scienza e della sua evoluzione che sembra mettere del tutto in crisi l’idea del carattere razionale e oggettivo dell’impresa scientifica.

La vita e le opere Thomas Samuel Kuhn, filosofo e storico della scienza americano, nacque a Cincinnati (Ohio) il 18 luglio 1922. Dopo gli studi di fisica a Harvard, insegnò nella stessa università storia della scienza a partire dal 1948. Nel 1956 si trasferì all’università di Berkeley e successivamente a Princeton e poi al MIT (Massachusetts Institute of Technology) e continuò per tutta la sua carriera accademica a occuparsi sia di questioni di filosofia che di storia della scienza. Negli anni sessanta raggiunse una grande fama con la sua opera principale, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che dette luogo a un vastis-

simo dibattito, di fatto non ancora esaurito, cambiò il linguaggio della filosofia della scienza diffondendo l’uso di termini come «rivoluzione scientifica» e «paradigma» e si dimostrò così uno dei testi maggiormente influenti e discussi della filosofia della scienza del Novecento. Kuhn morì il 17 giugno 1996 dopo una lunga malattia. La sua opera maggiore è il volume già citato La struttura delle rivoluzioni scientifiche (prima edizione 1962, seconda edizione 1970); tra le altre opere più importanti si possono citare il precedente lavoro La rivoluzione copernicana (1957) e la successiva raccolta di saggi La tensione essenziale (1977).

Rivoluzioni scientifiche e relativismo Una concezione basata sulla storia

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Kuhn è un fisico di formazione, e come tale compie i primi passi della sua carriera accademica a Harvard. È tenendo un corso di generale educazione scientifica agli studenti di indirizzo umanistico che ha l’occasione di approfondire sto-

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Unità 18 La filosofia della scienza

ricamente alcuni momenti significativi dello sviluppo scientifico. L’analisi storica di teorie e pratiche scientifiche del passato lo conduce poi a interessarsi di filosofia della scienza, non per questo lasciando da parte la storia della scienza. Anzi, la concezione della scienza che arriva a elaborare è, come dichiara egli stesso, «storicamente impostata». Si tratta cioè di una concezione che, a differenza di quanto era avvenuto fino ad allora (tranne poche eccezioni) nell’ambito della filosofia della scienza, attribuisce alla storia della scienza – intesa nel senso dell’esame approfondito di come si sono effettivamente sviluppate e avvicendate le teorie scientifiche – un ruolo centrale nella riflessione sul metodo e sul progresso scientifico. Non a caso il suo testo comincia nel seguente modo:

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Storia e filosofia della scienza T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche

La storia, se fosse considerata come qualcosa di più che un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati. Fino ad oggi questa immagine è stata ricavata, anche dagli stessi scienziati, principalmente dallo studio dei risultati scientifici definitivi quali essi si trovano registrati nei classici della scienza e più recentemente nei manuali scientifici, dai quali ogni nuova generazione di scienziati impara la pratica del proprio mestiere. È però inevitabile che i libri di tal genere abbiano uno scopo persuasivo e pedagogico: una concezione della scienza ricavata da essi non è verosimilmente più adeguata a rappresentare l’attività che li ha prodotti di quanto non lo sia l’immagine della cultura di una nazione ricavata da un opuscolo turistico o da una grammatica della lingua. Questo saggio cerca di mostrare che essi ci hanno portato a fraintendimenti fondamentali. Il suo scopo è quello di abbozzare una concezione assai diversa della scienza, quale emerge dalla documentazione storica della stessa attività di ricerca.

Qual è dunque la nuova immagine della scienza e del suo sviluppo a cui arriva Kuhn sulla base della «documentazione storica dell’attività di ricerca»? Lo studio attento di casi come quello della cosiddetta «rivoluzione copernicana» (alla quale dedica uno specifico volume di ricostruzione storica), e allo stesso tempo dei comportamenti delle comunità scientifiche (sia del passato sia del presente) nell’organizzare e compiere le attività di ricerca, portano Kuhn a concepire le due nozioni principali sulle quali si fonda la sua visione epistemologica: la nozione di paradigma, e la nozione di rivoluzione scientifica. La nozione Un paradigma, per Kuhn, è ciò che viene condiviso per un certo periodo da una di paradigma comunità scientifica: «Con tale termine voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca». Esempi di paradigmi in questo senso sono l’analisi aristotelica del movimento, il calcolo tolemaico della posizione dei pianeti, la meccanica di Newton, la teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell, la relatività einsteiniana e così via. Il ruolo del paradigma Il ruolo che Kuhn attribuisce alla nozione di paradigma è quindi quello di fornire ai componenti di una comunità scientifica «un modello di problemi e soluzioni accettabili», il che poi viene a significare, nella sua concezione, una precisa visione del «mondo entro il quale viene fatto il lavoro scientifico». Proprio dall’osservazione di come, di fatto, si comportano (o si sono comportati nel passato) i membri delle comunità scientifiche nello svolgere il loro lavoro di ricerca, di elaborazione e di trasmissione del sapere, Kuhn arriva infatti alla conclusione che la maggior parte dell’attività scientifica sia condotta nel quadro di un deterLa nuova immagine della scienza di Kuhn

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

L’attività della scienza normale

La valutazione delle teorie non è oggettiva

T4

L’osservazione non è neutrale

N.R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica

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minato paradigma. A questo tipo di attività egli dà il nome di scienza normale: «“Scienza normale” significa una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore». L’attività della scienza normale consiste quindi nell’elaborazione e nell’estensione del successo del paradigma: per esempio, nel raccogliere un gran numero di nuove osservazioni e nel renderle compatibili con le teorie accettate, e nel risolvere i problemi che sorgono all’interno del paradigma. Per illustrare questa attività, Kuhn utilizza l’analogia con quella di «risoluzione di rompicapo»: la ricerca scientifica in un periodo di scienza normale è simile all’attività di risolvere dei rompicapo, dove le regole da seguire sono determinate dal paradigma dominante. La maggior parte dell’attività scientifica risulta così piuttosto conservatrice nella concezione kuhniana: nei periodi di scienza normale, gli scienziati non mettono in discussione i principi fondamentali della loro disciplina (in quanto questi sono parte del paradigma) e, a differenza di quanto sosteneva Popper, non abbandonano una teoria per la semplice presenza di istanze falsificanti. Per Kuhn, infatti, la valutazione delle teorie, proprio perché svolta nel quadro di un paradigma, non può essere davvero oggettiva (al contrario di quanto ritenuto sia da Popper sia dagli induttivisti sofisticati). Allo stesso modo, l’osservazione non può mai essere davvero neutrale, ma è sempre «carica di teoria», come già messo in luce dal filosofo della scienza americano Norwood R. Hanson (1924-1967) nel testo I modelli della scoperta scientifica del 1958, a cui Kuhn si richiama esplicitamente. Come scrive Hanson, «c’è un senso in cui il semplice fatto di vedere è in realtà un’impresa “carica di teoria”». L’esempio più noto da lui discusso è il diverso modo che Tycho Brahe e Keplero, messi insieme in un esperimento immaginario, avrebbero di ‘vedere’ il Sole. Consideriamo Keplero: immaginiamo che egli si trovi su una collina e che osservi il sorgere del Sole in compagnia di Tycho Brahe. Keplero considerava il Sole fisso: era la Terra a muoversi. Tycho Brahe seguiva invece Tolomeo e Aristotele, almeno in riferimento all’opinione che la Terra fosse fissa al centro e che tutti gli altri corpi celesti orbitassero attorno ad essa. Keplero e Tycho Brahe vedono la medesima cosa quando osservano il sorgere del Sole? […] La visione è un’esperienza. Una reazione retinica è soltanto uno stato fisico: un’eccitazione fotochimica. Sono le persone a vedere, non i loro occhi. […] Che Keplero e Tycho vedano, o non vedano, la medesima cosa non si può sostenere attraverso un riferimento allo stato fisico delle loro retine, dei loro nervi ottici o della loro corteccia visiva: nella visione c’è di più di ciò che colpisce il globo oculare. È ovvio che Tycho Brahe e Keplero vedono il medesimo oggetto fisico. Essi sono entrambi fisicamente consapevoli del Sole. Se vengono fatti entrare in una stanza buia e viene loro chiesto di dire quand’è che vedono qualcosa – qualunque cosa –, possono riferire entrambi di vedere la medesima cosa nello stesso momento. Supponiamo che l’unico oggetto visibile sia un lungo e sottile cilindro di piombo. Entrambi vedono la medesima cosa, ossia quest’oggetto, qualunque cosa esso sia. Solo qui, però, sorge la difficoltà, poiché mentre Tycho vede semplicemente un tubo, Keplero vedrà un telescopio. […] Così, per concludere, dire che Keplero e Tycho, osservando il sorgere del Sole,

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vedono la stessa cosa solo perché i loro occhi sono colpiti dai medesimi stimoli è un errore elementare. […] Le differenze fra quanto essi dicono di vedere scaturiscono dalle interpretazioni ex post facto di ciò che vedono, mentre non sono presenti nei dati visivi fondamentali.

La crisi del paradigma e la scienza straordinaria

Le rivoluzioni scientifiche

Cambio di paradigma

Trasformazione della visione del mondo

Incommensurabilità tra paradigmi successivi

Se dunque le teorie ‘infettano’ sempre in qualche modo l’osservazione, la conclusione di Kuhn è che il grado di conferma che un esperimento conferisce a un’ipotesi non può essere oggettivo. Sono piuttosto i valori condivisi dagli scienziati che svolgono un ruolo determinante nel modo non solo in cui vengono elaborate nuove teorie, ma anche in cui esse sono poi giustificate. Un paradigma può tuttavia entrare in crisi. Questo succede quando le anomalie rispetto al paradigma, cioè i risultati o i fatti inaspettati che sono in contrasto con quanto prevedono le teorie del paradigma, non solo persistono nel tempo ma cominciano a crescere rapidamente di numero. Quando la scienza normale «va a finire ripetutamente fuori strada» in questo modo, cioè quando gli scienziati «non possono più trascurare anomalie che sovvertono l’esistente tradizione della pratica scientifica», si crea una situazione di crisi. In tale situazione cominciano ‘indagini straordinarie’ (nel senso che esulano dalla scienza normale) che caratterizzano un periodo di scienza straordinaria e finiscono con il portare gli scienziati ad abbracciare «un nuovo insieme di impegni, i quali verranno a costituire la nuova base della pratica scientifica». Gli ‘episodi straordinari’ in cui avviene questa sostituzione degli impegni vincolanti i membri di una comunità scientifica, cioè l’adozione di un nuovo paradigma, sono quelli che Kuhn chiama «rivoluzioni scientifiche». Una rivoluzione scientifica è quindi per Kuhn «una specie molto particolare di cambiamento, che comporta una sorta di ricostruzione dei dogmi condivisi dal gruppo». Gli esempi storici dai quali egli trae ispirazione per caratterizzare questa nozione sono «quei famosi episodi dello sviluppo scientifico» che già nel passato venivano indicati come rivoluzioni: a cominciare dalla «rivoluzione copernicana» per finire alle rivoluzioni relativistica e quantistica della fisica del secolo scorso (vedi Unità 10, p. 410 ss.). In tutti questi casi «la transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo» avviene con le seguenti caratteristiche: 1) si rende necessario l’abbandono da parte della comunità scientifica di un paradigma fino ad allora dominante a favore di un altro paradigma che è incompatibile con il primo. Il processo è quindi tutt’altro che cumulativo, a differenza di quanto succedeva per la scienza normale, il cui compito era cumulativo per definizione in quanto limitato all’estensione della portata e precisione della conoscenza scientifica (nell’ambito di un paradigma); 2) si verifica, di conseguenza, «un cambiamento dei problemi da proporre all’indagine scientifica e dei criteri secondo i quali si stabilisce che cosa considerare come un problema ammissibile o come una soluzione legittima di esso». In altre parole, l’«immaginazione scientifica» subisce una trasformazione che può essere descritta come «una trasformazione del mondo entro il quale veniva compiuto il lavoro scientifico». Dopo una rivoluzione, gli scienziati hanno a disposizione un nuovo modo di guardare alle cose e nuovi problemi su cui lavorare; 3) il cambiamento da un paradigma a un altro o «spostamento di paradigma» implica così un mutamento globale che, in quanto passaggio da una visione del mondo a un’altra, non può essere graduale ma «deve compiersi tutto in una 811

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L’interpretazione relativista della concezione di Kuhn

La replica di Kuhn: l’oggettività del progresso scientifico

I problemi di Kuhn

➥ Sommario, p. 816

Lo sviluppo della scienza secondo Kuhn

volta». I due gruppi di scienziati che lavorano nell’ambito, rispettivamente, del precedente e del successivo paradigma, hanno visioni tra loro incompatibili o, come le chiama Kuhn, «incommensurabili»: anche se guardano le stesse cose, le vedono in modo diverso. Il mutamento paradigmatico è un «passaggio tra incommensurabili». In conclusione lo sviluppo della scienza si presenta, secondo Kuhn, come «una successione di periodi dominati dalla tradizione, punteggiata da rotture non cumulative»: cioè una successione di periodi di scienza normale, separati da svolte totali od «olistiche» (le rivoluzioni scientifiche) che portano a un mutamento della concezione del mondo. Il carattere non cumulativo del cambiamento paradigmatico, insieme alla tesi dell’incommensurabilità tra paradigmi successivi (o tra le teorie appartenenti a due diversi paradigmi), sono gli aspetti del pensiero kuhniano che più hanno portato ad attribuirgli una concezione relativistica, se non addirittura irrazionale, della scienza. Molti hanno infatti utilizzato gli argomenti di Kuhn per sostenere una forma di relativismo epistemologico, cioè la posizione secondo la quale le verità contenute nelle teorie scientifiche sono completamente o in buona parte determinate da fattori di tipo personale o sociale, visto che non sembra possibile avere a disposizione una base né osservativa né razionale per valutare paradigmi in competizione. Kuhn rifiuta questo tipo d’intepretazione, che considera come un vero e proprio travisamento del proprio pensiero. Secondo Kuhn è invece possibile individuare un oggettivo progresso scientifico: esistono dei criteri, come «l’accuratezza della previsione», «l’equilibrio tra argomenti esoterici e argomenti quotidiani» e «il numero di differenti problemi risolti», che ci permettono di valutare se una teoria scientifica rappresenta un progresso rispetto a una teoria precedente. Lo sviluppo scientifico, come quello biologico, è dunque «un processo unidirezionale e irreversibile»: «le teorie scientifiche posteriori sono migliori di quelle anteriori per risolvere rompicapo nelle circostanze spesso molto differenti alle quali vengono applicate». Se l’accusa di irrazionalità mossa alla concezione kuhniana non sembra giustificata, è tuttavia vero che la sua analisi del processo scientifico mette in evidenza aspetti problematici nella valutazione delle teorie, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra le teorie e la loro base osservativa e, come vedremo nel prossimo paragrafo, le implicazioni del cambiamento teorico, cioè del passaggio da una teoria a quella successiva nello sviluppo della conoscenza scientifica.

Affermazione di un nuovo paradigma scientifico Scienza normale: soluzione di rompicapo nel quadro del paradigma Crisi del paradigma e scienza straordinaria Rivoluzione scientifica e adozione di un paradigma alternativo

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3 L’immagine scientifica del mondo e il problema delle entità teoriche

Il problema posto dal cambiamento teorico e il ‘pessimismo’ sulla possibilità di raggiungere la verità

L’antirealismo

Varianti dell’antirealismo: strumentalismo ed empirismo costruttivo

La questione del realismo scientifico A seconda di come si valuti la natura e lo scopo della scienza, l’avvicendarsi di teorie via via sempre migliori (almeno per chi crede nel progresso scientifico) può porre alcuni problemi, specialmente a chi pensa che lo scopo della scienza sia di descrivere la realtà come essa effettivamente è. Le teorie che hanno come oggetto il mondo in cui siamo immersi ce ne offrono una determinata immagine, la cosiddetta «immagine scientifica del mondo». Questa immagine riguarda sia oggetti familiari che possiamo osservare direttamente, sia oggetti lontani dalla nostra esperienza e dei quali non possiamo avere osservazione diretta, come per esempio le particelle microscopiche che compongono la materia o i buchi neri studiati dai cosmologi. Per quanto riguarda gli oggetti osservabili, possiamo avere una certa fiducia nel fatto che essi esistano indipendentemente dalle nostre teorie e che questo valga in modo intersoggettivo, anche se volessimo sposare l’idea che nessuna osservazione sia completamente neutrale. Nel caso invece di oggetti che non possiamo osservare ma a cui si riferiscono le nostre migliori teorie, si pone la seguente questione: è davvero necessario credere nell’esistenza di queste entità? Se sì, che cosa può contare come evidenza in favore della loro esistenza? In particolare, dato che la loro esistenza sembra dipendere strettamente dal quadro teorico in cui si fa riferimento ad essi, che cosa succede di questi oggetti nei casi in cui una teoria venga sostituita da un’altra? Il cambiamento teorico sembra dunque mettere in seria difficoltà i realisti scientifici, cioè coloro che credono nell’esistenza delle entità cosiddette «inosservabili» a cui fanno riferimento le teorie. E questo succede a maggior ragione quando il passaggio da una teoria a quella successiva avviene in modo rivoluzionario (nel senso di Kuhn), comportando quindi un cambiamento radicale nell’immagine del mondo. Questo tipo di cambiamento genera ciò che è stato chiamato «metainduzione pessimista»: il fatto che le teorie, insieme ai corrispondenti quadri ontologici, possano cambiare in modo così radicale induce a essere pessimisti sulla possibilità di raggiungere la teoria vera; o, in altre parole, sulla possibilità che la scienza fornisca, con le sue teorie, «una storia letteralmente vera di ciò che è il mondo». Le risposte alla questione posta dal cambiamento teorico sono di due tipi. Da una parte, si può semplicemente negare la tesi del realismo scientifico, cioè la tesi che la scienza ci dice di che cosa è fatto il mondo fisico anche al di là di quello che possiamo direttamente osservare. Chi nega questa tesi adotta quindi una forma di antirealismo scientifico: cioè la posizione per cui dovremmo astenerci dal credere nella verità delle teorie scientifiche e limitarci a credere in ciò che le teorie dicono rispetto a quanto possiamo osservare. Questa posizione rientra in una lunga tradizione secondo la quale le questioni relative alla natura ultima delle cose devono essere tralasciate nell’indagine scientifica; la quale invece deve limitarsi alla ricerca di leggi che permettano di avanzare predizioni accurate sul mondo osservabile, senza porsi il problema se tali leggi siano anche vere (almeno per quanto riguarda ciò che non possiamo osservare). Ci sono diverse forme di antirealismo scientifico, la più nota delle quali è quella strumentalista (le teorie rappresentano solo convenienti ed efficaci strumenti per sistemare i dati dell’osservazione e compiere predizioni). Un’altra forma di antirealismo scientifico, meno radicale, è rappresentata dall’empirismo costruttivo del filosofo della scienza olandese Bastiaan Cornelis van Fraassen. Egli met813

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Empirismo costruttivo: distinzione tra aspetto semantico ed epistemico

te sotto accusa lo stretto legame che il realismo scientifico stabilisce tra la questione della verità delle teorie scientifiche e quella della loro accettabilità in quanto tali. Vale a dire, riprendendo le parole dello stesso van Fraassen, la commistione tra l’aspetto ‘semantico’ (la questione della verità) e quello ‘epistemico’ (la questione della validità scientifica) nella valutazione delle teorie scientifiche. L’empirismo costruttivo si contrappone al realismo scientifico (e in tal senso rappresenta una forma di antirealismo) nel tenere ben distinti l’aspetto semantico e quello epistemico. Per l’empirista costruttivo, infatti, non è più la nozione di verità a rivestire il ruolo epistemico centrale ma la nozione di adeguatezza empirica. Alla domanda «a che cosa mira la scienza?» viene data la seguente risposta: «la scienza mira a fornirci teorie che sono empiricamente adeguate, e l’accettazione di una teoria scientifica implica solo la credenza che essa sia empiricamente adeguata». La nozione di adeguatezza empirica ha il seguente significato: una teoria fisica è empiricamente adeguata se «ciò che dice la teoria sulle cose osservabili è vero». L’empirismo costruttivo non si impegna così sulla verità delle teorie per quanto riguarda ciò che non è osservabile: in altre parole, rimane agnostico sull’esistenza delle entità cosiddette teoriche, ma richiede che «siano salvati i fenomeni».

La vita e le opere Bastiaan Cornelis van Fraassen, filosofo della scienza olandese, è nato a Goes il 5 aprile 1941 e dopo gli studi in Canada e negli Stati Uniti (dove ha conseguito il dottorato nel 1966) ha insegnato in varie università nordamericane fino ad approdare a Princeton. Van Fraassen si è occupato di logica ed epistemologia, sia nel campo specialistico della filosofia della meccanica quantistica, sia nel più ampio ambito della filosofia delle scienze natura-

T5

L’empirismo costruttivo

B.C. van Fraassen, L’immagine scientifica

La risposta positiva: la difesa del realismo scientifico, di tipo tradizionale o strutturale

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li. La fama di van Fraassen è legata principalmente al suo intervento nel dibattito epistemologico tra realisti e antirealisti, con il suo ‘empirismo costruttivo’, che rappresenta una delle versioni dell’antirealismo scientifico oggi più discusse, improntata a una concezione della scienza come costruzione di leggi dei fenomeni osservabili, che non ha né il bisogno né lo scopo di scoprire la verità su presunte entità, leggi e cause non osservabili. La sua opera principale è L’immagine scientifica (1980).

L’empirismo richiede alle teorie soltanto di dare una spiegazione vera di ciò che è osservabile, considerando l’ulteriore struttura postulata come un mezzo, in funzione di questo fine. In aggiunta gli empiristi hanno sempre evitato la reificazione della possibilità (o del suo duale, la necessità). Possibilità e necessità, essi le collocano nell’ambito delle relazioni fra idee, o tra parole, come espedienti per facilitare la descrizione di ciò che è in atto. Così, da un punto di vista empirista, per servire ai fini della scienza, non occorre che i postulati siano veri, tranne in ciò che essi dicono intorno a quello che è attuale ed empiricamente attestabile. […] Darò un nome provvisorio, «empirismo costruttivo», alla specifica posizione filosofica da me difesa. La parte principale di tale difesa consisterà nello sviluppo di un’alternativa costruttiva al realismo scientifico […]. Uso l’aggettivo «costruttivo» per indicare la mia opinione che l’attività scientifica sia un’attività di costruzione piuttosto che di scoperta: costruzione di modelli che devono essere adeguati ai fenomeni, e non scoperta della verità concernente l’inosservabile. I sostenitori del realismo scientifico, invece, devono trovare un modo per difendersi dal fatto che, con il cambiamento teorico, possano cambiare anche i riferimenti delle teorie (con il conseguente problema che questo pone se si vuol credere nella realtà di ciò di cui esse parlano). Una possibilità è negare un cambiamento così radicale. Questa è la posizione adottata dai realisti scientifici tradizionali, che individuano una forma di continuità nel riferimento delle teorie anche quando gli oggetti referenti siano entità non direttamente osservabili.

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Un’altra posizione affermatasi di recente e che, pur mantenendo l’istanza realista, si distingue dal realismo scientifico tradizionale è il realismo strutturale. Secondo questa posizione le teorie fisiche ci dicono qualcosa sulla realtà oltre a salvare i fenomeni, ma questo ‘qualcosa’ ha carattere strutturale: nel passaggio da una teoria alla successiva, le entità possono cambiare, ma le strutture (quelle ‘rilevanti’) si conservano. Il problema posto dal cambiamento teorico è così risolto individuando negli aspetti strutturali del mondo fisico ciò che si conserva nel passaggio da una teoria a un’altra, e a cui si può dunque attribuire carattere di ‘realtà’. Per esempio, nel passaggio dalla teoria della luce di Fresnel (la luce come un’onda che si propaga nell’etere) a quella di Maxwell (la luce come un campo elettromagnetico), l’ontologia a cui si riferiscono le due teorie è diversa, ma c’è continuità strutturale nelle equazioni: le equazioni di Fresnel possono essere ricavate nell’ambito della teoria di Maxwell (pur se con un’interpretazione diversa). Questo esempio è uno dei numerosi casi di continuità strutturale che si possono trovare nella storia della scienza e che motivano il realismo strutturale come posizione realista alternativa al realismo scientifico tradizionale. Il nesso tra verità e riferimento rimane, ma cambia la natura di quest’ultimo. Per il realismo strutturale, che si presenta nelle due versioni epistemologica e ontologica, le teorie sono vere in quanto si riferiscono a strutture della realtà fisica: strutture che sono tutto ciò che possiamo conoscere della realtà, secondo la versione epistemologica del realismo strutturale; o strutture che sono tutto ciò che c’è, secondo la versione ontologica.

Realismo e antirealismo scientifico

Realismo

Il problema posto dal cambiamento teorico: cambia il riferimento ontologico, quindi non sembra possibile sostenere che la scienza conosca la realtà

Lo scopo della scienza è fornire una descrizione vera della realtà

}

Realismo tradizionale: rimane una continuità nel riferimento ontologico

Strumentalismo: lo scopo della scienza è fare previsioni sui fenomeni

Realismo strutturale: le entità possono cambiare, ma restano le strutture, che sono reali

Empirismo costruttivo: lo scopo della scienza è creare teorie empiricamente adeguate

}

Antirealismo

Suggerimenti bibliografici Un manuale introduttivo e molto aggiornato è il testo Filosofia della scienza. Un’introduzione, di J. Ladyman, Carocci, Roma 2007. Un testo agile e di facile lettura è Il primo libro di filosofia della scienza, di S. Okasha, Einaudi, Torino 2006. Un altro volume introduttivo è Leggere il libro della natura. Introduzione alla filosofia della scienza di P. Kosso, il Mulino, Bologna 1995. Maggiormente dettagliato e dedicato ai temi più tradizionali del dibattito novecentesco è La filosofia della scienza nel XX secolo, di D. Gillies e G. Giorello, Laterza, Roma 1995, 20014. I brani antologizzati sono tratti da: K. Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970, p. 25. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978, p. 19. N. Russel Hanson, I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 14-18. B.C. van Fraassen, L’immagine scientifica, CLUEB, Bologna 1985, pp. 27-29.

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Sommario 1. SCIENZA

E FILOSOFIA DELLA SCIENZA

La filosofia della scienza (una cui branca fondamentale è l’epistemologia) è una disciplina filosofica che esamina la natura, la validità e lo scopo della conoscenza scientifica e lo fa con particolare riferimento alle scienze che in epoca moderna hanno costituito i modelli di conoscenza di maggior successo: le scienze naturali (soprattutto la fisica) e le scienze esatte (matematica e logica). Uno dei suoi obiettivi è trovare un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza. 2. IL

METODO SCIENTIFICO

Il dibattito filosofico sulla natura e sulla validità della conoscenza scientifica è riconducibile alla discussione sul metodo scientifico, che inizia agli albori della scienza moderna con la teoria dell’induzione di Francesco Bacone e si sviluppa con la controversia sulle basi osservative e la giustificazione razionale del ragionamento induttivo. La prima grande critica è quella di Hume che nel XVIII secolo elabora un’articolata argomentazione contro la possibilità di una giustificazione razionale dell’induzione e conclude che essa si basa sul principio di causalità il quale, a sua volta, non ha validità oggettiva. Delle varie repliche all’argomentazione di Hume la più fruttuosa è la rielaborazione dell’induzione in senso probabilistico: si cerca di stabilire dei criteri per assegnare a un’ipotesi un grado di probabilità proporzionale al grado di conferma dovuto alle evidenze empiriche favorevoli. È questa la soluzione adottata dagli empiristi logici. La nozione di conferma tuttavia sembra troppo ampia e va incontro ai paradossi sollevati da Hempel e Goodman, che mostrano la necessità di criteri per distinguere tra casi ‘legittimi’ e casi ‘illegittimi’ (paradossali) di conferma. Di tutt’altro avviso è Popper che elabora un metodo non induttivista, basato sulla falsificabilità delle ipotesi scientifiche. Secondo Popper il contenuto empirico di un’ipotesi generale è legato ai casi particolari che essa esclude, più che a quelli che essa abbraccia (le ipotesi vaghe hanno molti più casi favorevoli di quelle impegnative e quindi sono più facili da confermare). La falsificabilità empirica (attraverso l’osservazione di casi contrari) diviene così il criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza. Anche la proposta di Popper va incontro a vari tipi di problemi: dalla difficoltà a isolare l’ipotesi da sottoporre a controllo empirico (come sostenuto già da Duhem e poi da Quine), alla non falsificabilità di alcune asserzioni scientifiche, alla distanza del suo metodo dal comportamento effettivo degli scienziati. Dall’ulteriore rielaborazione del metodo induttivo na-

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sce una forma più sofisticata di empirismo logico che domina la filosofia della scienza dopo la Seconda guerra mondiale. Essa si basa su una serie di assunti condivisi con lo stesso Popper che delineano la «concezione standard della scienza»: il carattere cumulativo e unitario della scienza, la netta distinzione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, la neutralità dell’osservazione rispetto alla teoria accettata dall’osservatore e la distinzione tra termini osservativi e termini teorici, la fissità del riferimento dei termini. La concezione standard entra in crisi negli anni sessanta dopo le critiche di Kuhn. Questo autore, diversamente dai suoi predecessori, mette il punto di vista storico al centro della filosofia della scienza ed elabora una concezione dello sviluppo della scienza come alternanza di periodi di ‘scienza normale’, dominati da un paradigma teorico e metodologico, e periodi di scienza straordinaria in cui il paradigma entra in crisi e, dopo un processo spesso travagliato, viene sostituito da un altro. Il cambiamento di paradigma è una rivoluzione scientifica: una rottura netta, in cui il linguaggio e la visione del mondo degli scienziati cambiano radicalmente. Vengono meno, così, assunti basilari della concezione standard, come il carattere cumulativo della scienza, la distinzione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione e la fissità del riferimento. Se a ciò si aggiunge la critica della neutralità dell’osservazione e della distinzione tra teorico e osservativo che Kuhn riprende da Hanson, si vede come ci sia stata, nella filosofia della scienza, una profonda trasformazione della ‘concezione standard’. 3. LA

QUESTIONE DEL REALISMO SCIENTIFICO

La discussione sullo scopo della scienza ruota intorno alla contrapposizione tra realismo e antirealismo scientifici. Secondo la concezione realista, molto comune tra gli scienziati, lo scopo della scienza è scoprire la verità sulla realtà fisica. Il realismo è in difficoltà con il cambiamento teorico, che comporta il mutamento delle teorie e quindi il passaggio dalle entità ipotizzate dalla teoria vecchia a quelle ipotizzate dalla nuova. L’antirealismo evita questi problemi non impegnandosi sulla realtà delle entità non osservabili e sostituendo la verità con altri obiettivi (la previsione dei fenomeni per lo strumentalismo e l’adeguatezza empirica per l’empirismo costruttivo). I sostenitori del realismo si difendono sostenendo la continuità di una parte del riferimento (realismo tradizionale) oppure identificando la realtà oggetto della scienza in ‘strutture’ relazionali che si manterrebbero costanti nei cambiamenti teorici (realismo strutturale).

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Unità 18 La filosofia della scienza

Parole chiave Contesto della giustificazione. Espressione che si riferisce ai fatti, alle circostanze e alle relazioni logicomatematiche che danno sostegno alla verità o alla probabilità di una teoria scientifica. Secondo Popper è importante distinguerlo rigidamente dal contesto della scoperta, perché il contesto della giustificazione abbraccia tutto il momento logico-razionale dell’attività scientifica. Per Popper, così come per i neopositivisti e in generale per tutti i sostenitori della cosiddetta «concezione standard della scienza», il contesto della giustificazione esaurisce l’ambito dell’interesse della filosofia della scienza. La possibilità di una distinzione così rigida sarà tuttavia negata dai sostenitori della cosiddetta «nuova filosofia della scienza», come Kuhn. Contesto della scoperta. Espressione che si riferisce ai fatti e alle circostanze che riguardano una scoperta scientifica o l’invenzione di un’ipotesi, un modello, una teoria. Essa designa perciò tutte le componenti del momento creativo della scienza, in genere non suscettibile di analisi razionale. Per Popper, così come per i neopositivisti e in generale per tutti i sostenitori della cosiddetta «concezione standard della scienza», il contesto della scoperta è escluso dall’ambito dell’interesse della filosofia della scienza. Questa esclusione sarà poi rivista dai sostenitori della cosiddetta «nuova filosofia della scienza», come Kuhn, che negheranno la possibilità di tracciare una linea di distinzione così rigida tra i due «contesti». Demarcazione tra scienza e non scienza. Distinzione basata su un criterio che si vuole oggettivo fra ciò che è ‘scientifico’ e ciò che non è ‘scientifico’. Sia i neopositivisti che Popper e i popperiani reputano le scienze naturali un modello insuperato di conoscenza oggettiva e razionale del mondo; per questo motivo danno valore all’esistenza di un criterio di demarcazione. Falsificazionismo. Teoria di Popper secondo la quale il procedere scientifico consiste nella ricerca di evidenze negative per mettere alla prova o cercare di falsificare le ipotesi teoriche; per Popper la falsificabilità costituisce il criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza. Induzione. Ragionamento che parte dall’esame di casi particolari per arrivare a leggi generali. Una delle

domande ricorrenti nella filosofia della scienza, da Bacone ai giorni nostri, è se e fino a che punto le scienze naturali siano ‘induttive’. Nello sviluppo del dibattito sono state avanzate varie concezioni dell’induzione: da quella ‘ingenua’, come semplice estensione ai casi non osservati dei dati rilevati con l’osservazione, a quella più ‘sofisticata’, basata su una teoria razionale della conferma. Paradigma. Termine introdotto nella filosofia della scienza da Kuhn. Designa il complesso di contenuti teorici e metodologici esemplari che dominano un’epoca della ricerca scientifica, costituendo modelli di problemi e di soluzioni per la ricerca e orientando l’attività degli scienziati. Realismo scientifico. Posizione filosofica che afferma la corrispondenza delle teorie scientifiche alla realtà, ovvero la possibilità per la scienza di conoscere la verità sul mondo. Di conseguenza, per il realista scientifico, la scoperta della verità è il compito della scienza. Rivoluzioni scientifiche. Nella teoria di Kuhn denotano i mutamenti di «paradigma», con conseguenti rilevanti cambiamenti nel linguaggio e nella pratica della ricerca scientifica. Scienza normale. Nella terminologia di Kuhn con questa espressione è designata la ricerca condotta all’interno di un paradigma, ossia l’attività di soluzione di problemi all’interno di una cornice teorica e metodologica stabilita dal paradigma dominante. L’attività della scienza normale, per Kuhn, è largamente riconducibile a ciò che egli ha efficacemente denominato «soluzione di rompicapo». Scienza straordinaria. Nella terminologia di Kuhn si contrappone alla ‘scienza normale’ e si caratterizza per l’incertezza dovuta al crollo di un paradigma di riferimento. È la fase in cui la storia della scienza può cambiare direzione, in cui si rendono possibili le «rivoluzioni scientifiche». Strumentalismo scientifico. È la principale posizione antagonista del realismo scientifico. Sostiene che lo scopo della scienza sia mettere a punto e affinare degli strumenti teorici per la previsione dei fenomeni naturali.

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Questionario SCIENZA 1

2

IL

E FILOSOFIA DELLA SCIENZA

Perché è importante dal punto di vista filosofico individuare un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, e non è sufficiente elencare le varie discipline per definire il campo della scienza? (max 2 righe) A quale tipo di domanda e a quale ambito della filosofia della scienza fa riferimento il dibattito tra realisti e anti-realisti scientifici? (max 2 righe)

9

LA

QUESTIONE DEL REALISMO SCIENTIFICO

10

In che modo la critica di Kuhn alla «concezione standard della scienza» ha influito sul problema del realismo e quindi dello scopo della scienza? (max 4 righe)

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Su quali distinzioni concettuali si basa l’empirismo costruttivo di van Fraassen? (max 3 righe)

12

In che modo il realismo strutturale risponde al problema del cambiamento teorico? (max 3 righe)

METODO SCIENTIFICO

3

4

In che modo l’argomentazione di Hume contraddice la tesi che la conoscenza scientifica è oggettiva, razionale e fondata sull’esperienza? (max 4 righe) In che modo la concezione probabilistica dell’induzione risponde alle obiezioni di Hume? (max 2 righe)

5

Perché la definizione classica di probabilità è particolarmente appropriata per il lancio dei dadi? (max 1 riga)

6

Perché nel paradosso di Goodman non si può distinguere tra un caso favorevole all’induzione su «verde» e uno favorevole all’induzione su «blerde»? (max 2 righe)

7

Perché per Popper è importante distinguere tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione? (max 3 righe)

8

Perché l’analisi olistica del controllo empirico di Duhem contraddice il falsificazionismo di Popper? (max 2 righe)

818

Nella teoria dello sviluppo della scienza di Kuhn, i periodi di «scienza normale» hanno carattere cumulativo? (max 2 righe)

Lavoriamo sui testi 13

Quale conseguenza ha rispetto al metodo falsificazionista, quello che afferma Popper circa le leggi di natura («quanto più vietano, tanto più dicono» in T1? (max 2 righe)

14

Perché il falsificazionismo non è soggetto al problema di giustificazione razionale delle conclusioni, che mette invece in difficoltà il metodo induttivo, secondo Popper in T2? (max 3 righe)

15

Quale ruolo attribuisce Kuhn alla storia della scienza nella sua opera, secondo quanto dice in T3? (max 4 righe)

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

1. La discussione sulla natura dell’etica 1. 2. 3. 4.

L’intuizionismo di Ross L’emotivismo di Ayer e Stevenson Il prescrittivismo di Hare Il naturalismo di Foot

2. La filosofia politica 1. Arendt 2. Le teorie della giustizia 3. Le teorie dei diritti

3. La bioetica 1. 2. 3. 4.

Etica applicata e bioetica Etica della disponibilità e della non-disponibilità della vita I problemi della bioetica Gli animali e la natura

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Tesi a confronto: Osservare e valutare: dobbiamo continuare a distinguere questi due tipi di giudizi nell’uso linguistico?

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La discussione sulla natura dell’etica

1 I testi

W.D. Ross Il giusto e il bene: Intuizione della verità morale, T1; Doveri prima facie e doveri effettivi, T2; Un atto è giusto in virtù della sua stessa natura, T3; Importanza morale delle relazioni personali, T4 A.J. Ayer Linguaggio, verità e logica: I giudizi morali non asseriscono fatti, T5 C.L. Stevenson Etica e linguaggio: Sentimenti e attitudini, T6; Disaccordo tra credenze e disaccordo tra attitudini, T7

Influenza del pensiero di Moore

1

P. Foot La natura del bene: Bontà e difetto dipendono dalla forma di vita della specie, T11; Il difetto morale è una forma di difetto naturale, T12

La discussione filosofico-morale del Novecento è fortemente influenzata dall’impostazione data all’etica da Moore nei suoi Principia Ethica. Da Moore viene ripresa la concezione dell’etica come distinta in due campi, l’etica normativa, che si occupa di definire i criteri per valutare le azioni e per stabilire cosa dobbiamo fare, e la metaetica, che si interroga sul significato dei termini e degli enunciati morali. Da Moore vengono ripresi temi che saranno al centro del dibattito successivo: l’intuizionismo, la critica della fallacia naturalistica (ossia della pretesa di derivare i valori dai fatti), la discussione sull’utilitarismo.

L’intuizionismo di Ross

La vita e le opere William David Ross nacque a Thurso, in Scozia, nel 1877. Trascorsa la sua prima infanzia in India, dove il padre si era trasferito per motivi di lavoro, tornò in Scozia e studiò alla Royal High School di Edimburgo. Si iscrisse poi all’università della stessa città; nel 1895 si recò a Oxford per completare gli studi ed ebbe come maestro Harold Arthur Prichard (di cui, successivamente, raccolse in volume gli scritti). Parallelamente agli impegni accademici, nel 1915 iniziò la carriera militare, assumendo nel corso degli anni numerosi incarichi. Nel 1923 uscì lo scritto Aristotele; nello stesso anno divenne professore di filosofia morale al-

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R.M. Hare Il linguaggio della morale: I giudizi morali non hanno una funzione persuasiva, T8 Libertà e ragione: Regole del ragionamento morale, T9 Come decidere razionalmente le questioni morali: L’uguale peso delle preferenze uguali, T10

l’università di Oxford. Nel 1925 apparve la sua traduzione dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Nel 1928 lasciò la cattedra universitaria e l’anno seguente fu nominato rettore dell’Oriel College di Oxford. Nel 1930 apparve Il giusto e il bene. Dal 1936 fu, per quattro anni, presidente della British Academy. Nel 1939 fu pubblicata l’opera Foundations of Ethics («I fondamenti dell’etica»); dal 1939 al 1940 fu presidente della Aristotelian Society. Nel 1951 uscì Plato’s Theory of Ideas («La teoria platonica delle Idee») e nel 1954 Kant’s Ethical Theory. A Commentary on the «Grundlegung zur Metaphysik der Sitten» («La teoria etica di Kant. Commento alla “Fondazione della metafisica dei costumi”»). Morì a Oxford nel 1971.

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

William David Ross può essere considerato il principale sostenitore dell’intuizionismo metaetico dopo Moore. L’influenza di Prichard Oltre a Moore, di grande importanza nel pensiero di Ross è l’insegnamento risu Ross cevuto da Harold Arthur Prichard (1871-1947), suo professore a Oxford e sostenitore di una forma di intuizionismo a cui Ross esplicitamente si ricollega. Se per Moore l’oggetto dell’intuizione è che cosa è buono, cioè il bene, per Prichard e Ross oggetto dell’intuizione è l’obbligo morale, cioè il dovere: «il senso dell’obbligo di fare o della giustezza di un’azione di un genere particolare – scrive Prichard – è assolutamente non derivato o immediato». L’intuizione morale

Oggetto dell’intuizione morale

Moore

Prichard e Ross

Il bene

L’obbligo morale

La conoscenza intuitiva dell’obbligo morale

Nella sua opera principale, Il giusto e il bene, Ross concepisce l’intuizione come una forma di conoscenza razionale immediata, analoga a quella che si ha degli assiomi della matematica. Oggetto dell’intuizione è direttamente l’obbligo morale: attraverso essa la mente umana è in grado di cogliere una verità morale oggettiva, che va al di là delle differenze fra i codici morali delle varie società. Come nella critica che Moore fa alla fallacia naturalistica, non è dall’osservazione empirica di una determinata caratteristica della realtà che si può derivare che cosa è un dovere, ma solo attraverso un’intuizione a priori. Se è compito dell’indagine sociologica studiare le differenze tra i vari codici morali, l’etica cerca di stabilire quale di questi codici è migliore o peggiore degli altri e di arrivare, così, alla verità morale.

T1

La mente umana […] ha competenza per vedere che il codice morale di una razza o di un’epoca è per certi aspetti inferiore a quello di un’altra. La mente ha infatti un’intuizione a priori di certi principi generali della moralità e può distinguere fra atti più o meno adeguati di riconoscimento di tali principi. Non ci sono semplicemente tanti codici morali che possono essere descritti, le cui stravaganze possono essere ricondotte a cause storiche; vi è un sistema della verità morale, oggettivo come ogni verità dev’essere, di cui siamo interessati a scoprire l’esistenza e le caratteristiche. Da questo punto di vista, che è l’autentico problema della ricerca etica, l’indagine sociologica manca completamente il bersaglio.

Intuizione della verità morale

W.D. Ross, Il giusto e il bene

Due tipi di obbligo morale

Ross distingue fra due generi di obblighi, o doveri, morali: i doveri prima facie, o doveri condizionali, e i doveri in senso proprio, o doveri effettivi. A essere oggetto di evidenza intuitiva sono solo i doveri prima facie, cioè i principi generali che devono guidare l’agire. Si tratta di doveri potenziali, che derivano dalla considerazione di singole caratteristiche delle azioni; un’azione può avere una caratteristica che la rende un dovere (perché, poniamo, è l’atto di dire la verità a qualcuno), ma può averne anche altre per cui non possiamo considerarla un dovere (per esempio, perché dire la verità ferirebbe i sentimenti della persona a cui 821

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la diciamo). I doveri effettivi derivano, invece, dalla riflessione sulla natura complessiva delle azioni, cioè su tutte le caratteristiche che hanno. I doveri prima facie sono molteplici, e quale fra i differenti doveri prima facie debba essere concretamente adempiuto e costituisca il dovere effettivo da seguire nella situazione particolare in cui ci troviamo non è qualcosa che può essere intuito immediatamente; è invece qualcosa a cui si giunge al termine di un processo di riflessione che considera le particolarità della situazione concreta, in modo da risolvere, caso per caso, anche eventuali conflitti fra doveri prima facie. Non ci sono Scopo del processo riflessivo è dunque giungere a un’opinione ponderata su quadoveri assoluti le fra i differenti doveri prima facie debba essere adempiuto nella particolare situazione in cui l’agente si trova ad agire. Tuttavia, non si dà mai la garanzia che questo processo di riflessione sia realmente corretto: l’individuo, secondo Ross, è sempre di fronte alla possibilità dell’errore, al rischio, nello stabilire quale dovere prima facie debba essere seguito nelle varie circostanze dell’agire. In generale, quali doveri siano quelli effettivi è sempre qualcosa di relativo alla situazione: non ci sono nell’impostazione di Ross doveri assoluti, e qualunque dovere può, in determinate circostanze, essere violato.

