Le grandi domande della filosofia 3206126518

I quesiti semplici ma profondi che hanno turbato l'uomo fin dalle origini

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Le grandi domande della filosofia
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LE GRANDI

Filosofia

LE GRANDI DOMANDE DELLA

DOMANDE DELLA

La storia del pensiero umano spiegata in modo nuovo, originale e semplice

Com’è nato l’universo?

Dio esiste?

Galileo Galilei

Agostino

Isaac Newton

Che cos’è il tempo?

Platone

Che cos’è l’amore?

A che cosa serve la filosofia? Come

La verità può essere conosciuta? Sigmund Freud

Che cosa sono il pensiero, l’anima e la coscienza?

Sono davvero libero? Che cosa ci aspetta dopo la morte?

Esiste la felicità?

ragionare in modo corretto?

Perché esistono il male e il dolore?

Sono buono o cattivo? Che cos’è la bellezza?

Chi decide il bene e il male? Karl

Marx

Possiamo creare una società giusta e pacifica?

I QUESITI SEMPLICI MA PROFONDI CHE HANNO TURBATO L’UOMO FIN DALLE ORIGINI

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Quelle domande senza tempo N

on si sa con certezza né come né dove sia nata la filosofia, ma sappiamo a quando risalgono i primi pensatori a noi noti: erano esponenti del mondo greco che, a partire dal VII secolo a.C., iniziarono a disquisire sulle origini del mondo. Due secoli dopo, l’attenzione si spostò dalla natura all’uomo e fiorì la scuola di Atene che ebbe per massimi esponenti Socrate, Platone e Aristotele. Gli ultimi due rimasero al centro della speculazione intellettuale per oltre duemila anni, tanto che, si dice, «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone». Il crollo dell’Impero Romano coincise con la diffusione del cristianesimo, che spostò l’attenzione verso Dio e il suo rapporto con l’uomo. A partire dall’anno Mille, la filosofia scolastica, di cui Tommaso d’Aquino fu il massimo esponente, indagò il rapporto tra fede e ragione, finché esse presero strade diverse, generando una gli studi metafisici, l’altra la teologia: dal punto di vista intellettuale, era la fine del Medioevo. Il Rinascimento abbandonò la pura speculazione teologica, aiutata in questo dal recupero in lingua originale dei classici del pensiero greco, che diedero nuova linfa alla logica e alle scienze matematiche, gettando le basi per il balzo che si produsse tra Sei e Settecento: Galilei, Cartesio e Newton, supportati dalle evidenze astronomiche che spostavano il centro dell’universo dalla Terra al Sole, partorirono il metodo scientifico. La scienza si emancipò dalla filosofia, che assunse caratteri più materialistici. L’empirismo anglosassone di Hobbes, Locke e Hume si impegnò su temi concreti, come la mediazione tra gli egoismi umani e la pace sociale. Kant ritornò perentoriamente sulla questione etica, che con l’Età dei Lumi divenne un’esigenza epocale, contribuendo a fomentare la Rivoluzione francese per sete di libertà e raziocinio. Il periodo successivo, fino alla metà del Novecento, fu condizionato dal contrasto fra l’idealismo di Hegel e il materialismo di Marx, che segnò il momento di più stretta aderenza tra la filosofia e i problemi sociali. Impossibile condensare i travagli della filosofia nell’ultimo mezzo secolo, scossa alle fondamenta dai nuovi assiomi della fisica quantistica e da una conoscenza della natura continuamente arricchita e rivoluzionata. Ma, nonostante tutto, le domande dell’uomo restano sempre le stesse, i semplici ma fondamentali quesiti che ogni essere umano si pone fin dall’alba dei tempi.

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Le ambizioni di espansione degli italiani nel mondo

La storia e i grandi personaggi della frontiera americana

La storia e la vita di uno dei corpi militari italiani più famosi

La città santa di tre religioni attraverso i millenni

Un salto nel tempo per rivivere il mondo degli antichi romani

Gli incontri di grandi uomini con donne speciali

Un pellegrinaggio magico, da conoscere passo dopo passo

Un corpo militare che è prima di tutto una fede, un ideale

La storia fatta da uomini unici e imprescindibili

Una stagione dell’arte italiana fantastica e irripetibile

Il destino li ha messi su un trono: vite chiacchierate e invidiabili

Uomini e donne di ogni epoca, segnati da un grande destino

Le terrorizzanti invasioni che hanno creato l’Europa

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Sommario le grandi domande della filosofia

A che cosa serve la filosofia?6

Come ragionare in modo corretto?

La verità può essere conosciuta? Sono davvero libero?

12 20 28

L’uomo è buono o cattivo?36

Com’è nato l’universo?76 Qual è il mio posto nella natura?

Che cos’è il tempo? Dio esiste?

86 92 100

Fede e ragione sono nemiche?

110

Che cos’è la bellezza?44

Che cosa sono il pensiero, l’anima e la coscienza? 

118

Che cos’è l’amore?

Che cosa ci aspetta dopo la morte?

124

Esiste la felicità?54 60

Possiamo creare una società giusta e pacifica?  66

Testi di

Luigi Lo Forti

L’ARTE CELEBRA IL LIBERO PENSIERO Dal Rinascimento in avanti, i pittori ritrassero volentieri i protagonisti della filosofia di ogni tempo. Con la fine del Medioevo, il pensiero si era emancipato dalla fede, e pittori e scultori di tutta Europa celebravano la ritrovata libertà, spesso ritraendo il momento della disputa tra spiriti eccelsi, come fa questa tela olandese del 1580 ca.

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la filosofia? a che cosa serve

Riflettere sul mondo, sulla realtà delle cose e sulle loro possibili cause: non è un talento riservato a pochi, ma una capacità che tutti noi possiamo, anzi dobbiamo esercitare

I

n un’epoca in cui la tecnologia riveste un ruolo così preponderante e decisivo in tutti gli aspetti della vita e in cui l’evoluzione scientifica appare tanto veloce da farci pensare che presto potremmo giungere a una conoscenza del mondo pressoché completa, “fare filosofia” può apparire un’attività oziosa. Un lusso riservato a chi può permettersi di dedicare il proprio tempo a qualcosa che non ha, dopotutto, alcuna utilità pratica. Questo giudizio nasce da un equivoco, quello di immaginare il filosofo come un pensatore chiuso nella proverbiale “torre d’avorio”, intento a porsi domande e fornire risposte che risulteranno comunque irrilevanti per chiunque non sia interessato al sapere in quanto tale. In realtà, chiedersi a che cosa possa mai servire la filosofia significa, di fatto, domandarsi quale utilità abbia cercare di capire il mondo, noi stessi e gli altri.

L’utilità del pensiero

Intesa come disciplina, la filosofia, ovvero l’esercizio della ricerca intellettuale del sapere, ci aiuta a pensare meglio. Fare filosofia, ”

IL MESTIERE DI UOMINI Quello del filosofo è un atteggiamento rispetto al mondo e alla vita in generale. Nell’opera Il filosofo in meditazione, del 1632, Rembrandt pone il suo pensatore al centro della luce solare che invade la stanza. Alla sua sinistra, una bella scala elicoidale conduce in alto, alludendo alle verità superiori, colte attraverso la meditazione.

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A che cosa serve la filosofia?

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A che cosa serve la filosofia? come scopriremo di pagina in pagina, significa sviluppare un sistema di pensiero razionale in grado di produrre conclusioni coerenti con le premesse iniziali e di pervenire, finalmente, a una spiegazione o a una visione della realtà. I meccanismi e le strategie messe in atto in questo tipo d'indagine hanno carattere universale: possono essere usate in qualunque ambito per giungere a conclusioni efficaci. Esercitare e studiare la filosofia ci consente anche di scegliere gli ideali e la visione del mondo che meglio si accordino con la nostra sensibilità intellettuale. Un

« Ogni filosofo dev ' essere

la cattiva coscienza

della propria epoca.» 

FRIEDRICH NIETZSCHE

obiettivo, questo, raggiungibile solo ragionando intensamente e rigorosamente sui dati della realtà, mettendo alla prova le idee in cui crediamo o che incontriamo nel corso della nostra ricerca. Ma c'è di pù. L’atteggiamento filosofico di estrema umiltà, che discende direttamente dall’insegnamento socratico (fondato sulla constatazione di “sapere di non sapere”), ci impone di continuare a studiare, di porre domande anche scomode e di non accettare mai nulla per scontato. Ci insegna a non accontentarsi mai, di nessuna risposta, perché esiste sempre qualcosa di più alto, di più profondo, di più chiarificatore.

I filosofi possono ancora fare la differenza

Q

uando pensiamo alla filosofia, siamo istintivamente portati a pensare che si tratti di un percorso concluso, e che oggi chi se ne occupa sia impegnato solo a studiare e commentare i grandi pensatori del passato. In realtà, come fa notare la filosofa Rebecca Newberger Goldstein, attualmente esistono e si stanno sviluppando nuove linee di pensiero originali e capaci di aggiungere nuove idee e nuove prospettive. Per esempio, negli ultimi trent’anni il movimento animalista è diventato sempre più forte e influente in tutto il mondo occidentale: pochi sanno che uno dei suoi iniziatori è stato proprio un filosofo, l’australiano Peter Singer, che, nel 1975, nel libro Liberazione animale, richiamava l’attenzione sulla sofferenza inflitta alle bestie dall’uomo, coniando per questo comportamento il termine “specismo”. Un altro campo in cui sempre più spesso la voce dei filosofi moderni si fa sentire è quello dello studio dell’intelligenza artificiale, settore in cui il progresso scientifico ha raggiunto un livello tale da porre problemi che vanno al di là della tecnica e richiedono una

riflessione sull’intelligenza, sull’identità umana e sul futuro dell’umanità. John Searle, per esempio, ritiene che un computer non potrà mai sviluppare una mente simile a quella umana attraverso un programma, come invece preconizzano i sostenitori dell’avvento della cosiddetta “intelligenza artificiale forte”, che sarà in grado di ragionare autonomamente e dotata di autocritica. Il compito dei filosofi di oggi, dunque, sembra essere quello di contribuire alla comprensione della realtà mentre essa cambia e si evolve, introducendo allo stesso tempo nuove prospettive e indicando la via dei possibili sviluppi.

I problemi da risolvere

Un simile atteggiamento ci consente di non cadere vittime di pregiudizi intellettuali, e in più ci offre la possibilità di esercitare un’azione di controllo sulla società in cui viviamo. Come disse il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, «gli uomini che creano il potere offrono senz’altro un indispensabile contributo alla grandezza di un Paese, ma quelli che mettono in discussione il potere non sono da meno, soprattutto quando il loro agire è disinteressato; perché sono loro che rivelano se siamo noi a usare il potere oppure se è il potere che usa noi». Non è del resto un caso se proprio Socrate (470-399 a.C.), che si definiva un “tafano” che continuava a infastidire gli altri con le sue domande insistenti, fu condannato a morte dalle autorità dell’epoca. Possiamo applicare il pensiero filosofico a tutti

LA SFIDA DEL XXI SECOLO Il rapporto tra mente umana e intelligenza artificiale sta diventando oggetto di indagine filosofica: il computer diventerà davvero più intelligente dell’uomo? Non è così che la pensa John Searle (a destra).

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« Ci si ciba di slogan pubblicitari, ci si accontenta di modeste

evidenze. Sono, invece, le grandi

e ultime domande a mettere in moto l’anima e a dare senso alla vita.» 

MONSIGNOR GIANFRANCO RAVASI

gli aspetti della nostra vita: quelle che offre non sono, infatti, competenze specifiche o settoriali, ma un metodo efficace per affrontare le difficoltà e i dubbi, piccoli e grandi, che sicuramente incontreremo nel corso della nostra esistenza. In generale, la filosofia può venire in soccorso ogni volta che ci confrontiamo con qualcosa di inedito, una situazione o un problema per il quale le risposte che abbiamo già ricevuto e i paradigmi che abbiamo applicato fino ad ora si dimostrino insufficienti o inapplicabili. Questo vale tanto per le situazioni contingenti (un nuovo lavoro, una malattia, un lutto, un nuovo amore), quanto per le “grandi domande”. In effetti, questo volume è dedicato proprio a loro, i quesiti a cui, prima o poi, tutti quanti siamo chiamati a rispondere. Chi sono io? Perché sono nato? Esiste Dio? Che cosa c’è dopo la morte? Dilemmi vertiginosi, che affrontiamo fin da ragazzi e poi, perlopiù, dimentichiamo, fingendo con noi stessi che siano irresolubili. Un filosofo non è un genio dalla mente eccezionale, ma un uomo che, a differenza di altri, si ostina a indagare i temi più fondamentali e critici dell’esistenza. Se proviamo a rispondere a questo tipo di quesiti ci accorgiamo che occorrono strumenti adatti a maneggiare i concetti e le idee. La filosofia è una fucina di “attrezzi del pensiero”, sempre più arricchitasi attraverso i secoli. Un sistema capace di offrire i mezzi intellettuali per progredire in una ricerca intellettuale che, a volte, è destinata a rivelarsi più importante della risposta a cui approda. «Conosco le domande, e conosco le risposte» esclama uno dei protagonisti del romanzo In principio, del premio Nobel Chaim Potok, per poi dichiarare: «Preferisco le domande». Chi fa filosofia arriva spesso alla medesima conclusione, senza per questo sentirsi deluso o frustrato, ma anzi arricchito, più lucido e più consapevole. Nonostante molti pensino esattamente il contrario, la filosofia può rivelarsi più utile che mai non solo per i singoli individui, ma per la società intera. A patto, come abbiamo detto, che non ci si aspetti che essa produca ” 9

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degli effetti immediati, pratici e concreti. Il suo campo d’azione è la speculazione intellettuale, che dà profondità, indirizzo e scopo allo sviluppo delle altre attività umane. Fino a pochi decenni fa, la nostra società era ancora immersa negli effetti economici, politici e sociali della Rivoluzione industriale del XIX secolo: la fine del cosiddetto “secolo breve”, il Novecento, ha per molti versi coinciso con la chiusura di quel periodo e l’inizio di un altro, caratterizzato da elementi differenti di progresso, come il computer, le nuove scoperte scientifiche, l’esplorazione dello spazio, la società aperta, il mescolamento di culture molto lontane fra loro. La velocità del cambiamento è stata tale che, all’improvviso, la vecchia filosofia è sembrata incapace di offrire spiegazioni e una guida verso un futuro, che a un tratto apparivamolto diverso da quello che i nostri nonni avevano sognato. Eppure è proprio a questo punto che, storicamente, la filosofia si dimostra una preziosa alleata, perché ci impone una disciplina intellettuale chiarificatrice, offrendoci diverse chiavi di lettura, grazie alle quali interpretare il mondo nelle sue continue e imprevedibili trasformazioni.

L e nuove sfide

Dunque, la filosofia del XXI secolo è chiamata non solo ad aiutarci ad affrontare i problemi e le domande che da sempre l’uomo si pone, ma anche a rispondere a sfide del tutto inedite, quelle che il nostro tempo ci sottopone. Il progresso tecnologico e scientifico, i nuovi equilibri geopolitici e i cambiamenti sociali si avvicendano a un ritmo molto più veloce rispetto a quanto avveniva in passato. Siamo in uno stato di “rivoluzione permanente” che presenta molti rischi e incognite, ma anche grandi opportunità. La Storia insegna che a periodi tanto instabili e turbolenti si associa sempre una fase di profondo rinnovamento del pensiero, che è chiamato a rivalutare schemi e visioni ormai inadeguati a interpretare il presente per sostituirli con altri, più adatti a spiegare ciò che sta accadendo. Così, per esempio, John Perry e Ken Taylor, due studiosi dell’università di Stanford, hanno provato a delineare i principali campi d’azione dei nostri tempi nei quali la filosofia si rivela in grado di dare un contributo fondamentale. A partire dalla necessità di ricostruire un tessuto sociale che i flussi migratori, da una parte, e l’interconnessione globale, dall’altra, hanno reso più complesso e fragile.

La filosofia non serve a niente, parola di Aristotele

C

hi ritiene che la filosofia sia un’occupazione inutile potrebbe sentirsi rincuorato nel leggere l’opinione che il grande Aristotele esprime nella Metafisica: «La filosofia non serve a nulla!». Ma in realtà, come ci spiega lo stesso Aristotele subito dopo, proprio in questo risiede la grande forza e l’importanza della disciplina filosofica: «dal momento che è priva di legami di servitù, è il sapere più nobile». Insomma, perché la filosofia serva davvero, non deve servire a niente, fuorché a se stessa. Si tratta di una conclusione solo apparentemente paradossale, ma che in realtà risulta assai significativa, soprattutto in un contesto intellettuale come quello odierno, in cui sembra prevalere una visione immediatamente utilitaristica delle cose e del mondo.

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A che cosa serve la filosofia? Anche i progressi delle neuroscienze, che stanno modificando addirittura la percezione del rapporto mente-corpo, preoccupano e affascinano al tempo stesso: le scoperte sul funzionamento del cervello e l’accelerazione delle scienze cibernetiche stanno avvicinando il momento in cui il concetto di intelligenza dovrà essere ripensato ed esteso anche al di fuori dei confini dell’individualità: quali sono le opportunità e quali i rischi? E, a proposito di opportunità e di rischi, possiamo chiederci: la conoscenza condivisa, a portata di clic, è una conquista democratica e sociale oppure un nuovo campo di scontro tra verità e falsità, in cui gli antagonismi e le pulsioni umane rischiano di soppiantare i fatti con le pure opinioni? Infine, dobbiamo prepararci ad affrontare quello

« La filosofia

è una disposizione naturale propria

dell’essere umano. Tutti i bambini,

dopo i sei anni,

Imparare a ragionare rende migliori

si domandano

S

tudiare la filosofia può aiutare a migliorare le nostre abilità anche in altri campi, apparentemente distanti da quello di sua pertinenza, soprattutto nel periodo dell’apprendimento. È quanto emerso da una ricerca inglese, condotta dal gruppo no-profit Education Endowment Foundation, che ha coinvolto oltre 3.000 bambini di età compresa tra i nove e i dieci anni. I bimbi hanno partecipato a un corso di filosofia, durante il quale sono stati chiamati a discutere temi importanti, riflettendo collet tivamente e individualmente, ponendo domande e cercando risposte. Alla fine dell’anno scolastico, gli insegnanti hanno rilevato un miglioramento generale nel rendimento in matematica e nelle capacità di lettura. A far registrare i maggiori progressi sono stati i bambini provenienti dagli ambienti più svantaggiati, che hanno cominciato a incrementare le loro prestazioni dopo soli due mesi. I ricercatori sostengono di aver notato anche miglioramenti nella capacità di ascolto e nel grado di fiducia nei confronti degli altri.

che cos’è la morte.» 

PROBLEMI PER BAMBINI Già da bambini iniziamo a porci domande sulla vita e sull’origine del mondo. Ecco perché alcuni filosofi ritengono che tali temi debbano essere trattati fin dalla scuola primaria.

HANS GEORG GADAMER

che probabilmente si rivelerà il vero, grande banco di prova per l’umanità: il problema dell’identità, messo in discussione da mete tecnologiche ormai prossime, come la clonazione e le capacità di migliorare o alterare le capacità mentali e le percezioni. Le conquiste della scienza saranno in grado di trasformare, in modo forse irreversibile, il concetto stesso di personalità, tanto da indurre a chiedersi se avrà ancora senso parlare di “io” quando parte del pensiero non dipenderà più dalla nostra unicità naturale, ma sarà determinato da cause esterne. L’urgenza e l’importanza di questi problemi è tale da non poter demandare ad altri la responsabilità delle risposte: ciascuno di noi è chiamato a prendere parte in prima persona al processo che disegnerà la vita nel futuro che ci aspetta. E per essere in grado di affrontare al meglio questo impegno decisivo, dobbiamo diventare tutti un po’ filosofi. 11

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Come ragionare

in modo

corretto? Per riflettere sui grandi interrogativi esistenziali la curiosità non basta: occorre sviluppare un metodo e imparare a usare al meglio la nostra razionalità

Q

uando ci troviamo di fronte a una domanda che riguarda un aspetto particolarmente significativo della nostra esistenza, ci accorgiamo subito che non possiamo affrontare tale dilemma come faremmo di fronte a qualunque altro quesito. Non si tratta infatti di reperire un’informazione, oppure di risolvere un problema a partire da dati certi e attraverso una procedura unica e riconosciuta universalmente valida, bensì di decidere come interpretare la nostra vita, quella del nostro prossimo e la nostra visione del mondo. Ciò di cui siamo in cerca, insomma, non è una soluzione, ma una risposta. C’è una grande differenza tra il chiedersi, per esempio, “come sono stato concepito?” e “perché sono nato?”: entrambe le domande riguardano il medesimo evento (la nostra nascita), ma alla prima possiamo rispondere studiando la riproduzione umana, mentre alla seconda, dobbiamo replicare con una

spiegazione che soddisfi una curiosità che non ha nulla a che fare con l’atto concreto del nascere, ma che lo giustifichi. Il punto, dunque, è come trovare le risposte alle grandi domande: se non possiamo sperare nell’aiuto della sola osservazione o nella rigida applicazione di teorie scientifiche sperimentate, su quali armi a nostra disposizione possiamo contare per affrontare questi problemi? IMPARARE A PENSARE Il ragionamento filosofico non è un’attività riservata a pochi eletti: è una disciplina alla portata di tutti, a patto di coltivarla con impegno, come ben rappresentato dal Pensatore di Rodin, nella pagina a fronte.

L e cose da sapere

Uno dei primi ostacoli, che spesso spegne sul nascere la spinta all’indagine filosofica, è la convinzione che tra le condizioni iniziali necessarie vi sia una conoscenza già acquisita dell’oggetto della nostra ricerca. In realtà, paradossalmente, una delle difficoltà maggiori quando si affronta un problema complesso e articolato consiste proprio nell’analisi di quello che già conosciamo sull’argomento. Il rischio è infatti quello di essere influenzati da opinioni e idee sedimentate in precedenza: se ci chiediamo che ” 13

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cosa ci aspetta dopo la morte, per esempio, la nostra idea sull’aldilà sarà probabilmente già formata, derivata da una serie di opinioni che abbiamo assorbito in seguito all’educazione che abbiamo ricevuto a casa, a scuola o in chiesa. Per questo, il primo passo è quello di fare un passo indietro, rivalutando ciò che, magari inconsciamente, riteniamo vero per abitudine o superficialità e non per convinzione. È quello che ci raccomanderebbe di fare Platone (428-348 a.C), il quale definisce filosofo proprio chi ama la verità e non segue l’opinione, cioè la conoscenza delle sole apparenze (o di quelle che vengono comunemente accettate come verità). Ma come fare? Socrate, il maestro di Platone, partiva da un semplice presupposto: quello di “sapere di non sapere”. Accettando la nostra ignoranza, possiamo procedere nella costruzione delle risposte a partire da affermazioni che possiamo accogliere come vere solo dopo averle valutate e confrontate con le possibili alternative.

«Qualunque interesse

della mia ragione è concentrato su tre domande:

Che cosa posso sapere? Che cosa posso fare?

In che cosa ho diritto di sperare?» IMMANUEL KANT

Il linguaggio della filosofia

I maestri del pensiero si esprimono utilizzando un linguaggio specifico, che può apparire piuttosto criptico e astruso (e a volte lo è), quando non incomprensibile. Eppure, una volta addentratici nei loro ragionamenti, ci accorgiamo che c’è un motivo ben preciso nella scelta dei termini che essi utilizzano. Così, per esempio, san Tommaso (1225-1274) è molto attento a distinguere tra “essenza” (che è ciò che qualcosa è in potenza, quindi può esistere) ed “esistenza” (che è l’essere in atto, esistente), e questo lo porta a chiedersi: che cosa fa in modo che dalla potenza si passi all’atto? La sua risposta è semplice: Dio. Con poche parole il filosofo arriva a esprimere in maniera chiara e comprensibile un concetto complesso, che potrà poi essere accettato oppure no, ma non equivocato. L’impiego di un vocabolario filosofico specifico limita dunque gli errori dovuti a un utilizzo o a un’interpretazione errati dei vari termini, che a questo punto possono essere utilizzati nelle frasi (proposizioni) che, poste in relazione

ANALISI O SINTESI Kant distingue tra giudizio analitico, che coincide con la definizione, e sintetico, derivato dalla somma di più informazioni.

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Come ragionare in modo corretto?

Il sillogismo, la base della logica uomini sono mortali), il medio è “uomo” e quello minore (nel senso che si riferisce a un sottoinsieme di uomini) è ”greco”. Se usiamo la S per indicare il termine minore (greco), P per quello maggiore (mortale) e M per il medio (uomo), possiamo scrivere: S-M (ogni greco è un uomo); M-P

(ogni uomo è mortale); quindi S-P (ogni greco è mortale). Possono però esistere sillogismi del tipo M-S; M-P; quindi S-P, oppure S-M; P-M; quindi S-P. Utilizzando questo schema, possiamo analizzare tutti i possibili rapporti tra le premesse, e tra le preme s se e le conclusioni.

CONTRARI

SP

P

S

SaP

SUBALTERNI

n ragionamento coerente è un ragionamento nel quale le affermazioni non sono in contraddizione tra loro, ma anzi risultano collegate in maniera tale da condurre alla definizione di un pensiero compiuto che possiamo considerare valido, distinguendolo da uno non valido. Il primo a studiare il meccanismo alla base di tale processo e a codificarne la struttura è stato Aristotele, il quale negli Analitici primi ha analizzato le varie forme di sillogismo che possiamo incontrare all’interno di un ragionamento logico. Il sillogismo può essere definito come una forma di inferenza per la quale da alcune affermazioni (premesse) ne seguono necessariamente altre (conclusioni). Per capire meglio di che cosa si tratta, possiamo ricorrere a un semplice esempio, analizzando le seguenti affermazioni, collegate tra loro: ogni greco è un uomo; ogni uomo è mortale; quindi, ogni greco è mortale. Adesso, come faceva Aristotele, utilizziamo delle lettere per rappresentare i singoli elementi all’interno di un ragionamento (per esempio: se A appartiene a B e B appartiene a C, allora A appartiene a C). Sappiamo anche che tali termini non sono tutti equivalenti, ma il loro rapporto è variabile. Nel nostro esempio, il termine maggiore (il più ampio) è “mortale” (tutti gli

P

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Tutti gli S sono P

Nessun S èP CONTRADDITTORI

SiP

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Qualche S èP S

SP

SUBALTERNI

U

Qualche S non è P P

S

SP

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SUBCONTRARI IL PENSIERO LOGICO Alla base di un ragionamento solido e funzionale, in grado di giungere a conclusioni coerenti, c’è sempre l’uso corretto delle leggi della logica.

tra loro, comporranno il nostro ragionamento, secondo regole e processi che rappresentano l’oggetto della logica: l’arma più potente a nostra disposizione per affrontare qualunque sfida intellettuale.

L e regole da osservare

Etimologicamente parlando, la logica è la scienza dell’espressione del pensiero: il termine deriva infatti dal greco logos, traducibile sia con “pensiero”, sia con “parola”. È dunque la logica quella che utilizziamo ogni volta che organizziamo le nostre idee e le esprimiamo, agli altri e a noi stessi, quando ragioniamo. Tutte le scienze, però, poggiano su tecniche che permettono a chi le utilizza di ottenere risultati efficaci. Per usare al meglio la logica, quindi, occorre seguire le sue regole con coerenza, per non rischiare di approdare a risultati contraddittori tra loro, o perfino a conclusioni errate. Il fondamento della logica è quello che Aristotele, nel IV secolo a.C., ha denominato sillogismo, che consiste nel collegare tra loro delle proposizioni per costruire un’argomentazione. Per esempio, quando diciamo: «Io sono un uomo; tutti gli

uomini pensano; quindi, io penso», abbiamo costruito un sillogismo, partendo da due premesse e arrivando a una conclusione vera (data come assodata la verità delle due premesse, ovviamente). Se invece diciamo: «Io penso; tutti gli uomini pensano; quindi, io sono un uomo», il nostro sillogismo, seppure apparentemente simile al precedente, non è corretto, perché nelle premesse non viene esplicitamente dichiarato che solo gli uomini pensano: io potrei appartenere a un’altra specie pensante. Il rigore è dunque una caratteristica imprescindibile della logica, senza la quale non possiamo sperare di giungere a conclusioni sempre valide e quindi utilizzabili come verità nei ragionamenti successivi. Il ragionamento logico presuppone l’utilizzo di elementi (operatori) che collegano due proposizioni in maniera diversa, i cosiddetti connettivi logici (“e”, “o”, “se”…), che permettono di definire le relazioni tra le proposizioni collegate così da formare una terza proposizione (costituita dalle prime due e dal connettivo) che possiamo provare essere vera o falsa. Gli specialisti individuano diversi tipi di logica (formale, ” 15

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Come ragionare in modo corretto? estensionale, matematica…), ma il fondamento comune a tutti è lo stesso di quello che dobbiamo utilizzare per costruire un ragionamento valido.

I princìpi del pensiero

Quando ci troviamo di fronte a una domanda, spesso la difficoltà maggiore consiste nella scelta dell’approccio in grado di sviluppare il ragionamento più efficace per avvicinarsi alla risposta. Quando, per esempio, disponiamo di alcuni principi (affermazioni) che riteniamo veri, possiamo adottare il sistema deduttivo e procedere da tali premesse per arrivare a conclusioni fondate, applicando in maniera rigorosa le regole della logica. Se invece siamo in presenza di un problema complesso e articolato, la strategia migliore potrebbe essere applicare un ragionamento analitico, scomponendo cioè l’argomento nelle sue componenti elementari. Quando poi ci troviamo di fronte a un’alternativa, allora ci conviene valutare le implicazioni di entrambe le scelte possibili, anche

A

Parola d’ordine: semplificare

volte siamo portati a pensare che più gli argomenti sono complicati, più elaborati e difficili devono risultare i ragionamenti che li riguardano. In realtà, spesso sono proprio la complessità e l’eccessiva ricchezza argomentativa a impedirci di arrivare alla comprensione di un concetto o alla spiegazione di un fenomeno. In questo caso, possiamo ricorrere al formidabile strumento intellettuale noto come “rasoio di Ockham”. Autentico principio di economia dei concetti, il “rasoio” fu ideato nel Trecento da un filosofo inglese, il

francescano Guglielmo di Ockham (1285-1347), e può essere espresso in maniera sintetica con la formula “gli enti non vanno moltiplicati senza necessità” (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem). In termini pratici, quand o af f ro nt ia m o un problema dobbiamo cercare di eliminare tutti gli elementi che non sono necessari al ragionamento: lo stesso Ockham ripeteva: ”È inutile fare con più quello che si può fare con meno” (frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora). Ne consegue che la spiegazione migliore sarà sempre quella più semplice.

« La storia della filosofia è un continuo passaggio del testimone, dove il testimone che ci si passa è il problema, non le soluzioni.»

GIOVANNI REALE

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ponendo un’alternativa assurda, per provarne la fallacità. Gli scienziati, invece, sono chiamati ad applicare il metodo scientifico, quindi a convalidare le proprie affermazioni con delle evidenze sperimentali. Per confutare una teoria che riteniamo falsa, poi, possiamo cercare dei contro-esempi. E se invece stiamo affrontando un argomento che riguarda un oggetto che non possiamo “vedere” perché sfugge ai sensi, oppure vogliamo mettere alla prova una nostra intuizione? Allora, possiamo fare come i grandi fisici del Novecento, Einstein e Bohr su tutti, che per confermare o confutare le loro teorie sulla relatività e sulla fisica quantistica escogitavano degli “esperimenti mentali”, cercando di immaginare gli esiti concreti delle loro elaborazioni teoriche. Non appena cominciamo a sviluppare un ragionamento logico, ci accorgiamo di trovarci di fronte alla necessità di definire una serie di principi sui quali costruire il nostro pensiero così che possa risultare efficace e funzionale.

« Gli assiomi della filosofia non sono assiomi finché non li abbiamo provati sulla nostra pelle.»

JOHN KEATS

Prima di tutto, quindi, dobbiamo stabilire una serie di affermazioni che consideriamo vere “a priori”, cioè senza la necessità di una prova: i cosiddetti “assiomi”, come per esempio quello di uguaglianza, che stabilisce che una cosa è uguale a se stessa. Simili agli assiomi sono le cosiddette “verità analitiche”, che riguardano le definizioni: il fatto che il triangolo abbia tre lati, per esempio, è una verità analitica (Kant lo chiama “giudizio analitico”), mentre non lo è ”

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il fatto che 4+7 è uguale a 11, perché il numero 11 non è sottinteso nel 4 o nel 7, quindi per ottenerlo occorre un’operazione ulteriore di sintesi delle informazioni contenute nei primi due numeri (e infatti l’affermazione 4+7=11 è una verità sintetica, o “giudizio sintetico”). Anche le “verità a priori” non richiedono prove, ma sono, appunto, verità che appaiono tali al pensiero (“se A è maggiore di B e B è maggiore di C, allora A è maggiore di C”), mentre quelle “a

« Poiché sono un filosofo,

ho un problema

per ogni soluzione.»  ROBERT ZEND

posteriori” diventano tali dopo che ne abbiamo avuto esperienza (“il cane abbaia” possiamo dirlo solo dopo aver sentito abbaiare l’animale). Infine, ma si tratta di principi da maneggiare con estrema cura, possiamo ricorrere anche all’intuito e all’immaginazione, facendo quindi appello ai concetti di ovvietà (“una cosa è vera perché non può essere altrimenti”) e di verità evidente (“una cosa è vera perché tale mi appare”). In questi casi dobbiamo essere consapevoli del fatto che gli assunti inziali del nostro ragionamento possono essere veri per noi e in un certo contesto, ma non è detto che siano sempre confermati da ogni tipo di esperienza e da tutti i soggetti.

SULLE SPALLE DEI GIGANTI Ogni conquista filosofica non è solo il risultato della mente di un singolo pensatore, ma la somma di secoli di riflessioni, critiche e discussioni.

Scegliere un maestro

Un altro grande strumento che la filosofia ci mette a disposizione quando dobbiamo cercare le risposte ai grandi dilemmi è rappresentato dai risultati di oltre venticinque secoli di storia del pensiero. A partire dagli antichi Greci, che si interrogavano sui fenomeni naturali come

Induzione e deduzione, strumenti indispensabili

I

n os tri ragionamenti possono seguire due percorsi inversi: possono cioè partire dall’osser vazione dei fenomeni reali e dall’esperienza per poi arrivare a definire una regola universale; oppure, al contrario, prendere le mosse da premesse generali per arrivare a conclusioni più particolari. Nel primo caso, si

parla di “ragionamento induttivo”, mentre nel secondo di “ragionamento deduttivo”. Il primo è alla base del ragionamento scientifico moderno: occorre partire dall’osservazione di un fenomeno per poter formulare un’ipotesi, che dovrà poi essere confermata oppure confutata attraverso una serie di esperimenti. Il secon-

DEDUZIONE

do, invece, è il cardine del metodo (chiamato appunto ipotetico-deduttivo), utilizzato dai matematici e basato sulla costruzione di connessioni logiche del tipo “se… allora”: prende le mosse da alcuni “postulati” o “assiomi”, affermazioni assunte come vere senza essere state dimostrate, per stabilire delle verità.

Il r ag ionam e nto d i ti p o dedut tivo, in realtà, risulterebbe neces sario anche nell’ambito delle scienze sperimentali. A esprimersi in tal senso è il filosofo della scienza Karl Popper (1902-1994), il quale af ferma che anche quando osser viamo i fenomeni naturali par tiamo da congetture mentali a priori.

INDUZIONE

TEORIA

TEORIA

IPOTESI

IPOTESI

OSSERVAZIONE CONFERMA

MODELLO OSSERVAZIONE

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Come ragionare in modo corretto? il tuono e il fulmine, per giungere fino agli scienziati dei nostri giorni, che indagano i misteri del tempo e dell’universo, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, possiamo contare sulle idee, sulle intuizioni, sulle scoperte di migliaia di intellettuali che hanno provato a offrire risposte, che possono risultare molto diverse tra loro e a volte addirittura antitetiche, anche quando trattano il medesimo argomento partendo dalle stesse evidenze. Conoscere le loro idee, contestualizzandole all’interno del periodo storico in cui sono state concepite e individuando i principi che possono essere trasferiti anche nella nostra esperienza ci permette di partire da una formidabile base intellettuale per costruire la nostra filosofia: per esempio, quando cominciamo a ragionare sull’esistenza di Dio, possiamo studiare le dimostrazioni di san Tommaso e sant’Anselmo (1033-1109), per poi magari concludere che non ci soddisfano e che invece preferiamo l’approccio “utilitaristico” di Pascal (1623-1662), che ci

S

ROVESCIAMO IL PROBLEMA Se non riusciamo a dimostrare la verità di un ragionamento, possiamo tentare di capovolgere la situazione e provare l’assurdità della sua negazione. Sotto, Relatività, dell’incisore olandese M.C. Escher.

invita a scommettere tutto sull’ipotesi che Dio esista, dal momento che ne potremo trarre solo vantaggio. Allo stesso modo, se siamo alla ricerca di una visione generale del mondo, possiamo studiare quelle proposte da giganti del pensiero come Cartesio (1596-1650), Kant (1724-1804), Hegel (1770-1831) e Schopenhauer (1788-1860), scegliendo quella che risulterà più affine alla nostra idea: l’ipotesi, insomma, che ci apparirà più “vera”. Avremo trovato così un maestro intellettuale dal quale imparare e con il quale confrontarci criticamente (un vero filosofo non si aspetta altro dai propri allievi). Scopriremo anche che è sempre possibile, partendo dal pensiero di un maestro di qualsiasi epoca e andando a ritroso nel tempo, individuare un percorso intellettuale che di idea in idea, di critica in critica, di filosofia in filosofia ci condurrà alla culla del pensiero occidentale: la Grecia di Socrate, Platone, Aristotele, che possono essere considerati senza ombra di dubbio i maestri dei maestri.