T2

Doveri prima facie e doveri effettivi W.D. Ross, Il giusto e il bene

I doveri morali nella teoria di Ross

Quando mi trovo in una situazione, nella quale forse mi trovo sempre, in cui più di uno di questi doveri prima facie mi si impone, ciò che devo fare è analizzare la situazione il più completamente possibile, finché io mi sia formato l’opinione ponderata (non è mai più di questo) che, nelle circostanze del caso, uno di essi è più incombente di ogni altro; allora sono indotto a pensare che compiere questo dovere prima facie sia il mio dovere sans phrase in quella situazione. Suggerisco l’espressione «dovere prima facie» o «dovere condizionale» come un modo abbreviato per far riferimento alla caratteristica (piuttosto distinta da quella di essere un dovere in senso proprio) che un atto possiede in virtù del suo essere un atto di un certo tipo, di essere un atto che sarebbe un dovere, in senso proprio, se non fosse allo stesso tempo di un altro tipo moralmente significativo. Se un atto sia un dovere in senso proprio o dovere effettivo dipende da tutti i tipi moralmente significativi di dovere di cui è un esempio.

Intuizionismo di Ross

Ci sono due tipi di doveri

Doveri prima facie: – sono doveri condizionali – abbiamo di essi una conoscenza intuitiva

Il deontologismo

822

Doveri effettivi: – sono doveri in senso proprio – li conosciamo attraverso la riflessione sulla situazione

A differenza di Moore, che in etica ritiene centrali le nozioni di «buono» e di «bene», per Ross è centrale la nozione di «dovere». Un’azione è giusta non in ragione delle sue conseguenze, ma in ragione della sua natura, se cioè è conforme a doveri prima facie intuiti immediatamente e, in particolare, al dovere effettivo che emerge dal processo di riflessione. In opposizione all’utilitarismo, dunque,

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

quella di Ross è una teoria normativa di tipo deontologico (dalla parola greca dèon, «dovere»): secondo il deontologismo è giusta l’azione che è conforme a certi principi, indipendentemente dai risultati che essa produce. Differenza tra Kant Rispetto all’etica deontologica più importante della storia della filosofia, quella di e Ross Kant, la deontologia di Ross si caratterizza per l’individuazione di più doveri morali e per il suo rifiuto di considerare questi doveri come assoluti: qualunque dovere o principio prima facie può essere violato se in una circostanza determinata un altro dovere prima facie viene ritenuto, sulla base della riflessione, più stringente. Ross individua cinque classi di doveri prima facie immediatamente evidenti: la fedeltà alle promesse, la riparazione dei torti arrecati, la gratitudine per il bene ricevuto, la promozione del bene (che comprende la giustizia rispetto al merito, la beneficenza e il miglioramento di sé) e la non maleficenza.

T3

Un atto è giusto in virtù della sua stessa natura W.D. Ross, Il giusto e il bene

Il nostro dovere, dunque, non è fare certe cose che produrranno certi risultati. I nostri atti […] non sono giusti perché produrranno certi risultati – il che è la concezione comune a tutte le forme di utilitarismo. […] Un atto non è giusto perché, essendo una certa cosa, produce buoni risultati differenti da se stesso; è giusto perché è esso stesso la produzione di un certo stato di cose. Tale produzione è giusta in se stessa, a prescindere da ogni conseguenza. […] Dobbiamo riconoscere l’esser intrinsecamente giusto di un certo tipo di atto, che non dipende dalle sue conseguenze ma dalla sua stessa natura.

Le teorie normative

Teorie normative

Conseguenzialismo (Utilitarismo)

Deontologismo

Ciò che rende moralmente giusta un’azione sono le sue conseguenze

Ciò che rende moralmente giusta un’azione è la conformità a un certo principio morale

Versioni di deontologismo

Critica all’utilitarismo di Moore ➥ Percorso tematico, p. 869

Kant

Ross

I principi morali sono assoluti

I principi morali non sono assoluti

Non possiamo venir meno in nessun caso ai nostri doveri

In certi casi possiamo venir meno a un dovere prima facie per adempierne un altro

All’utilitarismo di Moore (che è una forma di utilitarismo ideale, poiché non mette al centro il piacere, ma valori ideali come la bellezza e le relazioni umane, vedi Unità 15, p. 645) Ross rivolge la critica di essere attento solo al futuro e di dimenticare il passato e la specificità delle relazioni personali. 823

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L’utilitarismo si concentra sulla promozione delle buone conseguenze future delle azioni, ma non prende in considerazione il fatto che anche il passato ha un ruolo fondamentale nella vita morale: i nostri doveri possono infatti derivare da impegni presi nel passato, come accade nel caso del mantenere una promessa. In realtà, il motivo per cui dobbiamo mantenere una promessa è che, nel passato, ci siamo impegnati facendola; le promesse non devono essere mantenute per le buone conseguenze future, ma per il rispetto di un principio. In maniera analoga l’utilitarismo trascura il fatto che i nostri doveri possano sorgere da relazioni speciali con certe persone: i nostri familiari, i nostri amici, i nostri concittadini. Non conta dunque solo la bontà delle conseguenze, ma contano anche i nostri impegni passati e l’identità di chi è beneficiato dalle nostre azioni.

T4

Importanza morale delle relazioni personali W.D. Ross, Il giusto e il bene

In effetti la teoria dell’«utilitarismo ideale», se posso così riferirmi per brevità alla teoria di Moore, sembra semplificare indebitamente le nostre relazioni con i nostri simili. Essa sostiene, di fatto, che la sola relazione moralmente significativa che i miei prossimi hanno con me è quella di essere beneficiari della mia azione. Certo, essi hanno questa relazione con me, e tale relazione è moralmente significativa. Ma essi possono essere in relazione con me anche come chi riceve una promessa verso chi promette, come il creditore verso il debitore, come la moglie verso il marito, come il figlio verso il genitore, come un amico verso un amico, come un cittadino verso un compatriota e simili; ciascuna di queste relazioni è il fondamento di un dovere prima facie, che mi si impone con più o meno forza a seconda delle circostanze del caso. Nell’etica di Ross, dunque, si delineano forme di intuizionismo e di deontologismo particolarmente flessibili, che costituiscono ancora oggi un punto di riferimento nella discussione sulla natura dell’etica e sui criteri di valutazione morale. Come si è visto, infatti, la teoria intuizionistica elaborata da Ross lascia spazio alla riflessione morale in relazione alla particolarità delle situazioni (oggetto dell’intuizione non sono tutti i doveri, ma solo i doveri prima facie). Inoltre, pur sostenendo che un’azione è giusta se è conforme a certi principi e non se produce certi effetti, Ross nega che ci siano principi assolutamente validi: quale azione dobbiamo compiere dipende dalla situazione in cui ci troviamo e possiamo scoprirlo soltanto attraverso una riflessione attenta.

2 I giudizi morali esprimono stati soggettivi

➥ Laboratorio sul lessico, Relativo, p. 881

824

L’emotivismo di Ayer e Stevenson Una netta reazione alla tesi secondo la quale l’etica si fonda sull’intuizione di verità morali oggettive, ma insieme anche la condivisione di alcuni assunti dell’intuizionismo di Moore e di Ross (come la critica della fallacia naturalistica) caratterizzano la teoria metaetica solitamente definita «emotivismo». In una concezione dell’etica come analisi del linguaggio morale, l’emotivismo afferma che gli atteggiamenti di approvazione e disapprovazione morale hanno le proprie radici nelle emozioni. Gli enunciati morali dunque non asseriscono fatti oggettivi, ma si limitano a esprimere le emozioni o i sentimenti del soggetto. L’emotivismo è sostenuto principalmente da due filosofi anglosassoni: Alfred Jules Ayer e Charles Leslie Stevenson; ma è condiviso anche da altri importanti

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Ayer e la critica del naturalismo

Critica del naturalismo

Critica dell’intuizionismo

I giudizi morali non sono veri né falsi

I disaccordi morali

pensatori quali Russell, Carnap e Reichenbach e dagli scandinavi Axel Hägeström (1868-1939) e Alf Ross (1899-1978). Alfred Jules Ayer nacque a Londra nel 1910, dove morì nel 1989, dopo avere insegnato a Oxford e a Londra. In Linguaggio, verità e logica (1936), che è una sorta di esposizione delle tesi principali del neoempirismo (vedi Unità 16, p. 719 ss.), Ayer rifiuta il modo di analizzare i termini morali proprio del naturalismo e dell’intuizionismo. Contro il naturalismo, e seguendo Moore, Ayer sostiene che i termini morali, come «buono» o «giusto», non possono essere derivati direttamente da termini non morali, cioè che si riferiscono a caratteristiche naturali, come «piacevole» o «approvato»: ciò che è buono o giusto non può essere derivato da fatti di carattere psicologico, come ciò che è ritenuto piacevole, o sociologico, come ciò che è generalmente approvato. Sostenere il contrario significherebbe ridurre l’etica a discipline quali, appunto, la psicologia e la sociologia. Ayer condivide invece con Moore l’idea che l’etica sia una disciplina autonoma, irriducibile a qualunque altra. È il tema della cosiddetta «legge di Hume» già al centro della critica mooreana alla fallacia naturalistica (vedi Unità 15, p. 642 s.): dire che un’azione è giusta non equivale, per esempio, a dire che è generalmente approvata, dato che, come aveva osservato Moore, si potrebbe sempre chiedere sensatamente se qualcosa che è generalmente approvato sia anche giusto. Dall’altra parte, l’intuizionismo, seppure condivisibile nella critica della fallacia naturalistica e nella distinzione tra i termini morali e quelli che indicano proprietà naturali, si limita a fare appello all’intuizione intellettuale di verità etiche a priori e oggettive e non è in grado di fornire un criterio di controllo di queste presunte verità. In caso di disaccordo morale, ognuno dovrebbe richiamarsi all’evidenza della propria intuizione, ma, osserva Ayer, «è risaputo che quanto sembra intuitivamente certo a un individuo, a un altro può sembrare dubbio o persino falso». L’intuizionismo, quindi, non è in grado di offrire un metodo per risolvere i disaccordi che sorgono sui problemi morali: non spiega come possiamo stabilire qual è, tra le varie intuizioni contrastanti, quella a cui dobbiamo affidarci. L’analisi corretta dei termini morali è invece quella che riconosce la loro funzione emotiva. Termini quali «giusto» o «buono» non hanno, cioè, una funzione descrittiva: essi vengono usati «per esprimere un certo sentimento verso certi oggetti, non per fare qualche asserzione in proposito». Gli enunciati nei quali compaiono i termini morali, dunque, non sono asserzioni vere o false (dotate di un valore di verità o di falsità), ma sono espressioni, manifestazioni di approvazione e disapprovazione, che di per sé non sono né vere né false, così come non è vera o falsa un’espressione del tipo «non rubare!». Non essendo veri o falsi, gli enunciati morali sono dunque privi, secondo Ayer, di «validità oggettiva». In questo modo, di fronte a un disaccordo morale non si è in presenza di una vera e propria contraddizione logica, in quanto gli enunciati morali non asseriscono cose vere o false. Se qualcuno, osserva Ayer, sostiene che «rubare è male» e un altro sostiene che «rubare non è male», ognuno di loro dà espressione ai propri sentimenti e cerca di far sorgere sentimenti analoghi nell’altro, ma nessuno fa un’asserzione su qualcosa di reale, così che fra loro non c’è una vera e propria contraddizione, ma solo un disaccordo pratico. Ciò che l’uno afferma non viene negato dall’altro: le due persone non stanno asserendo qualcosa, ma stanno esprimendo ciascuna i propri sentimenti. Qualora le parti non condividano lo stesso sistema di valori, non c’è dunque possibilità di superare il disaccordo at825

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traverso l’uso di considerazioni razionali, cioè basate su conoscenze relative ai fatti, come invece avviene per superare i disaccordi in ambito scientifico.

T5

I giudizi morali non asseriscono fatti A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica

Se […] dico: «Rubar denaro è male», produco un enunciato che non ha nessun contenuto fattuale – cioè non esprime nessuna proposizione che possa essere vera o falsa. È come se avessi scritto: «Rubar denaro!!!» – dove i caratteri grafici dei punti esclamativi, per convenzione, mostrano che il sentimento espresso è una speciale sorta di disapprovazione morale. È chiaro che qui non si dice nulla che possa essere vero o falso. Altri potrebbe non trovarsi d’accordo con me circa la malvagità del furto, nel senso che gli sarebbe lecito non provare per il furto dei sentimenti come i miei, e potrebbe litigare con me a proposito della mia sensibilità morale. Ma, parlando con rigore, costui non può contraddirmi. Infatti dicendo che un certo tipo di azione è giusto o ingiusto, io non faccio nessuna affermazione fattuale, neppure intorno alla mie condizioni di mente. Esprimo semplicemente certi sentimenti morali. E chi si prenda la pena di contraddirmi sta semplicemente esprimendo i propri sentimenti morali. Cosicché evidentemente non ha senso chiedere quale dei due abbia ragione. Poiché nessuno dei due sta asserendo una proposizione autentica. Ayer propone, dunque, l’emotivismo come alternativa alle teorie naturalistiche e alle teorie intuizionistiche. I giudizi morali non sono asserzioni dotate di un valore di verità, ma espressione dei sentimenti, e ciò consente di rendere conto dei casi di disaccordo morale.

L’emotivismo e il disaccordo morale

Emotivismo I giudizi morali non sono asserzioni su fatti, ma esprimono i sentimenti di chi li pronuncia I giudizi morali non sono veri, né falsi Due giudizi morali opposti sulla stessa azione non sono in contraddizione logica l’uno con l’altro Se due persone formulano giudizi morali opposti sulla stessa azione, il disaccordo tra loro non può essere risolto in modo razionale

L’analisi del significato degli enunciati morali e il problema del disaccordo sono al centro anche della riflessione dello statunitense Charles Leslie Stevenson, nato in Ohio nel 1908 e morto nel Michigan nel 1979. Con Stevenson l’emotivismo ottiene una formulazione più ricca e articolata. Scopo principale di Stevenson non è quello di sottolineare la specificità dell’etica e dei concetti etici rispetto alla scienza e ai concetti scientifici, ma quello di analizzare la complessità degli usi e delle funzioni per cui viene impiegato il linguaggio morale. Significato descrittivo Nella sua opera principale, Etica e linguaggio, del 1944, e poi in una serie di saged emotivo gi raccolti nel libro Fatti e valori (pubblicato nel 1963), Stevenson distingue tra un significato descrittivo dei segni usati nel linguaggio e un significato emotivo. Il significato descrittivo di un segno produce in chi ascolta uno stato mentale coStevenson e gli usi del linguaggio morale

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noscitivo, cioè una credenza, una supposizione: esso indica quelle caratteristiche dell’oggetto per cui diciamo che è vero o falso. Il significato emotivo produce invece in chi ascolta non semplicemente emozioni e sentimenti, ma un’«attitudine» (attitude), cioè una disposizione costante ad approvare o a disapprovare, una «disposizione ad essere pro o contro qualcosa». Il concetto di attitudine rappresenta una delle maggiori novità apportate da Stevenson all’emotivismo: con esso il filosofo americano rende conto del fatto che le valutazioni morali sono relativamente stabili e non variano con l’umore o lo stato emotivo del soggetto.

T6

Sentimenti e attitudini

C.L. Stevenson, Etica e linguaggio

Il significato emotivo è un significato in cui la risposta (da parte di chi ascolta) o lo stimolo (da parte di chi parla) è una sfera di emozioni. […] Il termine «emozione» è introdotto temporaneamente, suggerito dal termine «emotivo»; ma di qui in avanti al posto di «emozione» è preferibile usare «sentimento o attitudine», sia per evitare una monotonia terminologica nel libro, sia per accentuare un’importante distinzione. Il termine «sentimento» designa uno stato affettivo che si rivela all’immediata introspezione senza dover ricorrere all’induzione. Un’attitudine, comunque, è qualcosa di molto più complicato […]. Infatti, essa è una complessa unione di proprietà disposizionali (le disposizioni si rinvengono in tutta la psicologia), contraddistinta da stimoli e risposte che ostacolano o appoggiano tutto ciò che viene chiamato l’«oggetto» dell’attitudine.

Per questa capacità di influenzare le reazioni psicologiche delle persone, la caratteristica del linguaggio morale è, quindi, quella di esprimere le attitudini di valutazione proprie di chi parla e di influenzare e modificare le attitudini di chi ascolta. La caratteristica del linguaggio morale è cioè quella di essere un linguaggio dinamico e direttivo: formuliamo valutazioni morali per indurre coloro ai quali ci rivolgiamo ad approvare o a disapprovare certe cose e a comportarsi in certi modi. Significato descrittivo Tuttavia il significato emotivo non è l’unica componente di significato degli dei giudizi morali enunciati morali. Stevenson mette in luce come essi abbiano anche una componente descrittiva: il significato emotivo e dinamico di un enunciato morale non sono mai completamente separati dal significato descrittivo. Ogni enunciato morale fornisce infatti sempre, almeno implicitamente, delle informazioni sulle caratteristiche possedute dalla cosa approvata. «Questo è bene» – scrive Stevenson – ha il significato [descrittivo] di: “Questo ha le qualità o relazioni X, Y, Z…”, in più “bene” ha pure un significato emotivo elogiativo, che gli permette di esprimere l’approvazione di chi parla e tende a provocare l’approvazione di chi ascolta». Carattere dinamico del linguaggio morale

Il significato dei giudizi morali in Stevenson

Significato dei giudizi morali Descrittivo

Emotivo

Produce uno stato mentale di tipo conoscitivo nella persona che ascolta

Esprime le attitudini valutative (approvazione e disapprovazione) di chi parla e suscita attitudini simili in chi ascolta

Il significato descrittivo e quello emotivo non sono separati l’uno dall’altro

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Due tipi di disaccordo

T7

Disaccordo tra credenze e disaccordo tra attitudini

C.L. Stevenson, Etica e linguaggio

Due metodi per risolvere i disaccordi

828

In Etica e linguaggio Stevenson dedica grande attenzione al disaccordo morale. Egli distingue due tipi di disaccordo: 1) il disaccordo di attitudini, cioè un disaccordo sulla valutazione da esprimere su una determinata cosa; 2) il disaccordo di credenze, cioè un disaccordo sulla descrizione di una determinata cosa. Nel caso si abbia solo un disaccordo di credenze, si è di fronte a una effettiva contraddizione logica, cioè ad affermazioni che non possono essere vere contemporaneamente: gli individui pronunciano asserzioni contraddittorie sulla stessa cosa (come accade, per esempio, quando una persona dice «questa stanza è spaziosa» e un’altra dice «questa stanza non è spaziosa»). Nel caso si abbia un disaccordo di attitudini, non si è di fronte a una vera e propria contraddizione, ma a un contrasto pratico tra differenti attitudini valutative: gli individui valutano diversamente la stessa cosa e cercano di suscitare valutazioni diverse negli altri. Chiamiamo «disaccordo di credenza» il contrasto che sorge fra due uomini, di cui uno crede che la risposta sia p, e l’altro non-p, o qualche altra proposizione incompatibile con p; ciascuno di essi, nel corso della discussione, cerca di fornire qualche tipo di prova a difesa della propria tesi, o di correggerla alla luce di ulteriori informazioni. Ci sono altri casi, nettamente distinti da questi, ai quali tuttavia il termine «disaccordo» è altrettanto appropriato. Essi implicano un contrasto, ora timido e modesto, ora violento, che non è fra credenze, ma piuttosto fra attitudini; cioè un contrasto fra propositi, aspirazioni, esigenze, preferenze, desideri, eccetera. […] Le due specie di disaccordo differiscono principalmente in quanto la prima riguarda il modo in cui si debbano effettuare descrizioni e spiegazioni vere delle cose, la seconda riguarda l’approvazione o la disapprovazione ad esse dovuta e quindi il modo in cui esse debbano essere dirette dagli sforzi degli uomini. Quando un disaccordo su principi morali è dovuto a un disaccordo nelle attitudini, esso non è risolvibile con metodi razionali (ma con metodi non-razionali, sebbene non necessariamente irrazionali, come la persuasione); quando invece un disaccordo su principi morali è dovuto a un disaccordo nelle credenze, è risolvibile attraverso una modificazione della conoscenza fattuale, e quindi attraverso la discussione razionale fra le parti. Tuttavia, una nuova credenza, nota Stevenson, può condurre ad avere una diversa attitudine: «le attitudini – scrive – sono spesso funzioni delle credenze. Cambiamo spesso le nostre attitudini verso una qualche cosa quando cambiamo le nostre credenze su di essa; proprio come un bambino cessa di voler toccare del carbone acceso quando giunge a credere che esso lo brucerà». L’emotivismo di Stevenson presenta, dunque, differenze non marginali rispetto alla teoria di Ayer: i giudizi morali non sono, secondo Stevenson, espressione di sentimenti o di emozioni, ma di stati psicologici più complessi e stabili – le attitudini – e hanno, oltre a una funzione espressiva, la funzione di suscitare certe attitudini in chi ascolta al fine di influenzarne il comportamento. Stevenson fa, inoltre, un’analisi del disaccordo morale più articolata di quella di Ayer. Comune ai due autori è la convinzione che lo spazio dell’argomentazione razionale in etica sia limitato.

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica Le forme di disaccordo

3

Disaccordo

Tra credenze

Tra attitudini

È una contraddizione logica

È un contrasto di carattere pratico

Le persone in disaccordo fanno asserzioni incompatibili sulla stessa cosa

Le persone in disaccordo valutano la stessa cosa in modi differenti

Questo tipo di disaccordo può essere risolto con metodi razionali

Questo tipo di disaccordo non può essere risolto con metodi razionali, ma soltanto con la persuasione

Il prescrittivismo di Hare

La vita e le opere Richard Mervyn Hare nacque a Backwell (nei pressi di Bristol) nel 1919. Dopo avere studiato all’università di Oxford si arruolò durante la Seconda guerra mondiale nell’esercito inglese. Catturato nel 1942 dai giapponesi nel corso della battaglia di Singapore, fu liberato solo al termine della guerra. Tornato in Inghilterra, nel 1946 ottenne la cattedra di filosofia morale all’università di Oxford. Nel 1952 apparve il suo primo libro, Il linguaggio morale. Nove anni dopo, nel 1963, uscì Libertà e ragione. Nel 1972 fu nominato presidente della Aristotelian Society e mantenne l’incarico fino al 1977.

Nel 1981 apparve Il pensiero morale. Livelli, metodi, scopi. Nello stesso anno Hare lasciò l’insegnamento a Oxford per trasferirsi negli Stati Uniti; qui divenne docente all’università di Gainsville, in Florida, ma tenne corsi anche alle università di Princeton, di Sidney, del Michigan, di Stanford e di Tokio. Nel 1989 fu pubblicato il volume Saggi di teoria etica. Nel 1994 Hare lasciò l’insegnamento, continuando però l’attività di ricerca. Nel 1997 uscì Scegliere un’etica e due anni dopo, nel 1999, Objective Prescriptions and Other Essays («Prescrizioni oggettive e altri saggi»). Hare è morto a Ewelme, vicino a Oxford, nel 2002.

Anche l’inglese Richard Mervyn Hare è particolarmente attento all’analisi del significato e degli usi del linguaggio morale; ma con Hare si abbandona un semplice interesse linguistico nei confronti dell’etica per entrare in questioni di contenuto, che riguardano tanto la definizione dei criteri di valutazione dell’agire, quanto questioni di bioetica ed etica applicata. In linea con Stevenson, che aveva richiamato l’attenzione sulla funzione dinamica del linguaggio morale, Hare distingue nel Linguaggio della morale due principali usi del linguaggio: un uso descrittivo, qualora esso sia adoperato per fare asserzioni sulla realtà, e un uso prescrittivo, qualora esso sia adoperato per lodare, biasimare e guidare la condotta. Gli enunciati morali Il linguaggio morale ha soprattutto un impiego di carattere prescrittivo: gli enunciasono prescrizioni ti valutativi di tipo morale implicano un comando che manifesta l’approvazione di chi li pronuncia e prescrive ad altri un determinato comportamento. Ogni enunciato morale comporta dunque un imperativo che prescrive di fare o di astenersi dal fare certe cose: dire «una cosa è buona» implica dire «fai quella cosa!». E conformemente alla legge di Hume, che vieta di dedurre una conclusione su ciò che dobbia-

Due usi del linguaggio: descrittivo e prescrittivo

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mo fare da una proposizione che descrive i fatti, un enunciato prescrittivo non può essere desunto da un enunciato descrittivo, a meno di cadere in un errore logico. Distinzione tra morale Tuttavia, se per gli emotivisti un enunciato morale influisce direttamente sulla e propaganda condotta degli altri, ha cioè la funzione di far fare qualcosa, per Hare la funzione prescrittiva dell’enunciato non comporta un’influenza diretta: esso si limita infatti a dire che qualcosa deve essere fatto, a enunciare la prescrizione. Una cosa è far sì che qualcuno compia una certa azione, un’altra è dirgli di compierla: i giudizi morali hanno questa seconda funzione, non la prima – non sono, cioè, una forma di persuasione o di influenza. Il prescrittivismo In questo modo l’argomentazione morale rimane distinta dalla persuasione o dalla propaganda (una distinzione che invece, secondo Hare, rischia di offuscarsi nell’impostazione di Ayer e di Stevenson, ma anche nella riflessione di Carnap sull’etica), perché rispetta particolari regole di implicazione logica, e quindi di razionalità. Proprio per distinguerla dall’emotivismo, Hare denomina la propria concezione metaetica «prescrittivismo», per sottolineare la centralità della funzione prescrittiva dei giudizi morali.

T8

I giudizi morali non hanno una funzione persuasiva

R.M. Hare, Il linguaggio della morale

Emotivismo e prescrittivismo

Differenza tra significato descrittivo e valutativo

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[Le teorie di Ayer, Carnap e Stevenson] suggeriscono che la funzione di un comando sia di influire causalmente su colui che ascolta, o di fargli fare qualcosa; e dire questo può essere fuorviante. Nel parlare comune non c’è niente di male a dire che nel far uso di un comando la nostra intenzione è di far fare qualcosa a qualcuno; ma in sede filosofica bisogna operare un’importante distinzione. Il dire a qualcuno di fare qualcosa e il fargliela fare, dal punto di vista logico, sono cose ben distinte l’una dall’altra. La distinzione può essere chiarita considerandone una parallela nel caso delle asserzioni. Dire a qualcuno che le cose stanno in un certo modo è logicamente diverso da farglielo credere (o tentare di farglielo credere). […] Questa distinzione è importante per la filosofia morale perché, di fatto, l’idea che la funzione dei giudizi morali sia quella di persuadere ha reso difficile distinguere la loro funzione da quella della propaganda. Dal momento che si vuol richiamare l’attenzione su alcune analogie tra i comandi e i giudizi morali e classificarli entrambi come prescrittivi, è necessario insistere nel distinguere i comandi o i giudizi morali dalla propaganda. Ayer e Stevenson

Hare

I giudizi morali esercitano un’influenza diretta sul comportamento delle persone

I giudizi morali non esercitano influenza diretta sul comportamento delle persone

I giudizi morali hanno una funzione persuasiva: sono modi per far fare qualcosa alla persona a cui sono rivolti

I giudizi morali hanno una funzione prescrittiva: sono modi per dire a qualcuno di fare qualcosa

La morale è una forma di persuasione

La morale è distinta dalla persuasione

Oltre alla funzione prescrittiva, Hare riconosce a ogni enunciato valutativo anche una funzione descrittiva. Per esempio: l’enunciato «questa automobile è buona» ha un significato valutativo, dato dall’uso laudativo del termine «buono», ma

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Universalizzabilità dei giudizi morali

L’universalizzabilità come imparzialità

T9

Regole del ragionamento morale R.M. Hare, Libertà e ragione

ha anche un significato descrittivo, in quanto rende implicitamente conto dei criteri di applicazione del termine «buono» alla classe di oggetti in questione. Il significato valutativo non varia pur variando la classe degli oggetti a cui si riferisce (col dirla «buona», per esempio, si loda un’automobile così come si loda una fragola); il significato descrittivo varia invece in relazione alla classe di oggetti cui si riferisce, poiché con essa variano i criteri di applicazione del termine (i criteri per giudicare che cosa è una buona automobile non sono gli stessi che si usano per giudicare che cosa è una buona fragola). «In virtù del suo significato descrittivo – scrive Hare –, il giudizio valutativo informa chi ascolta che l’oggetto è conforme al criterio […]. Se si tratta di un criterio largamente conosciuto e generalmente accettato, il giudizio valutativo può semplicemente esprimere l’adesione di chi parla a tale criterio». Oltre alla prescrittività c’è un’altra caratteristica dei giudizi morali su cui Hare richiama particolarmente l’attenzione: la loro universalizzabilità, un aspetto per il quale si ricollega direttamente a Kant. Ogni enunciato morale è universalizzabile: se una persona giudica una certa cosa buona, ciò implicitamente presuppone che dovrebbe giudicare nello stesso modo cose esattamente simili e lo stesso dovrebbe fare ogni persona in circostanze esattamente simili. Nel Linguaggio della morale questa caratteristica è ritenuta da Hare una caratteristica logica degli enunciati morali, di per sé compatibile con qualsiasi valutazione si sostenga: l’universalizzabilità prescrive cioè un requisito di coerenza formale nell’argomentazione morale, per cui dobbiamo essere coerenti nei giudizi che formuliamo e, dunque, siamo tenuti a giudicare nello stesso modo cose che non presentano differenze significative; l’universalizzabilità, però, non dice quali giudizi particolari dobbiamo formulare. Un enunciato privo della caratteristica di universalizzabilità non sarebbe morale. A partire dai saggi degli anni sessanta, tuttavia, Hare assegna al requisito dell’universalizzabilità anche un significato contenutistico: l’universalizzabilità determina quali prescrizioni possiamo accettare e viene ora connessa al requisito di imparzialità, in base al quale ciascuno deve tenere conto, nella valutazione morale, degli interessi di tutti gli individui coinvolti e non solo dei propri. Oltre a essere universale, un enunciato morale deve essere, cioè, anche imparziale: quando rifletto su ciò che è giusto devo tenere conto non soltanto dei miei interessi, ma anche di quelli degli individui che saranno coinvolti dall’azione. In questo modo il requisito di universalizzabilità fornisce anche indicazioni su come agire, proibendo di compiere azioni parziali. Universalizzabilità e prescrittività sono, comunque, le due proprietà che caratterizzano i giudizi morali e guidano il ragionamento su ciò che dobbiamo fare. Le regole del ragionamento morale sono, fondamentalmente, due, corrispondenti alle due caratteristiche dei giudizi morali delle quali abbiamo cercato di mostrare l’esistenza, cioè la prescrittività e l’universalizzabilità. Quando, in un caso concreto, tentiamo di decidere che cosa dobbiamo fare, ciò che cerchiamo è un’azione a compiere la quale possiamo impegnarci (prescrittività), ma che siamo nel contempo disposti a accettare come esemplificazione di un principio d’azione da prescrivere a altre persone che si trovino in circostanze analoghe (universalizzabilità). Se, quando consideriamo un certo programma d’azione, troviamo che, una volta universalizzato, dà luogo a prescrizioni che non possiamo accettare, lo rifiutiamo come soluzione del nostro problema morale: se non possiamo universalizzare la prescrizione, questa non può diventare un «dovere». 831

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Il requisito di universalizzabilità spinge nella direzione di una ben precisa teoria normativa: una particolare versione di utilitarismo diversa sia dall’utilitarismo ideale di Moore, sia dall’utilitarismo classico fondato sulla felicità o sul pia➥ Percorso tematico, p. 869 cere: le conseguenze che rendono giusta un’azione sono quelle che possono soddisfare le preferenze degli individui. È il cosiddetto «utilitarismo delle preferenze», secondo cui dobbiamo compiere le azioni che soddisfano il maggior numero possibile di preferenze di tutte le persone coinvolte. Questa teoria è coerente con il criterio dell’universalizzabilità, in quanto non fa differenza tra la soddisfazione delle preferenze proprie e altrui, e riesce quindi a restare imparziale. Inadeguatezza Il concetto di «felicità» utilizzato da Jeremy Bentham (1748-1832) e poi da John del concetto di felicità Stuart Mill è considerato da Hare troppo variabile e indeterminato per costituire un punto di riferimento efficace: esso indica infatti uno stato mentale molto complesso che è diverso da un individuo all’altro. In base all’utilitarismo delle preferenze, invece, il criterio per la valutazione dell’azione consiste nella produzione della massima soddisfazione delle preferenze individuali: un’azione è giusta se massimizza la soddisfazione delle preferenze degli individui coinvolti, indipendentemente dall’identità dei singoli individui. L’utilitarismo delle preferenze

T10

L’uguale peso delle preferenze uguali R.M. Hare, Come decidere razionalmente le questioni morali

Soluzione dei disaccordi morali

832

L’universalità delle prescrizioni ci impedisce di prescrivere diversamente relativamente a quei casi in cui noi siamo differentemente coinvolti. Dobbiamo, in altre parole, considerare le preferenze di ogni parte in una situazione data come di eguale peso, sia poi questa parte in causa costituita da noi stessi o da qualunque altro. […] Solo con il riconoscere eguale peso positivo alle preferenze eguali di tutti gli individui possiamo trovare quelle prescrizioni universali che risulteranno più accettabili per noi. Vi risulterà chiaro che questa posizione è semplicemente l’utilitarismo formulato in altre parole. Si tratta di quella varietà di utilitarismo che sostiene che dobbiamo scegliere quell’alternativa, tra quelle disponibili, che massimizza, nel complesso, le soddisfazioni di preferenze di tutti coloro che – considerati imparzialmente – sono influenzati dalla nostra azione. Infatti questa è l’alternativa che noi sceglieremo se daremo peso eguale a preferenze eguali, di chiunque poi siano queste preferenze. Grazie al requisito di universalizzabilità collegato all’utilitarismo delle preferenze, nel libro del 1981, Il pensiero morale, Hare considera superabile anche il disaccordo morale. Pur nel caso di un disaccordo fondamentale di valori come quello fra un liberale e un fanatico (per esempio un nazista), l’utilitarismo delle preferenze consentirebbe, attraverso il calcolo della soddisfazione delle preferenze degli individui coinvolti, di mostrare che il liberale ha ragione e il fanatico ha torto, dato che il danno causato agli individui se le preferenze del fanatico fossero soddisfatte sarebbe superiore al vantaggio arrecato al fanatico. Dunque, laddove Ayer e Stevenson si limitano all’analisi del linguaggio morale, Hare trae dalla propria teoria metaetica precise indicazioni di carattere normativo. Poiché gli enunciati morali sono prescrittivi, formularne uno ci impegna ad agire di conseguenza; e poiché essi sono universalizzabili, giudicare giusta un’azione ci impegna a giudicare giusta ogni altra azione simile ad essa, indipendentemente da chi la compie e da chi la subisce. Dall’unione di prescrittività e universalizzabilità deriva la conclusione (utilitaristica) che dobbiamo fare ciò che soddisfa il maggior numero possibile di preferenze di tutti gli individui coinvolti.

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4 Ripresa del naturalismo

Bontà naturale e forma di vita

Il richiamo ad Aristotele

I giudizi morali non esprimono stati soggettivi

T11

Bontà e difetto dipendono dalla forma di vita della specie P. Foot, La natura del bene

Il naturalismo di Foot La critica del naturalismo e la difesa della legge di Hume accomunano, come si è visto, tanto l’impostazione oggettivistica dell’intuizionismo (secondo il quale c’è una verità morale oggettiva) quanto l’impostazione dell’emotivismo e del prescrittivismo (secondo la quale i giudizi morali non sono asserzioni su fatti oggettivi). Tuttavia il naturalismo non è mai stato completamente abbandonato nel Novecento, ed è anzi tornato fortemente alla ribalta negli ultimi anni. Tra i principali esponenti del naturalismo del secondo Novecento vi è la filosofa di Oxford Philippa Foot. Per Foot, cosa è buono e cosa è cattivo può essere desunto direttamente dalla considerazione delle caratteristiche fondamentali delle specie naturali. Contrariamente alla legge di Hume, da ciò che è naturale si può ricavare, dunque, che cosa è buono e cosa si deve fare. La natura degli esseri viventi, sostiene Foot nel suo lavoro principale, La natura del bene, del 2001, è infatti tale che possono essere individuate delle funzioni l’adempimento delle quali costituisce la bontà «intrinseca» o «naturale» di ciascun essere vivente. Queste funzioni vengono determinate dalla forma di vita della specie alla quale l’individuo appartiene e vengono intese, seguendo Aristotele, come dotate di un loro fine caratteristico: come funzioni teleologiche (dalla parola greca tèlos, «fine»). La forma di vita della specie vegetale a cui appartiene una quercia, per esempio, determina le funzioni caratteristiche di ogni quercia, e quindi determina cosa è una buona quercia; la forma di vita della specie animale a cui appartiene una tartaruga determina le funzioni caratteristiche di ogni tartaruga e quindi determina cosa è una buona tartaruga, e così via. Come l’individuo dovrebbe essere, cosa costituisce per esso una buona funzione, cioè un pregio e una virtù, e cosa costituisce una funzione difettosa, cioè un difetto e un vizio, può essere desunto, dunque, dal riferimento a caratteristiche naturali appropriate a ogni specie. In altre parole, le norme su ciò che un essere vivente deve fare dipendono dai fatti relativi alla specie a cui appartiene. Giudicare buona una determinata caratteristica non è dare espressione a un proprio stato psicologico, come vogliono l’emotivismo e il prescrittivismo, ma significa fare una constatazione di carattere fattuale. La bontà e il difetto naturali nel regno vegetale e animale dipendono essenzialmente dalla forma di vita della specie a cui appartiene il singolo individuo. La flessibilità è buona per la canna, mentre è un difetto per la quercia (quando il vento soffiava forte, la quercia superba di La Fontaine venne schernita da una canna). E l’esploratore imbattutosi nella prima tartaruga avrebbe sbagliato a stigmatizzarla per la sua lentezza. […] Occorre notare che nel descrivere la bontà naturale nella vita vegetale e animale si è parlato di giudizi normativi di bontà e difetto che persino in questo ambito verrebbero chiamati «valutativi». […] Le norme di cui si è parlato finora si spiegano in termini di fatti relativi a ciò che appartiene al mondo naturale. Non abbiamo avuto bisogno di ricondurre i nostri usi di «buono» al di fuori del dominio umano ad «approvazioni», né ad altri tipi di «atti linguistici», né a espressioni di qualche stato psicologico. […] Considero il vizio una forma di difetto naturale, ed è per questo che nel presente volume utilizzo più volte l’espressione «bontà naturale». 833

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Virtù e vizio dipendono dalla natura umana

T12

Il difetto morale è una forma di difetto naturale P. Foot, La natura del bene

La teoria della normatività naturale

In base a queste funzioni naturali caratteristiche della specie, in base cioè a questa «normatività naturale» (per cui le norme derivano da fatti relativi alla natura delle varie specie di esseri viventi), si stabiliscono le valutazioni morali, i principi e le regole da rispettare anche nei rapporti fra esseri umani: il significato dell’aggettivo «buono», quando è riferito alle radici delle piante o quando è riferito alle disposizioni degli esseri umani, è, dice Foot, lo stesso. È il contenuto naturale di ciò che costituisce una buona vita umana che determina per gli individui appartenenti al genere umano ciò che, per essi, è naturalmente buono o naturalmente cattivo, cioè ciò che è oggettivamente una virtù o un vizio. In altre parole, una persona che manca di svolgere adeguatamente le funzioni proprie della specie umana non è una persona buona, proprio come una quercia che ha radici esili non è un buon esemplare della sua specie. Sono convinta del fatto che, nonostante tutte le differenze che ci sono fra la valutazione delle piante, degli animali e delle loro parti e caratteristiche, da un lato, e la valutazione morale di esseri umani dall’altro, troveremo in esse una struttura logica di base e uno statuto in comune. La tesi che proporrò è che il difetto morale è una forma di difetto naturale non differente da quello che si può riscontrare in esseri viventi sub-razionali. La forma di vita di una specie determina le funzioni caratteristiche di quella specie

La bontà degli individui che appartengono a una specie consiste nell’adempimento delle funzioni che la caratterizzano

Virtù e difetto morale sono forme di bontà e difetto naturale

I valori e le norme relative a ciò che una persona deve fare possono essere desunti dalla descrizione della natura della specie umana

La legge di Hume non è valida

Centralità della virtù nell’etica

➥ Sommario, p. 862

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Le funzioni appropriate alla specie umana vengono quindi considerate virtù, le funzioni inappropriate, vizi. Insieme con altri filosofi contemporanei, Foot dà grande rilievo alla nozione di virtù, nozione al centro dell’etica antica e in particolare aristotelica che è oggi tornata in primo piano – tanto che si parla, infatti, di «etica delle virtù» per le posizioni di coloro che vi fanno ricorso. È solo attraverso la specificazione delle virtù e dei vizi naturali che si può stabilire la correttezza o la non correttezza morale di un’azione: un’azione è giusta non in ragione delle sue conseguenze (come sostiene l’utilitarismo) o se rispetta un determinato principio (come afferma il deontologismo), ma se è «quanto la virtù richiede». Se dal punto di vista metaetico Foot propone – contro le teorie emotivistica e prescrittivistica – una forma di naturalismo, sostenendo che i giudizi morali sono asserzioni che descrivono fatti e che le norme e i valori derivano da certi fatti, nell’ambito dell’etica normativa rifiuta tanto le teorie deontologiche quanto quelle utilitaristiche e propone un’etica fondata sulla virtù.

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La filosofia politica

2 I testi

H. Arendt Vita activa: L’azione è una seconda nascita, T13 J. Rawls Una teoria della giustizia: La giustizia sociale, T14; I beni primari, T15; I principi di giustizia sono frutto di un accordo, T16; L’ignoranza garantisce l’imparzialità, T17; L’equilibrio riflessivo, T18

1

Totalitarismo e uso del terrore

Dimensioni della vita attiva

J. Habermas Etica del discorso: Intesa intersoggettiva e soluzione dei conflitti, T19 R. Nozick Anarchia, stato e utopia: Lo Stato minimo, T20

Arendt Hannah Arendt nacque a Hannover da una famiglia di origini ebraiche nel 1906. Allieva di Heidegger e di Jaspers, durante il nazismo fuggì prima a Parigi, poi negli Stati Uniti. Qui insegnò in varie università fino alla morte, avvenuta a New York nel 1975. Nel testo del 1951, Le origini del totalitarismo, Arendt avvicina l’esperienza del nazismo e dello stalinismo: essi sono entrambi regimi «totalitari», ostili alla democrazia e senza rispetto delle libertà individuali. Caratteristica del totalitarismo è la combinazione di ideologia e uso del terrore, che diviene lo strumento politico grazie al quale il totalitarismo riesce a sopravvivere. L’esperienza principale in cui si è incarnato il terrore dei regimi totalitari del Novecento è rappresentata dai campi di concentramento, nei quali milioni di individui sono stati spogliati della loro umanità e ridotti a cose. Come emerge anche nel reportage del processo al nazista Karl Adolf Eichmann, pubblicato nel 1963 col titolo La banalità del male, il male – anche quello costituito dal genocidio di milioni di ebrei – può essere un’esperienza senza alcuna profondità, una caratteristica della mediocrità dell’uomo: può cioè essere «banale»; e può non trovare ostacoli sufficientemente forti da parte delle vittime. La caratteristica storica che ha consentito il sorgere del totalitarismo è individuata da Arendt nella progressiva spoliticizzazione della cultura occidentale, un tema sul quale la filosofa tedesca torna anche nella sua opera principale, La condizione umana. Vita activa, del 1959. Qui Arendt contrappone la vita contemplativa dell’uomo alla vita attiva e individua tre dimensioni della vita attiva: il «lavoro», che serve a soddisfare i bisogni vitali; l’«operare», che serve alla produzione degli oggetti; l’«azione» (pràxis), che serve a entrare in relazione con gli altri. 835

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Azione come dimensione propria della politica

T13

L’azione è una seconda nascita

H. Arendt, Vita activa, 5, par. 24

Le tre dimensioni dell’attività umana sono intese da Arendt in un rapporto gerarchico. Se le prime due sono condivise anche dagli animali, e non producono nulla di realmente innovativo, poiché conducono alla soddisfazione di bisogni necessari e alla reificazione di oggetti utili, la dimensione dell’azione è caratteristica propriamente umana: l’azione avviene tramite il linguaggio ed è frutto della libera autodeterminazione dell’uomo. Con essa nascono il nuovo e l’imprevedibile, creato da un essere che è stato creato a sua volta come nuovo attraverso la nascita. La dimensione dell’azione è la caratteristica della politica: «è l’attività politica per eccellenza». Come nella pòlis greca, la politica rappresenta la sfera nella quale gli individui, interagendo, si riconoscono liberamente come eguali attraverso la parola e trovano occasione per distinguersi e per ottenere fama duratura. La politica, scrive Arendt, è la «sfera della libertà». Con la parola e l’azione ci inseriamo nel mondo umano, e questa inserzione è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. Questa inserzione non ci viene imposta dalla necessità, come il labor, e non ci è suggerita dall’utilità, come l’opera. Può essere stimolata dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non è mai condizionata. Essa scaturisce da ciò cui ha dato inizio la nostra nascita, e che ci provoca a intraprendere qualcosa di nuovo di nostra iniziativa. Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, incominciare (come indica la parola greca àrchein, «incominciare», «condurre» ed eventualmente «reggere»), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori per virtù di nascita, gli uomini prendono l’iniziativa, sono indotti all’azione.

Le tre dimensioni della vita attiva

Vita attiva Lavoro

Operare

Azione

Mezzo per soddisfare i bisogni vitali

Mezzo per produrre oggetti

Mezzo per stabilire rapporti con gli altri

Dimensioni della vita attiva comuni agli animali e all’uomo

Importanza della politica

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Dimensione peculiare della vita umana: è caratteristica della politica

Ma, osserva Arendt, se nella pòlis greca era la dimensione dell’azione ad avere la meglio, nel mondo moderno è la dimensione del lavoro che ha assunto una posizione predominante, con il conseguente svuotamento della vita politica. Da ciò sono scaturiti un generale conformismo e l’amministrazione burocratica della comunità, identificata con la nazione e a sua volta dotata di una propria economia nazionale. Occorre invece che l’azione torni al centro e, con essa, la politica.

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

La vita attiva ha dunque la priorità rispetto a quella contemplativa ed è necessario restituire all’impegno politico l’importanza che esso aveva nel mondo antico e, in particolare, nella cultura greca.

2

Le teorie della giustizia

In ambito anglosassone la riflessione etico-politica è inizialmente dominata dalla discussione sull’utilitarismo, che è insieme una teoria etica e politica, in quanto prevede lo stesso criterio (la massimizzazione del benessere degli individui coin➥ Percorso tematico, p. 869 volti) per giustificare sia le azioni individuali sia le azioni pubbliche, e che è stato per un lungo periodo la teoria maggiormente seguita. Dall’inizio degli anni settanta, tuttavia, si è assistito alla fioritura di impostazioni alternative, tra cui le principali possono essere considerate le teorie della giustizia e le teorie dei diritti. La giustizia La principale versione di teoria della giustizia è stata elaborata dal filosofo amenel pensiero di Rawls ricano John Rawls ed è divenuta un punto di riferimento essenziale della riflessione filosofico-politica degli ultimi tre decenni. Teorie alternative all’utilitarismo

La vita e le opere John Rawls nacque a Baltimora (nel Maryland) nel 1921. Dopo aver studiato a Princeton e avere soggiornato a Oxford, nel 1953 ottenne una cattedra all’università di Cornell, a Ithaca. Nel 1955 uscì il saggio Due concetti di regola. Nel 1959 lasciò l’università di Cornell e l’anno successivo divenne docente al Massachusetts Institute of Techonlogy. Nel 1962 ottenne una cattedra all’università di Harvard, nel

Massachusetts. Nel 1967 fu pubblicato il saggio Giustizia retributiva. Quattro anni dopo, nel 1971, apparve Una teoria della giustizia. Nel 1991 Rawls fu nominato professore emerito dell’università di Harvard. Nel 1993 uscì Liberalismo politico, seguito, nel 1999, da Il diritto dei popoli. Il suo ultimo libro, pubblicato nel 2001, è Giustizia come equità. Una riformulazione. Rawls è morto a Harvard nel 2002.

Il testo più significativo di Rawls è Una teoria della giustizia. Oggetto principale della teoria della giustizia è il modo in cui nella società vengono distribuiti oneri e benefici e in relazione ad essi ne viene organizzata la struttura fondamentale (le istituzioni statali, l’assetto economico, l’organizzazione sociale): il concetto di giustizia viene dunque inteso da Rawls in senso distributivo. Ripartizione di oneri Obiettivo della teoria è delineare dei principi generali di giustizia in base ai quae benefici li organizzare la società e le sue istituzioni fondamentali, in modo che esse possano venire accettate anche da individui che hanno obiettivi diversi tra loro: questi principi, scrive Rawls, «forniscono un metodo per assegnare diritti e doveri nelle istituzioni fondamentali della società, e definiscono la distribuzione appropriata dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale».

T14

La giustizia sociale

J. Rawls, Una teoria della giustizia

Molti diversi generi di cose sono considerati giusti o ingiusti: non soltanto leggi, istituzioni o sistemi sociali, ma anche particolari azioni di diversi tipi, tra cui decisioni, giudizi e imputazioni. Chiamiamo giusti e ingiusti anche gli atteggiamenti e le inclinazioni delle persone, e le persone stesse. Il nostro tema però è quello della giustizia sociale. Secondo noi l’oggetto principale della giustizia è la struttura fondamentale della società, o più esattamente il modo in cui le maggiori istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. Chiamo con il termi837

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

ne di maggiori istituzioni la costituzione politica e i principali assetti economici e sociali. Così la tutela giuridica della libertà di pensiero e di coscienza, il mercato concorrenziale, la proprietà privata dei mezzi di produzione, e la famiglia monogamica sono tutti esempi di istituzioni sociali maggiori. Naturalmente cosa sia da considerare una giusta distribuzione all’interno della società può essere interpretato in tanti modi. La proposta di Rawls è quella di identificare la distribuzione giusta con l’uguaglianza: suo intento è delineare una «teoria della giustizia come equità». ➥ Percorso tematico, p. 869 Proprio questo punto viene invece trascurato dall’utilitarismo, che pone attenzione solo alla produzione della massima quantità di benessere e non si chiede come esso venga ripartito fra gli individui. In questo modo l’utilitarismo potrebbe giustificare anche forti disuguaglianze se ciò conducesse alla massimizzazione del benessere complessivo. Distribuzione Rawls individua alcuni beni principali la cui distribuzione egualitaria risulta dei beni primari fondamentale per la creazione di un ordine sociale giusto: questi beni vengono chiamati «beni primari» e sono rappresentati da ciò che ogni persona razionale desidererebbe in quanto mezzi adatti alla soddisfazione di ogni fine individuale, qualunque esso sia. Intorno ai beni primari dovrebbe dunque esserci accordo fra tutti i componenti della società. Per Rawls essi consistono in alcune libertà e opportunità fondamentali (per esempio, nella libertà di movimento, di associazione, di culto, di parola ecc.), nella ricchezza e nel reddito, e infine nelle basi sociali del rispetto di sé (nelle condizioni sociali, cioè, che consentono a ognuno di avere consapevolezza del proprio valore). All’interno della teoria della giustizia di Rawls, i beni primari rappresentano i principali valori sociali: la loro distribuzione ineguale rende ingiusto un assetto sociale. L’utilitarismo trascura l’equità

T15

I beni primari J. Rawls, Una teoria della giustizia

I due principi di giustizia sociale: libertà e uguaglianza

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I beni primari sono quelle cose che si suppone un individuo razionale voglia qualsiasi altra cosa egli voglia. Indipendentemente dai particolari dei piani di vita razionali di un individuo, si assume che vi sono diverse cose che un individuo preferirebbe avere in più invece che in meno. Con più di questi beni, generalmente gli uomini possono garantirsi un maggior successo nel realizzare le proprie intenzioni e nel raggiungere i propri fini, quali che essi siano. I beni sociali primari, raggruppati per ampie categorie, sono diritti e libertà, opportunità e poteri, reddito e ricchezza (Un bene primario molto importante è [anche] la coscienza del proprio valore […]). In generale sembra evidente che questi si adattano alla definizione di bene primario. Essi sono beni sociali per via della loro connessione con la struttura fondamentale; libertà e poteri sono definiti dalle regole delle istituzioni maggiori, e anche la distribuzione del reddito e della ricchezza è regolata da queste ultime. I principi generali che presiedono alla giusta distribuzione dei beni primari e alla giusta organizzazione della società sono due. Il primo principio di giustizia sociale riconosce la libertà di ognuno: secondo esso «ogni persona deve avere eguale diritto alle più ampie libertà di base compatibilmente con una libertà simile per altri». Il secondo principio di giustizia sociale riconosce l’uguaglianza sociale ed economica, con particolare attenzione ai membri meno avvantaggiati della società: se-

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condo questo principio «le disuguaglianze sociali ed economiche devono venire regolate in modo tale che 1) si possa ragionevolmente presumere che siano nell’interesse di ognuno e 2) che siano connesse a mansioni e cariche accessibili a tutti». Priorità della libertà Fra i due principi esiste una relazione di priorità, che prescrive di privilegiare, in situazioni di contrasto, il primo rispetto al secondo, di dare precedenza, cioè, alla libertà sull’uguaglianza. La teoria deontologica È in relazione a questi due principi che possono essere svolte le considerazioni di Rawls di giustizia: in base ad essi è possibile organizzare la società e valutare le azioni compiute. In opposizione all’utilitarismo, ma come in Kant e in Ross, l’impostazione di Rawls si presenta dunque come un’impostazione di carattere deontologico: l’azione è giusta non in ragione delle conseguenze causate, ma se rispetta determinati principi fondamentali. La teoria rawlsiana della giustizia

Teoria della giustizia sociale

Ha il compito di stabilire i principi generali per la distribuzione equa dei beni primari tra i membri della società e quindi di organizzare la società

La giustizia è equità

Ci sono due principi generali di giustizia sociale

Principio di libertà

Principio di uguaglianza

Ma la libertà ha la priorità sull’uguaglianza

Sennonché, come Rawls sottolinea anche nell’opera del 1993, Liberalismo politico, l’obiettivo della teoria è di indicare solo principi di carattere politico e non etico; di indicare, cioè, principi che riguardano l’organizzazione delle istituzioni politiche, senza la pretesa di entrare nelle differenti visioni della vita e nelle diverse concezioni del bene che gli individui hanno. ➥ Laboratorio sul lessico, Rawls riconosce infatti un pluralismo di fondo delle convinzioni etiche degli inRelativo, p. 881 dividui. Per questo aspetto la teoria della giustizia di Rawls si presenta come una teoria liberale, attenta cioè al rispetto della libertà di coscienza individuale e contraria a ogni interferenza con la sfera delle convinzioni intime dell’individuo. Il contratto ideale I principi generali di giustizia sono tuttavia, secondo Rawls, tali da ottenere il consenso di tutti gli individui razionali. I due principi di giustizia sociale rappresentano infatti il risultato di un accordo ideale fra tutti gli individui appartenenti alla società. Rawls individua una procedura in grado di giustificare l’adozione di questi principi: un contratto ipotetico fra tutti gli individui coinvolti, i quali, in una situazione in cui ognuno cerca di perseguire i propri interessi, accetterebbero come compromesso razionale i due principi di giustizia sociale quali criteri per organizzare la società. Il pluralismo: una teoria liberale

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Attraverso il richiamo al contratto sociale Rawls ripropone nel pensiero politico contemporaneo una tradizione, quella contrattualistica, che ha caratterizzato la filosofia politica moderna da Hobbes a Kant. Nella teoria di Rawls, però, il contratto non viene inteso come ciò che dà luogo a una forma specifica di governo; esso è, piuttosto, il mezzo con cui individui liberi e razionali, che inizialmente si trovano in una condizione uguale, stabiliscono i principi che regoleranno la loro società.

T16

I principi di giustizia sono frutto di un accordo J. Rawls, Una teoria della giustizia

È mio scopo presentare una concezione della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant. A questo scopo, non dobbiamo pensare che il contratto originario dia luogo a una particolare società o istituisca una particolare forma di governo. L’idea guida è piuttosto quella che i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società sono oggetto dell’accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione. Questi principi devono regolare tutti gli accordi successivi; essi specificano i tipi di cooperazione sociale che possono essere messi in atto e le forme di governo della società che possono essere istituite. Chiamerò giustizia come equità questo modo di considerare i principi di giustizia.

Uno degli aspetti caratteristici della forma di contratto delineata da Rawls è il suo carattere ideale; esso è cioè un contratto ipotetico che non avviene di fatto, ma che potrebbe avvenire qualora fossero soddisfatte determinate condizioni. Queste condizioni vengono individuate grazie all’ipotesi di una «posizione originaria» ricoperta dagli individui nel contratto. Il velo di ignoranza Caratteristica della posizione originaria è che i soggetti siano liberi e razionali, che siano in una posizione di uguaglianza gli uni nei confronti degli altri e che compiano la scelta dei principi di giustizia in una situazione di assoluta ignoranza non solo su quale sarà il loro ruolo nella futura organizzazione sociale, ma anche su quali concezioni della vita e su quali principi etici e religiosi essi stessi avranno in futuro. Gli individui nel contratto sono cioè sottoposti a quello che Rawls chiama un velo di ignoranza rispetto a tutte queste cose. Attraverso il ricorso alla posizione originaria e al velo di ignoranza vengono soddisfatte nel contratto le condizioni di imparzialità che ogni contraente è chiamato a rispettare. Infatti, poiché non sanno quale ruolo svolgeranno nella società per la quale stabiliscono i principi e in quali condizioni si troveranno a vivere in essa, gli individui sono spinti a ricercare principi che possano accettare anche qualora appartengano alle classi sociali più svantaggiate. Il velo di ignoranza fa sì che la scelta dei principi di giustizia sociale non sia influenzata da fattori contingenti, quali sono le condizioni economiche delle singole persone e le loro concezioni del bene; in tal modo la scelta non dovrebbe essere viziata da pregiudizi.

La posizione originaria

T17

L’ignoranza garantisce l’imparzialità

J. Rawls, Una teoria della giustizia

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Occorre non farsi fuorviare dalle condizioni piuttosto inusuali che caratterizzano la posizione originaria. L’idea è semplicemente quella di rendere chiare le restrizioni che sembra ragionevole imporre sugli argomenti a favore dei principi di giustizia, e di conseguenza sui principi stessi. Sembra quindi ragionevole e generalmente accettabile che nessuno debba risultare avvantaggiato o svantaggiato dalla scelta dei principi, a motivo del caso naturale o delle circostanze socia-

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li. Sembra anche largamente condivisa l’impossibilità di adattare i principi alle circostanze di ogni singolo caso. Dovremo poi assicurarci che le particolari tendenze e aspirazioni di ciascuno, e le concezioni del proprio bene che le persone hanno, non influiscano sui principi adottati. Ciò tende a eliminare quei principi che sarebbe razionale proporre per l’accettazione, per quanto piccola possa essere la loro speranza di successo, se solo si sapessero certe cose, che sono irrilevanti dal punto di vista della giustizia. Chi ad esempio fosse a conoscenza del fatto di essere ricco, potrebbe credere razionale un principio secondo cui alcune imposte per scopi assistenziali dovrebbero essere considerate ingiuste; se egli fosse invece a conoscenza della propria povertà, molto probabilmente proporrebbe il principio opposto. Per descrivere le restrizioni volute, si immagina una situazione in cui ognuno viene privato di questo tipo di informazioni. Si esclude la conoscenza di quei fattori contingenti che pongono in disaccordo gli individui e che li lasciano in balia dei propri pregiudizi. In questo modo si arriva a concepire naturalmente un velo di ignoranza. Giustificazione attraverso l’equilibrio riflessivo

T18

L’equilibrio riflessivo

J. Rawls, Una teoria della giustizia

Quella del contratto sottoposto ai vincoli della posizione originaria e del velo di ignoranza non è tuttavia l’unica strada possibile per giustificare i principi di giustizia sociale. Lo stesso risultato si avrebbe, secondo Rawls, anche attraverso una procedura che non fa ricorso al contratto, ma che potrebbe essere utile qualora la decisione nella posizione originaria non fosse da tutti condivisa: la procedura che mira a raggiungere un equilibrio consapevole tra i principi teorici generali e le convinzioni morali di ognuno sottoposte a esame critico. È il cosiddetto metodo dell’equilibrio riflessivo; metodo che anche dopo Rawls ha avuto larga diffusione e utilizzazione. I principi che vengono scelti sono infatti quelli che risultano dall’equilibrio riflessivo fra i giudizi morali ponderati degli individui e le varie concezioni teoriche della giustizia disponibili, una volta che gli uni e le altre siano stati sottoposti ad attento esame critico. Esso «è un equilibrio – scrive Rawls – perché alla fine i nostri principi coincidono con i nostri giudizi; è riflessivo poiché sappiamo a quali principi si conformano i nostri giudizi, e conosciamo le premesse della loro derivazione». Si potrebbe sostenere che la giustizia come equità è l’ipotesi secondo la quale i principi che verrebbero scelti nella posizione originaria si identificano con quelli che corrispondono ai nostri giudizi ponderati, esprimendo così il nostro senso di giustizia. Ma, ovviamente, questa interpretazione è troppo semplificata. Quando definiamo il nostro senso di giustizia dobbiamo lasciare spazio alla possibilità che i nostri giudizi ponderati siano normalmente soggetti a determinate distorsioni e anomalie, nonostante le circostanze favorevoli in cui sono stati formulati. Se veniamo messi di fronte ad una espressione intuitivamente attraente del nostro senso di giustizia (che a esempio include certe ipotesi ragionevoli e naturali), possiamo facilmente rivedere i nostri giudizi e uniformarli ai principi della teoria, anche se la teoria stessa non si adatta perfettamente ai nostri giudizi preesistenti. […] Dal punto di vista della filosofia morale, la migliore rappresentazione del senso di giustizia di una persona non è quella che si adatta ai suoi giudizi prima che una qualunque concezione della giustizia sia stata presa in esame, ma quella che corrisponde ai suoi giudizi in un equilibrio riflessivo. Come abbiamo visto, questo stadio viene raggiunto dopo che una per841

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sona ha valutato concezioni differenti e ha riveduto i propri giudizi in armonia con una di queste, o mantenuto fede alle proprie convinzioni iniziali (e alla concezione corrispondente). Giustificazione dei principi di giustizia

Procedure per giustificare la scelta dei principi di giustizia sociale

Contratto ipotetico

Metodo dell’equilibrio riflessivo

Il contratto viene stipulato idealmente dagli individui nella posizione originaria

Esso consiste nel raggiungere un equilibrio tra i giudizi morali ponderati degli individui e le concezioni della giustizia sottoposte a riflessione

Nella posizione originaria gli individui: – sono liberi, razionali e uguali – sono sottoposti al velo di ignoranza

La teoria di Rawls rappresenta la principale teoria della giustizia di carattere liberale, ma non è la sola. Una teoria diversa da quella rawlsiana è rappresentata dal cosiddetto «approccio delle capacità» delineato dall’economista e filosofo indiano Amartya Kumar Sen (nato nel 1933), premio Nobel per l’economia nel 1998, e dalla filosofa americana Martha Nussbaum (nata nel 1947). L’attenzione per l’aspetto dell’uguaglianza avvicina l’approccio delle capacità alla teoria della giustizia come equità, ma se per Rawls ciò che va distribuito in maniera equa sono i beni primari, Sen e Nussbaum ritengono insufficiente un’attenzione esclusivamente concentrata su di essi. I fini da promuovere I beni primari, in quanto comprendono al loro interno il reddito e la ricchezza, sono le capacità sono infatti dei mezzi e non dei fini. L’attenzione deve invece essere rivolta a ciò che un individuo fa ed è capace di fare con questi beni: i fini da considerare dotati di valore intrinseco, cioè dotati di valore in se stessi e non come mezzi per ottenere qualcos’altro, sono le capacità fondamentali degli individui di fare le cose che essi ritengono degne di valore. Come scrive Sen, nell’approccio delle capacità «il possesso dei beni […] viene considerato strumentalmente e contingentemente importante solo nella misura in cui ci aiuta a ottenere ciò cui attribuiamo valore, vale a dire le capacità». L’uguaglianza di beni e risorse di Rawls va perciò sostituita con l’uguaglianza delle capacità fondamentali degli individui (la capacità di muoversi, di vivere una vita sana, di nutrirsi e così via). La critica a Rawls Inoltre, secondo Sen e Nussbaum, nel porre così grande attenzione ai beni primari Rawls trascurerebbe la diversità degli esseri umani nei loro bisogni e nelle capacità di utilizzare questi beni. Un disabile, per esempio, ha bisogno di un numero maggiore di beni o risorse per fare le stesse cose di un individuo non disabile. Il modo in cui le risorse possono essere convertite in capacità varia considerevolmente da persona a persona secondo le dimensioni fisiche, il metabolismo, le condizioni sociali e così via. L’uguaglianza dei beni primari potrebbe essere accompagnata da una forte disuguaglianza nelle capacità. L’approccio delle capacità

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica Teoria della giustizia di Rawls e approccio delle capacità

Teoria della giustizia come equità (Rawls)

Approccio delle capacità (Sen e Nussbaum)

In una società giusta i beni primari devono essere distribuiti in modo equo tra gli individui

Ciò che una società giusta deve promuovere è l’uguaglianza delle capacità fondamentali degli individui

Anche la teoria etica proposta dal filosofo tedesco Jürgen Habermas (nato nei pressi di Düsseldorf nel 1929), uno degli ultimi esponenti della Scuola di Francoforte (vedi Unità 14, p. 598), presenta alcuni aspetti di vicinanza con la teoria della giustizia rawlsiana. Habermas distingue due possibili forme di agire individuale: l’«agire strategico», che è volto al successo, e l’«agire comunicativo», che è invece volto all’intesa con gli altri. Habermas chiama «discorso» questo secondo tipo di agire: esso si caratterizza come una situazione linguistica ideale nella quale l’oggetto della discussione è rappresentato esclusivamente dalla validità di ciò che si sostiene, nessuno viene escluso dalla discussione e «non viene esercitata alcuna costrizione, eccetto quella dell’argomento migliore». Le norme di condotta Nel saggio del 1983, Etica del discorso, Habermas ritiene che attraverso il disono fondate scorso sia possibile fondare le norme etiche che devono guidare la condotta insul discorso dividuale e sociale. In questo modo le decisioni pratiche sono il risultato di una decisione razionale, che consente di superare il relativismo e lo scetticismo (cioè la convinzione che di nessuna valutazione morale possiamo dire che sia o non sia valida). Questa decisione razionale si caratterizza per la sua costitutiva intersoggettività, come una decisione che viene presa, cioè, comunicando con gli altri. Diversamente da Rawls, per arrivare alla soluzione dei conflitti tra gli individui non è sufficiente il ragionamento individuale teso a stabilire l’accettabilità di certe norme di condotta; occorre, al contrario, un processo collettivo di argomentazione morale razionale. L’etica del discorso

T19

Intesa intersoggettiva e soluzione dei conflitti

J. Habermas, Etica del discorso, 3,2, par. 4

Il principio di universalizzazione

Le argomentazioni morali servono alla composizione consensuale dei conflitti di azione. […] Questo genere di accordo esprime una volontà comune. Se le argomentazioni morali devono produrre un accordo di questo genere, allora non basta che un singolo individuo rifletta se può consentire a una norma. Non basta neppure che tutti i singoli individui, ma ciascuno per sé, compiano questa riflessione, per poi registrare i loro voti. Si richiede piuttosto un’argomentazione «reale», cui prendano parte in cooperazione tutti gli interessati. Soltanto un processo di intesa intersoggettivo può condurre a un accordo di natura riflessiva: soltanto allora i soggetti partecipanti possono sapere di essersi convinti in comune di qualcosa. La possibilità di giungere all’accordo sulle norme etiche da adottare deriva dal fatto che, per essere accettabili come soluzioni valide, le decisioni pratiche devono possedere la caratteristica di essere universalizzabili, devono cioè conformarsi a quello che Habermas chiama il «principio di universalizzazione». Secondo questo principio sono valide le norme che, se fossero rispettate universalmente, garantirebbero il soddisfacimento degli interessi di tutte le persone coinvolte. 843

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E dato che «possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i soggetti coinvolti», le norme etiche assumono il contenuto di principi di giustizia di carattere egualitario e universale. Una concezione egualitaria della giustizia viene dunque fondata sull’esame delle condizioni di una situazione comunicativa ideale.

3 La tutela dei diritti e delle libertà

Un’azione è giusta se rispetta certi diritti

Il diritto di proprietà e il libertarismo

I limiti dello Stato

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Le teorie dei diritti Se le teorie della giustizia hanno rifiutato l’utilitarismo soprattutto per la scarsa attenzione che esso rivolge al tema dell’uguaglianza, le teorie dei diritti ne sottolineano invece la scarsa attenzione alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali. Il principale esponente della teoria dei diritti è il filosofo americano Robert Nozick. Nato a New York nel 1938, studiò alla Columbia University e fu professore prima a Princeton, poi (per oltre trent’anni) a Harvard, dove è morto nel 2002. La teoria dei diritti di Nozick, sviluppata nel libro del 1974, Anarchia, stato e utopia, parte dal riconoscimento di alcuni diritti e libertà fondamentali degli individui, i quali determinano dei vincoli morali reciproci, i cosiddetti «vincoli collaterali», che devono essere assolutamente rispettati tanto dagli altri individui considerati isolatamente, quanto dalla società: un’azione, sia essa del singolo o dello Stato, è giusta se rispetta tali diritti, ingiusta se non li rispetta. Fra i diritti degli individui vi sono le libertà fondamentali della tradizione liberale (libertà di movimento, di parola ecc.), ma anche il diritto all’autodifesa e alla proprietà dei prodotti del proprio lavoro, oltre che di tutti i beni ottenuti attraverso un titolo valido (un acquisto, un lascito ereditario e così via). Secondo Nozick non è solo l’utilitarismo a prestare scarsa attenzione al rispetto dei diritti fondamentali: anche la teoria della giustizia di Rawls è viziata dallo stesso difetto. Essa prevede, infatti, un’attività statale di redistribuzione della ricchezza al fine di evitare la disuguaglianza sociale, ma ogni intervento statale di redistribuzione (compresa la tassazione) deve essere considerato illegittimo. Esso viola infatti dei diritti fondamentali degli individui, primo fra tutti quello di proprietà. Per questo ruolo fondamentale attribuito alla libertà di possedere beni privati, la teoria di Nozick viene detta, per distinguerla dal liberalismo tradizionale, «libertarismo». Nozick tuttavia non è direttamente contrario all’istituzione dello Stato e a favore dell’anarchia (una strada che sarà invece seguita da altri teorici libertari, i cosiddetti «anarco-capitalisti»). Lo Stato, con il suo apparato coercitivo, serve alla sicurezza reciproca degli individui, e in certe circostanze il suo intervento è perciò giustificato e auspicabile. Tuttavia, per Nozick, lo Stato deve interferire il meno possibile con le libertà individuali. Deve cioè essere uno «Stato minimo», che si limita alla funzione di protezione e tutela degli individui e delle loro proprietà. Viene così considerato moralmente illegittimo il tentativo da parte dello Stato di aiutare chi si trova in condizioni svantaggiate, così come è illegittimo proibire alle persone di svolgere attività che potrebbero danneggiare il loro stesso interesse.

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T20

Lo Stato minimo R. Nozick, Anarchia, stato e utopia

La teoria dei diritti di Nozick

Gli individui hanno diritti: ci sono cose che nessuno, persona o gruppo, può fare loro (senza violarne i diritti). Tale è la forza e la portata di questi diritti da sollevare il problema di cosa possano fare lo Stato e i suoi funzionari, se qualcosa possono fare. Quanto spazio lasciano allo Stato i diritti degli individui? […] Le nostre conclusioni principali sullo Stato sono che uno Stato minimo, strettamente limitato alle funzioni di protezione contro la violenza, furto e frode, di tutela dei contratti, ecc., è giustificato; che qualsiasi tipo di Stato più esteso finisce con il violare i diritti delle persone a non essere costrette a fare certe cose, ed è ingiustificato; e che lo Stato minimo è auspicabile oltre che giusto. Due implicazioni importanti sono che lo Stato non può usare il suo apparato coercitivo per indurre alcuni cittadini ad aiutarne altri, o per proibire alle persone determinate attività in vista del loro stesso bene o protezione.

Tesi di Nozick: ogni individuo ha certe libertà e certi diritti fondamentali

Uno dei diritti degli individui è il diritto di proprietà

Lo Stato deve rispettare i diritti individuali e limitarsi a tutelare i cittadini e le loro proprietà

Lo Stato deve essere uno Stato minimo

Rifiuto dell’anarchia

➥ Sommario, p. 862

Illegittimità di ogni intervento statale di redistribuzione della ricchezza tra i cittadini

Nozick ha un atteggiamento fortemente critico nei confronti della teoria rawlsiana della giustizia. Se Rawls attribuisce valore all’uguaglianza e definisce la giustizia sociale come equa distribuzione dei beni primari, Nozick sostiene che il diritto fondamentale di ogni individuo è il diritto di proprietà e che, quindi, qualunque forma di redistribuzione dei beni è moralmente illegittima.

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La bioetica

3 I testi

J.P. De Marco, R.M. Fox Nuove direzioni in etica: Etica tradizionale e filosofia applicata, T21 Giovanni Paolo II Veritatis splendor La ragione creatrice e l’uomo, J. Ratzinger T22 Presentazione a Veritatis splendor

}

E. Lecaldano Bioetica. Le scelte morali: Tutela nelle fasi dello sviluppo embrionale, T23

1

U. Scarpelli Bioetica laica: Questione di principio e questione di prudenza, T24 R. Lucas Lucas Bioetica per tutti: Illiceità dell’eutanasia, T25 P. Singer Liberazione animale: Principio dell’eguale considerazione degli interessi, T26 A. Leopold L’almanacco di Sand County e appunti qua e là: La comunità morale è la terra, T27

Etica applicata e bioetica

Come disciplina filosofica la bioetica appartiene all’etica, cioè alla riflessione filosofica sulla morale. Essa fa parte di un particolare livello dell’etica filosofica, che è quello dell’etica applicata. L’etica applicata (o «etica pratica») è costituita dall’applicazione di principi etici di carattere generale alle questioni che emergono in relazione ad ambiti particolari, allo scopo di risolvere problemi pratici concreti. A seconda di quali siano questi ambiti si distinguono vari tipi di etica applicata. Il principale è la bioetica, la quale è nata dal confronto dell’etica con i problemi della vita umana (dalla nascita alla fine della vita), pur se ad essa possono essere affiancate l’etica degli animali, l’etica della natura, l’etica delle generazioni future, l’etica della comunicazione e così via, a seconda della crescente attenzione che la filosofia morale ha rivolto ai vari aspetti dei rapporti tra gli esseri umani e della relazione tra essi e l’ambiente in cui vivono. Etica applicata Il sorgere di una riflessione etica applicata è relativamente recente: è solo dalla e bioetica fine degli anni sessanta del XX secolo che l’interesse dell’etica filosofica si rivolge a questioni concrete sia a seguito dei sempre maggiori risultati ottenuti dal progresso tecnico-scientifico, con i relativi rischi ad esso connessi, sia a seguito del mutato contesto sociale e culturale, con la nascita dei movimenti pacifisti e di contestazione del modello di sviluppo della società occidentale. La bioetica condivide il momento della nascita con le altre forme di etica applicata. Essa ha origine a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta, di fronte alle nuove domande che i progressi della scienza e della tecnologia medica pongono in relazione alla nascita, alla cura e alla fine della vita umana.

L’applicazione dei principi etici a problemi pratici

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Etica tradizionale e filosofia applicata

J.P. De Marco, R.M. Fox, Nuove direzioni in etica

Durante la guerra del Vietnam e subito dopo di essa, si costituì un movimento del tutto autonomo interessato alla filosofia applicata. La filosofia applicata è impegnata nella chiarificazione delle questioni morali e nella determinazione di come i principi generali possono essere applicati ai casi concreti, mentre l’etica sostantiva tradizionale era principalmente interessata a difendere i principi generali e astratti. Alcuni dei problemi di filosofia applicata furono di fatto sollevati dalla generazione degli studenti manifestanti, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, avanzarono l’idea della «rilevanza» per l’istruzione superiore di corsi sulla pace, sulle questioni ambientali, sulla giustizia sociale e ne chiesero l’istituzione. Anche i problemi di etica medica e di etica delle professioni cominciarono a ottenere un’attenzione sempre più diffusa al di fuori delle università e, come conseguenza, un numero sempre maggiore di filosofi cominciò a rivolgersi a tali questioni.

Il termine «bioetica» è introdotto per la prima volta dall’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter (1911-2001) in un libro del 1971, Bioetica, un ponte verso il futuro. Di questo termine, però, viene fatto uso diverso rispetto a quello attuale: in Potter esso indica una scienza che deve unire insieme conoscenze biologiche e principi morali allo scopo di garantire la sopravvivenza della specie umana dopo la rivoluzione tecnica e scientifica, considerata una sorta di «cancro» per la natura. È con la ripresa del termine nella Encyclopedia of Bioethics («Enciclopedia di bioetica») del 1978 che esso assume invece il suo significato attuale: «la bioetica – vi si legge – è lo studio sistematico del comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute quando questo comportamento è esaminato alla luce di valori e principi morali». L’interdisciplinarità La bioetica si presenta, dunque, come un’applicazione dell’etica alle questioni della vita umana. E il suo caratterere più evidente è l’interdisciplinarità; essa rimanda ai risultati e alle competenze di aree del sapere molto diverse fra loro: la filosofia, la medicina, la biologia, la psicologia, il diritto. La riflessione bioetica non può fare a meno del ricorso alle acquisizioni di tutte queste discipline. La bioetica, dunque, si distingue dagli altri due ambiti della filosofia morale, ossia dalla metaetica (cioè l’analisi della morale) e dall’etica normativa (che formula principi morali generali): è un’applicazione dei principi a problemi concreti, concernenti la vita degli esseri umani.

Il termine «bioetica»

2

Etica della disponibilità e della non-disponibilità della vita

Si possono individuare due punti di vista prevalenti nel modo in cui la riflessione filosofica e, più in generale, il dibattito sociale e culturale affrontano le questioni bioetiche: da una parte quello della non-disponibilità della vita umana, dall’altra quello della disponibilità della vita umana. A seconda di quale dei due punti di vista venga accolto nella riflessione bioetica, si distingue un’etica della non-disponibilità della vita umana e un’etica della disponibilità della vita. Non-disponibilità L’etica della non-disponibilità della vita sostiene che la vita umana non è dispodella vita nibile all’uomo. Questa tesi si accompagna spesso all’affermazione che la vita I punti di vista della bioetica

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umana è sacra o santa e che, quindi, è un dovere dell’uomo rispettarla; tanto che la denominazione più comune per indicare questa posizione è proprio quella di «etica della sacralità della vita». Il richiamo alla nozione di sacralità rimanda implicitamente a una dimensione trascendente e religiosa; tuttavia, non necessariamente l’etica della non-disponibilità della vita umana assume un carattere religioso, essendo anzi sostenuta anche da filosofi che rifiutano questa dimensione. Posizione Una delle versioni prevalenti di etica della non-disponibilità della vita è quella della Chiesa cattolica sostenuta dalla Chiesa cattolica. Rifacendosi a un’impostazione filosofica di carattere neotomistico (che si ricollega cioè al pensiero di Tommaso d’Aquino), la posizione ufficiale della Chiesa cattolica concepisce la natura come ordinata finalisticamente secondo il progetto di Dio: nella natura vi è un ordine costitutivo di carattere finalistico e ci sono leggi di natura in cui questo ordine si manifesta. Gli atti dell’uomo sono buoni se rispettano la legge e l’ordine naturale. Come si legge nell’Enciclica di Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, e nella Presentazione di essa dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, ogni atto è ordinabile in relazione a un fine ultimo che è prodotto da una ragione creatrice e non dipende dalla volontà e dalle intenzioni dei singoli individui. L’uomo stesso non è il prodotto dell’organizzazione autonoma della materia, ma è stato creato da quella ragione, ossia da Dio.

T22

La ragione creatrice e l’uomo

Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, par. 73

Questa ordinazione al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende solo dall’intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi ordinabili a questo fine, in quanto conformi all’autentico bene morale dell’uomo, tutelato dai comandamenti.

J. Ratzinger, Presentazione a Veritatis splendor

Il concetto di natura esprime il fatto che l’uomo è prodotto di una ragione creatrice ed egli stesso è con la ragione aperto ad essa: l’essere umano viene da un’idea di Dio e non dall’autorganizzazione della materia, che casualmente assurge a ragione.

Il rispetto dell’ordine naturale e della vita

In questa impostazione, il principio morale supremo prescrive il rispetto dell’ordine e del finalismo naturale. La natura ordinata secondo il progetto divino è donata da Dio all’uomo, che ne è il custode ma non il signore, non potendo interferire con le sue leggi. E poiché ogni essere vivente deve agire conformemente al fine che gli è stato assegnato, e il finalismo intrinseco dell’organismo umano è la conservazione e la riproduzione della vita, dal principio del rispetto dell’ordine naturale può essere dedotto il principio morale che prescrive il rispetto della vita umana, la sua non disponibilità all’uomo e quindi la sua sacralità. Va sottolineato, dunque, che il principio del rispetto della vita è solo un principio derivato. L’etica della non-disponibilità della vita non prescrive cioè di tutelare in ogni circostanza la vita umana: non deve essere perciò identificata con una forma di «vitalismo assiologico», tesi secondo la quale la vita deve sempre essere tutelata. L’etica della non-disponibilità della vita riconosce infatti circostanze in cui è legittimo porre fine alla vita umana, qualora, per esempio, si tratti della vita di un individuo che si è macchiato di gravi colpe, un individuo cioè «non innocente». Sulla base di questo argomento si sono giustificate moralmente la pena di morte e la guerra. L’etica della disponibilità della vita umana sostiene invece che la vita è disponibile per l’uomo, in particolare qualora il livello qualitativo di essa sia divenuto

La distinzione dal vitalismo assiologico

Disponibilità della vita

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

Laicità dell’etica della disponibilità della vita

I sensi di «laico»

Disponibilità e non-disponibilità della vita umana

Due concezioni della natura

estremamente basso. Quello che conta non è la vita umana in quanto tale, ma la qualità della vita umana; ragione questa che spiega l’adozione anche della definizione «etica della qualità della vita» per designare questa posizione. Solitamente essa assume una caratterizzazione non religiosa, dato che viene escluso ogni riferimento a presupposti trascendenti e metafisici, ed è quindi presentata come una forma di etica «laica» (e «bioetica laica» si chiama solitamente la bioetica che vi fa riferimento). Ma in maniera analoga a quanto si è osservato in riferimento all’etica della non-disponibilità della vita, l’etica della disponibilità della vita non è necessariamente non religiosa, poiché ci sono anche posizioni religiose che accettano la tesi della disponibilità della vita umana e il riferimento alla sua qualità. Come si legge nel Rapporto del Sinodo della Chiesa riformata d’Olanda del 1972: «morte è ben più del cessare biologico della vita; e vita è ben più di un esistere vegetativo. In altri termini le parole vita e morte non sono intese quantitativamente nella Bibbia, ma qualitativamente. La qualità della vita è più importante della sua durata, benché ambedue stiano in stretto rapporto fra loro, secondo la Tradizione dell’Antico Testamento». Un’ulteriore precisazione va fatta sull’uso dell’aggettivo «laico». Esso non va infatti confuso con «ateo»: definire «laica» una concezione bioetica non significa negare l’esistenza di Dio, ma negare che solo attraverso il rimando a Dio siano possibili un’etica e dei principi morali validi; «laico – scrive il filosofo italiano Uberto Scarpelli (1924-1993) – è chi ragiona fuori dell’ipotesi di Dio, accettando i limiti invalicabili dell’esistenza e della conoscenza umana. Una bioetica laica è una bioetica elaborata come se non ci fosse un Dio». Ragionare sulla base dell’ipotesi che Dio non esista non equivale dunque a negarne l’esistenza. Bioetica = applicazione dei principi etici ai problemi relativi alla vita umana

Etica della non-disponibilità della vita (o «etica della sacralità della vita»)

Etica della disponibilità della vita (o «etica della qualità della vita»)

È prevalentemente associata a posizioni religiose

È prevalentemente laica

Sostiene che l’uomo non può disporre della propria vita perché deve rispettare l’ordine finalistico della natura

Sostiene che l’uomo può disporre della propria vita perché ciò che ha valore è la qualità di essa

La diversità di impostazione generale fra l’etica della non-disponibilità e l’etica della disponibilità della vita umana ha come conseguenza una separazione anche su questioni più specifiche. Innanzitutto nella concezione della natura: da una parte, si ritiene che la natura sia dotata di un senso oggettivo, in quanto ordinata secondo un principio finalistico tale da contenere in sé anche un’indicazione su come agire; dall’altra, si condivide la concezione scientifica della natura, per cui l’unico ordine in essa rintracciabile è quello derivabile dalle leggi empiriche che spiegano il comportamento dei fenomeni, leggi prive di significato morale. 849

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Diversa è anche la concezione dell’individualità umana: i sostenitori della nondisponibilità della vita umana propongono l’identificazione fra l’individuo umano e la persona: l’individuo è considerato «persona» fin dal concepimento e in quanto persona è intrinsecamente dotato di valore. L’individuo come ente fisico e biologico è cioè nella sua essenza dotato della caratteristica della personalità morale, e ha perciò un valore intrinseco: una tesi che va sotto il nome di personalismo ontologico. Secondo i sostenitori della disponibilità della vita umana, invece, la nozione di individuo è separata da quella di persona morale. Si sottolinea infatti come l’individuo fisico-biologico divenga persona solo grazie a un processo di sviluppo fisico e psichico, che lo porta ad assumere generali capacità cognitive, fra cui la consapevolezza morale (ossia la consapevolezza di ciò che è moralmente giusto e sbagliato e di ciò che ha un valore); solo quando sorge questa consapevolezza all’individuo può essere attribuita una personalità morale. E questo riconoscimento è indipendente dal grado di tutela e di valore che deve essere riconosciuto all’individuo nelle varie fasi del suo sviluppo. Il rapporto tra l’uomo Da questa diversità nella considerazione del nesso individuo-persona deriva ane gli altri esseri viventi che la diversa collocazione riservata all’uomo rispetto agli altri animali e alla natura: da una parte l’uomo è concepito come il vertice dell’ordine naturale, in una posizione di predominio rispetto alle altre creature viventi; dall’altra, sulla base dei risultati della teoria scientifica che studia l’evoluzione delle specie viventi, all’uomo non viene riconosciuta alcuna separazione ontologica rispetto agli animali e al resto della natura: l’uomo è parte del mondo animale e le sue caratteristiche si spiegano sulla base dell’evoluzione naturale. Per concludere dunque, sono numerosi i punti di divergenza delle due posizioni prevalenti nella bioetica, ossia dell’etica della non-disponibilità della vita e dell’etica della disponibilità della vita: esse hanno concezioni diverse della natura, del rapporto tra individuo e persona e del rapporto tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi. La prima (spesso associata a posizioni religiose) sostiene che la vita umana è sacra in quanto tale e deve quindi essere rispettata; la seconda (che ha prevalentemente un carattere laico) attribuisce valore non alla vita in se stessa ma alla qualità della vita umana. Due concezioni della persona

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I problemi della bioetica Come si è osservato, la bioetica affronta i problemi morali connessi alla vita dell’uomo, dal suo inizio alla sua fine. Qui affronteremo solo quelli più rilevanti, sui quali la discussione è più frequente. Si comincerà con i problemi legati all’inizio della vita, come l’aborto e la fecondazione assistita, passando poi a quelli connessi alle nuove tecniche di manipolazione genetica e di clonazione, per terminare con i problemi legati alla fine della vita, come l’eutanasia.

L’aborto Dal concepimento alla formazione del feto

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Per chiarire il problema della valutazione morale dell’aborto non spontaneo, cioè dell’interruzione della gravidanza che avviene per volontà dei genitori, è utile de-

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lineare le varie fasi in cui può essere scandito il processo che conduce alla gravidanza. La gravidanza inizia quando le cellule riproduttive maschile e femminile, i gameti, si uniscono per creare una nuova cellula, lo zigote. Questa nuova cellula inizia a differenziarsi fin dai primi istanti del concepimento, ma occorrono quattordici giorni affinché la differenziazione cellulare sia sviluppata fino al punto di non permettere più la divisione gemellare (fino al quattordicesimo giorno lo zigote può infatti dividersi in più cellule gemelle, dando origine a gemelli omozigoti). Dopo questa fase lo zigote è propriamente detto «embrione», e dalla nona settimana «feto», una volta che si sono chiaramente delineati gli organi principali. La tutela dell’embrione Gran parte del problema dell’aborto si concentra intorno alla questione se allo zigote e poi all’embrione e al feto possano essere attribuite la stessa dignità morale e la stessa tutela che vengono attribuite al bambino dopo la nascita. Per i sostenitori dell’etica della non-disponibilità della vita, l’embrione è persona morale fin dal concepimento, o meglio è persona in potenza, in quanto è in grado di diventare persona morale al termine del suo sviluppo. L’aborto è quindi considerato come un crimine al pari dell’omicidio. Così afferma l’Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II: «l’aborto diretto, cioè voluto come fine e mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente». Gradualità della tutela Per i sostenitori dell’etica della disponibilità della vita, questa equiparazione fra dell’embrione aborto e omicidio va invece rifiutata. Ciò che occorre mettere in luce è il rispetto delle scelte consapevoli della madre, cioè il rispetto della sua libera valutazione della vita propria e del nascituro. Se è ragionevole sostenere che l’embrione vada tutelato fin dal suo concepimento, questa tutela deve essere concepita come graduale: essa deve essere cioè tanto maggiore quanto più l’embrione è sviluppato. Questo consente di praticare l’aborto nei primi mesi del suo sviluppo. Come scrive il filosofo italiano Eugenio Lecaldano (nato nel 1940), la tutela dell’embrione procede di pari passo con le fasi della sua evoluzione: la tutela garantita sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista morale a un feto in fase avanzata di sviluppo, che è in grado di provare dolore, deve essere maggiore di quella garantita a un embrione, che non ha ancora la massa cerebrale e non è in grado di provare alcuna sensazione. Ciò non significa, però, che l’embrione non debba essere tutelato affatto, perché da esso può svilupparsi un essere umano.