Ragionamento assurdo, ma solo in apparenza

pesso dimostrare la verità logica di un ragionamento può risultare particolarmente difficile, e non è raro ritrovarsi impossibilitati a pronunciare la fatidica formula finale: “come volevasi dimostrare” (quod erat demonstrandum, abbreviato nella sigla QED). A volte, però, basta affrontare il problema da un punto di vista diverso, anzi, opposto: invece di cercare di confermare la nostra tesi, possiamo provare a dimostrare la sua negazione. Questo procedimento è la dimostrazione o riduzione “per assurdo”, nella quale si assume come dato di fatto l’ipotesi opposta a quella che vogliamo dimostrare e, attraverso il ragionamento, si arriva a una conclusione assurda, confermando così indirettamente l’assunto originale. Si tratta di un sistema estremamente efficace, ma solo se vale il “principio del terzo escluso” (tertium non datur), in base al quale non esiste una terza possibilità: il nostro assunto, cioè, deve essere necessariamente vero oppure falso.

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La verità

può essere conosciuta? UNA DOMANDA, UNA RISPOSTA Cercare la verità significa essere in grado di individuare, tra tutte le possibili risposte, l’unica che non può essere confutata: è solo un’illusione? Nella foto, la Bocca della Verità, un semplice tombino romano che, secondo la leggenda, sarebbe in grado di smascherare i bugiardi.

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Ogni qualvolta ci poniamo una domanda, vorremmo una risposta che risulti “vera” e definitiva. Ma spesso non sappiamo nemmeno se sia possibile giungere a un’unica verità

S

i dice che esistano sempre tre versioni di ogni storia: la mia, la tua e quella vera. Sull’esistenza delle prime due nessuno ha da obiettare, riconoscendo che ciascuno interpreta e vede la realtà secondo la propria prospettiva. Riguardo alla terza opzione, invece, non tutti concordano sul fatto che si possa individuare qualcosa che sia “vero” per tutti e in ogni frangente. Esiste un principio di verità assoluta? E, nel caso, dov’è possibile trovarlo? Oppure la piena verità è solo un’illusione e dobbiamo accontentarci di un metodo che ci permetta di distingure il vero dal falso? Sono domande ineludibili, per un filosofo, perché riguardano gli strumenti primari del ragionamento. Ecco perché hanno costituito un proprio campo d’indagine lungo i secoli, dando i natali alla logica e all’epistemologia, che è lo studio della natura e dei limiti della scienza.

L’ incerta esistenza del vero

Fino a pochi decenni fa, la conoscenza del mondo dipendeva dall’accesso limitato a pochi canali dai quali reperire le informazioni necessarie, e raramente l’affidabilità di tali fonti veniva messa in discussione, proprio per la difficoltà di confrontarne i contenuti con versioni alternative. Oggi che viviamo nell’epoca dell’informazione globale succede invece l’esatto contrario: abbiamo accesso a notizie da tutto il mondo e possiamo consultare testi, documenti e commenti ogni volta che lo desideriamo. Eppure spesso facciamo fatica a distinguere ciò che è degno di fede da quanto è solo un’opinione fatta passare, volontariamente o meno, per un dato di fatto. Ma allora, se una cosa falsa può essere fatta passare per vera, come possiamo essere certi che ci sia qualcosa di effettivamente ” 21

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vero? È una domanda antica quanto la filosofia, tanto daessere illustrata, in maniera esemplare, dal contrasto tra le idee di un sofista come Gorgia da Lentini (vissuto a cavallo tra il V e il IV secolo a.C.) e quelle del contemporaneo Socrate. Tale scontro viene drammatizzato e raccontato da Platone, allievo e continuatore dell’opera di Socrate, nella sua opera intitolata, appunto, Gorgia. I punti di vista dei due filosofi non potrebbero apparire più distanti. Secondo Gorgia «nulla esiste, e se qualcosa esiste, non è comprensibile all’uomo; e se è comprensibile, non è comunicabile e spiegabile agli altri». Ma se nulla esiste, o se comunque nulla è comprensibile o spiegabile, allora non possiamo parlare di verità assolute; tutt’al più possiamo utilizzare le nostre capacità intellettuali e dialettiche per

convincere gli altri della nostra opinione. Socrate, dal canto suo, ritiene invece che la verità esista, ma che non si debba ricercare nella natura, dove in effetti le esperienze possono essere interpretate in maniera diversa e spesso, come Gorgia e altri sofisti insegnano, strumentale. L’unico luogo in cui possiamo sperare di trovare la verità è dentro di noi, perché proprio noi siamo l’oggetto unico della nostra conoscenza. “Conosci te stesso”, ci esorta il filosofo. Ma se davvero ciò che è vero è dentro di noi, come trovarlo e portarlo alla luce? Socrate suggerisce l’impiego della “maieutica”, letteralmente l’arte di “far partorire”, in questo caso le idee. Per utilizzare tale metodo, la sola parola (il logos) non basta: dobbiamo confrontare le nostre idee

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La verità può essere conosciuta?

« Nulla esiste,

e se qualcosa esiste,

non è comprensibile all’uomo; e se è comprensibile, non è comunicabile

né spiegabile agli altri.»



GORGIA

attraverso la discussione (il dialogos) per arrivare infine a definire la verità condivisa. Gli approcci di Gorgia e Socrate sono davvero agli antipodi: dal primo possiamo desumere un atteggiamento assolutamente relativistico, dal secondo deriviamo l’idea che esistano principi di verità assoluta che trascendono i dati sensibili. È seguendo quest’ultima linea di pensiero che Platone, prima, e i neoplatonici, poi, arriveranno a identificare la verità con la dimensione ideale, fino ad giungere alla dottrina dell’Uno di Plotino, che porterà successivamente all’identificazione di Dio come Verità assoluta. È la stessa conclusione alla quale perverrà sant’Agostino (354-430), che a sua volta influenzerà Anselmo d’Aosta, secondo il quale Dio (che è Verità) si pone come modello rispetto al quale l’uomo deve sempre conformare la propria volontà e le proprie azioni. Di inclinazione più aristotelica, Tommaso d’Aquino farà sua la formula “adaequatio rei et intellectus” (adeguazione dell’intelletto alla cosa), che sembra sia stata originariamente coniata, nel X secolo, dal filosofo ebreo-egiziano Isaac Israeli ben Solomon e che identifica la verità di un oggetto nella corrispondenza tra l’oggetto stesso e l’idea che il nostro intelletto ha di esso. Una prospettiva che, evidentemente, dev’essere parsa soddisfacente a molti dei pensatori successivi, al punto che si può dire che anche i filosofi moderni (Cartesio, Leibniz e Kant su tutti) l’hanno implicitamente accettata, concentrandosi piuttosto nella ricerca di un modo per stabilire la verità di una cosa o di un fenomeno: le cosiddette “condizioni di validità”.

Dove cercare la realtà

UNA, CENTO, MILLE “VERITÀ” Se diamo ascolto al sofista Gorgia, non esiste una verità unica, ma solo opinioni: tra queste, prevale quella che viene presentata con la maggior eloquenza. Nell’immagine, il Giudizio di Salomone, dipinto dalla bottega di Raffaello nel 1518: il sovrano biblico ricorre a uno stratagemma psicologico per scoprire quale delle due donne che si contendono il bimbo gli abbia mentito.

La gran parte dei filosofi cristiani non ha dubbi nel collocare la fonte della verità assoluta in Dio. Si tratta di una posizione che si adatta perfettamente a una visione religiosa della vita, incentrata sul presupposto che tale verità sia stata rivelata. Ciò non significa che chi crede non debba preoccuparsi del problema del vero e del falso, ma solo che il punto di partenza e di arrivo è già noto, e che è possibile trovare e conoscere il principio di verità rivolgendosi a Dio. Più tardi, Giambattista Vico (1668-1744) riproporrà la questione sotto un’altra prospettiva, più limitata ma più accessibile e vicina alla sensibilità di chi ritiene che le risposte alle domande che ci poniamo dovrebbero riguardare maggiormente la dimensione umana, piuttosto che quella ideale o divina. Secondo il pensatore napoletano, la mente è limitata e quindi non può pensare di raggiungere le verità di natura: l’uomo può, però, indagare le verità delle sue azioni, perché provengono da lui. «Il vero e il fatto si convertono», sentenzia, cioè finiscono per coincidere. I pragmatisti inglesi del XIX secolo erano ” 23

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I

Come scoprire se una frase è vera o è falsa

ntrodotte alla fine del XIX secolo da pensatori come Frege, Peirce e Russel, e perfezionate dal lavoro di Emil Post e soprattutto da Ludwig Wittgenstein, le cosiddette “tabelle di verità” permettono di determinare la verità o la falsità di

una proposizione complessa, a partire dall’analisi del valore di verità delle singole proposizioni semplici che la compongono. Queste proposizioni semplici sono collegate tra loro dai vari “connettivi logici” che le mettono in relazione in termini logici,

d’accordo nel considerare come vero ciò che si accorda alla realtà, falso ciò che invece la contraddice. In effetti, questa potrebbe apparire una definizione efficace del concetto di verità. Ma, obiettano i critici, parte dalla premessa, tutt’altro che scontata, di sapere esattamente che cosa sia la realtà, che invece rimane sempre un concetto delicato e suscettibile di interpretazioni. A cavallo tra Otto e Novecento, arriva la precisazione di Charles Peirce e William James, che concordano sul fatto che la verità contenuta in un’affermazione o in un concetto si riflette nelle conseguenze pratiche, vale a dire nella sua utilità. Un concetto, quindi, dovrebbe essere considerato vero solo se la sua applicazione si rivela funzionale. Se osserviamo un orologio appeso alla parete, chiudiamo gli occhi e cerchiamo di immaginarlo, certamente ne visualizziamo una copia approssimata e incompleta, perché probabilmente non sappiamo nulla dei suoi ingranaggi interni e del suo funzionamento; la nostra immagine mentale, però, mantiene ancora intatta l’idea dell’oggetto

appunto, come per esempio la congiunzione logica “e” ( ), la disgiunzione esclusiva “o” ( ), quella esclusiva “o… o…” (≠), l’implicazione logica “se… allora…” (=›) e la doppia implicazione “se e solo se” (‹=›). Inoltre, bisogna aggiungere la negazio-

ˆ

ˇ

ne logica “non” (¬), che però si riferisce alla singola proposizione. Il calcolo proposizionale, come viene chiamato, rappresenta un potente strumento di analisi di una proposizione complessa ai fini di determinarne il valore di verità.

« Colui che non conosce la verità è uno sciocco, ma colui

che la conosce e la chiama

menzogna, è un delinquente.» VERITÀ CONTRO SINCERITÀ La macchina della verità (sopra) aiuta a valutare la “sincerità” di un testimone: un concetto ben diverso da quello di “verità”, anche in termini giuridici.

BERTOLT BRECHT

che segna il tempo, dunque della sua funzione, la quale può essere definita come l’effetto che l’oggetto ha nel mondo concreto. In altre parole, la nostra idea di orologio è vera se quello a cui pensiamo è un oggetto che ci indica che ore sono. Un approccio del genere implica però che non si possa parlare di verità assolute, ma solo di verità che sono tali in rapporto al mondo concreto, che è la realtà a cui dobbiamo fare riferimento. La verità pragmatica, dunque, è dinamica, perché

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La verità può essere conosciuta? La matematica è sempre vera. O quasi

C

hi oggi ritiene possibile l’esistenza di una realtà oggettiva conoscibile razionalmente, la cerca prima di tutto nella dimensione matematica, nella quale non trovano posto i limiti dell’esperienza sensibile. Nel 1931, però, il logico austriaco Kurt Gödel rese nota la sua dimostrazione del primo teorema di incompletezza, secondo il quale, all’interno di ogni teoria matematica “sufficientemente potente”, cioè capace di esprimere e dimostrare almeno quello che esprime e dimostra l’aritmetica elementare, è sempre possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta: tale, cioè, da non potere essere né dimostrata, né confermata all’interno di quello stesso sistema. Dunque, nemmeno in questo ambito possiamo avere la certezza assoluta di tutti i nostri assunti. Successivamente, con il secondo teorema di incompletezza, Gödel dimostra anche che nessun sistema “sufficientemente potente” può venire impiegato per dimostrare la sua stessa coerenza: questo significa che non possiamo sperare di confermare in maniera definitiva la coerenza di una qualunque teoria matematica nei confronti dei suoi stessi assunti.

L’INTELLETTO E LA VERITÀ Secondo san Tommaso, la verità è il processo con il quale la mente si mette in relazione con l’oggetto della sua indagine, costruendo l’idea dell’oggetto stesso.

nasce dal confronto tra idea e realtà. Anche Hegel (1770-1831) sottoscrive l’idea di una verità dinamica, ma lo fa in una prospettiva decisamente diversa: quella di un percorso che porta al vero solo dopo aver superato tutte le opposizioni e le riunificazioni presenti nel corso della ricerca intellettuale intrapresa, secondo un continuo processo dialettico basato sul principio logico di non contraddizione; il vero è ciò che risulta alla fine di questo difficile percorso. Ma una volta accettato (magari con riserva) che possa esistere una verità, sia pure più o meno completa e più o meno relativa, rimane da risolvere il vero problema che si pone non solo ai filosofi, ma a tutti noi: saper riconoscere ciò che vero non è.

Smascherare il falso

Parlare di vero e di falso significa, prima di tutto, accertare una definizione di verità che sia la più chiara e netta possibile. Platone è stato il primo a provarci, indicando la verità come la “proprietà” del discorso che “dice gli enti come sono”. Ne deriva che il falso dev’essere la ” 25

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La verità può essere conosciuta? proprietà del discorso che, al contrario, “dice gli enti come non sono”. Sarà poi Aristotele, nella Metafisica, a strutturare l’assunto completo: «Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero». Quest’affermazione, che si basa sul principio di non contraddizione, ha tutta l’aria di uno scioglilingua, ma costituisce una delle basi del discorso logico di cui noi stessi ci serviamo, seppure spesso senza saperlo. La logica aristotelica è uno degli assi portanti della filosofia medievale, dunque non ci stupiamo di trovarla applicata anche al tema della verità. In questo caso, però, il punto di partenza è molto più definito, perché, come abbiamo visto, i pensatori del periodo, a cominciare dal IV secolo con sant’Agostino, partono immancabilmente dal presupposto che esista una verità eterna e immutabile. Il fatto che l’ambiente culturale fosse dominato dalla dottrina cristiana della rivelazione ha reso il discorso su ciò che è vero e ciò che è falso influenzato da un assunto di base rigido, secondo il quale nessuna affermazione logico-razionale può contraddire una verità di fede. Tommaso d’Aquino, per esempio, ritiene che la misura della verità si possa trovare studiando l’oggetto a cui si riferisce, e non dipenda dall’intelletto. Insomma, non si trova nella mente dell’osservatore, ma nella realtà di quel che viene osservato. Man mano che la realtà appariva in tutta la sua complessità e le certezze dell’impianto aristotelico venivano a mancare, anche l’idea di verità si faceva sempre più sfuggente. Privati di quelle che sembravano certezze assolute (come per esempio la visione geocentrica del cosmo) e sollecitati da nuove scoperte, molti pensatori spostaono la ricerca della verità su un piano più elevato, al di sopra della dimensione concreta. Una strategia pericolosa, perché rischia di farci tornare all’approccio platonico, ma che vale la pena di intraprendere se si vuole costruire un sapere basato su fondamenta solide. Il primo mattone lo ha posto Cartesio (1596-1650) con il suo celebre cogito ergo sum, “penso, dunque sono”: una prima certezza su cui edificare un sistema di verità sia matematiche, sia metafisiche. Secondo il pensatore francese, esse sono garantite dall’esistenza di un Dio che non inganna l’uomo e non induce la sua mente in errore (la cosiddetta “veracità di Dio”). Anche il contemporaneo Spinoza (1632-1677) chiama Dio a garanzia della verità, dal momento che, secondo lui, Dio è sostanza unica che informa tutto il creato e dunque ne garantisce la verità. Per superare questa necessità metafisica, o meglio, per aggirarla, Leibniz (1646-1716) introduce un’importante distinzione, quella tra le verità di ragione, basate sulla logica del principio di non contraddizione (lo stesso che

« Ripetete una bugia cento,

mille, un milione di volte,

e quella diventerà verità.»

JOSEPH GOEBBELS

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Il paradosso del mentitore

S

i dice che il cretese Epimenide una volta abbia dichiarato: “Tutti i cretesi sono mentitori”. A partire dalla sua prima formulazione, risalente forse al VI secolo a.C., tale paradosso, noto come “paradosso del mentitore”, ha dato molto da pensare. Apparentemente, infatti, è impossibile stabilire se la frase sia vera oppure falsa: se fosse vera, vorrebbe dire che Epimenide è sincero, ma essendo egli cretese ciò andrebbe in contraddizione con il contenuto della frase; viceversa, se mentisse, i cretesi risulterebbero sinceri, lui compreso, il che contraddice immediatamente la nostra premessa. Il paradosso nasconde un salto logico: in realtà è l’autore del paradosso a mettere in bocca al cretese Epimenide le parole “tutti i cretesi sono mentitori”, e non è Epimenide a parlare direttamente: egli non potrebbe mai affermare logicamente quanto riportato. Curiosando su internet, troviamo però una spiegazione più articolata, riportata dal sito Club di Epimenide, che parte dall’analisi del termine “mentitore”, considerandolo alla stregua di un operatore logico: in questa prospettiva, il mentitore inverte i valori di verità. Così, se Epimenide mente, la frase collega il suo essere mentitore con la modalità operativa (modus operandi) propria del sincero, in contrasto con il modus operandi del mentitore, che è appunto quello di mentire; in questo caso Epimenide sarebbe costretto a essere sincero. La stessa situazione si verifica nel caso contrario: anche se dice il vero, Epimenide applica il modus operandi del mentitore, che inverte i valori di verità, e pertanto mente; ma così facendo non rispetta la sua natura di sincero, dunque è un mentitore. Le sole possibili combinazioni logiche sono quelle che prevedono che Epimenide sia sincero e che si comporti come tale, oppure che sia mentitore e faccia lo stesso, negando così logicamente il significato della frase. In entrambi i casi,

l’affermazione di Epimenide risulta comunque illegittima, perché non rispetta le regole della logica, oltre che indecidibile, perché su di essa non è possibile pronunciare un giudizio di verità o falsità.

« Non sarà mai

possibile, attraverso la ragione pura,

arrivare a qualche verità assoluta.»

WERNER HEISENBERG

sarà alla base del processo dialettico di Hegel), e le verità di fatto, che invece dipendono dai risultati dell’esperienza (il cosiddetto “principio di ragion sufficiente”). Una distinzione che sembra offrire un buon compromesso tra l’idea di una verità “vera” e quella di una verità soltanto empirica. Tant’è vero che, nel corso del XVIII secolo, tutto ciò verrà ripreso sia dall’empirista David Hume che dall’illuminista Immanuel Kant, con la sua distinzione tra i giudizi analitici (basati sulla ragione) e i giudizi sintetici (che poggiano sull’esperienza).

Tra oggettività e soggettività

Come si è detto, oggi il concetto di verità è, almeno nell’esperienza quotidiana, messo particolarmente in crisi dalla molteplicità delle versioni di verità, che ci appaiono spesso ugualmente accettabili o comunque accoglibili, a partire dai diversi punti di vista. Il problema era ben presente anche ai filosofi ottocenteschi, a partire da Nietzsche (1844-1900), il quale nel suo Su verità e menzogna in senso extramorale suggerisce che la verità non sia altro che una “costruzione retorica” dell’uomo, il quale ne è artefice e al contempo vittima, dal momento che la potenza della sua invenzione è tale da fargli dimenticare la propria natura illusoria. Nel Novecento, è Hilary Putnam (1926-2016) a tentare una mediazione tra questa visione, che nega l’esistenza di una verità oggettiva, e quella che invece non rinuncia all’idea di un livello di conoscenza dove sia possibile trovare un criterio d'individuazione per i concetti definibili come oggettivamente veri. Putnam, infatti, da un lato nega l’esistenza di verità a priori, ma dall’altro considera valide le nozioni analitiche, cioè basate sulla ragione, benché queste ultime possano essere identificate soltanto empiricamente: noi le consideriamo vere per una sorta di “convenzione implicita”, senza però poter giustificare tale veridicità. Neppure la matematica sfugge a questa definizione:, tanto che la sua “verità” non sarebbe molto diversa da quella che riguarda gli oggetti empirici. 27

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Sono davvero 28

libero?

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Sono io a decidere della mia vita? Esiste il libero arbitrio? In che modo vengo influenzato dalle scelte degli altri? Solo rispondendo a tali quesiti possiamo definire la misura della nostra libertà

O

gni giorno, anzi ogni momento siamo chiamati a compiere scelte: alcune sono così semplici e quotidiane che quasi non ci accorgiamo di farle, altre possono rivelarsi molto più significative, in grado di modificare non solo la nostra vita, ma anche quella degli altri. In ogni caso, tutte le volte che siamo chiamati a prendere una decisione mettiamo in atto processi mentali che ci appartengono intimamente. Pensiamo di essere assoluti padroni delle nostre azioni e delle nostre scelte. Eppure, prima o poi il dubbio ci assale: è davvero così? Siamo liberi di decidere e agire come desideriamo, oppure tutto ciò che accade nella nostra vita è inevitabile e prestabilito?

Il nesso con la conoscenza

SOCIETÀ E LIBERTÀ Vivere all’interno di una società civile comporta la corruzione dell’animo dell’uomo, il quale, invece, è veramente libero solo quando si trova nello stato di natura, come affermava Rousseau, a cui si ispira quest’immagine.

Nell’antichità greca e romana, quello di libertà è prima di tutto un concetto politico: essere liberi significa essere cittadini e, come tali, godere dei diritti garantiti da tale condizione. Il termine eleutherìa, che noi traduciamo con “libertà”, indica specificamente l’indipendenza politica: lo schiavo o il prigioniero, che chiaramente non sono liberi, non possono neppure essere considerati cittadini. È proprio all’interno delle pòleis che praticano la dottrina politica dell’eleutherìa, però, che il problema della libertà individuale emerge in tutta la sua urgenza. I pensatori ateniesi, in particolare, si pongono il dilemma dell’autodeterminazione del singolo individuo: l’uomo può decidere delle proprie azioni e, di conseguenza, del proprio destino? ” 29

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Uno dei primi filosofi a trattare, sia pure indirettamente, il tema della libertà è Socrate (470-399 a.C.), il quale ritiene che l’uomo ricerchi sempre il bene e che dunque orienti inevitabilmente le proprie azioni in funzione di tale fine. In questo senso, Socrate sembra suggerire che l’uomo sia sempre libero di agire cercando il bene, e che il problema, semmai, sia di comprendere quale sia questo bene. La vera libertà è, insomma, quella di errare, di sbagliare obiettivo. In pratica, la libertà è una conseguenza della conoscenza. In qualche misura, questo approccio contiene un nocciolo paradossale: l’uomo sembrerebbe naturalmente obbligato a cercare il bene, quindi la sua sarebbe una scelta forzata. Da questo punto di vista, Platone (428-348 a.C.), il più noto dei discepoli di Socrate, offre una visione più aperta: nella sua Repubblica, raccontando il mito di Er, egli afferma che prima di reincarnarsi l’anima può scegliere quale destino abbracciare nella sua nuova vita, senza che la divinità possa intervenire per influenzare la sua decisione. Ognuno, sembra dirci Platone, è responsabile del proprio destino, ma anche in questo caso la scelta, per essere libera, dev’essere informata: sono il ricordo della vita passata e le testimonianze delle altre anime a permettere all’anima di operare la scelta giusta. Sia Socrate che Platone concordano nel ritenere che si è liberi solo attraverso la conoscenza.

Svincolarsi dalla necessità

I

DIRITTO (E DOVERE) DI CITTADINANZA Per gli antichi Greci e Romani, la libertà era appannaggio esclusivo dei cittadini: essere liberi, dunque, comportava anche l’assunzione di gravose responsabilità.

l rapporto fra libertà ed economia è sempre stato molto complicato, ma lo è divenuto ancor più dopo la Rivoluzione industriale e l’affermazione del sistema capitalistico. Proprio partendo dalle riflessioni su questo binomio, il pensatore ed economista tedesco Karl Marx (1818-1883) sviluppa una teoria che conduce alla nascita della dottrina politica del socialismo. «La liber tà» scrive Marx, «comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e da un fine esterno; perciò, per la sua stessa natura, si pone al di là della sfera della produzione materiale». Per conseguire la libertà, dunque, è necessario abolire il meccanismo che sta alla base del sistema capitalistico, secondo il quale un uomo, per sopravvivere, deve vendere il proprio lavoro a un altro uomo. L’abolizione della proprietà privata e l’istituzione di quella collettiva diventano i prerequisiti per la creazione del solo tipo di società in cui, nella visione marxista, il cittadino sia davvero libero.

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Sono davvero libero ? Il medesimo concetto viene ribadito da Aristotele (384-322 a.C.), discepolo di Platone, quando, nella sua Etica nicomachea, afferma che si deve ritenere volontario ciò «il cui principio sta in chi agisce, conoscendo le circostanze particolari in cui si attua l’azione». L’uomo non può ignorare i principi sui quali basare le proprie azioni, perché li conosce istintivamente, ma è libero nel proprio agire solo se conosce la situazione in cui è chiamato ad applicarli.

Dio e l’emancipazione dell’uomo

È possibile conciliare l’idea della libertà con quella dell’esistenza di una divinità superiore e creatrice? Epicuro (342-270 a.C.) dice di sì: secondo lui, gli dei esistono, ma non hanno influenza sul destino dell’uomo perché se ne disinteressano. Per quale ragione, infatti, esseri perfetti dovrebbero abbassarsi al livello terreno? Rispetto ai suoi grandi predecessori,

LA PRIGIONE DELLE PASSIONI Quando parliamo di libertà, non intendiamo solo quella del corpo, anzi: molti pensatori, come gli stoici e Plotino, vedono nelle passioni la prigione dell’anima. Sotto, il ritratto di Karl Marx, la cui dottrina vede nell’affrancamento dalla povertà e dalla servitù il primo passo sul cammino della libertà intellettuale e della felicità individuale.

Epicuro propone un’idea di libertà individuale che sentiamo più moderna: è l’autosufficienza, l’“autarchia”, che consente all’uomo di «liberarsi dalla prigione degli affari e della politica». La libertà proposta da Epicuro è quella interiore, una condizione necessaria per raggiungere la felicità e che presuppone il disimpegno dalla politica e dalla società; esige anche la rinuncia ai piaceri superflui, la cui ricerca condiziona negativamente la nostra vita, costringendoci a scelte contrarie a quelle che condurrebbero al raggiungimento della beatitudine. Sul problema delle passioni, intese come nemiche della libertà, ragiona anche Plotino (204-270 d.C.), fondatore del neoplatonismo. Egli si chiede se esista qualcosa che l’uomo possa decidere davvero, dominato com’è dai suoi istinti, che lo portano a diventare schiavo delle passioni terrene. La ricetta di Plotino per raggiungere la libertà è semplice ma difficile

«Gli uomini ritengono di essere liberi poiché sono consapevoli dei propri desideri e dei propri appetiti, mentre non pensano neppure lontanamente alle cause da cui vengono disposti ad appetire e a volere, perché non le conoscono.»

GOTTFRIED WILHELM VON LEIBNIZ

al tempo stesso: combattere e vincere le nostre passioni per volgerci esclusivamente al bene che è dentro di noi. Si tratta di un faro che la nostra anima riconosce istintivamente come la meta del suo ritorno verso l’“Uno”, da cui essa è stata separata alla nascita. Lo scopo dell’esistenza è uno soltanto, pertanto l’unica libertà possibile consiste nel “voler” trovare l’Uno. In altre parole, per essere liberi bisogna voler ottenere ciò che la nostra anima desidera, e questa cosa è inevitabilmente il ricongiungimento con l’unità primigenia, ossia l’ente divino. Un pensiero simile si ritrova anche nella filosofia cristiana, che si concentra soprattutto sul concetto di libertà, intesa come capacità di scegliere tra “bene” e “male”: il libro della Genesi pone subito il problema, descrivendo la pessima scelta operata da Adamo ed Eva, che seguendo il cattivo consiglio di Satana optano per il male e disobbediscono a Dio. Se l’uomo è fatto a immagine di Dio, e Dio è ovviamente libero, allora anche l’uomo dev’essere libero nelle proprie scelte. Ancora una volta, la scelta giusta è quella del vero bene, ma possiamo sempre decidere ” 31

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diversamente. Siamo liberi di sbagliare, anche se, in tal caso, dobbiamo essere pronti a pagarne le conseguenze, come hanno fatto Adamo ed Eva, espulsi dall’Eden. Per il credente cristiano non è mai stato facile conciliare l’idea di una divinità onnipotente, che definisce le regole a cui l’uomo deve attenersi, con quella del libero arbitrio di cui egli è dotato. A occuparsene in maniera approfondita è sant’Agostino (354-430), che dedica al problema il suo La Grazia e il libero arbitrio. Egli parte dall’assunto che l’uomo è dotato della libertà di scegliere e che Dio lo pone in condizione di decidere il proprio destino. Ciò non esclude l’intervento della Grazia divina, che fornisce all’uomo la forza e la volontà di non cadere in tentazione. La libertà concessa all’uomo spiega anche l’esistenza del male, che, secondo Agostino, scaturisce dalla scelta di Dio onnipotente di lasciare all’uomo la potestà sulle proprie azioni.

A

Il principio del danno

lla ricerca di una legge generale della libertà, John Stuart Mill elaborò il “principio del danno”: ogni persona dev’essere libera di fare quel che più desidera, a patto che ciò non procuri danno ad altri. Si tratta di un concetto all’epoca rivoluzionario (Mill scrisse Sulla libertà nel 1859, in epoca vittoriana) e che ancor oggi provoca accese discussioni, benché, apparentemente, sia largamente accettato dalle democrazie liberali. La sua più importante conseguenza è quella di limitare l’intervento della collettività al manifestarsi del compor tamento nocivo da parte di un individuo nei confron-

ti di un altro. Per il resto, lo Stato, inteso come rappresentante giuridico della comunità civile, non ha il diritto di stabilire che cosa sia meglio per l’individuo, lasciandogli piena libertà di scelta per tutto quello che riguarda la sfera privata. Ciò presuppone la capacità di individuare con certezza quali scelte personali soddisfino il principio d el d anno. L’a zione ind i v id ua le può entrare in conflitto con la sfera morale, politica e religiosa altrui, provocando contrasti anche violenti in seno all’intera società. Basti pensare all’attuale dibattito sull’eutanasia per comprendere come l’idea di libertà di Mill risulti di difficile applicazione.

Forse non tutto è stato scritto

Un altro filosofo cristiano, Boezio (476-525), affronta la sfida di conciliare l’onnipotenza di Dio con la libertà dell’uomo. Lo fa nella sua opera fondamentale, De consolatione philosophiae, ponendo una questione di primaria importanza. Dato che Dio è onnisciente, conosce anche ciò che sarà, quindi tutte le nostre azioni e le decisioni passate, presenti e future: possiamo dunque definirci davvero liberi, oppure la nostra vita è già scritta, fin nei minimi dettagli? Boezio ritiene che l’uomo conservi comunque il libero arbitrio. Ammettere che Dio conosca ogni cosa non significa accettare l’idea della predestinazione Dio, spiega Boezio, è al di fuori dal tempo umano: per Lui, ieri, oggi e domani coincidono in un unico istante, un istante che però ci appartiene e viene formato dalle nostre scelte. Di libero arbitrio e predestinazione si discute lungo tutto il Medioevo, fino ad arrivare allo scontro tra il padre della Riforma protestante, Martin Lutero (1483-1546), e l’umanista Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Quest’ultimo, nel suo De libero arbitrio, sottolinea la responsabilità dell’uomo nei confronti delle proprie azioni. Cattolico e finissimo conoscitore della Bibbia, Erasmo vuole trovare il modo di conciliare la necessità dell’intervento della Grazia divina con la libertà individuale. Per farlo, scompone ogni azione umana in tre fasi: nella prima e nell’ultima, la Grazia è necessaria, per spingere l’uomo a iniziare e a concludere l’azione; ma nella fase intermedia, quella dello svolgimento, il libero arbitrio gioca la sua parte e permette all’uomo di esercitare la propria volontà.

PENSIERO LIBERALE L’uomo è libero di fare ciò che vuole, a patto che non danneggi gli altri: è il principio del danno di Stuart Mill, caposaldo del pensiero libero.

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Sono davvero libero ?

Quando decidiamo... abbiamo già deciso

L

a libertà come risultato di un processo neurologico: è questa la premessa alla base di alcune moderne teorie scientifiche basate su evidenze mediche. Esse sembrano individuare nella corteccia cingolata la sede ove hanno luogo i processi cerebrali che danno origine alle nostre scelte. Si tratta di un nuovo approccio, che ha portato Benjamin Libet (1916-2007) a chiedersi se il libero arbitrio esista davvero, oppure se le nostre scelte, nel momento in cui si manifestano, non siano in realtà già state prese. Per questo, nel 1977, Libet ha escogitato un esperimento: al soggetto viene chiesto di compiere un’azione semplice, come flettere un dito, senza stabilire prima quando agire. Grazie all’analisi dell’elettroencefalogramma, è possibile individuare la variazione del potenziale elettrico che precede il processo cerebrale che induce il movimento volontario (“processo di volizione”). Il soggetto deve anche dichiarare il momento in cui decide di agire, guardando un orologio. Secondo i dati ottenuti, il processo di volizione inizierebbe 550 millisecondi prima dell’azione, ma la dichiarazione dell’intenzione (quindi, la consapevolezza) di compiere l’azione stessa avviene in media solo 200 millisecondi prima di agire. Dunque, quando pensiamo di decidere qualcosa, in realtà l’abbiamo già fatto.

« Nessuno mi può costringere a essere felice secondo

la sua idea di felicità; ma ognuno può ricercare la sua felicità

per la via che a lui sembri essere buona, a patto che non nuoccia

alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, così che

la sua libertà possa coesistere

con quella di ogni altro secondo una possibile legge universale.»

IMMANUEL KANT

Si tratta chiaramente di un compromesso, che però consente a Erasmo di giustificare sia la fede in un Dio onnipotente, sia la convinzione dell’autonomia della volontà umana.

L’ illusione della libertà

MEGLIO FARE O NON FARE? Recenti studi neurologici hanno evidenziato un fenomeno sorprendente: sembra che un’azione volontaria inizi prima del momento della decisione cosciente di compierla.

«Ogni azione umana scaturisce da una serie di cause che portano necessariamente a un unico risultato»: così afferma il grande filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), il quale nega decisamente la possibilità del libero arbitrio. Secondo il pensatore olandese, gli esseri umani non sarebbero diversi dalle pietre che, lanciate in aria, tornano inevitabilmente a terra, obbedendo a una legge fisica implacabile. Questa visione, che possiamo definire pessimistica, viene addolcita dalla possibilità, da parte dell’uomo, di conoscere le cause degli eventi, accettarle e quindi compiere volontariamente “scelte” che tali non sono, essendo comunque azioni obbligate. Una libertà più morale che effettiva, quindi, e che per Spinoza è l’unica possibile. Anche Gottfried von Leibniz (1646-1716) propone una visione deterministica della realtà, ossia dove nulla accade per caso, ma ” 33

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per necessità. Per spiegarla, il filosofo tedesco sviluppa la teoria dell’“armonia prestabilita”, secondo la quale ogni singola entità, chiamata “monade”, è stata creata da Dio in modo tale da potersi sviluppare armoniosamente, insieme a tutte le altre. Il Dio di Leibniz è come un orologiaio e noi esseri umani, che al pari di ogni altra entità siamo monadi (anche se del più alto grado, perché provvisti di intelletto cosciente), agiamo come orologi regolati dalla divinità. Eppure, per Leibniz l’uomo è comunque libero, in quanto discende dalla monade delle monadi, ossia Dio, il quale è libero. E la creatura di un essere assolutamente libero non può che essere libera essa stessa.

Tra ragione e volontà

Qualche tempo dopo, è un altro tedesco, Immanuel Kant (1724-1804), a ritornare sul tema della libertà individuale, chiedendosi: è l’uomo che deve tendere alla libertà,

Libertà “da” o libertà “di”?

LA CHIAVE DELLA SOLIDARIETÀ Secondo la visione ottimistica di Robert Nozick, un sistema in cui i vincoli alla libertà del singolo vengano totalmente rimossi farebbe emergere l’istinto alla solidarietà. A suo parere, l’incremento di quelle che Isaiah Berlin (nella foto) chiama “libertà negative” gioverebbe allo sviluppo dell’espressione personale da parte del singolo individuo.

T

utti i pensatori parlano di libertà, ma non sempre si riferiscono al medesimo concetto. Secondo il britannico Isaiah Berlin (1909-1997), occorre distinguere tra “libertà negativa” e “libertà positiva”. Nel primo caso, si tratta di eliminare le interferenze esterne che limitano la nostra indipendenza; nel secondo, invece, ci si riferisce alla libertà di intraprendere un’azione, esprimere un’opinione, raggiungere un obiettivo. La distinzione diventa evidente in ambito politico. Nel capitalismo occidentale, per esempio, si propugna spesso l’eliminazione dell’intervento regolamentatore dello Stato, affinché ognuno sia libero di perseguire i propri obiettivi senza vincoli; ma questa libertà negativa renderebbe i più deboli completamente indifesi. Al contrario, nelle società a vocazione “statalista” lo sviluppo di politiche assistenziali assicura ai singoli cittadini un livello di sicurezza e benessere comune, ma a costo di diminuire le libertà negative, soffocando l’iniziativa privata. Secondo il filosofo libertario americano Robert Nozick (1938-2002), invece, il sistema migliore per equilibrare i due tipi di libertà è, paradossalmente, l'aumento delle libertà negative: ciò consentirebbe a ognuno di sviluppare il proprio potenziale e libererebbe chi si affida passivamente alle cure dello Stato dall’idea di non doversi impegnare attivamente per raggiungere i propri obiettivi. Inoltre, darebbe ai più deboli l’opportunità di venire protetti dal naturale altruismo dell’uomo, che assicurerebbe comunque la creazione di strutture di assistenza, sia pure a carattere privato anziché statale.

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Sono davvero libero ? oppure, al contrario, la libertà è la condizione necessaria perché l’uomo si possa realizzare? Secondo Kant, «il valore intrinseco dell’uomo si fonda sulla sua libertà, cioè sul fatto che è in possesso di una propria volontà». La libertà è intimamente connessa alla ragione, perché «senza ragione un ente non può essere cosciente della propria esistenza, non può riflettere su di essa». Ma la sola ragione non basta: l’uomo deve agire «secondo il proprio volere». Quello che ci differenzia dagli animali è proprio la capacità di agire volontariamente, ossia di essere il nostro stesso fine. Se non fossimo liberi, allora dipenderemmo dalla volontà di qualcun altro, quindi non saremmo il nostro fine, ma quello di qualcun altro. In tal senso, la libertà è una condizione necessaria per gli esseri razionali dotati di coscienza (gli uomini) perché si realizzino come “scopo in sé”, e non si può applicare agli animali, dominati invece dall’istinto. Il ragionamento di Kant intorno alla libertà non si ferma all’individuo, ma si rivolge anche all’ambito della vita politica. Nell’Età dei Lumi, infatti, la questione della libertà, che nell’antica Grecia era scaturita da una definizione politica per essere in seguito indirizzata verso il singolo individuo, ritorna finalmente a guardare alla collettività.

L iberi da soli, liberi “insieme”

Se l’uomo, come singolo individuo, può essere libero, è possibile che lo sia anche quando si trova insieme ai propri simili, quindi in un contesto sociale? Ancora prima

« Ciò che l’uomo perde

attraverso il contratto sociale, è la sua libertà naturale

e un diritto illimitato a tutto ciò

che lo attira e che può desiderare; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà

di tutto ciò che possiede.»

JEAN-JACQUES ROUSSEAU

di Kant, l’inglese Thomas Hobbes (1588-1679) parte da una visione pessimistica della natura dell’essere umano per spiegare la nascita della società, identificandola come un’istituzione nata per limitare la libertà dei singoli uomini. Secondo Hobbes, la razza umana è, per natura, brutale, egoista e sempre alla ricerca dell’interesse individuale. Immersi in un mondo pieno di pericoli e con la necessità di trovare le risorse per sopravvivere, gli individui non hanno altra possibilità se non quella di unire le proprie forze. In una situazione del genere, però, se tutti fossero lasciati pienamente liberi, gli istinti bestiali avrebbero il sopravvento e la convivenza risulterebbe impossibile: come dice lo stesso Hobbes, “homo homini lupus”, ogni uomo è un lupo per il suo simile. Occorre pertanto che gli individui rinuncino a parte delle loro libertà e accettino il fatto che solo alcuni tra essi detengano il potere, elaborino leggi atte a regolare i rapporti reciproci e amministrino punizioni per farle rispettare. Nel suo capolavoro, il Leviatano, Hobbes spiega come dal terribile “stato di natura” in cui l’uomo si trova, si giunga alla costruzione di una società sicura sotto l’egida di un sovrano che garantisca ordine e protezione. Vivere in società significa, certamente, essere meno liberi, ma, in compenso, più sicuri. Anche il francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) crede che l’uomo nasca libero; a differenza di Hobbes, però, considera questa condizione naturale in modo positivo. L’uomo, a suo parere, è originariamente buono: è il passaggio dallo stato naturale a quello artificiale della città a trasformarlo in un essere egoista, avido e invidioso. «L’uomo è nato libero, eppure ovunque si ritrova in catene» scrive amaramente nel suo Contratto sociale. Rousseau è convinto che si possa trovare un giusto compromesso attraverso l’applicazione del concetto di “volontà generale”, che è da intendersi non come espressione della volontà di tutti i cittadini, bensì come quella volontà che mira al bene della comunità. La libertà, in questo caso, coincide con l’appartenenza a un gruppo in cui ogni singolo individuo agisce per il bene comune. A dimostrazione di quanto sia difficile armonizzare l’idea di libertà individuale con quella di società, Rousseau si ritrova a teorizzare la necessità di obbligare a “essere liberi” coloro i quali non accettassero la volontà generale. Si tratta indubbiamente di un paradosso piuttosto inquietante, al quale il saggio Sulla libertà di John Stuart Mill (1806-1873) contrappone una visione decisamente più ottimistica, secondo la quale all’uomo dev’essere dato, anche in ambito sociale, il maggior spazio possibile per affermare la propria libertà. 35

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L’uomo è buono Bene e male sono due concetti che fin dall’inizio della storia del pensiero l’uomo considera fondamentali per delineare la sua stessa natura. Eppure, la loro definizione non è sempre chiara e condivisa e, a volte, risultano difficili da distinguere

U

na delle differenze fondamentali tra l’essere umano e gli altri animali riguarda il fatto che il primo è dotato di una coscienza di sé e del proprio comportamento. Questo significa che le sue azioni non sono dettate solo dall’istinto, ma anche dalla consapevolezza delle loro conseguenze. Ogni comportamento diviene così soggetto a un giudizio etico e morale, e viene giudicato buono oppure cattivo, così come buono o cattivo viene definito chi lo mette in atto. Il problema, quindi, è individuare i criteri rispetto ai quali bontà e cattiveria possano trovare una loro precisa definizione, e renderle sempre individuabili. Ammettere l’esistenza del male, tuttavia, comporta una serie di conseguenze filosofiche decisamente importanti e di non facile soluzione.

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L’uomo è buono o cattivo?

o cattivo ? I concetti di bene e male sono così interconnessi che la definizione del secondo non può prescindere dal primo. Se consideriamo il male in senso “soggettivo”, usiamo il termine per dare valore negativo a un’azione o a un comportamento che contravviene a una norma etica (che riguarda la condotta) o morale (riferita a principi ideali), esprimendo quindi un giudizio; se invece ci riferiamo all’ambito metafisico, “oggettivo”, stiamo parlando del male come uno dei poli della dualità che, insieme alla sua antitesi, il bene, compone l’essere.

L’essenza del male

Per quanto riguarda il male (e il bene) soggettivo, è John Locke (1632-1704) a definirlo chiaramente nel Saggio sull’intelletto umano: «L’uomo chiama

buono l’oggetto del suo desiderio, cattivo quello del suo odio». In questo caso, i termini “buono” (bene) e “cattivo” (male) acquistano senso solo in relazione a chi li usa, non in senso assoluto: è bene ciò che ci rende felici, è male quello ci procura danno o dolore. L’approccio oggettivo al problema del male, invece, considera quest’ultimo come indipendente dal giudizio etico o morale e fa riferimento a un principio metafisico, la cui verità risiede al di là del nostro mondo e quindi della nostra opinione. Un’altra importante precisazione che dobbiamo fare, prima di cercare di cercare di rispondere alla domanda sull’esistenza del bene e del male e sulla loro essenza, è quella di stabilire se intendiamo i due termini in “senso lato” (cioè, allargato), oppure ristretto. ”

CASTIGO E RICOMPENSA Il giudizio etico delle azioni umane ha portato, fin dall’antichità, a immaginare l’esistenza di un tribunale ultraterreno che giudica, premia e punisce. Il Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch (1485 ca.) contiene in sé sia i germi del bene che quelli del male.

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Nel primo caso, nella definizione includiamo sia i fenomeni naturali che le idee e le azioni di agenti dotati di capacità di giudizio: gli uomini. Per esempio, il terremoto è un male naturale, un omicidio è invece da considerarsi un male morale. Se però limitiamo le nostre considerazioni solamente alla sfera morale, allora stiamo considerando i due concetti nel loro senso ristretto. Così, quando ci interroghiamo sul perché il male esista nel mondo o perché Dio permette la sofferenza e il dolore, stiamo considerando il male da un punto di vista oggettivo e in senso lato; se invece stiamo discutendo le idee o le azioni di un personaggio storico negativo, come Adolf Hitler, adottiamo un’interpretazione soggettiva e ristretta del termine.

DIVERSI TIPI DI MALE Quando ci riferiamo al male, possiamo intendere il termine in diverse accezioni. Quello su cui l’etica si interroga è il male derivato dalle azioni umane compiute consapevolmente. Sotto, Platone, che ragionò molto sui concetti morali.

«C ’è un solo bene, il sapere;

e c’è un solo male, l’ignoranza.» 

La storia del pensiero filosofico, però, insegna che è impossibile parlare del bene o del male senza evocare immediatamente l’altro elemento della dualità. Addirittura, sant’Agostino definisce il male, semplicemente, come “assenza di bene”. Molto prima, Democrito aveva stabilito che i due sono una coppia di opposti che, come le altre che definiscono la realtà esistente, quando si trovano in equilibrio determinano una situazione di armonia. Conoscere l’uno, quindi, significa conoscere anche l’altro. Ma questo non ci aiuta a rispondere alla domanda: come possiamo stabilire cosa è bene e cosa è male? Per Protagora (e per molti ancora oggi), «l’uomo è la misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono».

SOCRATE

Etica e morale: ecco la differenza

Q

uando si parla di bene e male, per indicare l’ambito di applicazione dei due concetti si utilizzano i termini etica e morale, spesso considerandoli intercambiabili. In effetti, i due sostantivi hanno un’origine simile (il primo deriva dal greco ethos, il secondo da quello latino mos, entrambi riferiti ai costumi e alle usanze). Oggigiorno, tuttavia, hanno assunto connotazioni tali da renderli sottilmente, ma profondamente, diversi. La morale può essere intesa come la raccolta delle norme e dei valori che dovrebbero guidare l’uomo ad agire nella maniera corretta, quindi tendendo al bene. L’etica, invece, riguarda soprattutto il comportamento, cioè l’applicazione delle norme all’interno dell’esperienza quotidiana. La morale, insomma, può essere considerata l’ambito in cui si discute sulla natura di ciò che è bene o male, mentre l’etica è quello in cui si studia quali comportamenti siano giusti (buoni) o errati (cattivi).

L a capacità di discernere

Un atteggiamento del genere incoraggia un relativismo morale assoluto, per cui ognuno di noi può stabilire cosa sia bene e cosa sia male per poi agire di conseguenza. Alcuni allievi di Protagora, come Trasimaco, arrivarono a dichiarare che non esistono leggi morali, e che definire un’azione buona o malvagia è solo questione di abitudine o tradizione: in natura, il forte domina sul debole, e la morale è soltanto un artificio umano per limitare tale incontrovertibile legge naturale. Ancora più estremo Callicle, secondo il quale è diritto dell’uomo più forte affermare la propria volontà su quella altrui. 38

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L’uomo è buono o cattivo? Difficile, qui, non immaginare ad analogie con il “superuomo” di cui parlerà Friedrich Nietzsche circa ventiquattro secoli più tardi. Molto diversa è invece l’idea di Socrate, per il quale il male nasce dall’ignoranza. Secondo il filosofo ateniese, la distinzione tra bene e male è insita nell’animo umano: per individuarla, egli non deve fare altro che “conoscere sé stesso”; quindi il massimo bene è rappresentato dalla conoscenza (intesa, appunto, come piena coscienza di sé stessi) e non dipende né dalle contingenze in

S

QUANDO L’ETICA È CONVENIENZA Tra il Sei e il Settecento, diversi pensatori inglesi, come Richard Cumberland (sotto), evidenziarono gli aspetti utilitaristici del comportamento etico: essere virtuosi conveniva.

Essere buoni conviene

e rifiutiamo l’idea di un principio metafisico del bene, come possiamo definire questo concetto? Richard Cumberland (1631-1718) ha avanzato una teoria utilitaristica: partendo dal presupposto che l’uomo non è del tutto egoista ma è provvisto di uno slancio empatico nei confronti del suo prossimo, nel XVIII secolo il filosofo inglese propose di considerare come criterio per stabilire se

un’azione è buona o cattiva il benessere comune che ne può derivare. Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873) adotteranno lo stesso punto di vista per definire l’“utilitarismo etico”, riassumibile nella famosa frase, attribuita nella sua prima formulazione a Francis Hutcheson (1694-1746), «La massima felicità per il maggior numero di persone possibile».

cui ci ritroviamo, né dai nostri desideri. Anche Platone è convinto che la distinzione tra bene e male sia innata nell’animo umano, ma che essa venga dimenticata prima del momento della nascita e che possa venire recuperata attraverso la ricerca della conoscenza del mondo delle idee, dove si può trovare il bene assoluto, identificato come attributo dell’Uno, la divinità. Dal momento che Dio è perfetto per definizione, da lui non può discendere alcun male, che allora deve per forza appartenere alla materia. Quindi, per Platone, il male è riconoscibile nell’attaccamento alla dimensione concreta. In effetti, per chi ha una visione religiosa del mondo nella quale un dio perfetto ha creato il cosmo, almeno a livello teorico riconoscere il male è semplice: esso rappresenta tutto ciò che allontana l’uomo da Dio, il quale, come da definizione, è perfezione e bene assoluto. Estremizzando questa posizione, nel XIII secolo il tedesco Meister Eckhart sviluppò un

« La funzione

della saggezza è distinguere

tra il bene e il male.»

CICERONE

approccio mistico al problema, secondo il quale il bene corrisponde alla perfetta unione con Dio, e per ottenerla l’uomo deve annullare sé stesso; di converso, l’attaccamento alle cose terrene allontana l’uomo dalla divinità.

L’origine delle tenebre

Se però Dio è solo bene, allora il male non può originarsi da Lui. Ma allora, perché esiste il male? Da dove ha origine? Epicuro fu tra i primi a porsi la domanda. Se Dio è infinitamente buono, non dovrebbe accettare l’esistenza del male; se invece non vuole l’esistenza del male, ma non può impedirla, allora non è onnipotente. È un dilemma condiviso ancora oggi da molti, credenti e non, e che ha tormentato a lungo sant’Agostino. Egli, nel V secolo, dedicò le sue riflessioni a giustificare la posizione di Dio rispetto al problema del male: quella che dodici secoli più tardi Leibniz chiamerà “teodicea”. Naturalmente, da cristiano, Agostino credeva nel peccato originale, quindi faceva risalire la nascita del male a quella trasgressione; tuttavia, ciò non risolve il problema, dal momento che, in tal caso, ci si potrebbe chiedere perché Dio non abbia semplicemente impedito all’uomo l’accesso al frutto ” 39

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L’uomo è buono o cattivo? proibito. La risposta di Agostino si basa sul concetto del libero arbitrio: Dio ha lasciato all’uomo la libertà di scelta tra il bene, che corrisponde all’osservanza delle leggi divine, e il male, che coincide con la loro trasgressione. Dio dunque potrebbe impedire il male, ma non lo fa, perché questo significherebbe interferire con il libero arbitrio. L’uomo allora, con le sue decisioni, deve essere considerato l’unico responsabile della presenza del male nel mondo.

Due concetti relativi

Finora, a parte l’accenno all’approccio sofistico al problema, si è parlato di bene e male prevalentemente in senso assoluto, cercando una risposta unica e sempre valida. Ma, fin dal Medioevo, molti pensatori hanno riflettuto sul fatto che, forse, soprattutto il concetto di male debba essere considerato in termini relativi. Tra i primi a suggerire un’ipotesi del genere, nel XII secolo, è Pietro Abelardo, filosofo e teologo francese, secondo il quale a essere buone o cattive non sono le azioni, quanto le intenzioni: un ladro che rubi non per arricchirsi, ma spinto

LE LEGGI DI DIO Fin dall’inizio della sua storia, l’uomo ha associato l’idea del bene a Dio: osservare la legge divina (sotto, le Tavole consegnate dal Creatore a Mosé), quindi, significava agire sicuramente in modo corretto. Non per nulla la Bibbia fa iniziare la storia dell’uomo dalla drammatica scelta di operare il male.

« Nessun uomo è volontariamente

cattivo: diventa tale se non conosce la differenza tra bene e male.

Quando riconosce ciò che è bene, non esita a perseguirlo.»

SOCRATE

dall’intenzione di fare del bene, per esempio per sfamare i poveri, è egli stesso buono. In questo caso, Dio non giudicherebbe l’atto, ma lo spirito con il quale viene compiuto. Una visione “pericolosa”, diremmo oggi, perché sembra giustificare troppo facilmente molte azioni moralmente discutibili. Doveva essere lo stesso timore di san Tommaso d'Aquino quando, due secoli più tardi, si sentì in dovere di specificare che le buone intenzioni non bastano: occorre anche la piena consapevolezza che il risultato finale sarà buono. Infatti, poiché tutto ciò che è buono discende da Dio e l’uomo è al servizio di Dio, agire con la coscienza di perseguire il bene significa fare il bene. Vedremo che Kant, nel XVIII secolo, riprenderà l’argomento, ma proponendolo sotto un punto di vista differente. Il “relativismo” del bene e del male si ” 40

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« L ’u omo chiama buono

l’oggetto del suo desiderio,

cattivo l’oggetto del suo odio

o della sua avversione,

vile l’oggetto del suo disprezzo.»

JOHN LOCKE

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S

Sant’Agostino e la sua triade nera

pesso, quando parliamo di male, ci riferiamo ad ambiti e quindi significati diversi. Con lo stesso termine possiamo infatti indicare tre cose molto diverse tra loro: un principio assoluto, antitetico al bene; oppure un’azione cattiva; o ancora, un dolore o una sofferenza. Consapevole del possibile equivoco, sant'Agostino decide di operare una distinzione molto precisa tra male metafisico, male morale e male fisico. Il primo consisterebbe nell’assenza di bene (quindi, per il filosofo cristiano, nell’assenza di Dio). Il secondo, nell’errore della volontà dell’uomo, che sceglie di perseguire un fine diverso dall'adesione al bene assoluto. Da tale errore discende il male fisico, che si traduce nella sofferenza fisica, conseguenza del peccato originale.

fa ancora più pronunciato in Thomas Hobbes, secondo il quale il significato attribuito ai due termini non solamente cambia a seconda dell’epoca e delle condizioni storiche e sociali, ma anche a livello individuale. Dal momento che, secondo il pensatore inglese, l’uomo è egoista per natura, per ognuno di noi è bene ciò che ci soddisfa, male quello che ci causa dolore e disagio. Cartesio, dal canto suo, dà ragione a chi crede che l’uomo non possa conoscere perfettamente la differenza tra bene e male, e ciò, sempre secondo il pensatore francese, a causa della distrazione provocata dai desideri e dai sentimenti. Anche secondo il suo contemporaneo Spinoza (entrambi appartengono al XVII secolo), bene e male sono relativi, nel senso che un’azione può apparire buona o cattiva, a seconda che questa sia funzionale al raggiungimento di un risultato oppure lo ostacoli. In effetti, se (come Spinoza) crediamo in un Dio immanente (che cioè è in tutte le cose), ma indifferente all’uomo, non possiamo immaginare che esistano un male e un bene assoluti.

Il dualismo dentro di noi

Come abbiamo visto, la visione socraticoplatonica prevede che i princìpi di bene e male siano innati nell’uomo. Immanuel Kant e Johann Fichte (1762-1814) partono dallo stesso presupposto, ma il loro pensiero approfondisce alcuni elementi nuovi e importanti, rendendo questo approccio a noi più comprensibile. Kant

«Se il bene ha una causa,

non è più bene; se invece ha un effetto, la ricompensa, allora non è bene. Quindi, il bene è qualcosa al di fuori della catena

delle cause e degli effetti.» ESSERE BUONI A OGNI COSTO Se per noi ciò che è bene equivale a ciò che è giusto, allora dobbiamo compierlo sempre, anche quando, così facendo, rischiamo di provocare dolore.

LEV TOLSTOJ

spiega che la distinzione tra i due opposti poggia su alcuni criteri di scelta che sono conoscibili razionalmente. In ogni caso, per avere valore, la scelta tra bene e male dev’essere compiuta da una volontà libera, in grado di decidere di seguire il bene (la legge morale), anche quando ciò non provoca piacere. Per esempio, se dicendo la verità sappiamo di provocare dolore, dobbiamo comunque farlo, perché è nostro dovere. Per Kant, quindi, bene e felicità non vanno necessariamente a braccetto, anzi: voler conseguire il primo significa essere disposti a rinunciare alla seconda.

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L’uomo è buono o cattivo?

N

Il bene di qualcuno è il male di altri

ella sua Genealogia della morale, pubblicata nel 1887, il tedesco Friedrich Nietzsche afferma che il concetto di “bene” (buono), così come quello di “male” (cattivo), può avere due significati diversi, perché due sono le morali che vengono applicate dagli uomini, a seconda della loro posizione. Gli uomini forti, i “signori”, applicano la “morale dei signori”, aristocratica; quelli deboli, gli “schiavi”, seguono invece la “morale del gregge”. La prima si regge sulla contrapposizione tra buono e cattivo, la seconda su quello tra buono e malvagio. Per i signori, è buono chi ha la mente e il cuore puro, cerca l’affermazione di

sé e porta nel mondo la propria creatività, senza curarsi di chi gli è inferiore. Per gli schiavi, all’esatto contrario, tutto ciò rappresenta invece ciò che è malvagio, e dunque dev’essere combattuto: per loro, spinti non da un ideale di giustizia, bensì dal risentimento (Ressentiment), l’uomo buono è quello che rifugge la violenza, non arreca danno adalcuni, si rimette a Dio, non si espone e si accontenta di poco. Con l’avvento della religione giudaico-cristiana, la morale del gregge sembra avere avuto la meglio, decretando l’apparente vittoria dell’“uomo mansuefatto”, civilizzato, che Nietzsche dipinge negativamente come “irrimediabilmente mediocre”.

«Tutto ciò che viene fatto per amore

è sempre al di là del bene e del male.»

UN’IDEA IN EVOLUZIONE? Per alcuni filosofi, i concetti di bene e male non sono assoluti, ma vanno modificati in funzione dell’evoluzione del pensiero e della società in cui viviamo. Nella foto in alto a destra, Nietzsche, la cui mente anticonvenzionale non smise mai di indagare i temi etici e morali.

FRIEDRICH NIETZSCHE

Al contrario, la cattiveria, intesa come il male compiuto dall’uomo, corrisponde a una scelta deliberata, quella di anteporre il proprio interesse alla legge morale. Kant, insomma, mette l’accento sull’intenzione, e considera la vera bontà riferibile solo alla volontà di fare il bene: daessa discendono le buone azioni e tutte le cose buone. Fichte la pensa diveramente: sottolinea il fatto che è la pratica della legge morale a produrre il bene. La conoscenza della legge morale è il risultato dell’evoluzione della nostra coscienza, dunque la formula per fare il bene diventa quella di «agire secondo coscienza». Kant e Fichte, quindi, non solo ci dicono che, in quanto uomini, possiamo distinguere il bene dal male, ma anche che abbiamo il dovere di desiderare il bene e che poi dobbiamo metterlo in pratica. Certo, possiamo dubitare ancora se l’atto che ci apprestiamo a compiere avrà conseguenze buone; ma, ci rassicura Kant, se l’intenzione è buona noi stiamo comunque facendo il bene.

Norme di comportamento

Finora, abbiamo visto che le riflessioni filosofiche sul bene e sul male hanno riguardato soprattutto il singolo individuo. Ma l’uomo vive immerso in una società, e le sue azioni riguardano e influenzano anche la vita degli altri: è difficile non tenerne conto quando ragioniamo su ciò che può essere giusto o sbagliato. Per alcuni filosofi, come Jeremy

Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (18061873), il bene coincide con tutto ciò che porta alla massima felicità possibile per il maggior numero possibile di individui. Schopenhauer, dal canto suo, trova nella compassione nei confronti del prossimo e nella partecipazione al suo dolore la via per liberarsi, sia pure per un istante, da dolore e noia; il bene, allora, così, nella pratica della giustizia e della carità. Più ottimista, Herbert Spencer (18201903)si rifà a una visione “biologica” e, come contemporaneo di Charles Darwin, chiama in causa la teoria dell’evoluzione naturale: per lui, il bene corrisponde al comportamento che rende la vita dell’individuo e della società la migliore possibile. Quella che Spencer ci propone è dunque una visione relativa, perché ciò che è bene per la società può cambiare nel corso della Storia, quindi sono ammessi (anzi, vengono richiesti) continui aggiustamenti. A chiudere il cerchio arrivano William James (1842-1910) e John Dewey (1859-1952) che, come spesso accade nello sviluppo del pensiero filosofico, propongono una sintesi delle proposte precedenti: in questo caso, si tratta di considerare la felicità e il benessere del singolo individuo e e quelli della società come equivalenti e, pertanto, occorre valutare la bontà o la malvagità di un’azione o di una decisione in funzione del fatto che l’esito finale sia il miglioramento delle condizioni di vita per il singolo e la collettività. 43

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?

Che cos’è la bellezza Tutti noi siamo convinti di saper distinguere il “bello” dalla mediocrità e dalla bruttezza. La bellezza, però, si rivela sempre essere un concetto sfuggente e arduo da interpretare 44

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Che cos'è la bellezza?

D

efinire in maniera univoca la bellezza e le espressioni attraverso le quali si manifesta non è affatto facile. Anzi, secondo alcuni è addirittura impossibile, visto che ogni epoca e ogni cultura hanno interpretato e coniugato il concetto in maniera diversa, rendendo così impossibile estrapolare dei parametri universali su cui basare il giudizio. Ciò che veniva considerato un capolavoro artistico cent’anni fa, oggi può apparire come un semplice prodotto del clima culturale di un’epoca e, in quanto tale, liquidato al pari di una semplice curiosità o di una testimonianza del gusto di allora. D’altro canto, è innegabile che esistano opere d’arte anche millenarie che ancora ” 45

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oggi continuano a colpire e affascinare con una forza irresistibile chi le contempla: ammirandole, si pensa che esista davvero un ideale estetico universale. Allo stesso modo, appare evidente che anche il gusto personale è determinante quando si tratta di esprimere un giudizio estetico. Considerando tutto ciò, ancora oggi non è affatto facile rispondere a semplici domande, come: che cos’è la bellezza? E qual è il suo rapporto con l’arte?

I mitazione della realtà

Può sembrare strano, ma lo “studio della bellezza” è relativamente recente: l’estetica, intesa letteralmente come lo “studio di ciò che è percepibile con i sensi”, è un termine coniato verso la metà del XVIII secolo dal filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten. Anche

«Il bello è ciò che

piace universalmente e senza concetto.»

IMMANUEL KANT

se non esplicitamente chiamata in causa come branca della filosofia, tale disciplina affonda le sue radici nella Grecia del V secolo a.C., la culla del pensiero occidentale. In particolare, è Platone il primo a occuparsene criticamente, esprimendo un giudizio netto nella Repubblica. Secondo la sua visione, il processo artistico primario è quello dell’“imitazione”, la mimesi. Possiamo parlare di buona arte, sottintende Platone, quando il livello di verosimiglianza dell’opera è tale da richiamare alla mente di chi la osserva l’oggetto reale. Che sia buona o cattiva, però, Platone non vede l’arte sotto una buona luce. Come potrebbe, del resto? Se infatti (come insegnava ai suoi allievi) il mondo del reale altro non è che la copia di un modello ideale, la sua riproduzione artistica non potrà essere altro che una copia della copia. Seguendo il ragionamento platonico, le opere d’arte sono addirittura dannose alla società, perché chi le ammira si allontana senza saperlo di un altro passo rispetto alla verità. Questo vale per la pittura e la scultura, ma anche per la poesia, colpevole, a suo dire, di lasciar parlare le passioni, distraendo la mente dalla sua missione più alta, che è la ricerca della verità. Discorso analogo per la musica, della quale si salverebbe solo la struttura matematica che la sostiene. Bello, secondo Platone, è solamente ciò che coincide con il bene: del resto, “bello e buono”

La forma è il significato

A

l pari di Kant, anche Clive Bell, critico e filosofo dell’arte inglese del XIX secolo, parte dalla convinzione che l’arte abbia l’unico fine di produrre un’emozione estetica disinteressata. Cercando di scoprire cosa colpisca davvero il nostro senso estetico, Bell individua tale caratteristica nella “forma significante”: in poche parole, ciò che conta in un’opera d’arte non sarebbe il suo contenuto o il suo significato, quanto il modo in cui le diverse componenti sono in rapporto tra di loro. Questa teoria dimostra la propria efficacia soprattutto quando si tratta di spiegare il fascino esercitato da certa pittura astratta, oppure dalla musica contemporanea: per apprezzare quest’ultima, infatti, non è necessario trovare un significato nella forma, ma godere della pura successione delle battute e delle note all’interno delle scale, che producono il risultato finale.

BELLEZZA È EMOZIONE Per definire la bellezza, molti pensatori invocano l’impatto emotivo che gli elementi estetici propri dell’oggetto contemplato suscitano in chi li osserva, come fa il surrealista Salvador Dalí in quest'opera del 1940. Nelle pagine precedenti, la Primavera di Sandro Botticelli (1482).

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Che cos'è la bellezza?

« L ’opera d ’arte

è una combinazione di linee, forme e colori posti

in certe relazioni tra loro

che produce un’emozione estetica.»

NIGEL WARBURTON

(kalòs kai agathòs) era l’ideale dell’eroe greco. Al pari del suo antico maestro, anche Aristotele considera l’arte come imitazione della realtà, ma in questo caso non si tratta di un difetto, anzi: l’artista, rielaborando il modello originale, compie un’azione creativa, quindi fornisce un contributo originale. Platone e Aristotele concordano sul fatto che l’arte sia in grado di suscitare passioni, ma anche in questo caso il loro giudizio diverge: Aristotele, al contrario di Platone, ritiene che questa sua capacità di suscitare sentimenti, anche negativi, abbia un effetto catartico sugli spettatori. Se l’arte è imitazione, in che modo essa può rappresentare la bellezza? È ancora Aristotele a spiegarcelo in maniera chiara, quando, nella sua Poetica, spiega che «per essere bella, una creatura, così come qualunque oggetto formato da più parti, deve presentare un certo ordine riguardo alla composizione di tali parti». Ancora più esplicitamente, nella Metafisica spiega che «le principali forme della bellezza sono l’ordine, la simmetria e il limite». Si tratta di un approccio matematico all’estetica, che cerca di dare risposta a una domanda fondamentale: la bellezza è oggettiva, cioè si basa sul rispetto di leggi precise che noi riconosciamo istintivamente, oppure dipende dai gusti e dalle inclinazioni personali del singolo individuo? Per Aristotele, evidentemente, la prima ipotesi è quella corretta. Se davvero la bellezza risiede esclusivamente nel rispetto delle leggi dell’armonia e della matematica, però, basterebbe conoscere tali leggi e applicarle per ottenere un’opera d’arte; per esempio, dovremmo considerare una sedia costruita da un bravo artigiano più “bella” di un quadro di Botticelli o di Dalí. Dobbiamo aspettare l’inizio del III secolo d.C. per imbatterci in una visione diversa dell’arte e della bellezza che essa è in grado di esprimere. A proporla è Plotino, il padre del neoplatonismo. Superando le posizioni dei suoi illustri predecessori, egli afferma che non è la simmetria in sé a rendere bella una scultura, ma ciò che nella simmetria viene sottinteso, vale a dire la forma che l’artista ha saputo dare alla materia. È l’artista, quindi (o meglio, la sua intelligenza), a creare l’arte, che pertanto non può più essere considerata una semplice imitazione della realtà. Si tratta di una posizione decisamente “moderna”, che troverà riscontri significativi nell’epoca medievale. Prima di allora, però, la filosofia cristiana e quella medievale esprimeranno ben altre opinioni al riguardo. Uno degli effetti che la bellezza provoca in chi la contempla è una sorta di “commozione”: quando osserviamo (oppure, nel caso della musica, ascoltiamo) qualcosa che ci piace davvero, avvertiamo un trasporto emotivo. Secondo sant’Agostino, tale sentimento è ” 47

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La bellezza è oggettiva, il gusto è soggettivo

E

siste qualcosa come la bellezza assoluta? L’uomo si pone questa domanda da millenni, tuttavia mai come oggi trovare una risposta sembra difficile, considerata la varietà di mezzi, stili e correnti esistenti. Secondo il filosofo Stefano Zecchi, oggi occorre distinguere tra bellezza (che possiede “una propria oggettività”) e percezione della bellezza, che prende il nome di “gusto”. È quest’ultimo che cambia, e che fa apprezzare maggiormente uno stile o un artista rispetto a un altro. A cambiare nel tempo, dunque, sarebbe la rappresentazione della bellezza, non la bellezza in sé. Pertanto, Zecchi suggerisce di studiare la “fenomenologia della bellezza”, ossia le sue diverse manifestazioni nel corso delle varie epoche storiche Nell’immagine, il particolare di una scultura universalmente riconosciuta come esempio di bellezza assoluta: il David di Michelangelo.

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Che cos’è la bellezza?

S

dovuto al fatto che in quel “bello” noi vediamo l’immagine del Bello divino. In effetti, il grande Padre della Chiesa associa spesso la parola “bellezza” al nome divino: nei Soliloqui, per esempio, definisce Dio «bontà e bellezza, nel quale, dal quale e per il quale è buono e bello tutto ciò che è buono e bello». La bellezza (e la bontà, binomio classico inscindibile) è emanazione della bellezza divina, insomma; e poiché l’uomo è creato a immagine di Dio, riesce a percepire tale bellezza con la sua anima. Anche Plotino aveva confermato il legame tra bene e bellezza, ma in quel caso la seconda era subordinata al primo; Agostino, invece, non ha

Verso la fine dell’arte

econdo il filosofo americano contemporaneo Arthur Coleman Danto, quella che stiamo vivendo è un’età “post-storica” dell’arte, la quale avrebbe terminato il suo percorso evolutivo nel momento in cui opere come le celebri Brillo Box di Andy Warhol (riproduzioni di scatole di detersivo) vennero considerate opere d’arte, esposte nelle gallerie di tutto il mondo e vendute a cifre astronomiche. Se infatti l’arte è rappresentazione di un oggetto, nel momento in cui coincide con quest’ultimo, allora ha raggiunto il suo limite. Forse proprio per questo motivo, per molti, risulta difficile considerare la pop art e le correnti da essa derivate come genuine forme artistiche. Al riguardo, è interessante riportare l’opinione di un critico contemporaneo al movimento, Harold Rosenberg, che evidenziò come «la mano dell’artista non ha alcuna parte nell’evoluzione dell’opera, né la personalità dell’artista è coinvolta nel processo creativo».

«T utto il mondo si dispiega di fronte a noi impaziente che lo inventiamo,

non che lo ripetiamo.»

PICASSO

COPIA O IMITAZIONE: LA DIFFERENZA È difficile stabilire se la riproduzione fedele di un oggetto sia anch'essa un’opera d’arte: per poterla reputare tale, essa dovrebbe contenere almeno un elemento di originalità. A sinistra, una delle lattine di zuppa Campbell riprodotte in serie da Andy Warhol.

dubbi nel far discendere la bellezza direttamente da Dio. Secondo la sua visione, l’uomo percepisce una cosa come “bella” quanto più quella cosa si avvicinerà al divino. Una prospettiva dichiaratamente metafisica, ma che non esclude affatto l’intervento della razionalità. In effetti, Agostino fa notare che la bellezza si gusta con la vista e l’udito, mentre a nessuno verrebbe in mente di definire bello un odore o un sapore. Gusto e olfatto sono considerati sensi inferiori, legati soprattutto alla soddisfazione dei bisogni primari del nutrimento; vedere e sentire, invece fanno da tramite tra i fenomeni visti e uditi e la mente, che ne comprende il significato superiore. Agostino arriva a concepire un’idea platonica della bellezza: chi contempla la realtà attorno a sé, percepisce attraverso i sensi forme e armonie, ma la sua mente riesce a discernere la bellezza perfetta.

C olpire anima e intelletto

Più complicato il discorso sull’arte, dove la bellezza di un’opera dipende proprio dal fatto che si tratta di una finzione, e non di una verità oggettiva, dal momento che le sue forme e la sua struttura rispondono alla mano dell’artista che le produce, e non ai criteri naturali. Un’opera d’arte, dice Agostino, è vera sotto certi aspetti, quelli appunto artistici, ma è falsa relativamente alla realtà esistente. «Rispetto alla loro intima verità, giova solo il fatto che sono false rispetto al resto» scrive nei Soliloqui, ” 49

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«Il bello delle cose è nella mente che le contempla.»