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Tutela nelle fasi dello sviluppo embrionale E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali

La posizione che sottolinea giustamente le diverse fasi di sviluppo embrionale non è una giustificazione della conclusione che ci sono fasi di questo sviluppo che vanno completamente escluse da una qualche tutela morale e giuridica. Anche se ci troviamo di fronte ad un insieme di cellule che non è in grado di provare sensazioni di alcun genere sembra legittimo riconoscere che si tratta di un materiale da cui naturalmente, in condizioni favorevoli, potrà svilupparsi un essere vivente e che se teniamo a questo risultato, come dobbiamo secondo l’etica che proponiamo, allora dobbiamo anche tutelare il processo con cui vi si giunge. […] Certamente diversa è la tutela che si deve ad un feto nello stadio avanzato di sviluppo prenatale e dunque in grado di sentire e provare dolore, rispetto alla tutela da garantire nei confronti del materiale cellulare impegnato nelle prime fasi dello sviluppo prenatale, e dunque non in grado di sentire nulla e in cui la stessa struttura cerebrale è del tutto assente. 851

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea Due posizioni sull’aborto

Aborto non spontaneo

Etica della non-disponibilità della vita

Etica della disponibilità della vita

L’aborto è una forma di omicidio, perché l’embrione è potenzialmente persona morale

L’aborto non è una forma di omicidio, perché la donna ha il diritto di scegliere se interrompere la gravidanza

La fecondazione assistita

I vari tipi di fecondazione

Le conseguenze della fecondazione

Gli embrioni sovrannumerari

Rifiuto della fecondazione eterologa

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Con l’espressione «fecondazione assistita», o «fecondazione artificiale», si intende la sostituzione attraverso opportune tecniche mediche di una parte del processo riproduttivo per garantire la fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo. Esistono due tipi di fecondazione assistita: quella omologa, che si ha quando i due gameti sono dati dalla coppia che ricorre alla fecondazione; e quella eterologa, che si ha quando almeno uno dei due gameti è dato da persone esterne alla coppia. Sia la fecondazione omologa, sia la fecondazione eterologa possono essere praticate in modi differenti: l’unione dei due gameti può essere prodotta direttamente all’interno dell’utero della donna, e si parla allora di fecondazione intra-corporea (o in vivo); oppure può essere prodotta all’esterno del corpo della donna, cioè in una provetta di laboratorio, con un trasferimento successivo nell’utero materno, e si parla allora di fecondazione extra-corporea (o in vitro). Ma è possibile anche un altro tipo di fecondazione, la cosiddetta maternità surrogata, nella quale è una donna esterna alla coppia che mette a disposizione il proprio corpo al fine di ospitare la gravidanza, con una dissociazione quindi fra madre biologica e madre di parto. Queste tecniche possono risultare utili non solo ai fini del superamento della sterilità della coppia, ma anche ai fini della diagnosi e della cura delle malattie dell’embrione. Esse hanno, tuttavia, come conseguenza quella di scardinare l’immagine tradizionale della maternità, rendendo possibili forme di maternità fino a pochi anni fa impensabili (attraverso la fecondazione di donne sole, di donne con il coniuge defunto ma con spermatozoi conservati in ibernamento, di donne anziane ma con ovuli ibernati, di donne omosessuali, e così via). Un altro aspetto di grande rilevanza connesso alla pratica della fecondazione extra-corporea consiste nel fatto che per avere buone possibilità di successo essa richiede la produzione in provetta di alcuni embrioni in soprannumero, i cosiddetti embrioni «sovrannumerari». Soltanto uno di essi viene trasferito nel corpo della madre, mentre gli altri sono destinati alla distruzione o alla conservazione in ibernamento («crioconservazione»), dato che possono risultare utili alla ricerca medica (per esempio, per il prelievo di cellule embrionali, cellule capaci di svilupparsi in diversi tessuti e quindi impiegabili per la cura di molte malattie: le cosiddette «cellule staminali»). Come si può intuire, non sono pochi i problemi etici sollevati da una tecnica così complessa. Sia per il generale principio di non-disponibilità della vita umana, sia per lo

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sconvolgimento dell’immagine naturale della maternità e della famiglia, sia per la dissociazione che essa presuppone fra atto sessuale e atto procreativo (dissociazione che per alcuni va contro il fine naturale dell’atto sessuale, che è visto nella riproduzione), sia per il problema correlato di un uso strumentale degli embrioni sovrannumerari e del loro aborto, le posizioni che si richiamano alla nondisponibilità della vita umana ammettono la liceità morale solo della fecondazione omologa per coppie eterosessuali stabili, con il fine esclusivo della cura della sterilità della coppia. Queste posizioni danno inoltre preferenza alla tecnica di fecondazione intra-corporea, rispetto a quella extra-corporea, che comporta il problema di produrre embrioni in sovrannumero destinati alla distruzione. Difesa Sia per il generale principio di disponibilità della vita umana, sia per il ricodella fecondazione noscimento del rispetto della scelta autonoma dei genitori, sia perché si sottoeterologa linea che non ci sono una immagine naturale della famiglia e un fine naturale degli atti umani, le posizioni che si richiamano alla disponibilità della vita ammettono le diverse forme di fecondazione assistita: non solo quindi la fecondazione omologa, ma anche quella eterologa praticata attraverso la tecnica extracorporea; e non solo per la cura della sterilità della coppia, ma anche per motivi terapeutici come la cura delle malformazioni genetiche e delle malattie dell’embrione. Unica tecnica a non venire moralmente giustificata è la maternità surrogata, se essa comporta la messa a disposizione del corpo della donna per una prestazione a fini di lucro (in questi casi si parla di «utero in affitto»): in questo caso si avrebbe infatti un uso strumentale del corpo della donna, inammissibile dal punto di vista morale.

L’ingegneria genetica e la clonazione Ingegneria genetica e clonazione sono due tecniche distinte, e vanno perciò tenute separate anche nella loro valutazione morale. Scopo dell’ingegneria genetica è quello di produrre una modificazione del codice genetico di un organismo, sia esso vegetale, animale o umano; scopo della clonazione è invece quello di permettere la riproduzione, senza modificazioni, del codice genetico dell’organismo in un nuovo organismo. L’ingegneria genetica Con l’espressione «ingegneria genetica» si intende l’insieme delle tecniche che consentono interventi di modificazione del codice genetico contenuto in un acido nucleico, il DNA. Fra le possibilità che una tecnica di questo tipo consente c’è quella di inserire all’interno dell’apparato genetico di una specie elementi propri dell’apparato genetico di altre specie, con la creazione di esseri transgenici. Queste tecniche possono apportare una semplice correzione genetica, con l’introduzione di alcuni geni (le unità che contengono l’informazione genetica) in un organismo, oppure vere e proprie manipolazioni del patrimonio genetico. Esse possono inoltre riguardare tanto le cellule di un individuo adulto, cellule cioè già differenziate – le cellule somatiche –, quanto cellule non ancora differenziate contenute nei gameti – le cellule germinali. In quest’ultimo caso la modificazione genetica ha conseguenze non solo sull’individuo su cui viene prodotta, ma anche sugli individui futuri, poiché si trasmette per via ereditaria. Fini dell’ingegneria Tecniche di questo tipo possono essere usate per finalità terapeutiche, dato che genetica molte malattie hanno un’origine genetica; ma anche per altre finalità: dai test ge853

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netici di carattere diagnostico, al rilevamento dell’identità degli individui, alla modificazione delle caratteristiche fisiche e psichiche degli individui, allo scopo di migliorarne i tratti e creare esseri più sani, più belli, più intelligenti, più resistenti e così via. Quest’ultimo insieme di tecniche va sotto il nome di «eugenetica»; essa si occupa del possibile miglioramento della specie umana attraverso l’eliminazione dei caratteri sfavorevoli dal patrimonio genetico e la promozione di quelli favorevoli. Rifiuto e apertura Le posizioni che si richiamano all’etica della non-disponibilità della vita moall’ingegneria genetica strano un generale atteggiamento di rifiuto delle tecniche di ingegneria genetica. Esse rappresentano infatti una sovvertimento dell’ordine naturale. Le uniche finalità per le quali possono risultare ammissibili sono quelle terapeutiche. Le posizioni che ritengono la vita umana disponibile all’uomo presentano invece una notevole pluralità di posizioni: si va da impostazioni di rifiuto a impostazioni di estrema apertura. Il tratto prevalente è comunque un atteggiamento cauto e di prudenza. Il senso del limite Come ha osservato Scarpelli, se da una parte non può essere tollerata alcuna chiusura di principio, dall’altra occorrono grande prudenza e senso del limite: una cosa è riconoscere la legittimità di certe azioni dal punto di vista dei principi, un’altra è sostenere che possiamo compiere quelle azioni senza prestare ad esse la dovuta attenzione e senza prendere precauzioni. Gli interventi di ingegneria genetica possono migliorare l’uomo, ma possono anche produrre esseri umani peggiori di quelli che esistono. Per questa ragione occorre prudenza nell’applicare le tecniche di modificazione e manipolazione del codice genetico.

T24

Questione di principio e questione di prudenza U. Scarpelli, Bioetica laica

La clonazione

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A me sembra che siano da distinguere chiaramente una questione di principio ed una questione di prudenza. Per la questione di principio, basta rilevare come gli esseri umani influiscano continuamente sulla propria evoluzione […]. Non riesco a immaginare nessuna ragione etica per cui l’influenza sull’evoluzione umana non vada esercitata anche attraverso un intervento sull’eredità genetica, sempre che l’intervento possa attuarsi senza disastri sociali e senza troppi errori e incidenti di percorso. Quest’ultimo rilievo introduce alla questione di prudenza. Ammettere una linea d’azione sul piano dei principi è cosa ben diversa dal credere che possa essere seguita senza cautele. Un uso improvvido delle tecnologie biologiche nel campo della generazione comporta rischi molto grossi per gli individui futuri, sui quali potrebbero pesare mutazioni tutt’altro che gradevoli, e per la società intera esposta a squilibri traumatizzanti. La determinazione del sesso, per esempio, potrebbe condurre ad un eccesso dei maschi sulle femmine, o viceversa. Bisogna dunque andarci molto piano […]. Per concludere, nessuna obiezione di principio alla meravigliosa avventura della scimmia diventata uomo che può intravedere il progetto di un uomo più sano, più intelligente, più felice; molta ricerca nei laboratori, grande autolimitazione ed opportune limitazioni giuridiche nelle applicazioni pratiche, finché gli orizzonti del possibile si schiariscano e si veda con adeguata sicurezza come trarre dalla vecchia scimmia un uomo migliore, non un demone. Diversamente dall’ingegneria genetica, la clonazione non mira alla modificazione del patrimonio genetico di un organismo, ma alla sua riproduzione identica in un nuovo organismo, detto «clone».

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La principale tecnica di clonazione è quella che avviene tramite «trasferimento di nucleo»: essa consiste nell’inserimento del nucleo di una cellula di un individuo adulto da clonare in una cellula uovo non fecondata da cui è stato eliminato il nucleo; dopo l’inserimento e un’opportuna stimolazione questa cellula inizia la divisione cellulare come se fosse stata fecondata. Questa tecnica è stata praticata per la prima volta nel 1997, in Scozia, con la creazione della pecora Dolly. Le finalità Anche la clonazione può essere adoperata per più finalità: essa può servire a gee la valutazione nerali scopi terapeutici, per esempio per facilitare il reperimento di cellule stadella clonazione minali embrionali; ma potrebbe essere praticata anche a fini riproduttivi, per ottenere nuovi individui identici a quelli originari. La valutazione di una pratica di questo tipo è generalmente negativa: le posizioni che si richiamano alla non-disponibilità della vita formulano un netto giudizio di condanna, mettendo in luce il sovvertimento dell’ordine naturale, la minaccia alla famiglia e alla stessa libertà dell’uomo, dato che possono essere creati individui con caratteristiche programmate in laboratorio. Le posizioni che si richiamano alla disponibilità della vita si caratterizzano per un atteggiamento di maggiore apertura e insieme di prudenza: ciò che si sottolinea è che non è la tecnica in quanto tale, ma le finalità per le quali può venire adoperata che devono spingere alla condanna morale. La tecnica in sé, cioè, non è né buona né cattiva: buono o cattivo è l’uso che di essa può essere fatto. Trasferimento del nucleo di una cellula

L’ingegneria genetica e la clonazione

Ingegneria genetica

Clonazione

Insieme di tecniche usate per modificare il codice genetico di un organismo

Insieme di tecniche usate usate per riprodurre il codice genetico di un organismo

L’eutanasia

Condizioni per la pratica dell’eutanasia

Suicidio assistito ed eutanasia

Con il termine «eutanasia» (che letteralmente significa «buona morte» e deriva dal prefisso greco eu, «bene», e dalla parola greca thànatos, «morte») si intende la pratica con la quale il medico provoca la morte di un paziente malato in stato terminale. La parola «eutanasia» è stata uno dei termini più abusati nel corso del Novecento; ad essa è infatti ricorso il regime nazista nel 1939 per denominare l’eccidio di migliaia di cittadini tedeschi disabili e quindi non conformi agli ideali di purezza della razza. Proprio per distaccarsi da questo uso perverso, si sottolinea oggi come la pratica dell’eutanasia richieda la presenza di tre condizioni senza le quali l’uso del termine non è appropriato: 1) il rapporto tra medico e paziente, 2) la presenza di una malattia terminale dolorosa per il paziente, 3) il fatto che la pratica comporti un beneficio per il paziente stesso (ponga, cioè, termine alle sue sofferenze) anziché per altri (per la famiglia, per la società ecc.). La pratica dell’eutanasia va distinta da quella del cosiddetto «suicidio assistito»: nell’eutanasia è il medico che provoca la morte del paziente; nel suicidio assistito, invece, il medico si limita a procurare al paziente i mezzi con i quali egli stesso pone termine alla propria vita. 855

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Tre caratteri dell’eutanasia

Condanna dell’eutanasia

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Illiceità dell’eutanasia R. Lucas Lucas, Bioetica per tutti

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Si distinguono poi generalmente due tipi di eutanasia: l’eutanasia attiva, nella quale il medico compie un’azione che procura direttamente la morte del paziente; e l’eutanasia passiva, nella quale il medico si astiene dal compiere azioni che tengano in vita il paziente, omettendo di curarlo. Sia l’eutanasia passiva, sia l’eutanasia attiva possono avere tre differenti caratteristiche. Innanzitutto, possono avere un carattere volontario (eutanasia volontaria), in quanto il paziente formula consapevolmente la richiesta di porre fine alla propria vita (con il problema, però, di stabilire se nella condizione di malattia il paziente sia effettivamente competente per prendere una decisione, se sia cioè autonomo e consapevole). In secondo luogo, l’eutanasia passiva e quella attiva possono avere un carattere non volontario (eutanasia non volontaria), in quanto il paziente non è in grado di formulare una propria richiesta consapevole, come nel caso dei bambini o di adulti non più coscienti (e in questo caso si può ricorrere alle «direttive anticipate» date dal paziente stesso nel cosiddetto «testamento biologico», oppure, qualora esse non siano presenti, al «giudizio sostitutivo» dei familiari o di un tutore). Infine, i due tipi di eutanasia possono avere un carattere contrario alla volontà del paziente (eutanasia antivolontaria), qualora egli non abbia richiesto l’eutanasia o si sia dichiarato contrario ad essa. Le posizioni che ritengono la vita non disponibile all’uomo non ammettono l’eutanasia attiva e generalmente nemmeno quella passiva, che sono equiparate all’omicidio. Non è nel potere dell’uomo decidere il momento della propria morte e interrompere il decorso naturale della malattia. L’unica forma di eutanasia la cui legittimità viene in qualche caso presa in considerazione è l’eutanasia passiva volontaria, qualora vengano interrotti dei trattamenti che non hanno come scopo la cura diretta della malattia: i cosiddetti «trattamenti straordinari», come l’alimentazione o l’idratazione artificiali, al fine di evitare un accanimento terapeutico sul paziente. Come scrive il bioeticista cattolico Ramón Lucas Lucas, ogni forma di eutanasia, in quanto soppressione di un essere umano innocente, è illecita: in qualsiasi caso e per qualunque motivo venga praticata (sia pure per compassione o per amore) è una violazione della dignità degli individui in quanto persone; perciò non c’è alcuna autorità che possa autorizzarla e nessuno può richiederla per se stesso. L’eutanasia è sempre illecita, anche quando praticata per fini pietosi e su richiesta del paziente. Si tratta della soppressione di un essere umano, della violazione del principio della difesa della vita. Niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile e agonizzante. Nessuno può inoltre richiedere questo gesto omicida per se stesso o per altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessun’autorità può imporlo o permetterlo. Si tratta di una violazione della dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità. Anche quando praticata per sentimento di pietà, l’eutanasia è illecita. Mostruosa appare la figura di un amore che uccide, di una compassione che cancella colui del quale non può sopportare il dolore, di una filantropia che s’intende come liberazione della vita di un altro perché divenuta un peso.

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Le posizioni che si richiamano alla disponibilità della vita umana accettano invece le varie forme di eutanasia. L’unica eccezione è costituita dall’eutanasia contraria alla volontà del paziente, proprio in quanto essa non rispetta le scelte del paziente, anche qualora venga praticata con scopi compassionevoli, al fine di evitare sofferenze al paziente terminale. Principi di beneficenza Due sono i principi generali che dovrebbero orientare le valutazioni sul tema dele di autonomia l’eutanasia: il principio di beneficenza, per il quale la pratica eutanasica deve arrecare un beneficio al paziente, ponendo fine alle sue sofferenze, e il principio di autonomia, per il quale devono essere rispettate le decisioni e la volontà del paziente. Laddove, quindi, l’etica della non-disponibilità della vita sostiene che ogni forma di eutanasia è illegittima poiché equivale alla soppressione di un essere umano, chi difende l’etica della disponibilità della vita afferma che sia l’eutanasia attiva, sia l’eutanasia passiva sono legittime, a condizione che vengano praticate nel rispetto della volontà del paziente. Accettazione dell’eutanasia

4 Estensione della considerazione morale

Gli animali e la natura Accanto alla bioetica umana, negli ultimi anni hanno avuto un notevole sviluppo anche l’etica degli animali e l’etica della natura, che possono essere considerate due delle principali forme di etica applicata. Elemento caratteristico della mutata sensibilità degli ultimi decenni è infatti l’estensione della considerazione morale anche verso gli animali e la natura; si ritiene, cioè, che anche il mondo animale e vegetale siano importanti dal punto di vista morale e che ci si debba porre il problema di cosa sia giusto o sbagliato fare nei loro confronti. Per l’etica tradizionale l’uomo ha obblighi morali solo verso altri uomini (o, al limite, verso Dio), mentre per le recenti teorie di etica animale e ambientale l’uomo ha obblighi morali anche verso gli animali e verso la natura.

L’etica degli animali Questa estensione dell’universo morale oltre i confini tradizionali si è accompagnata a un problema di non facile soluzione. Occorre infatti stabilire quale sia il miglior criterio per identificare chi debba essere considerato destinatario dei nostri obblighi morali: per alcuni questo criterio consiste nel possesso della ragione (può essere considerato destinatario di obblighi morali solo chi ha capacità razionali); per altri consiste nel possesso di una vita intenzionale (è destinatario di obblighi morali chi si pone consapevolmente scopi e obiettivi); per altri, infine, consiste nella capacità di provare sensazioni di piacere e di dolore (è destinatario di obblighi morali chi è dotato di sensibilità). Il primo di questi criteri (la razionalità) è quello sostenuto dall’etica tradizionale, per cui solo l’uomo, unico essere razionale, può essere oggetto di doveri morali; il secondo criterio (l’intenzionalità) e il terzo (la sensibilità) sono invece sostenuti dai principali esponenti dell’etica animale. Alcuni animali Il filosofo statunitense Tom Regan (nato nel 1938), nel testo del 1983 I diritti dehanno capacità gli animali, individua come criterio che giustifica l’attenzione morale il possescognitive so di una vita intenzionale cosciente (l’avere desideri, credenze, scopi), un re-

Destinatari degli obblighi morali

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Capacità di provare piacere e dolore

Critica dello «specismo»

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Principio dell’eguale considerazione degli interessi P. Singer, Liberazione animale

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quisito che è posseduto non solo dall’uomo, ma anche da alcuni animali. Tutti i mammiferi mostrano infatti di avere propositi, aspettative di comportamento, desideri: un cane o un gatto, per esempio, comunicano chiaramente il proprio desiderio di uscire, di mangiare e così via. Proprio il fatto che alcuni animali sono, come gli uomini, in possesso di determinate capacità cognitive giustifica, secondo Regan, l’assegnazione agli animali di alcuni diritti morali fondamentali, il rispetto dei quali deve essere un elemento centrale della nostra vita morale. Il terzo requisito è invece sostenuto dal filosofo australiano Peter Singer (nato nel 1946), che nel testo del 1975, Liberazione animale, individua nella capacità di sentire, cioè nella capacità di provare piacere e dolore, il criterio fondamentale per selezionare chi è oggetto di doveri morali. Non solo i mammiferi, ma molti altri animali – tutti quelli che hanno un sistema nervoso sufficientemente sviluppato – condividono questa capacità di provare piacere e dolore: gli uccelli, i pesci e così via. La sfera dell’attenzione morale si allarga allo scopo di ridurre la sofferenza e accrescere il benessere degli esseri senzienti (ossia degli esseri dotati di sensibilità): è, questo, un aspetto per il quale Singer si ricollega all’utilitarismo di Bentham, che assume come criterio per stabilire chi è degno di considerazione morale non la capacità di parlare, né quella di ragionare, ma la capacità di provare piacere e dolore. In quanto soggetti capaci di sentire, questi animali sono portatori di interessi a cui deve essere assegnata la stessa importanza che viene attribuita agli interessi umani, e l’etica deve riconoscere il principio di eguale considerazione degli interessi di tutti gli esseri senzienti. Non riconoscere questo principio e dare maggior importanza agli interessi della specie umana equivale a commettere un atto di «specismo», cioè un atto di discriminazione verso altre specie, analogo al razzismo o al sessismo. Molti filosofi, così come altri autori, hanno proposto, in una forma o nell’altra, il principio di eguale considerazione degli interessi come principio morale fondamentale; ma non molti fra di essi si sono resi conto che tale principio si applica anche ai membri di specie diversa dalla nostra. Jeremy Bentham fu uno dei pochi che lo compresero. In un passo anticipatore, scritto in un’epoca in cui gli schiavi negri erano stati liberati dai francesi, ma nei domini britannici venivano ancora trattati più o meno come noi trattiamo oggi gli animali, Bentham affermava: «verrà un giorno in cui il resto degli esseri umani potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino. Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà della ragione, o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: «Possono ragionare?», né: «Possono parlare?», ma: «Possono soffrire?».

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

L’etica della natura

Doveri verso chi ha un’attività vitale

Doveri morali verso le entità collettive

T27

La comunità morale è la terra A. Leopold, L’almanacco di Sand County e appunti qua e là

➥ Sommario, p. 862

I sostenitori dell’etica della natura, o etica ambientale, individuano criteri che consentono di allargare ulteriormente la sfera di chi è destinatario di doveri morali. Il filosofo statunitense Paul Warren Taylor (nato nel 1923) ha sostenuto che criterio adeguato per essere oggetto di considerazione morale è l’essere il soggetto di una vita organizzata. Dobbiamo riconoscere doveri morali verso tutti gli esseri in grado di avere un’attività vitale, in quanto essi sono in possesso di una propria organizzazione biologica, di un proprio ritmo di sviluppo e di caratteristiche che individuano la propria specie, anche se sono privi di coscienza e di sensibilità. Questo è un requisito che accomuna tutti gli esseri biologici viventi, dall’uomo agli organismi più semplici, come le muffe, i batteri ecc. Altri individuano il criterio di considerazione morale nel possesso di una struttura organizzativa che consenta la produzione e la riproduzione delle proprie condizioni di vita. Una condizione, questa, che è posseduta non solo da singoli organismi individuali, ma anche da entità collettive sovraindividuali, come le specie, gli ecosistemi, la biosfera, o la terra nel suo complesso. Si avrebbero dunque doveri morali verso tutte queste entità, primo fra tutti il dovere di rispettarle. Come scrive Aldo Leopold (1887-1948), uno dei precursori dell’etica ambientale, vi è una comunità morale che include tutta la terra (la «comunità biotica», di cui l’uomo non è padrone, ma un membro tra gli altri): un’azione è giusta quando ne rispetta l’integrità e la bellezza, è ingiusta quando non le rispetta. L’etica della terra allarga i confini della comunità per includere animali, suoli, acque, piante: in una parola la terra […]. Essa cambia il ruolo di Homo Sapiens da conquistatore della terra a membro effettivo e cittadino di essa. Ciò implica rispetto per i suoi membri, ma anche per la comunità in quanto tale: una cosa è giusta quando tende a preservare la stabilità, l’integrità e la bellezza della comunità biotica, è sbagliata quando tende altrimenti. Così, se l’etica tradizionale sostiene che soltanto gli esseri umani sono degni di attenzione morale e l’etica animale afferma che anche gli animali sono destinatari di obblighi morali, i sostenitori dell’etica ambientale estendono ulteriormente la sfera della considerazione morale: l’uomo è parte della natura e deve rispettare non soltanto i singoli esseri che la compongono, ma anche la natura nel suo complesso.

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea I destinatari degli obblighi morali

Criteri per stabilire chi è destinatario di obblighi morali

Razionalità

Intenzionalità

Sensibilità

Criterio adottato dall’etica tradizionale

Abbiamo obblighi morali solo verso gli altri esseri umani

Attività vitale

Struttura organizzativa che consente di produrre e riprodurre le proprie condizioni di vita

Criteri adottati dall’etica degli animali

Criteri adottati dall’etica della natura

Abbiamo obblighi morali anche verso gli animali

Abbiamo obblighi morali anche verso la natura

Suggerimenti bibliografici Sulla storia dell’etica novecentesca sono da vedere i recenti L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci, Roma 2006 e S. Cremaschi, L’etica del Novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma 2005. Per la prima fase della metaetica vedi E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970. Su Ross vedi F. Allegri, Le ragioni del pluralismo morale, William David Ross e le teorie dei doveri prima facie, Carocci, Roma 2005. Indicazioni utili sull’emotivismo e su Hare, si possono trovare in E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale, cit., mentre una difesa recente dell’emotivismo è in M. Vacatello, Etica e oggettività, Le Monnier, Firenze 2004. Un’utile introduzione alla filosofia politica è W. Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Feltrinelli, Milano 2000. Sul pensiero di H. Arendt vedi L. Boella, Hannah Arendt: agire politicamente, pensare politicamente, Feltrinelli, Milano, 1995 e R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996. Per la teoria della giustizia vedi S. Veca, La società giusta, Il Saggiatore, Milano 1982. Sull’utilitarismo e sulle teorie della giustizia si può consultare S. Maffettone, Utilitarismo e teorie della giustizia, Bibliopolis, Napoli 1982, ma è utile anche G. Pontara, Breviario per un’etica quotidiana, Pratiche, Milano 1998. Sull’approccio delle capacità si può vedere S.F. Magni, Etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, il Mulino, Bologna 2006. Su Nozick e Rawls, P. Comanducci, Contrattualismo, utilitarismo, garanzie, Giappichelli, Torino 1984. Sul rapporto tra libertà e uguaglianza è stimolante I. Carter, La libertà eguale, Feltrinelli, Milano 2005.

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica Come introduzione generale alla bioetica è utile E. D’Antuono, Bioetica, Guida, Napoli 2004, oltre alle varie voci del Dizionario di bioetica, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 2002. Per il punto di vista dell’etica della non-disponibilità della vita si può consultare R. Lucas Lucas, Bioetica per tutti, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2002 ed E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, 1, Fondamenti ed etica medica, Vita e Pensiero, Milano 1994. Per il punto di vista dell’etica della disponibilità della vita vedi E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 1999 e H.T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991. Per un resoconto del dibattito bioetico, vedi E. Baccarini, Bioetica: analisi filosofiche liberali, Trauben, Torino 2002 e S. Maffettone-G. Ferranti, a cura di, Introduzione alla bioetica, Liguori, Genova 1992. Sull’etica degli animali si può vedere L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Laterza, Roma-Bari 1997 e B. De Mori, Che cos’è la bioetica animale, Carocci, Roma 2007. Sull’etica della natura, S. Bartolommei, Etica e natura. Una «rivoluzione copernicana» in etica?, Laterza, Roma-Bari 1995, S. Iovino, Filosofie dell’ambiente: natura, etica, società, Carocci, Roma 2004 e l’antologia Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, a cura di M. Tallacchini, Vita e Pensiero, Milano 1998. I brani antologizzati sono tratti da: W.D. Ross, Il giusto e il bene, Bompiani, Milano 2004: p. 21 (T1), p. 27 (T2), pp. 26-27 (T4), pp. 57-58 (T3). A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 136-137. C.L. Stevenson, Etica e linguaggio, Longanesi, Milano 1962: pp. 17-19 (T7), pp. 88-89 (T6). R.M Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma 1961, p. 25. R.M. Hare, Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 133. R.M. Hare, Come decidere razionalmente le questioni morali, in R.M. Hare, Saggi di teoria etica, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 114. P. Foot, La natura del bene, il Mulino, Bologna 2007: p. 39 (T12), pp. 47-48 (T11). H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, cap. 5, par. 24. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1984: p. 24 (T14), pp. 27-28 (T16), p. 33 (T17), p. 56 (T18), pp. 90-91 (T15). J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1989. R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 17. J.P. De Marco-R.M. Fox, New Directions in Ethics («Nuove direzioni in etica»), Routledge and Kegan Paul, New York 1986, p. 11. Giovanni Paolo II, Veritatis splendor. Testo integrale con commento filosofico-teologico tematico, a cura di R. Lucas Lucas, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. J. Ratzinger, Presentazione a Veritatis Splendor, cit., p. 7. E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 235. U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini e Castoldi, Milano 1998, pp. 144-145. R. Lucas Lucas, Bioetica per tutti, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 159-160. P. Singer, Liberazione animale, Il Saggiatore, Milano 2003, pp. 22-23. A. Leopold, A Sand County Almanac and Sketches Here and There («L’almanacco di Sand County e appunti qua e là»), Oxford University Press, Oxford 1968, pp. 224-225 (trad. di S.F. Magni).

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Sommario 1. LA

DISCUSSIONE SULLA NATURA DELL’ETICA

Ross affronta, come Moore, sia la metaetica sia l’etica normativa. Di Moore Ross condivide l’intuizionismo, ma considera oggetto di intuizione l’obbligo morale, non il bene. Distingue i doveri prima facie dai doveri effettivi: solo dei primi abbiamo una conoscenza immediata; per stabilire quale tra essi sia un dovere effettivo occorre invece la riflessione. Nessun dovere prima facie è assoluto. Ross difende una forma di deontologismo e accusa l’utilitarismo di trascurare l’importanza morale del passato e delle relazioni personali. [par. 1]

Per l’emotivismo i giudizi morali non asseriscono fatti oggettivi, ma esprimono emozioni o sentimenti. Come Moore, Ayer critica il naturalismo, ma considera l’intuizionismo incapace di affrontare i disaccordi morali. Poiché i giudizi morali non sono asserzioni vere o false, non c’è soluzione razionale dei disaccordi. Stevenson distingue tra significato descrittivo e significato emotivo dei termini e introduce il concetto di attitudine: i giudizi morali esprimono le attitudini di chi parla e tendono a suscitare attitudini simili in chi ascolta. Il linguaggio morale ha dunque un carattere dinamico. Stevenson distingue poi il disaccordo di credenze dal disaccordo di attitudini (risolvibile solo con la persuasione). [par. 2] All’emotivismo Hare contrappone il prescrittivismo: i giudizi morali hanno la funzione di guidare la condotta; la morale non è persuasione o propaganda. Come Stevenson, sostiene però che i giudizi morali hanno anche un significato descrittivo. Tali giudizi sono caratterizzati dal requisito di universalizzabilità, che Hare considera prima un requisito solo formale ma che poi collega all’imparzialità. L’universalizzabilità conduce all’utilitarismo delle preferenze, ovvero alla teoria normativa secondo la quale sono giuste le azioni che producono il soddisfacimento del maggior numero possibile di preferenze delle persone coinvolte. [par. 3] Negli ultimi anni si assiste alla ripresa del naturalismo. Lo difende Foot con la tesi della normatività naturale, per cui le norme su ciò che un individuo deve fare derivano da fatti relativi alla forma di vita della sua specie. Centrale in etica è il concetto di virtù. [par. 4] 2. LA

FILOSOFIA POLITICA

Arendt vede nell’uso dell’ideologia e del terrore la caratteristica peculiare del totalitarismo. Propria dell’uomo e della politica è la dimensione dell’azione: Arendt

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contrappone la vita attiva a quella contemplativa; a suo avviso occorre restituire alla politica l’importanza che aveva nel mondo greco. [par. 1] In polemica con l’utilitarismo, Rawls elabora una teoria della giustizia per cui la giustizia sociale è equità nella distribuzione dei beni primari tra i cittadini. Tra i due principi di giustizia, libertà e uguaglianza, il primo ha la priorità. Rawls indica due metodi per giustificare i principi di giustizia sociale: il contratto ipotetico stipulato tra le persone nella posizione originaria, in cui esse sono sottoposte al velo di ignoranza, e il metodo dell’equilibrio riflessivo. In parte critici verso Rawls, Sen e Nussbaum propongono l’approccio delle capacità: ciò di cui occorre garantire l’uguaglianza sono le capacità fondamentali degli individui, non i beni primari (che sono solo mezzi). Per Habermas l’accordo sulle norme di condotta può essere raggiunto attraverso il discorso e l’agire comunicativo. [par. 2] La teoria dei diritti di Nozick è critica verso l’utilitarismo e verso Rawls: lo Stato deve essere uno Stato minimo e limitarsi alla tutela degli individui e delle loro proprietà. [par. 3] 3. LA

BIOETICA

La bioetica è una forma di etica applicata e affronta l’applicazione dei principi etici ai problemi della vita umana e ha un carattere interdisciplinare. [par. 1] Le due posizioni prevalenti in essa sono l’etica della non-disponibilità della vita, per cui la vita umana è sacra, e l’etica della disponibilità della vita, che è laica e attribuisce valore alla qualità della vita. Hanno concezioni diverse della natura, dell’individualità e dell’uomo. [par. 2] L’una equipara l’aborto all’omicidio e dei tre tipi di fecondazione assistita ammette solo la fecondazione omologa intra-corporea; l’altra accetta l’aborto e tutti i tipi di fecondazione assistita. L’etica della non-disponibilità della vita rifiuta l’ingegneria genetica e la clonazione; l’etica della disponibilità della vita è cauta verso di esse. Dell’eutanasia la prima etica ammette solo, in certi casi, quella passiva volontaria; la seconda rifiuta solo quella non volontaria. [par. 3] L’etica degli animali estende l’universo morale agli animali: anch’essi sono dotati di intenzionalità o di sensibilità. L’etica della natura considera destinatari di obblighi morali tutti gli organismi viventi, le entità collettive e la terra. [par. 4]

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

Parole chiave Approccio delle capacità. Teoria etica e politica sostenuta da Sen e Nussbaum che considera come principale oggetto di valore le capacità fondamentali degli individui. Beni primari. Nella teoria di Rawls sono i beni la cui equa distribuzione è essenziale per creare una società giusta. Bioetica. Forma interdisciplinare di etica applicata. È l’applicazione dei principi etici ai problemi della vita umana, dalla nascita alla fine della vita. Deontologismo. Teoria normativa per cui un’azione è giusta se è conforme a certi principi. Disaccordo di attitudini. È uno dei due tipi di disaccordo morale distinti da Stevenson; non comporta contraddizione logica, ma un contrasto pratico tra attitudini valutative.

sporre della propria vita e ciò che ha valore non è la vita, ma la qualità di essa. Etica della natura o etica ambientale. Forma di etica applicata secondo cui anche la natura è destinataria di obblighi morali. Etica della non-disponibilità della vita. È l’altro punto di vista prevalente in bioetica, secondo cui l’uomo non può disporre della propria vita, in quanto la vita umana è da considerarsi sacra. Etiche applicate. Discipline che applicano i principi etici generali a vari ambiti per risolvere problemi pratici. Metodo dell’equilibrio riflessivo. Nella teoria di Rawls è un metodo per giustificare i principi di giustizia sociale: sono giustificati quelli derivanti dall’equilibrio tra giudizi morali individuali ponderati e concezioni teoriche della giustizia sottoposte a riflessione.

Disaccordo di credenze. È l’altro tipo di disaccordo individuato da Stevenson; comporta una contraddizione logica perché è un disaccordo sulla descrizione della stessa cosa.

Naturalismo. Teoria metaetica secondo la quale le proprietà e i fatti morali sono proprietà e fatti naturali e i termini morali indicano proprietà naturali.

Discorso. Nella teoria di Habermas è il fondamento delle norme di condotta individuali e sociali e consente di prendere decisioni razionali condivise intersoggettivamente.

Posizione originaria. Nella teoria di Rawls è la posizione ideale assunta dagli individui nel contratto ipotetico con cui stabiliscono i principi di giustizia per la loro società.

Doveri effettivi. Nella teoria di Ross sono i doveri veri e propri, derivanti dalla riflessione sulla natura complessiva di un atto.

Prescrittivismo. Teoria metaetica di Hare secondo cui i giudizi morali hanno la funzione di prescrivere certe azioni.

Doveri prima facie. Nella teoria di Ross sono doveri potenziali dei quali abbiamo una conoscenza intuitiva.

Stato minimo. Espressione con cui Nozick indica la propria concezione dello Stato: esso deve limitarsi alla tutela di certi diritti e della proprietà legittima degli individui.

Emotivismo. Teoria metaetica per cui i giudizi morali non asseriscono fatti oggettivi, ma esprimono stati emotivi soggettivi e hanno una funzione persuasiva. Equità. Secondo Rawls è ciò in cui consiste la giustizia sociale, che è l’equa distribuzione di oneri e benefici tra i membri della società. Etica degli animali. Forma di etica applicata secondo la quale anche gli animali sono destinatari di obblighi morali. Etica della disponibilità della vita. È uno dei due punti di vista prevalenti in bioetica: l’uomo può di-

Universalizzabilità. Nella teoria di Hare è una proprietà dei giudizi morali: dobbiamo giudicare nello stesso modo cose o azioni simili negli aspetti moralmente significativi. Utilitarismo delle preferenze. Teoria per cui è giusta l’azione che soddisfa il maggior numero possibile di preferenze degli individui coinvolti. Velo di ignoranza. Espressione con cui Rawls indica la condizione degli individui nella posizione originaria, in cui ignorano il ruolo e le convinzioni che avranno nella società per cui stabiliscono i principi di giustizia.

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Questionario LA

DISCUSSIONE SULLA NATURA DELL’ETICA

1

2

Come arriviamo, secondo Ross, a conoscere i nostri doveri effettivi? (max 3 righe)

3

Perché Ayer ritiene che l’intuizionismo non offra un metodo per risolvere i disaccordi morali? (max 4 righe)

4

LA

Quali disaccordi, secondo Stevenson, non sono risolvibili con metodi razionali? (max 1 riga)

5

Spiega in un massimo di 5 righe la critica che Hare fa dell’emotivismo.

6

Qual è la differenza tra significato descrittivo e valutativo dei termini morali? (max 3 righe)

7

Spiega in un massimo di 5 righe come cambia la concezione che Hare ha dell’universalizzabilità.

8

Che cosa viene determinato, secondo la teoria di Foot, dalla forma di vita di una specie? (max 3 righe)

FILOSOFIA POLITICA

9

Qual è secondo Arendt la differenza tra il mondo greco e quello moderno? (max 3 righe)

10

Spiega in un massimo di 4 righe qual è, secondo Rawls, il fine di una teoria della giustizia.

11

12

13

14

LA

Qual è la differenza tra metaetica ed etica normativa? (max 2 righe)

Quale relazione c’è tra i due principi di giustizia sociale individuati da Rawls? (max 1 riga) Spiega in un massimo di 3 righe la differenza principale tra la teoria di Rawls e l’approccio delle capacità. Qual è la differenza tra le due forme di agire individuale distinte da Habermas? (max 2 righe) Perché Nozick rifiuta la teoria rawlsiana della giustizia? (max 5 righe)

BIOETICA

15

Qual è l’origine della bioetica? (max 4 righe)

16

Qual è la differenza fra laico e ateo? (max 3 righe)

17

Quali sono gli argomenti contro la fecondazione eterologa? (max 5 righe)

864

18

Che cos’è l’eugenetica? (max 3 righe)

19

Quali sono secondo l’etica degli animali i criteri per stabilire i destinatari degli obblighi morali? (max 3 righe)

Lavoriamo sui testi 20

Spiega in un massimo di 4 righe la critica rivolta da Ross a Moore in T4.

21

Perché in T5 Ayer afferma che due giudizi opposti su un’azione non sono contraddittori? (max 2 righe)

22

Quale differenza c’è tra i due tipi di disaccordo di cui Stevenson parla in T7? (max 3 righe)

23

Perché la distinzione che Hare fa in T8 è importante dal punto di vista filosofico? (max 3 righe)

24

Qual è la condizione indicata in T10 per stabilire quali prescrizioni universali possiamo accettare? (max 2 righe)

25

Come viene definito in T12 il difetto morale? (max 1 riga)

26

Qual è l’oggetto principale della giustizia sociale di cui si parla in T14? (max 3 righe)

27

Come viene spiegata in T17 l’utilità del velo di ignoranza? (max 5 righe)

28

Qual è il tipo di Stato che in T20 Nozick qualifica come ingiustificato? (max 3 righe)

29

Perché in T23 si afferma il dovere di tutelare un insieme di cellule che non è ancora un feto? (max 2 righe)

30

Perché in T25 l’eutanasia viene condannata come illecita in qualunque caso? (max 2 righe)

31

Quale merito viene riconosciuto a Bentham in T26? (max 2 righe)

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica

Tesi a confronto Osservare e valutare: dobbiamo continuare a distinguere questi due tipi di giudizi nell’uso linguistico? Fatti / valori: una distinzione comune

La distinzione nell’interpretazione empirista

Le critiche alla dicotomia

La difesa della distinzione: Scarpelli

Due tipi di giudizi con funzioni diverse

La distinzione fra i fatti e i valori, cioè fra giudizi che descrivono le cose come sono e giudizi che esprimono valutazioni su come le cose dovrebbero essere, è una distinzione molto comune. Formuliamo giudizi del tipo «la neve è bianca» o «il sole è caldo», ma anche giudizi del tipo «chi aiuta gli altri è una persona buona» e «maltrattare gli animali è un atto malvagio», e percepiamo chiaramente la distinzione fra di essi. Gli uni sono giudizi di fatto, gli altri giudizi di valore. Una delle tesi sostenute da più parti nella filosofia moderna e contemporanea è che questa distinzione è netta e giustificata. I filosofi empiristi come Hume hanno identificato i fatti con le impressioni sensoriali e li hanno ritenuti completamente indipendenti dai valori: se percepisco una macchia di colore, per esempio, ciò è indipendente da cosa considero buono o cattivo. Analogamente, per i neopositivisti del Novecento un giudizio di fatto ha un contenuto empirico ed è direttamente verificabile, e ciò è indipendente dalle valutazioni che chiunque può esprimere su di esso. La descrizione dei fatti sarebbe qualcosa di neutrale rispetto alla valutazione. Questa tesi è stata messa in discussione negli ultimi decenni: da più parti si è obiettato che la distinzione tra fatti e valori non può essere considerata una distinzione netta e assoluta, cioè una dicotomia, come se da una parte esistesse il mondo dei fatti e dall’altra il mondo dei valori. Così come non esistono valori indipendenti dai fatti, non esistono fatti completamente indipendenti dai valori. La scienza, infatti, non può essere considerata un’indagine della realtà puramente descrittiva e neutrale dal punto di vista valutativo, così come l’etica non potrebbe più fare affidamento su una divisione di principio dei valori dai fatti. Non tutti però hanno accettato che alla fine di una dicotomia netta e «metafisica» tra fatti e valori si accompagnasse la fine della stessa possibilità di distinguere giudizi di fatto e giudizi di valore. Il filosofo italiano Uberto Scarpelli, per esempio, non intende la separazione come una distinzione di carattere ontologico (da una parte il mondo dei fatti, dall’altra il mondo dei valori) ma come una distinzione di carattere funzionale o metodologico. Ci sono enunciati che vengono adoperati con la funzione di descrivere la realtà (i giudizi di fatto) ed enunciati che vengono adoperati con la funzione di dirigere la condotta e operare valutazioni (i giudizi di valore); è cioè una differenza che riguarda l’uso che facciamo del linguaggio. Cosa è un giudizio di fatto e cosa un giudizio di valore non è qualcosa di eterno o di immutabile, tuttavia la separazione fra giudizi di fatto e giudizi di valore è pienamente giustificata in quanto contribuisce a strutturare la nostra interazione con il mondo: all’interno del linguaggio si attribuisce infatti una funzione descrittiva («ontica») a certi tipi di enunciati, e una funzione direttiva («deontica») ad altri tipi di enunciati. 865

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Nel testo che adesso leggeremo Scarpelli utilizza per la sua esposizione una struttura simile a quella utilizzata da Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus: una serie di proposizioni numerate e sottonumerate a seconda del loro ordine e del loro rilievo.

Prima risposta

La distinzione tra osservare e valutare è un uso linguistico che va mantenuto perché esprime correttamente la nostra interazione con il mondo da Uberto Scarpelli, La meta-etica analitica e la sua rilevanza etica

Definizione delle funzioni La funzione descrittiva

La funzione direttiva

Le critiche alla distinzione

Distinzione funzionale e non ontologica

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1. Due sono le fondamentali funzioni del linguaggio nella strutturazione e ordinamento della nostra esperienza, la funzione descrittiva e la funzione direttiva. 1.1. La funzione descrittiva consiste nella registrazione, nell’esplicazione e nella predizione di esperienze, legate dal «cemento dell’universo», la relazione di causalità. 1.1.1. La funzione descrittiva è funzione di guida indiretta del comportamento, in quanto porta ad agire in maniera appropriata per la causazione di un risultato voluto. 1.2. La funzione direttiva consiste nell’assegnazione di una linea di condotta, con la determinazione di uno schema di comportamento affinché il comportamento vi si conformi. 1.2.1. La funzione direttiva è dunque, primariamente, funzione di guida diretta del comportamento. 1.2.2. Nella funzione direttiva rientra anche la funzione, derivata da quella di guida diretta del comportamento, di qualificazione valutativa del comportamento, secondo la conformità o disformità, e il tipo di conformità e disformità, allo schema di comportamento. 1.2.2.1. Alla funzione direttiva sono pertanto ascrivibili i giudizi di valore, intesi come affermazioni di conformità o difformità a precostituiti schemi di comportamento in funzione direttiva, oppure come proposte implicite degli schemi di comportamento attraverso affermazioni di conformità o difformità (solo questi, secondo qualcuno, sono i giudizi di valore in senso proprio). 1.3. Non sarebbe del tutto senza motivo il sospetto, che qualcuno volesse insinuare, essere la distinzione fra la funzione descrittiva e la funzione direttiva una «dicotomia drammatica» corrispondente a una inclinazione filosofica ancora primitiva. Non per nulla alla nostra distinzione vien dato di solito il nomignolo di «grande divisione». Il sospetto può essere dissipato solo mostrando che la detta distinzione sta al vertice, o al fondamento, di una lunga serie di distinzioni […] capaci di rispettare e riprodurre la ricchezza del linguaggio. 1.4. La distinzione fra la funzione descrittiva e la funzione direttiva del linguaggio è una distinzione, come indicano bene le parole adoperate, funzionale e non ontologica. Scambiandola per una distinzione ontologica ci si trova a credere all’esistenza di due mondi, il mondo dell’essere e il mondo del dover essere. 1.4.1. Il linguaggio in funzione descrittiva e in funzione direttiva porta invece strutturazioni dell’esperienza, che possiamo chiamare, seguendo la consuetudine, ontiche e deontiche, ma sono articolazioni interne del mondo (insieme di tutte le rappresentazioni possibili e di tutte le strutturazioni possibili) con diverse giustificazioni pragmatiche.