DAVID HUME

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Che cos'è la bellezza? per indicare il paradosso dell’arte, che per essere vera in sé deve essere falsa esteriormente. Secondo questo ragionamento, possiamo affermare che bellezza e arte vivono un rapporto quantomeno problematico: la prima proviene da Dio ed è quindi necessariamente vera; la seconda, per sua stessa natura, è falsa. La posizione di Agostino è quella che si definisce “intellettualistica”: ciò che conta, per lui, è la ricerca del vero universale, mentre l’ambiguità rappresentata dall’opera d’arte è inaccettabile. Otto secoli più tardi, san Tommaso d’Aquino propone una visione della bellezza che cerca di armonizzare la visione aristotelica con i precetti cristiani ed elenca le sue tre doti: integrità e perfezione («le cose incomplete sono deformi»), proporzione e armonia e, infine, chiarezza e splendore. Il fatto che l’uomo ami

«Il bello è la prima manifestazione di

Dio.»

PLOTINO

ciò che è integro, proporzionato e luminoso, secondo Tommaso, dimostra che esiste una corrispondenza tra ciò che è dentro di lui e quello che i suoi sensi avvertono. Per il filosofo, tale corrispondenza è legata al fatto che la bellezza è verità (che l’uomo riconosce), e la verità è Dio; non per niente, egli indica proprio la bellezza come uno degli attributi di Gesù. Tommaso non distingue tra natura e arte, ma espone le regole che rendono qualcosa “bello” per l’essere umano. Bello è «ciò che piace alla nostra vista», scrive nella sua Summa theologica. L’analisi di Tommaso parte dall’assunto fondamentale che ciò che è bello (e buono) riconduce inevitabilmente a Dio, quindi a un’unica verità. Ne consegue che dovrebbe esistere un unico tipo di bellezza percepita, mentre sappiamo che ogni cultura ed epoca storica ha proposto propri modelli, tutti diversi tra loro. Le caratteristiche della bellezza indicate da Tommaso, inoltre, oggi appaiono troppo limitanti: se dovessimo applicarle rigidamente al nostro giudizio, non potremmo in alcun modo considerare artistici movimenti come l’impressionismo, l’astrattismo, il dadaismo, né celebrare le opere di autori come Munch, Picasso, Dalí. Occorre attendere il Quattrocento e il Rinascimento perché l’arte cominci ad affrancarsi dall’ambito religioso. ” 51

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Intanto, pittura, scultura e architettura si stavano già trasformando da arti “meccaniche” in arti “liberali”, e gli artisti, in generale, iniziavano a essere percepiti sotto una luce tutta diversa, già simile a quella di oggi; ormai si distinguevano nettamente dagli artigiani. Per arrivare a una vera e propria teoria estetica bisogna attendere però il Settecento e l’empirismo del filosofo scozzese David Hume.

Una questione soggettiva

La bellezza è negli occhi di chi guarda: una frase che tutti abbiamo ascoltato (e, probabilmente, pronunciato) molte volte, magari senza renderci conto delle profonde implicazioni filosofiche che tale approccio sottende: la soggettività della percezione estetica, ovvero il fatto che ognuno di noi può percepire come bello ciò che bello, per altri, non è. L'inglese David Hume è stato il primo a concettualizzare quest’intuizione: «La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla» scrive infatti nelle Dissertazioni sulla tragedia. Si tratta di una prospettiva del tutto nuova e, per certi versi, ardita: infatti, mentre la maggior parte dei pensatori antichi e di quelli medievali poneva la bellezza oggettivamente al di fuori dell’osservatore, Hume adesso sostiene fermamente che «la bellezza non è una qualità intrinseca alle cose, ma esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente percepisce una bellezza diversa». Di più: «Ogni individuo deve accettare la propria inclinazione estetica e non pretendere che gli altri si uniformino a essa». Anche Immanuel Kant sposta l’obiettivo sul soggetto: la bellezza provoca, in chi la sperimenta, un giudizio contemplativo, senza che il piacere provato durante tale contemplazione derivi da un interesse per l’esistenza dell’oggetto, come invece capita per ciò che è buono o piacevole. La bellezza non è quindi una caratteristica intrinseca di un oggetto o di un’opera, ma deriva dalla capacità di eccitare lo spirito di chi la ammira. Il piacere che si prova di fronte a qualcosa di bello nasce dall’applicazione congiunta dell’immaginazione e dell’intelletto: due facoltà, appunto, soggettive, in grado di produrre uno stato d’animo che può essere comunicato e condiviso con altri individui. Si viene così a definire un “senso comune estetico”, grazie al quale i giudizi individuali possono venire espressi compiutamente e assumere un valore sociale. Il genio artistico, secondo Kant, è quello di chi esprime “idee estetiche”, rappresentazioni dell’immaginazione capaci di far pensare chi le individua nelle opere d’arte. Per quanto complesso e articolato, l’approccio kantiano appare decisamente più

La bellezza umana, un concetto in evoluzione

P

erché consideriamo “belle” alcune precise carat teristiche del corpo umano? La risposta è, almeno nella maggior par te dei casi, poco “filosofica” e molto “biologica”, e ha a che fare con le leggi dell’evoluzione. A venire considerati belli (e quindi desiderabili) sono i corpi che appaiono più sani e funzionali rispetto ai compiti per i quali sono stati selezionati. Ecco, così, che, per quanto riguarda le donne, i fianchi torniti, il seno florido e, più in generale, le curve generose trasmettono l’idea di una costituzione adatta alla procreazio-

ne, così come un corpo armonico e muscoloso (spalle larghe, torace ampio, assenza di difetti e irregolarità somatiche) nell’uomo è indizio di for za e c apacità fisiche, che saranno utili a offrire protezione e sostentamento alla prole. Tuttavia, anche alcuni canoni di bellezza fisica sono soggetti a cambiamenti culturali. Soprattutto in epoche antiche, la grassezza era indizio certo di opulenza, pertanto rappresentava un motivo di forte attrazione per le donne alla ricerca di un marito in grado di offrire, a loro e ai figli, sicurezza economica.

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Che cos'è la bellezza?

N

L’autore? È morto!

egli ultimi decenni, si è af fermata una corrente di pensiero filosofico “postmodernista” che considera il significato di un’opera d’arte definito soprattutto dal contesto sociale e dagli interessi del pubblico; allo stesso modo, considera la sua creazione come il risultato degli influssi delle forze sociali e culturali sull’artista che la produce fisicamente. Secondo tale visione, dunque, è un errore attribuire la creazione dell’opera d’arte a un unico individuo. L’ha spiegato bene l’artista Marcel Duchamp, quando ha affermato che «l’atto creativo non è compiuto dal solo artista; è lo spettatore che mette l’opera in contatto con il mondo esterno, decifrandola e interpretandone le sue caratteristiche più intime, aggiungendo così il proprio contributo all’atto creativo». Il filosofo francese Roland Barthes è stato ancora più drastico, annunciando senza mezzi termini la “morte dell’artista”.

IL VERO FINE DELL’ARTE Perché facciamo arte? Secondo alcuni, per procurare un piacere emotivo, suscitare un moto dell’anima; altri, invece, la ritengono un’esperienza intellettuale. Fino al Rinascimento, la filosofia ritenne di aver trovato nella proporzione il segreto della bellezza, come dimostra l'Uomo vitruviano disegnato da Leonardo da Vinci (nella pagina a fronte). Nella foto sotto, Benedetto Croce, che vedeva nell’arte un’esperienza spirituale.

vicino a una concezione moderna dell’arte rispetto al tradizionale approccio “oggettivista” sostenuto dai maggiori pensatori antichi.

L’utilità del bello

Qual è lo scopo dell’arte? Che cosa può darci, e perché ne siamo attratti? Georg Wilhelm Hegel ha provato a rispondere a queste domande. Nel corso delle lezioni universitarie tenute a Heidelberg e Berlino tra il 1818 e il 1829, Hegel tratteggiò quella che, per molti, rappresenta la riflessione più completa e approfondita sull’argomento. Per Hegel, tutto ciò che è ideale è superiore a ciò che appartiene al mondo fisico. Dunque, l’essenza della bellezza può trovarsi solo nell’arte, in quanto essa origina dallo spirito, e non dal mondo naturale. Il fine ultimo dell’arte non è quello di imitare la realtà, né quello di suscitare sentimenti: si tratta, piuttosto, di rivelare la verità attraverso una rappresentazione “sensibile”, cioè percepibile attraverso i sensi. L’opera d’arte riesce in tale intento perché è in grado di mediare tra

« La bellezza è lo splendore dell’Essere.»

PLATONE

spirito e materia, tra particolare e universale. In questo senso, l’arte rappresenta una tappa verso la liberazione dai limiti della natura e il ritorno alla piena comprensione di sé. Poiché presuppone un’azione, quella del “fare” l’opera, l’arte lega lo spirito ai limiti della materia, ma in diverso grado, a seconda della forza di tale legame: così, architettura e scultura sono le arti maggiormente condizionate dalla vicinanza alla materia, mentre la pittura, la musica e la poesia permettono allo spirito di liberarsi gradualmente dai vincoli del mondo fisico. Una risposta completamente diversa alla domanda arriva infine da Benedetto Croce (1866-1952), per il quale l’arte non ha cittadinanza nel mondo fisico, non deve necessariamente procurare un piacere e non è nemmeno utile: si tratta di un momento istantaneo di conoscenza spirituale, un’intuizione che, secondo il pensatore abruzzese, è un fatto spirituale, inscindibile dell’intuizione stessa. Una conclusione, questa, che da un lato può deludere chi è alla ricerca di risposte specifiche sui fini e i meccanismi alla base del nostro modo di percepire e intendere la bellezza, ma dall'altro, in qualche modo, ci autorizza ad ampliare il nostro campo di ricerca del bello in tutte le aree di espressione dell’essere umano, comprese le più moderne, come cinema, fumetto e la televisione. 53

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Tutti noi la sogniamo, tutti noi la desideriamo, ma raramente ci accorgiamo di averla davvero raggiunta: è la felicità, e ognuno la cerca in modi e luoghi diversi

F

elicità: senza dubbio un concetto sfuggente, non tanto nella sua definizione, sulla quale è facile concordare, quanto nei contenuti che la circondano. Ci riferiamo alla felicità quando vogliamo indicare uno stato d’animo che segue alla realizzazione dei nostri desideri. Appena formulata tale descrizione, però, ci accorgiamo che abbiamo solo spostato i termini del problema: quali sono i desideri il cui esaudimento porta alla vera felicità? Posso raggiungere una felicità assoluta, oppure si tratta di uno stato momentaneo? La felicità è davvero il fine ultimo della nostra vita? Sono tutti

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Esiste la felicità interrogativi che, in forme diverse, l’uomo si pone da sempre, e non è certo un caso che anche la filosofia abbia scelto di prestarvi attenzione.

Un’indagine onesta

Il problema della felicità è stato affrontato soprattutto nel periodo classico, all’inizio della storia della filosofia. Anche se non riusciamo descriverla con certezza, sappiamo per certo che possiamo sperimentare la felicità solo in assenza di pericolo, di tristezza o di dolore. Già nel V secolo a.C., Socrate aveva ragionato sul fatto che la felicità potesse rappresentare la condizione di

quell’anima che ha raggiunto la virtù: un termine, quest’ultimo, che dev’essere inteso non solamente nella sua usuale accezione morale, ma in quella più ampia di “qualità” e “piena potenzialità”. Dunque, si tratta di una condizione che può essere ottenuta solo quando l’anima ha raggiunto il proprio fine. In questo caso, Socrate identifica la felicità con una sensazione di benessere e di distacco dal dolore, che egli indica con il termine “eudemonia”, che letteralmente indica la presenza di un “buon demone” (daimon, una sorta di guida celeste che ci accompagna dalla nascita) e che è in antitesi con la disarmonia (un disordine interiore causato dal ”

?

L’ESPERIENZA ESTATICA

Nella foto sopra, la Transverberazione di S. Teresa d’Avila del Bernini (1650 ca.), che interpreta magistralmente il più alto grado di felicità raggiungibile in vita: l’estasi mistica.

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vizio). L’ipotesi che il raggiungimento della virtù sia condizione necessaria e sufficiente per essere felici è condivisa anche dal più celebre degli allievi di Socrate, Platone, e fornisce forse una spiegazione convincente per la sensazione di benessere che proviamo quando sentiamo di aver fatto qualcosa di “giusto” secondo i nostri parametri morali, o semplicemente di aver compiuto il nostro dovere. Porre l’accento sulla virtù aiuta anche a distinguere il concetto di felicità da quello di piacere. Quest’ultimo, infatti, può essere passeggero, mentre la prima, come abbiamo detto, rappresenta uno stato duraturo. Per spiegare questo passaggio fondamentale,

«Tutti vogliono vivere felici, ma quando

si tratta di veder chiaro cosa può rendere

felice la vita, sono

avvolti dall’oscurità.»

SENECA

nell’Etica nicomachea, riferendosi al piacere, Aristotele utilizza il famoso detto «una rondine non fa primavera»: non dobbiamo scambiare la comparsa di qualche raro e breve attimo di gioia per vera felicità. L’idea di felicità aristotelica è particolarmente interessante perché appare molto diversa da quella che oggi risulta predominante. Essa, infatti non ha nulla a che vedere con i concetti di spensieratezza e innocenza ai quali spesso la associamo. Anzi, secondo il filosofo, i bambini non possono essere davvero felici, perché non hanno vissuto abbastanza a lungo e non possono ancora avere ben compreso e imparato a esercitare la propria virtù; dunque la felicità è alla portata solo di chi è maturo. Prima di Aristotele, Platone aveva sviluppato l’idea di felicità socratica in relazione all’equilibrio tra le diverse spinte dell’anima umana, che secondo lui è composta da tre parti: irascibile, concupiscibile e razionale. Nelle prime

due categorie si originano gli impulsi legati alla dimensione fisica, corporea, mentre la terza è la sede del pensiero, grazie al quale si può accedere al bene. Nel Filebo, Platone espone la tesi che una vita buona è quella in cui si mescola l’esperienza dei piaceri positivi, di tipo intellettuale (la musica, l’arte, la conoscenza che appaga la sete di sapere) con l’utilizzo dell’intelligenza, alla quale spetta anche il delicato compito di distinguere tra piaceri buoni e piaceri cattivi. È difficile non concordare con la proposta platonica, almeno a livello intellettuale; eppure, spesso ci sorprendiamo a pensare alla felicità

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Esiste la felicità?

Che cosa succede quando siamo felici?

A

l di là delle cause che generano felicità, la sensazione che proviamo quando “siamo felici” deriva da processi mediati da biomolecole, capaci di intervenire sul nostro umore, al punto che qualcuno si spinge a parlare di “biologia della gioia”. In effetti, l’arsenale chimico di cui dispone il nostro organismo per stimolare risposte appaganti a eventi positivi è piuttosto vario e articolato. Tr a l e m o l e c o l e p i ù importanti ed efficaci si annovera certamente la serotonina, un ormone sintetizzato dagli animali anche (ma non solo) attraverso un particolare tipo di neurone del sistema nervoso centrale e che influisce in maniera importante sull’umore, tanto da essere chiamato l’“ormone della felicità”. La dopamina è invece rilasciata da altre cellule nervose, contestualmente alla soddisfazione di un bisogno fisico e dal raggiungimento di risultati gratificanti. Studi sulla depressione, hanno evidenziato il ruolo che la prolattina potrebbe giocare nella regolazione dell’umore. Le endorfine, da parte loro, oltre a minimizzare la percezione del dolore, stimolano i centri cerebrali del piacere, arrivando a provocare veri e propri accessi di euforia.

come a qualcosa di più concreto, quasi fisico. In questo caso, possiamo trovare una sponda illustre in un altro greco: Epicuro.

L a differenza con il piacere

La concezione della felicità “virtuosa” non è stata certo l’unica a emergere nel pensiero antico. Nel III secolo a.C., l’insegnamento di Epicuro rovescia in buona parte l’impostazione socratica, anche se in modo decisamente diversao da ciò che di solito si è portati a pensare a proposito degli insegnamenti della sua dottrina. Essa non riguarda tanto la ricerca del godimento dei piaceri materiali, quanto la liberazione dai timori e dalle paure. Non per niente, la dottrina di Epicuro viene anche detta del “quadrifarmaco”, perché è come una medicina che cura le tre grandi paure dell’uomo

(quelle degli dei, della morte e del dolore) e spinge al godimento dell’unico vero piacere possibile, che è quello del momento presente. L’epicureismo ci può anche confermare nell’idea che solo gli anziani possano essere felici, dal momento che a loro il futuro non riserva più i pericoli e i dolori che un giovane invece deve ancora provare. La distinzione tra piacere e felicità è ancora oggi ardua e controversa, e coinvolge a pieno titolo anche gli psicologi. Tra loro, il contemporaneo Martin Seligman, considerato fondatore della “psicologia positiva”, una dottrina che ha come l’obiettivo di aiutare l’uomo ad aumentare le condizioni che rendono la vita degna di essere vissuta. Secondo Seligman, la differenza tra piacere e felicità (che viene identificata in termini ”

COMBATTERE LE PAURE Il segreto della felicità? Non avere paura. È questa l’antica ricetta tramandataci dagli epicurei e che ancora oggi molti condividono. Nella pagina a fronte, un busto di Seneca.

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psicologici con la “gratificazione”) risiede nel fatto che il primo è momentaneo e, soprattutto, genera assuefazione e dipendenza. La seconda richiede invece impegno e dedizione; una volta conseguita, tuttavia, non solo provoca

« La felicità e i piaceri sono solo una chimera

che l’illusione ci mostra in lontananza.»

ARTHUR SCHOPENHAUER

il benessere, ma carica di significato positivo l’intera esistenza. Non è difficile scorgere in questa tesi una chiara eco della lezione degli antichi maestri greci, segno forse che l’idea di vera felicità non è, dopotutto, così difficile da rintracciare, circoscrivere e condividere.

È

Il benessere: un sinonimo?

possibile trovarsi in difficoltà, perseguitati dalla sfortuna eppure sentirsi felici? Secondo Friedrich Nietzsche, sì. Anzi, sarebbero proprio le avversità a permettere all’uomo di provare la vera felicità, che per il filosofo corrisponde alla sensazione provata quando si impiega la propria forza vitale per affermare se stessi e creare il proprio mondo. Al contrario, vivere in una situazione piacevole, senza affanni o problemi, porterebbe inevitabilmente a uno stato di pigrizia che impedisce di raggiungere la pienezza dell’essere. Non è, per usare le parole dello stesso filosofo, una felicità “da malati”, ma piuttosto una felicità totale, che non ha nulla di razionalistico o materialistico, ma neppure di spiritualistico. Una felicità, scrive nel suo breve saggio giovanile Può un invidioso essere felice?, «aperta e ridente, alla cui luce gli occhi degli sconosciuti si accendono e i volti ostili divengono cor tesi». Una felicità che può nascere soltanto dalla difficoltà.

L a ricetta giusta

Socrate e Platone ci spingono a cercare il bene e a limitare la ricerca della soddisfazione dei nostri desideri; Epicuro ci indica la strada della liberazione dalle paure come quella da percorrere. In entrambi i casi, sia che si guardi verso l’alto, sia che invece si circoscriva il campo d’azione alla realtà fisica, la felicità è un traguardo che queste filosofie prospettano come raggiungibile. Ma gli altri filosofi, e soprattutto quelli cristiani, che hanno formato gran parte della nostra cultura e del nostro modo di pensare, sono di diverso avviso. Evidentemente, se pensiamo che il

LA FATICA DI ESSERE FELICI Secondo lo psicologo Martin Seligman (nella foto), raggiungere la felicità comporta lavoro e impegno, ma i frutti di tale sforzo sono destinati a durare nel tempo.

bene assoluto esista, e non sia di questo mondo ma ci aspetti in quello che verrà, dobbiamo accettare il fatto che la felicità assoluta può essere incontrata solo nella dimensione ultraterrena. Risale al IV secolo d.C., per esempio, l’insegnamento di sant’Agostino, secondo il quale la religione rappresenta non solo la strada verso la felicità, ma anche quella che dovrebbe allontanare dai (faldi) piaceri fisici. Di felicità terrena parla invece Tommaso d’Aquino (1225-1274), che non la condanna come distrazione, ma la considera un gradino di quella “scala dell’essere” che conduce fino a Dio. Anche Pico della Mirandola (14631494) è sulla stessa lunghezza d’onda: se è vero che solo dopo la morte l’uomo può incontrare la vera felicità, durante la sua esistenza terrena egli può però accedere a una “felicità naturale”: la religione conduce alla prima, la filosofia alla seconda. Ancor più netto è Tommaso Moro (1478-1535), che nello stesso periodo, nel suo capolavoro Utopia, disegna una società ideale. In essa, mentre la promessa della ricompensa divina rimane il premio finale, il godimento delle gioie terrene rappresenta «lo scopo naturale di tutti gli sforzi umani.» Se abbandoniamo la dimensione metafisica e torniamo a un’idea di felicità più concreta e

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Esiste la felicità?

I

I saggi consigli di Cartesio

n una lettera indirizzata alla principessa Elisabetta di Boemia, Cartesio propone alcuni consigli su come essere virtuosi e felici. Le riflessioni del grande pensatore francese sono ancora più interessanti se si considera che egli fu spinto al scriverle nel tentativo di curare, proprio attraverso la filosofia, la depressione di cui la era caduta vittima la sua giovane e aristocratica corrispondente. Per prima cosa, Cartesio distingue tra due tipi di felicità: quella che otteniamo fortuitamente, o comunque senza merito, e quella il cui conseguimento dipende da noi, in quanto deriva da beni quali la saggezza e la virtù. Per accedere a questo secondo tipo di felicità, per

prima cosa bisogna conoscere se stessi e i propri limiti, così da non ritrovarsi a cercare di raggiungere traguardi inaccessibili. Secondariamente, dobbiamo affidarci alla ragione nel prendere qualsiasi decisione, così da evitare di cadere vittime di impulsi irrazionali e fuorvianti. Infine, ricollegandosi al primo punto, Cartesio ci raccomanda di non desiderare ciò che è al di fuori della nostra portata, perché il rimpianto e la delusione ci impedirebbero di essere felici: un uomo ricco, sano e virtuoso sarà sicuramente più felice di uno povero e malato, ma se quest’ultimo coltiverà desideri e sentimenti adatti alla propria condizione potrà anch’egli condurre una vita appagante.

«Ottenere, conservare, ritrovare la felicità è, per la maggior

parte degli uomini, in qualsiasi epoca, il vero movente occulto di ogni loro azione e della loro capacità di sopportazione.»

mondana, incontriamo il pensiero degli empiristi inglesi. In particolare, John Locke (1632-1704), sviluppa la convinzione che l’uomo nasca senza alcun condizionamento innato e privo di costrizioni: una tabula rasa, insomma, libera di ricercare nella realtà i motivi per i quali valga la pena vivere, e che in questo caso sono identificati nelle cose che procurano piacere. «Le cose sono buone o cattive solo in rapporto al piacere e al dolore che procurano» scrive nel suo Saggio sull’ intelligenza umana. «Possiamo chiamare “buono” ciò che può procurare o aumentare il piacere, oppure diminuire il dolore». Anche Locke ritiene che la strada più certa per trovare la felicità sia la stessa che conduce alla “vita eterna”, come scrive nella Ragionevolezza del cristianesimo. Ma, come fa notare lo storico Darrin McMahon, Locke è stato anche tra i primi a postulare un “diritto alla felicità” che, messo nero su bianco un secolo dopo nella Dichiarazione d’Indipendenza dei futuri Stati Uniti d’America, sarebbe diventato una pietra miliare per ogni società civile, noncheé uno dei “diritti inalienabili” di ogni essere umano. Che lo scopo ultimo dell’uomo sia proprio quello di ricercare la felicità, qualunque essa sia, non lo

SOTTO IL SEGNO DI SATURNO Nel ritratto in alto, Elisabetta di Boemia. Cartesio, che restò in contatto epistolare con lei per sette anni, le elargiva consigli per uscire dallo stato depressivo in cui la nobildonna versava. A quei tempi la depressione veniva chiamata “malinconia” ed era attribuita ai transiti del pianeta Saturno.

WILLIAM JAMES

afferma soltanto Locke: lo ribadisce anche Blaise Pascal (1623-1662), quando afferma che la libertà, in fondo, «è il motivo di tutte le azioni umane».

Un obiettivo pericoloso

Oggi, pempre più pensatori mettono in guardia dal fatto che, più che la felicità, siamo spinti a “desiderare di essere felici”. In questo senso, potrebbe avere ragione lo scrittore contemporaneo Pascal Bruckner quando osserva che la nostra è la prima società capace di «rendere le persone infelici per il fatto di non essere felici». La ricerca ossessiva della felicità, se non è guidata da riferimenti sicuri, può diventare pericolosa. Già nell’Ottocento, il saggista Alexis de Tocqueville, domandandosi in quale veste sarebbe potuto riapparire il dispotismo nel mondo, paventava il rischio di una “tirannia della felicità”. Scriveva nella Democrazia in America: «Vedo una moltitudine di uomini, simili e uguali, che vanno alla continua ricerca dei piccoli, banali piaceri con i quali nutrono la loro anima. Al di sopra, c’è un potere immenso, protettivo, unico responsabile della loro gioia e del loro destino; vuole che i cittadini si divertano, purché non pensino a nient’altro. Lavora volentieri alla loro felicità, ma di essa vuole essere l’unico artefice e giudice». 59

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che cos’è

l'amore ? L’amore per un altro essere umano: una delle forze più potenti che si possano sperimentare. Ma il modo in cui questo sentimento nasce e si sviluppa è davvero misterioso 60

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«I

l cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce». Non è la frase di un poeta, ma di uno dei più grandi pensatori della storia, il francese Blaise Pascal (1623-1662), il quale, in realtà, non si riferiva al sentimento dell’amore in sé, ma a un tipo di conoscenza che potremmo definire “intuizione intellettuale”. Eppure, anche se l’amore di cui parla il filosofo è quello per l’Essere universale, o per se stessi, noi interpretiamo questa massima come una verità riferita al sentimento dell’amore. Qualcosa che sempre ci sorprende e ci disorienta, anche se crediamo di conoscerne benissimo cause ed effetti. E, forse, le risposte ai nostri interrogativi in merito alla questione sono nascoste nella ragione…

A lla ricerca dell’altra metà

CHE COSA DICE LA PSICOLOGIA Secondo Sigmund Freud (nella foto), la spinta affettiva influenza le nostre decisioni e le nostre azioni, anche (anzi, soprattutto) a livello inconscio. Il quadro Il bacio, di Francesco Hayez, è del 1859.

Quando scopriamo di provare attrazione per una persona, di desiderarne la vicinanza, pensiamo di sapere esattamente quale sia l’oggetto del nostro amore, vale a dire quella persona stessa. Ma è davvero così? Amiamo veramente la persona per quel che è, o per quel che rappresenta? Il primo a cercare di studiare l’amore come “forza” è stato Empedocle, vissuto intorno al V secolo a.C., il quale riteneva che l’intero universo fosse animato da due forze contrapposte: una repulsiva, l’Odio (o meglio, la Contesa), e una attrattiva, l’Amore, che si avvicendavano nella supremazia sul creato, creando un’alternanza di attrazione e disgregazione tra gli elementi che compongono il mondo. Anche se riferito alla cosmologia, il concetto di amore come affinità appare qui già ben chiaro. Bisogna però aspettare il IV secolo a.C. e rivolgersi a Platone per avere una prima

risposta circostanziata alla nostra domanda. Riprendendo quanto insegnato dal suo maestro Socrate, nel Liside Platone individua nella ricerca del bene il fondamento dell’amicizia e dell’eros. Essi devono essere però considerati anche al di fuori della dimensione umana e riferiti al “Primo amico”, ciò che lega tutte le cose e al quale tutte le cose tendono. Dunque, indipendentemente dal tipo di amore e di amicizia che sperimentiamo, tale

« L ’amore è il desiderio di possedere il Bene per sempre.» 

PLATONE

sentimento nasce dalla ricerca di un bene superiore. È nel Simposio, però, che possiamo trovare un’intuizione che fa meglio comprendere cosa davvero cerchiamo uno nell’altro. Si tratta di una completezza perduta, quella che possedevano i primi esseri, gli androgini, metà uomini e metà donne. Secondo il mito platonico, le due metà vennero separate dagli dei. Da allora, il maschile è alla perenne ricerca della sua metà femminile perduta, e viceversa. L’amore sarebbe dunque una tendenza alla perfezione, un’ammissione di incompletezza. Ma l’amore conosce diversi gradi: partendo da quello più sensibile e fisico, si arriva all’amore per la sapienza, che è il grado più nobile. Una prospettiva assai simile appare nel mondo cristiano, che vede l’amore terreno come inferiore rispetto a quello per Dio. Che però, in fondo, l’oggetto dell’attrazione sia lo stesso e sia ricercabile a tutti i livelli, lo testimonia la ricca tradizione della mistica cristiana, in cui il linguaggio che descrive l’estasi della trascendenza usa termini e metafore propri dell’amore fisico. Era già avvenuto nel Cantico dei cantici, un poema di matrice erotica che, nella tradizione ebraica, prima, e cristiana, poi, ha celebrato l’amore umano in tutte le sue sfaccettature. Questo approccio possiede sicuramente una sua forza implicita, e non è difficile individuare nel sentimento dell’amore riferito a un’altra persona la manifestazione del bisogno di trovare il nostro “pezzo mancante”. In tal modo, però, l’aspetto carnale rischia di scomparire del tutto, mentre sappiamo bene che l’amore contempla anche un elemento concreto, un moto fisico verso l’oggetto amato. A guidare le azioni dell’essere umano sono le emozioni, le passioni, che a volte rappresentano anche un alibi per giustificare eccessi eticamente e moralmente censurabili, come il tradimento, la violenza, la sopraffazione, ma che invece, secondo ” 61

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«Quando si è

sant’Agostino, possono essere disciplinate dalla volontà e volte a un buon uso. Basta prendere esempio da Gesù, che ha amato gli uomini e ha provato l’intera gamma delle emozioni umane.

innamorati, si prova un sentimento

Il sesso è passione, non sentimento

Quando pensiamo all’amore, siamo tentati di precisare se ci riferiamo al sentimento o all’istinto sessuale, considerandoli, di fatto, due ambiti separati. Tale dicotomia viene di solito imputata alla tradizione cristiana, influenzata dal platonismo e dalla sua concezione della triplice anima (concupiscente, irascibile e intellettiva). Questa struttura autorizza a pensare a una gerarchia delle passioni, a seconda del livello dell’anima che esse sollecitano. Così, per esempio, Tommaso d’Aquino distingue tra atti umani volontari (che è possibile sottoporre a un’analisi etica) e involontari (in comune con gli animali). In quest’ottica, la passione va considerata come un movimento che dall’anima si trasmette all’intero organismo, e che procede dall’appetito sensitivo (corrispondente ai primi due tipi di anima, la concupiscibile e l’irascibile), al quale vengono ricondotti amore, desiderio e piacere. È a questo livello che si situa l’istinto sessuale, di origine istintuale (perciò condiviso con gli animali) e pertanto di genere inferiore. Tuttavia, quando viene moderato dalla volontà, anche l’istinto sessuale può offrire un giusto diletto. Se abbandoniamo la visione religiosa e, conseguentemente, gerarchica dei vari gradi di amore in funzione del loro oggetto, arriviamo

Q

di serenità tale

che sembra di essere in paradiso.» FISICO E SPIRITUALE Parlando di amore, di solito ci riferiamo al sentimento declinato in senso romantico, che non sempre si accorda con l’istinto sessuale. Il quadro a destra, di Auguste Renoir, si intitola Gli innamorati (1885).

I diversi tipi di amicizia

uando pensiamo all’amicizia, siamo certi di riferirci sempre allo stesso sentimento? Secondo Aristotele, no: in realtà, ci spiega, esisterebbero ben tre tipi diversi di questo sentimento, ognuno generato da una causa diversa. Scrive infatti nell’Etica nicomachea: «Tre dunque sono le specie di amicizia, come tre sono le qualità che portano all’amicizia e a ricambiare tale amicizia». Come spiega più avanti, le cause a cui si riferisce sono il buono, il piacere e l’utile. Quindi prosegue, spiegando le differenze: «Quelli che si amano reciprocamente a causa dell’utile non si amano per se stessi, bensì perché da tale amore deriva loro reciprocamente un qualche bene; Lo stesso si può dire anche per quelli che si amano a causa del piacere. […] Dunque, coloro che amano a

ALAIN BADIOU

causa dell’utile amano per via del bene che ne traggono, e quelli che amano a causa del piacere amano per via di ciò che di piacevole possono ottenere: non perché la persona amata è quella che è, ma perché essa è utile o piacevole. Dunque, possiamo considerare queste amicizie accidentali […] Quindi, amicizie del genere sono destinate a terminare, poiché le persone non restano sempre eguali, e se non sono più piacevoli o utili, l’amicizia cessa di esistere. […] L’amicizia perfetta è quella tra i buoni e tra quelli che sono simili nella virtù, perché questi si vogliono bene reciprocamente in quanto sono buoni, e sono buoni di per sé; e quelli che vogliono bene a un amico proprio per come è quell’amico. Questa amicizia dura finché i due sono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile, che rimane».

Una strategia evolutiva

D

a quando l’essere umano ha iniziato a stabilire relazioni affettive che andassero oltre la spinta biologica verso la ricerca di un partner sessuale per la riproduzione? Secondo alcune ricerche, l’innamoramento sarebbe una reazione codificata nel cervello, dunque il risultato di un processo antichissimo, durato millenni. L’amore, dunque, non sarebbe un’invenzione moderna, bensì il risultato di una vera e propria strategia evolutiva. Il mediatore biochimico sarebbe la feniletilamina, un ormone che, associato a un’elevata produzione di dopamina e norepinefrina, porterebbe al rilascio di dopamina e a una serie di effetti, tra i quali l’acuirsi delle reazioni emotive provate durante il rapporto sessuale. È sempre la chimica a spiegare anche la famosa “crisi del settimo anno”: secondo gli stessi studi, l’organismo andrebbe gradualmente assuefacendosi alla feniletilamina, rendendosi così refrattario alla sua azione. A quel punto, la vicinanza del partner non scatena più le reazioni iniziali.

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Che cos’è l'amore? a conclusioni decisamente diverse. Secondo alcune teorie psicologiche, possiamo vedere nell’amore la sublimazione di una pulsione eminentemente primaria, ossia quella che ci spinge all’accoppiamento ai fini della perpetuazione della specie. Sigmund Freud (1856-1939), il padre della psicanalisi, arriva a ipotizzare l’esistenza di una vera e propria energia sessuale, la “libido”, in grado di determinare i comportamenti umani nel corso delle varie fasi della sua esistenza. L’importanza attribuita all’eros come forza istintuale dell’uomo ha portato gli epigoni di Freud a conferire alla sessualità un ruolo fondamentale nelle relazioni d’amore, fino a postulare la sovrapposizione tra eros e amore.

Verso una società senza affetto

Sia che lo intendiamo come il rapporto esclusivo tra uomo e donna (o comunque, tra due soggetti singoli, legati da rapporto fisico e affettivo) oppure come relazione di amicizia, oggi lo scenario che ci viene dipinto da pensatori, sociologi e psicologi non appare incoraggiante. Si assiste infatti a una nuova separazione tra sesso e amore, con il primo che ha perso la sua funzione liberatoria per diventare uno strumento di violanza e oppressione. Torna, insomma, di attualità la distinzione tra ciò che nel Medioevo gli scolastici indicavano come “amor benevolentiae” (che ci porta a desiderare il bene dell’oggetto del nostro amore) e l’“amor ”

Uomo e donna amano in modo diverso

T

ra i luoghi comuni più diffusi a proposito delle differenze tra uomini e donne, quello sul diverso modo di vivere e percepire l’amore rimane uno dei più popolari, anche perché coinvolge meccanismi sociali e culturali che lo rendono particolarmente complesso e dibattibile. È infatti difficile affrontare il discorso senza cadere in stereotipi che dipendono dal contesto a cui si riferiscono, non solo storico, ma anche geografico. Analizzando le reazioni alla fine di una storia, però, una ricerca della newyorkese Binghamton University, condotta su un campione di 5.705 tra uomini e donne di 96 Paesi diversi, sembra avere individuato una comprovata differenza di genere. Secondo le conclusioni riportate nello studio,

infatti, le donne soffrirebbero molto di più rispetto agli uomini alla fine di una storia d’amore, ma si riprenderebbero anche più in fretta, suggerendo così il fatto che sono portate a investire maggiormente dal punto di vista emotivo ma anche che sono meglio predisposte a riprendere la loro vita sentimentale. «È una questione di biologia», spiega Craig Morris, ricercatore associato. «Le donne si sono evolute in modo da investire loro stesse in un rapporto sentimentale perché sanno che da quello potrebbe scaturire la maternità. D’altro canto, devono anche essere molto selettive nella scelta del partner, cioè del potenziale padre, quindi sono pronte a sostituirlo con un altro poco dopo avere interrotto il rapporto precedente.»

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« Nell’amore, c’è sempre un certo grado di pazzia. Del resto, c’è anche una certa ragione nella pazzia.»



FRIEDRICH NIETZSCHE

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Che cos’è l'amore? EVOLUZIONE DI UN SENTIMENTO Secondo Zygmunt Bauman (nella foto a destra), l’amore non rimane sempre uguale a se stesso, ma modifica le proprie espressioni secondo i cambiamenti sociali e culturali. La tela di René Magritte, del 1928, si intitola Gli amanti.

concupiscentiae” (che persegue solo il bene del soggetto amante, e non dell’oggetto, e si traduce in una relazione di possesso). È il secondo tipo di amore che sembra caratterizzare la maggior parte dei rapporti attuali. In tale contesto, il sesso viene vissuto senza aspettative di gioia e felicità (che invece deriverebbe dal suo “buon uso”, in senso agostiniano): separato dall’ambito affettivo, assume un carattere transitorio, che non porta ad alcun approfondimento della relazione amorosa. Non è solo la vita sessuale a soffrire della separazione tra le due componenti, ma l’intera sfera affettiva nelle sue varie espressioni. È possibile, allora, trovarsi d’accordo con Zygmunt Bauman (1925-2017), il quale ipotizza che il problema risieda nel fatto che le vecchie modalità con le quali gli esseri umani

stringevano legami tra loro non funzionano più; le nuove procedure introdotte nello scenario moderno devono ancora mostrare la loro validità ed efficacia. Gli incontri virtuali sui social network, le diverse dinamiche del rapporto di coppia, la maggiore instabilità economica e una “società fluida” hanno creato scenari per molti versi inediti anche sul piano sentimentale. I legami di oggi, sempre più allentati e facili da sciogliere, possono essere recisi senza dolore o difficoltà. Sorge allora il dubbio, conclude Bauman, che tale allarmante situazione non sia dovuta tanto a un cambio di paradigma sociale (che pure è innegabilmente avvenuto), quanto alla presa di coscienza di una realtà finora nascosta dalle convenzioni e dalle contingenze storiche. Anche se, fin dai tempi di Aristotele, viene definito un “animale sociale”, l’uomo potrebbe in realtà temere l’impegno richiesto per costruire una relazione con un partner, ma anche con un amico o un gruppo social. Verrebbe così tristemente confermata una visione concupiscente dell’amore, dove tutto quel che viene insistentemente ricercato e desiderato non è l’intimità con l’altro, ma con se stessi. 65

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Possiamo creare una società giusta e pacifica?

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Individuo e collettività: da sempre un rapporto complesso, difficile, delicato, che costituisce il cuore della politica. Tra egoismo e altruismo, qual è la scelta giusta? Ed è possibile ricercare una forma di mediazione?

F

in dal giorno della nostra nascita ci troviamo immersi in un ambiente “sociale”, quello della nostra famiglia. Da quel momento in avanti, tutta la nostra vita trascorrerà in mezzo a parenti, amici, compagni di scuola, colleghi, concittadini… Sono proprio i rapporti con gli altri a formare e definire la nostra esistenza, in senso sia positivo che negativo, vale a dire attraverso le relazioni che intrecciamo e le regole di convivenza che dobbiamo seguire, e che limitano le nostre azioni e le libertà personali a favore del gruppo sociale in cui viviamo. Ma quali sono queste regole? Esiste un sistema migliore degli altri? Quanto è giusto sacrificare di se stessi a favore della società? Sono domande che prima o poi siamo destinati a porci e alle quali, nel corso dei secoli, l’uomo ha dato molte risposte diverse.

Fianco a fianco, come natura vuole

L’UOMO, ANIMALE SOCIALE La definizione “animale sociale” è di Aristotele e indica una delle caratteristiche più significative della nostra natura: il bisogno e il piacere di stare insieme, come illustra questo dipinto di Auguste Renoir (1881).

Pensiamo a un bambino appena nato: trascorsi i primi mesi di vita, durante i quali la sua curiosità è diretta verso gli oggetti e l’ambiente che lo circondano, il suo interesse si orienta verso se stesso e i rapporti con gli individui con cui si trova a vivere. Lo stesso percorso ha compiuto la filosofia: dopo una prima fase in cui si è preoccupata soprattutto della natura e delle sue manifestazioni, l’attenzione dei primi pensatori greci si è presto spostata sull’uomo e sulle relazioni che questi stabilisce con i propri simili. Del resto, la filosofia è nata nella città, quindi all’interno di una società organizzata: come avrebbe potuto non preoccuparsi dei rapporti tra cittadini? E che per i Greci la dimensione comunitaria fosse fondamentale lo esprime chiaramente Platone, ” 67

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quando nel Critone fa dire al suo personaggio: «Tu, Socrate, sei stato fatto dalla città». L’idea che fosse la società a fare l’individuo e non viceversa è stata poi ribadita in maniera ancora più chiara da Aristotele, che addirittura ha definito l’uomo un “animale sociale”, individuando proprio nell’istinto di costruire rapporti interpersonali la sua essenza specifica. Per gli antichi Greci, dunque, la politica (una parola che deriva appunto da polis, città) rappresentava la dimensione in cui l’uomo doveva esprimere il suo valore e le sue capacità: in questo senso, i termini “uomo” e “cittadino” finiscono per coincidere. Dunque, ci dicono i grandi pensatori greci, la politica non solo è utile, ma è addirittura necessari: senza di essa non avrebbe senso parlare di umanità. Perciò, le leggi che regolano i rapporti tra gli uomini assumono il valore più alto, al punto che per seguirle Socrate accetterà la sua condanna a morte rifiutando di fuggire dalla prigione e bevendo serenamente la cicuta, come ci racconta Platone nel Fedone. In realtà, bisogna ammettere che più che la società, Socrate mette al primo posto la giustizia: quando, nel 404, Sparta insediò ad Atene il governo dei Trenta Tiranni, il filosofo, che ricopriva una carica pubblica, si rifiutò di ubbidire agli ordini e di avallare l’arresto di Leonte di Salamina, un uomo innocente. Dunque, sembra dirci il grande ateniese con il suo esempio, essere fedeli ai propri ideali superiori è più importante che osservare le leggi, se queste sono in contrasto

« L ’amore per il prossimo

non è che cattivo amore per se stessi. Si fugge verso il prossimo mentre si fugge da se stessi, e di questo se ne vorrebbe fare una virtù.»

FRIEDRICH NIETZSCHE

con i primi. Allo stesso tempo, però, l’obbedienza alle leggi della comunità arriva a giustificare perfino il sacrificio della propria vita.

Il governo migliore

Fin dai tempi dei Greci, sappiamo che vivere con gli altri è (per alcuni, un male) necessario, a patto però di capire con quali regole gestire tale convivenza. Dal punto di vista sociale, questo significa stabilire quale tipo di governo sia più vantaggioso adottare e, tra i primi a occuparsi approfonditamente della questione si distingue certamente Platone, che analizzando i sistemi di governo possibili conosciuti alla sua epoca (fatta esclusione per quello ideale, quindi irrealizzabile) stila una sorta di classifica, in cima alla quale

BUONE REGOLE PER VIVERE INSIEME Le leggi sono nate con l’intento di disciplinare il comportamento degli uomini, in modo che potessero vivere insieme: la sopravvivenza della società dipende quindi dalla loro osservanza.

Montesquieu: un governo per ogni clima

C

harles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755, nella foto), dedicò molti anni alla redazione della sua opera maggiore, Lo spirito delle leggi, pubblicata nel 1748. In essa egli distingue tre tipi di possibili costituzioni (monarchia, aristocrazia e democrazia) e tre tipi di governo (dispotismo, monarchia e repubblica), ognuno individuato da un carattere distintivo (rispettivamente la paura, l’onore e la virtù). Molto interessante è la teoria secondo la quale gli uomini e il modo in cui si organizzano dipendono da molti fattori: la religione, le leggi, le tradizioni e perfino il clima. Così, la repubblica sarebbe il sistema perfetto per i climi freddi e gli Stati di dimensioni ridotte, mentre ai climi caldi e agli Stati molto estesi sembra addirsi maggiormente il dispotismo. Anche la geografia, secondo Montesquieu, può influire sul tipo di governo da adottare: un’isola piccola come la Sicilia, per esempio, non dovrebbe ambire ad avere lo stesso sistema politico della Scozia, più vasta e dal territorio più montuoso.

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Possiamo creare una società giusta e pacifica? pone la monarchia o l’aristocrazia: secondo il filosofo dovremmo quindi obbedire a un solo individuo oppure a pochi, purché degni e sapienti. Seguono la timocrazia (il governo dei nobili ambiziosi), l’oligarchia (il governo di pochi, più ricchi degli altri), la democrazia (il governo del popolo) e infine, all’ultimo posto, la tirannide. Per Platone, insomma, l’idea che uomini ignoranti e impreparati abbiano facoltà di decidere le sorti dello Stato è la seconda opzione peggiore. La sua è una posizione che oggi definiremmo “politicamente scorretta”, ma che trova d’accordo quanti ritengono che per regolare i rapporti tra i singoli individui occorra la mediazione autorevole di una classe dirigente al di sopra delle parti. La ricerca della forma migliore di convivenza tra gli uomini è continuata senza posa nel corso dei secoli, ma si è rivelata particolarmente pressante nell’Inghilterra del XIV secolo. Al punto che le risposte fornite dai pensatori del Trecento rappresentano un importante punto di partenza anche per noi moderni. Il primo ad avanzare una teoria in proposito, decisamente audace per l’epoca, fu il teologo

John Wyclif (1331-1384), il quale arrivò a suggerire che gli uomini vivessero in un regime che potremmo definire di comunismo ante litteram: se lo scopo di ogni uomo è infatti quello di vivere nella grazia di Dio, e una volta raggiunta quella condizione egli diventa (come prospettato dalle Sacre Scritture) padrone del mondo, allora tutti noi siamo proprietari in egual misura di tutto ciò che è stato creato e che, di conseguenza, deve essere condiviso fra gli uomini. Una posizione alla quale, due secoli più tardi, non si allineò certo Thomas Hobbes (1588-1679), che fornisce un ritratto della natura umana tale da rendere impossibile anche solo vagheggiare la possibilità di una società collettivista come quella prospettata da Wyclif. L’uomo, afferma Hobbes, è per natura in competizione con gli altri, impegnato in una continua lotta che gli garantisca la sopravvivenza in un mondo brutale. Non si tratta di considerare gli uomini “cattivi”, ma solo di prendere atto di uno stato naturale in cui «la forza e l’inganno sono le virtù cardinali», e che può essere superato solo qualora un potere superiore obblighi gli individui a non esercitare i ”

«Vivere per gli altri non è soltanto la legge del dovere, ma anche quella della felicità.»



AUGUSTE COMTE

Dobbiamo preoccuparci anche di chi non c’è

N

LA SCIENZA DELLA SOCIETÀ Auguste Comte è l’inventore del termine “sociologia”, una disciplina nella quale si intende applicare il metodo scientifico per studiare i fenomeni sociali.

on solo con il nostro prossimo: noi siamo in relazione anche con chi non c’è più e chi non c’è ancora. È questa una delle tesi più affascinanti di Auguste Comte (1798-1857), il padre del Positivismo. Secondo il filosofo francese, vissuto nella prima metà del XIX secolo, la società è qualcosa di vivo, in cui ogni membro rappresenta un’unità funzionale che contribuisce a formare, appunto, un organismo vivente vero e proprio, la patria (che Comte trasforma in “matria”, sottolineandone il carattere materno). Così, l’esistenza dell’uomo ha senso solo se si mette in relazione con i suoi simili per formare un Tutto armonico. Comte, però, va oltre, e spiega che dovremmo rivolgere le nostre attenzioni e il nostro ascolto addirittura ai morti, perché sono coloro che ci hanno lasciato il sapere su cui basiamo il nostro modo di vivere. Allo stesso modo, dobbiamo “parlare” anche ai nostri discendenti, agendo con la consapevolezza che le nostre azioni rappresenteranno la loro eredità.

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loro “diritti naturali”, cioè la libertà di compiere o meno determinate azioni. Secondo Hobbes, la società (e quindi la civiltà) può nascere solo se gli uomini rinunciano a tutti i loro diritti (tranne quello all’autodifesa) e li conferiscono a un organismo superiore, sia esso il sovrano o l’assemblea. Nel suo Leviatano, Hobbes esplicita quale dovrebbe essere il patto tra i cittadini: «Io cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a questa assemblea, a patto che allo stesso modo tu ceda il tuo». Ma allora, se accettassimo un accordo del genere, quali libertà ci resterebbero? Quelle garantite dal “silenzio della legge”, cioè relative ai campi dove il sovrano o il parlamento non hanno legiferato, e quelle che hanno a che vedere con la nostra vita e la nostra salute. Il pensiero politico di Hobbes è arrivato fino ai giorni nostri, anche perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non promuove un sistema totalitario: lo Stato, dice, esiste per il bene dei cittadini, e non viceversa.

LA TIRANNIDE NECESSARIA Hobbes (in basso) sostiene che solo un potere politico superiore, come nell’allegoria rapprestata sotto, può permettere agli uomini di vivere in società.

vengano repressi e viga la massima “non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”. A differenza di Hobbes, però, Spinoza considera la democrazia come la forma più naturale di governo: in essa, infatti, l’uomo non trasferisce i suoi diritti in modo definitivo, perché mantiene la possibilità di essere consultato. Inoltre, li trasferisce non ad altri uomini ma alla società nel suo complesso,

L a differenza tra “mio” e “tuo”

Anche Spinoza, contemporaneo di Hobbes, ritiene la natura dell’uomo fondamentalmente e necessariamente egoista: l’uomo ha il diritto naturale a cercare di ottenere ciò che vuole, ma per il suo bene deve vivere secondo ragione e non secondo volontà, stipulare un patto con gli altri e costruire una società in cui i desideri dannosi

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Possiamo creare una società giusta e pacifica? cosicché tutti «continuano a rimanere uguali, come lo erano allo stato di natura». John Locke, dal canto suo, parte da un presupposto più ottimista: crede che gli uomini nascano tutti liberi e uguali e che ognuno di essi sia consapevole di tale legge naturale, che conferisce a ciascuno di noi diritti naturali e inalienabili, come la vita e la libertà. Il filosofo

S

critta nel 1516 e attraversata spesso da lampi di critica ironia, Utopia è l’opera più celebre dell’umanista inglese Tommaso Moro, che evoca la visione di una società ideale. Riprendendo alcuni capisaldi della Repubblica di Platone, l’isola descritta è formata da

britannico, però, si sofferma su un altro problema legato alla convivenza tra esseri umani e che ci tocca ancora oggi da vicino: quello della proprietà. La visione ottimistica della natura umana di Locke lo porta a considerare la terra un bene comune all’intera umanità. Dunque, come giustificare l’esistenza della proprietà privata? Semplicemente con il lavoro, che trasforma una ”

Il sogno di uno Stato perfetto cinquantaquattro città, ognuna abitata da seimila famiglie. La proprietà privata è stata bandita, e a rotazione gli abitanti trascorrono nelle fattorie due anni di lavoro. Tutti, uomini e donne, apprendono anche un mestiere tecnico (come la sartoria, la falegnameria ecc.).

Nessuno è nullafacente, ma il lavoro impegna solo per sei ore al giorno: la vita semplice, l’assenza di vizi e il fatto che nessuno può possedere qualcosa rende semplice soddisfare i bisogni di tutti, e lascia il tempo per dedicarsi alle letture serali oppure

all’ascolto della musica. Le uniche leggi in vigore sono quelle familiari, mentre, per quanto riguarda la religione, gli utopiani adorano il “padre di tut to”, inconoscibile ed eterno, ma a nessuno viene imposto di credervi. Una società perfetta. O quasi…

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risorsa naturale (il bene comune) in qualcosa che appartiene a chi lo ha trasformato. Un uomo, cioè, si guadagna il diritto alla proprietà di qualcosa che ha modificato con la propria opera, rendendolo utile o produttivo. Si tratta di un diritto che precede il patto sociale, non dipende da esso: l’accordo tra gli uomini per la creazione di una società avviene allora per tutelare questo e gli altri diritti naturali. Paradossalmente, quindi, l’uomo trasferisce i propri poteri allo Stato perché questo faccia rispettare i suoi diritti di natura in maniera più efficace rispetto a quanto potrebbe fare lui stesso da solo. Attraverso l’istituzione della moneta e la recinzione delle proprietà, inoltre, il governo permette ai singoli di ampliare il diritto a possedere beni e terre in quantità superiore a quelle necessarie al sostentamento (che è invece il limite fissato dal diritto naturale), quindi a raggiungere la ricchezza. Una possibilità che porterà alla creazione della civiltà industriale e del sistema capitalistico. In pieno Ottocento, emerge una questione fondamentale, che investe la relazione intercorrente tra proprietà privata e rapporti fra singoli all’interno della società. La sua importanza diventa la base della riflessione di pensatori come i tedeschi Friedrich Engels (1820-1895) e Karl Marx (1818-1883), destinata a gettare le basi dell’ideologia comunista che, nel bene e nel male, ha caratterizzato la storia politica e sociale dell’ultimo secolo. Il secondo, in particolare, parte dall’analisi della drammatica situazione degli operai delle fabbriche, poveri, costretti a lavori ripetitivi e privati di qualunque gratificazione: una situazione di spietato sfruttamento e completa alienazione rispetto alla loro vera natura di esseri umani. Il tutto a vantaggio dei capitalisti, che accumulavano ricchezze derivate proprio dal lavoro dei loro operai che, trasformando le materie prime in prodotto finito, generavano un “plusvalore” che, a differenza del modello di Locke, non rimaneva nelle mani di chi lo aveva creato, ma finiva in quelle dei “padroni”.

Tu e io: tra amicizia ed etica

Nella visione di Marx, i beni avrebbero invece dovuto essere prodotti da ognuno secondo le capacità individuali e ceduti alla società, la quale avrebbe distribuito le ricchezze secondo necessità: «Da ciascuno secondo le sue abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Fino al momento in cui tale utopia non si realizzi, il destino della società è quello di essere attraversata da una “lotta di classe” dove ricchi e poveri, padroni e operai sono in conflitto tra loro. Alla fine però, profetizza Marx, il comunismo abolirà ogni differenza di ceto, nessuno possiederà terreni e il lavoro di tutti 72

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Possiamo creare una società giusta e pacifica? contribuirà al benessere generale. Una visione teoricamente ideale, ma che in realtà non si è mai (i più ottimisti dicono: ancora) realizzata. Tra i primi a parlare in maniera approfondita e “filosofica” dell’amicizia c’è sicuramente Aristotele. L’amicizia, dice lo Stagirita, è uno dei motivi per i quali vale la pena vivere, giacché «nessuno sceglierebbe di vivere una vita senza amici anche se avesse tutti gli altri beni», ed elenca tre possibili tipi di amicizia: quella utilitaristica, quella di piacere e quella virtuosa. La prima è un tipo di rapporto interessato, coltivato perché offre un vantaggio pratico, mentre la seconda dà una gratificazione immediata, diremmo edonistica: si tratta di situazioni comuni, che Aristotele attribuisce nel primo caso soprattutto ai vecchi (che hanno bisogno di aiuto) e nel secondo ai giovani (che

La cura degli altri? Roba da deboli!

I

l p e n s a to r e te d e s c o Fr i e d r i c h Nietzsche aveva una visione molto particolare (e controversa) delle modalità che regolano i rappor ti tra gli individui. Così, lungi dal considerare la compassione e la bontà come virtù lodevoli, nel suo Genealogia della morale afferma che a causa dell’invidia nei confronti degli eroi e dei potenti, i deboli e gli schiavi cominciarono a elogiare la gentilezza e la generosità come qualità sociali superiori, a discapito dei valori aristocratici della forza e della volontà. Un cinico cambio di prospettiva che, nella visione eroica e “superomistica” del pensatore, avrebbe fatto compiere all’umanità un terribile balzo all’indietro.

« Chi non è in grado di entrare nella

comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza è o una bestia o un dio.»

UN SEGNO DI SICURA CIVILTÀ La società civile ha spesso sviluppato un’attitudine protettiva nei confronti dei più deboli. Per Nietzsche si tratta di un errore rovinoso, eppure nella Storia non mancano sublimi esempi di carità praticata proprio da nobili e potenti, come nel caso di Elisabetta d’Ungheria, langravia di Turingia e venerata come santa, qui raffigurata da Edmund Blair Leighton mentre distribuisce pane ai diseredati.

ARISTOTELE

ricercano prima di tutto il piacere). Il terzo tipo è il più duraturo, perché si fonda sul bene. Si tratta però, come abbiamo anche oggi modo di sperimentare, di un genere di amicizia molto raro. Ed è proprio a questo tipo di amicizia aristotelica che pensa Cicerone nel suo De amicitia, opera in cui descrive l’amicizia disinteressata come «ciò che è più adatto alla vita dell’uomo, sia nella buona, sia nella cattiva sorte». Un sentimento che, trasposto nella sfera pubblica, diventa una nobile virtù, dalla quale scaturisce una concordia civile che permette allo Stato di prosperare e di superare i momenti di crisi. È facile scorgere in questa visione la derivazione dallo stoicismo greco e allo stesso tempo il suo riverbero sul pensiero cristiano, in cui gli uomini, in quanto figli di Dio, devono considerarsi tutti fratelli. Per quanto riguarda le regole dei rapporti tra gli uomini, la filosofia cristiana si rifà naturalmente agli insegnamenti biblici, che sono ancora oggi alla base di molti dei nostri paradigmi comportamentali: primo fra tutti, amare il prossimo come se stessi. Non a caso, san Tommaso indica tale precetto come il più alto condiviso dagli uomini, nonché ” 73

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Servo e padrone, una ruota che gira

P

er spiegare la necessità dell’uomo di stabilire una relazione con il prossimo, Hegel propone il celebre esempio del rapporto tra servo e padrone. Il primo è tale perché a un certo punto ha avuto “paura della morte” e si è sottomesso al primo, che invece l’ha vinta. Tuttavia, con l’andare del tempo, il servo acquista sempre maggiore potere, perché attraverso il lavoro al servizio del padrone impara a vincere i suoi impulsi (la fase del “servizio”) e infine a cedere i frutti del proprio lavoro. Il padrone, dal canto suo, adesso dipende dal servo, che invece ha imparato a essere indipendente. Questa trasformazione si realizza attraverso il lavoro, ma può verificarsi solo se ci sono sia il servo, sia il padrone: è grazie alla loro relazione dialettica che entrambi possono raggiungere l’autocoscienza di sé, il riconoscimento del proprio ruolo.

«Stare al mondo significa stare fra gli esseri umani, vivere, nel bene e nel male,

in società con gli altri.»

FERNANDO SAVATER

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Possiamo creare una società giusta e pacifica? I DIVERSI RUOLI NELLA SOCIETÀ La filosofia si è occupata spesso del divario fra i ceti sociali, che in alcune epoche era assai marcato, come dimostra questo dipinto secentesco di Charles Le Brun. Sotto, il filosofo Martin Buber.

immediatamente evidente alla ragione. Si tratta, secondo l’Aquinate, di una legge naturale, che altro non è se non emanazione di quella divina.

L’altro è necessario?

Del medesimo avviso si dimostra anche il grande illuminista tedesco Immanuel Kant, che nella Critica della ragion pratica raccomanda: «Agisci in modo da trattare l’umanità, che si tratti della tua o di quella altrui,

« Lo Stato è la realizzazione

della libertà, ossia del fine ultimo

assoluto. Esso esiste come fine in sé.»

GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL

sempre come se fosse il fine e mai il mezzo». Se Aristotele dice che una vita senza amici non vale la pena di essere vissuta, Hegel va oltre, affermando che è solo dal rapporto con l’altro, quindi nell’ambito della società, che un individuo può perseguire i propri scopi e sviluppare le proprie potenzialità. Nella Fenomenologia dello spirito, il filosofo idealista tedesco spiega il concetto con l’esempio del rapporto tra servo e signore, nel quale si dimostra che l’uno ha bisogno dell’altro per sviluppare un’autocoscienza intesa come confronto politico e sociale. Tale visione viene ulteriormente approfondita da Auguste Comte (1798-1857), che considera la società come un organismo vivente, composto dalle singole “cellule” (gli individui) che si uniscono a formare strutture. La necessità del rapporto con l’altro è alla base anche del pensiero sociale del filosofo cattolico tedesco Dietrich von Hildebrand (18891977) e di quello ebreo austriaco Martin Buber (1878-1965), entrambi convinti che solo nel rapporto interpersonale l’individuo possa realizzarsi pienamente: prima come singola persona, quindi nella relazione con un altro individuo (“Io-Tu”) e infine in quella con la società (“Noi”). Sia Hildebrand che Buber sono filosofi contemporanei, ma le loro conclusioni richiamano molto da vicino quelle aristoteliche: per molti, si tratta di una conferma storica della loro validità. 75

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com’è nato È una delle prime domande metafisiche che l’uomo, sia come specie che come individuo, si pone: qual è l’origine dell’immenso cosmo che ci circonda?

«C

i sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne possa sognare la tua filosofia.» Sono trascorsi più di cinque secoli da quando Shakespeare ha fatto pronunciare al suo Amleto questa celebre frase, e certo la scienza ha svelato molti dei misteri che avvolgono l’universo che ci circonda, ma tali parole suonano ancora decisamente vere e attuali. E tra tutte le domande rimaste inevase, quella dell’origine dell’universo resta una delle più ardue e significative, perché non scaturisce solo

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Com’è nato l'universo?

l'universo ? da una curiosità scientifica e intellettuale, ma coinvolge anche l’ambito religioso, arrivando a mettere in discussione il significato stesso della nostra esistenza. Non è certo un caso che dall’inizio della sua storia intellettuale l’uomo abbia tentato di darsi una risposta, prima in forma poetica, chiamando in causa divinità superne più o meno antropomorfe, quindi cercando le risposte nell’osservazione della realtà fisica che lo circondava. La cosmogonia nasce dunque contemporaneamente alla filosofia, la quale fin da subito è stata chiamata a rispondere

a una serie di quesiti che ancora oggi, prima o poi, ognuno di noi finisce per porsi: come si è originato l’universo? È sempre stato e sempre sarà, oppure ha avuto un principio e avrà una fine? E soprattutto: ha un senso, uno scopo finale?

Il principio fondamentale

Immaginiamo di non conoscere nessuna delle teorie e delle evidenze scientifiche oggi a disposizione, e di poter fare affidamento solo sulle nostre osservazioni dirette: quale spiegazione potremmo dare allora all’esistenza dell’universo? È ”

DA SEMPRE E PER SEMPRE Se «nulla si crea e nulla si distrugge», come recita il principio di conservazione della materia, allora bisogna supporre che l’universo esista da sempre e sia eterno.

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« Alcuni uomini pii esclamano: “ All’inizio, vi era Dio”, ma io invece dico: “ All’inizio, vi era l’idrogeno”.»

HARLOW SHAPLEY

la situazione in cui si sono trovati i primi pensatori (i presocratici, vissuti fra il VII e il V secolo a.C.), che si sono concentrati sull’individuazione di un principio fisico a partire dal quale il mondo materiale avrebbe preso forma e vita. Il primo ad avanzare una congettura sull’origine dell’universo fu Talete, che la individuò nell’acqua: dal momento che ciò di cui tutti gli esseri viventi si nutrono è umido, ragionava, allora tutto deve provenire dall’acqua, e all’acqua ritornare. Eraclito, invece, chiamava in causa il fuoco: aveva notato che da esso scaturivano i gas che si condensavano

L’UOMO È “NECESSARIO” Nella Bibbia, Dio prepara l’universo per ospitare l’uomo: Michelangelo immortala questa visione nella Cappella Sistina (sopra). Oggi, il principio antropico afferma che l’universo dev’essere strutturato per permettere l’esistenza dell’uomo.

in forma liquida e, quando questa evaporava, rimanevano i solidi. Anassimene proponeva l’aria, mentre Empedocle coinvolgeva tutti e quattro gli elementi (acqua, aria, fuoco e terra). L’esistenza di uno o più principi, però, non basta a spiegare la realtà, la sua struttura, le sue leggi. Come Aristotele ha illustrato chiaramente nella Metafisica, occorre individuare anche un agente che provochi il mutamento di tali principi e ne determini le trasformazioni e il movimento, mettendoli in relazione tra loro. La soluzione più immediata è quella di invocare l’azione di un ente esterno, un

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Com’è nato l'universo? principio superiore (un dio), oppure una coppia, in quest’ultimo caso per spiegare l’apparente dualismo che spesso sembra regnare in natura: quello più immediato, naturalmente, è tra Bene e Male. Secondo la concezione aristotelica, questi primi filosofi avevano indagato solo la “causa materiale” (la materia che costituisce l’universo) e la “causa efficiente” (chi o che cosa ordina e governa tale materia). Ammesso e non concesso che una di queste teorie risultasse valida, si rivelerebbe comunque lacunosa, perché non spiegherebbe come i principi e ciò che deriva dalla loro interazione interagiscono tra loro (la “causa formale”, vale a dire le leggi), né perché si verifica tutto ciò (la “causa finale”). Anche gli atomisti si erano concentrati sull’aspetto materiale: per loro, alla base della realtà fisica ci sono, appunto, gli atomi, corpuscoli microscopici di varia forma che si possono unire in diversa misura per formare composti che costituiranno i corpi fisici. Un’intuizione decisamente “moderna” (siamo nel V secolo a.C.) ma che si limita a indagare la causa materiale, senza riuscire ad accontentare le menti più curiose, che infatti, fin dai tempi antichi, hanno cominciato a indagare anche le leggi che regolano il mondo, quelle formali, nella speranza di comprenderne il funzionamento più intimo.

Ciò che esiste è razionale

Il principio antropico: noi e il cosmo

A

nche se non possediamo ancora le risposte a tutti i suoi misteri, forse l’universo potrebbe essere così com’è proprio per permetterci di comprenderlo. È la conclusione a cui approdiamo se abbracciamo il cosiddetto “principio antropico”. Espresso in maniera compiuta nel 1974 dal fisico australiano Brandon Carter, quando viene espresso nella sua forma “debole” tale assunto afferma che i valori che possono assumere alcuni parametri fisici propri dell’universo devono essere tali da risultare compatibili con l’esistenza di esseri capaci di osservare l’universo stesso. Nella sua forma “forte”, invece, il principio dichiara che l’universo deve

possedere solo le proprietà che permettano, a un certo punto della sua storia, l’esistenza di esseri che possano osservarlo. Il principio è derivato dall’analisi delle quattro costanti riferite alle quattro forze fondamentali: gravitazionale, elettromagnetica, nucleare debole e nucleare forte. Tali costanti possono assumere valori compresi tra intervalli numerici molto limitati, gli unici che permettono lo sviluppo delle condizioni fisiche e chimiche adatte allo sviluppo della vita. Nella sua formulazione “forte”, il principio antropico implica quindi il legame necessario tra l’esistenza dell’universo e quella del suo osservatore: l’uomo.

Nel VI secolo a.C., i pitagorici avevano già elaborato una teoria cosmologica complessa, secondo la quale al centro del cosmo si trovava il fuoco, attorno a cui i pianeti descrivevano orbite concentriche. In particolare, ercavano di individuare le leggi in grado di spiegare le evidenze che si possono ravvisare nella realtà. A partire dalla scoperta del rapporto esistente tra la lunghezza delle corde di una lira e le note da essa prodotte, avanzarono l’ipotesi che le differenze qualitative con cui si manifestano i vari fenomeni siano dovute a differenze numeriche. Musica e universo sarebbero dunque in intima connessione, al punto da ipotizzare una “musica universale” prodotta dai movimenti dei corpi celesti, inaudibile alle nostre orecchie ma rispondente a rigide regole armoniche. Studiando i rapporti matematico-musicali, dunque, sarebbe possibile comprendere le leggi che regolano i moti e il comportamento delle sfere all’interno di cui ogni corpo celeste (compreso il Sole) si muove, derivando così la causa formale. La relazione musicamoto dei pianeti venne accolta da Platone e più tardi da Tolomeo, per poi passare nella cosmologia cristiana, mediata dalle personalità di sant’Agostino e Boezio, e che molti di noi conoscono per la descrizione che ne fa Dante nella Commedia, dove in più parti viene poeticamente introdotta una legge superiore, quella di Amore, che crea negli astri un desiderio che ne provoca il movimento. L’ipotesi della musica delle sfere arrivò fino al Rinascimento: anche Keplero concepiva un universo strutturato come un insieme di sfere concentriche nel quale ” 79

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C’è un perché se il cielo è buio

S

e l’universo è davvero così grande e popolato di stelle, perché il cielo not turno è buio? Questa domanda ha tormentato un astronomo del calibro di Keplero, e anche il suo collega tedesco del XVIII secolo Wilhelm Mat thias Olbers l’ha espressa nel suo celebre paradosso. Se consideriamo un firmamento pieno di stelle disposte in modo statisticamente uniforme, fissando un punto prima o poi dovremmo incontrare la luce di una di esse. In teoria, quindi, il cielo dovrebbe essere completamente illuminato, e un universo infinito dovrebbe essere infinitamente illuminato. Il dubbio di Olbers, ai suoi tempi, era più che legittimo: solo un secolo e mezzo più tardi, infatti, si sarebbe scoperto che l’universo è in espansione, cosicché la velocità di allontanamento delle stelle rispetto a noi è tanto maggiore quanto più sono lontane. E, a causa dell’effetto Doppler, la luce che emettono ha una frequenza che ricade nella porzione dello spettro corrispondente a quella delle microonde, non percepibile dall’occhio umano. La luce, quindi, c’è, ma non si vede.

SCIENZIA E TEOLOGIA Johannes von Kepler, conosciuto come Keplero (nel ritratto della pagina a fronte), ha elaborato tre leggi dell’astronomia che descrivono il comportamento dei pianeti, senza mettere in dubbio l’esistenza di Dio.

« Non potete neanche immaginare quanto sia divertente capire  come funziona una stella. E il bello è che tutte queste cose 

si possono studiare anche senza lasciarsi divorare dalle solite  eterne domande intrise di presunzione: Chi siamo noi?

Da dove veniamo?

Qual è il senso della nostra vita?

Che cosa ci aspetta dopo la morte?» 

forme, armonie e musica, creata dai movimenti planetari, erano in stretta correlazione. L’idea di un mondo conoscibile nelle sue dinamiche attraverso l’indagine razionale è stata decisiva nello sviluppo della fisica e della cosmologia, e a pensarci bene è il motivo per cui ha senso porsi domande sulla sua forma, il suo inizio, la sua fine. La ricerca delle cause formali, infatti, non mette immediatamente in discussione l’esistenza e la definizione di una causa efficiente e di una finale. In effetti, il campo dell’indagine scientifica è proprio quello delle cause formali, ma con il suo progresso e sviluppo è destinato a influenzare in modo determinante anche gli altri ambiti, primo fra tutti quello filosofico. La famosa “rivoluzione copernicana” del XVI secolo, per esempio, scaturì proprio all’interno di una visione cosmologica che prevedeva l’esistenza delle sfere celesti. Infatti, osservava l’astronomo polacco, i moti dei corpi celesti e degli astri erano più facilmente spiegabili ipotizzando che la Terra e gli altri pianeti ruotassero intorno al Sole (eliocentrismo) piuttosto che continuando a considerare la

MARGHERITA HACK

Terra come il fulcro del sistema (geocentrismo): accettando l’idea dei moti terrestri di rotazione e rivoluzione, diventava possibile ridurre il numero di sfere necessarie a spiegare i fenomeni e, di conseguenza, semplificare l’intera impalcatura teorica. Copernico (1473-1543) non rinunciava quindi all’impianto idealistico, ma si affidava alla ragione, alla geometria e al calcolo per sostenere un certo modello oppure per correggere ciò che risultava in contrasto con le evidenze. Allo stesso modo, Keplero (1571-1630) modificò le orbite da circolari (perfette) a ellittiche e definì variabile la velocità dei corpi celesti; Galileo Galilei (1564-1642), invece, con il suo metodo scientifico che muoveva dall’osservazione verso la formulazione dell’ipotesi e la ricerca della sua conferma, pose in primo piano la ricerca delle cause formali considerate come l’oggetto della scienza, e la matematica come la lingua in cui è scritto il libro della natura: «I suoi caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche senza le quali l’uomo non può capire una sola parola di esso». L’universo, dunque, può essere conosciuto e le sue

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Com’è nato l'universo?

Il cosmo e i suoi limiti

L’

universo si espande illimitatamente oppure, per quanto immenso, ha una dimensione finit a? E in q u e s to c a s o, che cosa c’è oltre i suoi confini? Domande affascinanti e quasi inevitabili, ma destinate a scontrarsi con un limite fisico che non ci permette di cercare una prova diretta. Se infatti accettiamo l’idea di un universo che ha avuto origine nel tempo e consideriamo che la velocità della luce ha un valore finito (circa 300.000 km/ sec), dobbiamo anche rassegnarci al fatto che non potremo mai spingerci a osservare le galassie più lontane, per il semplice fatto che la loro luce, per raggiungerci, impiegherebbe un tempo superiore all’età dell’universo stesso. I confini dell’universo, dunque, sono anche i limiti della nostra conoscenza.

leggi comprese grazie all’indagine razionale. Isaac Newton (1642-1727), con il suo Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, pubblicato nel 1687, applicò con successo l’analisi delle forze allo studio dei moti celesti. Lo scienziato inglese, che era credente, considerava le forze fisiche (prima fra tutte la gravità) come un’emanazione divina, che rappresenterebbe la causa efficiente in grado di garantire il funzionamento dell’intero sistema: Dio, insomma, avrebbe creato l’universo come una macchina perfetta, che una volta messa in moto non ha più bisogno del Suo intervento. La visione deterministica newtoniana, portata alle estreme conseguenze, delinea un mondo regolato da leggi rigorose e ineludibili in tutte le sue componenti, anche le più microscopiche, dove tutto è teoricamente predeterminato. A partire dal Settecento, sarà la scienza a occuparsi in misura sempre maggiore dello studio delle forme e delle leggi dell’universo, mentre la filosofia, invece di stabilirne gli ambiti e i limiti, si ritroverà spesso a riflettere sulle sue scoperte. Gli ambiti in cui essa ha invece ancora competenza ” 81

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« Secondo molte culture, Dio o gli Dèi crearono il cosmo dal nulla. Allora, però, dobbiamo chiederci: e Dio, da dove è venuto? Se stabiliamo che la domanda è senza risposta, perché non risparmiarci un passaggio e dire che è l’universo a essere senza risposta?» CARL SAGAN sono quelli in cui la scienza si dichiara “incompetente”, perché non può applicare il proprio metodo. Rimangono dunque ancora da individuare la causa efficiente e la causa finale.