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Unità 19 Etica, filosofia politica e bioetica Le obiezioni di Putnam alla dicotomia fatti / valori

Tutta la scienza ha un contenuto fattuale

La scienza presuppone i valori

L’intreccio tra fatti e valori nel linguaggio comune

Seconda risposta

Il principale oppositore contemporaneo a una netta dicotomia fra giudizi di fatto e giudizi di valore è il filosofo americano Hilary Putnam (nato nel 1926). Secondo Putnam, ritenere che ci possa essere fra i fatti e i valori una separazione di carattere assoluto è una mera illusione. Due sono le obiezioni che egli solleva contro questa dicotomia: una centrata sulle difficoltà della nozione di «fatto», l’altra sulla presenza di casi nei quali è esplicito l’intreccio tra fatti e valori. Secondo Putnam, la messa in discussione di una nozione di «fatto» indipendente dai valori è andata di pari passo con la consapevolezza, all’interno della filosofia della scienza degli ultimi decenni, che non è il singolo enunciato ad avere un «contenuto fattuale» ma il sistema delle asserzioni scientifiche, ovvero la teoria nel suo complesso. È stata questa consapevolezza che ha portato al superamento della prospettiva neopositivistica. La scienza si confronta con l’esperienza, infatti, non attraverso il singolo enunciato osservativo, ma attraverso tutte le sue componenti, osservative, teoriche e valutative. In un’impostazione di questo tipo non si può più isolare una parte completamente osservativa, che sia priva di assunzioni valutative. Il linguaggio della scienza presuppone dunque determinate assunzioni di valore: ci sono valori (coerenza, plausibilità, semplicità ecc.) che guidano la stessa costruzione, il controllo e la selezione delle teorie. In questo modo la nozione stessa di fatto implica un riferimento a valori. L’osservazione dei fatti ha luogo cioè in un quadro teorico che ha i propri punti di riferimento, i propri «valori», e se questo è vero perde di senso la contrapposizione fra teorie scientifiche puramente oggettive perché fondate solo sui fatti e teorie di altro tipo che sarebbero fondate sui valori. Se poi si considera non solo la scienza come presunto modello di linguaggio semplicemente descrittivo, ma anche il linguaggio comune, si può osservare come esso sia ricco di predicati che non rientrano nella distinzione tra i fatti e i valori, e nei quali asserzioni e valutazioni appaiono inestricabilmente compenetrate. Putnam fa riferimento ai cosiddetti «concetti etici spessi», che hanno insieme un impiego descrittivo e valutativo: un predicato come «crudele», per esempio, può avere un uso valutativo (come quando dico che l’insegnante di mio figlio è crudele), e un uso descrittivo (come quando uno storico dice che un certo monarca è stato crudele). Predicati di questo tipo sarebbero controesempi rispetto a una netta separazione tra fatti e valori.

La dicotomia tra fatti e valori va abbandonata perché non corrisponde alla complessità della nostra esperienza da Hilary Putnam, Fatto / valore: fine di una dicotomia

Le tesi dei positivisti logici

Il predicato «crudele»

La dicotomia fatto / valore dei positivisti logici veniva difesa sulla base di una rappresentazione scientifica ristretta di quello che un «fatto» potrebbe essere: proprio come l’antenato humiano di questa distinzione veniva difeso sulla base di una psicologia empirista ristretta di «idee» e «impressioni». Rendersi conto del fatto che una parte così grande del nostro linguaggio descrittivo è un contro-esempio rilevante per entrambe le rappresentazioni del regno dei «fatti» (quella degli empiristi classici e quella dei positivisti logici) dovrebbe scuotere la fiducia di chiunque ritenga che ci sia una nozione di fatto che contrasti in maniera netta e assoluta con la nozione di «valore» cui si pensa di fare appello nel parlare della natura di tutti i «giudizi di valore». L’esempio del predicato «crudele» suggerisce anche che il problema non è 867

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Il nostro linguaggio intreccia fatti e valori

Usi normativi e usi descrittivi di «crudele»

solo che la nozione empirista di «fatto» (e più tardi quella dei positivisti logici) fosse troppo angusta fin dall’inizio. Un problema più profondo è quello che, da Hume in poi, gli empiristi – e non solo loro ma anche molti altri, all’interno della filosofia e al di fuori di essa – non hanno compreso i modi in cui descrizioni fattuali e valutazioni debbano essere intrecciate. […] Se guardiamo al vocabolario del nostro linguaggio nel suo complesso, e non alla minuscola parte di esso che il positivismo logico riteneva sufficiente per la descrizione di «fatti», troveremo un intreccio molto più profondo di fatti e valori (compresi valori etici ed estetici e ogni altro tipo di valore), persino al livello dei predicati individuali. Il tipo di intreccio cui sto pensando diviene ovvio quando studiamo parole come «crudele». Ovviamente questa parola ha usi normativi e, dunque, etici, – o almeno ciò risulta ovvio alla maggior parte delle persone, anche se viene negato da alcuni famosi difensori della dicotomia fatto / valore. Se qualcuno mi chiede che tipo di persona è l’insegnante di mio figlio e io dico: «È molto crudele» l’ho criticato sia come insegnante sia come uomo. Non debbo aggiungere: «Non è un buon insegnante», oppure: «Non è un uomo buono». Naturalmente, potrei dire: «Quando non manifesta la sua crudeltà, è un insegnante molto buono», ma non posso farlo senza distinguere le occasioni o gli aspetti in cui lo è da quelli in cui è molto crudele, dicendo: «È una persona molto crudele e un insegnante molto buono». Allo stesso modo, non posso dire semplicemente: «È una persona molto crudele e un uomo buono» ed essere compreso da chi mi ascolta. Tuttavia, «crudele» può essere usato in maniera puramente descrittiva, come quando uno storico scrive che un certo sovrano fu eccezionalmente crudele o che le crudeltà del regime provocarono una serie di ribellioni. «Crudele» semplicemente ignora la presunta dicotomia fatto / valore e ammette allegramente di venir usato talvolta per scopi normativi e altre volte come termine descrittivo. (Lo stesso vale peraltro per il termine «crimine».) In letteratura, a concetti di questo tipo si fa di solito riferimento con la formula «concetti etici spessi». Da tempo si sostiene che i concetti etici spessi siano contro-esempi dell’idea che esista una dicotomia assoluta fatto / valore. I brani antologizzati sono tratti da: U. Scarpelli, La meta-etica analitica e la sua rilevanza etica, in Id., L’etica senza verità, il Mulino, Bologna 1982, pp. 94-95. H. Putnam, Fatto / valore: fine di una dicotomia, in Id. Fatto / valore: fine di una dicotomia e altri saggi, Fazi, Roma 2004, pp. 31-32, 39-40.

Per seguire il dibattito 1

Qual è il rapporto tra le due funzioni, descrittiva e direttiva, e il comportamento secondo Scarpelli? (max 5 righe)

3

Quale funzione argomentativa svolge l’analisi del predicato «crudele» nell’argomentazione di Putnam? (max 5 righe)

2

Con quale argomento Scarpelli difende il mantenimento della distinzione fatto / valore? (max 5 righe)

4

Quali sono le conclusioni di Putnam sulla dicotomia fatto / valore? (max 4 righe)

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Percorso tematico Utilitarismo e oltre

I testi J.S. Mill L’utilitarismo: Il piacere è l’unico fine, T1; Importanza della qualità dei piaceri, T2

J. Rawls Due concetti di regola: Utilità della pratica del promettere, T7

H. Sidgwick I metodi dell’etica: Intensità del piacere e intensità della sensazione, T3

R.M. Hare Libertà e ragione: Felicità e interessi, T8

G.E. Moore Principia Ethica: Affetto e godimento della bellezza, T4 Etica: Il piacere non è l’unico valore intrinseco, T5 W.D. Ross Il giusto e il bene: Importanza morale delle relazioni personali, T6

J. Rawls Una teoria della giustizia: Giustizia nella distribuzione dei beni, T9 A.K. Sen Lo sviluppo è libertà: I desideri si adattano alle circostanze, T10

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

Utilitarismo e oltre 1 Bentham e il principio di utilità

Massimizzazione del piacere

Mill e lo sviluppo dell’utilitarismo

T1

Il piacere è l’unico fine

J.S. Mill, L’utilitarismo

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L’utilitarismo classico: da Bentham a Sidgwick L’utilitarismo ha la sua prima formulazione sistematica nel 1789, con l’opera del filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832), Introduzione ai principi della morale e della legislazione, influenzata dai lavori dell’italiano Cesare Beccaria, che da alcuni viene considerato il padre dell’utilitarismo. In essa Bentham individua il criterio secondo cui giudicare il carattere giusto o sbagliato di un’azione, sia essa del singolo o della comunità, nel «principio di utilità»: esso prescrive di compiere le azioni che producono la massima quantità possibile di utilità, intendendo per utilità la felicità. L’utilitarismo si presenta dunque come una teoria etica e politica che valuta l’azione, sia essa privata o pubblica, in ragione delle conseguenze prodotte e non in ragione del rispetto di determinate norme. Essa è, cioè, una teoria conseguenzialistica che, in particolare, prescrive di massimizzare la quantità di conseguenze buone prodotte dall’azione (come afferma il principio di massimizzazione) e di giudicare il valore delle conseguenze in termini di felicità degli individui coinvolti. Bentham concepisce la felicità come il piacere provato dall’individuo, l’infelicità come il dolore da esso sofferto. Poiché il piacere è ritenuto una sensazione omogenea, che può variare solo di quantità, esso è, almeno in linea di principio, misurabile e quantificabile. L’azione giusta è dunque quella che produce la massima somma di piacere per tutti gli individui coinvolti. Nel corso dell’Ottocento l’utilitarismo ha un importante sviluppo con il filosofo inglese John Stuart Mill, che nel saggio del 1861, L’utilitarismo, si ricollega esplicitamente a Bentham: un’azione è da preferire ad altre azioni quando produce la massima somma complessiva di felicità per tutti gli individui coinvolti, e la felicità viene intesa come il piacere e l’assenza di dolore, l’infelicità come il dolore e l’assenza di piacere. Mill sostiene che il piacere (così come l’assenza di dolore) è l’unica cosa desiderabile in se stessa, ossia degna di essere desiderata come fine e non semplicemente come mezzo per ottenere qualcos’altro. Oltre al piacere e all’assenza di dolore ci sono molte altre cose che hanno valore; esse, però, lo hanno soltanto perché sono piacevoli o perché sono un mezzo per ottenere piacere o per evitare il dolore. La dottrina che accetta l’utilità o principio della massima felicità come fondamento della morale sostiene che le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità. Per felicità, si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere. […] Il piacere e la liberazione dal dolore sono le uniche cose desiderabili come fini; e tutte le cose desiderabili (che nello schema utilitarista sono tante quante in tutti gli altri) sono desiderabili o per il piacere insito in esse o come mezzo per promuovere il piacere e prevenire il dolore.

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Percorso tematico Utilitarismo e oltre

Tuttavia, rispetto a Bentham, Mill modifica il modo di concepire il piacere, che non intende più, come Bentham, in modo omogeneo: se per Bentham la differenza tra un piacere e un altro consiste solo nella quantità, Mill ritiene che si debba tenere conto delle differenze qualitative tra i piaceri; non si deve considerare cioè solo la quantità, ma anche la qualità del piacere prodotto: un’azione è migliore di un’altra non solo se produce la massima somma complessiva di piacere, ma anche se produce un piacere di qualità migliore, cioè più «elevato». Piaceri del corpo I piaceri che riguardano le «facoltà più elevate», i piaceri della mente, sono in e piaceri della mente genere superiori rispetto ai piaceri del corpo; il piacere che si prova nel cibo o nel gioco della pulce è qualitativamente inferiore a quello che si prova da una bella musica o da una bella poesia: è meglio essere un uomo insoddisfatto, ma in grado di apprezzare i piaceri più elevati, che essere un maiale soddisfatto; ed è preferibile essere insoddisfatti, ma dotati di notevoli capacità intellettive (com’era, per esempio, Socrate), che essere soddisfatti e non avere tali capacità.

La qualità del piacere

T2

Importanza della qualità dei piaceri

J.S. Mill, L’utilitarismo

Riconoscere che alcuni tipi di piacere siano più desiderabili e apprezzabili di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri dipenda solo dalla quantità, quando invece per valutare tutte le altre cose si prende in considerazione anche la qualità, oltre alla quantità. […] È fuor di dubbio che un essere fornito di scarse capacità di godimento ha maggiori probabilità di appagarle pienamente; mentre un essere altamente dotato sentirà sempre come imperfetta, per come è fatto questo mondo, qualsiasi felicità possa inseguire. Ma può imparare a tollerarne le imperfezioni, purché siano appena tollerabili; ed esse non lo indurranno a invidiare quell’altro essere che, certo, non si accorge delle imperfezioni, ma solo perché non si accorge neanche del bene da loro circoscritto. È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il maiale sono di diverso parere, è perché vedono soltanto una faccia della questione: l’altro termine del nostro raffronto ne conosce tutte e due le facce.

La considerazione del solo aspetto quantitativo del piacere, con il riferimento a una misura di calcolo unica (la quantità di piacere), permetteva però alla teoria di Bentham di misurare, almeno in linea di principio, il piacere prodotto da un’azione, e quindi di superare possibili indecisioni su come agire e su come valutare le azioni. Il richiamo all’aspetto qualitativo del piacere arricchisce e rende più flessibile l’utilitarismo, ma ne riduce la capacità di calcolo delle conseguenze delle azioni, che costituisce un tratto centrale di questa teoria. Se infatti non ci sono grosse difficoltà nello stabilire quale tra due piaceri è maggiore, ben più complesso è il confronto tra piaceri diversi dal punto di vista qualitativo, perché in tal caso non c’è un parametro comune con cui confrontarli e misurarli. Sidgwick e il ritorno Non è un caso che un altro utilitarista di fine Ottocento, Henry Sidgwick, nella a Bentham sua opera del 1874, I metodi dell’etica, faccia ritorno a Bentham e assuma di nuovo un’interpretazione del piacere di carattere quantitativo, riportando ogni differenza di qualità fra i piaceri a una differenza di quantità. Ogni piacere è infatti uno stato di coscienza complesso: esso può contenere anche elementi di dolore, che contribuiscono a ridurne la quantità, può cioè essere impuro.

Misurazione del piacere

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea I piaceri impuri

T3

Intensità del piacere e intensità della sensazione H. Sidgwick, I metodi dell’etica

Sono impuri, come già sosteneva Bentham, i piaceri nel provare i quali abbiamo anche sensazioni dolorose e quelli ai quali seguono sensazioni dolorose (un esempio banale è dato dal piacere di un buon pranzo, che a volte è seguito da una sensazione spiacevole di pesantezza allo stomaco). Inoltre il piacere deve essere distinto dalla sensazione piacevole, la cui intensità non si identifica con quella del piacere: si possono infatti avere, nota Sidgwick, sensazioni forti di cose poco piacevoli e sensazioni deboli di cose molto piacevoli. Possiamo qui osservare prima di tutto che è perfettamente compatibile con una prospettiva benthamiana dire che alcuni tipi di piacere sono inferiori di qualità rispetto ad altri, se con «piacere» intendiamo (come spesso si intende) lo stato di coscienza complessivo che è solo parzialmente piacevole, e ancor più se mettiamo in conto anche gli stati di coscienza successivi. Infatti, molti piaceri non sono esenti da dolore anche nel momento stesso in cui li si prova, e molti altri piaceri hanno conseguenze dolorose. Tali piaceri sono «impuri», secondo la frase di Bentham: e poiché quando si valuta il piacere si deve considerare il dolore come un aspetto negativo, il fatto di dire che tali piaceri sono di tipo inferiore è conforme all’idea di un calcolo strettamente quantitativo del piacere. Ancora, dobbiamo prestare attenzione a non confondere l’intensità del piacere con l’intensità della sensazione: infatti, una sensazione piacevole può essere forte e assorbente, e tuttavia può non essere così piacevole come un’altra sensazione che è più sottile e delicata. Date queste spiegazioni, mi sembra che al fine di elaborare in maniera coerente il metodo che considera il piacere come il solo fine ultimo della condotta razionale si debba accettare la proposizione di Bentham, e riconoscere che in realtà tutte le differenze qualitative tra i piaceri si risolvono in differenze quantitative.

Sidgwick contrappone l’utilitarismo da una parte al deontologismo – da lui chiamato «intuizionismo» –, secondo il quale le azioni sono giuste in base alla loro conformità a principi; dall’altra all’egoismo, che è invece la teoria etica secondo la quale un’azione è giusta se procura piacere all’individuo che la compie. Egoismo Se l’egoismo è una teoria etica edonistica di carattere particolare (poiché assue utilitarismo me che l’unica cosa dotata di valore intrinseco sia il piacere della persona che agisce), l’utilitarismo è una teoria etica edonistica di carattere universale, perché ricerca il piacere non solo del soggetto agente, ma di tutti gli individui coinvolti dall’azione. Secondo l’utilitarismo, scrive Sidgwick, «la condotta oggettivamente giusta è quella che in date circostanze produrrà nel complesso la maggior quantità di felicità, cioè la teoria che prende in considerazione la felicità di tutti coloro che sono influenzati dalla condotta in questione». Dunque, l’adesione all’edonismo etico, cioè alla tesi secondo la quale l’unico valore intrinseco è il piacere, costituisce uno dei tratti comuni alle teorie utilitaristiche di Bentham, Mill e Sidgwick; altro elemento comune è il conseguenzialismo, cioè la tesi per cui il valore morale di un’azione dipende dalle conseguenze che essa produce. Ma se Bentham e Sidgwick ritengono che tra i diversi piaceri ci sia soltanto una differenza quantitativa, Mill sostiene che occorre tenere conto anche delle differenze qualitative tra essi.

Due forme di edonismo

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Percorso tematico Utilitarismo e oltre

2 Moore e la critica del monismo

T4

Affetto e godimento della bellezza

G.E. Moore, Principia Ethica

L’esperimento mentale

T5

Il piacere non è l’unico valore intrinseco G.E. Moore, Etica

Le critiche di Moore e Ross All’inizio del Novecento Moore accetta dell’utilitarismo l’idea che le conseguenze siano ciò che decide del valore morale dell’azione, ma rifiuta l’edonismo, cioè la centralità del piacere, e in generale l’idea che ci si possa concentrare su un unico valore per valutare le conseguenze delle azioni. Dell’utilitarismo classico, dunque, Moore mette in discussione il carattere monistico: secondo Moore non è solo il piacere a essere dotato di valore intrinseco, cioè buono in se stesso; possono essere concepiti come dotati di valore intrinseco anche la percezione della bellezza e l’affetto per le persone. Contro la teoria monistica del valore dell’utilitarismo Moore sostiene perciò una concezione pluralistica del valore. Decisamente, le cose di maggior valore che noi possiamo conoscere o immaginare sono certi stati di coscienza, che si possono approssimativamente indicare come il piacere dei rapporti umani e della fruizione di oggetti belli. Probabilmente nessuno che si sia posto questo problema ha mai dubitato che l’affetto per le persone e la fruizione di ciò che è bello, nell’arte e nella natura, siano cose buone in se stesse; e se consideriamo quali cose a rigore siano degne di essere possedute per se stesse, probabilmente nessuno penserà che ci siano altre cose dotate di un valore che si avvicini a quello delle cose comprese in queste due categorie. Moore propone un esperimento mentale come argomento contro l’adozione del piacere quale unico valore intrinseco: prova a immaginare due mondi, uno in cui esiste solo il piacere, un altro in cui è presente una quantità lievemente minore di piacere, ma ci sono anche altre cose, come l’amore, la bellezza o la scienza. Per Moore sarebbe assurdo preferire il primo mondo al secondo, anche se contiene un po’ più di piacere, così come sarebbe assurdo, qualora nei due mondi la quantità di piacere fosse identica, sostenere che la presenza in uno dei due di amore, bellezza o scienza non sarebbe un argomento per preferirlo. Proprio questo senso di assurdità prova l’errore dell’utilitarismo edonistico. È vero che una totalità sarà intrinsecamente migliore di un’altra ogni volta che, e soltanto se, contiene una maggiore quantità di piacere, prescindendo da come possono essere le due totalità sotto altri aspetti? Mi sembra pressoché impossibile che chiunque abbia completamente presenti le conseguenze di una convinzione come questa, possa ritenerla vera. Essa comporta, per esempio, il riconoscimento che un mondo in cui non esistesse assolutamente niente salvo il piacere, un mondo senza scienza, senza amore, senza godimento della bellezza, senza qualità morali, debba tuttavia essere intrinsecamente migliore e più degno di essere creato, purché la sola quantità di piacere presente in esso sia appena di poco superiore a quella presente in un mondo in cui esistono tutte queste cose oltre il piacere. Questa convinzione comporta inoltre il riconoscimento che, anche se la quantità totale di piacere in ciascun mondo fosse esattamente uguale, tuttavia il fatto che tutti gli esseri di un mondo possedessero più conoscenze in molti diversi settori e un pieno apprezzamento di tutto ciò che è bello o degno di amore nel loro mondo, e che nessuno degli esseri appartenenti all’altro mondo possedesse invece nessuna di queste cose, non ci offrirebbe nessun motivo per preferire il primo al secondo. 873

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea L’utilitarismo ideale

Ross e il rifiuto dell’utilitarismo

Passato e relazioni personali

Mantenere una promessa

Il deontologismo pluralistico di Ross

Nonostante questo rifiuto dell’edonismo, Moore fa proprio un criterio di valutazione della condotta analogo a quello dell’utilitarismo, per cui un’azione è giusta per le sue conseguenze buone e se produce la massima quantità possibile di conseguenze buone. Moore sostiene, dunque, che il termine «giusto» è equivalente a «causa di buoni risultati», e perciò si identifica con «utile». Questa teoria di Moore è stata definita «utilitarismo ideale» (o «pluralistico»), in quanto condivide con l’utilitarismo il criterio generale di valutazione della condotta (la massimizzazione delle conseguenze buone), ma rifiuta la teoria monistica del valore propria dell’utilitarismo e la sostituisce con una teoria pluralistica. Se le critiche di Moore sono rivolte all’aspetto edonistico dell’utilitarismo, il filosofo scozzese Ross critica tutte le forme di utilitarismo, incluso l’utilitarismo ideale sostenuto da Moore. Nell’opera del 1930 Il giusto e il bene, Ross obietta all’utilitarismo di trascurare il passato e la specificità delle relazioni personali. L’utilitarismo si concentra sulla promozione delle buone conseguenze future, ma non prende in considerazione il fatto che anche il passato è importante dal punto di vista morale: i nostri doveri morali possono infatti derivare da impegni presi nel passato, come è il caso del dovere di mantenere una promessa. La promessa si basa infatti su un esplicito impegno assunto dal soggetto, impegno a cui non si può derogare ogniqualvolta le conseguenze previste sarebbero migliori: «pensiamo davvero – si chiede Ross – che la produzione del più piccolo divario di bene – non importa chi lo riceverà – per mezzo della violazione di una promessa ci liberi dall’obbligo di mantenere la nostra promessa?». In maniera analoga l’utilitarismo trascura il fatto che i nostri doveri possono derivare da relazioni specifiche che intratteniamo con certe persone: i nostri familiari, i nostri amici, i nostri concittadini. Non conta dunque solo la bontà delle conseguenze, ma contano anche i nostri impegni passati e l’identità di chi è beneficiato. Un’azione deve essere considerata giusta non tanto se realizza buone conseguenze, quanto se rispetta certi doveri fondamentali, che pure non sono assoluti perché quali siano i nostri doveri effettivi dipenderà dalla situazione in cui ci troviamo; per questo Ross li chiama doveri prima facie, cioè doveri solo potenziali. All’utilitarismo Ross oppone dunque una teoria normativa deontologica e pluralistica. Questa teoria è deontologica perché afferma che un’azione è giusta se nel compierla adempiamo a un dovere; ed è pluralistica perché sostiene che abbiamo vari doveri, non riconducibili a un dovere unico.

W.D. Ross, Il giusto e il bene

In effetti la teoria dell’«utilitarismo ideale», se posso così riferirmi per brevità alla teoria di Moore, sembra semplificare indebitamente le nostre relazioni con i nostri simili. Essa sostiene, di fatto, che la sola relazione moralmente significativa che i miei prossimi hanno con me è quella di essere beneficiari della mia azione. Certo, essi hanno questa relazione con me, e tale relazione è moralmente significativa. Ma essi possono essere in relazione con me anche come chi riceve una promessa verso chi promette, come il creditore verso il debitore, come la moglie verso il marito, come il figlio verso il genitore, come un amico verso un amico, come un cittadino verso un compatriota e simili; ciascuna di queste relazioni è il fondamento di un dovere prima facie, che mi si impone con più o meno forza a seconda delle circostanze del caso.

Doveri prima facie e doveri in senso proprio

Secondo Ross i doveri prima facie sono immediatamente evidenti, ma quale fra i differenti doveri prima facie debba essere effettivamente adempiuto e costituisca

T6

Importanza morale delle relazioni personali

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Percorso tematico Utilitarismo e oltre

un dovere in senso proprio da seguire nella situazione particolare non è qualcosa che può essere intuito immediatamente; è invece qualcosa a cui si giunge solo al termine di un processo di riflessione che prende in considerazione le particolarità della situazione e la natura dell’azione da compiere. Sia Moore sia Ross, dunque, aderiscono a una teoria pluralistica: Moore sostiene il pluralismo dei valori, Ross sostiene il pluralismo dei doveri. Entrambi, inoltre, respingono l’utilitarismo edonistico. I due filosofi, però, sostengono teorie normative differenti. Moore accetta il criterio di valutazione morale adottato dall’utilitarismo, ma nega che solo il piacere abbia un valore intrinseco; Ross mette invece in discussione tutte le forme di utilitarismo (inclusa quella elaborata da Moore): il valore morale di un’azione dipende dalla sua conformità a certi principi.

3 La giustificazione utilitaristica delle norme

Utilitarismo dell’atto e della norma

L’esempio della promessa

T7

Utilità della pratica del promettere J. Rawls, Due concetti di regola

L’utilitarismo della norma Dopo Moore, nel corso del Novecento, si è assistito a molte riprese dell’utilitarismo, tanto che esso è stato, fino agli anni settanta, la teoria etica e politica maggiormente seguita nei Paesi anglosassoni. La principale modifica apportata rispetto all’utilitarismo tradizionale è consistita nella considerazione che anche le norme, non solo le singole azioni (sulle quali si era invece concentrata l’attenzione degli utilitaristi), possono essere giustificate sulla base delle loro conseguenze. Sempre da un punto di vista utilitaristico si può ammettere che un’azione debba seguire una determinata norma, per esempio la norma che impone di rispettare le promesse, ma si può insieme giustificare l’adozione di quella norma in quanto massimizza la felicità degli individui coinvolti. È il cosiddetto «utilitarismo della norma» (o «della regola»), che viene distinto dall’utilitarismo dell’atto sostenuto fin da Bentham. Se per l’utilitarismo dell’atto un’azione è giusta quando massimizza direttamente la felicità, per l’utilitarismo della norma un’azione è giusta in quanto è conforme a una norma il rispetto della quale massimizza la felicità. Questa versione di utilitarismo è stata sostenuta, fra gli altri, da un importante filosofo americano, Rawls, il quale è divenuto in seguito un acerrimo oppositore dell’utilitarismo. Rawls fa ricorso all’utilitarismo della norma per rispondere alla critica di Ross incentrata sulla promessa. Anche da un punto di vista utilitaristico, infatti, occorre rispettare le promesse, anche qualora gli effetti immediati dell’infrazione sembrassero essere positivi, perché non mantenere una promessa potrebbe condurre a conseguenze ancora peggiori, mettendo in discussione la stessa pratica del promettere. È questa pratica, e non direttamente l’azione, che si giustifica sulla base delle conseguenze. Chi promette deve valutare non soltanto gli effetti prodotti dal rompere la promessa in un caso particolare, ma anche gli effetti che rompere questa promessa avrà sulla pratica in generale. Poiché si tratta di una pratica di grande valore proprio in termini utilitaristi, e poiché la rottura individuale di una promessa la danneggia sempre in modo serio, sarà davvero raro che si dia una giustificazione a rompere la propria promessa. Se consideriamo le nostre promesse indivi875

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

duali nel contesto più ampio fornito dalla pratica del promettere, possiamo rendere conto del rigore associato all’obbligo di mantenere le promesse. C’è sempre una considerazione molto forte a favore del mantenere le promesse, e questo ci consente di dire che, quando sorge il problema, e ci chiediamo se mantenere o meno una promessa, usualmente si finisce col dire che bisognerebbe mantenerla, anche quando le circostanze del caso particolare prese in se stesse sembrerebbero giustificare la violazione della parola data. In questo modo è possibile rendere conto del rigore con cui di solito guardiamo all’obbligo di mantenere le promesse.

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L’utilitarismo delle preferenze

Un’altra versione particolarmente interessante di utilitarismo è quella proposta, fra gli altri, dal filosofo inglese Hare. Essa rifiuta il carattere edonistico dell’utilitarismo classico, sostituendo la nozione di felicità con quella di soddisfazione dei desideri o delle preferenze degli individui: è il cosiddetto «utilitarismo delle preferenze». Critica Il concetto di felicità con cui l’utilitarismo tradizionale identificava l’utilità è inal concetto di felicità fatti considerato da Hare troppo variabile e indeterminato per costituire un punto di riferimento efficace. Da una parte, esso indica uno stato mentale complesso che non può essere identificato con il solo piacere, dall’altra non può essere considerato un concetto empirico. La felicità di una persona non è infatti qualcosa che può essere accertato esclusivamente attraverso l’osservazione del suo comportamento o l’analisi dei sentimenti che manifesta. Nello stabilire se qualcuno è o meno felice si fa riferimento non solo allo stato mentale dell’individuo, alla soddisfazione delle sue preferenze, ma anche all’apprezzamento di esse da parte del soggetto che giudica, cioè a un giudizio di carattere valutativo. Difficilmente, osserva Hare, saremmo disposti a chiamare felice un individuo del quale disprezziamo le preferenze, sebbene esse siano tutte soddisfatte. Di qualcuno diciamo che è felice se le preferenze che ha, e che sono soddisfatte, sono preferenze che valutiamo positivamente e che accetteremmo di avere a nostra volta. Le preferenze È meglio, dunque, fare riferimento agli interessi delle persone, interessi che si identificano con la soddisfazione delle loro preferenze, di qualsiasi tipo esse siano. Soddisfazione delle preferenze

T8

Felicità e interessi

R.M. Hare, Libertà e ragione

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Per chiamare felice un uomo troviamo necessario essere sicuri, non solo che i suoi desideri siano soddisfatti, ma anche che tutto l’insieme dei suoi desideri sia tale che noi non proviamo molta avversione all’idea di averli noi stessi. Ciò spiega, per esempio, perché pochi di noi direbbero che un oppiomane è felice (veramente felice) se riesce sempre a avere abbastanza oppio. […] Dato che ciò che dobbiamo fare è esprimere un apprezzamento, non un’asserzione di fatto, non possiamo accontentarci semplicemente di registrare l’apprezzamento che egli dà della sua vita dal suo punto di vista; noi stessi dobbiamo esprimere un apprezzamento, e non semplicemente riferire l’apprezzamento di qualcun altro. […] È un errore considerare le asserzioni sulla felicità come tali da non implicare nessun resoconto dello stato mentale di una persona, o come niente altro che tale resoconto. Esse sono complesse; e ciò spiega perché vi sia una così grande varietà

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nelle diverse condizioni di vita che la gente è stata disposta a chiamare felici. Chiunque ritenga che chiamare felice un uomo non sia altro che riferire il suo stato mentale dovrebbe leggere un po’ di poesia e fare una raccolta delle varie circostanze in cui la gente è stata chiamata felice. […] Ciò spiega perché gli utilitaristi abbiano avuto così poco successo nei loro tentativi di fondare una teoria etica empirista sul concetto di felicità: giacché questo è ben lungi da essere un concetto empirico […]. Siamo inclini a ritenere che si incontreranno minori difficoltà se, invece, la riformulazione sarà basata sul tentativo di rendere ragione, non di che cosa significhi massimizzare la felicità di tutte le parti collettivamente, ma di che cosa significhi fare giustizia fra gli interessi delle diverse parti prese separatamente. Utilitarismo e principio di uguaglianza

5 Rawls e l’equità

In base all’utilitarismo delle preferenze il criterio per la valutazione dell’azione consiste, dunque, nella produzione della massima soddisfazione delle preferenze individuali: un’azione è giusta se massimizza la soddisfazione delle preferenze degli individui coinvolti. E siccome l’interesse degli individui coincide con la soddisfazione delle loro preferenze, l’utilitarismo delle preferenze riesce a garantire, secondo Hare, anche una soddisfazione equa degli interessi individuali. Esso assegna infatti eguale valore agli interessi di ciascuno e cerca di massimizzare la soddisfazione agli interessi di tutti. L’utilitarismo sarebbe compatibile, dunque, anche con un principio di uguaglianza: esso prescrive di compiere l’azione che produrrà la massima soddisfazione possibile delle preferenze delle persone, quale che sia l’identità di queste persone. Se due individui hanno preferenze ugualmente intense non c’è ragione di anteporre il soddisfacimento delle preferenze di uno al soddisfacimento delle preferenze dell’altro. Dunque, l’utilitarismo delle preferenze è, insieme con l’utilitarismo della norma, una delle principali forme di utilitarismo tra quelle emerse nella riflessione filosofica successiva a Moore; entrambi rappresentano una risposta alle critiche mosse alla teoria utilitaristica tradizionale. L’utilitarismo della norma riconosce l’importanza del rispetto delle norme e dei principi, su cui insiste il deontologismo; l’utilitarismo delle preferenze riconosce invece il principio di uguaglianza tra le persone.

Le critiche di Rawls e Sen Quella dei rapporti tra l’utilitarismo e il principio di uguaglianza è tuttavia una questione controversa. Una delle critiche più comuni rivolte all’utilitarismo è proprio quella secondo la quale esso non rispetta le considerazioni di equità. Si tratta di una critica che emerge già nell’Ottocento, ma di recente Rawls ha richiamato l’attenzione su questo aspetto. L’utilitarismo prescrive di massimizzare la quantità complessiva di utilità individuale (sia essa il piacere o la soddisfazione delle preferenze), anche se ciò può essere accompagnato da una ripartizione molto disuguale delle utilità: fra due azioni, una delle quali ha come conseguenza un’utilità di livello 10 per un individuo e 1 per un altro, mentre l’altra produce una utilità di livello 5 per entrambi, l’utilitarismo sceglierebbe la prima, perché la somma complessiva di utilità 877

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che con essa si viene a produrre è maggiore (11 anziché 10), sebbene fra i due individui si crei una situazione di forte disuguaglianza. Ripartizione equa Così facendo, l’utilitarismo non rispetta un principio di uguaglianza distributiva di oneri e vantaggi che Rawls considera il criterio sul quale si troverebbero d’accordo tutti gli individui nella situazione ipotetica di un contratto col quale venissero stabiliti i principi di giustizia da far valere nella loro società. Fondare la struttura fondamentale della società sull’efficienza, cioè su una distribuzione di oneri e vantaggi tesa alla massimizzazione della soddisfazione delle varie parti coinvolte, può avere come conseguenza una configurazione sociale iniqua e quindi ingiusta. Occorre invece, ad avviso di Rawls, fondare una struttura fondamentale della società che sia in primo luogo giusta e poi anche efficiente.

T9

Giustizia nella distribuzione dei beni J. Rawls, Una teoria della giustizia

Assumerò che vi siano molti assetti efficienti della struttura fondamentale. Ciascuno di essi specifica una particolare divisione dei vantaggi della cooperazione sociale. Il problema è quello di scegliere tra essi, di trovare una concezione della giustizia che individui una di queste distribuzioni non solo in quanto efficiente, ma anche in quanto giusta. Se riusciamo in ciò, saremo andati al di là della semplice efficienza, ma in un modo compatibile con essa. Ora è naturale mettere alla prova l’idea per cui, fino a quando il sistema sociale è efficiente, non c’è motivo di occuparsi della distribuzione. In questo caso, tutti gli assetti efficienti vengono considerati ugualmente giusti. Naturalmente un’idea di questo genere sarebbe piuttosto bizzarra nel caso di una allocazione di particolari beni a individui conosciuti. Nessuno supporrebbe che il fatto che un certo uomo possieda tutto possa risultare indifferente dal punto di vista della giustizia. Ma una tale idea sembra ugualmente irrazionale anche per la struttura fondamentale. Può perciò accadere che, in certe condizioni, non vi possa essere una significativa riforma della schiavitù senza una diminuzione delle aspettative di alcuni individui rappresentativi, per esempio dei proprietari terrieri, nel qual caso la schiavitù è efficiente.

Un altro genere di critica rivolto all’utilitarismo è quello proposto dall’economista e filosofo indiano Sen: esso fa riferimento al cosiddetto fenomeno delle «preferenze adattive». L’utilitarismo considera come fine in se stesso il piacere o la soddisfazione delle preferenze individuali, ma tanto le sensazioni di piacere quanto le preferenze tendono ad adattarsi alle situazioni esterne. In condizioni di estrema povertà, per esempio, si registra sempre un adeguamento al ribasso del piacere e delle preferenze: in questi casi gli individui saranno soddisfatti di pochissimo. L’utilitarismo Così, però, l’utilitarismo non coglie possibili situazioni di ingiustizia e discrimie la discriminazione nazione sociale, dato che esso considererebbe felici e soddisfatti gli individui in sociale quelle situazioni, senza prendere in considerazione le circostanze nelle quali essi si trovano: «la misura dell’utilità – osserva Sen – può isolare l’etica sociale dalla valutazione dell’intensità della privazione del lavoratore precario, del disoccupato cronico […], i quali hanno imparato a tenere sotto controllo i loro desideri e a trarre il massimo piacere da minime gratificazioni». La tendenza ad adattarsi a condizioni di vita precarie e difficili può far sì che gli individui che si trovano in esse non tentino in alcun modo di migliorare la propria situazione. Proprio perché la capacità di provare piacere e le preferenze (o Sen e le preferenze adattive

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i desideri) che hanno tendono ad adattarsi alla situazione in cui si trovano, il piacere e la soddisfazione dei desideri (o delle preferenze) non sono criteri adeguati per stabilire se una società sia giusta, né per capire qual è il grado di benessere o di disagio di una persona.

T10

I desideri si adattano alle circostanze A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà

Harsanyi e le preferenze vere

Privilegiare in modo esclusivo certe caratteristiche mentali (come il piacere, la felicità o il desiderio) può essere particolarmente limitativo quando si fanno confronti interpersonali di benessere e deprivazione. I nostri desideri e la nostra capacità di provare piacere si adattano alle circostanze, soprattutto per farci sopportare la vita nelle avversità, e il calcolo utilitaristico può essere profondamente iniquo verso chi è deprivato in modo permanente, come le sempiterne bestie da soma delle società stratificate: minoranze perennemente oppresse entro comunità intolleranti, lavoratori agricoli tradizionalmente precari che vivono in un mondo di incertezza, operai oberati da un perenne superlavoro imprigionati in un assetto economico che li sfrutta, donne di casa sottomesse senza speranza in culture duramente sessiste. I deprivati tendono a venire a patti con la loro condizione per pura e semplice necessità di sopravvivere, e possono di conseguenza non avere il coraggio di chiedere un qualsiasi cambiamento radicale o addirittura adeguare i desideri e le aspettative alle cose che – senza alcuna ambizione – considerano fattibili. La misura mentale del piacere o anche del desiderio è troppo malleabile per rappresentare un indicatore attendibile della deprivazione e dello svantaggio. Anche per affrontare questo problema, l’economista e filosofo americano John Charles Harsanyi (1920-2000) ha formulato una versione di utilitarismo che distingue fra preferenze espresse e preferenze vere: «le preferenze espresse da una persona – scrive – sono le sue preferenze reali in quanto manifestate dal suo comportamento osservato, includendo le preferenze probabilmente basate su credenze erronee dei fatti o su una scelta razionale negligente. Al contrario, le preferenze vere di una persona sono le preferenze che avrebbe se avesse tutte le informazioni rilevanti sui fatti, se ragionasse sempre con la massima attenzione, e avesse lo stato d’animo più adatto a compiere una scelta razionale». Secondo questa versione di utilitarismo l’azione dovrebbe massimizzare soltanto la soddisfazione delle preferenze vere e pienamente informate degli individui; e questo consentirebbe anche di escludere dalle preferenze che andrebbero soddisfatte le preferenze antisociali e invadenti la sfera privata altrui: per esempio le preferenze di un sadico. Rawls e Sen sono dunque critici nei confronti dell’utilitarismo. Rawls (che, pure, inizialmente lo aveva sostenuto) accusa l’utilitarismo di trascurare l’equità nella distribuzione di vantaggi e oneri tra i membri della società. Sen afferma che la soddisfazione delle preferenze prodotta da un’azione non è un criterio adeguato per stabilire se sia giusta, perché le preferenze che una persona ha possono essere frutto del suo adattamento a condizioni di vita estremamente disagiate. La strada proposta da Harsanyi per difendere l’utilitarismo è stata allora quella di separare le preferenze espresse dalle preferenze vere della persona.

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea I brani antologizzati sono tratti da: J.S. Mill, L’utilitarismo, in Id., La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, Rizzoli, Milano 1999: p. 241 (T1), pp. 243 e 245 (T2). H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 129. G.E. Moore, Principia Ethica, Bompiani, Milano 1964, p. 292. G.E. Moore, Etica, Angeli, Milano 1982, pp. 134-135. W.D. Ross, Il giusto e il bene, Bompiani, Milano 2004, pp. 26-27. J. Rawls, Due concetti di regola, in Id., La giustizia come equità. Saggi 1951-1969, Liguori, Genova 1995. R.M. Hare, Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 180-181. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1984, p. 74. A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000, p. 67.

Questionario 1

Perché l’introduzione della distinzione qualitativa tra i piaceri pone una difficoltà all’utilitarismo? (max 4 righe)

Quale differenza c’è tra l’utilitarismo edonistico e la teoria utilitaristica di Moore? (max 5 righe) 880

2

3

Spiega, in un massimo di 4 righe, la differenza tra utilitarismo dell’atto e utilitarismo della norma.