Perché esiste l’universo

Secondo una visione religiosa del mondo, certamente predominante nei tempi antichi e in epoca medievale, l’esistenza dell’universo era giustificata dall’atto creativo volontario degli dei prima e di un Dio unico creatore poi. Quando però l’ambito teologico e quello filosofico, pur

DOMANDE SENZA RISPOSTA Il nostro desiderio di penetrare i misteri dell’universo è destinato a scontrarsi con i limiti invalicabili della scienza. Dunque, come suggerisce l’astronomo Carl Sagan (sopra), non c’è altro da fare che riconoscerli e accettarli.

continuando a convivere, hanno smesso di coincidere, è diventato inevitabile interrogarsi criticamente sul motivo per cui il mondo esiste. Ragionano in questi termini due filosofi tedeschi, il primo del Settecento e il secondo del Novecento: Gottfried Wilhelm Leibniz si chiedeva: «Perché vi è qualcosa piuttosto che nulla?»; e Martin Heidegger si poneva questo interrogativo: «Perché vi è l’essente e non il nulla?». I due quesiti, apparentemente molto simili tra loro, nascondono in realtà una differenza importante: dicendo “qualcosa”, Leibniz indica l’esistenza delle “cose”, degli enti fisici

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Com’è nato l'universo?

Anche la scienza ha un limite

Q

uando ci si interroga sull’origine dell’universo, spesso a scontrarsi sono due visioni per molti versi inconciliabili: nella prima, di tipo “fideistico”, alla base della nascita di tutto ci sarebbe un atto creativo da parte di una forza o di un ente che si deve trovare necessariamente al di sopra della realtà fisica; la seconda, detta “ateistica”, pretende invece di spiegare l’esistenza della materia, delle sue leggi e dei fenomeni naturali in termini esclusivamente scientifici, negando ogni intervento metafisico. Grazie agli enormi progressi e

alle continue scoperte in tutti i settori della scienza, i sostenitori dell’approccio ateistico ritengono che sia solo questione di tempo perché si arrivi a una dimostrazione inoppugnabile della “verità”. La stessa scienza moderna, però, ammette di dover accettare alcuni limiti intrinseci, individuati da diversi studiosi: il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg (1901-1976, nella foto) denuncia i limiti della conoscenza contemporanea di tutte le proprietà di una particella; il teorema di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), da parte sua, dimostra che all’interno di qualunque teoria matematica esiste almeno un enunciato che non può essere dimostrato o confutato. Nel caso dell’indagine sull’origine dell’universo, accettando l’ipotesi del Big Bang, le attuali teorie si possono applicare solo a partire dal momento successivo a quella che viene chiamata l’era di Planck, cioè l’intervallo di tempo compreso tra l’”istante zero” della storia universale e i 10 -43 secondi successivi: un periodo di durata infinitesima, in cui i valori delle forze fondamentali dovevano tendere all’infinito e le distanze tra le particelle essere inferiori a quello che nella meccanica quantistica viene considerato il limite minimo (la lunghezza di Planck). Al di sotto di questo limite, le teorie scientifiche perdono il loro valore predittivo e non possono più offrire alcuna base per una risposta definitiva.

singoli, mentre l’“essente” invocato da Heidegger può essere inteso come un principio generale. Da un punto di vista cosmologico, quindi, possiamo considerare la prima come la domanda più pertinente e di maggiore interesse. La risposta che lo stesso Leibniz fornisce chiama in causa il famoso “principio di ragion sufficiente”, secondo il quale se qualcosa esiste è perché c’è una ragione per la sua esistenza, anche se noi non la vediamo. Potrebbe apparirci come una soluzione insoddisfacente, una banale “tautologia” (di fatto, ” 83

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I

Il cosmo è nato o è sempre esistito?

l modello cosmologico attualmente accettato prevede un inizio nel tempo: la singolarità nota come Big Bang. L’espressione, paradossalmente, è stata coniata dall’astronomo inglese Fred Hoyle, convinto sostenitore dell’ipotesi dell’universo stazionario, secondo la quale esso non avrebbe avuto un inizio e, di conseguenza, nemmeno una fine. Questa concezione, dal sapore aristotelico, fu elaborata inizialmente da Gold e Bondi, due studiosi di Oxford che nella prima metà del XX secolo proposero un modello in cui le proprietà dell’universo (come il suo ritmo di espansione e di formazione delle galassie e dei corpi celesti) sarebbero rimaste sempre costanti, a parte qualche fluttuazione statistica. Il concetto che l’universo potesse essere costante in tutti i suoi punti era stato suggerito da Einstein e definito da Milne “principio cosmologico”, ma solo Gold e Bondi lo avevano esteso al tempo, trasformandolo in un “principio cosmologico perfetto”. Inevitabilmente, la teoria si scontrò con le crescenti evidenze di un universo in espansione infinita, come quello proposto dalle teorie di Friedman e Lamaître, dove a un passato in cui densità e temperature avevano raggiunto valori altissimi si contrapponeva la previsione di un futuro nel quale, contestualmente a un rallentamento del tasso di espansione, il graduale raffreddamento avrebbe portato a un’inevitabile “morte termica” oppure a un immane collasso, il cosiddetto “Big Crunch”. Per salvare la loro idea, Gold e Bondi introdussero l’ipotesi di una creazione infinita di materia che compensasse la diminuzione di densità causata dall’espansione (si tratterebbe di una quantità davvero minima, calcolata nell’ordine di un atomo per metro cubo ogni dieci miliardi di anni). Come sappiamo, la comunità scientifica ha adottato il modello della singolarità iniziale, ma recentemente Ahmed Farag Ali e Saurya Das, sviluppando un’idea proposta negli anni Cinquanta dal fisico americano David Bohm, hanno avanzato la proposta di una teoria in base alla quale non sono previsti né un inizio, né una fine dell’universo.

L’ETERNO RITORNO DEL CREATO Una delle teorie oggi allo studio dei fisici è quella dell’universo ciclico, che prevede il succedersi di eventi singolari come il Big Bang, da cui ha avuto origine il nostro cosmo.

Leibniz dice che nulla può esistere senza una ragione, anche se noi non la conosciamo), ma in realtà, portata alle sue conseguenze, essa permette anche di “spiegare” perché il nostro mondo è così e non altrimenti: evidentemente, deve essere il migliore dei mondi possibili. Una conclusione che, espressa in questi termini, oggi pochi sarebbero disposti a sottoscrivere, ma che potrebbe risultare più accettabile se presentata nella sua forma “rovesciata”, cioè dicendo che il nostro universo è il “meno peggio” di quelli possibili, dove Dio (la causa nascosta, secondo Leibniz) ha inserito la minor quantità di male. Esso, infatti, non potrebbe essere perfetto, altrimenti coinciderebbe con Dio, che è l’essere perfetto per definizione. Sia che si abbia una visione religiosa del mondo, sia che ci si affidi rigorosamente alla scienza, dobbiamo comunque scegliere tra due possibilità: o l’universo è stato creato, quindi ha avuto un inizio e avrà una fine; oppure è sempre esistito e sempre esisterà. Per risolvere la questione, Aristotele si affidava alla logica: dal momento che «dal nulla non può nascere nulla», non è possibile pensare a un “niente” che preceda la materia, così come è inconcepibile passare dalla materia al

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«Invocare Dio come la risposta alla domanda sull’origine delle leggi dell’universo equivale a sostituire

a un mistero un altro mistero.» STEPHEN HAWKING

Com’è nato l'universo? nulla. Eppure, lo stesso Aristotele ammette che la domanda più profonda che un uomo possa porsi è proprio quella sull’origine dell’universo. La visione cristiana e, più in generale, “creazionista” presuppone invece una creazione ex nihilo (dal nulla): un’ipotesi che contraddice uno dei fondamenti della fisica classica, enunciato dallo scienziato francese Antoine Lavoisier (1743-1794), secondo il quale «nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma». Una legge che sembra trovare rigorosa conferma in ogni ambito del mondo fisico, facendocela quindi accettare come vera, ma che dobbiamo contraddire se vogliamo contemplare l’idea di un universo creato, appunto, dal nulla. Per chi accetta l’intervento divino si tratta di un ostacolo superabile tramite un atto di fede, assumendo che Dio è al di sopra delle leggi naturali e quindi può, con un atto di volontà, creare la materia, definendo le leggi che ne regoleranno il comportamento da quel momento in poi: Per chi invece non accetta la premessa teologica, il problema appare decisamente più complesso.

Le origini del tutto

È la scienza, questa volta, a venirci in parziale soccorso, attraverso il modello della “singolarità iniziale”: il celebre Big Bang, secondo il quale l’attuale universo avrebbe avuto origine a partire da uno stato in cui densità, temperatura e curvatura tendono all’infinito. Ebbene, tale singolarità rappresenterebbe il momento iniziale dell’espansione cosmologica, a partire dal quale possiamo applicare le nostre osservazioni e le leggi della fisica da esse derivate. Tutto ciò che è accaduto prima (se qualcosa è accaduto e se ha senso parlare di un “prima”…) sfugge all’indagine scientifica e potrebbe contemplare uno scenario in cui la legge di Lavoisier non è valida. Come già detto, gli eventi precedenti al Big Bang non sono indagabili scientificamente, e a tutt’oggi esistono diverse congetture in proposito: secondo una delle più recenti, potremmo trovarci in un universo ciclico, dove le singolarità si succedono e ciascuna rappresenta l’inizio di un nuovo ciclo o “eone”, come lo ha battezzato il fisico di Oxford Roger Penrose. In questo caso, il nostro sarebbe solo uno di una serie teoricamente infinita di universi, nato da uno dei teoricamente infiniti Big Bang e destinato prima o poi a contrarsi, per dare luogo, a sua volta, a un nuovo Big Bang, a un nuovo inizio. Se anche una simile ipotesi venisse verificata, non per questo dovremmo smettere di porci domande: sull’origine della materia che continua ad addensarsi, diffondersi e poi nuovamente addensarsi durante la successione dei cicli; sulla possibile esistenza di un “primo universo”; oppure, infine, sulla sua causa generatrice. A proposito di questo tema grandioso e affascinante, dunque, bisogna concludere che né la filosofia né la scienza hanno ancora detto l’ultima parola. 85

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Qual è il mio posto nella natura?

Qual è il mio posto nella

natura ?

Grazie alle loro capacità intellettuali, gli esseri umani hanno la possibilità di dominare il mondo, ma anche la responsabilità della sua gestione

Q

uando pensiamo alla natura, la nostra mente corre subito ai problemi che oggi minacciano la sua conservazione, che la scienza è quasi unanime nell’attribuire in parte alle attività umane. Diventa dunque sempre più importante cercare di capire qual è la maniera corretta di rapportarsi con l’ambiente, non solo come specie, ma anche come individui. Per questo, oltre a renderci conto dell’impatto dei nostri comportamenti sul mondo, dovremmo soprattutto cercare di capire qual è il nostro posto nel mondo naturale. Ed è stata proprio questa la prima preoccupazione dei filosofi greci.

L’uomo fa parte del tutto

Gli antichi consideravano l’uomo un animale molto particolare: non esitavano a individuare una continuità fisica con il regno degli animali, ma al tempo stesso interpretavano le sue capacità razionali una caratteristica distintiva tale da porlo anche su un altro piano. Occorre prima di tutto precisare che per i Greci la natura (physis) comprendeva tutto quello che è soggetto a nascita, crescita e morte. La natura, quindi, coincideva con l’insieme degli esseri viventi, vcome ci viene confermata da Aristotele (384-322 a.C.), il quale definiva ” 87

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Qual è il mio posto nella natura? la natura come «principio di movimento e di cambiamento». Questa prospettiva può sembrarci limitata, perché non tiene conto dell’oggetto di altre scienze naturali come per esempio la geologia (le rocce non si adattano alla definizione aristotelica di natura), ma risulta anche oggi funzionale quando si tratta di stabilire una relazione tra l’essere umano e gli altri esseri viventi, che in fondo è l’approccio dal quale scaturiscono le riflessioni più importanti e significative sulla realtà esterna (appunto, la natura), è quella interiore. Da questo punto di vista, risulta ancora più utile l’approccio dei sofisti, che distinguevano come non naturale ciò che deriva dalle convenzioni stabilite dagli uomini. Da qui, possiamo desumere l’esistenza di uno “stato di natura” opposto a quello umano, due ordini diversi che si incontrano proprio nell’essere umano, il quale, secondo l’ordine aristotelico del mondo, si ritrova al vertice di una gerarchia dove ogni

UN RAPPORTO COMPLICATO La relazione tra uomo e natura ha subito una drammatica evoluzione negli ultimi due secoli, con l’avvento della Rivoluzione industriale. In Occidente, le nuove generazioni mostrano grande sensibilità per i problemi dell’ambiente, ma scarsa esperienza diretta del mondo naturale, talvolta conosciuto soltanto attraverso i prodotti del supermercato. Nelle pagine precedenti, il Peccato originale di Pieter Paul Rubens (1617).

livello non fa che realizzare le potenzialità di sviluppo contenute in quello precedente: così, cibandosi di vegetali, l’erbivoro trasforma la potenza contenuta in questi in atto, cosi come la sua potenza diventerà atto nel momento in cui verrà mangiato da un carnivoro. Data la sua posizione apicale, l’uomo rappresenta dunque la realizzazione ultima della potenzialità del mondo naturale. A tale posizione corrisponde una natura particolare, diversa da quella degli altri animali, che a sua volta sottintende una funzione esclusiva, ossia la capacità di pensare e di poter gestire il proprio comportamento secondo ragione. Del resto, la dottrina dell’anima tripartita del maestro di Aristotele, Platone, permetteva di collegare questa tesi all’interno di una visione che collegava il mondo naturale, al quale l’uomo partecipa con i livelli inferiori dell’anima (quello concupiscente e quello irascibile) a quello ideale, raggiungibile soltanto dalla terza parte, ossia l’intelletto.

Vegetariani per scelta (filosofica)

L

a scelta di rinunciare alla carne per motivi etici non è affatto una tendenza moderna: fin dall’inizio della storia del pensiero, infatti, troviamo illustri precedenti: a partire da Pitagora, il quale riteneva che cibarsi di carne renda gli uomini più inclini all’uccisione dei propri simili. È il poeta Ovidio (43 a.C. - 17 d.C.) a raccontarcelo nelle Metamorfosi, in cui dichiara di trovare delittuoso «cacciare visceri dentro i nostri visceri, ingrassare il nostro corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere vivente». Albert Einstein (1879-1955) mette invece in evidenza soprattutto gli aspetti positivi della dieta vegetariana, affermando che essa avrebbe «un’influenza decisamente benefica sull’umanità intera», anche solo considerando gli effetti fisici sul temperamento umano. Del resto, anche Ippocrate (460-377 a.C.), il padre della medicina, si nutriva esclusivamente di vegetali.

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L’idea dell’uomo come vertice della creazione si adatta perfettamente alla visione religiosa con la quale siamo abituati a confrontarci: se infatti abbiamo una minima familiarità con la Bibbia, conosciamo bene il racconto della Genesi e l’interpretazione che ne è stata data e dunque non possiamo stupirci se nel corso dei secoli il pensiero occidentale, forgiato in gran parte su una tradizione religiosa cristiana, non ha mai messo in dubbio tale prospettiva, semmai esaltandola.

Come relazionarsi con la natura

Se siamo i padroni della natura, però, siamo di fronte a una scelta: possiamo considerarla nostra serva e sfruttarla nella maniera a noi più congeniale, oppure cercare di comportarci come “sovrani illuminati”, cercando di stabilire un’armonia con il mondo naturale. Se accettiamo come dato di fatto la nostra posizione di superiorità nei confronti del resto del mondo naturale, ne consegue che

« Le forze della natura agiscono secondo un’armonia segreta che l’uomo ha il compito

di scoprire per il suo stesso bene e per la gloria di Dio.»

L’ANIMALE CHE OSSERVA L’uomo è l’unico essere capace di osservare e comprendere la natura. Sotto, Schopenhauer visto da Jules Lunteschütz.

GREGOR MENDEL

ci troviamo nelle condizioni di disporne come meglio crediamo. A questo punto, sorge un problema: qualunque cosa vogliamo farne, in qualunque modo vogliamo porci nei suoi confronti, dobbiamo conoscerne il funzionamento, sia per poterne sfruttare i meccanismi a nostro vantaggio, sia per poterli



Il filosofo e il suo cane

U

no dei massimi pensatori del XIX secolo, Arthur Schopenhauer (qui ritratto nel 1859, un anno prima della morte), aveva un grande amore: il suo barboncino Atma (un nome che in sanscrito significa “anima del mondo”). Il suo sentimento di affetto nei confronti dell’animale era tale da fargli contemplare un’eccezione all’idea della realtà come avvolta da un velo (il “velo di Maya”) che impedirebbe all’uomo di vederla e quindi conoscerla chiaramente. Dichiarò infat ti: «Ciò che mi rende così gradita la com pag nia del mio cane è la sua natura trasparente. Il mio cane è trasparente come un vetro». Quando Atma morì, Schopenhauer si recò subito a Francoforte per comprare un altro barboncino, spiegando: «Se non ci fossero i cani, io non vorrei vivere». Del resto, è proprio a questo burbero pensatore, teorico del pessimismo, che si deve una delle più celebri dichiarazioni d’amore per questi animali: «Chi non ha mai posseduto un cane, non può sapere che cosa significhi essere amato».

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mantenere intatti e armonizzare con essi la nostra esistenza. In questo caso, possiamo seguire l’interpretazione meccanicistica della natura che si è affermata soprattutto a partire dal XVI secolo, sotto la spinta iniziale di scienziati come Galileo Galilei (1564-1642) e Isaac Newton (1642-1727). In particolare, lo sviluppo di correnti di pensiero come il materialismo di Thomas Hobbes (1588-1679) e l’empirismo di John Locke (1632-1704) e David Hume (17111776) portarono a un approccio più concreto e analitico dello studio della realtà e, di conseguenza, anche dell’uomo. Così, per esempio, Hobbes non solo concorda con

« La Natura

dev' essere lo Spirito visibile, lo Spirito

è Natura invisibile.»

FRIEDRICH SCHELLING

Cartesio nella convinzione che il mondo materiale possa essere spiegato solo in termini di movimento, ma pensa addirittura di potere definire un’etica “naturalistica”, secondo la quale i moti dell’anima sarebbero causati dall’interazione fisica tra corpi esterni su nostro organismo: a seconda che tale contatto favorisca o meno il movimento del corpo animato, avremo le diverse reazioni (desiderio o ripulsa, amore oppure odio, speranza o paura…). Per Hobbes, insomma, tutto partecipa dei meccanismi che regolano il funzionamento del mondo, anche l’uomo e la sua morale. Una tale visione rende l’uomo molto più vicino al resto del regno naturale, mettendo in secondo piano l’idea di una gerarchia verticale. La reazione a questa visione e il ripristino della posizione di superiorità dell’uomo nei confronti della natura giunge da Immanuel Kant (1724-1804) quando, nella Critica della ragion pura, afferma esplicitamente che «nell’intera creazione si può utilizzare come semplice mezzo tutto ciò che si vuole e di cui si dispone». Questa rinnovata visione strumentale della natura nasce dal fatto che per Kant solo l’essere umano è uno scopo in se stesso, perché è l’unica creatura razionale. Si tratta di un’affermazione che può facilmente portare a considerare il mondo naturale e, più in generale, di tutto ciò che non è umano, solo

AL SERVIZIO DELL’UOMO Kant considerava la natura un contenitore di materiale che l’uomo ha il diritto di usare per raggiungere i propri scopi, conformemente a quanto detto nella Bibbia: dopo il Diluvio (sopra, l’ingresso nell’arca in un dipinto di Bruegel il Vecchio), tutti gli animali provano timore e soggezione nei confronti dell’uomo, si sentono in suo potere e ne diventano il cibo.

in termini di opportunità, negando a tutto il resto ogni tipo di rispetto il quale, sempre secondo Kant, si deve riferire sempre alle persone, mai alle cose inanimate. La posizione di Kant ricorda quella tenuta oltre un secolo prima da Ruggero Bacone (1561-1626), il quale aveva già indicato l’uomo come il padrone della natura e l’unico essere razionale, quindi il solo a essere soggetto di diritto. l che non significa che gli altri enti, come per esempio gli animali, non possano godere di alcuni diritti e qualche tipo di riconoscimento e di tutela, come già all’inizio del XIX secolo auspicava l’inglese Jeremy Bentham; deve però essere sempre l’uomo a riconoscere e disciplinare tali iniziative. Una posizione che oggi molti troverebbero sbagliata, ma che forse potrebbe essere rivolta come provocazione nei confronti

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«In tutte le cose della natura

esiste qualcosa di meraviglioso.» SOCRATE

Qual è il mio posto nella natura? di certi eccessi che hanno portato a fenomeni estremi, come il cosiddetto antropomorfismo degli animali da compagnia. In ogni caso, non tutti i filosofi del XVIII secolo avevano una visione esclusivamente meccanicistica e utilitaristica del mondo fisico, e chi ritiene che la natura e l’uomo condividano più della dimensione naturale scoprirà di avere una valida sponda nel pensiero del filosofo idealista tedesco Friedrich Schelling (17751854), il quale infatti vede la natura come l’incontro a livello organico dello spirito e della materia: per lui la natura non è semplicemente un insieme di relazioni causa-effetto, ma possiede (appunto) anche un carattere spirituale, che la rende nel suo complesso un essere vivente a pieno titolo. Molto più tardi, nel 1979, sarà il chimico britannico James Lovelock (1919) a riprendere questa visione “olistica”, con la sua fortunata “ipotesi Gaia”.

Che cosa fare per salvare il mondo

I

Anche le piante hanno un’anima?

l primo a postulare l’esistenza di un livello dell’anima che si estendesse anche al mondo delle piante fu Aristotele, che infatti definì tale livello, il più bas so rinvenibile, “vegetativo”. In seguito, anche altri filosofi accennarono alla possibilità che gli esseri vegetali potessero essere dotati di una qualche forma di coscienza e consapevolezza. Fu però lo psicologo tedesco Gustav Theodor Fechner, a metà del XIX secolo, ad affrontare l’argomento in maniera più articolata. Nella sua pubblicazione Nanna, o l’a-

nima delle piante, del 1848, Fechner definisce assurda l’idea che Madre Natura abbia creato un’enorme varietà di forme fisiche per poi fornire di un’anima solo una parte di esse, escludendo l’intero regno vegetale. «Le piante non si pongono in un piano inferiore rispetto agli animali come esseri inanimati» conclude, «bensì si rapportano a essi come una specie diversa di esseri animati».  Dagli anni Sessanta del XX secolo si sono moltiplicati gli studi sul tema, alcuni dei quali sembrano confermare, in parte, le intuizioni di Fechner.

Secondo l'ipotesi Gaia, le varie componenti della Terra si trovano nelle condizioni di rendere possibile la vita in virtù della loro stabilità, che a sua volta è assicurata proprio dalla presenza e dalle attività metaboliche degli organismi viventi, che mantengono costanti i parametri fondamentali come la temperatura, la composizione atmosferica, il pH e la concentrazione salina delle acque… In questa visione, insomma, la Terra agirebbe come un unico organismo vivente, la cui evoluzione procederebbe di concerto con quella delle sue componenti organiche. Nonostante le sue capacità omeostatiche (quelle che garantiscono il mantenimento dei parametri all’interno dei valori compatibili con l’esistenza), Gaia, cioè la Terra, è sottoposta a uno stress sempre crescente, dovuto proprio alle attività umane. Al di là dell’acceso dibattito che riguarda la portata di tali attività, la gran parte degli scienziati sono concordi nel ritenere che il cosiddetto fattore antropico stia giocando un ruolo decisivo nell’alterazione degli equilibri omeostatici, con conseguenze sempre più gravi e potenzialmente disastrose. al di là delle legislazioni e degli interventi attivi che occorre mettere in atto per frenare tale deriva, forse è ancora la filosofia a poterci fornire la chiave generale per correggere, prima ancora che i nostri comportamenti, la nostra prospettiva. È sempre Bacone a dire che «per comandare alla natura, occorre ubbidirle», ed è proprio obbedendo alle leggi di natura che, secondo il filosofo polacco contemporaneo Zygmunt Bauman, potremo continuare a ottenere «in modo regolare e invariabile effetti positivi per il nostro benessere, impedendo e prevenendo quelli che invece sono dannosi o non desiderabili». 91

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Che cos’è il tempo

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Pochi concetti appaiono semplici e insieme complicati come quello di tempo: ogni volta che crediamo di averne risolto uno dei misteri, la sua natura si fa ancora più sfuggente

T

utti noi, fin da piccoli, sappiamo che cos’è il tempo, ma davvero pochi sono capaci di darne una semplice definizione. Questo apparente paradosso è perfettamente riassunto dalla celeberrima frase di sant’Agostino: «Che cos’è il tempo? Se non me lo chiedono, lo so, se invece me lo chiedono, non so rispondere». Il problema non è solo quello di trovare le parole giuste per descriverlo, quanto quello di individuare una definizione da cui partire. Potremmo accontentarci di collegare il concetto di tempo all’unità di misura con cui lo esprimiamo, e quindi definirlo come “ciò che si misura in secondi, minuti od ore”, ma questa sarebbe solo una descrizione quantitativa, che non può soddisfarci: il tempo filosofico è qualcosa di più profondo e “personale”, si tratta della dimensione in cui la nostra vita procede dall’inizio alla fine, quella in cui tutto ciò che ci riguarda è accaduto, accade e accadrà. Meglio allora considerarlo come il manifestarsi, all’interno del nostro piano di esistenza, di singoli eventi collegati tra loro da una relazione di tipo “successivo”, nella quale un evento avviene prima, durante o dopo un altro. Al pari della distanza fisica, quindi, il tempo di cui parliamo non esiste al di fuori di un universo concreto, popolato da eventi che a loro volta riguardano enti concreti, materiali, anche gli esseri viventi. È proprio dal rapporto tra la dimensione “fisica” e quella “ideale” che nascono le grandi domande sul tempo: che cos’è il tempo? Ha avuto un inizio? Avrà una fine? La sua direzione è univoca, oppure ammette deviazioni o, addirittura, inversioni?

L o strano rapporto con la realtà

Il tempo viene spesso definito la quarta dimensione della nostra realtà la quale, aggiunta a quelle che descrivono la collocazione ” 93

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Che cos’è il tempo?

R

Il paradosso del presente

agionando sul tempo, sant’Agostino giunge a conclusioni sorprendenti, arrivando ad affermare che, invece che di passato, presente e futuro, bisognerebbe parlare di presente del passato, presente del presente e presente del futuro. Per giungere a tale sorprendente conclusione, il padre della Chiesa propone una dimostrazione di tipo matematico. Partendo dalla premessa che, dal momento che possiamo misurare i suoi intervalli, il tempo deve esistere, allora possiamo dividere a loro volta ognuno di questi intervalli

in due, e ognuno dei nuovi intervalli sarà lungo la metà di quello iniziale. Il punto in cui avviene tale divisione rappresenta il presente, l’insieme dei punti che lo precede il passato, e i punti che lo seguono il futuro. Ma questi due nuovi segmenti possono essere a loro volta divisi in altri due, e così via: solo se arrivassimo a trovare un punto finale, non divisibile, potremmo dunque affermare di avere trovato il presente. Ma poiché questo non accade, il presente può essere descritto come un intervallo che si può sempre dividere tra una parte di passato e una di futuro.

nello spazio (altezza, lunghezza e profondità) permette di descrivere la nostra posizione in maniera completa. Eppure, è impossibile non attribuirgli un significato del tutto speciale: dopotutto, come ha osservato uno dei più grandi astronomi del XX secolo, l’inglese Arthur Eddington (1882-1944), quando pensiamo a noi e alla nostra vita, ci vediamo estesi nel tempo, non nello spazio; pensiamo a ciò che siamo stati, che siamo e che saremo, ma non alla nostra altezza o al nostro peso. Proprio questa idea di “divenire” caratterizza la nostra esistenza, perché l’unica certezza che abbiamo è che siamo nati, oggi siamo vivi e un giorno moriremo. Tutto scorre (“panta rei”), afferma l’Eraclito al quale Platone dà voce nel suo Cratilo, indicando così l’ineluttabilità della trasformazione. Per spiegare il concetto, il filosofo presocratico efesino ricorre a una metafora semplice ma molto chiara: dice infatti che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, perché, nel tempo che intercorrerà tra un bagno e l’altro, la corrente avrà fatto in modo che l’acqua in quello stesso punto non sia più la stessa. Tutto è in movimento, conclude, tutto è in continua trasformazione. Anche Platone afferma che il tempo dà la misura del movimento del mondo materiale, che contempla un “prima” e un “dopo” ma, a differenza dei suoi predecessori, non si ferma qui: per il fondatore dell’Accademia, infatti, questo tipo di tempo non è che «l’immagine mobile dell’eternità». Quest’ultima consiste in un eterno presente, che è la dimensione ideale, in cui si trova la sostanza eterna. La distinzione che egli opera è quindi tra tempo ed eternità, ed è la stessa che ci ritroviamo a fare spesso quando ipotizziamo o crediamo in una dimensione superiore a quella terrena.

Passato e futuro

C’È SEMPRE UN ALTRO ATTIMO Nell’affrontare il problema del tempo, sant’Agostino (qui, in un’illustrazione rinascimentale) utilizza un approccio logico e dimostra come, in realtà, il presente non esista, se non come limite tra passato e futuro.

L’impianto filosofico di Platone ci porta a pensare al tempo come alla manifestazione dell’imperfezione della realtà concreta: essendo la dimensione nella quale avviene il cambiamento della materia, si può manifestare solo in presenza di essa, mentre ciò che è perfetto, in quanto tale, non cambia, non si muove. Questo però vuol dire che al di fuori del nostro mondo concreto il tempo non esiste: non c’era prima del mondo, non ci sarà dopo. Quella avanzata da Platone è una concezione del tempo lineare, dove ogni evento può essere immaginato come posto in una linea retta, inserito tra uno precedente e uno successivo. Il pensiero dell’assenza di tempo è per noi piuttosto difficile da accettare, al pari di quello del “nulla”. Per certi versi, anzi, è più facile aderire a una visione ciclica del tempo, che consiste in un avvicendarsi di epoche e di

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mondi che non prevede una singolarità iniziale e una finale: nessun inizio, nessuna fine. In realtà, proprio la spaventosa idea di una dimensione ultraterrena vuota e atemporale potrebbe, paradossalmente, offrirci un motivo per non temere il nostro inevitabile distacco dal mondo: basta accogliere l’approccio “soggettivo” di Epicuro, che ci invita a ragionare su che cosa significa il tempo per noi, singoli individui. Quando pensiamo al passato remoto, le epoche precedenti al nostro concepimento, ci preoccupiamo forse di quello che è accaduto? Ovviamente no, non eravamo presenti, dunque non abbiamo nulla da temere a riguardo; lo stesso dovremmo fare per quello che accadrà nel tempo successivo alla nostra morte, quando noi non ci saremo. Ciò che è al di fuori del tempo della nostra vita, sostiene Epicuro, non ci riguarda, perché per noi non esiste. Si tratta di una visione a suo modo consolante, perché ci aiuta a superare la paura

«Secondo la teoria della relatività non esiste un unico tempo assoluto, ma ognuno di noi ha una propria personale misura del tempo,

la quale dipende da dove si trova e da come si sta muovendo.»

della morte collegando inscindibilmente il tempo alla realtà. Tuttavia essa ha un limite, rappresentato dal fatto che a venir presa in considerazione è soltanto, in realtà, la nostra dimensione individuale: il tempo di cui parla

STEPHEN HAWKING



LA DIMENSIONE RELATIVA Partendo dal concetto di tempo relativo, i grandi fisici contemporanei, come Stephen Hawking, hanno elaborato modelli cosmologici nei quali il tempo riveste un ruolo centrale.

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Epicuro è quello della nostra vita, non il concetto di tempo in assoluto. La visione classica, dunque, ci conferma quello che istintivamente sappiamo: il tempo è sicuramente all’interno della realtà e, anche se non lo vediamo, “si muove”. Rimane ancora da capire se può esserci qualcosa oltre il tempo, oppure è tutto compreso in esso. L’interrogativo è complesso, poiché chiama in causa sia l’idea di infinito, che quella di Dio. Se il tempo è la dimensione della nostra realtà concreta, allora esso deve partecipare dei suoi stessi limiti di finitezza e della sua continua trasformazione; l’eternità, al contrario, appartiene a un altro piano, estraneo al nostro, che invece è perfetto, immobile. Per mettere in relazione il tempo e l’eternità, i primi pensatori cristiani fanno ricorso all’anima: Plotino e sant’Agostino sono tra questi, e il secondo non esita a considerare il tempo come una “estensione dell’anima” (distensio animi). In quest’ottica, Agostino parte dal presupposto che solo il presente, inteso come il momento attuale, “è”. Allora, come possiamo concepire il passato e il futuro? Solamente pensandoli entrambi come diversi tipi di presente. Questa posizione potrebbe sembrare a prima vista insostenibile ma, a ben pensarci, passato e futuro possono davvero essere pensati come tali solamente nel momento attuale, perché è rispetto a quell’istante essi possono definirsi, appunto, passato e futuro. Il ragionamento di Agostino diventa ancora più chiaro se pensiamo al passato come “memoria” e al futuro come “attesa”: in effetti, solo adesso, in questo esatto momento, possiamo ricordare qualcosa che è accaduto prima (passato) oppure metterci in attesa di qualcosa che deve ancora accadere (futuro). Per quanto riguarda il presente, poi, esso è “visione”, perché costituisce l’unico momento che può ricadere sotto l’analisi dei sensi. In definitiva, dunque, possiamo parlare di tre tipi di presente, che solo l’anima dell’uomo può distinguere e ordinare.

R elativo o assoluto?

La definizione agostiniana di tempo in funzione dell’anima può risultare soddisfacente da un punto di vista esistenziale e fornisce un sostegno brillante all’idea, descritta in maniera molto chiara da Boezio, di un Dio “atemporale”, al di fuori del tempo, per il quale passato, presente e futuro sono tutti racchiusi in uno stesso istante. Solo il nostro corpo fisico, dunque, sarebbe legato al movimento e al cambiamento e vivrebbe confinato in una dimensione incompleta nella quale i tre momenti del tempo sono separati. Questa risposta, però, esclude dalla discussione il tempo squisitamente fisico, quello

«Il futuro e il passato non esistono.

È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro.

Forse sarebbe esatto dire che i tempi

sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro.»

SANT’AGOSTINO

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Che cos’è il tempo?

S

Il legame con la memoria

e consideriamo il tempo in ambito scientifico, questo deve essere limitato al concetto di successione di una serie di eventi. Se però prendiamo in considerazione il problema solo dal punto di vista della nostra soggettività, un limite del genere ci impedisce di trovare una risposta soddisfacente. D’altro canto, la proposta kantiana di considerare il tempo come una “verità a priori” offre il fianco alle critiche dei sostenitori di un approccio di tipo meccanicistico-scientifico.

che riguarda le misurazioni degli intervalli tra le manifestazioni dei fenomeni naturali, il ritmo degli eventi, i movimenti relativi degli enti fisici. Per affrontare questo aspetto, occorre adottare un approccio più scientifico. Il tempo di cui abbiamo parlato finora è soprattutto quello metafisico, slegato cioè dagli eventi che riguardano la materia; si tratta di un tempo “relativo”, che ha a che fare con la nostra interiorità e che non ha bisogno (e non può) essere misurato. Come abbiamo già detto, però, il tempo può anche essere “assoluto”, una grandezza che indica la durata dell’intervallo di tempo tra il manifestarsi di due fenomeni, misurabile con strumenti di calcolo ed esprimibile in forma numerica. Questa proposta di definizione ha senso all’interno della

Per questo, Henri Bergson propone di distinguere i due ambiti: quello scientifico, riferito al mondo degli oggetti, dove il tempo è “successione”; e quello della coscienza, dove il tempo viene vissuto come “durata”. In quest’ultimo i singoli momenti, che nella realtà, appunto, si succedono uno dopo l’altro e sono distanziati da intervalli misurati (spazializzazione), diventano indistinguibili l’uno dall’altro e accumulandosi in un fluire ininterrotto vanno a formare la memoria.

concezione scientifico-naturalistica promossa, a partire dal Cinquecento, da pensatori come Galileo Galilei e Isaac Newton, i quali avevano ben chiara la differenza tra tempo assoluto e tempo relativo. «Il tempo assoluto, vero, matematico» scrive Newton, «scorre uniformemente, e viene anche chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura… sensibile ed esterna della durata di un moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: sono tempi relativi l’ora, il giorno, l’anno». Questa distinzione si basa su quella che viene definita una visione meccanicistica e materialistica del mondo: non che i grandi scienziati del Rinascimento non fossero credenti, anzi, ma nella loro indagine dei fenomeni fisici tralasciavano gli

COME NOI LO CONTIAMO La differenza sostanziale tra il tempo che viviamo e quello che misuriamo quando osserviamo i fenomeni esterni consiste nel fatto che essi sembrano procedere a velocità diverse. Ma soprattutto, afferma il francese Bergson (nella foto sopra), questi tempi diversi appartengono a due ambiti distinti: quello della coscienza e quello della scienza. ”

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Il tempo è un fantasma

L

a corrente empirista inglese del XVII secolo ha posto l’accento sulla percezione mentale che possiamo avere del tempo, piuttosto che sulla natura del tempo come concetto a sé stante. In effetti, secondo Hobbes, ciò che noi percepiamo non è l’oggetto in sé, bensì il suo movimento, che viene percepito dai nostri organi di senso, a par tire dai quali la nostra mente elabora i concetti che poi utilizzerà per descrivere la realtà. Così, mentre lo spazio diventa “il fantasma (l’impressione) di una cosa esistente”, il tempo è “il fantasma del movimento”, perché è nel movimento che immaginiamo una successione di “prima” e “dopo”. Per Hobbes, insomma, il tempo non è altro che un’immagine mentale, costruita a partire dall’impressione lasciata dal movimento.