4

Perché l’utilitarismo viene accusato di non rispettare il principio di uguaglianza distributiva? (max 6 righe)

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana RELATIVO

Relativo e assoluto

Una relazione fra due entità

La relatività di conoscenza e valori morali

La negazione della relatività

1. La contrapposizione tra «relativo» e «assoluto» Nel discorrere quotidiano, «relativo» è un termine molto frequente, il cui uso è probabilmente andato aumentando nel corso degli ultimi decenni. Ciò perché è parallelamente aumentata la coscienza della non assolutezza di molte convinzioni un tempo ritenute salde e indubitabili (basta pensare ai recenti dibattiti su che cosa costituisca una famiglia, al declino di certi precetti morali di derivazione religiosa ecc.). Proprio questa osservazione consente di mettere in luce il principale aspetto che porta a cogliere il significato del termine «relativo»: la sua contrapposizione con «assoluto». Secondo l’etimologia latina il termine «assoluto» (absolutus) significa «sciolto», libero da relazioni e legami con qualche altra cosa; qualcosa è relativo, dunque, quando non è assoluto: quando, cioè, entra in relazione con, si riferisce a, qualche altra cosa (per esempio, ciò che viene considerato «famiglia» dipende dal rapporto con la cultura di appartenenza: ciò che è famiglia in Sudan non lo è in Texas). Da questa osservazione, emerge l’altra caratteristica del termine «relativo»: esso indica sempre una relazione fra almeno due entità; una cosa è infatti sempre relativa rispetto a qualche altra cosa: la posizione spaziale di un corpo, per esempio, è relativa rispetto alla posizione di altri corpi, un momento del tempo è relativo rispetto ad altri momenti e così via. Per una migliore comprensione del termine è dunque utile specificare tanto quale sia la cosa che diciamo essere relativa, quanto rispetto a quale altra cosa la diciamo essere relativa. Molte cose possono essere relative: come si è detto, diciamo relativi la posizione di un corpo, o un momento del tempo, ma anche la percezione di qualcosa (un ambiente che è freddo per me può non esserlo per un’altra persona), una convinzione (io posso essere certo di una cosa su cui gli altri sono in dubbio) ecc. In filosofia ci si è interrogati soprattutto sulla relatività della conoscenza e dei valori morali. A seconda di quale di questi ambiti sia preso in considerazione si può affermare che la verità, oppure la bontà e la giustizia, sono relative. Ma si è presa in considerazione anche la relatività della bellezza e in genere dei valori estetici, e si è ritenuto che anche ciò che è bello sia relativo (a un individuo, un gruppo, una cultura) e non assoluto. Una delle posizioni più frequenti, tuttavia, è proprio quella che nega questa relatività. È cioè la posizione di chi sostiene che la verità, la bontà o la giustizia siano assolute, perché esse non entrano in relazione con niente altro e non possono variare a seconda del contesto e della situazione: sono cioè universali e necessarie. Se un giudizio sulla realtà è vero, resta vero in ogni circostanza e indipendentemente da chi lo pronuncia, così come se una certa persona è buona o una certa azione è giusta lo è indipendentemente dal contesto e dalle relazioni o da chi opera la valutazione. 881

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

La relatività della verità

La relatività rispetto alla credenza

La relatività rispetto alla teoria

La relatività dell’ontologia

2. Il relativismo in ambito conoscitivo Continuamente pronunciamo giudizi di tipo descrittivo, facciamo cioè asserzioni intorno alla realtà. Esse possono essere asserzioni comuni, come «la neve è bianca» o «il cielo è blu», oppure asserzioni scientifiche, come «la terra ruota attorno al sole», o che «l’uomo discende dai primati». Tanto le asserzioni comuni quanto le asserzioni scientifiche sono contraddistinte dalla caratteristica di essere vere o false. Contro chi sostiene che la verità è assoluta, di entrambi questi tipi di asserzioni si può sostenere che la loro verità è tale solo rispetto a qualcosa, che è cioè relativa a una qualche variabile, finendo per dipendere da essa. Dipendendo da questa variabile, la verità perde i suoi caratteri di universalità e necessità: non è tale in qualunque contesto e in qualunque situazione. Si è sostenuto che questa variabile è costituita dalla credenza per cui la verità è relativa. E questa può essere tanto la credenza di chi pronuncia l’asserzione, quanto quella di qualcun altro: un saggio, una particolare autorità e così via. È vero quindi tutto ciò che è creduto vero. Così per esempio possiamo dire che qualcosa è vero perché noi stessi lo crediamo tale, o perché lo crede tale la Chiesa, lo Stato e così via. Questa concezione si porta tuttavia dietro un problema di coerenza: se un’asserzione è vera quando è creduta vera, allora è vera anche l’asserzione di chi crede che la verità non consiste nell’essere creduta vera. Un paradosso che sembra rendere insostenibile questa posizione. Per superare il paradosso, si è fatto allora riferimento a un’altra variabile: la teoria; e si è sostenuto che la verità di una qualsiasi asserzione è relativa alla teoria complessivamente intesa attraverso cui si ottiene la conoscenza della realtà. È solo attraverso la teoria che si può parlare della verità di un’asserzione. Si nota infatti che la singola asserzione non viene mai verificata da sola, ma sempre insieme ad altre ad essa collegate, e che si può parlare della verità dell’una solo relativamente alla verità delle altre. Così per esempio l’asserzione «la matita è sopra il tavolo» è vera solo relativamente a una conoscenza di sfondo che fa identificare qualcosa come una matita e qualche altra cosa come un tavolo. Da questo esempio si può capire anche come alcuni si siano spinti a sostenere che anche ciò che esiste nel mondo, la sua ‘ontologia’, è relativa alla teoria di riferimento. Ciò può valere tanto per gli oggetti più comuni (una matita, un tavolo) quanto per quelli più complessi (un atomo, un campo di forze): in entrambi i casi per considerare qualcosa come un ‘oggetto’ occorre una particolare teoria di sfondo che interpreti gli stimoli sensoriali provenienti dall’esperienza e su questa base identifichi un oggetto come distinto da altri oggetti. Per esempio, il fatto che nel mondo esista qualcosa che chiamiamo «forza gravitazionale» dipende dalla circostanza che accettiamo come vera la fisica newtoniana; se accettassimo come vera la fisica aristotelica, non potremmo ammettere l’esistenza di tale forza.

3. Il relativismo in ambito etico La relatività della bontà Altrettanto frequentemente dei giudizi descrittivi pronunciamo giudizi valutativi e della giustizia di carattere morale, pronunciamo cioè enunciati che hanno una funzione di approvazione morale e di indicazione su come agire: diciamo per esempio che «chi aiuta il prossimo è una persona buona» o che «fare la carità è un’azione giusta». Si può sostenere che anche giudizi di questo tipo non siano assoluti, ma relativi, perché dipendono dal rapporto con qualcos’altro: un soggetto che valuta, una comunità, una cultura di appartenenza. Si può sostenere, per esempio, che chi aiuta il prossimo sia una persona buona solo perché io la ritengo tale, o solo perché 882

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Laboratorio sul lessico Relativo

La pluralità dei valori

Disaccordi su principi fondamentali e non fondamentali

Come agire?

La non risolvibilità del disaccordo

la ritiene tale la comunità di cui fa parte. Tuttavia, nel dire che un particolare giudizio morale è relativo si possono intendere cose diverse, da tenere ben distinte. Possiamo, per esempio, limitarci a descrivere una situazione di fatto: a constatare, cioè, che valori, regole e principi morali sono relativi a individui, a società o culture, e a particolari periodi di tempo, con la conseguenza che fra differenti individui, società e culture, o fra differenti periodi di tempo, si hanno principi morali differenti. Questa è una tesi empirica sostenuta spesso da storici, sociologi ed etnologi, che registrano la presenza di principi morali diversi e potenzialmente conflittuali. Già nell’antichità veniva constatata la diversità dei costumi dei popoli: Erodoto, per esempio, ci ricorda che alcuni ritenevano aberrante mangiare i propri genitori defunti, altri avevano invece questa usanza e ritenevano aberrante bruciarli. Spesso si spiega la pluralità dei principi morali con il fatto che essi sono condizionati dal contesto sociale, culturale o storico in cui si formano, e risentono quindi del variare di questi contesti. Ma si deve distinguere quando si è di fronte a un disaccordo su principi morali non fondamentali, che possono cioè essere ricondotti a dei principi fondamentali comuni e sui quali quindi non c’è disaccordo (potrebbe essere il caso dell’esempio citato, qualora il disaccordo fosse solo rispetto alle credenze su come garantire ai defunti una vita degna dopo la morte); e quando si è di fronte a un disaccordo su principi morali ultimi o fondamentali, che non possono essere derivati da altri principi ancora più fondamentali (per esempio se si negasse il rispetto dei defunti). Ma nel dire che i principi morali sono relativi a un determinato individuo o a una determinata società si può sostenere anche qualcosa di più. Si può voler dare indicazioni su come agire. Dal constatare la pluralità dei principi morali si può cioè trarre la conclusione pratica che è moralmente sbagliato giudicare i principi morali di altri individui o di altre società. Questa tesi è spesso sostenuta per manifestare una forma di rispetto verso i costumi e gli usi di altre culture così come per rifiutare la tesi dell’inferiorità di queste culture rispetto alla propria. È tuttavia una tesi radicale e dalle conseguenze controverse, dato che può condurre al conformismo morale, secondo il vecchio adagio «a Roma fai come i Romani», e all’indifferentismo: se tutto è relativo allora tutto va bene. Tuttavia, questa conseguenza non è implicata necessariamente dalla semplice constatazione della pluralità dei costumi. Da questa constatazione non segue necessariamente che si debbano seguire le regole della propria comunità o che tutto vada bene. Si può infatti ammettere l’esistenza di principi morali differenti e insieme sostenere che solo quelli di un certo tipo sono da ritenersi corretti, mentre altri sono sbagliati e quindi da rifiutare. Infine, nel dire che i principi morali sono relativi si può intendere qualcosa di ancora diverso: si può non tanto dare indicazioni su come agire, quanto fornire una spiegazione di cosa si intende con relatività dei principi, indipendentemente da quale conclusione pratica si possa derivarne. Si può cioè spiegare l’esistenza di principi morali differenti col sostenere che è corretto affermare che due o più giudizi morali in conflitto possano essere ugualmente validi, perché non si dà un codice morale che abbia una validità universale e perché non è possibile risolvere razionalmente un disaccordo intorno a principi morali fondamentali, così da mostrare chi ha ragione e chi ha torto. Secondo questa concezione, per esempio, è possibile ritenere che tanto le opinioni di chi considera moralmente legittima la mutilazione genitale femminile, 883

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Parte terza Verso la filosofia contemporanea

quanto quelle di chi la considera moralmente aberrante, possono essere, ognuna secondo il proprio codice morale, ugualmente valide. Si sarebbe di fronte in questo caso a un disaccordo morale non risolvibile.

Esercitiamoci sul relativo 1. Rifletti e completa

____________

È ciò che è senza alcun ____________ con altro (absolutus)

contro La verità è relativa a: RELATIVISMO _____________ RELATIVO

È ciò che è sempre in relazione a, in rapporto con qualcosa

– _________________; – _________________; – culture.

I principi morali sono relativi a: RELATIVISMO _____________

– _________________; – società; – _________________.

2. Spunti per il dibattito: io e… il relativo 1

Dopo aver letto il testo e completato lo schema, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Quali aspetti della vita e della conoscenza possono dirsi a tuo avviso maggiormente relativi? Quali – se ce ne sono – possono invece dirsi assoluti? – Quali sono a tuo avviso i principali aspetti del mondo contemporaneo in cui è maggiormente presente il relativismo? – In che senso possono essere dette relative le asserzioni della scienza? – Elenca almeno cinque principi morali che secondo te possono dirsi relativi e specifica anche ciò rispetto a cui essi sono relativi.

Considera la tesi del relativista estremo, secondo cui «tutto è relativo». – Cosa significa questa tesi da un punto di vista conoscitivo e da un punto di vista etico? 884

2

– Ti senti di poter affermare che una tale posizione è coerente? – Credi che se gli individui di una data società prendessero sul serio una tesi come quella riportata sopra vi sarebbero maggiori danni o maggiori benefici per quella società? 3

Immagina un mondo in cui ogni individuo è consapevole del fatto che le norme morali da lui accettate possano essere considerate relative da chiunque altro. – Credi che sarebbe possibile una vita di società organizzata in tale mondo? – Credi che in tale mondo vi sarebbero le condizioni sufficienti per l’elaborazione e l’attuazione di un sistema giuridico? – È possibile a tuo avviso che in tale mondo si sviluppi un sistema di spiegazioni scientifiche della realtà?

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Scenari presenti e futuri a cura di Remo Bodei

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Guardando avanti 1

Il problema di fondo

Globalizzazione e identità: un binomio inconciliabile? Nei nostri giorni, uno dei problemi più importanti e urgenti da affrontare è certamente quello posto dalla necessità di elaborare una teoria della giustizia che tenga conto sia del tasso sempre più alto di etnie e culture diverse che convivono all’interno delle nostre società, sia delle differenti popolazioni e tradizioni che abitano un pianeta attraversato dai processi della globalizzazione. Una giustizia, quindi, che contempli anche le scottanti problematiche politiche e sociali innescate dalle dirompenti dinamiche di sincronica integrazione, separazione, talvolta disperato rifiuto dell’omologazione che lacerano il nostro mondo.

Quale modello di giustizia adottare? I due schieramenti filosofici

L’opposizione tra razionalità astratta e specificità culturale

L’attuale questione della giustizia, sul piano filosofico, è segnata dalla contrapposizione tra due fondamentali indirizzi di pensiero: 1) quello dei cosiddetti «universalisti», ossia coloro che mirano a stabilire delle norme morali, etiche e giuridiche valide per ogni essere umano, quindi universali; 2) quello dei cosiddetti «comunitaristi», ossia coloro che sostengono invece che tali norme devono essere ancorate alle specifiche comunità culturalmente determinate. Per questi ultimi non si può infatti pensare che i singoli individui, al di là di ogni determinazione storica e sociale, possano stipulare un contratto, giungere a un accordo politico esclusivamente in base a regole dotate di una razionalità neutrale, come so-

stengono gli universalisti (e i liberali1). Dunque, mentre per i comunitaristi il problema della giustizia rimanda al fatto che ogni società ha il compito di articolare in maniera specifica le diverse capacità e attese dei singoli, per gli universalisti la giustizia deve invece concernere l’umanità. Tale questione si è poi estesa e trasformata, quasi per linee interne, in quella del «multiculturalismo», dei criteri da adottare per la convivenza tra culture ed etnie diverse, ciascuna mossa da valori spesso contrastanti (e, per il momento, inconciliabili). I problemi sulla giustizia vengono così riformulati a grappolo, in una forma condensabile in tre domande: 1) come limitare o preservare l’eguaglianza e la parità d’accesso ai diritti tra appartenenti a popoli e culture diverse? 2) si devono proteggere le minoranze e, più in generale, quanti risultano comunque svantaggiati dal potere di qualche gruppo dominante, concedendo loro dei benefici riequilibratori? 3) infine, una società liberale – ossia che mantiene la massima neutralità dinanzi al conflitto tra valori – deve rispettare anche quei gruppi o quelle culture che non riconoscono i diritti degli altri? Si innesca, in termini logici, una formidabile tensione tra estremi, peraltro, empiricamente inesistenti: da una parte, l’impossibilità di correlare tra loro comunità differenti (differenza irrelata), dall’altra, la necessità di giungere a norme universali assolute (universalismo monolitico). Di fatto esiste tuttavia un’ampia gamma di gradazioni intermedie, di compensazioni variate, di dosaggi accorti tra questi due margini generalmente inaccettabili (che hanno tra loro una relazione di complementarità, come quella che si instaura tra il concavo e il convesso). Quali esempi di tali pratiche di

Dal problema della giustizia a quello del multiculturalismo: le tre domande

L’eguaglianza

Le minoranze

La neutralità

I termini della questione: conciliazione tra comunità differenti o norme universali assolute?

1. In questa sede, l’espressione «liberali» va intesa nel senso americano di «liberals» termine che ha un significato molto vicino a «democratici radicali», così come è stato inteso anche in Italia dal filosofo della politica Norberto Bobbio.

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri

Le società liberali: tolleranti o intolleranti?

rettificazione si può vedere come nelle società liberali prevalga la propensione a salvaguardare le differenze con spirito di tolleranza e di rispetto dell’alterità. Si genera tuttavia, all’interno di tali società, un’inevitabile richiesta di limiti traducibile nell’interrogativo: tolleranti (rispettose, ospitali e cosmopolite) fino a che punto? Con simmetria speculare, anche le società chiuse, che scelgono determinati valori come assoluti, sono indotte a domandarsi: intolleranti (xenofobe, nazionaliste e integraliste) fino a che punto?

La ‘dialettica’ della globalizzazione: integrazione o separazione?

La globalizzazione comporta una forte spinta unificante

Come reazione si manifestano spinte disgreganti e particolaristiche

Tesi di fondo: all’aumento di integrazione fa fronte una tendenza

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Lo sfondo sul quale campeggiano tali domande è costituito dai processi di «globalizzazione», che continuano a estendersi, modificando i nostri modi di vivere e di pensare. Meno velocemente, però, e con minore impatto psicologico di quanto si pensi. Certo, il mondo si ‘restringe’, in quanto le sue parti entrano in una più fitta trama di rapporti; la società si ‘macdonaldizza’, mediante la creazione di standard di consumo comuni a tutte le latitudini; le élite transnazionali (tecnici, piloti d’aereo, scienziati, artisti, rappresentanti di organismi internazionali, utenti e venditori di telelavoro) si moltiplicano. Eppure si radicalizza, per contro, da parte di molti popoli, culture e sub-culture, la simultanea volontà di separazione dal contesto planetario. I modelli più antichi di convivenza e di mentalità si ‘disassemblano’ senza che quelli più recenti si sedimentino allo stesso ritmo. L’assunzione di abitudini o di idee di origine straniera non incide molto sulle strutture profonde dell’identità, almeno per l’immediato. Il fatto che un giapponese beva la Coca-Cola non lo rende in effetti più americano di quanto un americano diventi giapponese mangiando il sushi. Si assiste così allo strabismo, alla divergenza tra globalizzazione e frammentazione, al parallelo espandersi dell’isolamento centrifugo e della «mondializzazione» centripeta. Proprio mentre aumenta il tasso di integrazione fra continenti e popoli,

cresce – con pari o maggiore intensità – lo sforzo di alcuni Paesi e culture per svincolarsi da questo abbraccio, avvertito come soffocante. Si crea così una miscela esplosiva di risentimenti verso le potenze egemoni, di orgoglio etnico, di fanatismo religioso, di tradizioni illustri talvolta inventate, di ricerca di vie alternative rispetto ai «disvalori globali» del progresso incessante, del consumismo o dell’individualismo. Molte civiltà subiscono il trauma dello sradicamento, della «deterritorializzazione», della perdita di contatto con l’humus delle tradizioni in cui i loro componenti erano, fino a poche generazioni indietro, quasi totalmente inseriti. Ci si può legittimamente chiedere se la rinascita dei cosiddetti «particolarismi» e «localismi» non costituisca, almeno in parte, una formazione reattiva all’inserimento di singoli, ceti e popoli nel reticolo a maglie sempre più strette (e per alcuni opprimenti) dei rapporti planetari di interdipendenza. Si alimenta infatti, in coloro che sono meno ‘attrezzati’ o meno disposti a sintonizzarsi con tale sistema altamente coordinato, un acuto e doloroso senso di inferiorità, si fomenta indirettamente il ripudio di una omologazione imposta, il sospetto di una ingiusta retrocessione, la certezza di una perdita di sovranità e di ruolo nell’arena internazionale. Si reagisce così, per ‘eccesso di legittima difesa’, rafforzando sproporzionatamente in maniera compensativa la propria identità, ritenuta minacciata o disprezzata. Ne consegue la volontà di barricarsi in se stessi e l’autoesaltazione dei propri valori, fedi e costumi, l’esibito trionfalismo riguardo alle proprie ‘radici’ nazionali e religiose. Si osserva talvolta, in alcune popolazioni, la manifestazione di una sorta di amore tradito e respinto, l’ira luttuosa per non essere stati davvero coinvolti, con pari dignità, dai Paesi più ricchi e più potenti, nei grandi progetti di modernizzazione.

di autonomizzazione e affermazione di identità locali

Corollario: i particolarismi e i localismi si irrigidiscono

Conseguenza: chi si sente escluso si trincera nei propri valori

Che prospettive vi sono per un’«etica planetaria»? È possibile elaborare un codice morale entro cui articolare e rendere compatibili, in

Domanda: può esistere

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri un’etica planetaria valida per tutti?

Tesi di fondo: è difficile conciliare universalismo e ‘localismo’

L’auspicio di un’etica minimale comune

modo innovativo, regole e criteri di giudizio tra i più diversi? È davvero praticabile l’ipotesi di un’«etica planetaria»? I comunitaristi tendono generalmente a dare una risposta negativa a entrambi i quesiti, mentre gli universalisti sono generalmente propensi a rispondere in termini positivi, per lo meno nella prospettiva dell’approssimazione infinita. Tale etica dovrebbe corrispondere all’effettivo sviluppo della coscienza morale e civile transnazionale, modellata su esperienze confrontate e condivise. Appare, tuttavia, estremamente difficile conciliare regole morali e giuridiche forse dotate di maggiore universalità e plausibilità, ma prive del sostegno di consolidati costumi locali, con bisogno di identità e di autostima, scarsamente negoziabile, espresso da molte comunità. È poi dubbio che esistano al momento schemi di convergenza e di compatibilità tra culture eterogenee. L’ostacolo maggiore risiede comunque nel fatto che le grandi civiltà mondiali sono ancora in cammino, stanno cercando faticosamente di incontrarsi e di intendersi più a fondo. Certo, un’etica planetaria minima (fondata su un ristretto numero di norme universalmente diffuse e ragionevolmente difendibili) sarebbe preferibile a conglomerati di valori che si escludono o si ignorano reciprocamente. Infatti, in linea di principio, l’universale può comprendere il particolare, ma il contrario non accade mai.

È possibile elaborare un’etica del conflitto? L’universalismo comporta il rischio della chiusura nelle proprie tesi

Ma di quale universalismo si parla? Di quello stabilito su leggi rigide e immutabili, che esigono di venire riconosciute da tutti gli ‘uomini di buona volontà’? In questo caso si sarebbe tenuti a seguire la regola aristotelica, secondo la quale contra principia negantes non est disputandum, ossia a rifiutare qualsiasi dialogo con coloro che negano principi per noi razionalmente fondati o auto-evidenti. Essi, infatti sarebbero, per dirla in linguaggio moderno, moralmente ciechi o daltonici. Bisogna però essere sicuri che tali principi rappresentino effettivamente le premesse

di un accordo universale e non, piuttosto, la sublimazione di pregiudizi etnocentrici. D’altronde (pensando agli attuali indirizzi di pensiero di orientamento universalista) è irrealistico ritenere che la maggior parte degli uomini si lasci convincere da semplici ragionamenti che poggiano su una ‘fondazione ultima’ delle norme etiche, o che mirino a raggiungere tramite il solo dialogo un largo consenso, o che poggino su modelli contrattualistici di società giusta. È forse più sensato credere, come ritiene il filosofo tedesco Axel Honneth (1949, allievo di Jürgen Habermas ed erede della Scuola di Francoforte), che l’incontro tra uomini e culture differenti implichi una «lotta per il riconoscimento». In altre parole, che, di fatto, le identità individuali e collettive siano il risultato non solo – e non tanto – di interazioni razionali, quanto piuttosto di una mistura variamente dosata di violenza e di consenso; oppure di violenza che si razionalizza in consenso e di compromessi che riflettono rapporti di forza variabili. Ciò non esclude, ovviamente, che, dal punto di vista filosofico e civile, si debbano usare solo le ragioni dell’intelligenza e respingere quelle della violenza e della manipolazione.

Astrattezza dell’universalismo etico

La tesi di Honneth: l’identità è frutto di lotte per il riconoscimento

L’umanesimo dell’Occidente è davvero universale? Per procedere fruttuosamente nel dibattito occorrerebbe comprendere meglio i processi di formazione dei «ponti di senso» tra particolare e universale o tra l’«io» e il «noi». Le idee di «umanità» o di «umanesimo», oggi avvolte da un alone di diffidenza e di sospetto, rappresentano una casa sufficientemente ospitale per accogliere tutte le differenze o confondono in maniera irrimediabile l’essenza dell’uomo con una sua particolare forma storica (bianco, di origine europea, o, come si specifica sempre più spesso, anche «maschio», «eterosessuale» e «giudeo-cristiano»)? In quest’ultimo caso, si scambierebbe l’autentico universalismo con i valori «locali» forzatamente imposti dagli europei al mondo attraverso secoli di colonialismo e di sfruttamento.

Tesi di fondo: dietro al cosiddetto «umanesimo» potrebbe nascondersi un’idea di uomo storicamente e culturalmente determinata

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri Conseguenza: è opportuno prestare attenzione e ascolto alle minoranze che si sentono escluse dal nostro universalismo

Corollario: cercare di intrecciare tra loro le differenze culturali

Bisognerebbe avere un doppio coraggio: da un lato, di non lasciarsi intimidire dall’aggressività e dalla blindatura in se stesse (a carattere ‘adolescenziale’, con un negativismo e un’aggressività tipici di identità ancora fragili) di minoranze talvolta più politiche che numeriche; dall’altro, di guardare al lato oscuro del nostro universalismo, ascoltando le voci altrui. I particolarismi e i «fondamentalismi» nascono infatti soprattutto all’interno dei popoli e dei gruppi che sono stati esclusi dall’universalismo e che perciò rifiutano difensivamente un gioco in cui sono sempre stati abituati a perdere. Resta il compito ciclopico, ma irrinunciabile, di provare a intrecciare pazientemente nella ‘corda’ dell’umanità (che risulta tanto più robusta, quante più storie parziali riesce a connettere tra loro) tutte le varie differenze. Un’impresa disperatamente votata allo scacco, secondo molti.

Il crollo dell’idea di una ragione universale può favorire il multiculturalismo? Tesi di fondo: il crollo dei presupposti metafisici tradizionali ha prodotto una generale tendenza allo scetticismo e al relativismo Primo corollario: tutto ciò che esce dai canoni tradi-

Certo, al suo buon esito non concorrono la maggior parte degli strumenti concettuali della filosofia tradizionale. I criteri dell’universalismo poggiano infatti su dei presupposti metafisici che, indebolendosi, conducono a forme di relativismo più o meno «ironico». La perdita di prestigio di quelle filosofie che avevano cercato di articolare la realtà e il sapere sulla base di una ragione universale unitaria, marmorea ed eterna, in grado di fondare una conoscenza certa, produce uno scettico disincanto. Si enfatizzano così la pluralità e l’autonomia delle culture umane, ponendo in evidenza tutto ciò che si presenta come diverso, anomalo, caotico, non riconducibile all’unità o costituito di ‘simulacri’ caratteri-

stici della società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa. Dietro l’idea di unità della «ragione» si sospetta ora una volontà di potenza che inibisce l’evoluzione divergente di altre espressioni di pensiero e di civiltà o, in maniera più benevola, una sua immagine simile a quella di una remota stella spenta che ormai non esiste più, anche se noi continuiamo a vederne la luce. Invece di considerare gli uomini come esseri integralmente storici – radicati in credenze, desideri e pregiudizi appresi all’interno di determinate comunità – vi si scorge la Fata Morgana di una loro coscienza individuale fuori dal tempo e dallo spazio, sede della verità e della morale. E mentre la maggior parte delle filosofie del passato avevano concentrato i loro sforzi nel cogliere le strutture invariabili, astoriche, del pensiero umano o nell’individuare un comune terreno d’incontro chiamato «ragione», la cultura filosofica odierna sembra invece porre spesso l’accento sull’improponibilità di ogni schema unificante. Il serrato confronto tra idee e culture si riduce così a una non impegnativa, ‘lunga conversazione del genere umano’, a cui ciascuno può intervenire creativamente inventando o rilanciando argomenti, consapevole però che ogni intendere è anche un fraintendere. In questo modo, da un lato, la discussione diventa più agevole, perché le divergenze di opinione vengono composte in modo garbato e tollerante; dall’altro, si evita accuratamente di approfondire le questioni, considerando semplicemente «folli» coloro che non abbiamo voglia di prendere in considerazione, solo perché le loro tesi esulano da quanto «è determinato dalla nostra educazione, dalla nostra situazione storica», come sostiene il filosofo statunitense Richard Rorty (La priorità della democrazia sulla filosofia, pp. 245-250).

Il punto della questione 1 2 3

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In cosa consiste l’alternativa fondamentale riguardo al modello di giustizia da adottare nella realtà sociale contemporanea? In che senso è possibile affermare che il processo di globalizzazione genera spinte reciprocamente contraddittorie? Che impatto ha avuto il crollo dei sistemi metafisici tradizionali sul nostro modo di guardare alla realtà sociale e ai complessi problemi che essa ci pone?

zionali viene valorizzato Secondo corollario: dietro alla «ragione» viene ravvisata una «volontà di potenza» tesa a inibire le differenze

Conseguenza: il confronto tra idee e culture diverse assume i caratteri di una ‘conversazione’ creativa e sempre rivedibile

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La tesi di Rorty: il concetto di verità ha senso soltanto in riferimento alle nostre pratiche sociali

Le due posizioni opposte sulla verità: l’oggettivismo e il pragmatismo

Abbiamo bisogno di verità assolute o di credenze condivise? Negli ultimi tre decenni è stato in particolare Richard Rorty (vedi p. 699) a combattere la «metafisica» e a sottolineare il ruolo dei contesti sociali. Riallacciandosi alla tradizione del pragmatismo americano (per cui la verità è il risultato di regole e procedure accettate all’interno di una data comunità), egli rifiuta i presupposti plurimillenari del pensiero occidentale tesi a garantire l’incondizionata assolutezza della verità pur nell’insormontabile contingenza delle situazioni umane. Rifiuta così sia il concetto di realtà esattamente riproducibile senza deformazioni dallo «specchio» o dall’«occhio» contemplativo della mente, sia quello di coerenza puramente logica del ragionamento e dell’azione. Rorty, che non vuole abbandonarsi alla «nevrotica ricerca cartesiana di certezza» e preferisce di gran lunga una filosofia in grado di offrire almeno qualche cenno sul modo in cui «le nostre vite potrebbero cambiare», delinea due posizioni esemplari relative alla verità: 1) la prima, che viene fatta risalire a Platone, àncora la verità stessa a una dimensione sovraumana, alla nostra «vitrea essenza» che coglierebbe in modo trasparente una «oggettività» posta al di sopra di ogni criterio concordato da gruppi umani concreti; 2) la seconda, che viene fatta risalire a William James e a John Dewey (vedi Unità 7, p. 277 ss.), lega invece la verità a pratiche sociali condivise di giustificazione e di controllo.

È ancora possibile l’idea di una verità assoluta? Tesi di Rorty: la verità teorizzata da Platone è propria di un gruppo

Platone ha elaborato una teoria della verità che non si collega affatto alla comunità dei dialoganti effettivi. E ciò per evitare un doppio relativismo: filosofico e antropologico. Egli inventa, a tal proposito, una comunità artificiale di filosofi che legifera sulle regole di validità del discorso agganciando-

le a essenze («idee») che, una volta raggiunte, si imporrebbero all’uomo per la loro luminosa, indiscutibile evidenza. La verità risulta così fondata su procedure di carattere autoriflessivo proprie di un ristretto gruppo che si arroga il diritto di rappresentare l’intera umanità di ogni luogo e tempo. Si deve però osservare che in realtà – malgrado le critiche di Rorty – Platone cerca proprio di ‘edificare’ la verità attraverso una ricerca comune. Tutti gli uomini dotati di lògos (e persino uno schiavo ignorante), se opportunamente guidati, possono raggiungere conoscenze certe. Il dialogo passa infatti al setaccio i differenti punti di vista, mostra come alcune opinioni trovano la strada sbarrata, risultano sterili e intransitabili, mentre altre permettono la confluenza e lo sbocco delle diverse linee argomentative, dimodoché, alla fine, conducono a soluzioni convincenti per ognuno. Si ottiene così una verità che è, soggettivamente, un punto d’arrivo, sempre provvisorio, ma che ha la propria «oggettività», extra-territoriale rispetto alle diverse culture e ai punti di vista individuali. La verità suprema è come il sole, che non si può guardare a lungo senza perdere la vista. Ma la ragione che la contempla, anche nei suoi riflessi, diventa comunque la patria di tutti, la tradizione condivisa dell’umanità. Il nucleo più consistente del pensiero occidentale ha proceduto appunto su questa strada maestra, da cui la verità stessa appare salda perché fondata non sulle sabbie mobili delle opinioni soggettive, ma sul suolo granitico dell’episteme, della scienza.

ristretto di filosofi e non rispecchia l’umanità

Obiezione a Rorty: Platone ha individuato nel dialogo lo strumento principe per una ricerca comune della verità

Platone, con la sua concezione della verità, ha tracciato la strada maestra della metafisica occidentale

Individui e democrazia: una contraddizione in termini? A tale prospettiva Rorty contrappone la trasformazione dell’oggettività in «solidarietà», e definisce il vero in rapporto a ciò che crede e argomenta una specifica comunità, il «noi» dei parlanti o dei pensanti. In questo senso, dunque, «verità» è ciò che incontrerebbe meno resistenze a essere accettato da coloro che seguono determinate regole storiche di verificazione; falsità il contrario.

Rorty: la solidarietà costituisce il criterio del vero

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri Tesi di fondo: la filosofia «post-filosofica» deve promuovere non fondazioni ma forme dialogiche

Tesi di fondo: la tradizione filosofica occidentale ha scisso la ricerca della verità da quella del bene comune

Corollario: gli eredi di quella tradizione trascendono la propria realtà sociale Proposta di Rorty: il pragmatismo rappresenta una risposta alternativa Conseguenza: il concetto oggettivista di verità va sostituito con quello di credenza rivedibile

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La filosofia dovrebbe evitare la tentazione di cercare le fondamenta ultime della realtà e del pensiero e limitarsi a proporre discorsi «edificanti» (nel doppio senso architettonico e morale). Dovrebbe cioè innalzare dimore accoglienti, dove la convivenza umana possa svilupparsi al meglio, senza necessità di far ricorso a pratiche comunicative irrigidite in schemi prefissati. Lo scopo della filosofia in un’epoca «postfilosofica», che non ha più bisogno di pratiche fondative, consiste appunto nel mantener viva la creatività di forme di dialogo che non presuppongono alcun «vocabolario dato». Scrive Rorty (Solidarietà od oggettività? pp. 29-31): La tradizione della cultura occidentale che si impernia sulla ricerca della Verità, una tradizione che dai filosofi greci si estende fino all’illuminismo, costituisce la più chiara esemplificazione del tentativo di reperire un senso alla propria esistenza spostando l’attenzione dalla solidarietà all’oggettività. Il tema centrale di questa tradizione è l’idea che la Verità è qualcosa che si deve perseguire per se stessa, e non perché costituirà un bene per sé o per la propria comunità reale o immaginaria. […] Noi siamo gli eredi di questa tradizione oggettivista, imperniata sull’assunto che dobbiamo uscire dalla nostra comunità per un periodo che si protragga abbastanza a lungo da consentirci di esaminarla alla luce di qualcosa che la trascende, vale a dire di qualcosa che essa ha in comune con ogni altra comunità reale o possibile. […] D’altro canto, coloro che desiderano ridurre l’oggettività alla solidarietà – chiamiamoli «pragmatisti» – non necessitano né di una metafisica né di un’epistemologia. Essi concepiscono la verità come ciò che ci è utile credere, per utilizzare l’espressione di William James. […] Da un punto di vista pragmatistico affermare che ciò che oggi è razionale credere potrebbe non essere vero significa semplicemente affermare che qualcuno potrebbe avere un’idea migliore. Significa dire che esiste sempre un margine per il miglioramento della credenza, dato che possono fare la loro comparsa nuove prove, nuove ipotesi, o tutto un nuovo vocabolario.

Per Rorty non si tratta affatto di delegittimare la razionalità o la morale. Egli è anzi talmente affezionato alla «speranza sociale» da ritenere che i valori universalistici devitalizzino le comunità storiche, impedendo loro di risolvere questioni urgenti e concrete. Del resto, dice, le libertà dal bisogno, dall’oppressione e dalla crudeltà non necessitano di altra giustificazione che quella della loro desiderabilità. Ciò che conta, per noi abitanti dell’Occidente, «ironici liberali», è una democrazia che possa fare a meno sia della fondazione religiosa che della legittimazione filosofica. È sufficiente l’autorità, «costituita da un accordo coronato da successo tra individui che si scoprono eredi delle stesse tradizioni storiche e posti di fronte agli stessi problemi». Questa forma di democrazia è talmente preziosa che, qualora «l’individuo reperisca nella propria coscienza credenze che sono rilevanti per la politica pubblica ma indifendibili sulla base delle credenze condivise dai suoi concittadini, egli deve sacrificare la sua coscienza sull’altare del bene pubblico» (La priorità della democrazia sulla filosofia, p. 238).

I principali imperativi etici non necessitano di altra fondazione rispetto alla propria desiderabilità

Tesi eticopolitica: una democrazia fondata sull’accordo condiviso è il bene più grande cui ogni società possa aspirare

Come affrontare il multiculturalismo se siamo chiusi nella nostra cultura? Come evitare allora l’arbitrio delle opinioni e la preferenza accordabile ai propri valori, anche nella forma di pregiudizi etnocentrici? La sfiducia sulla possibilità di gettare ponti di comunicazione tra gli appartenenti a diverse culture è diventata in Rorty sempre più forte. Così, se nella Filosofia e lo specchio della natura (1979) aveva osservato che i coloni inglesi e gli aborigeni della Tasmania non avevano maggiori difficoltà a comunicare tra loro di quanta ne avessero i primi ministri britannici Gladstone e Disraeli, ora crede piuttosto che esistano, sotto il profilo teorico, tanti criteri di verità e di giustificazione quante sono le culture. Nessuno di noi è realmente capace di scostarsi dalle proprie tradizioni e dai propri pregiudizi, di superare la barriera dell’alterità. Siamo infatti talmente condizionati

Tesi: esistono tanti criteri di verità e di giustificazione quante sono le diverse culture

Corollario: non è possibile uscire dagli schemi

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri concettuali propri della cultura di appartenenza

Conseguenza: non può esistere alcuna razionalità «supercomunitaria»

Proposta di Rorty: relativizzare

dalle regole che abbiamo appreso dalla nostra comunità da essere inevitabilmente costretti a diventare etnocentrici. Per parafrasare l’affermazione di Hegel – secondo la quale «è insensato figurarsi che una qualsiasi filosofia vada al di là del suo mondo presente, quanto che un individuo salti il suo tempo, salti al di là di Rodi» –, non possiamo uscire dai nostri condizionamenti storico-culturali, così come non possiamo uscire dalla nostra pelle. L’ideale di unificazione delle forme di pensiero sotto l’egida di una verità e di una razionalità supercomunitaria obbedisce, del resto, a un pregiudizio inconscio: quello per cui la storia del genere umano procederebbe inesorabilmente verso la convergenza tra le varie civiltà. Rorty sostiene invece che bisognerebbe puntare sull’idea di un’umanità che procede in direzioni divergenti, privilegiare la differenziazione rispetto all’unificazione. La cosa migliore che si possa fare è rendersi consapevoli del peso ineliminabile delle proprie tradizioni e tenerne conto quando

ci si confronta con altri, usando possibilmente l’arma dell’ironia, della consapevolezza, cioè del peso della contingenza di ciò a cui siamo stati abituati, per relativizzare ogni pretesa di assolutezza. Eppure qualche criterio generale esiste, come quello di combattere la crudeltà nei riguardi di tutti gli esseri senzienti e nel «saper togliere importanza a più differenze tradizionali (di tribù, religione, razza, usi, e simili) in confronto alla somiglianza nel dolore e nell’umiliazione, nel saper includere nella sfera del “noi” persone immensamente diverse da noi stessi» (Rorty, La filosofia dopo la filosofia, p. 221). Riprendendo i fili della discussione fin qui tracciata, una delle domande cruciali alle quali urge oggi dare una risposta è, dunque, la seguente: una volta infrante le norme morali deducibili da valori assoluti, si possono ancora mantenere forme di condotta largamente condivise e relativamente stabili? Se si guarda ai comportamenti effettivi delle persone, sembra proprio di no.

consapevolmente le proprie tradizioni

Problema: come conciliare relativismo morale e stabilità sociale?

Il punto della questione

3

Prima tesi: un tratto tipico dell’uomo contemporaneo è la resistenza ad assumere impegni di lunga durata

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Perché la discussione di Rorty e di gran parte della filosofia contemporanea sulla natura della verità dovrebbe avere ricadute importanti su questioni che riguardano la società e la convivenza tra culture diverse?

2

Che caratteristiche ha assunto, secondo Rorty, la ricerca della verità fin dalle origini della filosofia nella Grecia antica? Ti sembra che la posizione di Rorty trovi una giustificazione guardando alla storia del pensiero occidentale?

3

Qual è il criterio di verità che Rorty propone di sostituire a quello dell’oggettività e che crede sia più proficuo sul piano sociale e politico?

L’uomo contemporaneo tra disimpegno e isolamento Nelle nostre società è stata rilevata come caratteristica una tenace, quanto inconsapevole, resistenza ad assumere obbligazioni morali di lunga durata. Si diffonde cioè la propensione a prendere quasi esclusivamente «impegni non vincolanti» (in terminologia anglosassone, non-binding commitments), ossia impegni rinegoziabili e, all’occorrenza, revocabili a piacere da

parte di uno qualunque dei contraenti. L’uomo contemporaneo tende cioè a modificare le proprie decisioni passate, in modo da non sentirsi mai definitivamente vincolato ad esse. La giustificazione filosofica di tale atteggiamento è che non compiamo mai scelte motivate da «ragioni» provviste di un presunto peso specifico oggettivo; siamo noi, piuttosto, ad attribuire – di volta in volta – il peso adeguato ai motivi delle nostre decisioni (peso che varia a seconda del contesto e delle giustificazioni che ne offriamo).

Argomento: l’uomo contemporaneo tende ad attribuire un valore transitorio alle proprie scelte

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri Conseguenze: 1) la coerenza e il senso di responsabilità risultano indeboliti 2) ogni scelta viene ‘sdrammatizzata’

3) l’identità va incontro a un processo di frammentazione

Seconda tesi: all’aumento della libertà di azione propria dell’uomo contemporaneo si è accompagnata una progressiva tendenza al suo isolamento

Conseguenze: 1) la famiglia si disgrega e diviene incapace di offrire protezione

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È dunque possibile riformulare continuamente le proprie scelte in base alle nostre variabili valutazioni. I non-binding commitments («impegni non vincolanti») implicano di fatto che, accanto alla coerenza, anche il senso di responsabilità si affievolisca. Se si pensa, per contrasto, all’importanza centrale che nelle scale di valori tradizionali assumeva il rispetto degli impegni e della parola data, della promessa, non si può fare a meno di vedere come la possibilità di ritornare sulle proprie decisioni marginalizzi e sdrammatizzi molte scelte, svincolando il singolo dalla propria identità passata e disincagliandolo dal vecchio se stesso. L’etica della coerenza e della responsabilità – per quanto non sempre esplicitamente ripudiate – vengono diluite in favore di un ‘mutamento endogeno’ delle preferenze individuali e dell’acclimatarsi di una concezione dell’identità personale non più strettamente confinata alla continuità psicologica dell’individuo. Questi non si sente più saldamente ancorato alle proprie scelte passate, bloccato da esse, perché è come se le sue precedenti decisioni fossero state prese da qualcun’altro. Nella cesura netta con il proprio passato personale, resa possibile dalla revocabilità degli impegni, dall’infedeltà persino a se stessi, si manifesta – assieme a una maggiore libertà e scioltezza dell’agire dell’individuo – anche il suo progressivo isolamento, la perdita della sua ‘placenta sociale’, l’allentamento dei vincoli con gli altri. Privato del pieno e organico inserimento nei ‘corpi intermedi’ che l’avvolgevano (famiglia, comunità di vicinato, ceto o classe) e posto a diretto contatto con i suoi simili e con le istituzioni, egli è insieme più libero e più solo. Questa più immediata vicinanza con la società nel suo complesso, infatti, invece di proiettarlo ulteriormente nella dimensione pubblica, lo induce ad arroccarsi nella sfera privata. Lo studioso statunitense di critica sociale Christopher Lasch (1933-1994) ha focalizzato la genesi di tale condizione nell’analisi di come si allentano o si trasformano i legami di solidarietà in uno dei più classici corpi intermedi: la famiglia. La tesi sostenuta è che la famiglia ha cessato di

essere un porto sicuro in un «mondo senza cuore», il luogo che doveva ritemprare l’uomo nella sua dura lotta contro la realtà e i condizionamenti esterni e servire da protezione e involucro per moglie e figli. Oggi essa non ripara più sufficientemente né adulti, né bambini. La disgregazione dell’istituto familiare si accompagna inoltre a una disattivazione emotiva di quei vincoli che intrecciavano amore e potere, sentimenti e istituzioni. La famiglia è ormai divenuta più porosa ai mutamenti esterni, meno isolata, più simile alla società che la circonda. I genitori si sono «proletarizzati» e vi è stato un netto indebolimento dell’autorità «verticale», con un parallelo incremento di legittimazione dei rapporti «orizzontali» egualitari (da qui la concezione del matrimonio come companionship o la maggiore vicinanza tra genitori e figli), ma anche con l’ininterrotta negoziazione dei ruoli. Costretti a difendere i residui della loro autorità non più garantita in anticipo, i genitori spesso abdicano alla loro figura tradizionale, ricorrendo a trattative logoranti o a nascoste manipolazioni.