Alice: « Per quanto tempo è “per sempre”?»

Bianconiglio: « A volte, solo un secondo.»

elementi metafisici e si concentravano sui fenomeni osservabili. L’introduzione del tempo assoluto e la sua distinzione da quello relativo è un passaggio fondamentale nella storia della scienza e del pensiero umano, perché permette di inserire il tempo all’interno delle formule matematiche che descrivono il mondo così come noi lo conosciamo e di isolare ed evidenziare il ruolo dell’osservatore. L’idea del tempo assoluto, però, può venire considerata fin troppo “materiale”: molti percepiscono la dimensione temporale come più complessa, fino a farne il ponte tra il mondo fisico e quello ideale o metafisico. Tra i critici dell’idea di un tempo oggettivo, indipendente dal soggetto, c’è

LEWIS CARROLL

Leibniz, il quale sosteneva che il tempo non è reale, assoluto, ma è un’apparenza sensoriale, un fenomeno nel vero senso del termine (che deriva infatti dal greco fainein, che vuol dire “apparire”), definito dal cosiddetto “ordine dei successivi”, la sequenza cioè in cui noi osservatori percepiamo il succedersi degli eventi. Kant va addirittura oltre, e, in pieno Settecento, reintroduce l’idea di un tempo metafisico, negando l’idea di un tempo assoluto, ma non la sua oggettività. Per Kant, il tempo, inteso come “ordine di successione temporale”, deve essere definito come “ordine di causalità”, cioè un succedersi di causa ed affetto: a un dato evento, cioè, seguono i suoi effetti.

UN PRIMA E UN DOPO Per cercare di “vedere” il tempo, possiamo immaginare una sequenza di avvenimenti legati tra loro da una relazione di “prima” e “dopo”, come scatti fotografici in successione.

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Che cos’è il tempo?

Se il tempo torna indietro

P

e nsando al tempo, siamo soliti immaginare una linea continua che, a partire da un “punto zero” (il momento della creazione o la singolarità iniziale, a seconda dell’ipotesi scelta), procede ineluttabilmente in una sola direzione. Pur accettando l’idea di un tempo ciclico, quindi circolare, non viene contemplata la possibilità di invertire l’ordine degli eventi, procedendo cioè da quelli presenti a quelli passati. Eppure, benché a livello puramente teorico, la scienza lascia aperta una speranza alla possibilità di viaggiare nel tempo. Per concepire un’idea simile bisogna considerare che il tempo viene considerato oggi come una delle quattro dimensioni del continuum spaziotemporale, non lineare ma curvo. Corpi celesti dotati di massa adeguatamente grande sono in grado di piegare ulteriormente il tempo, fino a rallentarlo. Secondo quanto affermato dal fisico Ben Tippet e dall’astrofisico David Tsang, è possibile ipotizzare un modello di macchina del tempo che, sfruttando tale curvatura, possa arrivare a descrivere un circolo e quindi tornare indietro nello spazio-tempo.

Questo approccio parte da un presupposto apparentemente antitetico a quello newtoniano: per il filosofo tedesco, la realtà empirica non ha significato assoluto, a essere oggettiva è invece la rappresentazione che viene fatta dal soggetto, cioè da noi stessi. Il problema della realtà è che questa ci perviene in forma impura, inquinata dalle influenze dei diversi fenomeni. A essere pure sono soltanto le cosiddette intuizioni sensibili, quelle cioè che derivano dalla mediazione della nostra sensibilità che riesce a intuire le forme “pure a priori”. Le uniche due intuizioni sensibili individuate da Kant sono quelle dello spazio e, appunto, del tempo. Secondo questa visione, sia il tempo, sia lo spazio sono necessari e universali, e permettono di estrapolare la realtà dall’osservazione dei fenomeni, spesso contradditori. L’idea di Kant poggia dunque sull’assunto della possibilità di avere delle conoscenze vere e conoscibili a priori, appunto quelle dello spazio e del tempo, e poiché queste sono in effetti le dimensioni

«Il tempo è ciò che impedisce che le cose accadano tutte in una volta.»

che ci permettono di descrivere la realtà, se accettiamo l’assunto kantiano possiamo usarle per costruire la nostra realtà oggettiva. A smorzare le nostre speranze arriva però Einstein, che, parlando delle regole che utilizziamo per capire il mondo, le equipara a quelle di un gioco. «Mentre le regole sono di per se stesse arbitrarie, il gioco è reso possibile proprio dalla loro rigida applicazione», scrive in Pensieri, idee, opinioni, per poi aggiungere: «[Le regole] però non saranno mai fissate una volta per tutte: resteranno tali solo in riferimento a un particolare campo di applicazione». L’illusione di un tempo assoluto, dunque, sembra proprio destinata a rimanere tale.

JOHN ARCHIBALD WHEELER

UN SOGNO DAVVERO IMPOSSIBILE? Il viaggio nel tempo è una chimera che l’uomo continua a inseguire, sebbene la fisica offra poche speranze di trasformarla in realtà. Lo conferma il fatto che il primo vero romanzo di fantascienza era dedicato proprio a questo tema: La macchina del tempo, di George Wells (1895).

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Dio

esiste?

Per molti di noi Dio è la risposta a tutte le domande dell’uomo. Paradossalmente, però, è anche il soggetto del quesito più difficile a cui rispondere

I

nterrogarsi sull’esistenza di Dio richiede capacità di astrazione e coraggio straordinarie, perché mette in gioco non solo il significato della propria vita, ma anche quello della morte. Qualunque risposta diamo al quesito “Dio esiste?”, essa porta con sé altre domande che pretendono risposte dalle quali, a loro volta, dipendono molti dei nostri comportamenti e delle nostre opinioni. Si potrebbe pensare che credere o meno sia solo questione di fede, ma come esseri pensanti non possiamo evitare di chiamare in causa l’intelletto e la razionalità per cercare conferme o smentite al mistero dell’esistenza della divinità. La religione, intesa come somma di credenze, riti e precetti derivati dal fatto di accettare o meno una certa visione di Dio, viene dopo; prima, occorre accettare o rifiutare la premessa fondamentale: che Dio, appunto, è. Proprio per questo molti tra i più importanti filosofi hanno messo al centro delle loro riflessioni la possibilità dell’esistenza di un essere al di sopra di tutto, la sua natura, il suo rapporto con il mondo e la sua relazione con l’essere umano in generale e con il singolo individuo in particolare.

Chi o che cosa è?

Oggi, quando ci riferiamo a Dio, non pensiamo naturalmente a una divinità inserita all’interno di un pantheon, come quello degli



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Pensieri divini

N

ella sua Metafisica, Aristotele si chiede a che cosa si rivolga l’intelligenza divina: in poche parole, a che cosa possa mai pensare Dio. Se crediamo in una divinità rivelata, come quella del cristianesimo, la immaginiamo intenta a seguire le vicende del mondo terreno, quando non addirittura a intervenire attivamente in esse. Dio, dunque, penserebbe a ogni cosa che accade nella realtà. Una risposta del genere sarebbe stata inaccettabile per il grande filosofo greco, così come per tutti quelli che considerano Dio come il principio assoluto. Se infatti pensasse alle nostre vicende, dovrebbe avere un pensiero composto, ma allora muterebbe, passando da una parte all’altra dell’oggetto del suo pensiero. Nemmeno può pensare a nulla, perché allora sarebbe come chi dorme, né può pensare a qualcosa che sia altro da sé, perché, per definizione, niente è altro da Dio. Dunque, possiamo concludere, Dio non può pensare a nulla che sia inferiore a se stesso: ciò significa che può pensare solo a se stesso, per l’eternità. Dio è dunque nòesis noéseos, pensiero di pensiero.

« Dio non è che una risposta grossolana, uno sgarbo nei confronti di noi pensatori. Non è altro

che un rozzo divieto: voi non dovete pensare!»

FRIEDRICH NIETZSCHE LA PRIMA DELLE RISPOSTE Oggi l’idea filosofica di Dio è estremamente complessa e raffinata, ma nei tempi antichi rappresentava la risposta a tutto quanto sfuggisse alla comprensione immediata.

antichi greci e romani: immaginare degli esseri eterni, potentissimi ma comunque limitati nel loro agire e nel loro sentire, poteva spiegare i singoli fenomeni naturali che allora parevano soprannaturali. Già ai tempi dei primi filosofi le divinità potevano apparire tutt’al più degli intermediari tra la realtà concreta e la dimensione ultra-terrena, qualcosa di equivalente a certe convinzioni superstiziose alle quali ancora oggi sottostiamo, anche se in forma edulcorata e spesso addirittura inconscia. Per trovare una giustificazione all’esistenza della materia e alle

leggi che la governano, oggi come allora occorre riferirsi a un principio ancora più alto, al di sopra di ogni imperfezione e incompletezza. È il percorso proposto per primo dalla filosofia di Platone, che parte proprio dall’analisi della realtà per giungere a contemplare l’esistenza di un mondo ideale, perfetto. Il mondo attuale non sarebbe quindi altro che “immagine mobile dell’eternità”. Per Platone, la realtà è stata generata dall’incontro tra il mondo delle idee (il principio paterno) e la materia (principio materno). È a questo punto che si innesta la ”

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Dio esiste? Come arrivare a Dio attraverso la ragione

S

an Tommaso d’Aquino (qui ritratto da Francesco de Mura mentre riceve la visione dell’Ostia sacra) era convinto che l’uomo potesse conoscere Dio sia attraverso la fede sia utilizzando il ragionamento. Così, nella Summa Theologiae, propone le sue “cinque vie”, prove razionali che dovrebbero convincerci dell’esistenza del Creatore.

*

Mutamento: se qualcosa cambia nel tempo, è perché esiste una causa che provoca tale cambiamento, un “motore” che deve essere attivo (“in atto”), altrimenti non potrebbe causare nessun effetto. E se è in atto, o lo è eternamente, oppure esiste un altro motore che lo ha attivato. Questo ragionamento si può ripetere più volte, ma alla fine dobbiamo accettare l’esistenza di un primo “motore immobile” da cui si origina tutto il movimento, e questo motore è Dio.

*

Causa efficiente: noi sappiamo che una realtà esiste a causa di un’altra realtà. Con un ragionamento molto simile a quello utilizzato per spiegare la via del mutamento, possiamo quindi arrivare a definire Dio come la prima “causa efficiente”.

*

Contingenza: le cose possono essere o non essere (contingenti). Se tutte le cose fossero contingenti, allora ci dovrebbe essere stato un tempo in cui tutte le cose “non erano”, e la realtà era vuota, ma ciò non è possibile, perché nulla comincia a esistere se non a causa di qualcosa che è. Dunque, deve esistere un essere “di per sé necessario” che sia causa di tutte gli altri enti, un essere che chiamiamo Dio.

*

Gradi di perfezione: in natura possiamo distinguere le cose a seconda del loro grado di perfezione. Possiamo quindi desumere l’esistenza di un livello massimo di perfezione, in relazione al quale stabilire tutti gli altri: questo livello massimo appartiene a Dio.

*

Finalismo: ogni oggetto naturale si muove secondo un ordine e un fine che porta sempre o quasi sempre allo stesso stato, alla perfezione. Gli oggetti inanimati, essendo tali, non possono tendere volontariamente a un fine, ma occorre un essere intelligente che imponga loro il movimento, e solo un ente con le caratteristiche che attribuiamo a Dio può farlo.

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figura del Demiurgo, il “divino artigiano”, colui che ordina la materia secondo il modello delle idee. Descritta nel Timeo, questa figura non è quella di un creatore, piuttosto quella di un plasmatore: sia il modello che il materiale (cioè, le idee e la materia) sono già presenti e a lui non rimane che usare il secondo per creare un’immagine del primo. Platone dunque non utilizza l’idea del demiurgo per spiegare l’esistenza del mondo, ma solo le sue forme e le sue leggi. In questo senso, oggi non soddisferebbe i requisiti che attribuiamo a Dio, perché non può essere il principio primo: non è da lui, infatti, che discendono il mondo delle idee e quello della materia. Platone fa però anche riferimento a un Principio primo supremo, il Bene, che insieme al mondo delle idee e alla figura del Demiurgo descrive gli attributi divini: infatti, il Primo principio è unico, perfetto e indivisibile; da parte sua, il mondo delle idee include tutte le forme possibili che il Demiurgo utilizza come modello per plasmare la materia. Presi collettivamente, quindi, questi tre elementi compongono effettivamente un ritratto compatibile con l’idea di Dio che corrisponda alla definizione che abbiamo dato inizialmente. I tre attributi sono stati poi mutuati nel III secolo d.C. dal neoplatonico Plotino nelle sue tre “ipostasi”, le tre dimensioni della realtà emanate dalla sostanza divina: l’Uno (il Bene), il Logos (l’Intelletto, equiparabile al mondo platonico delle idee) e l’Anima del mondo, che dà forma all’universo. Se questa visione di Dio ci appare completa e soddisfacente, allora la prospettiva cristiana dovrebbe apparirci ugualmente accettabile, dal momento che è questa triade che viene evocata nella Santa Trinità, dove al Logos si sostituisce la figura di Gesù. Questo significa, in qualche misura, che se accettiamo il Dio cristiano, per molti versi stiamo aderendo alla definizione neoplatonica di Dio. Si tratta di un approccio molto “idealista”, che può lasciare poco convinto chi preferisce impostare i propri ragionamenti a partire dalla realtà concreta. In questi casi, Aristotele offre una potente alternativa. Nella sua Metafisica, infatti, il discepolo di Platone sviluppa ulteriormente l’osservazione del suo maestro secondo il quale il movimento (inteso nel suo senso più generale di trasformazione) è l’elemento caratteristico del mondo fisico; dal momento che il movimento deve avere una causa, per evitare di andare all’indietro all’infinito occorre immaginare una causa prima, un motore immobile a partire dal quale deriva il moto che poi si trasmette a tutti gli enti del mondo. Per dirla in termini aristotelici, nel divenire si passa dall’atto potenziale alla realizzazione di tale potenza, vale a dire all’atto in sé (in greco enèrgheia, energia); tale trasformazione prevede la presenza di un atto precedente, derivato

A

Dio esiste (firmato: sant’Anselmo)

nche gli uomini dotati di grande fede hanno spesso bisogno di un motivo razionale che li confermi nelle loro convinzioni. Ecco perché sant’Anselmo ha cercato di dimostrare l’esistenza di Dio attraverso un ragionamento logico, anzi, due: uno “a priori” e uno “a posteriori”. Il ragionamento a priori, conosciuto anche come “prova ontologica”, parte dalla definizione di Dio come «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore». Ma se Dio non esistesse e avessimo solo l’idea di Dio, l’idea cioè di «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore», questa risulterebbe superiore a Dio stesso, poiché qualunque cosa esistente è

superiore a ciò che non esiste.Ma per definizione Dio è «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore»: dunque, se abbiamo l’idea di Dio dobbiamo per forza ammetterne anche l’esistenza. Il ragionamento a posteriori, a differenza del precedente, parte dall’osservazione del mondo reale, in cui possiamo constatare l’esistenza di vari gradi di bene. Questa considerazione, secondo Anselmo, ci porta necessariamente ad ammettere l’esistenza di un sommo bene, più grande degli altri, altrimenti non potremmo stabilire i diversi gradi di bene. Questo sommo bene, dunque, è Dio.

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Dio esiste? Un universo senza creatore

A

v olte, il ragionamento può portare molto più lontano di quanto si possa immaginare, e con esiti non sempre apprezzabili. È quanto è capitato al filosofo Guglielmo di Ockham, l’inventore del celebre “rasoio di Ockham”, uno strumento logico impiegato per eliminare tutte le ipotesi che non siano strettamente necessarie alla spiegazione di un fenomeno. Ockham era un frate francescano inglese vissuto nel XIV secolo, dunque certamente cristiano, eppure

la sua intuizione, potenzialmente, rischia di scardinare l’idea di un Dio necessario all’esistenza dell’universo. In effetti, quando parliamo dell’universo possiamo ipotizzare che sia eterno o che si sia generato da sé. Oppure che non sia eterno, ma che sia stato generato da una divinità che invece è eterna o che si è generata da sé. Se applichiamo a queste considerazioni il rasoio di Ockham, dobbiamo convenire che la seconda ipotesi arriva alle stesse conclusioni, ma con un passaggio in più.

a sua volta da una potenza originaria, e così via, fino ad arrivare a un ente che, semplicemente, è in atto, senza potenza: appunto, il motore immobile, causa di tutto il movimento del creato e quindi della sua forma e del suo funzionamento. In una parola, Dio, che allora può essere definito come “causa finale” di tutto da cui «dipendono sia il cielo, sia la natura». Poiché è il principio primo, Dio deve essere il meglio di quello che possiamo sperimentare; dal momento che il meglio che

« Non possiamo

immaginare Dio, possiamo solo

comprenderlo.»

BARUCH SPINOZA

possiamo avere è il piacere che deriva dal pensiero, ne consegue che Dio è pensiero. L’approccio aristotelico sottintende anche la possibilità da parte dell’uomo di “capire” Dio attraverso la razionalità. È questa l’opinione di molti dei grandi filosofi medievali, che in effetti si rifanno ai due grandi greci per sviluppare le loro prospettive sull’esistenza e la natura di Dio.

Per conoscere l’ente supremo

Sia che accettiamo l’approccio platonico a Dio, sia che facciamo nostra la visione aristotelica, stiamo pensando a Dio come a un’entità onnipotente, perfetta e completa. Finora, il Dio di cui abbiamo parlando può essere considerato una congettura, un’ipotesi, un’intuizione: possiamo accettarla o rifiutarla, considerandola nel primo caso un postulato a partire dal quale costruire una “teologia”, nel secondo un’invenzione della mente, un mito che ha valore solo in quanto metafora; altrimenti, possiamo cercare di trovare conferme ed evidenze della sua esistenza e della sua natura utilizzando le nostre facoltà razionali. In poche parole, possiamo cercare di conoscere Dio. È a questo fine che mirano le riflessioni di sant’Agostino. «Che cosa desideri conoscere?» chiede a se stesso nei Soliloqui. «Desidero conoscere Dio e l’uomo» si risponde. Se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, ragiona Agostino, allora studiando l’uomo possiamo arrivare a Dio e, viceversa, meditando sulla natura di Dio possiamo conoscere noi stessi. Possiamo arrivare a Dio quando accettiamo che esistono delle verità che appaiono di per se stesse vere e che possono ” 105

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Dio esiste? essere contenute in un’unica verità immutabile; oppure, quando capiamo che noi desideriamo il bene e Dio è il Bene assoluto. In entrambi i casi, però, si tratta di percorsi soprattutto contemplativi, che non collegano l’idea di Dio alla nostra realtà immediatamente concreta. Agostino lo sa, e infatti ci propone una terza via, quella che dal nostro mondo, mutabile, arriva alla dimensione divina, immutabile. È la stessa percorsa dai filosofi “pagani”, che parte dal corpo (che è appunto in continuo mutamento) e giunge a Dio, che è invece eternità, passando attraverso l’anima. Il bisogno di arrivare in qualche modo a

« Che esista un essere

chiamato “Dio” è solo una vecchia diceria.

Una diceria immortale, che non riusciamo in nessun modo

a mettere a tacere.»

ROBERT SPAEMANN

“vedere” Dio anche quando accettiamo per fede la sua esistenza deriva, secondo alcuni pensatori, dal fatto che in realtà noi non pensiamo a Dio come a un’idea, ma come a un ente individuale. In effetti, ragionano, se ci accontentassimo dell’idea di Dio come un principio astratto, non potremmo sperimentare nulla di Dio. D’altro canto, considerandolo un ente individuale, possiamo sperare di conoscerlo: come dice san Tommaso nella sua Summa Theologica, «la nostra conoscenza trae origine dal senso». Questo non significa che possiamo arrivare a conoscerlo del tutto: il suo volto ci è precluso dai nostri limiti, che ci impediscono di svelarlo. Possiamo però arrivare a capire la sua relazione con le creature e con il mondo, essendo egli la causa di tutto. Questo atteggiamento ha spinto molti filosofi del Medioevo a intraprendere una ricerca razionale sugli attributi divini, arrivando al punto di immaginare la possibilità di dimostrarne l’esistenza, come nel caso dello stesso san Tommaso e Anselmo d’Aosta. si tratta di un atteggiamento induttivo, che a partire dall’osservazione dei fenomeni di questo mondo ”

MONDO REALE E MONDO IDEALE La consapevolezza dell’imperfezione del nostro mondo ha spinto Platone a teorizzare l’esistenza di un mondo superiore, perfetto, derivato dal “principio primo”, di cui possiamo avere esperienza solo indirettamente. Come uomini incatenati in una grotta che possono intuire il mondo reale soltanto attraverso le ombre che esso proietta sulle pareti della grotta stessa, anche la conoscenza che l’uomo ha delle cose è è altro che l’ombra della verità. Si tratta del mito della caverna, qui illustrato in un dipinto di scuola fiamminga.

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ci permette di arrivare, passando di causa in causa (via causalitatis), a una descrizione di Dio. Molto più tardi, alla fine del XVIII secolo, Immanuel Kant svilupperà questa tendenza fino a pervenire a una forma di “razionalismo religioso”, che potrebbe risultare più attuale e vicino alla sensibilità di chi non può o non vuole affidarsi a una fede “acritica”. In una delle premesse della fede razionale delineata nell’opera opportunamente intitolata La religione entro i limiti della sola ragione, Kant rifiuta il dogmatismo religioso e affronta il problema della conoscibilità di Dio su un piano esclusivamente intellettuale. Per prima cosa, scarta a priori ogni possibilità di conoscere Dio in senso scientifico (un tipo di conoscenza che Kant chiamerebbe “teoretica”): infatti, una conoscenza a posteriori, cioè di tipo induttivo, presuppone la presenza di un concetto supportato da una serie di esperienze sensoriali, altrimenti il concetto è vuoto, senza contenuto.

« La natura ha delle perfezioni

per dimostrare di essere l’immagine

di Dio e ha dei difetti per mostrare che ne è solo un’immagine.»

BLAISE PASCAL

LA FEDE DI PASCAL Secondo Pascal (sotto, in un’incisione), la fede in Dio è guidata dalla ragione, ed esiste un “Dio nascosto” che l’uomo deve continuare a cercare.

Dal momento che non possiamo ovviamente avere esperienza sensoriale di Dio, allora Dio non può essere oggetto di indagine, ma deve essere considerato una verità trascendente, una verità cioè che risulta necessaria alla nostra ragione ma la cui realtà è indipendente dalla nostra percezione. Il Dio di Kant, insomma, non può essere conosciuto in natura, né la sua esistenza (o non esistenza) dimostrata attraverso

Scommettiamo che esiste?

S

e alla fine di ogni nostro ragionamento non riusciamo ancora a deciderci per l’esistenza o la non-esistenza di Dio, possiamo sempre accettare il suggerimento che nel Seicento Blaise Pascal ha dato ai perplessi: scommettiamo sul fatto che Dio esista, e comportiamoci di conseguenza. L’idea non è particolarmente originale (era già stata utilizzata in precedenza), ma il ragionamento del filosofo francese è strutturato in modo logico e convincente. Ipotizziamo che Dio esista davvero e che credervi conduca alla salvezza, ma sia effettivamente inconoscibile: abbiamo quindi due sole possibilità, crederci o non crederci. Se crediamo ed esiste davvero, saremo salvati; se crediamo e non esiste, alla fine non avremo perso né guadagnato nulla, perché dopo la morte non c’è, appunto, nulla. Anche se non crediamo e non esiste, non avremo perso, né vinto. Se però non crediamo e Dio invece esiste, avremo perso tutto.

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Dio esiste? prove concrete. Osservando l’ordine del creato, possiamo tutt’al più arrivare a derivare la necessità dell’esistenza di un Autore del tutto, ma non possiamo certo spingerci oltre. Al di là del fatto che sia conoscibile o meno, ammettendo che Dio esista dovremmo preoccuparci soprattutto di come la Sua esistenza può influenzare la nostra vita. Da un punto di vista intellettuale (escludendo quindi gli aspetti teologici e dottrinali delle varie confessioni religiose), dobbiamo prima di tutto stabilire se Dio è interessato ai nostri destini oppure no e, in ogni caso, se è possibile parlare di una relazione uomoDio; il problema, allora, sarà quello di stabilire le modalità e il tenore di tale relazione.

Il rapporto dell’uomo con Dio

Se immaginiamo un Dio trascendente, un’entità al di fuori del mondo, possiamo accettare la visione degli epicurei, i quali ammettevano che gli dei esistessero, ma li concepivano disinteressati al destino e al comportamento degli uomini. Dunque, se Dio, pur essendo il principio di tutto, è estraneo alla realtà fisica, allora non possiamo costruire con lui nessun tipo di relazione, e non dobbiamo né temerlo, né sperare in un suo intervento. Adottando questa prospettiva, da un punto di vista pratico o etico le nostre posizioni saranno simili a quelle di chi si dichiara agnostico e non si sbilancia sull’eventuale esistenza di Dio. Se invece portiamo alle estreme conseguenze l’idea di un Dio infinito, come fa per esempio l’ebreo olandese del Seicento Baruch Spinoza, allora dobbiamo ammettere che tutto, esseri umani, animali, piante e oggetti inanimati, fa parte di Dio. Ma allora, perché Dio dovrebbe amare noi più del resto? Non sarebbe forse più “ragionevole” pensare a una divinità impersonale, non certo antropomorfa, indifferente alle nostre vicende e alle nostre preghiere? Aderire a una tale immagine divina esclude la possibilità di una relazione personale con Dio: non possiamo non amarlo da un punto di vista intellettuale, poiché rimane il principio e la fine di tutto, ma la sua esistenza non modifica in alcun modo la nostra. Prima di lui, anche il filosofo (e uomo di fede) inglese Guglielmo di Ockham era giunto alla conclusione che Dio è inconoscibile e l’unico modo per raggiungerlo è attraverso la fede. Ed è proprio

IL TRAGUARDO DELLA FEDE Per Kierkegaard (la sua statua campeggia nei giardini della Biblioteca Reale di Copenaghen), credere in Dio è il risultato di un percorso che prende le mosse dall’ambito estetico e razionale e termina con la necessaria resa all’idea dell’esistenza di un ente supremo, origine di tutte le cose.

la fede l’ultimo stadio del cammino esistenziale delineato dal filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855), che inizia dalla contemplazione estetica per giungere fino allo stadio religioso, passando attraverso la fase dell’impegno etico. L’ultima tappa di questo percorso è la totale accettazione dell’esistenza di Dio e la costruzione di un rapporto personale Dio/Uomo, che prevede il nostro totale abbandono, come forma più elevata di relazione con l’essere divino. All’interno di tale rapporto, la modalità comunicativa privilegiata è la preghiera, che diventa il sistema di mediazione tra l’io di chi prega e il destinatario della preghiera stessa. Secondo Kierkegaard, infatti, il fine ultimo di pregare non è ottenere qualcosa, ma fare in modo che l’anima si unisca con Dio e ne avverta la presenza. Sembra, in fondo, la chiusura di un cerchio: indagando il problema di Dio, la ragione arriva a postulare la necessità della fede! Una conclusione che i limiti attuali della scienza sembrano confermare: ci sono barriere fisiche e matematiche che non ci permettono di varcare la soglia del momento in cui il mondo materiale, e con lui il tempo, ha avuto origine, barriere che la nostra mente sembra condividere e che solo la fede (o la fantasia, secondo alcuni) può scavalcare, senza offrire alcuna garanzia di verità.

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Fede

E ragione



Oggi la scienza sembra offrire una spiegazione per (quasi) tutto, ma la fede in un ente supremo ha ancora molto da dire agli uomini che pensano: un duello intellettuale rimasto inalterato nei secoli

I

tempi in cui viviamo sono sicuramente tra i più entusiasmanti e dinamici dal punto di vista scientifico, ma via via che la scienza allarga i propri confini, spiega i fenomeni naturali con maggiore precisione e disegna teorie sempre più complesse, sembra togliere spazio e importanza alla fede: qualcuno è arrivato a pensare che se molto di quello che sembrava inspiegabile (e doveva appunto essere accettato con un atto di fede) è diventato comprensibile, allora forse è solo una questione di tempo, e la mente umana riuscirà a fare luce su tutti i misteri che ancora resistono. Ma è davvero così? Tale speranza, secondo molti, è destinata a dimostrarsi vana: ci sono limiti

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Fede e ragione sono nemiche?

SONO NEMICHE?

oggettivi e intrinsechi alla conoscenza umana, sostengono, che le impediranno di dare le risposte definitive alle domande ultime sull’universo, il suo inizio, la sua fine e il suo significato (sempre che un significato ci sia…). Altri, invece, ritengono che alla fine la scienza non farà altro che confermare le verità di fede, razionalizzando e argomentando quello che l’uomo già conosce in modo innato. Altri ancora pensano che scienza e fede operino in due campi d’azione del tutto separati e che non possono e non devono interferire una con l’altra. C’è, infine, chi ritiene che i due ambiti siano invece complementari, e che la loro unione possa condurre l’uomo alla conoscenza completa.

La riflessione sul rapporto tra fede e scienza, quindi, non riguarda solo gli uomini di chiesa e gli scienziati, ma tutti quelli che si interrogano tanto sulla realtà delle cose quanto sul suo significato.

Differenze fondamentali

Secondo alcuni, la contrapposizione tra fede e scienza si potrebbe tradurre, in termini più pratici, in un dilemma evidente: “credere o ragionare?” Si tratta però di una semplificazione eccessiva, che rischia di rendere impossibile confrontare due approcci che, se davvero si rivelassero così distanti, non potrebbero mai confrontarsi, neppure in forma dialettica. È ”

SEMPRE (O QUASI) AVVERSARIE Fede e ragione hanno sempre trovato molte occasioni di scontro, anche feroce. Sopra, il papa incorona l’imperatore: le azioni del pontefice, in ogni tempo, sono state dettate dalla mediazione fra le esigenze della fede e quelle della politica.

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UNA SFIDA TECNOLOGICA La sperimentazione scientifica sta confermando alcune delle teorie più ardite concepite dai fisici per spiegare quelli che, fino a ieri, parevano misteri insondabili. Sotto, il Nobel per la fisica Peter Higgs mentre si trova al Cms, un grande rilevatore di particelle sorto a Cessy, in Francia.

senz’altro vero che oggi sembra esistere una contrapposizione netta tra l’approccio di chi si affida a una fede religiosa e quello di chi invece ritiene veritiero solo ciò che è scientificamente dimostrato; tuttavia, molti grandi pensatori contemporanei hanno sviluppato una linea di pensiero razionale e scientifico senza per questo rinunciare a credere in Dio o comunque in un’entità creatrice. Possiamo definire quest’ultimo un atteggiamento “aristotelico”, dal momento che è proprio grazie ad Aristotele che la cultura occidentale ha cominciato a integrare l’indagine razionale all’interno di una visione generale del mondo che fino ad allora si appoggiava sul mito e sulla fede in divinità creatrici o in un principio unico dal quale tutto deriva. Il discepolo di Platone, infatti, dedicò gran parte della sua vita a studiare e cercare di spiegare la realtà concreta nel modo in cui questa si presentava, cercando di dare conto dei suoi meccanismi. Invece di concentrarsi

su enti astratti come le idee platoniche, la sua attenzione si rivolgeva ai fenomeni fisici, senza che però questo gli impedisse di elaborare una teoria cosmologica al centro della quale si troverebbe un “motore immobile” responsabile del movimento di tutti gli astri. Questa teoria, non a caso descritta nella Metafisica, il volume che tratta degli argomenti oltre lo studio della natura, porta Aristotele a ragionare su questo principio primo e a identificarlo con la divinità. Nel tempo, la differenza tra i due approcci si è fatta sempre più marcata e a partire dal Cinquecento, con la definizione del metodo sperimentale galileiano, è diventato più facile distinguerle, valutarne le diverse competenze e discutere sugli eventuali punti di contatto.

A pprocci diversi per ambiti diversi

La scienza, secondo Galileo, prende le mosse dall’osservazione di un particolare fenomeno, procede con la definizione di un’ipotesi che

Che cos’è davvero ″scientifico″

C

ome racconta egli stesso nel suo Congetture e confutazioni, nel 1919 Karl Raimund Popper (nato austriaco nel 1902 e morto inglese nel 1994) era alla ricerca di un modo per distinguere le teorie fisiche, come quella newtoniana e quella della relatività, dalle dottrine politiche, storiche e psicologiche, che all’epoca venivano considerate teorie scientifiche vere e proprie. Il risultato di tale sforzo fu l’enunciato del cosiddetto principio di falsificabilità, secondo il quale una teoria può dirsi valida solo se è possibile falsificarla attraverso la sperimentazione. Stimolato dalle riflessioni di Einstein, espresse in una conferenza alla quale aveva assistito, Popper giunse alla «conclusione che il vero atteggiamento scientifico è quello critico che non cerca verifiche, ma piuttosto dei controlli cruciali in grado di confutare la teoria presa in considerazione». Secondo questo approccio, dunque, il marxismo, la psicologia e (evidentemente) la teologia non possono considerarsi scienze.

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Fede e ragione sono nemiche?

«C’è una differenza sostanziale tra la religione, che è fondata sull’autorità, e la scienza, che invece è basata sull’osservazione

e sul ragionamento. E la scienza vincerà perché funziona.» 

STEPHEN HAWKING LA RICERCA DEL COMPROMESSO La teoria del “disegno intelligente” avanzata da Philip Johnson (nella foto) cerca di offrire una sintesi accettabile tra creazionismo e meccanicismo.

Il disegno intelligente

N

el tentativo di integrare la tesi creazionista con le evidenze ormai schiaccianti di quella evolutiva, alcuni scienziati (una ridotta minoranza, in verità) hanno sviluppato l’ipotesi del “disegno intelligente”, secondo cui l’evoluzione è effettivamente un meccanismo naturale, il quale però non sarebbe il semplice risultato delle forze descritte dalla teoria darwiniana, bensì uno degli strumenti utilizzati da un’intelligenza superiore, responsabile dell’intero progetto alla base della vita. A esplicitare tale ipotesi, nel 1991, è stato un docente di diritto, Philip Johnson, ma tra gli aderenti si annoverano anche alcuni scienziati, come il geologo e filosofo Philip Meyer e il biochimico Michael Behe. Quest’ultimo sostiene la tesi della “complessità irriducibile”, secondo la quale alcuni sistemi biologici risulterebbero talmente complessi da non poter essere spiegati soltanto con il processo evolutivo e le fluttuazioni statistiche previste dai modelli che lo sostengono.

lo spieghi e prevede lo svolgimento di serie di esperimenti che verifichino la fondatezza di quest’ultima la quale, qualora venga confermata, viene infine espressa come legge. Il fulcro del metodo (che non per niente si chiama “sperimentale”) risiede appunto nella possibilità di mettere alla prova l’ipotesi attraverso delle esperienze riproducibili. Proprio la necessità della sperimentazione rende evidentemente impossibile l’applicazione del metodo scientifico alle questioni che attengono alla sfera metafisica. Se dunque consideriamo scientifico ciò che è provabile sperimentalmente, allora dobbiamo ammettere che l’oggetto della scienza è diverso da quello della fede, la quale infatti riguarda il nostro rapporto con enti sopra-naturali che quindi, per definizione, sfuggono ai nostri sensi e non sono perciò sperimentabili. Uno scienziato, dunque, se è del tutto fedele alla metodologia che distingue il suo campo d’azione, non dovrebbe mettere le questioni teologiche, etiche e morali al centro delle sue ricerche. Ancora meno, dovrebbe farlo alla luce dello sviluppo della filosofia della scienza del XX secolo, quando Karl Popper (1902-1994) ha introdotto il “principio di falsificabilità”, secondo il quale una teoria può dirsi scientifica solo quando può essere confutabile, mentre un principio di fede, per definizione, non lo è mai. La scienza, dunque, sembra avere auto-limitato il proprio campo d’azione in funzione di alcuni limiti fisici ritenuti al momento invalicabili che le precludono di discutere, per esempio, di ciò che esisteva nei momenti compresi in quella che viene chiamata l’era di Planck, cioè l’intervallo di tempo compreso tra l’“istante zero” della storia universale e i 10-43 secondi successivi. Possiamo chiederci se esiste un analogo confine per la fede, ma in questo caso la risposta, a rigor di logica, non può che essere negativa: se l’esperienza sensoriale è limitata al mondo concreto, nulla ci vieta invece di invocare un principio metafisico per descrivere la realtà, a patto che spieghi i fenomeni in maniera coerente e che tale spiegazione abbia un “valore predittivo”, sia in grado cioè, di fronte al manifestarsi di una causa, di anticiparne gli effetti oppure, viceversa, una volta osservato un fenomeno riuscire a risalire a ciò che l’ha causato. Quest’ultima osservazione mette però gli uomini di fede di fronte a un potenziale problema: come comportarsi quando una teoria scientifica si rivela in grado di spiegare un fenomeno in maniera corretta ma che sembra confutare le premesse o le conclusioni derivate da una verità di fede?