2) i ruoli tradizionali vengono rinegoziati

Una identità riciclabile come la plastica? A cambiare non è, tuttavia, solo la struttura delle famiglie o delle società, ma anche quella degli individui. Da ‘moderna’ essa sarebbe divenuta, almeno in certe zone del pianeta, ‘postmoderna’. L’individuo moderno viene infatti caratterizzato da un’identità solida e durevole, costruita ‘in acciaio e cemento’; l’individuo postmoderno da una identità di ‘plastica’, mobile, cancellabile e riciclabile come un video-tape. I moderni appaiono inoltre come pellegrini nel tempo, uomini che si muovono secondo una meta e un progetto, per cui l’identità diventa in loro costruzione, previsione e tragitto. I postmoderni, al contrario, si sarebbero adattati ad abitare il deserto, a vivere l’esperienza della frammentazione del tempo e ad avere la percezione netta della distanza incolmabile tra gli ideali dell’io e la loro realizzazione. Non si prefiggerebbero quindi il compito di co-

Tesi: l’individuo postmoderno è caratterizzato da un’identità plastica

Corollario: l’uomo postmoderno vive un’esistenza frammentaria e fluttuante

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Il turismo di massa rispecchia tale perdita di una identità stabile

Tesi di fondo: l’esistenza postmoderna è caratterizzata dal riciclaggio delle esperienze

Corollario: nessun impegno è irreversibile

Corollario: le regole adottate nel corso della vita vengono rimesse in gioco continuamente

Conseguenza: l’incapacità

struire qualcosa di stabile, bensì quello di soggiornare in una serie di identità provvisorie, cangevoli e fluttuanti. In tal modo, soprattutto in Occidente, la mobilità – che prima era tipica di gruppi o popoli marginali – sarebbe oggi praticata da maggioranze. Il nomadismo si sarebbe cioè trasformato in turismo di massa. L’identità cessa così di possedere un valore assoluto. Scrive Zygmunt Bauman (La società dell’incertezza, pp. 27-28, 36, 38): Nel caso dell’identità come in altri casi, la parola chiave della modernità era creazione; la parola chiave della postmodernità è riciclare. Oppure si può dire che, se il «medium che era il messaggio» della modernità era la carta fotografica (pensiamo agli album di famiglia che si ingrossano implacabilmente, documentando pagina dopo pagina ingiallita il lento aumentare di eventi che portano all’identità, eventi irreversibili e non cancellabili), in ultima analisi il medium della postmodernità è il video-tape (cancellabile e riutilizzabile, pensato per non trattenere le cose per sempre, che fa spazio agli avvenimenti di oggi unicamente a condizione che quelli di ieri siano cancellati, trasudando il messaggio dell’universale «fino a maggior chiarezza» di ogni cosa valutata degna di essere registrata). Il principale motivo d’ansia dei tempi moderni, collegato all’identità, era la preoccupazione riguardo alla durabilità; oggi riguarda invece la possibilità di evitare ogni impegno. La modernità è costruita in acciaio e cemento. La postmodernità in plastica biodegradabile. […] Nella vita-come-gioco dei consumatori postmoderni, le regole del gioco cambiano continuamente nel corso della partita. La strategia più ragionevole è quindi quella di chiudere ogni partita velocemente – in questo modo il gioco della vita, affrontato con intelligenza, porta a dividere la grande sfida onnicomprensiva, dalle enormi poste in gioco, in una serie di partite veloci e brevi con piccole poste in gioco. […] Chiudere ogni partita velocemente significa evitare impegni a lungo termine. Rifiutare di sistemarsi in un modo o nell’al-

tro. Non legarsi a un posto. Non impegnare la propria vita per seguire un’unica vocazione. Non giurare perseveranza e fedeltà a niente e nessuno. Non controllare il futuro, ma rifiutarsi di ipotecarlo: fare in modo che le conseguenze del gioco non si trascinino oltre il gioco stesso, e rinunciare alla responsabilità per quelle che si trascinano. Impedire al passato di influenzare il presente da entrambi i lati, separandolo dalla storia. Abolire ogni forma del tempo che non sia una piatta raccolta o una sequenza arbitraria di momenti presenti; un presente continuo. […] Il risultato generale è la frammentazione del tempo in episodi, ciascuno separato dal suo passato e dal suo futuro, ciascuno conchiuso e concluso. Il tempo non è più un fiume, ma un insieme di pozzanghere e piscine.

ad assumere impegni stabili per il futuro e la tendenza a rimettere in discussione il passato rendono il tempo vissuto una mera somma di istanti presenti

Svincolarsi dalla tradizione o ancorarsi ad essa? Si potrebbe tuttavia lecitamente dubitare del fatto che il problema dell’identità passi attraverso fasi così drasticamente contrapposte. La sua conquista è stata infatti sempre difficile e il movimento oscillatorio e squilibrante del mantenimento della personalità attraverso il tempo non è certo una caratteristica esclusiva del mondo postmoderno (e poi, per inciso, siamo davvero tutti così postmoderni, mobili, nomadi e nemici di ogni stabilità?). Pare, al contrario, di percepire attualmente una quantità di segnali di controtendenza, ancora da analizzare, che mostrano reazioni di rigetto allo sradicamento, ma che convivono ciò nonostante con l’avversario che combattono, sostenendosi a vicenda mediante meccanismi involontari di connivenza antagonistica. Sembrano in effetti all’opera due contrastanti e simultanee linee di forza: da un lato, in alcune zone economicamente e socialmente privilegiate del mondo, si moltiplica il numero degli individui ‘liberamente fluttuanti’, che tendono a svincolarsi dai condizionamenti della tradizione; dall’altro, crescono altrove in parallelo –

Obiezione: l’immagine fornita dell’uomo postmoderno è troppo semplificatoria

Corollario: vi sono reazioni in controtendenza allo sradicamento dell’uomo contemporaneo Specificazione: accanto a una larga tendenza a svincolarsi dalla tradizione si assiste

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri a un massiccio ritorno a stili di vita tradizionali

Le grandi religioni monoteistiche riprendono il loro ruolo di catalizzatori di identità L’identità individuale dipende in larga misura dall’identità collettiva

erodendo la fascia centrale degli individui definiti «moderni» – tipi di personalità che vogliono rifondare la propria identità agganciandola a istituzioni ed entità tradizionali (ritenute, fino a poco tempo fa, «premoderne» e, come tali, disprezzate in quanto considerate sconfitte dall’Illuminismo, dalla Scienza o dal Progresso). Le etnie e le grandi religioni monoteistiche paiono, di conseguenza, riprendere il proprio antico ruolo di protagoniste e di agencies di radicamento. Dietro i «fondamentalismi» religiosi, i «particolarismi», i «nazionalismi» recenti – in qualsiasi modo si intendano – si pone comunque un rinnovato, inequivocabile bisogno di radicamento. Ed è proprio tale bisogno che permette di vedere, come sotto una lente di ingrandimento, un elemento strutturale che rischierebbe altrimenti di passare inosservato: ossia che l’identità individuale discende sempre, per mille fili, dall’identità collettiva e che è addirittura impensabile senza di essa.

Si scopre così che la nostra illusione di non avere rapporti di dipendenza con le istituzioni collettive, deriva dal pathos con cui l’individuo ha rivendicato in questi ultimi secoli la sua autonomia rispetto ai soffocanti vincoli del passato, dipende cioè dalla sua volontà di sottrarsi all’arbitrio altrui (in quanto l’idea di «libertà», prima di diventare retorica, conteneva qualcosa di molto concreto: il rifiuto della schiavitù e della dipendenza personale). Sotto questo profilo, il fatto che si cerchi una ridefinizione di se stessi ricorrendo al radicamento in identità esterne forti (come le Chiese o le «comunità» nazionali, «premoderne» proprio perché si pensava di averle metabolizzate, digerite, per scoprire successivamente che non è vero), mostra semplicemente che l’aggancio alla dimensione collettiva è cambiato e che le nostre zavorre stabilizzatrici istituzionali hanno spostato il nostro baricentro, e non che in precedenza queste non esistevano.

La liberazione dai vincoli del passato ha creato nell’individuo contemporaneo un senso di indipendenza dalle istituzioni collettive Conclusione: sono cambiate le modalità attraverso cui l’individuo si rapporta alla dimensione collettiva

Il punto della questione

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1

In che senso si può affermare che a una maggiore libertà dell’uomo contemporaneo si è accompagnata una marcata tendenza al suo isolamento?

2

Da quali aspetti salienti è caratterizzata l’identità dell’individuo (cosiddetto) «postmoderno»?

3

In che senso – stando alle parole del sociologo Bauman – la parola chiave della postmodernità sarebbe «riciclaggio»?

Il senso di responsabilità può scongiurare l’autodistruzione? La questione ecologica ha priorità su tutte le altre?

Tesi centrale di Jonas: soltanto il richiamo alla responsabilità è in grado di prevenire lo stravolgimento

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Di fronte al temuto dilagare dei non-binding commitments («impegni non vincolanti»), viene sempre più spesso invocato l’obbligo per ciascuno di sentirsi personalmente impegnato a rendere conto di determinate forme di condotta a lui imputabili. È stato soprattutto il filosofo tedesco Hans Jonas (1903-1993) a teorizzare direttamente il «principio responsabilità» in simmetrica opposizione al «principio speranza»

di quanti hanno favorito il pensiero utopico o gli atteggiamenti prometeici di dominio della natura e di progresso senza limiti. Essi, infatti, non si sono accorti che – invece di produrre grandi trasformazioni in positivo – hanno finito per minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutto il pianeta, prendendo sul serio le utopie e trasformandole così da innocuo esercizio letterario o filosofico in pericolosi programmi di stravolgimento del mondo. L’atteggiamento di Jonas è basato su una «euristica della paura», ossia sulla scelta in negativo di evitare il sommo male dell’autodistruzione dell’uomo, allorché non è possibile né giusto trovare un accordo generalizzato su cosa sia e come si debba

dell’uomo e del mondo

Evitare il sommo male invece di perseguire il sommo bene

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Tesi: il richiamo alla responsabilità è diventato tanto più impellente quanto più è aumentato il potenziale distruttivo dell’uomo

Corollario: i grandi processi di trasformazione del mondo devono essere attuati in modo graduale e consapevole

Conseguenza: l’uomo deve assumere innanzitutto un imperativo etico rivolto all’ecosistema

perseguire il «sommo bene». Tale approccio si scontra con le posizioni dell’ultimo grande teorico dell’etica della responsabilità, Max Weber (vedi Unità 14, p. 567 ss.). Questi aveva infatti sostenuto, nel quadro di un elogio della lungimiranza appassionata, che «il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile». Oggi che l’uomo è diventato un essere altamente nocivo incapace di valutare adeguatamente il risultato congiunto delle azioni di tutti e di ciascuno, con il rischio effettivo di alterare delicati equilibri, in parte ignoti; oggi che ognuno contribuisce, per la sua parte, alla degradazione dell’ambiente e al depauperamento delle risorse, la responsabilità, la cautela, la riflessione costituiscono un obbligo vincolante e ineludibile. Anche perché le potenzialità distruttive della specie umana aumentano proprio nel momento in cui diminuiscono le sue doti di previsione e di controllo dei processi di autoperpetuazione. Paradossalmente, la minaccia della catastrofe deriva non dal fallimento, ma dallo «smisurato successo» della tecnica. Ed è proprio perché si amplia in maniera inaudita la sfera degli effetti inattesi di ogni azione che deve proporzionalmente estendersi, prima che sia troppo tardi, anche il raggio della responsabilità personale. Ne consegue la necessità inversa di attutire l’impatto sull’esistente dei grandi progetti di trasformazione, così che essi penetrino nel mondo gradualmente e senza provocare violenti contraccolpi. Ognuno di noi ha infatti una responsabilità collettiva nei confronti della Terra e dei suoi abitanti, in particolare della biosfera, la sottile fascia di una trentina di chilometri di spessore che avvolge il pianeta. Il nuovo imperativo ecologico di Jonas, formulato alla maniera di Kant, suona pertanto così: «Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra». E se è vero che l’esistenza dell’umanità è il «primo comandamento», da esso segue la necessità della difesa della vita nel suo insieme. All’altra famosa domanda kantiana, «in che cosa dobbiamo spera-

re?», sembra sostituirsi quella se è ancora lecito sperare o se non sia piuttosto illusorio e regressivo abbandonarsi alla speranza, farsi cullare da essa, invece di assumersi con coraggio e disincanto le proprie responsabilità. Scrive Jonas (Il principio responsabilità, pp. 10, 16-17): La tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli. […] Si prenda ad esempio, quale prima e maggiore trasformazione del quadro tradizionale, la vulnerabilità critica della natura davanti all’intervento tecnico dell’uomo – una vulnerabilità insospettata prima che cominciasse a manifestarsi in danni irrevocabili. Tale scoperta, il cui brivido portò all’idea e alla nascita dell’ecologia, modifica per intero la concezione che abbiamo di noi stessi in quanto fattore causale nel più vasto sistema delle cose. Essa evidenzia mediante i suoi effetti che la natura dell’agire umano si è de facto modificata e che un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose di cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di esso abbiamo potere. E che oggetto di sconvolgente grandezza, davanti al quale tutti gli oggetti precedenti dell’agire umano appaiono irrilevanti! Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe press’a poco così: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra», oppure, tradotto in negativo: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita», oppure, semplicemente: «Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra», o ancora, tradotto nuovamente in positivo: «Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà». […] È inoltre evidente che il nuovo imperativo si rivolge molto di più alla politica che non al comportamento privato, che non è la dimensione causale alla quale sia applicabi-

Tesi di fondo: l’enorme sviluppo della tecnica ha fornito all’uomo il potere di stravolgere gli equilibri dell’ecosistema terrestre

Conseguenza: si rende necessario un imperativo ecologico al fine di tutelare la possibilità della vita sulla terra

L’imperativo ecologico è rivolto alla collettività e

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri guarda al futuro

le. L’imperativo categorico kantiano era diretto all’individuo e il suo criterio era nel presente. […] Il nuovo imperativo evoca un’altra coerenza: non quella dell’atto con se stesso, ma quella dei suoi effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire.

Possono le utopie inibire l’azione sul presente? Tesi: il pensiero utopico rappresenta un pericolo per l’impegno concreto al miglioramento del mondo

Argomento: l’atteggiamento utopistico dimentica l’esistenza attuale a favore di un futuro immaginario e indeterminato

La prospettiva di Jonas si fonda sulla minimizzazione del rischio. A tale scopo è necessario frenare in altri e inibire in noi stessi la propensione al pensiero utopico (sul pensiero utopico vedi anche il par. 6), giacché esso è fondato su pretese esorbitanti e su desideri impossibili – o umanamente costosi – di perfezione, nonché sull’idea di radicali sconvolgimenti che il mondo, nella sua attuale fragilità, non è in grado di tollerare. La maggior parte degli uomini sembra oggi, per giunta, incline a pensare in forma di aspettative a più corta gittata rispetto ai tempi misurati dal succedersi delle generazioni. Per servirsi di una metafora militare, si potrebbe dire che Jonas alza moderatamente il tiro verso il futuro, senza appiattirsi nell’‘alzo zero’ sul presente puntuale, ma anche senza sparare a obice verso un avvenire remoto e indeterminato. Si è per lui responsabili nei confronti di un futuro che coinvolga noi e le generazioni che seguiranno, ma questo non dovrà assolutamente mettere a repentaglio l’esistenza e le attese delle generazioni attuali.

Il «principio responsabilità» appare comunque sotto forma di un ulteriore tentativo di delegittimazione delle utopie, come sintomo dell’esaurimento di quella spinta in avanti che le aveva giustificate. Esse sembrano perdere il fascino e il potere dei tempi in cui riuscivano a mobilitare interi popoli alla loro costruzione, a impegnarli in ‘immodeste’ speranze di riuscita, coinvolgendoli però nel fallimento di cause che richiedevano pesanti sacrifici personali, mentre promettevano la sicura conquista del futuro per l’intera umanità. Sotto processo sono, più in generale, le filosofie della storia che sorreggono le moderne utopie, adornandole della loro illusoria natura di «quasi previsione», per cui un fine storicamente lontano si potrà realizzare qualora i suoi promotori siano coerenti nel perseguirlo e investano e mobilitino la loro operosa energia nel prepararne l’avvento. Si produce così una serie di cortocircuiti teorici, in base ai quali il conseguimento dello scopo viene dichiarato immancabile, sebbene si aggiunga poi che esso esige l’intervento diretto dei singoli; la coerenza rispetto al fine dell’agire individuale viene proclamata in tutta la sua importanza, proprio mentre si sostiene che la storia può andare avanti nella direzione ‘giusta’ ignorando astutamente le intenzioni dei singoli; la responsabilità personale nei confronti dell’umanità viene solennemente esaltata come valore etico e politico supremo, ma nello stesso tempo non appare indispensabile all’economia complessiva di un processo dotato dei propri automatismi.

Il punto della questione

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1

Qual è il nesso tra sviluppo tecnologico e imperativo ecologico secondo la prospettiva di Jonas?

2

Quali affinità e quali divergenze vi sono tra l’imperativo «ecologico» di Jonas e l’imperativo «categorico» di Kant?

3

Che genere di critica opera Jonas rispetto alle concezioni della storia utopistiche e progressiste?

Corollario: l’impegno responsabile verso il presente indebolisce la spinta utopica verso il futuro

Le moderne filosofie della storia sono alla base di altrettante visioni utopiche

In seno alle concezioni utopiche vi è una tensione contraddittoria tra l’autonomia del processo storico e il contributo dei singoli individui

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L’irruzione delle biotecnologie sta modificando l’essere umano? Le biotecnologie stanno scalzando le nostre certezze sulla vita?

I due elementi di maggior novità nel panorama attuale

La bioetica è un campo di battaglia che coinvolge visioni del mondo diverse

Le biotecnologie hanno portato a mettere in discussione molte certezze tradizionali sulla vita organica

Conseguenze: 1) siamo

Accanto all’impetuoso sviluppo dell’informatica, due sono soprattutto gli elementi di novità che caratterizzano il panorama attuale e, di conseguenza, la riflessione filosofica: 1) l’impatto delle biotecnologie e il sorgere della bioetica; 2) il nostro mutato atteggiamento nei confronti della storia e del futuro per effetto di eventi traumatici e inattesi (quali la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la distruzione delle Torri Gemelle e il diffondersi del terrorismo giustificato in termini religiosi). Sulla spinta di problemi emergenti, specie nel campo delle scienze biologiche e mediche, è sorta di recente una nuova disciplina filosofica, la bioetica. Il nome stesso ha pochi decenni: nasce nel 1971 dal titolo di un libro del cancerologo Van Rensselear Potter (Bioetica, un ponte verso il futuro), che intendeva gettare un ponte tra le scienze della vita e l’etica, ma che non pensava ancora esplicitamente a valutare le scelte umane in questo campo alla luce di valori e scelte possibili. Da quando si è diffusa, la bioetica è diventata un campo di battaglia, che s’allarga sempre di più e che provoca lacerazioni tra i sostenitori di opposte visioni del mondo. Le biotecnologie e, in genere, gli sviluppi delle tecniche mediche e farmaceutiche pongono, infatti, in discussione convinzioni, abitudini e idee di durata millenaria, ritenute finora fondate sulla roccia di evidenze incrollabili o addirittura sull’autorità della rivelazione divina. Niente è apparso finora meno dubbio del fatto che un individuo viene al mondo secondo i vecchi e collaudati metodi della riproduzione sessuata naturale, con un corpo e una mente soggetti a malattie e a deformità congenite, e che soffre, gode e muore assieme a tutti i suoi organi. Le biotecnologie ci obbligano a riformulare rapidamente, anche a livello di senso comune, molti parametri grazie ai quali la

vita quotidiana si è orientata nel succedersi delle generazioni. In particolare: le nozioni di persona e di identità personale, le norme etiche e giuridiche che regolano i diritti dei singoli e delle famiglie, i cicli vitali, la crescita, la varietà e l’intensità di determinate passioni. Sta cambiando, in quest’ultimo caso, il sistema dei sentimenti che scandiscono tutti i momenti più solenni dell’esistenza umana: il concepimento, la nascita, il matrimonio, la paternità e la maternità, la malattia, la morte. Si modifica persino la configurazione dell’immaginario in quanto condizionato dai precedenti limiti biologici o mentali e dal complementare desiderio di eluderli. Quello che appariva imposto dalle dure leggi della necessità o dall’imperscrutabile volontà di Dio si trasforma in oggetto di scelta, permettendo di essere madri nell’età della menopausa o genitori di figli sconosciuti, perché nati da una donna a cui è stato donato il seme oppure da un utero in affitto; ancora, il generare figli diviene possibile da parte di una vedova a distanza di anni dalla morte del marito oppure perché – mediante i trapianti – ci si dota di organi che non sono quelli di appartenenza del proprio corpo. In prospettiva, attraverso la manipolazione delle cellule staminali, anche i trapianti potrebbero diventare inutili, grazie alla rigenerazione diretta dei tessuti del pancreas o del fegato e debellando diabete o cirrosi epatica. Quelle funzioni, inoltre, che si mostravano moralmente o naturalmente inseparabili – la sessualità e la procreazione – ora, grazie ai contraccettivi, soprattutto chimici, diventano autonome. Lo stesso accade nel caso della procreazione e della figura parentale. Grazie alle tecniche di fertilizzazione, anch’esse, infatti, si disaggregano, trasformando le precedenti energie di legame affettivo in energia fluttuante e inquieta che non sa ancora come distribuirsi e che provoca sconcerto e dolore. Il corpo, in quanto organismo composto da parti indissolubili, si divide e i singoli organi si possono scambiare passando da un organismo all’altro, da un morto a un vivo. La materia diviene trasportabile, viene resa compatibile operando mediante la biologia molecolare sui cromosomi del nucleo

posti di fronte alla necessità di fornire nuove valutazioni di tutti i momenti più importanti del ciclo vitale

2) alcuni aspetti della vita organica finora ritenuti necessari diventano ora oggetto di scelta

3) i legami morali e affettivi si svincolano dagli aspetti biologici

4) il corpo diventa plasmabile e gli organi scambiabili

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della cellula e sui loro costituenti elementari: le molecole del DNA. Si mettono così in relazione esistenze e storie umane differenti che si incontrano anche oltre la morte. Cadono poi, virtualmente, le barriere tra le specie.

Siamo chiamati a operare scelte finora impensabili? Tesi: le biotecnologie hanno creato nuovi ambiti di scelta, sui quali la bioetica si impegna a riflettere

Corollario: laddove avevano sempre deciso istituzioni civili o religiose, adesso è il singolo a dover decidere

Conseguenza: violenti conflitti morali vengono alimentati dalle differenze culturali e religiose Si fa sempre più sentire

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Lo spostamento delle frontiere della vita nella sua conoscenza, oltre che nella sua genesi, qualità, durata ed esito, modifica anche le aspettative del singolo e, pertanto, la comprensione che ciascuno ha di sé e degli altri: quello che appariva legato alle dure e imperscrutabili leggi della necessità si trasforma, come già detto, in oggetto di scelta. Occupandosi delle questioni ultime, la bioetica rende problematico ciò che prima era considerato normale e si situava come sfumato sullo sfondo inerte delle nostre preoccupazioni morali dirette. La soluzione alle nostre difficoltà era, infatti, generalmente offerta dalle singole fedi e lasciata alla dimensione della coscienza individuale. Si scaricano, invece, ora sui singoli responsabilità inedite e gravose in quanto sono chiamati a prendere decisioni non solo rispetto a criteri in precedenza lasciati ai grandi emissori di norme (alle «banche etiche», come le Chiese, gli Stati e i partiti), ma anche rispetto al futuro, prossimo e remoto, dei figli e dei pronipoti. Si tratta di questioni veramente metafisiche, che obbligano il singolo a confrontarsi con scenari che riguardano i massimi sistemi: vita e morte, aborto ed eutanasia, intervento sul proprio patrimonio genetico. Data la posta in gioco, è quasi inevitabile che si scatenino conflitti e fanatismi che, oltre a lacerare la coscienza del singolo, pongono in virtuale rotta di collisione culture e fedi religiose del mondo, ampliandone ulteriormente un contenzioso già alto per effetto dei fenomeni di globalizzazione, che mettono in contatto parti distanti del pianeta, e di convivenza di diverse etnie nello stesso territorio. Da un lato, vi sono coloro che difendono la «sacralità della vita», l’idea che la vita è

un dono divino e che comunque non ci appartiene (e non si tratta soltanto dei cristiani). In termini biblici essa è come la livrea che il servo riceve all’inizio del suo periodo di servizio e che dovrà alla fine restituire integra al Padrone. Questa impostazione si richiama spesso all’idea di «persona», intesa come individuo dotato della sua unicità e irripetibilità. Dall’altro lato, vi sono famiglie di etiche che, in senso lato, si possono definire laiche e che partono dall’ipotesi dell’etsi deus non daretur, ossia ragionano sui valori e sulle scelte come se Dio non ci fosse. All’interno del «fronte laico» vi è però chi, come Jonas, occupa una posizione particolare, che lo avvicina al sentire religioso. Egli difende, infatti, la non programmabilità della vita, nel senso che ciascuno dovrebbe essere «una sorpresa per se stesso». Questo significa che non si deve toccare la linea germinale, un patrimonio che non appartiene solo all’individuo, ma anche ai suoi discendenti. Per effetto delle biotecnologie aumenta pertanto il divario tra le possibilità di innovazione e la loro recettività a livello sociale, culturale e religioso. Si verificano anzi spesso reazioni di rigetto o di forte diffidenza e si approfondisce il solco tra norme etiche o religiose consolidate e atteggiamenti sensibili alle opportunità aperte dalla ricerca scientifica. Accade anche che, nella difesa a oltranza delle proprie ragioni e dei propri dogmi, vengano toccati livelli di radicalità tali da porre talvolta il cittadino in aperto contrasto con le norme di legge del proprio Paese e da spingere il credente o a opporsi al magistero della propria confessione o ad accettarne le direttive volte a combattere quanti attentano al suo credo. Per rendersi conto della magnitudine del problema, basta pensare alle polemiche sull’aborto o sull’eutanasia. Quello che cambia è, sostanzialmente, la preponderanza, riguardo al mondo dei sentimenti e delle passioni che costituiscono gli individui, di sentimenti acquisiti, di legami non ascrittivi, ma elettivi, e insieme ad essi la paura che la morte, la vita, il dolore, la gioia perdano la loro maestà e la loro venerabilità; con la modi-

una certa avversione alle biotecnologie sia sul fronte religioso che sul fronte laico

Corollario: la diffusione delle biotecnologie genera reazioni opposte di rifiuto e di consenso Conseguenza: spesso il cittadino si pone in contrasto col sistema giuridico di appartenenza

Possedere un corpo o essere un corpo?

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ficabilità del corpo si scopre di essere un corpo più che di avere un corpo e la bioetica – così come le biotecnologie, le pratiche mediche, i progressi farmaceutici – va incontro a paradossi.

Evoluzione o dissoluzione della famiglia tradizionale?

Tesi di fondo: la diffusione delle biotecnologie amplia la gamma dei desideri oltre la doxa consolidata

Si fanno strada in maniera crescente nuove modalità di rapporti familiari di natura elettiva che sostituiscono quelli di sangue

Conseguenze: 1) compaiono sulla scena figure

Quali conseguenze già si danno e, presumibilmente, si daranno sul terreno dei sentimenti, dell’identità e di certe forme di tutela della persona? Si amplia, in primo luogo, la longitudine dei desideri e della loro realizzabilità: avere figli quando prima non era possibile, guarire quando c’erano malattie congenite o acquisite. In generale, si amplia la possibilità di vivere meglio, ma ciò provoca anche dei paradossi, intendendo il termine nel suo significato etimologico, cioè di ciò che va contro la doxa, ossia contro le opinioni ricevute. In questo caso la doxa è soprattutto relativa alla famiglia a cui eravamo tradizionalmente abituati, in cui una coppia normalmente monogamica o metteva al mondo dei figli o non era in grado di metterne. Oggi, con le tecniche di fertilizzazione si scombinano le forme elementari della parentela, che viene alterata anche nell’architettura dei ruoli: in Francia, per esempio, già nel 1994 il due per cento dei nuovi nati veniva al mondo attraverso la fecondazione assistita eterologa o attraverso l’ovodonazione. La famiglia tradizionale cambia così aspetto. L’atto procreativo, il più intimo e segreto, rischia di ridursi al rango di un esperimento scientifico, artificiale e programmato, e soprattutto la famiglia basata sui vincoli di sangue risulta, in prospettiva, incrinata. Quelle che venivano considerate le forme elementari della parentela della civiltà – «nozze, tribunali ed are / [che] diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui» (Ugo Foscolo, Dei Sepolcri) – cambiano. Con il prevalere dei legami elettivi rispetto a quelli ascrittivi, delle scelte rispetto ai naturali rapporti di sangue, ci si domanda quale uso si saprà fare di queste maggiori opportunità. I problemi, a questo proposi-

to, non mancano. Tale tipo di famiglie «artificiali» – come vengono chiamate – porta infatti a un disorientamento, almeno iniziale, del bambino al loro interno. Duplica, triplica la figura materna: madre biologica, madre gestante, quando porta in sé l’uovo fecondato di un’altra donna, madre sociale; duplica la figura paterna: il padre biologico e il padre sociale. Questi vissuti dei bambini che nascono nelle cosiddette famiglie artificiali, soprattutto per fecondazione eterologa o per ovodonazione, provocano delle tempeste emotive al momento della nascita perché si ha la cosiddetta procreazione scorporata (disembodied procreation), nel senso che non viene praticata attraverso il normale atto sessuale, ma attraverso forme di inseminazione artificiale. Anche per i bambini che nascono in questo ambito le conseguenze psicologiche possono essere gravi. La procreazione assistita attraverso donatore produce, infatti, instabilità nella coppia e la spinge alla dissimulazione, più o meno onesta, sull’origine del bambino nella trama dei rapporti interpersonali. Nel caso, infatti, della donazione eterologa di seme maschile, quando il padre è impotente, il bambino è di lei e non di lui, nel caso dell’ovodonazione il bambino è di lui e non di lei. La figura paterna viene messa in discussione sia sul piano reale, sia sul piano – forse più importante – dell’immaginario. Si ha paura, per esempio, che si crei una sorta di esclusione del padre, un’alleanza tra madre e bambino oppure un’alleanza tra padre e bambino. L’ignoranza, poi, dell’identità del padre – tranne in Svezia – può creare una forma affannosa di ricerca tormentata di esso che dura tutta la vita. Coloro che difendono l’inseminazione assistita eterologa insistono, però, sul fatto che le famiglie sorte in questo modo sono molto più stabili delle altre e meno toccate dai divorzi e l’equilibrio psicofisico dei bambini nati con questa procedura è generalmente buono. L’argomento forte, inoltre, è che senza l’inseminazione assistita attraverso il donatore non sarebbe mai nato quel determinato bambino, quindi ci sarebbe una privazione di esistenza; eppure tutto questo ha provocato dei problemi.

parentali del tutto nuove

2) vi possono essere gravi ripercussioni psicologiche sui figli delle «famiglie artificiali»

3) l’ignoranza riguardo all’identità del padre o della madre può portare in età adulta a un’affannosa ricerca

In difesa delle nuove forme di famiglia

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Dal disorientamento alla riflessione critica

Tesi: il controllo sugli aspetti centrali del ciclo vitale rischia di spengere il carattere di spontaneità caratteristico dei processi organici

Dinanzi all’aprirsi di questo ventaglio di possibilità, si è presi da vertigine – anche nel senso positivo dell’euforia – e, nello stesso tempo, da sconcerto o da disorientamento. Quest’ultimo sentimento prevale in campo bioetico, perché risulta difficile elaborare idee e valori che siano all’altezza dei cambiamenti in corso. Infatti, la vita, così com’è normalmente intesa, perde il suo carattere di spontaneità, quella facoltà che si usa chiamare autopoiesi, ossia la capacità di mantenersi rinnovandosi in modo automatico: come quando le cellule si rigenerano, il cuore batte, le ghiandole secernono i loro ormoni, i globuli bianchi intervengono sulle infezioni, sacrificandosi per noi a centinaia di migliaia (e tutto questo senza che noi impartiamo loro alcun comando). Nella nostra civiltà occidentale, del resto, si è sempre ritenuto che l’«anima vegetativa», come la chiamava Aristotele, quella che esprime la spontaneità del corpo vivente, non potesse essere influenzata o indirizzata dalla volontà. E questo a differenza di altre culture, come quella indiana, in cui si pensa di poter influire sul corpo modulando la respira-

zione o rendendosi insensibili al dolore. Poiché la natura ha cessato di rappresentare un metro e un modello, la fiducia nelle sue leggi spontanee si è parallelamente indebolita. Anche perché si pensa, a causa di un fraintendimento diffuso, che le biotecnologie violino le leggi naturali. Ciò, tuttavia, è falso, in quanto qualsiasi modificazione introdotta artificialmente nel corpo umano, animale o vegetale, opera poi attraverso automatismi ‘naturali’. Semmai si turbano e si modificano equilibri precedentemente raggiunti o ci si scontra, sul piano sociale, con convinzioni religiose o morali consolidate. La bioetica deve affrontare oggi tutti questi enormi problemi. È però opportuno ricordare che essa funziona meglio come guida che non come freno. È quindi bene non solo conoscere con una certa esattezza come stanno i fatti e poi decidere, ma anche salvaguardare l’inevitabile alone d’ignoranza che circonda tali questioni. L’ignoranza, infatti, non dà nessun diritto, né a credere né a non credere. L’atteggiamento migliore da assumere consiste pertanto nell’esercitare quella perplessità e quella perspicacia che ci aiuti a comprendere gradualmente attraverso quali valori possano venire efficacemente governate le innovazioni introdotte dalle biotecnologie e dalla medicina.

Corollario: la natura cessa di essere un metro e un modello

Proposta: operare una riflessione critica nella consapevolezza dell’intrinseca complessità delle questioni bioetiche

Il punto della questione

6

1

Che rapporto vi è tra lo sviluppo e la diffusione delle biotecnologie e la nascita della bioetica come branca della filosofia morale?

2

Quali concetti connessi al ciclo vitale e considerati immutabili da sempre sono stati sottoposti a una radicale revisione con il diffondersi delle biotecnologie?

3

In che modo l’intervento delle biotecnologie sta contribuendo a modificare la struttura familiare e i ruoli delle figure parentali?

Verso un mondo (troppo) complesso? Un futuro sempre più incerto? Il prodursi degli eventi traumatici che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni ha mutato il panorama esistenziale, in-

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tellettuale, emotivo e immaginativo di miliardi di uomini (e questo anche sul piano filosofico, dove è iniziato un serio confronto con il pensiero delle civiltà extraeuropee). Ma ha anche cambiato il nostro atteggiamento nei confronti dell’avvenire. Sta, infatti, drasticamente diminuendo la capacità di pensare a un futuro collettivo comune, di immaginarlo al di fuori delle

Tesi: l’atteggiamento

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri progressista nei confronti del cammino della storia sta tramontando

Corollario: i destini personali risultano sconnessi da un processo globale

Conseguenze: 1) gli individui vivono schiacciati sempre più sul presente o sul futuro immediato

2) il futuro è vissuto sempre più come contingente e incerto

proprie aspettative private. A molti la storia appare quindi orfana di quella logica intrinseca che si credeva dovesse indirizzarla verso un determinato obiettivo: il progresso, il regno della libertà o la società senza classi. Tramonta una cultura che, tra Ottocento e Novecento, aveva indotto a ritenere che gli eventi marciassero ineluttabilmente in una certa direzione, annunciata o prevedibile. A lungo, infatti, siamo stati abituati a ritenere che l’intervento umano consapevole fosse in grado di abbreviare il tempo necessario al prodursi dell’inevitabile, di ‘accelerare le doglie del parto’. Caduta, senza essere stata confutata, l’idea di un’unica Storia orientata, il senso del nostro vivere nel tempo sembra, ora più che mai, disperdersi in una pluralità di storie (con la ‘s’ minuscola) non coordinate, in destini personali blandamente connessi alle vicende comuni. Ciò comporta un mutamento radicale nella nostra percezione del futuro e obbliga a una riflessione ulteriore sugli strumenti razionali per affrontarlo, connettendo in maniera diversa le vicende individuali a quelle collettive. Non potendoci più situare all’interno di un’epoca che si rapporta a un passato di tradizioni relativamente salde e ben individuate o a un futuro remoto di aspettative già stabilite, sembra riprodursi un’atmosfera intellettuale simile a quella descritta dall’intellettuale francese Alexis de Tocqueville nel 1840 per indicare lo stato d’animo prevalente degli americani: «In mezzo a questo continuo fluttuare della sorte, il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla e gli uomini non vogliono pensare che al giorno dopo» (La democrazia in America). L’avvenire riacquista la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè sostanzialmente improgrammabile o, di nuovo, nelle mani di Dio). Pare così realizzarsi l’affermazione dell’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946) secondo cui «l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre». I contraccolpi di questa situazione sono molteplici e ancora da analizzare a fondo. In termini etico-politici, ne vedo sostanzialmente tre.

Un futuro avvertito come «desertico»? In primo luogo, le valenze tradizionalmente legate al futuro come tempo dell’attesa, della redenzione e dell’imminenza del Regno di Dio o della Rivoluzione, hanno virato di senso. La rappresentazione della propria esistenza come momento preparatorio a un’altra vita, in senso religioso, o come strumento laico di edificazione di un avvenire radioso – che però conosceranno solo i nostri pronipoti – diventa ardua da concepire e da difendere. Molte situazioni della vita delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono ora intimamente giudicate irredimibili, perché non possono più essere ritenute seriamente riscattabili né in un al di là religioso, in una condizione di beatitudine celeste, né in un futuro terreno di armonica ricomposizione dei conflitti. La trasformazione «alchemica» del negativo in positivo teorizzata da certe varianti della dialettica e le promesse di risarcimento delle sofferenze patite nel presente per mezzo delle gioie fatte balenare nell’avvenire, sembrano essere improvvisamente diventate lettera morta. Ciò produce talvolta una sorta di implosione nell’arco dell’esistenza individuale, sottratta alla speranza, ma non all’angoscia, alla rassegnazione o all’indifferenza. Interi blocchi di esperienza e ampie regioni di significato – prima considerati nell’ottica dell’eternità o del futuro remoto – vengono riformulati e trascritti secondo nuovi criteri di rilevanza. Quel che vale per le esperienze ‘negative’, vale anche per le ‘positive’: il desiderio di fruire immediatamente, come doni irripetibili, dell’amore, dell’amicizia, del piacere o del benessere sembra concentrare in istanti puntuali e discontinui i ‘momenti d’essere’ di una vita degna di se stessa. La contrazione delle aspettative all’arco della sua sola esistenza fisica, immerge il singolo nel tempo irredimibile della caducità, lo costringe a elaborare il lutto causato dal dover trapiantare le radici del proprio io dal solido e immutabile terreno dell’aldilà o dai tempi epocali della storia nel friabile e transeunte suolo del proprio corpo, della propria biografia o dell’entou-

Tesi: il presente perde la sua valenza di tempo di attesa di un futuro radioso

Corollario: a livello individuale la speranza lascia il posto alla rassegnazione o all’angoscia

Conseguenze: 1) si accentua il desiderio di una fruizione immediata di ciò che la vita può offrire

2) l’individuo si trova immerso nella propria caducità

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3) il presente viene caricato di profonde aspettative a scapito del futuro

rage delle persone e delle istituzioni a lui più vicine. A questo disagio si reagisce oggi mediante la prevalente strategia di mettere a coltura intensiva il presente, di farlo fruttare rapidamente, senza preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato. Ciò comporta però la desertificazione del futuro e rischia di creare una mentalità opportunistica e predatoria.

Quale senso restituire al nostro modo di vivere il presente? Tesi di fondo: il crollo delle grandi utopie collettive comporta una ‘privatizzazione’ del futuro e una fabbricazione di utopie su misura

1) Le società tradizionali mettevano in atto meccanismi di compensazione della sofferenza individuale e delle disparità sociali 2) Le società democraticoegualitarie hanno aperto nei singoli la speranza, spesso frustrata, di un riconoscimento sociale o economico

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In secondo luogo, il tramonto delle grandi attese collettive, che fino a una decina di anni fa (quando il mondo era ancora diviso in due blocchi) orientavano, seppur ideologicamente, miliardi di uomini, porta tendenzialmente a una privatizzazione del futuro stesso e alla fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa. Gli ideali di abolizione delle disuguaglianze che colpiscono l’‘intera umanità’ o di espansione della libertà al maggior numero di individui, con la parallela promessa di un avvenire aperto all’iniziativa di ciascuno, finisce – soprattutto in Occidente – per diffondere le frustrazioni. Le società tradizionali possedevano infatti strumenti abbastanza efficaci sia per compensare gli uomini degli eventuali svantaggi della loro condizione, sia per giustificare le gerarchie. L’accettazione dei limiti e delle privazioni della vita trovava il proprio risarcimento nella prospettiva religiosa di una ricompensa in cielo. Le ideologie dominanti facevano sì che di rado venisse in mente ai più sfavoriti di aspirare ai livelli alti della scala sociale. Le società democratico-egualitarie moderne hanno invece aperto una falla nel dispositivo di inibizione delle aspettative, collaudato da millenni. Proclamando solennemente il diritto di tutti gli uomini all’effettiva eguaglianza e all’eliminazione di tutti gli ostacoli che potrebbero frenarla, legittimano le aspirazioni di ciascuno a superare la soglia della propria condizione di partenza per innalzarsi ai vertici della piramide sociale, alle cariche, alla ricchezza o al prestigio. Di fronte al presagibile naufragio

dei molti che non riusciranno mai a far collimare i propri ideali con la realtà, tali società hanno dovuto elaborare molteplici tecniche per gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le loro promesse non possono essere per principio esaudite. I progetti di donazione di un senso collettivo alla storia costituivano, appunto, una delle forme di compensazione e di risarcimento differito per le attese individuali inappagate. Rinviando la realizzazione di una società perfetta alle future generazioni, legittimando il sacrificio delle generazioni presenti, mettendo la ragione al servizio di programmi epocali, a lungo termine, riempivano di senso la vita degli individui. Oggi questo transfert, questo meccanismo di dilazione non funziona più. Non si deve certo rimpiangere il passato e ignorare i preponderanti benefici del diffondersi dell’eguaglianza, ma rendersi conto di quali nuovi problemi pongano l’accorciamento dei piani di vita dei singoli e il ridursi della forza di proiezione in avanti delle istituzioni. In terzo e ultimo luogo, giunge a conclusione un ciclo bicentenario di pensiero e di prassi che aveva attribuito alla politica una funzione salvifica, promettendo a popoli o classi una felicità futura grazie al suo innesto nel corso della storia. Inserendosi nella corrente degli eventi, cavalcandone la cresta dell’onda, sintonizzandosi su processi già in atto, seguendone la ‘meccanica razionale’, la politica pensava di fruire dell’energia ascensionale del movimento storico per giungere felicemente alla meta. Oggi anche questa spinta propulsiva è venuta meno, perché non funziona più il dispositivo che la generava. Con l’abbandono di tale modello di storia «vertebrata», innervata di utopia e tesa verso la conquista di una società migliore o perfetta su questa Terra, ci troviamo oggi dinanzi a una lacuna del presente, a una sorta di vuoto che non è soltanto privativo, teso a sottolineare il drammatico scisma tra la nostra esperienza e le nostre aspettative, ma anche ricco di chance inespresse. Il presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva

Conseguenza: si rende necessario il tentativo di ridare un senso all’esistenza individuale estrapolata dal progresso storico

Tesi: la funzione ‘salvifica’ della prassi politica sta perdendo la propria spinta propulsiva

Conseguenza: il presente si colloca adesso tra un passato ‘leggero’ e un futuro ‘debole’

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animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole.

Quale sguardo verso il futuro? Tesi: l’atteggiamento di proiezione verso il futuro è sempre meno diffuso

Argomento: il modo di guardare al futuro ha attraversato nella storia tre grandi fasi

Conseguenze: 1) il futuro non appare più come un ‘magazzino di possibilità’

2) crescono i tentativi di rendere il futuro prevedibile in modo sistematico

Con l’accelerazione degli eventi tipica della contemporaneità, da un lato l’esperienza – ossia il passato significativo – diventa sempre più povera, in quanto il presente non somiglia più al passato; dall’altro la prevedibilità del futuro diminuisce, perché la sua immagine tende sempre meno ad avere i tratti del passato e del presente. Proiettarsi verso il futuro, pensare alle generazioni a venire diventa quindi un atteggiamento sempre meno diffuso. Da una parte, il passato non preme più come prima, non sostiene a sufficienza la scelta delle norme dell’agire, dall’altra, si fanno sentire i contraccolpi del collasso di temporalità epocali. 1) Prima – nelle società tradizionali a base religiosa – l’individuo proiettava, di norma, la sua esistenza oltre la morte, nell’abisso dell’eterno. 2) Successivamente si è guardato di più ai tempi lunghi della realizzazione di progetti collettivi di edificazione di un mondo migliore. 3) Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico e insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro tende oggi a restringersi. Si capovolge in tal modo una delle tendenze della modernità, caratterizzata dal fatto che in essa il futuro appariva come un ‘magazzino di possibilità’, una serie di orizzonti temporali aperti, ossia come ‘futuro che non può cominciare’. L’orizzonte è, infatti, invalicabile per definizione: si sposta con il nostro stesso spostarci lungo l’asse dei presenti successivi. Oggi, invece, noi ‘defuturiamo’ il futuro, cercando di renderlo prevedibile già nel presente. Restringiamo così successivamente l’eccessivo numero delle possibilità mediante statistiche, proiezioni e previsioni. E, soprattutto, mediante l’azione programmata, che trasforma il ‘futuro presente’ dentro il nostro orizzonte in ‘presente

futuro’, quello che si realizzerà effettivamente a un momento dato e rivelerà quali previsioni erano adeguate e quali no; scrive al riguardo il filosofo e sociologo tedesco Niklas Luhmann (1927-1998) in Osservazioni sul moderno (pp. 85, 89, 92-93): Quando si parla di futuro, si pensa normalmente ad una previsione. Si cerca di prevedere e predire quello che verrà. Questo desiderio è vecchio come la Mesopotamia. Oppure si vede il futuro sotto il punto di vista degli effetti in atto. Si vorrebbe poter produrre determinate situazioni che da sole non si produrrebbero. Nell’un caso si ha nel presente il problema della vera conoscenza di possibilità di regolarità, nell’altro il problema dei mezzi e dei costi. Ma perché si deve descrivere il futuro? E come si può farlo, se nel presente non è ancora visibile ciò che si dovrebbe descrivere? […] abbiamo delle preoccupazioni in merito al futuro. Ciò non riguarda solamente il singolo nelle sue abitudini di vita, nelle sue pretese di godere di una pensione o, all’opposto, nei motivi di profonda disperazione che la maggior parte degli uomini deve affrontare. Ma noi ci poniamo delle domande, e la pubblica opinione ci spinge a rispondere al quesito: che ne sarà dell’umanità, che ne sarà della società? Quali condizioni di vita troveranno le «generazioni future», di cui già adesso si parla tanto, supponendo che si tratterà ancora di uomini paragonabili a noi e non di umanoidi trasformati dalla tecnologia genetica, standardizzati e programmati in maniera differenziata? […] […] il Moderno ha tempestivamente inventato il calcolo delle probabilità, per potersi adeguare a una realtà fittiziamente costruita e raddoppiata. Così il presente può calcolare un futuro che può sempre avvenire in modo diverso, mantenendo la possibilità di sostenere di aver calcolato giusto, anche se gli eventi poi sono diversi. Ciò presuppone che si possa distinguere tra futuro (o prospettive future) del presente come regno del probabile / improbabile e presenti futuri, che saranno sempre come saranno, e mai diversamente. Questa frattura tra futuro presente e

Tesi di fondo: vi è una tendenza a pensare al futuro in termini di «previsione»

Argomento: le ragioni per descrivere e prevedere il futuro dipendono dalle nostre preoccupazioni individuali e collettive riguardo ad esso

Conseguenza: il futuro si scinde in «regno del probabile» e «presenti futuri»

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri Corollario: esistono soltanto previsioni provvisorie

presenti futuri non esclude necessariamente le previsioni. Il valore di queste è tuttavia nella rapidità con cui è possibile correggerle e nel fatto di sapere da cosa ciò dipende. Esiste dunque solo la previsione «provvisoria», il cui valore non è nella sicurezza che essa garantisce, bensì nell’adattamento rapido e specifico ad una realtà che si svolge diversamente da come ci si aspettava.