Una convivenza difficile

A causa del differente oggetto della loro indagine, se cerchiamo di fare convivere in armonia tra una visione religiosa dell’universo e la ricerca razionale delle leggi di natura, dobbiamo necessariamente accettare la precedenza della prima sulla seconda: se infatti crediamo che tutto derivi da un ente superiore e onnipotente, allora ” 113

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Fede + scienza = scientismo

P

er decine di secoli la fede è stata accusata di essersi arrogata il diritto di definire quale fosse la verità sia sulle questioni di fede che su quelle relative al mondo naturale, a essa non pertinenti. Oggi, al contrario, è la scienza a rischiare di commettere lo stesso errore, trasformandosi in un’ideologia: quella che il filosofo della scienza John Duprè ha ribattezzato con il termine “scientismo”. Secondo la definizione di Duprè, lo scientismo consiste nella tendenza ad «applicare un’idea scientifica di successo ben oltre il suo dominio originario, e in genere con sempre minor successo man mano che la sua applicazione viene estesa al di fuori del suo campo d’origine», come scrive nel suo Natura umana. Perché la scienza non basta.

le modalità di esistenza del mondo discenderanno direttamente dalla volontà di questa divinità e la nostra indagine razionale potrà svelarne i meccanismi, i quali non potranno che confermare quanto derivato dalla riflessione e dalla contemplazione dell’ente superiore, sia che lo si chiami motore immobile, sia che lo si pensi come Bene o ci si rivolga a lui come Dio. In effetti, a partire dal V secolo a.C. e almeno fino alla fine del Settecento, le verità di fede hanno avuto quasi sempre la priorità

sulle evidenze fisiche, nel senso che queste ultime erano studiate e interpretate in modo da armonizzarsi con le concezioni metafisiche che si sarebbero affermate nel corso del tempo. Questo rapporto di subalternità inizia con Sant’Agostino e si fa particolarmente pronunciato nel corso del Medioevo, in particolar modo con i grandi maestri della Scolastica. San Tommaso, per esempio, non usa mezzi termini, quando afferma: «È impossibile che quello che Dio ci fa conoscere attraverso

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Fede e ragione sono nemiche? È lo stesso tipo di compromesso che ha permesso ai pensatori e agli studiosi medievali e rinascimentali di esprimere le loro idee e divulgare le loro scoperte senza incorrere negli strali della Chiesa, in verità non sempre con pieno successo, come insegna il celebre caso di Galileo Galilei (1564-1642), sospettato di eresia, processato, condannato dal Sant’Uffizio e costretto all’abiura delle sue concezioni astronomiche. L’alternativa, se non vogliamo rinunciare né a credere, né a indagare le leggi della natura, è quella di considerare l’ambito della fede e quello della scienza separati e indipendenti tra loro: al primo pertengono le riflessioni su tutto quello che non è fisicamente sperimentabile, al secondo lo studio dei fenomeni naturali così come essi si manifestano.

R isposte medievali

« Dall’osservazione scientifica giunge un messaggio

estremamente chiaro:

l’universo è stato

prodotto da un essere intelligente.»

ANTONY HEWISH

la fede risulti contrario a ciò che è posto in noi per natura: in questo caso, infatti l’uno o l’altro dovrebbe necessariamente essere falso, e poiché entrambi sono dati da Dio… è impossibile che ciò che riguarda la filosofia risulti contrario a ciò che appartiene alla fede». Anche ai giorni nostri, se crediamo in un Dio creatore e accettiamo per fede alcune “verità”, non possiamo certo pensare che lo studio della natura possa portare a delle conclusioni diverse da quelle previste dalla dottrina alla quale aderiamo.

SCIENZIATI CHE CREDONO L’astronomo britannico Antony Hewish (di cui sopra riportiamo un pensiero) è uno dei padri della radioastronomia, con cui possiamo indagare aree di cosmo remotissime.

A giudicare da quanto capita spesso di leggere o di sentire, sembrerebbe che l’autonomia dell’ambito scientifico da quello religioso sia una conquista recente. In realtà la distinzione tra fede e scienza comincia molti secoli fa: il primo a dichiarare apertamente che si trattava di una separazione necessaria è stato Alberto Magno, che già nel XII secolo scriveva: «Qualsiasi cosa sostenga la nostra religione, noi ora la mettiamo totalmente da parte, accettando esclusivamente le verità suscettibili di dimostrazione per mezzo del ragionamento scientifico». Prima di lui, Pietro Abelardo (10791142) aveva in qualche modo già rivoluzionato la concezione del rapporto tra fede e ragione allora vigente e che era stata riassunta da Agostino sette secoli prima nella sua celebre esortazione “intellige ut credas, crede ut intelligas” (devi capire per credere, e devi credere per capire): per Abelardo, infatti, vale piuttosto la convinzione che per credere davvero bisogna prima avere capito. A mettere in evidenza in maniera chiara e inequivocabile la differenza implicita tra fede e scienza arriva nel XIII secolo Duns Scoto, il quale ci spiega che la teologia non è una scienza: sia i suoi principi, sia le sue conclusioni sono rivelate, dunque non in esse c’è nulla da indagare. Naturalmente, la “scienza” a cui si riferisce Scoto è quella aristotelica, ma le sue conclusioni sono condivise da molti ancora oggi. Ancora più netto il giudizio di Guglielmo d’Ockham (1285-1347), che, due secoli più tardi, nella sua Logica dichiara: «gli articoli di fede non sono né principi di dimostrazione né conclusioni e non sono neppure probabili, dal momento che possono apparire falsi a tutti, o alla maggior parte oppure ai sapienti, cioè a quelli che si affidano alla ragione naturale». Un giudizio che proviene da un francescano, quindi un credente sincero, ma soprattutto da uno dei più grandi logici della storia del pensiero umano. Cinquecento anni dopo, Immanuel Kant (17241804) si spingerà fino a dire che la fede non ha nulla a che vedere con il sapere, quindi con la ” 115

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« La scienza senza la religione è zoppa. La religione senza la scienza è cieca.»

TUTTI IN POSA, CREDENTI E ATEI La famosissima Scuola di Atene di Raffaello (sopra, un particolare) celebra un gran numero di filosofi dell’antichità, fra cui alcuni scettici circa l’esistenza di Dio, come Epicuro.

conoscenza del mondo fisico, ma è legata alla morale, precludendo così la possibilità di giungere alla fede in Dio attraverso il ragionamento e la speculazione intellettuale. Una posizione con la quale molti “credenti razionali” non si trovano d’accordo, preferendo la replica successiva di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) che nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche scrive: «Poiché l’uomo è pensante, né il buon senso né la filosofia si faranno mai convincere a non elevarsi da e per mezzo della contemplazione empirica

ALBERT EINSTEIN

del mondo a Dio». Secondo Hegel, insomma, conoscenza assoluta e sapere empirico (pensiero e realtà) non sono separabili, quindi Dio deve essere cercato e trovato all’interno del reale. Ma oggi i rapporti tra fede e scienza appaiono spesso rovesciati e la seconda, invece che utilizzata per sostenere e confermare gli assunti della prima, viene spesso chiamata a supportare posizioni ateiste, contraddicendo in pieno l’affermazione hegeliana. Secondo i sostenitori del movimento cosiddetto del “Secondo Ateismo”, che vede

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Fede e ragione sono nemiche? Un “cervellone” su quattro è ateo

A

nche se potrebbe venirci spontaneo pensare che la maggioranza della comunità scientifica odierna sia atea o quantomeno agnostica, una ricerca condotta dalla Rice University di Houston, pubblicata nel 2015, sembra rivelare una situazione decisamente diversa. Stando infatti alle risposte dei quasi 1.500 fisici e biologi intervistati in otto Paesi (Italia, Francia, Hong Kong, India, Taiwan, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti), più della metà degli scienziati professa una qualche forma di religiosità. Naturalmente, le percentuali cambiano anche sensibilmente in relazione al diverso ambiente culturale da cui gli inter vistati provengono. Così, tra i meno laici si distinguono i turchi (85%), gli Indiani ( 79 %) e i taiwanesi (74%), seguiti dagli italiani, quarti. Ancora più interessante è un altro dato che emerge dalla ricerca: quello riguardante gli atei convinti, che spesso risultano molto più numerosi tra la popolazione che all’interno della comunità scientifica. A Hong Kong, per esempio, a fronte di una percentuale generale di ateismo del 56%, solo il 26% degli scienziati ha affermato di non credere in nessun tipo di entità superiore. Infine, sembrerebbe che l’idea di un contrasto tra fede e scienza preoccupi molto di più i non addetti ai lavori: solo il 29% degli scienziati statunitensi e il 32% di quelli britannici considera infatti conflittuale il rapporto tra i due ambiti.

tra i suoi membri pensatori contemporanei come il genetista Richard Dawkins e lo scrittore Christopher Hitchens, alla luce delle scoperte della scienza moderna, l’idea di Dio appare sempre più improbabile e quindi la fede perderebbe il proprio oggetto e, di conseguenza, la propria ragion d’essere. Una conclusione a sua volta criticata da altri filosofi e scienziati, per i quali le nuove evidenze sembrano dare ragione a Kant quando afferma che la scienza non conferma e non nega l’esistenza di Dio, mentre altri ancora

si spingono ad affermare che, alla luce dei suoi attuali sviluppi, essa in realtà rafforzi l’ipotesi dell’esistenza di un principio metafisico superiore. Tra questi ultimi figura lo stesso Albert Einstein, che una volta ebbe a dire: «Chiunque si occupi seriamente di scienza, si convince che nelle leggi della natura si manifesta una specie di spirito enormemente superiore a quello umano. In questo senso, la ricerca scientifica porta a un sentimento religioso speciale, del tutto diverso dalla religiosità degli ingenui».

L’ESEMPIO DI PADRE MENDEL Nel tondo, il ritratto di Gregor Mendel (1822-1884), monaco agostiniano ma anche matematico e precursore della genetica moderna, che seppe sempre coniugare fede e ragione.

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Che cosa sono il pensiero, l'anima e la coscienza?

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La nominiamo spesso, come se la conoscessimo alla perfezione, ma in realtà non sappiamo nemmeno se esista e dove si trovi. Eppure l’anima racchiude (forse) la nostra vera essenza

L’ARTE PRIMA DELLA PSICANALISI Nell’immagine, l’Incubo dipinto da Johann Füssli nel 1781.

F

in da piccoli, sappiamo inconsciamente che la nostra identità non si limita alla carne, alle ossa e agli organi che lo compongono, ma che c’è qualcosa in più che ci rende quello che siamo. È una parte immateriale, che gli antichi hanno paragonato a un soffio di vento (ànemos, in greco, anima, in latino). È lo spirito vitale, il centro della nostra vita interiore. Ma è possibile definirla in maniera più precisa? Scoprire che cosa sia davvero l’anima, la sua natura e i suoi limiti? Filosofi di tutti i tempi hanno provato a dare una risposta.

Dove nasce il concetto

Se identifichiamo l’anima con la nostra coscienza, la consapevolezza della nostra personalità, intesa come la somma dei pensieri, dei sentimenti e della volontà che ci guida nelle nostre scelte e nelle nostre azioni, allora parliamo della psychè platonica. Platone individua il concetto di anima individuale, immortale e distinta dal corpo, destinata, alla morte, a separarsi da quest’ultimo. Ma da dove proviene l’anima? Il filosofo greco si riallaccia all’idea di un’“anima del mondo”, una forza estesa a tutto l’universo che informa e fa muovere la materia, e la descrive appunto come immortale, preesistente al corpo e destinata a sopravvivergli. Questa anima mundi viene infusa dal Demiurgo, l’artigiano divino, ed è l’unica in grado di contemplare il mondo delle idee. In realtà, a essere immortale e a detenere le facoltà più elevate dell’essere umano è solo una delle tre parti in cui Platone divide l’anima, l’intelletto, ovvero la porzione razionale; le altre due, quella concupiscente e quella irascibile, presiedono rispettivamente al desiderio e alla volontà. La prospettiva platonica, che professa l’immortalità dell’anima e la sua origine divina, risulta accettabile a chiunque professi uno dei grandi monoteismi. E infatti questa idea, mediata dal neoplatonismo di Plotino (III secolo a.C.) e dal pensiero di sant’Agostino (354-430), è in buona parte sovrapponibile a quella cristiana, seppure limitatamente alla parte intellettuale. In realtà, a differenza di Platone, Agostino non crede che l’anima pre-esista rispetto al corpo, così come non accetta nemmeno l’ipotesi di Origene (185-254), per il quale tutte le anime sono state create all’inizio del tempo. All’inizio, anzi, sembra propendere verso la dottrina del “traducianesimo”, secondo la quale l’anima viene trasmessa all’individuo dai genitori e non sarebbe quindi creata direttamente da Dio. Alla fine, però, propenderà per l’idea dell’anima individuale creata singolarmente. L’alternativa al concetto di anima come parte immortale e divina dell’uomo è quella proposta da una visione materialistica della realtà, all’interno della quale non vi è alcuna relazione con un eventuale mondo superiore, ideale o divino. I primi a pensarla così furono gli epicurei (III secolo a.C.), i quali ritenevano l’anima composta da atomi, esattamente come il resto del corpo. ” 119

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L’unica differenza è la qualità delle particelle che la compongono, più leggere e veloci delle altre: il pensiero nascerebbe dallo scontro tra questi atomi e quelli del corpo, che così si muoverebbero a loro volta generando il pensiero. L’origine dell’anima sarebbe dunque il risultato di una interazione tra entità materiali, ossia un evento spiegabile in termini fisici. Questa risposta è simile a quella di chi pensa che il termine “anima” indichi soltanto il prodotto della nostra attività cerebrale, che può essere influenzato dall’esperienza, da fattori fisiologici e dall’educazione: una spiegazione scientificopsicologica che liquida la componente metafisica e appare l’unica possibile per i non credenti.

A nima e pensiero

La difficoltà principale che sorge quando parliamo di anima è quella di distinguerla nettamente dal pensiero, inteso come prodotto dei processi mentali che derivano dall’attività cerebrale. È Cartesio (1596-1650) ad accendere il dibattito, proponendoci una risposta semplice ma molto profonda, con la sua celebre frase «cogito, ergo sum»: penso, dunque sono. Se tutto ciò di cui possiamo essere sicuri è il fatto che esistiamo e che pensiamo allora la nostra essenza, la nostra anima, è quella di una “soggettività pensante” (res cogitans), mentre il fatto di possedere un corpo, quindi di occupare uno spazio (di essere, cioè, anche res extensa) non ci definisce in maniera decisiva. Spinoza (16321677) va anche oltre, proponendo l’idea di corpo e anima come due modalità in cui la Sostanza unica (Dio) si manifesta, quella estesa e quella del pensiero: infatti, sostiene il pensatore ebreoolandese, più che di anima dovremmo parlare di mente, e se accettiamo che la nostra anima coincida con il nostro pensiero, la stiamo rapportando alla nostra esperienza individuale, e non possiamo più considerarla un principio spirituale e trascendente. Procedendo su questa strada, arriviamo alla posizione di Herbert Feigl (1902-1988), che riprende il concetto

LA VISIONE DI JUNG La psicologia di Carl Gustav Jung (sotto) riserva un ruolo importante all’anima, intesa sia come l’elemento interiore dell’essere umano, sia come la parte femminile dell’inconscio.

« Solamente il viandante

che ha peregrinato nel suo infinito

mondo interiore

potrà avvicinarsi all ’ Anima,

scoprendo infine che è

Lei ciò che

ha cercato per anni, perché

Lei è dietro

e all’interno

di ogni cosa.»

CARL GUSTAV JUNG

cartesiano dell’io autocosciente per spiegare, almeno in parte, il comportamento umano, identificando poi la mente con il meccanismo fisico-chimico del funzionamento del cervello. Il pensatore austriaco ritiene così di poter escludere l’ipotesi dell’esistenza dell’anima secondo un semplice principio di economia: se posso spiegare le funzioni e gli stati della mente, semplicemente attraverso i meccanismi cerebrali, perché mai dovrei aggiungere un elemento metafisico, che non farebbe altro che complicare tale spiegazione, senza nulla risolvere? Tuttavia, quando oggi parliamo dell’inconscio, forse ci stiamo riferendo a qualcosa di

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Che cosa sono il pensiero, l'anima e la coscienza?

Prima della nascita l’anima è nel feto?

S

e accettiamo l’idea di un’anima separata dal corpo, in quale momento le due parti si uniscono? All’atto del concepimento, oppure successivamente? La domanda ha un senso cruciale se consideriamo il tema dell’aborto, perché se accettiamo la prima ipotesi dobbiamo ammettere che la decisione di interrompere la gravidanza significa interrompere una vita; se invece propendiamo per la seconda, allora dobbiamo sapere esattamente quando il feto diventa un essere umano senziente e dotato di un’identità spirituale. È un problema certamente molto sentito e dibattuto oggi, ma già affrontato secoli fa. È stato Tommaso d’Aquino a offrire una risposta che per lungo tempo ha determinato l’opinione della Chiesa. Invocando l’idea platonica dell’esistenza di un’anima “inferiore” (quella formata dalle due componenti, l’irascibile e la concupiscente) e di una razionale (l’intelletto), Tommaso ritiene che all’inizio il feto sia provvisto del primo tipo di anima e solo quando il corpo è fisicamente formato e preparato riceve la seconda, quella sensitiva, che si può identificare con lo spirito. Ecco perché, nella Summa Theologica, il filosofo dichiara che gli embrioni sprovvisti di anima sensitiva non parteciperanno alla resurrezione. Oggi, invece, negli ambienti cristiani prevale spesso l’opinione che l’anima sia già presente all’inizio della vita organica, che per alcuni risale addirittura al momento della fecondazione.

equiparabile, sia pure non più in termini metafisici. Infatti il teologo Paul O’Callaghan fa notare che psicanalisi e psicoterapia in fondo possono essere considerate le versioni “laiche” dei processi di conversione e guarigione spirituale.

I l r apporto con il corpo

Qualunque cosa sia l’anima, non possiamo evitare di chiederci in quale rapporto essa sia con il corpo. Nel IV secolo a.C., Aristotele parlava di “ilomorfismo”, indicando con tale termine il fatto che tutti gli enti materiali sono composti da materia e forma, conferita al corpo proprio dall’anima. Questo approccio, giunto ai pensatori medievali attraverso la mediazione

MENTE E PENSIERO È nel rapporto tra la mente (intesa come l’insieme delle attività psichiche) e il suo prodotto, il pensiero, che si concretano le potenzialità uniche del nostro cervello.

dei commentatori arabi (Averroè e Avicenna su tutti), legherà indissolubilmente l’anima al corpo: l’una non può fare a meno dell’altro per costituire l’intero essere umano, ed è sulla base di questo che i pensatori cristiani concepiscono la necessità della resurrezione dei corpi. Successivamente, san Tommaso ristabilirà una supremazia dell’anima attribuendole una precedenza metafisica, grazie alla quale essa è da considerarsi incorruttibile. Un empirista fatica ad accettare sia la visione platonica, sia quella aristotelico-tomista, ma può ritrovarsi maggiormente in quella di David Hume (1711-1776), il quale considera il “sé” come il prodotto delle percezioni che ci portano non solo a conoscere, ma anche a “percepire di stare ” 121

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Un derivato dall’evoluzione?

O

ggi la teoria evolutiva (ipotizzata da Darwin, sotto raffigurato in una caricatura) pone un altro problema a chi crede nell’esistenza dell’anima: se accettiamo l’idea di un processo di evoluzione biologica detto “ominizzazione”, che a partire dai primi ominidi ha portato all’attuale essere umano, allora anche l’anima dovrebbe essersi evoluta da un livello animale. Per superare questa difficoltà, alcuni filosofi cristiani hanno accettato la cosiddetta “ipotesi trasformista” insita nella teoria evolutiva, affermando però che l’anima verrebbe creata direttamente da Dio. Questa proposta risolve il problema dal punto di vista teologico, ma obbliga a separare in maniera netta e irreversibile l’ambito scientifico da quello religioso. Il gesuita Karl Rahner (1904-1984) suggerisce un’alternativa: possiamo pensare che Dio sia la causa primaria dell’origine della vita, mentre il suo sviluppo (causa secondaria) dipenderebbe dall’evoluzione che si verifica nel corso della generazione. In questo modo, Dio e gli esseri a partire dai quali si sono sviluppati gli ominidi sono causa della formazione degli esseri umani propriamente detti: in particolare, il primo sarebbe la causa del processo che permette ai secondi di elevarsi al di sopra dei loro limiti, in virtù di un’azione potenziante che porta allo sviluppo della spiritualità umana. È la cosiddetta “ipotesi emergentista”: grazie alla spinta divina, il risultato del processo evolutivo, fisico, supera i limiti previsti dalla natura iniziale per consentire l’accesso alla dimensione spirituale.

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Che cosa sono il pensiero, l'anima e la coscienza? conoscendo”, dunque alla conoscenza del sé che Cartesio identificava con l’anima. Hume non si spinge a negare l’esistenza dell’anima, per indicare la quale usa comunque il termine mind, mente, ma ammette che non è in grado di dimostrarla. Ci penserà William James (1842-1910), identificando quello che chiamiamo anima con la somma di una serie di fenomeni psichici e aprendo la strada a teorie ancora più radicali, come il “comportamentismo”, secondo il quale l’essere

« C ’è uno spettacolo

più grandioso del mare, ed è il cielo; c’è uno

spettacolo più grandioso del cielo, ed è l’interno di un’anima.»

P

Quando viene la morte

er i cristiani, e più generale per chi ne attribuisce l’origine al divino, l’anima non è destinata a scomparire nel nulla dopo la morte, come invece risulta naturale concludere per chi è orientato a una concezione materialistica dell’anima stessa. Se invece si considera l’anima come una forma di “energia”, secondo una visione panteista in cui l’ente metafisico è impersonale, allora il nostro spirito si ricongiungerà alla sua fonte, perdendo però ogni connotato di unicità, quindi anche la propria identità. Per chi crede nella resurrezione dei corpi esiste però un ulteriore problema: poiché al momento della morte l’anima si è distaccata dal corpo, essa è destinata ad attendere il momento in cui tornerà nel proprio corpo risorto per proseguire la sua esistenza infinita? E se sì, quale sarà la sua collocazione, nel frattempo? Secondo il Catechismo cattolico, l’anima viene accolta nella dimensione divina e giudicata fin dal momento della sua separazione dal corpo (Giudizio particolare), che invece dovrà attendere il giorno del Giudizio finale.

VICTOR HUGO

umano è una sorta di macchina guidata da leggi e informazioni scientificamente deducibili, senza che vi sia alcun bisogno di ricorrere a una componente complessa come la mente o l’anima. Non tutti accettano una tale visione “riduzionista”, e il cosiddetto problema “mentecorpo” (mind-body) è ancora oggi oggetto di grandi discussioni: che la si chiami anima, io, mente, in quale relazione questo ente si trova con il cervello, cioè l’insieme delle strutture anatomiche, delle reazioni chimiche e dei processi che vi si svolgono all’interno? Abbiamo già accennato a Feigl e al suo approccio “riduzionista”, ma bisogna citare anche la ripresa della visione dualista, nella quale si opera una distinzione tra il mondo fisico e quello dei processi mentali che portano alla definizione di una coscienza individuale. A questi due “mondi”, Karl Popper (1902-1994) ne aggiunge un terzo, quello popolato dai risultati prodotti dall’attività del cervello (arte, teorie scientifiche, opere letterarie, costrutti sociali e politici…) e che si può identificare con la mente. Quest’ultimo mondo è il prodotto dell’attività del secondo (il cervello), ma è quello che influenza direttamente il primo (la realtà fisica): la mente, dunque, non può identificarsi con la sede dei processi che lo determinano, il cervello. In un certo senso, alla fine del percorso, siamo tornati all’idea platonica di un principio immateriale che governa la materia. 123

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Che cosa ci aspetta dopo

la morte ? La fine della vita: un appuntamento che tutti, prima o poi, sono chiamati a rispettare. Un tema difficile e delicato da affrontare quando l’evento è ancora lontano

T

utte le grandi domande della filosofia riguardano la vita, tranne una: che cosa c’è dopo la morte? Eppure, è la risposta data a quest’ultimo quesito a determinare in maniera decisiva tutte le altre, perché è proprio dall’idea che abbiamo di quello che segue la fine della nostra esistenza terrena che deriva il modo in cui decidiamo di trascorrerla. Ma la nostra mente può concepire qualcosa che, per definizione, va oltre

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Che cosa ci aspetta dopo la morte?

la dimensione della vita stessa? Ci attende davvero qualcosa oltre il momento in cui cessiamo di vivere? È solo la fede, o anche la ragione che può aiutarci a vedere oltre il velo che ci separa dal mistero?

Pensare a lasciare il mondo

Detto in termini biologicamente brutali, la morte è lo stato che negli esseri viventi segue alla cessazione definitiva delle attività metaboliche

e quindi delle funzioni vitali. Si tratta di un fenomeno naturale che riguarda tutti gli esseri viventi, anche se tecnicamente si potrebbe obiettare che i microrganismi che si riproducono per divisione cellulare di fatto non muoiono, ma si moltiplicano all’infinito, oppure che certe piante millenarie sarebbero potenzialmente immortali e che muoiono solo a causa di eventi accidentali, come una malattia o un disastro naturale. In ogni ”

UNA FINE ESEMPLARE La morte di Socrate, narrata da Platone (qui, illustrata da JacquesLouis David), è l’esempio di come il saggio può affrontare la fine della vita con coraggio e serenità.

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caso, per tutti gli altri organismi dotati di attività metabolica, la fine della vita è un evento certo, che può avvenire in modi differenti, ma il cui esito è inevitabilmente sempre lo stesso. Dunque, anche noi siamo destinati a sperimentare quel fatidico momento, ed essendo questa l’unica, vera certezza della nostra esistenza, è naturale che le nostre riflessioni e le nostre conclusioni su quest’argomento influenzino in modo decisivo la nostra vita, sotto tutti i punti di vista. È vero però anche il contrario, cioè il fatto che sono le nostre convinzioni a determinare il nostro rapporto con la morte e le nostre idee a

proposito dell’aldilà. Al riguardo (come del resto accade quasi sempre, quando si trattano temi del genere) la prima, grande dicotomia di pensiero riguarda la scelta tra un approccio materialistico e uno metafisico. Nel primo caso, aderiamo a una visione in cui l’unica dimensione esistente è quella del reale, e null’altro esiste al di fuori di essa; nel secondo, invece, ammettiamo l’esistenza di una (o più) realtà ulteriori, anche se per noi intangibili. La spiegazione materialistica è quella che ci appare più immediata e comprensibile da un punto di vista razionale, e prende le mosse da un approccio “meccanicistico” della vita, come

“HUMANA FRAGILITAS” Fino al Seicento era comune ritrarre i grandi pensatori con in mano un teschio, simbolo della caducità umana (humana fragilitas). Sotto, Epicuro dipinto da un artista olandese. Nel tondo, Ruggero Bacone.

«Tutto quello che so è che devo morire, ma ciò che ignoro di più è proprio questa stessa, inevitabile morte.»

BLAISE PASCAL

La filosofia in difesa dell’eutanasia

Q

uando si parla di “dolce morte”, o di “morte assistita”, subito scendono in campo medici, scienziati e autorità religiose. Eppure, anche i filosofi hanno qualcosa da dire in proposito, e alcuni dei più grandi pensatori ci hanno lasciato importanti riflessioni sull’atto di porre violentemente termine a una vita di sofferenze e senza più ragionevoli speranze. Anzi, fu proprio uno di loro, l’inglese Ruggero Bacone (1561-1626), a coniare il termine “eutanasia”. Scienziato e uomo di fede, Bacone riteneva che fra i compiti della medicina non ci fossero solo lo studio e la cura delle malattie, ma anche il potere di mitigare il dolore. Scriveva infatti nel suo Della dignità e del progresso delle scienze: «Questa mitigazione del dolore non serve soltanto quando può aiutare ad arrivare alla fase della convalescenza; serve anche quando venga a mancare ogni speranza di guarigione, per dare al paziente una morte più serena e placida». È possibile che il filosofo si riferisse alla somministrazione delle cure palliative, piuttosto che alla morte indotta (“eutanasia attiva”), ma è stato comunque il suo intervento a generare il dibattito che ancora oggi continua a scuotere le nostre coscienze. Prima di lui, già Tommaso Moro (1478-1535) aveva immaginato una società utopica in cui gli oppressi da sofferenze incurabili fossero esortati a porre fine alla propria vita.

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Che cosa ci aspetta dopo la morte? quello di Democrito e degli altri atomisti (V-IV secolo a.C.). Secondo questi, l’intera realtà è composta da atomi che si legano tra loro per dare forma ai vari enti fisici, uomo compreso, e la morte corrisponderebbe dunque alla dissoluzione di tali legami; anche l’anima dell’uomo sarebbe composta da atomi, seppure estremamente piccoli e lisci, perciò è destinata a dissolversi e nemmeno per essa vi sarebbe nessuna continuazione oltre i limiti fisici. La morte, dunque, deve necessariamente essere la fine di tutto.

L’estremo atto

Se invece partiamo dal presupposto che la nostra anima (intesa come l’insieme dei pensieri, dei sentimenti e della volontà) non condivide la natura degli enti corporei ma è invece dotata di attributi sovra-naturali e che dunque è immortale, ci troviamo nelle condizioni di dovere spiegare quale sia il suo destino una volta che il corpo che la

IL DIRITTO ALL’ULTIMA SCELTA Henri Bergson (sotto), filosofo spiritualista, analizzò il tema della morte sia sotto il profilo della fede, sia sotto quello della ragione.

ospita cessa la propria esistenza. La maggior parte dei filosofi antichi, a partire da Pitagora e Platone, ritenevano l’immortalità dell’anima un assunto imprescindibile, che infatti è alla base del loro intero impianto filosofico: lo stesso che poi, debitamente ampliato e circostanziato dalle riflessioni di altri pensatori dell’antichità, primo tra tutti Plotino (III secolo d.C.), è sfociato nella filosofia cristiana. Se abbracciamo tale prospettiva, allora la morte diventa un passaggio, il cancello attraverso il quale l’anima può fuggire dalla “prigione” del corpo. E poi? Se propendiamo per una visione materialistica della vita, quello che ci attende ”

Il momento giusto per andarsene

L

a morte è una necessità per tutti gli esseri umani, ma spesso sembra arrivare troppo presto o troppo tardi, recidendo vite appena germogliate o, al contrario, presentandosi dopo lunghe sofferenze, stenti e dolori. Ma allora, esiste un momento giusto per morire? Nietzsche è convinto di sì, e in Così parlò Zarathustra, di fronte ai “predicatori della lenta morte”, esorta noi uomini a morire mentre arde ancora il nostro spirito e la nostra virtù. Altrimenti, ci ammonisce, «il morire vi sarà riuscito male». Secondo Bergson (1859-1941), invece, l’uomo non dovrebbe mai arrivare a trovare il modo per stabilire l’ora della propria morte: una tale conoscenza lo getterebbe infatti in uno stato di depressione tale da privarlo di ogni volontà di agire e del desiderio di sopravvivenza.

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non ci può preoccupare: come Epicuro (342-270 a.C.) ha spiegato molto chiaramente: «quando ci siamo noi, non c’è la morte; quando c’è la morte non ci siamo noi. La morte, dunque, non è nulla né per i vivi, né per i morti». Il problema, semmai, sta nel riuscire a concepire la nostra non-esistenza; ma questo è soltanto un limite del pensiero umano, non una prova dell’impossibilità dell’assenza di una dimensione ultraterrena. Per chi invece considera l’anima immortale, si aprono diverse possibilità. Il Socrate protagonista dell’Apologia platonica propone una chiara alternativa all’idea del nulla eterno: «Se davvero la morte è essere incoscienti, come nel sonno… è un meraviglioso guadagno… Se invece è un migrare, ed è vero quel che si dici, che possiamo incontrare tutti i morti, quale bene è più grande che quello di giungere all’Ade e liberarsi dei sedicenti giudici di qui per trovare laggiù i veri giudici? E chi non pagherebbe qualsiasi prezzo per stare in compagnia di Orfeo, Museo, Esiodo, Omero?». Per Socrate/Platone, insomma, l’anima non solo è immortale, ma mantiene anche la propria identità. È un pensiero consolante, ma solo per chi può affrontare serenamente il giudizio dei “giudici”, che anticipa l’idea del Giudizio Universale che, secondo la dottrina cristiana, seguirà alla resurrezione dei corpi. C’è poi una terza possibilità, la reincarnazione. Quella della “metempsicosi” (letteralmente, il trasferimento dell’anima) non è solamente una credenza propria di diverse dottrine religiose, ma un assunto della filosofia greca, in effetti derivata dalla mistica orfica e già presente negli insegnamenti dei pitagorici, nel pensiero di Empedocle e soprattutto di Platone. Secondo quest’ultimo, la nostra anima immortale sarebbe imprigionata nel corpo, dal quale cercherebbe di fuggire per raggiungere la sua dimensione originaria, l’iperuranio; anche una volta che la morte sopraggiunge e la libera dalla sua gabbia fisica, però, il suo viaggio fallisce, e deve trovare rifugio in un altro corpo, per ricominciare il percorso che, attraverso la ricerca della saggezza e la contemplazione della perfezione, lo porterà, passando di corpo in corpo e ricordando, attraverso la reminiscenza, le Idee contemplate prima di entrare nel corpo, ad accedere finalmente alla dimensione che le compete.

Un’eccellente ragione di vita

Una volta che abbiamo accettato l’idea della morte come evento ineluttabile, siamo chiamati a decidere come tale consapevolezza condizionerà la nostra vita. In altre parole: dobbiamo pensare alla morte per vivere meglio, oppure è meglio ignorare l’argomento e continuare nella nostra esistenza quotidiana come se non fosse destinata a interrompersi? Certamente, Epicuro ci suggerirebbe caldamente di scegliere

« Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire.

Il saper morire ci affranca

da ogni soggezione

e da ogni costrizione.» 



MICHEL DE MONTAIGNE

Il sogno di sconfiggere la grande mietitrice

U

no degli assunti fondamentali di qualunque sistema di pensiero umano è l’ineluttabilità della morte. Ma se così non fosse? Se la nostra mente cosciente potesse sopravvivere al corpo? Queste domande non sono più ipotetiche, diventando attuali quando il gruppo di scienziati guidato dal neuroscienziato Randal Koene e finanziato dal miliardario russo Dmitry Itskov ha presentato un progetto che dovrebbe permettere di inserire il cervello umano in un impianto cibernetico che lo nutrirà e lo sosterrà energeticamente, mentre delle protesi neuronali assicureranno la sua efficienza continua. La relazione con gli altri individui avverrà attraverso proiezioni olografiche, oppure, come propone il professor José Luis Cordeiro della Singularity University (istituto tra i cui fondatori si annoverano Google e la Nasa), mediante una macchina formata da un esoscheletro metallico, organi artificiali e un aspetto umano. Il gruppo di ricerca ha anche annunciato l’anno in cui questa forma di immortalità (relativa, visto che la durata illimitata di questi sistemi non è stata ancora assicurata) verrà raggiunta: il 2045.

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Che cosa ci aspetta dopo la morte? la seconda alternativa, mentre (altrettanto certamente) Platone, Plotino, i neoplatonici e tutti i filosofi cristiani ci spingerebbero a tenere sempre a mente che il nostro viaggio terreno è destinato a concludersi e che, in qualche modo, la nostra anima sarà chiamata a renderne conto. Quest’ultima esortazione può avere sicuramente un effetto se crediamo in un destino ultraterreno dell’anima nel quale essa continuerà ad avere coscienza di sé, ma ha ben poca presa su chi, pur non escludendo l’esistenza di una realtà superiore, non crede nell’esistenza di una relazione tra il destino ultimo della propria parte immortale e la condotta mantenuta in vita. In quest’ultimo caso, forse gioverebbe concentrarci esclusivamente sul semplice e incontrovertibile concetto di morte intesa come fine della vita così come l’abbiamo conosciuta. Vale allora la pena di prendere in dovuta considerazione il monito di Heidegger (1889-1976) che in Essere e tempo scrive: «La morte è concepita come qualcosa di indeterminato, che un giorno o l’altro finirà per accadere ma che, per il momento, non è ancora presente e perciò non ci minaccia». Questo atteggiamento, per Heidegger, può

« Possiamo metterci

al riparo da ogni cosa, ma per la morte,

noi tutti abitiamo

una città senza mura.»

IL SOGNO DELL’ANDROIDE Alla ricerca dell’immortalità, l’uomo sta sviluppando sistemi cibernetici in grado di implementare o addirittura sostituire la mente e il corpo umani. In alto, il ritratto del pensatore francese Michel de Montaigne (1533-1592), secondo il quale la morte è la conquista della libertà.

EPICURO

essere interpretato come un tentativo di fuggire all’angoscia che deriverebbe dalla consapevolezza che la morte è la “possibilità suprema”, l’esito certo dell’esistenza. Ed è proprio tale angoscia l’unica cosa che ci costringe ad affrontare la nostra vita di esseri in divenire e mortali, che è poi l’unica “esistenza autentica”. Questo “vivere per la morte” è però positivo, perché rende autentiche le nostre scelte. Un’idea piuttosto simile è stata formulata all’inizio dell’Ottocento da Arthur Schopenhauer, che vede nell’idea della morte la spinta necessaria alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. «Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore», conclude il pensatore tedesco, «probabilmente a nessuno verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esiste e perché sia fatto proprio così». 129

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«Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio quelli concernenti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; per questo, anche colui che ama il mito è, in un certo qual modo, filosofo. Il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica.» aristotele

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