Quale destino per l’umanità e per la filosofia? Il problema di fondo: attraverso quali strumenti razionali è possibile gestire la complessità storico-sociale che ci sta di fronte?

Tesi: data la complessità del mondo storico-sociale contemporaneo i nostri

Come possiamo oggi defuturizzare il futuro, aumentare le nostre capacità di previsione, passare da una cultura della necessità a quella della congettura razionale e della complessità ad essa collegata? L’attuale turbine degli eventi, la moltiplicazione degli attori sociali (sei miliardi di uomini distribuiti in oltre duecento Stati), lo sviluppo impressionante delle tecniche e dei saperi scientifici, la volatilità dei mercati finanziari, la situazione storica in cui le grandi civiltà della Terra continuano a non riconoscersi sufficientemente nei loro peculiari valori, la biforcazione tra processi centripeti di globalizzazione e processi centrifughi di isolamento, lo strabismo tra integrazione e frammentazione che caratterizzano il nostro presente storico, permettono ancora un qualche credibile pronostico razionale d’insieme? È evidente che alcune previsioni a livello locale o in campi specialistici ristretti mostrano una sufficiente attendibilità. È però altrettanto chiaro che la loro confluenza, il loro incastro o il loro assemblaggio in un disegno complessivo rivelano un’arbitrarietà e un’incertezza ben misurabili attra-

verso lo scarto tra il ‘futuro presente’ e il ‘presente futuro’. Ciò accade, a maggior ragione, al livello intermedio tra il locale e il globale. Pur disponendo di un altissimo numero di informazioni e di scenari, il rischio e l’incertezza dell’agire teso al ‘futuro del presente’ lascia ampi e ineliminabili margini di indecidibilità. Nessun individuo o organizzazione appare oggi capace di fornire previsioni globali affidabili a medio raggio (con l’eccezione, forse, delle proiezioni demografiche fino al 2030). Ciò non esclude che si debba puntare a una ricomposizione di congetture parziali, razionalmente ed empiricamente vagliate nei loro gradi di probabilità. Anzi, è questo l’imperativo più urgente, soprattutto perché il tempo per rimediare a crisi annunciate sembra sempre più scarso. Nel nuovo millennio la riflessione filosofica si chiude con una nota di modestia, che richiama alla responsabilità nei confronti di un incerto avvenire e ripensa i limiti e i valori delle proprie tradizioni entro un orizzonte planetario (e forse, in un futuro non lontano, interplanetario). Il ritrarsi del pensiero sulle sue stesse premesse (il lavoro di scavo, inventario e sgombero che accompagna l’apertura di nuovi cantieri concettuali) prelude forse al ritorno di grandi scenari teorici? Difficile dirlo, anche se la magnitudine dei problemi da affrontare spinge spesso a pensare in grande. Malgrado i ricorrenti annunci, è però certo che la filosofia, al pari dell’arte, non è affatto ‘morta’. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamente – e spesso inconsapevolmente – riformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire.

Il punto della questione

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1

In che modo il tramonto delle visioni della storia orientate verso un fine ultimo possono avere ricadute pesanti sull’individuo e sul suo modo di vivere il tempo?

2

Quali conseguenze ha avuto il crollo delle grandi ideologie moderne sulle modalità di scelta degli individui?

3

In che modo – secondo il sociologo Niklas Luhmann – l’uomo contemporaneo è portato a guardare al futuro?

strumenti di analisi e predizione risultano limitati

Proposta: tentare una ricomposizione di congetture parziali

Tesi: agli albori del terzo millennio la filosofia rimette criticamente in discussione le proprie premesse concettuali Corollario: ciò è un segno di vitalità della filosofia e del suo essere uno strumento per la ricerca di senso

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Remo Bodei Scenari presenti e futuri Suggerimenti bibliografici Sul dibattito tra comunitaristi e universalisti vedi M. Sandel, La giustizia e il bene (1982), in AA.VV., Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992; C. Taylor, Atomism, in Id., Philosophy and the Human Sciences. Philosophical Papers, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 190-207. Sui ‘simulacri’ della società contemporanea vedi J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 1979; Id., Simulacres et simulation, Galilée, Parigi 1981. Di R. Rorty vedi anche Id., La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986; Id., Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986; per comprendere taluni presupposti adottati da Rorty vedi inoltre P. K. Feyerabend, Science in a Free Society, Nlb, Londra 1978. Sul disimpegno vedi anche R. Nozick, Spiegazioni filosofiche (1981), Il Saggiatore, Milano 1987. Sulla disgregazione della famiglia vedi C. Lasch, Rifugio in un mondo senza cuore (1979), Bompiani, Milano 1982. Sulla società postmoderna e la ricerca identitaria vedi anche J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Feltrinelli, Milano 1981, pp. 56-57, 119; Z. Bauman, Intimations of Postmodernity, Routledge, Londra 1992; Id., Le sfide dell’etica (1993) Feltrinelli, Milano 1996; P. Ricoeur, Se stesso come un altro (1990), Jaca Book, Milano 1993; R. Bodei, Destini personali, Feltrinelli, Milano 2002. Sulle questioni poste dalla bioetica vedi H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997; Id., Dalla fede antica all’uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 1991.

Sull’attuale confronto con le civiltà extraeuropee vedi N. Smart, World Philosophies, Routledge, Londra-New York 2000; R. Bodei, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Zanichelli, Bologna 2005. Sulle filosofie della storia di stampo progressista o escatologico (e su una visione della storia ad esse alternativa) vedi il classico saggio di K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 1991. Sulla concezione moderna e contemporanea del futuro vedi R. Koselleck, Futuro Passato, Marietti, Genova 1986; N. Luhmann, The Future Cannot Begin: Temporal Structures in Modern Societies, in Id., The Differentiation of Society, New York 1982, pp. 271-288. I brani antologizzati sono tratti da: R. Rorty, Solidarietà od oggettività? (1985), in Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. 1, pp. 29-31. R. Rorty, La priorità della democrazia sulla filosofia (1988), in Scritti filosofici, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. 1, pp. 238, 245-250. R. Rorty, Solidarietà, in La filosofia dopo la filosofia (1989), Laterza, Roma-Bari 1989, p. 221. Z. Bauman, La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna 1999, pp. 27-28, 36, 38. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica (1979), Einaudi, Torino 1990, pp. 10, 16-17. A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, UTET, Torino 1968-1969, 2, p. 640. N. Luhmann, Osservazioni sul moderno (1992), Armando, Roma 2006, pp. 85, 89, 92-93.

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Indice delle parole chiave Abduzione, 301 Abitudine, 301 Alienazione, 37 Amore, 37 Analisi del linguaggio, 667; Analisi del significato, 749 Angoscia, 71, 563 Antepredicativo, 456 Apertura, 533 Apollineo, 211 Apparenza / Realtà, 301 Approccio delle capacità, 863 Archeologia, 787 Archetipi, 365 Aritmetica dei numeri transfiniti, 427 Aritmetizzazione dell’analisi, 427 Arte per l’arte, 334 Atomismo logico, 667 Atteggiamento naturale, 456 Atti mancati, 365 Attivismo pedagogico, 301 Atto / Atto intenzionale, 456; Atto puro, 334 Attualismo, 334 Beni primari, 863 Bioetica, 863 Burocrazia, 613 Capitale, 165 Capitalismo, 165 Circolo ermeneutico, 533 Compassione, 71 Complesso di Edipo, 365 Comprensione, 533 Comunismo, 165 Concetti puri, 334 Concezione materialistica della storia, 165 Concordanza, 667 Contesto della giustificazione, 817; Contesto della scoperta, 817 Contraddizioni, 667 Coscienza cosmica, 301 Credenza, 301 Criterio della falsificazione, 749 Cura, 533 Darwinismo sociale, 125 Decisione, 533 Decostruzione, 787 Demarcazione tra scienza e non scienza, 817 Democrazia a venire, 787 Deontologismo, 863 Destra, 37 Dialettica dei distinti, 334 Differance, 787 Dionisiaco, 211 Disaccordo di attitudini, 863; Disaccordo di credenze, 863 Discorso, 787, 863 Disincantamento del mondo, 613 Disperazione, 71 Disseminazione, 787 Doveri effettivi, 863; Doveri prima facie, 863 Durata, 267 Edificazione, 71 Egemonia, 613

Ego trascendentale, 456 Elettromagnetismo, 427 Emotivismo, 863 Ente intramondano, 533 Enten-Eller, 71 Entropia, 427 Enunciato dichiarativo, 667 Epochè, 456 Equazione tra arte, intuizione ed espressione, 334; Equazione tra azione, volizione e intenzione, 334 Equità, 863 Ermeneutica, 533 Es, 365 Esistenza, 71, 533, 563 Esistenziali, 533 Esperienza pura, 301 Essenza, 456 Esserci, 533 Esser-ci, 563 Essere, 533; Essere in-sé, 563; Essere per-sé, 563; Essere-nel-mondo, 533 Eterno ritorno, 211 Etica degli animali, 863; Etica dei principi, 613; Etica della disponibilità della vita, 863; Etica della natura o etica ambientale, 863; Etica della non-disponibilità della vita, 863; Etica della responsabilità, 613: Etica del rifiuto del mondo, 613; Etica di adattamento al mondo, 613; Etica normativa, 667 Etiche applicate, 863 Evoluzionismo, 125 Fallacia naturalistica, 667 Falsificazionismo, 817 Fatticità, 533 Fenomenismo, 749 Fenomenologia, 456 Filosofia analitica, 667; Filosofia dei valori, 267; Filosofia della vita, 267; Filosofia nuova, 37; Filosofia storica, 211; Filosofia teologizzante, 37 Fisica classica, 427; Fisica relativistica, 427; Fisica sociale, 125 Fisicalismo, 749 Formalismo, 427 Forme simboliche, 267 Forza-lavoro, 165 Funzione, 267 Genealogia, 211, 787 Geometrie non euclidee, 427 Giudizi analitici, 749; Giudizi sintetici, 749 Giuochi linguistici, 667 Idea, 71 Idolatria del fatto, 211 Illuminismo, 613 Inconscio, 365 Indagine, 301 Indeterminatezza della traduzione, 749 Individualismo, 211 Induzione, 125, 817 Intenzionalità, 456 Interpretante, 301

Interpretazione, 533; Interpretazione del sogno, 365 Intuizione, 267 Intuizionismo, 427, 667 Io, 365; Io profondo, 267; Io superficiale, 267 Irrazionalismo, 71 Lavoro estraniato o alienato, 165 Legge dei tre stadi, 125; Legge generale dell’evoluzione, 125 Leggi della società, 125 Liberalismo, 125 Liberazione, 71 Libertà, 563 Libido, 365 Lingua (langue), 787 Logica, 667 Logicismo, 427, 667 Logocentrismo, 787 Lotta di classe, 165 Marxismo, 613 Memoria, 267 Merce, 165 Metaetica, 667 Metafisica d’artista, 211 Metodo dell’equilibrio riflessivo, 863; Metodo delle libere associazioni, 365; Metodo dialettico, 613 Mezzi di produzione, 165 Microfisica del potere, 787 Mito, 37 Modo di produzione, 165 Mondo, 533; Mondo della vita, 456 Monismo assoluto, 334 Nascondimento, 533 Naturalismo, 863 Neocriticismo, 267 Nevrosi, 365 Nichilismo 37, 211 Noluntas, 71 Nulla, 563 Oblio, 211 Olismo, 749 Ontologia ermeneutica, 533; Ontologia fondamentale, 533 Orizzonte, 456 Ottimismo razionalistico, 211 Paradigma, 817 Paradosso, 71 Parola (parole), 787 Percezione, 267 Perturbazione, 37 Pessimismo, 71 Plusvalore, 165 Politeismo dei valori, 613 Positivo, 125 Posizione originaria, 863 Possibilità, 71, 563 Potere, 613 Pragmatismo / Pragmaticismo, 301 Prassi, 165, 334 Prescrittivismo, 863 Principio di piacere, 365; Principio di realtà, 365 ; Principio di relatività galileiano, 427;

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Principio di verificazione, 749 Proletariato, 165 Proposizioni atomiche, 667; Proposizioni molecolari, 667; Proposizioni protocollari, 749 Proprietà privata, 165 Prospettivismo, 211 Pseudoconcetti, 334 Psiche, 365 Psicoanalisi, 365 Psicologia sperimentale, 301 Psicopatologia, 365 Pulsione di morte, 365 Pulsioni, 365 Quanti e fisica quantistica, 427 «Questo logico», 37; «Questo reale», 37 Raffigurazione, 667 Rappresentazione, 71 Razionalità formale, 613; Razionalità materiale, 613 Razionalizzazione, 613 Reali, 37 Realismo scientifico, 817 Reificazione, 613 Religione positiva, 125 Reversibilità / Irreversibilità, 427 Riduzionismo, 749 Rimozione, 365 Risentimento, 211 Rivoluzione, 165 Rivoluzioni scientifiche, 817

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Rovesciamento, 37 Santità, 71 Scelta, 71, 613 Scienza normale, 817; Scienza straordinaria, 817 Scienze dello spirito, 267 Segni, 301 Selezione naturale, 125 Semiotica, 301 Sensibilità, 37 Senso, 533; Senso comune, 667; Senso di colpa, 211, 365 Sessualità infantile, 365 Significante, 787 Significatività, 533 Significato, 787 Simboli, 267 Sinistra, 37 Situazione emotiva, 533; Situazione-limite, 563 Slancio vitale, 267 Società calde, 787; Società fredde, 787 Sociologia delle religioni, 613 Soggettivazione, 787 Spirito, 334; Spirito del capitalismo, 613 Spiritualismo, 267 Stati di cose, 667 Stato etico, 334; Stato minimo, 863 Storia, 334 Storicismo, 267; Storicismo assoluto, 334

Storiografia, 334 Strumentalismo, 301; Strumentalismo scientifico, 817 Struttura / Sovrastruttura, 165 Sublimazione, 365 Super-Io, 365 Superuomo, 211 Tautologie, 667 Tecnica, 533 Tempo, 533; Tempo vissuto, 267 Teoria critica, 613; Teoria del significato, 301 Tradizione, 533 Transazione, 301 Trascendenza, 563 Unico, 37 Uniformità della natura, 125 Universalizzabilità, 863 Utilità, 301 Utilitarismo, 125; Utilitarismo delle preferenze, 863 Utopia, 613 Valore, 165; Valore intrinseco, 667; Valore strumentale, 667 Valori di fatto / Valori di diritto, 301 Varietà n-dimensionali, 427 Velo di ignoranza, 863 Vissuto, 456 Vitalità, 334 Volontà, 71; Volontà di potenza, 211

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Indice dei nomi I numeri in corsivo si riferiscono ai luoghi in cui un autore è trattato in modo più approfondito, con citazioni da opere o meno. ABBOT, Francis Ellingwood, 270 ADLER, Alfred, 350, 362 ADORNO, Theodor Ludwig Wiesengrund, 598, 599, 601, 603-606, 612, 613, 633 ALEMBERT, Jean-Baptiste Le Rond d’, 402 ALESSANDRO IL GRANDE, 14 ALTHUSSER, Louis, 771, 778 AMPÈRE, André-Marie, 408 ARDIGÒ, Roberto, 122, 124 ARENDT, Hannah, 481, 835-837, 862 ARISTOTELE, 11, 20, 180, 186, 327, 376, 477, 478, 516, 601, 602, 711, 713, 793, 794, 810, 820, 833, 902 ARON, Raymond Claude Ferdinand, 553 ASMUS, vedi CLAUDIUS, Matthias AUCOUTURIER, Marguerite, moglie di Jacques Derrida, 778 AUSTIN, John Langshaw, 683, 699, 778 AYER, Alfred Jules, 653, 660, 700, 720, 728, 824, 825-826, 828, 830, 832, 862 BACONE, Francesco (Francis Bacon), 94, 602, 793, 794, 795, 816, 817 BADOGLIO, Pietro, 308 BAKUNIN, Michail Aleksandrovicˇ, 34, 162 BALZAC, Honoré de, 597 BARTH, Karl, 545 BAUER, Bruno, 8, 12, 17-19, 22, 33, 36, 128, 134, 135, 136, 229 BAUMAN, Zygmunt, 895 BAXTER, Richard, 581 BENJAMIN, Walter, 598, 606-607, 612 BENTHAM, Jeremy, 101, 107, 108, 109, 121, 124, 832, 858, 870-871, 872, 875 BERENSON, Bernard, 173 BERG, Alban, 603 BERGSON, Henri-Louis, 8, 238, 254-265, 266, 267, 490, 541, 725 BERKELEY, George, 280, 637 BERLIN, Isaiah, 173-175, 176, 177 BERNARD, Claude, 120, 121, 124 BERNAYS, Martha, moglie di Sigmund Freud, 348 BERNOULLI, Daniel, 402 BERNSTEIN, Eduard, 566 BIBBIA, 68, 226, 849 BISMARCK, Otto Eduard Leopold von, 20 BLOCH, Ernst, 597 BOHR, Niels, 422, 424 BOLTZMANN, Ludwig, 406-407, 422 BOLYAI, János, 383, 384, 401, 426 BONAPARTE, Napoleone, 42, 174, 176, 208 BONOMI, Ivanoe, 308 BOOLE, George, 390-391, 401, 426 BOSSUET, Jacques-Bénigne, 173 BOURDIEU, Pierre, 778 BOUTROUX, Émile, 254 BRADLEY, Francis Herbert, 295, 300, 301, 318, 637, 646, 649 BRAHE, Thyco, 810

BRAIG, Carl, 481 BRANCATI, Vitaliano, 63 BRECHT, Bertolt (Eugen Berthold Friedrich), 606 BRENTANO, Franz, 431, 432, 440, 456, 481, 482 BRETON, André, 608 BREUER, Josef, 348, 350, 351-352 BROUWER, Luitzen Egbertus Jan, 398, 401, 426, 427, 661 BROWN, Robert, 422 BRUNO, Giordano, 305 BUCHARIN, Nikolaj, 588 BURCKARDT, Jacob, 182 BYRON, George Gordon, 63 CAMPANELLA, Tommaso, 305 CAMUS, Albert, 544, 553 CANTOR, Georg, 392, 393, 394, 398, 401, 426, 427 CARLO MAGNO, imperatore, 174, 176 CARLYLE, Thomas, 180, 223 CARNAP, Rudolf, 696, 709-710, 711, 714, 718, 720, 725, 728, 729-732, 733, 734, 741, 748, 749, 799, 807, 825, 830 CARNOT, Sadi, 404 CARR, Edward, 175-178 CARTESIO (René Descartes), 6, 25, 94, 191, 220, 221, 243, 255, 376, 442, 452, 455, 469, 477, 516, 525, 712, 752, 761, 772, 779, 782 CASSIRER, Ernst, 242-244, 266, 267, 680, 681-682, 684, 732 CATTANEO, Carlo, 122, 124 CHALMERS, David, 763 CHARCOT, Jean-Martin, 348, 350 CHIODI, Pietro, 554 CLAUDIUS, Matthias, 74, 75 CLAUSIUS, Rudolf, 404, 405, 406, 407, 427 COHEN, Hermann, 242, 243, 266 COLERIDGE, Samuel Taylor, 71 COLLI, Giorgio, 181, 184 COMTE, Auguste, 6, 90, 91-100, 104, 105, 116, 117, 120, 124, 125, 174, 238, 248, 566 COPERNICO, Niccolò (Niklas Koppernigk), 110, 346, 380 CORREGGIO (Antonio Allegri), 79 COULOMB, Charles-Augustin de, 408 CRISTO, vedi GESÙ DI NAZARETH CROCE, Alda, figlia di Benedetto, 307 CROCE, Benedetto, 248, 304-324, 325, 326, 328, 329, 330, 331, 333, 334, 336-340, 588, 589, 612, 613 CROCE, Elena, figlia di Benedetto, 307 CROCE, Giulio, figlio di Benedetto, 307 CROCE, Lidia, figlia di Benedetto, 307 CROCE, Silvia, figlia di Benedetto, 307 CUVIER, Georges, 111 DAHUBERT, Johannes, 432 DA PONTE, Lorenzo, 63

DARWIN, Charles, 6, 110-114, 115, 117, 124, 125, 270, 281, 346, 349 DARWIN, Erasmus, padre di Charles e importante intellettuale, 110 DAVIDSON, Donald, 743 DE BEAUVOIR, Simone, 544, 553 DEDEKIND, Richard, 384, 392-393, 394, 398, 401, 426 DE MARCO, Joseph P., 847 DEMOCRITO, 129 DE MORGAN, Augustus, 390, 401 DENNET, Daniel, 758-761 DERRIDA, Jacques, 477, 698, 777-786, 787 DE SANCTIS, Francesco, 304, 338 DESCARTES, René, vedi CARTESIO DEWEY, John, 270, 283-292, 300, 301, 890 DIDEROT, Denis, 376 DILTHEY, Wilhelm, 8, 180, 240, 245, 246, 247, 248, 249-252, 266, 267, 308, 476, 483, 486, 491, 496, 597, 704-706 DIRAC, Paul Adrien Maurice, 424 DISRAELI, Benjamin, primo ministro britannico, 891 DOSTOEVSKIJ, Fëdor Michajlovicˇ, 215, 483, 558 DROYSEN, Johann Gustav, 249, 250, 251 DUHEM, Pierre, 742, 804-805, 816 DÜHRING, Karl Eugen, 163 DUMMETT, Michael, 699, 714-716 DURKHEIM, Émile, 768 EBNER, Ferdinand, 688 EDDINGTON, sir Arthur Stanley, 421 EDWARDS, Paul, 645 EICHMANN, Karl Adolf, gerarca nazista, 835 EINSTEIN, Albert, 238, 254, 349, 380, 388, 399, 400, 402, 410-424, 426, 427, 631632, 634, 732, 806 EMERSON, Ralph Waldo, 180 EMPEDOCLE, 78 ENGELS, Friedrich, 129, 130, 137, 150-151, 158, 160, 162-163, 164-165, 167-172, 228, 566, 588, 593, 613 EPICURO, 129 ERACLITO, 454, 477 ERASMO DA ROTTERDAM (Geert Geertsz), 181 ERDMANN, Benno, 434, 462 ERODOTO, 883 ESCHILO, 187 EUCLIDE, 381, 382, 383, 384, 427 EULER, Leonhard, 402 EURIPIDE, 187, 188, 210 FARADAY, Michael, 408 FECHNER, Theodor, 122 FEIGL, Herbert, 720 FEUERBACH, Ludwig, 8, 11, 12, 22-32, 33, 36, 37, 128, 130, 133, 135, 138, 140, 141, 144, 145, 227, 228-229, 230, 232, 233, 326

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Indice dei nomi

FICHTE, Johann Gottlieb, 15, 30, 41, 42, 65, 147, 230, 239, 293, 294, 618 FISCHER, Kuno, 240, 245 FISKE, John, 270 FLIESS, Wilhelm, 353 FOOT, Philippa, 700, 833-834, 862 FÖRSTER, Friedrich Cristoph, 14 FOSCOLO, Ugo, 901 FOUCAULT, Jean Bernard Léon, 805 FOUCAULT, Michel, 477, 698, 770-777, 778, 780, 781, 783, 784, 786, 787 FOURIER, Charles, 150 FOX, Richard M., 847 FRANK, Philipp, 720 FRANKLIN, Benjamin, 570, 571, 572, 575 FREGE, Friedrich Ludwig Gottlob, 394-396, 397, 401, 426, 427, 435, 436, 441, 455, 482, 647, 648, 649, 654, 666, 667, 678, 679, 729 FRESNEL, Augustin-Jean, 815 FREUD, Sigmund, 6, 183, 346-362, 364, 365, 377, 568, 608, 609, 627-628, 631, 737, 778 FRITSCH, Theodor, deputato nazionalsocialista, 181, 182 FROMM, Erich, 598, 599, 600 GABLER, Georg Andreas, 17 GADAMER, Hans-Georg, 477, 478, 481, 526532, 533, 686-688, 699, 782 GALILEI, Galileo, 94, 110, 243, 411, 413, 414, 417, 418, 419, 427, 461 GALOIS, Évariste, 388, 390 GANS, Eduardo, 14 GAUSS, Carl Friedrich, 383, 384-385, 385, 386, 387, 392, 401, 426 GEIGER, Moritz, 432 GENGIS KHAN (Temüjin), 174 GENTILE, Giovanni, 304-307, 325-332, 333, 334, 588 GESÙ (IEHOSHUA) DI NAZARET, 10, 11, 17, 18, 33, 37, 226, 229, 233, 235, 264 GEYMONAT, Ludovico, 89 GIBBS, Josiah Willhard, 406 GIOLITTI, Giovanni, 307 GIOVANNI PAOLO II, papa, 848, 851 GLADSTONE, William Ewart, primo ministro britannico, 891 GÖDEL, Kurt, 399, 400-401, 426 GOETHE, Johann Wolfgang, 34, 41, 42, 70, 252 GOODMAN, Nelson, 800, 801, 816 GÖSCHEL, Karl Friedrich, 17 GRAMSCI, Antonio, 567, 587, 588-592, 593, 604, 612, 613 GREEN, Thomas Hill, 293-295, 296, 300, 301, 318, 637, 643 GRELLING, Kurt, 720 GRIMM, fratelli (Jacob e Wilhelm), 42 GROSSMANN, Heinryk, 598 GROSSMANN, Marcel, 419 GURVITSCH, Aron, 433 HABERMAS, Jürgen, 526, 598, 699, 784, 843844, 862, 863, 889 HÄCKEL, Ernst, 121, 124, 459, 460, 462 HÄGESTRÖM, Axel, 825 HAHN, Hans, 720, 723, 725 HALDANE, John Scott, 627 HAMILTON, William Rowan, 390 HANSON, Norwood Russell, 810-811, 816 HARE, Richard Mervyn, 700, 829-832, 863, 876-877

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HARSANYI, John Charles, 879 HARTMANN, Nicolai, 431 HEAVISIDE, Oliver, 409 HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich, 6, 7, 9-12, 14-15, 16, 17, 18, 19, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 30, 33, 36, 37, 41, 42, 61, 65, 66, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 136, 137, 138, 140, 141, 145, 146, 147, 148, 153, 173, 175, 176, 177, 189, 191, 226, 227, 230, 239, 251, 293, 296, 298, 304, 307, 311, 313, 314, 315, 316, 317, 320, 326, 327, 328, 329, 330, 334, 336, 338, 339, 340, 483, 528, 568, 586, 587, 593, 598, 599, 605, 612, 650, 698, 704, 713, 771, 778, 893 HEIDEGGER, Martin, 9, 180, 219, 220, 431, 433, 451, 476-526, 527, 529, 530, 532, 533, 535-542, 544, 545, 546, 548, 553, 554, 562, 563, 597, 608, 684-686, 688, 696, 698, 710-714, 771, 778, 779, 781, 782, 786, 835 HEINE, Christian Johann Heinrich, 129 HEISENBERG, Werner Karl, 422, 424 HELMHOLTZ, Hermann von, 240, 242, 244, 266 HEMPEL, Carl Gustav, 720, 800, 816 HERBART, Johann Friedrich, 15, 36, 37, 239, 281, 296, 304, 305 HERDER, Johann Gottfried, 74, 252 HERING, Jean, 432 HERTZ, Heinrich, 243, 244, 409 HESS, Moses, 129 HILBERT, David, 399-400, 401, 426, 427, 732 HITLER, Adolph, 174, 242, 348, 411, 419, 422, 478, 479, 593, 608 HOBBES, Thomas, 752, 840 HOLBACH, Paul-Henri Thiry, barone d’ (Paul Heinrich Dietrich), 129 HÖLDERLIN, Friedrich, 517, 518, 519 HOLMES, Oliver Wendell Jr., 270 HONNETH, Axel, 889 HORKHEIMER, Max, 598, 599-603, 604, 606, 608, 612, 613, 632-634 HUMBOLDT, Wilhelm von, 110 HUME, David, 42, 103, 281, 293, 295, 416, 459, 642, 651, 659, 728, 796, 797, 798, 816, 825, 829, 833, 834, 865, 868 HUSSERL, Edmund, 430-456, 458-467, 476, 478, 479, 481, 482, 483, 485, 486, 487, 488, 490, 496, 526, 533, 535, 536, 537, 540, 541, 545, 546, 553, 554, 559, 560, 630-631, 634, 696, 699, 710, 725, 778, 779 HUXLEY, Thomas Henry, 120, 280 HUYGENS, Christiaan, 805 HYPPOLITE, Jean, 771, 778 INGARDEN, Roman Witold, 432 JAIA, Donato, 304, 325 JAKOBSON, Roman, 766, 768 JAMES, Henry, padre di William e Henry Jr., 277 JAMES, Henry Jr., scrittore, 277 JAMES, William, 113, 270, 271, 273, 277-282, 283, 284, 285, 300, 301, 890, 891 JASPERS, Karl, 479, 517, 526, 544, 545-551, 552, 555, 562, 563, 568, 597, 628-630, 634, 835 JONAS, Hans, 481, 896-898, 900 JORDAN, Camille, 388 JOULE, James Prescott, 404 JUNG, Carl Gustav, 357, 362, 364, 365

KAFKA, Franz, 176 KANT, Immanuel, 8, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 52, 56, 57, 70, 77, 102, 117, 192, 195, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 248, 249, 262, 263, 266, 267, 293, 295, 296, 304, 326, 327, 354, 386, 399, 438, 459, 465, 477, 516, 582, 599, 638, 643, 681, 700, 701, 715, 722, 723, 773, 780, 782, 787, 823, 831, 839, 840, 897 KARCEVSKY, Serge, 766 KAUTSKY, Karl, 566 KELVIN, Lord, vedi THOMSON, William KENLSEN, Hans, 720 KEPLERO (Johannes Kepler), 380, 810 KEYNES, John Maynard, 902 KIERKEGAARD, Søren Aabye, 7, 8, 9-12, 23, 40, 59-71, 181, 483, 544, 545, 562, 597, 704 KINK, Eugen, 433 KLEIN, Felix, 388 KLOPSTOCK, Friedrich Gottlieb, 74 KORSCH, Karl, 597 KOYRÉ, Alexander, 432 KRAFT, Victor, 720 KUHN, Thomas, 697, 792, 808-812, 816, 817 KÜLPE, Oswald, 430 KUN, Béla, 593 LABRIOLA, Antonio, 304, 305, 307, 308, 309, 587, 612 LA BRUYÈRE, Jean de, 214 LAFFITTE, Pierre, 120 LA FONTAINE, Jean de, 833 LAGRANGE, Joseph-Louis, 402, 403 LAMARCK, Jean-Baptiste, 111, 115, 117 LAMBERT, Johann Heinrich, 383 LANDGREBE, Ludwig, 434 LANGE, Friedrich Albert, 240, 242, 266 LAPLACE, Pierre-Simon de, 403 LA ROCHEFOUCAULD, François de, 181, 214 LASCH, Christopher, 893 LA VERGATA, Antonello, 113 LAVOISIER, Antoine-Laurent de, 461 LE BON, Gustave, 629 LECALDANO, Eugenio, 851 LEGENDRE, Adrien-Marie, 383 LEIBNIZ, Gottfried Wilhelm von, 6, 98, 195, 243, 387, 391, 712, 752 LEITER, Brian, 221, 222-224 LENIN, Nikolaj (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 590, 592 LEOPOLD, Aldo, 859 LESSING, Gotthold Ephraim, 17, 129, 227 LÉVINAS, Emmanuel, 431, 433, 477 LÉVI-STRAUSS, Claude, 698, 767-770, 786, 787 LIE, Sophus, 388, 389 LIEBERT, Arthur, 449 LIEBKNECHT, Karl, 608 LIEBMANN, Otto, 239 LIPPS, Theodor, 434, 462 LITTRÉ, Émile, 120 LOBACˇ EVSKIJ, Nicolaj Ivanovicˇ, 383, 384, 388, 389, 401, 426 LOCKE, John, 281, 840 LOMBROSO, Cesare, 122, 124 LORENTZ, Hendrik Antoon, 415, 416, 417 LOTZE, Rudolf Hermann, 199, 245, 246, 249, 482, 486 LÖWITH, Karl, 9-12, 433, 481 LUCAS LUCAS, Ramón, 856 LUHMANN, Niklas, 905 LUKÁCS, György, 567, 568, 592-597, 599, 604, 606, 608, 612, 613

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Indice dei nomi

LUPORINI, Cesare, 181 LUTERO, Martin, 226, 574 LUXEMBURG, Rosa, 566, 608 LYELL, Charles, 115 MACH, Ernst, 416, 720, 725, 729 MACHIAVELLI, Niccolò, 309, 310, 317, 568, 592 MACTAGGART, John E., 637, 646 MAINE DE BIRAN, François-Pierre, 254 MALTHUS, Thomas Robert, 105, 111 MARCEL, Gabriel, 552, 562 MARCO AURELIO, imperatore, 180 MARCUSE, Herbert, 598, 599, 600, 608-610, 612, 613 MARIC´, Mileva, moglie di Albert Einstein, 411 MARX, Karl Heinrich, 7, 9-12, 20, 26, 33, 128-172, 173, 176, 177, 199, 230-231, 232, 233, 238, 242, 266, 309, 326, 334, 346, 560, 566, 567, 568, 570, 581, 586, 587, 593, 594, 595, 598, 608, 613, 633, 704, 778 MATTEO, evangelista, 235 MATTEOTTI, Giacomo, 306 MAUSS, Marcel, 768 MAUTHNER, Fritz, 680, 681 MAXWELL, James Clerk, 380, 404, 406, 407, 409, 410, 411, 412, 413, 414, 415, 421, 426, 427, 809, 815 MAYER, Frederich, 41, 42 MEINECKE, Friedrich, 252 MERLEAU-PONTY, Maurice, 431, 553, 559560, 562, 771 MICHELET, Karl Ludwig, 14 MICHELSON, Albert Abraham, 414 MILL, James, 101, 121, 124, 281 MILL, John Stuart, 100-109, 119, 121, 124, 125, 238, 246, 248, 434, 462, 643, 832, 870-871, 872 MINKOWSKI, Hermann, 417, 420 MIRABEAU, Honoré Gabriel Riqueti, conte di, 216 MISES, Ludwig von, 720 MITTERRAND, François, presidente della repubblica francese, 771 MOLESCHOTT, Jakob, 121, 124 MOLIÈRE (Jean-Baptiste Poquelin), 63 MONTAIGNE, Michel Eyquem de, 180, 181 MONTESQUIEU, Charles-Louis de Secondat barone di, 6 MONTINARI, Mazzino, 181, 184 MOORE, George Edward, 636, 637-645, 646, 650, 651, 652, 654, 655, 666, 667, 698, 700, 718, 735, 820, 821, 822, 823, 824, 825, 832, 862, 873-874, 875, 877 MORGAN, Lewis Henry, 162 MORLEY, Edward Williams, 415 MORRIS, Charles, 733 MORRIS, George Sylvester, 283 MOUNIER, Emmanuel, 561, 562 MOZART, Wolfgang Amadeus, 63, 536 MUSSOLINI, Benito, 306, 479 NAGEL, Thomas, 761-764 NAGY, Imre, primo ministro ungherese, 593 NAPOLEONE, vedi BONAPARTE, Napoleone NATORP, Paul, 242, 243, 266, 481, 526 NEGT, Oskar, 598 NEUBURGER, Louise, moglie di Henri Bergson, 254 NEUMANN, Franz, 598 NEUMANN, John von, 399 NEURATH, Otto, 718, 720, 725, 729, 733-735, 742, 744, 745, 748

NEWTON, Isaac, 381, 386, 387, 391, 402, 410, 411, 413, 414, 416, 418, 419, 421, 426, 427, 805, 809 NIETZSCHE, Elisabeth, sorella di Friedrich, 182, 183, 184 NIETZSCHE, Friedrich Wilhelm, 7, 8, 40, 70, 120, 180-211, 213-224, 226, 227, 231233, 234, 236, 240, 245, 252, 266, 346, 430, 476, 477, 483, 525, 568, 582, 584, 597, 629, 698, 704, 771, 775, 776, 778, 781, 783, 786, 787 NOZICK, Robert, 844-845, 862, 863 NUDI, Erminia, moglie di Giovanni Gentile, 325 NUSSBAUM, Martha, 842, 862, 863 OERSTED, Hans Christian, 408 OLSEN, Regine, fidanzata di Søren Kierkegaard, 60, 61 OMERO, 185 OSTWALD, Wilhelm, 459, 460, 462 OVERBECK, Franz, 182, 183 OWEN, Robert, 150 PANTALEONI, Maffeo, 309 PAPINI, Giovanni, 256, 279 PARETO, Vilfredo, 309 PARMENIDE, 221, 477, 782 PARRINI, Paolo, 724 PASCAL, Blaise, 181, 214 PEACOCK, George, 390, 401 PEANO, Giuseppe, 400, 646, 647 PEIRCE, Benjamin, 271 PEIRCE, Charles Sanders, 270, 271-277, 278, 283, 287, 300, 301 PESTALOZZI, Johann Heinrich, 15 PETRI, Elfride, moglie di Martin Heidegger, 481 PFÄNDER, Alexander, 432 PLANCK, Erwin, figlio di Max, 422 PLANCK, Max Karl Ernst, 412, 421-423, 426, 725, 732 PLATONE, 42, 46, 48, 175, 176, 188, 195, 242, 327, 477, 479, 524, 526, 528, 576, 582, 601, 602, 634, 666, 704, 715, 779, 781, 782, 787, 891 POINCARÉ, Henri, 387-389, 397, 398, 401, 416, 720, 732 POLLOCK, Friedrich, 598 POPE, Alexander, 181 POPPER, Karl Raimund, 175, 176, 349, 350, 605, 697, 719, 720, 736-740, 748, 749, 794, 801-804, 806, 807, 816, 817 POTTER, Van Rensselaer, 847, 899 PREZZOLINI, Giuseppe, 279 PRICHARD, Harold Arthur, 820, 821, 862 PROCLO, 383 PROUST, Marcel, 254, 260 PUTNAM, Hilary, 697, 699, 719, 735, 736, 745-746, 748, 867-868 QUINE, Willard Van Orman, 697, 719, 735, 736, 740-745, 748, 749, 804, 806, 816 RAFFAELLO SANZIO, 79 RAMSEY, Frank Plumpton, 661 RANKE, Leopold von, 249 RATZINGER, Joseph, cardinale (poi papa Benedetto XVI), 848 RAVAISSON, Felix, 254 RAWLS, John, 700, 701, 837-843, 844, 845, 862, 863, 875-878, 879 REGAN, Tom, 857-858, REICHENBACH, Hans, 696, 718, 720, 728, 729, 732-733, 748, 799, 825

REINACH, Adolf Bernhard, 432 RENAN, Joseph Ernest, 120, 124, 223 RICARDO, David, 105, 121, 134, 137, 155, 566 RICKERT, Heinrich, 246-247, 248, 252, 266, 481, 482, 486, 535, 583 RICOEUR, Paul, 346, 477 RIEMANN, Georg Friedrich Bernhard, 384, 385, 386, 387-388, 401, 420, 426, 427 RILKE, Rainer Maria, 183, 483 RITSCHL, Friedrich, 182, 183, 187 ROBESPIERRE, Maximilien de, 321 ROOSEVELT, Franklin Delano, 348 RORTY, Richard, 699, 890, 891-893 ROSENKRANZ, Karl, 240 ROSS, Alf, 825, 839, 862, 863 ROSS, William David, 700, 820-824, 874-875 ROSSI, Adele, moglie di Benedetto Croce, 307 ROSSI, Paolo, 375-377 ROSSI, Pietro, 569 ROUSSEAU, Jean-Jacques, 129, 840 RUGE, Arnold, 8, 11, 12, 19-21, 36 RUSSELL, Bertrand Arthur William, 394, 395397, 400, 401, 426, 427, 626-627, 628, 631, 634, 636, 637, 645-653, 654, 655, 657, 660, 666, 667, 669, 670, 671, 672, 679, 696, 697, 698, 718, 720, 721, 722, 723, 726, 729, 731, 733, 735, 741, 748, 795, 825 RUSSELL, Lord John, nonno di Bertrand, 646 SACCHERI, Girolamo, 383 SAINT-SIMON, Claude-Henri de Rouvroy, conte di, 90, 91, 120, 124, 566 SALOMÈ, Lou, 183 SARTRE, Jean-Paul, 431, 477, 544, 552-559, 560, 562, 563, 768 SAUSSURE, Ferdinad de, 277, 766-767, 774, 786, 787 SAY, Jean-Baptiste, 137 SCARPELLI, Uberto, 849, 854, 865-866 SCHELER, Max, 431, 432 SCHELLING, Friedrich Wilhelm Joseph von, 60, 61, 239, 483, 597 SCHILLER, Ferdinand C.S., 279 SCHLEGEL, Karl Wilhelm Friedrich, 42 SCHLEIERMACHER, Friedrich Daniel Ernst, 18, 42, 251 SCHLICK, Moritz, 654, 661, 718, 720, 724, 725-728, 733, 734, 735, 748, 749 SCHÖNBERG, Arnold, compositore, 603, 606 SCHOPENHAUER, Arthur, 8, 23, 40-59, 70, 71, 73-80, 180, 183, 184, 185, 186, 189, 191, 192, 193, 210, 239, 430, 597 SCHOPENHAUER, Heinrich Floris, padre di Arthur, 42 SCHRÖDINGER, Erwin Rudol, 422, 424 SCHULZE, Gottlob Ernst, 41, 42 SCHÜTZ, Alfred, 433, 452 SEARLE, John Rogers, 683, 756-758, 759, 760, 761, 763, 778 SEN, Amartya, 842, 862, 863, 878-879 SIDGWICK, Henry, 871-872 SIGWHART, Christoph, 434, 462 SIMMEL, Georg, 252, 266 SINGER, Peter, 858 SMITH, Adam, 105, 134, 137, 155, 566 SOCRATE, 187, 188, 195, 264, 582, 727, 871 SOFOCLE, 187, 353 SOMBART, Werner, 567 SOMMERFELD, Arnold Johannes Wilhelm, 419 SPAVENTA, Bertrando, 304-305, 307, 325, 326, 327

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Indice dei nomi

SPAVENTA, Silvio, 307 SPENCER, Herbert, 6, 92, 110, 114-120, 122, 124, 125, 238, 255, 270, 280, 281, 566, 642 SPENGLER, Oswald, 173, 253, 266, 597 SPINOZA, Baruch, 376, 752 ST. JOHN GREEN, Nicholas, 270 STALIN (Josif Vissarionovicˇ Dzˇugasˇvili), 174, 176 STEIN, Edith (Teresa Benedetta della Croce), 432 STEINSCHNEIDER, Malvine, moglie di Edmund Husserl, 431 STEVENSON, Charles Leslie, 700, 824, 826829, 830, 832, 862, 863 STIRNER, Max (Johann Kaspar Schmidt), 8, 12, 32-34, 36, 37, 230 STRAUSS, David Friedrich, 16, 17-18, 19, 22, 36, 37, 227, 230 STUMPF, Carl, 430, 431, 432, 434 TAINE, Hyppolite, 120, 124 TARSKI, Alfred, 733 TAYLOR, Harriet, 105 TAYLOR, Paul Warren 859 THOMSON, William, Lord Kelvin, 404, 405, 407 TIRSO DE MOLINA (Gabriel Téllez), 63 TOCQUEVILLE, Alexis Henri Charles de Clérel, visconte di, 903 TOGLIATTI, Palmiro, 588

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TOLOMEO, Claudio, 383, 810 TOLSTOJ, Lev Nikolaevicˇ, 180, 619 TOMMASO D’AQUINO, 848 TÖNNIES, Ferdinand, 567 TRAKL, Georg, 483 TRECCANI, Giovanni, editore, 306 TROELTSCH, Ernst, 252 TROSIENER, Johanna Henriette, madre di Arthur Schopenhauer, 42 TRUBETZKOY, Nikolai, 766 TURING, Alan M., 754-756, 757 UNAMUNO, Miguel de, 279 VAIHINGER, Hans, 240, 279 VAN BREDA, Herman Leo (Leo Marie Karel), 434 VAN FRAASSEN, Bas (Bastiaan) Cornelis, 791, 813-815 VATTIMO, Gianni, 219-222 VAUX, Clotilde de, amata da Auguste Comte, 91 VICO, Giambattista, 6, 305, 307, 317, 326, 334 VILLARI, Pasquale, 308 VOGT, Karl, 121, 124 VOLTA, Alessandro, 408 VOLTAIRE (François-Marie Arouet), 6, 129, 193, 645 WAGNER, Richard, 182, 183, 184, 186, 188, 191, 210

WAHL, Jean, 544 WAISMANN, Friedrich, 661, 720 WARNER, Joseph Bangs, 270 WEBER, Ernst Heinrich, 121 WEBER, Max (Maximilian Carl Emil), 233236, 247, 567-586, 593, 597, 598, 612, 613, 615-620, 897 WEIERSTRASS, Karl, 392, 394, 401, 432 WESTPHALEN, Jenny von, moglie di Karl Marx, 129 WHITEHEAD, Alfred North, 394, 396, 427, 648, 720, 729, 741, 748 WIELAND, Christoph, 42 WILAMOWITZ-MOELLEDORF, Ulrich von, 183 WINDELBAND, Wilhelm, 241, 245-246, 247, 248, 251, 266, 535 WITTFOGEL, Karl August, 598 WITTGENSTEIN, Ludwig, 636, 637, 646, 649, 654-664, 666, 667, 669-676, 678-679, 680, 682-684, 685, 688, 696, 697, 698, 700, 706-708, 709, 710, 714, 715, 720, 721, 722, 723, 726, 727, 735, 729, 730, 731, 749, 752-754, 866 WITTGENSTEIN, Paul, pianista, fratello di Ludwig, 654 WRIGHT, Chauncey, 270 WUNDT, Wilhelm Maximilian, 122, 277, 301, 430, 434, 462 ZELLER, Eduard, 239